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nOtiziE E infOrmaziOni Sull’africa E, in particOlarE, Sulla SOmalia E Sui paESi dEl cOrnO d’africa, raccOltE da agEnziE, gruppi, iStituziOni,

cOn parEri, cOnSidEraziOni Ed OSSErvaziOni

SOmmariO

Pag. 02 - 24 giu. Turchia. Sull'Africa le mani di Erdogan: ecco la «strategia ottomana»

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Pag. 10 - 27 giu. L'Eni trova con successo un grande giacimento di petrolio al largo dell'Angola.

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Pag. 11 - 28 giu. La Via della Seta conduce all'Africa

Pag. 12 - 29 giu. Migranti, Libia: minacce a missione italiana da parte delle tribù

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24 giu. Turchia. Sull'Africa le mani di Erdogan: ecco la «strategia ottomana»

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è sempre più convinto che l’Africa possa rappresentare per il suo Paese una straordinaria opportunità per affermare un espansionismo dalle molteplici sfaccettature. Se da una parte sono evidentissimi gli interessi economici, dall’altra occorre tenere in considerazione il quadro geostrategico che il leader turco ha in mente, dalla duplice valenza politica e religiosa. Si tratta di un indirizzo teocratico, cioè la velleità da parte di Erdogan – atteso alla riconferma nelle elezioni presidenziali e parlamentari in calendario domenica – di affermare una versione riveduta e corretta del 'paradigma ottomano' in terra africana: un

impero che governò anche su gran parte del Nord Africa, in Sudan e in Somalia. Ma questo sogno neocesariano, esaltato dal surplus ideologico di cui è infarcita la sua politica, rappresenta per l’Africa subsahariana una variabile che le cancellerie occidentali stanno sottovalutando.

Emblematico è quanto avvenuto nella capitale sudanese, Khartoum, lo scorso dicembre in occasione della firma di ben 13 accordi con il presidente Omar Hassan al-Bashir, che puntano nel complesso a portare gli interscambi tra le due economie a 10 miliardi di dollari all’anno dagli attuali 500 milioni. Uno di questi accordi rappresenta la cartina al tornasole della strategia di Erdogan. Il leader di Ankara si è impegnato a ristrutturare l’assai malandato centro urbano dell’isola di Suakin e a finanziarne lo sviluppo turistico locale in cambio dell’installazione – con un contratto di 99 anni – di una grande base militare, ripristinando i vecchi moli dell’impero ottomano sul Mar Rosso. L’accordo tra Sudan e Turchia non è certo ben visto da Israele, dall’Egitto e neppure dai sauditi considerata la stretta alleanza tra Ankara e il Qatar.

E per questa ragione il governo turco e quello sudanese, stando alle dichiarazioni ufficiali, hanno sfumato il significato militare della partnership preferendo esaltarne il valore commerciale e turistico. Suakin si trasformerà in una sorta di hub del turismo musulmano, consentendo ai fedeli in pellegrinaggio verso La Mecca una piacevole tappa. Da rilevare che poche settimane dopo la visita di Erdogan in Sudan il Qatar ha stipulato con il governo di Khartoum un accordo del valore di 4 miliardi di dollari per la riapertura del porto commerciale di Suakin. Ankara ha approvato questa iniziativa che trova sinergica con i propri investimenti nella piccola isola del Mar Rosso. Il progetto, che dovrebbe terminare nel 2020, vede che il Qatar lo finanzi in toto, consentendo comunque al Sudan di mantenere il 51% delle azioni e dei profitti che deriveranno dalla gestione dei traffici commerciali che faranno capo al nuovo scalo.

Sta di fatto che l’asse turco-qatariota-sudanese, i cui governi condividono il progetto della diffusione dell’islam politico secondo l’ideologia dei Fratelli musulmani, sortisce sempre di più, solidificandosi, con un effetto destabilizzante nel Corno d’Africa. Vi è infatti una crescente tensione tra il Sudan e l’Eritrea, che si è schierata con l’altra coalizione in cui è ora diviso il mondo arabomusulmano: quella guidata dall’Arabia Saudita, di cui fanno parte anche gli Emirati arabi uniti (Eau) e l’Egitto. L’Eritrea ha, infatti, concesso agli Eau l’uso del suo porto di Assab e i permessi per la costruzione di una base militare nelle vicinanze. Sullo sfondo, sempre nella regione, Ankara sta realizzando a tutto spiano basi in Somalia. Ad esempio, lo scorso settembre è stato inaugurato a Mogadiscio un grande centro di addestramento militare, aumentando così la presenza nell’Oceano Indiano in un contesto in cui l’alleanza di cui sopra tra Turchia e Qatar sta facendo sempre più della Somalia una sorta di satellite militare.

Ma le mire egemoniche di Erdogan vanno ben al di là del Corno d’Africa e interessano l’intero continente. La dicono lunga le sue frequenti visite nell’Africa subsahariana. Nel 2015 è stato infatti in Somalia, Etiopia e Gibuti; nel 2016 in Uganda e in Kenya; nel 2017 in Sudan e in altri 5 Paesi africani, mentre quest’anno è già stato in Algeria, Mauritania, Senegal e Mali. E quando viaggia il presidente turco è, ovviamente, accompagnato oltre che da diplomatici da una corposa delegazione di uomini d’affari. A questo proposito, è bene ricordare che nel 2005 alla Turchia è stato accordato lo status di osservatore all’interno dell’Unione Africana, mentre nel 2007 il governo di Ankara è stato riconosciuto come membro non regionale alla Banca africana dello sviluppo, uno

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status che consente alle imprese turche operanti in Africa di aggiudicarsi l’appalto di importanti progetti infrastrutturali.

Quello che però, a tutti gli effetti, può essere considerato l’anno di maggior successo nelle relazioni turcoafricane è il 2008, all’inizio del quale la Turchia fu dichiarata partner strategico dell’Unione Africana (Ua). Nell’agosto dello stesso anno, al termine del vertice per la cooperazione Turchia-Africa, con la partecipazione di 49 Stati africani, fu avviato un processo di cooperazione stabile e duraturo sancito dall’adozione della Dichiarazione di Istanbul. È evidente che la cooperazione con l’Africa per Erdogan è un obiettivo a tutto campo che coinvolge anzitutto la diplomazia, come dimostra il fatto che ha intenzione di incrementare il numero delle rappresentanze diplomatiche nel continente, portando – entro tre anni – le ambasciate dalle attuali 41 a 54, come egli stesso ha annunciato recentemente.

