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Letture e riflessioni, per non dimenticare 4 Storia memoria e IL PIACERE DI LEGGERE RIFLESSIONI SULLA GUERRA Don L. Milani Obiettare o obbedire? p. 51 LA SECONDA GUERRA MONDIALE I. B. Singer Il potere della luce p. 53 LA SHOAH P. van Gestel Il rifugio segreto p. 57 P. Levi Hurbinek p. 62 LA MEMORIA AFFIDATA A UN FUMETTO A. Spiegelmann Maus p. 64 RICERCA DI PACE, GIUSTIZIA, BENESSERE AA. VV. L’associazione Amnesty International p. 78 Antologia 3

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Letture e riflessioni, per non dimenticare

4 Storiamemoriae

IL PIACERE DI LEggERE

RIFLESSIONI SULLA gUERRA

Don L. Milani Obiettare o obbedire? p. 51

LA SECONDA gUERRA MONDIALE

I. B. Singer Il potere della luce p. 53

LA SHOAH

P. van Gestel Il rifugio segreto p. 57

P. Levi Hurbinek p. 62

LA MEMORIA AFFIDATA A UN FUMETTO

A. Spiegelmann Maus p. 64

RICERCA DI PACE, gIUSTIZIA, BENESSERE

AA. VV. L’associazione Amnesty International p. 78

Antologia 3

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Antologia 3 Riflessioni sulla gueRRa4. Storia e memoria

Don Lorenzo MilaniObiettare o obbedire?

1.  dispensati: esonerati.

2.  ripudia: respinge.

In Italia negli anni Sessanta il servizio militare era obbligatorio, ma molti giovani cominciavano a «obiettare», cioè rifiutavano di prestare il servizio militare per ragioni ideologiche e umanitarie. Nel loro Congresso Nazionale del 1965 alcuni cappellani militari, sacerdoti a cui fu affidata l’assistenza spirituale di chi era sotto le armi, avevano sostenuto che l’obiezione di coscienza era da considerarsi un insulto alla Patria e ai suoi caduti, oltre che un’espressione di viltà. Don Milani allora rispose con questa lettera aperta diffusa pubblicamente attraverso i giornali.

Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ra-gazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capia-

mo.Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto do-mandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola.Io l’avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse doman-de pubblicamente.Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati1 dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando oc-corra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.Articolo 11: «L’Italia ripudia2 la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…».Articolo 52: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.

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Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri, dovrete chiarirci se in quei casi i sol-dati dovevano obbedire o obiettare3 quel che dettava la loro co-scienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discor-si altisonanti4 e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamen-te cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione di ostaggi, i processi sommari5 per semplici sospet-ti, le decimazioni6 (scegliere a sorte qualche soldato della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribel-le al popolo sovrano7, la repressione di manifestazioni popolari?Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta a volta detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la pri-gione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati8 è segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la pro-va mostrando nel vostro comunicato di non avere la più elemen-tare nozione del concetto di obiezione di coscienza.Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati. Oltre a tut-to la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo l’esercito, è solo perché difenda con la Patria gli altri valori che questo concetto contie-ne: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora (espe-rienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all’obiezione che all’obbedienza.Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divi-sione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le di-vise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità.Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima.Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il loro malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.

Don L. Milani, Lettera aperta ai cappellani militari toscani, «Il Ponte», ottobre 1965

3.  obiettare: opporre argomenti e consi dera zioni in contrasto a qualcosa (in questo caso alla cieca obbedienza).

4.  altisonanti: solenni, ma sostan zial mente vuoti.

5.  sommari: sbrigativi, senza una approfondita ricerca della verità.

6.  decimazioni: grave forma di punizione consistente nel mandare a morte una persona (in questo caso un soldato) ogni dieci con estrazione a sorte.

7.  un ufficiale … sovrano: un ufficiale che rifiuta il principio della sovranità popolare, affermato dalle Costituzioni dei Paesi democratici.

8.  graduati: i cappellani militari beneficiano del grado di ufficiale dell’esercito.

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Antologia 3

Il potere della luce Isaac Bashevis SingerUn racconto meno amaro, pur nella tragica devastazione della guerra: la vicenda si svolge a Varsavia, città occupata durante la Seconda guerra mondiale dai nazisti, che instaurarono un regime di terrore; obbligarono più di mezzo milione di ebrei a vivere rinchiusi nel ghetto e uccisero tra il 1939 e il 1944 circa 700 000 mila persone della resistenza clandestina. La città insorse dall’agosto all’ottobre del 1944, ma l’insurrezione venne soffocata nel sangue dai tedeschi che demolirono per rappresaglia l’80% degli edifici della città.

