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Eliana Versace, Maria Chiara Mattesini

Luigi GranelliL’impegno di un cristianoper lo Stato democratico

IstitutoLuigi

Sturzo

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Rubbettino

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Il materiale analizzato scelto e qui proposto proviene prevalente-mente dall’archivio privato del senatore Luigi Granelli, conservatopresso l’Istituto Storico Luigi Sturzo. Anche nel caso di testi già editisi è preferito ricorrere all’originale. I discorsi sono stati riportati fedel-mente rispetto ai documenti consultati. Alcune sigle sono state nor-malizzate per uniformità del testo.

Le curatrici desiderano esprimere la loro affettuosa gratitudine al-la signora Adriana Granelli e a coloro che hanno favorito questa pub-blicazione: dott.ssa Flavia Nardelli, prof. Francesco Malgeri, dott.ssaConcetta Argiolas, dott.ssa Michela Ghera, dott.ssa Alessandra Gatta,dott.ssa Patrizia Severi, dott.ssa Roberta Bruno, Jacopo Algozzino.

Nota dei curatori

Cecilia Dau Novelli

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PARTE PRIMA

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Luigi Granelli nella Democrazia cristiana

Agli inizi degli anni Cinquanta, la nuova generazione di politicicattolici che stava lentamente emergendo all’interno della Democraziacristiana contribuì ad alimentare, con un essenziale apporto culturale,un dibattito politico indubbiamente impoverito dall’improvviso ritirodi Giuseppe Dossetti dalla scena pubblica nazionale.

Potremmo dunque, in maniera plausibile, richiamarci, in questasede, a quei nuovi e diversi fermenti che attraversarono in quegli anniil movimento giovanile della DC e ricondurli a una «questione genera-zionale», che ci appare peculiare e quasi connaturata alla struttura stes-sa del partito democratico cristiano. Ma, così come la storia della De-mocrazia cristiana non può essere considerata esclusivamente una purefficace sintesi delle diverse e spesso contrastanti tendenze e correntiche la animarono, sarebbe altrettanto improprio ridurre l’evoluzionedelle vicende storiche del partito semplicemente ad un fecondo – e, al-lo stesso tempo, conflittuale e stridente – confronto generazionale1.

1 Una «questione generazionale» era stata sollevata da Mariano Rumor, nel feb-braio 1952, sulle pagine della rivista «Iniziativa Democratica». Per Rumor, il dibattitosugli atteggiamenti politici dei cattolici italiani avrebbe avuto maggior efficacia se fos-se stato svolto in termini di generazioni perché, secondo l’esponente di Iniziativa De-mocratica, proprio tra i margini di queste generazioni passerebbe «la linea discrimi-nante dei vari atteggiamenti da cui nasce la dialettica del nostro mondo politico». M.Rumor, Due generazioni, in G. Galloni, Antologia di «Iniziativa democratica», EBE, Ro-ma 1973, pp. 166-168. Sul confronto generazionale all’interno della Democrazia cri-stiana in quegli anni cfr. G. Tassani, La Terza Generazione. Da Dossetti a De Gasperi traStato e rivoluzione, Ed. Lavoro, Roma 1988, G. Mantovani, Gli eredi di De Gasperi. Ini-ziativa democratica e i giovani al potere, Le Monnier, Firenze 1976, ma anche T. Mor-lino, «Terza generazione», in «Per l’azione», febbraio 1951.

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Eppure, la «terza generazione» democristiana, anagraficamente piùlontana dal gruppo degasperiano degli ex popolari che già durante laguerra avevano clandestinamente fondato il partito, si distingueva an-che dalla seconda generazione, cresciuta negli anni della dittatura fa-scista, formatasi prevalentemente nell’ambito dell’associazionismo cat-tolico e ritrovatasi all’interno del partito, quasi interamente, nella cor-rente di Iniziativa Democratica. I giovani esponenti della cosiddetta«terza generazione», come nota Francesco Malgeri, avevano invece tra-scorso gli anni della formazione «nelle file del partito, venendosi spes-so a trovare nelle diverse situazioni locali in posizioni polemiche colpensiero ufficiale, che talvolta era portato più su posizioni di conserva-torismo»2.

Questo contesto storico fa da cornice e orienta l’intenso percorsopolitico di Luigi Granelli – esponente di punta della Sinistra di Base,ed espressione anch’egli della terza, giovane, generazione che si stavaaffacciando alla ribalta nazionale – il quale avrebbe assunto, nel corsodegli anni, incarichi di sempre maggior rilievo all’interno della De-mocrazia cristiana e nel governo del Paese.

Se sull’esperienza e le origini della corrente di Base molto è statoscritto, e studi significativi sono stati compiuti su alcuni dei suoi prin-cipali protagonisti come Giovanni Marcora o Nicola Pistelli, sulla fi-gura di Luigi Granelli manca ancora oggi uno studio scientifico accu-rato o anche una semplice sintesi biografica3.

2 F. Malgeri, Introduzione, in L. Dal Falco, Diario politico di un democristiano, Isti-tuto Luigi Sturzo, Rubbettino, Roma - Soveria Mannelli 2008, p. 17. Il corsivo è neltesto citato.

3 Ancora oggi, importanti riferimenti sulla Sinistra di Base rimangono gli studi diGiorgio Rumi, La «Base», una nuova «sinistra» a Milano, in G. Rumi, (a cura di), Mi-lano cattolica nell’Italia unita, Ned, Milano 1983, G. Galli, P. Facchi, La sinistra demo-cristiana. Storia e ideologia, Feltrinelli, Milano 1962, G. Baget Bozzo, Il partito cristia-no al potere. La Dc da De Gasperi a Dossetti. 1945-1954, Vallecchi, Firenze 1974. Inte-ressanti sono i contributi di G.M. Capuani, C. Malacrida, L’autonomia politica dei cat-tolici, Interlinea, Novara 2002, e G. Chiarante, Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie de-gli anni Cinquanta, Carocci editore, Roma 2006. Molto utili sono anche le antologiecurate da Giovanni Di Capua sulle riviste pubblicate dalla corrente, tra cui, con pseu-donimo, L. Merli, Antologia de «La Base», EBE, Roma 1971, L. Merli, Antologia di «Po-litica», 4 voll., EBE, Roma 1973, e quelle di Vittorio Gallo, Antologia di «Prospettive»,EBE, Roma1973 e ID., Antologia di «Stato democratico», 3 voll., EBE, Roma 1972, cosìcome il volume di Enrico De Mita, Cronache della centralità democristiana (1960-1980), EBE, Roma 1982. Su Giovanni Marcora, una sintesi biografica è quella di G.Borsa, Giovanni Marcora. Un politico concreto dalla Resistenza all’Europa, Ed. Centroambrosiano, Milano 1999. Una recente biografia è stata realizzata da Giovanni Di Ca-

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Una così evidente lacuna storiografica non può essere giustificataunicamente dalla comprensibile difficoltà di accesso alle fonti archivi-stiche dirette, che solo negli ultimi anni sono state recuperate e rese ac-cessibili agli studiosi, ma trova una valida e più efficace spiegazione seammettiamo che il più loquace e prolifico biografo di se stesso è statoproprio Luigi Granelli. Più di ogni altro esponente della sua correntee area di riferimento, infatti, Granelli ha prodotto, nel corso della suaquasi cinquantennale esperienza politica, un’infinità di articoli, saggi,riflessioni, appunti, annotazioni e interventi quasi tutti editi nel corsodegli anni sulle numerose riviste che lo hanno avuto prezioso e indi-spensabile collaboratore4.

Questo volume, scaturito da un’ardua e purtroppo necessaria sele-zione di scritti e discorsi, alcuni dei quali inediti, rinvenuti prevalen-temente nel suo archivio privato, intende semplicemente stimolare lariscoperta di uno dei protagonisti della politica italiana della secondametà del Novecento, introducendo brevemente al suo pensiero, ma la-sciando che a parlare sia, ancora una volta, Luigi Granelli.

Ma chi è dunque Granelli? Se proviamo a tratteggiare sintetica-mente la sua esperienza di «uomo di partito» all’interno della Demo-crazia cristiana, cercando di individuare il suo specifico contributo, ciaccorgiamo però che esso coincide interamente e in maniera quasi in-distinguibile con le proposte politiche avanzate dalla Sinistra di Base.Dobbiamo dunque riconoscere che per molti anni, sin dalla fondazio-ne della sua corrente, Granelli divenne il principale interprete – sicu-ramente il più audace – di tutte le istanze della Base, rilanciandole sul

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pua, Albertino Marcora. Politico del fare, Rubbettino, Roma-Soveria Mannelli 2007.Curata dallo stesso autore è anche la raccolta di testimonianze Ribelle e statista. Alber-tino Marcora, EBE, Roma 1984. Nell’ambito de «I quaderni de La Base», subito dopola sua morte, venne pubblicato il fascicolo speciale, Giovanni Marcora. Una lunga mi-lizia per la libertà, Centro Studi «La Base», Milano 1983. Di Luigi Castoldi, è Marco-ra. Storia di un leader, Ed. Giornalisti Riuniti, Milano 1986. Su Nicola Pistelli di rile-vante importanza è la raccolta di Scritti politici, a cura di Enrico De Mita, Ed. Politi-ca, Firenze 1967, mentre una prima biografia è quella tracciata da Giovanni Di Capuanel volume Nicola Pistelli, Ed. Politica, Firenze 1969. Più recente e ricco di informa-zioni è il bel volume di G.P. Cappelli, Nicola Pistelli. La Dc dimenticata, Morcelliana,Brescia 1995. Più in generale sull’esperienza della Democrazia cristiana si vedano A.Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Ro-ma-Bari 1996 e ID., La cultura democristiana, Laterza, Roma-Bari 1991.

4 Dal 1957 al 1964 Luigi Granelli fu anche direttore del periodico della Sinistradi Base milanese «Stato Democratico», di cui era stato principale ideatore e ispiratore,e successivamente, delle riviste «Il Domani d’Italia» e «Il Confronto».

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versante politico ma anche, e soprattutto, dotandole di validi presup-posti culturali, sviluppati nel vivace dibattito sollecitato dalle riviste diriferimento del suo gruppo.

Bergamasco di Lovere, nato il 1 marzo del 1929, in una famigliadi umili origini, Granelli vive da studente il tormentato biennio dellaResistenza; ma, pur non avendo partecipato direttamente alle vicendeche avrebbero condotto alla liberazione del Paese, fu in quegli anni chematurò in lui una solida coscienza antifascista. La lotta armata controle forze di occupazione nazifasciste, a cui parteciparono direttamentealcuni tra i fondatori della corrente della Base5, diverrà anche per Gra-nelli un riferimento fondamentale della sua azione politica. Per i basi-sti, infatti, fu imprescindibile e prioritario il richiamo all’esperienza re-sistenziale che vide l’unione di tutte le forze politiche espressione del-le masse popolari, chiamate per la prima volta a collaborare insieme al-la formazione di un nuovo Stato democratico6.

Negli anni successivi Granelli concluse il suo breve ciclo di studiottenendo un diploma di scuola professionale e iniziò a lavorare comeoperaio specializzato tornitore presso l’Italsider. L’esperienza in fabbri-ca, a stretto contatto con l’ambiente operaio e sindacale, determinò lasua attenzione per i problemi del mondo del lavoro, accentuandone lasensibilità per le questioni di giustizia sociale7.

L’ambiente dell’Azione Cattolica bergamasca, frequentato da Gra-nelli negli anni giovanili, influì invece sulla sua formazione culturale in-dirizzandolo alla scoperta delle opere di Maritain e Mounier, coniuga-te con l’approfondimento, compiuto da autodidatta, del pensiero eco-nomico di Keynes e Beveridge, teorici dell’intervento dello Stato nel-

5 Si pensi solo a Giovanni Marcora che aveva partecipato insieme a Eugenio Cefisalla Resistenza nell’alto novarese con il gruppo partigiano dei «Fratelli Di Dio». Pro-prio in quegli anni, durante le travagliate vicende belliche, ebbe origine lo stretto rap-porto che unì i fondatori della Base a Enrico Mattei che nel 1944 era divenuto rap-presentante della DC nel Comando generale del Corpo Volontari della Libertà.

6 Cfr. G. Galli, P. Facchi, op. cit, pp. 422-423. Secondo gli autori, per gli uominidella Base, «l’accettazione e la glorificazione della Resistenza divenivano il criterio pergiudicare della democraticità di un partito, con il risultato di escludere le Destre». Ivi,p. 423.

7 Per la sua particolare competenza sui problemi del mondo del lavoro, dal 1960al 1967, Granelli è stato presidente dell’INAPLI, ente nazionale di diritto pubblico ri-volto all’addestramento dei lavoratori dell’industria e, nello stesso periodo, ha direttoanche la rivista «Qualificazione» che si occupava dei problemi sociali e di formazioneprofessionale. In seguito proprio Granelli sarà tra i promotori dell’ILSES (Istituto Lom-bardo di Studi Economici e Sociali), di cui diverrà anche membro del consiglio d’am-ministrazione e presidente.

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l’economia pubblica8. L’impegno politico nella Democrazia cristianadivenne allora consequenziale nel percorso del giovane. Impiegato co-me funzionario politico nel comitato provinciale della DC di Bergamo,Luigi Granelli fu subito attratto dalle posizioni espresse nel partito daGiuseppe Dossetti. Del politico emiliano sostenne innanzitutto la po-lemica contro la rottura, attuata da De Gasperi nel maggio del 1947,dei governi di unità nazionale, in cui avevano convissuto insieme allaDC anche socialisti e comunisti in una trasposizione sul piano dell’am-ministrazione del Paese di quel modello di coabitazione sperimentatocon successo dai Comitati di Liberazione nazionale. Allo stesso modocondivise la contrarietà di Dossetti nei confronti degli esponenti libe-rali chiamati da De Gasperi alla guida dei ministeri economici.

L’approdo alla Sinistra di Base, dopo la dissoluzione del gruppodossettiano, fu naturale per Granelli che vi aderì insieme a molti altrirappresentati della DC bergamasca, tra cui Giuseppe Chiarante, LucioMagri, Leandro Rampa e il segretario provinciale Enzo Zambetti9.

Sin dal suo momento fondativo, con l’incontro di Belgirate del 27settembre 1953, convocato a seguito dei deludenti risultati elettoralidel 7 giugno precedente, che avevano rivelato la lenta agonia dei go-verni centristi, la nuova corrente si richiamò, già col nome prescelto,alla base popolare e cattolica del partito, che riteneva sacrificata in no-me dell’anticomunismo e che pertanto era necessario recuperare allapartecipazione politica. La Sinistra di Base inizialmente si strutturò inmaniera federativa e disomogenea come un insieme di «tribù sparse» –secondo una realistica definizione fornita dal fiorentino Nicola Pistel-li, giovane aderente con ascendenze lapiriane e gronchiane, che fu l’e-sponente di punta della nuova corrente in Toscana – pur mantenendouna importante e specifica matrice lombarda10.

13Luigi Granelli nella Democrazia cristiana

8 Alcune utili indicazioni sulla formazione di Granelli sono offerte dal contributodi Mario Mauri, Una biografia autorizzata di Luigi Granelli, oggi incluso nella pubbli-cazione Luigi Granelli: un libro di ricordi, a cura dei familiari del politico lombardo,Edizioni Kanso, Roma 2009, pp. 7-12.

9 Cfr. G. Chiarante, op. cit, e ID., Da Lovere a Roma, contributo al volume LuigiGranelli: un libro di ricordi, op. cit., pp. 24-28. Sull’apporto del «gruppo bergamasco»si veda anche G.M. Capuani, C. Malacrida, op. cit., p. 37. Granelli, Chiarante e Ma-gri collaboravano in quel periodo anche alla rivista del Movimento giovanile della De-mocrazia cristiana «Per l’azione», diretta da Franco Maria Malfatti. Chiarante, Magri eLeidi, espulsi dal partito per le loro posizioni di estrema sinistra, aderiranno successi-vamente al PCI.

10 Questa è l’opinione espressa da Giorgio Rumi, nel saggio La «Base», una nuova«sinistra» a Milano, op. cit.

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L’ineluttabile crisi del centrismo, secondo i basisti, rendeva oppor-tuna e indispensabile una «apertura a sinistra» nei confronti del Parti-to socialista che, guidato da Pietro Nenni, stava sfuggendo all’influen-za del PCI per affermare la sua autonomia. Solo con il coinvolgimentograduale dei socialisti nella maggioranza parlamentare e di governo sisarebbero potute acquisire in maniera stabile le masse popolari alla vi-ta democratica del Paese. Possiamo scorgere in questa proposta alcuneevidenti suggestioni dossettiane sulle possibili alleanze tra i partiti d’i-spirazione popolare.

A sostegno di questa istanza gli uomini della Base rivendicavanol’esigenza di una maggiore autonomia e indipendenza del laicato cat-tolico dall’Autorità ecclesiastica nell’ambito dell’azione politica. Gra-nelli propugnò questo principio in numerose occasioni, richiamando-si al pensiero di Sturzo e De Gasperi, ripetutamente citati in diversecircostanze, per motivare le sue scelte politiche. Ricordando il fonda-tore della DC a dodici anni dalla morte, con un discorso inedito, rin-venuto tra le sue carte e qui antologizzato, Granelli riconosceva al lea-der trentino il merito storico di essere entrato in armonia con Sturzocondividendo sostanzialmente le grandi affermazioni di principio delsacerdote siciliano «secondo cui il partito popolare non impegnava laChiesa, ma impegnava se stesso, era un partito che si poneva a serviziodel Paese con lealismo costituzionale, rigettava l’integralismo, ponevai problemi del Mezzogiorno, dava una coscienza storica al movimentopolitico dei cattolici»11.

De Gasperi e Sturzo, conosciuto all’inizio in maniera indiretta, at-traverso gli studi di Gabriele De Rosa, ma in seguito approfondito neitesti originali, saranno i principali riferimenti a cui Granelli confesseràdi essersi ispirato nella sua azione politica12. Deluso dalla cauta politi-ca neocentrista portata avanti da Amintore Fanfani – il quale, negli an-ni in cui fu alla guida del partito, ebbe con la Sinistra di Base un rap-porto molto dialettico e alquanto turbolento13 – il giovane basista,

14 Eliana Versace

11 Discorso su De Gasperi, Archivio Istituto Luigi Sturzo, (AILS) Fondo Granel-li,(FG) serie VIII, sottoserie 2, b. 22.

12 G.M. Capuani, C. Malacrida, op. cit., p. 37. Il richiamo a Sturzo e alla sua ideadi partito sarà frequente sulle pubblicazioni della Base e in particolare su «Stato De-mocratico».

13 L’8 luglio del 1955, a seguito di una controversa vicenda politico-giornalisticae dopo ripetuti inviti a una maggiore docilità, Fanfani aveva espulso dal partito Aristi-de Marchetti, ex partigiano, tra i fondatori del «La Base» e direttore della rivista dellacorrente «Prospettive», che cessò così le pubblicazioni. Un’accurata ricostruzione di tut-ta la vicenda è in V. Gallo, Antologia di «Prospettive», EBE, Roma 1971. Nello stesso an-

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commentando gli esiti del Congresso democristiano di Trento, nel-l’ottobre 1956, ammetteva che, «al di là delle polemiche che abbiamoavuto al tempo del dossettismo», per la Democrazia cristiana, De Ga-speri era «morto troppo presto»14. A differenza di Fanfani, il vecchioleader trentino già al Congresso di Napoli, poco tempo prima di mo-rire, avrebbe auspicato, secondo Granelli, l’evoluzione del PSI e l’allar-gamento dell’area democratica, difendendo dall’integralismo «la voca-zione laica del partito, in coerenza con la sua ispirazione cristiana». In-vece Fanfani, che per Granelli non rappresentava affatto l’erede di DeGasperi, «illudendosi», avrebbe puntato tutto sullo sfondamento elet-torale, tradendo così anche la concezione ideale e politica dossettianadella DC, ridotta «a un misto di integrismo e attivismo corporativo»15.

A seguito degli esiti del Congresso di Trento, nell’ottobre del 1956,Granelli venne eletto, per la prima volta, al Consiglio nazionale delpartito16, mentre nell’estate dell’anno successivo, in maniera inattesa,durante il Consiglio nazionale democristiano di Vallombrosa, in cuiFanfani si rese sorprendentemente disponibile a promuovere in futuro«oneste collaborazioni democratiche» con le forze socialiste «autono-me dal comunismo», Granelli fu scelto a rappresentare la Base nella Di-rezione della DC17.

15Luigi Granelli nella Democrazia cristiana

no anche Chiarante venne dapprima sospeso e poi espulso dal partito per la sua parte-cipazione non autorizzata al congresso di Helsinki dei partigiani della pace. Su questiaspetti si veda anche l’interessante contributo di A. Ballarin Denti, La strategia antico-munista americana e la sinistra DC, in «Studi Storici», luglio-settembre 2005, pp. 661-710, in cui si esamina l’influenza esercitata dalla diplomazia statunitense, in particola-re attraverso l’ambasciatrice in Italia, Claire Boothe Luce, sugli atteggiamenti tenuti daFanfani nei confronti della sinistra democristiana.

14 AILS, FG, serie I, riportato in E. Versace, Montini e l’apertura a sinistra. Il falso mi-to del «vescovo progressista», Guerini e Associati, Milano 2007, p. 119.

15 Ibidem.16 Insieme a lui entrarono in Consiglio nazionale anche i basisti Giovanni Gallo-

ni, Nicola Pistelli, Fiorentino Sullo, Leandro Rampa, Ciriaco De Mita, Andrea Ne-grari, e Alessandro Buttè mentre Camillo Ripamonti diventava il rappresentante per laLombardia.

17 Dopo la rinuncia di Giovanni Galloni, perplesso nei riguardi di una collabora-zione con Fanfani che non offriva sufficienti garanzie per una svolta politica di centro-sinistra, i rappresentanti della Base, riuniti a Firenze designarono l’ignaro Luigi Gra-nelli, che venne informato della nomina al suo ritorno dal viaggio di nozze. LucianoDal Falco, diede un giudizio caustico su Vallombrosa che avrebbe rappresentato «il sal-to della quaglia a sinistra di Fanfani». Con la sua nuova posizione il segretario avrebbeottenuto solo «il proposito di sfasciare Iniziativa Democratica». Anche «l’operazione diaggancio delle minoranze avrebbe potuto riuscire un trionfo per lui, ove egli avesse sa-

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Ma è il 1958 che segna una svolta clamorosa nella vicenda perso-nale del giovane democristiano. Candidato alle elezioni politiche chesi svolsero nella primavera di quell’anno, il nome di Granelli fu al cen-tro di un «caso» che ebbe risvolti di carattere «politico-dottrinale». L’e-lezione dell’esponente della Base, nella circoscrizione elettorale di Mi-lano-Pavia, fu infatti osteggiata dall’allora arcivescovo di Milano, Gio-vanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, che nelle idee propa-gandate da Granelli – di cui lamentava alcuni «atteggiamenti indipen-denti ed insindacabili» – scorgeva delle corrosive e inquietanti istanzelaiciste che avrebbero potuto turbare e destabilizzare la compattezza el’unità del laicato cattolico. Dissentire e contrastare le tendenze auto-nomiste della Base sembrò all’arcivescovo di Milano innanzitutto unineludibile dovere pastorale. Del «caso Granelli», Montini informò l’e-piscopato lombardo predisponendo un accurato memoriale diretto alSant’Uffizio, in cui venivano fieramente contestate, con accentuato vi-gore, le tesi esposte dal politico bergamasco, in particolare su «StatoDemocratico», ove Granelli, per argomentare le posizioni basiste sulrapporto tra morale e politica, aveva fatto un inaccettabile riferimentoal pensiero del teologo lombardo mons. Carlo Colombo18.

Alle elezioni del 25 maggio del 1958 Luigi Granelli non fu eletto.E negli anni successivi rinunciò a proporre nuovamente la sua candi-datura in Parlamento; diverrà deputato solo nel 1968 dopo essersi de-dicato a realizzare una politica di centro sinistra nell’amministrazionecomunale milanese, come capogruppo consiliare della DC. Tuttavia al-l’interno del partito – e attraverso la sua instancabile attività pubblici-stica – continuò la sua battaglia per l’apertura a sinistra e l’allarga-mento dell’area democratica del Paese. Intervenendo al Congresso de-mocristiano di Firenze del 1959 – in cui la Base si schierò in appoggioa Fanfani che, questa volta da posizioni di sinistra, contendeva la gui-da del partito al segretario Aldo Moro, incaricato alcuni mesi prima daidorotei – Granelli intese fugare, senza cedimenti, i dubbi e i turba-menti di quella parte del mondo cattolico che temeva un abbraccio conil Partito socialista, vincolante anche sul piano dei valori ideali. «Nonsi tratta – affermava il rappresentante della Base – di cedere sul piano

16 Eliana Versace

puto farla con più grazia ed abilità; invece l’ha compiuta in polemica con i suoi tenen-doli all’oscuro». L. Dal Falco, op. cit., p. 24.

18 Si trattava di un articolo apparso sul numero di «Stato democratico» del 20 gen-naio 1958, dal titolo Il problema va collocato a livello politico, che è stato antologizzatoin questa raccolta. Per una ricostruzione completa di tutta questa vicenda mi permet-to di rimandare al mio volume Montini e l’apertura a sinistra, op. cit.

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ideologico al socialismo che è, e rimane, classista. Su questo punto nonabbiamo niente a che vedere con loro. Siamo i primi a dire – aggiun-geva Granelli – che il giorno in cui i socialisti dovessero chiederci co-me contropartita per la soluzione di qualche problema economico, ditoccare la scuola, la famiglia, ecc. noi rinunceremmo alla soluzione diquel problema economico»19.

Nonostante le forti divergenze con l’episcopato italiano, all’iniziodegli anni Sessanta la DC riuscì a varare l’alleanza politica con il Parti-to socialista, prima nella forma blanda delle «convergenze parallele»,con l’astensione del PSI rispetto agli esecutivi costituiti da Fanfani, poicol «centro sinistra organico» e la partecipazione diretta dei socialisti aiministeri guidati da Moro. Viziata da eccessive cautele, continue me-diazioni, e da una persistente vocazione «minimalista» di Moro, l’e-sperienza dei governi organici di centro sinistra non produsse signifi-cative riforme e fu giudicata deludente soprattutto se confrontata conl’attività e leggi varate nel precedente biennio fanfaniano. Intervenen-do al Convegno organizzato nell’ottobre 1966 a Firenze dal gruppodella Base che faceva capo alla rivista «Politica», fondata da Nicola Pi-stelli, Granelli individuò tra le cause della «progressiva involuzione» delcentro sinistra l’incapacità del partito di «lasciare alle spalle una strut-tura burocratizzata, e priva di contatti reali con la società in trasfor-mazione». Ma l’esponente della Base coglieva anche un rischio menoevidente, quello di «ritrovare l’insegna della lotta in una piattaforma digenerazione che già fu il metodo che portò alla concezione di Iniziati-va Democratica; si ricadrebbe così – avvisava Granelli – nel vecchio vi-zio di concepire le correnti in senso rozzamente leninista, come puristrumenti per la conquista del potere, salvo poi accorgersi, appena con-quistato, che mancano le condizioni per gestirlo in coerenza con chia-re premesse ideali e politiche»20.

La terza generazione stava tuttavia rapidamente conquistando unruolo di effettivo potere all’interno del partito. Ciò fu evidente giàall’Assemblea organizzata dalla dirigenza del partito a Sorrento nel-l’autunno 1965 che, in un certo senso, potremmo considerare un im-

17Luigi Granelli nella Democrazia cristiana

19 Discorso di Granelli al Congresso di Firenze, antologizzato in questo volume,riprendendo il titolo, indicato dall’autore nella stesura originale, Favorire le intese tra ipartiti per allargare la base democratica dello Stato. ASILS, FG, serie VIII, sottoserie 2, b.22.

20 ASILS, serie VIII, sottoserie 2, b. 22. Intervento inedito al Convegno organizzatodalla rivista «Politica», antologizzato col titolo, attribuito dalla curatrice, Il futuro delcentro-sinistra.

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portante preludio alla svolta generazionale di San Ginesio, quattroanni più tardi, quando l’archiviazione della segreteria del doroteoFlaminio Piccoli consentì la conquista del partito ai «giovani qua-rantenni» Arnaldo Forlani, fanfaniano, che divenne segretario e Ci-riaco De Mita, della Sinistra di Base, che assunse l’incarico di vice se-gretario21.

Ma quel «patto generazionale» che aveva visto la Base associata al-la guida del partito, divise la corrente: se Marcora appoggiò l’esperien-za di De Mita, altri esponenti del gruppo, tra cui Giovanni Galloni eGiovanni Di Capua, espressero la loro diffidenza. Anche Granelli, datempo, non riteneva più «quella della generazione» l’unica via per ri-vitalizzare il centro sinistra e rinnovare il partito.

Eletto deputato nel 1968, il politico lombardo continuò a con-tribuire al dibattito interno alla Democrazia cristiana impegnandosiper un effettivo rinnovamento e una maggiore laicità del partito. In-tanto, alla consunta formula di un centro sinistra illanguidito e an-naspante tra le difficoltà della crisi economica e gli attacchi allo Sta-to da parte dei gruppi del terrorismo organizzato, subentrava l’ipo-tesi, più evanescente ma fortemente suggestiva, evocata da Moro, diuna «strategia dell’attenzione» nei confronti del Partito comunistaitaliano. Granelli fu tra i più fervidi sostenitori della linea moroteadel confronto col PCI e della politica di solidarietà nazionale, che lovide fattivamente impegnato nel ruolo di sottosegretario agli esteri,tra il 1973 ed il 1976.

Nel 1974, dopo la ferita – la prima e probabilmente una delle piùinsanabili – inferta al partito dall’acceso contrasto e poi dal deludenterisultato del referendum abrogativo sul divorzio, Granelli – che nono-stante le personali perplessità aveva partecipato alla campagna referen-daria per l’abrogazione della legge, supportando così le ragioni della

18 Eliana Versace

21 A San Ginesio, nelle Marche, nel settembre del 1969, si svolse un convegno cheebbe tra i partecipanti proprio Forlani e De Mita, in cui si rivendicava una diversa ge-stione del partito che desse maggiore spazio alle nuove generazioni. «Questo convegno,passato anche alla storia come il convegno dei “quarantenni”, cioè di quella generazio-ne insofferente nei confronti degli schematismi spesso imposti alle correnti dai capi sto-rici, ha lasciato indubbiamente più di un segno nella storia della DC se non altro perquel sodalizio, iniziato da S. Ginesio e poi tra alterne vicende in qualche modo so-pravvissuto a quella esperienza, che si stabilì tra uomini come De Mita e Forlani». P.L.Castellani, La Democrazia Cristiana dal centro-sinsitra al delitto Moro, in F. Malgeri, (acura di), Storia della Democrazia Cristiana, 5 voll., Ed. Cinque Lune, Roma 1989, vol.IV, 1962-1978. Dal Centro Sinistra agli «Anni di Piombo», p. 56.

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Democrazia cristiana – sostenne le iniziative dei Gruppi di rifonda-zione del partito, costituiti in Lombardia da Piero Bassetti22, attivan-dosi per sostituire Fanfani al vertice della DC23.

Il nuovo segretario, il moroteo Benigno Zaccagnini, eletto «prov-visoriamente» dal Consiglio nazionale e riconfermato con enfasi da mi-gliaia di delegati in un combattutissimo Congresso, (con una modalitàdi elezione diretta inconsueta e rischiosa per l’unità del partito, e chepertanto sarà rapidamente archiviata) chiamò a collaborare al suo fian-co molti esponenti della sinistra di Base, tra cui proprio Luigi Granel-li. Zaccagnini riacquisì alla DC i consensi di alcuni tra i cattolici de-mocratici fuoriusciti polemicamente dal partito in seguito alla sceltareferendaria sul divorzio compiuta da Fanfani, con molti dei quali Gra-nelli aveva stabilito un dialogo franco e vivace, partecipando a diverseiniziative della Lega democratica24.

Nonostante la figura di Zaccagnini, vezzeggiato da una benevolaopinione pubblica come «l’onesto Zac», avesse fomentato entusiasmicrescenti e speranze incontrollate che travalicavano la sua stessa perso-na, dopo la tragica conclusione del rapimento di Aldo Moro vennero

19Luigi Granelli nella Democrazia cristiana

22 Sull’attività dei gruppi di rifondazione, che operarono con una propria struttu-ra dal 1974 al 1979 all’interno del partito, e in stretto rapporto con i cattolici della Le-ga democratica, non esistono riferimenti storiografici. Rimando pertanto al recentecontributo di F. De Giorgi, con La «Repubblica delle coscienze». L’esperienza della LegaDemocratica di Scoppola, Gorrieri e Ardigò, in L. Guerzoni, (a cura di), Quando i catto-lici non erano moderati. Figure e percorsi del cattolicesimo democratico in Italia, il Muli-no, Bologna 2009 e a E. Versace, La Democrazia Cristiana tra rinnovamento e rifonda-zione, Atti del convegno Milano tra ricostruzione e globalizzazione. Dalle carte dell’ar-chivio di Piero Bassetti, Università degli Studi di Milano, in corso di pubblicazione.

23 È interessante sottolineare che insieme a Bassetti, Granelli fu tra i primi a pro-porre e sostenere una candidatura del doroteo Mariano Rumor che, non essendo uo-mo della sinistra del partito, avrebbe potuto riscuotere più ampi consensi da parte ditutte le correnti.

24 Si veda in questa raccolta, col titolo I cattolici democratici tra rinnovamento e con-fronto, la lettera indirizzata da Granelli al quotidiano «Paese Sera». La Lega Democra-tica era nata a Roma il 5 novembre 1975 durante un convegno a cui parteciparono uo-mini di cultura, rappresentanti del mondo sindacale ed esponenti della sinistra demo-cristiana. Il nuovo movimento intendeva condizionare dall’esterno la DC e il suo pro-cesso di rinnovamento. Tra i fondatori della Lega, vi furono gli intellettuali Pietro Scop-pola e Achille Ardigò, i sindacalisti Ermanno Macario e Manlio Spandonaro della CI-SL e il politico cattolico Ermanno Gorrieri. Utili informazioni sull’esperienza della Le-ga Democratica si trovano anche nel recente volume di M. Carrettieri, M. Marchi, P.Trionfini, Ermanno Gorrieri (1920-2004).Un cattolico sociale nelle trasformazioni delNovecento, il Mulino, Bologna 2009.

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accantonate la linea del rinnovamento del partito e la politica del con-fronto col PCI – quest’ultima di chiara ispirazione morotea – che ave-vano caratterizzato il quinquennio del segretario romagnolo.

Anche durante quei drammatici giorni della primavera del 1978,in cui le istituzioni democratiche furono minacciate nella loro stessasopravvivenza, per la prima volta dalla fine della lotta al nazifascismo,con un attacco violentissimo allo Stato repubblicano, Granelli, e conlui in maniera compatta tutta la Sinistra di Base – che nell’esperienzadella Resistenza, come si è detto, trovava un essenziale e imprescindi-bile riferimento ideale – sostenne, con un pur profondo e lacerante tur-bamento, la linea della fermezza adottata dal vertice della Democraziacristiana.

All’inizio degli anni Ottanta, la scomparsa di Giovanni Marcora,che della Sinistra di Base era stato l’indispensabile organizzatore e re-gista, segnò per la corrente quasi una simbolica conclusione della sta-gione delle grandi battaglie ideali e politiche avviate un trentennio pri-ma. Con l’elezione, il 5 maggio del 1982, del basista Ciriaco De Mitaalla segreteria della Democrazia cristiana, la «terza generazione», assu-meva la guida del partito, diventando classe dirigente del Paese. Anchel’impegno di Granelli si concentrò prevalentemente sull’attività di go-verno, in cui venne coinvolto come ministro della Ricerca scientifica epoi, come titolare delle Partecipazioni statali.

Anni dopo, nel febbraio del 1990, ricordando le vecchie battaglieaffrontate insieme alla Base e richiamandosi ad alcune considerazionidi Moro, Granelli ammise che la DC non poteva essere un partito di si-nistra, ma aggiunse anche che la Democrazia cristiana avrebbe sempreavuto «un bisogno vitale della sua sinistra» per poter continuare a es-sere un partito popolare, riformista, attento ai cambiamenti delPaese25.

ELIANA VERSACE

20 Eliana Versace

25 ASILS, FG, serie VIII, sottoserie 2, b. 27, L’idea della Base. Un ricordo di Marcora,articolo redatto per «La Discussione» e pubblicato il 10 febbraio 1990, antologizzato,col medesimo titolo, in questa raccolta.

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Cattolici e socialisti: «Il problema va collocatoa livello politico»*

* Il problema va collocato a livello politico, in «Stato Democratico», n. 6, 20 gennaio1958.

Con questo testo, apparso su «Stato Democratico» il 20 gennaio 1958,Luigi Granelli motivava le ragioni di una necessaria apertura al Partitosocialista riferendosi alle tesi espresse dal teologo mons. Carlo Colombo, sul-la rivista dell’Università Cattolica di Milano «Vita e Pensiero», nel set-tembre del 1953. In quell’occasione il sacerdote lombardo commentò i ri-sultati delle elezioni politiche del giugno precedente rispondendo al gesui-ta padre Antonio Messineo, severamente critico nei confronti della DC, econtrario ad ogni tentativo di rapporto con i socialisti. Le opinioni dimons. Carlo Colombo, più possibilista riguardo ad un dialogo con il PSI –richiamate da Granelli nell’articolo antologizzato – suscitarono un vivacerichiamo dell’allora sostituto alla segreteria di Stato mons. Giovanni Bat-tista Montini nei confronti di padre Agostino Gemelli, rettore dell’univer-sità, accusato di leggerezza per la pubblicazione di un tale testo, e anchenei riguardi dell’autore, al quale venne chiesto un ulteriore scritto di ret-tifica e precisazione.

Cinque anni più tardi, profondamente irritato dalla pubblicazionedell’articolo di Granelli, mons. Montini, divenuto nel frattempo arcive-scovo di Milano, predispose un memoriale indirizzato al Sant’Uffizio e adalcuni vescovi lombardi in cui, sul piano dottrinale, venivano contestatele espressioni del giovane esponente democristiano. Granelli era accusato dirichiamarsi a «categorie di giudizio proprie della politica» per negare allaChiesa possibilità e legittimità di intervento nelle questioni inerenti la sfe-ra pubblica. A confutare le affermazioni dei basisti Granelli ed Enrico DeMita, – il quale, sempre su «Stato Democratico», aveva scritto con accen-ti simili sulle medesime questioni – fu chiamato lo stesso teologo Carlo Co-

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lombo. Il sacerdote, intervenendo sul quotidiano cattolico della diocesilombarda «L’Italia», nel maggio del 1958, affermò con toni forti che «chinon accetta l’autorità della Chiesa quando i suoi ordini non rispondonoalle proprie vedute erige se stesso a supremo giudice o a suprema autoritàmorale. Il che sarà libero pensiero o coerenza al principio protestante dellibero esame, ma non è cattolicesimo».

Abbiamo già notato, in un articolo precedente (Un discorso preli -minare e necessario - «Stato democratico», anni II, n. 5, p. 9), che il pro-blema dei rapporti fra cattolici e socialisti viene spesso affrontato in ma-niera pericolosa, auspicando «addirittura una conciliazione di principio,sul terreno astratto dell’analisi culturale e dell’ideologia, come fase ob-bligatoria e preventiva a qualsiasi accordo in campo politico» tra le dueforze. In particolare sottolineavamo, sempre nell’articolo precedente, cheper questa tesi si trovano stranamente schierati, per motivi opposti,«quanti si illudono di giungere per tale via a ottenere i crismi necessariper un pacifico esperimento di collaborazione poli tica, ma anche quelliche confidando – con una dose maggiore di realismo – nella radicale in-conciliabilità dei principi cui si ispirano le due forze politiche, intendo-no giustificare aprioristicamente, senza fare i conti con la realtà storica,la propria opposizione a qualsiasi incontro tra cattolici e socialisti».

Il nostro giudizio circa questo modo particolare di concepire i rap-porti tra due partiti diversi, sul terreno della democrazia, era già im-plicitamente negativo, ma per porlo in maggiore e più fondata evi-denza occorre svolgere un discorso più ampio e non certo nuovo al-l’interno del mondo cattolico e della Democrazia Cristiana. La discus -sione più clamorosa, attorno ad un’impostazione del genere, fu infattiquella sviluppatasi in molti ambienti cattolici e di partito in seguito al-la polemica – sorta all’indomani del 7 giugno – tra un articolo di pa-dre Messineo (pubblicato sulla «Civiltà cattolica» del 4 agosto 1953) eun articolo di don Colombo, professore di S. Teologia nella facoltà teo-logica di Milano (pubblicato su «Vita e pensiero» del settembre 1953).In quella occasione il noto gesuita difendeva ap punto una specie dipregiudiziale di principio a qualsiasi allargamento a sinistra delle al-leanze politiche, perché ciò avrebbe messo a repen taglio i «principi su-premi e differenziatori» e, considerando poi il riaffiorare di un certo«laicismo» da parte dei «partitini di centro», rivolgeva un velato appel-lo ai monarchici e ai «cittadini di retto sen tire» al fine di permettere laformazione di un governo efficiente appoggiato a destra.

Don Carlo Colombo contrapponeva a quella una tesi opposta e,dopo aver notato che una collusione a destra avrebbe portato a gravi

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ripercussioni politiche e religiose tra gli strati popolari meno abbienti,sosteneva che, sulla base di un corretto giudizio teologico e dell’espe-rienza storica compiuta in Austria ed in Belgio, anche in Italia non sipoteva escludere la possibilità di una «intesa fra un partito democrati-co-cristiano e un partito socialista ad ispirazione mar xista per l’attua-zione di un comune programma politico di ispirazione sociale, se ilpartito socialista rimane fedele al metodo democratico, cioè rinunciaalla instaurazione della dittatura».

Non ci interessa qui il seguito che ebbe allora quella polemica, néla riprendiamo per fermarci ad essa: vogliamo soltanto prenderne lospunto per stabilire un riferimento concreto alla nostra analisi.

È evidente che, nella richiamata polemica, il giudizio di padre Mes-sineo ricava il suo carattere negativo da ragioni ideologiche e di prin-cipio che di per sé escluderebbero in ogni caso la possibilità di allean-ze tra forze ad ispirazione diversa e ridurrebbero così alla radice il con-tenuto di libertà e di tolleranza della democrazia. Come, per altro ver-so, è altrettanto evidente che il giudizio di liceità difeso da don Co-lombo non ricava la sua giustificazione da una minore fedeltà ai prin-cipi supremi, ma è suggerito soltanto da motivi particolari e contin-genti di ordine storico-politico. Per comprendere nel loro giusto signi-ficato queste due tesi, che oggi non a caso riaffiorano da più parti inmodo parziale o distorto, occorre precisare anzitutto che è proprio ladiversità della loro natura che sdrammatizza al fondo il contrasto e ren-de impossibile una scelta unilaterale anche da parte nostra. Non è in-fatti impossibile riconoscere la validità di certi richiami della «Civiltàcattolica» come non è possibile non essere d’ac cordo con i rilievi fattida «Vita e pensiero». In effetti ha ragione padre Messineo quando met-te in guardia da certe pericolose tendenze al progressismo ponendol’accento sulla inconciliabilità esistente tra i principi ispiratori dei cat-tolici che operano autonomamente in politica e l’ispirazione marxistao laicista delle formazioni politiche o culturali moderne. Sarebbe tut-tavia arbitrario e scorretto pretendere di trarre da ciò delle conclusionidirettamente pratiche, ignorando così quello che invece don Colom-bo sostiene giustamente, e cioè che l’oppor tunità o meno di una al-leanza tra i partiti in un sistema democratico nasce a livello politico enon può mettere mai in discussione quella sostanziale distinzione ideo-logica o di principio che deve permanere anche tra le forze che sonoportate a collaborare in un dato periodo storico. Ne consegue perciòche, mentre per quello che riguarda la di fesa dei valori e dei principinon può essere posta in discussione, da un cattolico, la funzione inso-stituibile del magistero della Chiesa, per un credente che si muove nel-

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lo spirito e nella lettera della Co stituzione (e che politicamente «im-pegna se stesso, la sua categoria, la sua classe, il suo partito, non la suaChiesa» – De Gasperi, 20 mar zo 1954 – Edizioni «Cinque lune») ilproblema delle alleanze poli tiche deve essere valutato con le categoriedi giudizio proprie della politica e da chi dispone di effettive e deter-minati responsabilità su questo piano specifico.

Questo è, evidentemente, un punto fermo che non può essere as-solutamente rimosso (nemmeno a proposito del problema dei rap portitra cattolici e socialisti nel nostro paese) senza rovesciare per intero l’e-sperienza e la storia politica dei cattolici democratici ita liani che die-dero vita al loro movimento e lo svilupparono appunto in questa fon-damentale prospettiva di autonomia e di lealismo costituzionale. Ol-tre a tutto, venir meno oggi a questa necessaria distinzione di compitie di responsabilità equivarrebbe a resuscitare la vecchia «querelle» traStato e Chiesa ed a riaprire dolorosamente un dannoso conflitto chespezzerebbe ancora una volta in due tronconi la coscienza nazionale ela coscienza religiosa del popolo italiano.

Del resto non v’è dubbio che a questa responsabile distinzione si sia-no sempre correttamente richiamate tutte le scelte politiche della De-mocrazia Cristiana. Come potrebbe giustificarsi oggi la colla borazionecon i socialisti e con i comunisti all’indomani della liberazione? Comepotrebbe essere difesa, senza offendere i principi che ispirano l’azionepolitica dei cattolici, l’alleanza politica con la social democrazia, di cuinon può essere ignota la piattaforma teorica marxista e positivista, o conil liberalismo, le cui basi dottrinarie furono e permangono condannatedalla Chiesa? E, ancora perché questo criterio correttamente politico,usato nel passato per la scelta delle alleanze, e valido tutt’oggi se mira arilanciare, col consenso degli ambienti che si occupano prevalentemen-te dell’ortodossia, il quadripartito, non dovrebbe essere più lecito difronte alla oppor tunità o meno di inserire il PSI (diciamo il PSI e non unblocco di sinistra egemonizzato dal PCI perché in quel caso muta lo stes-so giudizio politico, in una maggioranza di governo che non alteri la ba-se democratica e costituzionale dello Stato1?

È chiaro dunque che anche per l’avvenire il metro di scelta delle al-leanze deve esser quello usato per il passato soprattutto da De Ga speri:vale a dire il metro politico della libertà e della difesa, sia pure attiva enon meramente subordinata, delle solidarietà internazionali che sonocongeniali al nostro paese, la necessità di un effettivo svi luppo della de-mocrazia, l’urgenza della trasformazione dello stato e delle strutture esi-

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1 La parentesi rimane aperta nel testo a stampa originale.

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stenti della società italiana, secondo le enuncia zioni sancite dalla Costi-tuzione repubblicana e lealmente accettate anche dai cattolici. Il discor-so sui rapporti tra cattolici e socialisti in Italia, che possono essere rap-porti di lotta, di alternativa o di colla borazione, va perciò condotto su diun piano rigorosamente politico, senza ingenuità di carattere sociale esenza intolleranti ed ingiustificate preclusioni di ordine ideologico.

Da quanto siamo venuti scrivendo risulta che non è tanto la na turaspecifica dei partiti che deve mutare, per rendere possibile e legittimaun’intesa sul piano democratico, quanto l’opinione che essi hanno deiproblemi da affrontare e risolvere nella comune e indispen sabile accet-tazione delle regole di libertà che rappresentano la inalie nabile basedello stato italiano. Sbagliano perciò coloro i quali ri tengono che unincontro tra socialisti e cattolici sia possibile a patto che i primi rinun-cino al marxismo o al classismo, o che i secondi cessino di essere cat-tolici od interclassisti: sia che ciò sosten gano per favorire l’alleanza oper impedirla. È naturale che il PSI sia marxista e classista, come è na-turale che la DC sia interclassista ed abbia della libertà un concetto chesupera la visione economicistica del marxismo o del liberalismo italia-no, ma proprio per questo l’incontro non può avvenire né, come so-stiene Jemolo (la cui tesi condividiamo soltanto per ciò che riguarda lainutilità di certi colloqui tattici e strumentali), facendo varcare ai so-cialisti il «sacro portone di bronzo», né mirando, come pensano talunisocialisti, ad una alleanza in chiave socio-economica con le forze lavo-ratrici o di sinistra della DC o del mondo cattolico. Il problema dei rap-porti tra cattolici e socialisti nasce in Italia, e non a caso, a livello poli-tico ed è imposto dalla particolare storia del nostro Paese e quindi de-ve essere anzitutto affrontato sul terreno in cui prende vita e si svilup-pa. Può darsi che questa nostra impostazione ci faccia accusare, comeè capitato altre volte, di cinismo o di superficiale leggerezza. Di cini-smo perché mira a risolvere politi camente un problema che non è so-lo politico. Di leggerezza perché si dimentica il dovere di lottare sem-pre contro i principi che si ri tengono erronei. Entrambe le accuse so-no però infondate e dimo strano soltanto l’amore per il diversivo di chile formula: per noi un’alleanza non è mai fine a se stessa e non può pre-giudicare la pos sibilità di difendere democraticamente le nostre con-vinzioni rispetto a quelle altrui, ed è proprio per questa fiducia in noistessi che non temiamo il confronto, all’opposizione o al governo, conquanti ostacolano la nostra opera o sono disposti a collaborare con noi,nell’interesse del paese e della libertà.

Si tratta evidentemente di garantire che una prospettiva di intesacoi socialisti non faccia scivolare le nostre masse verso posizioni sba -

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gliate e che il tutto non si risolva in una operazione parlamentare divertice: ma queste esigenze non si soddisfano ignorando i problemi,bensì affrontandoli con serietà e impegno sul loro giusto terreno, con-tando più sull’opera di convinzione che non sul successo momentaneodelle pure e semplici proibizioni.

Ed è con questo spirito che, in una prossima occasione, entre remonel merito più propriamente politico del problema che stiamo esami-nando.

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Lettera aperta all’on. Nenni*

Dal 15 al 18 gennaio 1959 si svolse a Napoli il XXXIII Congresso delPartito socialista che vide la netta affermazione della corrente autonomi-sta del segretario, Pietro Nenni. Alcuni giorni prima, dalle colonne dellarivista della Sinistra di Base milanese «Stato democratico», Luigi Granel-li aveva pubblicato una «Lettera aperta all’on. Nenni».

Con il suo intervento, Granelli invitava il leader socialista a non tra-scurare i riflessi della linea di equidistanza che il suo partito intendeva as-sumere rispetto al governo e ai comunisti. Una reale autonomia del PSI, se-condo Granelli, sarebbe riuscita nell’intento di far superare alla società ita-liana la stasi in cui l’aveva collocata la contrapposizione tra «frontismo ecentrismo». La politica di «alternativa socialista» a cui sembrava volersiriferire Nenni, non appariva sufficiente a Granelli, perché questa, in Ita-lia, non avrebbe potuto prescindere dal Partito comunista.

Ma a Napoli, il segretario socialista si espresse duramente nei confron-ti della Democrazia cristiana, criticando aspramente il governo Fanfani erespingendo ogni ipotesi di partecipazione alla maggioranza o al governoinsieme alla DC e ai «partiti della borghesia». Nenni contestava inoltre al-la Democrazia cristiana la soggezione alle «ipoteche delle forze conserva-trici, monopolistiche e clericali».

Il Congresso socialista vide l’affermazione della corrente autonomistanenniana che superò con una maggioranza schiacciante la sinistra del par-tito.

La Lettera di Granelli venne rilanciata da un articolo sul Congressosocialista, apparso sulla rivista dei gesuiti milanesi «Aggiornamenti Socia-li». Nel testo, firmato da padre Angelo Macchi, si ricordava come, «ri-guardo al contenuto della lettera, è da dire che la gerarchia ha spesso ma-

* Lettera aperta all’on. Nenni, in «Stato democratico», n. 22, 5 gennaio 1959.

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nifestato la sua contrarietà all’apertura a sinistra» e si coglievano pertan-to nello scritto di Granelli alcune «espressioni per lo meno poco chiare», in-sieme a «una sottovalutazione dell’elemento dottrinale». Il riferimento aGranelli irritò l’arcivescovo Montini che aveva in più occasioni espresso lasua ferma contrarietà ad ogni tipo di collaborazione e «apertura» al Par-tito socialista: nonostante le osservazioni critiche dell’estensore dell’artico-lo, un tale accenno avrebbe potuto «coonestare» le tesi di Granelli creandodisorientamento nel laicato cattolico. Montini richiamò pertanto i re-sponsabili della rivista e manifestò il suo disappunto anche alla Segreteriadi Stato vaticana. Tuttavia, secondo l’arcivescovo di Milano, dopo le con-clusioni del Congresso socialista, la lettera aperta a Nenni aveva rappre-sentato un grave scacco per Granelli.

Se ci rivolgiamo direttamente a lei, on. Nenni, non è per unirci alcoro di quanti cercano di influenzare il PSI alla vigilia del suo con gressocon consigli interessati e indebiti. Il nostro scopo vuol essere più serio.Siamo esponenti responsabili di un partito che contrasta col socialismosul terreno dei principi e che, fatta salva la collaborazione col PSDI, locombatte attualmente sul piano politico e parlamentare, ma apparte-niamo a quella schiera di democratici che seguono con attenzione lapolitica del PSI e le attribuiscono un peso importante per l’avve nire del-la democrazia italiana. Non da oggi lottiamo per l’allarga mento a sini-stra delle alleanze di governo e per l’inserimento attivo delle masse po-polari e lavoratrici nella vita dello stato. Nel sostenere la nostra batta-glia non siamo animati da vaghe e fumose aspirazioni sociali, né siamoeccitati da simpatia acritica per il socialismo (come sostiene chi alterale nostre tesi agli occhi del mondo cattolico per meglio combatterle),ma siamo convinti che i problemi lasciatici in eredità dalla classe libe-rale e dal fascismo non tollerano immobilismi o ritorni a destra, co-munque camuffati, ed esigono invece uno sfor zo serio di tutte le partipolitiche che operano nel rispetto della democrazia parlamentare ehanno in comune una decisa volontà rinnovatrice. Ciò spiega il nostrointeresse per il congresso del PSI. Polemiche clamorose si sono svilup-pate a proposito di questo vostro congresso. I comunisti hanno attac-cato con particolare violenza.

Pur includendo tra gli amici fedeli un personaggio stravagante co-me l’on. Milazzo, col suo seguito di monarchici e di missini, essi nonhanno esitato a dipingere il segretario del PSI come il vecchio social -democratico di destra che tradisce la classe lavoratrice: a tanto sonogiunti per difendere quel «frontismo» che lei ritiene superato e per re-spingere ogni riserva sulla politica di potenza dell’Unione Sovietica. E

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questo è solo l’inizio della battaglia autonomista. All’opposto, certiambienti conservatori, che da anni sognano governi stabiliti ma senzala forza di intaccare i loro privilegi, hanno soffiato sull’autonomia delPSI nella speranza di nuove scissioni che rafforzassero (ma non troppo)l’esausta socialdemocrazia col proposito di ricreare il vecchio immobi-lismo conservatore paludato di superficiale riformismo. Ora però chel’affermazione degli «autonomisti» sembra assicurata, i co munisti ab-bandonano i ricatti in nome dell’unità di classe e gli ambienti conser-vatori mettono da parte le lusinghe ministeriali.

I problemi, tuttavia, rimangono e la riaffermazione di autonomiadel PSI introduce un elemento nuovo nella situazione italiana. Non viè partito politico che possa ignorare i riflessi dell’equidistanza che i so-cialisti tendono ad assumere tra governo e comunisti.

A questo punto sorge però una domanda: può il PSI, con la con-quista di una piena autonomia, dare una spinta evolutiva all’intera so-cietà italiana, per farle superare la stasi provocata in questi anni dallacontrapposizione tra «frontismo» e «centrismo»? La cosa non riguardasolo i socialisti, ma riguarda anche loro. Il PSI sa benissimo, anche per-ché lo ricorda spesso alla DC, che per portare avanti la linea politica inun regime democratico-parlamentare non bastano le intenzioni e oc-corrono precise scelte di alleanza.

Di solito i socialisti risolvono questo quesito con la tesi dell’alter-nativa socialista, ma – ce lo consenta l’on. Nenni – la risposta è astrat-ta storicamente. In Italia un’alternativa di potere alla DC non può pre-scindere dai comunisti e ciò rende difficili i rapporti del PSI con le for-ze minori di tradizione laica. Inoltre, su di un piano più generale, la li-nea dell’alternativa rischia di spingere i cattolici a destra facendo risor-gere un «blocco nazionale» di marca clerico-fascista. Giungeremmo alpeggio e, col peggio, al «fronte popolare». Si ricreerebbe così, a brevedistanza, quella contrapposizione che il Psi voleva superare con l’ac-centuazione della propria autonomia.

Lo si voglia o no, nasce a questo punto, anche per i socialisti, ilproblema dei rapporti con la DC e con le altre forze democratiche.Può darsi che molti nel PSI recalcitrino di fronte a questo problema,come del resto capita anche nella DC quando si affronta quello deirapporti con i socialisti, ma esso rimane comunque un problema cen-trale e decisivo.

Non basta la polemica con i comunisti per superare il «fronti-smo» se poi la tesi settaria e dogmatica dell’alternativa condanna ilPSI all’isolamento. Le particolari condizioni storiche del nostro pae-se impongono anche ai socialisti delle scelte precise. Per superare in

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Italia le tendenze all’immobilismo, alla reazione di destra e all’al -ternativa «frontista», occorre favorire l’incontro tra le forze che sonostoricamente interessate al superamento di tali tendenze. Quali sonoqueste forze? La polemica politica mette in risalto ogni giorno che ilPRI ed il PSDI non possono sopravvivere nell’immobilismo conserva-tore, che la DC si sfascerebbe, snaturandosi, nell’avventura di destra,che il PSI verrebbe riassorbito dall’iniziativa comunista con l’alterna-tiva del «fronte popolare».

Ma come e quando saranno possibili reali convergenze tra questeforze?

Se si vuole risolvere siffatto problema in modo statico, precostitui-to, l’impresa di dar vita a questo nuovo schieramento di forze appare,certo, disperata, ma se la questione viene posta in una prospettiva di-namica, come punto di arrivo auspicabile e ricercato con reciprocabuona volontà, allora le cose cambiano. Del resto se non si mette or-dine nei rapporti tra queste forze al più presto si rischia di operare unadisgregazione senza prospettive nella situazione italiana.

L’esempio della Francia dovrebbe pur insegnare qualcosa.Questo non significa che il PSI debba appoggiare governi che, pur

avendo spinto i liberali all’opposizione, perpetuino i difetti del rifor-mi smo settoriale già proprio delle passate coalizioni. Né significa chela DC debba rinunciare ai valori di libertà e di civiltà, che sono fruttodella sua ispirazione cristiana e di cui è ricca la sua tradizione, per in-contrare i socialisti tradendo se stessa, né che i laici di terza forza deb-bano trasformarsi in valletti al servizio dell’alleanza tra cattolici e so-cialisti.

Significa che per risolvere i grandi problemi del nostro paese oc-corre ricercare l’incontro tra queste forze, senza fretta e senza apriori-smi, nel pieno rispetto delle regole della democrazia parlamen tare, del-le reciproche tradizioni e del ruolo particolare che ogni parte politicaè chiamata a svolgere.

Apriamolo qui il discorso. Abbandoniamo i dialoghi insi diosi e lecrociate ideologiche. Affrontiamo con franchezza i problemi dellastruttura economica e del pieno impiego, dell’autonomia dello stato edell’attuazione della costituzione, di una politica estera di distensione,di pace e di sicurezza per tutti. Discutiamo a fondo, con realismo e sen-za doppiezze, questi che sono i temi delle riforme di struttura per co-struire in Italia uno stato effettivamente democratico: se ogni forzaavrà il coraggio di qualificarsi in modo aperto su questo terreno, e sa-prà compiere scelte conseguenti, gli incontri matureran no in modo se-rio e consapevole anche per la coscienza del paese.

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Solo allora i partiti di centro sinistra saranno in grado di apprezza-re il contributo delle masse lavoratrici socialiste, ed anche il PSI non po-trà fare a meno di scoprire in modo reale la DC, le sue tradizioni auto-nome e antifasciste, le forze popolari e democratiche che all’in terno delmovimento cattolico lottano contro la tentazione «clerico-fascista»non meno di quanto i socialisti lottino contro il «frontismo».

Ma tutto questo non può nascere per incanto.A Napoli, per il PSI, onorevole Nenni, come a Firenze per la DC,

guardano molti italiani che credono nella democrazia e sperano che ipartiti in cui militiamo abbandonino lealmente ogni apparente socia-lità, ogni settarismo dogmatico, e sappiano promuovere, nel parla -mento e nel paese, uno schieramento di forze capaci di sconfiggerel’im mobilismo, il ritorno a destra e l’avventura «frontista».

Occorre non deludere tali speranze e cominciare oggi a preparareil domani.

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Favorire le intese tra i partiti per allargare la base democratica dello Stato*

Il 23 ottobre del 1959 si aprì a Firenze il VII Congresso nazionale del-la Democrazia cristiana che aveva come tema «I modi di ampliare ulte-riormente i consensi allo Stato democratico, ponendo al suo servizio unpartito unito e consapevole della validità del suo programma». La DCera guidata da Aldo Moro che, dal marzo precedente, aveva sostituitoAmintore Fanfani alla segreteria del partito a seguito della scissione doro-tea e della frammentazione di Iniziativa Democratica. Il Congresso, svol-tosi al Teatro «La Pergola», ebbe la partecipazione di 703 delegati, e ap-parve fin da subito polarizzato dal confronto tra Moro e Fanfani. Si fron-teggiavano infatti la candidatura del segretario uscente, Moro – attorno alquale si era compattato il gruppo doroteo, con il sensibile apporto dei con-sensi andreottiani – e quella di Fanfani, che tornava sulla scena a capo del-la sua neonata corrente, «Nuove Cronache», rilanciando una politica di«sfondamento a sinistra» per un reale coinvolgimento delle masse popolarinella vita dello Stato. Attorno alla proposta fanfaniana si coagulò il con-senso delle sinistre del partito, con l’adesione della Base e dei sindacalisti diRinnovamento. Ma anche la linea di Moro, che risultò infine rieletto conil determinante contributo dei voti andreottiani, pur nel perseguimento diuna «chiara volontà unitaria», era ormai rivolta verso una concreta pro-spettiva di apertura sociale, che potesse consentire un reale allargamento del-lo spazio democratico nel Paese e che pertanto si poneva in condizione di vi-gile attenzione nei confronti degli sviluppi in atto nel Partito socialista.

Seguendo attentamente i lavori di questo Congresso si ha la nettaimpressione che il nostro Partito stia attraversando uno dei mo menti

*Atti del VII Congresso nazionale della Democrazia cristiana (a cura di C. Danè),DC-SPES, Ed. Cinque Lune, Roma 1961.

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più difficili della sua storia interna, impressione aggravata dal fatto chei problemi politici che stanno di fronte al Partito sono gravi e deter-minanti per l’avvenire del nostro Paese. E dico questo prima di entra-re nel merito delle questioni politiche, non per atte nuare quello che,con la chiarezza che abbiamo sempre usato, diremo, ma per ricordarea tutti che, se la DC vuole ritrovare una linea uni taria nel proprio im-pegno politico al servizio del Paese, dobbiamo superare le contrappo-sizioni (la verità politica non essendo mai da una parte sola), dobbia-mo ritrovare quel metodo interno della discussione libera, spassionatache dà al ragionamento e alla forza delle idee la capacità di creare ve-ramente l’unità del Partito. E dico questo perché saremmo ingenerosise volessimo credere che gli incidenti sorti durante i nostri lavori con-gressuali siano dovuti soltanto a delle impru denze o a delle intempe-ranze che sono del resto normali nei Con gressi politici; saremmo in-generosi perché ciò che acuisce i contrasti non è soltanto il tempera-mento degli uomini ma è l’assenza da troppo lungo tempo di un ef-fettivo discorso politico nella dialettica interna della DC. Noi non sa-remo meno duri di altri nel giudizio che daremo su taluni fatti avve-nuti e sui loro responsabili, ma il nostro giudizio deriva da un discor-so politico e non da un sospetto sulle persone. Quando invece si fa del-la critica nella convinzione che basterebbe cambiare alcuni uomini percambiare una politica, non si contribuisce al superamento della crisidel Partito ma alla sua disgregazione trat tandosi di critica basata sullepersone e sui personalismi. Detto questo, credo che abbiamo il dirittodi non tacere nulla di quello che pensiamo, non per fare opera di par-te, ma per portare il nostro con tributo di idee e di orientamento alladiscussione interna.

Diciamo in primo luogo che occorre chiarezza all’interno del Par-tito. Non si può e non si deve stendere un velo sul passato, perchéquanto più franchi saremo, tanto più avremo la possibilità di dare alnostro discorso un contenuto costruttivo. Se questo è il tono che si de-ve usare, consentitemi (anche perché il mio discorso è ri volto a en-trambi i tronconi della vecchia «Iniziativa Democratica») di ribadire al-l’inizio del mio discorso che nei giudizi che daremo non v’è ombra disospetto sulle persone né di sfiducia, ma desiderio di giudicare i fatti,i programmi e le formule per chiarire le posizioni all’interno della DC,esasperate non solo da gruppi interni al Partito, ma anche da gruppiesterni, che hanno agito gettando su uomini e su formule elementi disospetto e di disgregazione. Si dev’essere franchi e leali perché compi-to del Congresso è di far uscire il Partito dalle contrapposizioni, alla ri-cerca del vero, del giusto indirizzo politico.

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Ieri Rumor diceva che non è cambiato niente nella vita del nostroPartito in questi ultimi tempi. Mi si consenta di non crederlo, perchése così fosse il Consiglio Nazionale, dopo aver approvato il GovernoSegni, avrebbe dovuto respingere le dimissioni di Fanfani da Segreta-rio Politico, dimostrando in tal modo veramente che nella linea di con-dotta del Partito non v’era niente di nuovo. Non si è voluto compierequesto gesto, che non dico doveva essere un gesto di rinuncia a dellecritiche legittime, ma soltanto riconoscimento della continuità sostan-ziale della linea precedentemente adottata.

Bisogna invece essere grati all’on. Piccoli della chiarezza coraggio-sa del suo discorso, ma bisogna dirgli pure che i difetti dei caratteri edei metodi bisogna combatterli quando chi dimostra tali difetti è al po-tere e non quando ne è stato allontanato. Quando era vamo noi vitti-me di tali metodi, si cercava di spiegarli e di giustifi carli come espres-sione del carattere personale dell’allora Segretario del Partito. Noi co-munque abbiamo poi dimostrato, quando Fanfani ha scelto una lineapolitica che interessava il Partito, che avevamo dimenticato i torti su-biti, e lo abbiamo appoggiato!

Bisogna dunque lasciar da parte i discorsi sul temperamento dellepersone, sui loro metodi e bisogna fare uno sforzo per capire come maiil nostro Partito è caduto in una crisi di questo genere come può uscir-ne e come deve far fronte ai problemi la cui soluzione il Paese attendeda tempo, ma non può attendere oltre. Di qui la necessità di riportareil discorso a un livello politico e di identificare le cause vere dei malidella DC, mali che, a mio giudizio, si identi ficano nell’assenza di unalinea politica che dobbiamo ritrovare non dando ragione all’uno o al-l’altro, ma cercando di creare la nostra linea politica sulla base dei pro-blemi del nostro Paese. Impostato il problema in questi termini, il di-scorso sulle formule, sui programmi, sugli uomini, sui metodi, sisdrammatizza e potremo anche ritrovare quello spirito unitario che èassolutamente necessario per combattere con successo la nostra batta-glia politica. Il punto di partenza non è quindi questa o quella vicen-da ma sono gli impegni politici del nostro Partito.

Sono qui presenti molti uomini che furono tra i promotori del Par-tito Popolare: da Piccioni a Tupini, a Merlin; uomini che hanno crea-to le condizioni perché sorgesse la Democrazia Cristiana. A questi uo-mini domando: è vero o non è vero che i cattolici si sono inseriti nel-la vita politica del nostro Paese in contrasto aperto con uno Stato libe-rale che non riconosceva tutti i diritti della persona, che soffocava lecomunità intermedie, che impediva alle classi popolari di sviluppare leproprie energie e di soddisfare le proprie esigenze? Nel momento in cui

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la DC dovesse ridursi a partito che cerca soltanto di costituire Governiche possano governare, dimenticando che il suo compito storico nonè quello di governare per governare, ma di governare per trasformarelo Stato, perché questo vogliono la nostra tradizione e la nostra mis-sione politica, verrebbe meno al suo impegno e ridurrebbe ad una sem-plice ricerca di voti e di appoggi un proble ma che è invece assai più va-sto. Il problema è molto importante per ché è su questa direttiva stra-tegica che si gioca il prestigio morale e politico della DC In un conve-gno di studio tenutosi recentemente a Milano, il Prof. Balladore Pal-lieri ebbe ad ammonire che sul banco della storia la DC non sarebbestata giudicata per avere ricostruito o meno le case, per avere asfaltatoo meno le strade, per avere rista bilito o meno l’ordine pubblico, ma perla sua capacità di staccarsi veramente dalla concezione liberale delloStato e dell’economia, e in quanto saprà creare una realtà nuova, e nonsoltanto per raccogliere consensi, ma per offrire in ogni momento lamisura del proprio im pegno politico e civile. Facciamo quindi un esa-me di coscienza e do mandiamoci, anche perché a questa riflessione ciinduce il tema del nostro Congresso, se esista veramente in Italia unoStato democratico. È una realtà, questo Stato? Vi sono nello Statostrutture che si diver sifichino da quelle che abbiamo ereditato dallaclasse dirigente li berale e dal fascismo, che avevano costituito un ordi-namento non fondato sui nostri principii ma anzi sulla loro aperta ne-gazione? Se noi rispondiamo negativamente, non è per massimalismo(chi mi conosce sa che io non sono massimalista), ma per ricordare leragioni del nostro impegno politico.

Noi dobbiamo metterci in testa che la lotta al comunismo, che re-sta il più grave pericolo che minaccia il nostro Paese, non può esserecondotta, come qualche amico cosiddetto di «centro-sinistra» sostiene,sul puro piano delle rivendicazioni economiche o della di stribuzionedel benessere, perché cadremmo inevitabilmente in uno Stato pater-nalista che farebbe il gioco del PCI; noi dobbiamo combat tere la lottaal comunismo sul terreno della libertà, della democrazia, della crea-zione di uno Stato autenticamente democratico. Il comunismo ha po-tuto svilupparsi all’interno del vecchio Stato liberale e se quelle strut-ture permarranno esso continuerà a prosperare, e noi finiremmo peressere responsabili di un fallimento politico non dovuto alle nostreidee, ai nostri principii, ma a quella eredità storica che, una volta cari-cata sulle spalle, abbiamo conservato e mantenuto.

Costruire lo Stato democratico, per poi allargare i consensi attor-no ad esso, significa operare secondo le concrete direttive, di marciache ora indicherò. Bisogna innanzitutto avere fiducia nella capacità

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delle classi popolari e delle forze del lavoro di conquistarsi la demo-crazia. Spero che non mi si scambierà per un conservatore se affermoche sarei più ottimista per l’avvenire del nostro Paese il gior no in cuialla Fiat di Torino si distribuissero salari meno alti ma si concedesseuna maggiore libertà alle organizzazioni dei lavoratori: quando esistela possibilità di sviluppare la vita sindacale al di fuori di ogni discrimi-nazione, è anche possibile conquistare alti salari. La classe operaia nonè soltanto la derelitta che attende qualche briciola, ma una forza chepuò partecipare alla costruzione di un nuovo ordi ne, di un nuovo si-stema.

Abbiamo detto al Congresso provinciale di Milano, in terminimolto espliciti, che costruire lo Stato democratico significa ritornareallo spirito della Costituzione Repubblicana; allo spirito più che alleformule, perché non dobbiamo porci su posizioni di rivendicazioni -smo costituzionalista, ma capire che lo stesso sviluppo economico, glistessi sviluppi della democrazia nel nostro Paese passano attra verso larealtà concreta dell’ordinamento costituzionale. Se facessimo un son-daggio fra i nostri amministratori locali avremmo netta la sensazioneche per creare un’efficiente ed autonoma classe ammi nistrativa dob-biamo procedere sul serio al decentramento, dobbiamo avere vera-mente fiducia nella classe amministrativa, e perciò snellire quelle strut-ture burocratiche centralizzate che non potenziano gli enti intermedima costringono la democrazia a dipendere tutta dal vertice nazionale,a vivere tutta all’interno del potere assoluto dello Stato. Occorre quin-di perseguire una linea politica che abbia come base e riferimento co-stante l’attuazione della Costituzione per so stituire, sia pure con la ne-cessaria gradualità, allo Stato liberale che abbiamo ereditato uno Statodemocratico, organico, che potenzi gli enti intermedi: concezione nonnuova, del resto, perché il Partito Popolare Italiano è sorto proprio sot-to questa insegna.

Ma per costruire questo Stato, accanto all’allargamento della sferadi libertà, occorre anche risolvere i problemi economici che affliggo noil nostro Paese. L’on. Rumor ha fatto un’affermazione veramente inte-ressante, circa la necessità di considerare il piano Vanoni prima comepiano di Partito e poi come strumento di Governo; peccato che un’i-dea del genere sia venuta all’on. Rumor soltanto ora che è Ministro delGoverno in carica, e non quando era Vice Segretario del Partito... Stadi fatto che il piano Vanoni non può essere solo un elenco di atti diGoverno, ma deve essere prima un impegno della DC a capire che i pro-blemi dell’arretratezza dell’agricoltura, della disoccupazione, della mi-seria, dell’industrializzazione e del rinnova mento tecnologico delle in-

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dustrie esistenti, sono fra loro collegati. È quindi importante che la DCabbia, anche sul piano economico, una visione unitaria dei problemi,dalla quale scaturisca un impegno a realizzare una politica economicache veramente si proponga di porre rimedio agli squilibri e alle defi-cienze del nostro sistema.

Ma anche a questo proposito esiste un pericolo. Abbiamo sentitoin questo Congresso tante critiche: che la disoccupazione permane, chegli squilibri continuano ad esistere, che le ipotesi del piano Vanoni, purrestando valide, non si sono realizzate... Ma non basta denunciare que-ste carenze: occorre studiare le cause per le quali questi fenomeni si so-no verificati nel nostro Paese. Non solo oggi abbiamo saputo che c’e-rano questi problemi: già al Congresso di Napoli il sen. Vanoni avevamanifestato l’intenzione della DC di affrontarli in maniera seria. Perciòoggi noi, invece di dire che biso gna risolvere il problema della disoc-cupazione, dare impulso alla nostra economia, ecc. ci dobbiamo con-vincere che è compito del Partito studiare le cause che hanno fatto sìche nel nostro Paese alle previsioni fatte non siano seguiti risultati con-creti e conseguenti; per ché non è di diagnosi che abbiamo bisogno, madi atti concreti di politica economica, e che finalmente alle parole se-guano i fatti. Ed allora il discorso diventa meno facile, meno demago-gico, ma più decisivo ai fini della effettiva risoluzione dei nostri pro-blemi. E bi sogna farlo in modo sereno.

Perché non si è realizzato il piano Vanoni? Ci vorrebbe molto tem-po a dirlo, ma esemplifico. Non si è realizzato perché il piano Vanoninon era una specie di previsione di sviluppo economico affi data al-l’automatismo delle forze di mercato, ma era una scelta corag giosa dipolitica economica, in un clima di sacrificio, verso cui dovevamo mo-bilitare non solo il Governo, ma tutti i partiti, tutti i sindacati, tutte leenergie positive che esistono nel nostro Paese. Il piano Vanoni era, pri-ma ancora che un modello particolare di politica economica, un idea-le civile al quale bisognava richiamare tutte le forze attive della nostrasocietà. Ed allora, cari amici, se il piano Vanoni è questo ideale e se lovogliamo veramente realizzare, non servono i rilanci e le attese quin-quennali dei rapporti del Comitato Saraceno per scoprire che i risul-tati sono diversi dalle previsioni. Bisogna avere il coraggio di trasfor-mare lo schema in piano vero e proprio, non in senso collettivistico,ma nel senso di una organica programmazione della nostra politicaeconomica, perché si possa di mostrare agli imprenditori privati che loStato per primo non disperde una energia, non lascia sfuggire una pos-sibilità, ma tutto orienta ed organizza in direzione non soltanto dellastabilità del bilancio, ma anche della soluzione dei problemi economi-

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ci del nostro Paese. Soltanto dando questa dimostrazione potremo fa-re un discorso chiaro nei confronti degli imprenditori privati.

E bisogna avere anche il coraggio di dire che trasformare lo sche-ma in piano significa mettere ordine nella politica di Governo. Proprionel convegno della DC lombarda che abbiamo già citato, illustri stu-diosi avvertirono il pericolo che, essendo l’Italia così povera di tecnicie di persone che sul piano scientifico possano dare un contributo con-creto alla politica economica, in ogni Ministero sorgessero Comitati distudio o di coordinamento per l’attuazione del piano Vanoni. Abbia-mo infatti «Il Piano Vanoni e l’agricoltura» o «Il Piano Vanoni e i pia-ni regionali», tutte iniziative interessanti, ma che non sono «Il PianoVanoni». L’ispirazione del piano Vanoni non era quella di considerarei problemi settore per settore, ma di affrontare i problemi in una vi-sione di insieme, in una visione orga nica, che richiede un accentra-mento non dico di poteri, ma di stru menti di coordinamento di tuttala politica economica del Governo. Ed è per questo che chiediamo, ol-tre alla trasformazione dello schema in piano Vanoni, anche l’attribu-zione al Ministero del Bilancio di compiti effettivi di coordinamentonell’impostazione della politica economica.

Noi non possiamo dimenticare che se i risultati contrastano con leprevisioni per quel che riguarda l’assorbimento della mano di opera di-soccupata, è perché (sono cause che sappiamo scoprire anche da soli)vi sono stati tanti investimenti nel settore dei lavori pubblici e in altrisettori non direttamente produttivi (forse per ché si tratta di settori piùsensibili a certe forme di speculazione), che non creano occasioni con-tinuative di lavoro, perché una volta costruite le case, una volta com-pletati i lavori pubblici, quel settore si chiude e non crea possibilità diaumento del reddito e dell’occu pazione. Perciò gli organi di Governodevono attentamente con trollare per rendere più razionale l’imposta-zione del bilancio statale. Ecco perché trasformare lo schema in pianosignifica passare non ad un rilancio propagandistico, ma alla revisionedella nostra po litica economica nei termini che il Piano Vanoni ri-chiede, in modo da misurare sistematicamente i nostri atti sulla realtàdel Paese.

Ma voglio andare avanti ed arrivare alla parte politica, che più miinteressa. Se il compito nostro allora è quello di costruire lo Stato de-mocratico, di fare una politica che risolva i nostri problemi eco nomici,di fare veramente partecipi le classi popolari alla vita del no stro Paese,con questa carica di rinnovamento, di trasformazione, nasce un altro epiù importante interrogativo: come facciamo a rea lizzare queste cose?Come facciamo a rendere possibile una politica di effettiva trasforma-

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zione delle strutture del Paese? E come possiamo rendere effettiva unapolitica di sviluppo economico? Ecco che qui, cari amici, nasce il di-scorso sulle destre. Qualcuno nel nostro Partito dice: questi giovanihanno la mania di respingere i voti fascisti, hanno paura che pochi vo-ti possano ad un certo momento modificare l’atteg giamento della DC,hanno paura degli stati di necessità, dei voti delle destre che non ri-chiedono contropartite. Stiamo attenti, per ché è proprio qui il punto:le destre non hanno bisogno di contropar tite vistose, si accontentanodi mantenere la DC nell’impotenza, nella incapacità di essere se stessa.La massima aspirazione delle destre è di ridurre la DC ad essere una spe-cie di amministra tore, sia pure illuminato, del loro Stato liberale, checi hanno dato in gestione. Esse vorrebbero che la DC fosse non un par-tito politico ma solo un movimento elettorale, e che dimenticasse lesue tradizioni.

Noi dobbiamo invece respingere con fermezza queste pressioni chele destre fanno su di noi. Ciò che ci preoccupa non sono i pochi votiche le destre in un certo momento della vita parlamentare ci vo glionodare; quello che ci preoccupa è che fra noi ci siano amici con vinti chel’ideale della DC possa essere raggiunto senza una netta rottura con que-gli ambienti che sono legati al passato. Le destre po tranno anche ap-poggiarci in qualche atto di Governo, per qualche legge, ma è chiaroche esse sono contrastanti con la prospettiva storica della DC, con la suamissione civile, con i suoi doveri po polari, con i suoi impegni demo-cratici. Perciò ricordiamo quanto disse Ravajoli al Congresso di Napoli(non quello del successo di «Inizia tiva Democratica», ma l’altro, all’e-poca della Segreteria Piccioni): stiamo attenti perché le destre nel no-stro Paese sono una specie di ingranaggio, per cui una volta messo undito, viene presa la mano, poi il braccio e non ci si può più liberare. Edallora è chiaro che quando chiediamo la chiusura a destra non voglia-mo solo la repulsa di qualche voto, il rifiuto di un appoggio parla-mentare che si dice gratuito, ma vogliamo intendere soprattutto un at-teggiamento morale e politico di tutta la DC, la quale deve essere con-vinta che quella non è la strada del nostro avvenire, ma è una stradachiusa per noi, se vogliamo rimanere fedeli ai nostri impegni.

Ma questo non basta. Il discorso sulle destre è difficile, ma vi è undiscorso più difficile ed è quello sullo stato di necessità. Si va diffon-dendo fra noi una mentalità secondo la quale la DC per ragioni di ne-cessità deve fare cose in cui non crede, deve fare cose che non rispon-dono ai suoi impegni e ai suoi ideali. Cari amici, questo è un atteggia-mento pericoloso, perché significa giustificare un deteriore possibili-smo. Non ci possiamo abbandonare al determinismo, lo stato di ne-

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cessità non può essere mai accettato tradendo noi stessi. Lo stato di ne-cessità ha giustificato la formazione del Governo, fi nora, e lo abbiamoriconosciuto noi stessi, che non ci siamo mai aste nuti dal manifestareil nostro dissenso da questa formula di Governo. E credo che di ciò sidebba a noi dare atto, come si deve dare atto all’on. Sullo della fonda-tezza delle sue critiche e della coerenza del suo atteggiamento. Presi-dente Segni, il rifiuto dell’on. Sullo a far parte del Governo da lei pre-sieduto, non è stato un atto di disisti ma, di sfiducia verso di lei, ma èscaturito dalla netta e consapevole convinzione che con questa formu-la lei non può riuscire a portare avanti una politica efficace e concreta.Anche qui le nostre critiche non sono rivolte alle persone. Noi siamoconvinti (può darsi che sbagliamo, ma bisogna dimostrarcelo) che unGoverno di democratici cristiani, fino a che non avrà i voti ed i con-sensi di tutti i democratici cristiani, non potrà agire, non potrà realiz-zare i suoi programmi; perciò noi non crediamo che questo Governo,con l’appoggio delle destre, possa fare quanto si propone, quando noistessi all’interno del nostro Partito non siamo d’accordo sulla formula.

Bisogna quindi uscire dallo stato di necessità perché, (lo consenta,on. Moro, a me, che ho tanto ammirato la sua relazione, che mi sonoanche commosso in alcuni punti perché ho sentito che si ritornava unpo’ alle origini, ai lineamenti veri della Democrazia Cristiana, che horavvisato in quel che lei diceva non solo un respiro culturale che datempo avevamo perso nel Partito, ma una carica ideale, una carica chefaceva pensare ad una vera Democrazia Cri stiana che vuole essere sestessa), perché, ripeto, se quanto fu detto nella relazione dal SegretarioPolitico è vero, se questa deve essere la vera Democrazia Cristiana, tut-to ciò sarà possibile non con la politica dello stato di necessità, ma so-prattutto facendo leva sui nostri ideali, sulle nostre tradizioni, affron-tando coraggiosamente anche le nostre responsabilità in campo parla-mentare e nel Paese.

Ma allora, ci chiedono, che cosa volete? Diteci quale formula pro-ponete, diteci che Governo auspicate, diteci come intendete usci re daquesta situazione. Queste le domande di molti nostri amici.

E noi ve lo diremo, amici, che cosa vogliamo, perché abbiamo avu-to sempre l’abitudine di dire le cose come stanno, come la pensiamoveramente, anche se siamo in minoranza.

Anzitutto, amici, perché si vuole chiedere la verifica contabile deivoti disponibili in Parlamento soltanto quando noi proponiamo il ri-lancio di una politica di centro-sinistra? Si è detto che un mono colorea sinistra non avrebbe la maggioranza, ma i fatti dimostrano che nem-meno un monocolore a destra può avere matematicamente la piena si-

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curezza della maggioranza! L’on. Scelba sostiene il ritorno alla formu-la del quadripartito, tesi rispettabilissima all’interno della DemocraziaCristiana, ma non si può dire in coscienza che allo stato attuale dellecose vi siano concrete condizioni politiche per attuare questa formula.In realtà concrete possibilità politiche, cari amici, se si scambia la po-litica con contabilità, non ci sono nel Parlamento per nessuna formu-la; ma i partiti non rappresentano mai delle entità statiche, bisognametterli in movimento e poi si determine ranno le situazioni nuove. Ec-co che cosa diciamo noi ed è qui che nasce non dico il dissenso, ma ladifferenziazione anche con altri gruppi di centro-sinistra; è qui che na-sce il problema della ricerca delle forze politiche che ci possono con-sentire di mantenere fede ai nostri impegni.

