Elementi di Economia e gestione delle imprese – Parte I a...

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1 Elementi di Economia e gestione delle imprese – Parte I a cura di Ernestina Giudici

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Elementi di Economia e gestione delle imprese – Parte I a cura di Ernestina Giudici

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INDICE

Parte I - Discutendo di organizzazione e impresa 1. Il “mondo” delle organizzazioni

1.1. Perché esistono le organizzazioni? pag. 4 1.2. Passato, presente e futuro delle organizzazioni “ 4 1.3. Elementi identificativi “ 13

1.3.1. Stakeholder “ 15 1.3.2. Fini “ 16 1.3.3. Risorse “ 17 1.3.4. Rete normativa e comportamentale “ 18

1.4. Verso una definizione di organizzazione “ 19 1.5. Tipologie di organizzazioni “ 19

2. L’insostituibile ruolo dell’impresa 2.1. Impresa: entità molto diffusa, ma anche realmente conosciuta? “ 21 2.2. Una sfida sempre attuale: formulare un’unitaria teoria dell’impresa “ 21 2.3. Confine dell’impresa “ 23 2.4. Verso una possibile definizione di impresa

2.4.1. Impresa o imprese? “ 25 2.4.2. Elementi caratterizzanti “ 25 2.4.3. Obiettivo o obiettivi? “ 25 2.4.4. Definizione “ 27

3. L’impresa oggi: una cellula di un sistema di interdipendenze 3.1. Premessa “ 29 3.2. Etica e responsabilità sociale “ 30 3.3. Il ruolo dell’innovazione “ 40

Bibliografia “ 49

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Parte I - Discutendo di organizzazione e impresa

The dogmas of the quiet past are inadequate to the stormy pre-sent. The occasion is piled high with difficulty and we must rise with the occasion. As our case is new, so we must think anew and act anew. Abraham Lincoln

1. Il “mondo” delle organizzazioni 1.1. Perché esistono le organizzazioni?

Interrogarsi sulle motivazioni dell’esistenza delle organizzazioni, in un mondo “invaso” da organizzazioni può apparire quasi privo di significato. Proprio perché ogni attività umana – individuale o collettiva – si realizza per mezzo di organizzazioni, risulta fondamentale avere una puntuale conoscenza di esse o, meglio, delle problematiche che le caratterizzano in modo da coglierne appieno le potenzialità e, perché no, anche i punti di debolezza.

L’organizzazione – come fenomeno sociale – è nata per superare i limiti delle capacità fi-siche e mentali dei soggetti umani. Più esattamente, le organizzazioni sono entità per mezzo delle quali collettività di soggetti umani operano insieme, combinando i loro sforzi per ottene-re risultati che ciascuno singolarmente non sarebbe in grado di perseguire1. Inoltre, l’organizzazione è in grado di garantire continuità temporale al perseguimento di obiettivi che possono caratterizzare l’intero arco della vita di un soggetto umano, cioè non limitato alla propria vita professionale.

Per quanto, come notato, si sia circondati da organizzazioni, non è agevole riuscire a for-

mulare una teoria o un sistema di analisi capace di considerare la notevole molteplicità delle loro caratteristiche.

1.2. Passato, presente e futuro delle organizzazioni Il passato

Le organizzazioni hanno costituito oggetto di interesse di importanti studi scientifici che hanno dato vita, nel secolo scorso, a rilevanti scuole di pensiero dalle quali non si può pre-scindere anche nella formulazione di studi e teorizzazioni nel periodo presente, così come co-stituiscono importanti premesse per gli sviluppi futuri.

Un importante lavoro di sistematizzazione dei vari contributi scientifici è riscontrabile nell’impegno di W.R. Scott che ha ricondotto l’enorme quantità di studi nell’ambito di tre prospettive – sistema razionale, sistema naturale e sistema aperto (Riquadro I.1) – con la spe-cificazione che “le tre prospettive sono in parte in conflitto, in parte sovrapposte e in parte complementari l’una all’altra”.2

Egli sottolinea che “Anche se queste prospettive sono emerse in tempi diversi, le ultime non sono riuscite a soppiantare quelle precedenti: le tre prospettive continuano a coesistere e ad avere ciascuna i propri sostenitori. Anche se cercheremo di descrivere in qualche modo la storia di ciascuna prospettiva, le prospettive non hanno fondamentalmente un interesse stori-co. Esse sono invece modelli analitici che intendono guidare – e interpretare – la ricerca empi-

I giovani oggi dovranno imparare a muoversi tra le organizza-zioni come i loro antenati impararono a coltivare i campi e ad allevare bestiame. Peter F. Drucker

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R.W. Scott - Le tre prospettive

rica. Esse sono cambiate nel tempo man mano che una scuola si sostituiva alla precedente all’interno di ciascuna tradizione, ma sorprendentemente i profili generali delle tre prospettive sono rimasti abbastanza nitidi”.