Durante la Seconda guerra mondiale, dopo che i nazisti ave-vano bombardato e bruciato il ghetto di Varsavia, nascosti

tra le macerie c’erano due ragazzi: David, di quattordici anni, e Rebecca, di tredici.Era inverno e il freddo era pungente. Da settimane Rebecca non lasciava la cantina parzialmente crollata che serviva loro da na-scondiglio, ma ogni due o tre giorni David doveva uscire in cer-ca di cibo. I negozi erano stati distrutti dai bombardamenti, e a volte David trovava pane raffermo, scatolette e altre cose sepolte sotto le macerie. Farsi strada fra le rovine era pericoloso. Matto-ni e calcina potevano colpirlo ed era facile smarrirsi. Ma se lui e Rebecca non volevano morire di fame, David doveva correre il ri-schio.Quel giorno il freddo era terribile. Seduta per terra, Rebecca era infagottata di tutti i vestiti che possedeva, ma non riusciva a scaldarsi. David era uscito molte ore prima, e Rebecca tendeva l’orecchio nel buio per sentire il suono dei suoi passi. Sapeva che se David non fosse tornato, non le restava che morire. Improv-visamente sentì un respiro affannoso e il rumore di un fagotto lasciato cadere. David aveva ritrovato la strada di casa. Rebecca non riuscì a trattenere un grido: – David!

la seconda gueRRa mondiale4. Storia e memoria

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– Rebecca!Nell’oscurità si abbracciarono e si baciarono. David disse: – Re-becca, ho trovato un tesoro.– Un tesoro?– Formaggio, patate, funghi secchi e una scatola di caramelle… E poi ho un’altra sorpresa per te.– Che sorpresa?– Te lo dirò più tardi.Erano troppo affamati per continuare a parlare. Mangiarono vo-racemente le patate gelate, i funghi e un po’ di formaggio. Man-giarono anche una caramella. Poi Rebecca domandò:– Che cos’è adesso, giorno o notte?– Dovrebbe ormai essere calata la notte – rispose David. Aveva un orologio da polso e seguiva l’alternarsi del giorno e della notte e il trascorrere dei giorni. Dopo un po’ Rebecca domandò ancora:– Qual è la sorpresa?– Rebecca, oggi è il primo giorno di Hanukkah1, e sono riuscito a trovare una candela e dei fiammiferi.– Stanotte è Hanukkah?– Sì.– Oh, Dio mio!– Benedirò la candela di Hanukkah – disse David.Accese un fiammifero e balenò un po’ di luce. Rebecca e David videro il loro nascondiglio: mattoni, tubi e terra battuta. Venne accesa la candela. Rebecca batté gli occhi. Per la prima volta in tante settimane poteva osservare David. Il ragazzo aveva i capel-li arruffati e la faccia rigata di sporco, ma i suoi occhi brillavano di gioia. Nonostante la fame e le persecuzioni, David si era fatto più alto, e pareva più uomo e più adulto della sua età. Erano mol-to giovani, ma avevano deciso di sposarsi se fossero riusciti a fuggire da Varsavia tormentata dalla guerra. Come pegno di fi-danzamento, David aveva dato a Rebecca una monetina luccican-te, che si era trovato in tasca il giorno in cui era stato bombarda-to lo stabile nel quale entrambi vivevano.David benedì la candela e Rebecca rispose: – Amen.Le loro famiglie erano morte, e c’erano altri motivi per prender-sela con Dio che aveva mandato loro tanti dolori, ma la luce della candela portò la pace nella loro anima. Quel fioco alone di luce, circondato dalle ombre, sembrava dire senza parlare: – Il male non ha ancora vinto, c’è ancora una scintilla di speranza.Da tempo i due ragazzi progettavano di fuggire da Varsavia, ma come fare? I nazisti sorvegliavano il ghetto giorno e notte. Ogni movimento costituiva un pericolo. Rebecca continuava a riman-dare la fuga. Durante l’estate sarebbe stato più facile, ripeteva spesso, ma David sapeva bene che nella loro situazione c’erano