Cari amici, c’è una cosa che mi preoccupa a questo punto. La De-mocrazia Cristiana (potrebbe ben dirlo Piccioni per tutti) è un partitoche ha una forte tradizione parlamentare e sa che nel no stro Paese lavia della soluzione dei problemi, la via degli accordi e delle intese fra ipartiti è quella parlamentare. Cari amici, c’è oggi il pericolo di una cri-si delle nostre istituzioni. Io credo che l’on. Gui abbia sbagliato quan-do ha sostenuto nel dibattito precongressuale che la Democrazia Cri-stiana ha il suo programma e perciò qualunque sia la forza politica checi appoggi in Parlamento non servirebbe che a rendere possibile la rea-lizzazione del nostro programma. Può darsi, ma in quel momento, ca-ri amici, noi getteremmo un’ombra pesante sul Parlamento, perché nelParlamento le correnti politiche difen dono con la loro presenza i pro-pri interessi particolari, e non pos siamo pensare che Saragat sia egualea Michelini, che La Malfa sia eguale a Covelli, con tutto il rispetto do-vuto per tutti costoro. Noi vogliamo che nel Parlamento e nelle istitu-zioni democratiche ogni partito rappresenti se stesso, i suoi interessi,le sue tradizioni, il suo pensiero, e ci rifiutiamo di credere che la De-mocrazia Cristiana pos sa cadere nel trasformismo di chi crede che tut-ti gli alleati sono buoni purché si abbia in mano il potere. Questo con-traddice alla corretta interpretazione del metodo parlamentare; questocontraddice alla necessità di rafforzare le istituzioni e di allargare vera-mente la base democratica dello Stato.

Ma allora, come si vuole allargare questa base? Qui arriviamo alproblema dei socialisti. Vorrei ricordare all’amico Scalfaro, che ci hacriticato ieri nel corso di questo dibattito, che noi abbiamo par lato delproblema dei socialisti anche quando potevamo prevedere che nonparlandone sarebbe stato più facile ottenere consensi all’interno dellaDemocrazia Cristiana. Il discorso che noi facciamo sui socia listi, di-scutetelo, amici, criticatelo, demolitelo, per quello che è, ma non per

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quello che volete dimostrare che sia; perché in noi non c’è mai stataombra di cedimento ideologico o di infatuazione di socia lismo, equando pensiamo alla collaborazione con altri partiti, non lo facciamoperché non abbiamo fiducia in noi stessi, ma proprio perché questa fi-ducia in noi stessi ci dà la forza e la capacità di collaborare con gli al-tri, senza perdere nulla delle nostre caratteristiche e dei nostri princi-pii. Dimostrateci che il nostro discorso sui socialisti ha una imposta-zione sbagliata, diteci che non trova consensi nel nostro Paese, ma nonricorrete a discriminazioni interne, o a campagne di calunnie e di pro-cessi alle intenzioni.

Al Congresso di Napoli, quando «Iniziativa Democratica» era uni-ta e voleva fare le riforme, vi fu un autorevole esponente della DC, oraassurto alla più alta carica dello Stato, cioè Giovanni Gron chi, che dis-se proprio agli amici di «Iniziativa Democratica»: siamo tutti d’accor-do sulle riforme, ma ci volete dire con chi volete farle? Con quali al-leanze parlamentari sarà possibile nel nostro Paese creare un equilibrionel quale non soltanto i problemi economici e sociali vengano risolti,ma anche le garanzie di libertà vengano consolidate? Con quali forzepolitiche tutto ciò può essere realizzato? Allora furono rivolte controGronchi tutte le invettive che ora sono riservate a noi, accusandoci dinon avere fiducia in noi stessi. Ma il problema ritorna e noi richia-miamo su di esso l’attenzione di tutto il Partito. Il discorso sui sociali-sti non è un discorso di alleanze immediate e di combi nazioni sulle co-se. Il problema del PSI è un problema che affonda le sue radici nella sto-ria del nostro Paese, è un problema di prospet tive politiche che nonpuò essere ignorato.

I comunisti ostacolano ogni processo autonomistico del PSI perchéla politica del partito comunista, amici, non mira all’aumento dei pro-pri consensi: da molto tempo i comunisti accettano anche meno voti,ma vogliono avere maggiori alleati. In Sicilia i comunisti hanno fattovotare per Milazzo; sul continente i comunisti sono disposti a com-piere qualunque sacrificio, ma vogliono che la Democrazia Cri stianafinisca in braccio alle destre, vogliono che tutti i partiti demo cratici odi ispirazione socialista siano all’opposizione, perché solo così si crea-no le condizioni per l’alternativa frontista. La lotta mo derna contro ilpartito comunista deve mirare al suo isolamento e non soltanto alla di-minuzione dei suoi voti.

Non si tratta, cari amici, di cedere sul piano ideologico al sociali-smo, che è e rimane classista. Su questo piano non abbiamo niente ache vedere con loro. Siamo i primi a dire, come abbiamo scritto e det-to altre volte, che il giorno in cui i socialisti dovessero chiederci, come

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contropartita per la soluzione di qualche problema eco nomico, di toc-care la scuola, la famiglia, ecc., noi rinunceremmo alla soluzione diquel problema economico. Allora come va impostato il problema so-cialista? In termini dinamici, polemici, ma che non escludano a priorila possibilità di intesa e di collaborazione. De Gasperi non ha mai chie-sto a La Malfa di andare a messa la mattina, o a Saragat di rinunciareall’ispirazione marxista del suo partito, ma ha sempre chiesto loro il ri-spetto della democrazia e della libertà. Quel metodo è ancora valido: ese è valido nei confronti dei repubblicani e dei socialdemocratici nonpuò non valere per i socialisti. Il giorno in cui si creassero le condizio-ni nel nostro Paese per riuscire veramente a inserire nella vita dello Sta-to, non qualche gruppo di vertice, ma quella parte della classe operaiache attorno al Partito socialista conduce oggi una battaglia per la li-bertà e per il progresso, in quel momento noi avremmo allargato vera-mente le basi democratiche dello Stato attraverso la via parlamentare,la via democratica sulla quale è fondato il nostro ordinamento costi-tuzionale.

Ecco come noi impostiamo il problema dei socialisti. Non vi è, ca-ri amici, migliore occasione per noi di questa per mettere alla prova isocialisti. È meglio per noi andare alle elezioni, quando ci saranno, vin-colati alle destre e con un partito socialista che può nascondere la suaindecisione dietro il facile alibi dell’involuzione della DC, o invece as-sumere un atteggiamento dinamico e affrontare l’iniziativa per verifi-care se il Partito socialista è capace di superare la sua crisi, di conqui-stare la sua autonomia e di portare le sue masse alla conciliazione conlo Stato democratico? E se questa verifica avrà esito negativo, si potràricorrere alle urne per chiedere al Paese non tanto la maggioranza as-soluta, quanto che si neghi il voto a quelle forze di sinistra che non han-no accettato una politica di rinnovamento e di sviluppo.

Ho voluto indicare soltanto i punti programmatici più importan-ti e le scelte da compiere in rapporto alle altre forze politiche. Questipunti dello sviluppo della linea della DC riportano alla fine il di scorsosul Partito. Avevo detto all’inizio che occorre sforzarci per superare lapericolosa contrapposizione che esaspera i nostri rapporti: da una par-te vi sono quelli che credono che la DC possa continuare a fare una po-litica ancorata allo stato di necessità; dall’altra quelli che pensano chela politica della DC debba essere fedele a cer ti programmi, debba esse-re coraggiosamente innovatrice, dimenticando però di fare fino in fon-do il discorso sulle forze politiche, sui mezzi per realizzare questa poli-tica. Solo il superamento di queste due posizioni potrà dare alla DC laforza di superare la sua crisi. Quello che noi chiediamo è un atteggia-

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mento di chiarezza di posizioni po litiche nella dialettica interna del no-stro Partito. Noi abbiamo esposto le nostre ragioni: siamo contrari aquesto Governo non per disi stima verso il Presidente Segni, ma perchésappiamo che questa formula può mettere la DC in posizione di debo-lezza nella lotta con tro il comunismo; ci battiamo per una linea poli-tica che porti la DC nuovamente a contatto con i partiti laici, con i par-titi democratici, che affronti il problema del socialismo per isolare dauna parte le destre conservatrici e dall’altra il frontismo comunista.Queste posi zioni sono chiare, nette, e anche se sono di minoranza pos-sono forse essere utili alla causa del Partito. Non chiediamo niente dipiù in questo Congresso. Non abbiamo ambizioni di potere, e nonchie deremmo neppure voti, se non fosse per dare maggior peso alle no -stre idee e a chi queste idee condivide. Ma vogliamo che ciascuno sap-pia che non siamo una sinistra massimalista, ingenua, impaziente, an-siosa soltanto di aspirazioni sociali. Noi oggi vogliamo, forse con mag-giore intransigenza, quello che un giorno tutto il Partito dovrà volere.Non chiediamo sistemi elettorali che ci facciano raggiun gere fortunepersonali, ma chiediamo al gruppo che vincerà questo Congresso, qua-lunque esso sia, libertà per noi, per tutti, tanta libertà quanta ne bastaperché le nostre idee possano essere poste al servizio del Partito. L’au-gurio è che la DC, al di fuori di ogni personalismo, sappia ritrovare lasua coscienza unitaria, le sue tradizioni antifa sciste, antimoderate e de-mocratiche, e sappia assumere nei confronti del Paese una vigorosa ini-ziativa politica lasciando alle spalle il tra sformismo delle destre e l’al-ternativa frontista del comunismo e creando le condizioni per unacompetizione civile fra tutti i partiti che con la DC sono disposti a por-tare avanti l’Italia sulla via del progresso democratico.

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I tempi richiedono una politica nuova*

Il 1961 si era aperto con il contrastato varo delle «giunte difficili» che,per la prima volta, vedevano una effettiva e diretta collaborazione a livel-lo amministrativo locale tra democristiani e socialisti. Nel marzo seguen-te, al XXXIV Congresso del PSI, il segretario Pietro Nenni aveva auspicatoun «dialogo con i cattolici» mirato a superare quegli artificiali steccati cheavevano diviso le masse cattoliche da quelle socialiste. La ribadita lineaautonomista del partito di Nenni rendeva così sempre più concreto il per-corso di avvicinamento al centro sinistra. In questo contesto, il segretariodella DC, Aldo Moro, promosse una iniziativa di carattere storico-cultura-le sulle radici ideologiche della Democrazia Cristiana.

Il convegno si tenne a San Pellegrino, in provincia di Bergamo, dal 13al 16 settembre 1961, e intendeva rinnovare l’immagine del partito, pro-ponendo una riflessione storica complessiva sul ruolo dei cattolici in poli-tica, proprio alla vigilia dell’importante svolta che la Democrazia cristia-na si accingeva a compiere col successivo Congresso nazionale, convocato aNapoli nel gennaio seguente e che avrebbe dovuto ratificare la scelta poli-tica di centro-sinistra.

Oltre ai principali leader del partito, al Convegno di San Pellegrinoparteciparono molti intellettuali e studiosi d’orientamento cattolico, tra iquali lo storico Gabriele De Rosa, l’economista Pasquale Saraceno e il so-ciologo Achille Ardigò. Fu proprio la relazione di Ardigò a destare partico-lare interesse in molti partecipanti, tra cui Granelli, alimentando il dibat-tito sull’imminente varo del centro sinistra. Col suo intervento su Classi so-ciali e sintesi politica, il sociologo emiliano, muovendo la sua analisi daimutamenti in atto nel mondo cattolico a seguito dell’elezione di Giovanni

* Il Convegno di San Pellegrino, Atti del I Convegno nazionale di studio, San Pellegri-no Terme (13-16 settembre 1961), Ed. Cinque Lune, Roma 1962.

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XXIII – del quale richiamava con insistenza l’enciclica Mater et Magistra –riconosceva nella politica di centro-sinistra la sintesi delle due tradizioni in-terne al partito facenti capo rispettivamente a De Gasperi e a Dossetti.

Sul piano economico Pasquale Saraceno, intervenendo su Lo Stato el’economia, riprese le linee dettate negli anni Cinquanta da Ezio Vano-ni, suggerendo il metodo della programmazione per orientare e dirigere ilnuovo corso politico.

Lo storico Gabriele De Rosa analizzò invece il ruolo de I cattolici nel-lo Stato unitario, dall’opposizione allo Stato liberale sino alla posizionedominante assunta nel governo del Paese con la Democrazia cristiana.

Le altre relazioni furono tenute da Guido Gonella su Cristianesimoe libertà democratiche; Feliciano Benvenuti su Persona, comunità in-termedie e stato; Dino Del Bo su I partiti nello stato democratico; Fran-co Maria Malfatti su La Democrazia Cristiana nelle sue affermazioniprogrammatiche dalla sua ricostruzione a oggi; Luigi Gui su La De-mocrazia Cristiana nella sua azione legislativa e di governo dalla Co-stituente a oggi e Giovanni Battista Scaglia su La Democrazia Cristia-na nella politica italiana.

In questo Convegno, che è una manifestazione importante per lavita interna della Democrazia Cristiana, serpeggia una tentazione chebisogna combattere: la tentazione di interpretare le ottime relazionipresentate, le molte cose intelligenti e geniali che si sono dette, comeun insieme di contri buti destinato ad arricchire, sul terreno culturale,scientifico, puramente intellettuale, un dibattito indubbiamente posi-tivo per un partito come il nostro. Per troppo tempo, infatti, nella De-mocrazia Cristiana abbiamo forse limitata la discussione politica in-terna attorno a questioni di formule, a problemi con tingenti, a temi ditattica politica o parlamentare, ed è quindi naturale che quando il dia-logo si sposta ad un livello più elevato, più impegnativo, tutti as siemesi registri il fatto con soddisfazione. La tentazione cui facevo riferi-mento consiste non già nel compiacimento per il clima del nostro con-vegno, ma nel rischio di dimenticare che noi siamo, in primo luogo,un partito politico. Tut to quello che viene discusso in questa sede, eche c’è da augurarsi possa essere materia di un dibattito continuo ai di-versi livelli all’interno del partito, de ve essere strettamente collegato al-la funzione specifica di un grande partito democratico e popolare cheagisce in modo determinante nella vita nazionale, che viene giudicatoper quello che fa, oltre che per quello che dice, e che – di conseguen-za – deve cogliere nell’approfondimento teorico e culturale gli elementidi una sempre maggiore caratterizzazione della propria azione politica.

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Il mio intervento si propone appunto di cogliere questi elementi inalcune delle relazioni presentate. Dalla relazione del prof. De Rosa èemerso lucidamente un quadro storico e politico di questo genere: icattolici italiani, prima all’opposizione dello Stato liberale e, poi, conil Partito Popolare erano riusciti a darsi una posizione politica e ideo-logica molto vigorosa, molto incisiva anche ai fini di una operante pre-senza nella vita nazionale, ma in seguito al graduale rovesciamento del-la situazione storica, e soprattutto da quando i cattolici cessando di es-sere forza di opposizione e di protesta hanno assunto attraverso le De-mocrazia Cristiana un ruolo di dominante responsabilità sul piano del-la dirigenza politica, i contorni caratteristici, programmatici, ideologi-ci rischiano di diventare sempre più sfumati, più imbarazzati, menodefiniti. È questo un limite particolarmente evidente nella situazioneattuale. L’esperienza storica del nostro movimento politico, le battagliecondotte con intransigenza dal Partito Popolare, hanno indubbiamen-te contribuito ad accumulare un notevole patrimonio ideologico. Laparte più sensibile delle giovani generazioni ha appreso la lezione del-la partecipazione democratica dei cattolici alla vita del Paese, ha fattopropri i preziosi insegnamenti di Sturzo e di De Gasperi, ma non puònon sentire il peso di quel salto storico che ci fa oggi trovare in una po-sizione politica nettamente rovesciata. Noi militiamo oggi in un parti-to che non può sostenere la necessità di un reale potenziamento delleautonomie locali soltanto perché Luigi Sturzo, nel 1919 a Bologna, eb-be ad affermare che le autonomie locali rappresentavano l’unico effi-cace rimedio contro il centralismo della classe liberale e un punto fer-mo della nostra concezione pluralistica della società e dello Stato. Noidob biamo trovare nella presente situazione storica, nella linea concre-ta del nostro impegno politico attuale, che non è più l’espressione del-la protesta di un mo vimento estraneo allo Stato, ma è l’adempimentodi un dovere di trasformazione, alla luce delle proprie concezioni, del-le tradizionali strutture della società italiana, un modo concreto perrinverdire una tradizione sostanzialmente valida senza commetterel’errore di ripeterla meccanicamente. Il significato, l’obiettivo di fon-do del nostro convegno di studio, dovrebbe essere questo. Ci sono dueversioni, entrambe sbagliate, del nostro convegno. La prima, massi-malista, sembra vedere nel nostro convegno una specie di costituenteideologica. Non vi è chi non veda il pericolo di questa versione: l’ispi-razione cristiana del nostro partito è qualcosa di irrinunciabile e di vi-tale che tuttavia trascende il momento politico e il momento storico;è qualcosa che va al di là degli stessi sistemi economici, politici, socia-li. Non possiamo trasformare l’ideologia in un modello prefabbricato,

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chiuso nei confini angusti della politica o delle scienze sociali, che ap-partiene ad altre culture, che appartiene ad altri modi di concepire lavita e lo svilup po storico. Dovremmo parlare, più correttamente, diideologia politica ammettendo implicitamente la sua autonoma ela-borazione, in base a principi permanentemente validi, nel quadro disituazioni storiche determinate e senza confondere piani, non separa-ti, ma certamente distinti sul terreno della diretta responsabilità. Quin-di, nessuna costituente ideologica nel senso assolutistico, antidemo-cratico, che da qualche parte si cerca di dare a questa espressione. Perònon è accettabile nemmeno la seconda versione, vale a dire quella diun minimalismo che considera il nostro convegno come l’occasioneper dissertazioni intelligenti che lascino tuttavia correre sui vecchi bi-nari la politica della Democrazia Cristiana. I tempi richiedono una po-litica nuova, più coraggiosa, ed è perciò necessario che da questo con-vegno sia pure attraverso un discorso che va a1 di là dei temi partico-lari e contingenti, esca l’impegno per una caratterizzazione più nettadella Democrazia Cristiana. Soltanto in questa ipotesi il nostro parti-to potrà affrontare con maggiore sicurezza il problema delle alleanzepolitiche, superando le preoccupazioni di chi teme che nel rapporto frai partiti sul piano parlamentare, nel contatto tra forze politiche di di-versa ispirazione, la democrazia venga trasformata perché non è in gra-do di essere se stessa anche nella collaborazione politica e parlamenta-re. Dobbiamo discutere, approfondire i temi di fondo della vita na-zionale, precisare i termini della nostra concezione della società e del-lo Stato per meglio caratterizzare la politica del partito, aumentandocosì il nostro patrimonio dottrinale senza tuttavia ignorare il significa-to che esso ha sul terreno dell’azione concreta. Se mi è consentito unriferimento storico al riguardo, direi che dobbiamo tenere presenti leposizioni nelle quali si ponevano, all’interno del movimento politicodei cattolici italiani, Giuseppe Toniolo, da una parte, e Luigi Sturzo,dall’altra. Non si può certo dire che Giuseppe Toniolo non abbia con-tribuito ad arricchire in modo originale la nostra dottrina della societàe sviluppare una concezione del vivere sociale molto organica e preci-sa, ma tutte queste pregevoli elaborazioni, e l’ha ricordato De Gasperinella prefazione ad un volume del Vistalli non erano riuscite ad inci-dere nella vita nazionale perché mancava, per ragioni storiche il pas-saggio logico dalla costruzione teorica all’interpretazione politica e,quindi, all’azione diretta di un forte partito popolare capace di affer-mare le proprie idee ed i propri programmi nel campo della democra-zia parlamentare. Sarebbe estremamente negativo il ridurre questoconvegno ad una specie di inventario di quello che c’è sul piano cul-

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turale, scientifico, dottrinale fuori e dentro il partito, nel largo raggiodel nostro movimento politico. L’inventario facciamolo, ma al tempostesso ricordiamo che se Luigi Sturzo, nei primi anni del secolo, si fos-se limitato a fare l’inventario di quello che c’era allora all’interno delmovimento politico dei cattolici, il Partito Popolare non sarebbe maisorto. E lo sviluppo politico della società italiana sarebbe avvenuto a1di fuori di noi e, probabilmente, contro di noi. Bisogna dunque farel’inventario, ma per scegliere con chiarezza quelle esperienze che sonoconci liabili con la funzione popolare e con l’impegno politico innova-tore della De mocrazia Cristiana. Bisogna cioè superare il puro politi-cismo, il nominalismo delle formule, recependo tutto quello che di vi-tale si accumula al livello della ricerca scientifica, della battaglia cultu-rale, della sistemazione teorica, allo scopo di ravvivare l’azione politicadella Democrazia Cristiana.

Da questo punto di vista l’impostazione che l’amico Ardigò ha da-to alla sua relazione è indubbiamente positiva, anche se da parte miapermangono alcune riserve che richiamerò con franchezza non già peraccentuare la critica, sua per dare un contributo costruttivo. Indub-biamente Ardigò ha compiuto uno sforzo pregevole per aggiornare laproblematica del partito, richiamando alcuni valori di fondo dell’e-sperienza sturziana, ma al tempo stesso collocando tali valori nel qua-dro dei problemi contemporanei della società italiana. Quando l’ami-co Ardigò afferma che l’esperienza di Luigi Sturzo, la battaglia politi-ca del Partito Popolare, si è praticamente arrestata alle soglie del mo-derno sviluppo industriale ed è rimasta legata all’interpretazione poli-tica delle esigenze di emancipazione del mondo rurale, contadino, ilquale aspirava ad avere il riconoscimento delle proprie libertà, il suopo sto all’interno dello Stato, è certamente nel vero anche per quantoriguarda il significato politico dell’affermazione perché quelli erano itemi caratteristici di quel periodo storico. Luigi Sturzo conduceva al-lora una intransigente battaglia politica in difesa della libertà in un mo-mento in cui le stesse distanze di classe fra Giolitti e Turati erano ve-nute attenuandosi e il secondo sembrava convinto che il «decennio fe-lice» dell’epoca giolittiana avrebbe inevitabilmente portato a quel pie-no sviluppo industriale, dal quale sarebbe sorto, quasi per incanto, unproletariato cosciente e quindi capace di determinare l’avvento del so-cialismo nel nostro Paese. Il «leader» del Partito Popolare non aveva al-lora altro modo per affermare una personalità originale del propriomovimento politico all’infuori di una interpretazione della protestacontadina nel mezzogiorno, di una critica al malcostume della classedominante, di una denuncia dei limiti centralistici e burocratici dello

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Stato liberale, di un superamento di quel riformismo positivista checonsentiva a Giolitti di assorbire nella sua politica lo stesso movimen-to socialista: con ciò Luigi Sturzo respingeva la riduzione del divenirepolitico della società italiana a un puro fatto economico di benessere edi prosperità e affrontava il problema del progresso democratico delPaese in termini di libertà, di promozione delle classi popolari, di co-struzione di nuovi ordinamenti civili.

Raccogliendo l’invito di Ardigò noi ci poniamo di fronte ai pro-blemi del nostro tempo e ci rendiamo conto che essi chiedono a noiun impegno nuovo e originale, un impegno capace di comprendere ilsenso delle trasformazioni in atto.

Forse l’amico Ardigò non ha avuto tempo di ricordare, accanto aDossetti, la spinta che in questa direzione hanno dato al nostro movi-mento politico uomini come Grandi e Vanoni. Anche questi illustriamici hanno cercato, spesso nell’incomprensione generale, di portarela Democrazia Cristiana in una posizione moderna, progressista, difronte ai problemi dello sviluppo economico e della evoluzione delleclassi. Se operia mo una sintesi critica degli insegnamenti di Grandi, diDossetti e di Vanoni, noi siamo in grado non solo di comprendere lostadio di sviluppo della società nazionale, ma di coglierne anche i li-miti in una sfera che non è solo economica.

Gli aspetti industriali dello sviluppo economico italiano, il muta-mento rapido delle nostre condizioni materiali di vita, indicano che ilfenomeno è rilevante e sconvolge con l’impiego delle moderne tecno-logie le stesse classi sociali. La Democrazia Cristiana rischierebbe di es-sere taglia fuori da questo inarrestabile processo se continuasse a fareuna politica per le categorie, per i ceti medi, dimenticando che nellasocietà contemporanea occorre essere presenti in modo diverso e tene-re conto che la stessa base sociologica dei partiti si trasforma modifi-cando nella sostanza anche il rapporto politico. Tutto questo è giusto,tutto questo è vero. Nell’affrontare questo insieme di problemi che permolti aspetti sono urgenti, bisogna stare in guardia contro l’illusioneche basti razionalizzare l’espansione economica, organizzando megliolo sviluppo industriale e facendo partecipare i lavorato ri alla gestionedelle imprese o che basti fare una politica che distribuisca il benessereattenuando le distanze e gli squilibri, per arrivare ad un tipo di societàdiversa quale noi vogliamo. Affrontando i problemi posti dalla dina-mica di una economia che si espande, per la forza propria del sistema,noi rischiamo di cadere nei limiti dello schema neocapitalistico il qua-le tutto riduce alla illusione, di stampo positivistico, che regolando, di-sciplinando, migliorando il processo di espansione economica, si co-

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struisce una società più moderna, più democratica e più libera. I teo-rici del neo-capitalismo dimenticano che in Italia c’è qualcosa che im-pedisce, oltre tutto, la stessa razionalizzazione con criteri moderni del-lo sviluppo economico. E questo qualcosa è individuabile nella strut-tura statuale, nell’assetto giuridico, nella condizione politica in cui siarticola, dal tempo dall’unità, la società italiana. Si tratta di un com-plesso di cose che non possono che regalare al nostro Paese uno statodi be nessere fondato sul paternalismo e negatore della libertà. Perma-nendo tali strutture noi siamo costretti, non avendo altre alternative, afare la concorrenza ai grandi monopoli privati attraverso potentatipubblici che in larga misura sfuggono al controllo democratico; dob-biamo utilizzare forme di inter vento pubblico realizzate in clima diprotezione e di corporativismo per perseguire obiettivi di moderna pia-nificazione economica. Con questi strumenti può anche darsi che siriesca a realizzare il benessere economico, lo sviluppo produttivo, maè certo che lo Stato rimarrebbe quello che è e che nessun passo avantiverrà compiuto verso l’autocoscienza dei cittadini, il miglioramentodella situazione politica e civile, l’affermarsi dell’autogoverno, la for-mazione di una nuova mentalità amministrativa. È per questo che ildiscorso aperto da Ardigò, decisivo per quanto riguarda i problemi del-lo sviluppo economico ed il loro immediato riflesso, si completa orga-nicamente, a mio av viso, con le intelligenti osservazioni fatte dal prof.Saraceno nella, sua rela zione, quando, superando i limiti del solito di-scorso vanoniano sullo schema di sviluppo e ponendo il problema delpiano, egli ha sollevato in realtà anche il problema degli strumenti, del-la creazione di nuovi istituti giuridici, della affermazione di nuovi po-teri di decisione al livello delle autonomie locali, e tutto ciò non tantoperché la periferia protesta contro lo Stato accentratore, ma perché unamoderna politica di piano richiede nuove strutture amministrative.Con queste osservazioni, sulle quali io non mi intrattengo, il prof. Sa-raceno ha indubbiamente colmato una lacuna presente oggi in moltieconomisti che nulla vedono al di fuori della sfera economica ed hacontribuito a ricordare che per dei cattolici democratici la necessità diintervenire sul piano economico può rappresentare un’occasione im-portante per rifare su basi sempre più democratiche e a larga parteci-pazione popolare gli stessi ordinamenti dello Stato italiano. Operandoper distribuire secondo giustizia i vantaggi dello sviluppo economico èquindi possibile, ove lo si voglia con la necessaria coerenza politica, av-viare a soluzione annosi problemi di costume, di metodo politico, diprassi amministrativa che sono sempre posti in secondo piano da cer-to progressismo radicaleggiante abituato ad identificare il progresso

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dell’economia con quello della società nel suo complesso. Per dei cat-tolici democratici non basta sostenere la necessità di compiere l’unifi-cazione economica del Paese, dopo che il Risorgimento ha realizzatol’unificazione politica, ma occorre utilizzare tutto ciò che spinge le clas-se politica a trovare soluzioni sul terreno economico per accompagna-re il cammino verso il benessere con la revisione, la trasformazione, lamodifica in senso concreto e non astratto delle nostre strutture statua-li e amministrative. Perché se attraverso le occasioni offerte dalla con-giuntura favorevole, che ci consente di superare determinati squilibrigeografici e di settore, non si risolve anche il problema fondamentaledello Stato, la sintesi politica che ne scaturirà non sarà che la sintesi delbenessere. Possiamo anche essere presenti nel processo di formazionedelle nuove classi con nuove strutture organizzative, possiamo impe-dire che la perdita di forza elettorale della Democrazia Cristiana sia piùgrande del necessario; ma se noi non impostiamo la politica della li-bertà accanto alla politica dello sviluppo economico e, quindi, non av-viamo coraggiosamente la riforma dello Stato italiano, secondo le lineetracciate dalla Costituzione noi rischiamo di perdere ugualmente labattaglia perché altri movimenti politici sono, per cultura e per dottri-na, più congeniali di noi alle conquiste delle società del benessere.

La valorizzazione di ogni energia imprenditoriale e la finalizzazio-ne dell’intervento pubblico, contro quel dualismo assurdo secondo ilquale tutto ciò che è pubblico è progressismo e tutto ciò che è privatoè conservatorismo, il controllo democratico in ogni settore della vitanazionale, l’articolazione regionale, non tanto come ripartizione delpotere quanto come riscoperta di funzioni nuove per le amministra-zioni locali, la politica di piano auspicata dal prof. Saraceno, rappre-sentano dunque le diverse componenti dell’impegno odierno della De-mocrazia Cristiana. Qualcuno dice che così operando ci si pone nellaprospettiva di una terza via. La definizione può essere accettata a pat-to che non si tratti di una specie di agnosticismo che consente di nonfare quello che vogliono i liberisti e di non fare quello che vogliono icollettivisti, ma che facendo di tutto un po’ ci si viene a trovare sullaterza via. La terza via non può essere, almeno per noi, il non fare nien-te, il non fare quello che gli altri farebbero, ma è il fare qualcosa di nuo-vo. La terza via rischia di diventare un nuovo modello azionista se nonè accompagnata dalla capacità di affrontare alla radice i grossi proble-mi che abbiamo richiamati.

Sorge, a questo punto, un’ultima osservazione. Il prof. Sa raceno hasostenuto apertamente una politica di piano, ma le reazioni sono stateminori di quello che si potesse prevedere. C’è ormai una abitudine a

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non spaventarsi più delle parole, sempre che le parole non modifichinoil corso delle cose, perché allora anche le parole comincerebbero a dive-nire pericolose. Al congresso di Napoli, nel 1954, si incominciava a par-lare pubblicamente di «schema», anche se nelle conversazioni privateVanoni non faceva misteri circa la sua volontà di giungere al «piano».Poi, dallo schema siamo passati alla programmazione e, adesso, siamoarrivati al concetto della politica di piano che è un concetto molto im-portante. Se guardiamo alla sostanza delle cose la politica di piano, ovenon sia ispirata a concetti collettivistici, è lo strumento moderno per af-frontare globalmente i problemi di fondo della società italiana. Il prof.Saraceno ha ricordato, giustamente, che è un assurdo pensare ad esem-pio di sviluppare l’economia italiana se non si risolve il problema dallascuola, della formazione professionale, della ricerca scientifica. E nondimentichiamo che non è solo problema di mezzi. Oggi, infatti, si rin-via il problema della scuola anche perché è più facile spendere miliardinelle autostrade, con la buona pace di tutti, che non nella scuola ove in-vece si sollevano delicati dis sidi di natura politica. Quindi l’elaborazio-ne di un piano che non resti sulla carta, ma che traduca in termini po-liticamente concreti l’impegno del la Democrazia Cristiana di avviare asoluzione i problemi di fondo del Paese, implica non tanto la teorizza-zione di una terza via, che tranquillizzi ideologicamente rispetto all’an-titesi tra socialismo e liberismo, quanto la capacità di scegliere tra i di-versi interessi, di qualificare la spesa pubblica secondo una precisa gra-duatoria di priorità, e tutto ciò non può che creare un diverso e con-trastante atteggiamento politico dei diversi partiti sul piano parlamen-tare e di governo. Il problema politico appare a questo punto in tutta lasua essenza. Impostare oggi una politica di piano significa, anzitutto,compiere una revisione, in termini di evoluzione e non di autolesioni-smo della politica che abbiamo sin qui fatto. Se all’indomani della Re-sistenza i governi democratici hanno compiuto la scelta di rimettere inpiedi, in Italia, il sistema dell’economia di mercato è ovvio che certe tra-sformazioni, certi interventi, non potevano essere fatti che quando il si-stema avesse raggiunto un sostenuto ritmo di espansione. Non aver fat-to ieri certe co se, non significa quindi che non si debbano fare oggi.Ora, la politica di piano che oggi si impone come necessità storicamentematura, è una politica antitetica ad un luogo comune che si va diffon-dendo anche fra di noi, nei no stri ambienti, cioè il luogo comune del«tempo lungo». Si accetta la politica di piano e si continua nella elabo-razione dei diversi piani settoriali e fra loro indipendenti, si fanno i di-scorsi sulla programmazione che vengono accettati da tutti nella misu-ra in cui non modificano nulla della politica tradizionale. Pianificare si-

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gnifica stabilire delle priorità, escludere certi tipi di spesa, concentraregli investimenti in determinati settori: può avvenire tutto questo senzareazioni, senza polemiche? Evidentemente no. Ecco perché una politi-ca di piano, in Italia, presuppone il rifiuto del «tempo lungo» che si -stemerà ogni cosa, come all’epoca del «decennio felice» di Giolitti e de-ve rovesciare concretamente la tendenza di certe politiche settoriali cheab biamo impostato nel dopoguerra e che continuiamo a svolgere. Iovorrei toccare, di sfuggita, un solo problema che dimostra la gravità del-la situazione e la necessità di un intervento massiccio e organico. Se neiprossimi anni l’immigrazione dal sud al nord continua con il ritmo cheabbiamo registrato in questi anni, e la tradizionale politica meridiona-listica continua senza una serena autocritica, noi rischiamo di creare unnord sovrappopolato con tutti i problemi che si creano nei grossi cen-tri urbani, ed un sud che per dirla con una frase felice usata in altra oc-casione dal prof. Saraceno, sarà ridotto ad una specie di cimitero delleopere pubbliche inutili persino allo scopo di creare nelle zone arretrategli elementi fondamentali di una ri presa economica. Ora il riconside-rare oggi la politica meridionalistica, per vedere cosa c’è da modificare,non significa fare dell’autolesionismo, ma significa affrontare i proble-mi del sottosviluppo nell’ambito di una rigorosa politica di piano, com-piendo, al livello degli investimenti pubblici, quelle scelte di fondo chesono necessarie per industrializzare il sud completando, sia pure in con-trasto con gli interessi di certi monopoli privati, la fase de gli interventiinfrastrutturali.

Tra le molte cose che sono state dette basterebbe che la Democra-zia Cristiana, cosciente della sua funzione di partito politico, ne sce-gliesse due per qualificarsi in vista delle future scadenze: la prima in-veste la necessità di sviluppare l’economia italiana non affidandosi al-l’automati smo di mercato, ma attraverso quelle scelte che sono richie-ste da una severa politica di piano; la seconda investe le modifiche del-la struttura dello Stato, previste dalla Costituzione, per impedire che icattolici, nati sul terreno politico come tenaci autonomisti, debbanoesaurire la loro esperienza impigliati nel centralismo soffocante dei vec-chi ordinamenti. Se volessimo sforzarci di costruire la politica dellaDemocrazia Cristiana sulla base di questi due impegni di fondo, nonvi è dubbio che saremmo in gra do di superare l’eredità sturziana, nongià dimenticandone le origini, ma applicando le sue valide intuizioniai problemi del nostro tempo e al dovere storico di un partito che es-sendo il fulcro della classe dirigente demo cratica non può più limitar-si ad interpretare la spinta protestataria delle classi escluse dal poterepolitico, ma deve tenere conto di essa in termini operativi.

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Si tratta di argomenti che, fuori da questa sede, debbono essere og-getto del dibattito politico interno al partito. Anche i problemi inter-ni della Democrazia Cristiana dovrebbero essere considerati in rap-porto a questi argomenti. C’è il pericolo che al prossimo CongressoNazionale il contrasto tra i diversi gruppi si manifesti, ancora una vol-ta, su que stioni secondarie e marginali; c’è il pericolo che le correntianziché esse re veicolo di pensiero politico si riducano a combattersi perla pura conquista del potere interno; c’è il pericolo che ci si limiti adauspicare velleitariamente una politica di piano e la costruzione delloStato democratico in Italia senza compiere le necessarie scelte sul pia-no parlamentare tra le forze politiche disponibili per dare concretezzaa tale auspicio.

Posto in questi termini il problema dell’allargamento della area de-mocratica, dell’intesa col PSI, non scivola nella confusione ideologica,o – peggio ancora – nell’illusione progressistica di una mitica societàcattolico-socialistica che ha risolto tutto, ma è l’espressione della ma-tu rità di un incontro politico tra quelle forze che, in Italia, possono da-re un particolare contributo alla soluzione dei problemi più importan-ti. Affrontando il dibattito interno con questo metodo non è esclusoche si possa giungere, gradualmente, ad un superamento delle corren-ti intese in senso tradi zionale. Ma perché ciò avvenga è necessario chie-derci: il partito, nelle sue strutture, è pronto ad affrontare un impegnodi questo genere? Ai tempi del dossettismo Giuseppe Dossetti ci tra-smetteva facilmente la sua forza ideale, ci indicava in termini assolutile prospettive a venire della poli tica, italiana; ma la situazione attuale,con tutti i suoi complessi problemi è tale che ci lascia quasi sempre per-plessi, e dimostra che c’è sempre qualcosa da studiare, da approfondi-re, da ricercare. Ciò è estremamen te positivo, perché l’esperienza poli-tica si accumula anche attraverso un valido metodo di ricerca. Ma laDemocrazia Cristiana, abbandonate le fa cili impostazioni dogmatiche,è oggi in grado di porsi come strumento di ricerca continua della ve-rità politica?

Qualcosa si è cominciato a fare. Abbiamo cominciato con i conve-gni di studio, ma dove sono le riviste sulle quali continuare a dibat terei temi di fondo? Come è organizzata la ricerca all’interno del partito?Dove sono gli strumenti di studio e di approfondimento sistematicodella realtà nazionale e dei compiti del partito? Come si divide nellaDemocrazia Cristiana il potere politico interno? A che serve il com-promesso tra le correnti che si ripartiscono gli uffici centrali al solo sco-po di bilanciare le ri spettive influenze sugli iscritti? Come si seleziona-no i valori individuali all’interno del partito? Come si favorisce l’inse-

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rimento attivo di quei giovani studiosi che, appena usciti dall’Univer-sità, sono costretti ad essere assorbi ti negli uffici studi dei grandi po-tentati pubblici o privati e si estraniano da qualsiasi esperienza politi-ca? Quando mai noi abbiamo posto il problema del partito in terminidi classe dirigente? Non è certo con la Commissione, che il senatorePiccioni presiede con tanta passione, per la riforma dello Statuto chepotrà risolvere questi problemi. Il problema di fondo della Democra-zia Cristiana è quello di creare strutture adeguate ad un costante sfor-zo di ricerca e di elaborazione di una organica politica democratica,evitando così che il partito viva di rendita sulle posizioni del passato epossa contare su di un continuo sforzo creativo. E quando il partitofosse anche pronto a questi compiti nella sua struttura, nei suoi ordi-namenti, nella selezione della propria classe dirigente, rimarrebbe pursempre il pro blema della coerente traduzione, sul piano parlamentaree governativo, della sua politica. Il partito, per sua natura, deve tra-durre concretamente i suoi impegni sul piano parlamentare, nel di-scorso con gli altri partiti, nei rapporti politici, evitando di apparirespinto dagli altri e, al contra rio, compiendo in piena autonomia le pro-prie scelte politiche. È possibile raggiungere questi auspicabili risulta-ti senza sensibili mutamenti di rotta? Noi crediamo di no. Le cose dacambiare sono molte; altro che adeguarsi senza cambiare in rapporto atutti questi problemi! Un convegno di studio non è un congresso, nonè una seduta del Consiglio Nazionale, non è una riunione della dire-zione del partito, e sarebbe quindi fuori luogo attendersi da esso solu-zioni concrete. Però è logico che certi interrogativi siano sorti in que-sta sede, se non altro per dare una spinta libera da preoccupazioni con-tingenti a quanti operano per fare della Democrazia Cristiana quel par-tito democratico, popolare, di cui l’Italia ha bisogno per un avvenireche non sia solo di benessere, ma sia soprattutto, di libertà e di pro-gresso civile.

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Un nuovo corso per la Democrazia Cristiana*

Tra il 30 ottobre e il 3 novembre 1965 si riunì a Sorrento una As-semblea nazionale della Democrazia cristiana che, nelle intenzioni delladirigenza – il segretario, Mariano Rumor, era affiancato da una direzio-ne unitaria a cui partecipavano esponenti di tutte le correnti – avrebbe do-vuto affrontare la situazione del partito per tentarne il rilancio sul pianopolitico nazionale.

Il convegno fu introdotto da un’ampia e dettagliata relazione del vicese-gretario Arnaldo Forlani, che offrì molti spunti agli interventi successivi, tracui anche quello di Luigi Granelli. Forlani collegò il tema delle riforme isti-tuzionali a quello di un più generale rinnovamento del ruolo dei partiti, chedovevano tornare ad interpretare adeguatamente le istanze sociali del Paese.Per la Democrazia cristiana, inoltre, il vicesegretario indicava la strada del-la «mediazione» con la società e con un mondo cattolico in fermento.

Al convegno si affrontò anche il dibattito sulla politica del centro-sinistra,la quale avrebbe potuto ricavare nuove prospettive dall’imminente unifica-zione socialista. Fu la Sinistra di Base, con Giovanni Galloni, a sollecitare ilpartito ad una maggiore attenzione a questo avvenimento di portata storica.Per Granelli, l’Assemblea di Sorrento poteva «veramente rappresentare l’av-vio di un corso nuovo e fortemente innovatore nella vita del partito»1. L’in-contro di Sorrento tuttavia evidenziò, in particolare, il ruolo crescente –nonpiù solo su un piano culturale e intellettuale, ma anche effettivamente politi-co – che nel partito andava assumendo quella «terza generazione» di espo-nenti cattolici che stava compiutamente trasformandosi in classe dirigente.

* Direzione nazionale DC, Assemblea Nazionale della Democrazia Cristiana, 6 voll.,Ed. Cinque Lune, Roma 1967.

1 ASILS, Fondo Granelli, serie I, b. 6, Relazione di Granelli al convegno dell’Alta Ita-lia di «Forze Nuove», «Punti Fermi della sinistra DC per l’Assemblea di Sorrento».

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Cari Amici,è a mio parere impossibile concepire il rilancio politico e organiz-

zativo del partito, che è il fine principale della nostra assemblea, senzaavere la piena coscienza della situazione reale del Paese, dei suoi pro-blemi più urgenti e drammatici, delle linee di sviluppo della democra-zia italiana. La nostra esperienza passata dimostra ampiamente, del re-sto, che dal congresso di Napoli del 1954, da quando cioè si verificò laprima congiura dei baroni per usare la terminolo gia dell’amico Sullo,tutti i tentativi di vitalizzazione organizzativa del partito hanno avutoscarsi risultati proprio perché è mancata quella visione culturale e po-litica della funzione della Democrazia Cristiana che rappresenta la pre-messa essenziale ad ogni opera di rinvigorimento e di rilancio.

Anche i fatti confermano questa tesi. Non v’è dubbio che il modocon il quale si va attuando la politica di centro-sinistra, con divisa or-mai dalla grande maggioranza del partito, richieda alla De mocraziaCristiana, più che mutamenti di linea, una maggiore funzio ne di sti-molo, di sollecitazione programmatica, rispetto all’azione che il gover-no di coalizione viene svolgendo.

È del tutto inutile continuare a svolgere acute diagnosi delle tra-sformazioni in atto, per giunta in un momento in cui vanno rallen-tandosi paurosamente, se esse non servono, più che a compia cersi del-la superiorità delle nostre concezioni della libertà, del plu ralismo, del-la dignità della persona, a domandarci il perché del grande divario chetuttora esiste tra le nostre idee e la realtà in cui ope riamo dopo vent’an-ni e più di esercizio democratico del potere in Italia.

È su questo punto, di fronte cioè a strati popolari che divengono viavia scettici circa la nostra capacità realizzatrice più che verso le nostreidee fondamentali, che il partito deve compiere un coraggioso esame dicoscienza per ritrovare la sua funzione di protagonista nel dirigere, an-ziché subire, le trasformazioni della so cietà e nel modificare lo Stato ele sue strutture in coerenza con il sistema di valori di cui è portatore.

Preliminare, quindi, è la riaffermazione decisa della natura e dellafunzione storica del partito se non vogliamo scendere nelle fallaci pro-spettive di un efficientismo privo di finalità ideali.

Ci sono, anzitutto, delle concezioni da respingere. Il giornalistaPietro Ottone, ad esempio, è sembrato far dire all’amico Taviani, inuna intervista interessante apparsa sul Corriere della Sera ed in granparte condivisibile, che l’anticomunismo è la sola ra gione d’essere del-la Democrazia Cristiana e che essa risulterebbe del tutto inutile se nonesistesse in Italia il partito comunista. Soltanto questa ragione spie-gherebbe la nostra unità.

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La polemica sarebbe suggestiva su questo punto. Ci limitiamo a ri-cordare che questo è il vecchio tentativo di utilizzare i cattolici ed il lo-ro partito come pura forza elettorale anonima e di conservazione chesin dalle origini, il Partito Popolare prima e la Democrazia Cristianapoi, hanno sempre respinto con forza.

A questa deformazione della realtà storica si collega il tentativo diforzare l’evoluzione della Democrazia Cristiana verso mo delli che si so-no affermati in altri paesi. Vorrei tranquillizzare l’ami co Andreotti.Non ce l’abbiamo con la Democrazia Cristiana tedesca di cui non di-sconosciamo i meriti; vogliamo solo difendere il patrimo nio e la tradi-zione della Democrazia Cristiana italiana che è profondamente diver-sa dai modelli invocati, proprio per le sue radicate origini popolari, co-me è diversa la storia del nostro paese.

È la concezione del partito di Luigi Sturzo, della Resi stenza, dellaCostituzione, della collaborazione con le forze democratiche e sociali-ste, anziché con quelle di destra, che noi rivendichiamo.

Vi è chi pensa, in Italia, ad un avvenire che purtroppo suggestionagli amici del «Mulino» in cui la lotta politica si articoli su due grossimovimenti moderati: l’uno, il cattolico, che svuoti la destra usando lareligione come insegna elettorale e l’altro, il social democratico – piùlaicista che marxista – che svuoti la sinistra in mo do che la democra-zia parlamentare torni ancora ad essere, come nel vecchio sogno illu-minista, il regno delle manovre, delle combinazio ni di vertice, deicompromessi di potere, del trasformismo.

Anche questa è una concezione da respingere perché la Democra-zia Cristiana è, anzitutto un partito con le sue idee, con la sua auto-noma posizione politica, con i suoi programmi, ed ha quindi un ruo-lo specifico, originale, da svolgere nella società italiana nella direzionedel rinnovamento e della trasformazione che è appunto il contrario diquel ruolo di contrappeso meccanico rispetto alle posi zioni altrui, inchiave conservatrice, che qualcuno cerca di fargli assumere in vista diuna unificazione socialista intesa anch’essa trasformisticamente.

Se vogliamo che la Democrazia Cristiana non si trasfor mi in mo-vimento elettorale, più vicino al modello tedesco che alle sue tradizio-ni; se non vogliamo, cioè, che essa si limiti a condizionare l’opera al-trui occorre superare nel partito, prima ancora che nel go verno e nelParlamento, una funzione di pura vigilanza e di freno mo derato.

Occorre che la Democrazia Cristiana riprenda, sulla base delleproprie idee e delle proprie tradizioni, una funzione nettamente econsapevolmente popolare riformatrice per aprire su questo terreno ilsuo dialogo con la società italiana, con le forze democratiche e socia-

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liste, la sua polemica trasformatrice con le opposizioni li berale e co-munista.

Da questo punto di vista il partito non può mai identificar si total-mente con le formule di governo, nemmeno con quella di centro -sinistra che pure rappresenta la scelta di alleanza più dignitosa, ma de-ve essere costantemente in una posizione più dinamica, più impegna -tiva, rispetto alla politica avviata in collaborazione con altri partiti.

Se si accetta questa premessa, da noi sempre rivendica ta, allora sipossono intravedere con chiarezza i compiti che spetta no al partito ri-spetto alla società, allo Stato, alla situazione interna zionale, e si posso-no trarre da questa visione indicazioni valide per mo dificare le nostrestrutture, i nostri metodi, la nostra vita interna, in modo corrispon-dente alla funzione di orientamento, di guida, di azione, che siamochiamati a svolgere nel Parlamento e nel Paese.

In questa prospettiva anche certe preoccupazioni circa l’azione di go-verno, per il modo contradditorio con cui viene attuata la politica di cen-tro-sinistra, possono essere affrontate non con il vecchio sistema dellecongiure e degli attacchi personali per cambiare il Pre sidente del Consi-glio o qualche ministro – cosa del resto sempre possibile e che trova,quando è seriamente motivata, tutti gli strumenti costituzionalmentecorretti per irrobustire o addirittura cambiare un governo con l’appro-vazione del Parlamento – ma a seguito di una ini ziativa costante dellaDemocrazia Cristiana che si ponga al di sopra delle persone e sappia in-fluenzare nel suo complesso, ed in ogni momento, il lavoro governativo.

Ma per fare questo occorre una piena coscienza della si tuazionereale del paese. Da ciò nascono le critiche costruttive che possono sol-lecitare le necessarie revisioni. L’esempio della grave situa zione econo-mica e sociale che stiamo attraversando, del pesante clima di stagna-zione che continua purtroppo a durare, è fortemente significa tivo al ri-guardo.

Non possiamo assolutamente dimenticare, come partito popolaree democratico, che mentre alcuni tra noi si preoccupano delle futureconseguenze della società del benessere, quasi che fossero già supera tii gravi e perduranti squilibri che angustiano ancora pesantemente la so-cietà italiana, la disoccupazione cresce, gli investimenti diminuisco no,le risorse inutilizzate aumentano, mentre la capacità competitiva dellanostra economia verso i mercati nei quali siamo inseriti positiva mentediminuisce creando fondate preoccupazioni per l’avvenire.

Di fronte a questa situazione, che può travolgere anche le ambi-zioni riformiste del centro-sinistra, può il partito assistere come spet-tatore, o come difensore dell’obbligo, ad una politica anticongiuntu-

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rale che nonostante le buone intenzioni non riesce a vincere la stagna -zione e sembra attendere la ripresa da un nuovo, e non più ripetibile,miracolo economico? Può accettare passivamente la fuga in avanti, pre -ferita anche da taluni esponenti socialisti, di chi pensa di risolvere infuturo ogni problema con il mito di una programmazione ormai nonso lo scorrevole, ma addirittura continuamente rinviabile in attesa ditem pi migliori?

A tutto ciò deve opporsi con decisione il nostro partito. Ecco unprimo impegno qualificante. La DC, se non vuole perdere il contattocon la realtà del paese, se vuole rimanere fedele ai suoi principi, nonpuò non farsi carico dell’obbligo di determinare con la pro pria inizia-tiva una politica economica che trascenda, dominandola, la congiun-tura e sia finalizzata a obiettivi di più lungo momento.

I nostri obiettivi di fondo non sono soltanto quelli riguardanti la di-fesa delle condizioni dell’economia di mercato, lasciando ai puri con-trasti d’interesse il compito di risolvere i problemi, ma sono soprattut-to come ci ha ricordato Forlani citando De Gasperi e Vanoni del con-gresso di Napoli del 1954, quelli del pieno impiego, della difesa del la-voro, del superamento degli squilibri geografici e di settore, della mo -difica strutturale del sistema economico italiano; si tratta, con ogni evi-denza di obiettivi che richiedono, ancor prima dell’azione pratica delgover no, una qualificazione ed un indirizzo preciso del partito. La pro-gram mazione economica, che non può essere concepita in modo di-sgiunto da gli interventi della politica congiunturale, è un banco di pro-va della iniziativa stimolatrice della DC, oltre che della coalizione di cen-tro-sini stra. Le leggi che attendono la loro approvazione, da quella ur-banistica a quella sulle società per azioni, piaccia o no al Governatoredella Banca d’Italia, non possono non trovare la DC in prima fila nel po-stularne l’attuazione, nel discuterne i contenuti, nel collegarle ad un piùvasto di segno di riforma e di modernizzazione del paese.

Senza una assunzione diretta di responsabilità della DC su tutti que-sti temi è una illusione pensare di modificare il corso delle cose, di chia-rire agli elettori il senso della nostra politica, di impedire che le tra-sformazioni, quando si verificano, aggiungano ai vecchi, nuovi e piùdrammatici squilibri determinando un ulteriore distacco tra la classepolitica e la realtà viva della società italiana.

Ma non si può non aggiungere alla richiesta di qualificazione delpartito sulla politica economica e sulla programmazione an che quellasul grande tema della riforma dello Stato, giustamente dibattuto conimpegno da questa assemblea, che è addirittura primario per la nostraconcezione politica e che è strettamente connesso con i problemi di na-

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tura economica se non altro per quanto riguarda gli strumenti dell’a-zione pub blica.

Conosciamo, per averli più volte richiamati nel partito, la com-plessità e l’urgenza dei problemi dello Stato, che vanno dal la sua im-potenza alla mancanza di strumenti adeguati ai fini che si inten donoraggiungere, che investono l’alto costo, e l’assorbimento di trop pe pre-ziose risorse rispetto alle prestazioni di molte strutture pubbliche tra-dizionali; ma ci sembra eccessivo attribuire completamente a respon-sabilità altrui l’esistenza di questa situazione. Esistono, certo, colpe ri-levanti di altre forze politiche, specialmente se si guarda alla nostra sto-ria nazionale, ma occorre anche riconoscere francamente che era pro-prio su questo terreno, nel campo della riforma dello Stato, più che suogni altro, che si doveva e si deve manifestare, nei fatti e non nelle pa-role, un nostro più coerente impegno pluralista, una più viva coscien-za democratica, un più deciso ardore riformista.

Siamo noi che, in base alle nostre tradizioni, abbiamo più di ognialtro l’obbligo di realizzare in Italia uno Stato democrati co articolato epluralista in collaborazione con altre forze politiche come noi sincera-mente democratiche che rivelano tuttavia, in alcuni casi, tendenze cen-traliste e tecnocratiche sia pure a scopi sociali. Se stanno così le cosenon serve piangere, dopo una lunga esperien za di governo, sui guai delcentralismo burocratico, sulla lenta e preoccupante svalutazione delParlamento, sui vuoti di potere dell’esecutivo, sulle carenze di control-lo dell’attività pubblica, se anzi ché fare prediche inutili agli ammini-stratori locali non riprendiamo con coraggio – prima che sia troppotardi – una iniziativa politica e di governo volta a modificare concre-tamente lo Stato burocratico e accentratore ereditato dall’esperienza li-berale e dal fascismo.

La politica di centro-sinistra con la sua consistente maggioranzaparlamentare consente, da questo punto di vista, un costruttivo disge-lo della politica costituzionale, rimasta per troppo tempo bloccata daimpedimenti obiettivi, ed è quindi possibile una attuazione responsa-bile di quegli istituti che possono far superare allo Stato la sua crisi diefficienza ed i ristretti margini di consenso popolare che ancora persi-stono.

Ma la chiave di volta di tale politica non è nei rimedi marginali.Essa sta in una realizzazione decisa dell’ordinamento regionale che

non si traduca in ulteriori sovrastrutture, ma rompa il centralismo, siinquadri in un articolato sistema di autonomie, avvii un più generaleprocesso di riforma dello Stato ed una reale e diretta partecipazione po-polare alla vita delle istituzioni.

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Sulla scia di questa fondamentale riforma trovano cor retta colloca-zione la rivalutazione del Parlamento, lo snellimento e la migliore or-ganizzazione del lavoro legislativo, il rafforzamento dell’esecutivo edella funzione di controllo della stessa maggioranza di governo, lariforma della Pubblica Amministrazione, la diversi ficazione dei com-piti della Camera e del Senato, l’introduzione del referendum.

Tutte queste riforme, che investono realisticamente più legislature,vengono allora ricondotte ad una organica e unitaria pro spettiva di su-peramento della crisi dello Stato unitario post-risorgimentale attraver-so la sua effettiva trasformazione in senso funzionale e democratico.

Ecco perché, se si vuole essere concreti come ci im pone il nostrodovere di partito che ha le massime responsabilità nel governo del pae-se, si tratta di avviare questo complesso di riforme, con coraggio, e so-prattutto di avviarle al punto giusto.

È questo un secondo punto qualificante del partito. La Democra-zia Cristiana deve assumere pubblicamente, come partito, l’impegnodi approvare entro la legislatura le leggi di attuazione dell’ordinamen-to regionale, anche per dissolvere il sospetto di una propensione al rin-vio sistematico, e deve prendere di conseguenza l’iniziativa di rivederee correggere nel senso richiamato i progetti elaborati dal governo Fan-fani e ripresentati dall’attuale governo che sono, a nostro avviso, larga-mente insufficienti rispetto all’esigenza di fare di questi nuovi istitutila premessa per la riforma generale dello Stato e non inutili e dispen-diosi doppioni del vecchio e criticato centralismo.

Dovrebbe aprirsi a questo punto, il discorso sui temi della politicaestera che sono troppo ignorati dal partito e che, per la loro importanza,devono invece essere ripresi con serietà per fare anche di essi materia diconsapevole qualificazione del partito. Il compito è facilitato perché es-sendo interamente d’accordo in questa materia con l’intervento fatto ieridall’amico De Poli posso rinviare ad esso per testimoniare il mio pensie-ro. Mi basta solo ricordare che l’interesse per i grandi problemi interna-zionali, per la difesa del valore supremo della pace, per l’affermazione delmetodo della trattativa per risolvere le controversie tra i popoli, per gli aiu-ti non solo economici ai paesi in via di sviluppo, per la costruzione diun’Europa politica e democratica che non sia affidata solo all’integrazio-ne dei mercati, consente non solo di elaborare una risposta valida rispet-to a questioni che sono largamente determinanti anche per la situazioneinterna, ma apre concretamente le porte ad una sprovincializzazione del-l’azione del partito, rivaluta una parte importante della nostra dottrina,stabilisce collegamenti e scambi di esperienze nazionali estremamente uti-li, rialza – in una parola – anche il tono dei nostri dibattiti interni.

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L’accenno sintetico ai problemi reali del Paese, ai modi per supera-re l’attuale crisi dello Stato, all’esigenza di una maggiore comprensio-ne della situazione internazionale, vale non tanto per un esame di me-rito dei singoli problemi, che è compito da svolgere in altra sede, main quanto ripropone, in stretta aderenza alla real tà, il problema dellafunzione e dei compiti specifici del partito e consente di affrontare conmaggiore consapevolezza le nostre que stioni interne.

La funzione, cioè, di un partito, che nel rivendicare la propria fun-zione contribuisca, assieme ad altre forze politiche, a rivalutare il siste-ma dei partiti e a vincere con le idee ed i fatti l’apatia, lo scetticismo,il distacco tra esso e la società civile, creando così le premesse anche psi-cologiche di un superamento co struttivo della polemica contro la par-titocrazia di derivazione qua lunquista.

L’opinione pubblica ha bisogno di riscoprire l’utilità della funzionedei partiti, di vederli aperti a recepire i fermenti nuovi che la società espri-me, di valutarne la capacità non tanto sul piano della conquista e dellagestione del potere, quanto su quello della costruzione pratica di nuoviordinamenti democratici: in un clima del genere diviene legittimo e pos-sibile, ad esempio, impo stare e risolvere il problema del finanziamentopubblico dei partiti, non più prorogabile se vogliamo salvare l’autono-mia dello stesso gioco politico e combattere pratiche rischiose e com-promettenti, che va in ogni caso collegato all’obbligo della pubblicazio-ne dei bi lanci e che potrebbe essere accompagnato almeno da un mini-mo di disciplina, anch’essa possibile senza rischi per la libertà d’associa -zione, delle procedure per la presentazione delle candidature nel quadrodi una legislazione elettorale che, pur restando proporzionale, introducail collegio nazionale per compensare l’eccessiva ri gidità del sistema.

In caso contrario anche la soluzione di questi problemi, che nondobbiamo lasciare sollevare ad altri per poi subirli passiva mente, po-trebbe pericolosamente rappresentare un ulteriore elemento di distac-co tra classe politica e società civile, un nuovo pretesto per le campa-gne qualunquiste ed anti sistema con tutte le conseguenze ne gative cheè facile prevedere.

Siamo giunti così ai problemi che investono direttamen te il parti-to. L’interrogativo che sorge a questo punto è il seguente: di fronte agliimpegni politici richiamati, che sono tutti decisivi per l’avvenire dellademocrazia in Italia, esiste una Democrazia Cristia na ricca quanto ba-sti di convinzioni ideali, di tensione morale, di strutture democratiche,di strumenti di presenza, di dialettica inter na, di classe dirigente?

Non alludiamo, evidentemente, ad una analisi dei princi pi o allamancanza di buona volontà. I primi sono fuori discussione, anzi sot-

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tolineano la nostra pigrizia ed il nostro ritardo, mentre la seconda esi-ste, in larga misura soprattutto alla periferia, tra i dirigenti, gli ammi-nistratori, i parlamentari.

Alludiamo alla situazione concreta del partito, così come essa si èvenuta configurando in questi anni, ed alla sua inadeguatezza – chepuò essere fatta risalire alla responsabilità di tutti – rispetto ai compitiimpegnativi che si trova di fronte con urgenza sempre mag giore daquando, avviata la politica di centro-sinistra sul piano delle combina-zioni parlamentari, ha potuto scoprire sul terreno dei contenu ti le pro-prie insufficienze in ordine ai temi di fondo di tale politica.

Su questo punto, non giova illuderci reciprocamente, la risposta èin gran parte negativa. Del resto questa Assemblea è stata convocataproprio al fine di individuare le cause delle disfunzioni, le ragioni del-l’immobilismo e della cristallizzazione interna, i rimedi per avviare uncorso nuovo che consenta alla DC di rilanciare con forza, con fantasia,con spirito nuovo, la sua determinante funzione.

Anche qui non serve attendere la salvezza dall’esterno, scaricare sualtri le responsabilità, rinfacciarci reciprocamente le colpe: serve unosforzo onesto, spregiudicato, per guardare senza infingimenti la realtàe per superare schemi organizzativi, di convi venza, di elaborazione po-litica, che non riflettono ormai più distin zioni corrispondenti agli im-pegni che ci attendono e sono la ragione principale della nostra scarsaproduttività ideale e politica.

Quali sono le condizioni interne che possono consentire alla DC dielaborare, sulla scorta dei propri ideali, delle posizioni politiche chiaresui problemi che abbiamo richiamato per svolgere una funzione di ini-ziativa, di stimolo, verso la coalizione di centro sinistra e per allargaretra i cittadini il proprio consenso nel paese?

Non interessa, qui, il dettaglio che deve essere appro fondito nellasede più idonea delle commissioni. Alcuni punti di caratte re generalesono tuttavia essenziali.

Il primo è quello della certezza del diritto nel partito. Occorre mo-ralizzare il tesseramento pubblicizzando al massimo le sue procedure,introducendo il correttivo del riferimento al voto elet torale, restituen-do cioè all’adesione al partito il suo valore di prose litismo e di allarga-mento alla partecipazione politica e limitando quello, che si rileva sem-pre più deteriore, di mezzo esclusivo per il controllo del potere inter-no. Occorre rivedere interamente l’imposta zione dei Collegi dei pro-biviri, eliminando il criterio della loro su bordinazione alle maggioran-ze politiche, assicurando una obiettiva amministrazione della giustiziainterna, vincolando le procedure e i tempi del giudizio, obbligando al-

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la pubblicazione delle sentenze, ga rantendo – in una parola – l’obiet-tività ed il prestigio di mezzi di tutela dei diritti dei soci nelle contro-versie interne. Occorre studia re forme nuove perché l’amministrazio-ne ed il controllo delle risor se finanziarie, le spese per le campagne elet-torali, i meccanismi delle designazioni, la partecipazione agli strumen-ti del partito, per le materie che non hanno attinenza con la linea po-litica, sulla quale è invece indispensabile il rispetto per la distinzioneod il dissen so, siano veramente aperti a tutti poiché in questo campola parità dei democratici cristiani, ed il bando di ogni pratica discri-minatoria, deve essere totale.

Non dimentichiamo che è proprio in questa delicata ma teria chesi determina la maggiore chiusura del partito poiché è la mancanza dicertezza del diritto, il clima di sospetto e di privilegio, che determinaspesso nei ceti nuovi, nei giovani, lo scetticismo ed il distacco dalla par-tecipazione politica.

Ma il secondo punto è quello di una maggiore democra zia interna.Non la democrazia per gruppi oligarchici gelosi del pro prio ruolo, mauna democrazia per tutti che rompa con l’intolleranza e con lo spiritoclientelare e sia saldamente ancorata alla circola zione delle idee, alle pos-sibilità di ricambio della classe dirigente, a rapporti di grande rispetto ecollaborazione tra partito e ammini stratori, tra partito e parlamentari,tra partito e suoi esponenti in vestiti di pubbliche responsabilità.

Rientra in questo quadro il problema della lotta al cumu lo delle ca-riche, che per gli incarichi di nomina amministrativa do vrebbe esserelimitato nel tempo a non più di due mandati consecutivi, del rispettorigoroso delle incompatibilità, di un libero e più fre quente passaggioda una esperienza all’altra all’interno del partito e nell’esercizio dei suoiimpegni esterni.

Non possiamo pretendere di essere aperti verso l’esterno, di arric-chirci di energie valide, di migliorare la nostra classe diri gente nel segnodi un pluralismo autentico e vissuto, se continuiamo ad essere, nella pra-tica il partito dei dirigenti, degli amministrato ri, dei parlamentari dei mi-nistri di ruolo, che durano tenacemente nonostante il variare delle poli-tiche, dei programmi, degli impegni della Democrazia Cristiana. Oc-corre ritornare al concetto della po litica come servizio, come crescita dalbasso come valorizzazione di tutte le energie valide, ovunque si trovino,abolendo la tendenza alla cooptazione, alla spartizione del potere fragruppi, all’uso del governo a fini clientelari o di puro equilibrio interno.

L’aspetto più delicato, sempre in materia di democra zia interna, èquello dei sistemi elettorali che è, a sua volta, collegato con la funzio-ne delle correnti.

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È ormai generale la critica alle correnti personalistiche o di potereche si chiudono in se stesse e costruiscono un siste ma di soffocanti oli-garchie, come è largamente condivisa l’utilità di correnti di pensieroche mantengano viva la dialettica interna, solle citino la ricerca e lo stu-dio, garantiscano da un immobilismo pericolo so la necessaria elabora-zione di tesi politiche.

Non abbiamo nessuna esitazione a dire che la proporzio nale con mo-zioni rigide, con l’ordine di lista prefabbricato, va radi calmente corretta;ma ciò non giustifica affatto il ritorno al maggiori tario, che ha rivelatoanaloghi se non peggiori difetti, né può sugge rire la scorciatoia di solu-zioni presidenziali che non risolverebbero, in pratica, nessun problema.Le nostre obiezioni non sono tecniche. Sono le motivazioni politiche cheaccompagnano queste tesi che ci preoccupano e che respingiamo.

Quando si sostiene che il solo modo di formare una maggioranzanel partito è quello di ricorrere ad un sistema elettorale, che per dareprestigio ad un «leader» occorre sganciare la sua inve stitura da sceltepolitiche, allora noi abbiamo il fondato sospetto che la partigianeria digruppo, le propensioni personalistiche, il deside rio di potere esclusivo,vincono ancora sulla ragione, sulle regole della democrazia interna, sul-la parità dei democratici cristiani ad essere considerati eguali anche difronte al dovere di qualificare politicamente la propria investitura afunzioni di comando e di guida.

Se vogliamo un esempio ravvicinato possiamo ricordare che, dalcongresso di Roma in poi, vi è stata e vi è più di una possi bilità di for-mare ampie e autorevoli maggioranze, nel pieno rispetto della funzio-ne delle minoranze, e se a questo risultato non si è giunti, arrivando alparadosso di nemmeno concludere con un documento va lido per tut-to il partito il dibattito congressuale, ciò si deve al rifiu to di scegliereal di là della logica dei gruppi uno schieramento più ampio dimo-strando quindi che la proporzionale è stata da molti accet tata più co-me mezzo tecnico che non come strumento capace di creare nuovi, di-versi, rapporti interni.

È certamente accettabile l’auspicio di sciogliere vecchi raggruppa-menti, di creare l’occasione di nuove e aperte convergenze e anche noisiamo disponibili se ci si muoverà con chiarezza e senza secondi fini inquesta direzione, ma l’esempio deve venire per primo da chi detiene lemaggiori responsabilità e dalla volontà, che è insie me politica e di me-todo, di creare le condizioni perché tale processo possa avvenire nonall’insegna del vogliamoci bene, ma sul terreno di una precisa e ine-quivocabile definizione degli impegni del partito in rapporto alla lineapolitica stabilita dai congressi.

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Ecco perché la generalizzazione della proporzionale, con le corre-zioni richiamate, può essere – a nostro avviso – una dimo strazione chelo spirito esclusivistico è superato senza riserve e che il confronto del-le tesi può avvenire senza limitazione perché al di là di esse, per reci-proco impegno, vi è la possibilità di risolvere cor rettamente, in termi-ni politici, il problema della formazione di mag gioranze autorevoli,chiare, rispettose della funzione delle minoran ze di oggi che possonodivenire la maggioranza di domani.

Vi è poi il punto delle strutture funzionali, organizzati ve, del par-tito. Anche qui i mutamenti devono essere radicali, ma –soprattutto –devono ispirarsi ad un disegno generale di riforma.

Occorre superare anche nel partito il tarlo roditore del centralismo,della routine burocratica, della svalutazione degli organi decisionali. Inumerosi uffici centrali devono lasciare il posto a pochi, qualificati,funzionali settori di lavoro, mentre va potenziata al massimo la strut -tura periferica, con una articolazione corrispondente alle trasforma -zioni della società ed alla nostra visione pluralista, e vanno creati mi-gliori strumenti di ricerca, di dibattito, di studio, di presenza sul pia-no della stampa e dei mezzi di informazione di massa.

In questo ambito acquista un peso decisivo, che può vale re comedimostrazione concreta della nostra volontà di attuare l’En te Regione,la riforma ed il potenziamento dei Comitati regionali che devono es-sere eletti democraticamente, dai congressi provinciali o da un con-gresso regionale, per avere il prestigio, l’investitura, la rappresentati-vità, necessarie per avviare con adeguati poteri di de cisione e di inizia-tiva la politica regionale della Democrazia Cristiana.

Anche qui non serve entrare nei dettagli, poiché gli amici che lovorranno potranno conoscere il mio pensiero attraverso la lettura di unprogetto dì riforma dei comitati regionali che presenterò in Commis-sione, serve – in sostanza – la volontà precisa non di aggiustare in qual-che modo le strutture organizzative esistenti, ma di mutarle profonda-mente a tutti i livelli come segno concre to dell’apertura, della volontàdi rinnovamento del partito per rag giungere con efficacia i propriobiettivi di presenza e di guida po litica.

Si può quindi dire, in conclusione, che la conquista di una ef-fettiva certezza del diritto, la realizzazione di una nuova de mocraziainterna, la trasformazione delle nostre strutture organiz zative, rap-presentano un insieme di obiettivi concreti che in uno con la vo-lontà di determinare la ripresa di una funzione di iniziativa e di sti-molo della Democrazia Cristiana sui problemi del Paese, sulla rifor-ma dello Stato, su di una più attenta valutazione della si tuazione in-

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ternazionale, possono veramente aprire un nuovo corso nella vitadel partito.

L’avvio di questo nuovo corso, però, richiede scelte precise e con-seguenti. Sappiamo che non è questa la sede per compierle; ma il Con-siglio Nazionale, e se non dovesse bastare, il congresso normale ostraordinario che sia possono, debbono, essere le sedi ove si verifichi alpiù presto se le speranze sollevate con l’Assemblea Nazionale possonodivenire realtà.

Per quanto ci riguarda non mancheremo alla prova della responsa-bilità, della chiarezza, della disponibilità al superamento degli schemitradizionali. Può essere tuttavia opportuno sa pere che la condizionedelle condizioni è, almeno per noi, la volon tà che tutti devono dimo-strare – e in primo luogo pensiamo debba dimostrarlo il segretario delpartito – di chiudere un capitolo della nostra esperienza interna e diaprirne, con tutto il coraggio neces sario, uno effettivamente nuovo. Secrediamo alle diagnosi che abbiamo compiuto, e non c’è ragione di du-bitarne a priori, dobbiamo superare una situazione interna che cristal-lizza ogni posizione, realizza solo equilibri di potere, costringe il parti-to al conformismo ed all’immobilismo nel momento in cui massimadovrebbe essere la sua prova di fantasia e di iniziativa. Non è assoluta-mente in gioco il bene dell’unità che tutti vogliamo difendere. Perrafforzare essa si potrebbe addirittura stabilire statutariamente l’elezio-ne con voto limitato di tutti gli organi direttivi, dalla direzione centraleai direttivi sezionali, da non confondere con quelli esecutivi, che do-vrebbero riguardare solo le maggioranze, in modo da garantire sempree fuori da patteggiamenti di potere la presenza qualificata delle mi -noranze in quanto tali ad ogni livello. Si tratta, più semplicemente, diritornare al libero confronto tra una maggioranza che governi il parti-to sulla base di una linea politica e una o più minoranze che eserciti-no, senza confusione di responsabilità esecutive, la loro funzione di sti-molo e di controllo. In questa prospettiva attuiamo pure, e con solle-citudine il disarmo bilanciato e controllato delle correnti. Ma perchéil processo si avvii bisogna avere la consape volezza che occorre usciredal castello incantato di una unanimità priva di qualificazione politi-ca, di slancio organizzativo, di autenti ca volontà riformatrice, che ser-ve soltanto a dare a ciascuno un pezzo di potere, un pezzo di dignitàideologica, un ruolo falso e prefabbricato, costringendo però tutti inun sistema in cui siamo ad un tempo responsabili e vittime e che im-pedisce – in sostanza – alla Democrazia Cristiana di trovare la forza diessere all’altezza dei suoi compiti verso il Paese, verso lo Stato demo-cratico, verso i propri ideali.

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Sappiamo che il nostro dovere è in ogni caso, quello di continua-re a servire il partito; lo faremo con onesto e leale spi rito di collabora-zione se si creeranno le condizioni auspicate, ma non mancheremo disvolgere – come abbiamo fatto in passato – la nostra funzione stimo-latrice e di battaglia nel caso contrario poiché sappiamo che è comun-que necessario preparare i tempi affinché quello che oggi non fosse an-cora possibile possa, almeno, verificarsi domani. E ciò non per un ma-linteso spirito di gruppo, che è cosa marginale, destinata a passare, maper la Democrazia Cristiana che resta al di sopra di ciascuno di noi eche ha bisogno per svilupparsi della dialettica delle idee più delle inte-se di potere.

Sarebbe un vero peccato che dal quadro stimolante tracciato dal-l’on. Forlani con la sua relazione, da un dibattito ricco e vivace comequello che si è svolto, l’Assemblea nazionale – e soprattutto le conclu-sioni che da essa trarrà il segretario politico del partito – non sapesse-ro indicare le scelte operative con crete per determinare una svolta nelmodo di essere della Democrazia Cristiana sia nella sua vita interna, sianella sua azione, nel Parlamento e nel Paese. Sarebbe un’altra occasio-ne perduta e la delusione della periferia potrebbe essere addirittura fa-tale: c’è da augurarsi il contrario nell’interesse del partito e della De-mocra zia italiana.

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La figura di De Gasperi*

Luigi Granelli intervenne a Grado per commemorare Alcide De Ga-speri a dodici anni dalla morte. Nel testo del suo discorso – predisposto perl’occasione e conservato, inedito, tra le carte del suo archivio – viene ri-percorsa l’intera vicenda umana e politica dello statista trentino.

Nel giugno del 1957, in occasione del voto di fiducia al governo mo-nocolore del democristiano Adone Zoli – che si reggeva col sostegno deter-minante di un voto missino – Granelli, sulle colonne de «Il Popolo Lom-bardo», motivò la scelta di dialogo con il Partito socialista richiamandosia De Gasperi. Il politico trentino, «con l’Aventino, prima del fascismo econ il no all’operazione Sturzo», aveva indicato con chiarezza ai cattoliciil modo per salvaguardare la democraticità del Paese. E, per uscire dallasituazione di crisi della politica centrista, Granelli ripropose l’esempio delfondatore della Democrazia cristiana, riportandone la celebre formula chevedeva nella DC «un partito di centro che si muove verso sinistra».

Cari Amici,ho accettato di buon grado l’invito che mi è stato rivolto a venire fra

voi per tratteggiare – nei limiti di una significativa e sintetica comme-morazione – il ricordo che fra tutti noi ha lasciato non solo il contattopersonale, ma l’opera politica di Alcide De Gasperi nel nostro Paese, per-ché credo sia dovere di tutti i democratici cristiani ed, in particolare, del-le giovani generazioni democratiche cristiane ripercorrere con serietà econ spirito aperto la esperienza dei leaders e dei maestri, che ci hannopreceduto nel solco della vicenda politica e dell’esperienza storica.

Ho accettato molto volentieri di venire fra voi a dare il mio mode-sto contributo nella rievocazione della personalità politica, culturale,

* ASILS, Fondo Granelli, serie VIII, sottoserie 2, b. 22.

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morale e storica di Alcide De Gasperi, nel ricordare le tappe più signi-ficative del suo lavoro, anche perché credo che siamo tutti convinti che,a dodici anni di distanza dalla sua scomparsa, non si tratta in una sederaccolta come questa di fare della retorica o della apologia, ma si trattaveramente di consacrare il ricordo di quella esperienza con un impegnoa continuare – nei limiti della mutata situazione storica del nostro Pae-se – il grande insegnamento e il significato della grande opera.

Del resto, se vogliamo essere in armonia con la grande personalitàche commemoriamo questa sera, noi sappiamo – lo sanno soprattuttoquelli che hanno avuto l’onore e la fortuna di conoscerlo personal-mente – quanto Alcide De Gasperi fosse nella sua esperienza politicaschivo da atteggiamenti retorici, schivo da atteggiamenti puramenteapologetici e – con la stessa caratteristica del suo carattere rude, qual-che volta aspro, sempre schietto e sempre sincero – fosse legato invecealla valutazione obiettiva dei fatti storici e delle esperienze personali.

Credo che niente sarebbe più contrastante con la personalità, conil carattere, con gli insegnamenti che De Gasperi ci ha lasciato, che ilridurre la rievocazione della sua opera ad una pura esaltazione apolo-getica che non lasciasse nel nostro cuore, nella nostra coscienza, l’im-pegno di dover continuare, ma soltanto la soddisfazione formale diaver adempiuto ad un rito d’obbligo.

Credo che questa sarebbe la peggiore commemorazione che noi po-tremmo fare di De Gasperi, mentre invece – proprio richiamandoci alsuo insegnamento – si tratta di lumeggiare le doti dell’uomo, di valuta-re l’importanza della sua opera, di guardare dentro all‘insegnamentoche ci ha lasciato e di capire soprattutto il peso della responsabilità chela sua eredità ha lasciato sulle spalle della classe dirigente democratico-cristiana, per portare avanti con coerenza e con chiarezza un disegnostorico che, a mio avviso, mantiene ancora la sua validità.

Ma allora, se questo è il nostro scopo, se l’intenzione – perlomenodi imitarla – non è soltanto quella di fare un ritratto di una grande per-sonalità, ma di fare assieme a quello un esame di coscienza per vederequal è il dovere di ciascuno per rendere viva, produttiva e costruttivaquesta nostra ripercorsa all’indietro, questo nostro collegamento conle tradizioni, come possiamo cominciare? Dove possiamo agganciare lanostra rievocazione iniziale?

Credo che il punto d’attacco di un discorso su Alcide De Gasperi,a dodici anni dalla sua scomparsa, debba essere anzitutto un puntod’attacco umano, cioè un richiamo che mi colpì, in maniera partico-lare nel momento della sua morte. Seppi della morte di Alcide De Ga-speri proprio mentre tornavo da un periodo di riposo nelle Dolomiti.

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E mi ricordo che – da quando seppi la notizia a quando arrivai a Mi-lano nella mia abitazione – tutte le persone che incontravo erano scos-se dall’avvenimento. Il Paese aveva avuto quasi un brivido. Aveva sen-tito che in quel momento non era morta soltanto una personalità, unuomo che aveva dato tanto al servizio del Paese, ma si era perso quasicome un punto di riferimento, una personalità, che – oltre ad aver ser-vito il Paese – serviva ancora per orientare l’avvenire del Paese stesso.E la domanda che mi posi allora e che mi pongo adesso, proprio comeinizio della nostra rievocazione, è proprio questa. Capita spesso nellavita politica che uomini di grandi responsabilità, che muoiono o scom-paiono all’apice del loro successo, abbiano un giusto tributo di popo-lo. Però il caso di De Gasperi era diverso, ed era particolarmente si-gnificativo. Alcide De Gasperi non è morto nel momento in cui la suaesperienza politica era all’apice, non è morto nel momento del succes-so personale, anzi – se si guarda la realtà vera delle cose, spogliandolada particolari circostanze – si deve riconoscere che la morte ha colpitoDe Gasperi in un momento in cui si poteva giudicare avviato il suo de-clino politico. Dopo l’abbandono del Governo nel ’53, dopo la crisidella CED, si poteva considerare De Gasperi ormai nel declino della suaesperienza politica e, comunque, non nell’onda del successo, che por-ta con sé tanti tributi di popolo, ma, molto spesso, anche tributi di na-tura formalistica.

Qual è la ragione per cui De Gasperi con la sua morte, nonostan-te il declino parziale della sua fortuna politica, è stato in grado di su-scitare tanta commozione, tanta preoccupazione, tanto slancio popo-lare, come non abbiamo visto nella scomparsa di altri, pur valenti, uo-mini politici?

E se vogliamo dare una risposta a questo interrogativo, dobbiamodire che la capacità dell’uomo si è manifestata anche nel momento incui la sua stella politica non era, come si dice comunemente, all’apicedel successo. È opportuno infatti riscoprire subito una dote particola-re di De Gasperi, di cui forse la classe politica è solitamente povera, chesarebbe importante rivalutare: cioè la dote di saper tenere con schiet-tezza, con chiarezza, con parole semplici, senza secondi fini, un con-tatto diretto umano con la società nazionale, con la coscienza popola-re, con i problemi della gente, con le responsabilità politiche, cioè lacapacità di immedesimarsi a tal punto nei problemi della vita nazio-nale, per cui il contatto con la gente era permanente, indipendente-mente dalle vicende politiche più o meno fortunate.

E questo è un fattore importante perché la forza che Alcide De Ga-speri ebbe, come vedremo, in alcuni momenti politici particolarmen-

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te difficili, quando si trattava di fare scelte rischiose, la forza che diedea De Gasperi la possibilità di compiere queste scelte, era la sua capa-cità di interpretare la coscienza del Paese, di essere legato a qualcosa divivo, di non intendere la politica come un mero equilibrio di forme edi forze, ma di intendere la politica come servizio della coscienza na-zionale, come legame con la coscienza popolare del Paese.

E allora, il primo insegnamento che scaturisce dalla dote dell’uo-mo è proprio questo: di intendere la vita democratica come un’espe-rienza in ogni caso di servizio al popolo, di servizio alla coscienza na-zionale, di servizio allo Stato.

Qualcuno con malizia mi ricorda il «Candido». Dopo il suo ritirodal Governo, quando – preso dal dramma in cui si trovava dopo unalunga esperienza politica – non pensò a ritirarsi a vita privata, ma tra-sferì la sua attività, il suo lavoro, il suo impegno al partito come segre-tario politico, proprio allora al Congresso di Napoli lascerà in ereditàil più bel documento della sua esperienza politica. Il «Candido» in quelperiodo cercò di ironizzare su questo passaggio di De Gasperi dal Go-verno alle responsabilità di partito; e qualcuno – non ricordo se Gua-reschi o altri – cercò di presentare tutti i gesti successivi di De Gaspe-ri, segretario politico del partito, come mere ambizioni per indebolireil successore al Governo e riprendere in mano il potere.

Nessun giudizio è più falso di questo, perché basta vedere gli atti,i documenti, il modo col quale Alcide De Gasperi ritornò all’impegnopolitico a livello di partito, per capire che il suo intento non era di ri-tornare a fare il Presidente del Consiglio, come qualche volta capitanell’alchimia politica; De Gasperi aveva invece capito che la crisi delcentrismo era una crisi di tali proporzioni che occorreva ricercare nelPaese, attraverso i partiti, le condizioni per la necessaria evoluzione po-litica.

La sua azione non era perciò del tipo di quelli di chi dal Governopassa al partito per ricreare le condizioni di una crisi, ma di chi, aven-do capito le ragioni della crisi di Governo, ritorna al partito con slan-cio giovanile, nonostante le precarie condizioni fisiche dovute all’età;ritorna al partito per servire la causa della evoluzione democratica e percreare le condizioni dello sviluppo corretto della democrazia italiana.E anche la sua famosa definizione del Governo Pella come Governo«amico» non aveva l’aria di un attacco alla persona o alla formula, maaveva un significato di impedire che da una formula generica di ordi-naria amministrazione si potesse innestare una tendenza involutiva,che avrebbe fermato un’evoluzione che invece De Gasperi giudicavaimportante nella vita nazionale.