1. La prospettiva di sistema razionale (che comprende l’approccio classico, quello tradizionale, quello dell’organizzazione scientifica del lavoro e quello di Weber).

2. La prospettiva di sistema naturale (che comprende l’approccio delle relazioni umane e quello istituzionale).

3. La prospettiva di sistema aperto (che comprende l’approccio dei sistemi generali, quello della progettazione dei sistemi e quello ambientale).

Organizzazioni come sistemi razionali Le organizzazioni sono tipologie caratteristiche della struttura sociale nella quale operano

come strumenti con speciali finalità orientate al perseguimento di “specifici obiettivi”. Consi-derate da questo punto di vista, le organizzazioni sono indiscutibilmente l’invenzione sociale di maggiore successo di tutti i tempi. Ponendo l’accento sulle loro finalità limitate e specifi-che, coloro che progettano e creano le organizzazioni possono adottare un orientamento ra-zionale, mezzi-fini, chiari criteri per lo svolgimento delle attività. Un altro aspetto delle orga-nizzazioni è la loro inclinazione per la “formalizzazione”. Quest’ultima implica la creazione di regole generali e routine per guidare le decisioni e le azioni.

La storia del mondo moderno è quella nella quale i gruppi sociali o collettività 1) perse-guono obiettivi espliciti e specifici; e 2) sviluppano strutture formalizzate e procedure a tal fi-ne. Esse costituiscono la modalità attraverso la quale il lavoro viene diretto.

Chiunque intenda sviluppare specifiche attività, non può esimersi dal definire specifici obiettivi e dallo sviluppare una struttura. È questo uno dei motivi per cui i movimenti sociali vengono definiti in opposizione alle organizzazioni – come fenomeno spontaneo, non orga-nizzato e non strutturato. A meno che esse non diventino organizzate, sviluppando leadership specializzate e acquisendo mezzi per sostenersi, è probabile che incontrino elevate difficoltà a rimanere in vita.

Parsons3 ha dichiarato “lo sviluppo delle organizzazioni è il meccanismo principale attra-verso il quale, in una società altamente differenziata, è possibile «to get things done» (fare le cose bene) per ottenere obiettivi irraggiungibili dagli individui”. Questa dichiarazione è anco-ra valida. Tra gli studiosi che possono essere ricondotti a questa prospettiva, si ricordano Fre-derick W. Taylor, Henry Fayol ed Herbert Simon di cui una breve biografia è riportata nei ri-quadri I.2, I.3. e I.4.

Organizzazioni come sistemi naturali

Le organizzazioni vengono costituite per perseguire obiettivi specifici anche se questi possono mutare in funzione di eventi successivi. Si tratta di uno sviluppo che si lega alla so-pravvivenza dell’organizzazione in un divenire tra la soddisfazione di interessi esistenti e la creazione di nuovi interessi.

Negli studi che possono essere considerati nella prospettiva del sistema naturale viene ri-servata maggiore attenzione al ruolo degli individui e al loro contributo per il perseguimento degli obiettivi. I soggetti umani non operano esclusivamente sulla base di regole predisposte ma assumono rilievo notevole le relazioni informali. In altri termini, l’organizzazione viene considerata quale collettività di soggetti umani che condividono l’obiettivo della sopravviven-

Riquadro I.1

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                                                                 Frederick Wilson Taylor (1856-1917)

 

                                                                         Henri Fayol (1841-1925)

 

 

za dell’organizzazione. Le organizzazioni costituiscono le entità attraverso le quali ogni individuo può perseguire

i propri obiettivi. Tra l’individuo e i suoi interessi si introduce l’organizzazione con le sue strutture e procedure che trasformano le modalità con le quali gli obiettivi vengono perseguiti e, spesso, la natura di questi obiettivi.

Nell’ambito di questa prospettiva può essere ricondotto il movimento delle Human Rela-tions il cui fondatore è Helton Mayo (Riquadro I.5).

Frederick Taylor era un ingegnere inglese. La sua opera fondamentale è Principles of Scientific Manage-ment del 1911 quale risultato di sintesi di molti altri scritti.