1.  Hanukkah:è una festività ebraica, conosciuta anche con il nome di Festa delle luci.

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poche possibilità di resistere fino ad allora. Da qualche parte nelle foreste c’erano uomini e donne, partigiani, che combatteva-no gli invasori nazisti. David voleva raggiungerli. Alla luce della candela, Rebecca improvvisamente trovò coraggio.– David andiamocene – disse.– Quando?– Quando ti sembra venuto il momento – rispose la ragazza.– Il momento giusto è adesso – affermò David. – Ho un piano.A lungo David spiegò i dettagli del suo piano a Rebecca. Era ri-schiosissimo. I nazisti avevano recintato il ghetto con il filo spi-nato e sentinelle armate di mitragliatrici stavano appostate sui tetti circostanti. Di notte i riflettori illuminavano ogni possibile uscita dalle rovine del ghetto. Ma nei suoi vagabondaggi tra le macerie David aveva trovato un pertugio che portava alle fogne; seguendo le fogne pensava di poter arrivare dall’altra parte del filo spinato. David spiegò a Rebecca che le possibilità di farce-la erano pochissime. Potevano annegare nell’acqua sporca, po-tevano congelare. Inoltre, le fogne erano piene di topi affamati. Ma Rebecca fu d’accordo di correre il rischio. Se restavano nella cantina per tutto l’inverno sarebbero certamente morti.Quando la luce di Hanukkah cominciò a crepitare e tremolare e fu sul punto di spegnersi, i due ragazzi raccolsero le loro poche cose. Rebecca avvolse il cibo rimasto in un pezzo di tela. David prese i fiammiferi e un tubo di piombo come arma.Nei momenti di grave pericolo si diventa straordinariamente co-raggiosi. David e Rebecca si misero in cammino tra le rovine. Incontrarono passaggi così stretti da dover strisciare sulle gi-nocchia e sulle mani. Ma il cibo che avevano appena mangiato e la gioia provata per la candela di Hanukkah davano loro il co-raggio di continuare. Finalmente David ritrovò l’ingresso del-la fogna. Fortunatamente il liquame era ghiacciato, e sembrava che i topi se ne fossero andati a causa del freddo estremo. Di tan-to in tanto i due ragazzi si arrestavano per riposare un po’ e per tendere l’orecchio. Poi ricominciavano a strisciare in avanti len-tamente e cautamente. Improvvisamente si immobilizzarono. Da sopra le loro teste si sentiva lo sferragliare di un tram.Avevano superato i confini del ghetto. Adesso dovevano trova-re il modo di uscire dalle fogne e poi di lasciare la città il più in fretta possibile.Quella notte di Hanukkah fu una notte piena di miracoli. I na-zisti, temendo attacchi nemici, avevano ordinato l’oscuramento totale. Così David e Rebecca riuscirono a uscire dalle fogne e ad abbandonare di soppiatto la città senza essere catturati. All’alba raggiunsero la foresta, e finalmente poterono riposarsi e man-giare qualcosa.

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Sebbene i partigiani non fossero molto lontani da Varsavia, Da-vid e Rebecca ci misero una settimana a raggiungerli. Si sposta-vano di notte e durante il giorno restavano nascosti in qualche granaio o in qualche stalla. Infatti c’erano contadini che aiuta-vano furtivamente i partigiani e chi fuggiva dai nazisti. Di tanto in tanto David e Rebecca ricevevano un pezzo di pane, una pata-ta, una rapa, o qualsiasi altro cibo del quale i contadini potes-sero privarsi. In un villaggio incontrarono un partigiano ebreo che era giunto lì in cerca di cibo per il suo gruppo. Appartene-va all’Haganah, un’organizzazione che da Israele mandava uo-mini in Polonia per salvare i profughi ebrei dai nazisti. Il giova-ne partigiano portò i due ragazzi dai suoi compagni che batteva-no la foresta. Dopo l’incontro con i partigiani, la vita di David e Rebecca di-venne simile a una pagina di un libro di storia. Si unirono ad al-tri fuggiaschi il cui unico desiderio era quello di raggiungere la terra d’Israele.

I. B. Singer, Il potere della luce, Mondadori

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Antologia 3

Questa storia si svolge nell’estate del 1947 ad Amsterdam; è la storia dell’amicizia tra Thomas Vrij e Piet Zwaan sullo sfondo di un paese devastato dalla guerra. È inverno, un lungo inverno che sembra non finire mai, ma che poi, come tutto, è passato, si è sciolto come neve al sole. Lentamente, attraverso i racconti di Zwaan, Thomas scopre che cosa in realtà è accaduto durante l’occupazione nazista dell’Olanda: Zwaan è ebreo e per salvarsi ha trascorso quattro anni nascosto in una soffitta, a volte chiuso in un armadio, a leggere.