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Se si guarda dentro a queste malignità che negli ultimi anni lo ave-vano tanto amareggiato, si deve confermare che le doti dell’uomo era-no accompagnate dalla consapevolezza di un disegno storico di fondopiù che da questioni marginali di potere o di affermazioni personali. Eallora, queste doti di carattere, la capacità dell’uomo di mettersi in con-tatto con la società nazionale e con i suoi problemi, la visione strategi-ca di fondo, anche nel momento in cui certe scelte erano clamorose,come la rottura del tripartito, come la scelta del Patto Atlantico, comela scelta repubblicana, il passaggio difficile da un sistema precedente adun altro, davano sicurezza al Paese. Sul terreno dell’attività politica, lagaranzia che De Gasperi dava era proprio quella della consapevolezzadi portare avanti un superiore disegno storico e di aver sempre presen-ti le condizioni di fondo della vita politica italiana.

Quindi, accanto alle doti dell’uomo, che abbiamo già ricordato,dobbiamo richiamarci anche agli insegnamenti politici, agli insegna-menti storici che erano nella sua opera. Ma prima di arrivare a vederein maniera analitica i più significativi di questi insegnamenti, io mipermetto di ricordare alcuni fatti che aiutano a spiegare la formazionedella sua personalità e della sua consapevolezza del problema politicoe storico nazionale. Mi riferisco cioè al De Gasperi giovane, che anco-ra non aveva posizioni di successo personale, al De Gasperi che nonaveva ancora come suo merito quello di aver consentito la ripresa del-la democrazia italiana, di aver fatta la ricostruzione, di aver rotto il tri-partito, di aver inserito l’Italia in un contesto internazionale confacen-te con la propria civiltà, al De Gasperi che si affaccia all’esperienza po-litica, perché forse in quei momenti meno noti, meno circondati dalsuccesso personale, noi vediamo già il delinearsi di una grossa perso-nalità politica che, nelle fasi centrali delle vicende di cui era partecipe,aveva già la capacità di dare degli orientamenti, di dimostrare una chia-rezza di opinioni politiche e una lungimiranza di visioni.

E non mi riferisco tanto al De Gasperi giovanissimo, che faceva lebattaglie per l’Università, che cercava di difendere gli interessi dell’Ita-lia nel Parlamento austriaco – nonostante le accuse calunniose che poigli verranno fatte successivamente – ma al De Gasperi che, alimentatoe cresciuto alla scuola dell’insegnamento sociale cristiano, si pone il pro-blema dell’attuazione pratica dei principi, che apparivano molto ricchinei nostri testi, ma erano così poveri di testimonianza storica concreta.

Cioè, al De Gasperi che non a caso sente la sua attrazione per quelfenomeno storico-politico costituito dalla nascita del movimento po-litico dei cattolici, che ebbe in Luigi Sturzo il grande teorico ed il gran-de combattente delle origini.

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De Gasperi si avvicinò naturalmente al movimento politico deicattolici democratici proprio perché aveva capito – nel tormento dellasua preparazione alla insegna dei principi sociali cristiani – che i cat-tolici dovevano non solo avere il vantaggio di alcuni principi fonda-mentali, ma dovevano porsi il problema storico di come trasferire que-sti principi nella realtà politica, nella realtà istituzionale dopo un lun-go periodo nel quale i cattolici erano stati all’opposizione, erano estra-niati dallo Stato, vivevano, in una certa misura, lontani dai problemipiù vitali della società italiana.

È De Gasperi che si avvicina al partito popolare; De Gasperi che,subito in armonia con Sturzo, ne condivide sostanzialmente le grandiaffermazioni di principio come quelle espresse al Congresso di Bolo-gna, secondo cui il Partito Popolare non impegnava la Chiesa, ma im-pegnava se stesso, era un partito che si poneva al servizio del Paese conlealismo costituzionale, rigettava l’integralismo, poneva i problemi delMezzogiorno, dava una coscienza storica nazionale al movimento po-litico dei cattolici.

Subito De Gasperi ebbe posizioni e funzioni di primo piano, chegli diedero il senso dell’importanza di quella adesione e soprattutto ilsenso della necessità di non essere assenti nella grande contesa politi-ca, accontentandosi soltanto di una contemplazione dei principi anzi-ché di una azione concreta al servizio di essi. E più tardi verso la finedella sua esperienza, nella prefazione che scrisse per la biografia del To-niolo fatta da Vistalli, De Gasperi rivelerà di essersi posto proprio que-sto interrogativo. Come mai, dal Toniolo in giù, nonostante tutte leconquiste teoriche, tutti gli sforzi di elaborazione, tutte le affermazio-ni di principio di cui erano ricche le scuole della sociologia cristiananel nostro Paese, (si domanda De Gasperi) l’opera del Toniolo fu cosìpriva di risultati pratici, di concretezza storica nella vita del nostro Pae-se? E soggiunge: fu assente, fu poco produttiva, non per carenza diprincipio, ma perché l’estraneità dei cattolici nella vita politica nazio-nale non faceva fruttare quei principi, per cui era necessario dar vita aun movimento politico, far uscire i cattolici dall’assenteismo, impe-gnarli sul concreto dell’esperienza costituzionale, fare di essi una forzarappresentativa per gli interessi migliori del popolo italiano che nonerano interpretati dalla vecchia classe liberale.

Quindi, già l’idea del partito, del movimento politico legato allasocietà, ricco di iniziative e di principi, ma volenteroso di realtà e dicostruzioni storiche, fa di De Gasperi l’uomo che è già fra i protago-nisti di quelle prime vicende, di quelle prime battaglie. C’è già il ger-me dello statista di domani, del condottiero politico della Democrazia

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Cristiana di domani, dell’uomo che ha capito che sulle spalle e sullacoscienza dei cattolici italiani pesa questa responsabilità.

Credo si debba sostanzialmente a questa forma iniziale, a questaconsapevolezza, a questa esperienza storica, se noi dopo la tirannide fa-scista abbiamo avuto la possibilità di mettere a disposizione del Paesedei democratici maturi e responsabili. È facile affermarlo ora, quandoè ormai pacifico, acquisito, che in Italia i cattolici sono una grande for-za politica popolare, accettata, pacificamente, non solo dalle masse maanche da ambienti esterni, tradizionalmente ostili ai cattolici. Ma pen-sate a quei tempi. Qui ci sono forse degli amici che possono ricordarei tempi drammatici del ’19, del ’22, del ’24. I tempi, cioè, in cui an-dava sgretolandosi il sistema instaurato dalla classe politica liberale, edi cento deputati del PPI avevano sulle loro spalle una grande responsa-bilità. Bisogna ricordare quelle vicende, quando l’avvento del fascismoaveva persino portato allo uso strumentale di certe questioni che sta-vano a cuore ai cattolici, per colpire il partito popolare, per impedireuna presenza politica dei cattolici in Italia.

È opportuno ricordare l’uso strumentale che Mussolini fece dellaquestione romana, nell’intento di dimostrare che se non si risolvevano irapporti tra Stato e Chiesa, ciò era dovuto alla presenza ingombrante diun partito politico di cattolici che serviva soltanto per sfogare le ambi-zioni di Sturzo o di De Gasperi, che allora era presidente del gruppo par-lamentare, e andava tolto di mezzo. E non dimentichiamo che in quelperiodo molti cattolici cedettero, accettarono l’illusione che il fascismocon l’autorità, l’ordine, la soluzione della questione romana, potesse rap-presentare una soluzione dei problemi del Paese. Gli uomini che noi og-gi onoriamo scelsero invece la via dell’esilio, non piegarono di fronte alfascismo, sacrificarono i loro affetti familiari, il loro destino professiona-le, ma salvarono col loro eroismo l’eredità storica di cui oggi noi godia-mo. Perché senza l’eroismo di quegli uomini negli anni del ’19, del ’22,del ’24, non ci sarebbe stata nel ’45 una legittima posizione della De-mocrazia Cristiana nella democrazia italiana. Ed è doveroso allora chenoi in questo momento non ricordiamo solo gli aspetti di successo del-la politica degasperiana, ma ricordiamo anche gli anni dolorosi della vi-gilia dell’antifascismo militante, della capacità di sacrificare i propri sen-timenti, di finire, come finì De Gasperi, dapprima in carcere, poi, estro-messo e oscuro, bibliotecario in Vaticano, pur di tenere alta la bandieradella non compromissione con il fascismo, della chiarezza e della fedeltàai principi della democrazia e della disponibilità a servire il Paese.

Vediamo perciò in De Gasperi fin dalla gioventù non un uomo chenon sceglie, o che preferisce la tattica alle assunzioni di responsabilità,

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ma un uomo che dalla sua esperienza trentina via via si immedesimanella storia del movimento politico dei cattolici, fa proprie le idee diLuigi Sturzo, diventa un leader, un capo del Partito popolare, non nel-la fortuna e nel successo, ma nelle difficoltà, nella lotta, nella battaglia,nel sacrificio, nelle prove dure, e quindi unisce il rafforzamento del suotemperamento, del suo carattere, a una grande dote di coerenza mora-le e di rilievo concettuale fra le cose che si pensano e gli atti che si com-piono.

La personalità politica e storica di De Gasperi formatasi in annitanto duri ci ha consentito, all’indomani della Resistenza, di assolvereal compito di ricoprire nel nostro Paese un ruolo determinante che tro-va le sue origini proprio nell’eroismo di quel tempo. Ma al di là dell’e-sempio giovanile e delle vicende formative di Alcide De Gasperi credoche sarebbe inutile per quanto riguarda la sua opera successiva, tenta-re una ricostruzione dettagliata dei fatti politici che furono alla basedell’esperienza storica di Alcide De Gasperi, mentre ritengo più pro-duttivo, nell’economia della nostra commemorazione, ricordare alcu-ni insegnamenti preziosi che, attraverso le vicende politiche del Paese,egli ci ha lasciato. Il primo insegnamento, che ancor oggi rimane vali-do, riecheggia in un certo senso le preoccupazioni che De Gasperi ave-va nel periodo del fascismo, quando pensava alla ripresa della tradizio-ne democratica, alla ripresa della costruzione di un movimento politi-co dei cattolici nel nostro Paese.

De Gasperi infatti, durante la Resistenza, durante gli anni dellapreparazione della guerra di liberazione, è particolarmente attivo, èparticolarmente tenace, riprende i contatti coi vecchi militanti antifa-scisti, coi vecchi amici dispersi del partito popolare, e con gli esponentipolitici degli altri gruppi di diverso orientamento ideologico. De Ga-speri, cioè, appena vede aprirsi nel nostro Paese la possibilità di un ri-torno alla vita democratica, vi si dedica attivamente approfondendoanche sul piano concettuale la conquista che aveva raggiunto all’iniziodella sua esperienza politica, cioè la necessità, non solo di ritornare al-la vita politica dopo la sconfitta del fascismo, ma di ritornarvi con deimezzi adeguati a superare la crisi di fondo dello Stato italiano.

C’è infatti una diversità sostanziale tra il modo di rientrare nellapolitica del dopoguerra di Alcide De Gasperi e quello di altri, pur glo-riosi personaggi politici del periodo precedente al fascismo, che sonorientrati come notabili che dovevano essere ascoltati per i meriti delpassato, per la posizione avuta in precedenza, ma che non si propone-vano un ruolo attivo e diverso dal passato nella vita democratica ita-liana.

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De Gasperi non si limita a rientrare nella vita politica, a riprende-re i contatti coi propri amici di partito, coi propri colleghi e con gli al-tri esponenti della classe democratica del Paese, ma dedica le prime cu-re, le sue cure più importanti, alla ricostruzione di un partito politico.C’è in lui la consapevolezza che non è più possibile fare politica nelmodo tradizionale: che la realtà del Paese richiede che tra le grandi for-ze popolari soprattutto la forza popolare cattolica rappresenti la spinadorsale del Paese, e che per far ciò debba darsi una struttura, una for-za, una realtà di partito.

Ricordo bene, anche se ero giovanissimo allora, le vivaci discussio-ni che su questo punto si fecero.

E molti amici di Alcide De Gasperi, che avevano fatto con lui l’e-sperienza pre-fascista, erano tendenzialmente portati a riprendere il no-me glorioso – che del resto aveva ben meritato – di Partito Popolare.

Ma De Gasperi già in quello dimostrò un’apertura verso l’avveni-re, una preoccupazione che altri colleghi non avevano, cioè la preoc-cupazione che il nuovo partito dei cattolici democratici italiani, se fos-se risorto come Partito Popolare, forse avrebbe mobilitato i vecchi,quelli che ne avevano conosciuto l’esperienza precedente, ma forse sa-rebbe rimasto una realtà sconosciuta rispetto ai quadri dell’Azione Cat-tolica, rispetto ai giovani che uscivano dalla Resistenza, rispetto a co-loro che non avevano conosciuto l’antifascismo del ’22; e che doveva-no essere mobilitati su un piano di eguaglianza nella partecipazione,per dar vita non ad un partito di élite e di vertice, come fu forse il Par-tito Popolare, che non a caso ebbe a soccombere di fronte agli attacchimassicci del fascismo, ma per realizzare un grande partito di massa cheriuscisse a mescolare nel suo interno le esperienze, la tradizione, le aspi-razioni, le tendenze e le spinte giovanili che venivano dalla Resistenzae dai quadri che uscivano dall’azione cattolica.

Questo è un tipico esempio di sintesi nella posizione politica di DeGasperi, sempre orientata a valorizzare l’esperienza storica, a non di-menticare mai quello che si è conquistato nel passato, ma al tempo stes-so aperta verso l’avvenire, comprensiva dei fermenti nuovi, capace di ve-dere più in là di quello che era un puro e semplice ritorno all’eserciziodell’attività politica nei termini con i quali l’attività politica era conce-pita prima dell’avvento del fascismo. E si può certamente dire che do-po Sturzo, De Gasperi fu il continuatore di maggior rilievo della tradi-zione del partito politico dei cattolici in Italia. Ci sono nei discorsi, ne-gli scritti, nelle posizioni politiche di De Gasperi, delle affermazioni diprincipio che lo rendono il continuatore delle intuizioni che ebbe Lui-gi Sturzo nella composizione, nella scoperta, nella impostazione con-

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cettuale, pratica e politica del partito dei cattolici italiani. Chi non ri-corda le polemiche che De Gasperi seppe fare contro i tentativi dei Co-mitati civici di diventare un’organizzazione parapolitica? Chi non ri-corda la tenacia con la quale De Gasperi affermava sempre, in tutte leoccasioni, che il partito non era la Chiesa, che il partito aveva la sua re-sponsabilità, una sua autonomia; una autonomia che era ristretta allarealtà politica, mentre per le altre attività sosteneva un pluralismo di ini-ziative dei cattolici, ribadendo che non si dovevano assolutamenteconfondere i piani? Chi non ricorda il suo atteggiamento di fermezza altempo dell’operazione, definita impropriamente come operazione Stur-zo, a Roma, quando si voleva sostituire la lista politica della Democra-zia Cristiana con una concentrazione qualunquista ed equivoca perconquistare il comune in quella città? In tutti questi atti noi vediamonon il De Gasperi che reagisce capricciosamente, non il De Gasperi chedifende, direi, il suo particolare punto di vista, ma il De Gasperi che dacattolico democratico difende l’eredità di Luigi Sturzo, cioè la necessità,la consapevolezza che i cattolici italiani non possono fare politica comemovimento soltanto elettoralistico, che i cattolici non possono stru-mentalizzare i voti cattolici in parlamento, come poteva essere possibi-le al tempo di Giolitti, che i cattolici devono mantenere come loro con-quista pratica e teorica la realtà di un partito politico, cioè la realtà diun partito democratico moderno, con la sua struttura, con il suo statu-to, con la sua responsabilità, con una sua capacità, quindi, di avvalersidel principio delle ispirazioni del Magistero della Chiesa, ma che poiesprime responsabilmente e autonomamente sul piano storico la sua ca-pacità operativa, la sua iniziativa di fronte ai problemi concreti.

Nella esperienza del dopoguerra troviamo in De Gasperi anzituttoil cattolico democratico, che difende la concezione del partito, al di làdegli uomini, al di là delle contingenze, al di là delle polemiche mar-ginali, e la difende non facendo dell’integralismo, non usando la reli-gione a scopi politici, ma assumendo la missione universale del cri-stianesimo, e mobilitando la coscienza civile, la coscienza politica deicattolici attorno ai problemi concreti, del nostro Paese. Al punto chenoi dobbiamo oggi dire con molta chiarezza che se per avventura, ungiorno noi dovessimo ritornare verso la formula del movimento elet-torale dei cattolici, più che del partito politico democratico dei catto-lici, in quel momento noi tradiremmo l’eredità politica di De Gaspe-ri, che ci ha invece insegnato a difendere responsabilmente la realtà delpartito politico che oltretutto ci consente di sentirci pari a pari con lealtre forze politiche e di esercitare quindi la nostra azione su un pianodi autonomia e di libertà.

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Quindi De Gasperi ci ha lasciato come eredità, come insegnamen-to, questa figura del cattolico democratico, dell’uomo che ha capitol’importanza del partito rispetto allo Stato, dell’uomo che non volevaabusare della propria fede per mettere in piedi degli steccati per crearedelle divisioni artificiose, ma che guarda alla politica, allo Stato, comeal regno della tolleranza, della convivenza, dell’umanesimo cristiano enon delle ideologie chiuse o delle lotte acerrime per il potere o per ladistribuzione del potere. È questa la concezione del partito politico chepossiamo e dobbiamo dire ancor oggi moderna e aperta.

Ma accanto a quello del cattolico democratico, De Gasperi ci halasciato un altro insegnamento, che qui noi dobbiamo ricordare, so-prattutto qui, dove ebbe a passare dei momenti particolarmente diffi-cili. Dobbiamo ricordare la figura del patriota serio, che ama la propriapatria non con atteggiamenti gladiatori, retorici, demagogici, ma conil senso della tolleranza, del rispetto delle minoranze etniche; che ca-pisce che se la Patria rappresenta un legame morale che tiene uniti i cit-tadini di un Paese, indipendentemente dalle loro fedi religiose e dalleideologie politiche, capisce anche che è tramontata l’era del nazionali-smo e che la Patria non si difende con la retorica, con l’esaltazione, conl’esasperazione, ma salvaguardando seriamente l’integrità dei suoi con-fini e al tempo stesso aprendo la via della collaborazione, del rispetto,della tolleranza con gli altri paesi per una migliore convivenza nell’or-dinamento internazionale.

Ho avuto modo di sentire, proprio recentemente, la registrazionedel discorso di De Gasperi a Parigi in occasione della discussione sultrattato di pace: quanta dignità nella difesa dell’interesse nazionale! Neisuoi contatti con l’America negli anni difficili, quanta serietà, quantadignità, quanta lungimiranza. E quanto grande la sua preoccupazionequando difese la questione di Gorizia e voi avete fatto bene a rievoca-re con le vostre pubblicazioni quegli atti e quegli atteggiamenti. Quan-do si trovò di fronte alla durezza della situazione nella quale dovevamuoversi, egli non perse mai la bussola. Non cadde mai nella tenta-zione di apparire difensore a parole dell’interesse nazionale per fare bel-la figura di fronte ai cittadini italiani, ma fece sempre il suo dovere dipatriota con molta compostezza, con molta serietà, con un intento co-struttivo, come si addice alla coscienza democratica di uno statista enon come poteva essere nella tradizione nazionalista, quella dei moltidemagoghi che del nazionalismo hanno fatto spesso oggetto per affer-mazione personale o peggio per sollecitazione di istinti deteriori.

Proprio qui a Grado (ho visto che lo avete rievocato nel vostro do-cumento) De Gasperi ebbe non poche preoccupazioni per la piega de-

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gli avvenimenti che, durante il Governo Pella, la questione del Terri-torio libero di Trieste andava prendendo.

Dopo il famoso discorso in Campidoglio del Presidente Pella, ilfatto che De Gasperi abbia definito il Governo Pella come Governo«amico» testimonia appunto la preoccupazione di De Gasperi che unproblema sacrosanto di italianità che doveva essere correttamente im-postato, non servisse a esaltare delle sobillazioni nazionalistiche, nonservisse a travisare il sentimento patrio in una esasperazione che pote-va essere occasione di sventura o di tensioni nei rapporti tra i popoli.Accanto al cattolico democratico, De Gasperi ci ricorda perciò il pa-triota democratico consapevole di dover difendere gli interessi reali delPaese, il patriota alieno però dalla retorica, dagli atteggiamenti gladia-tori e inutilmente demagogici ma sofferente della sofferenza dei citta-dini stessi, e capace quindi di avere all’estero quel prestigio che ha con-sentito all’Italia di rimontare la china del dopoguerra. Perché oggi sap-piamo che l’Italia ha un prestigio nel campo internazionale, sappiamoche il nostro Ministro degli Esteri ha potuto essere Presidente dell’As-semblea dell’ONU, sappiamo che non c’è nessuna sede internazionalenella quale l’Italia non sia considerata come un Paese civile, come unPaese moderno. Ma dobbiamo questo alla grande capacità di De Ga-speri di esercitare la difesa dell’interesse nazionale in termini democra-tici, in termini aperti, in termini dignitosi, in modo da conquistarsigradualmente degli alleati e quindi il rispetto e la fiducia nel mondointernazionale.

Ma oltre al cattolico democratico ed al patriota, mi pare di doverricordare qui, in armonia con le affermazioni che facevo poco fa, an-che e soprattutto l’europeista convinto. Chi lo ha seguito negli ultimimomenti sa che il suo maggior dolore fu, oltre a quello prodotto daldeclino di una certa formula di collaborazione democratica all’internodel Paese, quello prodotto dal crollo della CED. Sembra una contrad-dizione che Alcide De Gasperi – l’uomo dalla esperienza parlamenta-re, il democratico, lo statista, l’uomo che in certi momenti, soprattut-to alla rottura del tripartito, quando la piazza era abbastanza calda ec’erano pressioni per far intervenire l’esercito e la polizia, si oppose al-l’uso della forza, dimostrando anche in questo molto senso di misura,molto senso di responsabilità – sembra strano che uno statista comeDe Gasperi, animato da questa esperienza democratica, parlamentare,aliena dal ricorso alla forza per affermare il diritto dello Stato, avesseavuto il pensiero di mandare avanti l’unificazione europea attraversol’unificazione degli eserciti. Sembra una contraddizione; eppure nonlo era, perché De Gasperi sapeva che il primo ostacolo da vincere, per

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evitare il risorgente nazionalismo dei vari Paesi, era proprio quello dimettere in comune lo strumento più pericoloso.

De Gasperi sapeva che se si cominciavano a mettere assieme, at-traverso la CED, gli eserciti e cioè gli elementi più contradditori a unapolitica comunitaria e non più nazionalistica, significava aprire la stra-da ad una unificazione dell’Europa, che non fosse soltanto una unifi-cazione di mercati, ma fosse veramente una unificazione politica. Equello che spiacque a De Gasperi non fu tanto il crollo di un trattatoo di un patto, ma fu l’abbandono del metodo della trattativa politicache solo poteva dare alla comunità europea un significato veramentepolitico.

De Gasperi concepiva la difesa dell’equilibrio mondiale al di fuoridei vecchi equilibri di potenza. E se vogliamo la pace – diceva e scri-veva De Gasperi – se vogliamo la pace dobbiamo renderci conto chel’uscita dai blocchi di potenza sta nella costruzione di una Europa di-gnitosa, collegata nel mondo internazionale con l’Occidente, ma ca-pace di svolgere una sua funzione anche politica, oltre che economica,e oltre che sociale. Dobbiamo ricordarci di questo, perché oggi c’è latendenza a concepire la unificazione europea come un fatto automati-co, come se attraverso una serie di convenienze economiche, unendole imprese, unendo i mercati, dovesse saltar fuori d’incanto, come daun cappello di prestigiatore, l’Europa politica.

De Gasperi ci ha insegnato che non è questa la strada, e del resto èagevole dimostrarlo. Non a caso negli anni in cui maggiore è stato losforzo di integrazione economica dei mercati europei, il fenomeno gol-lista ha ridato vitalità al nazionalismo. La formazione dell’Europa nonpassa attraverso la scorciatoia del metter assieme le risorse per avere re-ciproco vantaggio economico, ma passa attraverso il rimescolamentodelle tradizioni, della civiltà, degli interessi popolari, quindi, passa at-traverso una via politica. Si deve riconoscere che i momenti più viva-ci, i momenti più seri della storia europea in questo dopoguerra sonoi momenti in cui Adenauer, Schumann e De Gasperi, sono attorno altavolo per trattare, per lavorare, per costruire, non l’Europa dei pro-dotti agricoli o l’Europa dei grandi monopoli economici, ma l’Europademocratica, l’Europa popolare di domani, cioè l’Europa in grado disvolgere una funzione nell’equilibrio delle grandi potenze mondialicon una proiezione anche verso i Paesi del terzo mondo.

Oggi nella tematica europeista c’è troppo poca passione, c’è trop-po poca partecipazione e c’è invece un rigoroso, minuzioso, pedante,calcolo dei vantaggi e svantaggi di ogni accordo: De Gasperi, invece,ci insegnò ad essere europeisti non soltanto per il vantaggio che può

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venire dalla integrazione dell’economia dei diversi Paesi, ma ci insegnòad essere europeisti con fede, con volontà, con convinzione, e con laconsapevolezza che l’equilibrio internazionale deve avere un’Europache non sia quella dei Paesi divisi da nazionalismi o da ambizioni dipotenza, ma uniti da un comune ideale democratico.

Quindi, De Gasperi cattolico democratico, De Gasperi patriota,De Gasperi europeista, e infine De Gasperi grande statista nel nostroPaese, l’uomo politico che seppe più di ogni altro superare quella cheera stata per tanti anni, nel secolo scorso, l’accusa peggiore ai cattolici,quando erano estraniati dalla vita politica, l’accusa maggiore che ci ve-niva fatta, da sinistra, da destra, dagli ambienti liberali agli ambientisocialisti, circa la nostra incapacità come cattolici a essere cittadini. Sidiceva allora nelle polemiche: voi siete cattolici, quindi siete legati alVaticano, siete legati ad una potenza straniera, quindi non potete es-sere cittadini a pieno titolo. Non saprete mai essere autonomi, non sa-prete mai assumere delle responsabilità autonome nello Stato. Pesavain tutta la polemica del secolo scorso l’accusa ai cattolici di essere deicittadini di serie B, di non avere il senso dello Stato, delle istituzioni,del diritto, il senso della garanzia costituzionale nel concetto modernodella democrazia. Ebbene, De Gasperi può essere considerato la per-sonalità politica che più di ogni altra ha compiuto il miracolo storicodell’inserimento a pieno titolo dei cattolici nella vita dello Stato, del-l’affermazione a pieno titolo dei cattolici, non come una setta, non co-me una corporazione, non come un insieme di interessi, ma come unarealtà politica democratica capace di porsi a garanzia dell’interesse ditutti i cittadini, e quindi anche di quelli che cattolici non sono e chehanno una diversa concezione politica, una diversa ideologia, una di-versa fede religiosa.

Direi che proprio su questo punto anche noi – giovani generazio-ni che in certi periodi fummo polemici con Alcide De Gasperi su al-cuni problemi – anche noi dobbiamo riconoscere a distanza che forsenon comprendemmo la lungimiranza, la maturità, la serietà di quellaintuizione politica che Alcide De Gasperi ebbe nelle scelte politicheche fece e che erano le scelte destinate a far superare ai cattolici lo sto-rico steccato guelfo-ghibellino. Ricordo dopo il 18 aprile, quando nonoccorrevano alleanze parlamentari, perché il popolo ci aveva dato unagrande affermazione di forza, ricordo la battaglia che De Gasperi fececontro certe pressioni esterne, per mantenere fede al principio dellatolleranza, della collaborazione tra i cattolici democratici ed i partiti li-berale, socialdemocratico, repubblicano, cioè i partiti minori della tra-dizione laica che, se si guardano in un contesto ottocentesco, possono

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essere anche definiti i partiti della tradizione anticlericale. Quanti rim-proveravano a De Gasperi l’alleanza politica con gli eredi della tradi-zione anticlericale, quando c’erano i monarchici a disposizione, c’era-no addirittura i missini che facevano professione di fede religiosa. Ri-cordiamo tutti la risposta di De Gasperi a obiezioni di questo genere:quando ci occupiamo dello Stato quello che ci unisce non è la conce-zione religiosa, ma è la comune visione della democrazia, è la comunevisione della libertà, è la consapevolezza che nel nostro Paese, se vo-gliamo reggere ai pericoli di destra e di sinistra, dobbiamo fare delloStato non il dominio di qualcuno, ma la casa entro la quale, al di làdelle differenze ideologiche, tutte le correnti più sane della tradizionenazionale devono avere uguale diritto e uguale possibilità di parteci-pazione e uguale spirito di collaborazione. De Gasperi ha intuito l’im-portanza di non fare dei cattolici i guelfi che si dividono dai ghibellinicreando le premesse per la disgregazione dello Stato, ma di fare dei cat-tolici democratici i politici superiori che hanno come dovere storicoquello di creare nel nostro Paese le condizioni della convivenza, dellalibertà e della collaborazione, realizzando non solo la pace civile a li-vello dello Stato, ma le condizioni per la pace religiosa nel nostro Pae-se; e quindi le condizioni per la stessa diffusione delle nostre idee e del-la nostra fede. La posizione di De Gasperi risultava perciò pienamen-te aderente alla dottrina cattolica sullo Stato, che non chiede allo Sta-to protezione, ma libertà per essere se stessa, che non chiede allo Statoesclusivismo, ma rispetto del diritto e del bene comune; cioè richiedeallo Stato soltanto la guarentigia perché la persona umana possa esse-re libera di esprimere la sua personalità ed affida alla coscienza ed alpensiero la capacità di riempire queste guarentigie con un contributovivo e vitale.

De Gasperi, con la sua visione lungimirante della collaborazionefra democratici cristiani, liberali, socialdemocratici ecc., realizzò unagrande operazione storica, perché portò i partiti minori della tradizio-ne laica e liberale a capire che i cattolici dovevano essere rispettati co-me una grande forza politica tollerante e democratica, e non come unasetta che cercava di occupare lo Stato, per usarlo e costruirlo a sua im-magine e somiglianza. L’insegnamento di De Gasperi a vedere, nellacollaborazione tra i partiti, non l’elemento deteriore della divisione delpotere e nemmeno l’elemento meramente efficientistico di unire i pro-grammi per realizzare certe cose, ma anche il patto di civiltà di saperandare al di là del proprio unilaterale giudizio nell’interesse del Paesee della democrazia, questo insegnamento di Alcide De Gasperi nondobbiamo lasciarlo cadere. Forse è su questo punto che, con certe gio-

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vani generazioni democratiche cristiane, De Gasperi si scontrò, so-prattutto al Congresso di Venezia, quando Dossetti – e noi con lui –sostenevamo il ritorno al monocolore perché pensavamo che con essosi potesse realizzare più incisivamente una riforma strutturale nella vi-ta nazionale. Molto probabilmente le aspirazioni che stavano al fondodel dossettismo, al fondo delle nostre battaglie giovanili, erano auten-tiche e necessarie, come è necessario ancor oggi in Italia – col centro-sinistra – ravvivare, rendere più vivace, più incisiva, più corrisponden-te agli interessi popolari l’azione politica a livello governativo e parla-mentare. Ma sbagliavamo allora, quando chiedevamo a De Gasperi diarrivare a questo risultato attraverso una politica integralistica, cheavrebbe significato il rigetto del principio della collaborazione, avreb-be riportato i cattolici dentro lo storico steccato, e avrebbe creato lecondizioni della crisi della democrazia italiana.

La pazienza, la tenacia, la lealtà con cui fu condotto nelle sedi dipartito lo scontro tra De Gasperi e Dossetti rimane tuttavia un esem-pio da imitare e da tener presente. Chi non ricorda le grandi polemi-che le grandi battaglie tra Dossetti e De Gasperi, ma chi non ricordaanche la grande stima che rimaneva fra le due persone? Il contrasto sul-le idee e non su altre cose, la volontà, la capacità di comprendersi reci-procamente nonostante le opinioni divergenti, fecero sì che De Ga-speri dopo il Congresso di Venezia cercasse sempre di creare le condi-zioni per cui Dossetti e la realtà che Dossetti rappresentava, non fos-sero escluse dalla vita del partito, ma costituissero linfa vitale, senza perquesto cedere di un millimetro sul suo disegno strategico. De Gasperiebbe vivissimo il senso della chiarezza nelle cose che si difendono, ac-cettando anche l’impopolarità nel difenderle, ma ebbe anche la consa-pevolezza, lo stile, la dignità nel dare alla circolazione delle idee, al con-trasto sulle opinioni politiche, il significato di crescita, di dialettica, diarricchimento del movimento politico.

Ecco, cari amici, tratteggiate non nei fatti, che non interessano sin-golarmente presi, le virtù e gli insegnamenti che De Gasperi ci ha la-sciato nella sua esperienza politica. Il cattolico democratico, l’europei-sta convinto, il patriota consapevole, lo statista lungimirante; cioè, uninsieme di convinzioni, un insieme di opinioni che furono, evidente-mente, il risultato di tutta la sua lunga esperienza politica e gli diede-ro la forza nei momenti difficili di compiere determinate scelte.

Ricordo ancora – può essere considerata una parentesi, ma è signi-ficativa – ricordo ancora il momento in cui De Gasperi ruppe il tri-partito. Fu una scelta estremamente difficile, ma non tanto perché siimponeva in quel momento di porre fine a un doppio gioco che a li-

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vello dell’esecutivo indeboliva il prestigio dello Stato, rompendo unoschema di potere come quello ciellenistico che era sostanzialmente unoschema di potere frontista, caro ai comunisti, ma contraddittorio ri-spetto ai sistemi di democrazia parlamentare che richiedono una dia-lettica e la responsabilità delle scelte, ma difficile perché in quel mo-mento poteva crearsi nel Paese la spinta da parte della destra a usare larottura del tripartito per spostare sulla destra la democrazia italiana,per rinnegare i valori della Resistenza, per creare cioè con la rottura deltripartito anche le condizioni della involuzione della democrazia ita-liana. E ricordo – perché allora eravamo in rapporti col compiantoMattei – che nel momento in cui ruppe il tripartito De Gasperi chiamòMattei e gli chiese di organizzare in tutto il Paese delle grandi manife-stazioni di partigiani cristiani, perché l’opinione pubblica doveva ca-pire che la rottura del tripartito non era la rottura con la Resistenza,non era la rottura con gli ideali della libertà, non era l’involuzione adestra, ma era una rottura dovuta alla volontà di creare su base demo-cratica la continuità degli ideali e delle aspirazioni della Resistenza. An-che quella scelta, obiettivamente difficile, De Gasperi ebbe la forza diproiettarla verso l’avvenire, non di ridurla a una meschina operazioneparlamentare, ad un meschino equilibrio di forze di partiti, ebbe la for-za di non lasciare mai ai comunisti la capacità di interpretare, di rap-presentare unilateralmente certe aspirazioni di fondo cui tendono an-che i democratici. Questa la caratteristica, la realtà, l’insegnamento sto-rico politico di De Gasperi.

Dedicherò le considerazioni finali alla crisi successiva al 1953.Come nella vita anche nella politica gli uomini non sono certo im-

muni da pecche, da difetti, da responsabilità. Molto probabilmente DeGasperi, come si era illuso che la CED potesse essere lo strumento at-traverso il quale forzare la mano per arrivare all’Europa democratica didomani, così, con la legge elettorale del ’53 forse si era illuso, con unostrumento elettorale, di salvare nel Paese un equilibrio politico che ave-va già dimostrato di essere logorato sotto la spinta della responsabilità.

E infatti venne la crisi del ’53, l’impossibilità di fare il governo, lostile della caduta: De Gasperi, infatti, consapevole di cadere in parla-mento, vuol fare lo stesso il governo, va in parlamento, subisce l’umi-liazione della caduta in parlamento. L’amarezza di quei giorni è segui-ta dalla volontà di tornare al partito, dalla consapevolezza che non at-traverso la legge elettorale si poteva salvare un equilibrio politico mache si doveva ritrovare un altro equilibrio politico e quindi si dovevalavorare nel partito per creare quelle condizioni. E non a caso, da quan-do De Gasperi si spostò al partito con questo disegno, la sua solidarietà

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non fu più con la linea Einaudi-Pella, che per tanto tempo aveva ca-ratterizzato la sua azione politica, ma si avvicinò al compianto Vano-ni. Il lancio del piano Vanoni al Congresso di Napoli reca due nomi:De Gasperi e Vanoni, che avevano capito che bisognava creare unapiattaforma, non solo programmatica, sia anche civile e umana, in vi-sta dello sforzo da compiere per fare evolvere verso sinistra la situazio-ne italiana.

De Gasperi, certamente, nella sua azione politica non fu immuneda responsabilità, da difetti, da errori, ma ebbe anche degli attacchi in-giustificati che mi pare noi dobbiamo respingere proprio nel momen-to in cui concludiamo questa sintetica ma partecipata e convinta com-memorazione del grande statista trentino.

Dopo il ’53 De Gasperi fu criticato aspramente in due direzionifondamentali. La prima fu quella di Togliatti che scrisse una serie diarticoli sulla esperienza degasperiana, usando un metodo che è senz’al-tro da respingere, volto com’era a cercare di demolire l’opera politicadi Alcide De Gasperi, attraverso la denigrazione dell’uomo. In quei trearticoli Togliatti sosteneva soprattutto che De Gasperi non era mai sta-to un antifascista, o meglio era stato un antifascista di tipo speciale, chesi era trovato così per caso a fare l’antifascista, e sosteneva inoltre cheuna delle colpe di De Gasperi era stata quella di reinstaurare il capita-lismo, di essere l’uomo al servizio dei grandi interessi conservatori, at-traverso la rottura del tripartito. Accanto alla critica di Togliatti, incontraddizione abbastanza manifesta, vi fu poi l’attacco ingenerosodella stampa di destra, del «Corriere della Sera» che per tanto tempo loaveva esaltato quando De Gasperi garantiva l’equilibrio politico, chelo accusò di non aver capito che prima del ’53 era necessario fare l’al-leanza con la destra e per quella via combattere il comunismo, attri-buendo quindi a De Gasperi la responsabilità di non aver scelto a de-stra, di non aver operato una involuzione della democrazia italiana.

Dobbiamo dire subito per quanto riguarda la prima critica, quelladi Togliatti, che essa è infondata anche dal punto di vista storico. Cer-to, l’antifascismo di De Gasperi non ha niente a che vedere con l’anti-fascismo dei marxisti, che fu un antifascismo militante e su questodobbiamo essere obiettivi e riconoscerlo. Ma l’antifascismo di De Ga-speri era legato a valori umani, a valori di civiltà, a valori di libertà, eralegato ai valori del pluralismo, delle autonomie, della persona, non eraun antifascismo legato, come era quello marxista, a un giudizio dog-matico sulla società e quindi a una reazione di classe, alla spiegazionein termini classisti del fenomeno antifascista. Se fosse vero il ragiona-mento di Togliatti, allora, non vi sarebbe altro antifascista che il co-

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munista: tutto il resto sarebbe antifascismo speciale. Ma la realtà sta adimostrare che ciò non è vero, perché – se esaminiamo gli atti concre-ti – vediamo che Alcide De Gasperi non solo fu antifascista militante,e subì persecuzioni sotto il fascismo, ma fu anche antifascista teorico.Fu antifascismo teorico quello di De Gasperi perché nel momento incui difendeva lo Stato democratico, il metodo parlamentare, il plura-lismo, le autonomie locali, contrapponeva ideologicamente alla ditta-tura, allo stato etico, al partito unico, una visione anche teorica. Era lavisione della democrazia, certo, non la reazione di classe al fenomenofascista.

Per quanto riguarda l’accusa di restauratore del capitalismo, non sicomprende come mai De Gasperi non ricercò nell’esercizio della suaopera politica la collaborazione delle forze più rappresentative del ca-pitalismo. È possibile concepire De Gasperi come il restauratore del ca-pitalismo quando respinge la collaborazione con i missini, respinge lacollaborazione con i monarchici, respinge il fronte unico nazionale, re-spinge l’involuzione a destra, sceglie la riforma agraria, sceglie la Cas-sa per il Mezzogiorno, sceglie la politica europeistica?

Certo De Gasperi, nei limiti in cui ricostituì lo Stato, ricostituì laburocrazia, ricostituì l’economia italiana, così come noi l’avevamo ere-ditata, fatalmente lasciava implicite certe ombre, certe resistenze, la-sciava insoluti certi problemi, lasciava, cioè, un’eredità incompleta del-la sua esperienza storica. Ma è ingeneroso e ingiusto attribuire a unapersona un disegno politico, delle responsabilità che appartengono acent’anni di storia nazionale, che appartengono al travaglio di un po-polo che diventa democratico e trasforma le sue istituzioni, non certonel giro di un decennio, ma nel giro di molti più lunghi anni di atti-vità e di esperienza. Ci sono stati dei limiti da questo punto di vista, li-miti però che – come non giustificano l’attacco di Togliatti – così nongiustificano l’attacco della destra, che fu anch’esso ingeneroso, ignobi-le, ingiusto, come lo fu l’attacco di Guareschi che addirittura tentavadi colpire De Gasperi nella sua moralità.

De Gasperi non fu mai incline alla demagogia, allo scivolamento asinistra, ma difese sempre i principi che riteneva più importanti: la sta-bilità, la democrazia, la necessità di andare avanti parallelamente sullastrada del progresso e della libertà.

E da questo punto di vista, proprio come scorcio finale, dobbiamodire che – considerando l’esperienza storica di De Gasperi, i suoi at-teggiamenti, i suoi atti, le sue virtù, le sue doti – c’è un nodo ancora,da sciogliere, un nodo importante che ha pesato sulla democrazia cri-stiana e sulla democrazia italiana: esso è la tragica, drammatica in-

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comprensione, che ha diviso negli anni più significativi del dopoguer-ra De Gasperi da Dossetti. Non intendo riferirmi, in questo momen-to, all’episodio marginale del suo scontro con Dossetti; cioè, al fattoche a un certo punto della vita politica del partito si sia determinatauna diversità di opinione.

Al di là delle persone dobbiamo constatare che De Gasperi, con-trapponendo a Dossetti, che portava avanti una linea integralista, il suodisegno strategico, politico, democratico, di tolleranza e di collabora-zione, De Gasperi compiva un atto storico fondamentale, cioè impe-diva alle giovani generazioni di cadere nel vicolo cieco dell’integrali-smo, se dobbiamo considerare estremamente positiva questa superio-rità del disegno politico di De Gasperi, dobbiamo però anche consta-tare che, nello scontro con De Gasperi, Dossetti non portava avantisoltanto la velleità di un cambiamento di strategia politica, non porta-va avanti soltanto il desiderio di incidere in qualche modo nel disegnodegasperiano. Dossetti portava avanti, con le aspirazioni delle nuovegenerazioni, anche la volontà di dare alla Democrazia Cristiana un piùstretto collegamento con la volontà del Paese, un più forte andamen-to riformista, una più vivace capacità di trasformare le cose, una piùmarcata caratterizzazione ideologica nella trasformazione della società.

Credo che la Democrazia Cristiana abbia avuto molto da perderein quel contrasto, che fu contrasto di persone, ma che è anche contra-sto di atteggiamenti ancora diffusi, che deve trovare una sua sintesi nel-l’avvenire. Le giovani generazioni devono capire che l’insegnamentodegasperiano è tutto da salvare per quanto riguarda il metodo politico,il rispetto della tolleranza, il legame ai valori fondamentali della de-mocrazia, ma questa eredità va innervata di contenuto informatore, dicontenuti di trasformazione, di contenuti di movimento e di rinnova-mento della società, perché forse lo sgretolamento e l’indebolimentofinale della politica degasperiana fu dato appunto dal suo ridursi, qual-che volta, a pura conservazione di una formula, a pura conservazionedi una collaborazione politica fra i partiti.

Allora, se vogliamo veramente chiudere questa commemorazionenon soltanto alla luce di discorsi, dobbiamo dire che se un legame ciunisce all’opera politica di Alcide le Gasperi, è quello non già di con-tinuare automaticamente e meccanicamente, come se la realtà non fos-se cambiata, i suoi insegnamenti.

De Gasperi è stato definito dalla figliola, che ha scritto una dellesue biografie, un uomo solo. Ma perché era un uomo solo, De Gaspe-ri? De Gasperi era un uomo solo perché sapeva chiudersi in se stessonei momenti più gravi e sapeva decidere; sapeva essere figlio del suo

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tempo, sapeva prendere le decisioni in relazione ai problemi concreti,che stavano davanti a lui, sapeva cioè esercitare la missione politica co-me missione di responsabilità, come missione di scelta, come missio-ne di comprensione del periodo storico.

In questo senso De Gasperi ci ha insegnato ad essere uomini delnostro tempo nel guardare in faccia alla realtà. E allora per salvare l’e-redità politica di De Gasperi bisogna veramente portare avanti, comelui ci ha insegnato, il senso della patria, come lui ha voluto, la conce-zione del partito, che lui ha avuto, il senso dello Stato, la visione in-ternazionale dei problemi; ma al tempo stesso bisogna arricchire que-sta esperienza degasperiana di tutto il contesto delle aspirazioni che esi-stono nella società italiana.

Bisogna portare avanti la sua concezione di una grande Democra-zia Cristiana unita perché possa essere libera; libera perché possa ricer-care il contatto con il Paese ed essere un partito all’avanguardia del pro-gresso della società nazionale; ricercare il contatto con il Paese per por-tare avanti con altri, in collaborazione con altri, la causa della demo-crazia, per fare della democrazia italiana uno strumento al servizio d’unpiù pacifico ordinamento dei popoli.

A questa linfa morale dell’insegnamento di De Gasperi, più che al-le forme pratiche della sua esperienza politica, noi dobbiamo oggi ri-farci. Dobbiamo far sì che se anche vengono, come è fatale, via via ri-ducendosi nel tempo le occasioni formali delle commemorazioni e del-le rievocazioni, noi dobbiamo compiere, ognuno per conto proprio etutti assieme, ogni giorno, al servizio della democrazia e della libertà,la rievocazione dell’insegnamento e dell’eredità politica di Alcide DeGasperi, una rievocazione che non vuole solo discorsi, ma vuole la con-tinuità di una battaglia, a cui tutti dobbiamo partecipare, per afferma-re una Democrazia Cristiana forte e libera, al servizio del Paese e dellapace nel mondo.

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Il futuro del centro sinistra*

Il 22 ottobre del 1966 si svolse a Firenze un convegno, indetto dallarivista «Politica», che era sorta nel 1955, ispirata da Nicola Pistelli, fon-datore ed animatore della Sinistra di Base fiorentina. L’appuntamento di«Politica» era stato convocato proprio alla vigilia dell’unificazione sociali-sta che sarebbe stata ufficialmente sancita la settimana successiva, il 30 ot-tobre, con la nascita del Partito socialista unificato (PSU), scaturito dallafusione del PSI col PSDI. L’iniziativa fiorentina vedeva protagonista la si-nistra democristiana e si rivolgeva a tutte quelle componenti del partito cheavevano concorso a costituire il centro-sinistra. Si intendeva in tal modoaffrontare un rilancio di quella proposta politica, illanguidita – secondogli organizzatori – da una gestione troppo blanda e moderata, che perciòsembrava tradire le speranze originarie di coloro che, sin dall’inizio, si era-no battuti per il diretto coinvolgimento dei socialisti al governo del Paese.

Il raduno di Firenze, che si proponeva di rianimare il centro sinistrasu nuove fondamenta, alla luce dei diversi fermenti che agitavano la poli-tica e l’intera società italiana, attirò non solo gli aderenti alla sinistra diBase, convenuti in massa, ma anche i rappresentanti della corrente sinda-cale di Forze Nuove che, dal 1964, per fini congressuali, si era unita allaBase in un unico raggruppamento. Intervennero inoltre esponenti dellacorrente fanfanian-forlaniana di «Nuove Cronache» come Franco MariaMalfatti, Clelio Darida e Corrado Corghi. In quell’occasione tornaronoalla ribalta politica l’ex ministro delle Partecipazioni statali, Giorgio Bo,che era stato molto vicino a Mattei, e l’ex presidente della Repubblica Gio-vanni Gronchi il quale, tra le acclamazioni generali, concluse il convegno.Anche Benigno Zaccagnini, presidente dei deputati democristiani e moltovicino al presidente del Consiglio Aldo Moro partecipò, tra i più applau-

* ASILS, Fondo Granelli, serie VIII, sottoserie 2, b. 22.

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diti, all’iniziativa, sollecitando i convegnisti ad una rinnovata tensioneideale. L’incontro fiorentino suscitò alcune perplessità tra coloro che vi ave-vano percepito quasi una contrapposizione degli organizzatori e dei parte-cipanti a quella che era la linea ufficiale della Democrazia Cristiana, por-tata avanti dal segretario Mariano Rumor e dal gruppo dirigente doroteo.L’iniziativa di «Politica» non fu apprezzata nemmeno dal leader sociali-sta Pietro Nenni – nominato presidente del nuovo partito unificato – chescorgeva nella sinistra democristiana «due concezioni errate, più o menoconsapevoli: una ricorrente componente integralista, e una componente po-pulista che si illude di poter scavalcare il Partito socialista a sinistra». Daquel momento il rapporto tra il Partito socialista e la sinistra democristia-na – che si difese polemicamente accusando il PSI di un deludente immo-bilismo – iniziò a deteriorarsi in maniera sempre più evidente.

L’intervento di Granelli qui riproposto, rinvenuto tra le carte del suoarchivio, è inedito.

L’importanza e il valore del convegno in corso sono dati dal fattoche esso non si esaurisce nell’ambito di chiuse correnti, ma rappresen-ta una larga base che riflette esperienze molteplici e offre un ampio pa-norama di idee e di orientamento culturale e politico. Ciò permette anoi di renderci conto della crisi che colpisce la sinistra democratico-cristiana e ci consente una salutare presa di coscienza.

Proprio per la larga impostazione che il Convegno ha inteso assu-mere dobbiamo quindi fare uno sforzo di tolleranza e di modestia re-ciproca che escluda atteggiamenti predicatori che vorrebbero modifi-care la realtà solo dall’esterno. Dobbiamo, all’opposto, chiederci qua-le ruolo siamo chiamati a svolgere affinché la società italiana e in essala DC diventino più ricche, più vivaci, più articolate nel loro sviluppodemocratico. Si è parlato, ad esempio, degli scarsi echi che in seno al-la DC ha avuto il Concilio. Ma non si può fare a meno di considerarequanta scarsa rilevanza ha avuto il Concilio anche nel mondo cattoli-co ed è evidente quanto peso potrebbe avere sulla DC un mondo cat-tolico più sensibile, più vivace, più maturo culturalmente.

L’interrogativo di fondo che dobbiamo porci non è quello se dob-biamo continuare a stare dentro al Partito o agire fuori di esso, né quel-lo se dobbiamo far parte della maggioranza oppure passare all’opposi-zione.

Il problema è quello di dare un indirizzo e un contenuto precisoalla nostra battaglia.

Si tratta di un problema generale difficile. Dobbiamo innanzitut-to renderci conto di quello che sta avvenendo nella nostra società civi-

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le. La sinistra democratico-cristiana è infatti entrata in crisi quando siè chiusa in se stessa, senza cercare di capire i problemi che si agitavanonella realtà politica concreta, nella trasformazione profonda nella so-cietà italiana.

Vi è innanzitutto il problema delle forze politiche. Si è detto chein passato la sinistra democratico-cristiana ha avuto il merito di porreil problema delle forze politiche, dimenticando di porre il problemadei contenuti del centro sinistra. Ciò però non è esatto. Fra l’altro nonpossiamo presentare come nostra vittoria esclusiva il fatto che si è ar-rivati al centro sinistra, giacché tale soluzione potrebbe essere anche intutto o in parte il risultato delle tendenze trasformistiche che, semprepresenti nella nostra tradizione nazionale, sono state costrette dallo sta-to di necessità a scegliere la nuova formula.

Bisogna quindi riprendere il discorso delle forze politiche, ma nonnei termini limitati di una difesa della formula di centro sinistra. Siapre qui il discorso nuovo sull’unificazione socialista.

Vi è un primo modo di vedere l’unificazione socialista che potreb-be costituire un pericoloso alibi: cioè quello che tende a considerare ta-le unificazione sotto il profilo del pericolo della creazione di una ge-nerica forza socialdemocratica di sinistra che finisca per relegare fatal-mente la DC su posizioni di destra.

Un altro atteggiamento negativo è quello che giudica l’unificazio-ne alla stregua di una pura e prefabbricata alternativa di potere cui nonriconosce alcuna carica di rinnovamento. È il pericolo che sembrapreoccupare Malfatti, il quale tuttavia sbaglia rimedio se per combat-tere tale rischio teorizza l’egemonia di una DC che esclude in via diprincipio la collaborazione con i partiti forti e ammette solo quella conpartiti in posizione minoritaria e subalterna.

Anche questo giudizio si esaurisce in una fuga in avanti: perché ilvero problema non è quello della pura spartizione del potere fra forzetra cui si possa avere una effettiva tensione alla collaborazione e al rin-novamento. Se si prendono le scorciatoie del riformismo spicciolo, sesi lascia sopravvivere l’impalcatura burocratica e centralizzata dello Sta-to unitario, è inevitabile che la lotta politica, come del resto al tempodel De Pretis, sia ridotta a livello clientelare e di sottogoverno.

Questa carenza di capacità politica nel dare la dovuta priorità a rifor-me qualificanti come le regioni investe, naturalmente, anche i socialistiche nei settori di propria responsabilità sembrano preferire le riforme set-toriali, di tipo tecnocratico, ed i vantaggi che il centralismo riserva.

Si verifica così, come in altri periodi della storia italiana, l’incontroa livello di potere tra conservatori e riformisti velleitari che, non vo-

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lendo o non potendo fare le riforme di carattere strutturale per inca-pacità politica, chiedono poi al paese più potere reciproco a meri finidi occupazione dello Stato. Non vi è chi non veda un fallimento piùclamoroso della politica di centrosinistra.

A questo punto nasce il discorso sulle responsabilità della sinistrademocratico-cristiana: siamo pronti a centrare la nostra azione poli-tica sulla precisa richiesta di riforme di fondo, qualificanti, e trarreogni conseguenza da una scelta di questo tipo? I nostri uomini al go-verno sono pronti a trarre concrete conseguenze anche sul piano del-la loro presenza sull’esecutivo se talune priorità essenziali non ven-gono fissate?

Se la sinistra democratico-cristiana non prende la via di una batta-glia coerente che richiede non solo discorsi, ma atti concreti di questotipo è inutile prendercela con i dorotei o con Moro; dobbiamo alloraricercare nella nostra crisi interna, nell’assenza di coraggio, di idee, dicontenuti concreti, certe carenze dell’attuale situazione politica.

Certo, nel fare tutto ciò bisogna guardarsi dal massimalismo, maanche da un giustificazionismo ad oltranza che rischia di travolgerenon la sola sinistra ma l’intera DC.

La sinistra democratico-cristiana deve oggi aprire un vigoroso ecoerente discorso politico e programmatico, un discorso rivolto a sal-vare la funzione di guida dell’intero partito: e per far questo deve av-viare un confronto aperto con tutti rifiutando i metodi troppo abusa-ti delle conversazioni private e personali o degli accomodamenti nellaspartizione del potere interno.

Gli episodi registrati in questo convegno, che ha visto l’assenza dimolti amici qualificati cui sarebbero stati posti anacronistici veti allapartecipazione, dimostrano quanta carenza di volontà politica esistanel partito e come sia ormai necessaria una costante iniziativa provo-catrice, fatta alla luce del sole e su contenuti precisi, per rompere quel-lo spirito oligarchico che trasforma tutto in operazioni di vertice e im-pedisce alla DC di svolgere con l’apporto delle sue migliori energie unapolitica più aperta.

La maggiore autocritica che la sinistra democratico-cristiana devefare è oggi quella che riguarda la capacità d’impostare seriamente i pro-blemi del partito che sono, purtroppo, fermi al punto in cui li avevalasciati lo scontro De Gasperi-Dossetti. Se il centro sinistra registra unaprogressiva involuzione è perché non c’è un partito all’altezza del suocompito, perché c’è un partito chiuso su se stesso che non se la sentedi lasciare alle sue spalle una struttura burocratizzata e priva di contat-ti reali con la società in trasformazione. E bisogna essere tutti convin-

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ti, sia dentro il partito che fuori, che una DC aperta non ce la regalerànessuno ma occorrerà conquistarla con le nostre battaglie e i nostri sa-crifici.

È un discorso questo che vale soprattutto per quei gruppi di stu-dio e quei centri culturali che si illudono, forse, che la situazione pos-sa rapidamente cambiare senza un loro più marcato impegno di batta-glia diretta o indiretta ma sempre di significato culturale e politico.

Questo convegno potrebbe, infine, prestare il fianco ad una peri-colosa tentazione: quella di ritrovare l’insegna della lotta in una piat-taforma di generazione, che già fu il metodo che portò alla creazionedi Iniziativa Democratica: si ricadrebbe così nel vecchio vizio di con-cepire le correnti in senso rozzamente leninista, di puri strumenti perla conquista del potere per il potere, salvo poi ad accorgersi, appenaconquistato, che mancano le condizioni per gestirlo in coerenza conchiare premesse ideali e politiche.

Qualcuno dice che quella della generazione è l’unica via perché larealizzazione del centrosinistra ha di fatto svuotato la sinistra DC. Èquesto un discorso falso: dalla diagnosi compiuta risulta chiaro chenon mancano le occasioni di lotta.

Se non si vuole sciupare queste occasioni occorre anzitutto rinno-vare il nostro impegno morale fuori da facili massimalismi o da com-piacenti tatticismi: ricordare cioè la lezione di anticonformismo e di ri-gore concettuale che Nicola Pistelli ci ha lasciato per andare avanti conuna battaglia difficile ma indispensabile: per far ritrovare alla sinistrademocratico-cristiana il ruolo che già ebbe nel passato e che ancorapuò assumere, di fronte all’involuzione della politica di centro-sinistrae all’unificazione socialista, per dare nuovi contributi di valore e diorientamento alla lotta per la democrazia in Italia.

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I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianità*

Nella primavera del 1967, tra il 28 e il 30 aprile, si svolse a Lucca unconvegno culturale organizzato dalla dirigenza della Democrazia Cristianasul tema: «I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianità». L’iniziati-va, sostenuta dal segretario Mariano Rumor, fu stimolata da una letteraaperta indirizzata «Ai cattolici che operano nella politica e nella cultura» efirmata da cinque intellettuali provenienti da quel mondo: Gabriele De Ro-sa, Sergio Cotta, Vittore Branca, Vittorino Veronese e Cornelio Fabro. Contale gesto i promotori auspicavano che si restituisse alla politica quella ispi-razione cristiana che proveniva dalla tradizione di Murri, Sturzo, De Ga-speri e che appariva logorata dalla gestione quotidiana del potere.

Il convegno fu anche un doveroso momento di dibattito e riflessione sulruolo e l’ispirazione del partito in un contesto sociale che stava rapida-mente mutando, anche alla luce delle nuove acquisizioni conciliari.

Tra le principali relazioni, quella di Gabriele De Rosa si soffermò sulnecessario collegamento che la Democrazia Cristiana doveva mantenerecon la società contemporanea. Sergio Cotta affrontò il senso dell’impegnocristiano in politica alla luce del magistero della Chiesa, riferendosi allarecente enciclica di Paolo VI, Populorum Progressio. Cotta offrì anche –con sorprendente antiveggenza – un interessante spunto al dibattito quan-do colse e delineò contorni e rischi connessi all’avanzare della nuova «so-cietà tecnologica» nella quale, per la prima volta, era lo spirito scientificoe non l’astratta ideologia a condizionare il mondo, mettendo in crisi la co-scienza dei credenti.

Al Convegno, il presidente del consiglio, Aldo Moro, che guidava unastabile compagine di centro-sinistra, definì col suo intervento il senso più

* I cattolici nei tempi nuovi della cristianità, (a cura di G. Rossini), Atti del Convegno distudio, (Lucca 28-30 aprile 1967), Ed. Cinque Lune, Roma 1967.

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profondo del «dialogo», inteso e proposto da lui, come «incontro tra diver-si, ma affini, coloro con i quali anche si polemizza, ma con i quali si col-labora e si costruisce insieme».

«La Rivista Trimestrale», (n. 21, primavera 1967), diretta da FrancoRodano e Claudio Napoleoni, riportando interamente i due interventi alconvegno di Augusto del Noce e Luigi Granelli, riconobbe all’iniziativa diLucca il merito principale di aver «rivelato il patimento, o se si vuole ladenuncia oggettiva […] della crisi, ormai aperta e innegabile, della De-mocrazia Cristiana in quanto partito cattolico».

L’unità attorno alla D.C., deve essere il frutto di consapevoli scelte politiche e programmatiche

1. Valore e limiti del convegno. 2. Gli orizzonti aperti dal Concilio. 3. Il proble-ma dell’unità politica dei cattolici. 4. Lo sviluppo della democrazia per contenere i pe-ricoli della società tecnologica. 5. La prospettiva del pluralismo.

1 - L’impostazione di questo convegno, come è noto, è stata ac-compagnata da vivaci polemiche. Ciò merita qualche chiarimento an-che perché in questo caso l’assenza dal dibattito non è una risposta. Èfuori discussione l’utilità di un confronto di tesi tra cattolici che purrichiamandosi ad una comune matrice religiosa sono portatori di unadiversa esperienza culturale e politica. La preoccupazione, se mai, è cheil dialogo sia effettivo, alieno da strumentalismi e da false schematiz-zazioni, ed è a questa costruttiva preoccupazione che vanno ricondot-te le perplessità e le polemiche precedenti il convegno.

Lasciamo pure da parte l’impressione provocata dal pronto acco-glimento in sede di partito della esortazione degli amici che presiedo-no il convegno, di cui abbiamo sempre apprezzato l’impegno cultura-le e la coerenza personale, per non esporci al sospetto, in fondo giusti-ficato, di una critica maliziosa e aprioristica. È comunque una positi-va novità quella di accogliere senza fastidio, con uno sforzo di recipro-ca comprensione, le critiche che da più parti e da tempo vanno svi-luppandosi fuori dal partito.

Se tutto ciò, come noi ci auguriamo, è il sintomo confortante di unareale disponibilità al dialogo, il fine del convegno, che equivale all’iniziodi un processo di rielaborazione ideale e politica, non può non esserequello della massima apertura e del rispetto assoluto di ambiti di auto-nomia certamente non assorbibili da una logica di partito per sua natu-ra limitata e circoscritta a scelte operative che non tutti condividono.

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Non giova a questo fine, a nostro avviso, la formulazione un po’ambigua dei temi delle due relazioni che sottintendono, sia pure conl’orizzonte dei tempi nuovi della cristianità, una esperienza ed una re-sponsabilità politica dei cattolici in quanto tali in una sede che, per lasua qualificazione democratico cristiana, non può e non deve preten-dere l’esclusività della rappresentanza dei cattolici in un partito. Négiova l’assenza di un discorso introduttivo più impegnato di esplicitoorientamento democratico cristiano anche se aperto al dialogo ed alconfronto, che non può certo essere sostituito da interventi più mar-catamente politici di altri e nemmeno dalle conclusioni finali del se-gretario politico che, anzi, difficilmente si sottrarranno alla interpreta-zione di strumentalizzazione del convegno. Sarebbe stato meglio rove-sciare l’impostazione, come abbiamo suggerito in varie occasioni, perdare una più netta conferma dello spirito nuovo che deve animare l’i-niziativa di un convegno che apre e non con-chiude un dialogo, cheguarda lontano, che vuole un confronto ideale nell’autonomia degli in-terlocutori, e nel rispetto del dissenso, anche se radicale, quale provaconcreta di pluralismo. Perplessità e critiche, tuttavia, non intaccanol’idea in sé positiva del convegno ed intendono, anzi, sottolineare il va-lore della rottura di un diaframma e dell’inizio di un franco dialogo fracattolici che sentono il forte richiamo al risveglio religioso, culturale,politico, scaturito dal Concilio in risposta ai drammatici problemi cheil mondo moderno pone nell’attuale periodo storico. Ed è appunto al-lo sviluppo di questo dialogo che intendiamo dare un contributo cri-tico franco e sereno, libero da nominalismi e da facili schemi, insiemealla prova della nostra disponibilità a comprendere anche le altrui in-quietudini in un comune sforzo di ricerca e di approfondimento.

2 - Una prima precisazione si impone. Il nostro dibattito si svolgeall’interno della suggestiva e stimolante problematica sollevata dalConcilio. Nuovi e impegnativi orizzonti di vita spirituale, di testimo-nianza concreta, di azione nel mondo moderno per sottrarlo ai rischidell’egoismo conservatore e di un effimero progresso, si aprono difronte ai cattolici. Sarebbe un errore ridurre la portata di un appello diquesta ricchezza e di questa dimensione, che ancora una volta dimo-stra la lungimiranza della Chiesa, a modeste e strumentali finalità dinatura politica o partitica. Non avrebbe senso vagheggiare, come frut-to del Concilio, un partito progressista animato da un malinteso spi-rito di crociata, quasi ad implicitamente giustificare, nei periodi pre-cedenti, l’esistenza di un partito conservatore o moderato. Ed alla stes-sa stregua sbagliano quanti, dopo aver preferito il conformismo cleri-

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caleggiante alla difesa del principio dell’autonomia in tempi difficili,sembrano oggi ricavare dal Concilio soltanto l’affermazione di unamaggiore autonomia forse per giustificare un disinvolto pragmatismoche consenta al partito di muoversi a seconda delle necessità più che inarmonia con precisi ideali.

Bisogna stare in guardia da queste semplicistiche posizioni post-conciliari. La tentazione di servirsi della Chiesa sia pure per fini nobi-li, non scompare con il Concilio e può addirittura aumentare se i cat-tolici non saranno garantiti da tali pericoli attraverso una maggiore for-mazione teologica.

Così come la tendenza a concepire l’autonomia del partito qualeprogressivo sganciamento da un impegnativo insieme di valori e ob-blighi morali, per dirigersi empiricamente verso generiche forme diumanesimo politico, rischia di risorgere ancor più minacciosa sotto laspinta del condizionamento storico; soprattutto laddove i cattolici so-no portatori di specifiche responsabilità nella gestione del potere, puòaprire la via ad una visione separatista e laicistica dell’impegno politi-co che nulla ha a che vedere con una corretta concessione dell’autono-mia.

Il Magistero della Chiesa, con il Concilio, ci chiama invece a per-correre nel mondo la strada di una testimonianza ricca di spiritualità,pervasa di spirito di verità, agganciata a robusti principi morali, ordi-nata ad un disegno di salvezza trascendente. Tutto ciò traccia un limi-te di relatività per le realizzazioni temporali, per i sistemi sociali e po-litici, per le forme della vita economica, per le battaglie di partito, maal tempo stesso impone ai cattolici il dovere di una presenza coerente,conquistata in autonomia e professata con fede, per avvicinare alla ve-rità il «popolo di Dio», descritto nei testi conciliari, oltre che con la pa-rola, con l’esempio di un lavoro storico espresso in termini positivi, dicostruzione umana, come giustamente diceva nella sua relazione ilprof. Cotta.

Non più, quindi, spirito di crociata per la conquista integralisticadel mondo nel segno di una fallace esteriorità di vita cristiana, ma nem-meno fuga dalle responsabilità per inseguire la meta, tutto sommatoegoistica, di una salvezza individuale accompagnata da uno sterile or-goglio intellettualistico. Da qui discende, a mio avviso, 1’appello spi-rituale ad un nuovo e diverso impegno del cattolico di fronte alla cul-tura, alla politica, alla testimonianza attiva, ricercata in autonomia econ comunità di intenti, in tutti i campi della vita umana. Da qui sca-turisce l’esigenza di un autentico pluralismo di vita cristiana che evitaogni politicismo soffocatore, che consente una maggiore ricchezza di

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contributi personali, che toglie i cattolici dall’isolamento della cosid-detta «era costantiniana» e li apre al dialogo, alla comprensione, allatolleranza, alla collaborazione anche con i non credenti per la costru-zione di un ordine temporale che nella sostanza sia permeato di au-tentici valori di libertà, di moralità e di giustizia.

È in questa problematica di vasto respiro che deve collocarsi il no-stro dibattito, per sua natura limitato e circoscritto, e a tale ampiezzadi traguardi dobbiamo riferirci costantemente per evitare di ridurre iltutto a rinfacciarci vicendevolmente, con poca carità e molta presun-zione, la maggiore o minore aderenza politica e culturale agli insegna-menti conciliari.

3 - Il riferimento sintetico alla complessa ed ampia problematicasollevata dal Concilio ha dunque, per noi, lo scopo di evitare il rin-chiudersi in una prospettiva angusta, strumentalistica, nel momentoin cui si affrontano più specificamente quei temi di natura politica suiquali, a causa della nostra vocazione ed esperienza, abbiamo il doveredi esprimere con tutta sincerità la nostra opinione. Il tema più scot-tante, è inutile nasconderlo, è quello dell’unità politica dei cattolici. Èquesto, secondo alcuni, il principale nodo da sciogliere dopo il Conci-lio per aprire una fase di movimento nella cattolicità italiana.

Noi riteniamo improduttiva una polemica di principio su questopunto. Non v’è dubbio che, da un punto di vista dottrinale, non è so-stenibile la tesi della unità di tutti i cattolici in un partito sulla base diuna comune credenza religiosa. Per noi questo principio è riconosciu-to da tempo, almeno da Sturzo in poi, ed ora – dopo il Concilio – do-vrebbe essere riconosciuto da tutti e cioè anche da chi, in passato, nonha evitato di far leva sul sentimento religioso a fini di orientamentoelettorale.

Ma è la situazione di fatto che deve essere esaminata.Ha ragione De Rosa quando osserva che anche in sede storica, in

Italia, non è mai esistita una unità politica dei cattolici da quando al-cuni di essi si sono organizzati in partito. La conferma di ciò si ha ana-lizzando tutte le scelte concrete di partito, dall’opposizione al fascismoalla Resistenza, dall’impegno repubblicano alla riforma agraria, dallacollaborazione di De Gasperi con i laici all’apertura a sinistra, che sem-pre sono avvenute in un clima di vivaci contrasti nell’ampio mondodei cattolici italiani e, spesso, in posizione di diffidenza e di critica del-la stessa Gerarchia ecclesiastica. Questo non esclude però che, di fatto,si sia intrecciata attorno al partito una complessa realtà elettorale frut-to anche di interventi esterni che ricava, certo inconsapevolmente, le

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motivazioni della propria scelta più da generiche esigenze d’ordine oda vaghi sentimenti religiosi che da una effettiva consapevolezza poli-tica di adesione ai fini e ai programmi del partito stesso. Se si aggiun-ge poi che, per le stesse ragioni di scarsa maturità politica e di limitataformazione teologica, la confusione tra sacro e profano, tra Stato eChiesa, tra milizia di partito ed azione sociale od apostolica, permaneprofondamente radicata anche per la storia particolare del nostro pae-se e per i legami concreti esistenti tra le diverse istituzioni, non si puònon ammettere che nel fatto, e quindi al di là della controversia di prin-cipio, tale sorta di unità difensiva, e grossolana, provoca dannose con-seguenze sia in campo religioso che in campo politico.

Sono in molti, infatti, ad attribuire la mancanza di un più intensorisveglio religioso alla identificazione tra cattolicesimo e pratica politi-ca democratico-cristiana che, tra l’altro, può allontanare dalla Chiesachi si trova in contrasto con il partito e sottrarre alla influenza del cle-ro e dell’apostolato laico larghi strati di cittadini. D’altro lato è notoche, sul piano politico, il desiderio di mantenere un largo seguito elet-torale porta frequentemente la classe dirigente di partito ad assumereatteggiamenti ambigui e ambivalenti, a sfumare programmi, ad evita-re scelte, a ridursi progressivamente a blocco moderato di potere no-nostante le origini di partito programmatico fieramente rivendicate insede di ricostruzione storica.

Non a caso De Rosa osservava che, ai tempi del Partito Popolare,l’autonomia e 1’indipendenza erano più marcate, mentre dalla DC inpoi, e indipendentemente dalla sua analisi che è apparsa per questo pe-riodo meno penetrante, questa sensazione appare meno nettamente edè accompagnata, quanto meno, da episodi contradditori.

È incontestabile, quindi, che l’unità dei cattolici, così come si ma-nifesta oggi in Italia, può rappresentare un ostacolo sia al risveglio re-ligioso postulato dal Concilio – e non l’unica causa come notava Goz-zini nel suo intervento – sia un freno ad una qualificata e laica batta-glia politica dei cattolici democratici organizzati in partito.

Come superare, allora, questa situazione? Non certo attraverso ildibattito sui principi che, come abbiamo già detto, si può risolvere so-lo nella scontata riaffermazione della insostenibilità della tesi dellaunità dei cattolici in quanto credenti in un unico partito.

La nostra impressione è che ciò che appare confuso di fatto e perragioni storiche precise, in quanto l’arretratezza culturale e religiosadella cattolicità italiana è fatto precedente che condiziona la stessaunità e azione politica, vada sciolto e sradicato in sede storica elimi-nando cioè le cause che determinano la situazione attuale. Nascono

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qui, dunque, l’esigenza di definire obiettivi precisi a seconda delle va-rie vocazioni e di porsi problemi operativi, non solo di predicazione,che investono piani diversi.

Cade in un imperdonabile vizio illuminista chi pensa di cancella-re con un colpo di spugna l’intreccio di equivoci che vincolano reli-giosamente, culturalmente e politicamente la cattolicità italiana con-temporanea.

Tra le terapie in circolazione per sciogliere il nodo di una equivo-ca e improduttiva unità politica dei cattolici vi è, anzitutto, quella del-l’autoscioglimento, del rompere le righe. A parte che resta difficile in-dividuare 1’autorità dotata di poteri reali per ordinare, con soddisfa-zione dei sostenitori di questa tesi, la liquidazione di una consistenterealtà politica e di un patrimonio accumulato in decenni di storia, va-le la pena di chiederci quali sarebbero le conseguenze di una simileeventualità.

Vi sarebbe, forse, come conseguenza immediata quella di un im-provviso e benefico risveglio religioso che compenserebbe certamentedi più delle effimere fortune politiche di un partito?

Noi abbiamo molti dubbi in proposito. A parte il vuoto politicoche si creerebbe nel paese, con rischi evidenti per le nostre libere isti-tuzioni democratiche, con quei non trascurabili problemi di coscienzaper i politici – cui giustamente alludeva l’on. Forlani – vi sarebbe cer-tamente una corsa per accattivarsi da parte di tutti gli altri partiti i vo-ti cattolici disponibili. Si tornerebbe al clima del «patto Gentiloni», co-me ha recentemente notato in un editoriale la rivista Relazioni Socia-li, e la gara per dare maggiori garanzie di lealismo confessionale, se nona forme di clericalismo di ritorno, aprirebbe la via ad un nuovo e an-cor più deteriore strumentalismo politico teso, da un lato, alla fagoci-tazione dei cattolici dispersi in vari partiti e, dall’altro, alla realizzazio-ne di prospettive concordatarie che comprometterebbero comunque laChiesa nel suo inevitabile rapporto con il nuovo regime.

In questa ipotesi, a nostro avviso, pochi sarebbero i vantaggi sia dalpunto di vista religioso, che sarebbe poi il principale obiettivo, e an-cora minori sarebbero i vantaggi politici tanto per i cattolici militantiin politica quanto per la democrazia italiana.

Vi è poi un’altra terapia: quella della pluralità delle espressioni po-litiche dei cattolici italiani. Questa prospettiva è, senz’altro, più reali-stica. Nessuna difficoltà esiste, in via di principio, alla pluralità di par-titi politici tendenti a organizzare i cattolici in base a diversi program-mi. Non è certo possibile aspettare, per questa ipotesi, una investitura,dall’alto o il mandato per eventualmente sostituire i cavalli logori con

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altri più freschi, ma non meno equivoci. Un partito che intenda ope-rare sul terreno democratico non può nascere d’incanto o per infanti-li calcoli machiavellici. Esso deve conquistarsi un posto reale nella so-cietà, prospettare una funzione valida nazionalmente e non solo inte-ressi di categoria o di classe sociale, conquistarsi esplicitamente nellalotta politica una cittadinanza credibile e costruttiva. È possibile tuttociò?

I cattolici che ritenessero di doversi muovere in questa prospettiva,in polemica con la stessa Democrazia Cristiana, hanno il pieno dirittodi farlo e se avessero il coraggio di non aspettare comodamente l’oraics percorrendo gli inevitabili rischi personali e di gruppo, contribui-rebbero certamente a far decantare la situazione molto più che con leprediche velleitarie e moralistiche contro una equivoca unità.

Ma anche in questa ipotesi, quali sarebbero le conseguenze? Forseche più partiti di cattolici, in concorrenza fra loro, eliminerebbero il ri-schio di richiamarsi strumentalmente all’insegnamento della Chiesaprovocando, di conseguenza, una ennesima e ancor più grave confu-sione tra sacro e profano, tra religione e politica?

Quali sarebbero, allora, i vantaggi al fine di una ripresa religiosa odi un diverso tipo di presenza politica dei cattolici nella società italia-na? Dal punto di vista religioso la compromissione politica, sia comepartecipazione individuale che come pluralità di partiti, cambierebbesoltanto di forma e sarebbe necessario ricercare su altri piani, peraltronon inibiti nemmeno nella situazione presente, le spinte per una ri-presa di tensioni morali e religiose; da un punto di vista politico la pol-verizzazione, sia individuale che di partiti, porterebbe alla difesa di in-teressi parziali e settoriali e, comunque, alla subordinazione verso altreforze politiche che acquisirebbero di fatto la «leadership» della vita na-zionale con una innaturale inversione della storia nazionale degli ulti-mi cinquant’anni.

Le cose, dunque, devono restare così? Sono in molti quelli che, an-che tra noi, prendono a pretesto la mancanza di alternative per perpe-tuare una situazione di equivoco sempre meno accettabile. Noi nonsiamo tra quelli. La nostra convinzione è che occorre imboccare, al piùpresto, la via del superamento di una unità equivoca dei cattolici cheprovoca danni in campo religioso e in campo politico. Ma per fare que-sto è necessario operare con decisione in più settori.

In primo luogo nel campo religioso. Siamo tutti responsabili del ri-tardo con il quale i frutti del Concilio si manifestano in Italia, perchésiamo tutti figli della Chiesa ed il nostro compito di credenti è di con-tribuire con impegno a quel risveglio religioso che, a nostro avviso, de-

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ve essere un obiettivo primario dei cattolici italiani. Tutto ciò che con-sente di avvicinare questo traguardo va messo in atto. Non nascondia-mo le nostre colpe di credenti, in rapporto ai problemi di vita religio-sa, dietro l’alibi dell’esistenza di un partito di cattolici.

Dal rinnovamento liturgico alla preparazione teologica, dalla mi-stica all’apostolato del laici, dalla testimonianza civile alle battaglie perla moralizzazione del costume, dalla critica alla stessa «opposizione cat-tolica» alla Democrazia Cristiana in senso religioso – se occorre – co-me accennava Gozzini, purché si pervenga attraverso un consapevoleimpegno comune a quella maturazione religiosa della cattolicità italia-na che è non ultima ragione della povertà culturale e della scarsa chia-rezza politica.

In secondo luogo nel campo culturale. Al di là della stessa Demo-crazia Cristiana, che non può certo trascurare i problemi della culturaanche se deve rifiutare una visione puramente politicistica di essi, esi-ste un largo spazio di presenza pluralistica, autonoma, per iniziative diricerca, di studio, di elaborazione, sugli aspetti più importanti della no-stra società e del nostro tempo, che deve essere – e già in parte 1o è –occupato da cattolici che sappiano muoversi con serietà e in armoniacon lo spirito del Concilio. Chi non sente il peso del condizionamen-to politico, per la diversità della propria vocazione, ha il dovere di es-sere anticipatore, fortemente polemico e stimolatore, più aperto al dia-logo ed al confronto, per dare prova di una testimonianza concreta dipresenza culturale viva e costruttiva che tanta parte ha nello sviluppocivile e politico dei cattolici e della società italiana.

E, infine, nel campo politico. Si è già detto della tendenza allosfruttamento dell’attuale unità come elemento di forza, come investi-tura che deriva le proprie motivazioni da fattori molteplici, e dei rischiche tutto ciò comporta per la alterazione dello stesso concetto di par-tito politico a base programmatica. Occorre rovesciare questa tenden-za, che porta all’unità degli interessi, al moderatismo, alla pura difesadel potere acquisito, per ricreare attorno ad un chiaro e non ambiva-lente programma di riforma della società e dello Stato i presupposti diuna autentica unità politica. Non l’unità di tutti i cattolici, ma di quel-li che accettano il metodo della democrazia e gli obiettivi che il parti-to si pone come finalità propria. Va da sé che un partito deve poi ri-cercare il massimo di consensi attorno alla sua azione, ma è chiara lafunzione di maturazione politica, di demistificazione di una falsa e me-tapolitica unità, che una siffatta azione porta con sé. Ha ragione Al-mirante: l’unità politica, non è più un dato pacifico – se mai 1o è sta-to – ma è un obiettivo da conquistare autonomamente e con le sole ar-

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mi della politica. Il problema dell’unità, dunque, riguarda i democra-tici cristiani, ed esclusivamente loro, investe il loro programma di azio-ne e richiede un impegno a raccogliere forze sulla «base di un consen-so motivato» che lasci comunque al cattolico in quanto tale la proprialibertà e autonomia di opzione. Può riguardare anche altri indiretta-mente, se si accetta la logica della chiarezza politica e dell’autonomia.E questa responsabilità – di altri – investe un solo punto: quello dellarinuncia a chiedere dall’esterno alla Democrazia Cristiana di essere larappresentanza corporativa di settori e gruppi di interesse in base aduna concezione dell’unità largamente superata soprattutto dopo ilConcilio.

Non è questa la sede per entrare nel merito di quest’ultimo punto.Certo è che la Democrazia Cristiana, ha bisogno, per raggiungere que-sto obiettivo, di un largo processo di revisione.

Nel suo metodo interno, nelle idee e nei programmi, nella classedirigente, nel concepire il suo rapporto con lo Stato e con le istituzio-ni in genere, nel costruire con decisione il modello di un partito aper-to in una società pluralista in evoluzione. E a questo proposito vi sonoalcuni spunti nella seconda parte della relazione De Rosa che per quan-to generici e sfumati, quali ad esempio quelli relativi al moderatismo ealle condizioni di una moderna politica di sviluppo, vanno attenta-mente considerati.

4 - Ma dopo il tema dell’unità, o quantomeno del modo di conce-pirla correttamente, viene come urgenza e importanza quello dei con-tenuti qualificanti la nostra azione politica per la costruzione di unnuovo ordine temporale. I testi conciliari sono espliciti in materia.«Sbagliano – essi dicono – coloro che, sapendo che sul piano tempo-rale noi non abbiamo una cittadinanza stabile, ma che cerchiamo quel-la futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri terre-ni, e non riflettono invece che proprio la fede li obbliga ancor di più acompierli, secondo la vocazione di ciascuno».

Si tratta, quindi, di ricavare da una seria analisi della realtà e deisuoi problemi le indicazioni per una azione politica di trasformazionedella situazione presente sia interna che internazionale. I grandi temidella riforma organica e strutturale dello Stato, della modifica dei mec-canismi di sviluppo dell’economia, della costruzione di un pluralismoistituzionale nella società, della difesa con atti concreti della pace qua-le condizione primaria della evoluzione dell’ordinamento internazio-nale, devono cessare di essere occasione di esercitazioni verbali per di-venire metro di scelte operative coerenti ed incisive. Non è il caso, an-

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che per mancanza di tempo, di entrare in questa sede nei singoli aspet-ti di tale programma politico. Conta, invece, riflettere sulle motiva-zioni ideali di questo sforzo di rinnovamento.

Il fine, è stato detto più volte, è quello di liberare l’uomo e le clas-si sociali da ogni sorta di schiavitù, di dominare razionalmente 1o svi-luppo storico, di garantire la convivenza e la collaborazione tra tutti gliuomini di buona volontà per raggiungere, con l’uso di tutte le risorsedisponibili un più alto grado di civiltà: l’umanesimo plenario di cuiparla appunto la «Populorum progressio».

Ci sono, a questo proposito, molte cose interessanti nella relazio-ne del prof. Cotta; ma vi sono anche alcuni pericoli che ci sembra do-veroso sottolineare.

Siamo d’accordo che il benessere, il riformismo economico, la ci-viltà dei consumi, non rappresentano né la risposta al marxismo, né larisposta all’ansia di libertà dell’uomo; siamo anche d’accordo che vi-viamo in un tempo che segna la fine delle ideologie astratte, prefab-bricate, di derivazione ottocentesca. Occorre tuttavia ricordare che setutto ciò è vero sul piano filosofico, o più modestamente su quello del-la storia delle idee, tutto ciò tarda ancora a verificarsi sul piano storicodel movimento reale degli uomini, delle forze organizzate, degli ordi-namenti economici e politici. Stiamo attraversando, a nostro avviso,una travagliata fase di transizione che ha bisogno di dure lotte, di dia-logo e di confronto più che di disarmo ideale, di presenze qualifican-ti, per essere indirizzata nella direzione giusta.

Può essere estremamente pericoloso inventare a tavolino dei nuo-vi miti. Noi non crediamo che la civiltà tecnologica, con tutto il suoaffascinante bagaglio di scoperte scientifiche e i suoi mezzi per libera-re l’umanità dal suo malessere, possa rappresentare la via d’uscita daltravaglio attuale, l’approdo fatale di un mondo che si è liberato dalleideologie. Il concetto di civiltà tecnologica non è meno mistificante diquello della civiltà del benessere.

