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enea trivardi

patalusiofisancoria

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Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino,

non vi entrerà.

( Vangelo di Luca 18, 17 )

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Era la prima volta che lo sentivo parlare da vicino, finalmente avrei potuto riconoscerne le idee dominanti, quelle più sottili, le sonorità più frequenti, i concetti più annidati.

Fui sorpreso. Credevo di aver capito male, ma le frasi che mi venivano incontro erano soltanto di un tipo, frasi elementari senza apparente

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profondità. Forse si trattava di una singola frase di due parole reiterata, anzi era di sicuro un'imprevedibile successione di lettere ripetuta per tre volte scambiando le parole. Una formula misteriosa, ibrida, modulata con incostanza; prima mesto, poi melodicamente da fringuello, poi il fringuello diveniva una cornacchia indignata ma le sillabe restavano quelle.

Da un'angolazione non facile sbirciai il suo sguardo, era spento nel vuoto. Milelli aveva spesso quello sguardo. Stava davanti alla finestra chiusa, in piedi ma non stabilmente, con le mani in tasca. Di nuovo mormorò, convinto.

“Patalùsio fisancòria, fisancoria patalusio... Fisancoria patalusio.”Una pausa, poi nuove produzioni, stavolta più articolate. Un miscuglio

degli ingredienti vecchi con guizzi inediti aggiuntivi. Continuavo a guardarlo incuriosito. Gli stavo a tre metri, se si fosse voltato mi sarebbe dispiaciuto. Rimossi il timore delle conseguenze. Ora due metri e mezzo, al più. Milelli proseguiva, aveva cambiato ancora voce. Sembrava esprimersi col tono plumbeo di una tortora.

“Patafrìsio, filacca pizzandòria. Patalusi milària, pilèria fisalùsio. Pileria patafrisio.”

I tacchi martellanti della dottoressa Fumasante invasero il campo sonoro in un momento. Non me l'aspettavo. Sentii un blocco temporaneo sotto alle costole, come se mi fosse stata data una strizzatina intensa e breve agli organi vitali. Non volevo farmi trovare così vicino a Milelli.

La donna doveva essersi fermata davanti alla porta della segretaria. Da tale posizione non poteva vederci, eravamo dietro l'angolo. Meglio così, pensai, paventavo più la sua reazione che quella di Milelli. Bussò con forza alla sua maniera, cinque colpi appressati e pungenti che rimbombarono per tutto il corridoio.

Lui intanto si era appoggiato con i gomiti al davanzale, le mani reggevano il mento. Aveva smesso di parlare. Non capii se l'interruzione fosse stata causata dalla Fumasante. Indietreggiai, aprii la bocca. Avrei voluto comunicare, non trovavo il pretesto. Milelli gravava ancora sul davanzale. Provai affetto elementare per lui, una sorta di compassione mista ad amicizia bambina. Mi venne naturale comparare quel sentimento al crogiolo di emozioni che la gatta di Giorgia sapeva far nascere in me, tutte le volte che la prendevo in braccio. Mi vergognai per questo accostamento, Giorgia avrebbe detto che ero un insensibile.

Osservavo la mole rilasciata del mio collega. La figura statica era incorniciata dal sipario della tendina. Uno spicchio di luna scendeva dietro i cipressi, connotando Milelli come l'unico frutto di un'ombrata natura morta. Il frutto si scosse. Ancora un segnale, acutissimo, contro il vetro.

“Filazza piccandòria. Patalìsi. Pisìlio, piisilio! Pisidòria malùsio.”Voltai le spalle soddisfatto dell'investigazione. Mancavano cinque

minuti alla firma per l'uscita, mi avviai speditamente verso il portico. Sapevo bene che Milelli si tratteneva fino alle otto; gli orari delle guide

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erano ridotti, rispetto a quelli dei custodi. La Fumasante doveva essere entrata in segreteria; passando vicino alla

porta percepii un rumore di pratiche sfogliate. La campana della chiesa vecchia suonò le sette.

Presso il tavolino delle firme si trovavano già tutti tranne me; i giardinieri, il bigliettaio, il caposervizio di turno, le altre due guide, l'archivista appena assunta, il gruppo esterno dei restauratori. Oggi però c'era anche il ragionier Fazzoletti. In genere andava via alle due, ma la questione dei locali pericolanti si era ripercossa anche nella sua attività. La segretaria doveva averlo costretto a rimanere fino a quell'ora; lei continuava perfino a lavorare, rintanata in ufficio col responsabile dei beni culturali della soprintendenza archeologica, appunto la dottoressa Fumasante.

Mi accolse proprio Fazzoletti.“Aldo, oggi sei l'ultimo! Com'è?”Sorrisi in modo scontato. “Piccole cose da sistemare, niente di che.”Giulio, una delle due guide, volle scherzare platealmente.“Piccole cose fisiologiche da sistemare? Da quando hai lasciato la

stanza fino ad ora sono passati venti minuti!”“Bravo, hai capito. E' che l'avvicinarsi della firma mi mette agitazione,

e allora ecco fatto.”Michela, l'altra guida, manifestò la sua nota povertà mentale

apostrofandoci.“Ragazzi, che finezza! Non sapete dire altro?”La affrontai convogliando la rabbia in un canale verbale lucidissimo.

Con lei in genere mi veniva bene. Purtroppo dopo sentivo sempre di aver segnato un rigore a porta vuota.

“So dire anche altro, se vuoi. Per esempio che pure l'inizio di giornata mi mette agitazione, ma anche il primo pomeriggio. Sai, scaricarsi fa bene. Tu non ti agiti mai?”

“Ah, ah. Che spirito. Che classe.” Si girò verso Tozzi, il bigliettaio, per cercare conforto. Lui la fece contenta con uno dei due sorrisi che aveva in dotazione, quello senza i denti di fuori. Non conoscevo nessuno gioviale come Tozzi.

Il motore non riusciva ad accendersi, il freddo umido si era affezionato al nostro museo più che ad ogni altro posto di Gaglianello. Gennaio è gennaio, e qui nella valle dei laghi non si scherza, è il mese più difficile. Ma stava esagerando, dalla fine di dicembre avevamo visto al massimo tre giorni di sole compreso oggi. Purtroppo poi eravamo circondati dagli alberi. Belli, maestosi, ma quanta ritenzione idrica nell'aria.

Dovetti scendere a controllare i morsetti delle candele. Mimare i gesti del meccanico mi dava sempre sicurezza, benché mi capitasse raramente di

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scovare il problema. L'unica volta in cui la riuscita fu conclamata risaliva al corteggiamento di Giorgia. Chissà se le mie mani sporche di grasso e vittoriose la coinvolsero più del resto. Ma da quel felice pomeriggio dello scorso inverno, solo riparazioni operate da meccanici in tuta.

I morsetti sembravano a posto, finsi di vagliare le buone condizioni della batteria e della cinghia. Alzai gli occhi al di là del cofano, Milelli stava ancora lì. Ma non combina nulla, decretai istintivamente, poi arrivò celere il pensiero moderatore. Non fa nulla perché non c'è da fare nulla, a quest'ora. Eppure oscillavo. E' vero che i visitatori non possono più entrare, pensavo, è vero che nessuno lo prega di fare nulla, ma i ladri? Lui è un custode, sta lì per custodire. Se arriva un malvivente Milelli che fa? Gli spara addosso un po' di patafrisi, di pilerie o quello che ha detto, vedi come lo mette in fuga, sempre che si accorga della presenza inusuale. Lo mette in fuga, tutti così dovrebbero essere i custodi.

Continuavo a rimuginare. Le ultime riflessioni superarono la soglia della bocca. Parlai da solo, mi dissi che Milelli era un antifurto inutile con tanto di stipendio, un disadattato, un pazzo. Guardai la finestra, indirizzai la domanda definitiva a voce media.

“Non se ne rendono conto? Perché non lo fanno buttare fuori?”A dispetto dell'aberrante percorso mentale avrei voluto che Milelli mi

guardasse con benevolenza. Quelle deduzioni drastiche non riuscivano a farmelo odiare, si fermavano come moschini davanti al vetro che lo proteggeva preservandolo come fosse un'icona rispettabile. Milelli appariva integrato all'edificio; le finestre bifore dell'ex chiostro proseguivano sul lato destro del museo, fino alla terza che conteneva una figura umana, la conteneva quasi tutti i pomeriggi. Come una pianta ornamentale, ma Milelli era una pianta con gli occhi, e se ora mi avesse scrutato sarei stato addirittura felice. Probabilmente scrutare non era sua abitudine, almeno sul posto di lavoro. Mi chiesi se avesse moglie e figli, o almeno una compagna; non concepivo che pure alle persone care rivolgesse quello stereotipo di sguardo ebete.

Sei mesi fa, quando venni assunto stabilmente come guida, Milelli fu la prima persona che incontrai dopo aver firmato il contratto. Ero appena uscito dalla segreteria; ridevo, piangevo, pensavo a mia madre malata, non avevo tempo per nessuno stimolo esterno. Mi passò di fianco, urtò la mia spalla, era un gigante distratto. O forse lo aveva fatto apposta. In un altro momento gli avrei sparato contro qualche parolina, quel giorno seppi solo voltarmi per un secondo. Così conobbi la sua statura, la sua inerzia. Rimasi stupito dalla componente di curiosità che mi attraversò. Cosa farà qui, pensai, l'addetto alle pulizie? O non potrebbe essere un turista rimasto separato dal suo gruppo?

Nei mesi seguenti ci incrociammo raramente, soprattutto verso sera. Non era quasi mai in compagnia, quantunque certi suoi monologhi mi ingannassero; spesso lo sentivo parlare da dieci-quindici metri, non lo

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vedevo e credevo che non fosse solo, avanzavo con cautela. Puntualmente però lo trovavo a passeggiare con la tipica lentezza inquietante, su e giù intorno a una mattonella o due, guardando a mezz'aria senza espressione. Non volevo avvicinarmi ulteriormente, avevo una piccola dose di timore ma più che altro una bella fetta di timidezza. Timidezza, a volte ossequio. Milelli poteva essere un poeta che in quello spicchio di tempo forgiava versi irripetibili. Un custode artista, solitario, incompreso da tanti. Ma oggi con quelle parole insensate il mito si era dissolto in un attimo.

Il motore girava bene, percorrevo la strada oltre il bivio di Castelchiaro. Giorgia mi aveva promesso le tagliatelle fatte in casa, il flusso di aria calda sul cruscotto diventava vapore culinario e già sentivo l'odore di sugo. Ripensavo a quell'idiota a cui avevo dato del poeta, provavo rimorso per i poeti veri; mi pentivo per aver ridotto l'idea di lirismo al puro lato estetico, mi facevo pena. Avevo creduto di saper riconoscere un artista da un'inezia del suo comportamento, basandomi su certi dipinti che raffigurano uomini intenti a verseggiare tra gli alberi con una pergamena in mano, rapiti dal loro stesso canto.

Sulla statale c'era meno nebbia; solo un po' nell'ultimo tratto in prossimità del lago. Quando arrivai a Perla avevo fame conclamata. Le luci del casale erano accese in molte stanze, i nostri amici dovevano aver deciso di venire prima. Lottai per scacciare un piccolo fastidio istintivo causato dalla loro presenza a cena; avrei desiderato un lume di candela con effusioni tra le varie portate.

Maurizio e Lina mi accolsero per primi. Ricambiai la loro ilarità mettendo via l'ultimo pensiero.

“Ciao Mauri'! Ciao Lina, siete già qui!”Renato e Palmetta erano rimasti in cucina con Giorgia, mi salutavano

dal vetro. Maurizio mi prese in disparte trattenendomi sull'uscio mentre Lina entrava.

“Ho portato il microfono e la chitarra. Stasera devi cantare per forza!”“Come in commissariato.” Il mio poco entusiasmo lo stupì.

Durante la cena Giorgia era strana. Forse la preoccupava il padre a letto con l'influenza, forse invece la causa era il periodo di magra col negozio, insomma le mie battute la facevano ridere poco. Invece rideva per le solite quattro cretinate dette da Renato, era amorfa. A un certo punto parlando del mio ambiente di lavoro venne fuori il discorso di Milelli. Fui perentorio.

“No, ragazzi, credetemi. E' proprio matto. Gio', perché non lo vuoi capire?”

“Perché quando me l'hai indicato mi sembrava sano e forte. Una bella presenza.”

Spiegai l'accaduto agli invitati.“Giorgia una delle prime volte è venuta a prendermi, tanto per vedere

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dove lavoravo, e Milelli stava parlando con un mio collega. Con Giulio, vero Gio'? Era una coincidenza memorabile, lui passa tutto il giorno in solitudine completa. Ma in quel momento sembrava una persona normale.”

“Amore, Milelli è una persona normale.”“Sì, certo, patati'. Infatti tu non sai cosa si dicevano.”Sgranai gli occhi teatralmente guardando prima Lina e poi Palmetta. “Sapete di cosa parlavano, sapete? Milelli stava accusando Giulio di

avergli sottratto il portafoglio. Giulio negava, era sbalordito. Poi per fortuna hanno ritrovato il maltolto sopra un lavandino, lui e Giulio stavano ancora discutendo. Ecco tutto il loro grande dialogo.”

Giorgia scosse la testa.“Perché sarà un distratto cronico, non ha tempo per preoccuparsi delle

cose di questo mondo.”La criticai secco.“Allora poteva evitare di preoccuparsi anche del portafoglio, no?”Sorrise solo Renato, peraltro timidamente. Non capivo se la giuria mi

desse ragione. Restavano sospesi nel dubbio. Il mio successivo resoconto sulle frasi astruse che pronunciava non fece presa, o meglio fece presa nella direzione opposta. Si erano incuriositi positivamente. Giorgia poi aveva messo il mattone finale, proteggendo Milelli e giustificandolo appieno. Reagii con riluttanza.

“Non vi sembra matto. Allora lunedì venite al museo, alle sei e mezza. Qui facciamo troppa teoria, troppe discussioni a tavolino. Invece venite, sperimentate. Va bene per lunedì? Renato tu non puoi, lo so. Ma per voi altri mi pare che non sia un problema.”

Maurizio era galvanizzato.“Line', che forza! Sono proprio ansiosa di conoscere questo... come si

chiama?”“Milelli, amore. Come il compagno di classe di tuo nipote, quello che è

venuto a pranzo da noi.” Sembrava disinteressata.“Sarà il padre?”Intervenni serio.“Spero di no per quel ragazzo. Spero di no, Maurizio.” Aprii le braccia.

“Allora è deciso? Per lunedì!”Giorgia mi fissò sconsolata.“Vuoi prenderti sempre la ragione, con le buone o le cattive.”Gelai. Sembrava dirmi altre cose, mille altre informazioni criptate in

quella frase molesta. Rimossi il segnale.“Vado a preparare il dessert, aspettatemi.”

Giorgia continuava ad essere strana anche dopo i commiati. A mezzanotte ancora non veniva a coricarsi. La raggiunsi in cucina.

“Nervosa?”

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“Nervosa.”“E' per tuo padre?”“Non lo so. Papà sta meglio, sta meglio.” Era visibilmente rinchiusa in

un silenzio voluto.“Ho fatto qualcosa? Ti sei offesa per qualcosa che ho detto?”“Forse sì. Tu classifichi.”“Guarda che eri nervosa dall'inizio della sera. Milelli non c'entra, è

inutile che mi imbrogli.”Urlò di scatto a testa bassa.“Allora perché mi chiedi se quello che hai detto mi pesa? Perché!” Si rintanò nel bagno. Tornavo a percepire un gelo aggressivo, adesso ne

connotavo la sorgente dentro lo stomaco. Attaccai per non soccombere.“Giorgia, se ti sei stancata di me basta che tu...”Aprì la porta con violenza. Ci scrutammo da dieci centimetri. Rividi la

testa bionda che l'anno prima aveva illuminato i miei giorni da zero a mille watt, forse anche lei ritrovò in me qualche tratto del passato. Mi puntava uno zigomo, non sapevo se consapevolmente. Si calmò, sbuffando. Mi guardò tenera.

“Scusami. Aldo scusami. Il negozio mi distruggerà, e distruggerà tutti i rapporti che ho con le persone vicine e lontane.”

La accarezzai, aveva la pelle più tesa del solito.“Ma allora manda a monte tutto. Se i guadagni non sono quelli che ti

aspettavi manda a monte tutto, per favore. Io un posto fisso ce l'ho, e tu puoi ricominciare a fare lezioni private.”

“Da quando ero bambina volevo fare l'erborista, non te l'ho mai detto?” Tornò severa. “Sì che te l'ho detto. Fare l'erborista o comunque curare, curare. Anche se non fosse un'erboristeria, sempre un qualcosa che curi, che aiuti. Mandare a monte significa morire.” Si era chiusa di nuovo, il tono era torvo.

“Morire, che parolona.” Ma sentivo di aver fallito. Lei confermò lo stato di attacco.

“Una parolona troppo saporita, fuori dall'intervallo dei valori normali. Tu vivi di parole medie, parole tiepide. Parole anche precise ma omologate. Se uno sgarra non perdoni. Che siano troppo saporite o troppo insipide, non perdoni. E le parole insensate, quelle poi non le sopporti proprio.”

Mi apparve Milelli, a suggello della triste osservazione.“Gio', buona notte. Domani ne parliamo.” Mi convinsi che l'erboristeria doveva essere davvero il problema di

fondo. Tornai nel letto. Faticai a trovare la posizione per dormire, se mi mettevo supino visualizzavo Milelli che parlava con la voce e le idee di Giorgia, se mi giravo di fianco costruivo l'immagine di Giorgia che pronunciava le parole insensate di Milelli e si perdeva nel vuoto come lui. Provai a pancia in sotto ma sacrificavo la digestione. Alle due presi sonno, Giorgia era appena entrata in camera. Non feci in tempo a dirle buona notte.

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Alle sei e dieci del lunedì seguente Giorgia e Lina si presentarono nella biglietteria del museo, spiegando a Tozzi che erano venute a trovarmi e chiedendogli di farle entrare gentilmente. Dal portico li osservavo e sentivo le loro voci un po' a fatica. Tozzi si ricordava di Giorgia, non esitò a farla passare. Poi esaminò velocemente Lina, più per un principio di attrazione fisica che per altri motivi. Lei dovette capire. Per reazione esclamò confusa, ridendo.

“Vuole che faccia il biglietto? Se vuole lo faccio!”“Noooo, si figuri. Prego, prego!”Invece la seconda domanda di Lina fu tragicamente precisa e

contestuale.“Senta, c'è mio marito che dovrebbe raggiungerci presto, sta

parcheggiando. Siamo solo due, io e lui. Solo per un saluto ad Aldo.”Tozzi ripeté il si figuri lasciandolo appassire in bocca.Maurizio arrivò di corsa. Si curò poco del bigliettaio, gli sorrise con

economia e transitò senza neanche porsi il problema di pagare o almeno di ringraziare.

Mi raggiunsero a passo svelto. Sapevo che Palmetta non sarebbe venuta, tuttavia mi accontentavo di quei tre testimoni. Milelli stava vicino alla solita finestra, così almeno lo avevo lasciato cinque minuti prima. Salutai da lontano Tozzi. Maurizio mi spalleggiò apertamente.

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“Dai, che mi faccio un po' di sane risate. Giorgia, mi dispiace per te ma dovrai soccombere!”

Lina aveva una faccia spenta. Quasi sicuramente si era accodata al marito per inerzia, e per non deludermi. Aspettava immobile, il cappotto bianco la ingrassava più del normale. Maurizio la scosse afferrandole un braccio.

“Vivace, Lina. Vivace!”Giorgia moderò l'atmosfera.“Scusa, se si sente di stare così lasciala stare così. E poi non siamo mica

al circo. Questa è una cosa seria, Aldo deve imparare a regolarsi.”Volevo risponderle in modo piccante ma non trovai subito le parole. Mi

limitai a farle una smorfia. Indicai il corridoio.“Le scale sono laggiù a destra. Le saliamo e lui ci aspetta lì dietro, dopo

un po' di metri, se non si è mosso. Svelti, dovesse andare al bagno o chissà dove.”

Mi seguirono solerti. Salii le scale pregandoli di non accostarsi troppo, facevo cenno di procedere con disinvoltura. Prima di superare l'angolo riconobbi il mormorio di Milelli, mi voltai fermando il gruppetto con la mano. Mossi le labbra dicendo alt in silenzio, malgrado fossi consapevole che del mio comando avrebbero compreso al più la vocale.

“Vieni avanti,” bisbigliai a Giorgia, “così almeno ti rendi conto.”Le tesi la mano, me la prese e girammo l'angolo. Milelli era in

posizione canonica, guardava fuori. Quasi cantava.“Filacca pisidòria. Frìttile pisandòria maccarìle...”Per un attimo mi venne il dubbio che fosse proprio una lirica, enunciata

in un linguaggio che non sapevo comprendere. Intanto si era azzittito. Temevo che voltandomi avrei incontrato la faccia austera di Giorgia, pronta a schierarsi dalla parte di quel demente. Invece quando la guardai era soltanto assorta. La interpellai con aria trionfale.

“Bello, eh? Che ne dici?”Lei non si scomponeva, però era titubante.“Sarà un vizio, un semplice vizio. Come te che ti mangi le unghie. E

poi che male fa?”Lina e Maurizio ci raggiunsero.“Come sta andando?” mi domandò Maurizio.“Aspetta, speriamo che ricominci.”Giorgia era infastidita. Guardò Lina.“Ha detto qualche parola strana, è vero. Ma tutta questa idiozia non la

vedo. Anzi è simpatico, è rilassante.”La sua nota fu posta in discussione da un attacco acutissimo, sempre

contro il vetro.“Calìzzi! Mrètile calizzi pisicùra! Pisiiilio!”Maurizio si tappò la bocca, gli occhi rivelavano un eccesso improvviso

di ilarità. Emise un verso per sfiatare la risata. “Mamma mia!” disse Lina,

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incrociando lo sguardo cambiato di Giorgia. Milelli si voltò come per colpire un pallone di testa. Lentamente il corpo seguì la torsione del collo. Ci sorprese. Non potevamo camuffare le tracce dello sconvolgimento emotivo; le labbra di Maurizio vibravano, Lina era a capo chino, io e Giorgia stavamo uno di fronte all'altra con gli sguardi orientati verso quella sorgente di onde rare.

Camminò verso di noi, pesante alla sua maniera. Quando fu al nostro fianco si fermò. Per la prima volta ebbi paura di un'aggressione. Aveva una muscolatura per niente tonica, ma ero spaventato dall'eventualità di un raptus, sulla scia delle frasi assurde proferite.

Mi fissò, passò di scatto a Lina, poi a Maurizio, infine stazionò negli occhi di Giorgia. In mezzo secondo stirò le labbra disegnando un sorriso teso e le ricompose. Si rivolse a lei con tono spigliato, giocoso.

“Filacca patalusio.” Subito cambiò espressione, come se volesse pronunciare una frase di

condoglianze, una frase triste ma necessaria.“Patalusio.”Si allontanò con passo più veloce del solito. Giorgia era a bocca aperta,

riconoscevo in lei una netta componente di attrazione. Lo odiai a morte, quasi gridai.

“Gio', quello è matto, capisci? E' matto!” Volevo convincerla con la stessa presunzione di un insegnante che spiega il teorema di Pitagora a un alunno svogliato. Maurizio intanto stendeva un commento, tra una risata e l'altra.

“Se lo racconti non ci credono! Aldo, ma chi l'ha assunto qui? E' matto!”

“Andiamo” dissi bruscamente, continuando ad analizzare le impressioni preoccupanti stampate sul viso della mia compagna.

A cena io e Giorgia non conversammo, se non per approvare il formaggio che ci aveva regalato la signora Stucchi. Ci guardavamo muti, spaesati, forse entrambi consci di aver contratto un morbo simultaneamente, per colpa di un batterio annidato nel museo. Un microrganismo che non attaccava gli individui singoli, bensì le coppie. Il solito batterio tanto studiato e poco compreso, quello che fa raggrinzire una delle due coscienze indebolendone l'attrazione per l'altra coscienza che invece comincia a lievitare terrorizzata, infiammandosi e pressando sul torace. Sentivo che Giorgia era lontana anni luce da me, e scoppiavo dentro. Alla fine non mi trattenni. Sbattei il pugno e urlai.

“Porca miseria, ti affascina! Quell'imbecille ti affascina, ammettilo!”Inizialmente sentii di avere spaccato un cristallo, ma mi ricredetti.

Dagli occhi di Giorgia mi parve di apprendere che il cristallo era già spaccato, io avevo soltanto cominciato a togliere i pezzi di quel penoso

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mosaico nato da tempo. I suoi occhi mi comunicavano che non si era affatto stupita di quel gesto impulsivo, anzi era come se fosse soddisfatta di vedermi così. Ora attendeva, lo leggevo bene, attendeva che sbraitassi meglio, dovevo strizzare via tutto il fiele accumulato. Ma sbagliavo la chiave di lettura. Mi anticipò coriacea.

“Quanti anni di università hai fatto, compresa la specializzazione?”Giocava a scacchi, aveva sicuramente pronta la seconda e forse la terza

mossa, già pregustava la vittoria. La lasciai fare, mi comportai alla lettera sperando in una sua svista.

“Sette anni, più otto mesi per la dissertazione finale. Stavo per diventare assistente ma ho deciso di cambiare strada. Ti ripeto tutto questo ma dovresti saperlo a memoria.”

“Quanti anni si studia per diventare custode?”“Non lo so, ma credo basti poco. Forse la media inferiore.” Cominciavo

a innervosirmi ma tenevo duro. Abbassai la testa per concentrarmi sulla successiva domanda che incombeva, poteva essere quella decisiva. Attendevo. Due secondi, cinque. Forse anziché una domanda un decreto. Doveva riguardare l'intelligenza, qualcosa del tipo Milelli ha fatto quello che tu non hai saputo fare, oppure era meglio che tu non avessi studiato se i frutti sono questi. Dieci secondi circa. Mentre alzavo gli occhi arrivò la staffilata. In realtà entrò sottopelle morbidamente, come certi antibiotici che fanno male poco tempo dopo l'iniezione.

“Mi sarebbe piaciuto stare in classe sua, vedere che tipo di alunno era. Come parlava, come scherzava. E mi sarebbe piaciuto capire tante cose di lui anche quando cresceva e diventava uomo, uomo adulto, quante cose. E quanto altro vorrei conoscere di lui.”

Sorrideva rilassata e coinvolta da quei pensieri rivelati. Capitolai.“Giorgia, una che dice così è meglio che scompaia dalla mia esistenza.

Ti è bastato un nonnulla per screditarmi, ti è bastato un ritardato mentale.”“Un ritardato mentale!” gridò guardandomi la fronte. “Sei tu che mi fai

scomparire dalla tua esistenza!”“Io? Milelli è un ritardato, lo vuoi capire! E tu sei un'infermiera

mancata, il paziente con cui dividi questa casa non è abbastanza malato per farti scatenare un sentimento di amore. Vai da Milelli, vai! Ascoltalo, e parlagli nella lingua che usa lui, conversate e poi unitevi, e andate a vivere insieme felici e contenti!”

Mentre reagivo così sentivo di affondare, più mi agitavo e più l'angoscia di restare da solo mi assaliva. Gli imperativi che usavo erano inutili, sarebbe stato sufficiente un tono giornalistico di cronaca anche nera, ma meno emotivo. Ciò che dicevo era l'umile descrizione di un atto volontario esterno a me, era Giorgia a guidare. Vai da Milelli voleva dire sto morendo perché sei andata da Milelli con la testa, unitevi significava non c'è alcun impedimento nella tua testa, per te potrebbe accadere benissimo.

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Giorgia si coprì la bocca per sbadigliare.“Ho troppo sonno” disse prima di terminare. “Comunque hai ragione.” “Ho ragione di che?”“Dell'infermiera.” Il timbro presentava tracce di veleno. Forse

conteneva messaggi subliminali di fine storia, e il mio apparato interno aveva capito tutto. La ascoltavo stravolto.

“Infermiera, infermiera mancata. Voglio dire che vendere prodotti erboristici per me è un modo di aiutare chi ha certi problemi. Fisici, psichici, problemi.” Si incupì.

“Fisici, psichici, capisco.”“Aldo, tu non hai mai avuto bisogno di una tisana di iperico, vero? Non

me l'hai mai chiesta.”“Una tisana di iperico no.” Precipitavo.“Tu al massimo l'aspirina quando hai più di trentotto, lo sappiamo.

L'ipericina non sai nemmeno cos'è. Forse un personaggio di una fiaba, una fatina.”

“E' facile sfottermi, sul tuo campo. Giochi in casa.”“Giochiamo entrambi in casa. La casa della razionalità, la casa della

nomenclatura, delle definizioni e delle deduzioni. Tu ne dai tante, di definizioni, quando porti i turisti a spasso per il museo. Tante definizioni e tante spiegazioni, causa e effetto, la storia, la classificazione delle epoche e dei popoli.”

“E allora? E' il mio lavoro e lo faccio anche bene, da quello che vedo.”“Lo fai bene, lo fai bene. Ma non sei un infermiere. I tuoi turisti non

sono persone da curare. Sono clienti che vengono al tuo spettacolo quotidiano, pagando, vengono a divertirsi.”

“Mettila così, se vuoi. Che c'è di strano, alleggeriscono il portafoglio e sentono la spiegazione. E trascorrono una mattinata piacevole, spero.”

“Pagano la tua prestazione. Ti prostituisci vendendo una cosa che hai, una cosa che sai fare, una tua competenza. Un'arte. Sei strumento di piacere, nel tuo caso per l'organo più in alto di tutti, l'organo dentro alle meningi. Sentono la tua lezione, godono, passano due ore e se ne tornano alle loro case. E tu per precauzione li tieni abbastanza zitti per evitare che ti facciano domande inopportune, per evitare che ti portino qualche infezione presente nel loro cervello e che ti fecondino con una goccia del loro pacchetto genetico.”

“Stasera non ti seguo proprio” decretai distratto, guardando il lampadario. Mi ero tranquillizzato. Il tono delle ultime parole aveva spazzato via ogni dubbio, Milelli era un pretesto fugace. Invece ormai percepivo che tutto il disappunto poteva ricondursi alle solite crisi meditative che assalivano Giorgia con cadenza fissa. Le riflessioni sulla ragione, sulla pazzia, senza menzionare la gerarchia psicosomatica, come la chiamava lei. Mi ero tranquillizzato per l'ennesima volta, benché stavolta il percorso fosse stato particolarmente sofferto.

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Ora mi guardava stanca, verosimilmente offuscata dai pensieri concepiti.

“Non mi segui proprio, dici. Ma sì, oggi va così. La donna che ragionava troppo, nuovo romanzo in tutte le edicole.”

Le detti un bacio.“Sei stata sempre così, sempre, ma ti fai male da sola. Amore, la

ragione è una macchina potente e pericolosa, ci vuole il patentino per farsi portare in giro da lei.”

“E tu naturalmente il patentino ce l'hai da quando sei nato.”“Ce l'hai anche tu da sempre. Ma a volte la gente che non ti conosce

può pensare male, se ti vede così.”“La gente che non mi conosce può andare a quel paese. La differenza

tra me e te è che io commetto troppe infrazioni, passo dove non devo passare, supero i limiti di velocità e mi piego dalle risate alla faccia di chi va come una lumaca. E quando non rido mi uccido di pianti. Tu invece, come sei ligio tu.”

“Anche io corro, quando è necessario. Galoppo, non puoi negarlo. Ma sforzare il motore inutilmente, questo no. La ragione è la parte più importante dell'essere umano, va rispettata, è uno strumento versatile ma anche delicato, delicatissimo. Se fai un buon uso della ragione ti salvi, altrimenti affondi.”

“E secondo te io sto affondando.”“Patatina, devi solo evitare di esagerare. Forse il lavoro che fai non ti

aiuta. I nostri genitori per superare lo stress si compravano i manuali esoterici, oppure parlavano con un prete o uno psicologo e però restavano tali e quali. Ma adesso che si sono diffuse le erboristerie vengono tutti da te con la speranza di farsi una tisana di iperico, appunto, e di svegliarsi il giorno dopo sani. E sappiamo tutti che un farmaco di quelli veri, di quelli seri, è la risposta migliore che si possa fornire. E dobbiamo ringraziare il progresso scientifico, altro che le tisanucce con le erbe o gli altri metodi finti. Però sta di fatto che tu continui a vedere gente di un certo tipo che ti riempie le giornate con le manie più disparate. Ti piace assisterle, ti piace fare l'infermiera. Ma le infermiere non fabbricano un centesimo dei tuoi ragionamenti. Altrimenti quanta speranza infonderebbero ai malati? No, tu devi soltanto calmarti.”

“Non è vero che sappiamo tutti che il farmaco è la risposta migliore. Lo è se per risposta intendi la scomparsa dell'ansia e delle manifestazioni connesse.”

“E quale altra risposta dovrei intendere? Giorgia, per pietà.”“Aldo, per pietà. Dove sta scritto che l'ansia debba essere schiacciata,

annullata, dove sta scritto?”“Sta scritto nella mente e nel cuore di chiunque, ad eccezione di quello

dei masochisti e degli ipocriti che vanno avanti a camomille e iperici, e resteranno eternamente malati.”

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“Ma almeno saranno se stessi. Ansiosi e precari, ma rispettosi della loro anima.”

Scosse il collo, riconobbi un velo di stizza. La voce divenne sicura.“Accarezzeranno la loro anima con qualche composto naturale. Non

potranno scalfire il panico o la tristezza ma almeno saranno se stessi. Senza amputazioni. Conosceranno se stessi senza fuggire.”

“Buona notte.” Non la sopportavo più. Secondo una prassi stagionata mi lasciò andare senza controbattere.

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3

Il giorno dopo al ritorno dal lavoro trovai abbastanza traffico sulla statale. Un pino enorme era crollato invadendo parte della strada, due camion della guardia forestale e uno dei vigili del fuoco stavano intervenendo. Le luci gialle e azzurre mandavano lampi da lontano. Decisi di tornare indietro e girare al bivio di Spinozza, non conoscevo bene il tragitto ma mi sarei orientato a naso.

Giunsi al bivio, voltai a destra come programmato. Il tratto iniziale era incavato in una depressione cespugliosa che procedeva in parallelo alla statale. I lampioni di quest'ultima raggiungevano i fitti alberi che limitavano la mia stradina, tingendoli dello stesso rosso artificiale di certe capigliature femminili. La nebbia si intensificava, tuttavia non in modo preoccupante. Giunsi all'altezza dell'albero caduto; dalla mia posizione sembrava un attore gigante deceduto sul palco. Non trattenni un piccolo grido di euforia guardando le macchine che sfilavano lentissime a poca distanza.

Dopo circa un chilometro seguii una curva brusca a destra, il percorso non fiancheggiava più la statale. La nebbia non demordeva e talvolta mi costringeva a rallentare scalando dalla terza alla seconda. A fatica potevo apprezzare il bagliore proveniente da quei lampioni rossicci in allontanamento. Il loro riverbero mi aiutava a capire in quale direzione stavo andando, era l'unica sorgente di onde luminose. La tenevo d'occhio dallo specchietto retrovisore. Desideravo una curva a sinistra risolutrice, ma non arrivava.

Mi pentii dell'entusiasmo di poco prima, ebbi un accenno di paura. Non volli definirlo panico ma aveva quel sapore lì. Mi si era seccata la lingua e cominciava a mancarmi l'aria. Il malessere durò poco, ripresi in mano la situazione ma percepivo un equilibrio instabile. Pensai con invidia a tutti gli automobilisti che marciavano mansueti formando un generoso corteo funebre ai piedi della conifera, con i sacerdoti pompieri che presiedevano al rito. Mi domandavo perché avessi scelto di cambiare strada così di fretta. Intanto un fuoristrada mi abbagliò con i suoi fanali, suonai a lungo mentre lo incrociavo; eppure la mia non era una risposta volgare in codice, era essenzialmente un lamento nero.

Mi tranquillizzavo dicendomi che sarei potuto tornare indietro in qualsiasi momento. Tuttavia l'inversione di marcia non era così banale,

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occorreva almeno uno slargo. Realizzai che sbagliavo, non potevo tornare indietro. Sopraggiunse un altro corto circuito di panico, aprii il finestrino a dispetto del freddo esterno. Mi si gelò la nuca, richiusi subito. Riconobbi che il cambio di direzione sarebbe stato possibile solo nel primo tratto, grazie ad alcune piazzole di sosta. Ma lì non sarebbe venuto in mente a nessuno di tornare indietro.

Procedevo ancora lentamente, ero immerso nello scuro del bosco. La nebbia stava rarefacendosi. Continuavo a provare invidia per quei pendolari che avevo deriso, poi capii che tale sentimento era scomponibile in due parti nette. Una era appunto l'amarezza provocata da un confronto elementare. Ma quel dispiacere era amplificato da qualcosa di subdolo, come uno stupore; mi stupivo di quanto bastasse poco per degenerare, per fallire. Una scelta, un attimo, un nuovo itinerario. L'illusione di aver risolto il problema, e invece il crollo. Un attimo. Mi colpiva il senso di sicurezza che avevo attinto dai lampioni rossicci, volevo che la mia strada continuasse a dipanarsi nella stessa direzione della statale, protetta dalla geometria sicura della strada maestra parallela. Ciò non era onesto, mi dissi. Avevo scelto un'alternativa rinnegando quel percorso, mi ero sentito vincitore ma pretendevo che la statale non smettesse di vegliarmi. Ritornavo al momento del grido euforico, ora mi sentivo piccolo e inerme. Un bambino regolato con due sculacciate dalle divinità della foresta.

Finalmente si materializzò un cartello. Svolta facoltativa a sinistra, centocinquanta metri alla statale con tanto di indicazione per il lago Silano. Respirai ampiamente, sorrisi mordendomi le labbra. Mi parve incredibile, stavo vicinissimo alla statale e non me ne ero reso conto. Ricomposi i pensieri nell'assetto ordinario, decisi che la causa del mio smottamento interiore doveva essere Giorgia; la sera prima era riuscita a somministrarmi i suoi turbamenti per bene. Me la presi con lei, con la sua visione distruttiva, coi suoi complessi assurdi. Stavo per imprecare violentemente, mi apparve lo sguardo inquisitore di Giorgia che criticava la mia incoerenza nel rivolgermi con astio a Dio pur non credendoci. Di nuovo tirai giù il vetro. Ripiegai su una semplice parolaccia laica.

Giorgia mi aveva lasciato. Il foglietto sul tavolo parlava chiaro, Me ne vado per togliere il muso triste e nevrotico dalla tua vita saggia.

Restai sconcertato ancor prima che deluso, poi soprattutto deluso e confuso anche se intanto mi nasceva un pianto da cagnolino disperato. Andarsene così non faceva parte del suo carattere, o almeno di quello squarcio di carattere che avevo conosciuto. Piangevo ripetendomi che non avevo conosciuto abbastanza del suo carattere.

Rimasi avvinghiato al tavolo per un'ora, nutrendo le lacrime anche con i ricordi di quando ero molto più giovane. Stendevo davanti alla coscienza tutta la processione degli insuccessi con le ragazze del liceo e con quelle

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erroneamente più appetibili all'università. E infine Giorgia, proprio durante gli esami di specializzazione era arrivata lei, la sorellina acqua e sapone del mio compagno di studi. La sequenza dei fallimenti era da aggiornare e quest'ultimo evento superava tutti gli altri; non era un semplice non ci sto, non era un semplice me ne vado dopo una settimana, era un ti lascio dopo otto mesi di legame e altri quattro di convivenza.

Quando ormai la fanfara dei lamenti pompava a pieno regime si fece largo il leitmotiv che mi avrebbe presto rapito con sé. Lei era fuggita per andare da Milelli, pensai. Adesso tutti i conti tornavano.

Mi alzai di scatto incollando lo sguardo al soffitto. Automaticamente presi il giaccone, uscii di casa senza spegnere la luce, corsi in macchina.

Mancavano dieci minuti alle otto, sfrecciavo sulla statale con la speranza di bruciare i tempi e arrivare al museo con poco ritardo. Per fortuna il pino caduto non ostruiva l'altra corsia. Superai il bivio di Castelchiaro alle otto e cinque, Milelli poteva essere già andato via. Passai col rosso due volte in mezzo minuto, transitai per la zona industriale rischiando di urtare un camion che confluiva incautamente, giunsi alla piazzetta dell'ingresso alle otto e un quarto. Speravo che il mio orologio andasse avanti malgrado l'avessi regolato proprio con l'orologio del museo, il giorno prima.

Pretendevo di trovare la macchina di Giorgia. Immaginai la sequenza della fuga, pensavo alle valigie riempite in un tempo record e caricate nel portabagagli. Mi chiesi in che modo avrebbe gestito le mie future visite in erboristeria; all'indomani mi sarei presentato lì, era ovvio, ma non riuscivo a capire quale comportamento avrebbe tenuto davanti a me. Intanto il custode Rizzo sbatté il portone uscendo. Così come si era trattenuto lui potevano essere rimasti dentro altri custodi, pensai. Tutto sommato tra la firma, il gabinetto e uno scambio di parole era normale che si facessero almeno le otto e un quarto. Ma Milelli non scambiava parole, notoriamente. Temetti, disperai. Poi però riconobbi la sua macchina, un'utilitaria sgangherata parcheggiata senza criterio sotto a un cipresso in fondo al piazzale. Assimilai quel ferrovecchio alla struttura corporea di Milelli. Una certezza improvvisa mi attraversò. Un uomo così brutto, così pericolante dentro e fuori non poteva destare alcun interesse; era un tipico individuo anomalo, uno di quelli che già da trenta metri rivelano tutta la solitudine e la stranezza di cui sono impregnati, un classico uomo-senza-donna per antonomasia. Mi sentii stupido ad aver congetturato il sodalizio con Giorgia, ma presto quella critica mutò sapore capovolgendosi. Divenne una secca obiezione alla mia superficialità, al non volermi mai soffermare su quel debole che Giorgia aveva per certe persone; un debole, un interesse, eventualmente perfino una passione. Temetti di nuovo, con più intensità.

Lei comunque non c'era. Avevo paventato di vederla in piedi vicino all'entrata, ma ormai potevo tranquillizzarmi. Eppure l'avanguardia mentale produsse un'idea più catastrofica; Giorgia poteva stare davanti casa di

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Milelli. Mi convinsi di ciò in una frazione di secondo ancor prima di far scorrere tutto il pensiero.

In quel momento Milelli uscì e si avviò verso il catorcio. Era solo.Mi nascosi sotto al cruscotto, attesi l'accensione e la manovra. Quando

scomparve dal piazzale scattai. Non sapevo dove abitasse, non me l'ero mai chiesto. Immaginavo una mansarda angusta in una zona isolata di Gaglianello, forse nei pressi della caserma. Invece la macchina voltò presto a sinistra, poi in un vicolo a destra; usciva da Gaglianello, stavo perdendola di vista. Supposi che Milelli si fosse accorto di me e che volesse seminarmi, malgrado andasse a cinquanta all'ora al massimo. Mi veniva voglia di entrargli dentro a tutta velocità gridandogli che era uno schifo di uomo, poi mi pentivo, mi ricredevo, sentivo di essere completamente fuori rotta. Periodicamente tornavo a configurarmi Giorgia davanti alla porta di casa di Milelli; un'oppressione calda mi avvolgeva il collo, poi la vampata si gelava di colpo penetrandomi in testa con un puntale acuminato di angoscia, Giorgia adesso mi appariva felice col suo uomo nuovo che io stesso le avevo additato.

La macchina intanto era sbucata sulla statale proprio dove mi immettevo solitamente io, ma dopo aver fatto un giro diverso da quello che conoscevo; aveva impiegato la metà del tempo che serviva a me per arrivare al medesimo incrocio. Dunque Milelli abitava fuori da Gaglianello. Magari a Perla, pensai. Non lo ritenni possibile, in tutti quei mesi l'avrei incontrato almeno una volta. Per pochi secondi balzai su un fiume parallelo di pensieri, riflettei sul destino della casa che mi aveva accolto in quel grazioso paesino. Presumibilmente sarebbe tornata al padre di Giorgia, per me non aveva più senso restarci. Anzi dovevo andarmene prima possibile, forse il signor Vitaliano era stato già avvisato dalla figlia e avrebbe sollecitato la mia partenza subito, domani. Il mio ragionamento filiforme fu sepolto da un ennesimo conato di rabbia mista a terrore. Tornavo a temere forte, ero tesissimo, i battiti si affrettavano. La nebbia non era densa come prima. Una serie di fitte cominciò a lampeggiarmi in crescendo nella pancia; la interpretavo come una spia d'allarme, la mente stava transitando oltre la soglia di attenzione e trascinava con sé il corpo schiavo, incatenato dalle maglie dell'ansia. Milelli mise la freccia, probabilmente avrebbe girato al bivio di Spinozza proprio dove mi ero diretto io un'ora prima. Poteva davvero abitare a Perla, pensai, aveva scelto quella strada per evitare il traffico che ancora si accumulava nei paraggi del pino caduto. Le fitte in pancia aumentavano d'intensità, il tipo di dolore mi preoccupò. Mi convinsi ancora una volta che si trattava di mera agitazione, cominciai a sopportarlo meglio. Eppure spingeva con insistenza abnorme, friggeva. Paventai il ritorno della nebbia, invece era scomparsa del tutto. Le luci di posizione di Milelli erano pallidissime, la sua utilitaria sembrava arrancare, oscillava senza criterio tra il ciglio e il centro della carreggiata. Dal contorno opaco del guidatore cercavo di ricavare informazioni sul suo stato d'animo,

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sull'eccitazione che lo poteva protendere verso Giorgia. Non vi riuscivo. Lo odiavo più di tutte le volte precedenti messe insieme, ma più lo maledicevo più dovevo arginare un fascino elementare per quel suo modo di guidare giocoso e leggero, quello spingersi nella strada del bosco con apparente disinvoltura e abilità intuitiva. Intanto Milelli aveva superato il cartello della svolta a sinistra per il lago Silano, aspettavo che mettesse la freccia o almeno frenasse. Invece tirò dritto. Le punte di dolore addominale mi deconcentravano dalla guida, avevo rallentato e adesso cambiavo marcia troppo di frequente. Improvvise curve in salita si alternavano a tuffi veloci in discesa tra il bosco. Dopo il terzo su e giù di quel tipo persi di vista la macchina, i fanali posteriori non comparvero più. Premetti l'acceleratore a tavoletta, stirai la gamba con violenza contro il pedale, superai la salita successiva quasi decollando, staccai il piede d'istinto. Adesso c'era un rettilineo lunghissimo, in lieve declino, spopolato. Lo delineavano luci sporadiche di piccoli casolari. Più in fondo, almeno a cinque chilometri, sorgeva qualcosa come una fabbrica o più fabbriche, dovevano essere le pendici industriali del mio capoluogo di provincia. L'unico a solcare quel rettilineo ero io, Milelli doveva aver girato prima, chissà dove. Ricordai di aver notato interruzioni del bosco sul lato destro. Al momento non avevo dato peso a quei pertugi tra gli alberi, forse sbagliando. Il mal di pancia si era spento passando il testimone alla nuca. Rallentai, mi fermai, spensi il motore. Le fitte mi pulsavano in testa. Quando scoppiai in un pianto urlato fu come aprire una valvola di spurgo, il dolore fisico transitava per le ossa del cranio, si scioglieva tra le mascelle e veniva spruzzato via dagli occhi e dalla bocca. Appannai completamente il vetro, esitai.