È il fondatore del movimento conosciuto come Scientific Management. Egli ha precisato che “The principal object of management, should be to secure the maximum prosperity for the employer, coupled with the maxi-mum prosperity of each employee”.

La reciproca interdipendenza tra direzione e dipendenti e la necessità di operare insieme verso il comune obiettivo di crescita per tutti era per Taylor un aspetto assolutamente evidente tanto che spesso si domandava come mai ci fosse tanto antagonismo e inefficienza. Egli propone quattro fondamentali principi di management: 1. lo sviluppo di una reale scienza del lavoro; 2. la selezione scientifica e lo sviluppo progressivo dei lavoratori; 3. l’apporto congiunto della scienza del lavoro e della selezione e addestramento scientifico dei lavoratori; 4. la costante e intima cooperazione tra management e lavoratori.

Per scienza Taylor intende una osservazione e misurazione sistematica che egli spesso definisce the science of shovelling (la scienza dello spalamento) che è certamente un lavoro molto semplice ma lo studio dei fattori che rendono efficiente l’attività dello spalare è più complessa.

Gli studi di Taylor sono stati seguiti da altri, tra i quali, Gantt, Frank e Lillian Gilbreth, Bedeaux, Rowan, Halsey. Peraltro le idee di Taylor hanno alimentato molte controversie inerenti la presunta inumanità dei suoi si-stemi che venivano accusati di ridurre i lavoratori al livello di macchine efficienti. In realtà i suoi principi sono stati spesso travisati e ciò ha impedito il realizzarsi di quella che indicava come “rivoluzione mentale” nei rap-porti tra management e lavoratori.

Henri Fayol era un ingegnere minerario francese. Pur avendo pubblicato vari articoli, la sua opera fondamentale Administration Industrielle et Générale – Prévoyance, Organisation, Commandement, Coordination, Contrôle fu pubblicata nel 1916, quando aveva più di 70 anni. È da notare che pur avendo scritto un solo libro, questo è stato ristampato innumerevoli volte e tradotto in varie lingue: la prima edizione in inglese è del 1949.

Il suo contributo agli studi sulle organizzazioni può essere ricondotto ai sei gruppi di attività che si sviluppano nelle imprese:

- attività tecniche (produzione) - attività commerciali (acquisto, vendita, scambio) - attività finanziarie (ricerca per un uso ottimale del capitale) - attività di sicurezza (protezione dei beni e delle persone) - attività di contabilità (inventario, bilancio, costi, statistiche) - attività di direzione (pianificazione, organizzazione, comando, coordinamento, controllo) Siano le imprese semplici o complesse, grandi o piccole, questi sei gruppi di attività o funzioni essenziali sono

sempre presenti. In realtà, viene annoverato tra gli studiosi di organizzazione per l’innovativa proposta relativa alle funzioni di direzione: è stato il primo studioso che ha formulato un’analisi teorica delle attività direzionali. Da allo-ra, sono molto pochi gli studiosi che non sono stati influenzati da questo contributo. Tra l’altro, i suoi cinque ele-menti hanno fornito ai manager un valido sistema di riferimento.

Organizzazioni come sistemi aperti La Teoria Generale dei Sistemi, formulata alla fine degli anni ’50 si è sviluppata veloce-

mente influendo e trasformando molti ambiti scientifici (Riquadro I.7). Comunque, nessun dominio è stato più profondamente modificato da questa rivoluzione intellettuale quanto il

Riquadro I.2

Riquadro I.3

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                                                                 Herbert A. Simon (1916-2001)  

 

                                                               Elton Mayo (1880-1949)  

 

campo degli studi sulle organizzazioni. La maggiore influenza ha riguardato il riconoscimento dell’importanza dell’ambiente, sia come sorgente di input che come destinatario di output.

I teorici della “contingenza” asseriscono che le organizzazioni che adattano le loro strut-ture alle esigenze dell’ambiente possono raggiungere con maggiore probabilità il successo4. Successivamente gli studiosi hanno specificato che gli ambienti sono anche un luogo di potere politico e competizione economica. La “Resource dependence and population ecologists” en-fatizza l’importanza della competizione in presenza di risorse scarse – una competizione che ha conseguenze e rimedi sia economici che politici. Gli studiosi del filone “institutional” rico-noscono che le organizzazioni sono influenzate da modelli cognitivo-culturali e normativi nell’attività di progettazione delle strutture così come nell’attività di direzione delle imprese. In tal modo la concezione dell’ambiente delle organizzazioni si è significativamente ampliata.