Intendiamoci, non rifiutiamo le immense possibilità che il pro-gresso tecnologico mette a disposizione dell’uomo per il raggiungi-mento dei fini temporali, e nemmeno il contributo che esso può darea porre in crisi modelli chiusi e ideologizzanti della società umana, mariteniamo che in assenza di precise condizioni di partecipazione, di so-stanziale democrazia, di autentica libertà, la civiltà tecnologica può tra-dursi in una ulteriore spinta ad asservire l’uomo anziché a liberarlo. Po-niamoci realisticamente una domanda. Chi, infatti, se non i grandigruppi economici, i detentori del potere negli Stati, i paesi più ricchi eprogrediti, può concretamente utilizzare il progresso tecnologico che

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richiede grandi mezzi, possibilità organizzative, intese tra gruppi oli-garchici e potenti? Tutto ciò porta con sé, evidentemente, un rischiotremendo di estensione del dominio di chi già detiene il potere, in fun-zione di conservazione del proprio modello ideologico o di vita, a dan-no delle forze sociali più deboli, dei paesi meno progrediti, dell’uomoe delle classi sociali che cercano libertà e non solo affrancamento dalbisogno e razionalità ed efficienza.

Perciò il problema della democrazia nelle sue varie ferme storiche,che è poi in radice il problema della libertà e della generalizzazione delpotere, è a nostro avviso prevalente e condizionante la stessa utilizza-zione più alta, meno dispotica, delle conquiste tecnologiche.

E questa constatazione ne porta con sé un’altra. Si intravede, nellaparte finale della relazione Cotta, il rischio di una nuova forma di in-tegralismo non più legato ad una ideologia definita, ma permeato diastrattezza storica. La posizione del cattolico è portata, dopo il Conci-lio, a porsi più correttamente che nel passato di fronte alla meta dellasalvezza trascendente e a far discendere da ciò il dovere di una illumi-nazione spirituale dell’umanità con un senso, giusto, della relativitàdell’ordine temporale. Si è già detto del dovere, evidentemente condi-viso anche da Cotta, di contribuire attivamente alla costruzione di que-sto ordine temporale; ma, a nostro avviso non basta. Ci sono anche al-tri uomini, con le loro idee, con la loro storia, che si muovono nelmondo e che condizionano 1o sviluppo futuro. Esiste quindi un pro-blema di dialogo, di incontro, di una collaborazione reciproca per fa-vorire un processo di revisione delle rispettive ideologie e per costrui-re, con l’apporto di tutti gli uomini di buona volontà, una nuova realtàumana.

Non si può dare per scontata la fine del marxismo e dei movimen-ti politici che ad esso si richiamano, né si può ritenere superata una tra-dizione di liberalismo pratico che ha finito con l’assorbire anche mol-ti di noi: occorre, in altri termini, fare i conti con il mondo modernoe con le sue espressioni politiche, per decantarle e farle crescere, anzi-ché rifugiarsi in una nuova forma di integralismo che fugge dalla realtà.

E qui, come ha significativamente sottolineato il Presidente delConsiglio, on. Moro, l’esigenza del dialogo senza restrizione alcuna,del confronto e della collaborazione tra forze diverse, che è poi il me-todo della democrazia politica, presuppone e richiede più che il disar-mo ideologico nella direzione di un pragmatismo più o meno storiciz-zato, una revisione profonda delle ideologie tradizionali che faccia tut-tavia posto ad un sistema di valori che conservi alla politica, all’azioneconcreta, la forza di un orientamento ideale. E ciò, ripetiamo, non so-

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lo per dare a noi stessi un senso storico più preciso alla nostra presen-za nel mondo, ma anche per aiutare gli altri – senza alcuna velleità dicrociata ideologica – a portare innanzi sotto 1o stimolo altrui anche lapropria revisione ideologica. Forse che la lentezza con la quale, per fa-re solo un esempio, si va sviluppando nel comunismo italiano un pro-cesso benefico di revisionismo non dipende anche, almeno in parte,dalla nostra incapacità di svolgere una funzione stimolante in tale di-rezione?

Ciò vale anche per altri campi e non v’è dubbio che la caduta ver-ticale delle speranze sollevate dalla politica di centro-sinistra, il suo ap-piattirsi in un ambito di riformismo settoriale e di semplice occupa-zione a mezzadria del potere, si deve in gran parte alla sottovalutazio-ne, all’interno dell’alleanza, dei problemi di natura ideale e delle revi-sioni che le trasformazioni in corsa sollecitano.

Per questo noi auspichiamo che la salutare presa di coscienza chela relazione del prof. Cotta sollecita non spinga a delle pericolose eva-sioni, a delle facili fughe in avanti, ma si arricchisca di una maggioreconsapevolezza storica per metterci nelle condizioni di compiere, an-che nel rapporto con gli altri uomini di buona volontà, interamente ilnostro dovere.

5 - La conclusione che vorremmo trarre da questo nostro contri-buto è tuttavia una sola: al di là delle opinioni di ciascuno, necessaria-mente differenziate, è importante che emerga per tutti il dovere di unatestimonianza reale della nostra disponibilità a raccogliere 1’appellodel Concilio. C’è molto da fare, per tutti, in campi diversi a secondadelle rispettive vocazioni: se avremo coraggio, capacità di dialogo, tol-leranza e autentico spirito di carità, potremo contribuire ad avvicinarein umiltà di intenti quei tempi nuovi che sono al fondo delle aspira-zioni di ogni cattolico che voglia testimoniare nel mondo la propria fe-de ed il proprio impegno civile.

113I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianità

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I rapporti tra Chiesa e Stato a cento anni da Porta Pia*

Tra le carte d’archivio di Luigi Granelli è conservato il testo di un di-scorso inedito, pronunciato presumibilmente il 20 settembre 1970, per ri-cordare i cento anni dalla breccia di Porta Pia e la costituzione di Romacapitale d’Italia.

Con la sua analisi Granelli ripercorreva i difficili rapporti che ave-vano diviso lo Stato italiano dalla Chiesa Cattolica. La Questione Ro-mana, risolta dagli accordi del Laterano, veniva riletta dal deputato de-mocristiano con una particolare attenzione alle posizioni espresse dagliesponenti cattolici. Vengono citate le testimonianze emblematiche diSturzo e De Gasperi, ma altrettanto significativo è il riferimento al di-scorso tenuto in Campidoglio, nell’ottobre del 1962, dall’allora cardina-le Montini – divenuto nel frattempo Papa Paolo VI, e con cui Granelliaveva avuto diversi contrasti a Milano negli anni Cinquanta in meritoalla linea politica di apertura a sinistra – il quale, in quell’occasione,aveva giudicato «provvidenziale» per la Chiesa italiana la perdita delpotere temporale.

Ma è soprattutto a seguito del Concilio Vaticano II che, secondo Gra-nelli, si ebbe il definitivo abbandono, da parte della Chiesa cattolica, diogni tentazione temporalista.

Qualche tempo dopo, partecipando a un dibattito organizzato dai giu-risti cattolici presso il centro San Fedele di Milano in merito alla riformadel Concordato – per la quale era stata istituita una apposita commissio-ne di studio – Granelli affermerà che «Stato e Chiesa sono nella loro sferarispettivamente sovrani; ed è per consolidare questa distinzione che alle po-lemiche del passato è preferibile l’impegno a cancellare anacronismi o pri-vilegi d’altri tempi per dare pienezza di libertà ad un rapporto che, senza

* ASILS, Fondo Granelli, serie VIII, sottoserie 2, b. 24.

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confusione alcuna, incoraggi la tolleranza e consolidi per tutti la pace re-ligiosa e la democrazia».

Il tallone d’Achille di ogni celebrazione è la retorica, ma tale rischionon può fare confinare nell’oblio fatti storici di valore decisivo chemantengono significati ancora attuali. Il centenario di Roma capitaleè senz’altro tra questi fatti e il suo ricordo può rinfocolare polemiche econtrasti che pure hanno avuto la loro importanza, come può prestar-si all’esaltazione superficiale di una concordia raggiunta forse nell’illu-sione di allontanare problemi che, invece, permangono pur nella loronaturale evoluzione. Bisogna guardarsi da questi errori.

Non si tratta tanto di dar luogo a solenni manifestazioni ufficiali,anche perché avrebbe più significato – come ha osservato l’on. An-dreotti – un impegno per abolire le baracche o costruire l’asse attrez-zato in Roma capitale, quanto di riflettere sugli insegnamenti che il fat-to, ad un secolo di distanza, ancora riserva.

La fine della «Questiona Romana» ha dato l’avvio, con la distin-zione ed i successivi nuovi rapporti tra Stato e Chiesa, ciascuno sovra-no nel proprio ordine, ad una nuova fase della storia italiana, ma i ri-sultati di questa svolta non sono acquisiti una volta per tutte e, anzi,devono essere consolidati e difesi in stretto legame con l’evoluzione deitempi. L’epoca moderna, con i suoi drammatici sconvolgimenti, di-mostra infatti che i rapporti tra Stato e Chiesa, fondamentali per la pa-ce e la prosperità civile soprattutto in Italia, sono sempre meno confi-gurabili come questioni meramente giuridiche o diplomatiche e sem-pre più come rapporti che investono sistematicamente, ad ogni livel-lo, la coscienza dei cittadini.

Perciò un effettivo senso dello Stato democratico, una più autenti-ca coscienza religiosa, un tollerante costume di dialogo o di compren-sione, sono più che conquiste storiche da celebrare, beni essenziali dadiffondere maggiormente tra tutti i cittadini se si vogliono consolida-re nel futuro.

A questo fine non giova certo far rinascere i fantasmi del clericali-smo e dell’anticlericalismo. La pericolosa tentazione riguarda, insieme,cattolici e laici. Essa prospera quando domina il conformismo reci-proco, o l’ambiguità prende il posto dei riconoscimenti e delle distin-zioni che vanno affermate senza tortuose cautele.

I cattolici italiani devono guardare al XX settembre 1870 per quel-lo che significa al di là dell’asprezza della contingenza storica. Il pote-re temporale impediva la missione religiosa universale della Chiesa e,al tempo stesso, ostacolava una partecipazione paritaria dei cattolici

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italiani in quanto cittadini alle lotte civili e politiche del paese. Non è,questo, giustificazionismo a posteriori. L’evoluzione storica consentedi rispettare senza infingimenti il passato e, in egual misura, di supe-rarlo senza rimpianti in vista di conquiste civili e religiose superiori.

L’esempio di una sanzione definitiva, in sede religiosa, può esseretratto fra le tante autorevoli affermazioni dalle significative parole usa-te dall’allora cardinale Montini, in un discorso tenuto in Campidoglionel 1962, per ricordare che la provvidenza «quasi giocando drammati-camente negli avvenimenti tolse al papato le cure del potere tempera-le perché meglio potesse adempiere la sua missione spirituale nel mon-do». Dopo un secolo di travagliate vicende, e soprattutto dopo il Con-cilio Ecumenico, si può dire che la coscienza religiosa, non solo la mis-sione della Chiesa, hanno tutto da guadagnare nel lasciare alle lorospalle il peso del temporalismo e della confusione tra religione e poli-tica. Ma la sanzione storica è decisiva anche per un pieno sviluppo del-la vocazione civile e democratica dei cattolici italiani. Anche qui le vi-cende sono lunghe e drammatiche, ma il ricordo di esse è importanteper sottolineare – e ve n’è ancora bisogno – che l’autonomia della po-litica, il senso dello Stato costituzionale, la non compromissione dellareligione a fini temporali, rappresentano conquiste ideali dello stessomovimento dei cattolici italiani con valori non mutuati meccanica-mente dal laicismo o subiti dalla vicende storiche. Vi sono state, e an-cora vi sono, anche nel nostro campo deformazioni integralistiche, re-stauratrici o progressiste a seconda della loro inclinazione, tendenti aconfondere valori che per la stessa coscienza cattolica vanno tenuti net-tamente distinti, ma basta ricordare il «caso di coscienza» del Risorgi-mento, figure di rilievo, come Manzoni o Rosmini, le battaglie politi-che di Sturzo, di Meda e di De Gasperi, per dimostrare come le con-quiste connesse alla fine del temporalismo siano, in sede civile e poli-tica, un patrimonio proprio e originale dei cattolici italiani che va tu-telato e arricchito.

Anche qui possono valere, tra le tante, alcune testimonianze signi-ficative. I cattolici, disse Luigi Sturzo nel 1915, devono affacciarsi allavita nazionale come cittadini «non come una setta religiosa che pro-pugna da sé un tenore di vita spirituale, né come autorità religiosa cheguida la società dei fedeli, né come partito clericale che difende i dirit-ti storici della Chiesa, ma come una ragione di vita civile informata aiprincipi cristiani, nella morale pubblica, nello sviluppo del pensiero fe-condatore, nel concreto della vita politica». E De Gasperi, cin-quant’anni dopo, osservava acutamente in uno dei suoi ultimi discor-si, di fronte a tentazioni temporaliste non del tutto superate, che «il

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credente agisce come cittadino nello spirito e nella lettera della Costi-tuzione ed impegna se stesso, la sua categoria, la sua classe, il suo par-tito, non la sua Chiesa».

La sanzione, dunque, non può che essere definitiva anche in sedepolitica e civile e tocca oggi, principalmente, ai cattolici democraticidifendere, nel quadro di una conquista storica che appartiene a tuttoil paese, valori di autonomia che rappresentano una condizione essen-ziale per lo svolgimento, sul terreno costituzionale, delle loro battagliecivili e politiche.

Ma tali valori vanno vissuti e difesi con coerenza, senza temporali-smi ammodernati e senza rinuncia delle proprie ispirazioni ideali, edin una posizione di aperto dialogo con tutte la forze laiche per evitareche anche quest’ultime, vittime del proprio integralismo, sentano latentazione di un anticlericalismo di ritorno che sarebbe pernicioso co-me lo fu, per tanto tempo, il clericalismo.

Per questo bisogna scartare le celebrazioni di maniera. Vi sono pro-blemi scottanti sul tappeto (è inutile ignorarlo), dal divorzio alla revi-sione del concordato, che possono scuotere dalle fondamenta una su-perficiale concordia e far rinascere antistorici contrasti, dannosi per lacoscienza religiosa, come per il progresso civile, ove non dovessero pre-valere il reciproco senso della misura, il rispetto dei valori di ciascuno,la volontà ferma di mantenere il confronto sul terreno civile e politicofacendo corretto uso dei mezzi costituzionali che il regime democrati-co del paese mette, su di un piano di parità, a disposizione di tutti.

Le scadenze difficili che l’Italia incontra nella sua progressiva tra-sformazione, anche se non sono più difficili di quelle del passato, sa-ranno più agevolmente superate se i cattolici non avranno alcun rim-pianto per la «breccia di Porta Pia» e se i laici comprenderanno che lacoscienza religiosa, che nulla ha da spartire con il clericalismo, lungidall’essere un residuo del passato è un elemento vitale che arricchiscela stessa vita civile: è qui, in sostanza, che si potrà misurare la maturitàdi tutti nel celebrare, al di là delle solenni manifestazioni e delle este-riori cortesie diplomatiche, un momento decisivo della nostra storianazionale che può ancora contribuire all’affermarsi di una civile e de-mocratica convivenza.

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Di fronte al referendum sul divorzio*

Il referendum abrogativo della Legge Fortuna-Baslini del 1 dicembre1970, con cui venne introdotto l’istituto giuridico del divorzio nell’ordi-namento politico italiano, si svolse il 12 maggio del 1974. Amintore Fan-fani, che in quel frangente politico guidava la Democrazia Cristiana, im-pegnò il partito nell’intensa campagna referendaria che vide il Paese divi-so radicalmente in schieramenti contrapposti. Accanto alla DC e al Movi-mento sociale italiano, si ponevano anche quei gruppi cattolici che aveva-no voluto la prova referendaria. Ma in quell’occasione – e per la primavolta su un piano politico – emersero, in maniera clamorosa, delle frattu-re e divisioni fino ad allora rimaste latenti all’interno del mondo cattoli-co. Diversi intellettuali cattolici si espressero pubblicamente per il «no» al-l’abrogazione della legge. La battaglia contro il divorzio fu vissuta in pri-ma linea da Fanfani e – nonostante malcelati malumori e qualche estre-mo tentativo di trovare una soluzione legislativa che evitasse il referendum– anche dalla sinistra del partito, che infine, nella riunione di direzionedel 9 febbraio 1974, accettò l’agguerrita impostazione fanfaniana. L’esitodella consultazione popolare, che vide la vittoria del «no» all’abrogazionecon il sorprendente risultato del 59,3% dei votanti, svelò la realtà di unPaese sempre più secolarizzato, e mise seriamente in crisi l’egemonia poli-tica della Democrazia cristiana. In una delle dichiarazioni espresse a com-mento del risultato, Granelli evidenziò una «colpa della DC che nel suo in-sieme non ha avuto il coraggio, che in altri momenti difficili Alcide DeGasperi seppe trovare, per opporsi ad uno scontro pericoloso».

Il testo di questo discorso inedito, tenuto presumibilmente a Boario, èconservato tra le carte d’archivio di Granelli.

*ASILS, Fondo Granelli, serie VIII, sottoserie 2, b. 25.

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Questo discorso è stato trascritto direttamente dal magnetofono senzaessere stato rivisto dall’autore. Pertanto si è deciso di correggere alcuni evi-denti errori di trascrizione e pubblicarlo come esempio dell’oratoria “abraccio” di Luigi Granelli.

Miei cari amici,io credo che una riflessione come quella che siamo chiamati a fare

che non può essere né elusiva né semplicistica abbia degli aspetti di dif-ficoltà che nessuno può ignorare.

Noi ci troviamo a definire o meglio cercare di definire una posi-zione dei cattolici democratici in Italia in questo momento, cioè in unmomento in cui, con la scadenza del referendum, ci si trova di frontea delle scelte di coscienza che sono estremamente pesanti, estrema-mente difficili. Si è detto da qualche parte giustamente che questa scel-ta non solo divide i partiti ma spesso divide anche i gruppi di amici chehanno una lunga consuetudine di convergenze su questo punto o suquel tema politico e quindi dobbiamo essere fra di noi molto tolleran-ti, molto rispettosi anche se dobbiamo evitare di non far finta di nien-te, dobbiamo evitare la via del silenzio, la via dell’attesa che i fatti ci li-berino da una questione che invece ha la sua grande importanza.

Dobbiamo assumere come sempre nei momenti difficili le nostreresponsabilità, dire con chiarezza la nostra opinione, contribuire aorientare le incertezze che sono assai diffuse e salvare, soprattutto perquanto riguarda le prospettive future, un impegno politico dei catto-lici democratici che non faccia fare a tutto il nostro paese un salto in-dietro verso gli storici steccati tra guelfi e ghibellini, tra laici e cattoli-ci, che sarebbero estremamente pericolosi.

Quindi il punto di partenza non può non essere quello della con-statazione anzitutto della particolare gravità della celebrazione di un re-ferendum, il primo referendum nella esperienza storica italiana, pro-prio su un tema così delicato che investe direttamente la libertà di co-scienza e che viene strumentalizzato da varie parti. Paradossalmente,forse non tanto, proprio nell’anno in cui si celebra De Gasperi, noi sot-toponiamo il paese in maniera drammatica a uno schieramento di sì edi no che rappresenta sul piano politico il contrario di tutto quello cheDe Gasperi ha cercato di insegnare ai cattolici democratici. Noi sap-piamo bene che nel sì e nel no, nella semplificazione estrema della lot-ta politica, passa quella spaccatura verticale degli schieramenti che è ilcontrario del pluralismo e della vita democratica nel nostro paese. DeGasperi si è sempre opposto a questa radicalizzazione, ha cercato di sal-vare una funzione della DC come partito dei cattolici democratici al ri-

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paro da blocchi clericali o clerico-fascisti o di destra o puramente elet-toralistici, ha sempre cercato di mantenere un collegamento dialetticocon la distinzione con le forze della sinistra laica, della sinistra sociali-sta, con la sinistra democratica e non c’è dubbio che la congiuntura delreferendum già manda in aria una prospettiva di questo genere e pro-pone per noi e per tutti una delle prove più difficili del dopoguerra chenon deve essere sottovalutata né nel suo svolgimento, né nelle sue con-seguenze che come dirò nel corso della relazione rischiano di ripro-porci, in maniera pressoché intatta, sia i problemi di sostanza, quellidella famiglia che non si risolvono con un sì o con un no e quelli po-litici della ricostruzione di un equilibrio che certamente uscirà grave-mente incrinato dallo scontro frontale che è oggi in atto.

Ho visto proprio ieri, tirando fuori alcune pagine dattiloscritte, chenel ’71, proprio qui a Boario, io ebbi una polemica con Padre Macchiproprio su questo tema, quando Padre Macchi insisteva nel dire che ladifesa della nostra concezione della famiglia anche sul piano politiconon avrebbe dato luogo a guerre di religione o a contrasti radicaleg-gianti ma che anzi era tempo di liberarsi da quel complesso di inferio-rità.

Io credo che più andiamo avanti nel corso della campagna eletto-rale più ci si rende conto che, come dicevo allora in polemica con Mac-chi, per mantenere la pace bisogna essere sempre in due e non bastache unilateralmente uno dichiari la guerra dicendo che la guerra nonvuol dichiarare; quando ci si mette sulla strada della contrapposizionedelle idee fondamentali la risposta è quella della radicalizzazione. Nonsi è mai fatta una guerra sparando fiori dai fucili e noi vediamo manmano che si va avanti sarà sempre peggio.

Questo mese sarà un mese caldo dove riemergeranno le posizionipiù oltranziste degli schieramenti politici. Tanto per fare un caso im-mediato di riferimento politico non c’è dubbio che per esempio l’ege-monia di fatto dello schieramento di sinistra, o meglio dello schiera-mento costituzionale divorzista che vede una parte importante nel par-tito comunista, non è certo egemonizzato dai comunisti, è egemoniz-zato dai laicisti, cioè da quelli che vedono nella difesa del divorzio unaparticolare costruzione della società e le posizioni più ragionevoli e piùresponsabili che noi abbiamo visto anche in parlamento nello schiera-mento divorzista rischiano di essere posposte alla egemonia radicale echiusa verso il dialogo dei cattolici nei confronti della parte abroga-zionista e questo succede anche per i cattolici. Poi perché molti prefe-riscono la via del silenzio a quella del disonore, poi perché Fanfani pertemperamento parla sempre e parla solo lui, poi perché Lombardi

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mantiene l’egemonia di una rivendicazione su questo terreno certa-mente non compatibile con la posizione tradizionale della DC, anchenello schieramento abrogazionista c’è il rischio che emergano le posi-zioni più oltranziste, quelle meno aperte al dialogo, meno aperte allacomprensione. Questo è il dato politico che noi non possiamo subire.La scelta del referendum ha voluto significare, su una materia comequesta, la scelta della radicalizzazione politica e non giova auspicare chenon si politicizzi uno scontro che nella realtà non può non essere chepolitico e giova anzi ricordare che man mano che si va avanti tutti siaccorgono che questa prova è e sarà lacerante, anzi dicevano: «No, sa,è un confronto civile, non ci saranno grandi difficoltà». Basta guardarsiattorno per constatare intanto che una prova come questa divide i cat-tolici, i cattolici sono profondamente divisi anche nelle loro direi rap-presentanze ecclesiali, non solo politiche, rischia di umiliare la chiesaperché coinvolge la chiesa in una battaglia che, per quanto si dica ci-vile, avrà degli esiti che da un punto di vista religioso saranno certa-mente pesanti per la posizione della chiesa in Italia, spinge la DC con-tro tutti i partiti costituzionali a braccetto quasi con i fascisti e credoche un bilancio complessivo più lacerante di così, per quanto riguardaun certo tessuto dei cattolici italiani, non vi possa essere.

E allora qui, consentitemi di dire, proprio di fronte alla constatazio-ne che i fatti stanno dando ragione a quelli che si erano battuti per evi-tare una prova di questo genere, non per la illegittimità del referendumche certamente è legittimo, ma per il diritto dovere del parlamento di ar-rivare anche a una modifica della legge Baslini-Fortuna che avrebbe evi-tato una prova di questo genere, consentitemi di ricordare, nella primasintetica parte di questa relazione,1’insieme degli errori, delle inerzie,delle mancate assunzioni di responsabilità da parte della DC e delle altreforze politiche che hanno portato a questo scontro. Siamo ormai in pie-na campagna elettorale e diremo per l’ultima volta, poi non ne parlere-mo più, quanto si poteva e si doveva fare per evitare il referendum ancheperché la politica non è fatta da se ed ormai siamo nel vivo di uno scon-tro che non può farci dimenticare la realtà per cruda che sia.

Però, il fatto che noi non ne parleremo più da oggi in poi di que-sto giudizio sul passato, non autorizza a pensare che con l’accantona-mento del giudizio sulle responsabilità del passato noi abbiamo archi-viato, per così dire, le responsabilità che resteranno molto precise an-che in sede di bilancio post-referendum perché quando conteremo icocci, qualunque sia il risultato, e cercheremo di superare le conse-guenze negative di questa prova bisognerà pur ricordare anche per trar-ne una lezione, un’esperienza, quelle che sono state le responsabilità

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per non aver evitato una prova di questo genere. E nel riassumere, an-che per ricordare la parte che modestamente noi abbiamo avuto suquesto, dirò che noi, per ragioni di equità e di giustizia, non possiamofermarci soltanto alle reticenze dell’ultimo periodo. Io l’ho detto inun’intervista all’Espresso, lo ripeto spesso, certamente le responsabilitàdi Fanfani sono gravi da questo punto di vista perché non casualmen-te, nel patto di palazzo Giustiniani, si era messo un riferimento alla pa-ce religiosa che altro non voleva dire che questo, cioè il tentativo di su-perare per via parlamentare un contrasto tra i partiti politici e Fanfaniha indubbiamente delle responsabilità per non aver tentato sufficien-temente, per non aver chiarito dove sono state le difficoltà del tentati-vo, per avere in fondo mai parlato in direzione di partito e in consiglionazionale di tutto quello che è successo prima di giungere alla deter-minazione della famosa direzione del partito che ha deciso all’unani-mità di andare al referendum, in un certo modo non ha rifatto di pun-to il bilancio sul perché i tentativi sono da considerarsi falliti. Io mi ri-cordo che quando chiesi quella riunione di direzione della quale nonfaccio parte ma che ritengo in un partito politico sia il massimo dellaespressività democratica, io avevo anche chiesto che in quella direzio-ne, prima di decidere come andava il referendum, bisognava fare ilpunto sul perché di tutti i tentativi che erano stati messi in atto per evi-tarlo dovevano considerarsi conclusi, perché non si era accettata la pro-posta che io stesso avevo fatto di una riunione di tutti i presidenti deigruppi parlamentari dell’arco costituzionale per vedere, sia pure nel-l’ultimo momento, di trovare una soluzione parlamentare. E quindinon nego che ci siano queste responsabilità gravi anche dell’ultimomomento. Però gli errori, se vogliamo guardare al futuro, sono moltopiù remoti e dobbiamo dire, proprio in sede anche di valutazione diquello che faremo successivamente, che il primo più grave errore, an-che qui a causa della mancata assunzione di responsabilità e forse delmancato coraggio della DC, è stato quello di legare l’introduzione deldivorzio nella legislazione italiana alla contropartita del referendum,l’intesa tra Rumor e De Martino che sostanzialmente illuse i due par-titi nel superare lo scoglio che era uno scoglio reale quando invece 1’u-nica, vera, seria contropartita per dei cattolici democratici e per un par-tito come la DC all’eventuale introduzione del divorzio in una legisla-zione civile era quella di una riforma del diritto di famiglia che avessenella concezione generale della legislazione attenuato il punto sulla in-dissolubilità del vincolo in taluni casi particolari.

Non si è avuto il coraggio di affrontare il discorso a questo livelloche avrebbe potuto vedere contrapposti ma poi riuniti in una sintesi

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superiore sia le posizioni dei cattolici in difesa dell’unità della famigliasia le posizioni dei laici sul terreno della rivendicazione di un aspettodi libertà e da allora non si è fatto altro che continuare a rinviare il pa-gamento di una cambiale che adesso tutti stiamo per pagare e si è rin-viato questo pagamento della cambiale, tra l’altro attraverso tutta unaserie di stratagemmi che sono rimasti molto misteriosi e che sono, sa-ranno senz’altro oggetto di studio molto interessante da parte degli sto-rici del futuro perché quasi in maniera sorniona, subito dopo l’intro-duzione del divorzio e l’approvazione contemporanea della legge isti-tutiva del referendum, cominciò a circolare tra tutti i partiti l’idea chepoi si sarebbe trovato modo di non farlo questo referendum, quasi chesi potesse dare al popolo italiano uno strumento di democrazia diret-ta, tra l’altro esaltato, a mio avviso, a dismisura. Io ricorderò sempreche lo strumento del referendum può essere uno strumento anche peroperazioni di netta marca antidemocratica. Per anni, la vicina Svizzeraha negato col referendum il voto alle donne che è uno degli elementipiù importanti nell’esercizio della democrazia e quindi esaltando que-sto strumento di democrazia diretta, offrendo a frange elettorali con-sistenti che sono polemiche anche contro il sistema dei partiti, dellacostituzione, del parlamento, etc. era come dare un giocattolo in ma-no a chi avrebbe potuto avvalersene e non valeva poi dire in definitivatroveremo poi il modo per evitare il referendum, tanto più poi che iperiodi in cui si è cercato di evitare il referendum, sull’unica strada co-stituzionalmente corretta e possibile che era quella della revisione inParlamento, revisione sostanziale della legge Baslini-Fortuna, si sonoverificati in circostanze quanto meno sospette.

Noi abbiamo visto un grande sforzo di revisione della Baslini-For-tuna alla vigilia della elezione della presidenza della Repubblica; qual-cuno può anche immaginare che se allora si fosse pagato un certo prez-zo si sarebbe ottenuto anche magari la revisione di questa legge, macerto è che, una volta avvenuta la elezione del capo dello Stato gli stes-si protagonisti di questo tentativo di mediazione si sono dimenticatiper lungo tempo che aveva una oggettività in sé la modifica della Ba-slini-Fortuna al di là della contropartita che se ne poteva derivare.

E quindi direi che tra le responsabilità del passato, oltre all’erroreiniziale che avevo detto per collegare l’introduzione del divorzio al re-ferendum anziché alla riforma del diritto di famiglia, oltre all’anda-mento misterioso e sospetto di tutti i tentativi lasciati a metà poi sen-za spiegazioni plausibili della modifica in parlamento della legge Ba-slini-Fortuna, abbiamo avuto a mio avviso l’ultimo atto piuttosto gra-ve di inerzia rispetto a questo problema ed è a mio avviso nell’ultimo

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periodo l’atto che poteva intervenire successivamente alla proposta inverità non trascurabile per dei DC fatta in prima persona dal segretariodel partito socialista, l’on. Francesco De Martino, quando, oltre alleproposte avanzate dai comunisti e dai laici in materia di difesa dei fi-gli, di garanzie del coniuge più debole, di miglioramento in pratica sulpiano civile di molte norme della Baslini-Fortuna, avanzava anche, perla verità, per la prima volta, la tesi certamente interessante di una cer-ta rilevanza giuridica della libera opzione religiosa dei coniugi pur nel-l’ambito di una legge uguale per tutti che avrebbe consentito di porrele basi giuridiche di una revisione consensuale del concordato dopoche la Santa Sede, per l’esercizio unilaterale della sua sovranità, avevadenunciato un vulnus, un vulnus per la verità non riconosciuto dallaCorte Costituzionale che per due volte ha ritenuto compatibile il prin-cipio divorzista e la legge Baslini-Fortuna con l’ordinamento costitu-zionale italiano. Ma certamente questa ultima proposta di De Marti-no avrebbe consentito di riprendere il discorso delle relazioni tra Sta-to e Chiesa che articoleremo nella parte finale della relazione, che nonsono da ritenere cancellate dopo un referendum come quello che stia-mo compiendo e la stessa revisione consensuale del concordato su unpunto delicato che pur senza introdurre la doppia legislazione matri-moniale avrebbe comunque riservato un trattamento rispettoso per ilmatrimonio religioso pur lasciando anche ai cattolici il diritto di eser-citare possibilità previste dalla legge civile per tutti i cittadini italiani.L’aver lasciato perdere anche quello che consentiva di dare anche untono più rassicurante per i cattolici alla revisione della Baslini-Fortunaha portato in definitiva a vedere di volta in volta sciupate e distruttetutte le occasioni che avrebbero potuto correttamente evitare il ricor-so al referendum come è mancata anche la verifica finale perché se cifosse stata quella riunione parlamentare che io avevo proposto fra tut-ti i partiti dell’arco costituzionale e si fossero ammesse in quella sede levarie responsabilità perché non c’è dubbio che anche una parte, la par-te più oltranzista dello schieramento divorzista puntava sul referen-dum, non voleva l’intesa. Ricordate anche quel documento sottoscrit-to da un certo numero di parlamentari, socialisti, repubblicani e laiciche si sarebbero opposti al cosiddetto connubio tra cattolici e comu-nisti su una materia come questa, anche quella verifica finale ci avreb-be perlomeno consentito di andare di fronte all’elettorato con un di-scorso almeno più credibile su tutti gli sforzi fatti per evitare una pro-va di questo genere.

Non parliamo poi, e giungiamo alla seconda parte della relazione,della anche altra grave responsabilità di avere per tanti anni accanto-

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nato e non portato a compimento la riforma del diritto di famiglia checi metterebbe indubbiamente nelle condizioni di fare un discorso ver-so gli elettori in positivo sulla famiglia e non soltanto in posizioni di-fensive sullo scioglimento sì, scioglimento no.

Quindi abbiamo visto che questo insieme di occasioni perdute,sulle quali anche per buon gusto non parleremo più da qui in avantinel corso della campagna elettorale, sono da noi accantonate ma nonsono archiviate perché queste restano responsabilità politiche sullequali bisognerà pure ricostruire un giorno il giudizio su quello che ri-mane da fare anche dopo il 12 maggio e da questa catena di occasioniperdute riemerge anche che le responsabilità all’interno della DC sonoplurime. Noi dobbiamo dire, senza nessuna rivendicazione particola-ristica, che infatti nelle occasioni mancate che io ho ricordato ci sonostate delle prese di posizione allo scoperto di esponenti qualificati del-la sinistra democratica ma che queste posizioni, aimè, sono sempre ap-parse piuttosto isolate all’interno della DC anche per il silenzio di au-torevoli e consistenti forze esistenti nel partito che avrebbero dovutocome noi, pur non essendo di sinistra, sentire il dovere di difendere laposizione laica e democratica della DC, alludo anche al grosso del grup-po doroteo che nelle conversazioni private tende a distinguersi dall’in-tegralismo fanfaniano ma che in pubblico, quando ci sono delle scelteda compiere, non assume mai una posizione, non prende mai una de-cisione. Quindi le responsabilità sono molto ampie, la sinistra demo-cristiana ha fatto la sua parte anche se è stata in tutte queste occasionisoccombente perché i suoi appelli sono rimasti inascoltati; tutto que-sto è un giudizio di ricostruzione storica che io non potevo ignorarenel momento in cui noi cerchiamo di riflettere insieme su quello chedobbiamo fare oggi e domani senza dimenticare le responsabilità di ie-ri anche perché, come dirò alla conclusione, ci toccherà fare domani incondizioni più difficili quello che ieri non abbiamo avuto il coraggiodi fare, e quindi il ricordo dello ieri non è certamente fuori luogo. Maadesso veniamo alla seconda e più importante parte della nostra rifles-sione che è quella del cosa fare nella campagna del referendum, di qua-le atteggiamento assumere e di come valutare la posizione dei cattolicidemocratici di fronte a un problema di coscienza grave come questoche non solo mette di fronte a ciascuno di noi i problemi della fami-glia, riduce a un sì e un no un problema che non è riducibile al sì e ilno perché il sì e il no distaccato dal come non ha senso o avrà sensoper superficiali ma non per chi guarda queste cose con preoccupazio-ne di coscienza, ma mette di fronte a problemi di coscienza al di là del-la questione familiare anche in termini di bene comune generale.

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Noi vediamo che in questa battaglia c’è il rischio di vedere una in-naturale collocazione della DC che taglia i suoi ponti verso le posizionidirei più sensibili, più moralmente attente, più culturalmente vivacidel mondo cattolico per fare da eco invece alle posizioni più oltranzi-ste, più antidemocratiche che si possa immaginare.

Non è casuale che i Gedda, i Lombardi che potevano essere consi-derati i nemici storici di De Gasperi dal punto di vista della colloca-zione politica o della concezione della posizione politica ci portino alrischio che esca una frattura tale nel tessuto connettivo sociale e civiledella società italiana con guasti irreparabili che vanno al di là dell’u-nione della famiglia.

Siccome ci hanno sempre insegnato e continuano a insegnarci cheil bene comune deve essere visto nella sua complessità e che non c’è unproblema soltanto della famiglia che possa essere disgiunto dalla tute-la del bene comune in generale e siccome noi sappiamo che la concor-dia democratica, la pace religiosa, la tolleranza nel paese, lo sviluppodella democrazia sono elementi costitutivi ed essenziali del bene co-mune, non possiamo non sottolineare che c’è una situazione di gran-de imbarazzo e di grande difficoltà a compiere delle scelte sulle qualiessere estremamente sicuri.

Credo che la prima lezione che dobbiamo trarre da questa diaspo-ra che divide in tante posizioni gli stessi cattolici democratici è quelladella tolleranza, del reciproco rispetto, del tentativo di capire le ragio-ni che possono portare ad atteggiamenti diversi. E qui io devo subitodire che mi pare noi dobbiamo, per essere molto franchi fra di noi, sta-bilire una distinzione precisa anche nell’ambito della vasta schiera deicattolici democratici e non commetterò l’errore integralista di ritenereche i cattolici, in quanto cattolici, sono democristiani, cosa che abbia-mo sempre respinto. La DC non è il partito di tutti i cattolici, ci sonocattolici che sono di destra e non sono democristiani e la stessa veritànoi dobbiamo dire nei confronti di tutti i cattolici democratici, si puòessere cattolici anche senza essere democratici ma ci sono delle posi-zioni che devono essere attentamente rispettate.

Ma se guardiamo alla nostra storia noi dobbiamo stare attenti che c’èuna diversità politica non artificiosa ma sostanziale tra il cattolico de-mocratico che in quanto cittadino si pone individualmente o senza unascelta di formazione politica di fronte allo Stato, di fronte alla legge e cheuna volta risolto il suo problema di coscienza ha risolto tutto e il catto-lico democratico che militando in un partito, avendo responsabilità sto-riche, proponendosi di modificare le legislazioni, ha una funzione ob-biettivamente diversa e non credo che la distinzione tra cattolico demo-

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cratico possa essere quella di chi ritiene che tutti i cattolici democraticisono nella DC o tutti i cattolici democratici sono quelli che fuori dellaDC non si assumono le responsabilità tipiche di un partito politico.

È chiaro che c’è una diversità di funzione, c’è una diversità di re-sponsabilità e c’è una diversità di valutazione che noi dobbiamo com-piere con molta serenità soprattutto in relazione al fatto che la libertàdi scelta e la libertà di coscienza deve essere rispettata fino in fondo. Ecredo che proprio per questa onesta distinzione che io ho cercato di fa-re tra cattolici democratici impegnati politicamente e legislativamen-te, anche qui forse con una gradazione di responsabilità e forse credoche è maggiore la responsabilità del d.c. che è anche legislatore, che èin parlamento, che ha condotto una battaglia sulla Baslini-Fortuna daun d.c. invece che può avere anche da questo punto di vista una suaopinione particolare.

Dirò, solo per inciso, che appare poi strano questo appello che Fan-fani fa tutti i momenti in polemica con gli altri partiti perché non la-sciano liberi i loro iscritti di decidere come vogliono in ordine a que-sto problema quando poi la DC che dovrebbe dare l’esempio non solopretende la disciplina ma irride quei cattolici che con travaglio di co-scienza si mettono su un piano diverso. Da questo punto di vista cipossono essere graduazioni di responsabilità diversa ma io, siccome vo-glio assumere le mie, non mi sono mai nascosto di fronte all’assunzio-ne di responsabilità e credo di avere in passato anche dimostrato qual-che cosa in ordine alla difesa della autonomia della politica dalle inge-renze clericali o dalle interferenze della gerarchia ecclesiastica. Io credoche noi dobbiamo non trascurare, non dimenticare le nostre posizionidi DC a meno che si decida di abbandonare alla destra la funzione deicattolici democratici e a meno che si pretenda di ritornare, erano po-sizioni rispettabili anche quelle, alla posizione del caso di coscienza deicattolici del Risorgimento che erano pure coerenti da un punto di vi-sta morale ma si affidavano sul distacco assoluto dalle responsabilitàverso la formazione dello stato unitario nazionale anche se non aveva-no niente da spartire coi vecchi temporalisti che volevano difendere ilpotere temporale della chiesa.

Non è casuale che la nascita del partito popolare anche allora si dif-ferenziò nettamente dai clericali che volevano difendere il potere tem-porale ma anche dai cattolici che volevano soltanto rivendicare il lorocaso di coscienza e quindi volevano accettare se mai uno stato fatto daaltri ma non si ponevano il problema di come essere presenti in termi-ni di protagonisti attivi nella vita politica. Così oggi la DC è a questobivio e cioè al bivio della distinzione da ogni tentazione di ritornante

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clericalismo ma anche dalla tentazione di ridurre a fatto individualepur rispettabile quello che per un individuo può essere tale ma che peruna formazione politica tale non può essere. E qui vengo subito alloraa dire qual è il nostro atteggiamento o meglio quale dovrebbe essere ilnostro atteggiamento. Io parlo con molta franchezza anche se credoche chiunque si troverà poi qui a parlare su questo argomento non tro-verà con facilità il bandolo di una matassa che è obbiettivamente com-plessa. Devo dire che intanto la situazione del cattolico italiano da unpunto di vista di una decisione come quella che ci sta davanti deve es-sere seriamente ancorata al principio della libertà di coscienza. Qui ri-schiamo di tornare a polemiche antiche di fronte alla deliberazione deivescovi che sul piano dottrinale richiamano i cattolici italiani al ri-spetto di certi valori. Noi non possiamo seguire quelli che contestanoalla chiesa il diritto dovere di esprimere sul piano dottrinale le sue po-sizioni, siamo tra i cattolici che ritengono che non sempre tutto è dot-trinale quello che scaturisce dal magistero della chiesa e che anche ne-gli insegnamenti della chiesa vi è una parte di opinabilità nell’applica-zione concreta di certi principii di valore ma certamente non esconodall’equilibrio dei poteri tra Stato e Chiesa i vescovi quando richiama-no alla considerazione giusta della difesa del valore dottrinale religiosoe per quanto loro affermano, almeno in parte, perché non tutti sonod’accordo nemmeno su questo, al valore anche sociale di diritto natu-rale come si usa dire della indissolubilità del matrimonio.

Certo che torneremmo a un passato e a un passato che non dob-biamo riaprire nel nostro paese se questo avvertimento dottrinale, que-sto richiamo ai principii dovesse tradursi in una direttiva organizzati-va ed elettorale che in qualche modo interferisse nella libertà di co-scienza del singolo cattolico. Non uso molte citazioni ma anche Mons.Gaetano Bonicelli, tanto per stare fra citazioni bergamasche, poi citeròpiù a lungo Mons. Alberto Bellini, ma lo stesso Bonicelli nello spiega-re a quelli che credevano di non aver capito la decisione dei vescovi,sottolineava che è costante insegnamento della chiesa di rispettare laultima istanza di ogni decisione che è quella della libertà di coscienza.

Sempre la chiesa ha insegnato che nella coscienza nessuno può in-terferire, che la chiesa poi deve illuminare, insegnare, indicare ma nonpuò mai coartare quella che è la libertà di coscienza che rimane fermaper ogni cattolico e, anche qui ci sarebbero i testi, ho portato anche ilibri, ci sono dei passi molto precisi del Concilio Ecumenico VaticanoII che stabiliscono la libertà di coscienza come libertà assolutamente in-toccabile da un punto di vista dottrinale. Però, le cose che dobbiamovalutare con molta discrezione nel rivendicare questa libertà di co-

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scienza per tutti, dico veramente per tutti, per quelli che votano in unmodo o che votano in un altro se no cadremmo in oltranzismi rove-sciati, dobbiamo dire che non possiamo sottovalutare la complessitàdella posizione del cattolico democratico che oggi invocando la libertàdi coscienza si rifiuta di accettare una imposizione sul piano della legi-slazione civile di un valore suo proprio che assume e difende in quan-to convinzione religiosa, quando dei cattolici democratici come LaValle, Pratesi, Scoppola ed altri assumono l’atteggiamento di quelli chesostengono che la convinzione religiosa che sta alla base della nostraconcezione del matrimonio può essere da noi e deve essere da noi vis-suta e rispettata a prescindere dalla legislazione in cui si manifesta, e tral’altro non è una legislazione repressiva, non è che impone di scegliereil divorzio, garantisce un diritto per chi vuole ricorrervi ma non lo im-pone.

Quando questi nostri amici cattolici democratici dicono: «È un in-segnamento del Concilio quello di non pretendere dalla legge, dall’au-torità dello Stato il rispetto di una convinzione di fede, di una posizio-ne di coscienza che ci salvaguardiamo da noi, anzi ci salvaguardiamo dipiù nella misura in cui siamo liberi di concepire questo rapporto comeun rapporto di donazione» non si mettono certamente in conflitto conl’insegnamento dottrinale della chiesa almeno per quanto riguarda laconcezione religiosa del matrimonio. Mons. Bellini ha scritto cose mol-to pregevoli e molto preziose su questo punto, anzi, a diversità della co-scienza laica, non c’è dubbio che quanto più è difficile la vita della fa-miglia tanto più il cristiano dovrebbe sentire il fatto dell’amore, delladonazione reciproca come vincolo maggiore ma questo non potrà maiessere stabilito per legge. Questa o è una convinzione di fede o è unaconvinzione di coscienza ed è quindi una costruzione della famiglia fon-data sulla bontà e sul buon senso ed esiste o non esiste, ma senza que-sto è chiaro che la famiglia non uscirà dalla sua crisi. Qui sarebbe mol-to utile che insieme ai richiami dottrinali la chiesa decidesse con mag-giore impegno di avviare una pastorale della famiglia che difendesse laconcezione religiosa sul piano dell’educazione, della preparazione intutti i campi a costruire delle famiglie che siano sane per come si pon-gono e non per come il codice viene in definitiva a difendere.

Quindi credo che non si possono accusare questi cattolici, che tral’altro sono tutti cattolici che mi pare credano in Dio certamente piùdei fascisti, che votano per la difesa della famiglia in questo referen-dum, siano criticabili da questo punto di vista.

Ci può essere un punto sul quale noi riteniamo di notare una dif-ferenziazione, cioè questi cattolici dicono giustamente che una ragio-

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ne di fede non si può tradurre in una norma legislativa che nessuno dinoi ha il diritto di imporre ad altri quello che per noi ma che per altrinon può essere valido e questo dal punto di vista dello stato di dirittofondato sulla libertà e sulla articolazione è certamente giusto anche secito qui, una parte non sospetta di Mons. Bellini che è molto precisonel difendere la concezione religiosa del matrimonio, la valutazionestorica della opportunità o meno di imporre per legge ad altri una con-cezione della famiglia che altri non accettano aggiunge però nella suatolleranza, nel suo spirito di apertura che si possono dare anche casidove i cattolici intendano affermare sul piano della legge la loro con-cezione particolare della indissolubilità.

Infatti, scrive sempre Don Bellini, una legge che imponga ad altril’indissolubilità se non è in sé un dovere religioso, lui scarta l’ipotesiche la motivazione possa essere quella religiosa, può essere un doverecivile per sviluppare nella società valori e condizioni favorevoli alla cre-scita della personalità umana. Anche il credente deve lavorare per il be-ne comune per cui se ritiene necessaria una legge sulla indissolubilitàha il dovere di favorirla. Questo è Don Bellini che spiega che può dar-si a livello storico una concezione della famiglia ma qui si apre per noiun discorso molto delicato e preciso. Io ho già detto che apprezzo e ri-spetto la posizione dei cattolici democratici che voteranno per la dife-sa del principio divorzista nella legislazione italiana, dal punto di vistadella loro concezione religiosa non si ritengono toccati nella loro con-cezione della famiglia da questa legge per cui votano con questo spiri-to. Ho già riconosciuto che possono avere dei fondamenti di verità inuna situazione come quella italiana così composita, così articolataquando affermano l’importanza per dei cattolici democratici di nonimporre con la legge ad altri una concezione che altri non possono ac-cogliere se non vedendo nello stato un elemento di mortificazione.Però non credo che questo possa essere il punto di vista di cattolici de-mocratici militanti in un partito come la DC che non è un partito di-vorzista, su questo bisogna essere espliciti. Gli stessi comunisti nonchiedono alla DC, non hanno mai chiesto di rinunciare alla loro con-cezione della famiglia; non è possibile che noi immaginiamo che nonci possa essere sotto il profilo del valore sociale, del valore civile, unadifesa della concezione della famiglia che non è un elemento seconda-rio nella costruzione generale della società e dello stato. Quindi noinon possiamo dire che il problema della famiglia si risolve soltanto sot-to il profilo della libertà individuale o della scelta di fede, c’è il proble-ma di una costruzione sociale, civile, legislativa della famiglia che nonpuò non interessare un partito, non dico un singolo cittadino che una

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volta che ha risolto i suoi problemi di coscienza o di fede non ha pro-blemi di questo genere ma per dei cattolici che devono operare sul pia-no della revisione legislativa e che possono avere anche questa visionedella famiglia da difendere, cioè una visione sociale, comunitaria, chedeve trovare una formazione sul piano legislativo.

Ma è proprio qui che casca l’asino, perché se noi dobbiamo faredelle famiglie un bene sociale da difendere sul terreno della legislazio-ne intanto non dobbiamo farlo con integralismo, perché non dobbia-mo pensare che siamo solo noi che abbiamo una concezione della fa-miglia ed è tempo di finirla nel dipingere anche il laico che difende ildivorzio come un disgregatore della famiglia. I laici seri hanno sempreconsiderato il divorzio come una eccezione a una regola di unità fami-liare che deve pur essere tutelata. Non è assolutamente vero che sianotutti oltranzisti al livello dello schieramento divorzista perché baste-rebbe pensare qui alla profonda diversità di concezione della famiglia,pur riconoscendo il principio finale del divorzio, della indissolubilitàdel vincolo tra i comunisti che vedono nella famiglia un fatto sociale ei partiti laici risorgimentali che hanno della famiglia una visione con-trattualistica che si unisce e si divide a secondo dell’interesse dei co-niugi e non nel rispetto di una entità sociale che è importante difen-dere. Ma se ci mettiamo su questo piano allora noi dobbiamo abban-donare l’integralismo e dobbiamo allora capire che la difesa della no-stra concezione della famiglia passa attraverso il rispetto anche delleconcezioni altrui, cioè passa attraverso il confronto tra punti di vistadiversi per arrivare a una soluzione del problema della legislazione fa-miliare, nel dialogo, nella tolleranza, nel rapporto reciproco e non giànella radicalizzazione o nella spaccatura e in questa logica vi sono deiteologi che hanno affermato molto chiaramente che in un contesto le-gislativo fondato sull’unità della famiglia, sulla difesa dei figli, sulla tu-tela dei coniugi più deboli, sulla mettiamoci anche la rilevanza dellascelta religiosa dei coniugi, non sarebbe difficile accettare come un ma-le minore un principio divorzista che in casi molto ben precisi possaconsentire quella dissoluzione del vincolo, quello scioglimento del vin-colo che da un punto di vista morale e religioso noi non possiamo ac-cettare ma che sul piano civile possiamo e dobbiamo anche accogliere.

Quindi il discorso sul piano civile e sul piano democratico non èquello di chi può pensare che la DC in quanto tale, in quanto partitopolitico, possa prescindere da una sua concezione della famiglia e nonpossa far prevalere o cercare di far prevalere nel rispetto dell’interessecomune generale questa sua concezione. Il problema è dei modi coni quali si tende a far prevalere e quando io ho fatto la lunga storia del-

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le occasioni perdute per evitare il referendum evidentemente, e tuttilo sanno, proponevo una linea non che respingesse il principio divor-zista all’interno della legislazione perché non sarebbe mai passata unaabrogazione pura e semplice del principio divorzista ma che tendessea riportare il principio divorzista accettabile come eccezione o comemale minore, come dicono i teorici, all’interno però di una concezio-ne legislativa della famiglia che garantisse ai cattolici di aver tutelatofino in fondo, compatibilmente con le regole della tolleranza e delpluralismo, il bene sociale e civile della famiglia. Ma questo non si èverificato e questo sarà, non dimentichiamolo, il problema del futu-ro. E questo è il problema che distingue chiaramente un cattolico de-mocratico che dopo aver votato il 12 maggio se ne sta a casa sua e uncattolico democratico che, essendo in parlamento, dovrà ricomincia-re da capo a confrontarsi con gli altri partiti per trovare una soluzio-ne del problema.

Ma è qui che allora noi dobbiamo dire molto chiaramente qualepuò essere e quale a mio avviso deve essere con maggior coraggio diquanto sia stato fin qui l’atteggiamento della sinistra democratica suquesto problema.

Io credo che su due punti noi dobbiamo nettamente distinguercipur all’interno di una posizione che non può essere in parlamento e nelpaese che quella che abbiamo assunto in parlamento. Noi siamo staticritici severi della legge Baslini-Fortuna e rifiutiamo di accettare conun sì o con un no una legge che non possiamo accogliere per tutta laserie di obiezioni. Tra l’altro è riconosciuta largamente dallo schiera-mento divorzista perché se si pensa al progetto Carrettoni e alla ulte-riore proposta di De Martino si deve dire che c’è spazio fra i divorzistiper modificare questa legge, spazio che non si è trovato invece nella DCche però doveva, nel momento in cui altri accettavano parte della suaconcezione, accettare anch’essa parte delle concezioni altrui e quindi ilriconoscimento sul piano della legislazione civile del principio divor-zista. Ci sono però appunto due posizioni che devono essere assoluta-mente e nettamente differenziate e che ci portano a essere critici neiconfronti di Fanfani in questo momento, non soltanto per le respon-sabilità del passato ma per l’impostazione della campagna elettorale.Noi non possiamo, pur nel ribadire la nostra posizione che è per l’a-brogazione della Baslini-Fortuna, avremmo preferito l’abrogazione inparlamento e siamo costretti dalla congiuntura e dalle responsabilitàcomplessive a passare attraverso questo vincolo stretto del referendumpopolare ma non possiamo ammettere che questa campagna sia impo-stata sul non rispetto della assoluta libertà di coscienza che un partito

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fondato sulla libertà dovrebbe tutelare molto di più di quello che essotutela.

Qui, fra le carte, ho anche una copia della Discussione, una delleultime; io mi domando se con vignette di questo genere noi possiamoconvincere quelli che devono essere convinti. Con una campagna ol-tranzista come quella che noi stiamo facendo non solo non ci distin-guiamo più né dai fascisti, né da Gedda, né da Gabrio Lombardi, manon facciamo altro che confermare nella loro scelta quelli che sarebbe-ro già convinti indipendentemente dalle nostre decisioni. Cioè non ap-pare tutta quella parte costruttiva di ragionamento, di serietà, di con-vincimento che però si ferma di fronte alla libertà di coscienza che noidovremmo assolutamente mantenere. E non possiamo non guardarecon un certo disappunto al fatto che per esempio non solo sul «Popo-lo» appaiono i discorsi di Gabrio Lombardi, che tra l’altro teorizza con-cezioni laicistiche, separatistiche fra Stato e Chiesa che non sono con-geniali a un partito come la DC ma non si fa cenno a nessuna delle po-sizioni di dissenso e di perplessità esistente nei cattolici. Mi pare cheun giornale del partito di Sturzo e di De Gasperi che si fa battere dalpunto di vista della liberalità da un giornale cattolico come «Avvenire»che combatte la sua battaglia ma rispetta anche le posizioni di dissen-so che esistono all’interno del mondo cattolico è già una prova comenoi non possiamo confonderci con l’oltranzismo della impostazione diquesta campagna elettorale.

Noi non possiamo affermare in sede politica che dei cattolici chehanno una profonda vita religiosa, che sono stati vicini alla DC in bat-taglie democratiche, che compiono una scelta di libertà debbono esse-re da noi, che oltre tutto siamo stati poco coraggiosi sul piano politicoe sul piano democratico e parlamentare, debbano essere giudicati danoi o scarsi cattolici o scarsi democratici quando tutta la loro vita si po-ne in una logica diversa.

Noi dobbiamo cercare di convincere, ma per convincere dobbia-mo anzitutto rispettare la loro libertà di coscienza, la loro libertà discelta e non possiamo sostenere che chi non vota in un certo modo enon raccoglie l’affetto del partito debba essere considerato perduto persempre a un dialogo democratico, a una posizione democratica.

Quindi ci differenziamo e dobbiamo differenziarci e dobbiamodirlo con molta chiarezza, ci differenziamo dalla posizione oltranzistadi questa campagna perché riteniamo che un partito di Sturzo e di DeGasperi, per riferirsi a due impostazioni classiche, deve mantenereaperto un dialogo fondato sulla ragione, sulla tolleranza, sul cercare diconvincere, non sul richiamo all’ordine, non sulla negazione, non su

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atteggiamenti che perfino la Chiesa ha ormai abbandonato e noi ri-schiamo di diventare più clericali del clericalismo tradizionale se nonrispettiamo con molta serietà questa libertà di voto. Quindi noi fare-mo tutto il nostro dovere, cercheremo di convincere, cercheremo dispiegare le ragioni per le quali siamo per una abrogazione che nonchiude il capitolo ma lo riapre in Parlamento e lo riapre in parlamen-to in base alle tante occasioni perdute che ho citato nella prima partedella mia relazione. Ma sul punto del rispetto assoluto della libertà discelta, della libertà di decisione e del rispetto per questa libertà e deldar notizia delle motivazioni di questa libertà noi non possiamo asso-lutamente seguire né l’oltranzismo di Lombardi e di Gedda né l’im-postazione unilaterale e integralista che l’attuale segretario del partitosta dando a tutta la campagna elettorale. Dirò, tra parentesi, che que-sta censura sulla stampa del partito della libertà non colpisce soltantoi cattolici democratici che dissentono ma colpisce anche i cattolici de-mocratici che militano nel partito e che hanno opinioni diverse su que-sto punto, tanto è vero che, in maniera spiritosa ma non tanto, pro-prio l’altro ieri nel rimandare a Fanfani il modulo col quale ad ogniparlamentare chiede di indicare le città dove si andrà a fare il nostrodovere di illuminazione, di servizio civico agli elettori che poi vote-ranno in libertà di coscienza, ho indicato le quattro città, tralasciandoArezzo perché mi sembrava un poco provocatorio ma ho aggiunto sot-to col vincolo che il quotidiano del partito «Il Popolo» pubblichi i sun-ti dei discorsi che io pronuncerò in queste occasioni perché non solo«Il Popolo» censura in questo momento i discorsi di quelli che votanono ma censura anche discorsi di quelli che dicono sì con motivazioniche non piacciono a quella impostazione oltranzista che secondo me èestremamente pericolosa. Non parliamo poi della «Discussione» quel-lo per me non è nemmeno un giornale, è un giornale un po’ goliardi-co in mano a questo Ciccardini che si sfoga nell’esercizio delle sue am-bizioni repressive e autoritarie ma che dovrebbe però essere sollevatomi pare anche in consiglio nazionale perché noi non possiamo tollera-re che questo sia il giornale fondato da De Gasperi, il giornale che do-vrebbe far discutere, che dovrebbe rispettare tutti ed è un giornale chesi mette sul piano dell’asino dal becco giallo alla rovescia, cosa che èun’offesa evidentemente alla nostra tradizione democratica.

Quindi, primo punto, proprio in ragione della lealtà del nostrocomportamento all’interno della DC noi dobbiamo rivendicare per tut-ti il massimo di libertà di coscienza e dobbiamo rispettare la decisionedi chi vota anche in modo difforme dall’appello che il partito, forse an-che per la mancata credibilità delle cose fatte nel passato, non riesce a

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far accogliere. Nel secondo punto sul quale noi dobbiamo qualificarciprima che sia troppo tardi è quello dell’impegno per il dopo referen-dum e molti sono convinti che una volta chiuso il referendum tutto ilproblema sarà solo quello di mantenere o no in piedi il centro sinistra.Cari amici no, noi dobbiamo dire subito, prima di essere equivocatiun’altra volta e anche se resteremo minoritari, che dopo il referendum,qualunque sia il risultato e il risultato non potrà non essere di strettamisura, i problemi della famiglia, della legislazione familiare, del rap-porto fra stato e chiesa, cioè i problemi sostanziali del nostro impegnopolitico riemergeranno assieme a quelli dell’equilibrio politico genera-le e completo. E anche qui facciamo giustizia di certe semplificazioniche sono a mio avviso molto superficiali. Adesso si è inventato che bi-sogna essere contro la Baslini-Fortuna e contro il divorzio che è un’i-stituzione borghese. Io non vorrei che si cominciasse un procedimen-to alla rovescia, cioè che cominciassimo a liquidare quello che forse dipositivo ci ha lasciato in eredità la borghesia che è il senso della libertàe del diritto per mantenere in vita tutto quello che invece dovevanosradicare dalla società.

Dobbiamo avere il coraggio di dire che se la famiglia è in crisi nonè in crisi solo sul punto della esistenza o meno nel codice del vincolodell’indissolubilità. Basta guardare alla struttura economica, alla strut-tura sociale, al costume, alla ragione di vita del nostro paese per capi-re che la crisi della famiglia è altrove, non è solo qui. Basta ricordarciche noi quando critichiamo la Baslini-Fortuna sul piano della difesadei figli, della difesa del coniuge più debole, della subordinazione del-la donna e cose di questo genere che fanno anche molta impressionefra l’uditorio noi non possiamo dimenticare nella abrogazione pura esemplice della Baslini-Fortuna che non torniamo a una legislazione chetutela tutte queste cose che noi rimproveriamo alla Baslini-Fortuna dinon tutelare. Noi torniamo a una concezione anacronistica del codicesu questo piano e noi non possiamo dimenticare che tutto quello chechiediamo alla legislazione civile oggi non è applicato nemmeno dallalegislazione canonica e dalla prassi della Sacra Rota che in definitivanon guarda a queste cose. Quindi noi dobbiamo riprendere con mol-ta serietà e portare avanti un disegno che difende la nostra visione fa-miliare più di quello che noi immaginiamo. Quando si pensa che allabase del diritto di famiglia, per esempio, vi è la comunità patrimonia-le dei beni mentre divorzio sì, divorzio no, rimane comunque la fami-glia un contratto e la famiglia è un contratto nella concezione tipica-mente borghese non perché si scioglie o non si scioglie ma perché nonc’è la visione sociale della famiglia quando noi pensiamo all’emigra-

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zione, quando noi pensiamo alle ingiustizie economiche e sociali,quando noi guardiamo in giro sul perché anche sotto il profilo del co-stume la famiglia è in crisi, noi dobbiamo dire che col sì e con il no,soprattutto se si ritornerà al vecchio codice, non abbiamo portato as-solutamente avanti una politica di tutela dell’unità della famiglia intermini moderni che un partito come la DC dopo più di vent’anni cheha la responsabilità del paese non ha mai realizzato e non ha mai por-tato avanti.

Quindi noi dobbiamo riprendere il discorso e noi non possiamodimenticare che è un’assunzione di responsabilità non elusiva, quellache ha portato Berlinguer e De Martino di fronte al turbamento di co-scienza dei molti cattolici ad affermare che sono disposti in caso di vit-toria divorzista a rivedere la legge Baslini-Fortuna su punti che posso-no essere qualificanti per la nostra concezione della famiglia. Ed è gra-ve, io l’ho chiesto e torno a chiederlo, che la DC su questo punto nonfaccia pubblicamente nel corso della campagna per il referendum la af-fermazione di disponibilità a riprendere con i laici e con la sinistra ildiscorso per dar vita anche in caso di vittoria abrogazionista a una le-gislazione familiare che tenga in giusto conto le esigenze dei cattolicima anche quelle dei laici e anche di quelli che non hanno la nostra con-cezione familiare.

Si dice, ma voi volete introdurre il divorzio-bis; noi dobbiamo ave-re il coraggio di dire che nel contesto di una legislazione diversa, fattesalve certe ragioni di fondo non religiose che non sono toccate dalla le-gislazione civile ma da un punto di vista di concezione sociale della fa-miglia noi possiamo accettare come male minore il principio divorzi-sta purché questo sia inserito in una politica di tutela e dignità della fa-miglia che non è solo giuridica ma è anche sociale. Quindi noi dob-biamo rilanciare subito anche per evitare che ci accusino di ipocrisiadopo, cioè di aver fatto finta di niente nel corso della campagna elet-torale e poi di riprendere il discorso sul piano parlamentare anche per-ché la logica delle cose sarà questa: per gli amici della campagna elet-torale Fanfani ogni tanto si fa merito di non aver usato la maggioran-za abrogazionista in parlamento per eliminare il divorzio. Ma questo èun problema che vale per l’oggi ma vale anche per il domani. Una vol-ta che noi avessimo cancellato la Baslini-Fortuna sul piano della legi-slazione familiare o andiamo a ricuperare la maggioranza clerico-fasci-sta che già abbiamo respinto o ricerchiamo in parlamento un’altramaggioranza e quest’altra maggioranza ci riporta a fare i conti con lasinistra che se è disposta a rispettare le nostre opinioni non può trova-re un interlocutore integralista che non tiene in nessun conto le opi-

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nioni altrui e si riapre quindi il discorso di tutte le occasioni mancateche nel passato abbiamo troppo trascurato di fronte a temi di questogenere e si riapre tra l’altro il problema del dialogo corretto tra la chie-sa e lo stato su materie di questo genere perché non illudiamoci che peresempio il sì o il no della battaglia del referendum portino ad accan-tonare quell’altro problema che rischia di diventare grave anche qui perla inerzia della DC di una revisione del concordato tra la Santa Sede elo Stato che ormai non corrisponde più alla evoluzione sia della vitademocratica che della vita religiosa ed ecclesiastica. Forse anche quiquando i guai saranno irreparabili ci ricorderemo che abbiamo persoanni per operare una revisione che avrebbe consentito di modificare inmeglio il rapporto fra lo Stato e la Chiesa o perlomeno abbiamo sot-tovalutato l’equilibrio di forze che sono necessarie per raggiungere que-sti obbiettivi. Diciamola fino in fondo la verità, tanto i cattolici che og-gi protestano contro l’introduzione del divorzio perché dicono chequesto sarebbe in contrasto con l’articolo 7 della Costituzione, cosanon vera perché la Corte Costituzionale ha già stabilito che 1’inter-pretazione corretta è un’altra, dimenticano di dire che se noi fossimoandati all’assemblea costituente con lo schieramento politico col qua-le stiamo andando al referendum, l’art. 7 non sarebbe stato nemmenointrodotto nella Costituzione. Se è stato introdotto quell’art. 7 e se nel-l’introduzione di quell’art. 7 i comunisti per primi e i laici un po’ for-zatamente hanno riconosciuto la sovranità della Chiesa e il rapportocorretto con lo Stato facendo rinuncia anche a dei loro bisogni parti-colari è perché si è appresa fino in fondo la lezione di tolleranza dellaCostituzione che è quella che porta la DC a non dimenticare l’insegna-mento di Sturzo. Quando Sturzo si è sempre opposto a che i cattoliciin politica rappresentassero soltanto i loro interessi particolari ma aves-sero una visione nazionale dei loro problemi, ci insegnava anche a di-re che nella libertà possiamo far valere i nostri punti di vista ma nonpossiamo immaginare che lo Stato debba essere fatto a immagine e so-miglianza nostra contro le volontà altrui e il diritto altrui.

Quindi la lezione di tolleranza della Costituzione, la lezione di so-stanza sui problemi della famiglia, il bene comune generale per ri-prendere un collegamento tra cattolici democratici e laici e sinistra nelnostro paese nella direzione del rispetto sostanziale dell’art. 7 ci portaa dire che noi dobbiamo distinguerci dalla campagna oltranzista chepunta solo sull’abrogazione nel premettere fin d’ora cosa faremo adabrogazione avvenuta non soltanto nella difesa dell’equilibrio di cen-tro-sinistra ma anche nella soluzione dei problemi della famiglia che aquesto punto richiedono l’intesa tra laici e cattolici e quindi richiedo-

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no di fare domani in condizioni più difficili quello che ieri non abbia-mo voluto fare per mancanza di coraggio o per mancanza di fantasia,di iniziativa politica e perché non credo che in caso di vittoria abroga-zionista sia facile salvare il centro-sinistra, l’equilibrio politico di cen-trosinistra immaginando cancellata questa pagina puramente e sem-plicemente.

Qui dobbiamo stare attenti ai nominalismi. Può commuoveremolto il fatto che Fanfani ripeta continuamente che il centrosinistranon si tocca, che il referendum non deve influire ma la politica non èmai soltanto desiderio e non dimentichiamo, faccio un esempio un po’dissacrante, che Nixon quando bombardava il Vietnam del Nord hasempre detto che voleva la pace e non la guerra in quell’area, solo cheper avere l’armistizio ha dovuto smettere di bombardare.

Forlani da Segretario del partito non ha mai negato, non ha maisostenuto che la DC non voleva l’alleanza con i socialisti, solo che pro-poneva il penta-partito, l’alleanza con i liberali che era un modo pernon realizzare l’alleanza con i socialisti. Ora non basta più dire noi vo-gliamo mantenere intatto il centrosinistra, bisogna creare le condizio-ni entro le quali il centrosinistra possa sopravvivere e continuare ed èindubbio che un problema delicato come quello che si è aperto col re-ferendum se noi non vogliamo lasciar diventare permanente questafrattura si ripropone per la DC il problema di mantenere aperto il dia-logo verso i laici, verso le forze che non la pensano come noi pur man-tenendo distinti i piani delle condizioni religiose sulla indissolubilitàdel matrimonio che sono valide per noi come per i cattolici che vote-ranno per il divorzio dalle opzioni temporali storiche che devono te-ner conto della situazione attuale. E qui torno alla conclusione, cariamici, dopo aver detto che noi dobbiamo motivare fortemente il no-stro comportamento rispettando le posizioni dei cattolici che non ac-cettano il nostro appello ma chiedendo anche a questi cattolici di noncadere nell’errore rovesciato, di pensare che chiunque non vota no nonè cattolico, non è democratico o è perduto per sempre alla egemoniadi un partito abbandonato al suo destino.

La situazione è difficile per tutti: credo che anche noi che militia-mo nella DC meritiamo il rispetto che noi riserviamo a quelli che nonavendo responsabilità politiche compiono una scelta diversa ma il di-scorso ritorna sul partito per che cosa? Perché questo referendum suldivorzio, cari amici, è un primo campanello d’allarme sulla situazionestorica del nostro paese. Sta emergendo, tra l’altro nella parte più po-sitiva dei cattolici e non ci vuol altro che le battute o le barzellette diun Bartolo Ciccardini per liquidare le posizioni degli Scoppola, dei La

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Valle e di tanti religiosi, dal Card. Pellegrino ad altri, che su questopunto presentano un elemento non effimero, passeggero della crescitadel mondo cattolico e della cattolicità italiana. Di fronte a una realtàcome questa può riemergere la tentazione politica che concepisce il ri-sveglio religioso e teologico nell’abbandono delle responsabilità politi-che cioè nel rimettere ad altri il compito di quello che non tocca ai cat-tolici fare in politica. Divorzio non è una cosa secondaria, il ragiona-mento sul divorzio che fanno i cattolici è: «in fondo noi non abbiamobisogno di agire, a noi ci basta uno spazio che ci garantisca la libertà edentro questa libertà noi facciamo quello che la nostra coscienza ci det-ta». Quello che vale per il divorzio può valere domani per il socialismo.

Il movimento dei cristiani per il socialismo cos’è se non la decisio-ne che essendo il socialismo superiore al capitalismo in fondo lo si puòanche accettare purché vengano rispettati alcuni valori che in manieraminoritaria i cattolici fanno valere, quindi qui siamo a un bivio che ciriporta non casualmente alla questione di coscienza del Risorgimento.Cattolici di fronte a una DC che rischia di diventare sempre di più po-tere, integralismo, clientela non strumento di presenza democraticapossono essere ripresi dalla tentazione individualistica e isolazionisticadi rinunciare allo strumento del far politica e dal rimettersi ad altriequilibri, ad altre forze incaricate della storia nel portare avanti una si-tuazione di riforma o di trasformazione. E qui allora noi dobbiamo di-re che per quanto difficile sia la nostra posizione di milizia nella DC es-sa deve essere rivalutata ad ogni costo e pur tra le molte difficoltà.

Non dimentichiamo che tra gli errori del 1924-25 fu proprio quel-lo di abbandonare ceti sociali dei cattolici che sono diventati la base dimassa dell’autoritarismo proprio perché non si è mantenuta questa for-za sociale consistente al servizio della DC Non basta che alcune mino-ranze intellettuali, lucide, moralmente ineccepibili, che hanno da par-te loro la ragione anche per l’inadempienza della DC, compiono dellescelte giuste. Noi sappiamo che anche nei confronti del socialismo, deicomunisti, di quelli che vogliono costruire una via democratica al so-cialismo, l’importante è che vi siano degli interlocutori che rappresen-tano una forza politica consistente, storicamente consistente e non sol-tanto delle minoranze che possono accettare l’ipotesi della via polaccaal socialismo dove in definitiva si risolve nel rischio di un concordatoalla rovescia la costruzione di una società diversa.

Quindi siamo ancora al bivio, se risolvere con tranquillità i nostriproblemi di coscienza individuale scaricandoceli con un voto che è piùsemplice o continuare, pur nella sofferenza e nel disagio, una miliziapolitica all’interno della DC per salvare una DC certo che non si isoli

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nello steccato integralista, che mantenga aperto il dibattito con le altreforze ma faccia capire anche alle altre forze il rispetto di alcuni valoriche la DC porta con sé. Ma qui ritorna la ragione della tolleranza, del-la libertà della democrazia rispetto alla ragione dell’integralismo, di unintegralismo che deve essere valutato con molta serenità.

Io ho l’impressione che fra i cambiamenti che la storia registra visia anche quello di una diversificazione piuttosto profonda del classi-co integralismo fanfaniano che noi continuiamo ancora a voler com-battere, magari rivestendolo di panni gollisti che tra l’altro sarebberomolto disagevoli data la diversa statura delle due personalità.

Io credo che l’integralismo più pericoloso che rischia di nascere nelnostro paese è l’integralismo che punta a un centrosinistra di regimenon alle alternative di destra, cioè che punta a realizzare il rapporto congli altri partiti a una condizione di vassallaggio oppure di efficienzaprogrammatica che trascuri invece quei valori del pluralismo, della di-stinzione, del dibattito, del fatto che ognuno porta i suoi valori sul pia-no dello stato che in verità è sempre rimasta la tradizione più genuinadella DC.

Quindi ecco perché, cari amici, i cattolici democratici in questomomento, e concludo sul serio, sono di fronte a delle scelte difficili.Sarà un mese di passione quello che abbiamo davanti e dopo il 12 mag-gio avremo tutti i problemi che ci siamo illusi di accantonare ancorasul tappeto e dovranno essere affrontati e abbiamo bisogno, almeno fraquelli che si muovono con onestà di coscienza, di capirci in base allaregola della tolleranza e noi diciamo, da parte nostra che continuare amuoversi e a militare nella DC sostenendo un impegno politico anchein questo difficile frangente che si differenzia dagli oltranzismi che pur-troppo sembrano prendere il posto del confronto civile, è un modo persalvare una funzione della DC che non deve assolutamente separarsi an-che da quei cattolici che in questo momento dissentono da noi.

Il recupero è nel futuro e se noi nel futuro riusciremo a realizzareo a salvare quelle testimonianze democratiche e tolleranti che nel pas-sato abbiamo sciupato, forse anche questa lezione drammatica del re-ferendum sul divorzio sarà una lezione che non è stata invano com-piuta.

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Cattolici democratici tra rinnovamento e confronto*

L’11 maggio del 1974, alla vigilia del referendum abrogativo dellaLegge sul divorzio, Luigi Granelli scrisse una lettera al prof. Paolo Brezzi,storico medievista, proveniente dall’associazionismo cattolico ed esponentedi punta del movimento dei «cattolici del no» all’abrogazione della legge.

Con la sua lettera, inviata ancora prima che si conoscessero i sorpren-denti esiti referendari, Granelli chiedeva ai cattolici dissenzienti di «ria-prire un dibattito tra di noi, all’indomani del 12 maggio, quale che sia ilrisultato del referendum», perché «il rispetto del pluralismo» doveva con-tinuare ad essere «in ogni caso, la caratteristica di un incontro qualifica-to, aperto, assolutamente libero». «Si tratta – aggiungeva Granelli – di co-struire sui risultati traumatici del referendum, una maggiore coscienza del-la funzione autonoma e democratica dei cattolici nella vita delle istitu-zioni, di uno spirito di tolleranza e di libertà, di una intensa testimo-nianza religiosa dei comuni valori, di un nuovo rapporto tra lo Stato del-la Costituzione repubblicana e la Chiesa del Concilio».

Un articolo apparso il 12 giugno del 1974 su «Paese Sera», a firma diGiulio Goria, riassumeva le novità del mondo ecclesiale e politico italianoa conclusione dell’Assemblea plenaria della CEI nella quale il presidente,card. Antonio Poma, aveva auspicato «una necessaria riflessione più accu-rata sul pluralismo nella Chiesa». L’autore dell’articolo riportava anche lanotizia della missiva di Granelli a Brezzi interpretandola come un tenta-tivo della sinistra democristiana di recuperare l’appoggio di quei cattolicidemocratici che avrebbero rappresentato, per la DC, dei «voti in libera usci-ta». Granelli, intervenendo con un’altra lettera – qui antologizzata – edindirizzata al direttore del giornale, espresse con chiarezza, fugando ogniambiguità, il senso della sua proposta.

*Ci scrive l’on. Granelli, in «Paese Sera», 21 giugno 1974, p. 3.

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Egregio direttore,ho letto con ritardo, a causa di impegni interna zionali, l’articolo di

Giulio Goria apparso su «Paese Sera» del 12 giugno a pro posito dei cat-tolici demo cratici ed ho trovato, con mio disappunto, una ver sionedella mia lettera al prof. Brezzi che non posso lasciar passare sotto si -lenzio. La mia non vuole essere una critica all’arti colista, come sempreat tento ai fermenti che si agitano positivamente tra i cattolici italiani,ma è semplicemente una messa a punto della mia posizio ne da ognideformazione. Le sarò pertanto grato di una eventuale pubblicazio nedi questa mia lettera allo scopo di dissipare spiacevoli equivoci.

Domenico Rosati, che evidentemente mi conosce poco, esprimel’opinione che la mia lettera al professor Brezzi, scritta pri ma di cono-scere il risulta to del Referendum del 12 maggio, riecheggi la tesi del-l’on. Andreotti sui voti in «libera uscita» e liqui da la mia proposta didia logo come un mediocre tentativo di riassorbire strumentalmente lefrange di dissenso. Niente è più lontano, e non da oggi, dalle mie opi-nioni. Il testo integrale della mia lettera non è conosciuto ed è for se op-portuno ribadire che in essa, oltre ad escludere ogni proposito stru-menta le, vi era pieno e assoluto rispetto delle posizioni dei cattolici de-mocratici che, legittimamente e con se rietà di motivazione, ave vanoespresso coraggiosa mente il loro no alla abro gazione della legge sul di -vorzio; ci si limitava, sol tanto, a proporre un dia logo alla pari e senzare ciproci strumentalismi tra questi cattolici e quanti, nella DC, erano esono ri masti fedeli anche in ma teria di Referendum, pur nella disci-plina di partito, agli insegnamenti di De Gasperi e di Sturzo nel segnodi un vivo plurali smo culturale e politico e contro le involuzioni inte-gralistiche. Continuiamo a ritenere questa proposta di dialogo utile elibera da ogni secondo fine. Comprendiamo la freddezza che ha in-contrato il nostro invito, attenuato un po’ stranamente da un controinvito alla DC ufficiale per il prossimo convegno dei cattolici demo-cratici, ma ci offende la deformazione delle nostre intenzioni.

Che c’entra la nostra impostazione rispettosa del dissenso, con il re-cupero dei voti in «libera uscita» cui alludeva in altre circostanze l’on.Andreotti? Noi desideriamo solo confrontare idee a idee, senza intacca-re la libertà di scelta di nessuno, e consideriamo residuo integralistico ilrifiuto a priori di tale confronto. Per evitare sospetti tattici ricorderemoche sempre abbiamo difeso l’autonomia delle scelte politiche dei catto-lici democratici da ogni ingerenza clericale, nell’interesse stesso della re-ligione, e la piena legittimità del pluralismo di tali scelte. Mi si permet-terà una citazione che risale al 1967 a riprova della fondatezza di unaconvinzione che non è frutto delle polemiche sul Referendum.

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Al convegno di studio organizzato a Lucca, nel 1967, dopo averericordato che l’autonomia e la pluralità delle scelte politiche dei catto-lici democratici risaliva a Sturzo, anche se risultava rafforzata dalle con-clusioni del Concilio Ecumenico Vaticano II, affermavo testualmenteche i cattolici italiani che ritenessero di doversi muovere in questa pro-spettiva «in polemica con la stessa DC hanno il pieno diritto di farlo» eche «se avessero il coraggio di non aspettare comodamente l’ora X e dicorrere gli inevitabili rischi personali e di gruppo, contribuirebberocertamente a far decantare la situazione molto più che con le predichevelleitarie e moralistiche contro una equivoca unità» attorno alla DC.A questo giudizio siamo stati coerenti anche di fronte alle difficili scel-te del Referendum. Perché dovremmo cambiare opinione proprio ora?

Il problema è un altro. La DC deve profondamente rinnovarsi difronte ai fermenti positivi e vivaci esistenti, oltre che nella società ita-liana, anche tra i cattolici democratici senza pretendere una rappre-sentanza esclusiva del resto impossibile e deleteria; ma i cattolici de-mocratici che intendono proporre legittimamente linee politiche oideali anche alternative alla DC non possono rifiutare, se non cadendoin un integralismo di sinistra, il dialogo con tutte le forze ideali e po -litiche che tendono a muo versi in una prospettiva di effettivo rinno-vamento del la società italiana.

Noi non neghiamo, sia pure con una modestia de rivante dalle re-sponsabili tà che ci assumiamo per i nostri insuccessi anche dentro laDC, l’utilità di questo dialogo; siamo aperti, non da oggi, al con frontocon tutte le forze politiche e ideali italiane e sarebbe un non senso chiu-derci verso cattolici democratici che hanno dis sentito da noi, e ancoradissentono per loro diritto, anche per contribuire ad un’importante evalida af fermazione di pluralismo.

Del resto lo stesso pro blema si pone per tutti. Non si può pensaredi crea re una alternativa alla DC, o di definire in piena auto nomia unruolo politico ef fettivo, sulla base di un semplice no alla abroga zionedi una legge di cui si è riconosciuta l’inade guatezza a risolvere, nel se-gno della libertà e della sovranità dello Stato, il problema di una seriale gislazione familiare. Per ché allora non ricercare, nel dialogo, una re-ciproca definizione di ruoli e di vocazioni anche a confron to con le al-tre forze popo lari e democratiche che sono indispensabili allo svilup-po storico dell’Italia contemporanea?

Questa e soltanto questa è la nostra proposta di dia logo. Essa puòessere re spinta e non per questo noi cesseremo di guardare con inte-resse e rispetto alle esperienze di altri cat tolici democratici, ma al lora èutile per tutti mo tivare seriamente il rifiu to al dialogo ed è onesto, so-

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prattutto, non confonde re le cose con il richiamo alla tesi del recupe-ro dei voti «in libera uscita» che è riconducibile a ben altra strategia.Chiunque è convinto delle proprie idee cerca attorno ad esse il con-senso, il confronto con le idee altrui, ma ciò non ha nulla in comunecon certi residui di integrali smo e di intolleranza che sembrano so-pravvivere an che nel pluralismo.

Per questo, signor diret tore, ho pensato di non poter lasciare pas-sare sotto silenzio l’articolo di Giulio Goria e di chiederLe ospitalitàper rendere conto di oneste intenzioni che solo la disinformazione o lacattiva coscienza possono deformare. Con viva cordialità.

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L’idea della Base. Un ricordo di Marcora*

Giovanni Marcora, chiamato dagli amici familiarmente «Albertino»,col nome adottato da partigiano durante gli anni della Resistenza, può es-sere considerato il principale organizzatore della corrente della Sinistra diBase.

Dopo il convegno fondativo di Belgirate, svoltosi il 27 settembre 1953dietro suo decisivo impulso, Marcora ebbe un ruolo fondamentale nel coor-dinare e gestire una corrente costituita, secondo la definizione del fiorenti-no Nicola Pistelli, da una serie di «tribù sparse», tali per le diverse prove-nienze geografiche dei suoi aderenti (il nucleo lombardo era il più consi-stente e ad esso si accostavano fiorentini, emiliani, veneti, campani), oltreche per le differenti matrici culturali (a molti esuli di «Cronache Sociali»si unì un nutrito gruppo che giungeva dall’Università Cattolica di padreAgostino Gemelli).

Marcora intuì per primo l’importanza della stampa per diffondere edibattere le idee della corrente: riviste come «La Base», «Prospettive» e«Stato Democratico», ma anche l’agenzia di stampa «Radar», trovaronoin lui il principale sostenitore. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primianni Sessanta giunse alla guida della Democrazia cristiana milanese elombarda, divenendo senatore nel 1968, con l’elezione nel collegio di Vi-mercate. Rimase sempre molto legato alla sua terra d’origine e nel 1970 fueletto sindaco del suo paese natale, Inveruno.

Al Senato legò il suo nome alla legge sul riconoscimento dell’obiezionedi coscienza, per cui si era molto impegnato lo scomparso Pistelli, riuscen-do a farla approvare nel 1972. L’anno successivo Marcora sostennel’«accordo di Palazzo Giustiniani» tra Moro e Fanfani, accettando di di-

* L’idea della Base. Marcora a sette anni dalla morte, in «La Discussione», 10 feb-braio 1990.

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ventare vicesegretario della DC e collaborare col politico aretino nella ge-stione del partito. Nello stesso periodo egli fu l’attivo organizzatore del Con-vegno economico di Perugia, convocato per discutere ed affrontare i proble-mi innescati dalla recessione internazionale, a cui parteciparono PasqualeSaraceno, Siro Lombardini, Romano Prodi e Beniamino Andreatta.