Il rifugio segreto Peter van Gestel

– Io una volta sono stato in bicicletta dietro a mio padre… mi ha portato fino a Deventer – spiegò Zwaan con aria traso-

gnata. – È stato durante la guerra.– Sì – dissi – me l’hai già raccontato. Ma perché ci siete andati?– Siamo andati da zio Piet e zia Sonja… abitano a Deventer: zio Piet era un vecchio compagno di studi di mio padre, io porto il suo nome, è per lui che mi chiamo Piet. È stato nella primavera del ‘41, avevo quasi cinque anni… Per tutto il viaggio mio padre non ha fatto che chiacchierare, ma io lo capivo a malapena, per-ché stavo seduto dietro e c’era vento. Il viaggio non finiva mai, di tanto in tanto ci fermavamo e ci mettevamo sotto un albero.– Perché non siete andati con il treno?– Dopo lo zio Piet mi ha raccontato che mio padre aveva paura dei treni; mi ha detto anche che quando vedeva dei crucchi o de-gli uomini in nero, mio padre si fermava sempre vicino a un al-

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bero. Dei crucchi e degli uomini in nero io non mi ricordo nien-te, ma degli alberi sì. Ci sedevamo con la schiena appoggiata al tronco: lui aveva tutto il tempo del mondo, ogni tanto mi passava una mano tra i capelli, e io per la prima volta nella vita ero final-mente da solo con mio padre, me la, mmh… com’è che dici tu?– Te la godevi un mondo?– Ecco, esatto: me la godevo un mondo.– Cosa siete andati a fare da zio Piet e zia Sonja? – chiesi.– Allora non lo sapevo. Mio padre diceva: ti devi rimettere, sei troppo pallido, la vita ad Amsterdam non ti fa bene. Adesso so che ci andai a vivere in clandestinità.– Cosa vuol dire clandestinità?Zwaan mi guardò. – Non lo sai?– No.Continuò a guardarmi.– È quando i crucchi non sanno dove sei e non ti possono trova-re, sempre che qualcuno non faccia la spia. Zio Piet è medico… ha una casa grande, con una grande soffitta. Lì c’era il mio letto e di sera di solito scendevo al piano di sotto… be’, se era tranquil-lo qualche volta uscivo anche fuori, ma non dovevo mai allonta-narmi tanto da non vedere la casa. Una volta però mi sono per-so, ho ritrovato la casa solo dopo un paio d’ore. Zia Sonja piange-va, zio Piet era arrabbiato, ma non troppo… sono stato là fino a quasi un anno dopo la liberazione.– Non andavi a scuola?Zwaan scosse lentamente la testa.– Hai freddo? – chiesi.Lui scosse di nuovo la testa.– Nemmeno io.– Di sera zio Piet mi dava lezioni… ho imparato a leggere presto. Quanto leggevo… I primi anni non mi sembrava strano vivere là, solo l’ultimo anno ho cominciato a chiedere…– A chiedere cosa?– Volevo sapere dei miei genitori. A volte non riuscivo a dormire perché non mi ricordavo più nemmeno che aspetto avessero.– Com’è possibile? Tuo papà e tua mamma?– Avevo quattro anni quando ho visto per l’ultima volta i miei genitori, e dopo non ti ricordi quasi più niente di quando avevi quattro anni.

Mentre mi incamminavo dietro a Zwaan, non mi sembrava nem-meno mercoledì, l’unico pomeriggio della settimana in cui non avevamo scuola, mi sembrava uno di quei giorni in cui non im-porta se è giovedì, venerdì o qualsiasi altro… erano tutti uguali, e quello era semplicemente un giorno mio e di Zwaan.

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Che fine avevano fatto suo papà e sua mamma?Non chiesi niente, lui camminava, camminava, di tanto in tanto indicava qualcosa e rideva. Si poteva ridere di diverse cose: di un gatto che stava in una carrozzina con un maglione addosso o di un cane che veniva cacciato via da tutti i posti dove voleva fare pipì. Ma si poteva anche non ridere; io quel pomeriggio non risi.

Lungo il canale camminammo uno accanto all’altro senza chiac-chierare. Dopo la lunga passeggiata Zwaan era piuttosto pallido, dovevo tirarlo su di morale.Vicino alla Fokke Simonszstraat ci fermammo.Non mi piace la Fokke Simonszstraat… lì spesso i ragazzi gran-di per noia ti tirano in testa qualcosa. Quella strada dà su un vi-colo di quelli che fanno paura… Finito il vicolo si arriva al Lijn-baansgracht e lì si può tirare un respiro di sollievo.– Conosci il vicolo tortuoso? – chiesi.– No – disse Zwaan.– È da paura, davvero terrificante – spiegai. – Vieni, dai, ci pas-siamo veloci veloci.– Che c’è di divertente? – brontolò lui. – Perché dovrei andare in un vicolo terrificante? Come se non avessi abbastanza preoccu-pazioni.