Presi a disegnare figure geometriche storcendo il mignolo, poi strinsi i pugni e mi accovacciai. Volevo trovare la forza di deridermi per aver inseguito quel disadattato, ma non ne ero assolutamente capace. Più rinforzavo le ipotesi sul suo grado di follia e di emarginazione, più mi dilaniava l'immagine del corpo di Giorgia avvinghiato al corpo debolmente ricettivo di Milelli. Lei, pensavo, gli avrà detto ti aspetto nella tua casa, lì faremo l'amore e ti darò il piacere che ti meriti, il piacere che ti hanno rubato gli abitanti savi del nostro pianeta tra i quali c'è pure Aldo, così previdente e bilanciato; ti hanno differenziato, ti hanno isolato, ma io sono diversa da loro e da lui, lui non mi ha capito mai, io voglio dare, aiutare, soccorrere, prodigarmi, e tu sei il mio bersaglio, caro gigante mio che dici fesserie straordinarie nel corridoio del museo che ti contiene da anni come un cimelio...

Tuttavia era piuttosto azzardato supporre che Giorgia avesse saputo trovare da sé l'incrocio giusto dove svoltare. Forse conosceva Milelli da mesi, da anni. Forse invece dovevo finalmente calmarmi e smetterla. Mi avviai verso casa. Sperai che fosse finito l'incubo, Giorgia mi avrebbe spiegato tutto, seduta in cucina cavalcando una sedia a testa bassa e dondolandoci su, oppure con la gatta in braccio, come faceva spesso dopo

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certe sue crisi.

La luce accesa mi ingannò per quel mezzo secondo sufficiente a ricordarmi che non l'avevo spenta uscendo. Non disperai, Giorgia poteva essere rientrata comunque. Crollai dopo aver atteso a lungo una risposta al citofono. Superai la soglia in stato d'allarme.

Ora giacevo smorto, per sbieco sul letto a due piazze. Mi prefigurai l'assalto a Milelli, all'indomani. Prima però sarei passato davanti all'erboristeria. Non avevo affatto idea di come avrei attaccato Giorgia, prevedevo grida tipiche seguite dall'intervento dei carabinieri. O magari sua madre mi avrebbe regolato con due-tre frasi paralizzanti, del tipo vattene da mia figlia dalla casa e dal paese, tornatene in città e trovati quella che ti meriti. Oppure sua madre e suo padre insieme, in coro. Si sarebbero scoperti del tutto, erano stati troppo silenziosi durante questi mesi. Fino ad ora avevano mostrato una faccia costantemente calma, ma dietro a quell'espressione potevano aver cucinato piatti e piatti di insofferenza. Trovati quella che ti meriti, in bocca soprattutto al signor Vitaliano stava proprio bene. Me l'aspettavo.

Piangevo senza sforzo, come un antipatico gocciolare di un rubinetto difettoso. In parallelo al flusso di angoscia scorreva un rigagnolo di ricordi elementari. Con meticolosità scolastica ripercorrevo le fasi salienti della mia scalata a Giorgia. Quelle sue poche parole precise che avevano spalancato il portone per darmi accesso al cuore, il suo corpo sorprendentemente ben disegnato, la mente poco appariscente all'inizio ma sempre più presente col passare dei giorni, dei mesi. Quella mente così speciale era stata segregata per favorire l'emissione di radici affettive, ma dopo il primo periodo si era manifestata uscendo fuori alla distanza e coprendo tutto. Una mente diversa dal cuore, non come tante altre menti che vanno a braccetto col livello di sensibilità, menti serene se il cuore è sereno, menti pericolose se l'emotività è esplosiva e cruenta. Il cuore di Giorgia era un motore antico e pregiato, quando girava forte produceva un rumore caldo, era un cuore canonicamente romantico. Ma la sua mente no, era decadente nel peggiore dei modi. Un fantino agitato che sollecitava con rabbia il cavallo fedele, e il cavallo aumentava le pulsazioni di conseguenza, si lasciava frustare e comandare correndo all'impazzata. La mente di Giorgia, che strano laboratorio. Non c'entrava niente con quel gioiello sano che le batteva sotto alle costole.

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L'erboristeria era chiusa, eppure le nove erano passate da venti minuti. Il freddo pungeva, c'era un sole ipocrita tutto luce e niente calore. Due signore anziane aspettavano fuori, una mi comunicò lieve stupore

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guardandomi a labbra strette. Aveva un foglietto in mano, lo sventolava con energia. Mi rivolsi a lei.

“Non è ancora passato nessuno? La ragazza del negozio, non si è vista?”

Non registrai alcuna reazione, a parte un aumento della contrazione nel suo viso. La signora continuava a sventolare in silenzio. Mi infastidì, provai con l'altra. Mentre aprivo la bocca, la prima rispose.

“Nessuno. Forse per un lutto?”In quel momento mi sentii chiamare da dietro, un uomo stava

avvicinandosi. Mi accorsi che era il signor Vitaliano più dal tipo di passo che dal timbro della voce. Ci raggiunse, mi scrutò con delicatezza.

“Aldo.”“Eh. Buongiorno. Che succede?”Da come impostava i muscoli facciali era chiaro che si sforzava per

massaggiarmi la ferita. Mostrava compassione. Ciò mi buttò giù drasticamente. Reagii con severità spropositata.

“Signor Vitaliano, intanto spieghi a queste signore che non è morto nessuno. Almeno loro due si calmano.”

“Ah, naturalmente.” Guardò la donna col foglietto. “No, per carità, la mia figliola si è solo presa un periodo di riposo, se volete di ferie, di ferie. Per qualche settimana potrete fare riferimento a me, e a mia moglie. Poi si vedrà.”

Si inchinò per aprire la saracinesca, io avevo cominciato a tremare. Forse lo avvertì, si voltò prima di alzarla. Mi fissò desolato e calmo. Sospirando annuì.

“Aldo, un attimo e poi sono tutto per te.”“Si è presa le ferie? Poi si vedrà?” Annaspavo. Era tornato di spalle, sollevò la serranda con un gesto inaspettatamente

atletico.

Quando le due clienti uscirono mi chiamò, ero rimasto in disparte su una piccola sedia come in castigo, o forse come prima di entrare dal medico. Corsi al bancone, mi appollaiai sul piano di vetro. Parlai fissando un punto virtuale sulla giacca del signor Vitaliano.

“Senta, non ho bisogno della descrizione dettagliata, devo anche sbrigarmi per andare al lavoro. Per quanto riguarda la casa, la lascio presto e me ne torno da mia madre, non si preoccupi.”

Mi guardava come se assistesse a uno spettacolo teatrale. Si scompose di colpo.

“Invece tu hai bisogno eccome, della descrizione dettagliata. Le cose non accadono per caso, giovane. E se lei se n'è andata vale la pena di dare qualche spiegazione, no?”

Per un attimo sorrise. Fui tentato di nominare Milelli.

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“Sua figlia si sarà stancata, ecco tutto, o forse già da un po' di tempo avrà conosciuto...”

“No, Aldo, questo non devi pensarlo! Da un po' di tempo no, niente, nessun altro!” Tamponò un accenno d'ira negli occhi restando intristito.

Parlai a testa bassa fissando alcune saponette gialle oltre il vetro.“I genitori sanno tutto, adesso! E' una leggenda. Ci fu una volta che mia

sorella si confidò con me. In un solo pomeriggio mi raccontò il doppio delle cose che sapeva mia madre da una vita, su di lei.”

“E' vero, il legame tra fratelli è più forte. Non ne dubito. Allora facciamo così. Ti racconto ciò che so, ciò che ho capito. Anche se vorrei aver capito tutto.”

“Che cosa sa?”“Che Giorgina sente di aver sbagliato lavoro, anche se ciò che va

dicendo in giro a tutti e a se stessa per prima è che la sua vocazione è fare l'erborista. In questi mesi io l'ho vista cambiare di brutto, malgrado il più delle volte ci abbia parlato soltanto per telefono. Peggiorava, cambiava nelle piccole cose, nel modo di dirmi buonanotte, nel modo di reagire al mio umorismo antiquato e sempre uguale. Per un genitore queste sono piccole grandi cose. Non è un problema di soldi, Aldo. Giorgina sa bene che con la sua intraprendenza può far fronte a qualsiasi problema economico. Invece quello che non sa, o almeno che non vuole ammettere davanti alla sua coscienza, è che ha sbagliato strada.”

“Quale doveva prendere?”“La colpa in parte è mia. Doveva continuare a fare volontariato

nell'ospedale provinciale, in città. Sarebbe stato un bene per tutti.”“L'ospedale con la cupola?”“Quello.”“E Giorgia lavorava lì?”“Come volontaria, ti dicevo. E per me doveva restarci. Era stimata, era

benvoluta da chiunque. Aveva la passione per la botanica, questo sì, e passava anche ore a fare intrugli con le erbe più strane. Mi raccontava che a volte dava da bere le sue tisane ai pazienti, di nascosto. Ma la cosa essenziale era che sapeva far bene l'infermiera, sapeva infondere coraggio. Metteva gioia, passava notti e notti ad assistere i malati terminali.”

“Perché mi ha detto che in parte è colpa sua?”“Io ebbi l'idea di aprire il negozio, quattro anni fa. Da tempo mia

moglie era in pensiero per il futuro di Giorgia. Io su un posto fisso all'ospedale ci avrei scommesso, confidavo che sarebbe arrivato da un mese all'altro, ma lei no. E oltretutto l'erboristeria sarebbe sorta proprio a Perla, a due passi da casa. Nostra figlia fu attratta da quell'idea più di quanto mi aspettassi. Superò il dispiacere di abbandonare la corsia con lo stimolo a lavorare in proprio. Giorgina avrebbe continuando a trovare persone da curare, da seguire, e magari avrebbe potuto creare nuove tisane con un'etichetta vera e propria.”

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“Giorgia non mi ha mai parlato di queste cose. Certo, io nemmeno mi sono mai voluto informare.”

“Sono sicuro che avrebbe sviato il discorso.”“Perché sviare?”“Perché sarebbe stata costretta a far salire a galla il passato, e tu le

avresti fatto da specchio. Ma ora quel passato è emerso e l'ha trainata via dal negozio. E da te.”

“Da me! Ma io cosa c'entro col negozio? Potevamo parlarne insieme! Se non c'è confidenza tra noi due!”

“Potevate parlarne insieme, stai dicendo? La confidenza, stai dicendo?”Gli occhi e la bocca del signor Vitaliano si ampliarono per convalidare

la gravità della domanda. Il mio sguardo intercettò il suo e convergemmo a un'intesa patetica, inesorabilmente onesta. Ci fissavamo attoniti, desolati, consapevoli. I muscoli disorganizzati del mio volto comunicavano la disfatta, i lineamenti coriacei di chi avevo davanti accoglievano in pieno il messaggio funereo che inviavo. Giorgia sapeva che io non l'avrei capita, Giorgia sapeva che io non la capivo, ecco il semplice messaggio che recepivo da suo padre e che rimandavo indietro come un'automatica ricevuta di ritorno. Tra me e Giorgia la confidenza era solo unidirezionale, questo voleva dirmi suo padre.

La fine della storia era stata decretata. Balbettai. “E quindi è tornata in città. A fare volontariato.”“No, sta da una sorella di mia moglie, a un bel po' di chilometri da qui

e anche dalla città. Ma non è escluso che provi a ricontattare l'ospedale. Aldo, mi scuserai, ha detto che non vuole che tu sappia dove sta di preciso.”

“Dovessi andare a rapirla.” Mi venne da piangere, guardai fuori.“Ragazzo mio, se ti vuoi sfogare passa quando vuoi. Io e mia moglie

siamo qui. Per quanto riguarda la casa restaci quanto ti occorre, non avere premura. Giorgia non tornerà prestissimo.”

L'emozione non mi permise di rispondere. Salutai con un cenno della mano, corsi via. Quando superai l'uscita puntai i piedi, tornai dentro bruscamente. Mi nacque una voce cavernosa e comica.

“Scusi, a lei comunque non le dice niente il nome Milelli? Milelli Arturo.”

“No. No davvero. Conosco Militarelli, il vinaio. E poi perché mi fai questa domanda? Ancora non hai capito che mia figlia non ha nessuna storia segreta?”

“Non si arrabbi, scusi.”“Ciao.”“Però non è detto che lei abbia capito tutto di sua figlia, no? Me l'ha

confermato prima.”“Ciao.”Me ne andai lasciando il signor Vitaliano immobile, provato. Mi

dispiacque per non averlo creduto completamente affidabile e per avergli

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spiattellato davanti quella mia impressione senza ritegno. Tuttavia il senso di colpa si dissolse in pochi secondi, un nuovo obiettivo mi orientò verso la macchina. Milelli mi ronzava dentro, ero più sicuro di prima che il gesto di Giorgia fosse legato a lui. Mi scaraventai nell'abitacolo, animato da un impulso violento sconosciuto prima di allora.

Il caposervizio Miniati esagerò mettendo in risalto il mio modesto ritardo. In genere arrivavo puntuale, la sua rigidità mi seccò.

“Guardi che ho avuto un inconveniente. Lei non ne ha mai avuti?”Reagì sbattendo il registro delle firme sul tavolo, senza fiatare. Io lo

copiai sbattendo lo stesso oggetto ancora più forte. Mi urlò addosso.“Clerici sei pazzo? Cos'è qui, un manicomio? Calmiamoci!”“Un manicomio, giusto. Ne conosce altri di pazzi come me, che girano

qui? Gente che magari parla da sola e dice frasi strane. Conosce?”“A chi ti riferisci?”“Se non è lei a dirmelo io non farò certo la spia. Ci pensi, poi se vuole

ne riparliamo.”“Clerici non è aria, vai vai. Ci sono due scolaresche che stanno

aspettando da un quarto d'ora, sbrigati.”“Due scolaresche? Ma non era previsto!”“Lo so, Sorice si era sbagliato, si è confuso. Questo è il gruppo che

doveva venire domani alla stessa ora. Era meglio se continuava a essere un semplice custode anziché fare domanda per il posto di caposervizio, Sorice. Non è la prima volta che si sbaglia.”

“Ha fatto domanda per il salto di livello, ma qualcuno gli avrà risposto. Sennò restava come era.”

“Vai, Clerici, vai. Buon lavoro.”Mentre scendevo le scalette del chiostro intravidi Milelli. Lo squadrai

con evidente astio, lui dovette percepire la negatività che gli sparavo addosso. Mormorò qualcosa intrecciando le mani e muovendo i pollici con impaccio. Una donna mi osservava dall'altro lato del chiostro; quando tre studenti le si avvicinarono capii che era un'insegnante in attesa della guida, in attesa di me. Le feci un cenno con il palmo aperto.

“Vengo subito, signora! Purtroppo ho avuto un piccolo contrattempo, vengo subito!”

La donna mi rispose con un gesto simile. Intanto puntai Milelli. Stava risalendo, si dirigeva verso la sua postazione usuale. Scattai con accelerazione felina, lo raggiunsi alla fine della scala.

Mi guardava a bocca aperta. Volevo esordire con una frase contenente il nome di Giorgia, non mi veniva nulla. Il cuore mi sbatacchiava in gola, complice anche la corsa appena fatta. Essenzialmente però non riuscivo a parlare per un motivo diverso, per quel vecchio dubbio puntiforme microscopico che Milelli fosse tutta una mia fantasia. Adesso il puntino era

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cresciuto e stava esplodendo in testa, così da vanificare l'impeto iniziale. Mi feci forza lottando contro un attrito eccezionale.

“Lei... non hai niente da dirmi, vero? O non è vero?”Continuava a fissarmi tenendo la bocca aperta. La socchiuse di poco,

sembrava uno di quei portamonete piccoli, di pelle rossiccia, col bordo di metallo. La lingua e alcuni denti scintillavano proprio come nichelini custoditi con gelosia. Ma quella linguaccia prima o poi si sarebbe mossa, speravo.

“Signor Milelli, sto parlando con lei! Non sa nulla di Giorgia Conti? Giorgia Conti!”

Scosse il viso tendendolo, guardò in basso, alzò le mani. Parlò velocemente, con discontinuità.

“No. E chi è. Giorgia Conti. E chi è.” Abbassò le mani e mi fissò preoccupato. Emise un suono debole,

flautato.“Nooooooo...” Accompagnò la risposta con la testa. Sentii che avevo sbagliato tutto.

Lo guardai contrito. “No, scusi, mi dispiace. Non volevo assalirla così.”“Tutto bene. Tutto bene.” Di colpo lo sguardo si accese, le parole scorsero fuori con foga

imprevista. “Signore venga invece su con me che le faccio vedere un giochino che

non faccio vedere mai a nessuno tranne che a me, perdoni la forzatura. Venga su.”

“Un giochino? Su?”“Su. In finestra. Dopo i cipressi. C'è l'autostrada. Dopo i cipressi.

Venga su.”“Ma ho le classi che mi aspettano, ero già in ritardo prima, non posso.”

In effetti però ero curioso.“Pazienza. Pilìsi mitaluzzi.” Strinse le labbra con decisione e tornò a muovere i pollici con le mani

giunte. In quel momento mi accorsi che Miniati stava osservandomi dal chiostro, era in piedi accanto alla donna di prima e ad un'altra presunta insegnante. Gli studenti erano seduti per terra e presso le colonnine. Il caposervizio non parlava ma era visibilmente adirato. Sarebbe stato inutile giustificarsi, mi mossi di buona lena. Appena raggiunsi il gruppo cominciai a parlare del museo senza mai guardare Miniati. I ragazzi mi circondarono e lui dovette scansarsi. Attaccai con voce alta e decisa, benché covassi il solito dolore acre stazionario che mi aveva regalato Giorgia.

“Prego tutti voi di perdonare questo mio ritardo. Posso solo dirvi che ho avuto dei problemi personali. E comunque, il breve lasso di tempo perso non è certo confrontabile con i millenni che ci separano dagli Etruschi. Perciò state tranquilli, nessun etrusco si offenderà per aver atteso venti

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minuti in più i suoi ospiti odierni!”Rise soltanto un'alunna butterata di orecchini su tutto il viso. Le fece

eco un compagno vicino, senza convinzione. Invece un'insegnante controbatté, un po' rigidamente.

“Forse gli Etruschi erano più pazienti di noi, che ne dice?”Sorrisi alla donna, con stupore finto. Guardai in su, Milelli si era già

dileguato.

Alle undici mi congedai dal gruppo. Uscii a respirare una boccata d'aria gelida e mi diressi svelto al primo piano. Il pavimento emanava un forte odore di varechina, l'unico rumore proveniva dalla stampante del ragionier Fazzoletti. Raggiunsi l'ultimo tratto del corridoio. Presso la finestra non c'era nessuno. Scansai la tendina, mi soffermai sull'autostrada al di là dei cipressi. Le automobili scorrevano veloci con frequenza bassa. Pretesi stupidamente di vedere la macchina di Giorgia, cominciai a scandire con cura tutti i veicoli che spuntavano dietro agli alberi. L'analisi esterna di questo comportamento mi dette un colpo di frusta, sentii qualcosa che mi tranciava e poi mi sgretolava. Accennai un pianto con la fronte pressata sul vetro. Mi bloccò la voce elementare di Milelli, stava a un metro da me.

“Ecco. Ora il giochino. Facciamo il giochino.”Mi voltai, vidi un uomo completamente diverso, più vero, anche se

realizzavo che non era cambiato minimamente. Ebbi paura per essere divenuto così ricettivo e ben disposto all'improvviso, misi in guardia il senso critico ripetendomi che rischiavo brutto, che potevo trovarmi davanti a un caso di doppia personalità o di pazzia dichiarata o di chissà cos'altro. Ma ero anche irrimediabilmente incuriosito, più di prima.

“Venga signore e guardi quelle macchinine che corrono felici felici senza problema. Sono giocattoli. Sono pulite. Le ruote sono fisse. Le macchinine si muovono sul ghiaccio, se vuole. Silenziose. Non inquinano. Allegre. Se lei vuole.”

Fui contrariato, poi soltanto deluso, infine un vuoto secco mi assalì. Feci attenzione a non trattare Milelli con l'arroganza che mi nasceva spontanea dopo quelle frasi dementi. Cercai la massima delicatezza ma con poco successo. Mi uscì una voce bacchettona.

“Eh? Quale ghiaccio? Cosa dice? Io vedo solo automobili che mangiano l'asfalto.”

“Anche io. Prima. Prima le vedevo così. Ma si sforzi. Le ruote non girano non girano. Sono fisse, è difficile all'inizio ma poi vedrà che è divertente è un esercizietto niente di più. Fossero questi i problemi. Un esercizietto facile. Non come altri. Facile. Si sforzi. Fisse sul ghiaccio giocattolini puliti puliti e leggeri.”

“Sì, sì, sono fisse. Non si preoccupi, sono leggerissime.” Svicolai di fretta. Con la coda dell'occhio osservavo quel corpo rimasto

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lì, era impassibile. Non avevo ancora girato l'angolo, mi sentii chiamare da lui, a metà tra lamento e invettiva.

“Uuuuh! Le ruote non girano è un'illusione che lei non sa che lei non gradisce! Patalusio milàsa fisicòria. Milizzi le ruote le ruote!”

“Va' a quel paese, imbecille!” Accompagnai la frase con un gesto del braccio, corsi verso le scale. Mi fermai per pochi secondi. Volevo percepire una risposta anche volgare, invece niente. La stampante continuava a lavorare. Fazzoletti probabilmente aveva sentito qualcosa, scappai come se giocassi a guardie e ladri.

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“Posso entrare?”“Aldo accomodati. Finito con le visite, oggi?”“Ho fatto l'ultima adesso.”Mi sedetti sull'unica sedia disponibile nello stanzino del caposervizio.

Erano le quattro, Sorice stava terminando di leggere una circolare ministeriale. Gli occhiali spessi non dovevano bastargli, corrugava la fronte con sofferenza.

“Vuole il microscopio elettronico?” Gli sorrisi.“Ce l'hai qui a portata di mano? Magari.” Proseguiva la scansione del

documento. “Poi quando finisce le vorrei chiedere una cosa.”“Non chiedermi soldi. Quello no, per amor di Dio.”“I soldi glieli do io se però mi toglie un dubbio, facciamo così.”“Allora mi conviene.”Si tolse gli occhiali illuminandomi col suo classico sguardo caldo.

Sorice era l'unico caposervizio che apprezzava il mio umorismo, era l'unico

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davvero compatibile col mio carattere. Impreciso, diceva Miniati, e aveva ragione; ma tra un computer funzionante al novanta per cento e un uomo elastico al dieci per cento preferivo il computer. Anche perché quel trascurabile dieci per cento di malfunzionamento si trasformava, negli angoli di tempo libero in museo. Quel dieci per cento esplodeva in una totalità unica di simpatia e affabilità, malgrado ciò non contasse nulla nel curriculum di Sorice.

“Aldo dimmi. Presto però, perché tra non so quanto vengono i tecnici del comune, devono riparare il cancello. Credo tra cinque minuti.”

Mi alzai avvicinandomi alla scrivania. Appoggiai i palmi con pesantezza sul ripiano.

“Lei mi sa spiegare come ha fatto a diventare custode, Milelli? Io sono convinto, forse mi sbaglio, che ha la testa per aria.”

“Milelli. Sì, a volte parla a vanvera, ma che male c'è?”“Che male c'è? Bella figura ci fa fare. E non solo. Le macchinine che

scivolano sull'autostrada, per non dire del portafoglio che doveva avergli rubato Giulio Sacchetti. Sì, comunque quello che dice, soprattutto quello che dice è assurdo.”

“E' anche vero che un custode non deve assolvere compiti speciali, no?”

“E' anche vero che io potrei rompere un vetro e portarmi a casa due belle anfore senza che lui mi dica nulla, no?”

“No, non esageriamo.”“Anzi, di più. Quello è capace di aprire un armadio, e magari...”“No, Aldo, su.”“Va bene, sono fantasie, sono calunnie, è soltanto un mio pregiudizio.

Non mi azzarderei mai a condannarlo. Però mi viene spontaneo pensar male.”

“Certamente non posso darti torto, detto tra noi. Milelli non è affidabilissimo. Non posso darti torto.”

“E allora stiamo dicendo la stessa cosa! Lei e io, la stessa cosa.”“Aldo dammi del tu. Questo è un discorso tra amici, tra confidenti. E

da queste mura non deve uscire niente, sia chiaro.”Si alzò con calma, andò verso la porta accostata e la chiuse. Mi fissò

interrogandosi. “Tu non hai mai lavorato nella necropoli. Prima di venire qui non hai

fatto altre esperienze, correggimi se sbaglio.”“No, non ne ho fatte. Lei dice... tu dici la necropoli vicino allo stadio,

in città?”“Quella. Gli uffici della soprintendenza sono adiacenti alla zona

archeologica. Non hai firmato il contratto lì?”“No, qui in museo. Comunque conosco sia la necropoli che gli uffici.”“Ah, bene. Insomma Milelli lavorava lì, faceva la guida. Fino a tre anni

fa. E che guida.”

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“La guida? Milelli? Ma hai capito di chi sto parlando?”“Ti ho detto che Milelli è quello che parla a vanvera, non basta? Dai, è

quello che sta sempre alla finestra come un orso imbalsamato.”“La guida. Milelli. E come...”“Aldo, il resto puoi dedurlo tu, hai tutti i pezzi. Mettili insieme. Ti

ripeto che era una guida coi fiocchi. Ogni tanto lo intervistavano persino alcuni della televisione. Credo che abbia pure pubblicato qualcosa, tipo una raccolta di itinerari con un editore tedesco, mi pare.”

“La prima cosa che mi viene da pensare è che si sia giocato il cervello.”“Era facile arrivarci, non ti dico bravo.”“Ma come è successo?”“Non ne so molto. Aldo non voglio mentirti, sta' tranquillo. Milelli da

una mattina all'altra non si presentò più. Le notizie me le forniva un mio amico che lavora lì. Lui è di Gaglianello come me, ci vedevamo al bar il sabato o la domenica e poteva nascere il discorso, era un argomento come un altro.”

“E che ti diceva?”“Appunto, mi raccontò che Milelli era scomparso. Poi qualche

settimana dopo ne riparlammo, mi riferì che era tornato nella necropoli e che non lo riconoscevano più. Era completamente stralunato, parlava da solo come sappiamo. Spesso piangeva con dei muggiti spaventosi. Ma alla fine non cambiò niente, passò qualche giorno e la situazione si normalizzò. Solo ogni tanto, sempre i soliti muggiti e qualche parolina strana. Milelli però rimase a fare la guida. Il soprintendente fu informato di tutto, gli stava appresso con attenzione. Io vorrei sapere quando arrivano questi del comune.”

“Ma lo trasferirono, perché? Perché venne a fare il custode qui?”“Perché manca un pezzetto di storia. Un giorno la dottoressa Fumasante

capitò vicino a un gruppo di persone che ascoltavano la spiegazione di Milelli. Lui stava descrivendo la struttura di una tomba, dovevano entrarci a momenti. La Fumasante rimase nei dintorni, vicino a Rocco. In quel periodo erano un po' tutti curiosi di assistere a una bella uscita di Milelli, la fama ormai se l'era fatta. E magari la dottoressa aveva istruzioni precise, probabilmente doveva dare un'occhiata a Milelli su istruzioni del soprintendente, secondo me controvoglia. Insomma davanti all'ingresso c'era un cartello, quello che obbliga i genitori a tenere sotto controllo i bambini. Lo conosci, sta anche qui da noi.”

“Sì. Attenzione, accompagnare i bambini di età inferiore...”“Quello. Allora prima di entrare Milelli si voltò verso il gruppo e

indicò il cartello come si fa solitamente. Lo indicò e lo commentò con parole sue. Un ragazzino gli chiese che cosa ci fosse scritto sopra esattamente, forse non vedeva bene o non sapeva ancora leggere. Milelli rimaneva col dito puntato e non rispondeva. Il padre di quel moccioso rimproverò il figlio, gli disse che la guida aveva già spiegato il significato

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della frase e che non occorreva leggerla, ma lui continuava a chiedere. Voleva a tutti i costi che Milelli leggesse la scritta parola per parola. Il genitore allora si rivolse a Milelli e lo pregò di soddisfare la richiesta. Ma Milelli non reagiva, guardava la frase e rimaneva zitto. Rocco mi disse che sembrava un analfabeta. Muoveva la testa come per mettere a fuoco, e non parlava. A un tratto si voltò, gridò che su quell'insegna non c'era scritto niente, solo disegni, solo macchie colorate. Disegni, macchie, ripeteva. Poi si rannicchiò restando in piedi, era rosso in viso e rideva, parecchi scapparono via. Rocco vide la Fumasante con le mani sulla faccia. Intanto Milelli era fuggito dall'ingresso della tomba muovendo le mani in aria, e continuava a ripetere che sul cartello c'erano solo disegni colorati. Ciò che accadde dopo puoi immaginarlo.”

“Quasi. Non immagino come abbia fatto a rimanere nell'organico della soprintendenza.”

“Aldo, un eventuale licenziamento bisognava motivarlo con risolutezza. Ma Arturo era stimato da tutti, almeno prima che cominciasse a fare cose strane. La stessa Fumasante ci pensò due volte prima di avvisare in alto, ma qualcosa doveva fare. Ora senti. Lei e Rocco all'epoca erano in rapporto molto amichevole, e fra l'altro Rocco sapeva bene che io volevo passare da custode a caposervizio, ci provavo da due anni ma nessuno andava in pensione, e poi non avevo tutti i documenti a posto. Avrei dovuto maturare pochi altri anni di carriera. Morale della storia, su richiesta della dottoressa aumentarono il numero dei capiservizio qui a Gaglianello. Trasformarono i tre turni di sei ore in quattro da cinque. La motivazione formale della Fumasante si reggeva a malapena ma passò liscia. In pratica faceva leva sull'esigenza di migliorare le condizioni psicofisiche dei capiservizio, anche in vista dell'allargamento delle aree visitabili. Un allargamento irrisorio, in verità, e per quanto riguarda i capiservizio nessuno si era mai lamentato per lo stress o altro. Comunque la richiesta fu accolta, poi senza atti cartacei la Fumasante destituì Arturo spostandolo qui al mio vecchio posto, in totale silenzio. Lei stessa si prese la briga di avvisarlo, Rocco mi disse che voleva apparire risoluta ma riuscì soprattutto a mascherare il pianto. E' in gamba Romina, è ligia alle regole ma ha pure un cuore grande. Al soprintendente riferì che Milelli aveva problemi di integrazione con lo staff della necropoli, e che lei stessa aveva reputato opportuno fargli cambiare aria. All'inizio nessuno sapeva che Milelli non era più una guida, poi col tempo se ne parlò sempre di meno. Ma in molti, compreso il soprintendente, sanno che Milelli fa ancora la guida. E quando il capo in persona viene qui, ogni volta facciamo giocare Arturo a nascondino. Lo chiudiamo in una stanza, lo isoliamo.”

“Ma lui non si oppose alla Fumasante? Accettò il trasferimento così, su due piedi?”

“Rocco mi disse che non batté ciglio. Anzi no, ringraziò. Sì, mi disse così, la ringraziò. Forse per non averlo fatto mandare via del tutto, no?”

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“E Miniati sa?”“Nessuno sa. Né Miniati né gli altri capiservizio né chiunque altro, qui.

Alla necropoli invece la voce un po' si sarà diffusa, necessariamente, almeno in qualche punto. Ma gli anni passano, finora è andata bene e non c'è alcun motivo di ritornarci sopra, è finita così. Ed è meglio che non voli una mosca. Per i nuovi assunti Milelli non è mai stato una guida, ha sempre fatto il custode. Per quelli vecchi il discorso è meglio non portarlo. Altrimenti qualche malalingua si informa, ragiona, fa ripescare tutto e la Fumasante passa un guaio. E con lei lo passo io, soprattutto.”

“E tu sei venuto a raccontare tutto a me, perché?” “Per tenerti buono, sennò mi combini un putiferio. E di te mi fido, non

so perché. L'ho fatto per tenerti buono, Aldo. Quando sei entrato e mi hai domandato di Milelli in quel modo, con quella determinazione, ho creduto opportuno spiegarti il problema così com'è. Non sono riuscito a sdrammatizzare con una battuta, come mi succede di fare con gli altri.”

“Insomma, mettendo da parte questa tua storia segreta mi confermi che Milelli qui è rinomato. Che parla da solo lo sanno tutti, ad esempio.”

“Aldo, io però nel profondo ci sto male. Io vorrei renderli consapevoli di questa brutta avventura di Milelli, così la smetterebbero di prenderlo di mira o di prenderlo perfino in giro espressamente. Suppongo che l'abbia fatto tu stesso, non voglio chiederti quante volte.”

“Non me lo chiedere.”“Appunto. E invece non posso sfiatare, devo tenermi tutto, come è

giusto che sia. Nessuno gli porta rispetto, nessuno ha pietà. D'altronde i panni sono stati lavati, la Fumasante ha fatto un bucato pulitissimo. Ora è tutto asciutto e già stirato da tempo. Quello che rimane è qualche macchietta, pazienza, chi se ne accorge non gli dà troppo peso. A parte te, da quello che ho visto.”

“Hai detto bene, rimane una macchietta di custode. No, scusa.”“Ciao Aldo. Speriamo che questi del comune non si siano dimenticati.

E mi raccomando. Acqua.”“Dimmi soltanto una cosa, Milelli è sposato?”“Non credo. Sposato!”“Sta con qualcuna, che tu sappia? Magari solo da qualche giorno?” “Che domanda. Non lo frequento, cosa ne so? E poi, in tutta onestà, se

Milelli ha una donna io posso fare un terno al lotto per dieci volte di seguito.”

“Ma qui in museo, ad esempio oggi non hai notato niente?”“No. Ma che ti prende? No, no, questa è grossa. Una donna. Ah, eccoli,

sento l'autocarro!”“Vado, vado. E grazie della franchezza.”Nonostante tutto continuavo a sentire antagonismo nei confronti di

Milelli. Razionalmente ero in grado di concludere che il gesto di Giorgia non si riconduceva affatto a lui, tanto più che adesso mi avvalevo della

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testimonianza di Sorice, seppure minima. Ma non riuscivo a tranquillizzarmi, avevo soltanto spostato il problema. Dall'ipotesi del tradimento materiale ero degenerato in quella del tradimento virtuale. Avrei giurato che la fuga di Giorgia era imparentata con le frasi forti che lei mi aveva scagliato addosso parlando di Milelli. Non ero capace di nascondermi il suo esplicito schieramento a favore di un malato di mente, a favore di una larva che richiedeva il pronto soccorso di un'infermiera fallita come era lei.

Al ritorno guidai con un mal di testa costante. L'idea di dormire per l'ultima volta nel casale di Giorgia mi faceva piangere rumorosamente. Mentre lacrimavo il mal di testa si attenuava, e con lui una parte della concentrazione. Sbagliavo i sorpassi, frenavo bruscamente, mi suonavano in molti. Uscivo dal torpore per ricaderci dopo un po'.

A casa mangiai poco, lottando per aprire lo stomaco. Poi telefonai a mia madre confermandole che doveva fare spazio in salone per la brandina. Mia sorella reagì con gioia, distinguevo le sue parole provenienti dalla cucina; a Ivano ripeteva che dal giorno dopo avrebbe potuto giocare con lo zio tutto il tempo che voleva. Povero Ivano, pensai, finalmente sarebbe tornato vicino al surrogato di figura paterna che ero io. Non seppi contraccambiare l'emozione di Silvia, quando venne al telefono. Arrivai soltanto a dirle in modo opaco che ero felice per il mio nipotino. Lei si scusò per aver sottovalutato la situazione che vivevo. Non doveva scusarsi, glielo ripetei in mille modi ma sempre troppo fiocamente.

Riempii in fretta le valigie. L'ultima fu la più dolorosa. I dischi, i libri, i profumi, la radio, tutti oggetti che avevano intriso i momenti intimi, appendici comuni al mio mondo e a quello di Giorgia. Punti d'intersezione di due vite, ricordi fossili secchi. Non volli cedere, presi fiato. Miracolosamente dirottai la pena in un angolo morto. Dopo qualche secondo il martello di Giorgia percuoteva di meno, ero riuscito a smorzarlo con immediatezza anomala. Avevo un sonno intenso, non ero in grado di finire la valigia. Decisi di ascoltarmi, crollai sul letto ancora con i calzoni e le scarpe.

Invece la voglia di dormire scomparve all'istante lasciandomi sfinito ma attivissimo nella mente. Una turbina roteava con frenesia; apprendevo che era collegata a Milelli ma non capivo quale tipo di segnale elettrico stesse inviando. Si trattava di un'informazione saettante, sibilante, forse pericolosa. Aspettavo che il messaggio si delineasse meglio, intanto provai ad aggredirlo in anticipo, prima che potesse investirmi. Tornavo a imbastire una sequenza di deduzioni inconfutabili, tornavo a dimostrare la totale assenza di legami tra Giorgia e Milelli, riproducevo fedelmente le parole di Sorice che avevano testimoniato la solitudine di Milelli. Tuttavia Sorice non era onnipresente, Giorgia e Milelli potevano essersi visti in un posto segreto, in un momento segreto. Le deduzioni scricchiolavano, tentavo di

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cementarle con un'ennesima iniezione, mi soffermavo sulla palese incompatibilità tra Giorgia e quel matto, intanto il fronte d'onda del segnale mi stava raggiungendo. Le argomentazioni difensive erano parziali, temevo di soccombere, continuavo a resistere spingendo al massimo sulla consapevolezza che lei e lui erano diversi, lontanissimi, Giorgia e il matto, il matto e Giorgia, infine fui investito.

La verità mi passò dentro con limpida delicatezza provocando un pentimento globale, inatteso. Il brutto aggettivo che avevo applicato a Milelli veniva corroso dagli acidi della coscienza, ormai assaporavo il reale significato dell'agitazione che mi aveva tolto il sonno. Provai rimorso, un acre rimorso per aver ridotto Arturo a un matto. Arturo era stato una guida, e che guida, aveva detto Sorice. Era questo il segnale elettrico che aveva spazzato via la voglia di dormire insinuandosi nelle mie attività cerebrali. Si esplicitava solo adesso, dopo essere stato accantonato per ore da una mente con i paraocchi, protesa esclusivamente verso Giorgia e incapace di focalizzare un aspetto profondo come quello che era emerso oggi pomeriggio. Arturo Milelli, guida presso la necropoli più importante di tutta la provincia, stimato da tutti e in particolare dalla Fumasante.

Aspettai che i pensieri finissero di galoppare intorno al mistero degli anni d'oro di Milelli, mi sentivo sempre più leggero. Non potevo evitare di provare una sorta di attrazione, per non dire di fascino. Ero costretto a riconoscere che il dramma della mia conclusione amara con Giorgia si stemperava in un altro dramma più complesso, forse più meritevole di attenzione e rispetto. Stavo per addormentarmi, conoscevo quel tipico stadio che preludeva al sonno. Accettai di perdere coscienza sbiadendo lentamente l'immagine di un Milelli forte, bello, rassicurante, intento ad istruire un gruppo di turisti in un passato recente, un passato sprofondato giù insieme a tutto il senno che quel relitto umano doveva aver posseduto.

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Non sembravano trascorsi quattro mesi, ma quattro anni, dall'ultima domenica che mi ero svegliato nella casa in città. Ivano si era appropriato della mia cameretta, a buon diritto. Silvia l'aveva seguito e la camera di mia madre era tornata troppo larga, spoglia, con il letto singolo al centro che insieme al mobiletto essenziale la faceva assomigliare alla stanza di una casa di riposo. Le altre parti della casa erano invecchiate in fretta, benché durante le mie visite settimanali abitudinarie non lo avessi mai interiorizzato. Il bianco dei muri soffriva la compagnia di una fuliggine pesante, chiazzata. Il salone appariva in disuso, l'impatto ambientale causato dalla mia brandina era pressoché nullo. In realtà quell'angolo di casa era morto veramente da quattro anni, defunto insieme a mio padre e a tutti i manuali di elettrologia che aveva lasciato sul tavolo la mattina dell'inatteso trapasso.

Quando mi svegliai quei giorni tristi mi ripiombarono addosso. Non trovavo lo slancio per alzarmi, mi soffermavo sui grumi di polvere ammucchiati come sabbia di un'implacabile clessidra gigante.

Al di là di quelle rimembranze il trasferimento dal paese alla città mi aveva rinfrancato, o forse il merito principale doveva andare alle effusioni delle due donne e del mio nipotino sempre in moto, sempre dolce e vivace. Perla non esisteva più, Giorgia esisteva a tratti e quando mi si affacciava in testa barcollavo e affondavo, seguendo una curva caratteristica. Poi riemergevo sfasato. Erano passati solo alcuni giorni, mi stupivo di non aver risposto malissimo al colpo. Un dente strappato con la determinazione violenta di un attimo, avevo sanguinato, avevo urlato, ma non a lungo. La tempestiva medicazione dei miei familiari aveva dato un esito insperato. Il periodo trascorso a Perla aveva perduto spessore, ammettevo che il tentativo di convivenza con Giorgia era stato affrettato e prematuro, motivato sicuramente da un impulso molto al di sotto di un ideale di vita in comune. Una prova generale andata male, lo spettacolo doveva attendere. E ora

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tornavo attore senza parte in attesa di chissà quale nuovo copione, con le fitte di Giorgia che mi tranciavano i minimi germogli di ottimismo, periodicamente. La frequenza non diminuiva, le vivevo come trattenute fiscali su ogni guadagno emotivo che mi procuravo per distrarmi. Se il divago era modesto la tassa era leggera; se mi succedeva di tornare felice per un lasso consistente di tempo, allora la staffilata mi sbaragliava impoverendomi l'anima in un soffio.

Quella mattina decisi di recarmi alla necropoli, volevo recuperare una copia della pubblicazione di Milelli menzionata da Sorice. Presi il tram, quantunque fossi consapevole che il tragitto iniziale passava vicino all'ospedale. Alla fermata del pronto soccorso mi si gelarono le gambe. Metà temevo e metà imploravo di individuare Giorgia. Chiusi gli occhi, la porta dell'entrata nemmeno si aprì.

I marciapiedi limitrofi erano inanimati, gli scheletri dei platani erano le uniche forme di vita nel raggio di venti metri. Tirava un vento forte. Mi convinsi che Giorgia era rimasta dalla zia, fuori città e fuori da Perla, chissà dove.

Una casetta ristrutturata da poco anticipava l'enorme cancello della necropoli. Vi entrai, riconobbi il bigliettaio che prima lavorava a Gaglianello. Stava chiuso nel gabbiotto come un pesce in un acquario troppo stretto. Mi salutò col suo tipico gesto, uno scatto meccanico e inespressivo. Lo interpellai.

“Ciao Pino, ti posso chiedere un'informazione?”“Chiedi. Al museo tutto bene? Ti diverti?”“Solita vita.”“Cosa ti serve?”“Un chiosco per le informazioni turistiche c'è, qui dentro? Magari dove

si possano acquistare opuscoli, libri sulla necropoli, mappe.”“Chioschi no, ma guarda dietro di te.”Mi voltai. A ridosso della porta una serie di scaffali copriva la parete,

prima non l'avevo notata affatto.“Ah! Guarda quanti libri, grazie. Allora mi trattengo un po'.”“Cerchi qualcosa di specifico?”“Un... un semplice itinerario, uno qualunque. Può sempre far comodo.”“Giusto, non si sa mai. Ti dovesse capitare di trasferirti da noi. Se non

ricordo male le mappe stanno in basso. Sì, lì in fondo.”Le case editrici erano tutte italiane. Controllavo gli autori uno per uno

sperando che Sorice si fosse sbagliato sull'editore tedesco, ma non c'era nessun Milelli. Ripetei la ricerca con maggior zelo, senza successo.

“Trovato?”“Eh, la scelta è difficile, sono molti e interessanti. Comunque per ora

mi è bastato vedere le varie pubblicazioni, poi magari torno.”“Poi magari finiscono. E come fai?”“Finiscono, dici.”

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“Clerici, qui non stiamo a Gaglianello. La gente viene in massa, e compra. Vengono da ogni parte, francesi, tedeschi, americani.”

“Capisco. Ma parli come se ci guadagnassi tu.” Sentii di aver misurato male la battuta. Non rispose, forse si era offeso.

Eppure per il tono arrogante che aveva usato la mia replica era un antidoto lecito, pensai.

Prima di andarmene decisi di esaminare gli altri scaffali. Ospitavano tomi spessi, opere classiche di storia etrusca e raccolte fotografiche generali. Due volumi erano in lingua tedesca, si distinguevano per il viola vivace della copertina. Ne presi uno e lo annusai aprendolo nel mezzo, immaginai la scena quotidiana delle massaie al mercato intente a selezionare meloni con l'uso esperto dell'odorato. Forse il principio era il medesimo, non sussisteva alcuna differenza tra un frutto prelevato da una bancarella e un libro sfilato dallo scaffale. Infatti non era attendibile nemmeno il metodo della massaia. Così almeno sosteneva mia madre, sconsolata, tutte le volte che il melone sapeva di poco.