Nel 1974 il leader basista assunse l’incarico di Ministro dell’Agricol-tura, che mantenne, con ottimi risultati, apprezzati anche sul piano euro-peo, fino al 1980.

Marcora morì a soli sessant’anni, consumato da una grave malattia,nel febbraio del 1983.

Il settimo anniversario della morte del sen. Giovanni Marcora, ilpartigiano «Albertino», è stato ricordato con la intitolazione a Bozzolodi una piazza alla sua memoria. La sottolineatura del legame ideale traMarcora e don Primo Mazzolari è stata assai significativa. Un prete sco-modo, abituato ad andare controcorrente ed a pagare di persona, ed unpolitico schietto che è stato tra i protagonisti, nella DC, di forti battagliedi minoranza e che non si è sottratto al dovere di assumere efficace-mente un’alta responsabilità, nel partito e nelle istituzioni, non poteva-no non avere punti in comune pur nella diversità delle loro esperienze.

Dall’antifascismo alla Resistenza, innanzi tutto. Ma poi nel lavoroper favorire, nell’immediato dopoguerra, la nascita e l’affermazione diun partito di cattolici democratici a largo seguito popolare e per di-fendere, contro ogni confessionalismo, l’autonomia della politica el’insostituibile freschezza della ispirazione cristiana. E, infine, l’amoreper la terra e l’impegno per lo sviluppo moderno di una agricoltura ca-pace di liberarsi da antiche servitù.

Sull’onda di questi ricordi è più facile soffermarsi, per riflettere, suimolti insegnamenti che Marcora – in sintonia con tanti protagonistidel cattolicesimo democratico – ha lasciato in eredità. Su uno, in par-ticolare, può essere utile dedicare attenzione nei tempi difficili che sistanno attraversando: la concezione democratica del partito. Nel 1953,nella fase terminale del centrismo, i rischi di involuzione della politicanazionale erano di tutta evidenza. Instabilità governativa, incapacità diaffrontare i grandi problemi del Paese, spinte a destra che avrebberotrasformato la DC in innaturale partito conservatore, intimazioni a nonmettersi sulla via, dai più considerata pericolosa, di una evoluzione deirapporti politici a sinistra, erano gli aspetti più inquietanti di una si-tuazione assai confusa.

Nacque allora l’idea di «ricominciare» una battaglia di sinistra al-l’interno della DC dopo un’interruzione troppo lunga, foriera di un ne-

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gativo conformismo interno, rispetto alla feconda stagione «dossettia-na». Era l’idea della «Base», che trovò in Marcora un punto di forza,una guida generosa ed entusiasta, cioè di una seria mobilitazione deiquadri periferici del partito, degli intellettuali, dei vari «leaders» natu-rali di un diffuso cattolicesimo democratico, per ostacolare una invo-luzione moderata della DC e per determinare, unitariamente, una cre-dibile ripresa di iniziativa riformista in una coraggiosa prospettiva diapertura a sinistra.

Anche allora si sprecarono gli inviti all’unità, i tentativi di colpe-volizzazione per la riapertura, nel partito, di un processo dialettico chea molti appariva rischioso e controproducente. I risultati, pur tra dif-ficoltà ed incomprensioni, furono di segno opposto. Si arrestò una fa-se pericolosa di smarrimento, un vivace e costruttivo dibattito internoprese il posto di una rassegnata abitudine a giustificare ogni cosa, si af-frontarono i problemi del rinnovamento del partito e di un ricambiodi classe dirigente ispirato al primato della idee rispetto alle ambizionipersonali o di generazione, e la DC – tutta insieme – seppe diventarel’elemento determinante di una positiva apertura a sinistra, di un vita-le allargamento delle basi popolari dello Stato, di una lungimirante at-tuazione di riforme, vanificando ogni tentativo di emarginazione a de-stra e tornando ad essere, come alle origini, punto di riferimento perle tendenze più vive del cattolicesimo democratico.

Sarebbe un errore pensare che i tempi non siano mutati, dimenti-cando che nulla, nella storia, può ripetersi meccanicamente. Ma il pas-sato, per chi lo intenda correttamente, contiene insegnamenti prezio-si. Aldo Moro ricordava, spesso, che la DC non può essere un partitodi sinistra, ma che ha un bisogno vitale della sua sinistra per non smar-rire la direzione di marcia di un partito popolare, riformista, attento aicambiamenti del Paese. Sarebbe segno di grave miopia politica sotto-valutare oggi, di fronte a pericoli che sono sotto gli occhi di tutti, il va-lore di una ripresa di iniziativa della sinistra all’interno della DC. Ci so-no sintomi inquietanti nella vita del partito. Non solo a Palermo, do-ve si è giunti a rinnegare prima delle elezioni una esperienza difficile,peculiare in una città in costante emergenza, ma persino a Brescia nonsi esita a sollecitare l’aiuto del PSI per porre ai margini democratici cri-stiani che hanno operato, nell’amministrazione comunale, con serietàe trasparenza. Il dibattito interno langue e al posto del confronto sul-le idee si afferma, in molti casi, la logica del numero a sostegno di me-diocri lottizzazioni. Su grandi problemi del Paese, dalla libertà di stam-pa all’antitrust, dalla legge sulla droga alle modifiche delle leggi eletto-rali, dalla difesa dell’intervento pubblico in economia al continuo rin-

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vio di un maggiore rigore fiscale, la DC appare a rimorchio delle ini-ziative altrui più che portatrice, in un confronto alla pari con gli altripartiti, di proposte proprie.

Sul piano politico, poi, mentre tutto è in movimento a livello in-ternazionale ed il travaglio del PCI apre, per tutti, nuovi scenari politi-ci la DC sembra non avvertire, nel suo insieme, l’importanza di una at-tenzione morotea di quanto avviene nella sinistra italiana e la necessitàdi difendere, al di là di un difensivo esaurirsi della tradizionale formu-la del pentapartito, il pieno diritto del partito dei cattolici democrati-ci di essere protagonista anche nel futuro di positive evoluzioni dellademocrazia italiana.

Da tutto questo, e non è poco, trae ragione d’essere la ripresa diiniziativa della sinistra del partito. Perché ostinarsi a considerarla, ol-tretutto ingenerosamente, il sintomo di una caduta del senso di re-sponsabilità? Si tratta del contrario. Come in altri momenti difficili,nella vita del partito, corrisponde ad un dovere la ripresa di una fun-zione critica e di una capacità di elaborazione, di proposta, per con-correre a dare alla DC una maggiore coscienza dal proprio ruolo. Quil’insegnamento di Marcora, l’esperienza della «Base», tornano di gran-de attualità. Non è in discussione l’impegno unitario, nelle cose essen-ziali, il leale sostegno al governo e l’impegno, irrinunciabile, a difen-dere in ogni caso la continuità della legislatura.

Tocca alla sinistra del partito indicare, con coraggio, la via di unaripresa complessiva della DC distinguendo le sue responsabilità, con in-tenti costruttivi e senza alcun ritiro sull’Aventino, in un momento incui le tendenze più vive del cattolicesimo democratico, specie tra i gio-vani, guardano con diffidenza e con crescente perplessità a quanto ac-cade in Italia. È un passaggio non facile, nemmeno per la sinistra. De-ve cadere ogni improduttiva personalizzazione della battaglia in corso.Ogni «leaders» deve ritrovare il gusto degli sforzi comuni, delle elabo-razioni collegiali, nella pratica di un costume politico che non richie-de di mostrare i muscoli ogni giorno o di attardarsi in rumorose pole-miche ma – all’opposto – di ridare spazio al primato delle idee, alla coe-renza dei comportamenti. Dopo aver «ricominciato», con mesi di ri-tardo e dopo aver perduto l’occasione del congresso, occorre conti-nuare con serietà e senso di responsabilità perché se la posta in gioco èla correzione della linea del partito, la ripresa di una stagione di rifor-me e di rinnovamento interno, non ci sono modeste contropartite chepossano giustificare ripiegamenti tattici improduttivi.

Non c’è bisogno di innalzare pretestuose pregiudiziali, né nel par-tito, né verso il PSI o altri alleati di governo. La chiarezza, che giustifi-

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ca una battaglia di minoranza, non preclude possibili riprese di colla-borazione una volta che siano avvertiti, da tutti, i pericoli in corso e lanecessità di porvi persuasivi rimedi. Aiuta, anche qui, l’insegnamentodi Marcora. Alta era in lui la coscienza del doversi «mettere alla stan-ga» in coerenza con chiari orientamenti ideali e politici. Lo ha dimo-strato nel partito, nel governo e a livello europeo. Ma questo senso diresponsabilità non gli ha impedito di andare controcorrente, come donPrimo Mazzolari e tanti altri, tutte le volte che era necessario richia-mare la DC ai suoi doveri di grande partito popolare, riformatore, aper-to alle sfide del futuro e non ripiegato sulla gestione dell’esistente.

151L’idea della Base. Un ricordo di Marcora

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PARTE SECONDA

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Le battaglie politiche di Luigi Granelli

L’adesione alla corrente democristiana della Base può essere consi-derata la prima battaglia politica di Granelli. Da questo elemento, in-fatti, è utile partire per analizzare e comprendere la sua azione politi-ca, che fu espressione, soprattutto, di una profonda consapevolezzaculturale.

La Base era nata nel settembre 1953, un anno cruciale sotto moltiaspetti. Le consultazioni elettorali del 7 giugno di quello stesso anno,infatti, ebbero un esito importante per la successiva storia italiana. Co-me è noto non scattò, per poche migliaia di voti, il premio di maggio-ranza ai partiti della coalizione governativa. La Democrazia cristiana,pur riconfermandosi come il primo partito, non aveva più la maggio-ranza assoluta in Parlamento e il succedersi di esecutivi sempre più bre-vi era un chiaro esempio della difficoltà di comporre nuovi governi.Proprio col voto del sette giugno, il partito democristiano riaffermavain termini irreversibili il suo primato nel sistema politico italiano e tut-tavia «quell’assestamento definitivo intorno al polo democristiano cheil risultato elettorale imponeva non era facile da tradurre nelle formu-le parlamentari e di governo»1.

In questo stesso partito, inoltre, erano in atto cambiamenti decisi-vi e nuovi fermenti. Due grandi leader avrebbero presto lasciato la sce-na politica: Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti. Ambedue aveva-no rappresentato modelli politici e culturali sui quali riflettere e im-postare l’azione di governo. Come ha osservato Giorgio Campanini, illimite della tesi degasperiana era stato il sottovalutare l’ampiezza delconsenso che avrebbe potuto essere assicurato ad una politica di co-raggioso rinnovamento delle strutture, amministrative ed economiche,

1 P. Craveri, De Gasperi, il Mulino, Bologna 2006, p. 611.

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della società italiana. Il limite di Dossetti, invece, era stato il presume-re che la Democrazia cristiana potesse realizzare da sola tale percorsodi rinnovamento2.

I due leader, però, non lasciavano un vuoto, bensì un’eredità, daproseguire o rinnegare, con la quale confrontarsi. Come constataronoalcuni esponenti della corrente, non era casuale che la Base fosse natadopo le elezioni del giugno 1953. Giovanni Marcora, ad esempio, in-dividuava un momento importante di riflessione critica e maturazio-ne politica proprio nella campagna elettorale in vista del sette giugnoe anche Sergio Passera considerava questo anno come la chiave di let-tura della nascita della Base. Per la corrente democristiana si trattava dicoprire il vuoto lasciato dalla politica di Dossetti e dalla scomparsa diCronache Sociali, dando vita a un raggruppamento che, procedendodalla concezione degasperiana dello Stato, recuperasse le tematiche delwelfare e delle riforme restituendo slancio allo sviluppo democratico ecoinvolgendo altre forze, soprattutto i socialisti, alla definizione dinuove prospettive per l’espansione della politica e dell’economia3.

L’incontro di Belgirate del settembre 1953, in occasione del qualenacque la Base, fu organizzato da partigiani cattolici, tra cui Marcora,Aristide Marchetti, don Federico Mercalli, Bruno Bossi, e da intellet-tuali cattolici e quadri periferici della Democrazia cristiana, tra i qualiGian Maria Capuani. Quest’ultimo aveva tenuto la relazione intro-duttiva che, rivista da Giuseppe Lazzati, riprendeva alcuni argomentidelle battaglie sostenute da Dossetti. Dopo la peculiarità temporalerappresentata dal 1953, un altro elemento emergeva come tratto sa-liente e caratterizzante la corrente democristiana: il riferimento co-stante alla Resistenza. L’esperienza della lotta di Liberazione era consi-derata come fatto storico dinamico e continuamente in fieri e i valoridell’antifascismo divenivano la discriminante per la realizzazione diuno Stato effettivamente democratico.

Marcora e Marchetti provenivano dalla Lombardia, cioè dalle zo-ne più significative della lotta partigiana e avevano avuto come figuredi riferimento spirituale e culturale quegli uomini di Chiesa che, so-prattutto al Nord, erano stati antifascisti. In una intervista del 1980Marcora ricordò come, sotto la guida di un sacerdote, maturò le pro-

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2 G. Campanini, Fede e politica. 1943-1951. La vicenda della sinistra dc, Morcel-liana, Brescia 1976.

3 F. Boiardi, E nacquero una corrente e una rivista: «La Base», in «La Discussione»,12 maggio 1990.

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prie scelte: «la storia dell’antifascismo è anche storia di tradizione cul-turale, una storia che io non avevo. Ma incontro un prete, don Giu-seppe Albeni, che per primo ci parla di don Sturzo, del Partito Popo-lare»4. A giudizio di Marchetti, la partecipazione a questo importantepassaggio storico, che «non fu guerra civile ma una guerra di civiltà, ri-volta morale, umana e culturale»5, costituì il substrato culturale «dellalotta per i diritti al lavoro, allo studio, alla salute, alla casa, dell’inter-vento dello Stato nell’economia, delle scelte di Mattei per l’Eni, dellaprogrammazione economica di Vanoni, della nazionalizzazione dell’e-nergia elettrica, della lotta ai monopoli e delle riforme sociali»6.

Come afferma Granelli, la stessa Costituzione non si poteva com-prendere senza partire dal presupposto storico e politico della Resi-stenza:

È evidente allora che dopo la Resistenza si ponesse per le forze democra-tiche del Paese la necessità non solo di gettare in modo diverso dal passato lebasi di una Costituzione che non fosse la riedizione dello Statuto, e di un or-dinamento dello stato che fosse più corrispondente alla società, ma di realiz-zare ciò in condizioni di collaborazione e di realismo politico rispetto al fat-to sconvolgente che si era determinato con il crollo del fascismo: il fatto del-la Resistenza di popolo e l’emergere dei partiti di massa7.

La lotta partigiana aveva visto la partecipazione di diverse compo-nenti politiche e culturali e in questo senso aveva trovato il suo logicosviluppo nell’Assemblea costituente. Questa, infatti, aveva avuto ilcompito non solo di «predisporre una Costituzione più aderente alleesigenze nuove della società, ma di tradurre in norma giuridica e in or-dinamento dello Stato la grande passione pluralistica, civile morale epolitica che era emersa dalla lotta antifascista»8. Il rafforzamento delvincolo della solidarietà fu il valore maggiormente sentito da coloroche presero parte, nelle varie forme, alla Resistenza. Fu, altresì, il trat-to caratteristico della Base che si tradusse nell’autonomia dei cattolicinel campo della politica, nella costante ricerca di apporti culturali diderivazione non solo cattolica e nella costruzione del dialogo con il

157Le battaglie politiche di Luigi Granelli

4 A. Statera, «Mica per dire, ma se c’ero io…», in «L’Espresso», 21 dicembre 1980.5 A. Marchetti, I cattolici di fronte alla lotta armata, in M. Fini (a cura di), 1945-

1975 Italia, fascismo, antifascismo, Resistenza, rinnovamento, Feltrinelli, Milano 1975,pp. 278-290.

6 Ibidem.7 ASILS, FG, serie III, 2, b. 25.8 Ibidem.

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Partito socialista che Granelli definiva «una inevitabile tendenza di svi-luppo della democrazia italiana»9.

De Gasperi e Dossetti non furono i soli uomini politici a influen-zare e ispirare l’azione della Base. Anche Luigi Sturzo fu una figura im-portante per la così detta «terza generazione», a cui gli esponenti dellaBase appartenevano. Come ha osservato Pietro Scoppola, «per un ap-parente paradosso il popolarismo diventa un punto di riferimentoideale nella Democrazia cristiana, ad opera di un gruppo come quellodella Base contro il quale Sturzo non mancò di polemizzare vivace-mente»10. Oggetto del contrasto era la visione economica della Baseorientata verso l’intervento dello Stato in economia. Tale posizione erasostenuta anche da altri esponenti del partito democristiano, comeEzio Vanoni e Amintore Fanfani, e da altre figure non facenti parte del-l’ambito strettamente politico, come Giorgio La Pira11 e il presidentedell’ENI Enrico Mattei12. Sturzo considerava l’intervento statale nell’e-conomica come un attacco all’iniziativa privata e un primo passo ver-so una forma di socialismo di Stato.

Malgrado questi contrasti, la Base accolse la lezione del «primoSturzo» per ciò che riguardava, in particolare, la lettura non formali-stica ma storicistica degli eventi e la riflessione sul senso dello Stato. Ri-cordando la figura del leader popolare, Granelli affermava:

Non si spiegherebbe la battaglia di Sturzo per le autonomie se non in unostretto legame con la società; non si spiegherebbe la battaglia per la propor-zionale – che non fu una battaglia tecnica, ma di libertà –, la battaglia per ilsuffragio universale e per il voto alle donne, se non si scorgono in queste bat-taglie le ragioni politiche e gli strumenti concreti per liberare la vita politica

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9 Ivi, serie I, Attività di partito, b. 8, f. 33.10 P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico

1945-1996, il Mulino, Bologna 1991, p. 353.11 Sulla figura di Giorgio La Pira cfr.: E. Balducci, Giorgio La Pira, Giunti, Firen-

ze 2004; S. Leoni, La formazione politica del pensiero di Giorgio La Pira, Cultura Nuo-va Editrice, Firenze 1991; L. Rogasi, Giorgio La Pira. Un siciliano cittadino del mondo,Edizioni Polistampa, Firenze 2006; A. Scivoletto, Giorgio La Pira. La politica come ar-te della pace, Studium, Roma 2003.

12 Sulla figura di Enrico Mattei cfr.: G. Galli, Enrico Mattei: petrolio e complottoitaliano, Baldini Castaldi Dalai, Milano 2005; N. Perrone, Obiettivo Mattei, Petrolio,Stati Uniti e politica dell’Eni, Gamberetti Editrice, Roma 1995; L. Maugeri, L’arma delpetrolio. Questione petrolifera globale, guerra fredda e politica italiana nella vicenda di En-rico Mattei, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1994; B. Li Vigni, Il caso Mattei: un giallo italia-no, Editori Riuniti, Roma 2003; L. Bazzoli, R. Renzi, Il miracolo Mattei, Rizzoli, Mi-lano 1984.

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italiana dal clientelismo giolittiano e dalla estraneità delle forze sociali rispet-to alla conquista del potere politico. Il primo elemento vitale del popolari-smo mi sembra perciò che riguardi la politica intesa non come un’astrazioneche discende da una tavola dei principi, e neppure come la pura e sempliceorganizzazione della protesta e del dissenso, ma come la capacità di mobili-tare e di organizzare le forze sociali contro lo sfruttamento clientelistico, perl’affermazione della propria autonomia, per conseguire cioè un concretosbocco politico che sia coerente con le esigenze espresse nella società13.

La Base fece propria la necessità di muovere dalla realtà storica sen-za astrattismi e griglie ideologiche precostituite e di interpretarla comeprocesso di evoluzione per comprendere appieno le tendenze vive del-la società e fare di esse una componente matura, democratica e parte-cipe della vita politica allo scopo di ricomporre il contrasto tra paeselegale e paese reale.

Nella ricerca di questa ricomposizione evidente è il richiamo allatradizione popolare, che all’interno della Democrazia cristiana era pre-sente in diverse personalità politiche, ma con finalità contrastanti. Senegli ex popolari essa giocava in funzione di una proposta nettamenteostile all’apertura a sinistra, in Granelli e nella Base diveniva, al con-trario, fondamento e giustificazione del dialogo col Partito socialista14.Questa «utilizzazione a sinistra» del popolarismo era la strada da per-correre per realizzare l’allargamento della base democratica dello Sta-to. Come ricordava Nicola Pistelli, esponente della Base fiorentina,l’impossibilità di questa intesa nel primo dopoguerra aveva permessol’instaurarsi del regime fascista in Italia15.

Fino alla metà degli anni Cinquanta la Base non ebbe cariche al-l’interno della Democrazia cristiana e del Parlamento: era nata comeun prezioso laboratorio di idee ed era una piccola, se pure significati-va, corrente di partito.

Basti pensare, infatti, alle esperienze editoriali di cui si fece pro-motrice subito dopo il convegno di Belgirate. L’omonima rivista «LaBase» iniziò le sue pubblicazioni il primo novembre 1953; Marchettine era il direttore, mentre al lavoro di redazione partecipavano Gra-nelli, Capuani, Giovanni Galloni e Leandro Rampa. Nella rivista, cheaveva una scadenza quindicinale, erano già esplicitate quelle linee po-

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13 Estratto dal volume: AA. VV. Il Partito Popolare: validità di un’esperienza, Cen-tro Studi Luigi Puecher, Milano 1969, p. 5.

14 Ivi, pp. 354 e ss.15 N. Pistelli, Scritti politici, a cura di E. De Mita, Editrice Politica, Firenze 1967,

pp. 64 e ss.

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litiche che avrebbero costituito le battaglie culturali e politiche dellacorrente: l’autonoma responsabilità dei cattolici in politica, il dialogocol Partito socialista, un nuovo indirizzo di politica economica. La co-struzione dello Stato democratico, infine, era sintesi e fine dell’azionepolitica della Base.

L’ultimo numero de «La Base» usciva il 30 luglio 1954; la chiusu-ra del quindicinale non fu imposta dai vertici della Democrazia cri-stiana, nonostante la Direzione avesse affermato l’inammissibilità disostenere posizioni contrarie alla linea generale del partito tramite di-chiarazioni pubbliche e giornali «volti soprattutto ad una polemica in-terna che assumeva asprezze tali da non poter essere consentita nel-l’ambito di nessun partito»16.

La seconda esperienza editoriale de «La Base» fu il quindicinale «Pro-spettive», che uscì la prima volta il dieci novembre 1954, qualche mesedopo il Congresso democristiano di Napoli. Da questa assise la corren-te ottenne una considerevole affermazione: furono eletti consiglieri i ba-sisti Giuseppe Chiarante, Galloni, Camillo Ripamonti e Rampa.

Probabilmente, per l’assunzione di tali nuove responsabilità all’in-terno del partito, «Prospettive», di cui si stampavano 15000 copie17,rappresentò un salto di qualità, nel senso di una maturità più grande ri-spetto alla rivista «La Base». Nel nuovo quindicinale, attraverso una se-rie di articoli curati da Chiarante, un’attenzione maggiore e costante eradedicata anche al partito socialista e al suo percorso politico in direzio-ne di un’evoluzione democratica e autonomista.

Se si considera la pubblicistica cattolica italiana degli anni Cin-quanta, i quindicinali «La Base» e «Prospettive» rappresentarono unapiccola rivoluzione sia nel linguaggio che nei contenuti, anche se cer-tamente non furono i soli ad apportare un contributo nuovo e piùprofondo a livello culturale e politico18. Come si legge nell’editorialedel primo numero, «Prospettive» aveva l’ambizioso progetto di rap-presentare non una corrente, ma una nuova esperienza di formazione

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16 A. Damilano (a cura di), Atti e documenti della Democrazia cristiana 1943-1967,Ed. Cinque Lune, Roma 1967, vol. 2, p. 664.

17 ASILS, Fondo Marcora, b. 12/E 3.18 Sulla stampa cattolica cfr. A. Majo, La stampa cattolica in Italia. Storia e docu-

mentazione, Piemme, Casale Monferrato 1992, pp. 196 e ss; F. Malgeri, La stampa quo-tidiana e periodica e l’editoria, in F. Traniello, G. Campanini (a cura di), Dizionario sto-rico del movimento cattolico in Italia, vol. 1, t. I, I fatti e le idee, Marietti, Casale Mon-ferrato 1984, pp. 292 e ss; S. Ristuccia (a cura di), Intellettuali cattolici fra riformismoe dissenso, Comunità, Milano 1975; G. Invitto, La mediazione culturale. Riviste italia-ne del Novecento, Micella, Lecce 1980.

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di una coscienza civile e politica. A fronte di questa nuova esigenza, eranecessario, come scrisse Granelli nel suo articolo «Forza e debolezza delcentrismo», denunciare i limiti politici di un centrismo condannato, asuo giudizio, all’immobilismo decisionale:

Contro questo dato di fatto viene ad infrangersi l’illusione di risolverela crisi nell’ambito dell’attuale cittadella democratica, e il mito del riformi-smo sociale. Una serie di riforme sociali che lascino intatte le strutture eco-nomiche e che non soddisfino l’ansia di libertà che caratterizza certe esi-genze di fondo delle classi popolari, non potranno mai determinare unareale «crescita» di fiducia e un effettivo allargamento delle basi politiche del-lo Stato che già scricchiolano per i ridotti margini di stabilità esistenti nelPaese. Per questo, pur riaffermando l’urgenza di un coraggioso riordina-mento degli squilibri sociali, noi riconfermiamo la convinzione che la crisinon potrà essere superata né da combinazioni parlamentari né dalla puraconservazione di una solidarietà di partiti al vertice che non si rifletta allabase, tra i ceti popolari19.

Da questa analisi, secondo Granelli, nasceva l’esigenza della «com-prensione democratica del ruolo politico delle masse cattoliche e lai-che» per uno Stato democratico ancora da costruire.

Il gruppo basista non aveva ancora propri rappresentanti in Parla-mento, ma l’elezione di suoi quattro consiglieri rappresentò un’im-portante assunzione di responsabilità e la ricerca di un nuovo ruolo,più incisivo, all’interno del partito democristiano. Al Congresso de-mocristiano di Trento, nell’ottobre 1956, la Base ottenne un conside-revole riconoscimento: Granelli fu eletto per la prima volta in Consi-glio nazionale, con 312.100 preferenze, assieme a Galloni che ne ot-tenne 399.100, Ciriaco De Mita (314.400), Fiorentino Sullo(514.400), Pistelli (331.600), Rampa (524.800), Andrea Negrari(223.300) e Alessandro Buttè (309.700), esponente delle ACLI lom-barde20.

Sul fronte delle opposizioni, in occasione dell’assise socialista di Ve-nezia, Nenni sostenne che il dialogo con i cattolici, aperto durante ilprecedente Congresso di Torino, doveva essere portato avanti e che lapolitica frontista non era possibile né utile alla nuova prospettiva so-cialista21. Nenni denunciava il comunismo per il suo asservimento al-

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19 L. Granelli, Forza e debolezza del centrismo, in «Prospettive», 10 novembre 1954.20 A. Di Raimondo (a cura di), Dieci congressi D.C. 1946-1967, Tipografia Gravi-

nese, Torino.21 M. Degl’Innocenti, Storia del Psi, Dal dopoguerra ad oggi, Laterza, Roma-Bari

1993, vol. 3.

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la politica e all’ideologia sovietica e si avvicinava a posizioni europei-ste. I socialisti avevano votato, infatti, a favore del Mercato ComuneEuropeo, il cui trattato istitutivo era stato firmato il 25 marzo 1957 as-sieme al trattato dell’Euratom. La situazione internazionale mutavaprofondamente e aveva ripercussioni anche sul Partito socialista italia-no: la tragedia ungherese aveva reso possibile lo sganciamento dei so-cialisti dai comunisti22. Infine, in occasione del Consiglio nazionale diVallombrosa, il segretario Fanfani impostò la sua relazione prevalente-mente sulla questione socialista e sulla necessità dell’allargamento del-la base politica23.

La corrente basista «aveva da tempo rinunciato a propri organi uf-ficiali, per non esporsi ulteriormente a sanzioni disciplinari, né ademarginazioni»24. A Firenze «Politica», nata nel 1955 e diretta da Pi-stelli, copriva un’area più vasta di quella dichiaratamente di correnteallo scopo di non subire interventi censori. Ma dopo il VI Congressodemocristiano di Trento dell’ottobre 1956, quello socialista di Vene-zia nel febbraio 1957 e dopo il Consiglio nazionale di Vallombrosadella Democrazia cristiana del luglio dello stesso anno, apparve nonpiù procrastinabile la nascita di un nuovo strumento di comunica-zione e di diffusione delle proprie idee che fungesse da raccordo aquelle «tribù sparse» che, secondo la definizione di Pistelli, costitui-vano il gruppo di Base.

Il 10 ottobre 1957 usciva il primo numero di «Stato democratico»,diretto inizialmente da Felice Calcaterra e poi da Granelli, che ne erastato l’ideatore e l’ispiratore. In una lettera ad alcuni esponenti basistidel 9 settembre 1957 Granelli spiegava in questi termini la necessità diuna nuova rivista:

Come forse avrai appreso, abbiamo intenzione di iniziare la pubblica-zione di un quindicinale a carattere nazionale, sul quale puntiamo le resi-due carte per uscire dall’immobilismo dei mesi scorsi e ripresentarci all’o-pinione pubblica con molta chiarezza di idee e propositi. Oltre tutto, ilgiornale servirà anche a ricreare, attorno a un organo valido, l’unità di con-sensi di tutte quelle energie che attendono un’efficace ripresa nel campodelle idee25.

162 Maria Chiara Mattesini

22 E. Di Nolfo, Il socialismo italiano tra i due blocchi, in Trent’anni di politica so-cialista 1946-1976, Edizioni Avanti, Parma 1977, pp. 47-66.

23 F. Malgeri, Gli anni di transizione: da Fanfani a Moro (1954-1962), in ID., Sto-ria della democrazia cristiana, Ed. Cinque Lune, Roma 1987, vol. 3.

24 V. Gallo, Antologia di “stato democratico” (1957-1959), Ebe, Roma 1972, p. 24.25 ASILS, FG, serie I, Attività di partito, b. 1, f. 2.

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Attraverso «Stato democratico» Granelli riprendeva le battaglie peril dialogo anche culturale con la sinistra italiana, per l’allargamentodella base democratica, per il rinnovamento del partito, per una lineariformistica nei campi economico, istituzionale ed estero, ponendo inmodo sempre più esplicito la questione dell’apertura a sinistra.

Questo disegno politico che proponeva la trasformazione in Pianodello Schema Vanoni, l’istituzione delle Regioni e l’attuazione dellaCostituzione, una più dinamica politica estera per superare la con-trapposizione dei blocchi, trovò in «Stato democratico» approfondi-menti attraverso i numerosi supplementi tematici semestrali e la colla-na di opuscoli «Idee e battaglie».

Nel 1965, il 18 e 19 settembre, si tenne a Cadenabbia il convegno«Il ruolo dei partiti nella democrazia italiana», organizzato dalla de-mocrazia cristiana lombarda di cui Granelli era vice segretario. Comeaffermò egli stesso in una lettera di invito al convegno, «questo si pro-pone di mobilitare in un comune sforzo di ricerca e di approfondi-menti uomini impegnati nel campo politico e culturale per elaborareun contributo qualificato su di un tema di grande attualità»26.

Il convegno di Cadenabbia si situava in un difficile contesto poli-tico e sociale. Il centro-sinistra, da poco avviato dopo una lunga e dif-ficile gestazione, registrava già le prime delusioni, perché ritenuto in-capace di isolare i comunisti e di iniziare una incisiva opera riforma-trice nel campo della politica, in direzione di un rinnovamento delleistituzioni, e in campo economico verso la realizzazione di una pro-grammazione che garantisse un armonico ed equilibrato sviluppo. Mai cambiamenti provocati dal boom economico e dalle conseguenti tra-sformazioni sociali crearono nuove tensioni sociali difficili da gestire27.

Le battaglie di Granelli, eletto deputato dal 1968, proseguirono inParlamento all’interno del quale ricoprì molteplici cariche. In qualitàdi Sottosegretario agli Esteri, dal 1973 al 1976, si occupò soprattuttodel problema dell’emigrazione, organizzando la prima Conferenza Na-zionale degli italiani all’estero (la cui cifra superava i 15 milioni), chesi svolse a Roma dal 24 febbraio al 1 marzo 1975 ed ebbe come titolo«Meno emigrazione più integrazione».

La Conferenza prese atto che l’emigrazione, fino ad allora trattataprevalentemente con un approccio assistenzialista era, invece, una del-

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26 ASILS, FG, serie I, b. 6.27 N. Tranfaglia, La modernità squilibrata. Dalla crisi del centrismo al «compromes-

so storico», in F. Barbagallo (coordinata da), Storia dell’Italia repubblicana, La trasfor-mazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, Einaudi, Torino 1995, vol. 2, t. II, pp. 7-111.

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le grandi questioni nazionali. Emerse dunque l’esigenza di una parte-cipazione diretta e di un protagonismo degli italiani all’estero sullequestioni che li toccavano da vicino, da realizzare non più attraverso lostudio delle trascorse vicende migratorie, ma attraverso riflessioni sulpresente e sulle prospettive della nuova politica italiana. I rappresen-tanti degli italiani all’estero, infatti, presentarono un’organica piat-taforma di rivendicazioni, tra cui: il diritto al voto alle amministrativenei paesi di immigrazione, la partecipazione ai comitati consolari, ser-vizi scolastici adeguati e previdenza sociale.

Gli italiani residenti all’estero ebbero la prima opportunità per farsentire la propria voce e per la prima volta poterono formulare le lororichieste e illustrare i loro progetti in un foro istituzionale. Lo stessoGranelli dichiarò:

Si è così aggiunto un nuovo capitolo alla storia di un’effettiva e non an-cora raggiunta unità nazionale. Gli italiani che vivono all’estero, costretti dadure necessità o consapevoli di una libera scelta, sono parte viva e a pieno ti-tolo di una società nazionale moderna e autenticamente democratica ed aver-lo solennemente confermato, di fronte all’opinione pubblica interna e inter-nazionale, è uno dei meriti indiscussi della Conferenza Nazionale dell’Emi-grazione. Questo patrimonio dev’essere gelosamente custodito28.

Meno emigrazione, a giudizio di Granelli, doveva significare mag-giore integrazione e anche una «ripresa vigorosa di una programma-zione economica che tenda ad eliminare, soprattutto nel Mezzogior-no, le cause strutturali di una disoccupazione che è fonte di spopola-mento e di emigrazione forzata»29.

Per quel che concerneva, più in generale, la politica estera, il crite-rio per valutare concretamente gli atteggiamenti assunti doveva essere,per Granelli, una concezione della comunità internazionale che fosse,come era stata per Sturzo, «fondata sul diritto, sul pluralismo, sulla col-laborazione pacifica tra i popoli in nome di una solidarietà che mettain comune le risorse disponibili per un migliore avvenire dell’interaumanità»30. Questo metro di giudizio era applicabile anche alle al-leanze militari, quali la NATO e il Patto di Varsavia, che lungi dall’esse-re considerati ostacoli al processo di distensione, erano diventati essistessi strumenti di dialogo: «il superamento dei blocchi rigidi e con-trapposti rimane, ovviamente, ciò che fa diversa la distensione dallo

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28 ASILS, FG, Fondo Granelli, serie III, b. 2.29 Ibidem.30 Ivi, p. 9.

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scontro e non dal dialogo, ma il raggiungimento graduale di questoobiettivo non contrasta con l’esistenza di alleanze in cui l’elemento po-litico prevalga su quello militare ed offensivo»31.

Tale posizione, di rifiuto della equidistanza, era già stata espressasul quindicinale della Base, «Prospettive», attraverso una serie di arti-coli di Chiarante, il quale, in risposta alle accuse di neutralismo da par-te della stampa di destra, aveva scritto che, pur nel quadro dell’Allean-za Atlantica, l’Italia e l’Europa potevano «ritrovare una propria auto-noma e positiva funzione»32. La politica internazionale e l’attenzioneper il «terzo mondo» aveva costituito un oggetto privilegiato di rifles-sione per la Base. Su quasi ogni numero di «Prospettive», infatti, era-no stati pubblicati articoli sulla situazione della Germania, sulla guer-ra fredda, sulla distensione internazionale, sui paesi «non allineati»,sull’Africa e sulle conseguenze della politica coloniale.

Nell’elaborazione culturale e politica di questa visione della comu-nità internazionale, che comprendeva una particolare attenzione e sen-sibilità alla questione della decolonizzazione, è riscontrabile l’influen-za della posizione neoatlantista sostenuta, all’interno della Democra-zia cristiana, soprattutto da Giovanni Gronchi e Fanfani33. In partico-lar modo, si intravede il pensiero di Mattei e La Pira. Come ha osser-vato Galloni, la visione economica del primo era speculare alla visionepolitica del secondo34. Mattei, infatti, nutriva una grande ammirazio-ne per La Pira e per le sue iniziative volte a promuovere il dialogo traebrei, musulmani e cristiani per la pace nel Mediterraneo35. Questa po-sizione era condivisa da Mattei, il quale tentò di intraprendere una di-versa politica petrolifera superando le vecchie formule di sfruttamen-to di tipo coloniale36.

Il nome di Granelli è legato anche ad un’altra importante iniziati-va presa in qualità di Ministro della Ricerca Scientifica e Tecnologica,carica che ricoprì dal 1983 al 1987. La precedente classe politica si era

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31 L. Granelli, Da Helsinki a Belgrado, cit., p. 7.32 G. Chiarante, Politica estera ed apertura a sinistra, in «Prospettive», n. 7, 30 mag-

gio 1955.33 G. Calchi Novati, Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana, in

F. Barbagallo (coordinata da), Storia dell’Italia repubblicana, op. cit., vol. 2, t. I, pp. 246-247.

34 Archivio Storico dell’ENI, Fondo Fonti orali. Intervista a Giovanni Galloni di Vin-cenzo Gandolfi, Roma 18 marzo 1991, pp. 17-18.

35 B. Bocchini Camaiani, La Chiesa di Firenze tra La Pira e Dalla Costa, in A. Ric-cardi, Le chiese di Pio XII, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 282-301.

36 E. Mattei, L’evoluzione del mercato petrolifero, ENI, Roma 1960.

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dimostrata poco attenta al ruolo sempre più crescente assunto dall’in-novazione tecnologica e i governi che si erano succeduti fino ad allorasi erano limitati ad occasionali interventi delegando lo studio e l’orga-nizzazione di tale materia al Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).Il sintomo dell’incomprensione della ricerca scientifica, che alla finedegli anni Settanta andava delineandosi come vero motore e settorestrategico dello sviluppo del ventesimo secolo, furono gli scarsi inve-stimenti, il ritardo e la precarietà della formazione scientifica e tecni-ca. Questo settore, infatti, ebbe un ruolo secondario e marginale nel-lo sviluppo italiano della seconda metà degli anni Cinquanta, duranteil così detto boom economico37. A partire dagli anni Ottanta si regi-strò una maggiore sensibilità per il campo della tecnologia, grazie so-prattutto ai diversi e importanti contributi che Granelli seppe dare co-me ministro della Ricerca Scientifica. Egli era convinto, infatti, dellanecessità di dotare il paese di un equipaggiamento tecnologico in gra-do di competere a livello europeo e mondiale38. Coerente con tale po-sizione, aumentò gli investimenti destinati alla ricerca, allo scopo di ar-restare quella mobilità a senso unico per cui gli studiosi emigrati all’e-stero difficilmente furono incoraggiati a rientrare in Italia.

Granelli si adoperò, infine, per la realizzazione a Trieste della mac-china di Sincrotrone, per lo studio delle leggi della materia e dell’infi-nitamente piccolo. Nel novembre 1986, infatti, fu costituita la SocietàTrieste Sincrotrone, presieduta dal premio Nobel Carlo Rubbia a cui,nel 1987, fece seguito la creazione, nella medesima città, del laborato-rio per lo studio delle biotecnologie39.

Nel 1988, infine, fu creata l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), che di-venne il punto di riferimento per l’eccellenza scientifica e tecnologicaitaliana. Nell’ASI confluirono le attività esercitate dal CNR, la gestionedel piano nazionale e la cura degli interessi italiani nell’Agenzia Spa-ziale Europea (ESA). La struttura dell’Agenzia, inoltre, presentava ca-ratteristiche innovative per quanto riguardava la sua gestione, con-traddistinta da un proficuo legame tra pubblico e privato. L’ASI, infat-ti, operò, per il suo organico fisso, con contratti di tipo pubblico e at-

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37 Per un quadro generale sullo sviluppo scientifico e tecnologico in Italia cfr. C.Antonelli, Il cambiamento tecnologico: innovazione e modernizzazione (1945-90), in F.Barbagallo (coordinata da), Storia dell’Italia repubblicana, op.cit., vol. 2 t. I, pp. 479-526.

38 Per un quadro generale sullo sviluppo scientifico e tecnologico in Italia cfr. C. An-tonelli, Il cambiamento tecnologico: innovazione e modernizzazione (1945-90), in F. Bar-bagallo (coordinata da), Storia dell’Italia repubblicana, op. cit., vol. 2 t. I, pp. 479-526.

39 Una ricca documentazione in ASILS, FG, serie IV, b. 9.

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traverso contratti di tipo privatistici per studi, ricerche, progettazionie realizzazioni con industrie, università ed enti.

Le ultime battaglie di Granelli, condotte negli anni Novanta, fu-rono caratterizzate, sostanzialmente, dalle questioni di politica inter-na. Proprio all’inizio di questo decennio, il 6 agosto, fu approvata lalegge n. 223, «Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e priva-to», comunemente conosciuta come legge «Mammì» dal nome del pri-mo firmatario, l’allora ministro delle Poste e Telecomunicazioni re-pubblicano Oscar Mammì. Dopo quattordici anni dalla sentenza del-la Corte Costituzionale che legittimava l’emittenza locale, per la primavolta questa legge dava disciplina organica al sistema radiotelevisivoitaliano. La legge, che ebbe un faticoso iter parlamentare, sancì il giàesistente duopolio RAI-Fininvest.

In merito alla raccolta pubblicitaria Granelli espresse la richiestache vi fossero norme di autentico pluralismo «per consentire a più sog-getti di operare nel campo dell’emittenza in una competitività garan-tita dalla libertà di mercato». Infine, al termine dell’intervista, Granel-li affermò che «lo scopo era quello di avviare un processo che superi l’e-sistente duopolio (RAI-Fininvest), finalizzato alla abolizione del cano-ne e a portare poi il servizio pubblico a gestirsi da impresa, seppure conparticolare compiti»40.

Granelli, che aveva fatto parte della Commissione Vigilanza sullaRAI-TV, dichiarò la sua contrarietà alla richiesta del voto di fiducia, poi-ché, a suo giudizio, la legge avrebbe necessitato di un dibattito più am-pio e più libero. Sostenne la sua posizione circa i limiti da porre al si-stema della raccolta pubblicitaria, come condizione per un maggiorepluralismo e affinché fosse data la possibilità a più soggetti di interve-nire sul mercato delle frequenze radiotelevisive.

Nel 1994 Granelli tornò su questi temi con un articolo pubblica-to il 15 marzo sul quotidiano «la Repubblica», constatando il disagioe l’insoddisfazione per una informazione, a suo giudizio, sempre più diparte, per la deformazione sempre più grave della realtà messa in ope-ra dalle televisioni ed esprimendo, ancora una volta, la protesta controle televisioni private «messe al sicuro da una legge improvvida» e con-tro un servizio pubblico «che è sempre meno garante di pluralismo te-levisivo»41.

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40 F. Frulli, TV, una legge dopo 14 anni, in «Il Popolo», 7 agosto 1990.41 L’articolo è ora pubblicato in L. Granelli, Messaggi in bottiglia, Accademia degli

Incolti, Stampa 2000, Firenze 1994, p. 32.

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All’inizio degli anni Novanta si assistette anche al crollo del siste-ma politico italiano, del quale, come ha osservato Scoppola, è difficileindicare una data precisa. «Si tratta piuttosto di un processo di regola-mento progressivo che si sviluppa nel biennio 1991-1993 e che ha ilsuo momento conclusivo, almeno sul piano simbolico, nel referendumdel 18 aprile 1993»42, che decretò l’abolizione di quel sistema propor-zionale che era stato il cardine della politica italiana. Questo processofu innescato da una serie di fattori che coinvolsero la politica interna-zionale e interna: dal crollo del sistema sovietico alle indagini della ma-gistratura sulla corruzione pubblica. Quella autoriforma di cui i parti-ti si erano dimostrati incapaci sarà alla fine imposta a essi dall’esterno,anche se in forme contraddittorie e con esiti incerti.

Anche la Democrazia cristiana fu coinvolta nella fine del sistemapolitico. Nelle elezioni politiche e amministrative del 1992 il partitodemocristiano perse, rispettivamente, otto e cinque punti percentuali.Nel luglio 1993 si svolse l’Assemblea costituente che deliberava la tra-sformazione della Democrazia cristiana nel nuovo Partito popolare ita-liano, che nacque ufficialmente all’inizio del 1994. Granelli si dissecontrario al nome nuovo dato al partito e ricordò l’esperienza di Ro-molo Murri e di De Gasperi che scelsero il nome «democrazia cristia-na» per richiamare il valore della democrazia, «di fronte al disastro del-le dittature e delle guerre»43, e l’ispirazione cristiana, «come speranzadi profondi cambiamenti, sull’onda di idee che con la riscoperta diSturzo, di Maritain e di Mounier in Francia, e delle riflessioni sul Co-dice di Camaldoli, in Italia, avevano avuto larga eco tra i cattolici de-mocratici»44. La Democrazia cristiana, a giudizio di Granelli, era statauna valida esperienza storica, non da archiviare, bensì da liberare «daerrori e degenerazioni con la nuova costruzione di una nuova DC chesia tale per programmazione, costume, vitalità democratica, forma or-ganizzativa e classe dirigente e non per la apparente novità di una effi-mera etichetta»45.

Apparve sempre più evidente, nei primi anni Novanta, la distanzatra paese legale e paese reale, una tendenza che era già emersa alla finedegli anni Sessanta e poi esplosa nel decennio successivo soprattutto

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42 P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico1945-1996, il Mulino, Bologna 1991, p. 459.

43 L. Granelli, Perché ho difeso la Democrazia cristiana, Ed. La Base, Roma 1994,p. 12.

44 Ibidem.45 Ivi, p. 13.

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dopo il referendum sul divorzio. Durante gli anni Settanta, infatti, laspaccatura tra società e politica divenne netta. Se si studiano questi an-ni tenendo presente la prospettiva del cambiamento delle mentalità,emerge con chiarezza la rapidità di trasformazione della società italia-na e, per contrasto, la lentezza dei partiti a elaborare le proprie rifles-sioni culturali e politiche. In un contesto politico e sociale fortementespostato a sinistra, il ruolo e la funzione di un partito come la Demo-crazia cristiana apparvero anacronistici. In questi anni, si assistette al-la parabola discendente della modernizzazione a favore della secolariz-zazione: veniva meno, cioè, la visione ottimistica di una lineare mo-dernizzazione della società46. Questo «passaggio di testimone» era sta-to denunciato con grande lucidità da Pier Paolo Pasolini sulle paginedel «Corriere della Sera»47. L’intellettuale friulano, nel suo famoso ar-ticolo sulla scomparsa delle lucciole, aveva definito i cambiamenti cheavevano trasformato l’Italia da paese povero e agricolo a paese ricco eindustrializzato come una epocale mutazione antropologica realizzata-si sotto la spinta del consumismo.

Come ha scritto Giovagnoli, «vent’anni più tardi, dopo la cadutadel muro e la fine dell’URSS, sullo sfondo di uno spostamento verso de-stra dell’opinione pubblica, passando attraverso un altro passaggio re-ferendario, la funzione svolta dalla DC apparve nuovamente obsoleta equesto partito sembrò rappresentare un ostacolo alle esigenze di mo-dernizzazione del paese»48.

Al primo Congresso del Partito popolare italiano, svoltosi a Romail 29 luglio 1994, Granelli, con toni poco consolatori, descriveva la si-tuazione dell’Italia, esortava una ripresa di studio, di elaborazione e dicapacità propositiva e tracciava le linee che il nuovo partito avrebbe do-vuto seguire sui grandi temi del risanamento economico, della riformadello stato, dell’allargamento dei diritti di cittadinanza per la personae per i ceti più deboli e di una politica estera fortemente europeistica elibera.

Allo scopo di rilanciare l’azione del partito, nel settembre dellostesso anno Granelli fondò l’associazione dei «Popolari Intransigenti»per reagire «alla grave crisi di sbandamento e al disimpegno di molti

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46 G. Marramao, Politica e società secolarizzata, in F. Lussana, G. Marramao (a cu-ra di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, Culture, nuovi soggetti, iden-tità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, vol. II, pp. 17-22.

47 Cfr. P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975.48 A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, La-

terza, Roma-Bari 1996, pp. 267-268.

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cattolici democratici». Sembra di percepire, negli ultimi anni della mi-litanza cattolica di Granelli, una sorta di partecipazione sofferta alle di-namiche del partito democristiano, se pur nella convinzione, mai ve-nuta meno, di rimanere all’interno di esso. A questo proposito è inte-ressante riportare una parte della lettera che Granelli scrisse nel 1968a Lidia Menapace, esponente del gruppo basista, che aveva deciso dilasciare la Democrazia cristiana e confluire nel Partito comunista:

Io non giuro sulla DC. Sino a quando resterò nella DC lo farò perché cre-do nella sua funzione anche se lotto per cambiare la sua politica che contra-sta per molti aspetti con le mie scelte ideali. […] La milizia politica tra le for-ze popolari, le uniche determinanti nella nostra epoca, implica sempre un at-teggiamento di modestia e servizio, incontra sempre un divario tra pensare eagire: ho assistito a molti travagli reali di coscienza. […] Il dilemma esiste, maio scelgo il restare per cambiare le cose49.

MARIA CHIARA MATTESINI

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49 ASILS, FG, serie I, b. 7, f. 27.

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La Costituzione e l’organizzazione dello Stato*

Granelli pronunciò questo discorso a Gardone Riviera, in provincia diBrescia, il 10 dicembre 1974, durante un corso di aggiornamento per in-segnanti dal titolo «Dall’Italia liberale all’Italia repubblicana». Tale cor-so divenne anche l’occasione per celebrare il trentennale della Resistenza,la cui importanza, sottolineata dallo stesso Granelli nella sua relazione, erastata la cifra costante delle riflessioni della corrente di Base. Nel primo de-cennale della Resistenza il quindicinale «Prospettive» definiva l’alternati-va fascismo-antifascismo come fondamentale, perché era stata alla radicedel nuovo stato italiano, con la sua forma istituzionale repubblicana, conil suo ordinamento costituzionale democratico1.

Il sentimento antifascista fece maturare anche la costruzione di nuovimodelli di comportamento politico e sociale, che si esplicitò nella ricerca diapporti culturali di derivazione non solo cattolica e si concretizzò, sul ter-reno dell’azione politica, nel dialogo con i socialisti per l’allargamento del-la base democratica dello Stato attraverso l’immissione, in esso, delle mas-se popolari.

Credo che per affrontare con spirito costruttivo il tema che mi èstato affidato, e che si svolgerà non solo colla mia introduzione ma an-che con la discussione che ne seguirà, sia opportuno richiamare unapremessa, una chiave interpretativa, per comprenderci fin dall’inizio.C’è un modo, infatti, di guardare alle Costituzioni e agli ordinamentidegli stati, che in rapporto alla situazione italiana potrebbe essere deltutto estraneo, il modo cioè di considerare le Costituzioni come pro-dotti della scienza giuridica e gli ordinamenti dello stato come il risul-

* ASILS, FG, serie VIII, 2, b. 25.1 ASILS, FG, serie VIII, 2, b. 25.

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tato di meccanismi funzionali derivanti dalla scienza organizzativa, percui, si pensa, basterebbe mettere intorno ad un tavolo i migliori culto-ri del diritto e gli specialisti dell’organizzazione per predisporre un or-dinamento dello stato e la Costituzione di una repubblica che potreb-bero essere teoricamente i più perfetti.

In realtà il procedimento, la via attraverso la quale si è costruita nelnostro Pese la Costituzione repubblicana del 1947, è di segno oppostoe qualcuno potrebbe, leggendo gli articoli della Costituzione, trovarvianche delle incongruenze, delle contraddizioni, delle posizioni discu-tibili e potrebbe quindi, con un’aria di sufficienza giuridica, fare rife-rimento a Costituzioni molto più organiche e perfette. È classico il ri-ferimento alla Costituzione della Repubblica di Weimer, che indub-biamente fu tra le più perfette come costruzione giuridica, ma tra lepiù deboli nel contrastare l’ascesa del nazismo, il regime dittatoriale trai più inumani che la storia ricordi.

Possiamo da ciò trarre subito una prima conseguenza, e cioè che siala Costituzione repubblicana, sia l’ordinamento dello stato che ne con-segue, hanno valore se sono collegati strettamente alle condizioni sto-riche e politiche entro le quali questi atti fondamentali della vita dellostato vengono a maturare. Se non si opera subito questo collegamen-to, non si riesce a capire il valore, i limiti e le possibilità stesse di svi-luppo sia della Costituzione che dell’ordinamento dello stato.

La consapevolezza del collegamento stretto esistente tra Costitu-zione, ordinamento e società politica deriva dal fatto che la Costitu-zione nasce, a differenza dello Statuto albertino, da una assemblea co-stituente eletta democraticamente dal popolo. Dopo la Resistenza sistabilirà, infatti, che per gettare le fondamenta giuridiche della nuovarealtà statuale italiana non si chiameranno a raccolta i maestri dellascienza giuridica, ma si chiamerà a raccolta un’assemblea democratica,eletta dal popolo, della quale evidentemente faranno parte, insieme apolitici, esponenti di partiti, militanti antifascisti, anche giuristi di pre-stigio, ma non a questo titolo, bensì come rappresentanti del popoloitaliano.

L’assemblea costituente, che elabora la Costituzione e getta le fon-damenta dell’ordinamento dello Stato, è un fatto democratico di rilie-vo di fronte al crollo dello stato precedente. Vi è la consapevolezza sto-rica di innestare un processo diverso da quello che aveva caratterizzatodall’unità in poi la storia dello stato e delle istituzioni nel nostro pae-se. Lo Statuto albertino era stato il frutto di un processo inverso: cioèuno statuto concesso dall’alto, dalla classe dominante del tempo (an-zi, tecnicamente, dalla monarchia), anche se avanzato rispetto alle for-

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me assolutistiche precedenti. Vi erano, infatti, nello Statuto albertinocerti aspetti di garantismo, certe affermazioni di libertà, una certa vi-sione dello stato, che erano il frutto di un liberalismo moderno rispet-to alle condizioni storiche del paese. Ma si trattava di uno statuto con-cesso al popolo, e quindi in qualche misura estraneo ad esso. E cometale anche debole nella sua consistenza politica: non è casuale che il fa-scismo via via, senza bisogno di atti clamorosi, abbia smantellato le ga-ranzie contenute nello statuto e abbia trasformato lo stato liberale usci-to dal Risorgimento in stato dittatoriale e fascista.

Ricordo a questo proposito una frase di Sturzo, del 1922, che è ab-bastanza indicativa della posizione critica che fin da allora alcuni ave-vano assunto verso quel tipo di stato. Diceva Sturzo: «Lo Stato è tan-to più perfetto quanto più rappresenta ed esprime gli elementi vari ecostituenti della società e ne aiuta a sviluppare le insite energie in uncontinuo sforzo progressivo». Lo Stato è cioè valido nella misura in cuicorrisponde alle condizioni della società e consente alla società di svi-lupparsi attraverso le istituzioni che siano radicate in essa, non estra-nee, non calate dall’alto, con ciò implicitamente criticando la fratturache si era andata sempre più approfondendo tra lo stato risorgimenta-le e larghi strati della società.

È evidente allora che dopo la Resistenza si ponesse per le forze de-mocratiche del Paese la necessità non solo di gettare in modo diversodal passato le basi di una Costituzione che non fosse la riedizione del-lo Statuto, e di un ordinamento dello Stato che fosse più corrispon-dente alla società, ma di realizzare ciò in collaborazione di realismopolitico rispetto al fatto sconvolgente che si era determinato con ilcrollo del fascismo: il fatto della Resistenza di popolo e l’emergere deipartiti di massa. Non si comprenderebbe la Costituzione se non sipartisse dal presupposto storico e politico della Resistenza. Tra lo Sta-tuto calato dall’alto e la Costituzione elaborata da una assemblea de-mocraticamente eletta, vi potrebbe essere, in periodi normali, unasemplice diversità di metodo. In realtà, l’Assemblea costituente italia-na nasce non in un periodo normale, ma in un periodo di profondosconvolgimento morale, culturale e politico del paese, nasce dopo laresistenza al fascismo che aveva visto l’apporto unitario del popolo ita-liano in tutte le sue diverse componenti ideali e culturali, dalla vec-chia classe prefascista di origine liberale, ai comunisti, ai cattolici, aisocialisti, agli azionisti. Queste formazioni politiche di derivazioneideale diversissima, mobilitate contro il fascismo, si trovano tutte im-pegnate di fronte al crollo dello stato a costruire una realtà statuale,giuridica e istituzionale diversa. Non va quindi dimenticato, oltre al

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rovesciamento di metodo, anche il significato etico, culturale e poli-tico che trova fondamento nella Resistenza e ha un suo sviluppo logi-co nell’Assemblea costituente, il cui compito non è solo quello di pre-disporre una Costituzione più aderente alle esigenze nuove della so-cietà, ma di tradurre in norma giuridica e in ordinamento dello statola grande passione pluralistica, civile, morale e politica, che era emer-sa dalla lotta antifascista.

Se teniamo presente questa premessa di metodo e questo richiamoalla cornice storica e politica, ai tempi – si direbbe – entro cui la Co-stituzione viene elaborata, possiamo comprendere meglio talune sue ti-piche caratteristiche. Quelli che oggi parlano con molta facilità di re-visione costituzionale, sono abituati a concepire tale revisione comeconseguenza di uno studio comparato fra Costituzioni diverse. Si pen-sa, ad esempio: il bipartitismo in Inghilterra funziona, negli Stati Uni-ti funziona, mentre il nostro ordinamento, non bipartitico, funzionamale. Modifichiamo allora la Costituzione per far funzionare megliolo stato. È solo un esempio, che però indica la tentazione di tornare in-dietro, di ritornare ad immaginare lo stato sulla base di funzionalità edi meccanismi che sono estranei alla nostra storia, staccati dalla realtàdel paese, tendendo nuovamente a sovrapporre lo stato all’ordinamen-to della società.

Ritengo profondamente sbagliato guardare ai limiti della nostraCostituzione repubblicana – che certo è un ordinamento suscettibiledi cambiamenti – in termini di confronto con le esperienze di altripaesi, dimenticando la specificità delle nostre condizioni storiche epolitiche.

Vi sono almeno due caratteristiche specifiche della nostra Costitu-zione che occorre avere ben presenti. Primo: in tutta la Costituzione èpresente una certa concezione irreversibile della forma dello Stato. Lanostra è infatti una Costituzione che gli specialisti definiscono di tiporigido, cioè molto difficile da smantellare, e questo evidentemente per-ché molti dei costituenti ricordavano il modo attraverso cui il fascismo,pezzo per pezzo, aveva smantellato lo Statuto albertino. Dopo una ta-le esperienza, è evidente che una Costituzione che si proponeva larifondazione dello stato avesse come preoccupazione fondamentalequella di creare una forma di stato che almeno per quanto riguardavala forma repubblicana, il divieto di ricostituzione del partito fascista ela difesa di alcuni meccanismi fondamentali delle istituzioni, fosse as-solutamente rigida.

Vi sono altre parti della Costituzione che sono suscettibili di revi-sione costituzionale, attraverso meccanismi che si articolano in vota-

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zioni qualificate in parlamento, doppia lettura con un certo intervallodi tempo e iniziative di natura popolare, ma la forma democratica e re-pubblicana dello stato non è sottoponibile al processo di revisione co-stituzionale, ed è perciò da considerarsi irreversibile. È appena il casodi dire che la reversibilità in termini di colpo di stato, di atto autorita-rio o di rovesciamenti rivoluzionari è sempre storicamente possibile,ma da un punto di vista di funzionamento democratico l’ordinamen-to statuale è posto al riparo da revisioni che possano introdurre una in-versione di tendenza.

Seconda caratteristica – vivacemente discussa alla costituente – fuquella di stabilire se questa rigidità, che era valida per la forma dellostato e per le sue strutture fondamentali, dovesse essere applicata a tut-to il testo della Costituzione, o se si dovesse prevedere un insieme dinorme – che i costituzionalisti definiscono come programmatiche –che hanno nella Costituzione la loro affermazione di principio, ma cheaffidano la loro pratica attuazione alla legislazione ordinaria. La vec-chia concezione garantista, secondo la quale nella Costituzione devo-no entrare solo le norme perentorie, le dichiarazioni di principio ac-cettate da tutti e per ciò stesso piuttosto generiche, era principalmen-te sostenuta da Vittorio Emanuele Orlando, rappresentante della tra-dizione giuridica e politica liberale, mentre era combattuta da tutto ilresto dello schieramento politico, dalla Democrazia Cristiana, ai so-cialisti, agli azionisti, ai comunisti. Sostenevano i rappresentanti diquesti partiti che la debolezza dello Statuto albertino, e in genere del-le Costituzioni liberali dell’’800 che pure rappresentavano un progres-so rispetto ai regimi assoluti precedenti, risiedeva nel fatto che i prin-cipi erano solennemente enunciati senza però che esistessero le condi-zioni reali per il loro esercizio generalizzato. Talune libertà già sancitenello Statuto albertino non erano uguali per tutti, perché le condizio-ni economiche e sociali di fatto limitavano ai ceti privilegiati l’eserci-zio effettivo dei diritti (si pensi al diritto di voto, o alla libertà di espres-sione annullata dalla pesante diffusione dell’analfabetismo).

Scartata dunque la via della affermazione astratta dei diritti e vo-lendo invece indicare i modi attraverso cui i diritti potessero essereesercitati, occorreva elaborare delle norme programmatiche che impe-gnassero il Parlamento e il governo, sia pure gradualmente, a rendereeffettiva la loro attuazione. Questa concezione programmatica dellaCostituzione, e il conseguente dinamismo di applicazione che ne de-riva, emerge in modo esemplare già nel combinato disposto – direb-bero i giuristi – dell’art. 1 dell’art. 3. All’art. 1 vi è la solenne afferma-zione di principio: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul

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lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme enei limiti della Costituzione». Mentre all’art. 3 si precisa: «È compitodella Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e socialeche, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedi-scono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazio-ne di tutti i 1avoratori all’organizzazione politica, economica e socialedel paese». Al di là della affermazione astratta dei diritti, di sapore ga-rantista è indicato programmaticamente come compito della Repub-blica, attraverso l’esercizio della sovranità popolare, un indirizzo ope-rativo volto alla rimozione degli ostacoli che impediscono l’effettivoesercizio dei diritti da parte di tutti i cittadini.

È in questa linea il titolo III, relativo ai rapporti economici, che evi-dentemente non possono essere risolti una volta per tutte con una nor-ma costituzionale, ma richiedono una complessa e articolata attività le-gislativa, ispirata alla norma programmatica del diritto al lavoro e allasua tutela per ogni cittadino. Nel titolo relativo ai rapporti economicivi è l’affermazione di principio, molto importante, che «l’iniziativaeconomica è libera», completata però dalla norma programmatica se-condo cui l’iniziativa economica libera «non deve essere in contrastocon l’utilità sociale». Affermando la libertà d’impresa il costituente hachiaramente respinto una ipotesi di collettivizzazione dell’economia,ma ha respinto anche un sistema economico fondato esclusivamentesul profitto privato, e perciò in contrasto con l’utilità sociale ol‘interesse generale. Una specificazione importante è quella relativa al-l’esproprio di aree ed imprese per fini di pubblica utilità. Tuttavia, larilevanza dei fini di pubblica utilità, non deve far perder di vista la tu-tela della proprietà privata che nel caso appunto di esproprio, ha dirit-to ad un indennizzo.

Ritroviamo questa impostazione programmatica anche nelle nor-me relative ai diritti dei cittadini. Non viene solo affermato il dirittogenerico alla libertà di pensiero, di associazione, di parola, alla paritàfra uomo e donna, ecc., ma tale diritto viene reso effettivo col dirittopolitico di associarsi in partiti per «concorrere alla determinazione del-la politica nazionale». La rilevanza costituzionale data alle forze politi-che organizzate in partiti sancisce storicamente il passaggio da una so-cietà di tipo individualistico, e perciò fondamentalmente elitaria, aduna società organizzata in cui tutti i cittadini possono realmente eser-citare la sovranità popolare di cui sono portatori. Il discorso potrebbeessere ripetuto per quanto riguarda il complesso delle libertà civili.Non mi soffermerò oltre su questo argomento e vi invito piuttosto arileggere la Costituzione proprio per ricavarne la consapevolezza dello

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sforzo dei costituenti di evitare una meccanica ripetizione del tradizio-nale stato di diritto per costruire invece uno stato democratico di di-ritto. Questa parte programmatica della Costituzione, abbiamo detto,non è rigida, ma è anzi dinamica e in continuo divenire, proprio per-ché tende a saldare la società civile e politica con l’ordinamento legi-slativo e costituzionale. Sono invece di natura rigida, come abbiamodetto, le norme della Costituzione riguardanti la forma dello stato e ilsuo ordinamento. Tuttavia, nonostante la perentorietà di talune nor-me, non si è di fatto realizzato, né subito né completamente, l’ordina-mento statuale previsto dalla Costituzione. Valga per tutti un esempioclamoroso: l‘istituzione delle Regioni e conseguentemente le elezioniregionali erano addirittura previste dalle norme transitorie entro unanno dall’entrata in vigore della Costituzione. In realtà le Regioni so-no state istituite vent’anni dopo, e questo ritardo ha influito sull’ordi-namento complessivo dello stato che doveva avere nelle Regioni unistituto fondamentale. L’ordinamento disegnato dalla Costituzione sicaratterizza anzitutto con il ritorno al sistema parlamentare, fondatosul suffragio universale, l’elezione diretta dei rappresentanti, la legitti-mità dei partiti. Il parlamento è bicamerale – Camera dei Deputati eSenato – e visto nell’ottica storica di oggi può sollevare giustificateobiezioni, dal momento che le due Camere lavorano praticamente al-lo stesso modo (non hanno cioè reali diversità di funzioni) e finisconoquindi soltanto col rendere più lungo e macchinoso l’iter parlamenta-re delle leggi. Dobbiamo però, in primo luogo, riportarci nel clima sto-rico dei costituenti, caratterizzato dalla volontà di evitare che il potereesecutivo, abusando dei suoi poteri come già aveva fatto il fascismo,potesse in qualche misura indebolire il parlamento. Come garanziafondamentale delle libertà civili e delle istituzioni democratiche, l’in-troduzione di due Camere elette a suffragio popolare doveva quindiconsentire quasi un grado di appello, un controllo ulteriore del parla-mento sul governo, e quindi una maggior garanzia democratica e po-polare sulle istituzioni repubblicane. Le due Camere avrebbero poi do-vuto avere anche delle funzioni diversificate e una diversa base eletto-rale. Il Senato avrebbe infatti dovuto essere l’espressione delle Regioni,ma la mancata attuazione dell’istituto regionale finì in effetti in qual-che modo per giustificare le critiche di «inutile doppione» che il di-verso sistema elettorale (la Camera si elegge per liste, il Senato sulla ba-se di collegi uninominali) o i diversi limiti di età per l’elettorato sia pas-sivo che attivo non sono certo sufficienti a contrastare.

Un ulteriore elemento di garanzia e di controllo democratico è sta-to introdotto con l’istituto del referendum abrogativo delle leggi. An-

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che a questo proposito non dobbiamo giudicare emotivamente un isti-tuto di democrazia diretta che abbiamo usato per la prima volta in mo-do drammatico su di una questione delicata. Nella concezione del co-stituente il referendum rappresenta il controllo della sovranità popola-re sul legislatore nel senso che il legislatore sa che la sua opera, la leg-ge, può essere sottoposta a referendum abrogativo qualora mezzo mi-lione di cittadini coerentemente con il disegno complessivo della Co-stituzione, o cinque Regioni ne facciano richiesta. Esiste quindi tuttauna serie di istituti, dal bicameralismo all’iniziativa popolare e regio-nale per il referendum abrogativo, che costituiscono indubbiamenteun equilibrio di poteri e di controlli sui diversi poteri capace di evita-re la prevaricazione sulle istituzioni democratiche ad opera di un po-tere interno allo stato. Accanto a questa scelta per un sistema demo-cratico parlamentare, rafforzato rispetto al modello ottocentesco dalpotere popolare di iniziativa o di abrogazione delle leggi, sta la sceltain favore delle autonomie locali (comuni, provincie, Regioni). Lo sta-to liberale uscito dal Risorgimento era di tipo centralista, il che com-portava il soffocamento delle tradizioni autonomistiche e pluralistedella società italiana. La Costituzione italiana sancisce in modo preci-so che il nuovo ordinamento dello stato non è di tipo federale, nel sen-so che le Regioni siano degli stati nello stato, ma è di tipo autonomi-stico, decentrato, nel senso che le Regioni svolgono una funzione am-ministrativa e, all’interno di certe linee generali, anche una funzionelegislativa. Alle provincie e ai comuni sono attribuite funzioni ammi-nistrative proprie o su delega delle Regioni.

Le Regioni sono indicate nominativamente nella Costituzione inriferimento alla tradizione storico-politica del nostro paese, e ciò hasollevato critiche probabilmente giustificate dal punto di vista della ra-zionalità giuridica o della funzionalità in termini di programmazioneeconomica o del territorio. La scelta in favore delle Regioni storico-po-litiche mirava tuttavia a dare un rilievo costituzionale alla diversità esi-stente nel paese, per costruire nella libertà quella unità reale che il cen-tralismo mortificante dello stato risorgimentale non era riuscito a rea-lizzare, per quanto riguarda invece le provincie e i comuni esiste la pos-sibilità di una riorganizzazione di questi poteri locali in base alla evo-luzione della popolazione e alle esigenze delle comunità locali. Pur contale ampio riconoscimento delle autonomie locali, occorre però direche la Costituzione riconduce ad unità nell’unica repubblica tutti i po-teri dello Stato. Mi consentirete, a questo proposito, una battuta pole-mica contro l’uso oggi frequente dell’espressione «corpi separati dellostato» per indicare la magistratura, l’esercito, la polizia, quasi che po-

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tessero in qualche misura essere concepiti come separati o addiritturacontrapposti all’ordinamento dello stato. La Costituzione garantiscealla magistratura l’esercizio autonomo della sua funzione, ma nell’am-bito di quella unità dello stato che non consente a nessun potere di sot-trarsi al rispetto delle leggi. Il fatto stesso che il presidente della Re-pubblica sia anche presidente del consiglio superiore della magistratu-ra indica proprio la volontà di ricondurre ad una unità politica e co-stituzionale un potere la cui autonomia e indipendenza da ogni altropotere sono solennemente proclamate.

Ed è sempre il presidente della Repubblica che «ha il comando del-le forze armate, presiede il consiglio supremo di difesa, dichiara lo sta-to di guerra deliberato dalle Camere», per cui ci sembra realmente ar-bitrario e deformante dell’ordinamento costituzionale dello stato par-lare di «corpi separati». Una parte della Costituzione che ancora at-tende di essere attuata è quella relativa all’ordinamento del potere ese-cutivo, precisamente per quanto attiene «l’ordinamento della Presi-denza del Consiglio, e il numero delle attribuzioni e l’organizzazionedei ministeri». In effetti, il problema della struttura del potere esecuti-vo non è soltanto un problema di numero di ministeri, come certa cri-tica semplicisticamente denuncia, ma è un problema effettivo di rior-ganizzazione di funzioni divenuto particolarmente attuale con l’istitu-zione delle Regioni. Infatti il trasferimento di talune funzioni alle Re-gioni ha di fatto svuotato le competenze di taluni ministeri, che an-drebbero profondamente riorganizzati, o addirittura collocati all’in-terno della Presidenza del Consiglio, nel quadro della sua funzione di«unità di indirizzo politico e amministrativo». Ritengo perciò errato at-tribuire ai rigidi condizionamenti esistenti nella Costituzione il man-cato funzionamento del nostro ordinamento esecutivo, quando è pro-prio la Costituzione che prevede la riorganizzazione di tale potere peruna sua maggiore efficienza e funzionalità.

Un altro organo importante, attuato con ritardo rispetto alle indi-cazioni della Costituzione, è la Corte Costituzionale, il cui compitoprincipale è la tutela della «legittimità costituzionale delle leggi e degliatti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni». Con un Parla-mento sollecito nell’adeguare la legislazione ordinaria alle nuove nor-me costituzionali, la presenza della Corte sarebbe stata meramente digaranzia. In realtà, è accaduto che ha innovato maggiormente nella le-gislazione ordinaria la Corte Costituzionale con le sue sentenze, diquanto non abbia fatto il Parlamento della Repubblica con la sua ini-ziativa legislativa. Ma la Costituzione prevedeva che una parte dellafunzione legislativa fosse attribuita alle Regioni, mentre al Parlamento

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spettava la funzione legislativa primaria, le grandi leggi di rinnova-mento dello stato, dei rapporti fra stato e cittadini e dei cittadini tra diloro, coerenti con il disegno costituzionale. Credo realmente si possaaffermare che il ritardo nella attuazione delle Regioni ha sbilanciatotutto il processo di rinnovamento dello stato, modificando le funzionie gli equilibri previsti tra i diversi poteri. Il problema che dobbiamoporci è a questo punto allora se è ancora possibile un’attuazione pienadella Costituzione, e quali sono le cause che l’hanno sino ad ora osta-colata e quindi che la ostacolano, o possono di nuovo ostacolarla.

Già pochi anni dopo il varo della Costituzione Piero Calamandrei,che era stato uno dei protagonisti dell’elaborazione costituzionale,esprimeva il timore che la Costituzione fosse in definitiva soltanto lafacciata del nuovo stato, dietro cui rimaneva intatto il vecchio edificioliberale addirittura peggiorato dal fascismo. Vi era stato infatti un ri-torno concreto, pragmatico, ad una riduzione della Costituzione a me-ro garantismo, e si comprendeva bene che i ritardi e le lentezze non era-no solo di ordine tecnico.

In effetti, come abbiamo già detto, la Costituzione repubblicananon è un fatto giuridico soltanto, ma è l’espressione delle condizionipolitiche della società italiana all’indomani della lotta di liberazione, epertanto non poteva non essere ripetutamente e costantemente in-fluenzata dal mutare delle condizioni politiche stesse. Il mutamentodeterminatosi sul piano internazionale con l’inizio della guerra freddacomportò in Italia la rottura della collaborazione tra le forze che si era-no trovate unite nella Resistenza e nella elaborazione della Costituzio-ne. Queste forze si trovarono quindi divise nell’esercizio della sovranitàdel potere che nell’intenzione dei costituenti era l’elemento sul qualefondare l’attuazione dinamica della Costituzione.

Non è casuale per esempio che un certo disgelo costituzionale co-minci in Italia col passaggio dal centrismo al centro-sinistra, cioè conl’allargamento della base democratica dello stato attraverso l’immis-sione di più vaste masse popolari. La Corte Costituzionale, l’attuazio-ne delle Regioni, lo Statuto dei lavoratori e altri momenti significatividi legislazione che si rifanno allo spirito della Costituzione, possonoappunto realizzarsi quando si creano delle condizioni politiche favore-voli all’attuazione della Costituzione, mentre evidentemente si assistead un arretramento o ad un ritardo tutte le volte che la lotta politicaporta ad una rottura tra le forze che hanno elaborato la Costituzione.

Se quindi la politica di attuazione della Costituzione dovrà essere,non solo per i prossimi anni, ma probabilmente addirittura per i pros-simi decenni, il binario lungo il quale realizzare la costruzione di uno

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stato che nei fatti sostituisca il vecchio stato autoritario, centralista,meramente garantista, con uno stato democratico, fondato sulle auto-nomie teso a realizzare una sostanziale eguaglianza fra i cittadini, nonè evidentemente irrilevante il tipo di rapporti politici che si vengono astabilire tra le forze che hanno fatto la Costituzione e che sono chia-mate oggi, sia pure in posizione differenziata, a renderne possibile l’at-tuazione.

Quando ad esempio ci si trova di fronte a pericoli di ripresa neo-fascista, è logico e anzi doveroso che lo schieramento antifascista ritro-vi una sua unità indipendentemente dal fatto che talune forze sianocollocate al governo per mandato popolare ed altre si trovino all’op-posizione per il diverso risultato della lotta politica democratica. Que-sta unità antifascista non è frutto momentaneo di opportunità, o peg-gio di opportunismo, ma è l’applicazione della norma transitoria del-la Costituzione che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, deldisciolto partito fascista», per cui la dialettica, la collaborazione o ilconfronto tra tutte le forze politiche è coerente con la Costituzione,mentre il ritorno al fascismo è contrario alla Costituzione.

Poiché i valori dell’antifascismo, della Resistenza, della democraziasono un patrimonio comune a tutte le forze politiche che hanno con-tribuito all’elaborazione della Costituzione, occorrerebbe avere benpresente che il processo di attuazione della Costituzione è qualitativa-mente e politicamente diverso dalla formazione di un governo di coa-lizione. Per formare un governo occorre infatti un’intesa concreta suquanto deve essere realizzato in tema di politica economica, di politi-ca sociale, di politica estera, per cui è evidente che le differenze ancheprofonde esistenti tra le diverse forze politiche impediscono che l’ac-cordo si realizzi fra tutte le forze esistenti nel paese. Per quanto attieneinvece all’attuazione della Costituzione, il rapporto tra governo e op-posizione non deve impedire la ricerca di una convergenza la più am-pia possibile fra tutte le forze dell’arco costituzionale. Esiste oltretuttoun precedente storico assai significativo: nel 1947, quando in conse-guenza della situazione internazionale si ruppe in un clima politico in-candescente il tripartito (DC, PSI, PCI) che aveva fino ad allora gover-nato il paese, all’assemblea costituente venne approvato il titolo V del-la Costituzione, quello relativo alle Regioni, dai democristiani, dai li-berali, dai socialdemocratici e dai comunisti, anche se i comunisti era-no all’opposizione e gli altri partiti al governo. Le divisioni politichedel momento, peraltro assai profonde, non avevano impedito di ritro-vare una unità nel momento in cui si prefigurava il nuovo stato che do-veva essere costruito.

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È evidente che questo stesso spirito è necessario se vogliamo pas-sare dalle affermazioni di principio alla traduzione in pratica del det-tato costituzionale. Se vogliamo rimuovere l’obiezione di Calamandreidi esserci limitati a edificare la facciata che nasconde il vecchio stato,dobbiamo, indipendentemente dall’articolazione delle forze politichein forze di governo e forze di opposizione, riproporre come esigenzafondamentale il confronto, la convergenza, la disponibilità a cercare ea trovare intese ogni volta che il processo legislativo incontra temi diattuazione costituzionale, e che perciò interessano, oltre che tutte leforze politiche, tutti i cittadini.

Il problema dell’attuazione della Costituzione non è dunque unproblema moralistico per cui si possa accusare di pigrizia il governoe il Parlamento, ma è un problema di volontà politica indirizzata arimettere in moto un processo che, pur nella distinzione, riprenda ilcammino che dalla liberazione ci ha portato alla elaborazione dellaCostituzione. Un tale cammino è oltretutto favorito oggi dall’esi-stenza di condizioni internazionali diverse da quelle che hanno por-tato alla guerra fredda e al contrasto fra blocchi contrapposti. Egual-mente errata è la tesi di coloro che sostengono che le inefficienze delnostro sistema politico sono imputabili alla Costituzione ormai su-perata e che sarebbe necessario orientarci verso una repubblica presi-denziale, con un esecutivo forte in grado di governare. Tali tesi ri-propongono in pratica il superamento della crisi dello stato attraver-so un modello astratto di organizzazione, che però non si sa come po-trebbe creare le basi per una vera concordia nazionale, per un colle-gamento reale dello stato alle condizioni della società. Opponendo-ci a queste tesi di riforma costituzionale, non intendiamo sostenereche la Costituzione debba rimanere inalterata in tutte le sue parti, masoltanto che debba essere attuata in tutte le sue potenzialità, dandopieno risalto al dinamismo in essa contenuto. Contribuendo a crea-re attorno ad essa una mobilitazione della cultura e della scuola e unappoggio popolare costante, noi diamo forza alla repubblica e alleistituzioni democratiche, poiché la costruzione dello stato non si ba-sa solo sulle norme, sulle leggi, sugli atti di governo, ma sul costume,sul modo di essere, sulla presenza e la partecipazione di tutti i citta-dini. La Costituzione rimane cioè viva e vitale se viene ripreso concoraggio il cammino della sua attuazione, ma questo cammino nondipende solo dalla volontà di questo o quel governo, ma da una spin-ta generale delle forze operanti nella società che riaffermi in concre-to il principio che non è la società che deve adeguarsi allo stato, maè lo stato che deve adeguarsi alla società che cresce nella democrazia.

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Forza e debolezza del centrismo*

Dopo la chiusura della rivista «La Base», il cui ultimo numero uscì il30 luglio 1954, la corrente democristiana dette vita a una nuova espe-rienza editoriale, «Prospettive», che uscì, per la prima volta, il 10 novem-bre 1954, pochi mesi dopo il V congresso della Democrazia cristiana che siera tenuto a Napoli dal 26 al 30 giugno. Marchetti era il direttore, men-tre della redazione facevano parte: Granelli, Gian Aldo Arnaud, Galloni,Giuseppe Chiarante, Giovanni Di Capua, Rampa e Marcora.

Come il precedente quindicinale, la nuova rivista proseguiva la bat-taglia politica in nome dei valori dell’antifascismo, del rinnovamento delpartito, della costruzione dello Stato democratico, della lotta ai monopolie di un diverso anticomunismo che tenesse conto delle esigenze delle massepopolari più disagiate.

Dopo il Congresso di Napoli, che aveva eletto quattro consiglieri basi-sti, «Prospettive» doveva rappresentare una concreta linea politica con to-ni che, se non erano più «giovanilistici» come quelli della precedente rivi-sta, mantenevano la coerenza delle proprie scelte e l’impegno per il rag-giungimento degli obiettivi che ne conseguivano nel quadro delle nuove re-sponsabilità all’interno del partito democristiano.

Il discorso pronunciato alla Camera dall’on. Togni e già vivace-mente respinto dalla stessa base democratico-cristiana al congresso diNapoli, può essere un efficace punto di riferimento – nell’esame del-la situazione politica – a patto che si sappia cogliere il motivo politi-co che sta al fondo dei deplorevoli incidenti senza restringerci in va-lutazioni moralistiche che stigmatizzino da una parte le intolleranze

* L. Granelli, Forza e debolezza del centrismo, in «Prospettive», 10 novembre1954.

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delle estreme e chiedano dall’altra una ferma difesa della dignità delPar lamento.

Diamo per scontate le seconde e occupiamoci invece delle prime.Pochi hanno saputo o voluto rilevare che il discorso del deputato

toscano era – tra l’altro – una provocazione e un attacco all’orienta-mento generale della DC e al governo Scelba.

Quando l’on. Togni esprime l’esigenza di una «politica forte e au-toritaria» nei confronti del comunismo che è propria della destra cat-tolica dentro e fuori dalla DC, è chiaro che mette in mora sia la lineapolitica di centro-sinistra determinata a Napoli e giudicata com -promissoria verso il «pericolo comunista», sia la politica governativache poggia sulla solidarietà dei partiti democratici, giudicata debole einsufficiente perché impegnata su due fronti. Del resto crediamo siainutile gridare allo scandalo o limitarci a precisare le responsabilità per-sonali perché è risaputo che l’intollerante parlamentare toscano non sa-prà mai tacere, come fece a suo tempo l’on. Dossetti, e che l’on. Tognicontinuerà a fare il Mac Carthy italiano in barba ad ogni richiamo al-le scelte congressuali del Partito in cui milita.

In politica non si può pretendere di condizionare l’incondizionabi-le e sarebbe erroneo valutare la situazione in base a degli schemi nonaderenti alla realtà, la quale è quella che è, e dimostra che le tendenzeintegraliste e autoritarie, contenute per tanto tempo dal cen trismo de-gasperiano, trovano soprattutto motivo di inasprimento e di espansio-ne nelle attuali condizioni di debolezza dell’equilibrio cen trista. Più cheuna sterile polemica con il nuovo campione di vecchie e ormai logoresoluzioni di destra, è quindi più importante esaminare la situazione po-litica italiana senza voler chiudere gli occhi di fronte ai limiti della for-mula quadripartitica, e pur avendo coscienza del suo alto valore, come«resistenza democratica», ricercare la via su cui procedere con energia ecoraggio per promuovere quello sviluppo in senso popolare dello Statoche rimane il solo mezzo per bloccare, in concreto le tentazioni autori-tarie sollecitate dallo schieramento monarchico-missino.

Per fare questo occorre crudezza di analisi e senso della misura.È facile oggi commettere l’errore delle sinistre, le quali stroncano

la formula Scelba-Saragat, che è condannata all’immobilismo da cau-se molto più complesse della stessa volontà della compagine ministe-riale, facendo indirettamente lo stesso gioco che la destra persegue nona caso, o cadere nella sfuocata prospettiva dei partiti minori i quali siergono ad esclusivi difensori della democrazia e della libertà bistic -ciando magari per i contratti agrari (liberali) o pestando i piedi per lanomina di un ambasciatore a Washington o di un titolare allo spet -

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tacolo (socialdemocratici), dimenticando che la reale difesa del cen -trismo si attua non tanto con la acquisizione di poltrone ministeriali,quanto nel Paese e nella misura in cui si è capaci di allargare tra le clas-si popolari il prestigio di una formula che scaturendo dal suffragio uni-versale dovrà essere giudicata – in ultima analisi – dalla maggioranzadei cittadini in sede elettorale.