Imboccammo il vicolo.– Non è nemmeno un vicolo – notò Zwaan. – È una fessura.Mi appoggiò una mano sulla spalla: forse così aveva meno paura.– Non aver paura, piccolo Zwaan – dissi. – Ci sono qui io.Il vicolo faceva un paio di curve. Quando svoltammo la prima mi pentii di colpo dell’impresa. Non lontano da noi c’era Ollie Wil-deman. Era appoggiato con la sua schienona contro un muro di mattoni luridi.Mi fermai, Zwaan mi venne addosso.Ollie Wildeman lanciava una vecchia pallina da tennis contro un muro, l’afferrava con indifferenza e la lanciava di nuovo. Con lui c’era un ragazzo che non conoscevo: era una testa più alto di lui, che già non era piccolo, e faceva esattamente la stessa cosa con un’altra pallina. Si comportavano come se non si fossero ac-corti di noi. Ma sapevo bene che non era così.– Vieni – sussurrai a Zwaan – filiamocela.Il ragazzo sconosciuto fece cadere la pallina, Ollie Wildeman le diede un calcio e la spedì verso di noi. Zwaan si chinò per resti-tuirgliela.– Giù le zampe, ebreo – berciò Ollie Wildeman senza nemmeno degnarci di uno sguardo.Ma Zwaan aveva già dato un colpetto alla pallina.

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Ollie Wildeman la raccolse lentamente.– Vieni qua, Tommie – mi ordinò. – Adesso devi pulirla con la lingua.Questo non c’entrava niente con i soliti scherzi che faceva a scuola.– Non ci penso neanche – dissi con voce roca.Il ragazzo sconosciuto rise.– Hai dodici anni, Ollie – continuai. – Non fare il bambino.Non fu una buona idea.– Vieni, Thomas – fece Zwaan. – Andiamocene.Correndo dietro a Zwaan inciampai. Lui mi aiutò ad alzarmi.«Zwaan è ebreo» pensai «come il vecchio Mosterd».Durante la guerra Mosterd aveva una stella gialla cucita sul cappotto. Zia Fie mi aveva detto che all’epoca i crucchi aveva-no spedito tutti gli ebrei in Polonia a lavorare nei campi. Anche Zwaan era ebreo, magari suo padre e sua madre erano ancora in uno di quei campi.– Lavorano in Polonia? – chiesi.– Chi?– Tuo papà e tua mamma.– No – fece Zwaan.– Perché non tornano?– Sono stati uccisi.– Uccisi? E perché? Dai crucchi?– Dai – sbottò Zwaan – ti prego.– Perché?– Cosa perché?– Perché sono stati uccisi?– Perché avevano più di due nonni ebrei.Non feci altre domande. Zwaan sapeva tutto e io niente, dovevo rassegnarmi.– Adamo ed Eva erano ebrei?Zwaan rise.– Perché ridi?– Perché non me lo sono mai chiesto – rispose.– Perché se Adamo ed Eva erano ebrei allora siamo ebrei tutti quanti, no?– No – replicò Zwaan. – Poi è cambiato qualcosa.– Non vuoi parlarne, eh?– Mah…– I crucchi erano arrabbiati con gli ebrei?– Dai, smettila!– Combattevano gli uni contro gli altri… gli ebrei e i crucchi?Zwaan sospirò.– No – spiegò – non combattevano tra di loro. Nei campi i cruc-chi avevano fucili e cose del genere, e gli ebrei avevano al massi-

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mo vecchi spazzolini da denti. Sono stati assassinati. Sono stati uccisi quando non erano che pelle e ossa.– Come sai tutte queste cose?– A Deventer nessuno voleva dirmi niente, ma allora c’era la guer-ra, nemmeno zio Piet e zia Sonja sapevano tutto. Moltissime cose me le ha raccontate Bet. Una volta che siamo andati a fare una passeggiata insieme, dopo la guerra, mi ha detto: ma come cam-mini strano. Sì, Thomas, anche a camminare sulle strade lunghe si deve imparare, non si riesce a farlo da un giorno all’altro. Bet ha detto: sai a malapena camminare, ragazzino, ma c’è qualcosa che sai fare? Leggere e scrivere? Io ho detto a Bet: sapevo leggere già prima dei sei anni, e scrivo quasi bene come zio Piet.– Sei una cima, Zwaantje.– Ma quale cima. Libri, libri e libri, che altro avevo? Negli ultimi tempi dovevo rimanere chiuso in casa tutto il giorno. Non face-vo altro che leggere. Zio Piet la sera a tavola mi chiedeva: cos’hai letto oggi? E io glielo raccontavo. Dopo mi dava lezioni di aritme-tica, storia e cose del genere.– E le ragazze?– Non mi dire niente – sbottò Zwaan. – Negli anni della guerra, quando ero a Deventer e dovevo stare chiuso in casa, le ragazze non le vedevo mai, leggevo di loro sui libri… Dopo la liberazione, quando le vidi in giro dappertutto, mi venne un colpo, non sa-pevo che ci fossero così tante ragazze, e si assomigliavano tutte: ridevano e portavano nastrini arancione e vecchi maglioni o car-digan, camminavano con gli zoccoli e ballavano e saltellavano e gridavano e mi giravano intorno, mi facevano diventare matto, poi ne vidi una… non ballava come le altre, se ne stava lì con il suo faccino pallido in mezzo a tutte quelle ragazzine scatenate e non aveva nessun nastro arancione sul maglione, proprio come me, e aveva i capelli neri e non portava gli zoccoli ma delle vec-chie scarpe alte e delle spesse calze di lana a quadri, e aveva le gambe bianche e quasi più magre delle braccia. Mi avvicinai e le chiesi: sei stata nascosta anche tu? Allora lei si spaventò e mi disse: non sono affari tuoi, e poi corse via e io la cercai per tutto il giorno senza trovarla. La sera a letto scoppiai a piangere come un disperato…Zwaan guardò il pavimento e non disse più niente.Non l’avevo mai visto piangere, non è da lui, mentre a me capita spesso.– … passai metà della notte in bianco – riprese Zwaan – e quan-do finalmente mi addormentai la sognai. Dio, com’era calma e carina, una cosa pazzesca, ma dopo quel giorno non la rividi mai più.