Superata la fase sensuale andai all'inizio del libro; appresi che la stampa del testo risaliva a due anni prima. Mi diressi verso l'indice in fondo, lo scorsi senza rilevare dati particolari. Voltai pagina per terminare l'elenco dei capitoli. Nel foglio di destra c'era la bibliografia; avvertii la presenza di una stringa familiare, la puntai. A.Milelli, Guardare oltre la visita scolastica. Il sottotitolo era Una visita alla necropoli centrale etrusca, con una raccolta di consigli per vivere gli etruschi completamente. L'editore era lo stesso del libro che tenevo in mano.

“Quei due cosi non li compra nessuno,” mormorò Pino. “Stanno lì da una vita. Sai il tedesco?”

“Pochissimo. Però questo volume sembra interessante, almeno a occhio.”

Sulla copertina notai l'etichetta del negozio dove era stato acquistato; si trattava di una piccola libreria del centro, la conoscevo.

“Interessante a occhio? Allora compralo tu! Fai felice la soprintendenza.”

“No, te l'ho già detto. Forse ripasso. Ciao Pi'.”

Dopo quasi dieci minuti di attesa la commessa a cui avevo chiesto il libro di Milelli tornò al banco informativo. Prima di raggiungermi aveva predisposto il volto per avvisarmi dell'esito negativo.

“Non lo trova, vero signorina? Non l'ha trovato.”“Ho anche chiesto su in direzione. Purtroppo è fuori stampa, da molto.”“Al massimo da cinque anni. E' difficile andare fuori stampa prima di

essere stampati per la prima volta.”Si inarcò sorridendo, malgrado il debole umorismo del mio intervento.

Ne approfittai per investigare meglio.

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“E' sicura comunque che qui sia esistito, cioè nel vostro negozio? Almeno all'inizio, è sicura?”

“Sì, lo sono, perché questa casa editrice è particolarmente attenta alla distribuzione nelle città di interesse storico come la nostra. Lei conosce la necropoli?”

“Sì, certo. Sono di qui.”“Pensi che noi siamo l'unico fornitore autorizzato in tutta la provincia.

Qualsiasi opera destinata alla necropoli passa per il nostro inventario. Qualsiasi opera di questo editore, naturalmente, e di pochi altri. Non è che abbiamo il monopolio di tutto. E quindi le posso assicurare che il libro che vuole lei era stato richiesto dal soprintendente, o da chi per lui. Perché non prova lì?”

“Già fatto.” Negai con la testa.“Ha chiesto proprio agli archivisti?”“No, ho domandato in biglietteria. Ha presente la piccola libreria

all'entrata? Più di tanto non ho fatto.” “Provi in archivio. Anzi telefoniamo da qui. Anche se è domenica,

qualcuno troveremo. Io lì sono di casa, mi conoscono da...”“No! No, per favore.” Le bloccai l'avambraccio a pochi centimetri dalla

cornetta. Ritrasse l'arto guardandomi a bocca aperta.“Scusi l'irruenza, è che non voglio che diventi un caso nazionale. Non

vorrei proprio.”“Ma non mi costa nulla!” Rise. “Comunque non importa, non importa,

non si agiti. Per una sciocchezza come questa.”“Ecco, sì, non devo agitarmi.” Preferii recitare la parte del nevrotico,

velocizzai le parole. “Sì, ben detto, non ci agitiamo, vada a monte tutto quanto, il libro, l'archivio, a monte!” Rischiavo di farle capire che fingevo. Divenni serissimo. “Arrivederci signorina.”

Uscii di fretta, pestai il piede a una bambina sulla soglia.“Scusa, signora me la scusi, cioè mi scusi per sua figlia.” Aspettavo una risposta cordiale della madre, invece mi fissava allibita.

Con la mano feci un saluto calmo e lungo alla commessa, lo reputai insufficiente per salvare la faccia.

Nella biglietteria si erano dati il cambio, non conoscevo l'uomo che sedeva al posto di Pino. Mi accolse con un tono ruvido che non gradii.

“Dica. Per il biglietto è qui.” “Buongiorno, sono una guida del museo di Gaglianello, Clerici Aldo.

Volevo avere accesso alla necropoli, per un indagine in situ.”“Eh? Un'indagine in che?”“Dal vivo, sul posto. Questo è il mio documento.”“No, non serve, ci credo. Vuole farsi una risata? Io le guide le

riconosco da come camminano, e da come parlano.”

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“Ho i miei dubbi. Forse con me funziona, ma in altri casi no.”“Funziona, funziona sempre. Arrivederci, buona indagine.”“Sa se in soprintendenza c'è qualcuno? Ad esempio in archivio?”“In archivio oppure in soprintendenza? Precisi, perché l'archivio sta

dalla parte opposta.”“Ah, è distaccato?”“Sì, l'hanno spostato da poco. Se vuole chiamo, vediamo se rispondono.

Però oggi dovrebbero esserci solo gli obiettori di coscienza, non le daranno tutte le informazioni. Il personale la domenica fa festa. Gli archivisti sono signori, o non le pare?”

“Lavoreranno in altri momenti. Per favore faccia questa telefonata.”“Sto già chiamando, non vede? Pronto! Ciao, chi c'è con te?”Mi perdevo nelle sue labbra spesse e scure, ferine, immobili nell'attesa

della risposta. “Vi mando un ospite. Ciao.”Indicò una zona della necropoli oltre la finestra.“E' lì. Capito? Esce da qui, strada in discesa, poi stradina a destra,

nemmeno cento metri. Ci sono solo gli obiettori però.”“Grazie, spero che basti.”Seguii il percorso muovendomi a serpentina tra pochi turisti

infreddoliti. Un ragazzo mi aveva intercettato da almeno trenta metri più avanti, non distoglieva lo sguardo. Alle sue spalle si ergeva una costruzione di cemento. Dedussi che era l'archivio, tanto più che quella figura umana stava connotandosi meglio e appariva barbuta, pallida, dolcemente curiosa. Tutti elementi compatibili con un mio pregiudizio sugli obiettori di coscienza. Pensai a Giorgia, la sua presenza crebbe a dismisura nella placenta vulnerabile che ogni tanto generava quella candida immagine femminile. Adesso lei mi parlava della sua amica Gilda che aveva il fidanzato obiettore, mi decantava le lodi di chi operava una tale scelta di vita; più mi avvicinavo e più mi configuravo Giorgia abbracciata all'individuo che continuava a fissarmi.

Quando attaccai a parlare il dolore era in discesa ma ancora dominava.“Ciao. E' l'archivio, vero?”“Sì. Piacere Nicola.” Non protese la mano. Lo imitai. “Piacere, Aldo.”“Di cosa ti occupi?”“Guida. Guida a Gaglianello, nel museo etrusco.” Le sue pupille ferme e profonde mi imbarazzavano, era una civetta

capace di parlare.“Mi manca, Gaglianello. Mi manca.”“Ah, nostalgia? Sei di lì.”“Mi manca nel senso delle figurine, nel senso dell'album da completare.

Mi manca solo Gaglianello e poco altro. E' uno dei pochi posti dove io e il

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mio gruppo non abbiamo mai suonato. Vieni, ti presento Massi.” “Aspetta. Il computer funziona?”“Che cosa ci devi fare?”“Funziona o no? Una ricerca, ci devo fare.”“Te la faccio io, così passo un po' di tempo.” Sorrise con foga

eccessiva, chiusi gli occhi per comunicargli un inizio di disappunto.“No, Nicola, ti ringrazio. Vorrei che rimanesse una cosa privata, tra me

e me. Ti ringrazio.”“Ma lo sai usare?”“Su, andiamo a vedere questo computer. Non ho troppo tempo.”Col braccio mi fece segno di accomodarmi, in modo plateale. Superò la

soglia ed entrò nella prima stanza a destra. Il suo collega sedeva presso una scrivania, era grasso e curvo. Sottolineava con lentezza alcune righe di un manuale contenente formule matematiche. Accanto a lui, sopra una panca rovinata, riconobbi un vocabolario d'inglese. Era parzialmente coperto da una raccolta di poesie di John Donne. Il resto della stanza si proiettava nel vuoto per una decina di metri, senza suppellettili. La luce si spandeva dalle vetrate smerigliate. In fondo si trovava una scrivania più piccola, piena di pratiche e con un monitor costipato. Un armadio metallico occultava tutta la parete.

“Studi seri, caro Aldo! Massi fa fisica e io mi rilasso con qualche poemetto religioso, prima di riprendere l'esame di storia contemporanea.”

“Ah. Bello.”“Il bello è niente in confronto al buono.”“Mi sembra una predica bella e buona. E' quello laggiù, il computer?”“Sì. Lo vado ad accendere? Massi, ti presento Aldo. Fa la guida.”Mi opposi con più decisione. “Per favore Nicola, vado io ad

accenderlo!” Mi inchinai verso l'altro.“Piacere.”Rispose flebilmente, riproducendo la mia parola senza staccare lo

sguardo dal libro. Nicola non si era scomposto. Liberò la panca e si concentrò in un attimo nella sua lettura. Mi allontanai senza indugiare, raggiunsi il tavolo. La tastiera del computer era annerita e consumata, sembrava che i caratteri fossero emersi a fatica dopo un lungo e accurato gratta e vinci su ciascun quadratino.

Con pochi gesti elementari arrivai alla schermata introduttiva. Rimasi contrariato davanti alla richiesta della parola d'ordine. Nicola mi stava guardando.

“Problemi? Si è acceso?”“Sì, ma scusa, tu come fai a lavorarci? Conosci la password?”“Io? No. Chi ci lavora mai? Pensavo che la password tu la conoscessi.

Io qualche volta mi metto di fianco alla signora Pirri. La assisto, per così dire. Ma da solo mai.”

Provai con sequenze casuali di lettere, poi con il codice di accesso al

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computer di Gaglianello, infine digitai qualche improperio. Stavo per spegnere, in basso a destra notai la scritta Catalogo. Era quasi invisibile a causa del blu simile allo sfondo. Cliccai, pronto ad accettare l'assenza di ogni effetto. Invece comparve un quadro luminoso con diverse scelte da selezionare, dall'alto in basso. Storia della necropoli, Itinerari, Donazioni e altro. In alto dominava un disegno stilizzato della tomba esagonale maggiore. Un bambino vestito da etrusco si rivolgeva all'utente parlando con un fumetto. Diceva Benvenuti nel catalogo, qui troverete la riproduzione di tutto ciò che è stato scritto sulla mia necropoli! Ingresso libero!

Mi avventai sulla voce Itinerari, attraversai quattro-cinque quadri in un baleno, sentivo di convergere a Milelli. Nicola si era alzato e si avvicinava, mi bloccai. Stavo scandendo un elenco, la penultima riga conteneva il nome e l'opera che cercavo.

“Aldo, io sto andando. Il mio turno è finito.”“Ah. Sì.”“Poi sei riuscito a entrare, vedo.”“No, è il catalogo ad accesso libero.”“Però. Non lo sapevo. Allora questi ultimi due mesi ho qualcosa in più

da fare.”“Sì. Meglio così. Il tuo amico resta?”“Fino a stasera, ma tanto ormai fa parte della stanza. Si è integrato.”“Si è integrato, sì. Ciao, arrivederci, ciao Nicola.”Allungò il braccio, ci stringemmo la mano. L'osservavo mentre usciva,

aveva spalle ossute, gentili. Produssi l'immagine di Giorgia che lo abbracciava da dietro, precipitai in un'apatia completa.

Milelli mi aspettava dietro a quella penultima riga telematica, eppure ciò non mi bastava a uscire dalla nuova fase acuta. Giorgia adesso dominava, devastava. Cliccai lo stesso senza nemmeno guardare il monitor, tiravo grandi sospiri a testa china.

Sull'orizzonte visivo intuii la presenza di un ovale grigio-rosa che emergeva dallo sfondo bianco. Alzai lo sguardo, fui abbagliato da un'espressione calma, gioiosa, affidabile. Milelli aveva scelto il proprio volto per la copertina del libro. Osservando meglio la foto mi accorsi che nascondeva scorci della necropoli, ingressi di tombe, dipinti, tutto in penombra dietro ai capelli, sotto agli zigomi, lungo il contorno del mento e delle guance. Mi persi dentro ai suoi occhi, finsi che ruotassero ad una velocità formidabile, vorticosamente, forse turbinavano davvero e non me ne accorgevo. Giorgia svaniva.

Massi aveva annidato la testa tra le braccia conserte, comprimendo il tomo su cui studiava. Cambiai pagina, comparve l'introduzione. Prima di cominciare a leggere sondai la sua lunghezza, era notevole. Tornai all'inizio, ero indeciso se saltarla o no. Ma già la prima frase mi catturò, dovetti continuare.

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Il lettore medio passerà noncurante sulla presente sequenza di pagine,

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sempre che egli abbia deciso di darle almeno uno sguardo. Si dirigerà spedito verso il motivo principale del suo acquisto, verso le piccole e grandi mappe a cui vorrà affidarsi durante la peregrinazione in quell'affascinante sprazzo di globo terrestre che è la necropoli centrale.

Un attimo, però. Ti prego, lettore, ti prego non usare le conoscenze di chi ti scrive solamente per accumulare nuove nozioni nel tuo magazzino di materia grigia. Ciò che ti investirà nel tuo tragitto tra le tombe non sia semplicemente informazione, non sia mera cultura. Sia invece il flusso di una competenza più robusta, una competenza diversa. Sia l'acquisizione di una tecnica, di un'abilità che inglobi l'umile - benché fondamentale - servizio fornito dai dati che scorrono tra le pagine. La tua competenza sia una marcia in più per sondare l'universo etrusco, ma non solo tale universo. Sia un metodo applicabile alla vita quotidiana, alle problematiche attuali, sia un approccio alla totalità del reale. Rifletti, lettore, su quest'idea che permea la mia operetta, e che ti sarà presto manifesta; non accontentarti di scremare la nuda descrizione di percorsi e stazioni itineranti. Seguimi, provaci.

Devo farti un esempio, altrimenti svolazzerai annoiato oltre queste pagine per riposarti infine sul capitolo destinato al primo tragitto, quello che va dall'entrata fino alla piazza storta, passando per la tomba dei fiori. Questo tragitto aspetti ancora, anzi no; esso sia un pretesto per spiegarti. Quando ti troverai davanti alla tomba sarai statisticamente attratto dal grazioso bassorilievo sopra l'arco d'ingresso. Fotograferai? Prego. Commenterai estasiato? Prego. Leggerai il cartello informativo, corredandolo con le informazioni stampate sulla tua guida? Prego, prego, e non dimenticare di istruire i tuoi figli, se ne hai. Ma ora fermati, non entrare, quand'anche tua moglie o la tua curiosità stiano facendo leva per trainarti.

Fermati. Non hai trascurato nulla? Qualcosa sì, a mio avviso la cosa più importante. Hai trascurato la verità ultima che ti lega a quella tomba, a quel tragitto, all'intera necropoli. Tu credi di aver bevuto la dose giusta di nozioni per proseguire, ma attento. Ti domando: cosa ti manca per comprendere veramente il senso di ciò che vedi?

Ti manca la semplicità di essere un etrusco, ti manca la perfetta normalità di essere un uomo antico, di quell'epoca. Un uomo che si presenta davanti alla propria tomba di famiglia un giorno qualunque della sua vita, e si strugge pensando al padre defunto, oppure prega e si placa. Ti manca la realtà più reale di tutte, la sola che possa definirsi seriamente realtà. Tu invece sei un turista, guardi la struttura con occhi assai diversi, fai il possibile per immaginare cosa succedeva quotidianamente qui, in questa immane necropoli, ti istruisci il più possibile per conquistare il lontano passato che non sa riemergere se non attraverso i documenti, attraverso ciò che noi chiamiamo storia.

Allora ascoltami. Per comprendere veramente e seriamente che cosa

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hai davanti, cimentati nel seguente esercizietto. Staccati dal tuo presente, scordati di aver fatto il biglietto, metti via la macchina fotografica e smetti di tendere l'orecchio verso la guida che spiega. Spogliati dei motivi che ti han condotto fino a qui, lascia perdere i programmi pomeridiani, non sentirti legato al tuo scorrere dinamico fatto di progresso, di luci, di elettrodomestici e di mille comodità. Ci riesci?

Prova, prova. Accartoccia la striscia di tempo che ti separa dalla realtà. Ciò che hai davanti non sono i resti di una tomba etrusca, getta via quella vocina che ti fa sentire spettatore moderno. Diventa etrusco, etrusco attuale.

Se ci riuscirai, vedrai qualcosa di molto più importante che un semplice resto di tomba etrusca. Un lampo ti esploderà dentro, e vedrai. Apprezzerai la genuinità della costruzione, amerai l'arco che la sovrasta tanto quanto ami il cornicione sopra al portone della tua casa, cornicione sinonimo di focolare domestico, di famiglia, di calore. Le pietre che formano il cunicolo acquisteranno lo stesso sapore tenero e grave dei mattoncini che percorrono l'androne fino al sottoscala della tua dimora. La tomba vivrà, essa ti vivrà dentro, risuonerà, ti riempirà della sua presenza pura. Proverai i sentimenti giusti, nulla di più, nulla di meno, i sentimenti di chi si appropinqua a un luogo sacro per lui e per i suoi cari.

Difficile questo esercizio, posso capirti. Difficile e forse superfluo, per un turista metodico e organizzato come te. Ma ricordati dei risultati che raggiungeresti, vedresti ciò che in prima istanza non appare, anche al turista più accorto, anche allo studioso più esperto. Vedresti uno sprazzo di sole che la scienza non può regalarti malgrado i suoi progressi esponenziali e malgrado i tuoi tentativi esponenziali di seguirla. L'esercizio che ti ho proposto non ha nulla a che vedere col galoppante razionalismo del nostro tempo, invero non ha nulla a che vedere con ogni goccia di progresso in ogni angolo del globo in ogni tempo. E' un andare oltre, prendendo una strada inusitata. Un procedere accanto al viver comune, in una dimensione diversa. Un leggere oltre le righe e oltre gli usuali significati delle parole universalmente accettate.

Ora, purtroppo (o per fortuna), sono costretto a tornare sul cammino principale, altrimenti c'è il rischio che questo libretto venga cestinato con violenza! Perciò mi appresto a descrivere i caratteri essenziali della zona archeologica, per poi focalizzare brevemente sulle tipologie ricorrenti in questa specifica necropoli.

Prima di tutto descriviamo il contesto geologico. Un tale approccio permetterà di interpretare meglio la vastità delle...

Milelli scriveva bene, molto bene, pensai. Ritenevo che i concetti fossero certo complicati, ma mai incoerenti. Tornai a percorrere quelle pagine dall'inizio, setacciando eventuali germi della triste degradazione occorsa nel suo cervello. Non c'era traccia di demenza, mi venne il dubbio

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di aver digitato un altro nome per errore. Tornai sulla foto, le mie perplessità scemarono. Oltretutto il modo di esprimersi era compatibile con la leggerezza ilare delle parole che aveva pronunciato in finestra, guardando l'autostrada.

Mi avvinceva l'idea di valutare con precisione che cosa fosse rimasto in vita di tutto l'apparato logico posseduto da Arturo. La mania di inventarsi oggetti e situazioni invisibili agli altri non era affatto recente, come testimoniava l'introduzione. La storiella delle macchinine e delle ruote che non girano poteva rappresentare un rimasuglio di qualche fenomeno più generale. Anziché concentrarmi sulle attuali rimanenze di senno avrei potuto investigare i primi sintomi, confrontando dati vecchi e dati nuovi. La sua ragione si era assottigliata fino ai giorni presenti, sempre più finemente di giorno in giorno, tanto quanto la pazzia doveva essersi radicata nel suo tessuto mentale sempre meno tenacemente, assottigliandosi di giorno in giorno a ritroso negli anni sino agli albori impercettibili. La freccia del tempo aveva giocato a favore di quest'ultima, ma solo perché il tiepido vince sul caldo, la confusione vince sui movimenti precisi, il disordine prevale sull'ordine. Quando si era insediato il disordine dentro Milelli? Le ruote che non giravano e la tomba che non sembrava un rudere appartenevano alle prime radici della pazzia o alle ultime grida della saggezza?

Mettevo in azione tutti gli espedienti deduttivi per poter derivare una conclusione definitiva; comunque ero proteso verso la prima tesi, cercavo di ottenerla con ogni mezzo, mescolavo il resoconto di Sorice con i vari episodi vissuti accanto a Milelli, scandivo ancora una volta l'introduzione sul monitor, mi soffermavo sulla foto, tornavo a immergermi nei significati delle frasi dette in finestra quel pomeriggio. Mi mancava pochissimo per sentirmi certo della prima tesi. Arturo era matto da sempre, le testimonianze si rivelavano già in quelle pagine. Aveva le allucinazioni e provava perfino a formalizzarle, tentava di inalarle al povero turista medio, complice l'editore inesperto o tradito da quella prefazione insolita.

Volevo che quella mia bozza di spiegazione divenisse una certezza. Fissai gli occhi di Milelli. Sembravano ruotare ancora vorticosamente, più dei reattori di un aereo supersonico. Sentii che i germi di Arturo potevano avermi infettato. Ero affaticato, mi sganciai dal filo tessuto troppo alacremente, desistetti.

Gli occhi di Milelli tornarono immobili, pazienti.

Prima di uscire dalla necropoli sostai davanti a un cartello, poteva essere proprio quello che aveva causato la cacciata di Milelli. Le lettere erano abbastanza grandi, scambiarle per disegni era impossibile a meno che non fossi stato analfabeta. La A di ATTENZIONE non poteva essere altro che una a maiuscola. Forse con un certo impegno avrei potuto interpretarla

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come una scaletta da imbianchino, tuttavia quel gioco non mi piaceva affatto; sentivo di deridere il buon senso di chiunque, mi sembrava di cozzare contro un principio universale di lealtà, di serietà. Abbassai lo sguardo, stropicciai gli occhi. In archivio avevo stampato l'introduzione completa, ora la scorsi.

In una nota conclusiva Milelli riprendeva a battere sul suo argomento prediletto. Parlava dell'alfabeto etrusco, spiegava la somiglianza di alcune lettere con le nostre, come ad esempio la A. Poi si soffermava sulla curiosa rotazione della D rispetto alla verticale, rotazione che trasformava la nostra lettera in un simbolo etrusco, come se la luna crescente divenisse luna calante. Scesi di qualche riga.

... d'altro canto presuppongo che il lettore sia informato sull'uso di simboli diversi dai nostri, per rappresentare la medesima vocale o consonante, o per definire un fonema a noi sconosciuto. L'alfabeto cirillico e quello greco costituiscono gli esempi più familiari, benché si ravvedano tracce di questo fenomeno anche nel nostro alfabeto padre, il buon latino. Non siamo forse chiamati a pronunciare la vocale U, davanti al simbolo V? Ci viene quasi spontaneo, è un fatto noto Vrbi et orbi!

Questa breve osservazione vuole però sfociare in un ennesimo consiglio, in un ennesimo esercizietto. Lo propongo a colui che stavolta desideri acquisire scioltezza nella lettura di simboli nuovi, o per dir meglio ingannevoli perché riferiti a un fonema invece che a un altro. E' questo il caso della P cirillica che vale come la nostra R, della H greca che dobbiamo leggere come E, ma si può rimanere nell'ambito etrusco e citare il simbolo M, che si legge come la nostra S! Come fare per imparare? Il problema alla base è che siamo avvezzi a collegare l'icona appuntita e incuneata del simbolo M con un preciso movimento labiale. E' come se nel disegno di quella linea spezzata fossero celati alcuni movimenti obbligati della bocca. Mmmmmm, esattamente questo ci ispira tale spezzata. Tanto che inizialmente ci appare assurdo dover associare a quel disegno un'azione diversa, una delicata pressione della lingua verso il basso, poco prima di toccare gli incisivi inferiori, una carezzina calibrata al punto giusto affinché si generi il tipico sibilo: sssssss... E viceversa, per un comune etrusco, sarebbe arduo passare dalla sua s alla nostra cara m.

Ci appare assurdo generare un sibilo a partire da una M, ma con un po' di studio scomparirà ogni remora e quel simbolo verrà assimilato, dunque potrà essere utilizzato in entrambi i contesti. Utilizzato e interpretato correttamente. Come un pianto dirotto che da solo non significa niente, se non si precisa il contesto: un matrimonio o un funerale?

Ma ecco il mio consiglio per accrescere la padronanza richiesta, e per non soffrire alcun disturbo legato al potere del simbolo, alla priorità bigotta che esso reclama nella propria lingua d'origine. Farò una metafora. Supponi, caro lettore, di avere un solo pennello e di dover dipingere un

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cielo blu e alcune nuvolette bianche. Senza un bicchiere d'acqua, come farai? Dunque rifornisciti di un tale oggetto, e comincia. Uno: colorare di blu. Due: sciacquare. Sciacquare, capito? E' fondamentale! Tre: nuvolette bianche.

Cosa vuol dire sciacquare, nel nostro caso? Vuol dire scolorire, vuol dire dimenticare e pulire. Non più vernice blu tra le setole, non più significati attaccati al simbolo ma solo un disegno, solo una linea spezzata o una mezza luna o un disco o una serpentina anonima o qualsiasi cosa che però resti innocente, slegata dal fonema che il tuo cervello vorrebbe attribuirle. Soltanto così la tua mente sarà pronta per la vernice bianca, e potrà battezzare quel disegno insipido dandogli un nuovo nome, dandogli un nuovo connotato. Vedrai che sarà un battesimo potentissimo, un marchio a fuoco. Nonostante ciò, saprai far scomparire quel marchio quando vorrai. Saprai di nuovo scolorire, dimenticare, pulire. Davanti a te rivedrai un umile disegnino, e poi ancora così per diecimila altre volte, dipingere, sciacquare, dipingere, risciacquare, ridipingere...

Ma c'è di più. Non dovevo dire umile, con riferimento al disegnino. Hai mai pensato, gentile turista, a quale emozione possa generarsi dall'impatto visivo con un'opera d'arte come una parola, o una frase? Vedere la sequenza di lettere come una macedonia di svolazzi, a volte più spessi, altre volte più finemente ricamati, senza pensare all'alfabeto. Un dipinto, un ornamento, che evento strabiliante! Mortificare la tentazione istintiva di decodificare, restando attonito e volontariamente analfabeta così da far emergere da quei segni una poesia dimenticata! Una poesia custodita soltanto nella mente dei bambini fino a pochi anni di vita, visto che ormai esiste la scuola dell'obbligo e prima o poi impariamo tutti a leggere.

Ero ammirato dalla proprietà di linguaggio, dall'originalità delle osservazioni, da tutto. Non ci avevo mai pensato prima, tradurre il simbolo etrusco M con la mia S faceva parte di una serie di formule asettiche per passare da un sistema di riferimento a un altro. Quando spiegavo ai turisti l'equivalenza tra alcune lettere mi veniva automatico. Invece per Milelli nulla era scontato. Mi sarebbe piaciuto vederlo all'opera, con i suoi espedienti che trasformavano una visita guidata in un momento di riflessione, appassionando i presenti, calamitandoli. La sua non era una forma di pazzia, ora pensai nitidamente, quel vedere cose non viste dagli altri era uno spingersi oltre, non un cadere giù. La nota appena letta parlava chiaro, era una sorta di documento programmatico, non poteva essere il frutto di un semplice vaneggiamento. Vedere di meno per vedere oltre, togliere struttura per aggiungere conoscenza, che bei paradossi aveva coniato Milelli.

Mi concentrai di nuovo sulla A del cartello, non riuscivo a pensarla diversa da ciò che avevo appreso da bambino. Anelavo a visualizzare la solita scaletta da imbianchino, ma niente. E se anche ci fossi riuscito non

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era quello l'obiettivo finale, la lettera presa di mira si sarebbe dovuta ridurre a uno sciapo assemblaggio di tre segmenti senza senso, senza nemmeno il senso pratico dell'oggetto che volevo configurarmi. Ad ogni modo la scaletta sarebbe stata un incoraggiante passo avanti. Milelli invece doveva riuscirci, doveva venirgli tutto spontaneo come qualsiasi esercizio fatto e rifatto con impegno, come uno studio di Chopin al pianoforte, come una capriola prima del tuffo, come il movimento metodico ed esperto di una sarta all'uncinetto. La sua era un'abilità, una competenza, non potevo negarlo. Decisi che il giorno dopo avrei tentato di impadronirmi almeno dei prerequisiti. Avrei trascorso parte del pomeriggio a trasformare le ruote delle macchine sul viadotto in cerchi immobili, mi sarei sistemato al secondo piano per non essere visto da Milelli. Perché nascondersi, mi chiesi subito, perché non giocare assieme a lui come mi aveva pregato di fare? Conoscere Arturo, capirlo, apprendere da lui. Mi sarei sistemato presso la sua finestra, a provare e riprovare. Forse la storia della pazzia era una farsa, forse aveva calcolato tutto, si era fatto trasferire a Gaglianello per poter continuare a giocare tranquillo, con meno impegni e responsabilità. Aveva gabbato la Fumasante, Rocco, Sorice, aveva gabbato anche me, Giorgia e chissà quanti altri, con quelle parole finte che fabbricava e proferiva con disinvoltura unica. Mi domandavo che ruolo avessero tali produzioni nella geografia psichica di Arturo. Un altro tipo di esercizio, e per ottenere cosa?

Ormai le due tesi erano cadute in blocco. Avevo raggiunto la convinzione che le radici della pazzia non erano mai esistite e che per le ultime grida di saggezza occorreva aspettare ancora molto, semmai. Fui certo che Milelli era sano, sanissimo, e non soltanto. Un furbo di prima categoria.

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8

Quando il mattino seguente mi svegliai, lo stato di eccitazione e la venerazione per Milelli avevano perduto intensità sensibilmente. Mi restava un fuoco minimo di curiosità riguardo all'esperienza superiore di poter scorgere disegni sotto alle parole, ma ciò non bastava a emozionarmi come il giorno prima. Milelli non era pazzo, questo ormai lo avevo assodato ed era il risultato più lampante della mia ricerca. Per il resto, la sua predilezione per certi giochi mentali mi appariva anche un po' ridicola, figlia come doveva essere di una solitudine stantia. Un uomo solo, niente amici e niente donne, un cervello troppo complesso, ecco dunque i risultati.

Purtroppo, in parallelo alla consapevolezza dell'integrità psichica di Milelli era tornato a serpeggiare il triste dubbio antico, che cioè costui potesse davvero avere avuto contatti con Giorgia e che continuasse ad averne. Già durante il pomeriggio precedente si erano insediati i sintomi di tale ricaduta. Giorgia doveva essersi convinta di trovarsi di fronte alla cavia giusta per un esperienza unica da crocerossina, pensai di nuovo. Una memorabile esperienza di protezione, assistenza, e piano piano di

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qualcos'altro. La novità della mia riflessione però riguardava lui, lui che doveva aver nicchiato consapevole dell'inganno. Maledetto Milelli, pensavo, maledetto filibustiere, illusionista da quattro soldi, ero sveglio da cinque minuti al massimo e già spremevo i neuroni, deducevo, gli lanciavo improperi contro, incurante di essere ascoltato oltre le pareti. Le fitte di Giorgia imperavano di nuovo, erano giorni che non mi aggredivano così.

Il profumo della schiuma da barba e il successivo contrasto col sapore del caffellatte preparato da Silvia catalizzarono una forte reazione nella mia testa. Non era la prima volta che mi accadeva, ma ora l'effetto fu più marcato. Capivo che il vero problema non era la mancanza di Giorgia; invece il tipo di dolore rientrava nella famiglia delle pene provocate dall'orgoglio. Ormai non tremavo più per gli occhi e la voce di Giorgia, ero abbastanza sicuro che se mi fossi riavvicinato a lei non avrei più vibrato. Invece vibravo di orgoglio ferito, ero uscito sconfitto da una partita amichevole di calcio. Amichevole, tuttavia, niente di serio. Ogni tanto mi faceva male ripensarci; quei gol presi uno dietro l'altro, le ultime risposte acide di Giorgia, la sua assenza e il biglietto di saluti, la conferma definitiva del padre. Una sfilza di gol e poi zitto nello spogliatoio. Ma non era una partita di campionato. Lo ammettevo, Giorgia purtroppo era stata un ennesimo trofeo temporaneo conquistato con le mie solite armi convenzionali; battuta pronta, grazia dei movimenti e del sorriso, forse belle gambe atletiche, scioltezza logica esibita in momenti propizi a piccole dosi. La convivenza poteva averci illuso di essere sufficientemente coesi, ma prima lei e poi io ci eravamo capacitati del contrario. E adesso mi restava un po' di amaro, più che altro un senso di inettitudine alla vita coniugale. Infine Milelli era solo un innocuo pretesto; essere adirati con lui era la sola vera pazzia in tutta questa storia. Che Giorgia si fosse invaghita di lui o che nemmeno si ricordasse di averlo incontrato erano realtà ininfluenti. Ciò che invece contava era la mia consapevolezza del fragile sentimento che avevo nutrito per lei.

L'unico mattone che però non riuscivo a mettere era quello che doveva tappare il buco di una domanda ovvia. Perché non mi era venuto spontaneo andarmene, al pari di Giorgia? Perché non l'avevo anticipata, o perché al limite non avevo deciso insieme a lei?

Il muro comunque si reggeva bene, nonostante quella lacuna. La preoccupazione per Milelli era il minuscolo residuo di una ferita poco profonda in via di guarigione, una di quelle classiche escoriazioni che provocano le ultime fitte dopo un periodo di quiescenza; le provocano per avvisarti che i tessuti stanno riattaccandosi, è sufficiente rimanere fermi per poco altro tempo.

Su questa scia di pensieri mi vestii celermente, salutai Silvia e mia madre, accarezzai Ivano che ancora dormiva, mi avviai verso la macchina.

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Il freddo aveva mollato la presa nel giro di una notte, la stasi dell'aria sapeva di breve tregua. Tutto appariva pronto perché febbraio entrasse maestoso e glaciale come faceva di consueto. Guidavo sereno, riuscii persino a rimanere inerte mentre tiravo dritto superando il bivio di Perla. Proprio vicino a quella diramazione avevo fatto le prove generali di bacio con Giorgia.

Tagliai il traguardo del comune di Gaglianello in poco meno della solita mezz'ora. Programmai di concedermi un momento di studio nel pomeriggio. Uno studio speciale, in effetti. Sarei salito da Milelli, avrei gettato l'esca avvicinandomi alla finestra e aspettando che lui mi indicasse qualche nuovo giochino. Milelli aveva ingannato il mondo intero, ma io potevo ingannare lui nicchiando più del maestro. Avrei finto di ascoltarlo come si ascolta un demente, oggi, domani, spesso. Poi forse un giorno mi sarei scoperto.

Il lampeggio di un grosso semaforo arancione sembrava ammonirmi. Involontariamente modificai il punto di vista su Milelli. Le grida che mi aveva lanciato quel pomeriggio, prima che lo insultassi, potevano essere state oneste. Grida lamentose di uno scienziato esperto, un geniaccio sempre più esperto col passare degli anni ma sempre più solitario e assetato di compagnia, per non dire di comprensione. Grida oneste, non teatrali. Con me aveva comunicato cercando aiuto, aprendosi e rendendomi partecipe di una goccia di saggezza accumulata. Le macchinine, un aperitivo leggero e gradevole, un preludio a ciò che sarebbe venuto dopo. Probabilmente sperava che capissi e che lo stimassi. Al buio di un annoso silenzio, forse Milelli aveva finalmente deliberato di aprirsi a qualche persona indicata. Una guida, ad esempio, ma una guida sagace come credeva che fossi io. Voleva che divenissi un suo discepolo, voleva insegnarmi la dottrina, ma io avevo reagito così male.

Forse con me non recitava, conclusi. O almeno non recitava più, da qualche giorno o da mesi o da quando ci eravamo conosciuti. Mi aveva individuato, mi aveva eletto, e ora stava mordendosi le mani per essere stato rifiutato. Avrei dovuto chiedergli scusa quanto prima, lo pensai sbuffando di rimorso.

Ero quasi arrivato. Avvicinandomi all'entrata del museo sentivo intensificarsi uno stridio familiare; almeno dieci-quindici clacson si sovrapponevano senza sosta. Svoltando a sinistra dopo l'ultimo incrocio intravidi una lunga fila di automobili e camion, dovetti rallentare fino a fermarmi dietro alla macchina di coda. I clacson dei camion e di un tir primeggiavano, tanti altri segnalatori davano comunque un bel contributo. La fila terminava davanti alla piazzola d'ingresso del museo, a una cinquantina di metri da me, nei pressi del semaforo pedonale. Il frastuono aumentava, intanto dall'altra parte della strada sopraggiungeva un

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furgoncino della polizia. La sirena faticava ad imprimersi sul volume sonoro. Qualcuno aveva abbandonato la propria macchina per avvicinarsi e assistere meglio a una scena che doveva essergli sembrata interessante. Scesi anch'io ma rimasi lì. Intravedevo un'utilitaria di colore bianco crema; un poliziotto stava facendosi largo tra una piccola folla che si agitava intorno alla macchina. Alcuni erano imbestialiti e davano pugni sul vetro anteriore dell'autovettura. Presi il binocolo che usavo per osservare gli uccelli, mi arrampicai sul cofano e puntai. Dentro alla macchina riconobbi Milelli, muoveva le braccia come per fare ginnastica. Ogni tanto si voltava di fianco rivelando un'espressione ilare, a tratti euforica. Appariva completamente estraneo al carosello intorno a lui. Il poliziotto aveva cominciato a bussare sul finestrino di destra ma lui proseguiva imperturbato. Mi accorsi che l'apertura delle braccia coincideva con ogni picco di sonorità; quando il clacson di un camion veniva azionato Milelli trasaliva scuotendosi, sollevando gli arti fino a toccare il tettino superiore. Intanto accompagnava gli altri clacson con un plastico ondeggio delle mani. La percussione grave del tir lo galvanizzava più di tutto il resto, si portava le mani alla testa e poi stendeva le braccia con slancio impetuoso. Capii che non si trattava di un esercizio ginnico, bensì di qualcosa di simile al movimento impegnato e abbandonato di un direttore d'orchestra. La conferma mi venne da un oggetto lungo e fino che teneva in mano come una bacchetta, forse era una penna stilografica, non vedevo bene. Intanto la folla aveva fatto spazio al poliziotto, staccai gli occhi dal binocolo e quando puntai di nuovo assistetti alla rottura dello sportello da parte di un altro uomo in divisa; aveva forzato la serratura con una specie di piede di porco. In breve i due estrassero Milelli dall'abitacolo. Un tremito freddo mi fulminò dalla testa ai piedi.

Un carro attrezzi era intervenuto per scansare l'utilitaria, la fila si scomponeva. In una manciata di minuti il grosso della processione si sciolse. Quando arrivai davanti al semaforo rimasi fermo a guardare Milelli seduto sul marciapiedi del piazzale con i due poliziotti vicino. Appariva stremato. Qualcuno del museo era accorso. A un passo da Arturo il mio collega Giulio parlava a voce bassa col ragionier Fazzoletti. Il bigliettaio sembrava giustificarsi con i gli agenti. Infine arrivò Miniati di corsa. In quel momento Milelli si alzò con foga spaventosa, prese a gridare rivolgendosi a un gruppo di turisti.

“Visitate il nostro museo! Visitate il mondo fatto di persone fatto di carne fatto di patalizzi fisicùra! Mretile fisalusio museo! Viva il signor Miniati, viva Gaglianello e il suo milizzi museo!” Poi cadde a terra afflosciandosi.

Il semaforo era verde ma dietro di me nessuno sollecitava la partenza, erano di nuovo tutti incuriositi. Mi affrettai, attraversai l'incrocio per andare a parcheggiare a pochi metri da lì.

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Quel giorno lavorai distrattamente. Adesso ero a casa, pronto per la cena. Mia madre riempì il piatto di Silvia con la minestra. Quando fu il mio turno mi accarezzò, quel gesto doveva significare fatti forza, oggi stai più giù del solito ma poi passerà e intanto ti assistiamo noi. In effetti stavo guardando in basso oltre la norma, parlavo a bisillabi veloci, talvolta mi strizzavo la faccia bofonchiando. Ripensavo alla descrizione di Giulio; lui aveva assistito a tutta la scena, dal momento in cui Milelli aveva deciso di restare fermo al semaforo malgrado fosse scattato il verde da vari secondi. Probabilmente non si era accorto del via libera, allora due macchine avevano suonato e lui era rimasto impassibile, anzi si era messo ad agitare le braccia soddisfatto. Poi sempre più macchine, Milelli aveva addirittura spento il motore e con la penna imitava appunto un direttore d'orchestra, rideva, era emozionato. Sicuramente, diceva Giulio, aveva confuso le segnalazioni con gli accordi di trombe e tromboni; più la gente si agitava e più gli sarà sembrato di stare in mezzo a un orchestra. Poi Giulio mi raccontò il resto. Una cosa così non si era mai vista, aveva commentato, non dispiacendosi di accompagnare le parole con un sorrisetto ironico e sprezzante. Da Milelli si aspettavano tutto e il contrario di tutto, aveva aggiunto, ma questo andava oltre le previsioni. Finché le sue crisi rimanevano nel privato poteva anche essere sopportato, ma così no, interferire con la decenza e l'ordine pubblico no, così non andava proprio, aveva ripetuto. Io non ero stato in grado di dargli ragione nemmeno con un gesto minimo del viso. Il collega aveva concluso con una frase elementare e triste che conteneva la parola licenziamento.

Mia madre stava scrutandomi preoccupata, tra un boccone e l'altro. Con rotazioni improvvise del collo mi sorprendeva catturando l'angoscia che emanavo.

“Ma non l'avrai mica rivista, Aldino? L'hai rivista, dimmelo.”“Chi ho rivisto, mamma? A parte il fatto che non so nemmeno dove

vive, te l'ho detto.”“E allora cos'hai?”“Niente di grave, sarà la luna storta. Oggi poi ho visto una scena

assurda.”“Un incidente? Un motorino?”“Forse un matto, non saprei. E' uno del museo, io lo stimo ma non ho

ancora capito se è scemo per davvero o se ci ha presi tutti in giro.”“Il mondo è pieno di matti, e tu grazie a Dio sei nato sano.”“Sì, ma ora mangiamo. Si sta freddando tutto.”Dalla cameretta giunse un lamento. Silvia si scosse alzandosi d'istinto,

raggiunse Ivano. La seguii. Mio nipote era accovacciato ai piedi del letto, cercava di recuperare qualcosa allungando un braccio, non ci riusciva. Silvia si infilò sotto ed estrasse una locomotiva di legno. Tranquillizzò Ivano, restando in ginocchio e stringendolo a sé.

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“Che succede?” gridò mia madre dalla cucina.“Tutto a posto, tutto a posto, non trovava una cosa sotto al letto!” Silvia

mi sorrise dopo aver lasciato il figlio al suo gioco. Sospirò pacata.“I bambini, Aldo. Che strani, basta un trenino per farli felici o per farli

disperare. Che strano.”“Sì, basta un treno di legno, anzi soltanto un pezzo di treno.”“I bambini sono più vicini di noi, a Dio.”“A Dio?”Lei si vergognò di aver ceduto di nuovo, dopo tanti anni che non

tornavamo su certi discorsi. Chinò il capo, ma presto ripuntò i miei occhi, convinta.

“Tu avrai già indovinato cosa voglio dirti.”“Di', di'.” Accarezzai Ivano che mi sorrideva a bocca aperta muovendo

la locomotiva in aria.“Dico che i bambini sembrano sapere più cose di noi.”“Vedono cose che noi non vediamo, i bambini. Hai ragione. Ma se un

grande prova a fare lo stesso, non va così bene.”“Per Ivano questo treno è reale, lui non vede la differenza tra un treno

finto e uno vero. E' un miracolo.”“Non esageriamo, è semplice incoscienza.”“E ti sembra poco?”“Sì, molto poco. Beato Ivano, ma da un mese all'altro quel treno si

romperà, lui potrà averne un altro ma si romperà anche quello nuovo. E finalmente Ivano dovrà uscire di casa e fare il biglietto per montare su un treno vero, magari per comprare un treno di legno a suo figlio. E addio incoscienza. E pensa se nel mondo restassimo tutti così come lui. Che dolori. Questa è la vita.”

“Che squallore.”“La vita? Non esageriamo.”“La tua.” Rise, sicuramente spaventata dall'eccesso di severità. “Silvia andiamo a mangiare, e lasciamo perdere i salotti letterari.”“Non volevo offenderti, mi conosci.”“Sì, non ti preoccupare.” Le sorrisi tendendo le labbra. “Non mi hai

scalfito, occorre ben altro.” Ci guardammo pacifici, velatamente delusi. Mi sovvenne l'episodio dei

capelli tirati, io avevo otto-nove anni, Silvia già frequentava la scuola media. Un pomeriggio durante la merenda le afferrai la testa con violenza dicendo no, no, opponendomi alla frase che aveva letto in classe la mattina durante l'ora di religione, e che mi ripeteva da qualche minuto. Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non vi entrerà, non vi entrerà! Me lo aveva gridato più volte, io negavo, recalcitravo, le rispondevo che volevo diventare grande ad ogni costo e che non mi importava nulla del regno di Dio, lei muoveva il dito come un'insegnante severa, gridava e

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rideva sicura, alla fine la feci piangere attaccandomi ai suoi capelli e strappandone una ciocca.

Forse Silvia stava visualizzando la medesima scena. Nostra madre ci chiamò per terminare la cena, intanto Ivano riproduceva il rumore delle rotaie. Gli riusciva alla perfezione.

9

La mia congestione mentale di quei primi giorni di febbraio non aveva precedenti. Forse avevo sperimentato qualcosa di simile appena dopo la fine del liceo; ero stato convintissimo di voler diventare chirurgo per tutto l'anno scolastico, finché non svenni davanti a un gatto tranciato poco prima da una moto. Milelli mi aveva reso completamente vulnerabile; quell'astruso esempio di vita si infilava tra gli scompartimenti del mio apparato classificatore, sgusciava da una parte all'altra senza trovare una sistemazione definitiva. Milelli nella mia testa era un nomade, un giorno mi svegliavo e lo trovavo vestito da pazzo, il giorno dopo non stava più lì, lo cercavo un po' e magari scoprivo le sue tracce vicino alla zona riservata ai maghi o agli illusionisti; il giorno dopo potevo trovarmelo in un altro posto, quello in cui censivo le persone geniali incomprese. Non potevo andare avanti così, non accettavo che la melodia esotica di un vagabondo come lui si insinuasse nel centro di una metropoli antica e armoniosa come la mia mente.