Herbert A. Simon fu docente di Computer Science e Psicologia alla Carnegie-Mellon University, Pittsburgh dove, con i suoi colleghi era impegnato in ricerche fondamentali sul processo decisionale con l’utilizzazione del computer per simulare il pensiero umano. Il contributo intellettuale di Simon fu pubblicamente riconosciuto quando nel 1978 gli fu attribuito il premio Nobel per l’Economia.

Per Simon, management è equivalente a decision making e il suo maggiore interesse si è concentrato sull’analisi di come le decisioni vengono adottate e su come possono essere più efficaci.

Il suo contributo più significativo può essere individuato nella risposta al quesito: su quali basi gli ammini-stratori assumono le decisioni? Egli confutò l’esistenza dell’homo economicus, totalmente razionale e affermò che i soggetti umani operano con razionalità limitata. L’implicazione è che “most human decision-making whether individual or organizational, is concerned with the discovery and selection of satisfactory alternatives; only in exceptional cases is it concerned with the discovery and selection of optimal alternatives”.

Inoltre, egli propose l’importante distinzione tra decisioni programmate e non programmate: le decisioni sono programmate nei limiti in cui sono ripetitive e routinarie o possono essere adottate sulla base di una definita procedura. Le decisioni sono non programmate se sono nuove e non strutturate: per esempio, l’introduzione di un nuovo prodotto, l’inserimento in un nuovo mercato, e simili.

Elton Mayo (australiano) ha insegnato per lungo tempo alla Harvard University La sua notorietà è dovuta agli studi realizzati presso lo stabilimento Hawthorne di Chicago della General Electric, ma soprattutto per essere fonda-tore del Human Relations Movement e della Industrial Sociology.

Le sue ricerche hanno evidenziato l’importanza del gruppo nel comportamento dei soggetti al lavoro e, come conseguenza, ha individuato ciò che i manager dovrebbero fare. Negli anni tra il 1927 e il 1932, operò nello stabi-limento di Hawtorne chiamato per trovare una risposta ad uno strano fenomeno: due gruppi di lavoratori erano stati selezionati e, nel posto di lavoro di un gruppo venne aumentata l’illuminazione, nell’altro no. La produttività au-mentò in entrambi!

Mayo effettuò numerose sperimentazioni nei 5 anni di lavoro con miglioramenti del luogo di lavoro e/o mi-gliori condizioni per le pause, e altri simili elementi con specifico riferimento a un gruppo di 6 donne. La produttivi-tà non subiva significative modificazioni anche con il peggioramento delle condizioni ambientali e del trattamento delle pause. La spiegazione era da ricercare nel fatto che le donne avevano sperimentato la soddisfazione del lavoro potendo godere di maggiore libertà ma, soprattutto, erano diventate un gruppo sociale con propri standard e aspetta-tive.

Mayo concluse che la soddisfazione del lavoro dipende in larga parte dalle relazioni sociali informali del grup-po di lavoro e, inoltre, che alcuni problemi sorgono perché i lavoratori sono guidati dalla “logica dei sentimenti” mentre il management dalla “logica dei costi e dell’efficienza”. Il conflitto è inevitabile a meno che questa differen-za non sia compresa e si adottino le necessarie decisioni. Il lavoro di Mayo enfatizzò anche la necessità di un ade-guato sistema di comunicazione interno. Gli studiosi, attualmente, riconoscono che le organizzazioni sono influenzate da connes-

sioni verticali così come da legami orizzontali e da influenze locali e non locali. Fonti di in-novazione e idee riguardanti nuovi modi per organizzare possono arrivare attraverso Internet dall’altra parte del globo, così come la competizione economica è più probabile che abbia una

Riquadro I.4

Riquadro I.5

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Ludwig von Bertalanffy (1901 – 1972)  

 

 

 

fonte globale piuttosto che nazionale. La rivoluzione dei sistemi aperti, avviata – come notato - alla metà degli anni ’50, conti-

nua anche attualmente. Vi è ancora molto da scoprire rispetto alla gamma e alla varietà di modi in cui le organizzazioni sono aperte al loro ambiente – fino a che punto sono influenza-te, permeate dal contesto nel quale operano. Numerosi studiosi (S. Beer, K. Boulding, H. Ma-turana e F. Varela, E. Morin e altri) hanno apportato il loro contributo allo sviluppo degli stu-di sui sistemi. Nel Riquadro I.6 si riportano alcuni cenni su Ludwig von Bertalanffy in quanto lo studioso che, per primo, ha formulato una compiuta Teoria generale dei sistemi.