Forse che la democrazia e la libertà si difendono rovesciando il go-verno Scelba-Saragat prima che sia matura una migliore soluzione «de-mocratica», o chiudendosi in una difesa del quadripartito che rimaneformalistica se non trova il modo di inserirsi nella dinamica popolaredel Paese?

È evidente che no.Noi siamo convinti che la forza grande di questa combinazione po-

litica è data dal fatto che essa rappresenta, da una parte, l’ancoraggioconcreto allo schieramento antifascista – sia pure nelle sue espressionimoderate e riformiste – e dall’altra la continuità della concezione «lai-ca» dello Stato, propria del degasperismo. Essa infatti rifiuta – anchese in parecchi casi è costretta a subirlo di fatto o nelle provoca zioni –il fascismo del blocco industriale e una politica unilaterale e reaziona-ria, collegandosi con ciò stesso alle tradizioni della Resistenza, comematrice di uno Stato popolare che supera i limiti della democrazia pre-fascista. L’attacco dell’on. Togni è inoltre una palese dimostrazione cheil governo attuale non è uno strumento sufficiente per la lotta antico-munista sul piano del maccartismo o del cattolice simo politico il qua-le si sforza di scavalcare a ritroso la DC e la Resistenza per ricollegarsialle tradizioni gentiloniane. Tradizioni queste che porterebbero i cat-tolici a svolgere un ruolo di «supplenza» nella conservazione dello sta-to borghese di fronte alla crescita del l’ondata proletaria e contadina,confondendo innaturalmente e cata stroficamente sia gli interessi reli-giosi – nella loro dimensione spiri tuale – che quelli politici – nella lo-ro dimensione di libertà – con un ulteriore aggravamento sia della cri-si dello Stato che di quella propriamente religiosa della società italia-na.

Con ciò è dimostrato come l’attuale formula rappresenti di fattoanche la continuità del senso «laico» dello Stato contro ogni avventu-ra integralista che ci riporterebbe all’interno dello storico «steccato po-litico» (De Gasperi - «Lettera a Fanfani»).

Accanto però alla grande forza dell’attuale «centrismo», non pos-siamo tacere le sue fondamentali debolezze. Abbiamo già detto del-l’immobilismo cui pare ingiustamente condannato questo governo. Arendere l’idea di questa condanna basterebbe pensare all’equivoco dei

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partiti minori che non sono ancora riusciti a impostare una loro effet-tiva ripresa e alla politica del blocco industriale e agrario che lo difen-de senza convinzione in quanto garantisce una certa «sicurezza», manon tralascia di presentare sulla catena di giornali che controlla dellealternative che non sono certo di sinistra, e di gonfiare oltre misura ipersonaggi che lo propongono. Oltre a ciò i limiti più gravi dell’attua-le combinazione sono quelli relativi alla mancanza di forze popolariche la sorreggano con l’ampiezza necessaria nel Paese.

La crisi del governo rappresenta un immobilismo del potere ese-cutivo che va collocato nella più vasta crisi politica dello Stato. Controquesto dato di fatto viene ad infrangersi l’illusione di risolvere la crisinell’ambito dell’attuale cittadella democratica, e il mito del riformismosociale. Una serie di riforme sociali, che lascino intatte le strutture eco-nomiche e che non soddisfino l’ansia di libertà che caratterizza certeesigenze di fondo delle classi popolari, non potranno mai determinareuna reale «crescita» di fiducia e un effettivo allargamento delle basi po-litiche dello Stato che già scricchiolano per i ridotti margini di stabi-lità esistenti nel Paese. Per questo, pur riaffermando l’urgenza di un co-raggioso riordinamento degli squilibri sociali, noi riconfermiamo laconvinzione che la crisi non potrà essere superata né da combinazioniparlamentari né dalla pura conservazione di una solidarietà di partitial vertice che non si rifletta alla base, tra i ceti popolari. Da qui nascel’esigenza di una serie di impegni politici nel Paese per la comprensio-ne democratica del ruolo che le masse cattoliche e laiche devono svol-gere quali componenti dello stato democratico in costruzione. Per que-sto la DC ha esemplarmente intrapreso uno sforzo di riorganizzazionenel Paese onde creare una situazione politica complessivamente nuovache parta dai problemi reali e non dalle intransigenze ideologiche ne-cessariamente rigide. Il successo di questo lodevole tentativo sarà datodalla misura in cui saprà essere non soltanto organizzativo, ma legatoall’urgenza di uno sviluppo omogeneo totale della società italiana. Vi-ste in questa luce ci pare che le debolezze dell’attuale «centrismo» sia-no accettabili, perché la forza di cui dispone non ha eguali in nes-sun’altra combinazione. Esso infatti garantisce al limite estremo unareale difesa contro le avventure di destra e, salvaguardando il carattereantifascista e laico dello Stato, consente a tutti i partiti politici di ope-rare una revisione delle loro linee politiche e un lavoro di sviluppo e dicrescita tra le classi popolari che possa comporre sulla piattaforma de-gli interessi reali i dissidi ideologici, onde fornire nel Paese una largaalternativa democratica che tradotta al vertice sgonfierà nel ridicolol’assurda pretesa delle tesi dell’on. Togni e della destra italiana.

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La concezione democratica sturziana del partito*

L’8 febbraio 1969 si tenne a Milano il convegno «Il Partito Popolare:validità di un’esperienza», organizzato dal Centro Luigi Puecher per ri-cordare alcune date significative: il cinquantenario della fondazione delPartito Popolare, il centenario della nascita di Filippo Meda e il decenna-le della morte di Sturzo. Al convegno parteciparono, tra gli altri, Vittori-no Colombo, Scoppola, Gronchi e Gabriele De Rosa.

Sturzo fu per Granelli, come per la Base, un’importante figura di rife-rimento, pur nella diversità di vedute che essi ebbero soprattutto nell’am-bito economico. È infatti nel campo delle idealità politiche che è riscon-trabile l’influenza del pensiero sturziano che si esplicitò, soprattutto, nel-l’importanza attribuita alla democraticità dello Stato, nella battaglia con-dotta contro il clientelismo e per il rinnovamento dei quadri direttivi delpartito e del parlamento attraverso il sistema proporzionale e nella con-vinzione, infine, che le autonomie locali fossero garanzia di trasparenza elibertà.

La lezione di Sturzo fu importante anche per la definizione del ruolodei partiti, considerati come concreti strumenti della lotta politica e noncome «luoghi» astratti e dogmatici slegati dalla contingenza storica. Que-ste riflessioni portarono Granelli a mantenere un’attenzione costante aiproblemi dello Stato e dell’ordinamento istituzionale.

Rintracciare nel pensiero e nell’azione di Luigi Sturzo la concezio-ne che egli ebbe del partito non significa ri proporre meccanicamente,in tempi profondamente di versi, un modello di forza politica. Una si-mile pretesa dimostrerebbe la assoluta incomprensione della lezione

* AA. VV., Il Partito Popolare: validità di un’esperienza, Centro Studi Luigi Puecher,Milano 1969, pp. 403-420.

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sturziana. Si tratta invece di individuare in tale conce zione gli elemen-ti vitali che ne determinarono il succes so, il modo con il quale venne-ro affrontati i problemi del tempo, la impostazione teorica – ancora va-lida in sede di principio anche se da adeguare sul terreno storico con-creto – di una grande forza politica popolare e democratica di ispira-zione cristiana. Non prenderemo perciò in considerazione gli avveni-menti concreti e le lunghe battaglie che portarono alla affer mazione delPartito Popolare come forza tra le più significative dello sviluppo na-zionale, così come non ci riferiremo alle azioni concrete, alle battaglieche caratte rizzarono la breve vita del Partito Popolare, sulle quali ov-viamente è possibile anche un giudizio critico severo, di individuazio-ne degli errori commessi, ma ci riferiremo soprattutto a quello che, sulterreno del pensiero, ha rappresentato lo sforzo di preparazione del sor-gere, in Italia, di un moderno Partito Popolare di ispirazione cristiana.

Il senatore Gronchi, con la lucidità che caratterizza il suo pensiero,ha fatto un quadro preciso e puntuale di quella situazione, e ha ricor-dato che la vita politica attiva del Partito Popolare è stata una vita as-sai breve, che tre anni per un partito, da un punto di vista opera tivo,sono forse meno che tre giorni. Ma non si capirebbe la vivacità e la for-za della battaglia di quei tre anni, e non si capirebbe la successiva in-transigenza nel resistere alle tentazioni e alle pressioni autoritarie, senon si risale col pensiero al periodo di maturazione che preparò l’av -vento del Partito Popolare Italiano. Non fu un gesto improvviso di Lui-gi Sturzo quello che culminò, dal vecchio albergo Santa Chiara, nel-l’appello ai «liberi e forti», ma fu il punto terminale di una battagliapolitica concreta che l’ha seguita. È noto infatti a chi conosce gli attipreparatori della vicenda popolare, che il riferimento agli elementi car -dine della concezione del partito, viene fatto risalire al discorso di Cal-tagirone nel 1905. In quel discorso, con grande lungimiranza, LuigiSturzo traccia una visio ne organica, precisa, sintetica, di un modello diforza politica che era innovativa, profondamente rivoluziona ria rispet-to alle varie concezioni esistenti nel movimento cattolico italiano del-l’epoca. Dal 1905 al 1919 sono trascorsi più anni di quelli che hannopoi impegnato il partito nella battaglia politica concreta, ma sono sta-ti anni essenziali per portare a maggior maturità, e a una maggior con-sapevolezza anche negli amici che collaboreranno con Sturzo, quellaconcezione che lo stesso Sturzo aveva già chiaramente delineato fin dal1905. Vale quindi la pena di richiamare essenzialmente quali furono,fin d’allora, gli elementi caratteristici essenziali, quelli validi al di là del-l’usura storica, del modello di forza politica che Sturzo determinò conla sua azione.

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La politica come espressione viva delle tendenze di sviluppo della società

Sappiamo qual era il clima politico e sociale italiano all’inizio delnovecento. Da un lato la classe borghese dominante, forte dei suoi me-riti risorgimentali, ma priva di un’autentica spinta liberale, si piega aqualsiasi trasformismo pur di conservare il potere. Trionfa il clien -telismo, che rappresenta il peggior sistema di umiliazione politica.Dall’altra vi erano le masse cattoliche, estranee allo Stato per il rifiutodel processo risorgimentale, ma tuttavia profondamente divise tra diloro sul modo per superare tale estraneità. Il vecchio filone dell’in-transigentismo – quello per intenderci che alla morte del re usciva suigiornali con titoli: «Il re è morto; il papa è vivo» – continuava la suabattaglia dottrinaria e pra tica di rifiuto, di astratta negazione, dei prin-cipi della rivoluzione francese, delle conquiste democratiche e co -stituzionali, dello stato liberale, in una parola, che deter minava sul pia-no pratico l’assenteismo dei cattolici dalla vita pubblica. Tale assentei-smo dottrinario e pratico era addirittura rafforzato formalmente dal«non expedit» che vietava ai cattolici la partecipazione al voto. Ma ac-canto a questa tendenza intransigente di fondo andava emergendo nel-l’Opera dei Congressi, che raggruppava le varie organizzazioni dei cat-tolici, quello che Sturzo con sintomatica affermazione definiva un ibri-dismo costitu zionale, cioè un impegno che stava a metà strada fra ladifesa in chiave religiosa dei diritti storici e della chiesa e la volontà difar emergere alcuni difetti dell’ordina mento statuale e di agire per mo-dificarli. Movimento dell’Opera dei Congressi, da una parte, che colsuo ibridismo costituzionale mescolava il religioso col so ciale e col po-litico intransigentismo, dall’altra, che face va della nostra dottrina sol-tanto una posizione di rifiuto della realtà dello Stato, erano due osta-coli storicamente presenti nei tempi che prepararono l’avvento del Par-tito Popolare. Come furono superati questi ostacoli? Con quali carat-teristiche don Sturzo diede vita al movimento del popolarismo che sfo-ciò poi nella fondazione del Partito Popolare?

Mi limiterò ad alcuni tratti essenziali, il primo dei quali è di gran-de attualità. Concordo perfettamente con il professor Scoppola a que-sto proposito, e cioè che Sturzo ebbe vivissimo l’istinto del politico chemuoveva dalla realtà storica e sociale più che dai principi in manieraesclusiva. Sturzo era infatti polemico nei confronti, per esempio, deldottrinarismo di un Toniolo che concepiva sì in modo organico, maastratto, la società e la sua organizzazione, e quindi per quanto monu-mentale potesse essere la sua costruzione, risultava irrilevante rispettoad una concreta operazione storico-politica. Sturzo, con grande mo-

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dernità, concepiva la politica come espressione viva delle tendenze disviluppo della società, cioè collegava la politica a ciò che cresce, che simuove, che è vitale nella società, e su quello esercitava una funzione dimediazione di principi, che altrimenti – sganciati dal vivo del diveni-re storico – rimanevano mere astrazioni inutilizzabili.

Non dimentichiamo che la contestazione, che oggi è di moda e co-me termine e come atteggiamento, esisteva anche allora, ed era profon-da. Che cos’era l’insoddisfazione delle plebi meridionali, la protestadelle masse contadine, l’insofferenza per il clientelismo giolittiano, ilcontrasto fra paese reale e paese legale, se non la dimostrazione di unvivo e diffuso scontento della società civile e insieme l’esigenza di tro-vare uno sbocco politico per modificare la situazione? Si è accennato,nel corso di questo convegno, alla sociologia cristiana – tema che por-terebbe molto lontano nella sua definizione – ma io credo che vi sia unaspetto della figura di Sturzo che andrebbe ancora profonda menteesplorato e dovrebbe essere fatto conoscere meglio al vasto pubblico. Èl’aspetto dello Sturzo sociologo, che non si ispirava ad una sociologiadi derivazione integrista o ideologizzata, che pretende di spiegare tut-ta la realtà sociale in base ad alcuni principi dati, ma ad una sociologiadi derivazione storicista, che tende alla interpretazione dei fatti socialiintesi non come fatti mera mente settoriali ma come parti che riguar-dano l’intera società e la sua dinamica di sviluppo. E fu proprio in quel-la comprensione viva della società, con i suoi problemi, con le sue con-testazioni, con i suoi movimenti, che Sturzo riuscì a dare interpreta-zione politica o senso politico alle tensioni esistenti.

Non si spiegherebbe la battaglia di Sturzo per le auto nomie se nonin uno stretto legame con la società; non si spiegherebbe la battagliaper la proporzionale – che non fu una battaglia tecnica, ma di libertà– la batta glia per il suffragio universale e per il voto alle donne, se nonsi scorgono in queste battaglie le ragioni politiche e gli strumenti con-creti per liberare la vita politica ita liana dal clientelismo giolittiano edalla estraneità delle forze sociali rispetto alla conquista del potere po-litico. Il primo elemento vitale del popolarismo mi sembra per ciò cheriguardi la politica intesa non come un’astrazione che discende da unatavola dei principi, e neppure come la pura e semplice organizzazionedella protesta e del dis senso, ma come la capacità di mobilitare e di or-ganizzare le forze sociali contro lo sfruttamento clientelistico, per l’af-fermazione della propria autonomia, per conseguire cioè un concretosbocco politico che sia coerente con le esigenze espresse nella società.

Una chiara coscienza storica capace di superare l’evoluzionismo de-terminista e il pragmatismo sociologico.

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Il secondo elemento importante che spiega come Sturzo concreta-mente abbia potuto superare gli ostacoli di tradizione e di mentalitàdiffusi nel movimento cattolico di allora, che prima abbiamo richia-mato, va ricercato nel vivo senso della storia che lo animava. Condivi-do a questo proposito l’osservazione che Gronchi esprimeva rispettoad alcuni difetti delle nuove generazioni. E non mi riferisco alla gene-razione a cui io appartengo, che ha riscoperto Sturzo e il popolarismonelle battaglie dopo la Resistenza, ma mi riferisco alle nuove genera-zioni di oggi, che rischiano quasi sempre di far partire la loro conte-stazione, la loro protesta, dal livello zero nel quale non esiste passato,non esiste tradizione, non esistono spiegazioni. Ma il livello zero dellacontestazione finisce spesso per coinvolgere la stessa contestazione, inquanto la negazione e il rifiuto di tutta l’esperienza passata si traduceal limite in frustrazione, in impotenza, in incapacità a dare uno sboc-co politico ai fenomeni sociali contemporanei.

Per Sturzo invece fu proprio la coscienza storica che gli consentì di af-frontare con successo taluni problemi del suo tempo. Non respinse acri-ticamente il passato, ma anzi cercò di individuare nel passato le ragioni ele radici di comportamenti e tradizioni. Per questo Sturzo, di fronte al-l’Opera dei Congressi, non si atteggiò ad una posizione di sdegnoso ri-fiuto, non si limitò a criticarne l’ibridismo costituzionale, ma, pur lavo-rando per il suo superamento, attraverso una valutazione attenta com-prese che nel coacervo dell’Opera dei Congressi era presente la tradizio-ne della prima Democrazia cristiana, erano presenti i fermenti delle Le-ghe Bianche, vi erano cioè forze tendenzialmente assai diverse da quelleche l’Opera dei Congressi intendeva rappresentare nel suo complesso.

Dalla viva comprensione della storia, ricercata e maturata, Sturzo hasaputo ricavare le condizioni per il superamento dell’Opera dei Con-gressi, conservando al tempo stesso, come eredità per il Partito Popola-re, quanto di vi tale vi era anche in quell’ibrida istituzione. Analogamen-te Sturzo seppe comprendere le ragioni di crisi dello Stato italiano e in-dicare le vie per la sua trasformazione attra verso l’assunzione di respon-sabilità politiche da parte del le masse popolari cattoliche, proprio attra-verso il ricono scimento che l’unità nazionale era un bene, ma che esi -stevano difetti e limiti nel processo risorgimentale ope rato nel nostropaese dalla classe liberale. Ma il senso della storia in Sturzo non fu ac-cettazione acritica dell’evoluzionismo determinista; non fu conce zionemeccanica del divenire come meta incessante e «sempre in linea retta»,come amava dire, ma fu senso delle alterne vicende, degli alti e dei bas-si, delle possi bili involuzioni, fu quindi capacità di collegare l’azione del-le forze che agiscono nella società al senso vivo della storia da costruire.

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Sottolineo questo aspetto di consapevolezza, da un lato, delle in-sufficienze di fondo della storia politica nazionale e della posizione delmovimento dei cattolici, e di indi viduazione, dall’altro, degli elemen-ti di sviluppo sempre presenti anche nelle esperienze storiche passate,riguar dino esse appunto, come è il caso del Partito Popolare, sia la sto-ria nazionale che la storia del movimento dei cattolici, perché è una le-zione che tutti noi dovremmo continuamente avere presente. Chi co-nosce la realtà at tuale dei partiti sa molto bene come – ad esempio nel-la Democrazia Cristiana di oggi – troppo poco ci si sforzi di diffonde-re presso le nuove generazioni il senso del legame col nostro passato,che non deve certo essere un legame di tipo meccanico perché anzi intal modo si traviserebbe la lezione viva di Sturzo, ma deve piutto sto es-sere un legame critico, un collegamento di pensiero, la consapevolez-za di appartenere ad uno stesso filone di lotta che pone la forza politi-ca consapevole come forza di costruzione storica.

Una precisa visione dell’autonomia politica di un partito dei cattolici: lavocazione nazionale

Giustamente Scoppola ha ricordato che la concezione che Sturzoebbe dell’autonomia per il partito politico dei cattolici non è soltantoaconfessionalismo: anzi l’autonomia è per Sturzo un concetto assai piùampio dello stesso separatismo.

Probabilmente l’idea dell’autonomia dei cattolici in politica è l’i-dea più fortemente innovativa che Sturzo introduce nel pensiero e so-prattutto nell’azione politica concreta dei cattolici, tuttavia anche inquesto caso – e forse soprattutto in questo – la preparazione è tenace emetodica. Dice infatti nel discorso di Caltagirone del 1905: «Il parti-to dei cattolici non è un’emanazione chiesastica nel senso clericale del-la parola, non è né può essere un’emanazione monarchica nel senso chevi danno i liberali: la difesa dell’altare è la difesa della religione e la di-fesa del trono è la difesa del principio di autorità, ma né l’altare, né iltrono sono coefficienti organici del partito dei cattolici, ragioni costi-tuzionali dell’organismo di una vita libera, costituzionale, popolare».Le motivazioni dell’impegno politico dei cattolici erano cioè squisita-mente democratiche e popolari, e perciò il partito dei cattolici era con-cettualmente autonomo in quanto perseguiva fini propri, cioè i fini dicittadini democratici e non semplicemente i fini dei cattolici. Ma cer-to Sturzo era ben consapevole della esistenza, e anche della drammati-cità per alcune coscienze cattoliche, della questione romana, e non in-

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tendeva certo negare il problema né essere indifferente alla sua solu-zione. Il problema della libertà religiosa è evidentemente troppo gran-de per un cattolico sincero perché possa essere ignorato, ma Sturzo, cheaveva dell’autonomia del partito un’idea complessiva, aveva la forza dicollocare in essa anche il problema della libertà religiosa, punto quin-di non esclusivo della milizia politica dei cattolici, ma elemento che co-stituiva uno degli aspetti del tema della libertà in Italia. Affermava in-fatti: «I cattolici, come nucleo di uomini di un ideale e di una vitalitàspecifica, debbono proporsi il problema, che fra gli altri problemi in-volve in sintesi anche il religioso, ma non come una congregazione re-ligiosa […], né come partito clericale che difende i diritti storici dellaChiesa, ma come una ragione di vita civile ispirata ai principi cristianidella morale pubblica, nella ragione sociologica, nello sviluppo delpensiero fecondatore, nel concreto della vita politica».

Il senso della vocazione nazionale dava quindi forza ed autonomiaal partito dei cattolici, poneva cioè i cattolici democratici sullo stessopiano di legittimità degli altri cittadini, sottraendoli alla subordinazio-ne «papalina» nella quale erano confinati e dal loro assenteismo e dalgiudizio che su di essi davano le altre forze politiche. Del resto – è an-cora Sturzo che lo afferma – «le nostre forze militanti, nello sfasciarsidel vecchio organismo e nel veder sostanzialmente limitata l’attivitàdelle associazioni cattoliche al movimento religioso, cominciarono ariacquistare la coscienza chiara dell’ibridismo costituzionale dell’Ope-ra dei Congressi e la conseguente impossibilità di raggiungere in essauna posizione qualsiasi di partito nazionale».

La sola battaglia per la libertà religiosa avrebbe cioè finito coll’im-mobilizzare i cattolici fuori delle strutture dello Stato, impedendo il lo-ro apporto concreto anche per gli altri problemi presenti nella societàitaliana. Sturzo, con una concezione della libertà organica e istituzio -nale, salvando la quale anche la libertà religiosa sarebbe stata afferma-ta, affermando la quale anche i diritti della religione sarebbero stati sal-vati, riporta i cattolici nell’alveo della legalità costituzionale e li mettein grado – a livello di assoluta parità – di collaborare con le altre forzepolitiche per la soluzione dei comuni problemi nazionali.

Il primato del pensiero e la sua elaborazione dialettica attraverso il liberogioco delle tendenze

Vi è a questo proposito un passo di Sturzo assai signi ficativo, checredo illustri meglio di qualsiasi nostro commento la convinzione

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profonda che la formazione del pensiero politico avviene attraverso loscontro dialettico e la sintesi che ne risulta. «Forse non a tutti sembreràconveniente che si affrontino questioni credute ancora immature perlo spirito pubblico italiano, o per lo meno sulle quali debba sentirsi unaparola di autorità più che una libera discussione almeno da parte deicattolici [...]. Io ritengo, invece, che ogni fatto storico si prepara con laformazione del pensiero come ogni legge viene imposta più dai fatti edalle convinzioni che dalle ragioni di semplice autorità. [...] È quindipreparatoria ad ogni soluzione la discussione dei problemi, quando an-che non spetti che solo ad una autorità, qual essa sia, il giudicare e ildecidere. Le soluzioni storiche impongono la discussione che divienevita; e io sento la necessità di tali discussioni, che non riducono la vi-ta ad un astratto filosofare, ma che applicano le teorie alla vita, e a quel-la vita che, per un fatto complessivo e naturale di tutti noi, che ne vi-viamo tanta parte, chiamiamo oggi nazionale». A parte l’onestà intel-lettuale e politica che non può non colpire, è doveroso notare in sedestorica che i congressi del Partito Popolare erano in effetti assai vivi edifferenziati nelle posizioni politiche, anche nelle concezioni di fondo,assai più di quanto non siano apparsi i successivi congressi del dopo-guerra della Democrazia Cristiana. E nonostante ciò il popolarismonon mise mai in discussione la sua unità – non considero certo rottu-ra del popolarismo il fenomeno di taluni transfughi che cedettero difronte al fascismo – perché nella concezione di Sturzo l’elemento dia-lettico della contrapposizione del pensiero e della ricerca nella elabo-razione della posizione politica comune era elemento consapevole e de-terminante. Quando al congresso di Bologna, Sturzo diceva che la re-ligione è universalità e la politica divisione, che non si poteva confon-dere il Partito con la Chiesa, diceva anche che se la politica è diversità,dalla diversità deve nascere la capacità di ricercare con un metodo co-mune determinate impostazioni politiche.

Sulla base di questa forte tensione ideale, che affondava però le sueradici di sostanza nella realtà del paese, Sturzo si batteva coerentemen-te contro una posizione, purtroppo assai viva ancora oggi, di elenca-zione astratta, testamentaria, di cose da fare che rimangono velleitariese manca l’impegno vivo per realizzarle o se restano sganciate dal con-testo storico. Diceva spesso «Un programma diventa vivo quando, in-sieme all’affermazione, c’è il giudizio storico sul modo di realizzarlo;c’è l’elaborazione di un pensiero politico. C’è, cioè, la necessità di tro-vare un cemento unitario attraverso la ricerca e la dialettica». Vi è in-sieme una lezione di realismo politico e di democrazia interna di par-tito. Sturzo non ha mai polemizzato contro le tendenze, anzi le ha sem-

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pre valorizzate se esse rappresentavano, come devono rappresentare,elemento di dialettica e di ricerca nell’elaborazione di un pensiero po-litico che non è mai definito una volta per tutte.

Solo così il partito può diventare scuola di pensiero e di azione. So-lo così i discorsi cessano di essere un rituale al quale spesso non si cre-de, ma diventano elemento vivo di un’esperienza che unisce le cose chesi dicono alle cose che si fanno. Solo così, sul terreno della coerenza, sipuò valutare l’opera dei politici, ed è su questo terreno che noi dob-biamo chiedere oggi, alla classe politica attuale, di misurarsi e di farsivalutare.

La concezione organica e sussidiaria dello Stato e dell’ordinamento inter-nazionale: rapporto tra società e istituzioni politiche

Quest’ultimo aspetto del pensiero sturziano è certamente il menooriginale e direi anzi che si colloca nell’alveo tradizionale della filoso-fia politica cattolica, a partire dal tomismo. Ma certo Sturzo propo-nendo la creazione di un partito di cattolici autonomo, democratico epopolare non intendeva innovare la filosofia politica dei cattolici, ben-sì dotarli di uno strumento di azione politica adeguato ai rapporti so-ciali e alle istituzioni politiche del momento storico in cui vivere. Èquindi del tutto coerente la sua concezione organica e sussidiaria del-lo Stato che assume tuttavia, coerentemente con la sua passione di uo-mo del suo tempo, un rilievo e una concretezza storici assai pe netranti.Il pesante classismo dello Stato borghese nato dal Risorgimento, il cen-tralismo soffocatore derivato dal l’unificazione regia, i problemi econo-mici e sociali delle masse meridionali sono tutti motivi storici ben pre-cisi che lo portano a battersi per un controllo democratico del potere(suffragio universale e proporzionale), per il poten ziamento delle au-tonomie locali, per la riforma agraria, le cooperative, il credito rurale,cioè per tutti quegli isti tuti che potevano recepire la spinta creativa erinnovatrice della società. Tutti i problemi, anche quelli singoli e par-ticolari di categoria, trovavano un terreno unifica tore nel tema istitu-zionale generale: tutto quanto po teva essere risolto da istituzioni chenon fossero lo Stato doveva a tali istituzioni essere affidato, e tuttoquanto do veva essere affidato allo Stato, doveva essere deciso con ilconcorso di tutto il popolo. In questo senso la fina lizzazione del pote-re assumeva un contenuto e una forma istituzionale ben precisi.

È stata osservata una certa debolezza nella concezione di politicaestera del Partito Popolare. Ciò è certamente vero per quanto riguarda

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i primi scritti di Sturzo, ma soprattutto in esilio, nel periodo londine-se, vi è un pro cesso di maturazione su questi temi che non va trascu -rato. Vi è saldamente affermato che la pace e il diritto devono essereposti a fondamento dell’ordinamento inter nazionale e che occorre lot-tare politicamente per superare gli egoismi nazionalistici e instaurarela collaborazione tra i popoli. Sono idee che a qualcuno potranno sem-brare generose ma utopistiche: tuttavia le vicende internazio nali degliultimi decenni ci hanno insegnato che, in politica estera, il realismonon è necessariamente una virtù; che, forse, si può uscire dalle tensio-ni e dai blocchi di potenza solo perseguendo con coraggio e convin-zione l’utopia della pace e della collaborazione. Del resto è quanto i po-poli e soprattutto le nuove generazioni ormai sentono con chiara con-sapevolezza, ad Ovest come ad Est: l’orrore della guerra e l’insoppor-tabilità anche della guerra fredda, anche della divisione in blocchi, an-che della subordinazione alle superpotenze.

Da quanto siamo venuti esponendo deriva una lezione importan-te per noi che viviamo la vita di un partito di cattolici cinquant’annidopo la fondazione del Partito Popolare Italiano. Certo non si tratta diripetere mec canicamente un modello, perché anzi, se volessimo fareciò, dimostreremmo di non aver compreso l’insegnamento storico diSturzo, ma si tratta piuttosto di aver presenti i tratti caratteristici es-senziali dell’esperienza sturziana e di riproporli in modo coerente allenostre condizioni storiche. In questo senso ritengo attualmente viva evi tale la concezione del partito come strumento volonta ristico, ricon-ducibile ad una costante interpretazione dei fermenti della società e aduna concezione dello sviluppo storico che consente la mobilitazionedelle masse popo lari e delle «élites» intellettuali per una lotta politicache accetti il metodo costituzionale e della tolleranza ideologica.

Ma vi è un altro insegnamento valido che mi sembra di poter trar-re dall’esperienza di Sturzo, e che io propongo in modo particolare al-le nuove generazioni, nella critica sincera a certi difetti che mi sembradi individuare nei loro atteggiamenti più diffusi. E questo insegna-mento è il senso della lotta per l’affermazione storica dei principi. Unavolta individuati concettualmente taluni obiettivi, occorre avere la pa-zienza, la tenacia e il coraggio di per seguirli. Nel discorso di Caltagi-rone del 1905 Sturzo aveva già chiara la concezione di quello che sa-rebbe poi stato il Partito Popolare, eppure la sua nascita avvenne quat-tordici anni dopo.

Il partito nacque nel 1919 perché Sturzo aveva la con sapevolezzache, una volta delineato il traguardo ideale, non avrebbe conseguito ri-sultati concreti e quindi avrebbe implicitamente sottoposto al giudizio

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di astrattezza e di velleitarietà anche il traguardo proposto, se non aves -se iniziato e tenacemente perseguito quella lunga e paziente battagliache fa delle intuizioni di pochi il cemento per l’adesione di molti. Èquesto l’insegnamento che io credo si debba ricordare oggi alle nuovegenerazioni, perché troppi giovani, di fronte alla delusione per gli in-successi, di fronte ai risultati che non si realizzano a breve periodo, ri-schiano di abbandonare la lotta, di assu mere una posizione qualun-quista o di frustrazione nei confronti del divenire storico.

Vi è un episodio curioso che si può ricordare a questo proposito.Qualche giorno dopo che Sturzo aveva pro nunciato il discorso di Cal-tagirone del 1905, furono pub blicati gli statuti delle organizzazionicattoliche di allora, che rappresentavano la smentita ideale e pratica diquan to Sturzo aveva sostenuto. Preoccupato che l’orienta mento delleorganizzazioni cattoliche in quel momento potesse portare turbamen-to e sfiducia in quanti comin ciavano a comprendere la sua concezionedi partito dei cattolici, Sturzo aggiunge al suo discorso un postscrittoche è significativamente illuminante. Scrisse infatti: «C’è quindi da la-vorare e lottare, contro la sfiducia di coloro che guardano la vita nellacerchia ristretta dei piccoli fatti [...]. Ogni formula conservatrice nonriuscirà che ad essere un ingombro da togliere, non mai un ostacoloche paralizza la via. L’ideale del partito nazionale dei cattolici resta in-tegro come l’aspirazione più legittima e necessaria alla vitalità dei cat-tolici militanti; [...] l’in fluenza di questo ideale non può essere elusa daabbozzi o da tentativi che non riscuotono la fiducia dei più: il cammi-no, intralciato, non potrà che subire ritardi, ma non sarà arrestato. Delresto nessuno pensa che il progresso sia una ascensione in linea retta;sarebbe l’errore peggiore, che ci porterebbe al suicidio». Su questa bel-lissima pagina di volontà politica si inseriscono le nostre ultime osser-vazioni. Oggi si parla molto di crisi dei partiti, di distacco dei partitidalla società civile, di perdita di capacità, prestigio, fantasia, da partedelle forze politiche. Tutto ciò è vero anche se in parte non nuovo etrae a mio avviso origine da un duplice ma connesso ordine di separa-zioni. La prima è la separazione dalla società: l’autoalimentazione del-l’ideologia, del pen siero politico, del «programmismo» al di fuori delcon tatto vivo della società, l’autoalimentazione della lotta politica edelle controversie di potere all’interno del partito stesso, non nel con-fronto con le altre forze politiche. I partiti stanno cioè perdendo quelrapporto non puramente sociologico con la società che li fa ap puntoessere partiti, cioè soggetti capaci di una spiega zione politica dei feno-meni e di una risposta politica alle esigenze della società. Ma vi è an-che un secondo tipo di separazione, che è ancora più grave perché non

197La concezione democratica sturziana del partito

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riguarda l’istituto, ma il livello stesso della coscienza individuale, ed èla separazione o meglio la impermea bilità fra pensiero e azione: si di-cono certe cose e poi se ne fanno altre, si fanno promesse e poi non simanten gono, si accettano tutti i discorsi per poi vanificarli. La lottapolitica ha cessato di attribuire primato alle idee, non dà più spazio al-le tendenze di pensiero quali momenti elaborativi importanti nella ri-cerca della mi gliore soluzione, per i problemi del paese. La degene -razione della lotta politica nell’aspro scontro tra gruppi di potere, spes-so addirittura tra persone, non può essere tollerata più a lungo, pena ildecadimento dei partiti che potrebbe travolgere le stesse istituzioni de-mocratiche. S’impone perciò, al limite come motivo estremo di so -pravvivenza, un profondo rinnovamento strutturale e di metodo deipartiti, che li restituisca alla loro funzione di scuole di elaborazione po-litica e programmatica, che riannodi quel collegamento con la societàche li farà es sere tramiti consapevoli della riforma delle istituzioni perdare spazio alle autonomie, che ristabilisca fra le diverse parti politicheil dialogo e il confronto nel rispetto delle regole democratiche e costi-tuzionali. Anche nei confronti della attuale contestazione giovanile,che tende in radice a colpire e travolgere lo stesso sistema dei partiti, leforze politiche consapevoli devono guardarsi dai due opposti errori diuna pura negazione delle esigenze e condanna dei metodi, sotto cui af-fiora una tentazione autoritaria, o, all’opposto, di una mediocre stru-mentalizzazione, con la pretesa di assorbire queste energie nuove perimmet terle nel filone tradizionale della opposizione. A nostro avvisonon sono queste le vie per dare uno sbocco politico operativo alle esi-genze di contenuto e di metodo portate avanti dalle nuove generazio-ni, esigenze di democrazia vera, di partecipazione, di responsabilizza -zione che non possono essere troppo a lungo ignorate. Ma tali esigen-ze potranno produrre effetti veramente po sitivi se costituiranno unaspinta al rinnovamento delle forze politiche, se verranno impegnatenella lotta per garantire lo sviluppo storico del paese, sanare la frattu-ra fra società civile e istituzioni, consolidare con le forze popolari infunzione di protagoniste attive la democrazia italiana.

La lezione di Sturzo, in questo senso, è ancora valida: richiede nonsolo commemorazioni o riconoscimenti sto rici, ma testimonianze diazione e di elaborazione ideale e politica.

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Nella lotta per lo Stato democratico*

Dopo la chiusura delle due riviste «La Base» e «Prospettive», la cor-rente si dotava di un altro organo, «Stato democratico», uscito la primavolta il 10 ottobre 1957.

La sede di «Stato democratico», che aveva una tiratura di 25000 co-pie1, si trovava a Milano, in Via S. Eufemia; la direzione del giornale, cherecava il sottotitolo «Quindicinale di politica e cultura», era affidata a Fe-lice Calcaterra, anche se Granelli ne era l’ispiratore culturale. Anche inquesto nuovo quindicinale erano affrontati i temi cari alla Base: la co-struzione di una Democrazia cristiana autonoma, nazionale e popolare,sulla scia dell’insegnamento di Sturzo e De Gasperi e la realizzazione diun uguale esercizio del diritto di libertà che non poteva dirsi conquistatosolo col crollo del fascismo e con la scomparsa della classe dirigente dellaborghesia liberale.

Nel momento in cui il dialogo con i socialisti sembrava poter diventa-re realtà politica, il titolo «Stato democratico» diventava emblema e sim-bolo delle finalità con le quali la Base perseguiva la preparazione dell’a-pertura a sinistra e la sua realizzazione, cui la rivista avrebbe dato un con-tributo importante soprattutto a livello periferico. A proposito di questaesperienza editoriale, che si concluse nel 1964, lo stesso Granelli la definìcome un momento qualificante e istruttivo nel bilancio culturale e politi-co italiano1.

Se abbiamo dedicato tanto spazio per chiarire la funzione nazio-nale e democratica della DC, lo abbiamo fatto tenendo presente il com-pito, proprio di un partito di maggioranza, di affrontare e avviare a so-lu zione i grossi e decisivi problemi che tuttora bloccano lo sviluppo

*ASILS, FG, serie I, Attività di partito, b.1, f. 2.1 V. Gallo, Antologia di “Stato democratico” (1957-1959), cit., p. 11.

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dello Stato democratico in Italia. Troppi infatti dimenticano che nelnostro paese il problema di uno Stato organicamente ispirato alle re-gole della democrazia, garantito da un permanente ed eguale eserciziodel diritto di libertà da parte di tutti i cittadini, non può essere consi-derato risolto con il crollo del fascismo e con la scomparsa della classedirigente espressa direttamente dalla borghesia liberale. Lo stesso mo-vimento popolare della Resistenza, la scelta istituzionale repubblicana,il ruolo autonomo e rappresentativo dei partiti politici e di massa, legrandi conquiste di principio sancite nella nuova carta costituzionale,non costituiscono di per sé lo Stato democratico: rappre sentano sol-tanto le tappe di un importante mutamento delle condizioni politiche,istituzionali e giuridiche, entro cui deve ancora avverarsi il gradualeprocesso di trasformazione del nostro assetto statuale. Solo così trovagiustificazione il fatto che, tutt’oggi, permanga una larga frattura tra lasocietà e lo Stato, tra le affermazioni di principio della Costituzione ecerti aspetti di arretratezza della situazione reale del Paese. Qual è allo-ra, nel presente momento storico, il compito principale e primario del-le forze politiche italiane, se non quello di operare per sostituire il vec-chio apparato di uno Stato gerarchico, centralizzatore e protezionista,che ancora sopravvive nella realtà, con nuove e moderne strutture or-ganiche, decentrate e capaci di favorire il pieno sviluppo di tutte leenergie esistenti, al di fuori di particolari interessi di gruppo? Quale al-tro impegno, se non quello di rendere operante in tutti i suoi aspetti laCostituzione e quindi avviare a riunificazione Stato e società, senza fa-re del primo l’idolo ideologicamente assolutista e garantendo per en-trambi la possibilità di progredire e di rinnovarsi sul terreno della li-bertà? Non v’è dubbio che la politica richiesta da tali necessità è la so-la atta a portare innanzi e sviluppare le più importanti conquiste dellademocrazia post-fascista.

Da un po’ di tempo a questa parte il problema politico italiano vainfatti riducendosi a puro problema di governo. La lotta politica di-venta sempre più accesa e intransigente ed i partiti sono portati a con-siderare i loro rapporti quasi esclusivamente dal punto di vista dellaformazione dei governi, mentre l’opera dei governi si illude a sua vol-ta, e spesso, di risolvere con un moderato riformismo sociale problemiche superano la stessa sfera economica e investono quella della libertà.Si prenda, ad esempio, la cosiddetta questione meridionale. È indub-bio che essa rappresenti il fatto più clamoroso di quella frattura tra Sta-to e società di cui scrivevamo, come è innegabile che non sia mancato,da parte dei governi democratici del decennio, un serio impegno ten-dente a risolvere la depressione del Sud, – ma e questo è il punto – co-

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me mai tale azione, se pur ha dato alcuni non sottovalutabili risultatidi carattere economico, non è riuscita a determinare una effettiva cre-scita civile della società meridionale, non ha spezzato la triste catenadelle formazioni clientelari e qualunquistiche?

Perché qualsiasi politica di riforme che si riduca a provvidenza go-vernativa e settoriale (che si riduca cioè ad un intervento staccato dauna prospettiva di generale rinnovamento e perciò incapace a miglio-rare continuamente l’ambiente democratico in cui deve svilupparsi,senza soggezione alcuna, la lotta tra i partiti) è destinata fatalmente aricreare, specie quando tali provvidenze scendono dai vertici ministe-riali, attraverso i canali della burocrazia o del sottogoverno, nuove oc-casioni clientelari ed a perpetuare così il tradizionale trasformismo.

Analogo fenomeno si registra oggi, e non certo a caso, anche nellezone più industrializzate del nord d’Italia. Le pressioni del cosiddettoriformismo neo-capitalista, spinto anch’esso dalla tentazione di tra-sformare in grosse clientele le organizzazioni sindacali, tendono, infat-ti, non tanto a superare le contrapposizioni di classe mediante un re-sponsabile inserimento del fattore lavoro nel moderno processo pro-duttivo, quanto ad avvalersi delle innovazioni tecniche per meglio as-sorbire paternalisticamente la classe lavoratrice, favorendo così la for-mazione di gruppi di aristocrazia operaia attraverso gli alti salari ed ifavoreggiamenti.

Accanto a ciò, poi, non si può non notare il pericoloso risorgere nelPaese di esigenze rivendicazioniste da parte delle più svariate categoriee la deteriore tendenza di troppi uomini politici a seguire acriticamen-te questa spinta scivolando inevitabilmente verso impostazioni dema-gogiche di problemi particolari o di settore. In tutti questi casi si in-tende sempre meno che la libertà costituisce una fondamentale pre-messa alla stabile risoluzione dei singoli problemi e alla stessa distribu-zione del benessere. Ma perché tutto questo avviene? Avviene, a nostroavviso, perché troppo spesso si dimentica che il problema politico ita-liano supera l’esigenza ordinaria della pura e semplice formazione deigoverni, come è logico che accada invece in quei paesi ove lo Stato èuna realtà consolidata, e pone la necessità straordinaria di fondare e co-struire anzitutto uno Stato democratico qual è delineato dalla Costi-tuzione del 1947 e non come è finito purtroppo per sopravvivere ibri-damene attraverso forme e istituti tipici del vecchio ordinamento libe-rale preesistente.

Ecco allora perché ci sembra chiara e ineliminabile l’esigenza dicondurre al più presto la lotta politica tra i partiti sul giusto terrenodello Stato democratico. Non è per liberarci dai problemi concreti e

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particolari che sono maturi nel nostro Paese, né per evitare le questio-ni ideologiche che nascono dal mutare dei rapporti tra i partiti, ma per-ché gli uni e le altre non abbiano mai ad esorbitare a danno della li-bertà e del diritto garantiti appunto per tutti dal nuovo ordinamentocostituzionale e repubblicano. Perché questo è soprattutto il dato chedistingue fondamentalmente la democrazia affermatasi nel dopoguer-ra da quella prefascista. Al tempo della democrazia prefascista la libertàed il diritto costituzionale posti a fondamento dello Stato erano elar-giti da un potere sovrano e garantiti da una classe dirigente liberale (percui furono proprio i partiti a contenuto ideologico e programmaticoche con il loro apparire posero in crisi il sistema giolittiano della for-mazione dei governi attraverso blocchi elettorali sostan zialmente tra-sformisti), mentre nel do poguerra la sovranità è passata in teramente alpopolo e la nuova Costi tuzione ha avuto per protagonisti pro prio i par-titi politici, i quali la hanno elaborata in un clima di reciproca tol -leranza che ha avuto un ampio e prov videnziale significato di libertà.Tuttavia è ovvio che se la situazione odierna ci riportasse a nuovamen-te esaurire tutto il processo politico nel la pratica formazione di gover-ni ca paci di governare, ma incapaci di aggredire le realtà di fondo del-la socie tà italiana per attuare in concreto il nuovo assetto statale, se –d’altro can to – i partiti dovessero abbandonare la regola della tolleran-za per scontrar si in maniera radicale sul terreno astratto dei rispettiviintegralismi, cioè incominciassero a lottare tra loro per la formazionedi uno Stato quale di scende dalle loro ideologie, allora ver rebbe inevi-tabilmente meno quanto contraddistingue la democrazia nuova dal-l’antica (vale a dire l’insostituibilità del pluralismo dei partiti e la na-tura democratica di uno Stato fondato pro prio sul superamento nellalibertà di ogni integralismo di parte) e potremmo anche entrare, comedel resto nel 1922, in una crisi di regime capace di unire ancora unavolta tutti i conserva tori, all’insegna della mitologia del l’ordine, e dispingere tutti i democratici nell’orbita compiacente, ma ideologica-mente assolutista, dell’inizia tiva comunista.

Quanto si è scritto sinora basta certamente a dimostrare come siaassolu tamente necessario che, di fronte alle incertezze del presente mo-mento, ogni partito scelga, senza infingimenti e con la consapevolezzadei propri limiti, il suo giusto posto nell’ambito della lotta per lo Sta-to democratico italiano. Il resto verrà da sé. In questo ambito, che è ga-ranzia di libertà e di progres so, di tolleranza e di continuità della tra-dizione nazionale, potranno trovare la loro esatta soluzione anche i tan-to discussi problemi dei programmi e del le alleanze politiche, i pro-grammi ces seranno di essere i grandi cartelloni elettorali, usati da ogni

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partito per di mostrarsi capace di risolvere da solo qualsiasi problema,salvo poi arrestar si di fronte alla necessità di dar vita ad alleanze checonsentano di passare dalla enunciazione alla attuazione dei postulatiprogrammatici, e si sforzeranno invece di essere piattaforma di im -pegni circoscritti e politicamente mo tivati proprio per consentire, sen-za preconcetti o pregiudizi, la convergen za nel terreno democratico diforze a diversa ispirazione, ma animate in sostanza dalla medesima vo-lontà di rin novamento. Le alleanze diverranno strumentali rispetto agliobiettivi poli tici e programmatici fissati e non accadrà, come ai tristitempi dell’ultimo quadripartito, che sia l’alleanza a su bordinare allapropria dogmatica de finizione programmi e politica.

Programmi e alleanze potrebbero co sì consentire un sempre più ef-ficace allargamento della base politica dello Stato democratico e far ul-teriormente progredire il Paese verso la meta in dicata da De Gasperisin dal luglio del 1944, quando a Roma affermò: «Vogliamo farla fini-ta con gli esperimenti pseudo-democratici. Il nuovo Stato de ve essere lo Sta-to definitivo in cui il popolo italiano possa governarsi da sé. Esso deve fon-darsi sulla più larga partecipazione delle masse popolari e le decisioni nondevono avere carattere di club o di partito, ma di popolo». In questa pro-spettiva lo stesso fondamen tale problema della collaborazione tra cat-tolici e socialisti potrebbe uscire dal le nebulose impostazioni propa-gandistiche e dalle astratte pregiudiziali ideologiche e potrebbe essererisolto, senza escludere la collaborazione di al tre forze della sinistra de-mocratica ita liana, sia al di fuori degli angusti sche mi del riformismosocialdemocratico, sia della pretesa comunista di ritene re il socialismoperennemente minorenne. Gli incontri tra i partiti torne ranno ad av-venire sulla base di pro grammi ad ampio respiro, quindi su perandotanto la pratica dei compro messi governativi fine a se stessi, quanto ilrischio di certi pericolosi aggua ti ideologici, e la Costituzione repub -blicana, oltre ad essere la matrice giu ridica per la costruzione del nuo-vo assetto statuale, farà da superiore moderatrice degli integralismiideologici.

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Classe politica e rinnovamento dei partiti*

Il 18 e 19 settembre 1965 si tenne a Cadenabbia il convegno «Il ruo-lo dei partiti nella democrazia italiana», organizzato dalla Democraziacristiana lombarda di cui Granelli era vice segretario, quasi un anno do-po il nono Congresso del partito del settembre 1964 e in vista dell’Assem-bla organizzativa di Sorrento che si tenne nell’ottobre del 1965.

Nella prima giornata le relazioni furono tenute da Sergio Cotta («Par-titi e società civile nella democrazia italiana») e da Leopoldo Elia («L’at-tuazione della Costituzione in materia di rapporti tra partiti e istituzio-ni). A queste fece seguito la tavola rotonda sul tema «Democrazia in cri-si». Nella seconda giornata intervennero, tra gli altri, anche Achille Ar-digò, Galloni, Menapace, De Mita e Franco Maria Malfatti.

L’incontro di Cadenabbia si articolò lungo due direttrice principali:l’attuazione della Costituzione e la creazione di un sistema democraticoche consentisse ai partiti un esercizio delle loro funzioni in forme moder-ne e costruttive. In questo senso era da intendersi, ad esempio, la creazio-ne delle Regioni, determinanti per eliminare la gestione centralistica delpotere. Sotto questo profilo, l’incontro si ricollegava idealmente al conve-gno di San Pellegrino del 1963 e aveva lo scopo di avviare una discussio-ne sulla necessità di un cambiamento dei rapporti tra società e politica, at-traverso un rinnovamento delle istituzioni statali.

1. Tra le critiche più vivaci al sistema dei partiti vi è quella di unaprogressiva e irreversibile involuzione oligarchica che porta alla con-centrazione in poche mani del potere politico e, di riflesso, ad una so-vrapposizione sugli stessi meccanismi costituzionali dello Stato di taleincon trastato dominio. Sarebbe sterile contestare il fondamento di una

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siffatta tendenza, anche perché se mai il problema vero è di individua-re le cause del fenomeno per porvi risoluto rimedio.

In effetti la nozione moderna di democrazia è insepa rabile da quel-la di un effettivo allargamento della cerchia del potere in ogni campo,di un ricambio fisiologico della classe dirigente con elementi prove-nienti dalla classe diretta. «Le forme democratiche», scrive il Dewey, «sifondano sull’idea che nessun uomo e nessun cerchio limitato di uo-mini è sufficientemente sapiente e buono per governare gli altri senzail loro consenso. Il valore positivo di questa affermazione è che tutti co-loro che sono in contatto con le istituzioni umane devono parteciparea produrle o a reggerle».

Il metro di misura dello sviluppo della vita democratica non puòdunque riguardare soltanto la redistribuzione del reddito, la quantitàdei beni prodotti o goduti, e nemmeno la efficienza delle istituzioni,ma deve soprattutto riferirsi al grado di partecipazione, di responsa-bilizzazione, di demo cratizzazione del processo di conquista e di eser-cizio del potere. La stessa politica riformista se non intacca la con-centrazione del potere può essere, anzi è, priva di autentico valore de-mocratico indipendentemente dai suoi risultati economico-sociali.Conta anche il modo attraverso il quale si manifesta l’auspicato pro-cesso di democratizzazione. Non v’è dubbio, infatti, che in alcuni pe-riodi storici si determini, sotto la spinta delle cose, un forte muta-mento di classe politica. L’introduzione del suffragio universale, adesempio, e l’avvento della democrazia italiana all’indomani del crollodel fascismo, hanno portato, in forme differenti, a sensibili allarga-menti della cerchia della classe politica; ma tutto ciò non ha aperto lavia ad un costante inserimento di forze nuove provocato dalla liberaascesa degli elementi più capaci, bensì a forme più o meno raffinatedi «cooptazione» da parte di gruppi che puntano, prevalentemente, alraffor zamento del loro potere e trascurano di conseguenza gli aspettiqualitativi di tale processo.

È questa la causa maggiore delle involuzioni di tipo oligarchico, fa-vorite anche dalla crescente socializzazione e dall’aumento della sferad’influenza dei pubblici poteri, ed è di fronte ad essa che va qualifica-to l’impegno per il rinnovamento interno dei partiti che rappresenta-no, nel nostro sistema costituzionale, il tramite più importante per laformazione della classe politica democratica nella con quista e nell’e-sercizio del potere. In questo senso il pro blema della classe politica, cheè fondamentale per lo sviluppo della democrazia, coinvolge le istitu-zioni oltre che i partiti poiché, spesso, è proprio da esse che viene laspinta alla concentrazione del potere.

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2. Il discorso sulla classe politica merita qualche precisazione. È no-ta la distinzione classica tra classe diri gente e classe politica che il Mo-sca, il Pareto, ed altri studiosi, hanno introdotto per meglio analizzarei rapporti tra la prima e la seconda. La critica alla tendenza oligar chicaha, evidentemente, un valore generale poiché investe tutti i settori del-la società civile. Nella burocrazia come nell’azienda, nella scuola comenella magistratura, negli apparati tecnici come nei sindacati, si assistea chiusure che impoveriscono la classe dirigente e, di riflesso, hannouna incidenza negativa sul livello della stessa classe politica. Il rappor-to non è, ovviamente, diretto. Tuttavia la gene ralità del fenomeno ri-duce, o comunque rende più diffi cile, la possibilità di un ampio reclu-tamento di quadri dotati di preparazione e di esperienza specifica.

«Se la classe diretta del paese – ha scritto giusta mente G. Dorso– elabora elementi deficienti, che non migliorano la composizionedella classe dirigente e perciò questa a sua volta non migliora la com-posizione della classe politica, il paese è in netta decadenza fino aquando non maturino le condizioni e le cellule nuove per la guari-gione politica».

Non ci interessa, in questa sede, il problema della classe dirigentenel suo ampio significato di elemento determi nante la evoluzione ci-vile del paese, che richiederebbe in primo luogo una profonda trasfor-mazione dell’ordinamento scolastico, ma quello più limitato e perti-nente delle condi zioni necessarie per favorire comunque la maturazio-ne di una adeguata classe politica democratica. Anche il rinno vamentodi generazione può essere infatti irrilevante a questo fine, dal momen-to che l’età non è un elemento qualificante, e lo stesso ricambio realiz-zato attraverso rigidi meccanismi di burocrazia di partito può esporrea molti rischi. Il partito deve avere una concezione ampia dei modi edei metodi di formazione e di selezione della classe politica.

Ne consegue che il discorso su tale classe, che investe principal-mente il partito in quanto organizzazione politica ordinata a propriefinalità di carattere generale, non può essere sviluppato in termini in-tegralisti, cioè di supremazia assoluta del partito stesso sull’intera so-cietà, ma richiede una apertura pluralistica che può riassumersi sinte-ticamente in una concezione organica delle élites e della loro funzioneautonoma e complementare.

I pericoli del trasformismo, della tecnocrazia, del corpo rativismo,che tanta rilevanza hanno sul processo di forma zione della classe poli-tica sono infatti il prodotto di errati rapporti tra le élites, di un diffu-so centralismo, di una permanente estraneità delle classi dirette, di undecadere del costume morale, vale a dire di fattori riconducibili alla as-

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senza, nel nostro paese, di un effettivo pluralismo istitu zionale e di unareale e vissuta democrazia.

Il problema della classe politica democratica, intesa come parte diuna più vasta classe dirigente, deve comun que essere affrontato con de-cisione dai partiti, poiché è su questo terreno che si manifesta più con-cretamente la loro volontà di rinnovamento, ma deve essere affronta-to con una visione larga, non limitata cioè alla preparazione dei qua-dri per il controllo del potere nel Parlamento o nelle istituzioni locali(ed alla strumentalizzazione di tutti gli altri gruppi sociali: burocrazia,magistratura, intellettuali, ecc.), che investa la concezione dello Stato,della demo crazia, del modo di intendere la propria presenza nella so-cietà civile.

È questa una precisazione essenziale perché è proprio in rapportoad essa che vanno ricercati, nei partiti, i motivi di crisi e le loro insuf-ficienze a risolvere correttamente il problema della formazione, del ri-cambio, della funzione di una classe politica autenticamente democra-tica.

3. Le trasformazioni in atto nella società italiana mettono semprepiù in evidenza un processo di isolamento dei partiti, se si prescindedall’atto civico del voto, ed una diminuita influenza della classe poli-tica. Da un lato, la moltiplicazione dei bisogni che sfocia nei consumidi massa, nei miti della società del benessere, nell’imitazione delle clas-si più agiate, nelle molte alienazioni del tempo libero, porta ad un esa-sperato individualismo, forse come reazione a certi appiattimenti del-la socializzazione, cui fa riscontro un minore impegno nel campo del-l’azione politica; dall’altro lato, si assiste a significativi trasferimenti deicentri di potere e delle sedi in cui si operano decisioni che influenza-no direttamente i comportamenti individuali e collettivi e condizio-nano, spesso più delle decisioni politiche, la direzione dello sviluppocomplessivo della società.

Il peso crescente delle forze economiche rispetto ai rappresentantidel potere politico, deboli nonostante la vastità degli apparati buro-cratici statali, l’inevitabile ricorso, da parte di politici investiti di pub-bliche funzioni, agli esperti ed ai tecnici per le loro decisioni, la neces-sità di tener conto, a latere del Parlamento e della sua espressione ese-cutiva (il governo), delle scelte unilaterali dei grandi gruppi di interes-se, non sono altro che gli aspetti più evidenti di una situazione semprepiù complessa che richiede ai partiti una nuova capacità di iniziativa edi egemonia resa peraltro difficile dall’indifferenza che circonda, spe-cial mente tra le nuove classi sociali, le forze politiche.

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Tutto ciò dimostra che di fronte alla dinamica dello sviluppo so-ciale contemporaneo, nei suoi aspetti di massa come nei suoi riflessisulle istituzioni e sulla organizzazione del potere, i partiti politici de-vono adeguare le loro strut ture, i loro metodi, e promuovere un tiponuovo di recluta mento e di formazione della classe politica se voglio-no difen dere la loro funzione determinante in una società che si tra-sforma con rapidità sotto la spinta di impulsi di varia derivazione.

Molti intendono tale adeguamento in termini organiz zativi, tecni-ci, strumentali. Nuovi modelli di organizzazione, più ampie burocra-zie di partito, nuovi slogans, nuovi stru menti di potere pubblico che sisovrappongono ai vecchi senza sostituirli, nuovi compromessi tra igruppi di interesse: una corsa disordinata, in una parola, per non farsitagliare fuori dalle trasformazioni in atto.

È evidente il rovesciamento concettuale e pratico che ne deriva. Davisione d’insieme che si propone di guidare lo sviluppo della societàsulla base di alcuni valori essenziali l’azione politica diviene fatalmen-te pura amministrazione del potere subordinata ad una direzione dimarcia imposta dalle cose. Sotto la copertura di ideologie integralisteo di schemi prefabbricati dello sviluppo storico, sempre più astratti ri-spetto al movimento della realtà, matura e si estende la crisi dei parti-ti, il loro isolamento, la ridotta influenza della classe politica che sonoin grado di esprimere.

Di ben altra natura è l’adeguamento richiesto. Nella loro insosti-tuibile funzione di mediazione tra popolo e Stato, tra classi dirette epotere, oggi riconosciuta costituzional mente, i partiti devono tornaread essere, in armonia con la definizione classica del Burke, «un com-plesso di uomini che, per promuovere con i loro sforzi comuni l’inte-resse nazionale, si uniscono in base ad un principio particolare sul qua-le sono tutti concordi». Dalle trasformazioni della società essi devonotrarre costanti elementi di riferi mento, ma i fermenti e le novità ac-quisite, come i nuovi bisogni da soddisfare, devono essere collocati inun disegno politico generale che qualifica il partito sia in rapporto alprincipio particolare che lo unisce, l’ideologia in senso lato, sia in re-lazione all’interesse generale (nazionale e internazionale) che esso per-segue nell’ambito dello Stato e secondo le regole costituzionali.

Da questa concezione del partito, di fronte alle trasfor mazioni del-la società italiana ed alla crisi dello Stato, devono prendere le mosse ipropositi di rinnovamento e la volontà di affrontare e risolvere il pro-blema della formazione di una classe politica adeguata ai compiti cheessa è chiamata ad assolvere.

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4. Passando dalla impostazione teorica dei problemi del rinnova-mento dei partiti e della classe politica all’esame concreto dell’attualesituazione italiana, si nota un progres sivo spostamento della lotta po-litica dalle ideologie astratte (come dai rigidi schematismi di schiera-mento), fra loro diverse ma in un certo senso comuni nella loro deri-vazione ottocentesca, ai problemi concreti che vengono però frequen -temente assunti soltanto come esigenze da soddisfare.

Tale spostamento, in sé benefico, provoca spesso una grave disso-ciazione tra le convinzioni ideologiche, ridotte così a forme di propa-ganda, e gli impegni pratici che assu mono un prevalente contenutotecnico e trasformano la concretezza in motivo d’evasione politica. Gliesempi dei discorsi correnti sulla programmazione, intesi come purometodo di politica economica carico di attese mitologiche, o sull’at-tuazione dell’ordinamento regionale, valutata soprat tutto in ordine al-la spesa o alla efficienza della pubblica amministrazione, sono signifi-cativi. È chiaro che una qualifi cazione politica su questi temi, senza checiò escluda le necessarie valutazioni di ordine tecnico, risulta più im-pe gnativa in quanto coinvolge il tipo di società e di orga nizzazione sta-tuale che si intende costruire con metodo democratico, ma è solo suquesto terreno che i partiti possono riprendere una autentica funzionepolitica.

Simile contraddizione, anch’essa segno di stanchezza po litica, si ve-rifica in materia di collaborazione tra i partiti. La collocazione dei par-titi all’interno dell’assetto statuale, in fatto se non ancora compiuta-mente di diritto, ha rappre sentato storicamente un utile correttivo al-la contrapposizione frontale della lotta politica e all’esclusivismo delleideologie integraliste ed ha affermato il principio, certamente rile vanteai fini di un corretto sviluppo della democrazia politica, della collabo-razione tra partiti diversi in vista di un interesse generale concorde-mente condiviso. Capita invece frequentemente che, in presenza diampie e positive colla borazioni (l’esempio dell’esperienza di centro-si-nistra è probante), i partiti anziché valorizzare l’arricchimento reci -proco, che non è rinuncia alle proprie idealità, ma dimo strazione del-l’efficacia politica dei propri propositi, e trarre da esso motivo concre-to di una più aggiornata elaborazione della loro funzione, ripieganoverso una esasperazione inte gralista della loro ideologia, che è spessoripetizione banale di slogans superati, quasi per annullare il significa-to della stessa collaborazione.

Tutte queste contraddizioni, unite alle crisi di struttura e di meto-do che accentuano l’isolamento rispetto al più vasto corpo sociale, di-mostrano che i partiti, posti concre tamente di fronte ai problemi del-

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la società e dello Stato o alle scelte di alleanza per fini diversi dalla pu-ra sparti zione del potere, scoprono sempre più apertamente le loro in-sufficienze. Essi oscillano continuamente tra un immobilismo che con-trasta con l’ambiente storico in cui operano, con la conseguente per-dita di incidenza, e una crisi più o meno vasta, di indirizzo e di uomi-ni, derivante dalla volontà (o necessità) di affrontare la realtà con i suoiproblemi e attraverso le scelte che essa impone. E ciò si verifica al pun-to che anche quando si giunge, dopo un lungo travaglio, a superarel’immobilismo della politica tradizionale, aprendo la via alla soluzionedi problemi nuovi e alla creazione di un nuovo equilibrio, la spinta aricreare un nuovo immobilismo è tale da far quasi sempre prevalere levecchie mentalità e da sminuire progressivamente il significato inno-vatore delle stesse scelte compiute.

Ne consegue che occorre spezzare questa alternativa tra immobili-smo e crisi con una prospettiva di evoluzione politica dei partiti; evolu-zione difficile, qualora la si intenda nel suo vero significato, ma essen-ziale per assicurare un progresso democratico effettivo a livello delle isti-tuzioni dato il rilievo che il partito ha nelle moderne costituzioni.

Il rinnovamento dei partiti, con i suoi riflessi sulla classe politica,acquista così un valore determinante e di carattere generale: senza diesso, infatti, sono destinati a sfociare nel trasformismo o nella routinedel potere anche gli esperimenti più coraggiosi e potenzialmente dota-ti, allinizio, di una forte carica innovatrice.

5. Sono in grado i partiti, una volta avuta coscienza della urgenzadi una loro evoluzione politica e di struttura, di liberarsi dalle scorie,dai limiti, dalle visioni parziali, che sono oggi di ostacolo al dispiegar-si della funzione nuova che viene loro richiesta? È realistico prevedereun loro concreto rinnovamento ad opera delle forze interne più vive epiù consapevoli? Vi sono fattori esterni capaci di determinare una spin-ta irreversibile in tale direzione?

La risposta a queste domande è essenziale al fine di individuareconcretamente, al di là delle facili denuncie, una linea di azione. Nonv’è dubbio che i partiti, in un regime libero, debbono trovare in se stes-si, nella loro capacità creativa, la fantasia e la forza per uscire dall’im -passe in cui si trovano. Il declino di tante forze politiche trova quasisempre la sua ragione principale in una insuffi cienza di idealità o diazione che, soprattutto da quando sono entrati in scena i partiti a lar-go seguito popolare, non è surrogabile da nessun espediente.

Sarebbe tuttavia sbagliato ignorare il peso che le situa zioni stori-che, i condizionamenti istituzionali, esercitano in concreto sulle stesse

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possibilità di rinnovamento dei partiti politici. Abbiamo già avuto mo-do di rilevare, in un recente articolo, che molte disfunzioni dei partitisono «per larga parte riconducibili a istituzioni politiche rimaste an-corate, nonostante la Costituzione repubblicana, a prassi formalistichee a criteri centralistici propri della vecchia democrazia prefascista. Inun simile contesto istituzionale e di supplenza, hanno finito con l’as-sumere molti dei difetti del sistema e non certamente a caso in moltidi essi è forte la spinta verso una concezione clientelare della vita poli-tica tipica di periodi precedenti».

Ne consegue che la crisi dello Stato, che rappresenta pur sempre lacornice giuridica entro cui si svolge la lotta politica e la competizioneper il potere, coinvolge anche i partiti assorbendo nelle sue struttureanguste e superate la loro funzione e separandoli dalla stessa società ci-vile da cui traggono origine. Questa legge fatale doveva essere ben pre-sente ai costituenti allorquando, nel formulare l’esplicito riconosci-mento della funzione dei partiti nella Costituzione, indicarono con-temporaneamente le linee fondamentali di un assetto statuale che, coni suoi istituti di tipo nuovo, avrebbe dovuto consentire alle forze poli-tiche scaturite dalla Resistenza di sviluppare una presenza diversa daquella tradizionale.

Da allora, però, è venuta via via affievolendosi la vo lontà di realiz-zare una politica costituzionale tendente a creare, con la riforma delloStato nei suoi aspetti di appa rato, anche le condizioni istituzionali diuna autentica democrazia politica che avrebbe senz’altro ostacolato, ocomunque reso più difficili, certi vistosi fenomeni d’invo luzione deipartiti e di decadenza della loro originaria funzione. Forse che l’insuf-ficienza del Parlamento, il centra lismo amministrativo, il ripristino diuna prassi clientelare che è spesso ragione determinante del successopolitico, non hanno influito pesantemente sulla mentalità, sul costu -me, sull’iniziativa politica dei partiti?

È facile, oggi, fare il processo ai partiti, che pure hanno delle rile-vanti responsabilità, ma il problema vero non è quello di volgere losguardo al passato, sognando un Parla mento neutrale e interprete del-la sovrana volontà popolare che non è mai esistito, bensì quello di ri-muovere con deci sione le cause che determinano, con un intreccio dimotivi sempre più aggrovigliato, una crisi che investe alla stessa stre-gua le istituzioni e le forze politiche.

I partiti politici sono ormai realtà troppo ingombranti per essereconsiderati associazioni private con finalità di pubblico interesse; népossono continuare ad estendere la loro influenza sulla vita pubblica aldi fuori di quella certezza del diritto che è regola fondamentale dei mo-

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derni ordinamenti costituzionali. I partiti, che sono elementi essenzia-li e insostituibili della configurazione democratica dello Stato moder-no, devono uscire, come è stato detto con felice espressione, da quel«limbo pregiuridico» in cui sono stati tenuti, se si prescinde dalla pa-rentesi della elaborazione costituzionale, da troppo tempo.

Il tema è certamente delicato. Ma è solo incanalando la realtà deipartiti nell’alveo del diritto, riconoscendo cioè il loro valore di istitu-zioni rappresentative della volontà popolare, che si può condizionarela loro tendenza alla prevaricazione, spesso per colmare il vuoto lascia-to dallo Stato, rivalutando al tempo stesso la loro funzione in una piùorganica cornice istituzionale in cui il Parlamento, l’apparato ammini-strativo articolato a livello regionale e locale, il collegamento tra paesereale e paese legale, acquistino nuove e più qualificate dimensioni.

Non è in questa sede che va approfondita, nei suoi contenuti poli-tici e tecnici, l’indicazione fatta (che solleva peraltro i problemi gene-rali dello Stato democratico e del suo ordinamento) ma il richiamo adessa appare indispen sabile se si intende la ripresa decisa di una adeguatapolitica costituzionale come fattore determinante, almeno in certi li-miti, del processo di rinnovamento dei partiti.

È noto che il tema del riconoscimento dei partiti esige massimacautela, specialmente per quanto attiene la libertà politica dei cittadi-ni e il loro diritto di associazione, ma almeno su alcuni punti delimi-tati e precisi occorre rompere al più presto di indugi. Ci riferiamo, so-prattutto, a due argomenti fondamentali: 1) le garanzie di democrati-cità dei partiti; 2) la disciplina, anche parziale, del loro finanziamento.

Quando si parla di garantire per legge la democraticità dei partitisorge subito l’obiezione dei controlli necessari che potrebbero, ed il pe-ricolo è reale, vulnerare la libertà e l’autonomia dei partiti. Anzi, capi-ta spesso che tale peri colo venga estremizzato ingigantendo il momen-to del con trollo rispetto a quello delle garanzie. Ci sembrano quindiopportune alcune precisazioni. È chiaro che il principio della egua-glianza di tutti i partiti di fronte alla legge e della loro autonomia, siadal punto di vista ideologico e programmatico sia da quello della pro-pria concezione dei rapporti interni (ad esempio il cosiddetto centra-lismo demo cratico), non può essere in alcun modo intaccato da nes-suna regolamentazione giuridica. Si tratterebbe, più semplice mente, digarantire in ogni caso la libertà di associazione e la possibilità del cit-tadino di concorrere direttamente, tramite i partiti, a determinare lapolitica nazionale rimuo vendo eventuali ostacoli che si frapponesseroall’esercizio dei diritti apertamente sanciti dalla Costituzione (articoli2, 3, 18, 49).

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A fronte di tali esigenze non è impossibile affermare un principioimportante di rafforzamento della volontà popolare, eventualmenteanche attraverso una legge costi tuzionale, circoscrivendo la legislazio-ne sui partiti ad alcune norme per garantire da abusi interni il cittadi-no che abbia liberamente compiuto la sua scelta di adesione ad un par-tito politico e per conferire maggiore legittimità agli atti dei partitiaventi per oggetto il pubblico interesse. I principi generali riguardantiil controllo degli iscritti, la verifica dei poteri nelle assemblee elettive,i provvedimenti disciplinari e gli adempimenti degli organi giudican-ti, la designazione dei candidati alle elezioni, i rapporti tra partito egruppo parlamentare, la definizione di talune incompati bilità, potreb-bero – ad esempio – essere disciplinati per legge e recepiti dai partitinei loro statuti e regolamenti. Potrebbero anche non essere previstesanzioni, per evitare il pericolo di interventi discrezionali, perché nederiverebbe comunque una efficacia di confronto e di giudizio per ilcittadino in ordine a quei partiti che intendessero non uniformarsi al-lo spirito di una legge costituzionale. Anche le perplessità riguardantila necessaria imparzialità del giu dizio nel caso di conflitti d’interpreta-zione si potrebbero ovviare stabilendo la competenza della Corte Co-stituzionale, ed escludendo l’intervento di altri poteri (Parlamento, go-verno, magistratura ordinaria) influenzabili politicamente.

Si tratta di una via intermedia che rifiuta tanto i mas simalismipubblicistici quanto quelli privatistici, del resto sperimentata positi-vamente dalla democrazia americana – dove come è noto l’organizza-zione partitica e quella sta tuale sono disciplinate, per alcuni adempi-menti decisivi, da due ordini di norme costituzionali che hanno co-me uni ca fonte di legittimità la volontà popolare – ed in parte appli-cabile anche nell’ambito del nostro ordinamento costituzionale. Delresto, sul piano della sostanza, non v’è dubbio che i procedimenti perla determinazione della poli tica nazionale attraversano i partiti, e ledecisioni dei loro organi si inseriscono organicamente nel più vastoprocesso di formazione della volontà dello Stato negli istituti che laCostituzione determina, al punto che è oggi antistorico con siderare ipartiti come usurpatori di un potere che non può essere contestato senon rovesciando interamente il sistema. Anche il tema della discipli-na del finanziamento dei par titi si colloca, coerentemente, nel conte-sto giuridico-costituzionale sopra richiamato. Se si scartano le solu-zioni estre me, oltretutto poco realistiche, non è impossibile un siste -ma di finanziamento dei gruppi parlamentari e dei gruppi elettorali,con il semplice obbligo della pubblicazione dei bilanci, che rafforze-rebbe l’autonomia dei partiti dalle pres sioni economiche, pur sen za

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eliminare fonti aggiuntive di finanziamento, e tranquillizzerebbe l’o-pinione pubblica più dell’attuale situazione gravida di sospetti per imodi attraverso i quali la comunità sopporta, in ogni caso, i costi del-l’organizzazione politica. Non si tratta, come sostie ne il Prof. Mara-nini, di imporre ai contribuenti il pa gamento degli apparati di parti-to così come sono e nem meno di aprire la via, come temono altri cri-tici di segno politico diverso, a discriminazioni impossibili dal mo-men to che i contribuenti sono cittadini elettori che aderisco no a tut-ti i partiti politici: si tratta, più semplicemente, di porre un freno aduna situazione di fatto attraverso una disciplina, già sperimentata nel-la Germania occidentale, che consenta un controllo indiretto ed osta-coli le indebite forme di pressione economica ed il crearsi sotterraneodi costosi apparati che snaturano, con i loro molteplici legami, l’au-tentica funzione del partito politico nella nostra demo crazia costitu-zionale. Pur non giungendo a forme di con trollo che diano allo Statola possibilità di attentare, in qualche modo, alla libera iniziativa poli-tica dei partiti, non sfugge ad alcuno – ad esempio – l’importanza cheavrebbe per l’opera di controllo dei singoli iscritti ad un partito suicriteri di spesa, sulla distribuzione dei fondi, sulla na tura e entità deifinanziamenti aggiuntivi, l’obbligo della pubblicazione dei bilanci.Verrebbero contenute le tendenze al favoritismo, agli sciupii elettora-listici, all’uso prevarica tore delle risorse finanziarie, che tanta partehanno nel di sagio interno dei partiti e nello scetticismo della opinio-ne pubblica media, con indubbi vantaggi anche educativi, e si assicu-rerebbe in ogni caso l’espletamento di funzioni essen ziali nel nostrosistema politico democratico.

È dunque su alcuni punti decisivi, per quanto riguarda la discipli-na dei partiti, e in alcune direzioni precise, per quanto riguarda la strut-tura dello Stato (ordinamento re gionale, rivalutazione del Parlamentoe dei suoi metodi di lavoro, rapporti tra potere legislativo ed esecutivo,istituti della programmazione, ecc.), che occorre avviare al più pre stouna organica politica costituzionale, proprio allo scopo di creare lecondizioni istituzionali nuove entro cui può divenire realistico preve-dere un effettivo rinnovamento dei partiti, un rialzo di tono della lot-ta politica, una positiva rivalutazione della partecipazione popolare al-la determina zione della politica nazionale.

Tutto ciò non può far dimenticare, come si è già ricor dato, che lacreazione di un ambiente favorevole e più or dinato al corretto svolgi-mento della funzione dei partiti, im possibile senza un grande coraggiopolitico e senza una coe rente volontà riformatrice, non risolve il pro-blema generale del rinnovamento dei partiti stessi. Se non altro per i

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limiti e le cautele che devono accompagnare ogni regolamenta zionegiuridica della materia, per una fondamentale salva guardia dei princi-pi di libertà, esiste un largo campo nel quale occorre mobilitare unaconcreta volontà autoriformatrice dei partiti.

Il partito deve trovare in sé la forza per ridurre la in fluenza degliapparati, che va a scapito della circolazione delle idee, favorire unachiara e corretta formazione delle decisioni, garantire la formazione ela selezione della classe dirigente, aumentare la funzionalità delle varieforme di presenza nella società in trasformazione, promuovere un co -stante arricchimento morale e culturale.

La battaglia in questo campo non è facile perché ci si trova di fron-te a resistenze considerevoli, a condizionamenti d’interesse, a povertàdi idee, a compromessi di potere realizzati nella difesa dello status quo,a schermaglie su temi marginali ed evasivi. Esiste anche il pericolo diridurre la esigenza del rinnovamento ad una dimensione organizzativaillusoria quanto pericolosa.

L’efficienza come fine dell’azione politica, sia pure orientata a sod-disfare alcuni bisogni della società in un clima di libertà e di genericoriformismo, non consente al partito di superare la sua crisi. La lotta po-litica democratica, osser va giustamente Jean Meynaud, «non può esse-re privata di una armatura ideologica; rimarrà ineguale se, a idee mo -rali difese da una potente organizzazione, continuerà ad opporre fri-goriferi, paia di scarpe o metri di stoffa».

Ne consegue che è ad una costante elaborazione di idea lità politi-che, suffragate dal necessario impegno morale e culturale, che è neces-sario ordinare sul piano pratico le strutture, i metodi, gli strumenti, delpartito nel quadro dell’auspicata autoriforma; ed è alla stessa idealitàpolitica che vanno commisurati gli sforzi per formare una classe poli-tica adeguata ai fini che il partito si propone di perseguire nel la societàe nello Stato. È da questa scelta di fondo che, in sostanza, devono trar-re la loro ispirazione i modelli organizzativi, le soluzioni tecniche, lestrutture operative, del partito politico moderno in un regime demo-cratico e libero.

Una coraggiosa politica costituzionale ed una profonda, e benorientata, volontà di autoriforma rappresentano dun que le tendenzeessenziali di un processo di rinnovamento dei partiti e della classe po-litica che contribuisca a costruire, contro la spinta alle oligarchie e alpaternalismo, uno Stato democratico a larga partecipazione popolare.

6. Come è applicabile il discorso sul rinnovamento del partito edella classe politica alla Democrazia Cristiana?

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L’interrogativo è importante non solo perché investe il no stro pro-posito principale, in vista dell’Assemblea nazionale convocata proprioper individuare le linee di uscita da una situazione di crisi, ma ancheperché il ruolo che la Demo crazia Cristiana svolge nella politica na-zionale è tale che dalle sue decisioni, e dal suo esempio soprattutto, po-trebbe ro scaturire effetti positivi di carattere generale.

Alla Democrazia Cristiana, infatti, spetta l’iniziativa del l’avvio diuna politica costituzionale quale quella richia mata, che non può nontrovare concordi altri partiti since ramente riformatori e pensosi del-l’avvenire della democra zia italiana; ed è ancora ad essa che spetta ilcompito di non sciupare l’occasione della convocazione della propriaAssemblea nazionale dimostrandosi decisa ad avviare, con cretamente,una lungimirante e organica autoriforma in terna.

Per raggiungere entrambi questi obiettivi è necessario che si crei al-l’interno della Democrazia Cristiana una forte volontà politica attor-no ad alcuni punti ben definiti. Si tratta di condizioni preliminari. Ilpartito, infatti, sta attra versando una crisi di stanchezza e pone ognigiorno di più in evidenza le proprie insufficienze decisionali e operati-ve persino rispetto alla politica di centro-sinistra avviata, do po lungotravaglio, con il congresso di Napoli del 1962. È raro il caso in cui ilpartito riesca a precisare con tempesti vità la propria posizione, spe-cialmente sui temi più impor tanti (urbanistica, regioni, programma-zione, politica estera, ecc.), in vista delle scadenze che costituisconoimpegno ope rativo del governo di coalizione. Ogni tentativo di inizia -tiva in questo campo si riduce quasi sempre ad interpre tare e correg-gere parzialmente, con l’ausilio di qualche vo lonteroso tecnico sceltocon ampia discrezionalità dal segre tario politico, progetti elaborati insedi ministeriali o attra verso compromessi riservati tra delegazioni ri-strette dei par titi di coalizione. Il Consiglio Nazionale del partito, trop-po numeroso, e la Direzione centrale, che si riunisce troppo saltuaria-mente, rischiano di divenire sempre di più sedi di ratifica di decisionigià prese o di messa a punto, nei mo menti più difficili, della linea tat-tica da seguire. La Segreteria politica è spesso costretta a svolgere unafunzione di supplenza accentrando in sé ampi poteri decisionali evi-den temente legittimi, perché un partito politico non può non ricono-scersi nel suo leader, ma tali da aumentare al mas simo le responsabilitàdi ordine individuale. I Gruppi par lamentari rischiano di essere sem-pre più declassati ad una pura funzione di sostegno dell’iniziativa legi-slativa del go verno, o a disperdere le loro energie in una minuta e spes -so clientelare produzione di leggine particolari, mentre i par lamentariimpegnati in compiti governativi sono costretti a supplire con orien-

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tamenti individuali la mancanza di diret tiva o di appoggio del partitoall’interno, s’intende, degli impegni assunti con la coalizione e di fron-te al Parlamento.

A ciò si aggiunge, sia pure su di un piano diverso, lo scoordina-mento degli uffici operativi, il peso di un appa rato centrale eccessivo,la carenza di mezzi periferici ade guati, la mancanza di strumenti di ri-cerca e di elaborazione, il rallentarsi del dibattito politico interno spe-cialmente da quando si è dato per risolto il problema delle scelte di al-leanza che tanto aveva appassionato il partito, vitalizzan dolo politica-mente, negli ultimi anni. Inoltre, le trasfor mazioni della società italia-na ed il cristallizzarsi della situazione interna, che è fenomeno di tuttii partiti, hanno accen tuato – proprio nel momento in cui la politicanazionale richiede il massimo impegno e maggiori energie anche indi -viduali – il grado di isolamento del partito verso i nuovi ceti profes-sionali (tecnici, imprenditori, dirigenti sindacali, intellettuali di nuo-va formazione, ecc.) e verso il mondo esterno inteso come una vastarealtà pluralistica che, pur dovendo essere rispettata nel segno dell’au-tonomia, non può certo essere politicamente ignorata.

Si tratta di una analisi estremamente franca nella sua sinteticità,che non occorre accompagnare in questa sede con il solito riconosci-mento dei meriti e degli aspetti posi tivi della situazione, e comunqueessenziale per individuare linee di azione rispondenti alla realtà.

Si assiste dunque, nel complesso, ad uno stacco preoc cupante tra icompiti impegnativi che attendono il partito, i quali richiedono ancheuna qualificata visione a largo respiro sostenuta da autonome motiva-zioni ideali, e il suo pratico modo di essere, le sue articolazioni opera-tive, la sua classe politica; lo stacco aumenta ancora di più se, al di làdegli impegni connessi con la politica di centro-sini stra che dovrebbe-ro trovare il partito in una posizione stimolatrice e di guida, si solleva-no problemi di fondo come quelli della riforma dello Stato, della pro-grammazione eco nomica, dell’avvio di una nuova politica costituzio-nale, che per loro natura trascendono le contingenti formule di go -verno e richiedono una inconsueta elaborazione anche tec nica.

Per superare questo stacco, che è la dimostrazione più evidente del-l’insufficiente funzionamento del partito, occorre avere chiari i motividella crisi che travaglia la Democrazia Cristiana e che non sono certosuperabili con qualche mar ginale ritocco allo statuto o con vitalizza-zioni puramente organizzative.

Allo scopo di sottolineare gli intenti costruttivi del no stro contri-buto critico è opportuno sgomberare il terreno da possibili equivocipolemici: non interessa, almeno in questa sede, l’esame delle respon-

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sabilità individuali a sco po di differenziazione gratuita tra persone ogruppi anche perché, a nostro giudizio, le cause della crisi del partitosono molto remote ed investono, in misura più o meno larga, tutti. Delresto è un dovere quello di un ripensa mento sereno e franco nei mo-menti difficili ed è augurabile che non abbiano influenza, almeno suquesto terreno, certi superati schematismi.