Allora cosa sta veramente bollendo in pentola? Durante una conferenza stampa con l’omologo mauritano Mohamed Ould Abdul Aziz a Nouakchott, capitale della Mauritania, Erdogan ha dichiarato apertamente di voler promuovere «un nuovo ordine mondiale». Francamente, neanche i cinesi sono arrivati a tanto e comunque la Turchia sta dando filo da torcere in Africa anche all’Impero del Drago. Basti pensare alla linea ferroviaria di 522 chilometri che in Tanzania collegherà presto Dar es Salaam alla capitale Dodoma, realizzata da imprese turche. L’attuale presidente tanzaniano John Magufuli, eletto nel novembre 2015 e diffidente nei confronti delle commesse cinesi, ha rotto l’accordo che il suo predecessore aveva stipulato con la Exim Bank di Pechino, che prevedeva un finanziamento di 7,6 miliardi di dollari. Decisiva in questo senso è stata la visita del presidente Erdogan, al quale Magufuli ha chiesto sostegno finanziario per il progetto che prevede un graduale rinnovamento ed estensione della rete. Da lì in poi i tempi sono stati brevissimi: il governo tanzaniano ha sottoscritto un contratto con la società turca Yapi Merkezi e nelle intenzioni del governo il nuovo binario potrà essere inaugurato già nel 2019.

Tutte queste mosse, inutile nasconderselo, evidenziano il crescente interesse della Turchia verso un continente dalle grandi potenzialità. E proprio mentre altre potenze mondiali – Cina in primis – si stanno riposizionando in Africa per le straordinarie ricchezze del suo sottosuolo, Erdogan non intende restare indietro e punta a sostenere anche così il dinamismo economico del suo Paese. Cooperazione bilaterale rinforzata commerciale e militare, annullamento dei reciproci visti d’affari e commesse da milioni di dollari sono dunque gli ingredienti principali della corsa turca all’Africa. Un mix di diplomazia e partenariati economici che sta trasformando la Turchia in un nuovo attore di peso in Africa. La penetrazione è a tutto campo e interessa anche la regione del Sahel. Qui Ankara ha deciso di allestire un nuovo dispositivo militare congiunto con i governi del Mali, della Mauritania, del Burkina Faso, del Niger e del Ciad. È dunque evidente che la Turchia mira ad affermarsi in Africa, soprattutto in zone di forte interesse geopolitico come il Maghreb, il Corno d’Africa e il Sahel, altamente strategiche per gli equilibri del Medio Oriente e dell’intero scacchiere africano. Da rilevare che in questo contesto, l’Unione Europea, tanto preoccupata per il fenomeno migratorio dalla sponda africana, continua a sottovalutare il ruolo di Erdogan, sempre più Gran Pascià d’Africa.

24 giu. La sfida senza fine degli USA ad al-Shabaab

Molto spesso, le missioni militari rimangono ignorate dalla maggior parte dell’opinione pubblica fino a quando non succede un fatto grave: gli statunitensi l’hanno capito l’ottobre scorso, quando tre loro militari furono uccisi in un’imboscata in Niger e tutti si chiesero perché fossero lì; oggi il quesito si è spostato sulla Somalia, dove a inizio giugno un altro militare è morto, colpito dai mortai di al-Shabaab, un Paese che in fatto di perdite rappresenta un vero incubo per Washington. Dopo la disastrosa missione Restore Hope del 1993, quando due elicotteri Black Hawk caddero sul centro di Mogadiscio, gli USA hanno infatti sempre evitato di inviare lì proprie truppe in missione operativa. Ciò non ha impedito di essere comunque presenti, con pochi uomini e soprattutto droni, per effettuare attacchi mirati dal cielo: con questi, gennaio del 2007, colpiscono i membri del gruppo terrorista affiliato ad al-Qaeda. Dall’aprile dell’anno scorso però è stato deciso anche l’invio di alcune decine di forze speciali per aiutare le forze somale e

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dell’AMISOM, unitesi ai connazionali già presenti in qualità di addestratori e consulenti. Attualmente, la presenza americana totale ammonterebbe a 500 uomini, come riportato dal New York Times, divisi tra Berretti Verdi, Marine Raiders e Navy SEALs. Alcuni di essi svolgono azioni di supporto alle truppe africane lì presenti, impegnate a combattere la rete fondamentalista diretta da Ahmed Omar; una delle zone in cui sono presenti è la regione del Basso Giubba, proprio dove il Sergente Maggiore Alexander Conrad è stato colpito a morte l’8 giugno, mentre altri suoi cinque compagni (di cui 4 americani) sono rimasti feriti. Il giorno dopo il Presidente Trump ha scritto un tweet per ricordare i soldati vittime dell’attacco: “My thoughts and prayers are with the families of our serviceman who was killed and his fellow servicemen who were wounded in Somolia. They are truly all HEROES”. La notizia è stata rilasciata a qualche ore di distanza dall’AFRICOM, senza però attribuire subito la responsabilità certa al locale gruppo fondamentalista, che comunque ha rivendicato poco dopo la propria responsabilità alla Reuters.