P. van Gestel, Come neve al sole, Feltrinelli

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Antologia 3

Nei primi giorni del gennaio 1945 sotto la spinta dell’Armata Rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta i lager del distretto di Auschwitz. I prigionieri sani furono trasferiti in altri campi, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi.Nell’infermeria rimasero in ottocento; di questi cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi. Tra essi vi era Hurbinek.

Primo LeviHurbinek

Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Au-schwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente

di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle don-ne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inar-ticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano ter-ribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e flo-rido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accan-to alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno

la sHoaH4. Storia e memoria

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più che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hur-binek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di ca-rezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità.Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «di-ceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola diffici-le, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek ve-niva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni speri-mentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostina-ti. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione: forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una delle nostre ipo-tesi) voleva dire «mangiare» o «pane»; o forse «carne», in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua.Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattu-to come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’en-trata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avam-braccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.

P. Levi, La tregua, Einaudi

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3

Art SpiegelmannMausSiamo abituati a pensare ai fumetti come a storie di evasione e intrattenimento, con contenuti per così dire «leggeri». Ti accorgerai leggendo questo testo che anche i fumetti possono trattare argomenti molto seri. Il racconto è ambientato ai nostri giorni, in Germania. Il vecchio padre, Vladeck Zylberberg, si reca a trovare il figlio, Artie, che gli domanda di aiutarlo a ricostruire la storia della sua famiglia. Vladeck, polacco di origine ebraica, è sempre stato piuttosto reticente e non ha mai voluto raccontare i terribili giorni dell’occupazione nazista e il successivo internamento ad Auschwitz.Artie però ha bisogno di comprendere la propria storia e finalmente riesce a convincerlo.

la memoRia affidata a un fumetto4. Storia e memoria

albero genealogico di artie Zylberberg

Artie Zylberberg

Anja(madre)Lona-Loleck Vladeck Zylberberg

(padre) Fela

Coniugi Karmia(nonni di Anja)

Madre di Vladeck(già morta)

Padre di Vladeck(nonno di Artie)

Madre di Anja(nonno di Artie)

Padre di Anja(nonno di Artie)

Ti presentiamo un albero genealogico con i personaggi che incontrerai nel fumetto. Potrà esserti utile per orientarti nella vicenda.

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A. Spiegelmann, Maus, Einaudi

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Autore

Antologia 3

L’associazione Amnesty InternationalAmnesty International si oppone incondizionatamente alla pena di morte, una violazione dei diritti umani fondamentali.

1.  amnistia:condono della pena.

2.  prigionieri di coscienza: «prigioniero di coscienza» è un termine coniato dal l’organiz zazione interna zionale Amnesty International che si batte in difesa dei diritti umani. Il termine si riferisce a chiunque venga imprigionato in base ad alcune caratteristiche: razza, religione, colore della pelle, lingua, orientamento sessuale e credo politico, il tutto senza aver usato o invocato l’uso della violenza.

3. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è un documento, firmato a Parigi il 10 dicembre 1948, la cui redazione fu promossa dalle Nazioni Unite perché avesse applicazione in tutti gli stati membri.

4.  discri minazione: disparità di trattamento, specialmente nei confronti di particolari gruppi etnici, sociali, politici.