Volevo acquisire nuove informazioni, cruciali. Sapevo che Milelli non era stato licenziato, eppure dopo quel triste episodio non aveva più fatto ingresso in museo. Quando una volta sbirciai preoccupato sul tabellone del caposervizio Sereni, notai che Arturo risultava semplicemente in malattia. In parallelo però si era dato malato anche Sorice, ciò mi impensieriva. Intanto si vociferava che il soprintendente fosse adirato per l'errata gestione dei fondi o per il comportamento di qualche dipendente, del ragionier Fazzoletti o secondo alcuni di un caposervizio. Temetti di aver capito meglio di chiunque altro. A Sorice comunque non avrei mai chiesto nulla di più, anche se fosse stato presente in museo. Supponevo che stesse passando un brutto periodo, ma osavo anche concepire che proprio lui si sarebbe fatto avanti per rendermi partecipe di qualcosa, da un giorno all'altro. Dopo tali attimi di fiducia rientravo nella mia confusione domestica attraversata ogni

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tanto dalle scie bollenti o gelide di Giorgia, sempre più rade ma di intensità invariata.

Stavo finendo di pranzare nel solito bar a due passi dal museo. Ricordai l'accenno di Lina al compagno di classe del nipote di Maurizio, durante la cena con Giorgia. Mi venne da sperare che quel ragazzo fosse proprio il figlio di Arturo, poi ridimensionai la congettura accontentandomi di una parentela qualsiasi. Decisi che all'indomani mi sarei recato a Blasoria, ma senza passare a casa di Maurizio e Lina. Invece mi sarei appostato davanti all'uscita dell'unica scuola media comunale. Non avrei faticato a riconoscere Sandro, purché non fosse cambiato troppo dall'estate prima, quando me lo presentò Maurizio una sera in pizzeria.

Il giorno dopo a Blasoria nevicava, come avevo supposto alle undici e mezza spingendo lo sguardo oltre il campanile della chiesa nuova, verso i monti, alla fine di una visita guidata nel museo. Il viaggio da Gaglianello era durato più del previsto, si erano rese necessarie le catene e oltretutto la macchina aveva perso spesso stabilità a causa del vento.

Le volgarità scritte a colpi di vernice rossa sul muro esterno della scuola, tanto recenti da luccicare, erano la più viva traccia della presenza umana in quel quadro rattristato dal gelo e dal bianco ammassato. Al suono della campanella si innescò la tipica fuoriuscita da piano di evacuazione, malgrado qualche insegnante si sforzasse di contenere la piena di alunni. Mi appostai in cima a una scaletta di marmo, dall'altro lato della strada. Fui coinvolto dalla procacità di molte ragazzine, riconobbi di non saper trovare il termine giusto che sostituisse il sostantivo ragazzine; forse donne, forse adolescenti, ero combattuto. Sebbene fossero oberate dai vestiti trovavano il modo di testimoniare fedelmente certe rotondità del corpo. Due di loro, mano nella mano, mi guardavano e si dicevano qualcosa di apparentemente azzardato e volgare. Sentii di essere il loro bersaglio e mi mancò l'aria. Corsero via. Intanto il fiume di materiale umano si esauriva lasciando detriti qua e là; gruppetti sparsi che si tiravano palle di neve, coppie di amanti che avevano posato gli zaini e si baciavano con foga, individui solitari forse in attesa di un genitore automunito. Sandro sbucò fuori per ultimo, insieme a due professoresse impettite e a due compagni. Uno di questi sembrava la miniatura di Milelli, camminava con la nota lentezza e guardava nel vuoto in quel modo preciso. Mi scossi, li raggiunsi, Sandro mi anticipò.

“Ti conosco, sei un amico di mio zio?”“Sì, ti ricordi?”“Sei il marito di quella signora con il gatto. Che bel gatto peloso!”“Non eravamo sposati. Comunque sì, sono io. Aldo, piacere.” Intanto le due insegnanti salutarono. Il presunto parente di Milelli si

distanziò insieme all'altro ragazzo, cominciarono a scambiarsi due mucchietti di figurine. Mi distolsi da Sandro, osservavo le mani lente e

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grasse di quel piccolo Arturo. Liberai una domanda istintiva e veloce, guardandolo mentre contava le figurine rimaste.

“Sei Milelli? Sei Milelli, vero?” Lui corrugò la fronte. Non aveva ancora terminato di voltarsi verso di

me, Sandro rise puntandomi.“Come fai a sapere che in classe nostra c'è uno che si chiama così?”

Adesso rideva più forte, il ragazzo che avevo interpellato si unì a quella specie di sghignazzo agitato, mi stavo innervosendo.

“Come lo so? Lo so perché lavoro nello stesso posto di Arturo Milelli, e una volta tuo zio Maurizio mi ha detto...”

“Arturo è un mio zio lontano” interruppe il terzo ragazzo, sovvertendo l'atmosfera con un timbro funebre. Lo guardai con rispetto, mi stupiva più che altro quella voce scura.

“Ah! E' un tuo zio. Lontano.” Cercai di cogliere qualche somiglianza, senza il minimo successo.

Avevo davanti un esserino pulito e composto, con mandibole sporgenti e una fronte troppo alta.

“Perché sei interessato a mio zio? Cosa ti ha fatto?”“No, non ti preoccupare. Arturo è un amico, potremmo dire.”“Difficile che abbia amici. Ma se lo dici tu, sarà.”“Lo frequenti spesso?”“Ma perché vuoi saperlo?” Si era incupito, trasmetteva angoscia, come

un cieco timore che il proprio spazio venisse violato. Sandro chiamò a sé l'altro compagno.

“Andiamo, Ste'.” Poi mi tese la mano. “Allora ciao! E non mi sconvolgere Marco. Dovesse svenire per l'emozione, è così delicato. Vero Marcoli'?”

Salutai Sandro mentre il nipote di Milelli accennava a una parolaccia nei suoi confronti. Eravamo rimasti soltanto noi, le ultime automobili stavano andando via.

“Marco, voglio semplicemente sapere se...”“Se alla fine si è sposato? Non lo so. Con quella cicciona più vecchia di

lui, non lo so. Vogliono sapere tutti la stessa cosa, ma chi l'ha visto più zio Arturo? Chi sa più niente?”

“No, non pensavo a quello, non sapevo nemmeno che avesse una compagna.”

“Ora lo sai.” Dava segni di escandescenza, non mi preoccupai di quel disagio.

“Insomma non si fa vedere mai, da queste parti. Abitava qui?”“In campagna, laggiù dopo il benzinaio.” Indicò uno stradone in

discesa che si perdeva nel bosco.“E poi?”“E poi cosa?” Faceva schiocchi con le figurine, fissandosi i piedi.

Quando alzò la testa di scatto era giallo. Scaricò un grido.

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“E poi e poi! Cosa vuoi tu? Chi sei?” Terminò producendo un gracchio curioso. Si allontanò con un salto rischiando di essere urtato da un furgone veloce. Tremava, ebbi paura per lui.

“Attento!” Temetti di fare scalpore, una donna anziana mi aveva notato dal

balcone e ora mi indicava alla vicina in finestra. La neve scendeva più intensa, Marco ormai era distante. Lo chiamai, rimase rigido in attesa.

“Scusa! Non volevo farti del male, disturbarti!”Alzò e abbassò un braccio, come per comunicarmi che non voleva altre

noie. Reagii.“Per così poco, comunque! Idiota! Esci dall'incubatrice e vivi! Marco

sveglia!” Pronunciai le ultime sillabe inquadrando la signora in finestra, la sorpresi mentre mi fissava esterrefatta con una mano in bocca.

Quando finii di pranzare non nevicava più, anzi tra le nuvole si faceva strada una luce promettente. Mentre uscivo dalla trattoria il proprietario mi salutò in tipico dialetto blasoriano; condivisi la sua ilarità con un arrivederci più lungo del mio solito. Avevo ancora due orette libere, prima di tornare al museo. Passeggiai fino alla scuola media, poi salii in macchina e cominciai a scaldare il motore. Pensavo a Milelli che doveva aver vissuto qui in tempi ancora calmi. Manovrai nervosamente, scattai.

In mezzo minuto avevo superato il benzinaio ed ero immerso nel bosco di abeti, statici guardiani gravidi di neve che incombevano sulla strada sempre più sconnessa e scivolosa. Rallentai, non vedevo un casolare, un manufatto; ogni tanto un palo della luce si differenziava a stento tra la vegetazione imbiancata. Mentre davo forma a un triste dubbio sulle condizioni psichiche di Marco comparve un cartello di divieto di transito. Dieci metri più in là si scorgeva un segnale di interruzione stradale. Mi fermai, ricordai gli ultimi gesti di quel ragazzo davanti alla scuola. Lo stesso sangue dello zio, dedussi.

Invece un ulteriore cartello mi dette speranza, si intravedeva dietro a un abete disordinato che spingeva i rami fino a superare il ciglio. Tra la neve e i ciuffetti di aghi emergeva un rettangolo rosato sorretto da due travi sistemate a cavalletto, a un metro e mezzo da terra. Villa era l'unica parola che si leggeva, il resto era consumato e la parte finale del cartello mancava, come se l'avessero spezzata e tolta. Spinsi lo sguardo in mezzo all'albero infilandomi tra i pertugi concessi. Effettivamente al di là di quell'ostruzione si apprezzava la forma rilassata di un piccolo edificio, probabilmente un rustico. Scesi dalla macchina, tentai di tagliare in linea retta ma il fango e la neve erano troppo soffici. Tornai all'indicazione rosata, camminai oltre il divieto di transito aspettando un ingresso sulla sinistra o alla fine della strada. Lo trovai subito. Un sentiero arginato da lampioncini proveniva dalla casa. Lo percorsi ansioso, mi fermai a ridosso di un'inferriata

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arrugginita che doveva circondare tutto l'abitato. Era alta più di due metri.Il cancello era chiuso da un catenaccio esageratamente contorto. La

ruggine lo aveva irrigidito, mi fu impossibile smuoverlo. Guardai il fianco della casa attraverso le sbarre. Il tetto era pericolante, in parte era crollato. Alcune finestre del piano superiore erano senza vetro, eppure in quel panorama squallido si discerneva una componente di vita, forse amplificata dal contorno così deteriore. Due sdraio vicine sfidavano il freddo a pochi passi dalla facciata nascosta. Su di loro la neve non era riuscita a imporre il suo velo, anche perché le strutture portanti erano troppo esili. Un po' di massa bianca era depositata sui teli ma non occultava completamente le tinte accese delle parti superiori. Le strisce gialle e rosse sopravvivevano, ricordando un giorno calmo di sole trascorso sulla sabbia bollente quasi in riva al mare.

Mi stupii di aver deciso in un attimo che quella doveva essere la vecchia casa di Milelli. Tornai a temere che Marco non fosse attendibile, iniziai a cercare una conferma. Il nome della villa in effetti mancava e magari sarebbe stato un aggettivo sterile, o un classico nome di donna. Infatti Villa Milelli mi suonava davvero male, se anche si fosse trattato proprio della casa di Arturo.

Guardavo il rustico. Un'area modesta gli girava attorno; relitti di canne legate a due a due erano tutto ciò che restava di una probabile coltivazione amatoriale di legumi. Dietro a quell'impianto smantellato riconoscevo gli scheletri di alcuni alberelli da frutta, chissà se defunti o soltanto in letargo.

Notai che l'inferriata si abbassava verso la parte posteriore della casa, mentre il suolo si elevava quel poco che mi fece sperare di poter scavalcare. Raggiunsi il punto di minore altezza delle sbarre, l'ostacolo restava sempre difficile da superare. Ricordai i miei giochi di adolescente; le toppe sul cavallo dei pantaloni erano all'ordine del giorno, e una volta mi feci più male del solito. Mi risalirono su le parole inopportune di un mio compagno, adesso diventerai femmina, diventerai femmina, ripeteva mentre gridavo di dolore.

Rinunciai. Mi dispiacque di non avere il coraggio sufficiente, dopotutto non si trattava di un'impresa così rischiosa. Mi ritrassi, rimasi a guardare il muro posteriore. Alla sua base si scorgeva una porticina metallica. Una scaletta laterale si spingeva in basso, in una cavità angusta, fino al minuscolo ingresso. Non vedevo catenacci né lucchetti, soltanto una maniglia sovrastata da una serratura. Dalla mia posizione sembrava che l'uscio fosse leggermente aperto, ma il vuoto tra il muro e la porta poteva essere causato da una lesione locale dell'intonaco, o dalla leggera curvatura del metallo verso i bordi.

Un colpo di vento fece sbattere la porta dimostrando che era realmente aperta. Mi spronai di nuovo a scavalcare, desistetti subito. Criticai il mio eccesso di curiosità; pensai che in definitiva al di là di quell'entrata avrei trovato un po' di botti vuote e niente più, forse al massimo qualche arnese

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per la campagna e il contatore dell'elettricità. Decisi di tornare in macchina. Costeggiai l'inferriata fino al vialetto.

Poco prima di svoltare fui attratto da un cardine del cancello; esso si inseriva su una lastra di marmo non molto larga, sporcandola di ruggine colata. Nonostante le macchie scure un'iscrizione a lettere minute e profonde era facilmente leggibile. Copriva la lastra quasi fino a terra.

D come luna crescente che assiste, O come sole che emana il vitale calore, N come fulmine che stravolge, ancora N come una Z storta e spigolosa tanto quanto la nostra ragione è, infine A come la punta di una matita che vuol portare nel mondo l'etereo messaggio di un sentimento. DONNA , DONNA , donna che mi ha reso felice in questo strano passare dei giorni fisici, donna che mi assiste nel vago abbaiare della mia ragione. A te dedico quest'ingresso, questa casa. Essa sia il nostro dolce nido, ove si possan fondere pensieri e gesti, in un attimo erroneamente eterno come questa nostra vita umana è.

Tremavo senza capire di che tipo fossero i brividi. Tremavo di ossequio e stupore, o di stupore misto a qualcos'altro che mi sfuggiva. Mi inchinai a terra, misi una mano sulla lastra per togliere alcune scagliette di fango. Presto mi accorsi che avevo agito così per accarezzare le parole incise. Mossi il palmo su e giù, poi il dorso. Mi concentrai sulle tre parole uguali consecutive, provai a costruire un volto di donna. Visualizzai dei capelli lunghi, guance carnose e poi un corpo robusto, capace di confrontarsi con la mole del compagno in ogni gioco d'amore e in ogni scontro di gelosia, in ogni diverbio o amplesso, sempre, nel bene e nel male. Un corpo robusto ma anche armonioso. Il resto non seppi immaginarlo, a cominciare dal tipo di mente.

Subito dopo mi nacque la necessità di ricomporre il quadro storico di Milelli. La figura femminile scomparve, rimpiazzata da Arturo che istruiva un gruppo nella necropoli centrale. Mi alzai, feci un respiro ampio, provai a delineare la sua parabola psichica. Doveva essergli successo qualcosa, o magari non gli era successo niente di speciale ed era rimasto costantemente così, metà pazzo e metà lucido. Forse le scenate come l'ultima davanti al semaforo avevano fatto sempre parte di lui. Oppure quella creatura femminile giocava un ruolo preminente, lo aveva reso felice e adesso Milelli non era più felice, si era incrinato, ma quella donna esisteva da qualche parte? Poteva trattarsi di una creazione astratta come le altre mille, pensai, ma le parole apprese da Marco mi corressero. Una compagna doveva essere esistita senza dubbio.

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Quando Miniati su esplicita domanda mi riferì che Arturo era ricoverato nell'ospedale provinciale in città, sperai di leggere sul viso del caposervizio almeno un cenno di partecipazione. Invece commentò addirittura con scherno.

“Non so cosa abbia. Ma farà danno anche lì, se ne accorgeranno!”Non avevo ancora smaltito l'ondata di astio verso di lui quando si

sovrappose un nuovo fastidio, più profondo. Immaginavo Giorgia, tornata nel suo amato ospedale, alle prese col paziente arrivato da poco. Se Milelli non l'aveva colpita prima l'avrebbe fatto ora. Fui costretto ad ammettere che la mia crisi non si era diluita del tutto, malgrado ormai avessi alle spalle diverse settimane di convalescenza. Ad ogni occasione propizia il cervello lanciava un algoritmo brevettato, sempre quello. Mandava in circolo per i neuroni una corrente velenosa, tutti gli altri processi si bloccavano per cinque minuti di silenzio e rammentavano il loro fallimento, il fallimento di un organismo, la sconfitta di Aldo. Ma quale sconfitta, provavo a ripetermi, quale sconfitta se da tempo avevo chiarito che quel mio sentimento non era una cosa seria? Allora mi soffermavo sul significato dell'aggettivo seria, non capivo più se per protezione avessi minimizzato tutto, come in una tipica anestesia da quattro soldi, massiccia e invasiva.

Sorice invece era tornato al lavoro, ma sembrava un altro. Programmavo di chiedergli qualcosa a giorni, eppure tutte le volte che mi avvicinavo alla sua stanza svicolavo imbarazzato. Finalmente accadde ciò che avevo sperato, il discorso partì da lui un pomeriggio, prima della firma. Ci incrociammo nel corridoio, mi fermò posandomi una mano sulla spalla.

“Aldo, io e te sappiamo tutto.”Lo guardai fingendo di non capire, mi vergognavo. Il suo sguardo

contribuì a rilassarmi, dopo due secondi ero pronto a ricevere in pieno qualsiasi frase. Confermai a voce.

“Io so tutto a parte le cose recenti, anzi attuali. Come stai?”Si irrigidì come un soldatino, aveva il viso più scavato del solito.“Sto in attesa.” Sorrise chiudendo gli occhi, per poco. “In attesa come

le donne incinte. Io però devo partorire la lettera di dimissioni. Preferisco giocare d'anticipo, così il soprintendente non dovrà radiare nessuno. Il dente cadrà prima dell'estrazione. Spero di trovare il coraggio di scriverla.”

“Il soprintendente ha saputo? Ma saputo cosa, poi?”“Qualcuno ha parlato, si è stancato e ha parlato, come prevedevo.

Poteva farlo in qualsiasi momento, un anno fa, due anni fa, ma ora evidentemente si è sentito più sicuro, l'avranno supportato in parecchi. Non chiedermi di chi si tratti, ho solo delle mezze idee. E poi non servirebbe a

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niente, saperlo.”“Ha parlato, ma di cosa? Solo di Milelli?”“E non ti basta? La guida che si è trasformata in custode, un bel

rompicapo per il soprintendente e i suoi amici. E il custode è pure matto, adesso sanno che abbiamo ospitato un matto dandogli perfino lo stipendio. Ora in alto vogliono conoscere ogni tacchetta della sua... carriera, se così si può chiamare. E quando arriveranno al momento ics spunterà fuori la coincidenza del posto fantasma da caposervizio, e il resto. Conteranno anche le mie tacchette, che bellezza. Quando il soprintendente ha saputo che Milelli non fa più la guida da anni mi hanno riferito che per poco non sviene.”

“Io però ti stimo.” Mi avvicinai per stringergli le braccia ma presto mi intimidii, intanto

lui si era tirato leggermente indietro. Rimanemmo a testa bassa, Sorice prese a fischiettare come per sdrammatizzare. Era penoso. Poi esordì, risoluto.

“Andiamo, Aldo, andiamo a firmare. Dovessero vederci troppo vicini e mettere in mezzo anche te. Comunque anche io ti stimo, ricordatelo. Perché mi hai capito e hai avuto pure rispetto e pietà per quel deficiente di Milelli.”

Giunsi all'ospedale provinciale poco dopo le sette e mezza, in pieno orario d'entrata. Gli infermieri spingevano carrelli con i piatti sporchi e gli avanzi delle cene, gruppetti di suore si mescolavano a pazienti stanchi e a visitatori contratti. Quel viavai abitudinario e plumbeo mi aggredì il fiato. Giorgia me lo aveva rinfacciato cento volte, non ero più me stesso quando varcavo la soglia di un nosocomio, diventavo pallido più dei malati e reagivo smodatamente ad ogni sollecitazione. Quei tre giorni in cui ci recammo da mia madre, ricoverata peraltro in un centro moderno e confortevole, tutti credettero che Giorgia fosse la figlia; io al più potevo sembrare il genero annoiato. Invece nascondevo la tensione dietro a un atteggiamento da mummia. Chissà se Giorgia iniziò a stancarsi di me proprio in quel periodo, rimuginavo ora.

Attraversai un corridoio stretto, mi diressi verso una dottoressa impegnata a esaminare una cartella clinica; il brusio dei ricordi di Giorgia mi accompagnava come una palla al piede. Attesi che il medico si accorgesse di me. Lo fece, ma riabbassò la testa tornando alla lettura. Mi parlò senza distogliere lo sguardo dal foglio.

“Desidera?”“Sì. Milelli Arturo, volevo salutarlo. Sono un conoscente. Sa dov'è, per

cortesia? So che sono molti qui, i malati, ma volevo provare lo stesso a chiedere.”

Fece una crocetta con un pennarello, scorse qualche riga senza alzare gli occhi.

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“Se il suo Milelli Arturo è una donna, prosegua qui e poi domandi più giù. Altrimenti torni indietro e giri a destra. Lì troverà qualcuno per le informazioni.”

“Certo. Sì. Forse è meglio. Scusi, purtroppo non avevo visto che...”Si allontanò senza farmi finire. Seguii le istruzioni e mi ritrovai

nell'atrio. Due uomini in camice verde avevano percorso il tragitto al mio fianco, trascinando una barella vuota e un carrello. Dietro alla vetrata del reparto informazioni sedeva un uomo che mi sembrò antipatico. Scelsi di rivolgermi al meno giovane dei due portantini.

“Scusi, buonasera, magari sa dove è ricoverato il signor Milelli? Milelli Arturo, dovrebbe stare qui da pochi giorni.”

“Lei è un fratello? Un cugino?” Fece cenno all'altro di fermarsi.“No, lavoro con lui, a Gaglianello.”“Anche lei del museo? Ci dovrò venire un giorno o l'altro, abito a un

tiro di fionda e non l'ho mai visitato!”“Abita a Gaglianello? Che coincidenza.”“Proprio Gaglianello no. Fuori, in aperta campagna. Tre chilometri. Ma

insomma lei vuole vedere questo suo amico? E come facciamo, Bruzzese?” Guardò il collega con ironia. L'altro gonfiò le guance e negò, in segno

di impaccio. Mi agitai.“Perché, scusi, dove sta? Che cosa ha?”“Fisicamente sta meglio di noi tre messi insieme. Vero Bruzze'?”“Vero, vero.” Il collega rise con timidezza scomponendo i lunghi

capelli biondi. “Fisicamente sta meglio di noi, le dicevo, ma è bene che resti solo e

tranquillo.” Era divenuto serio, mi fissava con occhi convinti. Ruppi il suo silenzio

prolungato.“Ha problemi di tipo nervoso?” “Ha problemi. Problemi grossi, il nostro Milellone. Grossi come lui, ha

visto che roccia? Non mi fraintenda, scherzo. Lo conosco da vecchia data, sa?”

Accompagnò la barella verso la parete, salutò il collega che proseguì a spingere il carrello. Mi indicò una sala d'attesa. Entrammo, ci sedemmo vicini. All'angolo opposto una signora con la testa fasciata sembrava dormire, accovacciata sull'ultima sedia.

“Ha detto che lo conosce da vecchia data?”“E già. Indovini perché.”“Non saprei, me lo dica lei. Amici d'infanzia?”“No, no. Milelli è già stato qui, anni fa. Almeno però quella volta era

per una frattura. Brutta, ma una semplice frattura. Le ossa si riparano, ma la testa matta? Si aggiusta? Scusi se ho detto matta, vorrei non pensarlo ma per me è proprio così. E' pure vero che già quella volta non passava inosservato. Ancora ricordo certe parole strane che gli uscivano. Ma ora l'abbiamo

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trovato peggiorato, anzi è proprio degenerato.”“Perché però addirittura un ricovero?” “Evidentemente lei conosce poco o niente. Sa come è arrivato qui, quel

pomeriggio?”“Quando è arrivato?”“Fine gennaio, sarà stata l'ultima settimana. Ma non l'hanno informata?

Non informano?”“No, per vari motivi le notizie circolano poco. Ma non è una cosa

grave. Invece mi dica come è andata.”“Sembrava ubriaco, cantava e barcollava. Io scendevo da un'ambulanza

e l'ho visto avvicinarsi all'ingresso, ripeteva dei suoni acuti, parlava di una sinfonia, diceva che la musica era alta e che voleva suonarla lui. Io con altri due ridevamo, intanto ci eravamo accorti che Milelli non era solo, un poliziotto gli stava dietro e tranquillizzava la gente. Non è pericoloso, diceva, e poi faceva dei cenni perché stessimo calmi. Ma davanti all'entrata Milelli ha tirato fuori un urlo lunghissimo, da orango, ha spaventato tutti. Poi ha spaccato la vetrata con la testa e si è messo a ballare come se pigiasse l'uva. Poi ha urlato di nuovo, anche più forte. Il poliziotto è accorso per immobilizzarlo ma non ce n'era più bisogno, si è accasciato con la fronte che colava sangue, e si è vomitato addosso. E adesso sta in osservazione, oggi come ieri come il primo giorno. Ancora non capiscono che cosa abbia di preciso. Si sveglia e urla, dopo un po' non apre bocca anche fino alla sera. Poi si agita di botto, devono sedarlo altrimenti fa il finimondo. Ogni giorno una storia diversa. Ubriaco non era, quel pomeriggio. E nemmeno epilettico, e nemmeno non so cosa.”

“E le analisi? Forse si droga?”“Tutte le analisi negative, eppure continua a stare così. E quando parla

nessuno lo comprende. Sembra mezzo cinese e mezzo arabo. Come la chiama lei, questa? Pazzia, scusi, né più né meno. Diciamo la verità, non è che non capiscono cosa abbia, è che prima di essere sicuri bisogna provarle tutte. Ma ormai stanno per ammetterlo, è matto e basta. Adesso lo dimetteranno sperando che qualche casa di cura se lo prenda. Non sarà difficile, uno stipendio ce l'ha. O almeno ce l'aveva, comunque una pensioncina l'avrà maturata.”

“Posso vederlo?”“Vederlo!” Si incurvò premendosi la fronte con le dita. “Ma si rende

conto? E' in isolamento.” Si alzò velocemente. “Io devo andare, la saluto. Piacere.”

“Sì. Grazie per la chiacchierata, piacere.”Una corrente sottile mi sfiorò i pensieri, non aveva nulla a che fare con

la pena per Milelli. Invece sapeva di Giorgia. Sentii una spaccatura crescermi dentro, urgeva come se dovesse lacerarmi la pur flebile gioia di vivere. La convinzione che stavo perfezionando aspettava una mera conferma. Chiamai il portantino soltanto con l'indice e l'espressione del

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viso, non si era ancora voltato di là. “Sì, dica.” Il tono era secco, gli zigomi sporgevano più di quanto non

avessi notato prima. Mentre preparavo la domanda introduttiva non riuscivo a guardarlo bene negli occhi.

“Giorgia Conti lavora qui, ha ripreso a fare l'infermiera. Vero?”Sembrò colpito, la postura solida perse rigidità. Rispose con leggera

emozione.“Non sta più qui da tempo. Non ha più ripreso. Lei è un conoscente di

Giorgia?”“La conoscevo, da vicino. Per poco tempo. Perché?”“No, no, soltanto per dire, soltanto così per sapere. Giorgia era una

persona in gamba.” Restava immobile. La tensione negli occhi e nelle mani svelava le

ceneri di una probabile passione antica; un sentimento non ricambiato, supposi, senza poterne dedurre la collocazione temporale. Decisi di mettermi sullo stesso piano.

“Una donna in gamba, posso immaginare. Giorgia non passa inosservata, e se poi la conosci ti coinvolge. Può farti partire la testa come niente, capisco.”

“E' tanto che non si fa vedere. Sì, lavorava proprio nel mio reparto. Quanto si impegnava, e a che livello. Impressionante. Scusi se mi permetto, era sia bella fuori che buona dentro.”

Scaricai la domanda cruciale con veemenza.“E Giorgia conobbe Milelli, quando lui venne qui per la frattura. No?”Il mio interlocutore si stupì, modellando un sorriso a labbra strette e

fronte aggrottata.“Cosa c'entra Milelli?”Temevo che adesso identificasse i problemi mentali di Arturo con i

miei, per qualche via inconscia scorrevole. Accettavo il rischio, restavo zitto. Lui proseguì leggermente teso.

“Comunque Milelli no, non lo conobbe, non credo proprio. Cioè non ricordo. Sono passati anni, non ricordo se Giorgia stava già qui da noi.”

Scossi il collo, sorrisi forzatamente.“Ha ragione, che domande. Le faccio pure perdere tempo. Forse però

Giorgia ritorna, lo sa?” Indovinai il cambio di espressione, il suo viso si fece rosso. Represse male l'entusiasmo.

“Ah. Mi fa piacere!”“Comunque ultimamente non è più passata, vero?”“Ultimamente no.” Tornò quasi rilassato. “Pensi che l'unica occasione

sicura per vederla è quando commemoriamo un'infermiera scomparsa anni fa, qui nella cappelletta. Allora scambiamo due chiacchiere, il primario prende in braccio Giorgia come faceva sempre, come un nonno. Poi un cappuccino al bar, e addio forse per un altro anno. Un altro anno, sì. Ma il mondo va così, condivide?”

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“Condivido, condivido.” Il terrore mi incollava la gola, faticai a produrre una voce regolare.

“Non sapevo di questo appuntamento annuale. Giorgia non me l'aveva... Quando capita?”

“A giugno. Il ventisette o ventiquattro, non ricordo. O il ventisei, insomma il venti qualcosa. Con tutto il rispetto per la Salimbene, l'infermiera defunta, non posso ricordarmi di tutte le date di tutti. Giorgia invece lo saprà a memoria, non ha idea di quanto bene le volesse.”

“Sarà venuta qui senza dirmi niente, dopotutto era nel suo stile. Per caso la sua collega si chiamava Marta Salimbene?” Parlavo meccanicamente senza allentare la tensione che mi friggeva dentro, costruivo caotiche sequenze dolorose, vedevo Giorgia in camice bianco al capezzale di Arturo, pronta ad assisterlo in tutti i modi.

“No, si chiamava Lucia, Salimbene Lucia. Ho capito a chi si riferisce, Marta la cantante lirica. Ma non sono nemmeno parenti, cioè non erano. Lucia veniva da tutt'altra parte, da Castelchiaro.

“Ah, da Castelchiaro. Da tutt'altra parte, certo.” Smaniavo. “E' tardi, scusi ma devo andare.”

“Sa invece una cosa? Ora che ci penso, a proposito di Milelli era proprio lei quella che lo ha curato quando si è fratturato la spalla. Una bella fortuna ha avuto, il suo collega. Servito e riverito.”

Lo stomaco smise immediatamente di stringere.“Servito e riverito?”“Ovvio. Pensi che se non era per la vocazione ad assistere i malati avrei

detto che si era innamorata di lui. Quante attenzioni, quante. Ma Lucia era in gamba con chiunque, povera donna. Al livello suo c'era soltanto Giorgia, può credermi.”

“E' morta giovane?”“Un incidente, fu investita all'uscita da qui. Trentott'anni o trentanove,

credo.”“Una ragazzina.” “Comunque quando Milelli si fece male Giorgia ancora non lavorava

da noi, ora mi ricordo. Giorgia prese il posto di un collega di Lucia, un volontario, e lui mi è rimasto impresso perché non poteva vedere Milelli, ogni giorno era una lamentela. Giorgia è arrivata qui dopo, se dopo un mese o due o quanto non so dirlo.”

Ebbi un cenno di capogiro. Sospirai.“Ah, visto. Abbiamo risolto!” Mi sentivo ridicolo. Lui accompagnò la

mia euforia con un tono simile.“Risolto!” Poi si ricompose. “Arrivederci, sono in ritardo anch'io. Mi

saluti Giorgia, se la vede.”“Forse la vedrà prima lei, o soltanto lei.” Ero rinato.

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Quella sera l'ennesimo sconforto per la mia situazione emotiva disastrata era durato poche ore, giusto il tempo per cenare con Silvia e mia madre e per divagarmi con Ivano, malgrado fosse un po' intontito per qualche linea di febbre. Alle undici mi era rimasto il solito indefesso senso di sconfitta ma mordeva poco. La coscienza aveva coltivato anche altri pensieri fino a quell'ora, puntando verso direzioni più vitali. Ad esempio si era soffermata sull'infermiera defunta, edificando le prime connessioni con Milelli.

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Il sole abbastanza promettente adesso intiepidiva l'aria, era l'ultima domenica di febbraio. Arrivai al cimitero di Castelchiaro intorno a mezzogiorno. Lungo il viale che portava al cancello le mimose erano esplose anticipando di poco i mandorli turgidi di gemme. Non sembrava un giorno festivo, pochissimi visitatori si aggiravano tra i tumuli. Due gemelline vestite di bianco facevano i capricci puntando i piedi, la madre tentava di smuoverle. Il padre era più avanti, ammiccava dietro a lunghi baffi ondulati. Poi si inchinò a peso morto vicino a un lastrone con pochi fiori secchi.

Cercavo l'eventuale tomba di famiglia dei Salimbene. Avevo temuto di perdermi in una miriade di lapidi col medesimo cognome, invece non ne vedevo neanche una. Camminando per la terza volta nel vialetto di mezzo, dopo un quarto d'ora di inutili giri, fui colpito da una piccola divinità greca di legno. Stava nascosta dietro al colonnato che circondava una tomba imponente. Era appoggiata direttamente sul suolo, ai piedi di una lastra marmorea frugale. Un bouquet di fiori freschi copriva il nome sulla lapide, ma il cognome era quello cercato. Spostai l'offerta recente e comparve il nome giusto.

Mi chiesi dove avessi trovato la voglia di recarmi fino a Castelchiaro, ora che la perlustrazione era finita e sostavo di fronte a una comunissima tomba. Ricordai la smania successiva al risveglio; quella domenica il vuoto interno si era fatto sentire più del normale e avevo deciso di scuotermi subito, agganciandomi al primo stimolo che si fosse presentato. Lo stimolo vincente era stata la curiosità di apprendere il volto della compagna di Milelli, la voglia di conoscere qualcosa della vita del mio collega attraverso un epitaffio. Una serie di fantasie mi era balenata davanti ancor prima di aprire bene gli occhi, dunque avevo deciso di attivarmi senza indugi. Se non altro avrei affogato il torpore di una giornata altrimenti anemica.

Purtroppo non c'erano fotografie, mentre una breve frase confermava i dati in mio possesso elogiando la sua virtù, dono divino, di sanare e confortare i malati. Starnutii quattro volte di seguito secondo il copione dettato dall'allergia preprimaverile, anche se incolpai soltanto i crisantemi che olezzavano a venti centimetri. Come per sfida mi inchinai su di loro e odorai a lungo. Notai che il fiocco verde era simile a quello dei fiori che comprava Giorgia, e non soltanto il fiocco. Analizzai la fattura della carta colorata, il nastrino, l'etichetta. La somiglianza aumentava. Supposi che un grossista distribuisse composizioni di quel tipo ai negozi di tutta la provincia o quasi. La congettura crollò mentre finivo di leggere l'indirizzo. Si trattava del fioraio di Perla, l'unico nel paese.

Tuttavia non mi lasciai andare, un freno saldo mi tratteneva. Riconoscevo che era azzardato collegare quei fiori alla presenza di Giorgia lì. Quanto meno avrei dovuto chiedere conferma al negoziante, chiedergli se fosse passata da poco. Contemporaneamente programmavo di tornare nel cimitero per aspettarla, forse mi sarei imboscato per poi farle una sorpresa,

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forse invece dovevo recidere senza indugio, recidere i germogli illusori di una mente confusa come la mia. Ma più minuti passavano e più i germogli crescevano. Non avevo la mente confusa, dedussi con sempre maggiore certezza. O meglio, dubitavo della provenienza dei fiori, ma non potevo dubitare di un sentimento magnifico ristabilitosi con fermezza solare. Coniavo emozioni uniche e inconfondibili, palpitazioni vere di un cuore memore. Lo sciame di idee ora svaniva, rimpiazzato da un desiderio attanagliante, un misto di sessualità di schiavitù fisica di abdicazione totale, Giorgia mi abbagliava e non potevo fuggire altrove.

Presi il cellulare, chiamai quel numero che avevo rimosso dalla memoria della scheda ma non dalla mia. Anche ora divenne occupato dopo pochi squilli. Stavolta il colpo allo stomaco fu assai più fondo di quelle cinque-sei volte in cui avevo provato a contattarla senza dare troppo peso al gesto, come per gioco. Regolarmente avevo previsto la reazione di spegnere l'apparecchio, si era trattato di cinque-sei esperimenti uguali. Avevo sofferto solo in minima parte, forse un po' di più soltanto una volta, per dieci minuti al massimo. Ma oggi era diverso, un colpo tremendo. Mi uscirono lacrime a fiotti seguite da conati per pronunciare il suo nome, e finalmente urlai quella parola sulle mani che mi serravano il viso.

Fui magnetizzato dalla casa a Perla, decisi di recarmi lì nella speranza di trovarci Giorgia. Semmai avrei ripiegato sulla casa dei suoi, avrei chiesto di lei al signor Vitaliano, mi sarei sfogato provocando compassione e qualcosa sarebbe successo. Ora correvo sulla statale, lo sportello era chiuso male e mi vibrava nell'orecchio, l'umidità sul vetro nascondeva parte della visuale. Pensai che valeva anche la pena di morire sbattendo addosso a un tronco, per una causa giusta come quella di adesso, così nitida, così semplice e trascinante. Mi biasimai quando per poco lo specchietto destro non sfiorò il guardrail, ritrassi il piede dall'acceleratore come per un'ustione. Seguitai a velocità moderata, col fiato corto, desolato per non saper sostenere la parte dell'eroe romantico fino in fondo. Il tempo volò, inchiodai sotto casa di Giorgia verso l'una e un quarto.

Il giardino era irriconoscibile, foglie e brandelli di fango si ammucchiavano in disordine coprendo una buona parte del selciato. Riconobbi la cesoia che avevo usato qualche giorno prima dell'addio, giaceva ai piedi del solito alloro dove usavo riporla quando non pioveva. Sembrava che non ci fosse stata più alcuna attività dopo la mia dipartita. Presto mi accorsi che non era così, quando spinsi senza successo la chiave nella serratura lucente cambiata da poco. Ebbi la conferma che oltre al mio carattere Giorgia considerava difettoso anche il senso etico; o almeno dubitava che sapessi uscire sconfitto senza oppormi con aggressività. Mi fece più male quella serratura nuova che tutte le incomprensioni maturate durante la convivenza.

Una voce di donna anziana mi avvisò dall'altro lato della strada.“Non c'è, non c'è! E' tanto che non si fa vedere!”

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La puntai, ricordai di averla incrociata alcune volte quando mi svegliavo troppo presto e andavo a lavorare in anticipo. Doveva essere una contadina, immaginai che usasse discorrere con Giorgia a un orario fisso. O magari era una cliente di vecchia data.

Cambiò tono, mi parve infastidita. “Oh. E' lei.” Riprese a camminare subito. La lasciai andare via. Tornai in macchina

demotivato, lanciai la chiave e tutto il portachiavi addosso a un cassonetto di plastica e misi in moto. Imprecavo, facevo fuoriuscire le frasi più grevi ma agivo così soprattutto per terapia cosciente, come se avessi dei grumi di pus da dover canalizzare ed espellere. Eppure non funzionava, adesso l'ira cominciava a lievitare senza più controllo, avrei voluto staccare il volante e fracassare i vetri con pugni e calci. Attraversai la piazza centrale furioso, mi fermai davanti all'erboristeria. La saracinesca era leggermente sollevata, scesi dalla macchina in silenzio cercando di percepire i rumori all'interno. Sentivo una radio a basso volume e ogni tanto qualcosa come pagine sfogliate. Presi la maniglia e alzai la serranda con immediatezza violenta, provocai uno scroscio metallico che rimbombò a distanza. Mi apparve il padre di Giorgia con una mano sul petto, ansimante di spavento. Apriva la bocca ma non era in grado di spingere fuori aria per comunicare, stava in piedi accanto alla sedia della cassa. Dell'impeto che avevo non restava nulla.

Passò qualche secondo. Finalmente il signor Vitaliano parlò, a stento.“Che vuoi? Come ti sei permesso?”Tremavo e non trovavo le parole. Il suo tono crebbe assestandosi su un

livello di attacco.“Come ti sei permesso! Col rischio di farmi crepare, delinquente!”Quell'aggettivo mi stimolò a innescare un abbozzo di risposta.“Delinquente no. Ma ho sbagliato, lo ammetto. Però un motivo c'è, io

ho bisogno di sapere che fine ha fatto Giorgia. Io sto male!”“Che fine ha fatto Giorgia!” Guardò in alto desolato. “E lo chiedi a me.

Se lo sapessi starei meglio, anzi tornerei a vivere! Il colpo che mi hai fatto prendere non è niente in confronto.”

Mi avvicinai al bancone aspettando un prosieguo. Si sedette, era sudato.“Se sapessi dove sta avrei finito di soffrire. Mi chiama una volta al

giorno dal telefonino, due volte quando le gira. Ma da dove, questo lo sa Dio. Mi dice che vuole stare tranquilla, che si sente nel giusto così. Non era vera la storia di mia cognata, è andata da lei solo i primi giorni, aveva premeditato di fuggire via anche da lì. Dice che ha bisogno di riflettere, di capire, brava Giorgina. Bacio papà, un bacio a mamma, oppure bacio mamma e saluta papà, ecco i nostri rapporti. Io a chiamare i carabinieri mi vergogno, non voglio che diventi un affare pubblico. Qui in paese sanno che è partita per una vacanza, questo è ciò che racconto. E posso solo restare in attesa, io e mia moglie possiamo solo attendere.”

Mi guardò anticipando la domanda nei lineamenti inteneriti,

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comunicava un cenno di speranza traballante.“Tu sai dov'è? Sai qualcosa di più?”Feci segno di no con la testa. Pensai ai fiori, ma preferii avere una

conferma dal negoziante prima di illudere il signor Vitaliano con un indizio falsificabile.

“A cosa stai pensando? Lo sai dov'è, lo sai!” Ora mi odiava, ne ero certo. Lo affrontai con durezza voluta.

“No, non so nulla! Invece sto pensando a come fare per avere qualche notizia, è inutile che pensi male di me. Ma lei piuttosto, non sa niente della serratura nuova?”

“La serratura non c'entra. Mi ha chiesto lei di cambiarla durante una di quelle telefonate di dieci secondi.”

Era imbarazzato, respirò ampiamente. “Aldo, pensavo che almeno quella questione fosse archiviata. Levatela

dalla testa, mia figlia. Prima ho fatto male a chiederti di lei, è chiaro che tu sei all'oscuro di ogni cosa.”

Ci lasciammo senza saluti. Prima di uscire mi ero voltato per scusarmi dell'irruenza ma fui interdetto da un lamento singhiozzato, crescente. Lasciai il signor Vitaliano con la testa posata sulle braccia conserte.

Giunsi presto dal fioraio. Il titolare non c'era, due sostituti non seppero dirmi nulla. Redassi un probabile percorso di Giorgia, immaginai che avesse deciso di passare a Perla dai suoi, e che per una ragione sconosciuta si fosse tirata indietro all'ultimo dirigendosi al cimitero di Castelchiaro. Malgrado ciò aveva lasciato una traccia ben marcata, il fioraio poteva testimoniare. D'altra parte però l'ufficiosità della crisi di famiglia era tale da non allertare nessuno al di fuori dei pochi intimi; per il fioraio vedere Giorgia sarà sembrato un fatto comune, dedussi.

Oltre al mistero della non visita ai genitori realizzavo che il mio ragionamento faceva acqua almeno in un altro punto. Non capivo perché Giorgia avesse scelto di comprare i fiori proprio lì. Presso il cimitero avrebbe sicuramente trovato un chiosco aperto. Mi rendevo conto di quanta testardaggine stavo mettendo nel pretendere che quel mazzo di fiori provenisse proprio dalle sue mani, eppure non riuscivo a concepire un'alternativa. Razionalmente le possibilità erano innumerevoli, ma qualcosa di diverso dal motore logico mi faceva convergere a una sola persona.

Mentre tornavo in città le parole del signor Vitaliano si affollavano in crescendo bombardandomi i pensieri. Rivedevo la mia giornata come il clou del fallimento; mi ero scapicollato a Perla in seguito a un'iniezione ormonale, avevo preso qualche pugno nell'anima e poi via, di corsa da mia madre e mia sorella per medicarmi. Avevo anche rischiato di provocare un malore a un uomo già indebolito per conto suo; ripensavo allo svolgimento dei fatti e mi nasceva un senso di putrefazione e pena mischiati.

Poco prima di raggiungere la periferia il cellulare mi comunicò un

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messaggio. Accostai. Era Maurizio, mi chiedeva se avevo passato un fine settimana in pace. Volli sentire la sua voce, lo chiamai. Gli raccontai gli ultimi sviluppi, lui mi disse di farmi forza. Condimmo la chiacchierata con i nostri usuali schemi di battute malgrado non funzionassero più come una volta; gli sketch necessitavano di essere rimaneggiati con qualche novità comica, ma di recente a me non veniva nulla e contagiavo anche la produttività di Maurizio. Alla fine del breve scambio comparve la voce di suo figlio, chiedeva il cellulare per parlare con me.

“Pronto Aldo, ciao! Ti posso rubare un decimo di secondo?”“Ciao, Raffaele. Rubami quanto tempo vuoi, ladro di minuti.”“A parte gli scherzi, l'altro giorno mi sono visto con mio cugino

Sandro. Non ho capito un gran che della storia di un suo compagno che ti ha conosciuto davanti scuola, però Sandro mi ha ordinato di portarti le sue scuse. Dice che ha fatto fare la figura del deficiente a quell'amico, e dopo gli dispiaceva.”

“Sì, ma non doveva preoccuparsi così tanto. Non ha detto nulla di speciale, solo qualche parola ironica. Salutamelo e digli di non crearsi troppi problemi. Ciao, non attaccare, passami papà.”