Ludwig von Bertalanffy (austriaco) nel 1918 ha studiato storia, arte e filosofia presso l’Università di Inn-

sbruck, prima, e nell’Università di Vienna, poi. Successivamente, dovendo scegliere tra la filosofia della scienza e la biologia, scelse quest’ultima perché – a suo avviso – si può studiare la filosofia in un momento successivo, ma non la biologia. Discusse la tesi di PhD nel 1926.

Von Bertalanffy insegnò all’Università di Vienna, di Londra, di Montréal, di Ottawa, alla Southern Califor-nia, alla Menninger Foundation, all’Univesrità di Alberta e Buffalo.

Bertalanffy occupa una posizione di rilievo tra gli studiosi che hanno contribuito allo sviluppo scientifico: i suoi studi in ambito biologico hanno determinato influenza e avanzamento in numerose altre scienze (filosofia, psichiatria, sociologia, psicologia, economia, ecc.).

La Teoria Generale dei Sistemi da lui formulata, costituisce una proposta “rivoluzionaria” per superare i li-miti del positivismo e del metodo riduzionista: egli assume come principio cardine della Teoria l’equifinalità e postula l’esigenza di un approccio interdisciplinare, così come la necessità di avvalersi della categoria concettua-le di “sistema aperto”. Egli ha osservato che “the conventional formulation of physics are, in principle, inappli-cable to the living organism being open system having steady state. We may well suspect that many characteris-tics of living systems which are paradoxical in view of the laws of physics are a consequence of this fact” Nel riquadro I.7 sono riportate alcune considerazioni tendenti ad individuare possibili ri-

sposte in merito alla necessità di individuare un idoneo approccio metodologico per le scienze sociali, mentre nel Riquadro I.8 si presentano alcuni elementi inerenti la teoria cibernetica. Nell’Appendice a questa parte, entrambe le problematiche vengono presentate con ulteriori argomentazioni.

Il presente e il futuro

In uno scritto recente Scott5 conferma quanto emerso dagli studi precedenti rispetto alla natura dell’impresa, cioè le prospettive del sistema razionale, naturale e aperto sopra indicate. Peraltro egli sottolinea che, pur potendosi individuare elementi di continuità negli studi sulle organizzazioni, nel corso degli anni sono state introdotte importanti modificazioni nella con-cezione di cosa sono le organizzazioni e come operano.

Tra le varie possibili, Scott evidenzia che si possono considerare cinque tipologie di cam-biamento: 1) nella natura dei confini organizzativi; 2) nelle strategie; 3) nelle forme organiz-zative; 4) nei componenti delle organizzazioni; e, soprattutto, 5) nel modo in cui si concepi-scono le organizzazioni.

Cambiamento nella natura dei confini

La distinzione tra l’interno e l’esterno è stata avviata con gli studi di Weber (1968). Suc-cessivamente, l’attenzione è stata rivolta agli “attori” (ruoli, criterio di appartenenza, identità), alle “relazioni” (frequenza delle interazioni, sistema di comunicazione, reti), alle “attività” (compiti, routine) e ai “criteri normativi e legali” (proprietà, contratti, diritti di controllo legit-timo). Attualmente, l’individuazione del confine risulta meno agevole, tanto che ha assunto rilievo l’espressione “organizzazione senza confini”. Infatti, si è sviluppato un processo di co-sì stretta interdipendenza reciproca tra l’organizzazione e il suo esterno (cioè con l’ambiente

Riquadro I.6

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Quale approccio metodologico per le scienze sociali?

1. Osservazioni preliminari

Si è accennato che le organizzazioni operano in una realtà in cambiamento, complessa e gravata da incer-tezza (l’insieme di problematiche concernenti il contesto ambientale vengono presentate nella Parte II). Fra le nu-merose implicazioni che derivano da quanto appena notato, risulta di grande rilievo la necessità che si realizzi – quale aspetto propedeutico – una puntuale scelta della metodologia di indagine di cui avvalersi per la comprensione dei fenomeni in atto, delle problematicità che scaturiscono nei confronti delle organizzazioni e, quindi, della loro analisi al fine di individuare adeguati interventi.