Il conflitto tra le forze americane e gli affiliati di al-Qaeda continua così a lasciare dietro di sé una lunga scia di sangue. Tra quelli che l’hanno versato, c’è anche l’allora guida del gruppo, Ahmed Abdi Godane, ucciso da un drone (nella foto: un drone americano lancia un missile contro postazioni di al-Shabaab) nel settembre 2014 sempre nel sud del Paese. Gli è successo il già citato Ahmed Omar, conosciuto anche come Abu Ubaidah, su cui pende una taglia di 6 milioni di dollari e uno degli obiettivi principali della missione americana; proprio quest’uomo ha coperto la carica di vice-governatore di al-Shabaab nel Basso Giubba nel 2008, peraltro regione di cui sarebbe natio. Non a caso, il sud della Somalia è una delle “enclave del terrore” più resistenti, anche grazie al ritiro delle truppe etiopi nel 2016, presenti sul territorio dal 2014 ma non partecipi direttamente all’AMISOM, secondo quando riferito all’epoca dal Ministro della Comunicazione etiope, Getachew Reda. Come detto in apertura, la morte del soldato USA ha provocato polemiche oltreoceano, riemerse a quasi 13 mesi di distanza dalle ultime vittime americane nel Continente Nero. Nell’ultimo anno però il bilancio totale delle vittime provocate dai miliziani del Corno è ben più consistente: secondo l’Africa Centre for Strategic Studies, infatti, ammonterebbero a quasi 5 mila, un tragico record che va dalla sponda sud del Mediterraneo fino a Capo di Buona Speranza. Il potere del gruppo sembra quindi ben lontano dall’affievolirsi, cosa che invece appariva inevitabile dopo che Sheikh Mohamed Said Atom, trafficante d’armi e uomo di collegamento tra il governo eritreo e al-Shabaab, si era consegnato nel giugno 2014 alle autorità del Puntland. La ripresa di terreno dei terroristi va di pari passo con la crisi diplomatica tra Mogadiscio e i Paesi del Golfo, soprattutto dopo che il governo somalo ha sequestrato ad aprile $9.6 milioni in contanti da un jet degli Emirati Arabi Uniti nell’aeroporto della capitale. In questo complesso mosaico, Washington potrebbe presto rivalutare la propria presenza nel Corno e non solo: secondo quanto riferito dal New York Times, infatti, il segretario alla Difesa Jim Mattis e il generale Joseph F. Dunford Jr., presidente del Joint Chiefs of Staff, hanno ordinato alle operazioni speciali militari e ai comandi in Africa di presentare una serie di opzioni entro metà giugno per bilanciare le crescenti sfide alla sicurezza con operazioni di antiterrorismo di vitale importanza. Se l’US Army rimarrà o meno in Somalia sarà dato dallo stato del conflitto con la rete filo-alqaedista e dall’eventuale intervento della Turchia, sempre più attiva nella cooperazione militare con Mogadiscio e vera alternativa se la missione AMISOM dovesse finire senza risultati tangibili.

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24 giu. Politica in Africa e caos in Libia, tutte le colpe della Francia

Circa l'80% del patrimonio economico dei paesi cosiddetti subsahariani, le ex colonie francesi come il Niger, la Repubblica Centrafricana, il Ghana, il Senegal, il Mali, è gestito direttamente da Parigi in cambio di pseudoaiuti economici. La moneta di riferimento è il franco, cosa che li assoggetta economicamente ancor di più a Parigi. Qui, ha detto il generale Marco Bertolini (ex comandante del Coi, a capo di operazioni speciali in Libano, Somalia, Balcani e Afghanistan), la Francia ha migliaia di soldati impegnati in azioni di guerra a favore di una parte piuttosto che l'altra. Per Parigi basta che rimanga il

predominio francese: "Qui la Francia non ha mai fatto niente per bloccare i flussi di migranti che si recano in Libia, dopo aver fatto saltare quel tappo che si chiamava Gheddafi e che teneva lontani questi flussi". Per Bertolini, un blocco delle frontiere libiche del sud da parte di contingenti militari è praticamente impossibile, l'unica maniera è aumentare il blocco, fino a farlo diventare totale, delle rotte via mare. In un modo o nell'altro, prima con Minniti adesso con Salvini, ci si sta avvicinando a un blocco dei flussi migratori via mare verso l'Italia. Il problema però è che i migranti continuano ad arrivare in Libia attraverso la frontiera sud, quella del Sahara. Bloccare quell'ingresso con contingenti militari sarebbe fattibile ma probabilmente inutile senza il coinvolgimento dei paesi “di transito” che hanno una loro sovranità, indipendenza, una loro dignità. Accettare forze straniere non tutti sono disposti a farlo. L’Itali era disposta a mandare un corpo militare in Niger ma la diplomazia italica ha pasticciato con gli interlocutori istituzionali locali, ove il ministro della difesa era d’accordo ma il ministro degli esteri contrario ove il mancato preventivo accordo istituzionale è saltato del tutto. Ma è stato un bene in quanto è mancata anche quella necessaria attività preparatoria della missione, in quanto teatri completamente differenti da quelli afgani ove i nostri reparti si erano fatti le ossa e l’insufficiente conoscenza del nuovo teatro e del nuovo compito, avrebbe costituito una tremenda pericolosa avventura. Per bloccare i flussi dovrebbe essere più convincente tenere forze militari dentro i confini libici, ma, al momento, la situazione interna di quel paese non consente di ipotizzare una soluzione del genere. Non si sa chi è l’interlocutore istituzionale, Haftar, o Serraj, addirittura i tuareg del Sahara. In sintesi, non si può andare senza permessi e imporre la presenza straniera. L’Italia ha, a Misurata dei militari, un ospedale da campo funzioni meramente umanitarie mentre i “consiglieri militari” di tutti i paesi (più o memo con coperture) costituiscono presenze poco significative. Quindi la eventuale proposta di bloccare i confini sahariani potrebbe essere utile ma, al momento, del tutto teorica. Per questo, al momento, la strada da percorrere è ancora quella di togliere quel magnete che c'è in mare, le navi Ong e di altri paesi europei, che danno ai trafficanti la certezza che il loro carico sarà preso da qualcuno. Ci vuole dello stomaco almeno all'inizio, possono esserci anche incidenti ma a lungo andare si risparmiano vite. Una volta che non ci fosse più nessuno in mare pronto a portare i migranti in Italia, questo mercato dovrebbe finire. Navi Ong che operano sottocosta alla Libia sono un obiettivo facilissimo da raggiungere per chiunque dopo poche miglia in gommone. E’ probabile che la Libia continuerebbe a riempirsi di migranti fino a diventare una sorta di bomba che implode su se stessa e quindi l’azione sul mare va integrata anche da altre misure come una forte pressione sui governi africani, affinchè blocchino questo traffico, naturalmente con contropartite economiche e diplomatiche. Senza dimenticare che in questi paesi la presenza francese in questa parte dell'Africa è molto forte e difficilmente accetterebbe la presenza su territori da cui trae vantaggi economici enormi. In quei paesi la Francia ha in mano l'economia, le monete locali hanno come riferimento il franco, ma non ha mai fatto niente per aiutare a interrompere il flusso che la Francia stessa ha innescato togliendo il tappo che si chiamava Gheddafi con la insana impresa di architettare una azione dirompente per imporre anche in Libia la propria influenza. La Francia ha nel Subsahara migliaia di soldati, se volesse fare qualcosa la avrebbe potuto fare. Per ora sta alla finestra per osservare come si sviluppa l’azione iniziata per ottenere l’obiettivo prefissato. Mttere la libia otto la propri ifluenz politica e finanziaria.