“Ma che ci facevi lì?”“E' una storia lunga, e poco interessante.”“Ma per caso quel ragazzo è Milelli? Sandro non me l'ha voluto dire.”“Avrà avuto le sue ragioni. Io cosa posso risponderti, parla con Sandro,

no?”“Allora è Milelli, tanto l'avevo capito. Il libraio.”“Eh?”“Il libraio, quello della biblioteca. Che soggetto. Se è quel ragazzo che

ho in mente io farebbero bene a prenderlo in giro a ripetizione. E' proprio un tipo strano, ma strano forte.”

“Perché l'hai chiamato libraio?”“Perché da piccolo era fissato con la biblioteca dello zio, andava

dicendo a tutti che era la più grande del mondo e che solo lui sapeva dove trovarla. Era fissato con questa biblioteca, tante volte appena apriva bocca qualcuno lo picchiava, prima per scherzo e poi per davvero. E lui cominciava a gridare che lo zio era uno scrittore, che aveva scritto volumi e volumi di invenzioni e di racconti. Lo chiamavamo il libraio, appunto, e ancora adesso gli è rimasto il soprannome. E pensa che sapeva leggere malissimo, peggio di tutti.”

“Forse quel posto esisteva sul serio, no? Magari lui ne era veramente entusiasta e aveva gonfiato un po' la cosa, magari era solo qualche scaffale con un po' di libri. Sai, Raffae', da ragazzini si viene affascinati facilmente.”

“Aldo, vuoi sapere che cosa esisteva sul serio? Quel rudere della casa di suo zio, ma ci vuole una bella fantasia per trasformare una casaccia puzzolente in biblioteca. Le poche volte che ci siamo entrati non si vedeva nemmeno un libro in giro. E lo zio stava sempre in cucina col grembiule a

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pelare patate. Se quel ragazzo è Milelli nemmeno dovrei portarti le scuse, Sandro si pente troppo facilmente. Io non mi pentirei di sfotterlo, mai e poi mai.”

“Passami papà, ciao.”Maurizio era infastidito per l'attesa. Sgridò il figlio contenendosi. In

due minuti concludemmo la conversazione, ci aggiornammo a un incontro serale da definire meglio.

12

Nel museo di Gaglianello cominciava a spargersi la voce che un custode era ricoverato in città per gravi problemi mentali. I più giovani si stupivano in maniera prevedibile, mentre la gran parte di coloro che conoscevano Milelli da tempo si era allineata con Miniati, sia schernendo Arturo che attaccando vigliaccamente Sorice. Aspettavano sornioni la staffilata del soprintendente. Molti di loro non conoscevano affatto la storia dell'aumento dei capiservizio da tre a quattro, né il resto; nutrivano un'antipatia di tutt'altro tipo per Sorice, un istinto naturale di rifiuto. Malgrado lui fosse impreciso e sbadato era il solo a possedere una spanna di humour e di sensibilità più della media. Questo da un lato lo aveva isolato, dall'altro aveva catalizzato la stima di persone come me. Non riuscivo a volergli male per il suo salto di livello illegale, c'era una sfera nobile che lo proteggeva insieme alla Fumasante, e sulla superficie di quell'involucro erano ben stampati disegni di umanità, tracce di sentimenti veri e forti; sentimenti di innegabile affetto verso un'anima impazzita e persa.

Al ritorno dal lavoro decisi di passare in ospedale sperando che mi facessero vedere Arturo. Incrociai il portantino già conosciuto, mi guardò passando oltre la percezione fisica, presumibilmente. Sembrò collegare la mia presenza al ricordo e all'attesa di Giorgia. Non gli dissi nemmeno buonasera. Raggiunsi lo stanzino della caposala, chiesi di Milelli.

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“Mirelli? Non c'è, mi sembra.” La donna scandiva un elenco di nomi su un foglio verdino.

“No, Milelli. Milelli Arturo.”“Ah. Allora è su. Primo piano, credo al reparto nuovo. Chieda su.” Mi

scrutò curiosa, la lasciai fare.Al primo piano domandai in infermeria. Un medico di circa

quarant'anni, alto ed esile, mi fece accomodare. “Prego. Lei è un parente del signor Milelli?” Aveva un filo di voce

dolce, le labbra invece urgevano carnosissime dietro un groviglio di baffi.“Sono un amico. Cioè, più che altro un collega di lavoro. Come sta

andando?”“E' statico. Dovremmo deciderci a inviarlo in qualche ospedale più

attrezzato, anche a livello di conoscenze e competenze specifiche.”“E' un giro di parole per dire ospedale psichiatrico, suppongo. Non

posso vederlo, suppongo in aggiunta.”“Il problema è che non sappiamo mai quale reazione possa manifestare.

Ad esempio ieri è saltato sulla schiena della caposala, mentre lei si stava allontanando dal lettino. Si è quasi lussata una spalla cadendo. Oggi invece sembra un neonato dopo la poppata, nessuno è più calmo di lui. Però passa ore e ore a dire stupidaggini, la prima notte che venne qui fece lo stesso e dovemmo cambiarlo di camera, gli altri due pazienti stavano dando in escandescenze.”

“Capisco.”“Mi perdoni, ma lei ha qualche alternativa escludendo la camicia di

forza e cose simili? Se ce l'ha me lo dica, sono tutt'orecchi. Guarire i malati è ciò per cui mi pagano e soprattutto è ciò per cui ho faticato una vita. Se non ne sono capace è sempre una sconfitta.”

“Qui non si parla di malanni fisici, lei lo sa bene. Guarire Milelli non rientra nei suoi compiti. Al massimo ciò che può fare è vigilare, al limite somministrargli qualche pozione per rimbambirlo un po', ma più di tanto...”

“Sa cosa mi colpisce di lui? Il linguaggio puro.”“Come, puro?”“Vede, le cose che dice possono essere anche stupidaggini, mettiamo,

ma le descrive con un lessico da professore universitario. Quando lo ascolto mi sembra di assistere a una conferenza. E' meglio lui di un dibattito in televisione.”

“Sì, la comprendo perfettamente. Quel poco che conosco di Arturo è compatibile al cento per cento con la sua osservazione. Calza proprio.”

“Poi invece all'improvviso cambia marcia e arrivano le grida, le testate, i gesti violenti con tutto il corpo. Ma anche in quei momenti non sembra che stia perdendo il senno. A me piuttosto pare che stia soffrendo di un dolore vero, non so come spiegare, un dolore nel profondo dell'anima.”

“Vuole dire che si comporta come qualsiasi altra persona?”“Sì. Con sentimento, con umanità, persino in quei momenti. E' un

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mistero. Un pazzo non farebbe così, io non sono psichiatra ma posso arrivarci come ci arriva lei. Milelli al massimo è pazzo a metà.”

“Come si chiama, doppia personalità?”“Troppo generico. Qui in ospedale non possiamo renderci conto bene di

che razza di caso sia, nessuno sa che pesci prendere. Come si comportava al lavoro?”

“Episodi violenti credo non si siano mai verificati. Ma il resto era osservabile quotidianamente. Frasi particolari, comportamenti inusuali... Scusi, lei in quelle frasi ci trova qualcosa di vero? O sono del tutto campate in aria?”

“Campate in aria no, non direi. C'è un non so che di poesia, per giunta. Il guaio di quelle frasi non è l'incoerenza, piuttosto è l'infantilità. Milelli parla come un bambino, vede una scritta sul giornale e dice che è un disegno fantastico, passa una persona e gli vuole toccare le guance perché vuole accarezzare l'ometto, sono parole sue. E non è omosessualità, fa così con tutti e senza eccitazione, soltanto col sorriso curioso di un bambino, ecco.”

“Sì, capisco. La sua descrizione non fa una piega e non aggiunge nulla di nuovo all'idea che ho di Arturo. Anche se la carezza dell'ometto mi mancava.”

“Se tutto il resto era osservabile quotidianamente, come ha detto lei, perché non avete preso provvedimenti prima? Magari sarebbe sparito ogni disturbo, Milelli poteva guarire. O almeno migliorare.”

“Io non avevo il potere di prendere provvedimenti. E comunque Milelli non destava così tanta preoccupazione. Un po' inefficiente era, ma poteva passare. E poi, ascolti, da cosa doveva guarire? Dall'infantilità, lei dice. Ma siamo sicuri che sia una malattia?”

“Non riesco a seguirla, abbia pazienza.”“E' un discorso lungo. Non è il caso di affrontarlo.”“E' un discorso filosofico, mi pare di capire. Ma qui siamo in un

ospedale e per l'elucubrazione c'è poco spazio.” Si era irrigidito scavando le arcate oculari. Ricambiai la sua tensione

con altrettanto irrigidimento dei muscoli facciali.“Sì, c'è poco spazio. Meglio che vada all'aria aperta.” Accennai un saluto col palmo, lui mi imitò.

Nei giorni successivi sopportai sempre meno l'immagine che il mondo si era formato di Arturo. Il colloquio con quel medico mi era servito per mettere i puntini sulle i, definitivamente. Avevo reagito in modo preciso alle sue parole difendendo la vittima e scoprendo pure qualche carta del mio modo di vedere la questione. Ora pensavo a quel comportamento con soddisfazione. Non mi dispiaceva affatto di mettermi in contrasto con i rappresentanti della scienza ufficiale, né con le voci della strada e con

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chiunque decretasse lo stato pericolante di Arturo in quattro e quattr'otto, senza andare in profondità.

In parallelo continuava a circolarmi dentro la voglia di Giorgia, nonostante il disastro recente. Le ceneri del sentimento scomparso erano rimaste calde contro ogni previsione, e inviavano segnali nitidi a una centralina ormai in tilt. Ero precipitato di nuovo. Sognavo di possederla, mi svegliavo eccitato e piangente. A tratti durante il giorno mi si annebbiavano i pensieri, cercavo una sedia per accasciarmi qualche minuto ma appena mi rilassavo venivo conquistato da una fame sessuale devastante, e in quel tuffo dei sensi imploravo di abbracciare lei, solo lei. Temevo che il vero pazzo fossi io, ancorato com'ero al ricordo dei fiori sulla tomba, convinto che fossero proprio un segnale della presenza di Giorgia. Un pazzo disposto a ripresentarsi nel cimitero, pur di rivederla. Infatti cominciai a frequentare quel luogo con periodicità esasperata.

Dopo quattro tentativi mattinieri la vidi lì, davanti alla stessa tomba. Stavo entrando dall'ingresso secondario per non insospettire nessuno, mi spostai di mezzo metro glissando dietro a un cipresso. La osservai mentre prendeva il vasetto metallico. Si inchinò con inerzia per poi scattare sulle gambe con il suo tipico gesto; si diresse verso la fontana scomparendo dietro a un filare di tigli. Approfittai per cercare un nascondiglio più vicino.

Quando ritornò le stavo a dieci metri circa; la vegetazione che mi celava era folta al punto giusto, intravedevo il disegno antico delle sue gambe fino alla schiena. Riconobbi un'onda di tremito che le viaggiava dalle braccia al collo. Mi esortavo a uscire allo scoperto ma ero trattenuto dal timore di provocare una fuga immediata. Cercavo un espediente per coinvolgerla, un trucco che mi assicurasse la sua totale collaborazione, non capivo più cosa dovessi fare. Soprattutto non sapevo più riconoscere il movente della mia presenza lì; se fosse stato esclusivamente un desiderio di contatto adesso sarei dovuto piombarle addosso, invece non agivo. In effetti mi aggrediva la convinzione di non contare più niente per lei; quel senso di inutilità mi paralizzava, rimanevo lì imbambolato.

Mentre rimuginavo fui sorpreso da un suo atto brusco. Aveva posato il vaso sul marmo, ma anziché riporvi i fiori nuovi li scagliò davanti a sé, pressappoco sull'epitaffio. Guardava la tomba, aveva estinto ogni sussulto irrigidendosi. Poi parlò, sibilando come quando si lamentava con me di qualche ingiustizia subita. Il tono era alto, sofferto.

“Perché? Perché! Non ce n'era bisogno, non dovevi!”Un impulso automatico mi estrasse dal cespuglio, ormai ero a pochi

passi da lei. Aveva ripreso i fiori ma li stringeva come per strangolarli. Continuava a gemere, ora meno irruente.

“Tutti questi anni, che sbaglio. Che sbaglio pensarti, ricordarti, portarti sempre il solito dono. E poi capire che sei una vipera!” Attaccò a piangere, lasciò cadere prima i crisantemi e poi tutto il corpo abbandonandosi sulle ginocchia. Allungai una mano per accarezzarla ma non seppi muovermi

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quel poco che annullasse la distanza. Tra i singhiozzi proseguì.“Hai vinto, avevi vinto, che bisogno c'era di infierire così? Non ti

bastava quello che avevi, maledetta, dubitare di me. Non ti sentivi sicura, non lo eri, che stupida! Con un uomo che ti amava così, stupida! Mi hai fatto troppo male con quelle parole!”

Si voltò, dopotutto aspettavo che accadesse. Abbassai lo sguardo vergognandomi dell'ovvio stupore che Giorgia manifestava. Attesi un segnale, giunse dopo diversi battiti fondi del cuore. Era assai diverso dalla mia previsione.

“E maledetto anche tu che mi perseguiti.”Mi trafisse, fui solo in grado di scuotere la testa corrugando la fronte.

In un attimo arrivò la domanda naturale, con più aggressività.“Che ci fai qui? Come hai fatto?”Mentre abbozzavo una risposta mi anticipò.“Maledetta Elisa, ha aperto quella boccaccia!”“Come, Elisa?” Arretrai di mezzo passo.“Fai finta di niente, che falso. Che mondo di falsi.”“Non sono falso.” La odiavo. “Cosa c'entra Elisa! Non la vedo da

un'eternità!”“E allora come fai a stare qui, sentiamo.” Tese le labbra con una

smorfia di saccenteria. “Per miracolo, vero?” Stava sudando. Anziché aprirmi volli capovolgere le forze in gioco attaccandola con un terzo grado simile al suo, anzi più duro. Lo facevo per un'elementare voglia di dominarla sessualmente.

“Tu piuttosto. Cos'è questa storia delle parole che fanno male? E la vipera? Ti ha morso, fammi vedere dove.”

“Cosa vuoi saperne, di me?” bisbigliò velocemente. Quel tono antipatico mi fendeva le parti più recondite. Per un associazione istantanea collegai la sua omertà al vecchio tormento del connubio con Milelli. Relazionai Giorgia a Lucia, Lucia a Milelli e senza alcuna base razionale individuai in Arturo l'uomo evocato poco prima tra i lamenti.

“Chi è quella persona che amava Lucia così, come dici tu? Sai che forse posso dirtelo io? Sai?”

“Maledetta Elisa!” Gridava trivellandomi gli occhi. Restavo calmo senza sapermelo spiegare. Mi espressi con un velo di ghiaccio.

“Ancora con Elisa. Gio', l'ultima volta che ho parlato con lei è stata la notte di capodanno, mentre ballavo con te. E non le chiederei mai niente, per niente al mondo! Scordatela questa ipotesi, se sono qui è solo farina del mio sacco. E quell'uomo forse lo conosciamo tutti e due, no?”

Si allontanò angosciata.“No! Non è come pensi. Vattene!” Era furiosa, corse via. Appena

scattai per inseguirla comparve il guardiano. Giorgia gli andò incontro, si fermò per dirgli qualcosa indicandomi. Ridussi la falcata tornando a

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camminare, nervosamente. Mentre lei si dileguava la figura massiccia in tinta scura procedeva spedita verso di me. Si fermò a pochi metri, sembrò abbaiare.

“Allora? Se ti vuoi sfogare ci sono le puttane, maiale. Torna qui e ti faccio passare un guaio.”

Mi mancò l'aria. Intanto lui concluse, ubriacandomi col tintinnio di un mazzo di chiavi legato alla cinta.

“Esci! Subito!”Percepivo la mancanza di connessione tra il turbine dei pensieri e la

stasi degli organi vocali, seppi esprimere solo futili movimenti delle mani come per scusarmi. Dietro al guardiano il viale vuoto confluiva al cancello principale. La piazzola antistante era deserta.

Mi avviai a testa bassa, superai la sagoma torva che intanto ripeteva con meno vigore le frasi già dette.

Guidavo accettando l'incursione delle lacrime, ogni tanto ridevo di rabbia atroce e mimavo l'invettiva del guardiano. Al bivio di Perla ebbi la lucidissima sensazione che non c'era motivo di svoltare eventualmente a sinistra per recarmi lì e recuperare qualcosa del passato, magari per riportare in quota il presente, non aveva più senso. Ormai quel paesino era defunto insieme a tutto l'albero genealogico di Giorgia, lei compresa, lo avvertivo di nuovo bene. Forse vivevo l'atto finale della tragedia; il filo era stato tranciato dalla frana di parole aspre di Giorgia, senza più appello. La proiezione animale verso di lei si era azzerata, un barlume di equilibrio sembrava tornare a governarmi. Temevo che in pochi minuti l'onda d'urto emotiva potesse sbaragliare quella tenue zona franca nella coscienza, quel gracile senso salvifico, liberatorio. L'onda però non arrivava. Invece sopraggiunse un nuovo stato, una percezione che alloggiavo dentro da giorni, da mesi, ma che ora iniziava a lievitare premendo. Misi insieme i miei pochi pezzi del collage di Milelli con quelli freschi provenienti dalle risposte di Giorgia; nell'intersezione dei due tipi di dato scorgevo l'embrione di una realtà più unitaria, più coerente anche se poliedrica, estremamente complessa. Milelli doveva essere entrato davvero nella vita di Giorgia, o forse stavo prendendo un abbaglio totale e l'uomo di cui lei parlava non era Arturo, poi però impastavo le mie informazioni su Lucia e sulla donna cantata nell'epigrafe a Blasoria, impastavo e non riuscivo a concludere, eppure sentivo di convergere. Ciò che mi animava non era più la voglia di recuperare Giorgia, assolutamente. Invece era curiosità limpida, desiderio bambino da soddisfare, era un tornare a correre nel querceto come da ragazzo cercando la tana di una volpe o seguendo la traiettoria dubbia di un usignolo di fiume, per scovarne la dimora. Era un sapore dimenticato da anni, un gioco del cervello fine a se stesso ma curativo, era voglia di completezza universale. La vita presente diventava mistero, favola,

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rompicapo, avventura, colore, sempre più. Ma c'era anche una componente di vendetta, me ne accorsi presto e mi

dispiacque. Scoprire le carte di Giorgia, riabilitarsi davanti ai suoi occhi e ai miei forzando e aprendo la cassapanca dei segreti, dovetti riconoscere che covavo nitidamente questa pulsione. Mi domandavo chi fosse Milelli per me. Un antagonista da mettere a nudo se non altro per prendersi la sola vittoria possibile, cioè la consapevolezza dei fatti veri e crudi? Oppure un ruscello enigmatico la cui sorgente si nascondeva ad alta quota, tra i ghiacci del tempo, tra le nuvole dense della pazzia prima latente e poi conclamata? Oppure cosa? Di certo non sarei riuscito a volergli male per intero, quand'anche fosse risultato vero che Giorgia lo aveva sostituito a me. A prescindere dal dubbio sul loro legame ero attraversato dalla solita inequivocabile corrente di fascino. Non era semplice antagonismo, anelavo a percorrere ogni riga del passato di Arturo.

Ero tornato di buon umore. Nella placenta di materia grigia assistevo alla crescita di pensieri gagliardi e affettuosi verso il mio collega. Continuavo a stupirmi della serenità raggiunta; l'ipotesi del sodalizio con Giorgia non scalfiva quel luminoso entusiasmo. Il mio essere gravitava intorno al pianeta del criptico custode di Gaglianello, di lì a poco sarebbe atterrato. L'emozione della discesa mi inebriava ma senza eccesso, tutto accadeva fisiologicamente. Sarei tornato a Blasoria presto, munito di una scala adatta e di un paio di scarpe da ginnastica.

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Avevo scelto una domenica troppo ventosa, ma una serie di piccoli impegni di lavoro si era insinuata nelle due ultime settimane, e l'appendicite di Ivano aveva portato via i pochi restanti sprazzi di libertà nei week-end.

Giunsi a Blasoria verso mezzogiorno. Mentre attraversavo la piazza centrale individuai Sandro, era seduto presso il bar con la bicicletta appoggiata a un tavolino. Gesticolava davanti a due amici come per imitare qualcuno, loro sembravano divertirsi. Tirai dritto. La strada che portava al benzinaio era fiorita di mandorli, la neve si era ritirata lasciando anonime sculture di ghiaccio agli angoli dei muri e nei fossi laterali. Il bosco che preludeva alla casa di Arturo era tornato verde, chiazzato dai primi germogli brillanti sui rametti degli abeti.

Avevo portato con me un paio di scarpini da calcetto comprati all'inizio dell'anno, praticamente nuovi. Lo stacco da Giorgia si era ripercosso ovunque e in particolare nell'attività sportiva; durante l'unica partita giocata con Giulio e il solito gruppo, a febbraio, ero finito in porta quasi subito perché non davo il minimo segno di vitalità.

Mi consolò il pensiero che adesso li avrei usati, malgrado covassi un timore invasivo per l'imminente gesto.

Parcheggiai nel solito posto, estrassi la scala e calzai gli scarpini. Mi avviai spedito, potevo sembrare un elettricista pronto a intervenire. Stazionai davanti al cancello, rilessi la dedica sul marmo. Guardai il fianco della casa, tornai sulle finestre senza vetro né persiane e quelle col vetro e le persiane sfibrate, guardai lo scheletro di mattoni che urgeva dalle tante fratture di intonaco, infine puntai le due sdraio. Una sembrava più indietro della volta scorsa. Misi in discussione la mia memoria visiva ma al tempo stesso postulai che un colpo di vento avesse fatto sobbalzare la struttura.

Camminai fino al noto punto di minor altezza dell'inferriata, posizionai la scala. Salii in un attimo, restai aggrappato alle sbarre con i piedi ancora sul ripiano. Appurai che sarebbe stato assai arduo portare la scala all'interno dopo essersi eventualmente avvinghiati in qualche modo all'inferriata. Le sbarre erano troppo fitte, avrei dovuto recuperare l'attrezzo alzandolo in qualche modo fin su. Capii di avere organizzato le cose a metà, scrutai le parti visibili del rustico per individuare una scala, non trovai nulla. Una raffica di vento mi fece vacillare più del previsto, gelai mentre i piedi

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scivolavano via dal ripiano, intensificai di colpo la presa sulle sbarre riuscendo a recuperare stabilità. Mi venne da ridere, guardai la porta metallica; era accostata come la prima volta che la vidi. Poco più giù notai un cumulo di tufi. Decisi che mi avrebbero aiutato loro a uscire, debitamente messi uno sull'altro in qualche modo che non volli prefigurarmi.

Il salto fu attutito da uno strato di foglie sedimentate dai vicini castagni. Non esitai a dirigermi verso la porta socchiusa, senza interessarmi affatto all'eventuale ingresso canonico sull'altro lato del rustico. Dovetti aprire con forza, provocai un cigolio aspro che si trasformò subito in una sequenza rapida di frustate metalliche vibranti.

Davanti a me si presentò una scena abbastanza vicina a quella che mi aspettavo. Si trattava di un magazzino con alcune botti sulla sinistra e vari arnesi appoggiati al muro destro, compresa una motofalciatrice in parte nascosta da vanghe e zappe. Il muro in fondo, a pochi passi, era l'unica cosa che non avevo saputo affatto immaginare. Arrivava fino a due terzi di altezza lasciando scoperta la parte superiore fino al soffitto basso. Ospitava una vecchia caldaia da cui si dipartivano quattro tubi che scavalcavano il confine proseguendo sul soffitto.

La luce si proiettava da una lunga grata a quadretti sopra alle botti. Grazie a quella sorgente sicura si era formato uno strato di vita vegetale tra le imperfezioni del pavimento; qualche piantina era persino fiorita. Nonostante la tipologia dell'ambiente un odore insolito, pastoso, esalava da una zona che non sapevo distinguere. Impiegai del tempo soltanto per catalogare quella percezione, mi spingevo nei ricordi per individuare qualcosa del genere. Finii per roteare attorno alle mattine passate a scuola, senza capire perché. Più annusavo e più i ricordi si mescolavano per disporsi in ordine diverso, ma scorrevo pur sempre le memorie del liceo o forse della scuola media. All'improvviso avvenne l'aggancio, fu tanto chiaro quanto amabile. Rividi mio padre che parlava con un negoziante di libri usati, eravamo chiusi nella sua bottega e fuori pioveva. Il profumo della carta si sposava con la mia emozione per l'inizio della scuola superiore. Quella dolce invasione nelle narici significava il futuro nel liceo scientifico, significava libertà adolescente, primavera interiore, decollo.

Era senza dubbio lo stesso odore. Mi avvicinai alla botte più grande ma apprezzai soltanto un riverbero sbiadito di vino. Dall'altra parte ispezionai ogni angolo ma l'unica conseguenza fu un graffio causato dai denti di un rastrello.

Guardavo la caldaia pressando la bocca sul braccio leso. Camminai fino al macchinario, la sensazione si faceva più nitida. Mi infilai tra il regolatore del gas e alcune vanghe, appoggiai le mani sul ciglio superiore del muro parziale e con un saltino restai appollaiato per pochi secondi, affacciandomi sul nuovo ambiente. Ebbi la risposta. Ai due lati di uno stanzone erano stesi libri e quaderni sovrapposti. Sembravano sistemati con un criterio preciso,

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occupavano tutto il pavimento ad eccezione di un corridoio centrale che terminava poco prima della porta in fondo. Lì era situata una scrivania di legno che sembrava dirigere i due cori laterali di tomi, come in una sublime sinfonia muta. La sedia era quasi appoggiata alla porta.

L'avvisaglia di un crampo mi costrinse a mollare la presa. Organizzai le idee per potermi introdurre nella sala attraverso il varco disponibile. L'impulso a uscire dal magazzino per cercare l'ingresso vero e proprio fu annichilito da una curiosità incalzante. Dopo un tentativo impreciso assicurai i piedi nelle fessure irregolari tra le pietre del muro, giunsi in cima e incurvandomi passai di là. L'odore mi investì.

Non sapevo da dove cominciare, mi avventai sui primi tomi a sinistra. Erano essenzialmente testi classici di etruscologia, ne conoscevo diversi. Riconobbi le edizioni precedenti di molte dispense universitarie su cui avevo studiato anch'io. C'erano perfino le due parti del corso di storia antica che mi avevano tanto stimolato.

Nel mezzo della fila il colore globale cambiava trasformandosi dal marrone scuro al verde e al giallo, scomponendosi in un collage di tinte che apprendevo con la coda dell'occhio. Quando misi a fuoco realizzai che si trattava dei quaderni, una quarantina o forse più, disposti come sul pavimento rialzato di una cartoleria. Si spingevano fino ai piedi della scrivania, la polvere li impallidiva. Trasmettevano qualcosa di delicato e innocente. Mi predisposi a ripercorrere le tappe dell'esperienza universitaria di Arturo; aprii un quaderno a caso ma inizialmente non seppi capire. Dopo alcune righe fui certo di quali tappe si trattava.

... e l'esistenza continua, con il solito dolore diffuso. Ho trentun anni più due giorni, i festeggiamenti mi hanno beffardamente logorato come di consueto. Mi ha logorato la speranza inutile di mamma, l'ottimismo tragicomico di papà, il sorriso incoraggiante (solo nelle intenzioni, non purtroppo negli effetti) dei miei fratelli. Sto precipitando, mi sono laureato con ottimi voti ma non conta, ho un lavoro fisso e prestigioso ma non basta, ho la salute ma non me ne accorgo. Il progetto editoriale sta entrando nel vivo, forse partorirò la mia prima opera tra breve, i colleghi mi stimano e lo sento forte e chiaro. Ma sto scendendo nell'abisso, questo lo sanno tutti coloro che mi conoscono una briciolina in più della media, tutti gli amici più intimi. Nessuno però vuole arrendersi alla verità che mi assedia, nessuno vuole smettere di accusare la mia inerzia, nessuno decide di cercare più in profondità il motivo di questo mio vivere balordo, di questo futile arrancare sempre più in solitudine e paura, sempre più a guisa di un moribondo. Trovati una donna, mi dicono, ma non sanno che la donna non è un cappotto per l'inverno, né una bevanda per l'arsura. La donna è di più, e non è detto che spetti a chiunque, e non è detto che la mia miserrima esistenza preveda un tale evento. Nessuno mi comprende sino in fondo, nessuno segue i ghirigori che la mia testa crea, nessuno sa ascoltare con

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semplicità la mestizia che sgorga da questa fonte inviolata. Ma che non mi seguano è il minimo; ciò che brucia è il tizzone del dolore endemico, solo mio, solo mio!

Per fortuna mi soccorre una zona salva del cervello, una parte ancora intatta e operosa. Per grazia ricevuta riesco a disattivare l'angoscia creando intervalli di pace sempre più estesi, in virtù di questo pronto soccorso. Riesco a desertificare le mie paludi nefaste, lì non crescerà più alcuna erba velenosa e i serpenti dovranno smettere di proliferare. Desertificherò sempre più aree di memoria malata, così fino alla disattivazione ultima dell'organismo. E rimarranno solamente le zone integre, qualora dovesse rimanere in piedi qualcosa. Poi forse mi adopererò per far tornar l'erbetta nel deserto.

Sì, l'esercizio dei disegni comincia a prendere il largo, ormai riesco a trasformare in variopinte figure tutto lo schifo di volgarità spruzzate su vetri, su pareti, su statue, e perché no, nei pietosi manifesti politici. Così l'odio per i vandali mascalzoni e i farabutti finti deputati si attenua, a volte scompare. Diventa emozione neonatale per una scoperta originale. E la sera, prima di addormentarmi, l'esame di coscienza è più scorrevole e il morso della colpa perde presa, se non altro. I concetti murali legati ai genitali, agli escrementi e al resto si polverizzano all'istante, e al posto di quelle lettere turlupinevoli che vorrebbero alludere a un membro virile o ad una deiezione solida o a quant'altro, al posto loro emerge una macchia colorata fantastica, uno svolazzo innocuo da percorrere con occhi ignari di fanciullo. Un disegno, ecco fatto, la C non significa più nulla, e con lei tutti gli altri aminoacidi che compongono le orrende parolacce di cui si nutre l'uomo alfabeta. Riesco a riciclare l'odio, oh che bel dono, questo sì.

Invece l'esercizio dell'ascolto musicale ancora non si avvia. Ancora stento. Le parole fabbricate nei luridi alvei boccali di tanti individui restano purtroppo ancora vere e proprie parole, non so dimenticare la loro semantica per trasformarle in suoni ingenui, fluidi, eventualmente armoniosi. E dunque esse continuano ad assalirmi, nel pullman come nella necropoli come qui in paese come ovunque. Parole approssimative, meschine, laide, ma pure pungenti, bollenti, sozze. Mi aggrediscono e resto incatenato dalla loro tortura. Così l'odio torna a divampare e c'è il rischio che io reagisca male, meglio che non accada altrimenti semino nuove inimicizie con le mie smodate arringhe reazionarie. Ma voglio continuare ad esercitarmi, continuerò a pronunciare le mie parole folli mescolandole a frasi di senso compiuto, sperando che prima o poi gli elementi neutri coinvolgano le cellule semantiche, e che tutta la frase regredisca per colpa di quegli ingredienti aggiunti, così da trasformarsi in pura sonorità, come fosse parte di una lingua sconosciuta. Chi non conosce il francese spesso dice che tale lingua ha un bel suono, lo direbbe persino colui che dovesse ignorantemente ascoltare una frase che riguarda la condanna a morte di un uomo. Voglio arrivare a dire la stessa cosa della mia lingua madre, voglio

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tornare ignorante, finalmente bambino, ma a comando. Le parole che funzionano meglio sembrano essere patalusio, calizzi,

pilizzi, misidoria, crotile, fralicci, pisicura, stotile, ma avrei decine di altri esempi. Anche frillacca, mretile, mazzagravio, ulini. Comunque già il più semplice esercizio mi riesce arduo. Quando ad esempio dico oggi mangio patalusio la pilizzi minestra crotile non riesco ancora a spogliare le parole di senso compiuto, non riesco a non vedere la frase come una combinazione di due insolubili sostanze. Continuerò imperterrito, posso migliorare, oh come son convinto che posso! Invece con le parole scritte quest'esercizio ormai funziona a menadito, l'applicazione delle tecniche di base mi ha portato a buoni livelli. Drogar le scritte inframezzandovi segni anonimi è stata l'arma vincente, in quel caso. Oggi mi sembra così banale che LATTE possa diventare una mera composizione di linee astratte; ricordo le difficoltà e i fallimenti nel tentar di dimenticare la vocalità tipica della E, oppure il drastico attacco della T, per non parlare della liquidità che avvinghiava la L, ma ora ho vinto. Ora ogni lettera si è impoverita e urla, urla di voglia di essere capita, mentre ormai io la capirò solo a comando, solo se deciderò di darle vita al momento opportuno.

Dalle lettere passerò alle persone, sì passerò proprio al genere umano. Se qualcuno si comporterà male saprò trattenermi dall'odiarlo, dal leggerlo col mio alfabeto fatto di meschina morale personale. Non lo leggerò, non lo interpreterò, lo lascerò agire senza dare alcun significato ai suoi gesti. Quell'uomo non sarà nient'altro che un meccanismo animato, un automa di carne che popola lo spazio ambiente. Non lo attaccherò decifrandolo. Interagirò, invece. Interagirò con la medesima curiosità bambina che mi pone innanzi alle lettere snaturate. Smetterò di capire, di dedurre e di emettere sentenze.

Trentun anni, i ricordi della mia vita corteggiativa mi ronzano dentro, mi rinfacciano l'appassimento attuale. Corteggiavo, inseguivo, credevo. Ma chi corteggiavo? Cosa inseguivo? A quale verità credevo? Oasi di breve sosta, illusioni di un ventenne che si fidava delle strutture interne ed esterne: la sua psiche e la società. Per poi invece capire che la società è solo un vecchio motore che continua a girare triste triste centellinandosi la benzina, e che la mia psiche è attaccata da funghi sconosciuti che nei casi peggiori si tramutano in ulcere, in necrosi, in cancri. Non c'è chemioterapia che tenga, c'è però un antidolorifico potente, un portentoso ritrovato senza controindicazioni. Eccolo qui, snaturerò le mie funzioni logiche, spegnerò l'interruttore sempre più spesso, entrerò sempre più a lungo in un'armoniosa e calma favola. Migliorerò a vista d'occhio le competenze raggiunte, la smetterò con quest'odio per il mondo così diverso da me. Ma cosa vuol dire diverso da me? Anche dentro di me c'è una parte del mondo, anche qui dietro allo sterno spavaldo c'è un pezzo di amore universale e di aspirazione a vivere. Dunque si tratterà soprattutto di una lotta interiore, sarà guerra sul fronte insieme a guerra civile, sarà un convergere verso

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l'azzeramento del dolore rischiando di annichilire tutto ciò che circonda di gemiti il dolore, perché il cancro è così. Strapparlo via non ha più senso, se ti ha invaso dappertutto. Mi resterà poco, addosso, seppure riuscirò a sopraffarlo. Vorrà dire che al limite mi resterà il deserto infinito e morto, senza giardinieri che tornino a seminare nuova vita.

Un altra direzione da prendere potrebbe essere l'inquadramento di scene quotidiane da una nuova angolazione, così da rendere possibile...

Chiusi gli occhi, provavo una chiara sensazione di dominio. Era come aver planato su una valle sicura, per poi atterrare senza la minima perturbazione su una terra ospitale. Le connessioni tra Arturo e Giorgia mi sfuggivano del tutto, ma per l'ennesima volta non riuscivo a provare antagonismo verso di lui. Percorrevo due strade parallele, una fatta di entusiasmo incosciente e l'altra intrisa di nebbia e ricordi marci. Ma la seconda strada era piuttosto un viottolo quasi inesistente. Esaminai il tipo di pulsione che mi faceva proseguire nella ricerca; non rinvenni il minimo senso di vendetta, nemmeno di rivalsa. Tutte le correnti negative si erano estinte dopo essere saltato giù dal muro. Il profumo di carta forse mi aveva inebriato, forse invece ero semplicemente attratto dal ritrovamento odierno che valeva più di mille scoperte di tombe etrusche e più di altrettante sconfitte amatorie. Mi sfuggiva anche il senso di ciò che vedevo, soprattutto non ero in grado di collegare il presente di Arturo con il passato nel rustico qui a Blasoria, nella biblioteca che il nipote di Maurizio aveva evocato con noncuranza impressionante. Mancava una striscia di tempo tra due epoche ben distinte, e in quella striscia doveva esserci abbastanza informazione per giustificare l'intero destino di un uomo. E soprattutto quella striscia doveva contenere l'esistenza di Lucia, incastrata chissà come nell'altra esistenza. Ebbi di nuovo la chiara impressione che nella vita di Arturo si fosse innestata una variante non voluta, lungo la strada razionale e sofferta che delineavo sempre meglio. Arturo era vittima di una depressione cronica crescente, questo si evinceva benissimo. Nelle righe lette c'era un'anima che scalpitava, un'anima sicuramente ipersensibile e provata, ma non rintracciavo alcun germe di pazzia. Anzi, la bellezza solida dei ragionamenti dimostrava una forza interiore unica. Arturo dentro era una torre Eiffel che sfidava i più duri temporali parigini, un gigante che lottava contro le tempeste fabbricate in proprio, grazie al motore geniale che gli frullava in testa. Possibile che una struttura così resistente si fosse spezzata da un giorno all'altro, o dopo un metodico logorio durato mesi, anni? Troppo banale, eppure non sapevo formulare alternative.

Presi un quaderno in fondo alla fila, a pochi centimetri dalla scrivania. Lo aprii nel mezzo.

Esercizio 24: rotazione snaturante

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All'inizio può essere svolto ad esempio usando le scritte a bassorilievo sui tombini o sulle coperture stradali del condotto del gas, o dell'elettricità. Camminando e fermandosi nei pressi di tali strutture, supponiamo che la parola GAS appaia ruotata di novanta gradi in senso antiorario. Il passante medio in genere predispone istintivamente l'apparato visivo così da sintonizzarsi sull'angolo dato, 'ruotando la mente' così da leggere effettivamente la parola GAS. L'esercizio allora consiste nell'astenersi dall'attivare tale rotazione mentale, così da lasciare immobile la sequenza verticale di lettere, in modo che la S risulti un'onda (ad esempio), la A un qualcosa di appuntito verso sinistra, infine la G un contenitore non del tutto coperto, visto che c'è un pertugio sulla parte sinistra del 'coperchio'. Mano a mano l'interpretazione a mezzo di esempiucci concreti come il coperchio dovrà lasciare il posto alla pura accettazione del simbolo astratto. Si provi anche a spostare il proprio corpo per portarlo proprio di fronte alla scritta, cioè ruotando di novanta gradi antiorari. Si dovrà essere capaci di preservare l'anonimato dei simboli, senza ricadere nella lettura canonica. L'esercizio può estendersi, con una piccola modifica, alle insegne verticali; più esse sono lunghe e più ovviamente la difficoltà cresce. Ad esempio

H C P (o - - -> O I I(o - - -> T N Z

E E ZL M E

A RIA

dovranno esser lette dall'alto in basso, ma supponendo che l'osservatore sia ruotato di novanta gradi orari. Così la H apparirà come due sbarre orizzontali connesse da un tratto verticale, la O resterà una palla, la T diverrà una sbarra orizzontale anticipata da un tratto verticale a sinistra, eccetera. Tornando in posizione normale si dovrà come di consueto 'resistere' alla tentazione di leggere canonicamente.

Con le lettere minuscole la difficoltà dell'esercizio cresce sensibilmente, perché la linearità dei tratti è concentrata sulla direzione alto-basso, sicché l'occhio vorrebbe a tutti i costi rispettarla, rispettando così la lettura verticale. Peggio ancora per le lettere minuscole scritte a mano. Qui i tratti di connessione tra un simbolo e il successivo fanno della parola un unico serpentone che coinvolge la mente forzandola più che mai a orientarsi dove dice lui, come dice lui. Provare dunque - come primo esercizio - a trasformare una sequenza di e in una molla come quelle che si disegnano a scuola o all'università durante le lezioni di fisica. Trasformare nuovamente la molla nella sequenza di e, poi mescolare la e con nuove lettere,

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deformando la molla. Si tratta di un semplice suggerimento, assai poco approfondito.

Esercizio 25: drogaggio - ribaltamento - rotazioneQuest'esercizio richiede un foglio e una penna. Si scriva una parola

introducendo simboli casuali - non del proprio alfabeto - tra le varie lettere, o tra gruppetti di lettere. I nuovi simboli possono provenire anche da altri alfabeti, o consistere di numeri. La parola scritta inizialmente può non avere senso. Esempio:

ABWFLAD LDFA IOOTE .

Si guardi la sequenza provando a dimenticare gradualmente la fonetica delle lettere note, con l'aiuto dei simboli contaminanti introdotti.

La parola scritta inizialmente può altresì avere senso, e in quel caso i nuovi simboli saranno introdotti al fine di spezzarla:

N E C R O P O L I .

Si può altrimenti scrivere una lettera e la medesima ribaltata, oppure ruotata, così da prendersi gioco di lei stemperandone il significato fino ad annullarlo:

A A A N Z N Z N Z E E E .

Ci si abitui dunque alla democrazia dei simboli, si sciolga la tiranna semantica nel mare omogeneo delle illustrazioni prive di valore fonetico! Questo esercizio è il pane della disciplina, va mangiato spesso. D'altra parte moltissimi degli esercizi precedenti sono diramazioni del più elementare esercizio che abbiamo testé descritto.

Ci si può anche irrobustire con...

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Mi sentivo stanco. Ero concentrato da tre quarti d'ora, avevo letto diversi quaderni; adesso lo stomaco lanciava segnali tipici. Estrassi dalla tasca del giubbotto due panini, raggiunsi la sedia. L'aria umida cominciava a impastarmi i piedi, stringeva le caviglie. Appena mi sedetti fui distolto da un ritratto di donna attaccato sul muro in fondo, al termine dell'altra fila cartacea. Prima non l'avevo notato, ero saltato giù lasciandomelo alle spalle. Lunghi capelli castani gravavano su un volto rotondo, lunare, raccolto intorno a occhi marcati benevoli. Il corpo era piazzato, una tinta blu scura confondeva i rilievi ombreggiati del busto spargendosi ovunque. Le braccia bianche, nude fin sopra al gomito, comunicavano sicurezza. La figura si

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spingeva fino al ventre senza slancio né evidente femminilità, ad eccezione del contorno dolcemente curvo dei fianchi alti, pronunciati.

Mentre mangiavo fissavo l'opera. Pensai che non fosse casuale il senso di protezione che essa inviava sull'intera teoria di libri e quaderni ai suoi piedi.

Dopo il primo panino mi alzai e presi uno dei quaderni della nuova fila, aveva dimensioni più grandi degli altri accanto. Lo aprii a metà.

Cara Lucia, voglio ora raccontarti un altro episodio dello stesso gruppo, perché tu possa conoscermi una goccina in più, perché tu possa comprendere quanto sollazzo mi hai portato col tuo arrivo. Anzi non sarà la traccia scritta di un episodio, bensì il resoconto di un'epidemia mentale che andava dilagando in me sempre più furibonda, sempre più accesa.

Ero disperato, ciò si può dire senza paura di tradire la verità con una parola grave come quella usata. Disperato, sì, forse mancavano due mesi al nostro incontro. Due mesi, ma io non potevo saperlo, io non potevo vederti arrivare all'orizzonte e il mio cuore vagava, servo delle pulsioni macinate dal regno cerebrale indomito. A dire il vero il regno cerebrale era stato fiaccato dalla metodica applicazione dei tanti esercizietti per scacciare la tristezza (dai più piccini a quelli professionali) ma l'antidoto aveva purtroppo manifestato il suo difetto. Avevo creduto di poter addormentare il dolore, ma ora il sonno si era impadronito di tutta la mia volontà. Ora ero un perenne addormentato, o peggio un sonnambulo. Ecco cosa mi capitava, amore mio, sempre più di frequente.

Per evitare di soffrire davanti alle scritte sui muri rimanevo analfabeta per ore, in una lotta sfinente tra il voler tornare allo scoperto e il chiudersi restando bambinetto ma rischiando. Rischiavo di non saper più leggere cartelli o avvisi o divieti. Camminavo per la città chiuso dentro a una corazza di cristallo. Guidavo scorrettamente, talvolta i semafori divenivano semplici giocattoli luminosi. Gli autobus non avevano più il numero davanti. E poi, tutti quegli sforzi per fugare le dozzine e dozzine di rumori molesti, di frasi sconce, di commenti luridi, tutti quei mesi e quegli anni di palestra per giungere infine a qualcosa di eccessivo, oltre le mie intenzioni. A volte le persone dovevano svegliarmi, capisci? Signore, ma cosa fa, non vede che è il suo turno, vada allo sportello!... Ma io restavo lì, intontito, col conto corrente da pagare, perché l'ufficio postale era divenuto un'astronave ed io ero un umile automa che non reagiva più agli stimoli volgari esterni, e però nemmeno agli stimoli umani e giusti. Scusi, ma vuole star zitto, per cortesia?... Le proteste nei cinema ormai erano un'abitudine, perché io mi mettevo a parlare con gli attori, capisci? Questo succedeva, amore mio, perché non sopportavo nemmeno la più minuta soffiatina di naso, il più sparuto colpetto di tosse, per non menzionare poi i commenti sgraziati degli spettatori vicini. E allora mi infilavo nel film, oh come mi veniva naturale! Ma le conseguenze erano quelle che ti ho scritto, ad esempio. Una volta

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iniziai persino a urlare, a dire parolacce che non ripetevo dagli anni della gioventù.

Cos'era se non una pazzia, amore, cos'era? Stavo ammalandomi più di quanto non fossi malato prima. Il bambino che avevo concepito era diventato disobbediente, il bambinello nutrito con tanta cura voleva scacciare il padre. I giorni passavano, camminavo per strada in allarme, dovevo contenermi, dovevo stare attentissimo. E purtuttavia le paroline strambe fuoriuscivano ormai liquide liquide, morbide morbide! Ma gli eventi erano maturi, tu stavi lì, pronta per entrare in scena. Entrasti appena in tempo e mi salvasti.

D'altronde il nostro stesso incontro fu motivato da un nuovo attacco del male galoppante. Tu ne ricordi soltanto le conseguenze, la spalla rotta e l'ematoma in testa. Ma non conoscesti la causa, di tutto ciò. Un nuovo attacco del male, proprio mentre mi recavo

Non era il primo quaderno che veniva troncato senza criterio. Fino a quel momento non avevo sentito la necessità di conoscere il seguito dei discorsi interrotti, ma ora avvertii un impellente desiderio di completare.