Se la scelta della metodologia adatta costituisce un problema comune a tutte le scienze, essa assume una pregnanza particolare con riferimento alle scienze sociali e, in quest’ambito alle scienze economiche. Non pare inu-tile ricordare che l’espressione “scienze sociali” si riferisce ad un insieme di discipline, eterogenee tra loro, che so-no accomunate dalla realizzazione di studi riferiti all’essere umano nel suo complesso e alle sue interazioni sociali. È agevole comprendere che un errore nella scelta della metodologia di indagine può condurre all’evidenziazione di aspetti inutili quando non dannosi.

Numerose sono le metodologie utilizzate nelle scienze in generale, prima, e nelle scienze sociali, poi. In questo ambito si reputa utile soffermare l’attenzione su due prospettive filosofiche quali il positivismo (e nel suo ambito il riduzionismo) e il costruttivismo. Si tratta di due filoni di studio particolarmente importanti che hanno dato vita a molteplici metodi di indagine la cui analisi puntuale esula dagli obiettivi di questa nota. È sufficiente comprendere gli elementi cardine delle due prospettive per valutare quale risulta più idonea per consentire l’analisi e la comprensione di una realtà tanto complessa.

2. Dalla prospettiva positivista alla prospettiva costruttivista 2.1. Prospettiva positivista

La prospettiva positivista è strettamente correlata alla trasposizione in ambito sociale dei concetti, delle tec-niche di osservazione e di misurazione di strumenti di analisi delle scienze naturali come la fisica, la chimica e la biologia. Dal punto di vista ontologico, la realtà sociale è rappresentata da un dato reale, esterno e indipendente dal ricercatore, al quale è affidato il compito di scoprirla. I positivisti ritengono che la realtà sia scomponibile in fatti e parti elementari e assumono che i comportamenti umani siano governati da leggi deterministiche e generali. Sul piano etimologico, il positivismo si basa su un accentuato dualismo tra ricercatore e oggetto di analisi, i quali non si influenzano a vicenda. Il ricercatore non deve in alcun modo inficiare la propria obiettività con pregiudizi, emozio-ni o punti di vista personali e deve operare affinché l’attività di ricerca non condizioni i fatti osservati attraverso eventuali pratiche manipolative. La metodologia di ricerca utilizzata prevede esperimenti, osservazione e distacco tra osservatore e osservato, con un processo di tipo induttivo e il ricorso a tecniche quantitative. Gli sviluppi suc-cessivi, ossia il neopositivismo e il postpositivismo, tentano di rispondere alle critiche avanzate al positivismo. Sul piano ontologico riconosce l’esistenza di una realtà esterna all’uomo ma non conoscibile in maniera completa. Dal punto di vista epistemologico, viene riconosciuto il rapporto di interferenza tra studioso e oggetto di studio, mentre l’aspetto metodologico non muta in maniera sostanziale, anche se viene avvertita un’apertura nei confronti dei me-todi qualitativi. I principali esponenti del positivismo sono Durkeim e Comte.

Nell’ambito di questa prospettiva, una sua radicalizzazione è ravvisabile nel riduzionismo, cioè nella ridu-zione della ricerca sociale ad una mera raccolta di dati, misurati e classificati, ma non coordinati tra loro, privi di significative connessioni e incapaci di consentire una conoscenza adeguata dell’oggetto cui si riferiscono.

Nel riduzionismo il ricorso al linguaggio matematico tende a essere esaltato sia perché ad esso si attribuisce idoneità a “misurare”, compiutamente, la componente elementare, sia perché favorisce l’attuazione dell’ultima fase di applicazione del metodo, cioè la fase “additiva”: i risultati dello studio di ogni parte elementare vengono somma-ti tra loro per ottenere il risultato riferibile all’intero fenomeno indagato.

E’ pure da sottolineare il fatto che nella scomposizione dell’entità nelle relative componenti si possono veri-ficare gravi distorsioni, tra le quali le seguenti assumono maggiore rilevanza negativa e preminenza: a. la parte “isolata” che viene indagata, può assumere un diverso significato se si considera nell’ambito comples-

sivo del fenomeno di cui fa parte, in quanto per effetto della scomposizione la singola parte potrebbe “perdere” qualche caratteristica significativa;

b. il processo di additività successiva all’analisi delle diverse parti potrebbe non consentire la ricostruzione dell’entità, come avviene nei casi in cui le parti sono interrelate, e, quindi, non possono essere ricomposte per semplice somma (a differenza di quanto si verifica nell’additività) in quanto occorre la loro combinazione;

c. nel caso indicato alla fine del punto precedente si verifica che il complessivo fenomeno ricostituito per additivi-tà è diverso rispetto al fenomeno inizialmente indagato in quanto in tale evenienza le relazioni esistenti tra le parti e trascurate attribuiscono un maggiore valore al “tutto”.