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Se infatti avesse fatto già pressioni con quei governi forse si sarebbero già ottenuti risultati ma teme che quei governi possano trovare così nuovi interlocutori occidentali e la Francia teme di avere concorrenti che possano subentrare nella sfera del potere di sottomissione nel quale ora trae vantaggi e utili.

L’unica alternativa è quindi quella di fare dei centri di accoglienza in Libia da far gestire dalle Nazioni Unite, che peraltro sono deputate a questa attività e da lì gestire l’eventuale trasferimento, verificato e controllabile, verso i possibili paesi riceventi, Ha realizzato campi immensi, come in Kenya, in Etiopia, in Giordania, in Pakistan. Potrebbe farlo anche in Libia.

25 giu. Etiopia, sangue sul cambiamento Una granata lanciata in mezzo alla folla, forse destinata al palco su cui aveva appena terminato di parlare il primo ministro etiope Abiy Ahmed, ha provocato il panico ieri nella centralissima Merkel Square. Al momento dell’esplosione, la spianata di Addis Abeba riservata ai grandi eventi era gremita da decine e decine di migliaia di persone (un milione secondo la tv di stato) venute apposta per stringersi intorno all’uomo che in poche settimane è riuscito a scompaginare equilibri e privilegi inattaccabili fino a tre mesi fa, nel paese più importante del Corno d’Africa. Dichiarando guerra, come ha ribadito nel discorso di ieri, «all’odio che ha regnato in Etiopia negli ultimi 100 anni». Secondo le autorità l’attentato ha provocato 153 feriti, di cui dieci in condizioni critiche, e almeno un morto. Ahmed è stato trascinato via dal palco illeso e poco dopo è apparso in tv, parlando di diverse vittime poi smentite. «Uccidere gli altri è sempre una sconfitta», ha detto. E «chi prova a dividerci è destinato a fallire». Nella foto la piazza dell’incidente, durante la manifestazione di sabato 23 giugno.

Eletto premier a sorpresa lo scorso aprile in seguito alle dimissioni di Hailemariam Desalegn, il più giovane leader africano (42 anni) non ha perso tempo né sembra porsi troppi limiti. Ha ordinato la liberazione dei prigionieri politici, definito le torture praticate dai servizi di sicurezza sugli oppositori «il nostro terrorismo», ha riaperto i media censurati (oltre 200 tra siti, giornali, radio e tv) e soprattutto ha impresso una drastica accelerazione agli accordi di pace con l’Eritrea, che ristagnavano senza progresso alcuno da 18 anni, dopo un biennio di conflitto armato.

Ex militare ed ex ministro della Ricerca scientifica, Ahmed ha avviato anche un programma di privatizzazioni destinato a compiacere le stime di crescita del Fondo monetario e ha indicato tra i suoi obiettivi la creazione di un mercato comune nella regione esteso anche alla Somalia, che è tornata ad attrarre investimenti interessanti. Anche così sembra essersi garantito la fiducia del tradizionale alleato americano (la Casa bianca ieri ha condannato l’attentato), che nei suoi predecessori ha sempre trovato rassicuranti certezze rispetto alla presenza militare Usa nella regione. Ma un potere «presentabile», in un’Etiopia pacificata, a chi non converrebbe? A livello interno, la discontinuità del personaggio è data molto dal fatto che si tratta del primo leader “espresso” dalla maggioranza sfortunata degli Oromo, il principale gruppo etnico del paese, storicamente marginalizzato.

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Nel mondo all’inverso l’Etiopia fa la sua figura, con un’economia quasi totalmente nelle mani dell’élite di una minoranza, quella tigrina, che negli ultimi trent’anni ha dominato anche la scena politica attraverso il Fronte popolare di liberazione del Tigrai, pezzo forte della coalizione governativa di cui fa parte anche la Organizzazione democratica del popolo Oromo (Opdo) di Abeiy Ahmed. Le sue improvvise aperture sono piaciute molto ai ribelli etiopi del Ginbot 7, che hanno deposto le armi nelle ultime ore. Un po’ meno alla vecchia guardia, che sulla pace con l’Eritrea ha sconfessato il premier unendosi all’ira delle popolazioni che vivono nei pressi del confine.

Vediamo di capire e analizzare le possibili cause e gli obiettivi dell’attentato compiuto nella prima mattinata di sabato in Addis Abeba a Hulluuqo kormaa (piazza Meskel) che ha colpito i manifestanti riuniti a sostegno del primo ministro Abiy Ahmed, impegnato in un evento pubblico con altri esponenti del suo governo. Diverse le vittime e i feriti, con numeri ufficiali in fase di aggiornamento. Nessun membro delle istituzioni sembra essere stato coinvolto dall’attentato. Si tratta di un evento completamente nuovo per modalità e tempistiche nella storia recente etiope. Mai un attentato aveva colpito una manifestazione pubblica del governo in carica negli ultimi venticinque anni. Al momento non è stata fatta alcuna rivendicazione da qualsivoglia gruppo terroristico. Al netto delle informazioni attualmente disponibili, quello che sembra essere certo, è il destinatario dell’attentato: la politica riformista di Abiy. L’attacco subito nel cuore della capitale etiope non lascia sorpresi. La possibilità di un evento violento era atteso da molte parti, data la crescente tensione tra le numerose anime del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRDF), iniziate in parlamento e terminate con velate minacce di voler far saltare l’alleanza in essere. A mettere benzina sul fuoco le concessioni dell’ultimo mese, ai nemici storici dell’EPRDF, sia in politica interna che in politica estera. Il riconoscimento delle opposizioni un tempo relegate ai margini della vita politico-sociale delle istituzioni democratiche, sommato all’ammissione di colpa del sistema repressivo messo in atto dal suo predecessore, e al cambio del vertice dell’intelligence, ha rappresentato una censura troppo netta con il passato. Un disconoscimento difficile da digerire. In egual misura l’apertura di credito verso Somalia ed Eritrea, concretizzatesi fino ad ora con la visita a sorpresa dello stesso Abiy a Mogadiscio lo scorso 16 giugno, e la disponibilità, tra le altre cose, a cedere ad Asmara il territorio conteso della città di Badme, ha fatto venire meno uno dei pilastri cardine della politica estera etiope degli ultimi vent’anni. Il perno del fronte interno contrario alla politica riformista di Abiy, sembra possa essere rappresentato da soggetti vicini al Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPLF). Il TPLF è infatti il soggetto politico-etnica che ha più da perdere dal nuovo corso del governo di Addis Abeba e rischia di vedere dissolvere in brevissimo tempo il credito acquisito sul campo durante la lotta di liberazione contro il DERG e successivamente nella creazione statuale della nuova Etiopia. Intanto il primo ministro Abiy Ahmed ha lanciato un proclama alla televisione invitando la popolazione alla calma, e rassicurando che le indagini saranno concluse in tempo breve per assicurare i colpevoli alla giustizia. C’è il timore che all’attentato odierno ne possano seguire altri. Continuare la politica di distensione interna e con gli stati confinanti è l’unica strada percorribile per rilanciare la stabilizzazione dell’area, e con essa il suo rilancio economico.