I nuovi quaderni che esaminai parlavano d'altro, sebbene si rivolgessero di frequente a Lucia. Poesie, elogi, spiegazioni dettagliate di quanto salvifico era stato l'intervento di ciò che Arturo chiamava destino. La mia riluttanza verso simili parole non mi impediva di alimentare un pathos crescente. Dopo qualche altro tentativo mi concentrai sui quaderni della medesima grandezza di quello interrotto. Ne individuai una pila di tre, molto più avanti, e il primo che presi cominciava dove volevo io.

(proprio mentre mi recavo - continua - ) alla necropoli, una mattina burrascosa come le altre, ed ecco che mi scappò di mano un vecchio esercizio che non coltivavo più da tempo, ma che stava lì, pronto per disobbedirmi. L'autobus era affollato, io ero in piedi a un passetto dalla porta anteriore. Una gentile vecchina sedeva davanti a me, su quei sedili che dovremmo per la precisione chiamare seggioloni, alti ed esposti come sono. Dunque la vecchina sedeva lì e mi sorrideva, certo si ricordava di una visita guidata e la ricordavo anch'io. Mi sorrideva, avrebbe voluto parlarmi? Io però nelle membra avevo un inferno, il solito inferno giornaliero. Soltanto il pensiero di sostenere lo sguardo mi dava turbamento. Ora davanti a lei c'era un vetro che separava il sedile dalla porta anteriore. Sai, quei vetri alti e scuri dei nostri mezzi pubblici, che conosciamo bene. Non resistevo al suo sorrisetto, facevo boccacce nervose e allora per mettere tutto a tacere guardai il vetro su cui si rifletteva la strada che perciò scorreva al contrario. Estrassi dal cappello un vecchio esercizietto facile facile, amore. L'autobus ora passava per il viadotto Vallerina, almeno a sessanta all'ora, e il vetro riflettente mi illudeva che l'autista andasse in retromarcia, velocissimamente. Guardavo sia l'autista

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che l'illusorio percorso, guardavo e intanto andavo in visibilio per quel pazzo correre al contrario. Poi l'illusione divenne verità. Il bello di quell'esercizio, mia cara, è la frenata. Durante il rallentamento del mezzo pubblico ti aspetti di essere spinto indietro (cioè avanti nel tuo fallace riferimento), prepari mani e piedi e tutti i muscoli per sostenerti, mentre la forza ti proietta giustappunto in avanti, come in ogni normale frenata. E dunque è un'emozione speciale, è il senso comune che si scontra con la realtà per colpa della mente che ha sconvolto gli eventi cambiando le carte in tavola. E' bello ma rischioso, e infatti mi ero ripromesso di non farlo più. Ma quel giorno non mantenni l'impegno, e poi il giochino mi riuscì così facilmente e subito. Il giochino mi riusciva, oh come mi rilassava! Ero ormai abbandonato alla realtà fasulla, mentre la tensione svaniva. Molto prima del semaforo, però, l'autobus frenò improvvisamente ed ecco l'origine del mio capitombolo fino alla porta anteriore, spaccando il vetro col braccio e cadendo in ginocchio sui gradini. Sporcai di sangue anche la povera anziana signora. Svenni, ma un attimo prima vidi svenire lei. Che brutta esperienza, ma anche: che florido segno del destino! Il resto lo conosci, anima mia.

Io ti ringrazio per essere intervenuta, eppur mi sbaglio. Non c'è alcunchì da ringraziare, infatti so che né tu né io abbiamo aggiunto la minima briciolina al piano maestoso della Creazione, allo scorrere ineluttabile del mondo con i suoi eventi tutti!

Molte delle pagine successive erano divise a metà da un tratto spesso; a sinistra Arturo approfondiva aspetti della sua esistenza nell'epoca da lui definita preluciana, mentre nello spazio corrispondente a destra descriveva i cambiamenti successivi all'incontro. Analizzava un ampio spettro di variabili, dal numero di ore di sonno all'appetito, dal valore di picco giornaliero della tristezza a quello della gioia di essere.

Le ultime pagine contenevano componimenti poetici corredati da brevi riflessioni. Mi soffermai sulla lirica finale.

Lampi nel mio cielo,ma quel giorno arrivò!Tremiti nel gelo,ma la vita sbocciò!Ed ora la tua bocca sorridentemi fa tornare Arturo tra la gente,ed ora le tue calde sensazionimi spargono profumo sui neuroni.Ora vivrò, ora potrò,oh che bell'uomo che adesso sarò!Via la lotta quotidianaper tener la mente sana,

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via la farsa di artificiper le orecchie spettatrici,via le lettere fasulleper formar le frasi brulle...Via!

E' proprio così, mia cara Lucia, io non so come sia potuto accadere ma non avverto più quella vitale esigenza dei tempi passati, quella necessità di nascondermi dietro all'analfabetismo e ai tantissimi altri trucchi per non soffrire le pene quotidiane. Ora i cento e mille e diecimila esercizi studiati scompaiono, o forse di loro resta un dolce ricordo, il dolce piacere di saperli un mero divago ormai, un mero e innocuo giochino.

Ti ho mentito invece, ti ho mentito: non è vero che io non so! Io so invece come è potuto accadere tutto ciò! Con te, col tuo candido avvento!

Il freddo mi aveva tolto sensibilità ai polpastrelli. Mentre stropicciavo le mani ebbi voglia della poltroncina presso la stufa in camera di Ivano. Decisi che sarei tornato nel rustico quanto prima. Tuttavia questa risoluzione non mi trattenne dal fare un altro passo verso il quadro.

Mi trovavo oltre la metà della fila, gli ultimi quaderni formavano le pendici del colle di libri che si spingeva fino alla donna dipinta. Un quadernetto giallo si distingueva per le piccole dimensioni e il chiarore che inviava, malgrado il tempo ne avesse indebolito l'intensità. Oltretutto sembrava appoggiato lì per sbaglio, come se fosse stato prelevato dalla sua posizione originale. Dovetti prenderlo, cominciai dalla prima pagina.

Dolce Lucia, anima mia, ti penso mentre compi il quotidiano lavoro. Io qui nel mio tanto gradito deposito di ricordi e di nozioni, tu a regalare gioia a chi non può trovarla se non nei tuoi occhi, se non nella tua dolce presenza in quel posto di pena, di speranza e pure di trapasso. Son tornato in anticipo dalla necropoli, e sai cosa mi è capitato? Ho trascorso un'oretta a gingillarmi con i miei soliti vecchi esercizietti. Sì, proprio così, ho fatto un ripassino generale, quanto tempo era che non ci tornavo su?

Volevo dirtelo, volevo scrivertelo, perché tra noi non devono esserci misteri e perché sappiamo entrambi che quei giochini hanno sempre portato burrasca nella nostra unione. Io ti capisco quando ti fai triste se mi vedi concentrato su ciò che chiami stupida masturbazione mentale. Sei gelosa, vorresti tutto il mio tempo mentale per te e ti capisco. Ma perché ritornano, questi episodi? Poche fugaci tirate di sigaro dopo che non fumavo da tempo, è così, amore? Ma chi può dire se il vizio ritornerà? Ed era soltanto un vizio? Ho paura.

Tornerà? Mi travolgerà? Ultimamente mi accade anche qualcosa di molto peggio, mi accade di provare una scossa di rabbia che fulmina tutti i disegnini e le favolette mentali, fulmina tutto, brucia tutto e mi ritrovo a

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sbattere la testa al muro, oppure a tirar calci, che disastro. Ho un vulcano che nasce in me? Perché queste crisi? Dove sono destinato, amore, dove? Sì, ho paura, ho tanto terrore di me.

Ho paura di questi segnali di allarme, ma se una spia si accende vuol dire che qualcosa sta ammalandosi. Stai ammalandoti tu, mia dolce donna, non vogliamo dircelo ma è così. Ieri sera ti ho visto piangere, non era vero che stavo uscendo a fare una passeggiata nel bosco. Sono rimasto lì, dietro alla porta del bagno, e ho saputo. Tu sei bella anche per questo, mia dolce anima. Sei bella anche nel nascondermi il male che ti assedia da giorni, da settimane o da quanto non so, e che tu hai chiamato a voce alta ieri, guardando il tuo pallore crescente allo specchio. L'hai chiamato attaccandolo, l'hai affrontato maledicendolo. Maledire e benedire è il massimo che sappiamo fare noi umani. Tu sai di non essere più sana, ma adesso so anch'io ciò che tu sai. Avrai già parlato col tuo chirurgo stimato, credo, e lui si sarà chiuso in un mutismo più eloquente di un dettagliatissimo quadro clinico.

Ho paura, mio amore. Ho il terrore di perderti, oh quanto sono egoista e misero! Ma viva la sincerità, sì amore, sono egoista e temo di tornare alle mie schiavitù mentali, temo di ricongiungermi a loro nel momento in cui non potrò più congiungermi a te! Tesoro, tu mi avevi salvato!

Stasera ti ripeterò le parole scritte or ora, e tu dovrai esser sincera, dovrai finalmente spiegarmi quanto grave il tuo malanno è. Ma dovrai anche spiegarmi altro, dovrai anche dimostrarmi di aver messo da parte per sempre quel pensieraccio sbagliato che da giorni e giorni mi versi addosso. Dobbiamo parlarne, dobbiamo fare un bel verbalino che raccolga tutte le cose da dirci. Il tuo male, i tuoi pensieri, le mie paure, il mio amore per te, un bel verbalino che getti luce su questo tempo nebbioso fra noi.

Sì, mi aspetto che tu lo abbia messo da parte, quel bislacco pensiero che mi hai così spesso comunicato insieme a tutti i discorsacci inutili e fallaci su quella ragazza tua collega certo simpatica ma che tuttavia non ha alcun significato nella mia vita. Dovrai aprirti, stasera, dovrai rivelarmi il tuo errore segreto che covi da troppo tempo nei confronti di lei. Tu hai confuso, hai soltanto confuso. No, amore, non confondere l'assecondare con l'emozionarsi! Quel sabato lontano l'assecondai soltanto un minutino, l'accontentai facendola sorridere un po' delle mie stranezze, questo è vero, ma solo questo. Lei voleva sentire qualcuna delle mie paroline esotiche, non ricordi? Sentire qualche parolina come in un documentario, per semplice curiosità. Ma da qui al resto, tesoro! Non rammentavo neppure che si chiamava Giorgia, e presto dimenticherò quel nome che tu mi hai porto ieri, con tanta misera gelosia!

La gelosia non ti compete, e tu lo sai. Non pensar male, di tal donna. Non ripetermi più che è una poco di buono, non occorre, anzi ti svilisce solamente. Ma soprattutto non pensar male di me, di me!

La nostra unione magnifica dovrebbe esser refrattaria a tutti quei

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sentimenti bituminosi e bassi. Non pensar più male, prometti.

Sfogliavo le pagine successive senza trovare più nulla. Gli ultimi quaderni della fila giacevano alla rinfusa, infine i libri erano disposti di nuovo con ordine. Una pila era formata da almeno dieci copie sigillate del testo che avevo visualizzato al computer. Dietro riconobbi altre due pile simili. Anche i restanti volumi sembravano illibati. Guide turistiche non recenti, una piccola enciclopedia, alcuni romanzi di autori a me poco noti.

Mi voltai a destra, scandii l'altra fila. Ormai sapevo che i quaderni stesi lì non avrebbero potuto parlare di Lucia; mi era abbastanza chiara la corrispondenza tra il duplice percorso di carta e il percorso temporale di Arturo. Ciò nonostante presi un quaderno con la stessa copertina gialla dell'altro, per conferma. Mi bastò dare uno sguardo ad una delle prime pagine, come previsto ero precipitato indietro di anni.

Illusioni, care mie illusioni, soave unguento dell'anima! Illusioni, voi mi aiuterete a vivere, ad essere. Studiare non mi basta, amare gli Etruschi non mi basta, ricevere premi e riconoscimenti mi fa rattristare. Essere, invece, nulla di più, essere e incedere per il creato senza più logorii, essere! Ora farò colazione ottimista e uscirò presto, in questa domenica così fiorita a Blasoria. Blasoria, dolce terra che mi ospita senza poter conoscere il dolore di una mente ribelle! Blasoria piccola, bomboniera purtroppo intrisa di un maligno ingrediente, messo da me, messo da me! Blasoria come tutti gli altri luoghi del mondo, come tutti i doni divini macchiati dalla mia oleosa e squallida ragione! Ragione mia, cosa mai mi hai combinato? Mi hai rapito nel tuo frantumato reame, così lontano dal mondo vero e vivo! Ma oggi sarà diverso, oggi diventerò turista nelle vie pietrose del paesuccio che Blasoria è. Guarderò la chiesa medievale con occhi spogli e con mente vuota. Le scale di granito rosa saranno invitante asilo, il campanile rosso di tegole mi guarderà ospitale dicendomi: salve, avventore, salve, apprezzami! E poi finalmente le facce usuali e tormentose davanti al bar centrale diventeranno volti di uomini lindi e lontani, espressioni di abitanti incontaminati, ed io non sarò Arturo Milelli ma un essere staccato, libero libero, leggero leggero! Non dirò ciao al barista mentendo di allegria, non sorriderò cortese alla perpetua ingannandola. Invece sarò soavemente naturale, senza rumori interiori passeggerò. Ebbene sì, loro mi guarderanno incuriositi come è loro costume, pazienza. Oh, come incuriosisce il volto saggio e paludoso di un giovane amorfo come sono io! Come inducono al commento - e perché no alla critica - i suoi passi imprevisti e mai sicuri, i suoi gesti ovattati o al contrario acuminati, i suoi modi giammai elementari! Eppure oggi sarà diverso, oggi permetterò che tutti i presenti mi guardino, mi studino, mi mettano farfalla nel loro stolto album, e non batterò affatto ciglio, anzi ala, perché oggi Arturo Milelli sarà un candido turista. Oggi Arturo sarà...

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Dopo aver posato il quaderno ebbi conati di tremore; il freddo mi aveva aggredito, complice la totale immobilità durante la lettura. Mi diressi speditamente verso il muro da cui ero sceso, detti un ultimo sguardo al dipinto. Ricordai le parole di Giorgia nel cimitero, fallii di nuovo nel tentativo di raccordare Arturo a Giorgia, Giorgia a Lucia, Arturo a me. Mi chiedevo quale causa avesse scatenato la condizione attuale di Giorgia, quale fattore avesse generato quella sua precisa disposizione mentale che mi era balenata davanti giorni prima. Si era trattato di un motivo impercettibilmente legato all'incontro con Milelli nel museo di Gaglianello? Da quel giorno poteva essere scattato qualcosa dentro di lei. Nelle righe immortalate da Arturo era comparsa all'improvviso una distinzione tra Giorgia e Lucia, si parlava di un colloquio ma cosa c'era a monte? E poi la gelosia di Lucia. Che cosa significava, dove spingeva le radici quel sentimento così chiaramente delineato nelle note di Arturo? C'era forse un filone sotterraneo che aveva messo in comunicazione Arturo e Giorgia, eludendo l'altra? Quanto contava Arturo nel campo di forze tra le due donne? Era soltanto un fenomeno accidentale, un tramite involontario o invece qualcosa di più, di molto più presente?

Programmai di farmi forza e parlare con Elisa o con qualche altra amica intima di Giorgia, eppure mentre solidificavo il pensiero mi nacque un senso di errore. Mi paralizzava il rispetto per un segreto o una progressione chissà quanto lunga di segreti. La vita privata di Giorgia era sicuramente cucita con una parte della mia vita, ma ciò non mi bastava per decidere di sbaragliare i muri di cinta, quand'anche ci fossi riuscito. In quell'istante mi accorsi per la prima volta bene che il coinvolgimento verso di lei era scemato; in tempi diversi mi sarei scapicollato da Elisa senza perdere nemmeno un secondo a meditare sui segreti in progressione e sui muri di cinta.

La sensazione di freddo prese il sopravvento definitivo, scaricai l'ultima cartuccia di riflessioni e me ne andai solerte, non senza aver provato ad aprire la porta dietro alla sedia, giusto per curiosità. Invece era chiusa a chiave. Mi affrettai, raggiunsi la parete di pietra arrampicandomi lestamente. Le gambe mi dolevano, uscii di lena raggiungendo il cumulo di tufi. Dopo averne sistemati alcuni ai piedi dell'inferriata mi voltai. Le sdraio lanciavano i noti colori forti. Di fronte a loro doveva trovarsi l'ingresso principale, forse un portone, forse un archetto con una semplice porticina. L'esigenza di rintanarsi in macchina e scaldarsi spazzò via in un attimo la pur viva curiosità di proseguire.

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Arturo era stato trasferito alla casa di cura Il Liberatore, ben nota in tutta la città. Quando un'infermiera dell'ospedale provinciale me lo riferì disperai, senza considerare un aspetto positivo che invece risultò cruciale. Adesso infatti il mio ex collega poteva trascorrere qualche ora in giardino, debitamente sorvegliato.

Lo intravidi subito, appena attraversai l'incrocio pedonale che conduceva al portone dell'istituto. Il sole di fine marzo prometteva di scaldare senza riuscirci, in quel pomeriggio umido di sabato. Spesso scompariva dietro a nuvole grasse e nere.

A destra dell'entrata, al di là di un muretto sormontato da spesse lastre di vetro azzurrognolo, Arturo procedeva pesante. Sembrava misurare il terreno sotto ai suoi piedi. Era più imballato del solito, pensai a un peggioramento motorio. A prima vista nessuno lo accompagnava. Dopo un'analisi più attenta mi resi conto che un uomo sulla cinquantina con un grembiule blu lo teneva costantemente d'occhio da una panchina a pochi metri, sotto a un pino. Oltre ad Arturo passeggiavano altri uomini molto simili a lui soprattutto per la velocità di crociera. Mi venne in mente la giostra con gli elefantini e le zebre dove mi portava mia madre in tempi remoti. Anche all'epoca quel tipo di movimento silenzioso mi inquietava, trasmettendomi una sensazione di vincolo angosciante.

Restai presso la vetrata mettendomi in mostra, aspettando che Arturo si accorgesse di me. Quando indirizzava la testa nella mia direzione mi scuotevo per farmi individuare, ma ogni volta era come se fossi trasparente. Dopo il secondo giro di pista a cui assistetti decisi che l'avrei chiamato nel punto di massimo avvicinamento, a due-tre metri da me. Invece fu lui a

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cercarmi. Mi indicò col tipico gesto asettico e sicuro della guida che vuole mostrare ai visitatori un reperto preciso durante un'escursione. Si avvicinò mantenendo il braccio teso, finché non appiccicò l'indice sul vetro a venti centimetri da me. Cominciò a cadere qualche goccia di pioggia.

“Signore buongiorno. Tutto bene tutto bene?”Non capivo se la bocca semiaperta anticipasse un sorriso o se fosse

parte integrata di una struttura organica quasi immota, difficilmente perturbabile. Rimossi la vampata di pensieri, risposi attivo.

“Tutto bene, sì, e lei? Diamoci del tu, io comunque mi chiamo Aldo.”“Diamoci del tu Aldo.” Non cambiava espressione, gli occhi sarebbero

potuti essere di plastica dipinta. L'uomo seduto sotto all'albero mi aveva puntato da qualche secondo, provai a tranquillizzarlo salutandolo ma il gesto ebbe l'effetto contrario. Si alzò con prontezza, gli risposi prima che formulasse qualsiasi domanda.

“Sono un amico, non si preoccupi! Milelli lo conosco bene.” La mia frase fu sufficiente a farlo fermare. Mi squadrò per un istante,

poi tornò alla panchina senza perderci di vista. Arturo emise un verso da gufo.

“Uh uuh uh. Bel lavoro, caro il mio Aldo. Bel lavoro. Ma dimmi come mai da queste parti. Come mai.”

“Come mai? Volevo... sapere come andava, come ti andava.”Finalmente contrasse le guance di scatto, accennò un sorriso. Aspettavo

un approccio verbale, invece la bocca restava ferma. Ebbi un fortissimo impulso a irrompere con una frase contenente i nomi di Giorgia e Lucia. Mi controllai.

“Arturo spiegami perché... Arturo mi dici cosa ti piacerebbe fare? Adesso, proprio adesso. Cosa ti piacerebbe fare?”

“Cosa mi piacerebbe. Tante cose tante.”“Dimmene una.” “Una. Eccotela qua. Un bell'arzigogolo per correrci su, un

bell'arzigogolo di tante letterine colorate, per correrci veloce veloce su. Ad esempio guarda là, Aldo.”

Indicò l'insegna di una pasticceria oltre la strada. Lo scrutai amplificando un'espressione desolata.

“Sì, sì, capisco. Ma qualcos'altro, non questi semplici...”“Qualcos'altro. Qualcos'altro, Aldo. La pioggia nelle pozzanghere, oh

che delizia. Tante gocce ma le gocce non esistono, sono tanti tanti insettini che saltano nell'acqua, che giocano nell'acqua. Niente gocce ma solo tanti insettini, e si muovono si muovono, oh che bel giochino Aldo!”

“E se invece non piove?” Incamerai aria. “Se invece c'è il sole che sparge i suoi bei raggi sulle sdraio a strisce?”

“Le sdraio. A strisce.” Ritrasse il collo, inturgidì le labbra come per dare un bacio. Mentre

socchiudeva gli occhi rischiò di perdere l'equilibrio. Aspettai che l'onda

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emotiva passasse.“Perché ti sei ridotto così?” sussurrai. “Arturo tu eri così pulito dentro,

così geniale.” Tremavo. Lui rimaneva con la faccia contratta, ogni tanto disserrava la

bocca spremendo via qualche suono opaco.“Le sdruio, le sdraio, lu sdruio...” L'attacco deciso di un merlo ci distolse. Entrambi puntammo la

sorgente, dentro a una siepe alle spalle di Arturo. Presto tornai a guardare il mio collega. Gli osservavo la nuca solida. Il gesto repentino per guardare il merlo era stato plastico, inevitabilmente bello. Ora apprezzavo la staticità serena della persona, il suo intento a seguire i piccoli salti del volatile.

Quando si voltò mi coinvolse con un'espressione lucente, saggia, che però divenne di colpo ibernata.

“Non c'è più niente, Aldo. Più niente. E le sdraio resteranno lì. E io resterò qui. Loro lì io qui. Loro lì. Io qui. L'amore era l'unica salvezza Aldo.”

Le poche lacrime che gli scesero giù non avevano alcuna connessione con il viso marmorizzato. Quelle tracce liquide solcavano la carne rigida con la stessa incoerenza vitale dell'ultima frase. Immaginavo che ora Arturo anelasse a conoscere il legame tra le sdraio e me. Ero pronto a raccontargli tutto, desideravo una semplice domanda.

Aspettavo a testa bassa. Con la coda dell'occhio assistetti a un movimento subitaneo, la mano prelevò qualcosa dalla tasca e lo portò alla bocca. L'ingestione durò un attimo.

“Ecco qui. Ecco qui. E il pensiero se ne va, se ne va, e mai più ritornerà!” Canticchiava. Poi proseguì incolore.

“Le sdraio, Aldo. Le sdraio. Come mai hai detto che...” La voce si appannava. Il sorvegliante scattò dalla panchina più deciso di prima. Ci raggiunse, scosse un braccio di Arturo con forza.

“Andiamo, venga.” Mi scagliò addosso uno sguardo inferocito. “Lei se ne vada! Non vede come sta messo male, se ne vada!”Reagii con asprezza.“Io me ne vado ma lei si vergogni. Vergognatevi tutti, a mandare in

giro i vostri pazienti con la droga in tasca. Poi se qualcuno ci rimette la pelle lo portate via in silenzio, no?”

Arturo stava creando un sottofondo di parole inventate, ne riconoscevo alcune tra quelle lette nei quaderni. L'uomo si allontanò tirandolo per il braccio ma lasciò di colpo la presa. A passo svelto tornò vicino a me, apostrofandomi secco.

“Ha sbagliato di molto, caro mio. Qui facciamo le cose sul serio, è un semplice effetto placebo. Lui sa che la pasticca lo calmerà e noi sappiamo che è solo zucchero e farina di carrube. Intervenire con i farmaci per così poco? Lei è un idiota, e se ne vada. Se è vero che lei è un amico gli faccia

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del bene e se ne vada!”Tornò da Arturo, gli riafferrò il braccio e proseguì. Lui guardava

indietro inquadrandomi a tratti, nonostante fosse trainato con veemenza. Sentii una voglia intensa di bucare un palloncino con lo spillo. Gridai.

“Arturo tu sei sano! Ho letto i tuoi quaderni! Patalusio fisancoria! Milizzi fisalusio! Le lettere storte e le scritte verticali, Arturo! Hai perso Lucia ma puoi vivere ancora!”

“Lucia! Noooooo!” Ululò dimenandosi, corse verso di me. Frenò producendo un chiassoso

sfregamento di ghiaia. Pochi secondi prima che l'uomo gli piombasse addosso mi parlò, con il fiatone.

“Il mondo è brutto Aldo. La vita è brutta. Ma Lucia era bella. Bella bella bella!”

Dette una testata al vetro, poi un'altra più forte. Una macchia rosso bruna mi scoppiò davanti occultando Arturo e il resto intorno a lui. Riconobbi la voce allarmata del sorvegliante insieme a nuove voci che si avvicinavano in fretta. Un rumore metallico rivelò la presenza di qualcosa come una catena. Si allontanarono presto, lasciando un disarmonico sfrigolio di ferraglia e sassolini.

Da una distanza notevole riconobbi la voce di Arturo. Era sensibilmente indebolita, oscillante.

“Aldo Aldo! Uldo Aldo! Divulga le mie opere diffondi Aldoooooo! Salva Francesco salva Francescoooooo!”

Pensai che vaneggiasse. Era uscito di nuovo il sole. Restai appoggiato sul muretto, seguii le ultime gocce di liquido denso

che scivolavano giù dal vetro. Lanciai un grido dalla fessura della vetrata.“Guarirai!” Ma temetti che non potesse ascoltarmi.

A cena mia madre e Silvia fecero domande prevedibili, cercando di avvicinarsi in qualche maniera al nucleo del problema che mi rendeva plumbeo. Mi aprii completamente, rendendo manifesta tutta la cartella personale di Arturo. Terminai con la rivelazione più recente, Francesco doveva essere il figlio, un figlio. Ma mentre pronunciavo quel nome ricordai che anche Sorice si chiamava così. Interruppi la conversazione alzandomi bruscamente, raggiunsi il soggiorno e individuai il numero di telefono del caposervizio, c'erano tre Franceschi Sorice ma uno solo risultava abitare nella zona sud di Gaglianello. Non esitai a chiamare.

Dopo un solo squillo mi rispose proprio lui.“Pronto.”“Sono Aldo, del museo. Mi riconosci?”“Aldo! Che ti succede?”“Come stai?”“Come sempre. Vuoi sapere la novità? Ieri mi hanno fatto sparire le

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chiavi dei magazzini e della cassaforte.”“Che bello scherzo.” “Quale scherzo? Sono le prime mosse. Avvisano, Aldo, avvisano così.

Poi arriverà il colpo finale.” “Secondo me esageri.”“Secondo me parli a vanvera. Il soprintendente fa le cose per bene.

Senza traumi. Avrà dato l'ordine e qualche suo amichetto è scattato.”“Io comunque voglio fare qualcosa per te.”“Sì, Aldo. Certamente. Grazie per il nobile proposito.”“Ho parlato con Milelli.”“Eh?”“Sta al Liberatore, se non lo sapevi.”“Non lo sapevo, perché non ho tempo di occuparmi degli altri. E in

particolare di certi altri.” Percepivo aggressività, anche nel silenzio successivo. Sorice proseguì

confermando lo stato di tensione.“Io avrò avuto anche la mia colpa di voler fare carriera. Ma senza

quell'idiota non sarebbe successo niente. E stasera avresti telefonato a un custode anziché a un futuro disoccupato, per non dire imputato in qualche processo.”

“Arturo ti vuole bene, credo.”“Anche i cani vogliono bene agli uomini. Però non li mettono mai nei

guai. Insomma mi hai chiamato solo per questo?”“Lui ti ha mai parlato delle sue opere da pubblicare? Ti ha mai fatto

leggere qualcosa?”“Ma cosa fai, mi prendi in giro? Sono stato io a dirti del libro sugli

itinerari.”“Non mi riferisco a quello. Hai letto altro?”“No. Ma immagino che possa avere scritto qualcos'altro durante i bei

tempi.”“Sono cose assai diverse da quelle che ti aspetti, e che ci si aspetta in

genere da uno studioso di etruscologia.”“Ah. E a me cosa interessa?” “Non so. Fammi pensare.”“Cosa fai, mi chiami e poi ti metti a pensare? Sarebbe questo il motivo

della telefonata? Aiutarti a pensare?”“Sai se ha un figlio che si chiama come te?”“Un figlio! Che idiozie. Comunque perché no? In questo mondo non

finisci mai di stupirti. L'avrà fatto da solo. Si sarà sdoppiato.”“Te lo chiedo perché Arturo a un certo punto mi ha detto di salvare

Francesco. Più di tanto non ho capito.”“Appunto. Cosa vuoi capire, fatica sprecata.”“E se invece quel Francesco fossi tu?”“E se invece fosse non so chi? E se fosse il fratello della colf di mio

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nonno? Aldo, fammi il piacere!”“Se si riuscisse a divulgare qualcosa, anzi ogni cosa che ha scritto

Arturo, probabilmente ti tornerebbe utile. Forse Milelli voleva dirmi questo.”

“Tornarmi utile? Senti ho perso la pazienza.”“Perdila pure ma il concetto mi suona bene. Il trasferimento di Arturo a

Gaglianello si potrebbe giustificare, non capisci? Con la necessità di avere più tempo per scrivere o per revisionare le opere già scritte. I quaderni che ho scoperto risalgono all'epoca della necropoli, ma non è detto che successivamente Arturo non ci abbia messo più mano. E pure se non lo ha fatto, il concetto fila. Il trasferimento aveva un senso. Certo l'ideale sarebbe trovare qualche quaderno più recente, ma intanto potresti dire al soprintendente che Arturo aveva bisogno di approfondire le sue analisi, e che la Fumasante gli ha dato l'opportunità che desiderava. Le pubblicazioni inedite sarebbero convincenti, per avvalorare la tesi. Dobbiamo divulgare quei quaderni prima possibile.”

“Sì, che fantasia. La Fumasante ha pensato a Milelli e intanto io mi sono tramutato in caposervizio così, per magia. Non potevano aggiungere un posto da custode e basta? O trovare una soluzione diversa?”

“Si trattava sempre di un posto in più da creare, era pur sempre una modifica dell'organico. E comunque questo problema diventerebbe trascurabile rispetto all'intenzione di facilitare Milelli nella sua creatività.”

“A me sembra una favola per bambini deficienti. Anche perché tutta questa produzione di Milelli credo sia solo nella tua testa. E' una tua illusione, avrai scambiato due parole con quel matto e ti sarai bevuto tutto.”

“La produzione non è solo nella mia testa, è anche nella sua casa di Blasoria.”

“Sbagli, Aldo. Milelli non abita a Blasoria, o almeno non ci abitava, prima che lo ricoverassero in città.”

“Infatti a Blasoria sta la sua vecchia casa. Non so dove abbia vissuto negli ultimi anni, lo saprai tu, ma io sto parlando di quando Arturo faceva la guida. Deve essere andato via da Blasoria prima che lo trasferissero al museo. Fuggì dal suo paese e da certi ricordi, o almeno ci provò.”

“Mi sembri convinto. O ti sei inventato tutto o devo crederti.”“Devi credermi.”“Dove hai rimediato tutte queste notizie? I quaderni, Blasoria, con chi

hai parlato?”“Ho attinto da varie fonti.”“Da varie fonti. Comunque il soprintendente non si calmerebbe,

conosco bene il tipo. Sai cosa starà combinando in questi giorni?”“No.”“Starà sistemando tutte le carte per incastrare me e lasciare libera la

Fumasante. A lei rifilerà soltanto una nota di demerito, magari dopo averla redarguita con una scenata finta in presenza di pochi. Butterà fuori soltanto

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me, la verità e questa. Troverà il modo per scaricare tutto su di me. Perché lui è ancora innamorato di lei, lo è sempre stato. Innamorato e non ricambiato, ma non demorde. Me lo disse Rocco anni e anni fa, e me lo continua a dire. Marina è protetta, lei non ha fatto nulla per esserlo ma lo è. Da sempre. Ti ho rivelato anche questa indiscrezione, ma ormai è tutto all'aria e non mi importa più di ciò che esce da questa bocca.”

“Non vale nemmeno la pena di provare?”“Non vale la pena di fare più niente.”“Va bene, allora agirò da solo.”Dopo una lunga pausa Sorice esordì con un timbro nuovo, più

malleabile.“Però adesso mi viene in mente una cosa.” Sorrise senza eccesso, rivelando un principio di stupore. “Me l'ero dimenticato, cioè non ci avevo mai pensato perché lo ritenevo

un episodio stupido. Era lo scorso luglio, forse giugno, avevo sorpreso Milelli davanti alla solita finestra. Ero appena sbucato dal corridoio. Si accorse di me, io feci finta di niente.”

“E poi?”“Per non infastidirlo, o più per vergogna, tornai indietro. Dovevo

entrare nello stanzino del quadro elettrico ma decisi di ripassare più tardi. Mentre mi allontanavo lo sentii chiamare il mio nome, fu una sorpresa. E fra l'altro mi colpì la gentilezza, la pronuncia, insomma restai immobile. Lui non si avvicinò, ma disse qualcosa come grazie, grazie per quello che hai fatto. Io ovviamente credevo che mi stesse ringraziando perché ero stato discreto. Poi aggiunse un gioco di parole che ora mi sfugge, e alla fine riprese a parlare normalmente, anzi un po' cantando. Disse qualcosa che mi sembrò totalmente stupido. Sto preparando la tortina, la tortina. La tortina anche per te, la tortina anche per te, la tortina con la tua scritta sopra... Che senso aveva?”

“Forse aveva previsto tutto. Il suo peggioramento, il tuo problema, aveva immaginato tutto. In un momento di lucidità. La scorsa estate doveva avere ancora molti momenti lunghi di lucidità, come delle zone della coscienza non ancora prese dalla metastasi. E oggi gli è successo di rivedere chiaro per pochi attimi, così si è ricordato di te.”

“No, non ci siamo. Per quale motivo doveva conoscere la mia situazione?”

“Magari parlando con la Fumasante, o per intuito. Non so.” “Andiamo bene. E la tortina? Che voleva dire?”“Credo di avere un'idea. Ti farò sapere.”

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Le querce e i castagni intorno al rustico di Blasoria avevano cominciato a sprigionare gemme verdi lucidissime. Era la prima domenica di aprile. L'anelito a immergermi nei mondi di Arturo occupava ormai tutta la parte di pensiero destinata ai sogni e alle idee vitali. Nei giorni recenti le crisi di solitudine si erano affacciate sempre più raramente, inghiottite dal denso umore entusiastico della scoperta. Giorgia era un puntino che a volte prendeva corpo e si ingrandiva perforandomi dentro, ma durante le crisi peggiori riuscivo a lenire il dolore attivando un nuovo modello di estintore. Mi ripetevo le parole scritte da Arturo per tranquillizzare la sua amata, mi stupivo per l'ennesima volta di aver ottenuto un dato così cruciale sul ruolo di Giorgia. Tra Giorgia e Arturo non era nato nulla, vivevo questa certezza come una piccola rivalsa e ciò mi bastava per non degenerare.

Tuttavia quando ripensavo alla discussione nel cimitero di Castelchiaro sentivo di perdermi nel buio più completo. In un angolo del mio universo interiore avevo creato una discarica di quesiti irrisolti. Un buco nero di mistero alloggiava lì, in silenzio, senza alcuna possibilità di interazione costruttiva. Non desistevo dal chiedermi se l'incontro di Giorgia e Arturo nel museo avesse coinciso con la fine del nostro rapporto di coppia. Mi domandavo se per Giorgia quell'episodio fosse stato il preludio a un devastante tuffo nel passato, per qualche ragione incognita. Durante il periodo di volontariato in ospedale doveva essere accaduto qualcosa tra lei e Lucia, questo ormai mi era chiaro. Immaginavo che Giorgia avesse conosciuto Arturo durante una delle sue visite a Lucia in ospedale, e che da lì fosse nata una rivalità tra le due donne, ma una tale interpretazione si scontrava con le frasi pronunciate da Giorgia davanti alla tomba. Da quelle parole sembrava che l'antagonismo si fosse scatenato a posteriori, soltanto dopo la morte di Lucia, anzi molto più avanti nel tempo. Forse non prima dell'incontro di Giorgia e Arturo nel museo.

Il sole era alto e scaldava con vigore. Quando mi apprestai a scavalcare ebbi più paura della volta precedente, cosicché salii con estrema lentezza sulla scala. I tufi che avevo appoggiato ai piedi dell'inferriata mi dettero sicurezza, balzai su di loro senza difficoltà.

Le sdraio erano scomparse. Corsi verso l'ingresso della casa non ancora sondato, giunsi presso il cancello arrugginito. Conobbi la facciata principale, mi colpì la grazia di un piccolo rosone che sovrastava la porta d'ingresso. Aveva il vetro rotto. Il muro di pietra locale inviava un grigio abbagliante che metteva in risalto la struttura in legno scuro della porta e del rosone stesso. L'architettura ricordava più una chiesetta di campagna. Delle

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sdraio non c'era traccia. Bussai forte, attesi a lungo. Spinsi il pomello per entrare benché la

serratura annunciasse una chiusura a chiave. Infatti la porta restò rigida traballando leggermente insieme a tutto il cornicione. Esitai inoperoso per qualche secondo fissando la facciata, poi mi diressi verso l'entrata posteriore, passando per l'altro fianco della costruzione. Sul muro laterale non c'era alcuna finestra, né alcuna rientranza. Si trattava di una colata compatta di intonaco, qua e là degradata.

La porta metallica si aprì col solito attrito. All'interno dello stanzino mi aspettavo di trovare arnesi disposti in modo nuovo. Invece non rilevai alcuna variazione. L'odore di carta era diminuito di pari passo al grado di umidità.

Superai il muretto con facilità. I libri sembravano ordinati così come li avevo lasciati. Congetturai che le sdraio fossero state adocchiate da qualche ladro di passaggio, magari più bravo di me a scavalcare; tutto sommato mi erano parse graziose e invitanti. Estrassi dalle tasche varie buste di plastica e cominciai a selezionare quaderni con un criterio assai blando. In ognuno trovavo o ritrovavo qualcosa di interessante, ma dovetti operare una selezione. La settimana seguente avrei contattato un piccolo editore amico d'infanzia, non volevo sovraccaricarlo.

Man mano che scorrevo la fila di sinistra sentivo crescere un'attesa fervida; desideravo scoprire qualcosa di riconducibile alla tortina di Sorice, o comunque una prova della produzione letteraria recente di Arturo, a dispetto del male che lo aveva invaso fino a portarlo al Liberatore. Supponevo che ogni tanto fosse tornato nel vecchio nido per depositarvi una memoria scritta, accettando la pena dell'impatto col passato, anzi cercandola. Giorgia portava fiori a Lucia nel cimitero di Castelchiaro, Arturo poteva aver benissimo continuato a lasciare fiori letterari nel suo mausoleo segreto.

Avevo già riempito due buste. Quando passai alla fila di destra divenni ancora più ricettivo e teso. La donna dipinta mi appariva con uno sguardo per niente complice. La terza busta era quasi piena, stavo nel mezzo della stanza. Mi fermai. Le pile di quaderni lasciavano il posto ai tomi, ai romanzi, ai fascicoli ancora sigillati. Mi parve che qualcosa mancasse, o che fosse stato sistemato in modo diverso dalla volta scorsa. In effetti il catasto di quaderni diminuiva con troppo anticipo, in alcuni punti si vedeva il pavimento. Non riuscivo a ricordare se quella discontinuità mi avesse colpito similmente un mese prima. Il dubbio si estese ai quaderni precedenti e all'altra fila. Guardai la stanza e il suo contenuto con un occhio diverso, cercando di rilevare modifiche come in un classico gioco enigmistico fatto di due vignette apparentemente identiche. Non riuscii nell'intento. Desistetti, tornai a cercare testimonianze scritte più recenti.

Con una visione d'insieme tentai di rintracciare la presenza di qualche quaderno diverso dagli altri. Le ultime opere dovevano per forza giacere

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presso il dipinto. Invece in quella parte non c'era nulla di speciale. Mi sovvenne la scena di un vecchio cartone animato, un gattino era riuscito a spostare un quadro gigantesco e la parete aveva rivelato una nicchia in cui si trovavano due cosci di pollo riservati al cane. Mi avvicinai al ritratto.

La nicchia c'era anche nel mio caso. Era vuota ma odorava di carta umida più del normale. Mentre annusavo l'interno percepii un tintinnio proveniente da un punto imprecisato della casa. Il rumore crebbe.

Dopo due veloci giri di chiave la porta dietro alla scrivania venne aperta con violenza. Un urlo femminile selvaggio si sovrappose al gemito che avevo emesso d'un fiato voltandomi. Giorgia mi apparve totalmente disordinata, sconvolta. Aveva occhiaie marcate, era bianca. Cominciò a sudare vibrando per tutto il corpo.

Nei minuti successivi era rimasta rigida sulla soglia, senza dire nulla. Io avevo balbettato qualcosa per farla uscire dallo spavento, mi ero sforzato di mettere in piedi una sequenza di eventi che culminava con la mia presenza lì. Tutto sommato mi ero espresso con precisione, dovevo esserle apparso sufficientemente chiaro.

La contrazione del viso si allentò. In quel momento fui invaso dalla voglia di sapere. Non comprendevo più il senso delle cose, lo stupore dilagava. Ogni giustificazione passata, ogni criterio di coerenza era saltato.

La aggredii con un tono diverso, ruvido.“Tu, piuttosto. Allora?”Non parlava. Aumentai l'intensità.“Qui, qui dentro. Cosa ci fai? Ti ha dato le chiavi di casa. Vi conoscete

bene, spiega!”Parlò con prevedibile debolezza, pur lasciando trasparire una nota

critica sottile.“Le chiavi di casa. Sì, ma della casa dove lui non vive. Non ti pare un

po' strano?”“E allora? Spiega!” Quella sua osservazione mi aveva colpito,

fiaccando la veemenza dell'attacco. Mi avvicinai alla scrivania. “Dimmi tutto con calma.”Spostò la sedia e ci si accovacciò sopra rannicchiando le gambe.“A cosa serve spiegarti. Ma lo faccio per te, per rispetto.”“Ecco, almeno per rispetto. Comunque non mi interessa il motivo per

cui lo fai.”“Le chiavi non me le ha date lui. Lui non c'entra nulla. Me le sono

prese io. Possiamo dire che le ho rubate. Sì, semplicemente rubate.”“Quando.” Non le credevo.“Rubate, ma non a lui. A Lucia. Anche se non ha senso dire rubate.

Perché lei era già morta, comunque in effetti erano di sua proprietà. Ma non ti aiuto molto così, se non ti dico il resto.”

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“Appunto.”“Il resto è fastidioso a raccontarsi.”Tossii a lungo. Un brivido di freddo mi fece cambiare discorso. “Cosa stiamo a fare qui dentro? Usciamo, scaldiamoci al sole.”Giorgia mosse la testa per approvare, si avviò decisa. Raggiunsi la

porta e percorsi la nuova stanza con lentezza. Aveva le caratteristiche di una dispensa, le due pareti laterali erano arredate con altrettanti mobili in noce. Varie sedie basse di legno e paglia si distribuivano senza criterio. Un fornello a gas occupava l'angolo in fondo a destra. Al centro della sala si trovava un tavolo abbastanza integro; una superficie plastica rosata lo rivestiva. Due pile di quaderni erano sistemate vicino al bordo. Le esaminai di fretta, riconobbi altre memorie di Arturo; la scrittura appariva più svogliata e incostante. Giorgia si voltò prima di entrare nel locale successivo.

“Quelli li ho riportati io. Così tornano al proprietario, e tu se vuoi hai altro da leggere.”

“Quando li ha scritti? Sembra un'altra mano.”“La mano è peggiorata, con gli anni. Alcuni sono di pochi mesi fa.”La terza stanza era in realtà un corridoio, largo ed essenziale, con

alcune porticine bluastre ai lati. Ne aprii una a fatica, nel buio delineai una stanza da letto. Respirai polvere, mi ritrassi. Alla fine del corridoio vidi le due sdraio riposte in verticale. Giorgia le prese a fatica e spinse con una spalla il portone principale. L'ambiente s'illuminò, il cinguettio impreciso di un passerotto colorò il silenzio. Rimasi a guardare la mia ex compagna senza trattenere un conato di voglia di amplesso. Da quell'impulso generalizzai l'attrazione a tutta la persona e al mondo che essa includeva. La catastrofe dei ricordi mi solcò senza che potessi proteggermi. Ripercorsi confuso i mesi recenti; le certezze che mi illudevo di aver maturato si sciolsero di colpo. C'era una sorgente di dolore dietro allo stomaco che bussava e mi rinfacciava una realtà ancora intatta, viva.

Sull'erba aprimmo le sdraio, ci sedemmo non troppo vicini. Giorgia mi guardava senza espressione, pensai che attendesse una domanda di qualunque genere. Fui calmo, arginai i segnali emotivi.

“Allora mi parlavi delle chiavi. Ma da dove sei entrata, fra l'altro?”“Da lì.” Un sentiero piastrellato si mimetizzava fra le sterpaglie; mi sembrava

un'antica strada romana dimenticata.“In dieci minuti arrivi all'uscita, su via Mazzini. E' un cancelletto un po'

nascosto dall'erba alta.”“E il cancello grande con la dedica a Lucia?”“Era un'entrata simbolica, cioè lo divenne. Così almeno mi raccontò

Lucia. Una volta le chiesi di parlarmi della casa di Arturo, lei mi disse anche del cambio di indirizzo voluto da entrambi per aumentare la privacy. Quel cancello era stato l'ingresso principale fino a quando non arrivò lei.

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Sai che una volta la sentii parlare con Arturo proprio della dedica? Che superficiale che era.”