2.2. Prospettiva costruttivista La prospettiva costruttivista si fonda sul presupposto che la realtà non può essere considerata un’entità “og-

gettiva” indipendente dal soggetto che la esamina. Per i costruttivisti, il ricercatore non solo è un rilevatore delle rappresentazioni mentali che gli individui hanno di se stessi, ma è anche un costruttore della realtà perché la com-prensione contribuisce a creare la realtà.

Riquadro I.7

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Fra gli studiosi che hanno contribuito alla formulazione del costruttivismo, un ruolo fondamentale va rico-nosciuto a Jean Piaget. Egli ha studiato approfonditamente il comportamento dei bambini e, specificamente, la “co-struzione della realtà” nei bambini che lo ha condotto a parlare di “mente costruttrice”. La sua asserzione, semplice ma al tempo stesso rivoluzionaria, è che la conoscenza è un processo, non uno stato: si tratta di un evento di rela-zione tra osservante e osservato.

Piaget ha osservato che ogni soggetto umano seleziona e interpreta attivamente le informazioni che sono presenti nel contesto di riferimento. In tal modo, ogni soggetto umano non può più essere considerato come una mera entità ricevente “passiva”, la sua partecipazione – conscia o inconscia – all’interpretazione dei processi con i quali entra in relazione, determinano un suo contributo alla “costruzione” del processo. Tanto maggiore è lo svilup-po del suo sistema cognitivo, tanto più significativo è il ruolo svolto nella costruzione del processo di cambiamento.

Un altro importante contributo ascrivibile a Piaget riguarda l’evidenziazione del fatto che l’esperienza subi-sce sempre un passaggio attraverso il filtro dei sistemi di comprensione posseduti in quel momento: ciò implica che la mente – svolgendo un ruolo di filtro e, quindi, di selezione e interpretazione –non può essere assimilata ad una macchina fotografica che ritrae fedelmente la realtà.

È negli anni ’40 che il biologo Ludwig von Bertalanffy propone la Teoria generale dei sistemi con il propo-sito di sviluppare principi applicabili a qualsiasi tipo di sistema. Egli considera il positivismo come una metodolo-gia dannosa per la comprensione della realtà essenzialmente costituita da sistemi, cioè da entità dinamiche basate sulle relazioni.

Molti altri studiosi hanno contribuito a superare la visione classica del metodo scientifico, cioè a considera-re, più opportunamente, la realtà non come indipendente da colui che la osserva ma come una partecipazione attiva alla sua costruzione. Tra i tanti si possono citare Norbert Wiener e la teoria cibernetica; Heinz von Foester quale fondatore della cibernetica di secondo grado; Humberto Maturana e Francisco Varela con i loro studi di approfon-dimento dei meccanismi che regolano i sistemi viventi; e, ancora, il filosofo Ernst von Glaserfeld, il sociologo Ed-gar Morin, l’antropologo Gregory Bateson, lo psicoterapeuta Paul Watzlawick, i filosofi Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti. 2.3. Teoria Generale dei Sistemi

L’approccio per sistemi al management è basato sulla Teoria Generale dei Sistemi. Ludwig von Berta-lanffy, uno scienziato che ha lavorato prevalentemente in fisica e in biologia, è riconosciuto come il fondatore della Teoria generale dei sistemi. Il principale assunto della teoria è che per comprendere compiutamente il funziona-mento di un’entità, essa deve essere considerata come un sistema. Un sistema è un insieme di parti interdipendenti operanti per il raggiungimento di uno o più obiettivi.

La Teoria generale dei sistemi evidenzia che l’insieme di più elementi (sistema) ha “valore” superiore a quello risultante dalla somma dei singoli “valori”: tale maggior valore si denomina “sinergia”. Infatti, lo studio di-stinto delle parti di un sistema non consente di ottenere informazioni sufficienti per ottenere una corretta conoscen-za del tutto: occorre studiare l’integrazione delle sue parti e le interrelazioni con il contesto nel quale è inserita. Al-cuni esempi possono favorire la comprensione di quanto notato.

Se si considera il corpo umano e l’insieme di organi che lo compongono, non si perviene ad una sua ap-prezzabile conoscenza se si analizzano, anche in modo approfondito, i singoli organi senza valutare idoneamente le numerose interrelazioni che tra gli stessi esistono e che fanno assumere all’entità “corpo umano” una configurazio-ne “superiore” e diversa rispetto alla semplice somma delle parti.