26 giu. La sede delle operazioni UE Atlanta andrà in Spagna

Con la Brexit, la sede dell'operazione Ue anti-pirateria Atalanta passerà da Northwood, in Gran Bretagna, alla Spagna, a Rota. Lo hanno deciso i ministri Ue della difesa e degli esteri a Lussemburgo, anche se la formalizzazione avverrà ufficialmente a luglio. Lo ha confermato la ministra della difesa spagnola Margarita Robles. Anche l'Italia era in lizza per il trasferimento del quartier generale sul suo territorio. Madrid, secondo alcuni media, avrebbe offerto in cambio di rafforzare la sua presenza nella missione europea di formazione dell'esercito somalo, l'Eutm Somalia, di particolare interesse per l'Italia, oltre a rendere permanente la sua presenza in

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Sophia, l'operazione contro i trafficanti di migranti nel Mediterraneo a guida italiana. La Francia accoglierà invece il Centro di sicurezza marittima per il Corno d'Africa (Mschoa) a Brest, in Bretagna. E’ stata quindi persa l’occasione di chiudere questa grossa fetta di denaro sprecato. Peccato!

26 giu. 25 giugno/2 luglio - In Mauritania il summit dell’Unione Africana

A partire dal 25 giugno e fino al 2 luglio, la capitale mauritana Nouakchott ospiterà il 31° summit dell’Unione Africana, l’organo sovranazionale che dal 1963 (allora si chiamava Organizzazione per l’Unità Africana) si propone come forum privilegiato per la promozione della pace, della sicurezza e dello sviluppo umano nel Continente. Il tema ufficiale del summit è la lotta alla corruzione, uno dei grandi mali dell’Africa post-coloniale e pesante zavorra per la realizzazione di sistemi di governance efficienti, trasparenti e funzionali. Nonostante il prestigio della manifestazione, molti movimenti di opposizione in diversi Paesi africani hanno sottolineato, con amara ironia, il fatto che un summit contro la corruzione si svolga in uno Stato la cui classe dirigente è accusata di essere tra le più corrotte al mondo nonché legata a doppio filo con i trafficanti di droga della regione. Tuttavia, al di là del tema ufficiale, il summit dell’Unione Africana si concentrerà sul dossier del flusso migratorio e della ricerca di strategie di contenimento condivise con l’Unione Europea e, soprattutto, della problematica situazione securitaria della fascia del Sahel-Sahara, ad oggi il principale santuario per i gruppi di insorgenza etnica, per le reti criminali e per le organizzazioni jihadiste dell’Africa nord-occidentale. Esiste la possibilità che l’Unione Africana solleciti il finanziamento e la messa in opera della G5-Task Force, il contingente militare di 10.000 uomini della G5-Sahel (Burkina Faso, Mali, Niger, Mauritania, Ciad) responsabile del contrasto al terrorismo e alla criminalità trans-nazionale, inclusa quella che gestisce i traffici illeciti. Oltre a questo, le singole commissioni tecniche discuteranno dei molti focolai di crisi continentale, dalla Somalia al Delta del Niger, dell’Ambazonia alla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan alla Repubblica Democratica del Congo.

26 giu. Etiopia-Eritrea: premier etiope Ahmed, porre fine alle ostilità con Asmara

L’Etiopia è intenzionata a porre fine alle ostsilità con la Eritrea ed è disposta a pagare il prezzo necessario per garantire lo sviluppo reciproco dei due paesi. Lo ha dichiarato il primo ministro etiope Abiy Ahmed nel corso della cena ospitata ad Addis Abeba alla presenza della delegazione eritrea arrivata ieri nella capitale etiope. “L'Etiopia ha un enorme desiderio di pagare ogni prezzo per crescere insieme all'Eritrea.