Il problema del partito, vale a dire di una migliore de finizione deisuoi compiti e della sua struttura, è stato po sto con molto rigore, no-nostante alcuni limiti di imposta zione politica generale, da GiuseppeDossetti attraverso la battaglia condotta da «Cronache Sociali» che eb-be, sul piano pratico, il suo banco di prova nel congresso di Vene zia del1949. Le vicende successive sono troppo note per ché sia necessario di-mostrare, attraverso una ricostruzione storica che sarebbe quanto maiistruttiva, che il problema, comunque, non fu risolto. I gruppi che sisostituirono alla guida del partito, dopo la crisi del «dossettismo», lascomparsa dalla scena politica di De Gasperi e dei suoi col laboratori,tentarono di irrobustire e di vitalizzare il partito con metodi fra lorodiversi, ma i risultati raggiunti sono stati evidentemente limitati se ilproblema viene oggi ri proposto in termini sostanzialmente aggravati.Non può cer to essere dimenticato che negli anni successivi al congres-so di Napoli del 1954, in cui il gruppo di «Iniziativa demo cratica» as-sunse responsabilità di governo della Democrazia Cristiana, fu preva-lente il problema della ricerca di un nuo vo indirizzo politico, di nuo-ve alleanze, per superare la crisi sempre più manifesta della vecchia li-nea centrista. Se si prescinde, infatti, da alcuni energici tentativi di vi-talizzazione, legati più alle illusioni di una rivincita elettorale o di ri-lanci riformistici in chiave integralista, il problema del partito non ven-ne mai affrontato nei suoi termini gene rali che sono, insieme, politicie di struttura.

Ebbero il loro peso anche le crisi che, a partire dal Consiglio Na-zionale di Vallombrosa in cui l’on. Fanfani prospettò l’esigenza di unaevoluzione a sinistra della linea politica del partito, hanno investito ilgruppo dirigente, spe cialmente con la frattura della «Domus Mariae»,e che non sono state superate con il congresso di Napoli del 1962 incui venne decisa, sotto la guida dell’on. Moro, la poli tica di centro-si-nistra e nemmeno con quello di Roma, del 1964, in cui venne ratifi-cata la linea precedente e confer mata la segreteria dell’on. Rumor. Nonè questa la sede per l’esame analitico di tutti quei periodi, peraltro giàcom piuto attraverso le difficili e non sempre comprese battaglie inter-ne di questi ultimi anni; il richiamo ad essi vuole solo sottolineare chené l’impulso attivistico di Fanfani, né la gestione liberale e politica-

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mente illuminata di Moro né i propositi di rilancio di Rumor, che nonè ancora possibile valutare compiutamente, hanno rappresentato, aparte i me riti individuali su altri piani, l’avvio concreto di quell’effet -tivo rinnovamento di cui il partito ha bisogno.

Anche la battaglia dei gruppi di minoranza è rimasta, su questo te-ma specifico, alle soglie di un netto impegno po litico in mancanza delquale è stato facile scivolare su po sizioni contraddittorie e incoerenti.I gruppi contrari alla politica di centro-sinistra, infatti, non sono an-dati oltre una impostazione di legittimismo moralistico, contro certedege nerazioni interne, certamente importante dal punto di vista delmetodo democratico ma irrilevante da quello politico generale; le mi-noranze di sinistra, sensibili ai temi del par tito, sono state prevalente-mente impegnate nella dura bat taglia per determinare l’evoluzione del-la linea politica di centro-sinistra e, di fatto, hanno finito con il tra-scurare pro blemi interni che sono tra le cause della stessa perdita dimordente del corso politico avviato.

La stessa periferia del partito, i quadri più sensibili, che avverte og-gi un forte disagio non è ancora riuscita a far emergere, anche a causadella involuzione verticistica delle correnti e dello schematismo di di-visioni interne che non riflettono più una reale dialettica politica, quel-la spinta innovatrice che pure esiste potenzialmente in larga misura. Nési può ritenere, infine, che l’armistizio unitario rag giunto con la for-mazione di una direzione assolutamente priva, per quanto riguarda irapporti interni, di una quali ficazione politica e non riflettente alcunimpegno program matico di riforma nel partito possa rappresentare, aldi là di una illusoria divisione del potere interno, qualcosa di più diuna pausa di coesistenza che accentua la tendenza all’immobilismo incontraddizione con i rilevanti compiti che attendono la DemocraziaCristiana nel breve e nel lungo periodo.

In questo clima è comprensibile che tutte le attese siano rivolte al-la Assemblea nazionale del partito; essa dovrebbe chiudere una faseevasiva rispetto ai problemi del rinnovamento interno e aprirne unache sia di netto e qualificato impegno.

Ecco perché è necessario che si crei all’interno della DemocraziaCristiana una forte volontà politica attorno ad alcuni punti precisi.Senza una scelta di questo tipo anche l’occasione dell’Assemblea na-zionale potrebbe risultare sciupata con gravi conseguenze sull’avveniredella Demo crazia Cristiana.

I punti cui si è fatto riferimento possono essere così indicati: 1) for-mazione di una coerente volontà politica interna; 2) avvio concretodelle riforme nel partito; 3) chiaro impegno per il rinnovamento della

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classe politica. Con un chiarimento libero e responsabile su questi pun-ti, e soprattutto partendo da tale auspicato chiarimento con un’azionedecisa che mobiliti correttamente tutte le energie interne disponibili,è possibile prevedere, sia in materia di politica costituzionale che in te-ma di autoriforma, una graduale ma irreversibile ripresa della Demo-crazia Cri stiana nel quadro di un largo rinnovamento del sistema deipartiti e dello Stato democratico.

7. L’unità del partito politico è una condizione preli minare dellasua incidenza nella realtà. Essa, tuttavia, non può mai essere un fattoformale determinato da fattori emotivi o artificiosi. Il partito si trovasistematicamente di fronte a scelte concrete che creano, spesso, posi-zioni contrastanti che non pongono evidentemente in discussione leconvinzioni di fondo, ma che si qualificano diversamente sulla lineapolitica, sui programmi, sui metodi, sui modelli di organizzazione in-terna.

Il principio della formazione di una volontà politica nel rispetto del-le posizioni di dissenso, che a loro volta possono prevalere, è fonda-mentale nella concezione demo cratica del partito. Esso è la conseguen-za della parità dei diritti e dei doveri di ogni militante, che non può su-bire nessuna discriminazione su questo terreno e dell’applicazione di unmetodo democratico nel processo di formazione delle decisioni politi-che. In questo quadro di certezza giuridica si inserisce la funzione dellecorrenti di pensiero, certamente indispensabili come strumento di ela-borazione dell’indirizzo politico e dell’approfondimento di program-ma, e la possi bilità, per esse, di prevalere democraticamente assumendoconcrete responsabilità di governo del partito e di svolgere, senza limi-tazioni che non siano quelle della disciplina e del rispetto dell’ideolo-gia, una costruttiva funzione di critica e di controllo.

Ci riferiamo, evidentemente, ad una impostazione di principio chedeve trovare applicazione nella realtà. Possono verificarsi momenti ec-cezionali in cui l’esigenza della difesa di un bene essenziale e primario,la sopravvivenza del partito ad esempio, annulla ogni diversità; comepuò deter minarsi, all’opposto, una distinzione o una intesa fra gruppifondate esclusivamente su ragioni di potere o di controllo del partitoattorno a schematismi di corrente artificiosi rispetto a veri problemi discelta.

In entrambi i casi dovrebbe trattarsi, se mai, di solu zioni contin-genti o di involuzioni oligarchiche estremamente pericolose; il corret-to funzionamento del partito richiede, invece, il libero dispiegarsi diun rapporto dialettico tra maggioranza e minoranza che consenta il

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crearsi di una effettiva unità, di una coerenza operativa, di un costumedi rispetto per le posizioni di dissenso.

Senza di ciò l’unità si riduce a uniformità, che equivale a confu-sione politica esposta in ogni momento a possibili rotture, il rapportointerno diviene compromesso di potere, vale a dire controllo recipro-co di una parte di apparato, ed il partito rimane imprigionato, sia perquanto riguarda la sua iniziativa politica che per quanto si riferisce aisuoi problemi interni, in un immobilismo senza sbocchi.

Il ritorno a condizioni di normalità e correttezza per la formazio-ne di una coerente volontà politica maggioritaria, attorno a impegniprecisi pubblicamente assunti, è sul piano del metodo un punto es-senziale se si vuole portare innanzi con decisione la politica di centro-sinistra e avviare concre tamente un processo di rinnovamento del par-tito.

L’errore non consiste nel tendere alla formazione di organi rappre-sentativi di tutte le posizioni esistenti nel partito, e in questo senso uni-tari, al fine di evitare le contrapposizioni radicali e di favorire un dia-logo sereno e costruttivo; l’errore consiste nel modo con il quale si èpreteso di risolvere tale problema sostituendo la formazione di mag-gioranze e minoranze, – non in base alle etichette ma sulle scelte poli-tiche e operative – con il criterio della distribuzione proporzionale de-gli uffici del partito che ha in pratica diminuito l’autorità di chi ha fun-zioni di guida ed il prestigio di chi ha l’obbligo di svolgere, per rispet-to alle proprie convinzioni, funzioni di stimolo e di controllo.

Da questa situazione, che è tra le cause della involu zione del parti-to (non a caso questo errato e antieducativo criterio delle intese di po-tere al di fuori di ogni qualifi cazione politica sta estendendosi, con gra-ve pregiudizio della vitalità democratica del partito, alla periferia), oc-corre uscire con serenità e senza lacerazioni polemiche.

Riteniamo ancora valido, a questo proposito, quanto abbiamo avu-to modo di scrivere, a causa di una assenza per malattia, al Presidentedel Consiglio Nazionale Piccioni in occasione del dibattito che ha por-tato alla elezione unanime dell’attuale direzione unitaria e cioè che«non c’è ombra di discriminazione quando si è pienamente disponibi-li per formule unitarie, allo scopo di dare a tutti eguali garanzie, e altempo stesso si vuole che all’interno di esse vi sia una precisa distin-zione non tra gruppi precostituiti, o tra maggioranze e minoranze chesi formano opportunisticamente di volta in volta, ma fra chi condivi-de senza riserve o remore la politica di centro-sinistra e chi ad essa sioppone sollevando difficoltà o proponendo muta menti di indirizzo.Una unità nella confusione politica, se si prescinde dai momentanei ri-

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flessi psicologici, non giova infatti al partito e sarebbe una pseudo so-luzione».

Le difficoltà per superare la situazione attuale sono politiche, inprimo luogo, e investono le responsabilità di tutti, ma esse potrebberoessere parzialmente superate con una modifica statutaria che stabiliscail principio di una votazione limitata, che garantisca in ogni caso la pre-senza delle minoranze in quanto tali, per l’elezione di tutti gli organidirettivi del partito (dalla direzione nazionale agli esecutivi di sezione)eliminando ogni significato di contrat tazione e di compromesso inmateria di unità e di rispetto del diritto di rappresentanza.

Naturalmente la regolamentazione di un metodo corretto non è,di per sé, garanzia sufficiente per una positiva solu zione politica deiproblemi del partito. Per raggiungere tale traguardo occorre riaprirecon franchezza il dibattito interno, il confronto delle opinioni e deter-minare per tale via un superamento effettivo di schematismi di verticeche non esprimono più, e da tempo, una effettiva dialettica di tesi po-litiche. L’evoluzione in questa direzione non può che essere lenta, gra-duale, ma ha assoluto bisogno, per essere avviata, di scelte precise chenon potranno non essere compiute all’indomani della Assemblea Na-zionale non già sul terreno della tattica, ma su quello sostanziale dellaindicazione di chiari e ben definiti impegni politici e programmaticispecialmente per quanto riguarda le riforme da introdurre nel partito.

«La mentalità chiusa del gruppo di maggioranza relativa – scriveva-mo nella già citata lettera a Piccioni – e il tatticismo sistematico di altrigruppi devono lasciare posto ad una diversa concezione del partito e auna più precisa definizione delle posizioni politiche. Le strutture orga-niz zative e funzionali, specie quelle centrali, i metodi di gestione, glistrumenti per garantire un dibattito costante, i collegamenti con i qua-dri periferici del partito, devono essere sottoposti a profonde revisionisemplificatrici fuori da ogni miope visione di spartizione fra gruppi delpotere interno. Gli iscritti sono stanchi di assistere ad una continua sva-lutazione degli organi del partito, ridotti ormai a sede di ratifica di de-cisioni prese spesso fra pochissimi e pur autorevoli personaggi, di doverricostruire le posizioni delle persone o dei gruppi attraverso le indiscre-zioni o i comu nicati stampa che rispondono sempre a esigenze tattiche,di essere esclusi da una diretta partecipazione alla elabora zione dellescelte del partito sempre più riservate a vertici limitati i cui rapporti sisvolgono in un clima di mistero che pone di fronte a rotture o a com-promessi senza che se ne conoscano le motivazioni».

Ci sembra vi sia poco da aggiungere a questa diagnosi se non, aconferma della necessità di risolvere il problema dei modi per la for-

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mazione della volontà politica del partito e del rispetto delle posizionidi dissenso, il rilievo che – in contrasto con le speranze o le illusioni dimolti – la situazione è ulteriormente peggiorata e richiede, prima chesia troppo tardi, una netta inversione di tendenza.

8. Si è già detto che una corretta soluzione del pro blema della for-mazione della volontà politica del partito, sul terreno del metodo de-mocratico e della fine di ogni esclusivismo, deve risultare collegata achiari impegni di azione per essere realmente produttiva.

Tralasciando in questa sede i temi politici di fondo, riguardanti ilcontenuto e il modo di intendere la politica di centro-sinistra e i pro-blemi di maggior respiro richiamati nel paragrafo 5 in relazione allariforma dello Stato, che devono essere posti alla base del rilancio delpartito per evitare di ricadere, ancora una volta, in forme di sterile at-tivismo, ci proponiamo di restringere il nostro esame al tema pure qua-lificante delle riforme interne.

Un chiaro disegno di riforma si qualifica, anche in questo campo,attorno ad alcuni obiettivi cardine e non in relazione ad una miriadedi problemi sollevati in modo dispersivo e senza indicazioni di prio-rità. Tali obiettivi possono essere sinteticamente richiamati come se-gue:

a) modifica dei criteri per il tesseramento e razionalizzazione dei si-stemi elettorali interni. La moralizzazione del tesseramento, che è la ba-se della rappresentatività, e quindi della legittimità, delle decisioni delpartito richiede oltre a rigorose forme di controllo un correttivo ester-no che spezzi la spirale della inflazione di tessere, basato sul rapportotra numero degli iscritti e voti raccolti dal partito nella determinazio-ne del peso delle varie rappresen tanze. I sistemi elettorali dovrebberoessere unificati sulla base di principi omogenei operanti a ogni livello.La con quista della proporzionale, che può ridurre i fenomeni delloesclusivismo e delle intese a puro scopo di potere, deve essere difesa, egeneralizzata, modificando tuttavia il sistema delle mozioni rigide, chedetermina una forte spinta oligar chica anche all’interno delle correnti,e introducendo alcuni correttivi che consentano una valutazione delledoti perso nali oltre che dell’indirizzo politico. In questo quadro nonpresenta alcuna utilità il ricorso a forme di elezione diretta, da partedel congresso, del segretario nazionale, anche perché il problema delrafforzamento della sua auto rità, che è un problema da risolvere, si col-loca su di un altro terreno e non può essere risolto con motivazioni per-sonalistiche e a scapito dei poteri di indirizzo e di scelta che spettano,tra un congresso e l’altro, al Consiglio Nazio nale del partito;

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b) riduzione degli apparati, riordinamento funzionale e rivalutazio-ne degli organi politici. Il progressivo allarga mento del numero degli uf-fici centrali, ormai una trentina, ha portato con l’aumento dei conflit-ti di competenza e la riduzione della loro importanza ad una sensibileperdita di incidenza dell’azione di presenza del partito. S’impone unadrastica riduzione di essi, al massimo cinque o sei, ed una loro mag-giore qualificazione di lavoro politico e di elaborazione programmati-ca allo scopo di evitare lo scivolamento verso uno spirito di routine bu-rocratica. In questo quadro occorre procedere ad un riordinamentofunzionale di taluni strumenti fondamentali (la stampa, una rivista delpartito, organi di studio e di ricerca, forme di collegamento con i grup-pi parlamentari e con gli espo nenti di governo, ecc.) da modificare, oda creare ex novo, per dar luogo ad una maggiore presenza nell’opi-nione pubblica, a interventi operativi immediati, a elaborazione diproposte concrete in base alle scelte compiute dagli organi deliberati-vi del partito. Ogni ufficio, presieduto da un membro della direzione,dovrebbe essere collegato ad una commissione specifica del ConsiglioNazionale per garantire la rispondenza del lavoro operativo agli indi-rizzi politici stabiliti. La struttura funzionale, una volta definita, do-vrebbe naturalmente riflettersi in analoghe impostazioni della struttu-ra periferica per consentire collegamenti sem plici ed efficaci. Si rendenecessaria, infine, una rivaluta zione degli organi decisionali del parti-to per aumentare la loro autorità e la loro funzione di guida dell’atti-vità degli uffici e delle rappresentanze politiche. Per il Consiglio Na-zionale si renderebbe opportuna, oltre alla riduzione del numero ed al-la eliminazione delle troppe presenze di diritto, una migliore regola-mentazione ed uno svolgimento effettivo del lavoro di commissioni;per la Direzione, occor rerebbe fissare una periodicità regolare delle riu-nioni facen dole assumere un compito effettivo di guida di tutta la at-tività del partito; per la Segreteria politica è necessario proporsi il pro-blema del rafforzamento della sua autorità, della sua figura di leader,eliminando per esempio le vice segreterie senza con ciò escludere il ri-corso ad una collabo razione diretta senza investitura politica né pote-ri di decisione;

c) regionalizzazione della struttura del partito e potenziamento delleautonomie locali. In armonia con il superamento del centralismo stata-le, attraverso la costitu zione dell’Ente Regione, è indispensabile preve-dere per tempo – anche per elaborare le necessarie direttive politicheper i membri democratici cristiani delle C.R.P.E. – una adeguata regio-nalizzazione della struttura politico-organiz zativa del partito artico-lando, attorno a questo punto cen trale della riforma interna, un più

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organico sistema di autonomie, di rapporti, di funzioni, dei comitatiprovinciali, dei comitati comunali delle città capoluogo di provincia,delle zone, delle sezioni. Tale ristrutturazione, oltre a riferirsi ai com-piti nuovi che attendono il partito in sede di autonomie regionali e lo-cali (legislazione nell’ambito delle leggi quadro, programmazione, fun-zioni di governo, ecc.), dovrà tener conto delle future prevedibili isti-tuzioni ammi nistrative (consorzi, comprensori urbanistici, piani in-tercomunali, ecc.) che opereranno sul territorio. Per dotare i comitatiregionali dei necessari poteri di scelta e di indirizzo, superando l’attualefunzione di puro coordina mento, è necessario sostituire il criterio del-la rappresen tanza paritetica delle singole province, che non tiene con-to né del peso del partito né della consistenza delle diverse comunitàurbane, con quello di una rappresentanza che tenga proporzional-mente conto dei voti raccolti dalla DC e della popolazione residente. Imembri del comitato dovrebbero essere eletti direttamente dai con-gressi con sistema proporzionale, dopo un dibattito sui problemi re-gionali, e in parte minima cooptati per consentire una partecipazionediretta di personalità particolarmente qualificate sul piano tecnico orappresentativo. Giunta esecutiva e segreteria dovrebbero essere eletticon gli stessi criteri adottati per gli altri organi direttivi;

d) valorizzazione dei gruppi parlamentari e delle rappresentanze am-ministrative. Nel quadro di una rivalu tazione della funzione del parla-mento (rapporti tra legi slativo ed esecutivo, commissioni, istituti del-la program mazione, ecc.), e di un potenziamento delle autonomie lo-cali (istituzione delle Regioni, legge comunale e provin ciale, ecc.), oc-corre impostare il problema della valoriz zazione dei gruppi parlamen-tari, delle rappresentanze ammi nistrative, disciplinando meglio il lorolavoro e stabilendo migliori rapporti con il partito. Possono essere stu-diate forme di maggior partecipazione dei singoli parlamentari alla ela-borazione di disegni di legge di portata generale, controlli delle inizia-tive di legge riguardanti interessi particolaristici, rapporti periodici sul-l’attività delle commissioni parlamentari, aumentando la vitalità in-terna del gruppo parlamentare ed il suo apporto diretto alla elabora-zione della linea politica del partito; analogo discorso deve essere fattoper gli amministratori locali, dirigenti di enti pubblici, deputati regio-nali, ecc., che devono trovare nel partito occasioni sistematiche di con-sultazione (consulte, parteci pazione di diritto ad organi esecutivi, ecc.)per contribuire, con la loro esperienza, a determinare le posizioni delpartito e per meglio assecondarne le direttive politiche;

e) garanzie democratiche e amministrazione della giustizia interna.La esperienza di questi ultimi anni dimo stra che è estremamente ur-

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gente garantire, all’interno del partito, la certezza del diritto e le pos-sibilità di controllo, specialmente in materia organizzativa e di im-piego delle risorse finanziarie. Sembra opportuno rivedere per interol’impostazione centrale e quella periferica dei collegi dei Probiviri,precisando meglio le procedure per la loro com posizione (abolendo ilcriterio elettivo che ne fa espressione della maggioranza), i gradi digiurisdizione, la materia oggetto di sanzioni disciplinari, i tempi deiprocedimenti, allo scopo di favorire la rapidità del giudizio e la suaobiettività. La proposta di introdurre, se non altro speri mentalmente,la figura del Giudice di pace per risolvere i contrasti di minore im-portanza, riservando invece al collegio dei Probiviri le questioni dimaggiore rilievo, potrebbe essere considerata come un elemento disempli ficazione interessante anche al fine di distinguere la materiadelle infrazioni e rendere più severo e autorevole il giudizio sulle man-canze gravi. Maggiore rigore è necessario anche nella fissazione delleincompatibilità, senza possibilità di eccezione, e nel divieto per il cu-mulo delle cariche: a questo fine potrebbe essere stabilito il principiodel non rinnovo del mandato, negli enti pubblici non elettivi, per piùdi una volta consecutiva. Dovrebbe, infine, essere fissato statutaria-mente l’obbligo della formazione di ristrette commissioni pariteticheper la gestione organizzativa, a latere dei dirigenti del settore ad ognilivello, con la possi bilità di ricorso immediato agli organi superiori nelcaso di violazione delle norme stabilite; lo stesso obbligo dovrebbe es-sere fissato per le relazioni annuali, scritte, delle segreterie ammini-strative e per un giudizio di merito sulle stesse da parte dei revisori deiconti.

Una volta indicati chiaramente gli obiettivi cardine del disegno diriforma della struttura del partito, e dopo aver compiuto in rapportoad essi le scelte per determinare una netta inversione di tendenza, po-tranno essere affrontati anche altri problemi particolari (creazioni disezioni club nelle grandi città, esperimenti di sezioni d’ambiente, tra -sformazione dei compiti dei movimenti specializzati, forme di presen-za nei settori tecnici, culturali, professionali, ecc.) e potranno essereprecisati con più organicità, nei loro dettagli di tecnica organizzativa,i singoli atti riformatori. Anche qui, però, quello che conta maggior-mente è la visione generale del processo da avviare, la mobilitazionedelle energie disponibili per il suo sviluppo, la volontà politica di an-dare contro corrente senza arrestarsi di fronte agli interessi cristallizza-ti, alle strutture esistenti, ai rischi impli citi in ogni operazione di au-tentico rinnovamento.

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9. Nel paragrafo 2 si sono illustrati i motivi per cui il banco di pro-va dei partiti politici, in un sistema demo cratico moderno, divienesempre più quello della forma zione di una adeguata classe politica in-tendendo tale esigenza non tanto come estensione del controllo parti-tico del potere quanto come capacità di suscitare, anche in campi ester-ni all’azione politica diretta, occasioni di impe gno civile e di collabo-razione al servizio del pubblico interesse. Di qui discende la necessitàdi concepire la funzione del partito non chiusa in se stessa, e quindistac cata dal vivo della realtà del paese, ma costantemente aperta al-l’apporto creativo delle migliori energie personali, al rispetto dei diversiambiti di autonomia, all’acquisizione in termini di sintesi politica (nondi rappresentanza corpo rativa) quanto di positivo scaturisce dal vivodella ricerca culturale, scientifica, tecnica.

Ma tutto ciò non può svilupparsi, o quanto meno si riduce ad unapproccio strumentale, se il partito non assume come obiettivo dellasua ripresa, oltre alla revisione dei metodi interni e alla riforma dellesue strutture, l’obiettivo di arricchire la propria classe politica garan-tendo, insieme alla apertura verso i ceti nuovi che la società producecon il suo sviluppo e la sua crescita civile, una più ampia mobilità sulterreno delle proprie rappresentanze in Parlamento, nelle amministra-zioni, nelle sedi di governo. Il filtro del partito non può, non deve es-sere l’unico filtro attraverso il quale passa la selezione di una classe po-litica in una società pluralista; è chiaro che nemmeno la pura compe-tenza tecnica, o il peso della personalità, possono essere elementi suf-ficienti dal momento che la azione politica deve sempre risultare ordi-nata a precise idealità anche di ordine morale, ma è proprio su questoterreno che può manifestarsi concretamente, fuori dalle limitate visio-ni della stretta milizia di partito o dell’ingan nevole fascino tecnocrati-co, l’impegno pluralista della for mazione di una classe politica, che nel-l’aumentare costan temente il proprio prestigio consolida anche le isti-tuzioni.

Perché il partito non dovrebbe utilizzare, ad esempio, i collegi se-natoriali sicuri, che non espongono ad esasperate battaglie personali,per arricchire il Parlamento di uomini di prestigio dotati di particola-ri competenze tecniche?

Perché il partito non dovrebbe designare a funzioni di governo uo-mini particolarmente preparati a certi compiti, la riforma fiscale adesempio, soltanto perché non hanno fatto tre legislature o non sonomai stati sottosegretari?

Perché il partito non dovrebbe avvalersi dell’esperienza di un mini-stro che da troppo tempo esercita funzioni di governo, con i limiti che

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da tale lavoro continuo possono derivare, in posizioni preminenti incampo legislativo e di partito e perché, all’opposto, non dovrebbe esse-re favorita una maggiore mobilità nell’assunzione di responsabilità go -vernative che rappresentano un elemento essenziale della esperienza po-litica? Perché il partito non dovrebbe sforzarsi di dimostrare al paese lasua volontà di rinnovamento, la sua autentica apertura pluralista, au-mentando il tasso di ricambio, per ragioni di valore e non solo di età odi equilibrio, della propria classe politica investita di mandati elettivi?

Occorre vincere nel partito la mentalità dell’impegno politico co-me carriera irreversibile; occorre spezzare la tendenza alla spartizionespersonalizzata del potere in base alla quale l’adesione ad un partito, oad una corrente, è titolo sufficiente, senza alcuna valutazione delle ca-pacità individuali, per assumere determinate responsabilità. Nessunoignora le grandi difficoltà che si incontrano nel muoversi in questa di-rezione. È tempo tuttavia di prendere coscienza che parte della sfidu-cia, dello scetticismo, diffusi nel paese verso la democrazia e le sue isti-tuzioni nascono dalla constatazione che cambiano le formule politi-che, i programmi, gli obiettivi dell’azione pubblica, e gli uomini resta-no sempre quelli e anzi passano con una disinvoltura a volte eccessivada un impegno all’altro quasi a dimostrare che nulla, in sostanza, si in-tende modificare. Non si tratta, evidentemente, di cadere nel difettoopposto della sottovalutazione della esperienza, della continuità, dellaclasse politica, che è elemento prezioso e insostituibile del pro gressodemocratico, ma di collegare la salvaguardia di questi valori ad un co-raggioso processo di ricambio delle respon sabilità pubbliche dimi-nuendo, anche in questo campo, la frattura tra la società e le sue isti-tuzioni politiche.

Anche su questo terreno deve manifestarsi concreta mente, tantonello stabilire i suoi rapporti con il mondo esterno quanto nell’offrirereali opportunità di inserimento nella vita pubblica a strati sempre piùampi e qualificati di cittadini, la volontà dei partiti di rilanciare erafforzare la propria funzione. Ed è soprattutto un partito quale la De-mocrazia Cristiana, pluralista per vocazione e per dot trina, che devedare l’esempio rivalutando per tale via anche la natura morale, di ser-vizio disinteressato, dello stesso impegno politico.

Una visione complessiva dei problemi del rinnovamento del siste-ma dei partiti, nel quadro della riforma dello Stato, per realizzare inItalia una autentica democrazia politica – e dei compiti di iniziativa, diriforma, di aggiornamento, che spettano in questo ambito alla Demo-crazia Cristiana – può forse scoraggiare anche se ci si limita, come nel-la presente comunicazione, a una rapida sintesi. Ma per quanto possa

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apparire difficile, è solo affrontando con rigore morale e politico que-sti problemi che si possono scongiurare i pericoli della degenerazioneoligarchica e della crisi di auto rità delle istituzioni politiche rappre-sentative, adeguandole ai compiti nuovi che sono posti da una societàin trasformazione.

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Conferenza nazionale dell’emigrazione*

La Conferenza Nazionale degli italiani all’estero, organizzata per laprima volta da Granelli in qualità di Sottosegretario degli Affari Esteri edi presidente del Comitato Consultivo degli Italiani all’Estero, si svolse aRoma dal 24 febbraio all’1 marzo 1975 ed ebbe come titolo «Meno emi-grazione più integrazione». Alla Conferenza presero parte numerosi espo-nenti di forze politiche e sociali, di ordini religiosi e di enti, osservatori diquindici paesi (tra cui Patrick J. Hilary, commissario per gli Affari Socia-li della CEE e Roy Jackson, direttore generale aggiunto della FAO), oltre ven-ti enti internazionali e più di mille delegati in rappresentanza di quasi seimilioni di italiani all’estero. Anche il pontefice Paolo VI mandò il suo sa-luto alla Conferenza, alla quale furono presenti mons. Emanuele Clarizio,in qualità di osservatore della Santa Sede, e mons. Silvano Ridolfi, vice-presidente dell’Ufficio Centrale dell’Emigrazione Italiana. Dal 24 al 26febbraio si svolse il dibattito, suddiviso in quattro aree tematiche: «Causestrutturali dell’emigrazioni in Italia e loro superamento»; «Politica attivadel lavoro in campo interno e internazionale»; «I diritti del lavoratore mi-grante e gli strumenti multiculturali, comunitari e bilaterali e relativa tu-tela»; «Strumenti di partecipazione per una nuova politica dell’emigra-zione».

Tocca a me, in qualità di Presidente del Comitato Organizzatore,il dovere di ricordare il valore, unico nella nostra storia nazionale, diuna Conferenza che affronta al massimo livello il grande e irrisolto pro-blema dell’emigrazione italiana. L’intervento delle più alte cariche del-lo Stato, gli impegnativi discorsi del Presidente del Consiglio e del mi-nistro degli Esteri, la presenza di Autorità internazionali e di osserva-

* ASILS, FG, serie III, b. 2.

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tori di molti Paesi, conferiscono alla Conferenza Nazionale dell’Emi-grazione un rilievo evidente, ma tale rilievo diventa ancor più signifi-cativo se si pensa che per la prima volta ad oltre cento anni dall’unitàd’Italia, si trovano a confronto i rappresentanti diretti delle nostre col-lettività all’estero e gli esponenti di tutte le forze sociali, sindacali e po-litiche del Paese.

Il valore profondamente democratico di questo confronto non habisogno di particolari illustrazioni. L’Italia democratica si interroga confranchezza autocritica, con volontà operativa, con la partecipazione di-retta degli italiani che hanno pagato di più, sui problemi connessi alperdurare sia pure in forme attenuate di una emigrazione forzata che èstata, in periodi diversi, una costante dolorosa della nostra storia na-zionale. Un’altra Italia si è formata al di là delle nostre frontiere, spar-sa nelle varie parti del Mondo, e basterebbe questa constatazione pergiustificare, ora che non siamo più un Paese prevalentemente agricoloo artificiosamente protetto da un fossato di autarchia, un nostro serioesame di coscienza per rimediare ad una pesante eredità.

Abbiamo detto più volte, e lo ripetiamo anche in questa sede so-lenne, che la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione non è una occa-sione di studio, un incontro moralmente significativo, ma è soprattut-to una occasione politica per avviare con maggiore organicità che nelpassato una azione decisa, coraggiosa, a tutela dei nostri connazionalie dei loro diritti. Negli ultimi anni si è fatta strada, in Italia, la coscienzasempre più viva che la questione dell’emigrazione, dell’esodo obbliga-to di milioni di connazionali è una questione nazionale che coinvolgesia le strutture economiche e sociali del nostro Paese sia la nostra poli-tica internazionale. Questa stessa Conferenza è il frutto delle impor-tanti iniziative che l’hanno preceduta. Dalla proposta unitaria dellegrandi organizzazioni sindacali, nel 1960, alla pregevole indagine delCNEL, del 1970, alle autorevoli inchieste del Parlamento, siamo giuntiad una scadenza tenacemente perseguita negli ultimi anni che si pro-pone, con la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, di realizzare unanuova politica in un campo che può essere decisivo per il nostro stes-so avvenire. Questa svolta, questa decisione di porre all’ordine del gior-no del Paese i problemi della nostra emigrazione, premia in concretol’opera del Comitato Consultivo degli italiani all’Estero che ha contri-buito con le sue mozioni, con la difesa degli interessi di vita delle no-stre collettività, a far diventare i problemi dei nostri emigranti proble-mi non separabili dalla nostra politica interna ed internazionale. Lastampa ha sottolineato l’imponenza, la complessità organizzativa, ildifficile e contrastato realizzarsi della Conferenza Nazionale dell’Emi-

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grazione, ma credo di poter dire – per l’esperienza personalmente com-piuta in più di un anno di intensa preparazione – che il confronto deiprossimi giorni affonda le sue radici nelle appassionate discussioni fat-te, con migliaia di nostri connazionali, in Africa, in America Latina, inCanada, in Europa, proprio in preparazione di questo importante av-venimento. In quelle occasioni ci siamo scontrati con uno stato d’ani-mo di profondo disagio, con polemiche dure, con la denuncia di con-dizioni insopportabili, del resto comprensibili per una emigrazione cheha pagato duramente la rottura traumatica con l’insieme dei senti-menti di ammirazione per i progressi compiuti nelle varie parti delmondo, tra molte difficoltà e spesso soltanto con le proprie forze, dainostri connazionali. Essi hanno fornito un esempio di solidarietà chedovrà essere un monito per quanti, tra di noi, hanno avuto un destinopiù fortunato.

Ci ha colpito, soprattutto, la volontà della nostra emigrazione diuscire dall’isolamento, di vitalizzare i rapporti con l’Italia, di contri-buire direttamente alla soluzione dei propri problemi e allo sviluppocrescente del nostro Paese al suo interno e nelle sue relazioni interna-zionali. Bastano questi brevi cenni per distruggere il logoro «cliché» dicollettività italiane frustrate, deluse, bisognose solo di protezione e diassistenza. I nostri emigranti hanno conquistato, tra privazioni e diffi-coltà, una piena coscienza dei loro diritti, una maturità civile che me-rita il più grande rispetto, ed il modo polemico, fortemente critico, conil quale pongono le loro rivendicazioni non è tanto il frutto di una ge-nerica protesta quanto il segno di una volontà di contribuire, assiemea noi, a realizzare una nuova e più giusta società. Non corrisponde alvero l’immagine di collettività chiuse in se stesse, qualunquiste, so-stanzialmente nostalgiche pregiudizialmente contrapposte all’Italia de-mocratica di oggi. È l’isolamento e la mancanza di dialogo, la saltua-rietà dei rapporti che ha potuto accreditare una simile errata opinione.Il merito più importante della preparazione della Conferenza Nazio-nale dell’Emigrazione è stato, ci sembra, quello di aver contribuito asgretolare il muro della diffidenza reciproca, ad aprire anche nel con-trasto delle posizioni una fase nuova di dialogo, di ricerca, di collabo-razione, tra il mondo dell’emigrazione e la società italiana contempo-ranea.

Questo processo è all’inizio. Avrà nei prossimi giorni una prova digrande importanza. Sarà accompagnato nel futuro da residui di diffi-denza, da contraddizioni, da scontri, ma è compito di tutti noi, e am-bizione della Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, non disperdereed anzi rafforzare il patrimonio di una così importante riconciliazione.

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Il raggiungimento di questo obiettivo è facilitato, del resto, dalla pa-rallela presa di coscienza che negli ultimi tempi la società italiana hacompiuto, con uno sforzo lealmente autocritico, di fronte ai problemidella nostra emigrazione. Il fervore delle iniziative che ha accompa-gnato, in Italia, la preparazione della Conferenza Nazionale dell’Emi-grazione è una eloquente conferma di questa affermazione. Dal Parla-mento alle Regioni, dal CNEL alle grandi organizzazioni sindacali, dal-le associazioni ai partiti, dagli studiosi all’opinione pubblica, è via viaemersa la consapevolezza che di fronte alla emigrazione non basta ri-parare i torti compiuti, ma occorre soprattutto pensare in modo di-verso dal passato al nostro tipo di sviluppo, esercitare una più efficaceiniziativa nei rapporti bilaterali e multilaterali, rinnovare e potenziaregli strumenti della nostra presenza all’estero e creare organismi nuovidi partecipazione diretta e di contatto con i nostri connazionali sparsiper il mondo. Anche questo modo nuovo di guardare ai problemi del-l’emigrazione, con la volontà di risparmiare alle future generazioni ildramma subito da quelle precedenti, è già un risultato incoraggianteda attribuire al carattere aperto, schiettamente democratico, con ilquale si è preparata in Italia la Conferenza Nazionale dell’Emigrazio-ne. La difficile congiuntura che sconvolge l’economia mondiale, pernoi assai preoccupante, ha riproposto in modo severo problemi che at-tendono soluzioni di fondo, che pongono in luce il persistere di squi-libri all’interno dei vari Paesi, la preoccupante distanza tra Paesi ricchidi risorse e di capitali e Paesi dotati di manodopera inutilizzata, il ri-tardo nella realizzazione – sul piano internazionale e nell’ambito stes-so della Comunità Europea – di norme e istituti capaci di abbattere di-scriminazioni palesi ed occulte e di realizzare una effettiva parità so-ciale, economica e civile. Il forzato ritorno degli emigranti nei loro Pae-si di origine, da combattere congiunturalmente con una inversione ditendenza delle politiche economiche recessive, con la ferma difesa de-gli accordi e dei trattati in vigore, con misure di emergenza e di soste-gno predisposte dai governi nazionali, rappresenta un forte richiamoalla necessità di correggere le strutture che determinano il rientro di la-voratori che, in passato, hanno già conosciuto la amara esperienza del-l’emigrazione.

È questa l’ultima dimostrazione di quanto sia errata la teoria del-l’emigrazione come «valvola di sfogo». Ciascun Paese deve trarre la le-zione, ci sembra, che il raggiungimento del pieno impiego, l’utilizzorazionale delle proprie risorse a cominciare da quella insostituibile del-la manodopera, è essenziale e irrinunciabile anche in un processo dicrescente interdipendenza dell’economia mondiale. L’esistenza, in Eu-

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ropa, di quattro milioni di disoccupati dimostra al tempo stesso chenon si può pensare di costruire una comunità economica con una li-bera circolazione a senso unico, senza un deciso riequilibrio settorialee geografico, e che occorre realizzare una parità complessiva, dalle con-dizioni di lavoro all’integrazione, sociale, dalla scuola alla formazioneprofessionale, dal ricongiungimento delle famiglie all’esercizio dei di-ritti civili e democratici, se si vogliono risolvere i problemi di volta involta posti dall’espansione produttiva o dalla recessione economica.Paesi come l’Italia, che non vogliono chiudersi in una antistorica posi-zione autarchica e non rifiutano una mobilità che sia frutto di liberascelta, devono pertanto predisporre più adeguati strumenti di tutela al-l’estero per difendere efficacemente i propri connazionali dalle conse-guenze di perduranti discriminazioni per loro e per le loro famiglie.

Il riferimento all’insieme di questi problemi, necessariamente sche-matico, spiega perché il governo italiano – d’intesa con il comitato or-ganizzatore – ha impostato la Conferenza su quattro relazioni fonda-mentali e su comunicazioni che, nella diversità dei punti di vista, con-sentano di esaminare liberamente nel dibattito problemi concreti especifici senza perdere di vista una strategia complessiva. Non è miocompito anticipare quello che, con competenza e larghezza di argo-mentazione, diranno i vari relatori. Ritengo tuttavia doveroso sottoli-neare, in chiave politica, il filo conduttore che unisce i vari temi e chedovrebbe animare, in un confronto serrato e costruttivo, il nostro di-battito generale ed il lavoro di approfondimento che verrà compiutonelle diverse commissioni.

Nello sforzo di esprimere con parole chiare, semplici, l’obiettivocentrale della Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, che ci siamoproposti di far emergere sin dalla sua impostazione iniziale, dirò che lanostra ambizione può essere riassunta nel seguente traguardo: menoemigrazione, più integrazione. È un traguardo impegnativo, che ri-chiede una politica concreta e non solo dichiarazioni d’intenzione, mache vale anche per altri Paesi graditi osservatori di questa Conferenza,che sia pure in forme diverse dall’Italia hanno il problema di usare leproprie risorse umane, oltre che le proprie materie prime, per uno svi-luppo economico nazionale.

Meno emigrazione significa, per l’Italia, ripresa vigorosa di unaprogrammazione economica che tenda ad eliminare, soprattutto nelMezzogiorno, le cause strutturali di una disoccupazione che è fonte dispopolamento e di emigrazione forzata. Sappiamo bene che i progres-si realizzati nel dopoguerra, che ci hanno trasformato in un Paese in-dustriale, hanno impedito il ripetersi dei drammatici esodi del primo

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novecento. Il fenomeno dell’emigrazione, tuttavia, perdura nonostan-te la nostra impegnata partecipazione alla costruzione di una Comu-nità Europea il cui compito era e rimane quello di giungere ad un rie-quilibrio nell’uso delle risorse di ciascun Paese. Per questo meno emi-grazione significa oggi, nel nostro Paese, riduzione dei consumi priva-ti a favore dei consumi pubblici, lotta agli sprechi e alle posizioni direndita per un forte rilancio degli investimenti produttivi, nuovo rap-porto tra industria, agricoltura e servizi, impegno di austerità per rag-giungere il pieno impiego e per creare nelle zone di emigrazione, conun utile raccordo con le possibilità ora offerte dal Fondo Regionale Eu-ropeo, posti aggiuntivi di lavoro per quei connazionali che fossero co-stretti al rientro o decidessero liberamente di tornare in patria. Per ri-durre la forza lavoro che esportiamo e aumentare le nostre possibilitàdi sviluppo dovrà trovare soluzione il problema delle rimesse che, ol-tre ad essere garantite a tutela del risparmio dei nostri emigranti, van-no impiegate non solo come mezzo di riequilibrio dei nostri conti conl’estero, ma soprattutto come strumento di una politica economica ri-volta ad eliminare le cause dell’espatrio obbligato e a sostenere il rein-serimento dei connazionali che rientrano in Italia.

Meno emigrazione è certamente una prospettiva di medio e lungoperiodo. Nel frattempo l’Italia continuerà ad avere – in Europa ed inaltri parti del mondo – un consistente numero di lavoratori migrantiche, insieme alle loro famiglie, porteranno il loro apprezzato contri-buto allo sviluppo di altri Paesi. Di qui il dovere di puntare con mez-zi adeguati ad una effettiva integrazione. L’esperienza degli ultimi an-ni dimostra, anche in Europa dove la conquista della normativa sullalibera circolazione ha positivamente eliminato la nozione di lavorato-re straniero, che la massa della popolazione migrante rimane sostan-zialmente emarginata. La parità, raggiunta nelle condizioni retributi-ve e di lavoro, deve essere estesa agli alloggi, al ricongiungimento del-le famiglie, ad una scuola aperta che consenta ai figli degli emigrantidi inserirsi nell’ordinamento scolastico dei Paesi ospitanti senza perde-re la lingua e la cultura di origine, alla tutela della donna che sente mag-giormente il peso della propria emarginazione, alla partecipazione pie-na dei lavoratori migranti alla vita ed alle responsabilità direttive deisindacati nazionali, all’esercizio dei più elementari diritti civili e poli-tici soprattutto per quanto riguarda le amministrazioni locali.

Per questo meritano il pieno appoggio dell’Italia sia il programmadi azione sociale della Comunità, predisposto dal vice-presidente Hi-lary che ci onora con la sua presenza, e cioè un programma che si muo-ve sia pure con mezzi limitati in questa direzione, sia i progetti di «Sta-

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tuto dei diritti dei lavoratori emigranti», presentati al Parlamento eu-ropeo, che per risultare efficaci devono essere accompagnati da profon-de revisioni delle singole legislazioni nazionali. Un Paese europeista co-me noi riteniamo di dover essere non può separare gli obiettivi dell’u-nità politica del continente, dell’elezione a suffragio popolare del Par-lamento europeo, dall’abbattimento degli ostacoli che riducono di fat-to i lavoratori migranti privati dall’esercizio dei diritti civili e demo-cratici a cittadini di seconda categoria. Siamo quindi favorevoli, in se-de bilaterale e multilaterale, ad ogni passo concreto che consenta sullabase del principio della reciprocità a favorire non il doppio voto, diffi-cilmente configurabile, ma la partecipazione a condizioni da definiredel cittadino comunitario alle elezioni amministrative. Sarebbe unanacronismo inaccettabile quello di lasciare ai margini, nel processosociale e politico di costruzione dell’Europa del domani, milioni di la-voratori migranti di varia nazionalità che recano un contributo inso-stituibile allo sviluppo economico e produttivo della Comunità.

Il capitolo dei diritti complessivi dei lavoratori migranti si pone, siapure in forme diverse, anche nei Paesi extra-comunitari e d’oltre ocea-no, dove i problemi della doppia cittadinanza, della scuola e della cul-tura, del cumulo dei trattamenti di sicurezza sociale, dell’integrazione apieno titolo in società in cui i nostri connazionali tendono a stabiliz-zarsi, hanno una rilevante importanza. Particolare attenzione, in questocontesto, deve essere riservata alla precaria situazione dei lavoratori mi-granti stagionali e frontalieri che, come dimostra il complesso caso deirapporti con la Svizzera, non possono avvalersi nella difesa dei loro di-ritti della normativa comunitaria o di adeguate convenzioni bilateraliche incontrano frequentemente rilevanti difficoltà negoziali. Non pos-sono essere dimenticati i problemi di quei connazionali che, soprattut-to in Africa, rientrano in Italia come profughi ed hanno diritto ad undignitoso inserimento, oppure, se vogliono restare, devono essere aiu-tati ad inserirsi attivamente negli Stati di nuova indipendenza che esco-no tra molte difficoltà da lunghi periodi di subordinazione coloniale.Gli strumenti di intervento sono, in questi casi, più complessi perchébisogna sia aggiornare e realizzare accordi bilaterali ispirati a principi in-novatori ed aperti, che richiedono un non sempre facile incontro di vo-lontà degli Stati contraenti, sia perché occorre aumentare le possibilitàdi intervento e di mediazione delle organizzazioni internazionali, dalB.I.T. all’ONU, che devono intensificare la loro benemerita ma spesso im-potente opera in difesa dei lavoratori migranti e dei loro diritti.

È quindi evidente che una «strategia» di tipo nuovo nei confrontidi un fenomeno dell’emigrazione legato, ormai, al processo di interdi-

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pendenza dell’economia mondiale e alla logica inarrestabile della mo-bilità, richiede una sempre più specifica iniziativa della politica estera.Ma ogni politica che tenda a raggiungere risultati concreti solleva, sulpiano interno ed internazionale, il problema degli strumenti necessari,dei mezzi da impiegare, delle forze da mobilitare allo scopo di superarele prevedibili difficoltà. È con l’occhio rivolto ai compiti nuovi che l’I-talia, Paese che per le esperienze storiche compiute ed in atto può assu-mere una funzione di «leadership» nel campo di una moderna e demo-cratica politica dell’emigrazione, deve affrontare i problemi dell’ade-guamento di una insufficiente e mal distribuita rete consolare, di mag-giori stanziamenti in favore della scuola all’estero e di tutte le attivitàparascolastiche e di assistenza necessarie per il raccordo con la scuola de-gli altri Paesi, di una revisione della legislazione nazionale e di un ag-giornamento di accordi e di trattati, di una cooperazione economica esociale che non trascuri a livello internazionale il fattore umano.

Anche i critici più severi hanno riconosciuto che, negli ultimi tem-pi, sì è avviata una inversione di tendenza, di cui la realizzazione dellastessa Conferenza Nazionale dell’Emigrazione è un segno eloquente, siè posto mano a provvedimenti significativi come la già ricordata costi-tuzione di un Comitato Interministeriale per l’Emigrazione, il rad-doppio degli stanziamenti di bilancio per la tutela dei nostri conna-zionali, l’impegno a varare al più presto in Parlamento lo stato giuri-dico del personale docente e non docente impiegato all’estero e ad as-sicurare – secondo una legge già in vigore – un trattamento economi-co almeno pari a quello riservato ad analogo personale del Paese ospi-tante, la spinta sempre maggiore ad una più incisiva politica europea,la predisposizione da parte del Ministero degli Esteri di organici prov-vedimenti per la revisione delle leggi sulla cittadinanza e sui profughiche, dopo il concerto in atto con gli altri Ministeri competenti, po-tranno affrontare l’iter parlamentare. Ma per procedere su questa stra-da, per affrontare i problemi di fondo cui abbiamo accennato, occor-re un grande sforzo di solidarietà nazionale e di partecipazione in Ita-lia e all’estero.

Questa Conferenza, ispirata a larghi criteri di partecipazione, po-trà dare un grande contributo se prevarranno, come io penso, lo spiri-to costruttivo, e la disponibilità ad una onesta autocritica. La sua im-portanza non può e non deve tuttavia esaurirsi in queste giornate diconfronto. Si tratta, ora, di istituzionalizzare il processo di partecipa-zione che la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione ha fortemente fa-vorito. Per questo il Governo si è impegnato, di fronte al Parlamento,alla discussione delle varie proposte di legge presentate per la costitu-

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zione dei Comitati Consolari di designazione democratica ed è dispo-nibile, sulla base delle indicazioni che scaturiranno dal dibattito, aduna riforma organica dell’attuale Comitato Consultivo degli italianiall’estero per allargarne la rappresentatività, precisarne poteri, favorir-ne il collegamento operativo con il Parlamento, il Governo, le Regio-ni. Ciò che conta è stabilizzare nel tempo, rendere sempre più effica-ce, il collegamento tra la società italiana nel suo insieme ed il mondodella nostra emigrazione. Solo uno sforzo solidale, pur nella diversitàdelle funzioni, può consentirne una graduale ma decisa soluzione deiproblemi sollevati. Non mancano ostacoli rilevanti da superare. Il Pre-sidente Moro, in un recente discorso alle Camere, ha ricordato con unaforte tensione morale, che nei momenti difficili Governo e popolo, tra-mite il Parlamento e le forze sociali e politiche, devono ritrovare neldialogo una ragione di impegno comune. Questo significativo appel-lo vale, a maggior ragione, per ricondurre a unità quelle due Italie chesi sono costruite nel travaglio di difficili periodi storici senza disperde-re il legame delle comuni origini, il valore delle proprie tradizioni, lavolontà di un impegno all’emancipazione e al progresso. Il senso di unafeconda solidarietà ha sempre operato, del resto, nei momenti più de-cisivi della nostra storia nazionale. Nel Risorgimento, nella Resistenzaantifascista, nella conquista e nella difesa della libertà, nella volontà direalizzare ulteriori progressi abbiamo registrato, e registriamo, unaspinta positiva a ricercare ciò che unisce nel rispetto di quanto, sul pia-no ideale e politico, può dividere in una corretta e vitale democrazia.

La Conferenza Nazionale dell’emigrazione è una occasione prezio-sa per rinsaldare una solidarietà effettiva con quanti hanno pagato conlacerazioni, isolamento, frustrazioni, un’unità politica che deve anco-ra completarsi sul piano di una effettiva unità sociale ed economica aldi qua e al di là delle nostre frontiere. Il campo è vastissimo. Associa-zioni di emigranti e sindacati, partiti e forze sociali di diversa estrazio-ne, Parlamento e Regioni, Governo e Pubblica Amministrazione, pos-sono e debbono recare nella diversità dei loro compiti un contributodecisivo soprattutto in quella prova dei fatti che incomincerà dopo laConferenza Nazionale dell’Emigrazione. La fatica che è costata l’orga-nizzazione, politicamente impegnata, di questo nostro incontro, gliinevitabili strascichi polemici, le difficoltà superate grazie alla collabo-razione attiva del Comitato Organizzatore che ho l’obbligo di ringra-ziare con un vivo sentimento di gratitudine, saranno largamente ripa-gate se sapremo insieme sviluppare al servizio dei connazionali sparsinelle varie parti del mondo una nuova e organica politica a nome ditutta intera la società italiana.

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La politica estera dell’Italia*

È difficile stabilire la data di questo intervento di Granelli e l’occasio-ne in cui esso è stato pronunciato. Si può affermare, presumibilmente, chesia databile tra il 1973 e il 1974 e che abbia avuto luogo durante un con-vegno sulla politica estera. Il tema della relazione, che Granelli tenne inqualità di Sottosegretario agli Esteri, era la politica estera dell’Italia. Gra-nelli non si espresse a favore delle «pur generose utopie di neutralismo o diterzaforzismo equidistante» che tra la fine degli anni Quaranta e Cin-quanta erano state oggetto di vivaci dibattiti all’interno della Democraziacristiana. La questione, a suo giudizio, era quella dell’evoluzione comples-siva delle relazioni internazionali e non di un vago e velleitario neutrali-smo. Certamente non sfuggiva a Granelli il travaglio ideologico di alcunicattolici e la loro sincera vocazione pacifista che risultò, però, disarmata difronte alla durezza delle relazioni fra gli stati, alla realtà del conflitto fragli interessi, al peso della contrapposizione di ideologie e sistemi fra loroprofondamente diversi, alla coercizione di una legge della potenza che spes-so prevale di fatto sulla difesa del diritto. Non sfuggiva, altresì, a Granel-li il rischio, per i cattolici investiti di cariche pubbliche, di farsi assorbireda un eccesso di realismo politico e da una malintesa ragion di stato.

Non svolgerò il tema affidatomi con un’esposizione analitica delleazioni concrete operate dal nostro paese nei suoi rapporti internazio-nali, ma piuttosto con una riflessione ad alta voce sui temi più genera-li dell’equilibrio internazionale. Sono infatti convinto che sia necessa-rio guardare al di là della realtà contingente, e dei singoli atti che ca-ratterizzano la politica estera dei vari popoli, proprio perché ritengo or-mai superato il tempo in cui la politica estera era dominio esclusivo dei

* ASILS, FG, serie VIII, 2, b. 25.

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governi e delle diplomazie, mentre sono invece attualmente protago-nisti attivi della politica estera i popoli, le nazioni emergenti e tutte lemasse giovanili e lavoratrici dei nostri paesi occidentali che si sonoscrollate di dosso un lungo passato di provincialismo. Parlo di prota-gonisti attivi in termini di coscienza, di consapevolezza e, in qualchecaso, anche di pressione effettiva, sulla politica dei governi, il che si-gnifica che gli spazi di democrazia e di libertà che vi sono all’internodi un paese si riflettono anche nella sua politica estera, così come vi siriflettono, in negativo, le involuzioni di tipo autoritario o le situazio-ni di precarietà e di instabilità.

Per quanto riguarda il ruolo dell’Italia nella relazioni internaziona-li, dobbiamo realisticamente tener presente che l’Italia è un paese dimedia grandezza che non può aspirare ad un ruolo di primo piano nel-l’equilibrio mondiale. Tuttavia la politica delle grandi potenze tende aridurre ulteriormente lo spazio di iniziativa delle piccole e medie po-tenze, subordinandole ai loro interessi con egemonie di natura politi-ca, ideologica od economica, finendo praticamente col non riconosce-re il diritto dei popoli e degli stati ad agire come soggetti dell’ordina-mento internazionale.

Pur senza aspirazioni o pretese megalomane, un paese come l’Ita-lia, con il suo equilibrio democratico, con la sua dimensione spaziale ela sua collocazione regionale, deve anzitutto aver coscienza che la dire-zione entro la quale può sviluppare la sua politica estera è quella delladistensione e della pace, questa direzione è anche una condizione pre-liminare, perché solo con una politica di distensione e di pace, di ab-bandono dello scontro o della «confrontation» come dicono gli ame-ricani, è possibile per i paesi di media e piccola grandezza emergere co-me soggetti attivi delle relazioni internazionali. Gli anni della guerrafredda, della spaccatura del mondo in «blocchi contrapposti», sono sta-ti gli anni in cui erano nulle o ridotte a poco le possibilità di iniziativaautonoma sul piano internazionale per i paesi minori. Perciò l’Italia èfortemente interessata al superamento della contrapposizione dei bloc-chi, al dinamismo, al dialogo, alla pluralità nell’ordinamento interna-zionale.

Non dobbiamo tuttavia semplicisticamente illuderci che il passag-gio dalla guerra fredda alla distensione, o addirittura all’intesa tra StatiUniti e Unione Sovietica, e più recentemente anche tra Stati Uniti e Ci-na, rappresenti una conquista irreversibile della coscienza dei popoli,una realizzazione autentica dell’aspirazione alla convivenza pacifica nel-l’ordinamento internazionale. In realtà il passaggio dalla guerra freddaalla cosiddetta «coesistenza pacifica» è stato determinato dalla consa-

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pevolezza delle grandi potenze che il deterrente rappresentato dalle ar-mi nucleari era praticamente inservibile, perché se si fosse dovuto ri-correre a queste armi per distruggere l’avversario, sarebbe inevitabil-mente stato distrutto anche il paese che vi faceva ricorso. Paradossal-mente, il progresso tecnologico volto alla ricerca di strumenti di di-struzione sempre più perfezionati, e il crescente immobilizzo di risorseeconomiche enormi in armamenti inutilizzabili, hanno introdotto unelemento di debolezza nella corsa al riarmo, alla politica del deterren-te, all’equilibrio del terrore, determinando una situazione di minor pe-ricolo, un clima di distensione, una ricerca di intese sui problemi aper-ti, certamente preferibile rispetto alla situazione precedente.

Però, il fatto che la distensione abbia avuto origine da esigenze pro-prie delle grandi potenze, e non dalla volontà di costruire un equilibriomondiale di tipo diverso, non ha consentito che fosse rimossa la cau-sa che era all’origine della guerra fredda, la spartizione del mondo inzone di influenza tracciata a Yalta dalle grandi potenze che avevano vin-to il nazismo, spartizione che ha rappresentato la mortificazione dellaautonomia dei singoli popoli nel ricercare una convivenza pacifica an-che tra sistemi politici ed economici diversi. La situazione nella qualeci troviamo ora a vivere è certamente meno carica di rischi e di pericolidi quanto non fosse durante il periodo della guerra fredda, ma è unasituazione immobilistica dalla quale non emerge un equilibrio mon-diale diverso da quello tracciato a Yalta e cristallizzatosi nel periodo del-la guerra fredda, e soprattutto non emerge quel mondo diverso, basa-to sulla giustizia, sul diritto, sulla diversità, sul primato delle forze po-polari rispetto ai grandi interessi economici, che si era cominciato adintravedere quando si erano trovati al vertice delle due superpotenzeKennedy e Krusciov.

I due statisti avevano infatti compreso che il passaggio dalla guer-ra fredda alla coesistenza non poteva semplicemente consistere in unacristallizzazione pacifica dello status quo, perché rimaneva aperto tut-to il grande problema del dislivello di presenza attiva nel mondo trapaesi industrializzati anche a regime ideologico, sociale e politico di-verso, e paesi del Terzo Mondo che stanno faticosamente uscendo dal-la lunga dipendenza coloniale e stanno conquistandosi con le loro lot-te, i loro sacrifici, le loro sofferenze, quel diritto a partecipare in modoautonomo e indipendente alla vita nell’ordinamento internazionale.

In questo contesto, l’Italia, pur consapevole dei suoi limiti – comeabbiamo già detto – deve contribuire con ogni iniziativa a consolidarela distensione, a respingere ogni tentazione di radicalizzazione e di con-trasto, a far sì che la distensione sia non il punto finale dell’equilibrio

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mondiale, ma il punto di partenza, la condizione, per superare gli equi-libri di potenza stabiliti a Yalta alla più recente contrapposizione tramondo industrializzato e mondo in via di sviluppo. La coscienza po-polare e antifascista del nostro paese si è in effetti espressa con coeren-za con la adozione del trattato di non proliferazione nucleare, cioè conuna scelta precisa di rinuncia a questo genere di armi, e con l’intensolavoro di preparazione della conferenza sulla sicurezza in Europa percreare un clima di fiducia e di rinuncia all’uso della forza in Europa.Credo sia importante ricordare anche la proposta ufficiale fatta dal-l’allora ministro degli esteri, on. Moro, di far seguire alla Conferenzasulla sicurezza europea (che dovrebbe concludersi quest’anno, garan-tendo al nostro continente rapporti migliorati fra Est e Ovest) unaconferenza sulla sicurezza nel Mediterraneo. Una conferenza comequella proposta si inserisce come contributo originale dell’Italia in unpiù ampio processo di verifica sulla reale consistenza e solidità della po-litica di distensione.

Nella nostra concezione, infatti, la distensione non può essere di-sgiunta da una politica attiva per por fine ai conflitti locali. Nella logi-ca cinica delle grandi potenze, invece, si evita la guerra nucleare perchésarebbe un disastro, ma si tengono aperti focolai di guerra, che gene-rano dolori e orrori per le popolazioni investite dal dramma e che tut-tavia sono del tutto privi della capacità e della possibilità di risolvere iproblemi che li hanno provocati. La tragedia del Vietnam è forse la piùevidente dimostrazione che non esiste una soluzione militare con armiconvenzionali neppure per i problemi locali e che il gioco spietato del-le grandi potenze di alimentare la tensione sia pure in zone definite delnostro pianeta contrasta con l’obiettivo vero di una pace mondiale chepuò essere ottenuto solo attraverso il negoziato politico.

Credo che le nazioni di media e piccola grandezza debbano dedi-care una più forte iniziativa al reale processo di distensione, iniziativache non è incompatibile col rapporto preferenziale di amicizia versol’una o l’altra delle superpotenze, o addirittura con un rapporto di al-leanza militare. Tanto per essere espliciti, possiamo dire che sia il Viet-nam che il Medio Oriente sono al di fuori dell’area geografica di com-petenza sia della NATO che del Patto di Varsavia. Ciò non significa peròche questi problemi siano indifferenti per un paese che appartiene al-l’uno o all’altro di questi patti militari difensivi, o che sia vietato aduno di questi paesi di assumere una iniziativa politica in favore dellapace. Naturalmente, sulla mancanza di iniziativa in politica estera, pe-sa spesso il condizionamento della politica interna. Ricordo ad esem-pio che quando l’on. Moro, dopo lo scoppio della crisi petrolifera,

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parlò al Senato della Repubblica sulla questione palestinese, chieden-do esplicitamente il ritiro degli israeliani dai territori occupati duran-te la «guerra dei sette giorni», una presa di posizione così esplicita par-ve colorata di opportunismo, a causa del disagio che la crisi petrolife-ra provocava nella nostra come nelle altre economie occidentali. Inrealtà quella posizione di politica estera era già da tempo stata elabo-rata anche attraverso i canali diplomatici, ma era in effetti rimasta con-gelata per l’opposizione ad essa di alcuni partiti necessari all’equilibriogovernativo (socialdemocratici e repubblicani, e frange non trascura-bili di socialisti e democristiani) orientati verso una difesa acritica del-lo Stato d’Israele e della sua politica estera.

Il fallimento della politica del passo dopo passo di Kissinger di-mostra che l’abilità diplomatica incontra dei limiti obiettivi: se nell’a-rea medio-orientale non si riconoscono i diritti anche politici del po-polo palestinese, se non riesce ad eliminare quella grave violazione delprincipio di politica internazionale che nessuno stato può acquisire ter-ritori mediante la forza, cioè facendo discendere dalla forza il propriodiritto, se non si costruiscono dei rapporti di collaborazione tra tutti ipopoli di quella regione, che vadano al di là della garanzia internazio-nale delle frontiere, la ripresa del conflitto militare aperto sarà inevita-bile. L’Italia ha espresso in questi termini il suo giudizio sul problemamedio-orientale, ottenendo nel Parlamento una convergenza su tale at-teggiamento da parte della stessa opposizione di sinistra. Ma la dichia-razione di intenzioni non è sufficiente per dare una soluzione stabilealle relazioni fra i paesi medio-orientali, e deve essere accompagnata dauna iniziativa politica coerente. In realtà l’Italia, e tutta l’Europa occi-dentale, hanno la responsabilità storica di essersi lasciate sfuggire unaoccasione così significativa come quella di essere protagoniste di unreale sforzo di pace in una zona geograficamente assai vicina, legata daantichi e recenti rapporti economici e culturali.

Le notizie drammatiche che in questi giorni arrivano dal Sud-Estasiatico sono una conferma ulteriore di quanto sia illusoria la politicadel cessate il fuoco, dell’armistizio messo insieme in qualche modo pertacitare la coscienza, del congelamento della guerra guerreggiata, sen-za eliminare le cause che sono alla base del contrasto fra i popoli in con-flitto. La grande stampa oggi lamenta la violazione degli accordi di Pa-rigi, ma non ricorda che tale violazione è iniziata il giorno dopo cheerano stati siglati, quando da parte sudvietnamita non si è dato corsoagli impegni presi in tema di liberazione dei prigionieri politici, di li-bertà per la terza forza neutralista di esprimersi politicamente, di avviodi un processo di consultazione democratica del paese. Anche se larghi

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strati di cittadini, in Europa e certamente anche in Italia, erano favo-revoli ad una iniziativa politica più attiva dei loro governi, sia nei con-fronti della potenza americana, sia nei confronti dei popoli diretta-mente protagonisti del conflitto, per far cessare il massacro e intavola-re vere trattative di pace, i governi non sono mai andati al di là di pre-se di posizione abbastanza generiche, salvo forse – a onor del vero – untentativo di mediazione italiano nei primi anni del conflitto.

Nel quadro dei conflitti locali, intesi come episodi di violenza ge-neralizzata in un’area geografica circoscritta, possiamo collocare anchegli attacchi alla libertà e all’indipendenza dei popoli attuati mediante«golpe» militari, il più impressionante dei quali è certamente quello av-venuto in Cile. Senza trionfalismo, ma con la consapevolezza di averconvinto anche i titubanti della validità politica di una certa scelta,possiamo dire che l’Italia è l’unico paese europeo che non ha ricono-sciuto il regime di Pinochet, rifiutando la concezione ipocrita elabora-ta da tempo per giustificare le esigenze della «real-politik» secondo cuile relazioni internazionali si stabiliscono tra gli stati e non fra i regimiche sono di volta in volta al potere.

Dobbiamo a questo punto ammettere che la difficoltà per i paesidi media e piccola grandezza di proporre una iniziativa autonoma nelcampo delle relazioni internazionali è indipendente dalla collocazioneinternazionale nell’uno, o nell’altro blocco. In effetti anche i paesi checostruiscono il socialismo secondo una via nazionale o secondo mo-delli importati non hanno, rispetto alla politica di potenza dell’Unio-ne Sovietica, più spazio di iniziativa di quanta non ne abbiano paesimedi o piccoli collocati nell’area occidentale ad egemonia americana.Gli stessi partiti comunisti occidentali restano a volte imbarazzati dal-la spregiudicatezza di certi appoggi o di certe alleanze tattiche dell’U-nione Sovietica (si pensi solo alla diversità dei regimi politici che com-pongono il mondo arabo), mentre d’altra parte la posizione di «non al-lineati» non è di per sé una garanzia sufficiente di autonomia e di ini-ziativa nelle relazioni internazionali. Ricordo che proprio nel vivo del-le polemiche per la firma del Patto atlantico, si sosteneva che solo dauna posizione di neutralità, di non allineamento, sarebbe stata possi-bile per il nostro paese una iniziativa autonoma nell’ordinamento in-ternazionale. La realtà storica ha poi dimostrato che anche i paesi nonallineati hanno avuto scarsa possibilità di influenzare l’equilibrio mon-diale verso la distensione, anche se sono rimasti su posizioni rispetta-bili, potenzialmente suscettibili di ulteriori evoluzioni.

A partire dall’autunno del ’73 un cambiamento rivoluzionario ètuttavia avvenuto nelle relazioni internazionali, per effetto della presa

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di coscienza delle nazioni del Terzo e del quarto mondo della loro im-portanza strategica in rapporto allo sviluppo dei paesi industrializzati.Molta parte dell’opinione pubblica, anche nel nostro paese, non hacompreso la portata della lezione derivante dalla crisi petrolifera. Nonsi tratta, infatti, di un semplice atto di ritorsione o di un deterrente perrisolvere in un certo modo la questione medio-orientale. La crisi pe-trolifera ha sancito la fine del periodo delle materie prime a basso prez-zo, o comunque a prezzo imposto dai paesi consumatori, sul quale ipaesi industrializzati hanno fondato il loro sviluppo. L’uso che i paesidell’OPEC hanno fatto dell’arma petrolifera ha mostrato la vulnerabi-lità politica e soprattutto finanziaria dei paesi dell’occidente, ha squi-librato le bilance dei pagamenti, ha modificato i flussi finanziari, ha ac-celerato l’inflazione mondiale. Quello che è avvenuto per il petrolio,potrà avvenire per il rame, il piombo, lo stagno, per le monoculture icui prezzi di vendita sono sempre stati fissati dai paesi consumatori. Laspaccatura dei mondo in due parti, una costretta a vendere le propriematerie prime, anziché usarle come strumento della propria emanci-pazione e del proprio sviluppo, l’altra che ha costruito la propria pro-sperità sullo sfruttamento coloniale o neocoloniale della prima, nonsarà più riproponibile negli stessi termini. Certo sarebbe ingenuo pen-sare che l’uso di queste risorse da parte dei paesi produttori di petroliosia tutto finalizzato al benessere dei popoli: è probabile anzi che gliscompensi determinati nei mercati finanziari tradizionali finiscano peralcuni anni, forse per decenni addirittura, a danneggiare sia i paesi in-dustrializzati sia i paesi del quarto mondo che non dispongono di ri-sorse petrolifere e pagano ancor più duramente l’aumento dei prezzidelle materie prime.

È tuttavia probabile che non si possa più tornare ad un rapportoeconomico di tipo neocolonialista, o addirittura ad una esportazionedel modello di sviluppo e del tipo di vita che ne consegue. Quest’ulti-mo problema riguarda più la politica interna di ogni stato che non lapolitica internazionale, ma non c’è dubbio che 1’esaltazione del mitodell’espansione massima del prodotto nazionale lordo (sul quale si so-no sempre fondate le graduatorie e i confronti internazionali), il con-sumismo effimero, superficiale, distruttore di risorse, che la civiltà oc-cidentale ha propagandato con la pretesa di essere una civiltà superio-re, deve fare i conti con altre realtà che ora stanno faticosamente pren-dendo coscienza della loro identità culturale e storica, dei loro valoripeculiari e irrinunciabili.

La distensione allora non significa soltanto chiudere i conflitti lo-cali, riconoscere e garantire l’indipendenza dei popoli, ma significa an-

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che abbandonare il mito tracotante che «la civiltà» è solo quella dei pae-si industrialmente progrediti e ammettere che la civiltà del mondo èpluralistica, perché ogni popolo, con la sua cultura, la sua storia, il suomodo di vivere e di sfruttare le risorse naturali, possa contribuire allapace nella cooperazione internazionale.

La pace in senso attivo, che è ben diversa dall’assenza di conflittideterminata dal terrore di una catastrofe nucleare, si fonda dunque es-senzialmente sulla cooperazione internazionale. Nella storia dell’Italiademocratica possiamo dire che vi è stato un periodo in cui questa con-cezione dei rapporti internazionali è stata portata avanti con lucida de-terminazione: mi riferisco all’approccio di Enrico Mattei con i paesipetroliferi dal Terzo mondo. Al di là dei difetti del personaggio, checerto esistono, posso dire per esperienza personale di contatti avuti neipaesi emergenti che l’immagine di Mattei è legata ad un modo nuovodi concepire i rapporti tra paesi industrializzati e paesi produttori dimaterie prime, il modo nuovo di «sfruttare insieme» le risorse, e di pa-gare le risorse stesse con tecnologie, con servizi, cioè con strumenti checonsentissero l’uscita dalla subordinazione e la creazione di un model-lo autonomo di sviluppo.

Dopo la morte di Mattei anche l’Italia è rientrata nei ranghi del-l’apparentemente più comodo sistema mercantilista, comprando pe-trolio a basso costo invece di portare avanti la cooperazione alla paricon i paesi produttori, e solo con lo scoppio della crisi petrolifera si èresa conto dell’errore commesso. Ma un’altra occasione storica è stataperduta dall’Italia e dall’Europa dei nove nel suo complesso, quandoha cercato di abolire le barriere doganali al suo interno e ha innalzatoal suo esterno un muro di protezionismo, soprattutto grave per quan-to riguarda i prodotti alimentari, le materie prime e i manufatti pro-venienti dai paesi del Terzo mondo.

La pace fondata sulla cooperazione significa dare ai paesi detento-ri di materie prime la possibilità di svilupparsi autonomamente, e nonsotto la pressione di un neocolonialismo di ritorno, quale è ad esem-pio quello dei prestiti con interesse, o dei prestiti condizionati all’ac-quisto di beni strumentali nel paese che fornisce i prestiti. Questi pre-stiti, infatti, come ha dimostrato l’organizzazione delle Nazioni Unitespecificamente rivolta allo sviluppo dei paesi arretrati (UNCTAD), diffi-cilmente creano progresso, più spesso anzi aumentano l’indebitamen-to e l’impoverimento. I paesi arretrati hanno bisogno soprattutto diprezzi equi per i loro prodotti e di cooperazione tecnica e organizzati-va per potersi sviluppare secondo le loro caratteristiche originali. Cre-do che l’Italia, e la stessa Europa, potrebbero svolgere un ruolo di que-

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sto genere, utilizzando lo spazio economico che la distensione offre periniziative vere di cooperazione internazionale, non per una semplicecorsa all’accaparramento delle commesse dei paesi arabi, cui stiamo in-vece assistendo. Certo bisogna immaginare un’Europa che sappia farda ponte verso il Terzo mondo, e non un’Europa che sia uno dei cin-que poli nei quali la dottrina di Kissinger pensa di trasformare il bipo-larismo attuale.

Quando parlo di un’Europa che voglia e possa acquisire una mag-giore indipendenza dalle grandi potenze, per portare avanti una poli-tica di cooperazione internazionale, non penso all’Europa cinta da mu-ri di incomunicabilità, ma alla grande Europa, dove coesistono sistemipolitici e sociali diversi. Ogni paese europeo che vuole lasciare alle spal-le Yalta e la guerra fredda ha un evidente interesse nel potenziamentodell’ONU, indipendentemente dal sistema politico che lo regge. Sonoconvinto che anche i paesi dell’est europeo che vogliono costruire il so-cialismo secondo vie nazionali, potrebbero rafforzare la loro autono-mia se l’organizzazione delle Nazioni Unite fosse una sede internazio-nale autorevole dove ad ogni popolo venisse riconosciuto, non solo for-malmente, il diritto alla esistenza e alla sovranità. Con la immissionedei paesi di nuova indipendenza la fisionomia dell’ONU è notevolmen-te mutata rispetto agli anni della sua costituzione, e non c’è dubbio chein essa trovano facile udienza e solenne proclamazione tutti i temi del-la decolonizzazione, dell’indipendenza dei popoli, della lotta al razzi-smo, della cooperazione scientifica, economica e tecnica. Tuttavia, an-che in una sede così ampiamente rappresentativa, sono ancora le gran-di potenze che detengono il potere effettivo, sia formalmente col di-ritto di veto, che sostanzialmente col peso delle loro zone di influenza,ed è perciò a livello sostanziale che l’Europa dovrebbe dimostrare unamaggiore autonomia di iniziativa, per ottenere poi anche a livello for-male una maggiore autorità per l’ONU quale sede di risoluzione pacifi-ca delle controversie internazionali.

Tutti i problemi che ho enunciato, credo, sono essenziali per laqualificazione della politica estera di un paese come l’Italia. L’Italia èinteressata alla pace, e quindi ad una politica attiva di distensione, è in-teressata all’emancipazione dei popoli in via di sviluppo, e quindi aduna politica vera di cooperazione economica, tecnica scientifica, è in-teressata ad un pluralismo culturale e civile, e quindi alla coesistenzadi sistemi politici, sociali e culturali diversi. Sarebbe una forzatura so-stenere che il nostro paese ha condotto fino ad ora una politica esteracontrastante con questi grandi temi; dobbiamo invece riconoscere cheha svolto una politica timida, debole, scarsamente conseguente. A con-

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clusione di questa analisi vorrei proporre tre riflessioni che non ri-guardano tanto il merito della politica estera dell’Italia, quanto le con-dizioni che nel futuro possono rendere la nostra politica estera menotimida, meno impacciata, meno incoerente con il complesso delle no-stre aspirazioni popolari. La prima condizione riguarda la politica in-terna: non v’è dubbio che se l’attuale stato di precarietà della vita po-litica italiana dovesse condurre ad una ulteriore, drammatica involu-zione autoritaria di destra, la politica estera italiana si chiuderebbe nelprovincialismo, nell’oltranzismo, nella contrapposizione dei blocchi.In tutti questi anni il processo di distensione ha fatto crescere in tuttele forze politiche italiane, non soltanto nelle forze di governo, una vi-sione più moderna ed autonoma dei problemi internazionali. L’opzio-ne fatta dal Partito comunista italiano nei confronti dei temi europeida quando i comunisti italiani sono rappresentati nel Parlamento eu-ropeo, il discorso che anche l’opposizione di sinistra porta avanti sullanecessità di superare non solo il Patto atlantico, ma anche il Patto diVarsavia, per creare un processo più ampio di emancipazione dei po-poli, la rivendicazione da parte del PCI delle vie nazionali al socialismo,autonome rispetto all’egemonia dell’Unione Sovietica, dimostrano cheuna politica estera italiana di grande respiro può contare sulla conver-genza di larghe forze democratiche e popolari, a prescindere dalla lorocollocazione al governo o all’opposizione.

Per tanto tempo si è detto che la politica estera era un ostacolo arapporti di convergenza tra forze democratiche di governo e opposi-zione di sinistra. Io penso invece che questa tesi vada rovesciata e cioèche vi sono problemi inerenti alla nostra politica estera, problemi diindipendenza nazionale, problemi di una nostra più dinamica ed inci-siva azione nel mondo, che richiedono la conquista di un equilibrio in-terno più ampio per poter essere attuati. La politica estera italiana nondiventa più coerente e coraggiosa cambiando qualche ambasciatore olo stesso ministro degli esteri, ma quando ha alle sue spalle una più am-pia solidarietà di forze politiche e popolari, di opinione pubblica, dicoscienza nazionale.

La seconda condizione, che ho potuto verificare largamente in unanno di esperienza al Ministero degli Esteri, è che non è possibile fareuna politica moderna senza strumenti moderni. Tutta la nostra strut-tura diplomatica deve essere profondamente rinnovata, se noi voglia-mo che gli indirizzi politici che emergono dal governo e dalle com-missioni parlamentari abbiano poi una conseguente attuazione. Unprimo passo può essere rappresentato da una diversa selezione del per-sonale, che attualmente viene scelto in base a concorsi in cui la cono-

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scenza delle lingue straniere è titolo di merito determinante. Ora è evi-dente che i figli dei diplomatici, a causa della lunga permanenza all’e-stero, conoscono bene le lingue, ma la diplomazia moderna richiedeanche altre doti, che non sono improvvisabili, mentre la conoscenzadelle lingue può essere acquisita, o perfezionata, successivamente. An-che il sistema interno delle carriere e delle promozioni dovrebbe esse-re più funzionale alle esigenze del servizio, ma è soprattutto lo stato chedovrebbe darsi una struttura di presenza all’estero diversa da quella cheabbiamo. Nelle sedi tradizionali della diplomazia: Parigi, Londra, Wa-shington, Mosca, e in genere in tutta Europa, abbiamo rappresentan-ze diplomatiche di grande prestigio, talvolta persino ricche di perso-nale, quasi sempre comunque con personale intelligente e preparato,ma non per questo la voce dell’Italia è più autorevole. Nei paesi del Ter-zo mondo, che sono i paesi dell’avvenire per la nostra politica estera,le nostre rappresentanze diplomatiche sono invece gravemente caren-ti, e il personale è spesso impreparato ad affrontare i nuovi rapporti chedevono essere impostati con questi paesi. Ho avuto occasione di os-servare che in questi paesi hanno fatto più politica estera italiana i tec-nici dell’ENI o i rappresentanti di qualche grande industria privata ita-liana, che non le nostre rappresentanze diplomatiche. Ciò dimostrache esiste verso l’Italia apertura e simpatia (probabilmente dovuta an-che al fatto che il nostro paese «non fa paura») che tuttavia sappiamoal massimo utilizzare in funzione commerciale e industriale. Sempre intermini di mezzi per attuare una politica estera più incisiva, occorresottolineare l’assoluta esiguità del bilancio del Ministero degli Esteri.Poco più di cento miliardi sono appena sufficienti per un bilancio dipura gestione, per pagare gli stipendi, e non consentono nessuno spa-zio d’iniziativa né per una politica estera più attiva, né per una tutelaefficace dei nostri connazionali all’estero.

La terza condizione è rappresentata da una maggior consapevolez-za dell’opinione pubblica. Anche questo è un fatto che non si può im-provvisare e richiede un adeguato processo di informazione e di for-mazione. A questo proposito, un semplice confronto tra la nostrastampa e la stampa estera, fra i nostri notiziari radio e televisivi e quel-li di altri paesi a noi vicini per cultura e tradizioni storiche, mostraquanto provincialismo, quanto conformismo, quanta paura vi sia dimanifestare un atteggiamento autonomo e responsabile, che però pos-sa dispiacere a chi conta. Ora, non si può pensare che un governo, colsostegno del Parlamento, porti avanti una concezione di politica este-ra più dinamica ed aperta di quella sin qui condotta, senza il sostegnodell’opinione pubblica. Ma una concezione democratica della politica

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estera, come dominio non più riservato alla diplomazie, ma esteso aipopoli, alle forze sociali, all’opinione pubblica non si può improvvisa-re e richiede un’azione tenace e profonda, di sensibilizzazione e di ma-turazione.

Equilibrio politico interno sicuramente democratico, riforma del-le strutture tradizionali della nostra diplomazia, sostegno dell’opinio-ne pubblica sui temi della politica internazionale, sono le condizionifondamentali per superare le timidezze, le incoerenze, le mancanze dicoraggio che hanno in questi anni caratterizzato la nostra politica este-ra. A ciò va aggiunta però la consapevolezza dello spazio limitato di in-fluenza consentito al nostro paese, per effetto della sua dimensione,spazio limitato che tuttavia non deve essere utilizzato come un alibi perevitare ogni iniziativa. Per questo considero assai positiva anche la no-stra riflessione di stasera, perché i dubbi, le delusioni, le amarezze cheabbiamo manifestato non vanno nel senso della rassegnazione e dellasfiducia, ma nel senso della assunzione di responsabilità, ognuno alproprio livello, perché le cose cambino.

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Istituzione dell’Agenzia Spaziale Italiana*

Granelli fu Ministro della Ricerca Scientifica e tecnologica dal 1983 al1987, durante i governi di Bettino Craxi e Fanfani. La precedente classepolitica si era dimostrata poco attenta al ruolo sempre più crescente assuntodall’innovazione tecnologica e i governi che si erano succeduti fino ad allo-ra si erano limitati ad occasionali interventi delegando lo studio e l’orga-nizzazione di tale materia al Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).

A partire dagli anni Ottanta si registrò una maggiore sensibilità per ilcampo della tecnologia, grazie soprattutto ai diversi e importanti contri-buti che Granelli seppe dare come ministro della Ricerca Scientifica. Egliera convinto della necessità di dotare il paese di un equipaggiamento tec-nologico in grado di competere a livello europeo e mondiale.

Nel 1988, infatti, fu creata l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), che di-venne il punto di riferimento per l’eccellenza scientifica e tecnologica ita-liana. Nell’ASI confluirono le attività esercitate dal CNR, la gestione del pia-no nazionale e la cura degli interessi italiani nell’Agenzia Spaziale Euro-pea (ESA).

Grandi progressi sono stati fatti nell’ultimo decennio nell’uso del-le tecniche spaziali, sia per l’esplorazione scientifica dell’universo, siaper le applicazioni nel campo delle telecomunicazioni, della meteoro-logia, della diffusione televisiva diretta e delle osservazioni della Terra,sia per le prospettive offerte all’industria meccanica, chimica, elettro-nica ed ottica con la produzione di nuovi materiali speciali in assenzadi gravità.

Le recenti imprese spaziali, come ad esempio il recupero dallo spa-zio di due satelliti americani per telecomunicazioni, dimostrano chia-

* ASILS, FG, serie IV, b. 13.

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ramente come le attività spaziali siano uscite dalla fase esplorativa esperimentale e diventino ogni giorno di più un settore importante perle attività industriali dei Paesi moderni, con capacità di attrarre capi-tali privati ad integrazione degli investimenti pubblici inizialmente ne-cessari.

Gli Stati Uniti, dopo i successi del nuovo sistema di trasporto spa-ziale recuperabile Space Shuttle, realizzeranno entro il 1992 il primonucleo evolutivo di una Stazione spaziale che verrà abitata su base per-manente e che sarà fondamentalmente una «Stazione di servizio» per sa-telliti e piattaforme spaziali, nonché per la costruzione di grandi strut-ture, la produzione di materiali speciali, lo sviluppo di una importanteattività di ricerca scientifica e tecnologica, in assenza di gravità.

Analoghe iniziative sono in corso di sviluppo nell’Unione Sovietica.Queste prospettive fanno pensare che la futura colonizzazione dello

spazio possa avere per l’umanità conseguenze sociali ed economiche ana-loghe, e forse di maggior rilevanza, a quelle che a suo tempo ebbe l’e-splorazione e la colonizzazione di un nuovo continente come l’America.