“Lucia, superficiale?”“E chi altrimenti? Almeno nei confronti di Arturo. La sorpresi al

telefono mentre gli diceva che l'aveva sistemata troppo in basso.”Inspirò a fondo. Cambiò tono come per liberarsi di fretta.“Insomma le chiavi le ho prese dalla sua borsa. Dopo l'incidente. Lei

era stesa per terra, l'avevano investita da cinque minuti.”“Non ti hanno visto?” Mi avvicinai di più.“Non potevano. Le stavano tutti intorno. La borsa era volata lontano.

Sono corsa a prenderla, e lì non mi sono trattenuta.”“Ma perché?”“Perché volevo un pezzo della sua vita.”“Non capisco.”“Volevo qualcosa che mi ricordasse Arturo. Nessuno lo poteva

immaginare, ma io avevo perso la testa per lui.”“Ecco. Appunto.”“Aldo non fraintendermi. Non lo avevo mai visto, mai.”“Mai! Come!” Risi nervosamente. Lei sembrò non curarsi troppo della

mia reazione.“Mai, Aldo. Mi erano bastati i discorsi fatti con Lucia giorno per

giorno. E poi toccai il massimo quando ci parlai al telefono. Una sola volta, ma fu sufficiente.”

“Ma che motivo aveva Lucia, di raccontarti di lui?” “In genere ero io a volermi informare. All'inizio mi aveva incuriosito

un loro scambio sempre telefonico, nello stanzino della caposala. Lucia si era messa a ridere e ripeteva parole strane. Da quell'episodio seppi che Arturo faceva gli esercizi che conosciamo, e che scriveva esercizi, riflessioni, eccetera.”

“E ti è bastato così poco?”“Quel poco era la punta dell'iceberg. Dai racconti di Lucia avevo

compreso che tipo di persona era Arturo. Devo ripeterti quello che già sai? Una persona ipersensibile, vulnerabile, geniale. E anche romantica. Un uomo vero.”

“Ah. Che belle parole.”“Sì, pensa ciò che vuoi. Arturo è uno che non trovi sulle bancarelle

così, nei giorni di mercato. E' una persona che non può essere messa in vendita insieme ad altre. Arturo è un prodotto irripetibile.”

Aveva cambiato volto divenendo severa, forse per proteggere e dare vigore all'ultima affermazione. Volevo dirle che non doveva farsi problemi poiché mi aspettavo di tutto, ma cambiai risposta all'ultimo.

“Giorgia, ciascun essere umano è irripetibile.”Lei si mantenne rigida.“Ciascun sasso è irripetibile. Ma ha pochi parametri che possono

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variare. Invece lui era lui.”“Ti eri semplicemente innamorata, non fare discorsi troppo complessi.

Non è il caso. Un colpo di fulmine bell'e buono, anche se soltanto telefonico. Non pensavo che esistessero colpi di fulmine così.”

Continuò indisturbata.“Io cercavo di conoscere più cose possibili, da Lucia. Lei mi trattava

come una bambina da far divertire, sicuramente la differenza di età tra me e Arturo la faceva sentire al sicuro. Ma non era la prima volta che una ventenne provava attrazione per uno di trentacinque anni.”

“Succede, infatti. Succede.” Mi vergognavo, non ero capace di sostenere lo sguardo.

“Di lui mi colpiva il desiderio di sconfiggere le sofferenze, di affrontare le passioni. Vincere l'odio, il senso del peccato, la carne. Vincere i mostri più minacciosi di tutti, i mostri della propria mente.”

“Allora non è vera la storia della donna amata che l'aveva salvato dalla crisi. Arturo continuava a stare male e a lottare anche dopo che conobbe Lucia.”

“Non è proprio così. All'inizio smise di fare esercizi, come del resto scrisse. Toccò il paradiso ma durò poco. Io lo vidi cambiare nei mesi attraverso i commenti di Lucia. Il tempo passava e lei era sempre più intristita per il comportamento di Arturo. Intristita ma soprattutto disamorata. Praticamente per lei era stata solo un'infatuazione, il punto è questo. Piano piano si freddò, io me ne accorgevo. E Arturo ricominciava a giocare, giocava sempre di più, io lo capivo dalle reazioni negative di Lucia al telefono. Non riuscivo a soffocare un senso di vittoria, e mi sentivo colpevole. Tutto il bene che le volevo sembrava non avere più significato. Mi sentivo una bestia maledetta, mi sentivo di tradirla.”

“Ma lui è rimasto sempre innamorato. Non c'è stata la minima flessione.”

“Infatti. E se mi era rimasta qualche speranza e qualche fantasia, ora è svanito tutto. Sai perché sono qui?”

La fissavo immobilizzato.“Per rimettere a posto gli ultimi scritti che avevo preso sperando di

rintracciare almeno una riga dedicata a me. Ma non sono una ladra e ciò che è di Arturo deve tornare a lui.”

“Onesta. E hai trovato qualcosa di bello?” “Tutto quello che ho scoperto è il poco di buono che mi ha appioppato

Lucia. Né più né meno di ciò che hai scoperto tu. Quando ho letto quelle parole e il commento di Arturo ho sperato di poter trovare altri commenti, altri pensieri su di me. Ho sperato che Arturo avesse mentito per non farla soffrire più di quanto già soffrisse per la malattia. Invece niente, Lucia ha vinto. Sono mesi che cerco, ma niente. Lui le è restato attaccato. Chi si stava allontanando era soltanto lei. Ma Arturo continuava e continua a pensarla come fosse il primo giorno, evidentemente.”

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“Sarà diventata sempre più stanca di tutto. Sapeva di avere i giorni contati.”

“Forse sì. Io sono certa che si fece investire, non fu una distrazione.” Le mani corsero a coprirle il viso. Piangendo proseguì.

“Che forza d'animo. In ospedale si era tenuto tutto, che forza d'animo. E io l'ho tradita così. Rapinata.”

Da cinque minuti mi soffermavo sul viso arrossato di Giorgia. Al di là di ogni considerazione logica volevo arrischiarmi a baciarla, ma la sua stasi mi inibì. Mentre pensavo a come imbastire un discorso che parlasse anche di me, lei riprese con freschezza disarmante.

“Capisci, Aldo? Se Ulisse avesse sopportato il canto delle sirene con l'espediente di Arturo, non sarebbe stato necessario incatenarlo alla barca. Arturo sfidava le forze del male con una tecnica superiore, riusciva a trapassare i tessuti senza sporcarsi. Vedeva e non vedeva, e intanto camminava. Trasformava, con arte.”

Rimossi il tentativo di dirottare la conversazione. Faticai ad esprimermi senza rabbia.

“Alla fine però si è trasformato lui, mi pare.”“Alla fine sì, purtroppo.” La desolazione che le leggevo in viso mi fiaccava. Proseguii per inerzia

con un filo di energia.“Perché ti sei mossa solo adesso? Avevi tutto il tempo, potevi parlare

direttamente con lui. Non vi siete mai visti dopo l'incidente di Lucia?” “Al funerale non venne, c'era soltanto qualcuno dell'ospedale e il padre

di Lucia. E poi non sapevo affatto dove abitasse. Non l'ho mai saputo fino a pochi mesi fa, quando me l'hai messo davanti nel museo.”

Mentre inarcavo le ciglia spiazzato Giorgia cambiò discorso. “Per quanto riguarda le chiavi credo di averti già spiegato che il furto è

stato un gesto istintivo, niente di più. Le ho conservate tutti questi anni senza motivo. Stavano in fondo a un cassettone della mia camera, a casa dei miei. Dimenticate lì. Con gli anni non ci pensavo più, almeno così credevo. Ma i primi tempi ci avevo pensato eccome, quelle chiavi avevano avuto un significato profondo. Furono loro a farmi lasciare l'ospedale.

“Stai dicendo che cambiasti lavoro per colpa di quel mazzo di chiavi?”“Sembra assurdo ma è così. E poi ormai dovresti comprendere che non

è così assurdo. Dopo la morte di Lucia mi chiesero di prendere il suo posto, sarei diventata un'infermiera stipendiata. Non accettai, dissi che soffrivo di un esaurimento nervoso galoppante. E intanto mi cresceva il rifiuto per quell'ambiente nel quale avevo consumato un delitto segreto. Mi sentivo colpevole, ma il desiderio di tenere con me le chiavi non era affatto diminuito. Poi la settimana stessa la caposala sentì il dovere di informare i miei genitori di questo malessere. Il negozio a Perla fu una salvezza per

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tutti. Mio padre rimase di stucco per la facilità con cui me ne andai dall'ospedale, e intuì che avrei rimpianto la vecchia attività. Ma più di quello non poté capire.”

“E non può nemmeno capire perché ti sei volatilizzata adesso. Dove dormi, dove vivi?”

“Da Nadia. Forse non ti ricordi chi è. Tanto non ti riguarda.”“Ma riguarda i tuoi.”“Non ti permettere. So io quanto mi mancano mio padre e mia madre, e

quanto penso a loro. E poi sto per tornare, li ho avvisati giusto ieri.” Restammo in silenzio per diversi secondi. Quando ripresi a parlare

produssi un timbro eccessivamente acido. “A Lucia volevi davvero bene?”Rispose in ritardo, rilassata.“Io e Lucia ci eravamo volute bene reciprocamente, non immagini

quanto. Lei mi aveva introdotto alla vita in ospedale con pazienza, con affetto. Amava il mio impegno incondizionato, amava la mia onestà, vedeva le sue doti specchiarsi nelle mie. I sentimenti che io nutrivo per lei erano simili. Ma col tempo se ne aggiunse uno maligno.”

“L'invidia è brutta.”“Con quel termine non dici nulla se non spieghi il contesto. Più che

invidia era consapevolezza che Arturo era sprecato, con lei. Sprecato. Lei amava solo una parte del suo essere, me ne convincevo giorno dopo giorno. Amava la sua abilità nel fare la guida, la sua riservatezza, la frugalità. Amava mille particolari di secondo ordine. Diceva di essere coinvolta anche fisicamente, perché no, ma non dava affatto importanza al nocciolo. Te l'ho detto, con i mesi infatti si freddò. Negli ultimi tempi addirittura si infastidiva quando le chiedevo di raccontarmi un esercizio nuovo, un'idea originale di Arturo, si infastidiva sia con me che con lui al telefono. Parlavano del più e del meno e poi puntualmente la voce di Lucia cambiava, di sicuro perché lui aveva fatto qualche gioco di parole dei suoi. Che poeta che era.”

Non resistetti più. Fui attraversato da una scarica di rabbia.“Te l'avessi mai fatto incontrare! Hai lasciato me, hai lasciato Perla, sei

fuggita da tutto!” Sorrise scrutandomi fredda. Si massaggiò gli occhi con lentezza, come

per maturare la risposta.“Non posso farci niente. Tu quel giorno hai messo il pezzo mancante. E

il passato è risalito su, e tutto ciò che pensavo di aver cancellato ho capito di averlo solo rimosso. Sei stato tu. Perché io conoscevo Arturo ma non conoscevo Arturo Milelli. Avevo sempre saputo che Lucia si era trasferita a Blasoria per andare a vivere con lui, ma niente di più. Senza quel cognome la casa con tutte le memorie scritte sarebbe rimasta nella mia fantasia. Invece così non ho avuto difficoltà a trovare l'indirizzo, mi è bastato scorrere un elenco telefonico.”

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“E' strano che la linea sia ancora attiva.”“Era un vecchio elenco di mia zia. Su quello attuale il nome non c'è

più. D'altronde non avrei mai fatto ciò che ho fatto, se fossi stata certa che Arturo viveva ancora a Blasoria. Invece ho sperato che se ne fosse andato lasciando la casa disabitata, e ho indovinato.”

“Ma in museo ti è bastato vederlo due minuti, per riconoscerlo.”“Sì. Patalusio era proprio una delle parole che mi disse al telefono

quando Lucia me lo passò, quell'unica volta. Era davvero lui, Arturo era il Milelli che tu avevi schernito davanti ai tuoi amici.”

“Io però adesso la penso diversamente, non lo tratterei più così. Lo stimo, l'ho rivalutato del tutto. Lo voglio persino aiutare a guarire.”

“Chi vuoi aiutare? Non ti è bastato leggere ciò che ha scritto lui stesso? Diceva che sarebbe peggiorato e infatti ha mantenuto la promessa. E' lo zimbello del museo, è impazzito.”

“Secondo me non del tutto. Perché non mi aiuti? Visto che a lui ci tieni così tanto.”

“Io non voglio averci più niente a che fare, vederlo ancora sarebbe solo una tortura. A parte il fatto che perderei tempo, ma quel confronto con Lucia mi ha fatto affondare, voglio andarmene. Sono passata nella vita di Arturo come aria tiepida. E me ne andrò come aria tiepida.”

“Come ti aspettavi di passare? L'unico contatto che hai avuto è stato una chiacchierata al telefono.”

“In quella chiacchierata ci dicemmo un'infinità di cose. Cambiammo discorso dieci volte, attraversammo l'universo delle idee.”

“Esagerata.”“Sì, esagerai a pretendere che anche lui fosse coinvolto come me.

Invece si dilettava, si distraeva soltanto. Ma la sua voce mi rimase dentro, mi è rimasta dentro fino ad oggi. Io credo di aver amato solo un uomo nella mia vita. Banale, ma è così.”

Di nuovo si massaggiò gli occhi. Attendevo esausto. “Aldo, con una goccia di seme può nascere un essere di ottanta chili, e

con un colloquio telefonico di un attimo è nato un sentimento indistruttibile. Sembra una follia ma mi è capitato proprio questo. Io non l'avevo ancora capito bene, che certi sentimenti sono indistruttibili. Fino a quando non mi hai fatto incontrare di nuovo Arturo.”

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Mi domandavo come fosse stato possibile lasciar andare Giorgia senza un saluto particolare. Ero ancora seduto, un bracciolo della sdraio dava l'impressione di stare per cedere. Ripercorrevo gli ultimi minuti prima del congedo, in una moviola inutile. Parlavo da solo, commentavo e traevo giudizi nervosi. Lei non aveva aggiunto ulteriori parole, si era alzata alla sua maniera senza reagire minimamente alle preghiere di restare. Mi aveva lanciato le chiavi da lontano poco prima di scomparire al di là del sentiero nascosto. Facci quello che ti pare, mi ripetevo questa chiosa lancinante, a tratti urlandola.

La curiosità di sfogliare i quaderni lasciati nella cucina non era scemata, ma combatteva con un ammorbante senso di castrazione che mi fiaccava i muscoli costringendomi alla stasi. Riflettei sulle ultime idee scambiate prima che rimanessi solo; Giorgia aveva mostrato una faccia

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nuova, contraddicendo l'immagine che mi ero formato di lei. Aveva decretato che Arturo era irrecuperabile, deridendo le mie speranze. I ruoli si erano invertiti. Ricordai le tante cene rovinate da discussioni sull'intelligenza, sulle nevrosi, sulla pazzia. Io avevo sempre figurato come l'equilibrio scientifico fattosi persona, Giorgia si era spesso persa nei meandri dell'analisi psicologica esasperata, supportando le proprie tesi con argomenti inconsistenti ai miei occhi. Istintiva, irrazionale, mistica, in eterna lotta col positivismo che scaturiva da menti come la mia. Contraria alle classificazioni che invece io allestivo quotidianamente, per necessità quasi vitale. Fiduciosa in una sorta di programma universale che assegna ad ogni anima un ruolo esatto e divino, mentre io mi battevo per convincerla del contrario, convincerla della distinzione tra sanità e malattia, tra socialità e disadattamento, tra fortuna e sfortuna. Adesso invece Giorgia si era mostrata con una faccia inedita, era passata sul mio progetto di aiutare Arturo con la stessa pesantezza sorda che usavo io quando le recidevo i pensieri astrusi che non gradivo. Arturo poteva essere salvato, questo io ormai lo credevo. Ero certo che una malattia provocata esclusivamente dalla ragione poteva venire debellata da un antidoto costruito nei laboratori della ragione stessa. Dentro la testa di Arturo doveva trovarsi la medicina, forse in un posto raggiungibile con difficoltà. Nella sua storia mentale Arturo era saltato dal livello della sofferenza a quello della cecità, senza passare per il livello medio. Aveva deciso di spingere al massimo i suoi esperimenti in una direzione pericolosa, senza impegnarsi a percorrere un tragitto meno drastico. Il tragitto della pazienza. Anziché aprire le porte al mondo, anziché accettare l'arcobaleno dei segnali esterni con tutte le tinte, dalle più calde alle più fredde, Arturo aveva deciso di sbarrare l'ingresso prima della soglia cosciente. Ma ora qualcuno avrebbe fatto di tutto per redimerlo. Accettare l'universo, solo questo doveva succedere ad Arturo.

Mi alzai solerte, raggiunsi la cucina. Il primo quaderno che visionai mi colpì soprattutto per la data impressa sulla prima pagina. Arturo non aveva smesso di visitare la sua vecchia casa almeno fino al nove luglio scorso. L'argomento trattato rientrava nei canoni usuali.

Voglio che la mia voce diventi il canto tanto piacevole di una capinera. Una capinera dolce linda piccola e pulita, appoggiata con le zampine sul ramo di un biancospino. Canterò come lei, oh come suona gradevole l'armonia di parole liquide senza ombra di morale o di rigor formale! Essere come lei, comunicar candore dalla gola canora, e intanto le mie fattezze corporee resteranno aspre goffe e mute proprio come le fattezze corporee di quell'uccellino lì, con un becco a punta e un occhio fondo inespressivo, con mosse selvatiche così distanti dalla musicalità del verso! Così per me, che porto il peso di esser uomo, che ho la colpa di dover scaldare queste membra per non scendere sotto ai trentasei gradi, e ho una bocca selvatica che deve divorare e un occhio fondo che mi deve far

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orientare e che scandaglia e nulla trova, e intanto però produrrò la melodia calda di una capinera, contro ogni previsione, contro ogni scommessa dell'avventore. Chi mi vedrà da lungi vedrà una dolce capinera, un dolce profilo di homo sapiens, chi mi ascolterà ascolterà note dolci ma quando si avvicinerà non potrà rinvenir un pari messaggio stampato sul mio corpo caduco. Parole soavi verran generate da una cavità orale dura di pelle vecchia e di tessuti ispessiti dagli anni di questo Arturo ormai grande e rugoso. Ma canterò, sì canterò come una capinera quando verrà il tramonto, e la mia voce...

Diversi quaderni recavano date anche più recenti. Nonostante mancassero gli eserciziari scritti in passato, il materiale era sufficiente per comprovare la non estinzione della creatività di Arturo. Sentivo che il mio progetto editoriale avrebbe riscosso un discreto successo, purché si fossero selezionate le pagine opportune. Una vampata di calore mi percorse il ventre fino al collo; immaginai Arturo di fronte all'opera, immaginai la mia dedizione nel condurlo fuori dal tunnel giorno dopo giorno o magari nel giro di poche ore, conversando, discutendo, ragionando. Avrei sciolto tutto il ghiaccio che lo ibernava.

Crollai in un attimo, quando realizzai che non mi sarei comportato così se il mio collega avesse nutrito sentimenti particolari per Giorgia. Ripercorsi le incoerenze del mio rapporto con lui, mi tornò su l'accecante emozione sensuale provata poco prima vicino a Giorgia. La percezione di un'unità interiore svanì, i fili che muovevano le mie azioni furono stanati e si mostrarono sfrangiati, sparpagliati. Tornai a riflettere sul grado di amicizia che mi legava ad Arturo, provai sconforto per non poter dimostrare l'assolutezza del mio desiderio di vederlo sano e felice. Mi domandai se in tutti questi mesi non avessi rimosso qualcosa di molto fastidioso, ma come di consueto non seppi rispondermi. Tornai a sfogliare un quaderno.

Notavo che la verve di un tempo si era spenta. Gli indizi più certi della flessione emergevano a tratti, tra una meditazione e l'altra, inequivocabilmente.

Questo tempo senza teannaspa tumefatto in olio nero.Mi han detto che devo aspettare,che devo restare ancor qui,ancor qui senza te.Capire Lui, capirLo, quando sarà?Volano stanchi i colombi sopra i tetti.Capire Lui, senza di te, come sarà?Ma han detto che devo attendere. Posano stanchi i colombi sopra i tetti.Posarsi,

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finalmente posarsi. . . . . .

Com'è lontano quel mattinocon tutte le carte in regola.Com'è silente quel ricordodi un argano che non cigola.C'è una ruggine amara sul viso,c'è una pena che solca le mani.Se mi chiedi se penso a domaniti dirò ch'è già tutto deciso.C'è una ruggine salata, e i miei ricordi...

Dopo alcune pagine di poemetti intercalati a pensieri la scrittura divenne di colpo elegante e precisa. Le parole erano più marcate. Pensai a una sorta di testamento ma l'ipotesi fu presto smentita.

Caro Angiolino, la mia mente non concepisce il momento - se mai un tale momento vi sarà - in cui il mondo si impossesserà di queste righe che seguono. Io ti auguro che un tale momento non occorra, né presto né tardi né in alcun giorno futuro. Anticipo la tua naturalissima domanda: perché dunque scriverle, queste amare righe? Ed eccoti la rispostina umile umile: perché lo sento, e ciò mi basta per agire.

Angiolino caro, o meglio Soprintendente caro, ti parlo usando la seconda persona allo stesso modo di come facesti tu nella saletta delle statue, ricordi? Non avrei mai osato abusare così, altrimenti. Già, la salettina delle statue, tanto piccina tanto graziosa, fu quello l'ultimo posto che ci vide colloquiare prima che io sparissi dalla necropoli centrale.

Ed eccomi raggiungere il primo punto del discorsetto su carta, un discorsetto che potrà rimaner nascosto oppure no, chi può deciderlo? Io oramai mi dissolvo nel tempo, io oramai sono schiavo del mio male più di prima, sempre più di prima. Ma oggi una luce mi rischiara il pensiero, oggi come pochi altri simili oggi. E dunque mi esprimo. Sento però già farsi largo il dolore del raziocinio, la pena del dover pensare e riflettere. Presto tornerò nella mia conchiglia fatta di patalusi crostili e pizzidorie, fatta di nulla, sempre più di nulla e di tutto.

Cosa mi dicesti in quella graziosa saletta? Non ricordi? Te lo ricordo io, caro Angiolino. La procedura per trasferire Milelli Arturo a Gaglianello era in atto, questo si sapeva ufficialmente, ricordi? Milelli Arturo aveva chiesto di essere trasferito per problemi personali, anche questo si sapeva ufficialmente, rammenti? La dottoressa Fumasante Marina mi aveva comunicato che i tempi erano maturi, ed ecco l'episodio della saletta. Ti imbattesti in me, ti fermasti a debita distanza, mi guardasti come si guarda un demente. Sapesti dire soltanto: ciao, Arturo, ciao!

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Tu sapevi tutto, caro Angiolino, il tuo sguardo parlava. Parlava e diceva che Milelli è un demente e che bisogna tenerlo a bada e assecondarlo. Tu sapevi, ma perché non decidesti di liberarti di me? Potevi spedirmi via, in un qualsiasi postaccio che vorrei chiamare manicomio. Invece anche durante il fugacissimo incontro nella saletta ti allontanasti da me con candore nascondendo il tuo sguardo conscio, ma io per conferma ti dissi: milistri pisicura! E tu niente. E io: fretile pitalusio, palizzi! E tu niente. Ciò perché volevi assecondarmi, come si usa fare con i dementi per non alterarli. E dunque il tuo silenzio ti tradì. Ma perché non decidesti di farmi sparire dal mondo civile? Avresti così evitato lo scandalo che rischia di divampare nel museo. Io qui sto peggiorando e divengo incontrollabile di giorno in giorno sempre più. Ma caro il mio Angiolino, tu anelavi proprio a quello scandalo. Ed ecco la seconda parte della mia rivelazione, più pesante più grave più penosa della prima. Sì, tu anelavi ed aneli allo scandalo!

Son passati ormai sei giorni da quando venisti a far visita al museo. Che giacca elegante e che legnoso rumor di scarpe nuove, tu e il tuo braccio destro assessore in comune. Non vi stupiste quando dal fondo del corridoio spuntò il folle Milelli, vero? Anzi lo guardaste con aria soddisfatta, mentre finiva di dire la sua frase bislacca. Un museo dentro al museo, la Finestra del Milelli dentro al museo etrusco, oh quale divertimento per voi! Ma quando vi allontanaste scomparendo non vi poteste accorgere che il molle Milelli era balzato quatto quatto all'angolo prima del corridoio che percorrevate. E lì vi ascoltò, oh miseri! Le parole esatte? Eccotele: Sì sì è proprio partito. Prima non era così. Sì sì. Tra un po' il nodo verrà al pettine e Sorice se ne accorgerà. E con lui tutto il museo, andranno alla malora, alla malora! E l'altro rispose: Complimenti!

E allora io mi rammentai di quando Francesco Sorice mi diceva di non preoccuparmi, mi diceva che nel museo mi sarei trovato bene e che lui mi avrebbe rispettato purché non mi fossi comportato male, e male voleva dire tutto quel che si può immaginare. Ricordai Francesco e anche i sorrisi della dottoressa Marina che non so perché ma fu sempre tanto affettuosa con me. Caro Soprintendente, perché odiavi Francesco in quelle tue acide parole? Cosa ti aveva fatto? Perché volevi la malora di lui e del museo? Non compresi le tue parole buie, né le comprendo adesso, ma mi feriscono, e mi ferì la tua putrida soddisfazione che comunicasti all'assessore. Non compresi, non comprendo, ma sento amore per Francesco e odio per te, voglio bene bene a Francesco e voglio male male a te, e allora scriverò tutto perché rimanga nel tempo, anche se nessuno se ne accorgerà. Rimanga la tua voce sozza, rimanga il tuo fetido piacere di sapermi folle, rimanga il secco e morto rumore legnoso delle tue scarpacce.

Le frasi riportate da Arturo collimavano con certe lamentele sul soprintendente che avevo udito spesso. Nel museo le voci di preoccupazione

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per il suo atteggiamento erano all'ordine del giorno. In particolare il ragionier Fazzoletti, la segretaria Manzi e le due anziane archiviste non nascondevano il sentore che il professor Angiolino si cimentasse da anni a far concentrare tutti i fondi provinciali sulla necropoli, a discapito del museo di Gaglianello e del centro documentale di Rivolago. Secondo loro era costantemente alla ricerca di occasioni propizie per screditare le due istituzioni a favore della necropoli. Più di una volta si erano accese vive discussioni prima della firma di uscita, tra chi temeva lo sfacelo e chi criticava l'eccesso di allarmismo. Mi ricordai del battibecco tra Fazzoletti e il giardiniere Di Giacomo, a settembre; il ragioniere sventolava un quotidiano ripetendo che da un momento all'altro sarebbe arrivata la privatizzazione con tutte le conseguenze, Di Giacomo lo criticava come era solito fare. Ma quella volta dalla discussione si passò a uno schieramento di persone con urla e offese varie. In genere le preoccupazioni di Fazzoletti e dei pochi altri erano viste con disprezzo dai custodi, dai tecnici, dagli addetti alle pulizie; sembravano soltanto chiacchiere di politica spicciola, lamentele ipocrite di sindacalisti falliti, discussioni da salotto. Probabilmente in quelle critiche c'era qualcosa di vero; anche senza il supporto della provincia la realtà del museo sarebbe rimasta evidente. Il flusso turistico non dava segni di indebolimento, le vestigia del popolo etrusco a Gaglianello non sarebbero certo state intaccate da un cambio al vertice.

Il mio timore per un'eventuale privatizzazione era blando, ma non assente. Immaginai il professor Angiolino pubblicamente indignato per la questione di Milelli; le rivelazioni appena lette dettero un serio valore alle scene che mi scorrevano in testa. Malgrado ciò, la banale idea di presentarmi dal soprintendente col quaderno di Arturo in mano fu presto smontata. Mi tratteneva un profondo senso di ossequio, anzi qualcosa di più. Dovetti riconoscere che nutrivo stima per il professor Angiolino. Non avrei mai potuto mettere a soqquadro certi sentimenti maturati lentamente, dopo mesi di piccole interazioni positive. Riaffiorò la sua affabilità dei primi giorni, quando mi aveva introdotto alla vita lavorativa del museo con competenza ed entusiasmo, compiaciuto per la mia assunzione. Riemersero le due passeggiate pomeridiane nella necropoli durante le quali avevamo parlato appassionatamente di etruscologia, una volta sbrigate le questioni amministrative per cui ero stato convocato. Pensai alla sua barba bianca, densa e rilassata, nella quale convogliavo idee di saggezza e nobiltà d'animo tutte le volte che la scrutavo. Talvolta mi ero chiesto se alcune qualità fossero riconducibili al triste concetto di diplomazia, ma la domanda naufragava sempre in un mare tiepido e accogliente.

Non sarei mai riuscito a distillare eventuali componenti marce nel suo animo. O meglio, tali componenti non influivano. Ciò che avevo appreso da pochi minuti stazionava disaggregato dall'immagine unitaria e bella che avevo di lui. Benché rilevassi l'effettiva presenza di macchie non avrei mai

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trovato la forza per attaccare e semmai ferire. Senza eccessive riflessioni optai per una tattica diversa. Nei miei

progetti la pubblicazione delle opere di Arturo divenne ancora più necessaria. Radunai le buste piene di quaderni, telefonai al mio amico editore. Il messaggio della segreteria mi informò che Manlio Cioci sarebbe rientrato presto, poi giunse un lungo sibilo. Parlai con troppa eccitazione.

“Manlio! Volevo passare a trovarti. Oggi pomeriggio, eh? Se ci sei, sennò pazienza, allora a dopo!”

Il mio amico mi apparve dimagrito e astenico. L'attico era intriso di fumo più dell'ultima volta che ero salito da lui, durante l'estate scorsa. Volevo domandargli se fosse reduce da un'influenza o qualcos'altro. Mi anticipò.

“Ieri ti avrei detto di non venire. Avevo trentotto e un mal di testa da pubblicità per i cachet.”

Ci accomodammo sul solito divano di pelle consumata. Passammo i primi dieci minuti a parlare di ciò che usavamo definire tempi mitici; mescolammo ricordi storici a notizie fresche sui nostri compagni di classe, come avveniva di consueto quando ci incontravamo. Lo pregai di trattenersi dal fumare finché non fossi andato via, lui rise con le sue tipiche mitragliate di acuti spezzate da ruvide riprese di fiato. In effetti però obbedì.

“Aldo mio, Aldo mio, tu mi porti sulla cattiva strada. Non vorrai mica farmi morire di vecchiaia?”

Dopo altri pochi minuti troncai di netto il flusso ilare della conversazione.

“Manlio, ascolta. Ho un po' di materiale per un bel gioiellino di libro.”“Ah. Ti sei messo a scrivere?” Ancora rideva per una battuta che avevo

fatto poco prima.“Non io, non io. E' un mio collega, uno in gamba. Se credi vado in

macchina e ti porto tutto su.”“Perché no?” Mi aveva preso sul serio senza indugio. Corsi in

macchina. Prima di caricare le buste nell'ascensore estrassi il quaderno che incriminava il professor Angiolino. Lo piegai leggermente nascondendolo all'interno del giaccone.

Verso casa guidavo sereno, non riuscivo a innervosirmi malgrado restassi più volte imbottigliato in marasmi di tifosi che tornavano dallo stadio. Manlio aveva sfogliato solo le pagine iniziali di un quaderno, peraltro uno dei meno significativi secondo me, ma gli era bastato per accettare di leggerli con più calma. La vita di Arturo lo aveva incuriosito, non batté ciglio quando ne apprese i momenti salienti dalla mia voce.

La salda amicizia non mi aveva esonerato dall'imbarazzo quando

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dovemmo parlare di soldi, di sponsor e questioni simili. Ci liberammo del discorso in un momento, tranquillizzai il mio amico estraendo il bancomat con un gesto pateticamente esagerato.

“Aldi', non sapevo che fai il collezionista di carte scadute, io mi limito alle schede telefoniche!” Ma i suoi occhi si erano socchiusi rivelando una timida soddisfazione.

A casa dovevo farmi vivo al più verso le sette e mezza, così da presenziare un minimo alla festa di compleanno di Ivano. Mancavano due orette. Quando incrociai il viale che conduceva al Liberatore non resistetti, anticipai i programmi legati ad Arturo.

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I colori del tramonto conferivano alla casa di cura un aspetto contrastante con le finalità dell'istituto. Il giardino dove avevo visto passeggiare Arturo sembrava l'ala di un piccolo orto botanico. I silenziosi zampilli di due fontane di marmo scuro comunicavano segnali pacifici, le siepi erano inebriate dal gioco delle ombre che procedevano conquistando isole di luce arancione intensa, tra la vegetazione e il selciato. Tuttavia non faticai a realizzare che le sensazioni positive erano legate all'assenza di pazienti deambulanti. Supposi che la cronaca della partita di calcio e i successivi commenti avessero radunato tutti in qualche locale interno, malgrado non sapessi immaginare i ricoverati assorti davanti a un televisore, Arturo compreso. Ad avvalorare l'ipotesi di una riunione erano quattro finestre adiacenti illuminate, sulla parte destra della facciata al primo piano. Pensai a una grande sala. Mi avvicinai e rimasi fermo in piedi cercando di scorgere Arturo tra il movimento anonimo delle figure dietro alle tendine.

Una voce mi distolse, proveniva dall'ingresso dell'istituto. Sembrava il lamento di un ragazzino ma quando inquadrai la sorgente mi accorsi che due adulti discutevano con fervore. La persona di spalle era una donna e aveva lo stesso taglio di capelli di Giorgia. Scattai verso di loro, mi fermai quasi subito perché notai un gesto che non apparteneva affatto a Giorgia. Per sicurezza avanzai ulteriormente fino a poter apprezzare entrambe le voci e qualche dettaglio fisico della donna. Mi calmai.

Volsi lo sguardo alla fila di finestre, la luce era stata spenta. Intanto si andavano illuminando varie finestrelle qua e là, nei due piani superiori. Ispezionai l'interno di alcune stanze sul lato sinistro. La sagoma di un uomo simile ad Arturo mi colpì. Emerse dal chiarore di una cameretta angusta al terzo piano. Si avvicinò al vetro con lentezza, appoggiò i palmi alla lastra. Fui certo che era lui quando incurvò il busto come usava fare presso la finestra del museo. Non capivo dove stesse guardando; le arcate oculari

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erano gonfie, le palpebre lasciavano aperta soltanto una fessura. Lo salutai ma fu inutile. Volli entrare.

Davanti al portone semiaperto ora sostava una giovane coppia, la ragazza parlava con qualcuno che doveva trovarsi all'interno. Li raggiunsi, intravidi una suora sorridente. Temporeggiavo. Mi inchinai simulando di tirarmi su i calzini, intesi che discorrevano di un anziano da dimettere. Mi sembrò che la suora avesse detto aspettate un attimo. Infatti scomparve. Balzai sui gradini infilandomi tra i due, chiesi scusa, entrai e vidi la religiosa di spalle a pochi metri nel corridoio centrale. Aveva preso carta e penna da un ripiano, stava per voltarsi. Mi diressi subito a sinistra verso le scale. Giunsi al terzo piano con falcate silenziose.

Una porta di vetro smerigliato forse introduceva alle camere. Era solo accostata, le detti un colpetto restando nascosto sugli ultimi gradini prima del pianerottolo. Lo spiraglio che si aprì bastò a far giungere la voce del sorvegliante di Arturo. Gelai, scesi di lena due file di scale arrivando quasi al piano inferiore. Da quella nuova posizione lo sentii scherzare con una donna, parlavano di stipendi. Risalii tenendo d'occhio la porta a vetri. Le voci si allontanavano, giunsi sugli ultimi gradini e poi sul pianerottolo. Azzardai uno sguardo all'interno della stanza, era in penombra. Al centro notai un gabbiotto poco illuminato senza nessuno dentro. Al di là della struttura riconobbi una camera con una larga branda nel mezzo. Il sorvegliante e la donna stavano proprio lì, avevano entrambi un camice rosa. Del paziente steso vedevo soltanto i piedi. La donna scomparve dietro al letto ripetendo poche parole con svogliatezza.

“Buono, su, buono. Ecco fatto, a nanna, andare a nanna adesso.”Vidi altre due camere a destra e a sinistra. Quella di destra era aperta

ma buia; a sinistra invece un chiarore fioco mi fece intravedere un corpo eretto. Era Arturo, aspettava sulla porta. Ci guardammo, sembrava consapevole della mia presenza. Automaticamente portai l'indice alla bocca per dirgli di stare zitto, lui mi stupì annuendo a scatti con la testa. Scesi di qualche gradino. La donna tornò a parlare di soldi, l'altro ogni tanto mugugnava. Uscirono, Arturo emise un breve ululato. Il sorvegliante intervenne.

“Eccoci signor Milelli, eccoci.” “Oggi la punturina o la punturona?” Sembrava sereno. “Pilisi

punturina migliazza punturona. Gròtile fralicci patalusi.”“Oggi la punturina” rispose secco l'uomo. Dai passi capii che stavano

entrando. Emerse la voce severa della donna. “Come va?”Dopo qualche secondo il tono si fece ancora più teso.“Allora come va? Signor Milelli! Si stenda, intanto.”Dopo altri lunghi secondi arrivò la risposta, alla fine di un lamento da

gatto.“Come va. Bene bene. Il dolor per la puntura passerà, passerà.”

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“Monica dammi una mano.” Sentivo un fruscio, come se stessero vestendo Arturo a fatica.“Sta' attenta al collo. Così, così.” Tornai sul pianerottolo, aprii deciso e mi intrufolai nella stanza buia a

destra. Il sorvegliante cominciò a tossire, la tapparella venne abbassata di fretta.

I due si congedarono da Arturo dopo nemmeno un minuto. I continui colpi di tosse del sorvegliante mi rivelavano dove erano diretti. Sostarono nel gabbiotto per poco tempo, poi lasciarono la stanza. L'ultimo attacco di tosse rimbombò per la tromba delle scale sovrapponendosi a una frase della donna che non capii.

Uscii dalla camera, oltrepassai il gabbiotto fermandomi davanti alla porta di Arturo. Non lo sentivo parlare, ruotai il pomello con delicatezza. All'interno trovai il buio totale; la flebile striscia di luce proveniente da fuori connotò il letto. Guardai la sagoma coperta dal lenzuolo fino al torace. Il respiro debole scandiva i secondi, pensai che Arturo dormisse. Un indumento insolito cingeva il collo e le spalle, forzando le braccia a stare quasi conserte. Rimasi fermo, non riuscivo a produrre pensieri. Chiusi gli occhi.

“Signor Aldo.”Mi scossi, lo scrutai. La bocca era rimasta ferma sull'ultima vocale. Il

bianco delle cornee ora spalancate sembrava di cera, tutto il volto in effetti era come di cera, impassibile e senza apparente controllo volontario. Individuai una sedia presso la finestra. La portai vicino al letto, chiusi la porta.

“Arturo. Come stai?”Rispose dopo aver inspirato lentamente.“Come sto.” Aveva un'evidente difficoltà a dar fiato alle parole. Sperai di

infondergli energia.“Ho fatto come mi hai detto tu, ricordi? Adesso divulgherò i tuoi

appunti e salverò Francesco. O almeno ci proverò. Comunque i tuoi quaderni sono interessanti, sono bellissimi. Diventeranno un bel librone.”

Non registrai alcuna reazione. Tentai di nuovo, portai una mano sulla sua spalla più distante.

“Arturo tu devi tornare a scrivere, e devi tornare a vivere. La gente ha bisogno di te, delle tue invenzioni. Della tua bravura di guida. Tu sei una guida speciale.”

Il rigore del viso si sciolse lentamente in un'espressione stordita ma umana. Approfittai del varco. Mentii con gratuità impressionante, senza percepire la minima colpa.

“In soprintendenza ti aspettano. La dottoressa Marina ti aspetta, e con lei tante altre persone che ti apprezzano e ti ricordano. E Francesco vuole che tu guarisca. Francesco vuole che Milelli torni quello vero.”

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L'unico movimento fu la chiusura della bocca seguita da una lieve contrazione delle narici. Tolsi la mano dalla spalla, ragionai su una strategia verbale di maggior impatto. Mentre chinavo la testa mi sorprese.

“Aldo non dire corbellerie. Aldo non dire.” Il timbro sembrava quello di un robot con le pile scariche. Attesi una

continuazione. Arrivò presto, con più intensità ma sempre inespressiva.“Angiolino Angiulinu Angiuliiii. Lui sa tutto ed è cattivo.” La voce cominciò a modellarsi trasmettendo informazioni anche

emotive. “Il mondo è cattivo. Angiolino il mondo la sporcizia. Il mondo è sporco

e triste e brutto e Milelli se ne va, se ne va. Aldo. Se ne vaaaa.” Alla fine il tono era diventato quasi umoristico. Sorrisi con un freno di malinconia.

“No, Arturo, no! Milelli non se ne va proprio per niente! Milelli invece adesso si sveglia e gioca con me. Pazienza se Angiolino è cattivo e se il mondo è quello che è.”

Presi il portafoglio, estrassi una banconota. Gliela avvicinai al petto scuotendola un po', lui mosse la testa infastidito ma curioso.

“Arturo guarda. Ho imparato anch'io, guarda qui. Questo non è un numero, non è affatto un venti! E' un disegnino, è un arzigogolo fantastico, forse è una lampada con vicino un pallone da rugby, forse invece è solo uno svolazzo con un altro svolazzo accanto! E queste non sono lettere, piuttosto sono simboli misteriosi. E il numero civico di questo posto orrendo dove sei rinchiuso non è undici, non è nemmeno qualsiasi altro numero. E' un disegno, sono le teste e i colli di due ochette che nuotano insieme. Sto migliorando, non ti pare?”

Quando schiuse le labbra mi ricordò Ivano davanti al regalo che gli avevo portato dopo l'operazione all'appendicite. Mi sforzai di dare significato all'accenno sbiadito di contentezza che trapelava a fatica dalla bocca troppo statica.

Quello delle labbra fu l'unico effetto macroscopico. In breve serrò gli occhi con pesantezza.

“Eeeeeeeh, uuuuuuuh” mormorò con tono più acuto. Sperai che non si stesse addormentando. Misi via la banconota, alzai leggermente la voce.

“Ti ricordi di quando scrivevi i tuoi primi esercizi? E della raccolta di itinerari sulla necropoli? E di Blasoria, dei tuoi compaesani che ti guardavano perché avevi la faccia da genio, Arturo ti ricordi?”

“Mmmmmmh.” Non capivo se accondiscendeva o se stava passando alla fase del sonno

lanciando le ultime risposte automatiche. Proseguii, leggermente intristito.“La realtà, Arturo devi affrontare la realtà. Non si può saltare il fosso,

bisogna metterci i piedi dentro. E poi vedrai che non è così male, puoi fare tutti gli esercizi che vuoi e intanto vivere, conoscere la vita e la parte bella del mondo. Perché la parte bella c'è. Puoi amare. Bisogna accettarsi, tu devi soltanto smettere di scappare. Devi fermarti alla realtà, mi ascolti?”

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Dalla stasi del volto avrei potuto giurare che dormiva, ma un lungo tremito del collo sembrò contraddirmi. Nel dubbio continuai, con assai meno determinazione.

“Non devi farti distruggere dalla tua sofferenza. Le persone sensibili come te hanno un dono, e devono custodirlo, e devono comunicarlo. Tu devi amarti così come sei, e poi potrai anche...”

Ero indeciso. Presi fiato.“Poi potrai anche innamorarti, di nuovo e bene. Con una che ti ama

veramente, non a metà.” Temetti. Invece cominciò a russare. Presto però il collo tremò di nuovo.

Tra i respiri successivi si insinuò un pigolio indecifrabile, incolore. Restai seduto per altri cinque minuti, non successe più niente. Una

percussione sorda rimbombò per la tromba delle scale. In un attimo mi capacitai di quanto fosse rischiosa la mia intrusione. Uscii di lena, sostai sul pianerottolo guardando in basso. Ispezionai tutta la rampa e l'inizio del corridoio al piano terra. Non c'era nessuno eppure non riuscivo ad attivarmi. Mentre provavo a guadagnare convinzione il sorvegliante comparve al primo piano, era solo e saliva lentamente. Mi rintanai di nuovo nella stanza vuota a destra. La tosse non era cessata, i passi ora si affrettavano.

Lo sentii entrare nel gabbiotto; un rumore di fogli si alternava a pause in cui sembrava che stesse leggendo o scrivendo. Dopo pochi minuti lasciò il gabbiotto chiudendolo a chiave. Attesi senza udire niente, pensai che stesse controllando i due pazienti. Ebbi la conferma quando nell'arco di tre-quattro secondi comparve e scomparve il respiro ormai pesante di Arturo. Finalmente riconobbi i passi del sorvegliante sul pianerottolo e poi giù per le scale. Scattai, mi affacciai spiando la traiettoria. Arrivato al primo piano l'uomo entrò dalla stessa porta da cui era apparso. Scesi al secondo piano, il rumore dei passi diminuì finche non sentii aprire a chiave una porta. Scesi ancora, mi fermai a pochi gradini dal primo piano. Corsi giù velocemente. Al piano terra era tutto buio, ciò mi diede sicurezza. Giunsi al portone, trovai un grosso bottone che fece schioccare la serratura.

A cena ero visibilmente ritemprato rispetto ai giorni scorsi. Mi sarei aperto senza indugi se mia madre o Silvia avessero voluto conoscere la ragione di tale miglioramento. Invece doveva essere successo qualcosa durante la festa di Ivano, e adesso l'aria era avvelenata. Supposi che lo zio Carlo avesse sollevato la solita discussione con qualche commento fuori luogo sull'educazione di mio nipote, coinvolgendo prima sua moglie e poi tutti gli altri. Nonostante questo sentore non riuscivo a partecipare alla mestizia, né mi veniva spontaneo informarmi dell'eventuale episodio spiacevole. Mangiavo con gusto, scherzavo di continuo. Sul finire della cena sentii crescere l'urgenza di comunicare le ultime vicende. Ma Silvia estinse con poche parole il flusso di positività che mi scorreva dentro.

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“Aldi', perdonami se non te l'ho detto subito. Un quarto d'ora prima che arrivassi ha telefonato Manlio, ha detto che dopo usciva e che però di quella questione che sai tu non se ne fa nulla. Quale questione?”