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Non c'è niente di equiparabile all'amore, di fronte al quale i problemi che i paesi incontreranno sono minori”, ha detto Ahmed, citato dall’agenzia di stampa “Ena”. “Non trasmetteremo rancore e odio ai nostri figli, ma amore e pace, poiché l'odio ha causato danni socio-economici e ostilità tra i due paesi”, ha aggiunto. Il ministro degli Esteri eritreo, Osman Saleh, ha definito da parte sua quello di ieri un giorno “felice”. “Abbiamo perso molte opportunità di pace durante gli ultimi 27 anni, ma dobbiamo sforzarci di crearne di nuove che non possano essere ostacolate da alcuna ragione”, ha detto. “Gli eritrei sono gioiosi quanto i loro fratelli etiopi nel mantenere le relazioni pacifiche", ha detto. La delegazione eritrea è guidata dal consigliere della presidenza eritreo Yemane Gebreab, dal ministro degli Esteri, Osman Saleh, e dall'inviato di Asmara presso l'Unione Africana. La notizia dell’invio di una delegazione eritrea era stata data nei giorni scorsi in un comunicato dal ministero degli Esteri etiope. La decisione giunge dopo che la scorsa settimana il presidente eritreo Isaias Afewerki ha annunciato la sua disponibilità ad inviare una delegazione ad Addis Abeba per un “impegno costruttivo” con l’Etiopia, in risposta all’invito alla pace e alla riconciliazione tra i due paesi lanciato dal premier etiope Abiy Ahmed. L’annuncio del presidente eritreo è giunto in occasione delle celebrazioni annuali della Giornata dei martiri eritrei. Lo scorso 5 giugno il Fronte democratico rivoluzionario popolare dell'Etiopia (Eprdf), la coalizione al potere nel paese, ha annunciato la storica decisione di dare attuazione all’accordo di pace con l’Eritrea, siglato ad Algeri il 12 dicembre 2000 ma da allora mai in vigore, che pose fine al conflitto fra i due paesi scoppiato nel 1998. Dopo gli accordi di Algeri del 2000, Etiopia ed Eritrea hanno acconsentito all’istituzione di una commissione incaricata di stabilire il confine tra i due paesi, allo scopo di porre definitivamente fine alle ostilità sulla base di quanto concordato con il cessate il fuoco del 18 luglio 2000 e permettere il rimpatrio dei prigionieri di guerra.

27 giu. Somalia: agguato di al Shabaab nel Medio Scebeli, uccisi due caschi blu burundesi Due caschi blu burundesi della Missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom) sono morti e altri 15 sono rimasti feriti nell’esplosione di un ordigno avvenuto al passaggio del loro convoglio nei pressi della città di Balad, nella regione centro-meridionale del Medio Scebeli. Lo riferisce il sito d’informazione “Garowe Online”, secondo cui l’attacco è avvenuto ieri sera ed è stato rivendicato dalle milizie jihadiste di al Shabaab. Secondo fonti militari, dopo l’esplosione i caschi blu hanno ingaggiato uno scontro a fuoco con i miliziani. Con più di 5 mila effettivi, il Burundi è il secondo contributore della missione Amisom dopo l’Uganda. Il mese scorso il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato all’unanimità una risoluzione che autorizza l’Unione africana a mantenere la missione fino al 31 luglio.

27 giu. Somalia: al Shabaab smentisce morte del suo leader Dirie, notizia “priva di fondamento”

Il gruppo jihadista somalo al Shabaab ha smentito la notizia diffusa ieri dai media somali secondo cui il leader del gruppo, Ahmed Dirie, sarebbe morto in un raid condotto dall’esercito nel sud del paese. Lo riferisce il sito d’informazione “Garowe Online”, che cita un sito web filo-al Shabaab secondo cui la notizia sarebbe “priva di fondamento”. La notizia era stata diffusa dall’emittente radiofonica dell’esercito somalo. Dirie è leader di al Shabaab dal settembre 2014, dopo la morte del suo predecessore Ahmed Abdi Godane, ucciso in un raid Usa nei pressi della città di Barawe, nella regione meridionale del Basso Scebeli. Seppur indebolito dall’offensiva dell’esercito somalo e delle truppe della missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom), al Shabaab continua a controllare vaste zone del paese.

28 giu. La Convenzione sulle munizioni a grappolo giunge al decimo anniversario!

Dopo l'adozione a Dublino nel 2008, gli Stati sono invitati a firmare la convenzione a Oslo in dicembre, dove si è palesato il sostegno per una messa al bando globale. Insieme agli Stati firmatari, molti altri hanno indicato la propria disponibilità a sottoscrivere subito dopo. Cinque anni dopo, 112 Stati hanno firmato o aderito, di cui 83 Stati partecipanti, e oggi quel numero è di 120, con 103 Stati partecipanti.

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Nei 10 anni trascorsi dall'adozione della convenzione, è stato raggiunto un grande traguardo. Dei 34 Stati che in passato hanno sviluppato o prodotto munizioni a grappolo, 18 hanno cessato la produzione prima o dopo l’adesione alla convenzione. Da quando hanno aderito nessuno Stato ha trasferito armi. Almeno 30 stati hanno distrutto gli ordigni, eliminando quasi 1,5 milioni di munizioni a grappolo e oltre 175 milioni di submunizioni. Una robusta di disinvestimento si sta facendo strada e ha fatto sì che 10 Stati stiano promuovendo una legislazione rivolta a vietare esplicitamente investimenti in munizioni a grappolo. Otto Stati partecipanti hanno completato l’eliminazione di tutte le munizioni restanti nei loro territori. La chiara condanna dell’uso dell'arma è ora ben consolidata e comprovata.

27 giu. Un team medico della Croce Rossa destinato alla risposta a Ebola in Congo Una squadra medica della Croce Rossa è stata destinata al centro per l’epidemia di Ebola nella Repubblica Democratica del Congo (DRC). La squadra – composta di medici, infermiere e esperti di acqua e servizi igienici provenienti da sei Società della Croce Rossa – sosterrà sei strutture sanitarie nella città di Mbandaka per prevenire la diffusione della malattia e per sostenere le persone che sono state contagiate. Fino ad ora 25 persone sono state uccise dal virus. La squadra consiglierà il personale sanitario nazionale sul controllo della prevenzione dell’infezione da Ebola così che i lavoratori nell’assistenza sanitaria e gli altri pazienti siano protetti dall’ulteriore trasmissione della malattia. IFRC e la DRC Croce Rossa stanno lavorando come parte di una risposta coordinata più ampia insieme alle autorità governative, l’Organizzazione Mondiale di Sanità e altri partner internazionali e nazionali. A lato del dispiegamento di questo team di esperti, volontari della Croce Rossa si stanno allargando in quattro provincie confinanti con attività di aumento della consapevolezza per assicurarsi che le comunità siano preparate e possano rispondere se Ebola dovesse diffondersi nelle loro aree. L’IFRC sta anche lavorando con le società della Croce Rossa provenienti dai nove Paesi confinanti con la DRC per attivare meccanismi di prontezza e preparazione.

27 giu. L'Eni trova con successo un grande giacimento di petrolio al largo dell'Angola.