Nel corso dell’ultimo decennio l’Europa ha avviato importanti ini-ziative per garantirsi un ruolo significativo nel futuro delle attività spa-ziali. In particolare a seguito della Conferenza spaziale del 1973, l’A-genzia spaziale europea (ESA), cui l’Italia partecipa sin dalla sua costi-tuzione, ha ottenuto importanti successi nel campo dei satelliti scien-tifici ed applicativi ed ha anche avviato un processo per raggiungereuna sua autonomia ed una potenzialità commerciale nel settore dei tra-sporti con la realizzazione, tra l’altro, dal lanciatore ARIANE.

L’Europa sta ora considerando, con interesse, anche a seguito del-la proposta avanzata dal Presidente Reagan, la possibilità di collabora-zione con gli USA per la realizzazione della Space Station, ed ha già cu-rato concrete iniziative stipulando accordi con la NASA, senza però tra-scurare lo sviluppo di una sua autonomia nel campo dei lanciatori pergarantire alla propria industria una presenza significativa nel futuromercato delle attività spaziali.

Nella recente (30-31 gennaio 1985) riunione del Consiglio dell’E-SA a livello Ministri degli Stati membri, convocata dal Ministro italia-no per la ricerca scientifica e tecnologica, Presidente di turno del Con-siglio, è stato approvato il Piano spaziale a Lungo termine (per i pros-simi 10-15 anni), tendente ad assicurare all’Europa un significativo erilevante avanzamento tecnologico nel campo scientifico (programmaobbligatorio) ed in quello applicativo, con lo sfruttamento dello spa-zio mediante stazioni orbitanti e con il raggiungimento di un’autono-mia nel settore del trasporto anche abitato.

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Più in particolare sono state stabilite alcune azioni programmati-che tendenti:

a - ad assicurare la partecipazione del maggior numero di stati insede ESA al programma Columbus, di ideazione italo-tedesca, che pre-vede un complesso orbitante, pienamente indipendente, da aggregareal più ampio programma di collaborazione spaziale proposto dagli USA;

b - a consentire lo sviluppo del lanciatore Ariane 5, con motorecriogenico, al fine di favorire il consolidamento dell’autonomia euro-pea anche in questo campo;

c - ad approfondire lo studio delle telecomunicazioni spaziali, del-la microgravità e, più in generale, dell’osservazione geofisica.

In termini di costo la partecipazione italiana al programma ESA rag-giungerà circa 2000 MAU, pari a circa 2800 miliardi di lire italiane,scanditi progressivamente nel tempo, con una lievitazione iniziale si-no alla fine degli anni ‘80 dell’ordine del 10% da circa 180 miliardi dilire italiane nel 1985 a 290 miliardi di lire italiane nel 1995.

In questo quadro, le forze politiche, imprenditoriali e scientifichedel nostro Paese concordano sulla opportunità di un crescente impe-gno italiano in un settore tecnologico di frontiera, quale quello spa-ziale, per garantire una presenza significativa nel futuro mercato.

In questa direzione va certamente lo sforzo sviluppato negli ultimianni per le attività spaziali, sia con la cooperazione italiana alla Agen-zia spaziale europea (ESA), sia con l’avvio di un piano spaziale naziona-le per meglio qualificare la nostra industria al ruolo di una più com-pleta responsabilità nelle grandi iniziative internazionali.

Attualmente la partecipazione italiana alla attività dell’ESA vieneapprovata con delibera del CIPE e curata direttamente dagli uffici delMinistro per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientificae tecnologica, mentre la gestione di tali attività viene assicurata dallestrutture operative dell’Agenzia europea.

Per quanto riguarda invece il Piano spaziale nazionale il CNR haavuto nel 1979 dal CIPE l’incarico della gestione temporanea.

A tale scopo il CNR ha organizzato una struttura ad hoc, che ha cu-rato:

a - la predisposizione di piani di attività pluriennali, prendendo inconsiderazione gli impegni italiani in ESA ed il quadro mondiale delleattività spaziali;

b - la definizione di dettaglio dei contenuti tecnici ed operativi deiprogrammi da affidare alle singole industrie mediante opportuni con-tratti;

c - la gestione tecnico-amministrativa degli stessi contratti;

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d - il mantenimento dei rapporti tecnici ed operativi con le altreagenzie ed organizzazioni spaziali di altri Paesi, o internazionali, concui si sviluppano attività di collaborazione.

Le risorse pubbliche destinate al settore spaziale sono già oggi nontrascurabili. Le attività del Piano spaziale nazionale prevedono un im-pegno di spesa per i prossimi anni dell’ordine dei 200 miliardi per an-no. Anche le attività svolte attraverso la partecipazione ai programmidell’Agenzia spaziale europea richiedono un contributo italiano an-nuale dello stesso ordine di grandezza. I recenti sviluppi collegati conla costruzione del sistema di trasporto spaziale della NASA, la realizza-zione e le prospettive future del lanciatore europeo ARIANE e, non ulti-ma, l’offerta dell’amministrazione americana per una partecipazioneinternazionale alla realizzazione della Stazione spaziale, fanno ritenereche nei prossimi anni l’Italia possa essere chiamata ad esprimere unruolo più significativo tra i paesi che producono e offrono tecnologiaper la crescente utilizzazione industriale e commerciale dello Spazio.

Infatti, nel confrontare le potenzialità italiane per iniziative spazia-li di ampio respiro con quelle di altri paesi tecnologicamente avanzati,si rileva una buona capacità dell’operatore italiano nei settori scientifi-ci, tecnologici ed industriali, anche se appare carente nel nostro Paesel’organizzazione di quelle strutture che oggi sono essenziali per gestirei progetti di ricerca e sviluppo di grandi dimensioni, caratteristici deisettori della scienza e della tecnologia più avanzati.

Occorre altresì considerare che l’elevato costo di tali progetti e l’altolivello di rischio economico e scientifico non consentono, se non in casieccezionali, un ruolo autonomo all’iniziativa privata, considerate le strut-ture operative e gestionali delle nostre industrie ed i tempi lunghi (talvol-ta 10 o 15 anni) necessari per avere dei ritorni diretti da questi investi-menti. D’altra parte le attuali modalità dell’intervento pubblico destina-to alla ricerca applicata ed allo sviluppo industriale riguardano l’attribu-zione diretta di agevolazioni finanziarie alle imprese industriali, secondoiniziative di intervento settoriali che, generalmente, servono per la solu-zione di problemi tecnologici contingenti ai fini del miglioramento dellacompetitività italiana nei settori strategici del futuro più immediato.

Anche la gestione dei progetti finalizzati del CNR, secondo le nor-me di compatibilità degli enti del Parastato, e quindi anche la gestio-ne attuale del Piano spaziale nazionale, mostra inconvenienti e mal siadatta alla esigenza di una gestione agile e flessibile in un quadro di ri-ferimento mondiale in rapida evoluzione.

Occorre infatti considerare che le procedure di gestione proprie delCNR, regolate dalle norme di amministrazione e contabilità degli Enti

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pubblici, mal si adattano ad una attività, come quella spaziale, che ri-chiede prontezza di decisioni e rapidità di erogazione della spesa e nel-la stipulazione dei contratti.

Dalle considerazioni sinora svolte emerge che l’aspetto istituziona-le connesso alla gestione delle varie iniziative spaziali in atto necessitadi interventi urgenti e razionali in grado di consentire attuazioni tem-pestive di tipo aziendale, introducendo anche meccanismi che con-sentano l’impiego di personale altamente specializzato.

In quest’ottica appare evidente l’urgenza di procedere in via legi-slativa alla istituzione di un’apposita struttura gestionale, del tipoAgenzia, in grado di assicurare la massima efficienza della spesa pub-blica.

Il presente disegno di legge affronta il problema proponendo dun-que l’istituzione di un organismo duttile sotto il profilo organizzativo,ma dotato di competenze tecnico-scientifiche al massimo livello, ingrado di curare la predisposizione, la gestione ed il controllo tecnicoed economico di programmi scientifici, tecnologici ed applicativi perl’esplorazione e la utilizzazione pacifica dello spazio, affidandone nelcontempo al Ministro per il coordinamento delle iniziative per la ri-cerca scientifica e tecnologica autorità di vigilanza e al CIPE la indivi-duazione del quadro generale di riferimento politico.

L’esame analitico del disegno di legge suggerisce queste specificheosservazioni.

257Istituzione dell’Agenzia Spaziale Italiana

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Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato*

Il 6 agosto 1990 fu approvata la legge n. 223, «Disciplina del sistemaradiotelevisivo pubblico e privato», comunemente conosciuta come legge«Mammì» dal nome del primo firmatario, l’allora ministro delle poste etelecomunicazioni Oscar Mammì.

La legge ebbe una lunga e complessa gestazione e un elevato numero diemendamenti. Con essa fu sancito il già esistente duopolio RAI-Fininvest.Granelli, che aveva fatto parte della Commissione Vigilanza sulla RAI-TV,espresse la sua contrarietà alla richiesta del voto di fiducia, poiché, a suogiudizio, la legge avrebbe necessitato di un dibattito più ampio e più libe-ro. Egli sostenne la sua posizione in merito ai limiti da porre al sistema del-la raccolta pubblicitaria, come condizione per un maggiore pluralismo eaffinché fosse data la possibilità a più soggetti di intervenire sul mercatodelle frequenze radiotelevisive.

L’articolo più dibattuto della legge fu, infatti, l’articolo 15, relativo aldivieto di posizioni dominanti nell’ambito dei mass media e all’entrata invigore della normativa. Su questo articolo gravarono oltre cinquantaemendamenti, alcuni dei quali proposti da quarantasei senatori della si-nistra democristiana, tra cui lo stesso Granelli, il quale chiese che la nuo-va legge entrasse in vigore, nel rispetto delle direttive comunitarie, il 3 ot-tobre 1991, anziché l’1 gennaio 1993, perché questa dilazione avrebbeconsentito il consolidarsi di un duopolio e «l’occupazione selvaggia di spa-zi da parte di un imprenditore privato».

Signor Presidente, onorevole Presidente del Consiglio, onorevoliMinistri, colleghi, credo che tutti debbano darci atto che ci siamo sem-pre presentati molto critici sull’idea di porre la fiducia nella discussio-

* ASILS, FG, serie I, b. 18.

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ne sul provvedimento in esame. L’abbiamo detto con chiarezza otte-nendo dei risultati al Senato in prima lettura, dove la fiducia non è sta-ta posta; l’hanno ripetuto altri alla Camera dei deputati, dove invece lafiducia è stata posta, e l’abbiamo ridetto con insistenza anche in que-sti giorni: personalmente ho rivolto anche un appello alla saggezza delpresidente del Consiglio perché si evitasse una prova su questi temi chesono di grande delicatezza.

Devo subito dire che, in rapporto alla decisione di porre la fiducia,noi consideriamo sproporzionata sia questa decisione in ordine al me-rito degli emendamenti che sono stati presentati, che non sono certa-mente emendamenti massimalisti o disarticolanti la filosofia comples-siva della normativa al nostro esame, sia rispetto alle prerogative delParlamento che su materie così delicate dovrebbe poter decidere in pie-na libertà.

Quindi, non condividiamo le opinioni che anche fuori dal Senatoci sono state rivolte, tendenti a stabilire che invece le dimissioni di cin-que Ministri dal suo Governo, onorevole Andreotti, e quelle dei sot-tosegretari sono state sproporzionate. Inoltre, non ci sembra spropor-zionata neanche la tenacia con la quale abbiamo condotto e stiamoconducendo la battaglia in Senato.

Le dimissioni di cinque Ministri sono un atto di correttezza e didignità rispetto ad una decisione non condivisa in Consiglio dei mini-stri. La riproposizione dei nostri emendamenti rientra nelle prerogati-ve che i Regolamenti, non solo del Parlamento, ma anche del nostroGruppo, ci consentono di fare.

Non abbiamo quindi nessuna motivazione particolarmente pole-mica su questo punto, ma riteniamo che debbano essere rispettate del-le decisioni che sono costate e che hanno la loro motivazione solo nel-la limpidezza dei comportamenti politici: ciò vale per i Ministri che sisono dimessi, per i Sottosegretari che hanno compiuto liberamente leloro scelte, e c’è da augurarsi che magari, con meno prontezza di quel-la che si è dimostrata nel caso dei Ministri, anche sotto questo profiloil Governo si metta al più presto nella completezza di rappresentativitànei suoi rapporti con il Parlamento.

Nonostante tutto questo, la fiducia è stata posta e noi siamo co-stretti – sì, signor presidente Andreotti – a dare la fiducia per discipli-na, anche se lei sa che su questo punto abbiamo delle convinzioni as-sai chiare. Noi abbiamo un grande rispetto per le decisioni personalidei colleghi Lipari e Moro, ma non abbiamo mai pensato che il nostroobiettivo fosse la crisi di Governo, un obiettivo di destabilizzazione, evotiamo la fiducia con serena coscienza perché questo non fa parte del-

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le nostre finalità. Avremmo preferito votarla senza la costrizione di unvincolo disciplina re, ma a ciò si è indotti dalle procedure che sono sta-te adottate.

Quindi voteremo la fiducia e vorrei dire all’amico Pollice, che hasottovalutato e in qualche misura ha anche polemizzato con questa no-stra decisione, che non si tratta assolutamente di mossa tattica. Chi,come noi, ha alle spalle decenni di milizia politica al servizio di un par-tito sa benissimo quali sono i suoi doveri rispetto a problemi di soli-darietà generale su certe questioni. Anzi, diciamo che proprio perchéabbiamo alta la coscienza dei nostri doveri di appartenenza al partito,ricaviamo da questo il diritto di usare di tutte le prerogative regola-mentari e politiche per far prevalere la nostra ragione e le nostre opi-nioni quando questo è necessario.

Noi non irridiamo alla militanza; la militanza nei partiti è una co-sa seria, non va confusa con le degenerazioni partitocratiche, è ele-mento fondamentale del diritto che si acquisisce di combattere poi al-trove le battaglie necessarie per modificare anche gli orientamenti po-litici dei partiti. Non ci sono ombre sul nostro voto di fiducia, intesoin questo senso. Certo, avremmo preferito poter discutere liberamen-te nel merito di questa legge, che non è la legge degli spot, ma è la leg-ge sul diritto all’informazione pluralistica in base ai principi della Co-stituzione e alle direttive comunitarie. Noi non possiamo farlo perchél’apposizione del voto di fiducia ha decapitato questa possibilità; ma iovoglio richiamare brevemente ai colleghi del Senato che le nostre po-sizioni di merito sono posizioni di forte dissenso rispetto a questo ri-fiuto ad entrare nella materia per trovare una soluzione che non era enon è massimalista, ma è ragionevole e costruttiva.

Voglio cominciare proprio dal primo emendamento, il 15.48, conil quale noi proponiamo di sostituire la data del 1° gennaio 1993 conla data del 3 ottobre 1991, che è espressamente prevista dalla direttivecomunitaria all’articolo 25. Questo richiamo alle date non è un atteg-giamento da sofisti, questo richiamo alla pertinenza di una data, pe-rentoriamente espressa in un articolo di una direttiva comunitaria, si-gnifica per noi coerenza rispetto a un impegno europeistico che il no-stro paese ha sempre mantenuto e che dovrebbe, a maggior ragione,onorare nel momento in cui ha la presidenza di turno della Comunità.Voglio leggere testualmente questo articolo, o per lo meno la parte checi riguarda.

Qualcuno nella discussione ha detto che certamente gli Statimembri – l’onorevole Intini ci dà spesso lezioni su questo punto –possono ordinare la materia in base alla loro autonomia legislativa

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(non è questo che è in discussione, ne siamo ben consapevoli) e chevi è dentro la filosofia della direttiva sia la concezione rigorosa, re-strittiva che noi abbiamo proposto con il nostro emendamento, chenon sarà possibile porre ai voti per l’apposizione della questione difiducia, sia quella più larga, più estensiva, più all’italiana che è stataproposta dal Governo. Non è questo il punto. Il punto è che qual-siasi provvedimento legislativo adottato in autonomia da uno Statoche fa parte della Comunità deve essere attuato entro e non oltre il 3ottobre 1991. Questo è detto esplicitamente nell’articolo 25. Pre-gherei su questo punto l’onorevole ministro Mammì di essere un po’più cauto nelle sue dichiarazioni quando ci accusa di falsificare deiriferimenti ad atti letterali che noi abbiamo soltanto riproposto. Mavorrei aggiungere a tale richiamo letterale all’articolo 25, che in que-ste giornate prima la Commissione affari costituzionali e poi la Giun-ta per gli affari europei del Senato hanno esplicitamente richiamatoil carattere perentorio e vincolante di questa data rispetto all’entratain funzione delle decisioni che il Parlamento in modo sovrano adot-ta su questo punto. Quindi con questo emendamento noi non pro-poniamo niente di eversivo. Francamente, signor Presidente delConsiglio, non comprendo cosa ci sia di eversivo, di destabilizzantee di straordinario nello stabilire una data che viene indicata a noi dauna direttiva comunitaria.

Mi sembra che anche qui ci sia una sproporzione. Desidero ag-giungere una osservazione, forse un po’ dura, ma che sento in coscien-za di dover fare: su questo punto molti organi di stampa hanno com-piuto una inaccettabile mistificazione perché sembra quasi che nelladiscussione libera in Parlamento su due date rispetto ad una normati-va, sulla quale si può certamente discutere, si continua ostinatamentead evitare una maggiore flessibilità nell’applicazione di una norma.Non è così, perché la norma più flessibile che il Parlamento adotta nonviene applicata ma verrà applicata il 1° gennaio 1993, il che significache da qui ad allora non vi sarà una norma della Repubblica ma con-tinuerà a sussistere quella assenza di norma che ha consentito una oc-cupazione selvaggia di spazi da parte di un imprenditore privato e,quindi, una alterazione concreta di un comportamento che la leggedella Repubblica avrebbe dovuto in sostanza regolare. (Applausi dalcentro e dall’estrema sinistra). In pratica, si consente che fino al 1993si possa fare quel che si vuole, mentre dal 1993 in poi si inizierà ad ap-plicare una norma più blanda di quella prevista dalla direttiva comu-nitaria. In ciò noi ravvisiamo una contraddizione e pertanto ribadia-mo il nostro dissenso.

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Procedo rapidamente nel mio intervento per dire poche parole an-che sul secondo emendamento che, con tanti altri amici, abbiamo pre-sentato. Questo emendamento attiene al pluralismo dell’informazionee della raccolta della pubblicità. Anche a questo proposito desidero –sia pure schematicamente non essendovi il tempo per argomentare –liquidare la falsa impressione che quando discutiamo di cose così im-portanti vi siano due partiti in contesa: il partito della RAI e il partitodel cavalier Berlusconi.

Per noi non è così; noi non vogliamo una spartizione più equili-brata di un duopolio che è comunque elemento di soffocazione delpluralismo. Noi vogliamo introdurre delle norme che aprano la viaad un pluralismo autentico nel quale possano affacciarsi nella libertàdel mercato anche altri soggetti oltre a quelli che esistono in questomomento. Credo che in qualsiasi paese democratico dire che un sog-getto può raggiungere il 25 per cento della raccolta della pubblicitànon sia assumere un atteggiamento persecutorio, ma anzi sia assu-mere un atteggiamento larghissimo, con la differenza che almeno aquesto livello c’è la fondata speranza che qualcun altro possa inter-venire sul mercato e affermare il suo diritto di partecipare alla logicadella informazione.

Quindi noi con questo emendamento proponevamo un limite al-la raccolta della pubblicità per aprire la via ad un maggiore pluralismo,a più numerosi soggetti che potessero intervenire sul mercato e anche– perché non sottolinearlo ancora una volta? – per avviare un proces-so che consentisse gradualmente di abolire il canone e di sostituirlo conun contributo dello Stato al servizio pubblico come corrispettivo diprestazioni date nell’interesse generale. Infatti, ci proponevamo di li-beralizzare il mercato, con tante retoriche che si fanno sul mercato eu-ropeo del 1992, e di cominciare un’opera di razionalizzazione che por-tasse anche la RAI a comportarsi da impresa sia pure da impresa conparticolare responsabilità. Anche in questo caso non mi sembra che laproposta fosse eversiva, drammatica e che richiedesse addirittura diporre la fiducia, di operare fratture, di creare drammatizzazione per farpassare tra l’altro con una grande urgenza una legge che nelle parti piùimportanti sarà attuata nel 1993.

Ecco perché, signor Presidente, onorevoli colleghi, noi su questidue emendamenti avevamo impostato una battaglia costruttiva, unabattaglia per migliorare la legge, una legge di cui il paese ha bisognoper mettere ordine in un campo che non riguarda solo gli spot, ma ri-guarda la libertà di informazione, il pluralismo dei soggetti che opera-no in questo campo e, quindi, le garanzie per tutti. Volevamo andare

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in questa direzione e non lo possiamo perché la votazione di questiemendamenti ci è preclusa e noi voteremo la fiducia.

Signor Presidente del Consiglio, dobbiamo dire che ci preoccupasotto il profilo politico non l’esistenza di una politica delle coalizioni: leici conosce da tanti anni e sa benissimo che abbiamo sempre apprezzato,da De Gasperi in poi, la politica delle coalizioni come scelta alta della de-mocrazia pluralistica. Quello che noi critichiamo non è la coalizione,cioè la circostanza che in una coalizione bisogna convivere rispettando ireciproci punti di vista: quello che contestiamo, perché non è la primavolta che si ripete, è il potere di interdizione di qualche partito della coa-lizione che impedisce alla coalizione stessa di trovare dei punti ragione-voli di incontro e di sottoporsi liberamente al confronto con il Parla-mento e con la stessa opposizione parlamentare. Qui vediamo incrinar-si qualcosa di grave nella concezione del rapporto parlamenta re.

Però, ciononostante, noi sappiamo quali sono i nostri doveri e dob-biamo dire (come ha ripetuto lucidamente questa mattina il collegaCabras; credo che il collega Aliberti non abbia capito bene alcuni pas-saggi dell’intervento del senatore Cabras, soprattutto quando si è rife-rito ad una certa caduta di stile: noi non facciamo questioni di esteti-ca) che abbiamo presentato, onorevoli colleghi, e ve lo dico con mol-ta franchezza, questi emendamenti non perché siamo il sesto partitodella coalizione (queste sono spiritosaggini che lasciamo all’onorevoleAltissimo): noi siamo democratici cristiani che per decenni hannocombattuto per la Democrazia cristiana e sappiamo che sui nostri in-teressi o sulle nostre posizioni prevale nelle cose grandi la posizione del-la Democrazia cristiana. Siamo dei democratici cristiani che dissento-no quando devono dissentire e sanno rispettare il vincolo della disci-plina quando tale vincolo deve essere rispettato. Però, dobbiamo direche, quando abbiamo raccolto le adesioni per questi emendamenti,non abbiamo fatto computi numerici, non abbiamo fatto i calcoli checi vengono attribuiti; abbiamo raccolto liberamente le firme; sono ve-nute punto e basta. Ci sono anche colleghi che si differenziano da noinel voto di fiducia; ci sono colleghi che non hanno nulla a che fare conla battaglia della sinistra nella Democrazia cristiana. Sono colleghi chehanno dato la loro adesione liberamente e io credo per una cosa, per-ché dobbiamo restituire alla politica trasparenza, correttezza, serietà. Enon ha giovato in queste settimane anche il susseguirsi di voci di cor-ridoio, di consigli quasi tendenti a mettere in guardia chi compisse unatto libero di determinazione su una materia così delicata.

Ho visto con grande disappunto sul «Corriere della Sera» del 2 ago-sto, la sera prima che raccogliessimo le firme per questi emenda menti,

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una corrispondenza, addirittura virgolettata (senza dire chi è l’autore;credo che questo sia impossibile e lo osserverò tra un momento), nel-la quale si dice che tra le voci che circolavano in Senato c’era anche que-sta: «I collegi sicuri per la rielezione di molti di loro che dissentono seli possono dimenticare». È la battuta che corre di più nei corridoi delParlamento. Non si dice l’autore e credo che nessuno nella Democra-zia cristiana pensi a cose del genere, però questo è un segno del degra-do delle nostre istituzioni.

Vorrei ricordare a tutti che noi ci proponiamo qui e fuori di qui direstituire ai partiti una certa capacità di reagire alle degenerazioni del-la partitocrazia. Noi crediamo che i partiti debbano salvare, al di là del-le loro idee, anche un patrimonio morale che è importante per far cre-dere ai giovani che nella democrazia ci sono ancora degli strumenti.Noi vogliamo che questo patrimonio non si disperda e si sappia cheanche nella Democrazia cristiana ci sono persone che dicono quelloche pensano e che fanno quello che dicono, non guardando al loro tor-naconto. Noi vogliamo che si sappia bene che nella Democrazia cri-stiana ci sono persone alle quali possono essere anche non fatte eserci-tare le funzioni di ministro, di assessore, per le quali si possono anchenegare dei collegi, ma a cui non si può togliere quella libertà di giudi-zio che antepone le idee agli interessi e alle convenzioni personali. Cre-do che il numero dei firmatari di questi emendamenti sia anche la ri-sposta sdegnata ad un tentativo di intimidazione che non è serio e chenoi non accettiamo.

Infatti la battaglia non finisce qui, non è solo una battaglia su que-sta legge ma per la democrazia, per il pluralismo dell’informazione, perla difesa delle istituzioni che continueremo anche altrove.

Crediamo di aver dato con la nostra coerenza e con la nostra fer-mezza anche qui un modesto contributo per una battaglia che si ri-propone di far riprendere alla Democrazia cristiana tutta intera quellegrandi iniziative per le battaglie civili e di libertà che Aldo Moro ci hainsegnato a combattere e che noi abbiamo l’onore e il dovere di com-battere ancora. (Applausi dal centro e dall’estrema sinistra. Congratu-lazioni del senatore Cabras).

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Rifare la DC, non archiviarla*

Nelle elezioni politiche e amministrative del 1992 il partito democri-stiano perse, rispettivamente, otto e cinque punti percentuali. Nel luglio1993 si svolse l’Assemblea costituente che deliberava la trasformazione del-la Democrazia cristiana nel nuovo Partito popolare italiano, che nacqueufficialmente all’inizio del 1994.

Granelli espresse la sua contrarietà nei confronti del nuovo nome datoal partito, appellandosi all’esperienza di Romolo Murri e di De Gasperisul valore della democrazia e sull’importanza che il partito mantenesse nel-la sua dicitura il richiamo a questo concetto. Anche in questa posizione èpossibile riconoscere la cifra politica dell’azione svolta da Granelli nella co-struzione dello stato democratico. In questo senso le intuizioni di Sturzo,di De Gasperi, di Moro, come disse Granelli, erano ancora vive e attuali.

In un partito democratico si può discutere di tutto se viene rispet-tata la legalità delle deci sioni. Non può essere un tabù, ad esempio,prospettare cambiamenti radicali che coinvol gano, oltre al programmae alle forme orga nizzative, anche nome e simbolo di una for mazionepolitica. È però necessario distingue re, preliminarmente, tra le discus-sioni fatte in vista della costituzione di un partito, come fu al tempo diSturzo, da quelle, molto diverse, che partono dalla presenza di unarealtà matu rata con la DC dopo una pluridecennale espe rienza storica.Nel dopoguerra, quando si scel se il nome della DC, lo si fece, per insi-stenza di De Gasperi, soprattutto per dare ai giovani che venivano dal-la scuola di formazione dell’Azione Cattolica, senza esperienza politi -ca a causa del fascismo, uno strumento nuovo e aperto al loro origina-

* L. Granelli, Perché ho difeso la Democrazia cristiana, Ed. La Base, Roma 1994,pp. 12-13.

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le contributo rispetto ad un partito che, con il «popolarismo» sturzia-no, aveva pur dato esemplari prove a cavallo degli anni venti.

Grande peso ebbero allora, nella scelta del nome DC che già Ro-molo Murri aveva adot tato, sia l’importanza dei principi della demo -crazia, di fronte al disastro delle dittature e della guerra, sia i valori del-l’ispirazione cri stiana, come speranza di profondi cambia menti, sul-l’onda di idee che con la riscoperta di Sturzo, di Maritain e Mounierin Francia, e delle riflessioni sul Codice di Camaldoli, in Italia, aveva-no avuto larga eco tra i cattolici democratici. Diversa, invece, è la scel-ta del cambiamento di nome di un partito che esiste, che ha concorsoin modo determinante alla storia e allo sviluppo del Paese e che, no-nostante errori e torti da eliminare, appartiene moralmente e politica-mente a quanti l’hanno costruito, servito, in decenni di battaglie idea -li, di impegno disinteressato, e non intendono ora gettare la spugnanemmeno per le umilia zioni subite a causa del tradimento di chi è sta-to travolto dal perverso intreccio tra politi ca e affari.

A difesa del significato del nome DC, con tro i comportamenti chene hanno ferito la credibilità, si potrebbero anche ricordare sia l’im-portanza del richiamo alla democrazia, in un momento in cui crolla-no le pretese ideologiche e si affermano i poteri più forti, sia la straor-dinaria attualità dei valori cristiani di fronte all’angoscia dell’uomocontemporaneo, ai bisogni di giustizia e di solidarietà dei ceti più de-boli e alle domande di diritto, di legalità e di pace che aumentano inun mondo scon volto dalla violenza e dal ritorno del razzismo. Persinola mancata evocazione formale del termine partito, nel nome DC, ap-pare, in tem pi di polemica sulle degenerazioni della parti tocrazia, diqualche significato. Si dovrà di scutere con il massimo di serietà di que-sto problema, niente affatto nominalistico, ma ammettiamo, per ilmomento, la tesi che possa oggi essere non inopportuno rigenerare ilpartito anche con un nome nuovo.

Questa scelta, anzitutto, dovrebbe essere il frutto di una discussio-ne in sedi legittimate a prendere delle decisioni sul ruolo politico, sulprogramma, sulla forma del partito, e non il punto di partenza a prio-ri di una tesi precosti tuita. Impressiona la superficialità dei dibattiti incorso. Sembra di assistere ad una mediocre gara per la individuazionedi un marchio gra dito a presunti clienti, più che alla ricerca, quand’an-che si accettasse la logica del marke ting, di un buon prodotto capacedi affermarsi per le sue qualità. Dietro a ciascuna proposta di nome c’èun diverso progetto di partito, di movimento, di strumento elettorale.Taluni, per recuperare in fretta consenso e potere, vogliono una unio-ne elettorale aperta a liberali e moderati, in una forma che risale al con-

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te Gentiloni più che a Sturzo o a De Gasperi. Al tri pensano ad una for-mazione cristiano socia le, cui aderisca il minor numero possibile di exdemocratici cristiani, sperando che cancel lata la DC il centro torni vin-cente ed eviti aperture a destra o a sinistra. Altri, ancora, vo gliono cam-biare rifacendo la diga a sinistra per potere intendersi, a differenza diuna DC tendenzialmente di centro-sinistra, con la Le ga e altre forze didestra. E non manca nem meno chi, nel difendere al contrario la DC,vede più un mezzo per opporsi al cambiamen to, che si teme, più cheun salutare ritorno alle origini, un rinnovamento profondo di costu -me, di programma, di classe dirigente.

A pochi di questi strateghi sembra interes sare l’essenziale ispirazio-ne cristiana del par tito che, oltre ad essere la più importante mo -tivazione per cambiamenti incisivi nei modi di fare politica, è ancheun preciso vincolo mora le. Né sembra preoccupare, in omaggio allapolitica spettacolo del prendi e butta, il rischio di tagliare con le radi-ci anche il collegamento con le tradizioni ideali e politiche che la DC,nei momenti migliori, ha interpretato. Non ci si rende conto, in tantaconfusione, che ogni scelta unilaterale di superamento della DC por-terà, tra forti contrasti, al dissolvimento, in schegge insignificanti, diuna importante e vi tale esperienza politica dei cattolici italiani che hainfluito sulla storia del Paese.

Ma poi in base a quale diritto, con che fon damento di legalità, chinon appartiene alla DC, o ha avuto mandati per esserne dirigente, po-trebbe decidere, a seguito di congetture uni laterali o di ristrette intesedi vertice, di liqui dare un partito democratico? Sarebbe un arbi trio in-tollerabile. A nessuno può essere con sentito uno scippo che, oltre allasua improduttività politica, solleverebbe rilevanti re sponsabilità mora-li. La DC è un partito frutto di una realtà storica costruita con le bat-taglie, i sacrifici, l’impegno di più generazioni e nes sun singolo diri-gente, nemmeno il suo segretario, può scioglierlo a discrezione, comese si trattasse di cosa propria. Solo iscritti e aderen ti al partito in mo-do trasparente, non per effet to di manipolazioni simili ad un vecchioe deplorato tesseramento, hanno il diritto, nel ri spetto della regola de-mocratica, di deciderne insieme gli aggiornamenti, le trasformazioni,eventualmente anche la scelta di un nome di verso. Le procedure de-vono essere tali da per mettere, in ogni caso, a chi è in disaccordo di dis-sentire e di trarre, alla conclusione di un pubblico e approfondito con-fronto e di fronte a decisioni prese legittimamente, libere conse guenzedi militanza o di disimpegno. Una composita Assemblea costituente,giustamen te aperta anche al contributo di chi non milita nella DC, co-stituita per cooptazioni discrezio nali e di vertice può essere di grande

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utilità per definire e proporre in piena libertà, al par tito, programmi,nuove forme organizzative, cambiamenti anche radicali di metodo e distrategia politica. Ma tocca poi ad un regolare e trasparente congressodecidere in autonomia e sanzionare formalmente, avvalendosi se lo siritiene utile anche di un referendum interno, con le dovute garanzie, imutamenti che possono legittimamente aprire una fase nuova, in tut-ti i suoi aspetti, per la vita del partito.

Senza questo percorso di legalità democratica ogni lacerazione sa-rebbe giustificata e chi pensasse a fatti compiuti se ne assumerebbe, perintero, la responsabilità. Martinazzoli ha più volte affermato con con-vinzione che la DC va cambiata, non liquidata, e che si deciderà insie-me, secondo una regola democratica. Per questo vanno evitate sma-gliature o parziali e devastanti anticipazioni. Bisogna guardarsi daglierrori, che possono essere tragici, e mobilitare dentro e fuori il partitoogni energia disponibile non per archiviare una valida esperienza sto-rica, ma per liberarla da errori e degenerazioni con la costruzione diuna nuova DC che sia tale per programma, costume, vitalità democra-tica, forma organizzativa e classe dirigente e non per la apparente no-vità di una effimera etichetta.

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Come dire: l’abito non fa il monaco*

Non è la prima volta che intervengo, sul quo tidiano del partito, indifesa del mantenimen to del nome Democrazia Cristiana. Ma ora in-tendo sviluppare, in una serie di articoli, le ragioni a sostegno della scel-ta che farò quan do sarò chiamato a votare per il Referendum che è sta-to convocato, dopo l’Assemblea Co stituente, con ritardo e con moda-lità discutibi li. È difficile un dibattito approfondito quan do si invitanon a scegliere su due nomi da da re al partito, posti concettualmentesu un pia no di parità, ma sulla proposta fatta dal segre tario a favore delPPI che mette molti in im barazzo per il timore di revocare una fiduciain Martinazzoli assolutamente necessaria.

Si aggiunga che tutto deve essere fatto, più o meno in trenta gior-ni, con una organiz zazione demandata al livello regionale in una si-tuazione periferica ove, in taluni casi, si so no precipitati i tempi nelcambiare il nome del partito, senza aspettare il referendum, in una lo-gica di atti compiuti e persino con ri schi di divisione della DC nell’in-tento di anticipare una scelta per il PPI ritenuta irreversi bile. Si è poifissata una discutibilissima nor ma, non solo antistatutaria ma sbilan-ciata verso la forma del partito d’opinione, che consente anche a chinon aderisce né alla DC né al PPI di deciderne il nome.

Tutto ciò genera amarezza in chi credeva e crede nel Referendumcome libero confron to di idee attorno a una questione, quella scel ta delnome, che non è di poco conto. La pro paganda è invece a senso uni-co. Il dibattito non sembra decollare e, in molti casi, non è favorito per-ché si interpreta il Referendum come un inutile rituale che fa perderetempo per una decisione in sostanza già presa e motivata addirittura

* L. Granelli, Perché ho difeso la Democrazia cristiana, Ed. La Base, Roma 1994,pp. 20-22.

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con il fine di sciogliere la DC e costituire il nuovo soggetto politico PPI.Viene a proposito in mente la frase del si gnor Ford che, all’inizio delsecolo, ricono sceva agli americani il diritto di scegliere il colore dellapropria automobile purché fosse nera.

Non mi sottraggo per questo al dovere di dare, in ogni sede, il miocontributo di idee e di votare di conseguenza. Mi auguro che, alla fi-ne, una procedura già criticabile sotto il pro filo di una sostanziale de-mocrazia non deragli addirittura, come ama dire Martinazzoli, in unaaffrettata e non verificabile conta di voti per proclamare in fretta e fu-ria, sottraendo al congresso una prerogativa difficilmente annullabile,il nuovo nome del partito. Una si mile forzatura potrebbe riaprire casidi co scienza e lacerazioni che già tendevano a manifestarsi prima del-l’Assemblea costituente.

È interesse di tutti che il nuovo nome del partito sia adottato so-lennemente al congresso, nel rispetto della legalità, e sia concorde-mente applicato in tutta Italia, come conviene a una forza democrati-ca nazionale, per dar luogo ad un coerente rilancio ideale, organizzati-vo, po litico. In questo quadro ribadisco, e lo ripe terò se sarà possibileal congresso, che è un errore abbandonare il nome di Democrazia Cri-stiana. La necessità di un radicale cambia mento di costume, di strut-ture, di programmi, di classe dirigente è, non da oggi, per me, un pun-to fermo assoluto che non dipende automaticamente dalla scelta delnome. Ad un no me nuovo può corrispondere, se manca l’effet tiva vo-lontà di cambiamento, una realtà adattata opportunisticamente allamoda corrente.

Un nome antico, più che vecchio, può es sere reso credibile se si di-mostra di voler cambiare non solo a parole per liberare il par tito daitradimenti, dalle degenerazioni, dalle omissioni, che lo hanno detur-pato. Il nome Democrazia Cristiana esprime, oltre che una tradizioneideale e storica che non si può rin negare, se non altro per il suo apportodeter minante allo sviluppo libero del Paese, valori che sono obiettiva-mente di straordinaria at tualità. Tra l’altro il mancato riferimento for -male a una idea di partito, in tempi di aspra critica alla partitocrazia,ha qualche vantag gio psicologico. Sono convinto, guardando alla so-stanza, che non c’è democrazia senza partiti, ma pro prio per questo èdoveroso ricordare che la DC lo era e lo è in modo che conferisce piùimportanza ai valori di fondo della sua ispirazione che allo strumentostorico e organizza tivo per la loro affermazione. La crisi che ha inve-stito i regimi politici, in ogni parte del mondo, è obiettivamente ri-scontrabile, oltre che nella caduta di ordinamenti autoritari che si so-no sovrapposti alle società, in un deficit sostanziale di democrazia che

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mette in evi denza anche il limite spesso formalistico di molte conqui-ste realizzate nei sistemi parlamentari.

La realizzazione della democrazia in tutti i campi, dall’ordinamen-to degli Stati all’econo mia, dal pluralismo autogovernante della so cietàa un sistema internazionale fondato sul diritto dei popoli, è un tra-guardo attualissimo per la liberazione dell’uomo, di tutti gli uomi ni, eper l’allargamento, in termini di parteci pazione alla costruzione delproprio futuro, del concetto di cittadinanza. Stanno tornando a que-sta consapevolezza persino i movimenti più condizionati, in Europa,da una visione ideologica della politica. Se ne rendono conto i fautoridel superamento del conflitto sociale con il benessere o il paternalismoassistenzialistico perché l’uomo, anche quando è libero dal bisogno, re-sta inquieto senza il riconoscimento dei diritti che la democrazia af-ferma e deve proporsi di realizzare.

Perché dobbiamo abbandonare, per motivi contingenti anche sedrammatici, questa vali da qualificazione? Il popolarismo, che pure haun significato importante sul quale si do vrà tornare in un’altra occa-sione, è più gene rico e meno rassicurante per quanto riguarda il cam-mino storico della libertà e delle istitu zioni che la garantiscono. Anco-ra più essen ziale è il riferimento alla ispirazione cristiana. Anche dalConcilio Vaticano II sono venuti impulsi autorevoli, confermati dalMagistero della Chiesa cattolica, ad imprimere alla poli tica, senza ri-torni clericali che danneggereb bero la stessa religione, un forte conno-tato etico e ad operare perché gli uomini di buona volontà anche di fe-di diverse possano ritrova re, nel pluralismo delle scelte, i valori cristia -ni della difesa della persona, della giustizia, della solidarietà.

Le intuizioni di Sturzo, di De Gasperi, di Moro, hanno oggi, an-cor più di ieri, una forte convalida ideale e storica. Sono minori, an chese latenti in carenze culturali e spirituali dei singoli più che nell’azionedella Chiesa, i pericoli di un integralismo intollerante che impediscal’incontro, sul terreno del bene co mune, con altre forze ideali che ac-cettino la democrazia. Il perché «non possiamo non dir ci cristiani» diBenedetto Croce è, anche per i laici, una affermazione più facile oggidi ieri se c’è onestà intellettuale e volontà di non ri cadere in un anti-clericalismo altrettanto fuori dalla storia. Perché proprio i cattolici cheoperano, in politica, in piena autonomia e sotto propria responsabilità,dovrebbero accantona re oggi, di nuovo per una ragione contingen te,una qualificazione cristiana in senso sturziano che, oltretutto, è ancheun severo ri chiamo al risanamento morale e alla necessità di cambia-menti non effimeri nella vita socia le, economica, politica? Sono que-ste le ragioni che mi portano a sostenere la tesi del mantenimento, an-

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che nel la straordinaria crisi attuale, del nome di Democrazia Cristianaperché sono convinto che non è esso, come purtroppo si dimostrerà,l’ostacolo ad un cambiamento coraggioso nel nostro modo di fare po-litica. Si può discutere, come mi propongo di fare, anche di altre so -luzioni ma a condizione di non restare in superficie in un contrasto pu-ramente nominali stico sul come chiamare un partito.

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Un’opposizione ricca di futuro per i popolari*

Nato dalla disciolta Democrazia cristiana, il Partito Popolare, sotto laguida di Mino Martinazzoli, tenne il suo primo Congresso a Roma, il 29luglio 1994, in occasione del quale fu eletto segretario Rocco Buttiglione.

Alla linea politica di Buttiglione, favorevole a una intesa con ForzaItalia, nel febbraio dell’anno successivo si contrappose quella della compo-nente di sinistra, orientata invece a sostenere la candidatura dell’economistacattolico Romano Prodi a leader del centro-sinistra contro Silvio Berlusconi.

Cari amici,prendo la parola per esprimere sinteticamente le mie idee sul ruo-

lo del PPI anche se, come voi sapete, non ho alcun obiettivo di naturapersonale da conseguire. In occasione delle ultime elezioni politiche horinunciato liberamente a porre, dopo una lunga e coerente milizia,candidature al Parlamento per dare, senza alcun complesso d’inferio-rità, un esempio concreto nel favorire un ampio rinnovamento di clas-se dirigente. Quando un partito perde in credibilità bisogna aiutarloanche con un ricambio fisiologico di responsabilità sulla base del prin-cipio, troppe volte trascurato, che in democrazia tutti sono utili e nes-suno è indispensabile. Con la scelta compiuta non ho inteso, né in-tendo ritirarmi sotto una tenda o rimanere in posizione d’indifferen-za. Rivendico, da militante che ha aderito al nuovo partito con intattacoscienza di democratico cristiano, il diritto di portare il mio contri-buto, sino a che ne avrò la possibilità, e di mettermi al servizio dellebattaglie comuni senza nulla chiedere. Se non riporteremo a questospirito volontaristico e disinteressato i nostri rapporti interni, ripristi-

* L. Granelli, Messaggi in bottiglia 1994, Edizione curata dall’Associazione «Popo-lari Intransigenti» F. Luigi Ferrari - Milano, Firenze 2000, pp. 98-107.

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nando un costume di franchezza e di dialogo, sarà difficile dare corpoad un reale rinnovamento culturale e morale della politica.

La radicalizzazione del dibattito interno attorno alle persone deicandidati alla segreteria più che ai programmi ed alla linea politica,unita ad una preparazione non sempre limpida del congresso, esaspe-ra lo scontro, riduce lo spazio di un chiarimento reale, rischia di por-tere il partito ad un esito poco fecondo nel momento in cui massimodovrebbe essere lo sforzo di ricerca, di approfondimento, di collabora-zione su basi di chiarezza. Per questo ho insistito inascoltato, insiemead altri, sull’azzeramento delle candidature da presentare, insieme allaindividuazione di un nuovo gruppo dirigente, alla conclusione del di-battito e non prima del congresso.

1 - La radicalizzazione interna è dannosa

Ma in politica è inutile recriminare. Dal congresso usciranno co-munque, dopo un troppo lungo periodo di emergenza e di pieni po-teri, un segretario democraticamente legittimato ed organi di partitoche dovranno in ogni caso riprendere un dialogo troppo radicalizzatodalla logica dei vinti e dei vincitori. Anche per questo occorre essereestremamente chiari nell’esporre, senza diplomazia o effimere furberie,il proprio punto di vista. È augurabile, da parte di tutti, una maggio-re capacità di ascolto. Il dibattito si riduce ad un rito se manca questaattitudine e tutto si esaurisce in un referendum pro o contro. Ho cer-cato di contribuire, in preparazione al congresso ed in molte sedi, adun confronto di maggiore respiro.

È noto che sono su posizioni critiche sulla linea che l’on. Butti-glione, sia pure con qualche flessibilità, è venuto proponendo al par-tito, ma ho cercato di approfondire le ragioni del dissenso nella ricer-ca di utili convergenze. Anche con alcuni articoli sul quotidiano«L’Informazione» ho cercato di spiegargli i miei punti di vista, di com-prendere le sue posizioni, nel rispetto assoluto della diversità di opi-nione. Il confronto, sempre di tono cordiale, è rimasto però in super-ficie e pare che anche in congresso siano limitate le possibilità di giun-gere ad un maggiore chiarimento. Non ho trovato persuasiva la suarelazione anche se apprezzo qualche apertura inedita. Ma io sono sfor-tunato con l’on. Buttiglione. In più di una occasione l’ho ascoltato,ma non sono quasi mai riuscito a farmi ascoltare. La circostanza si ri-pete anche in congresso. Era mio vivo desiderio richiamare la sua at-tenzione almeno su alcuni punti cruciali del dibattito in corso. Lo farò

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ugualmente, nella speranza che qualcuno gli riferisca correttamente ilmio intervento, ma vorrei, se possibile, consigliargli di correggere l’a-bitudine di intervenire ad un’assemblea, come è accaduto al congres-so regionale lombardo, e poi di lasciarla quando altri prendono la pa-rola. L’on. Buttiglione parla esplicitamente di politica più nelle inter-viste, sui giornali, alle televisioni, che non nel partito cui riserva ri-flessioni più sfumate e questo non aiuta a sviluppare costruttivamen-te la discussione.

Non è l’unico ad avere questo difetto, ma è nell’interesse di tuttivalorizzare maggiormente il dibattito nelle sedi ufficiali. Nel rispettodi questa regola intendo richiamare l’attenzione dell’on. Buttiglione sudue punti che riguardano, rispettivamente, la linea politica del PPI, spe-cie nei rapporti con la maggioranza di governo, e la concezione di unpartito popolare, democratico, laico, ad ispirazione cristiana che a mioavviso non dobbiamo disperdere. Non basta ripetere, per quanto ri-guarda il primo punto, che dobbiamo mantenere senza alcun sbanda-mento gli impegni assunti con gli elettori.

2 - Non tradire gli impegni con gli elettori

Durante la campagna elettorale abbiamo detto con chiarezza che,dopo il voto, non saremmo stati di appoggio a nessuno degli schiera-menti contrapposti, caratterizzati da equivoche e strumentali inteseelettorali più che da accordi politico-programmatici, e che avremmoassunto con fermezza e dignità il nostro ruolo di opposizione demo-cratica. Su questo impegno non si può transigere se non distruggendola credibilità del partito. Troppi amici che si riconoscono nelle posi-zioni dell’on. Buttiglione, in particolare l’amico Formigoni con le sueaperture a Berlusconi ed alla destra prima, durante e dopo le elezioni,appaiono flessibili su questa scelta. I richiami all’opposizione costrut-tiva, al dovere di governare, sembrano animati più dal desiderio di cor-rere in aiuto tutte le volte che la maggioranza si trova per colpa propriain difficoltà che dalla volontà di favorire, quando ve ne siano le condi-zioni, gli interessi del Paese, mettendo in luce le contraddizioni delcentro-destra.

Dobbiamo respingere questa tentazione. La nostra opposizione,ferma e responsabile, deve servire, in coerenza con i nostri programmie le nostre idealità a dimostrare l’errore compiuto da molti elettori chenon dobbiamo inseguire perdendo quelli che, coraggiosamente, cihanno dato fiducia. L’utilità politica di questo atteggiamento è con-

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fermata anche da una evidente razionalità. La maggioranza di governoè in crescenti difficoltà, l’opposizione non riesce a decollare ed è chia-mata ad affrontare problemi accantonati in precedenza. Perché andareirresponsabilmente in aiuto di questi schieramenti che hanno bisogno,al contrario, di essere sollecitati ad approfondire le ragioni delle lorodifficoltà e non di essere aiutati a coprirle con coperture esterne di na-tura trasformistica?

Se il PPI avrà il coraggio di incalzare con rigore la maggioranza, diconfrontarsi senza confusione con altre opposizioni, verrà il momentoin cui saranno gli altri a dover fare i conti con noi e non noi a salire sulcarro dei vincitori di oggi o ad appiattirci su chi si illude di realizzarea breve facili alternative. L’on. Buttiglione ha ragione quando affermache dobbiamo rafforzare la nostra identità e che sarebbe un errore an-ticipare scelte perché non sappiamo ancora cosa sarà la destra o la si-nistra. Questo condivisibile orientamento va però integrato su unaspetto decisivo. È inutile aspettare domani per sapere quello che giàoggi sappiamo essere, in tutta la sua pericolosità, la destra che è salitaal potere in Italia per iniziativa di Berlusconi.

Non è vero che gli elettori hanno scelto un programma, una mag-gioranza, un «premier» che ha realizzato prima del voto una chiara coa-lizione di governo. Berlusconi, utilizzando tecnicamente margini diopportunismo che la legge elettorale consente, si è aperto la via del po-tere con l’espediente di un’alleanza al sud con la destra neofascista, chenon ha fatto una revisione di fondo del suo passato e non è priva di vo-glie autoritarie, e di un più sofferto accordo con la Lega di Bossi alNord, con l’effetto di imbrogliare, di fatto, gli italiani facendo loro cre-dere che si era formata una maggioranza. Il «Polo della Libertà» è, nel-la sostanza, una strumentale intesa di potere più che uno schieramen-to su basi programmatiche e politiche.

Lo si è visto nella faticosa composizione del governo che non solonon ha consentito di ridurre come sarebbe stato opportuno il numerodei ministri e dei sottosegretari ed ha ripetuto le logiche perverse delmanuale Cancelli, ma è stata segnata, sin dall’inizio, da contrasti per-sonali e compromessi. Lo si riscontra nel ripetersi periodico di pole-miche vistose all’interno della maggioranza. Sembra che la storia pocoesaltante degli ultimi tempi si ripeta. Berlusconi, Bossi, Fini, e perqualche aspetto secondario i nostri transfughi spesso ignorati, sonod’accordo nel tirare a campare, nell’avviare nuove lottizzazioni, ma so-no spesso in dissenso tra loro sul modo di governare e sul come af-frontare i problemi del Paese.

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3 - Una opposizione decisa e ricca di futuro

È su questo terreno che l’iniziativa del PPI deve svolgersi con il mas-simo di efficacia nel Parlamento e nel Paese. È nelle proposte alternati-ve sui grandi temi del risanamento economico e della ripresa reale e nondemagogica dell’economia, della creazione dei posti di lavoro e della so-lidarietà come correttivo di un rischioso liberismo selvaggio, della rifor-ma dello Stato coerente con i principi della prima parte della Costitu-zione, che giustamente Dossetti ci chiede di tutelare con vigilanza e de-terminazione, dell’allargamento dei diritti di cittadinanza per la perso-na e per i ceti più deboli, di una politica estera fortemente europeisticae libera, nella costruzione di un nuovo ordine mondiale libero da ten-tazioni provinciali e nazionalistiche che il PPI deve conquistarsi il suospazio politico oggi alla opposizione domani al governo.

Un impegno di questo respiro richiede, al partito, la ripresa di unacapacità di studio, di elaborazione e di proposta che è impossibile senzala mobilitazione di tutte le energie disponibili che hanno aderito al PPI ohanno militato con onestà riconosciuta nella DC. Ma questo lavoro dimedio e di lungo periodo può svilupparsi se non ci sono tentennamen-ti nel fare fino in fondo il nostro dovere di una opposizione decisa e ric-ca di futuro e nel difendere le regole, esposte a continua violazione, del-lo Stato di diritto. Formigoni fa una fuga in avanti quando ci mette inguardia da pericoli futuri del controllo televisivo. Sono già in atto alte-razioni inquietanti che vanno smantellate al più presto in questo campo.

In nessun Pese democratico sarebbe tollerato che il Presidente delConsiglio abbia il controllo di tre televisioni private e si proponga, consospetta precipitazione, a estendere la sua diretta influenza anche suquella pubblica. Il conflitto tra interessi privati ed esercizio di una fun-zione pubblica emerge sempre più frequentemente nell’azione di go-verno. L’idea di aggirare l’ostacolo, moralmente e politicamente pre-giudiziale, affidando lo studio del problema a tre saggi privi di reali po-teri è stata una presa in giro del Parlamento. Si è arrivati allo scandalodi riunioni sia pure in una sede privata, più volte elevata a rango pub-blico, tra Presidente del Consiglio, ministri, avvocati difensori di per-sone e società indagate dalla magistratura, con un ennesimo strappoalle regole della democrazia costituzionale.

Il continuo degrado impone di rivolgere un appello per una mag-giore attenzione ai Presidenti delle Camere ed allo stesso Presidentedella Repubblica, che aveva giustamente rivendicato il diritto-doveredi vigilare su di una corretta distinzione dei poteri, perché troppe vol-te Berlusconi, anziché adeguare il suo «status» ad una elementare cor-

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rettezza costituzionale, ha chiamato impropriamente a garantire per luile più alte cariche dello Stato con una spregiudicatezza senza prece-denti. Anche su problemi di questa delicatezza è necessaria una fermaed efficacia iniziativa del PPI.

4 - Chiarezza di rapporti anche con la sinistra

La fermezza nello svolgere, in base alla propria identità politica eprogrammatica, il proprio ruolo di opposizione consente di impostaree sviluppare nel massimo della chiarezza anche i rapporti con la sinistra.Non bisogna avere, su questo punto, alcun complesso di inferiorità. Ladisponibilità a non rifiutare a priori convergenze utili, in una battagliadi opposizione per tanti aspetti comune, non può essere confusa con ilritorno a pratiche consociative ispirate ad intese di potere. È inaccetta-bile a questo proposito il tentativo di annullare, per non aver avuto ilcoraggio di rompere ogni legame con chi nel partito ha sbagliato com-mettendo gravi reati, l’intera esperienza storica della DC.

Prima Sturzo, insieme a Donati, Ferrari e tanti altri, poi De Ga-speri, Lazzati, Dossetti, La Pira, Vanoni, Fanfani e Moro, per riferirciai «leaders» più importanti, ci hanno lasciato in eredità insegnamentipreziosi che vanno preservati da una condanna sommaria e globale. Lostesso consociativismo degli ultimi anni non ha nulla a che vedere conuna tradizione di chiarezza e di apertura democratica che risale, per laDC, all’antifascismo, alla Resistenza, all’Assemblea Costituente e allepolitiche riformiste del centro-sinistra ed anche ad una originaria con-cezione della «solidarietà nazionale» di fronte all’emergenza che AldoMoro non confuse mai con il «compromesso storico». Nei rapporti asinistra il confronto, il dialogo, la ricerca di convergenze utili al Paesenon può in nessun caso essere subordinazione.

Nell’impostazione del PDS c’è stata, fin dall’inizio, una tendenza al-la cancellazione storica della DC, di tutta la DC, identificata con un re-gime per molti aspetti di comodo in una opposizione frontale. Questoorientamento si è accentuato nel contatto con una sinistra radicaleg-giante, di origine borghese, che ha sempre pensato ad una alternativalaicista che ponesse fuori gioco i cattolici nella democrazia italiana.L’on. Occhetto ha commesso un grave errore credendo di battere la de-stra accanendosi contro il centro, in particolare contro la DC e poi ilPPI, quando storicamente e idealmente è stata proprio la posizione cen-trale dei cattolici democratici, in collaborazione con laici lungimiran-ti, una delle garanzie contro la destra. I problemi nuovi che si aprono

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anche a sinistra, dopo che i progressisti non sono riusciti a dar vitanemmeno ad un unico gruppo parlamentare e si è riaperta la conflit-tualità tra il PDS e le componenti minori dello schieramento elettora-le, esigono da parte nostra una sollecitazione, un confronto aperto edesigente, non un appiattimento acritico sulle loro posizioni. È nella di-stinzione che si può collaborare, al governo o all’opposizione, ad allar-gare i margini di sicurezza della democrazia italiana al fine di prepara-re per via politica, non servendosi solo dello strumento elettorale, glisbocchi di alternative vitali e reversibili.

Non si può esaurire in una contingente convergenza nelle battagliedi opposizione il rapporto tra il PPI e la sinistra italiana. Anche qui igrandi temi dello Stato democratico, dell’economia libera, dei dirittidella persona e della famiglia, del pluralismo della società, della sceltanon solo economica dell’Europa e della costruzione di un ordine mon-diale fondato sull’indipendenza dei popoli, devono essere posti alla ba-se di un confronto ad ampio respiro con il PDS e con la sinistra italia-na. Sarebbe un imperdonabile errore farsi assorbire dalla sinistra, conuna perdita di identità ideale e politica, nella battaglia contro la destra.

La distinzione sui due fronti non deve essere equidistanza, nostalgiacentrista di puro schieramento. Il centro-sinistra, le ipotesi di «grandicoalizioni», la solidarietà nazionale correttamente intesa, non sono incontrapposizione con una funzione di centro del PPI, aperta a motivatecollaborazioni democratiche, nel significato che a questa scelta hannodato De Gasperi e Moro e, prima di loro, lo stesso Giolitti del suffragiouniversale e della fase dell’occupazione delle fabbriche. Per questo la net-ta opposizione alla attuale maggioranza di governo e la chiarezza del rap-porto a sinistra impongono di ribadire, con il giusto orgoglio della pro-pria storia e della propria identità, che il PPI discute con vivacità al suointerno ma non è in svendita per nessuno né a destra né a sinistra.

5 - Vigilare sui nuovi rischi del clerico-moderatismo

Ma il partito può assumere questo ruolo, tornando ad essere unaforza significativa e determinante della democrazia italiana, solo se nonrinnega le sue migliori tradizioni ed ha il coraggio di uscire dall’emer-genza con un tenace lavoro, al centro ed alla periferia, di ricostruzioneculturale, politica, organizzativa. Sono molte le energie da chiamare araccolta nel composito mondo cattolico, nella parte positiva dell’espe-rienza della DC, negli uomini di buona volontà che riconoscono il va-lore cristiano anche senza essere credenti. È di grande importanza, su

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questo punto, la concezione che si ha del partito e della sua autonomaresponsabilità.

Sono ritornate alla ribalta, negli ultimi tempi, visioni integralisti-che del fare politica che sono assai pericolose. Il rischio di una tenta-zione clerico-moderata, per difendersi da un mondo ostile e secolariz-zato, è reale e non è una invenzione polemica congressuale. L’on. But-tiglione, che viene da una esperienza apprezzabile ma che meriterebbeanche da parte sua una riflessione critica, ha reagito con asprezza allesollecitazioni di chiarimento in materia di clerico-moderatismo. Egliha ricordato, per ritorsione polemica, gli insulti da parte laica a De Ga-speri accusato, per astio anti-clericale, di essere in pratica un clerico-moderato ed ha aggiunto che chi ripropone oggi questo problema o èun ignorante che non conosce la storia o è in malafede.

De Gasperi, come è noto, non è mai stato un clerico-moderato enon c’è difficoltà a respingere l’accusa. Ma va respinta anche l’ingene-rosa accusa di ignoranza a chi mette in guardia, oggi, dai pericoli delclerico-moderatismo.

Questa tendenza ha un significato preciso ed ha occupato, nellastoria dei cattolici italiani, uno spazio limitato e ben definito. Rosmi-ni, Manzoni, i primi democratici-cristiani all’inizio del novecento, leleghe bianche ed il movimento delle cooperative, non hanno nulla ache fare col clerico-moderatismo. È dalla eredità della loro intransi-genza, della loro apertura sociale, che Sturzo ricava forza e giustifica-zione per la nascita del partito popolare, che i cattolici democraticiscelgono la via dell’antifascimo, che la DC concorre, laicamente, allafondazione della Repubblica e alla stesura della Costituzione.

Sono gli inventori del «patto Gentiloni», per salire sul carro dei li-berali conservatori, i clerico-moderati che si proponevano di puntella-re movimenti altrui nella speranza di qualche contropartita per laChiesa. È padre Gemelli che, al congresso di Bologna del 1919, è mes-so in minoranza da Sturzo che respinge l’idea di un partito cattolicoperché «la politica divide, mentre la religione unisce e non può essereuna bandiera di partito». Il PPI di oggi, se vuole collocarsi nella riccatradizione del cattolicesimo democratico, non può ricollegarsi ai so-stenitori di un nuovo patto Gentiloni, che non a caso sono già uscitidal partito, ad una idea cattolica e integralistica della presenza nella so-cietà, al pensiero di Gemelli, di una applicazione automatica senza au-tonome elaborazioni culturali della dottrina sociale, alla politica che èl’esatto contrario di Sturzo, di De Gasperi e di Moro.

Bisogna vigilare contro possibili ritorni di clerico-moderatismo chetornerebbero ad innalzare steccati antistorici, a confondere credenti e cit-

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tadini con grave danno per la coscienza civile e religiosa degli italiani. Èil Concilio Vaticano II che esorta a mantenere chiara questa distinzioneche è assai diversa dalla separazione tra fede ed esperienza storica che haportato ad una crescente secolarizzazione. Non dobbiamo rinunciare al-la ispirazione cristiana della politica, ma assumerla laicamente, viverlacon coerenza, trovando incontri e collaborazioni orientate al bene co-mune con quanti, con Benedetto Croce, non possono «non dirsi cristia-ni» anche se non si identificano con la dottrina sociale della Chiesa.

Il ritorno al clerico-moderatismo, oggi, sarebbe un danno per la re-ligione, per la Chiesa che non può identificarsi con nessun sistema po-litico particolare, oltre che una offesa ad una feconda tradizione stori-ca e ideale che ha posto i cattolici in condizione di pari dignità, sul ter-reno della democrazia, nella vita dello Stato moderno. Non è fuori luo-go richiamare alla riflessione su questo punto anche l’on. Buttiglione.Non si costruisce un partito popolare ad ispirazione cristiana, ancora-to a precisi valori contro ogni deviazione pragmatistica, senza l’auto-nomia che Sturzo, De Gasperi, Moro hanno conquistato e difeso e chenoi non possiamo disperdere.

6 - Nessuno può scegliere la via del disimpegno

Il lavoro che attende i popolari per ricostruire, nella chiarezza e nelcoraggio, il loro partito è talmente impegnativo che richiede a tutti ge-nerosità, dedizione, spirito di servizio. Ho letto da qualche parte chel’on. Buttiglione è pronto ad andare ad Oxford, per dedicarsi all’inse-gnamento della filosofia, se perde il congresso. Sarebbe una fuga oltreche una prova di scarso senso della responsabilità. Nessuno deve sce-gliere il disimpegno. Anche in minoranza si può concorrere a costrui-re un partito libero e vivo. Le idee possono avere campo domani se nonsi affermano oggi. Non si deve mai identificare il partito con se stessi.Il primo dovere del segretario e del gruppo dirigente che usciranno le-gittimati dal congresso è proprio quello di mobilitare ogni energia per-ché nessuno sia tentato, in ogni caso, di gettare la spugna. Sarebbe gra-ve aver paura dell’opposizione, cercare scorciatoie di puro potere, con-trapporsi in polemiche senza ascolto, illudersi di una facile ricostru-zione ideale, politica, organizzativa del partito. L’impresa è di lungomomento. Il PPI e con esso i valori cristiani e democratici e la nostramigliore memoria storica non avranno futuro se non prevarrà in tutti,nella chiarezza delle posizioni, un autentico spirito di servizio come se-gno di reale rinnovamento della politica.

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Atto costitutivo dei «popolari intransigenti»*

L’Associazione Popolari intransigenti fu fondata nel settembre del 1994.Granelli ne era il presidente, mentre Calcaterra, Narciso Longhi, MarioMauri, Arturo Bodini, Michele Pellegrino e Luca Birindelli erano stati in-caricati di coordinare l’avvio dell’attività. Il richiamo al popolarismo vole-va significare la validità della concezione laica della politica, cristianamen-te ispirata, che Sturzo aveva posto alla base di una presenza di massa e so-cialmente articolata nella vita pubblica per concorrere a riformare in sensodemocratico lo Stato centralista uscito dal Risorgimento. Voleva significarealtresì, la necessità dell’integralismo clericale, dannoso per la stessa vita reli-giosa, ed del superamento di una visione puramente sociale e pauperistica.

Anche il ricordo di Francesco Luigi Ferrari, al quale l’Associazione eraintitolata, intendeva richiamare l’impegno morale, intellettuale, cultura-le e politico di un “popolare intransigente” che aveva operato negli anniVenti a Milano ed era stato un protagonista di rilievo nei passaggi più cru-ciali del movimento politico dei cattolici.

Quando si è pensato di dar vita ad uno strumento nuovo come se-gno di discontinuità rispetto al passato e per reagire, pur senza rin negaregli aspetti positivi dell’esperienza compiuta, alla grave crisi di sbanda-mento e al disimpegno di molti cattolici democratici, la scelta dell’as-sociazione era quasi obbligata. La ripresa sul terreno culturale, civile edanche politico dei valori cristiani e democratici, dentro e fuori l’orga-nizzazione di partito, non poteva essere affidata, in un momento di tra-vaglio e di trasformazione, a sporadiche iniziative, correnti tradi zionali,gruppi di pressione, o a pure e semplici campagne d’opinione.

* L. Granelli, Messaggi in bottiglia, Edizione curata dall’Associazione «Popolari in-transigenti», Milano 2000, pp. 115-122.

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1 - Motivazioni di una scelta

L’associazione senza scopo di lucro, autofinanziata, retta da rego ledemocratiche e trasparenti, si è profilata come il mezzo adeguato, pre-visto dalle leggi, per favorire con un minimo di base giuridica l’unio -ne di più persone per perseguire scopi comuni. In un momento diprofonda incertezza, che coinvolge forme vecchie e nuove di organiz-zazione, la nascita di molte associazioni, anche se in qualche caso stru -mentali o di comodo, è una reazione salutare in una società sempre piùomologata e conformista.

L’Associazione Popolari Intransigenti è, anzitutto, frutto di unachiara presa di coscienza perché non si può essere neutrali quando lademocrazia è investita da una inquietante crisi. I tentativi di control -lare dall’alto il formarsi delle opinioni e delle classi dirigenti, con unacrescente cooptazione oltre che con l’uso spregiudicato dei mass me-dia, vanno ostacolati con il dispiegarsi dal basso, specie tra i giovani,di un processo di elaborazione e di diffusione delle idee, di forma -zione e di presenza, che è essenziale allo stesso rinnovamento eticodella politica.

È noto che i cittadini, in base alla Costituzione repubblicana, so-no chiamati a determinare la politica nazionale, ma l’esercizio di que-sto diritto è reso più consapevole da una preparazione che può trovarenell’associazionismo, nel diffondersi dello spirito critico, del dialogo,un antidoto positivo all’involuzione autoritaria insita nella tendenza atrasformare gli elettori in soggetti passivi, manipolabili, di una demo-crazia plebiscitaria. La partecipazione popolare alla vita pub blica è unaconquista irrinunciabile della lotta contro la dittatura fasci sta, sancitacostituzionalmente, e va difesa con ogni mezzo dalle vellei tà di restau-razione sempre più evidenti nella cosiddetta seconda re pubblica.

2 - Il significato del popolarismo

Per questo l’Associazione Popolari Intransigenti, in una operan tesolidarietà tra diverse generazioni di cattolici, si pone soprattutto al ser-vizio dei giovani disposti ad impegnarsi per «rendere attuali – come af-ferma esplicitamente il preambolo dello Statuto – I valori cristiani e de-mocratici in un dialogo costante e costruttivo con quanti si propongo no,anche con idee diverse, di rinnovare la società, affermare la giustizia, con-solidare le istituzioni nate in Italia con la Costituzione del 1947». La col-locazione democratica e costituzionale dell’Associazione e la sua con-

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vinta apertura al dialogo, specie con le tendenze riformatrici della si-nistra italiana, non lasciano dubbi ma ancora più esplicite sono le mo-tivazioni della scelta per quanto attiene al proprio riferimento ide alealla storia del movimento cattolico.

Il richiamo al «popolarismo» è altamente qualificante. La conce -zione laica della politica, cristianamente ispirata, che Sturzo ha postoalla base di una presenza di massa e socialmente articolata nella vitapubblica per concorrere a riformare in senso sociale e democratico loStato centralista uscito dal Risorgimento, è ancora valida. Essa va ri-proposta affrontando, senza complessi di inferiorità, i problemi del no-stro tempo. Il rifiuto dell’integrismo clericale, dannoso per la stessa vi-ta religiosa, ed il superamento di una visione puramente sociale, pau-peristica, della crisi nazionale hanno consentito e consentono ai catto-lici di assumere, senza subordinazioni, una personalità propria per con-tribuire da protagonisti alla storia del Paese.

La prima DC, agli albori del secolo, il partito di Sturzo e quello diDe Gasperi poi, lo hanno dimostrano al di là di errori e di degenera-zioni che vanno drasticamente superate. Il significato di quella espe-rienza non va disperso. La memoria storica, anziché alimentare im-produttive nostalgie, deve aiutare i cattolici che accettano la democra-zia a svolge re il proprio ruolo nella società, oltre che nelle istituzioni,per affronta re con creatività il presente e preparare il futuro con il de-terminante impegno dei giovani.

Non si esce dal disastro politico degli ultimi anni, dovuto ad unaperdita di idealità e di condotta morale nella gestione del potere, com -mettendo l’errore di cancellare insieme alle colpe le conquiste di unastoria secolare o cercando di restare sulla scena con la svendita delle pro-prie ragioni d’essere al migliore offerente. Il difficile cammino del la ri-presa va orientato verso la riscoperta culturale, civile, ed anche politica,del «popolarismo» da parte di nuove generazioni di cattolici capaci di es-sere, autonomamente, all’altezza delle loro responsabilità di credenti edi cittadini nell’operare sul terreno della democrazia co stituzionale.

Un lavoro così impegnativo non si identifica, meccanicamente,con la presenza, dopo la DC, di un partito popolare ad ispirazione cri-stiana che deve essere aiutato a uscire dall’incertezza, per ritrovare unaqualificazione ideale e politica credibile, ma potrebbe anche sban daree dissolversi. Né può essere confuso con l’azione, di per sé meri tevole,di gruppi o tendenze animate da finalità apprezzabili in un ristrettoambito di partito. Per questo l’autonomia dell’Associazione PopolariIntransigenti in quanto tale, che non preclude le libere scelte di ciascunassociato, è una condizione essenziale per influenzare posi tivamente,

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con un più ampio orizzonte, il corso degli eventi e per non compro-mettere, se necessario, future e più esplicite iniziative.

3 - I problemi della società attuale

La sfida maggiore, anche per l’Associazione, riguarda le risposte dadare in coerenza con la propria ispirazione ideale ai problemi reali del-la società italiana. Non si possono avanzare programmi, soluzioni, semanca un’analisi di fondo culturale e scientifica. Vasta è l’ipotesi di la-voro. Una crisi economica strutturale spinge sempre più ai margini, incondizioni di disagio e di protesta, disoccupati, giovani in cerca di la-voro, mano d’opera immigrata, e mentre aumentano le sacche di po-vertà si sceglie di smantellare, anziché di riordinare, lo Stato socialefrutto di lunghe lotte e di non facili conquiste.

L’allargamento della base produttiva che richiede, con il rilanciodegli investimenti, promozione di imprenditorialità, incentivi alla pro-duzione, incremento della ricerca, agevolazioni del credito, è ostacola -to dal permanere di rendite, parassitismi, ingiustizie fiscali, burocra-tizzazione degli apparati pubblici, che alimentano un paraliz zante de-bito pubblico non risanabile con il rigore a senso unico. Si allarganogli squilibri tra le diverse aree del Paese e la spinta all’egoi smo, al con-sumo come simbolo di vita, indeboliscono quei legami di solidarietà,di messa in comune delle risorse, di ripartizione equa dei sacrifici, chesono essenziali per avviare una nuova e durevole fase di sviluppo eco-nomico ed evitare l’emarginazione nel contesto europeo.

La crisi non è minore sul piano internazionale. Cronici e sangui nosiconflitti locali, scandalosi commerci di armi, esplosione di rivalità etni-che e di barbari razzismi, difficoltà nella collaborazione tra Paesi ricchie Paesi poveri, perdita di autorevolezza dell’ONU, fanno da sfon do ad unpreoccupante ritorno della politica di potenza e ad una ridu zione agliaspetti puramente mercantili della stessa unità europea. La concezionesturziana, «popolare», di una politica estera fondata sul diritto, sulla giu-stizia, sulla cooperazione, sul disarmo e la pace, sul potenziamento de-gli organi internazionali (che dal dopoguerra in poi ha ispirato le nostrerelazioni con gli altri Stati) torna di grande attua lità proprio mentre l’I-talia, con la svolta a destra, sembra ripiegare su aspirazioni nazionalistevenate di provincialismo, influenzate come al tempo del fascismo da ra-gioni interne, con gravi rischi per il nostro futuro.

Le inquietudini crescono sul fronte delle libertà sostanziali. Gli at-tacchi alla Costituzione del 1947, specie nella sua prima parte, riflet -

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tono la volontà di risolvere i problemi della stabilità e dell’efficienzadelle istituzioni a scapito dei diritti democratici, del decentramento,delle autonomie, della distinzione dei poteri, del ruolo del Parlamen -to, con un ritorno ad un autoritarismo che insidia le nostre libertà acominciare da quella, fondamentale, che riguarda la stampa ed i massmedia. La stessa lotta politica, ridotta a scontri frontali tra blocchi ete -rogenei, accentua la verticalizzazione del potere contro una più artico -lata partecipazione dei cittadini. Solo la ripresa tra governati e gover -nanti del senso dello Stato, del dovere, della responsabilità, può arre -stare questa pericolosa involuzione.

È in questo quadro generale che l’Associazione Popolari Intransi-genti svilupperà, in base alle finalità sancite dallo Statuto, le sue ini-ziative per approfondire i problemi sociali, economici, istituzionali, neiloro aspetti interni ed internazionali, elaborare proposte coerenti conle proprie idealità, difendere insieme a tutti i democratici – nella vigi-lanza e nell’azione – i valori costituzionali posti a fondamento della Re-pubblica nata della Resistenza. Dalla stessa logica traggono motiva -zione le chiare scelte di chiusura a destra, contro il conservatorismo edi suoi surrogati, di dialogo a sinistra con le tendenze riformatrici, di ri-cerca di utili convergenze tra le forze popolari, nel rispetto delle reci-proche identità, per la difesa e lo sviluppo della democrazia.

4 - Le ragioni dell’intransigenza

L’Associazione si svilupperà nel solco fecondo di un «popolarismo»che è segno di distinzione per i cattolici democratici. Ma perché si èvoluto aggiungere a questa qualificazione la sottolineatura dell’intran -sigenza? La ragione è della massima importanza. L’intransigente, nel-l’opinione comune, evoca posizioni rigide, chiuse in se stesse, incliniad un estremismo che condanna all’isolamento. L’interpretazione èforzata e va ricordato che i Popolari Intransigenti rifiutano per unascelta a priori ogni atteggiamento massimalista. Ma l’osservazione ri -chiede tuttavia qualche spiegazione. Il richiamo alla intransigenza co-me fermezza delle posizioni, difesa dei valori, tutela della propria iden-tità, non è fuori luogo in un momento in cui il lassismo, la distinzio-ne opportunistica tra il pensare e l’agire, il trasformismo, la ricerca delcompromesso anche a costo di accantonare tutto ciò che lo impedisce,dominano il campo e corrompono le coscienze.

Non serve avere delle idee se poi, nei comportamenti pratici, nonsi è coerenti con esse. L’intransigenza non è un «optional» se si tende

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ad un risveglio morale, di costume, oltre che culturale e politico. Il ter-mine stesso non ammette deformazioni. Il dizionario della lingua ita-liana precisa che l’intransigente è «colui che non transige, si mantie ne ir-removibile nelle proprie idee, non tollera deviazioni da un program ma fis-sato o da una linea di condotta determinata» e aggiunge, con una pre-ziosa distinzione, che “l’intransigenza si distingue dall’intolleranza, cheriguarda più propriamente la dottrina, perché si riferisce a fatti dell’ordi-ne pratico di comportamento».

Ma al di là delle dispute linguistiche «l’intransigentismo» è so -prattutto un preciso punto di riferimento nella storia del movimentopolitico cattolico. Esso non può essere confuso con le varie forme del-l’integralismo di tipo teocratico. Al tempo dell’unità gli intransigentiassunsero, in Italia, una ferma difesa degli «imprescrittibili» dirit ti del-la Chiesa, ma svilupparono anche una opposizione senza smaglia turealla versione nazionale di un liberalismo anticlericale che diede vita aduno Stato centralista, nemico delle autonomie, frutto di una operazio-ne di vertice fondata sull’estraneità delle classi popolari e su una chiu-sura, interrotta solo a tratti, delle esigenze di giustizia sociale.

5 - Gli insegnamenti della storia

Non si può negare che nello schieramento degli intransigenti siconfusero, nella prima fase, atteggiamenti diversi. Accanto alle posi -zioni temporaliste, nostalgiche, e contrarie in via di principio a quan-to di positivo, in termini di conquiste civili, poteva maturare con il Ri-sorgimento, vi erano le posizioni di cattolici inquieti per gli impedi-menti del «non expedit», socialmente aperti e antiliberali più nel solcodella «Rerum Novarum» che per gli effetti del «Sillabo». È noto che leambiguità di questo intreccio via via si sciolsero.

Soprattutto a partire dal 1898, quando a Milano don Davide Al-bertario finì in carcere con Turati per essersi opposto alle repressio ni an-tipopolari di Bava Beccaris, si svilupparono sempre più chiaramentedue tendenze intransigenti nell’Opera dei Congressi: la prima, di orien-tamento conservatore e ostile ad ogni compromesso, e la se conda, allo-ra influenzata da Romolo Murri, decisa a rivendicare una presenza po-litica nettamente definita, socialmente schierata, e contra ria a cedimenticlerico-moderati alla spicciolata verso la classe dirigen te al potere.

Da questo nucleo di pensiero e di azione dell’intransigenza na -scono agli inizi del novecento, a Milano ed altrove, i tentativi di costi -tuirsi in partito della prima Democrazia Cristiana. Grazie a questa fer-

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mezza di comportamento molti cattolici resistettero, dal 1913, alle in-sistenti lusinghe clerico-moderate del «patto Gentiloni» che si pro -poneva di portare i voti dei cattolici, ben diversamente da come pen -sava Filippo Meda, al carro dei conservatori e in funzione antisociali-sta. Ed è utilizzando in positivo le risorse morali accumulate nel pe-riodo dell’intransigenza che Luigi Sturzo porterà a termine, su basi lai-che e schiettamente costituzionali, un progetto culturale e politico che,se condo un acuto giudizio di Gabriele De Rosa, fu il compimento diun lungo processo storico che rese possibile, nel 1919, la formazionecristianamente ispirata di un «partito moderno di cattolici, intransigen-te ma senza riserve integralistiche».

Al contrario, è proprio dalla cultura e dal relativismo morale dei«transigenti» che prendono le mosse i clerico-moderati, prima, ed i cle-rico-fascisti, poi, in un triste susseguirsi di capitolazioni e di compro-messi che hanno offuscato la storia del movimento politico dei cat tolicie contribuito al logoramento e al crollo della democrazia prefascista.Così come è all’integrismo, non all’intransigentismo, che an che in Ita-lia vanno fatti risalire sia i falliti tentativi teocratici in collega mento coni francesi di «Action Francaise», dopo lo scioglimento del l’Opera deiCongressi, sia la costituzione, a cominciare dai Comitati Civici, di mo-vimenti che ripropongono, anche oggi, una antistorica confusione trareligione e politica.

Senza il contributo della lunga «resistenza» all’integralismo, che hafavorito la decisiva stagione della «preparazione nell’astensio ne», non sa-rebbe sorto, in Italia, un partito popolare di cattolici che nel momen-to della conciliazione con lo Stato unitario non abbandona va un ruo-lo di opposizione in difesa di tutte le libertà, in primo luogo di quelledei ceti sociali indifesi, e quindi in grado di dare voce politica a quel-l’insieme di associazioni, leghe, sindacati bianchi, che era il frut to diuna radicata presenza nella società.

A questa importante lezione di moralità e di creatività politica sisono ispirati con coerenza negli anni della bufera autoritaria, dopo ilcongresso di Torino del 1923, Luigi Sturzo e uomini come Donati eFerrari che hanno saputo difendere l’onore del PPI nella lotta estremae nell’esilio. Ed è rivendicando questo grande patrimonio storico, ar -ricchito dall’antifascismo dei «guelfi» di Piero Malvestiti e dalla parte -cipazione alla Resistenza, che la DC di De Gasperi rinasce e può occu -pare una posizione di rilievo nella nuova democrazia italiana e concor -rere, da Dossetti a Vanoni, da Lazzati a Moro, a realizzare uno svilup -po della società italiana che nessuna degenerazione successiva puòsommariamente cancellare.

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6 - La difficile sfida del futuro

Non è fuori luogo richiamarsi, anche oggi, alla lezione del «popo-larismo intransigente» per riaprire la via alla consapevole ripresa di uncammino culturale, civile, ed anche politico dei cattolici italiani cheeviti la svendita della propria personalità per fare ancora una volta dapuntello alla conservazione o per cercare, illusoriamente, una rivin citaal seguito di alternative preparate da altri senza il contributo spe cificodelle idee, delle battaglie, delle speranze cristiane nella società con-temporanea e in una libera democrazia. In questo impegno vi è largospazio, come al tempo di De Gasperi, non solo per i cattolici, ma an-che per laici che non vogliono scegliere a destra o a sinistra e sono cul-turalmente sensibili al «perché non possiamo non dirci cristiani» di Be-nedetto Croce.

La sfida del futuro è assai difficile. La diaspora che genera gruppet-ti di conservatori, progressisti, integralisti, in concorrenza tra loro san-cisce l’irrilevanza dei cattolici nella vita nazionale. Non c’è avvenire sen-za il formarsi sulle base di idee, programmi, passione civile, di una gran-de e articolata forza democratica popolare ad ispi razione cristiana. Il no-stro contributo vuole muoversi anche in quella direzione. L’Associazio-ne Popolari Intransigenti non è frutto di improvvisazione, non segue lamoda, ha alle sue spalle una ricca tradizione, si ispira a valori di grandeattualità, ed è aperta nell’attuazio ne dei suoi programmi a credenti e cit-tadini che intendono reagire alla tentazione del disimpegno.

Anche il ricordo di Francesco Luigi Ferrari vuole solo richiamarel’impegno morale, intellettuale, culturale e politico di un «popolare in-transigente» che ha operato negli anni venti a Milano, con la rivista il«Il Domani d’Italia», ed è stato un protagonista di rilievo nei passaggipiù cruciali del movimento politico dei cattolici. Le incognite del cam -mino dell’Associazione sono molte, ma l’impresa merita di essere av -viata quale che sia il suo esito.

(Milano, premessa allo statuto dell’Associazione «Popolari Intran-sigen ti», Atto Notaio Fossati n° 12012/81398 - fondatori Luigi Gra-nelli, Felice Calcaterra, Narciso Longhi, Mario Mauri, Arturo Bodini,Michele Pellegrino e Luca Birindelli - presidente Luigi Granelli, segre -tario Felice Calcaterra - 19 settembre 1994).

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Indice dei nomi

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Indice

Nota dei curatori p. 7

PARTE PRIMA

Luigi Granelli nella Democrazia cristiana 9Cattolici e socialisti: «Il problema va collocatoa livello politico» 20Lettera aperta all’on. Nenni 26Favorire le intese tra i partiti per allargare la base democratica dello Stato 33I tempi richiedono una politica nuova 47Un nuovo corso per la Democrazia Cristiana 59La figura di De Gasperi 72Il futuro del centro sinistra 95I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianità 103I rapporti tra Chiesa e Stato a cento anni da Porta Pia 115Di fronte al referendum sul divorzio 119Cattolici democratici tra rinnovamento e confronto 143L’idea della Base. Un ricordo di Marcora 146

PARTE SECONDA

Le battaglie politiche di Luigi Granelli 155La Costituzione e l’organizzazione dello Stato 170Forza e debolezza del centrismo 182La concezione democratica sturziana del partito 186

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Nella lotta per lo Stato democratico 198Classe politica e rinnovamento dei partiti 207Conferenza nazionale dell’emigrazione 230La politica estera dell’Italia 241Istituzione dell’Agenzia Spaziale Italiana 252Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato 259Rifare la DC, non archiviarla 267Come dire: l’abito non fa il monaco 269Un’opposizione ricca di futuro per i popolari 277Atto costitutivo dei «popolari intransigenti» 285

Indice dei nomi 293

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