A labbra secche approssimai una risposta a Silvia, minimizzando tutti i fatti che poco prima avrei voluto decantare. Andai in salone per tentare di trovare Manlio al telefono, passai quasi un'ora a fare su e giù tra il tavolo in cucina e il mobiletto, continuando a telefonare senza risultato. Verso le dieci meno un quarto Manlio mi rispose, era imbarazzato e frenato più di quanto immaginassi. Mi spiegò che aveva analizzato meglio i quaderni e che non si era saputo trattenere dal vederli come materiale per una tesi di laurea in psicologia, sicuramente una tesi di alto livello ma non certo un'opera da divulgare in forma di manualetto, di romanzo o altro. Quando gli chiesi se comunque se la sentiva di rischiare, elencò alcune case editrici che secondo lui non si facevano scrupoli a pubblicare qualunque cosa pur di arraffare denaro dall'autore. Alla fine sottolineò la sua onestà con se stesso e con gli altri, amici o no. Mi giurò che si sarebbe divertito persino a rischiare, qualora avesse creduto un minimo all'efficacia del prodotto.

“Aldo non voglio chiederti scusa. So che mi capisci, per fortuna ci conosciamo da sempre. E adesso è come se conoscessi da sempre anche questo Arturo, e ho pena per lui.”

Dopo aver attaccato ebbi la sensazione che una massa compatta e pesante si fosse incollata alle gambe come una zavorra di cui dovermi liberare. Percepii la voglia impellente di saltare un burrone per lasciarmi alle spalle giorni e giorni di vita amorfa. L'immediatezza di quell'atto di volontà mi sorprese, scatenato com'era da un evento puntiforme. La mente ora galoppava accelerando. Sentii l'urgenza di archiviare tutto, dal dramma di Arturo alle ferite di Giorgia, archiviare, andarmene e non voltarmi più, forse prendere un po' di giorni di ferie e scappare al mare in una locanda a prezzi modici, in un tugurio davanti agli scogli, in un qualcosa dove chiudere gli occhi e semmai ricominciare.

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Quel venerdì di metà maggio tutti i dipendenti della necropoli avevano smesso di lavorare alle quattro, come programmato da mesi. Davanti all'entrata era stato steso un lungo tappeto rosso che occupava il suolo pubblico fino alla fontana dei Martiri, a un passo dalla strada principale. Il sindaco e il soprintendente erano attesi per le cinque, intanto una fanfara intratteneva il pubblico esiguo ma in aumento. Il sole irradiava ancora con intensità vincendo su miriadi di piccole nuvole inoffensive. La televisione locale era già presente, riconobbi un membro della giunta comunale davanti alla telecamera. A fianco della biglietteria era stato allestito un palchetto con vari microfoni. Una scritta gigantesca sventolava come il traguardo di una corsa ciclistica, formava una specie di sipario alzato sulla pedana. Diceva: Finalmente il Parco Storico Etrusco è una realtà! Viva la Necropoli ancora più bella!

L'inaugurazione dell'area verde era stata oggetto di polemiche nel museo di Gaglianello. La segretaria Manzi aveva atteso fino al giorno prima un invito ufficiale da parte della soprintendenza, ma l'unica comunicazione attinente risaliva al trenta aprile ed era di carattere esclusivamente pubblicitario; una decina di immagini fotografiche, alcuni dati sulla spesa sostenuta e sul valore artistico dell'opera, infine una formale preghiera di diffondere la notizia dell'apertura imminente. La settimana dopo era stato recapitato un grosso pacco; conteneva mille copie di un opuscolo da distribuire ai turisti nel museo, si trattava essenzialmente di un itinerario nel nuovo parco storico.

Il ragionier Fazzoletti e la segretaria non avrebbero potuto trovare un'occasione migliore per rinnovare i loro timori. Questa volta però l'opposizione fu più blanda. Lo stesso Di Giacomo venne allo scoperto durante una firma di uscita, ammettendo che forse la Manzi, Fazzoletti, le archiviste e quanti altri non avevano tutti i torti.

La mancanza di un esplicito invito all'inaugurazione sarebbe caduta nel dimenticatoio, in altri tempi. Ma il licenziamento di Sorice aveva lasciato tracce indelebili in ognuno, anche in coloro che non erano mai stati in buoni rapporti con lui. Persino questi ultimi avevano dovuto constatare che la tragica circolare contenente l'atto di espulsione era corredata da una serie di lamentele sulla condotta dei capiservizio, sull'evidente mancanza di controlli adeguati, sul preoccupante livello di noncuranza generale. Nella penultima pagina il soprintendente si era poi definito profondamente addolorato anzi sconvolto per la palese testimonianza della degradazione di un luogo da sempre consacrato alla valorizzazione ed alla diffusione dei valori artistici, culturali, religiosi dell'eterna stirpe etrusca. Dopo altre cascate di parole auliche il professor Angiolino era infine sceso a terra

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domandandosi se e dove siano diffuse altre macchie di inquinamento. Il signor Sorice Francesco ha pagato e continuerà a pagare secondo la legge. Ma quanti al pari suo sapevano? Quanti permettevano che un pazzo si camuffasse da custode stipendiato? E quanti sarebbero tuttora disposti a creare altri scandali, di qualsivoglia natura, pur di ottenere un vergognoso salto di livello o altro? Mi auguro nessuno, e con il Sottoscritto se lo augurano il Sindaco e tutti gli impiegati comunali, il Prefetto e tutta la Prefettura, il Vescovo e tutti i cittadini. La Necropoli è il fiore all'occhiello della Soprintendenza e del Municipio, ed è in primis dovere del Sottoscritto evitare ogni contagio che la intacchi. Qualora il personale del Museo di Gaglianello si rivelasse inadempiente e pericolosamente contagioso, le conseguenze sarebbero naturali anzi più che ovvie.

La lettera del professor Angiolino non mi aveva scosso più di tanto. Ne ero venuto a conoscenza con leggero ritardo, dopo il rientro da una settimana pacifica trascorsa tra escursioni in barca, sagre del pesce e passeggiate serali sul lungomare. Il progetto di staccarmi da tutto per prendere respiro e ricaricarmi era andato a buon fine, e l'inaudito fuoriprogramma di Alice Mantovani mi aveva dato forza. Benché la storia con la figlia dell'albergatore non fosse durata nemmeno tre giorni, finendo amaramente per conclamata penuria di sentimento da parte mia, la virata emotiva prodotta dall'incontro mi aveva donato stabilità interna più di quanto chiedessi alla vacanza. L'euforia successiva al ritorno in città era riuscita a farmi addirittura sorridere, appena dopo la lettura della circolare affissa. Avevo sdrammatizzato con enfasi, procurandomi la prevedibile ondata di dissensi del bigliettaio Tozzi e degli altri presenti.

Ciò nonostante, il motivo che mi spingeva a presenziare all'inaugurazione era strettamente legato ai significati di quella circolare. Facendo seguito a tale comunicazione, infatti, il sette maggio mi era stata inviata una lettera dalla soprintendenza. Me l'aveva consegnata il caposervizio Tantini ancora sigillata, accompagnandola con un sorriso in equilibrio tra stupore e disagio, come un germe di presentimento. Dopo averlo tranquillizzato mi ero seduto nel suo stesso stanzino per leggerla; ma le prime parole mi erano parse subito brusche. Alla fine Tantini si era dovuto cimentare a tranquillizzare me, senza alcun risultato.

Gentile dottor Chierici Aldo,Il sottoscritto dottor Zanna Claudio, Segretario Particolare del

Soprintendente, desidera porLa al corrente della delicata situazione in essere presso codesto Museo dove Lei presta servizio senza alcuna nota di demerito, almeno sino ad oggi.

In dettaglio, il medesimo si riferisce a Sue connessioni con il radiato signor Milelli Arturo e con il reo signor Sorice Francesco. Dette connessioni - comprovabili da testimoni che prestano servizio nel citato Museo - sollevano preoccupazione e costituiscono perciò una ragion valida

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per richiederLe precise spiegazioni, che dovranno aver luogo nella stanza 2A della Soprintendenza, con viva sollecitudine.

Il medesimo attende dunque una Sua proposta di incontro, durante il quale non si esclude l'eventualità di un'ammenda proporzionata alla gravità dei fatti.

In fede, C. Zanna

Il cambio di marcia nelle mie dinamiche mentali fu senza precedenti. Lo stato confusionale dei primi minuti aveva prodotto la distruzione completa di tutti gli agglomerati psichici recenti, bruciando le oasi di calma che mi ero costruito giorno dopo giorno in vacanza. Il terrore aveva preso il sopravvento e scioglieva ogni ostacolo che gli venisse incontro, mentre dal caos prendeva forma una pulsione nuova, un programma all'avanguardia. Si coagulava aumentando di volume sempre più, intanto l'incendio perdeva terreno finché il pensiero finale fu pronto. Dovevo reagire, dovevo attaccare con l'unica arma disponibile.

Il contrasto con il passato fu ancora più eclatante per via del docile flusso di pensieri che mi aveva attraversato durante la vacanza. Perdendomi negli occhi e nelle gambe sensuali di Alice avevo accantonato facilmente la sete razionale di un tempo. La complessità drammatica di Arturo mi era sembrata un concetto ormai distante. Il mio proposito di usare i quaderni per riabilitare Sorice aveva manifestato un difetto cruciale, e cioè la carenza di legittimità morale; l'affetto per lui si era diluito in un otre di dubbi, non riuscivo più a esimermi dal giudicarlo male per quel salto di carriera. Durante gli ultimi giorni di mare il dispiacere per l'abbaglio preso con Alice non aveva affatto perturbato la mia visione serena e consapevolmente superficiale; ormai sentivo che le vecchie questioni non bussavano più così forte. Sorice si era trasformato in un semplice filibustiere, Arturo era tornato ad essere un esempio di squilibrato come altri mille. La sua misera parabola non terminava più con una probabile base di lancio, era diventata una comunissima traiettoria in picchiata.

Ora invece ero di nuovo sulla breccia. Se avevo classificato Francesco come un lestofante, per il professor Angiolino avrei dovuto usare un aggettivo assai peggiore che però non trovavo, escludendo i classici termini volgari di rinforzo. Mi capacitai senza difficoltà di quale divario ci fosse tra lo stato di allarme presente e tutte le altre fasi che avevano accompagnato il mio viaggio mediocremente avventuroso intorno alla vicenda di Arturo. Solo con questo recente terrore avevo fatto il salto di qualità.

Sostavo all'interno della biglietteria. La fanfara smise di suonare chiudendo un brano con anticipo; ciò mi procurò agitazione. Uscii e mi appoggiai al muro d'ingresso, perdendo lo sguardo verso la fontana dei Martiri. La tensione non mi lasciava, abbassai la testa notando la scarpa sinistra slacciata. Mentre facevo il doppio nodo a entrambe le scarpe con estrema cura per stemperare il nervosismo, con la coda dell'occhio

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riconobbi una mandria di uomini in tiro che si avvicinava dal lato sinistro della strada principale. In seconda fila, dietro a due presunti gorilla, riconobbi la chioma lanosa del soprintendente. Il professore incedeva col suo tipico passo felpato a fianco del sindaco e di un uomo anziano che non conoscevo. Dietro di loro invece mi apparve il volto del suo braccio destro assessore in comune. Comunicava la stessa rigidità torva del pomeriggio in cui il soprintendente me l'aveva presentato, durante una delle nostre passeggiate nella necropoli. La paura mi aggredì la bocca dello stomaco, temetti di non essere in grado di reagire a questa ennesima incursione psicosomatica. Mandai giù due volte, a vuoto. Alla terza una scarica elettrica mi sorprese le braccia, serrai i pugni fino a sentire dolore. A denti stretti mi ritrovai a sibilare tutte le volgarità che avevo pensato poco prima. Tornai a guardare in basso per non destare la curiosità dei presenti, sempre più numerosi e densi.

Uno scroscio di applausi si innescò in concomitanza con l'arrivo degli invitati nei pressi del palco. In pochi minuti salirono e occuparono le sedie predisposte sulla pedana. La fanfara aveva ripreso a suonare. Senza mezze misure trapassai il carnaio di spettatori fino a raggiungere la base del palco. Adesso allungando il braccio avrei potuto toccare le scarpe del soprintendente. Mentre mi soffermavo sullo sterile movimento dei suoi piedi nel ritmare la melodia, lui mi puntò. Era stupito tanto quanto mi aspettavo che fosse. Per reazione sorrisi, mescolando male la tensione della bocca col fuoco di rabbia che mi urgeva dagli occhi. Gli applausi proseguivano, il sudore mi scorreva giù da un punto imprecisato sopra la fronte, sensibilizzando la pelle che gelava ad ogni tenue spostamento d'aria. Estrassi il quaderno di Milelli, glielo sventolai all'altezza delle gambe. La sua espressione mutò con lentezza; alla meraviglia si aggiunse una netta componente di fastidio. Cominciò a fare segno di no con la testa sgranando gli occhi, come per comunicarmi l'inopportunità del gesto. Non rivelava alcun disagio o timore, a riprova della sua totale ignoranza nei confronti di quelle paginette che gli stavano perturbando i programmi. Smisi di agitare il braccio ma sgranai gli occhi allo stesso modo, muovendo la testa su e giù per affermare ciò che lui negava. Si alzò adirato, accostandosi al bordo del palco. Quando si incurvò per dirmi qualcosa di presumibilmente severo, lo anticipai.

“Scenda giù, per cortesia. Dovevamo fissare un appuntamento ma non occorre più. Ho una sorpresina.”

Ricominciai a sventagliare il quaderno fino a sfiorargli il naso. Si infuriò, mantenendo la voce bassa.

“Clerici ma cosa sta facendo! E poi le pare questo il momento, le pare!”Fissai i suoi occhi sanguigni. Attesi pochi secondi per organizzare una

frase d'impatto. Lui doveva aver intuito il mio sforzo, restava immobile. Sintonizzai la voce allo stesso livello, coniai un timbro anomalo ma efficace.

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“Lei è il primo della lista. Lei sapeva tutto, ha fatto trasferire Milelli a Gaglianello per portare un matto nel nostro museo. Se qualcuno deve pagare è lei. In questo quaderno c'è un documento chiarissimo, scritto da Milelli in persona. Venga a vedere!”

Stavolta ebbe paura. Aprì la bocca guardando nel vuoto. Mentre si affrettava a scendere gli andai incontro aspettandolo prima della scaletta. Lo vidi scusarsi col sindaco per il contrattempo. Quando fu davanti a me gli indicai una zona appartata a pochi metri dal palco. Lì mi posizionai a un palmo da lui, aprii il quaderno e cominciai a leggergli la cronistoria che lo inchiodava.

Durante la descrizione del suo incontro con Arturo il professore sbuffava con frequenza crescente. All'inizio avevo accolto quella manifestazione con immane piacere, ma più andavo avanti e più mi accorgevo che quelle espirazioni a getto mascheravano evidenti conati di riso. Quando arrivai all'episodio della spiata in museo mi dovetti fermare, sberleffi veri e propri interferivano senza tregua. Fui aggredito da una voce totalmente cambiata.

“Ma mi faccia il piacere, dottor Clerici! Come ha potuto credere a un matto del calibro di Milelli? E io la stavo pure ascoltando. Dottor Clerici!”

La sua estrema convinzione mi fece vacillare. Persi quota in un attimo, lui intanto rincarò la dose.

“E' proprio vero, il nostro è un paese di artisti e di scrittori in particolare. Si svegliano e scrivono, e inventano. Non ho dubbi che il buon Milelli abbia ancora un pezzetto di cervello sano con cui divertirsi a riesumare le vecchie scene della sua vita sociale. Sempre che si possa parlare di vita sociale, e sempre che la scrittura sia proprio quella di Milelli, va da sé. Ma da qui a trasformare in un documento, in un atto ufficiale quelle fantasie da schizofrenico! Scambiare le allucinazioni per fatti veri, fatti a cui lei ha creduto, una realtà che lei vuole addirittura rendere pubblica!”

Ormai ero in panne. Stringevo il quaderno con la poca forza sufficiente a non farlo cadere. Dal palco giunse una voce rauca e preoccupata.

“Angiolino, aspettiamo tutti te per cominciare!” Doveva essere il sindaco, non seppi alzare lo sguardo per appurarlo.“Sto arrivando!” gridò il professore con determinazione graffiante. Poi

mi strappò il quaderno di mano. “Dia qui!” sentenziò con impeto. “Si allontani da questo, e dai pensieri

che le ha fatto venire. E smetta di farsi inquinare la mente dalla mente malata di un matto!”

Mi fissò con un principio di clemenza che rapprese il disordine in cui ero precipitato. Eppure solo dopo un secondo il suo collo si tese, gli occhi fissarono un presunto oggetto alle mie spalle. Dal modo di mettere a fuoco capii che quella fonte di interesse era distante al massimo due metri. Poi l'oggetto parlò, ancor prima che mi voltassi.

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“Caro il mio Angiolino, non ti si addice affatto trattarmi in maniera così spregevole. Oh che brutte frasi ho appena udito su di me!”

Il mio tempo presente sembrò curvare drasticamente, trascinando via l'anima e poco dopo il corpo. Quando mi voltai fui abbagliato da un viso sereno, molto più solare dell'immagine che avevo acquisito dal computer in archivio. Emanava una bellezza rara, una sublime risultante di lineamenti pacati e maturi ma anche consapevoli di quanta energia doveva scorrere sottopelle. Arturo mi sorrise come non l'avevo mai visto fare.

“Signor Aldo a lei invece un cordiale buon pomeriggio.” Non sapevo rispondere, sembrò averlo previsto. Puntò il soprintendente

gonfiando le guance come per ammonire un bambino. “Quanto a te, dovrai faticar non poco per negare ciò che andrò

spifferando apertamente. Sequestra e lacera pure il quadernino. Lacera, sì. Ma come potrai lacerare me? Come potrai azzittirmi? Dimostra che son matto, dimostra. Ti sarà un infinito e inutile rompicapo!”

Di nuovo arrivò la voce dal palco. Se ne sovrapposero altre due.“Angiolino! Per favore! Angiolino!”Stavolta il professore reagì ai richiami. Si allontanò in un attimo,

trattenendo il quaderno con sé. Ma dopo il primo scatto si arrestò, scrutando Arturo con un'espressione combattuta tra curiosità e terrore.

“Non dovresti stare in clinica? E invece sei qui!”Arturo non fiatava. Il professore incalzò più aggressivo.“Devi tornare lì! E' quello il tuo posto, e io dimostrerò ogni cosa per

filo e per segno. I fatti parlano chiaro, chi c'era a bloccare il traffico e a dire idiozie a Gaglianello? Tu o qualcun altro? E chi si è fatto la fama per anni e anni nel museo, tu o qualcun altro? Sei matto! Sei da rinchiudere!”

La smodata sicurezza verbale era degenerata in spavalderia gretta, me ne accorsi presto. Negli occhi di Angiolino leggevo l'angoscia di chi si sente braccato. Lui intanto terminò l'arringa.

“Saranno le prove a parlare, vedrai. Anni e anni di prove schiaccianti, vedrai.”

Arturo gemette scherzosamente. Alzò un braccio in segno di alt. Il professore restò fermo raggrinzendo la fronte.

“Anni e anni, ma di esercizietti esilaranti! E vuoi saper perché son qui? Perché per mia fortuna in quel posticino di cura si potevano leggere i giornali, e ho letto cosa hai fatto a Francesco e cosa hai detto di me e del museo, e ho pure letto di questo evento odierno, di intenti più politici che altro. E allora eccomi qui per dirtene qualcuna. E con riguardo al traffico bloccato a Gaglianello, oh Angiolino, chi può giurare di non aver mai trascorso un minuto, un'ora, un dì nella più nera e fumosa depressione? Ebbene anch'io sperimentai tale disagio, ed ecco dunque lo spettacolino davanti al museo e davanti all'ospedale provinciale. Era una giornata nera, nerissima giustappunto. Ma tu, tu non hai mai voluto batter la testa al muro per una pena grave? Non hai mai voluto gridare a squarciagola? E se non è

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quello il caso, qualcosa di affine avrai commesso talvolta, o non dirmi che non è così! Matto, tu dici. Matto matto matto sono cinque letterine che per molti voglion solo dire il complementare di quel che sanno, di quel che conoscono anzi accettan di conoscere. Matto non è il fornaio che s'adopra per il pane, matto non è l'architetto che s'ingegna sul progetto, matto non è il custode che accetta mansueto il suo lavoro minuto. E dunque Milelli è matto perché fa perché dice perché produce cose ignote, perché esibisce inconcepibili avamposti della mente! E' pochino, Angiolino, troppo pochino per dir che un uomo è propriamente matto! Devo però riconoscere che rischiavo di precipitare, in quel postaccio che tutto mi faceva fuorché liberarmi. Invece mi intossicava, oh quanto mi intossicava. Finché, caro Angiolino, non venne un angioletto a salvarmi, perdonami l'andirivieni di parole.”

Mi guardò con affetto caldo, gli occhi si ampliarono ringraziandomi più esplicitamente di qualunque possibile frase. Tornò a puntare il soprintendente.

“L'angioletto venne, lanciò pochi piccoli semini e se ne andò. Ma i semini germogliarono, la terra li nutrì, e una pianta così alta e così forte crebbe crebbe crebbe! Ed ora eccomi qua. I test son tutti negativi, son già due settimane che mi studiano, che mi spogliano e mi rivestono, che mi attaccano spinette e fili per cercar un baco furbo e celato chissà dove, ma non vi son più bachi, non più! E mai ve ne furono in verità, se non contiamo i lunghi e bavosi vermi umani della depressione che insediano i corpi di chiunque. Di me, di te, di Aldo, di tutti!”

20

Mancavano pochi chilometri a Gaglianello. Arturo guidava con la sua tipica approssimazione, dando colpi secchi al volante come fosse il timone di un traghetto nel mare mosso. Quando provocò uno scossone troppo evidente rise, poi si giustificò.

“Questa macchinina è tanto graziosa ma sterza male, perbacco. Dovrò dirlo alla zia Rosa.”

Nonostante quel modo di portare la macchina mi sentivo rilassato. Qualcosa di più grande mi coinvolgeva, mi cullava. Era la sensazione di avere una persona innegabilmente cara, sana e salva accanto a me. Anzi, sana e savia. Con mia sorpresa la gioia per le condizioni di Arturo aveva

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eclissato una gioia di tipo diverso, e cioè la splendida euforia per aver liquidato il soprintendente e tutta la questione annessa. In effetti un'euforia gracilissima, visto che dopo soli cinque minuti aveva preso il sopravvento quel denso affetto per lui, mai estinto.

Poco dopo la discussione col soprintendente Arturo mi aveva riferito di essere appena uscito dal Liberatore e di volere riallacciare i contatti col museo senza far passare nemmeno un giorno. Si era rivolto alla zia Rosa per un immediato aiuto economico e pratico. L'anziana parente era la superiora di un convento non lontano dal Liberatore. Era affezionatissima ad Arturo, l'aveva visto nascere e da anni desiderava avere sue notizie. Per farlo felice gli aveva messo subito a disposizione una delle due utilitarie del convento.

I test a cui Arturo si era sottoposto in clinica erano stati effettivamente negativi, ma ad Angiolino aveva nascosto un particolare secondario che voglio narrar solo a te, e cioè che era uscito senza alcuna autorizzazione formale; il permesso vero e proprio sarebbe dovuto arrivare entro la fine del mese, dopo ulteriori verifiche da parte di un'équipe francese inviata apposta per lui. Ciò nonostante in clinica erano giunti alla conclusione che Arturo era un enigma della natura e che ormai dovevano congedarlo, visto che oltretutto non riuscivano più a distinguerlo da un comune cittadino in visita a qualche paziente ricoverato lì. Discorreva e scherzava con i medici, esibiva a tutti il suo umorismo fine, brillava per il senso critico e la cultura. La quantità di calmante nelle iniezioni si era ridotta di giorno in giorno, finché il nove maggio la fastidiosa prassi era stata abolita.

Appena partiti dalla città Arturo volle sapere come ero stato in grado di risalire alla sua vecchia casa. Decisi di raccontargli una mezza verità, tenendo nascosta la vicenda con Giorgia e ponendo l'origine di tutto nell'incontro con Sandro e i suoi compagni di scuola. Non potendo valutare la solidità delle strutture interne di Arturo avevo reputato più sicuro tenermi alla larga da certi episodi passati, e in particolare da ogni allusione a Lucia.

“Curioso, Aldo, curioso. Quel mocciosetto figlio del tuo amico si ricordava di me che pelavo patate! Che memoria, mi avrà visto per così poco tempo!”

Quando si emozionò apprendendo la mia ansia di scoprire la biblioteca, in parte sentii di tradirlo. Ma non potevo fare altro, mi ripetevo. Tuttavia mi soccorse il ricordo della componente genuina di fascino nei suoi riguardi, un sentimento indipendente da tutto il resto.

Col passare dei minuti la mia fiducia nelle condizioni di Arturo aveva subito un calo. Era ovvio che prima o poi una flessione sarebbe sopraggiunta. Avevo cominciato a perdere spontaneità. Guardandogli le mani intente nella guida, pesandogli le parole e il modo di pronunciarle, scrutando i suoi occhi fermi e sicuri come le labbra avevo provato a confutare quell'apparente riabilitazione. Non riuscendovi, cambiavo spesso punto di vista e cercavo di raggiungere la conferma della guarigione totale. Oscillavo. In effetti mancava il test fondamentale, malgrado non fossi stato

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ancora capace di prepararlo bene e somministrarlo. Più di una volta, mentre ero impegnato a cercare termini giusti per un innesco, Arturo mi aveva distolto mostrandomi un'indicazione stradale a cui applicare qualche esercizio. Durante tutto il viaggio individuammo una ventina di cartelli e insegne su cui sperimentare le sue invenzioni, dalle più vecchie a quelle recenti.

“Guarda quella frecciona a sinistra, Aldo. E dimmi se non è una bocca aperta con un bel sigarone spento! Pilisi freccia fisalusio!”

Quella fantasia genuina mi ammaliava. Arturo dimostrava chiaramente di tenere in pugno le redini della ragione, e intanto si sbizzarriva con la sua arte unica. Di colpo tornavo a pendere dalle sue labbra, con lo stesso abbandono di quando da piccolo seguivo le vicende di un supereroe in televisione. In vent'anni non era cambiato nulla, a quei cartoni animati avevo voluto bene ne più né meno che a lui. Un bene supremo slegato da ogni accezione morale; un lasciarsi trasportare amando e sentendosi vivi, completamente puri.

A due chilometri da Gaglianello la solita domanda interna era cresciuta al punto che faticavo ad arginarla. Senza che lo avessi deciso i miei occhi si concentrarono troppo intensamente nei suoi; lui dovette intuire qualcosa, e per risposta si limitò a sbuffare alla sua maniera. Dentro quel gesto provai a leggere un'informazione, senza successo. Dopo alcuni secondi eravamo nuovamente impegnati a scherzare con i cartelli stradali.

Stavano comparendo le prime case di Gaglianello. Riproposi lo stesso sguardo indagatore ma con maggior convinzione, Arturo mi anticipò. Non capii se volesse venirmi incontro o dirottarmi.

“Sì, Aldo, è giusto che ti spieghi per benino tutte le peripezie di questa testolina vagante. Vagante finché tu non sei intervenuto, e ti ringrazio.”

Ero in procinto di controbattere ma richiusi la bocca aspettando un eventuale seguito del discorso. Un furgoncino esitava a partire dopo il verde del semaforo, Arturo lo avvisò delicatamente col clacson. Poi riprese a parlare.

“A te devo dirtela tutta, tu non sei Angiolino. Con lui ho voluto striminzire il problema, ma tu sai come so io che la mia crisi davanti al museo era di più, molto di più di un umile picco depressivo.”

“Certo, capisco.” Non riuscivo più a sostenere lo sguardo. Mi rannicchiai assorto.

“Aldo, tu mi hai tirato su dal pozzo in cui scendevo e scendevo sempre più a fondo. E' vero, se non avessi dato un colpaccio di reni con la poca volontà rimastami non sarebbe accaduto nulla. Ma siamo stati io e te insieme a far guarire Arturo Milelli. Tu avevi ragione, tu hai ragione. C'è una strada di mezzo che corre leggera leggera tra il fuggire la vita e il divenire pazzo. Quella strada è proprio il sapersi accettare, il sapersi come dicevi tu amare. Come funziona bene questo ragionamento, come appare elementare! Ma sarebbe stato un miserrimo ragionamento, appunto, se non

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si fosse sviluppato e non fosse fiorito nel giardinetto annaffiato dal tuo caro impegno.”

“Che parolone!” Eppure sentivo che il discorso calzava perfettamente.“Che parolone che parolone sì, ma son quelle corrette. Aldo è

bellissimo rimanere con i piedi nel fosso come dicevi tu. Un fosso fatto di vita da accettare, di vita da ascoltare. Senza degenerare, mai più.”

Mentre sostavamo in prima fila sotto al semaforo rosso del museo ci guardammo a fondo, poi ridemmo all'unisono. Quando divenne verde Arturo accennò una musica di tromboni e sollevò le braccia.

“Che fai!” Ero ipereccitato.“Dai Aldo, che ti sei divertito quel giorno, ammettilo! Con tutte quelle

macchine ad aspettare!” Ingranò la marcia e partì di scatto.

Ci trattenemmo in museo soltanto per una ventina di minuti. Avevo atteso davanti alla stanza del caposervizio, e con mio stupore Miniati e Arturo erano usciti sul corridoio assai vicini, come in una velata intesa. Miniati aveva battuto più volte la mano sulla spalla di Arturo e poi si era rivolto a me con cordialità.

“Speriamo che ritorni fra noi, eh Aldo? Speriamo” aveva detto, con un'espressione mansueta, pentita, forse contaminata da una vena di preoccupazione. Io mi ero arroccato con sarcasmo.

“Così almeno ci cascherà pure qualcun altro, oltre a Sorice e me. Ma stavolta non funzionerà, non licenzieranno o intimidiranno più nessuno.”

Miniati mi aveva guardato con evidente meraviglia, tanto da privarmi della certezza che lui fosse uno dei testimoni citati dal dottor Zanna, se non l'unico.

All'uscita del museo indicai ad Arturo la fermata della corriera. “Allora io vado, e speriamo di rivederci in museo.” Avrei voluto

chiedergli di Lucia, eppure per l'ennesima volta mi erano uscite parole completamente diverse.

“Caro Aldo puoi esser certo che tornerò. Angiolino dovrà sistemare tutto. Io, guarda un po', ho fiducia anche per Francesco. Il nostro Angiolino ormai sa che sta rischiando grosso con me. Dovrà fare una bella rivoluzione dentro la soprintendenza e fuori.”

Cambiò tono, illuminandomi con lo sguardo affettuoso a cui ormai ero avvezzo.

“Ma Aldo, non tornare in città con il pullman. Ti do un passaggio io, anzi perché non rimani a cena con me? Così vedrai la mia graziosa villetta in campagna. Poi ti riporto a casa io.”

Non mi feci pregare. Aprii lo sportello con entusiasmo, ma entrando in macchina il mio umore subì una rapida metamorfosi. Registravo un principio di tensione.

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Mentre Arturo faceva manovra rimasi in silenzio e palesemente contratto, in crescendo. Lui non parlava, sembrava rispettare quel nuovo stato. Percorse le strade che mi aspettavo, alla notoria velocità di cinquanta all'ora al massimo. Quando confluì sulla statale il mio livello di agitazione era salito, stava bussando allo stomaco mordendo con frequenza bassa ma precisa. Arturo distolse un attimo lo sguardo dalla guida per concentrarsi su di me; nel suo viso lessi più noncuranza che stupore. Supposi di esagerare con le interpretazioni. Lui intanto girò la testa di scatto per riportarsi in posizione normale.

“Problemi, Aldo?” Si mostrava quasi timoroso di chiedere. “No, no. Un po' di stanchezza accumulata.” Ma mentre rispondevo

sentii sbocciare un forte bisogno di aprirmi. Preparai il terreno con una risata sbiadita accompagnata da un sospiro lungo.

“Sai, questa strada la conosco.” Intanto il bosco si infittiva, ma le ultime luci del giorno erano sufficienti per smascherare le medesime querce che si erano celate nel buio, quella sera nebbiosa.

“La conosci! Ma non mi dire, Aldo!” gridò sottolineando il mio nome. Eppure mi venne il dubbio che non fosse così meravigliato. Dopotutto nella mia asserzione non c'era niente di particolarmente curioso. Pensai che Arturo stesse cercando un modo per tirarmi su da quel black-out in cui mi vedeva immerso senza un motivo in apparenza valido.

Quando superammo il cartello di svolta a sinistra per il lago Silano avvertii un eccesso di gorgoglio nelle viscere, come se una manina metodica mi stesse scartavetrando le pareti gastriche. Ero sull'orlo della rivelazione. Realizzai che a trattenermi non era tanto la paura di perdere la stima di Arturo, quanto il terrore di far echeggiare nell'abitacolo un nome che mi ero illuso di aver dimenticato, e che ora invece stava tirando calci per uscire e infestare l'aria. Sperai di esorcizzarlo pronunciandolo. Presi fiato.

“Io, Arturo, avevo...” L'attacco fallì, ritrassi la lingua. Lui premette l'acceleratore. In breve il tachimetro arrivò a segnare settanta all'ora, per la prima volta da quando eravamo partiti.

“Tu avevi cosa?” Il tono era troppo acuto per non apparirmi teso. Seppi solo rinnovare uno sbuffo lunghissimo. Lui attese che terminassi. Poi parlò, pesando le parole con voce grave e asettica.

“Aldo, te lo dico io. Giorgia Conti. E' di lei che vuoi parlare.” Raggiunse gli ottanta all'ora. Mentre spalancavo gli occhi la macchina prese a vibrare più del normale, Arturo dette un colpo di freno eccessivo.

“Ma che ti prende!” In quelle parole strappate veicolai un crogiolo di emozioni antagoniste. Odiavo, desideravo, maledicevo, rimpiangevo, abdicavo. Lui frenò con più grazia, finché accostò a destra fermandosi in un avvallamento.

Aspettavo incurvato, raccolto in posizione fetale. Perdevo lo sguardo in una zona scura oltre il sedile. Il primo segnale che avvertii fu l'apertura a scatto dello sportello di Arturo. Senza alzare la testa lo sentii uscire. Non

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richiuse. Quando mi voltai lo vidi in piedi, rivolto verso la strada. Malgrado fosse di spalle mi parlò, calmo.

“Quella sera avrei potuto correre anche di più. Ma ti ho seminato lo stesso, oh come ci son riuscito bene.”

“Allora era vero!” Detti un pugno allo sportello, scavalcai la leva del cambio e sbucai dall'altra parte dietro ad Arturo. Si voltò, ma non aveva l'espressione vittoriosa che mi aspettavo. Invece mi fissava sconsolato, muto. Pensai che stesse recitando. Prima che ripetessi la frase aprì la bocca senza dire nulla. Lo odiai come in passato, sbraitai.

“Fai le stesse smorfie di quando stavi sulle scale in museo e non volevi rispondermi. Stesse smorfie, stessa verità che mi hai nascosto da sempre. Tu e quell'altra! Vi siete divertiti alle mie spalle!”

“Verità? Divertiti?” Sorrise azzerandomi. “La verità Aldo è che ho voluto fare un consono uso della memoria.

Chi è codesta Giorgia Conti?” Rise più a lungo, fissandomi bonariamente. Tremavo per tutto il corpo.“Aldo, codesta Giorgia Conti Conti Giorgia non so chi sia e non mi

curo di saperlo. Quel che so è che tu mi domandasti di tale donna o bambina o certo femmina umana e non fosti così gentile. E quel che so è che il giorno prima mi inseguisti, oh com'erano selvaggi i tuoi occhi riflessi nello specchietto! Mi inseguisti e non fu una bella sera per me. Allora ho fatto l'impasto ma solamente adesso, solamente quando son ridiventato integro e con le meningi ben oliate. Ed ecco il composto che ho ottenuto. Invero nessun composto, Aldo! Ecco cosa ho ottenuto. Nessun composto finale, nessuno! Solo un'idea fumosa che ho voluto spendere per farti uno scherzetto ora. Solamente uno scherzetto!”

Ero tramortito. Reagii uscendo di lena dalla macchina, stirai il corpo a un metro da lui. Mentre mi massaggiavo la fronte sussurrò paternamente.

“Bene Aldo, rilassati. Bene. Solo uno scherzetto. Non pensiamoci più.”Per qualche sottile via inconscia mi dette la certezza che non mentiva.

Emisi una voce tremolante, con l'intento di infilzarlo.“Se ti impegnassi un po' capiresti perché mi sono emozionato così. E

perché ti ho inseguito quella sera.” Presi fiato di fretta, crebbi di intensità. “Anzi secondo me non vuoi riconoscerlo ma hai capito.”

“Forse.” Rimaneva immobile. “Ma non mi interessa. Questioni di cuore, non pensiamoci più. Si va?”

Non seppi assecondarlo. Invece altre parole si facevano strada, ero combattuto tra inghiottire e liberarmi. Immaginai una matita appoggiata verticalmente su un ripiano, dove cadeva lei sarei caduto io.

“Allora si va, Aldo?” L'elementarità del tono mi urtò, generai una nuova scarica. “Tu sai bene cosa vuol dire rimanere legati a una donna, no? E allora

non farmi più certi scherzi.” Mi stropicciai gli occhi contrito, insicuro. La matita era caduta dove non volevo.

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Non reagiva. La scorribanda di parole mi attraversò con più violenza di prima. Percepivo di stare per squarciare qualcosa in un conato doloroso e necessario, schiavo com'ero di un impeto incontenibile.

“Giorgia Conti riguarda me. E invece Lucia...” “Salimbene, se vuoi sapere il cognome.” Guardò in alto. “Sì, Lucia

Salimbene riguarda me.” Si incupì afflosciando il collo e le gambe, rimase in piedi a stento.

Serrai gli occhi, finalmente mi pentii. Le frasi appena dette e da dire si allontanarono di colpo, non mi appartenevano più.

“Sì, Lucia riguarda me, riguardava me. Pisidoria carlizzi. Matalusi.”Gli puntai la bocca, scalai il viso a fatica fino a incontrare gli occhi

spenti.“Scusami, Arturo scusami.” Mi sentivo inutile.“Scusarti, Aldo?” Aspettavo l'esplosione di un ordigno troppo vicino. La miccia a cui

avevo dato fuoco stava consumandosi a una velocità incognita. O forse non c'era alcun ordigno.

“Scusarti scusarti, Aldo?” Sorrise per mezzo secondo, troppo poco per indovinare lo stato d'animo. Fece alcuni passi fino a posizionarsi davanti alla macchina. Si sedette per terra appoggiandosi al paraurti. Lo imitai. Nel cielo si accendevano i primi astri.

Restammo muti per una decina di minuti, il grigio delle ombre era dilagato spandendosi ovunque. Il flusso ancora caldo del motore usciva e mi accarezzava i reni penetrando nei tessuti, come per darmi coraggio. Speravo che lo stesso aiuto giungesse ad Arturo, nonostante fosse seduto più a sinistra.

Ad un tratto lo guardai ricettivo, invitandolo a sorridermi con più calma. Invece si erse di scatto incamminandosi spedito verso il bosco.

“Dove vai! Torna qui!” Mi alzai, lui proseguì senza voltarsi. Arrivato sotto a una giovane

quercia l'abbracciò, poi girò la testa come per auscultare il tronco. Intanto aveva cominciato a mormorare qualcosa che inizialmente non compresi. Sembrava un ennesimo pasticcio di parole, ma la voce crebbe finché potei capire.

“Amore. Amore, amore!”Corsi lì. Quando si voltò disperai per il suo viso scurito e sudato. “L'amore, l'amore” mi ripeté piangendo. A dispetto delle condizioni

fisiche il timbro era poetico. Comunicava un dolore estremo, ma senza venature di follia.

“E' l'unico, Aldo, è l'unico sentimento che dura! E' l'unico messaggio che viaggia corre vola inalterato nel tempo e nello spazio, libero e fedele come un sottile raggino di luce che attraversa i vuoti siderali, sibilando tra il passato e il futuro senza mai svanire, senza mai svanire! Un timbro tondo che mai più si toglierà, una macchia di cera rossa che mai più si staccherà

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da questo mio cuore tanto tanto freddo!” Il tintinnio di un campanello si attivò, sembrò rispondergli. A poche

decine di metri doveva trovarsi un passaggio a livello. Colsi l'occasione, parlai con noncuranza meditata.

“C'è una ferrovia da queste parti? Non lo sapevo.”Lui aveva teso il collo. Era palesemente attratto da quel suono

metallico che perforava il bosco. Gli presi un braccio scuotendolo.“Eh Arturo? C'è una ferrovia? Dove porta?” “Porta dove non c'è più tristezza.” Si liberò dalla presa dirigendosi a

passo svelto verso la sorgente sonora. Un fischio lontano si unì per qualche secondo al tintinnio.

“Porta dove c'è musica e libertà e pace! Non senti, Aldo?” Parlava di nuovo senza voltarsi. Mi mossi per seguirlo, lui cominciò a correre e scomparve presto tra gli alberi. Il secondo fischio fu più lungo e forte, si sovrappose al campanello. Quando terminò mi giunsero altre parole che non seppi comprendere. Mi affrettai orientandomi a malapena con la voce che si perdeva nel buio. Il rumore periodico dei binari prese corpo.

“Oh che bella sinfonia! Senti senti questo bel triangolino che dà il ritmo, ed ecco i fagotti i controfagotti e i timpani! Eccoliiiii!”

Dopo il terzo fischio comparvero i fari della motrice che scivolava velocemente lungo un tratto rialzato. Illuminarono il bosco trasformandolo in una terrificante discoteca piena di corpi scuri impassibili. Tra quell'esercito di tronchi e squarci di luce intravidi l'unica sagoma mobile, procedeva sicura verso il convoglio. I binari tambureggiarono in crescendo.

“Arturo!” Scivolai sulle foglie marce, caddi violentemente. Il fragore del colosso metallico crebbe all'improvviso mentre il bosco ripiombava nell'oscurità.

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Epilogo

Ivano deve aver preso da suo padre, non certo da Silvia. Lei è così tradizionalista, non perde un'occasione per festeggiare e fare regali. O forse ha preso da me, non ricordo dove ho letto che in molti casi la trasmissione dei caratteri avviene più facilmente dagli zii al nipote che dai genitori al figlio.

Oggi ha compiuto nove anni ma a pranzo è stato silenzioso come se fosse un giorno qualunque. La torta di frutta allestita con cura certosina da mia madre lo ha coinvolto per troppo poco tempo; appena spente le candeline si è avventato sulle tre fragole centrali, il vero piacere è stato quello. Poi ha scartato il mio regalo e quello della zia Carlotta, ringraziandoci senza effusioni degne di nota. Silvia mi ha detto che tutti i bambini si comportano così, ho voluto crederle.

Ora invece è felice, posso giurarlo. Stiamo percorrendo in bicicletta una strada di periferia, tra il profumo delle margherite e le gazze che ci sfilano accanto. Questa parentesi pomeridiana era senza dubbio il regalo più atteso.

Ivano rallenta e si volta. “Zio, arriviamo fino alla ferrovia?”Muovo la testa per conferma. “Ma solo perché è il tuo compleanno!” Spero che non mi prenda sul

serio.Il vento spinge alle spalle, la discesa invita a pedalare accelerando

finché non c'è più bisogno di sforzare. Sfrecciamo a folle lungo il rettilineo che in pochi istanti si esaurisce e curva di poco, tornando in piano. Ivano si ferma, devo ancora raggiungerlo.

“Zio! Tutuuu! Tutuuuuu! Guarda, sta arrivando!”

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Il lampo di quella triste sera mi balugina davanti, stavolta è più forte del solito. Freno.

“Zio! Mi hai sentito? Vieni qui!” Faccio fatica a parlare. Mi impegno a tirare fuori il fiato. “Arrivo!” Mi manca l'aria.“Tutuuuuuu!”Raggiungo Ivano, deve essersi accorto che nella mia faccia qualcosa

non va. Mi scruta con intensità. Voglio tranquillizzarlo.“Zio è un po' stanco. Ma adesso recupera.” Non riesco a rilassare le labbra, abbasso la testa prefiggendomi di

trattenere le lacrime.“Zio,” mi sussurra con un tono inedito, teatralmente protettivo. “non

dirmi che hai paura del treno! Coraggio, coraggio!”I binari sibilano, cominciano a rullare in crescendo.

Il treno è passato, un chiassoso cordone di vagoni merci. Sono stato capace di tornare normale in poco tempo. Protetto dal frastuono ho gridato Arturo in aria più volte, Ivano ovviamente non capiva e si è messo a ridere.

Ora siamo fermi davanti ai binari, il vento artificiale sta provocando gli ultimi tremiti delle margherite e dei papaveri in boccio. Accarezzo la testa tonda di mio nipote.

“Domani vai a scuola.” “Certo! Ma che pizza.”“Che pizza perché? Dici sempre che ti piace.”“Voglio andare alle medie. Voglio tutte le materie diverse e tutti i

professori diversi.” Fa il vocione. “Tutte le materie del mondo!”Gli prendo le mani.“Non ti piacerebbe restare come sei?”“Restare come sono?” Si divincola e alza le braccia in segno di vittoria.

“Zio io voglio crescere!” Gli riafferro le mani, lo forzo ad abbassare le braccia. Parlo di fretta,

tagliente.“Sai cosa vuol dire sideremia? E stigmatizzare? E errata corrige?”“Boh!” Mi fissa come se fossi matto. “Silemìa? Che?”Gli ripeto lentamente quei lunghi organismi verbali. “No zio. Non capisco.” Mette il muso.“E che male c'è a non capire? Non ti piace come suonano? Sideremia è

bellissimo, no?”“No. Tu mi stai prendendo in giro. Andiamo a casa.”“Proprio non ti piacciono? Senti. Stigmaatizzaareee!”“No! Basta!” Si agita, mi preoccupo. Gli accarezzo una guancia, voglio

consolarlo.“Allora ti prometto una cosa. Quando sarai grande le capirai, e le potrai

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pronunciare bene, e le dirai a tutte le persone che vuoi.” Mi sento sconfitto, gli occhi tornano a gonfiarsi. Ivano cambia espressione in un attimo, si accende.

“Siiiii! Non vedo l'ora! Non vedo l'ora di capire tutto!”Sta arrivando un altro treno, dalla parte opposta. Fischia ineluttabilmente.

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