La principale società petrolifera italiana Eni ha fatto una scoperta di petrolio nel blocco offshore dell'Angola il 15/06, nella prospettiva di esplorazione di Kalimba. Eni ha detto che il nuovo giacimento di petrolio trovato contiene tra 230 e 300 milioni di barili di petrolio leggero. Il pozzo Kalimba-1 NFW, ove è avvenuta la scoperta, si trova a circa 150 chilometri al largo della costa e a 50 chilometri a sud-est dalla Armada Olombendo FPSO (East Hub). Il pozzo fu trivellato dalla nave di perforazione di West Gemini iniziando perforare da una profondità d'acqua di 458 metri e raggiungendo una profondità totale di 1901 metri.

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Il petrolio estratto dal Kalimba-1 NFW ha mostrato essere di alta qualità (33 ° API) contenuto nelle arenarie del Miocene superiore con eccellenti proprietà petrofisiche. I dati acquisiti in Kalimba-1 NFW indicano una capacità produttiva superiore a 5.000 barili di petrolio al giorno. «La scoperta apre nuove opportunità per l'esplorazione petrolifera nella parte meridionale del Blocco 15/06, finora considerata prevalentemente soggetta al gas, creando così nuove opportunità di ulteriore valore potenziale nel blocco», ha affermato Eni. La socoetà italiana con i suoi partner Sonangol e SSI Fifteen lavorerà per valutare l'aggiornamento della scoperta e inizierà gli studi per accelerare il suo sviluppo. Nel Blocco 15/06 i due progetti di sviluppo del petrolio, West hub e East Hub, stanno attualmente producendo circa 150.000 barili di petrolio al giorno (100%). Eni è anche l'operatore di Cabinda Norte Block, che si trova sulla costa dell'Angola.

28 giu. L'India è il posto più pericoloso al mondo per le donne Non è notizia nuova. Da aprile è in vigore in India , per sei mesi, una legge che introduce la pena di morte per i condannati per violenza sessuale su bambini di età inferiore ai 12 anni. È arrivata dopo giorni di contestazioni ed episodi di violenza inaudita come il caso di Asifa, otto anni appena, ritrovata nella foresta, priva di vita e con il corpo che mostrava i segni dei giorni di violenze subite. Proprio nei mesi passati, dal 26 marzo al 4 maggio, è stata condotta la ricerca della Thomson Reuters da 550 esperti nel mondo. In India i rischi per le donne sono dovuti, secondo lo studio, «alla facilità con cui si subiscono violenze e molestie, alle pratiche di una cultura tradizionale, ma anche a traffici di esseri umani, schiavitù sessuale e domestica». È il movimento #metoo a entrare nella classifica con gli Stati Uniti al decimo posto, unica nazione occidentale. La motivazione per la presenza statunitense sta nel rischio di stupro e di violenza, ma anche nella mancata giustizia per le vittime di questi reati. Negli Usa ogni 98 secondi qualcuno subisce un’aggressione sessuale e il 90% delle vittime sono donne. Sono paesi divisi dalle guerre più recenti quelli al secondo e al terzo posto, Afghanistan, che era primo in una ricerca simile del 2011, e la Siria. Già un rapporto delle Nazioni Unite diceva che lo stupro era usato come arma nel conflitto siriano e migliaia di donne yazide e siriane sono state ridotte in schiavitù. Seguono la Somalia dei signori della guerra, con le pratiche tradizionali come l’infibulazione, e l’Arabia Saudita che però sta facendo passi avanti nei diritti delle donne negli ultimi anni. Da pochi giorni le donne saudite hanno acquisito il diritto di guidare, anche se molti altri sono ancora assenti. Sesto il Pakistan, il Congo, lo Yemen e la Nigeria di Boko Haram sono al settimo, all’ottavo e al nono posto.

28. La Via della Seta conduce all'Africa

Pechino aumenterà la sua presenza militare in Africa. Non stupisce, e fa il paio con il sempre più importante profilo economico e commerciale che sta assumendo nel continente. Stabilire relazioni più forti dal punto di vista militare significa proteggere le sue aziende in loco (oltre 10.000, ma sui numeri ufficiali cinesi meglio essere prudenti) certo, ma soprattutto guadagnare una maggiore influenza geopolitica. Instabilità e insicurezza rappresentano in ogni caso una minaccia per gli investimenti cinesi nel paese: da Boko Haram in Nigeria ad Al Shabaab in Somalia, da Al Qaeda nel Maghreb islamico ai combattenti islamici nel Nordafrica.

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Il ruolo che l'Africa sta riscoprendo nell'economia globale è noto. Anche che tra gli attori emergenti ci sia la Cina è noto. Primo donatore, primo finanziatore nelle infrastrutture e nelle telecomunicazioni, primo per investimenti diretti nel paese. Mi raccontava un amico che lavora in Etiopia che i cinesi nel paese hanno costruito strade, autostrade, una linea metropolitana interna ad Addis Ababa e una linea ferroviaria veloce che la connette al porto di Djibouti. L'Etiopia non ha accesso al mare, l'unico è proprio tramite Djibouti e arrivarci era un'impresa perché il treno c'era ma la linea era stata interrotta. Grazie al prestito dei cinesi oggi le merci escono ed entrano dal paese molto più velocemente. Mi chiedo però quale sarà il ruolo della Cina nel supportare la stabilità dell'area, soprattutto nel Nordafrica. Un ruolo importante probabilmente, così come sottolineato spesso dall'ambasciatore italiano in Cina Ettore Sequi. "Pechino sta già intervenendo nella regione, - ha spiegato Sequi - un'infezione di estremismo islamico potrebbe svilupparsi molto velocemente anche in paesi nordafricani che al momento fungono da cuscinetto e sono stabili. Non conviene a nessuno questo accada". Già non conviene a nessuno, tantomeno alle società cinesi che operano in Africa in questo momento.