Chi siamo

Amnesty International è un’organizzazione non governativa indipendente, una comunità globale di difensori dei dirit-

ti umani, fondata nel 1961 dall’avvocato inglese peter Benen-son, che lanciò una campagna per l’amnistia1 dei prigionieri di coscienza2. Conta attualmente due milioni e duecentomila soci, sostenitori e donatori in più di 150 paesi. La Sezione Italiana di Amnesty, costituitasi nel 1975, conta oltre 90.000 soci.La visione di Amnesty International è quella di un mondo dove i diritti sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti uma-ni3 e dagli altri documenti sulla protezione internazionale sia-no riconosciuti, garantiti e tutelati.Amnesty svolge ricerche e azioni per prevenire e far cessare gravi abusi dei diritti all’integrità fisica e mentale, alla libertà di coscienza e di espressione e alla libertà dalla discriminazione4. Amnesty, inoltre, denuncia gli abusi commessi dai gruppi di op-posizione, assiste i richiedenti asilo politico (si veda il riquadro Il diritto di asilo a p. 81), sostiene la responsabilità sociale delle imprese e si batte per un trattato internazionale sul commercio di armi.

RiceRca di pace, giustizia e benesseRe4. Storia e memoria

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Aprite il vostro giornale ogni giorno della settimana e trove-rete la notizia che da qualche parte del mondo qualcuno viene imprigionato, torturato o ucciso perché le sue opinioni o la sua religione sono inaccettabili per il governo. […] Il lettore del giornale sente un nauseante senso di impotenza. Ma se questi sentimenti di disgusto ovunque nel mondo potessero essere uniti in un’azione comune qualcosa di efficace potrebbe es-sere fatto.

(Peter Benenson, «The Observer», 28 maggio 1961)

La missione

La visione ideale di Amnesty International è quella di un mon-do in cui ogni persona goda di tutti i diritti umani enuncia-

ti nella dichiarazione universale dei diritti umani e negli altri standard internazionali relativi ai diritti umani.Al fine di perseguire questa visione, la missione di Amnesty In-ternational è quella di svolgere attività di ricerca e azione fina-lizzate a prevenire ed eliminare gravi abusi del diritto all’inte-grità fisica e mentale, della libertà di coscienza ed espressione e della libertà dalla discriminazione, nel contesto del suo lavoro di promozione di tutti i diritti umani.Amnesty International costituisce una comunità globale di attivi-sti i cui principi sono la solidarietà internazionale, l’azione effica-ce per le vittime individuali, la copertura globale, l’universalità e indivisibilità dei diritti umani, l’imparzialità e l’indipendenza, la democrazia e il mutuo rispetto.Amnesty si impegna concretamente per:n porre fine alle violazioni dei diritti umani (pena di morte,

sparizioni, esecuzioni extragiudiziali, processi iniqui, tortura, violazioni dei diritti economici e sociali);

n difendere i diritti fondamentali delle vittime delle violazio-ni (prigionieri di coscienza, prigionieri politici, donne, minori, obiettori, rifugiati, sindacalisti).

Tecniche di lavoro

Di tutte le tecniche che Amnesty ha messo a punto nella sua più che trentennale lotta contro le violazioni dei diritti uma-

ni, la campagna internazionale è una delle più impegnative. Una campagna su un paese o su un tema coinvolge a tutti i li-

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5.  attività di lobby: azioni, mediante «pressioni» su uomini politici e funzionari pubblici, per ottenere provvedi­menti legislativi o ammini­strativi in proprio favore.

velli il movimento e prevede l’utilizzo delle più diverse tecniche per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e la pressione ver-so i governi violatori: invio di appelli, contatti con le ambasciate, organizzazione di eventi pubblici, attività di lobby5 presso i go-verni e le organizzazioni internazionali. Di fatto una campagna di Amnesty è un evento «temuto» dal paese oggetto per l’enorme pressione che suscita: è già capitato che alcuni governi abbiano diffidato Amnesty dall’iniziare una campagna verso di loro o ab-biano effettuato dei miglioramenti di «facciata» (come la libera-zione di qualche prigioniero di opinione il giorno prima del lan-cio di una campagna) per screditare i rapporti di Amnesty.Il socio singolo può partecipare attraverso gli appelli mondiali da ricopiare e spedire, inseriti nel notiziario nazionale e disponi-bili sul sito, inviando lettere per contribuire alla pressione inter-nazionale esercitata dal movimento su casi specifici. Migliaia di cartoline, telegrammi, lettere, fax, messaggi di posta elettronica creano intorno ai casi una visibilità e un interesse che mettono in seria difficoltà i governi. Le testimonianze di molti prigionie-ri, liberati grazie ad Amnesty International, lo dimostrano.Nel 1973 è nata la tecnica delle azioni urgenti, utilizzata quan-do è fondamentale agire immediatamente. È stata infatti idea-ta per contrastare l’uso sistematico della tortura, che spesso si concentra nei primi momenti dopo l’arresto, quando è necessario intervenire in tempi rapidissimi per far sentire alle autorità la pressione dell’opinione pubblica. Quando il Segretariato ha no-tizia di imminenti violazioni dei diritti umani, lancia un’azione urgente. Nelle successive 48 ore gli aderenti alla rete che ricevo-no i casi si attivano inviando fax, telegrammi e messaggi di po-sta elettronica. Questo provoca, in molti casi, sensibili migliora-menti e scongiura il pericolo imminente di gravi violazioni.Gli action files sono dossier d’azione assegnati direttamente dal Segretariato Internazionale ai Gruppi locali. L’obiettivo è quello di far rilasciare un prigioniero di coscienza, di scoprire le cir-costanze inerenti a «sparizioni» o esecuzioni extragiudiziali, di promuovere l’introduzione in un determinato paese di una salva-guardia legale o l’abrogazione di leggi, della tortura, della pena di morte. Le reti di azione regionale sono invece reti di Grup-pi Amnesty appartenenti a diverse Sezioni nazionali che si oc-cupano di una particolare regione del mondo. I gruppi aderen-ti si adoperano per aumentare la propria conoscenza su speci-fiche zone geografiche e, nello stesso tempo, si tengono pronti a rispondere a emergenze dei diritti umani che si presentino in quelle regioni. Questo sistema garantisce un’azione sollecita e competente. Un’altra modalità di azione utilizzata da Amnesty è quella della

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crisi, che viene attivata quando in un paese si verifica un aggra-vamento delle violazioni dei diritti umani a causa di guerre, con-flitti interni, catastrofi ambientali o altre situazioni di emergen-za. Il meccanismo della «crisis-response» consiste in tante atti-vità fortemente concentrate per fermare gli abusi sui civili e per contribuire a porre i diritti umani al centro di ogni azione della comunità internazionale.Parte del lavoro di Amnesty è fare richieste e pressione sui go-verni, rendere pubbliche le loro violazioni e inviare raccomanda-zioni sul rispetto dei diritti umani, con una delicata attività di rapporti con le istituzioni: le autorità italiane, dell’Unione euro-pea, delle Nazioni unite e delle altre Organizzazioni intergover-native. Amnesty chiede alle istituzioni di proporre e sostenere disegni di legge volti a promuovere e a difendere i diritti uma-ni e di orientare la politica estera e le relazioni internazionali dell’Italia, affinché i diritti umani ne costituiscano il parametro di valutazione ineludibile6.Un altro aspetto fondamentale dell’impegno di Amnesty è quello, infine, dell’educazione ai diritti umani. Un processo di lungo periodo che costituisce una strategia preventiva efficace di difesa della dignità e della libertà di ogni individuo. Un lavoro che par-te dalle scuole, ma si estende a tutti gli ambiti della formazione.

www.amnesty.it

Il diritto di asiloIl diritto di asilo è un diritto umano fondamentale sancito dalla Di-chiarazione universale dei diritti dell’uomo all’art. 14, come diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni, non invo-cabile, però, da chi sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai princìpi delle Nazioni Unite.Hanno dunque diritto di asilo i «rifugiati». Quello di «rifugiato» è uno status riconosciuto, secondo il diritto internazionale (art. 1 della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951), a chiunque si trovi al di fuori del proprio paese e non possa ritornarvi a causa del fondato timore di subire violenze o persecuzioni. Il ricono-scimento di tale status giuridico è attuato dai governi che hanno firma-to specifici accordi con le Nazioni Unite, o dall’UNHCR*, secondo la definizione contenuta nello statuto dell’Alto Commissariato.In questo senso, l’asilo politico è un caso particolare di diritto di asilo; è il diritto di asilo, cioè, di chi è perseguitato per le proprie opinioni politiche, e che è perciò un rifugiato politico.

http://it.wikipedia.org/wiki/Diritto_di_asilo

* L’Alto Commissa riato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (United Nations High Commis­sioner for Refugees) è l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati, fornisce loro una protezione internazio­nale e assistenza materiale ai rifugiati e persegue soluzioni durevoli alla loro drammatica condizione. È stata fondata il 14 dicembre 1950 e ha sede a Ginevra in Svizzera da dopo la Seconda guerra mondiale per soccorrere i profughi della guerra. Ha aiutato 50 milioni di persone e ha vinto 2 premi Nobel per la pace.

6.  ineludibile: che non può essere eluso, cioè evitato.