29. giu. Migranti, Libia: minacce a missione italiana da parte delle tribù

Negli ultimi giorni, a fronte della volontà del nostro esecutivo di dare attuazione a un intervento esplorativo oltre il confine a sud della Libia finalizzato a creare alcuni hotspot destinati a filtrare la massa di migranti che spinge ai confini di Algeria e, appunto della Libia stessa, sono giunte le prime minacce alla preannunciata presenza di italiani da parte delle tribù stanziate nella zona di Ghat. Il territorio in questione è stato teatro, nel 2016, del rapimento di tre tecnici italiani liberati con l’intervento di funzionari dell’Aise dopo una trattativa con le fazioni Tuareg ed il gruppo di criminali comuni responsabile del sequestro. Ghat rappresenta un punto di snodo focale per i traffici di armi e clandestini da avviare verso le coste libiche Il commercio di esseri umani è l’attività più remunerativa per i locali, sia nella zona a sud della Libia, sia anche nel vicino Niger, dove la presenza dei reparti militari statunitensi e francesi, se può considerarsi utile in chiave antiterrorismo, non ha assolutamente inciso sulla lucrosa attività di movimentazione di migranti gestita dalle bande locali. Sarebbero proprio i capi tribù della zona sud ovest del Fezzan a minacciare l’intervento italiano, ritenendo che la presenza di militari nella zona farebbe crollare il volume di affari illeciti gestito dalle varie fazioni.

Da sottolineare che le formazioni jihadiste, parzialmente respinte dal nord del Mali dalle forze franco-americane, rimangono comunque operative nel Niger e nella zona sud del Fezzan, con aree di influenza sovrapponibili e alleanze fluttuanti, di conseguenza risultando difficilmente censibili. E continua ad espandersi il virus jihadista nelle regioni del Sahel Secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri del Marocco, Nasser Bourita durante la riunione dei direttori politici della coalizione anti-terrorismo svoltasi a Skhirat, ammonterebbe a circa 10.000 il numero di miliziani appartenenti ai vari gruppi islamisti operanti nella zona centrafricana.

Secondo il Ministro marocchino, l’influenza delle azioni terroristiche, compiute soprattutto dagli aderenti allo Stato islamico, colpisce la popolazione civile del Sahel in misura di gran lunga superiore rispetto al numero di vittime degli attentati compiuti in Europa. Ad essere coinvolti dalle azioni dei terroristi islamici sono soprattutto il Niger, il Mali, il sud della Libia, oltre alla Somalia e, negli ultimi mesi, anche il nord del Mozambico. Ma oltre ai miliziani legati a vario titolo allo Stato islamico, ad agire nelle zone del Sahel sarebbero coinvolti gruppi legati ad al Qaeda, primo fra tutti Aqim (la filiale maghrebina di al Qaeda), ma anche Boko Haram, i Mourabitun e una miriade di formazioni dai nomi altisonanti, Ansaroul Islam, Ansar Eddine Macina ed altre minori, comunque ritenute fluttuanti tra l’adesione all’una o all’altra fazione dominante nelle zone di “competenza”.

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29 giu. La solidarietà di Macron: al fondo Ue per l'Africa versa 9 milioni (Italia 102)

«La Francia non deve prendere lezioni da nessuno». Il presidente francese ieri è salito di nuovo in cattedra, spiegando che «cooperazione significa responsabilità di ciascuno a partecipare e a condividere il carico».

Le cose sono due: o Macron non conosce i numeri oppure sta ciurlando nel manico a spese non solo dell'Italia, ma di tutta Europa. Perché, come sottolineava sei mesi fa il sito Open Migration la Francia ha scelto di versare solo la cifra minima per finanziare i programmi legati al controllo delle frontiere e alla gestione delle migrazioni. All'opposto di Italia e Germania, primo e secondo contribuente. Si tratta del cosiddetto Trust Fund per l'Africa presentato al vertice sulle migrazioni della Valletta nel novembre 2015 dai capi di Stato e di governo dell'Ue con i principali Paesi africani coinvolti nei flussi. Nato per contrastare «le cause profonde dell'immigrazione irregolare e dello sfollamento di persone in Africa, promuovendo opportunità economiche e rafforzando la sicurezza», il Fondo è diventato in due anni e mezzo uno strumento chiave, almeno potenzialmente, della politica europea in Africa. I 24 Paesi africani beneficiari sono: 13 nel Sahel (Burkina Faso, Camerun, Ciad, Costa d'Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria e Senegal), 9 nel Corno d'Africa (Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Tanzania e Uganda), e 5 in Nordafrica (Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia). L'Italia, con 102 milioni di euro, è il primo contribuente a livello europeo, ricorda Open Migration, seguita da Germania (54 milioni) e Olanda (26 milioni). Slovenia, Bulgaria, Lettonia e Lituania avrebbero versato poco più di 50 mila euro, mentre «la maggior parte dei governi, come quello francese, ha scelto di corrispondere 3 milioni di euro, la cifra minima per sedere nel Trust Fund Board che definisce le linee generali per l'assegnazione dei contributi» Idem Spagna e Svezia. «Dobbiamo proteggere le frontiere lavorando sulla procedura di asilo e fare accordi per rendere più efficace il sistema», ripete Macron. Ma a due anni e mezzo dal lancio del Fondo fiduciario per l'Africa, c'è chi ha fatto la sua parte e chi invece fa finta che questo strumento quasi non esista. Al presidente francese farebbe bene esserne informato. Almeno al pari dei sondaggi che lo vedono in piena crisi di popolarità in Francia, costringendo l'Eliseo ad alzare i toni contro l'Italia giallo-verde per recuperare consensi in patria. Nella rilevazione mensile Ifop-JDD, Macron è sceso di un ulteriore punto: dal 41% dei «soddisfatti» di maggio al 40% di giugno, toccando il suo minimo storico. Anche il premier Edouard Philippe (che nei giorni scorsi ha dato manforte alle dichiarazioni di Macron contro l'Italia) è calato dal 45% al 42%. Entrambi perdono le simpatie della sinistra che aveva sostenuto il movimento En Marche!. L'ultimo comunicato europeo del 29 maggio spiega invece che la cifra investita dal Trust Fund per il Nordafrica è salita a 335 milioni. Ma non per merito della Francia. Oltre il 95% delle risorse provengono infatti dal Fondo Europeo per lo sviluppo (80%) e da altre voci del bilancio comunitario, tra cui Cooperazione (Devco), politiche di vicinato (DG Near) e affari interni (DG Home). Ciò ha permesso l'evacuazione di 1.287 rifugiati dalla Libia in Niger e «l'aiuto a 22 mila migranti bloccati lungo le rotte a tornare nel proprio Paese, dove riceveranno un sostegno al reinserimento». Anziché dar lezioni, i francesi potrebbero far la loro parte.