Analogamente può dirsi che un albero non è la somma delle sue radici, del suo tronco, dei suoi rami, delle sue foglie, ecc., bensì è la combinazione di tutte le sue componenti. Analoghe considerazioni possono essere effet-tuate per un quadro, per un’orchestra, per un’impresa.

Infine, pare importante sottolineare che l’elemento cardine di tale approccio è il principio di equifinalità: lo stato finale di un sistema può essere il risultato di una o più delle molteplici combinazioni che possono scaturire da condizioni iniziali diverse.

Le parti che costituiscono un sistema vengono indicate con la denominazione di sottosistemi. Le relazioni di interdipendenza che si instaurano tra essi sono rese possibili dall’esistenza di reti di comunicazione che le collegano in modo sistematico e continuo.

Categorie di sistemi Secondo Bertalanffy, le due tipologie basilari di sistemi sono i sistemi chiusi e i sistemi aperti. I sistemi chiusi non sono influenzati e non interagiscono con i loro ambienti. Essi sono per lo più meccanici ed hanno movimenti prede-terminati o attività che possono essere eseguite senza tenere conto dell’ambiente. Un orologio è un esempio di si-stema chiuso. Indipendentemente dall’ambiente, le ruote di un orologio, i meccanismi, e così via possono funziona-re in un modo predeterminato. Il sistema aperto, è continuamente in interazione con il suo ambiente. A integrazione di quanto indicato da Berta-lanffy, pare opportuno richiamare gli studi di Maturana e Varela i quali hanno evidenziato l’esistenza di una chiu-sura operazionale che evita ai sistemi aperti di perdere la loro organizzazione. In tal modo si può rilevare che una pianta è un esempio di sistema aperto, la costante interazione con il suo ambien-te non è indifferente rispetto allo stato dell’esistenza della pianta, ma essa “filtra”, tra gli elementi dell’ambiente, ciò che è utile per la sua sopravvivenza, non “diluendosi” nell’ambiente ma mantenendo inalterata la sua apparte-nenza alla categoria (organizzazione) delle piante.

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A proposito di cibernetica Scienza del controllo e delle comunicazioni

Nel 1947 per impulso di Norbert Wiener e dei suoi collaboratori, le teorie tendenti ad analizzare essenzial-mente il controllo e le comunicazioni furono riordinate in uno stesso campo di studi, al quale si attribuì il nome di cibernetica, derivato dal greco Kibernetes ossia pilota, nocchiero, timoniere. La scelta di questa parola è un riconoscimento del fatto che il primo scritto significativo sui meccanismi “a retro-azione”, è stato un articolo sui regolatori (in inglese: governor) pubblicato da Clerk Maxwell e governor è derivato dalla corruzione latina di gubernator (pilota, nocchiero, timoniere).

Wiener ed il gruppo di scienziati che con lui si erano riuniti per attribuire un nome appropriato al nuovo ra-mo di studi credettero di creare un neologismo, ma in effetti, come ha notato successivamente lo studioso france-se Pierre de Latil, il vocabolo “cibernetica” era già stato usato da Platone, Socrate, Ampère ed era stato inserito anche nelle enciclopedie. Tuttavia fu dal momento della scelta del Wiener che il termine “cibernetica” ebbe una grandissima diffusione e fu accettato da tutti gli studiosi per indicare il moderno campo di indagine riguardante la scienza del controllo e della comunicazione nell'animale e nella macchina. Tale definizione forse poteva esse-re adeguata nel momento della prima impostazione della disciplina, ma risulta parziale e non soddisfacente in relazione allo sviluppo di tali studi. Ciò che si vuol notare è che la definizione del Wiener nella parte estensiona-le o denotativa, che designa gli aspetti del campo d'indagine, appare parziale, cioè indica solo due dei molti cam-pi di riferimento (l'animale e la macchina).

Mantenendo inalterata la parte connotativa della definizione di Wiener e ampliando la parte denotativa per renderla più omogenea rispetto all'evoluzione degli studi intercorsi negli ultimi cinquant'anni, si può considerare la Cibernetica come la scienza del controllo e delle comunicazioni nei sistemi.

Gli studiosi di Cibernetica hanno elaborato alcune teorie di base che si sono dimostrate fondamentali per lo sviluppo di varie altre discipline: ci si riferisce ai concetti di feedback o retroazione, coazione, omeostasi, equili-brio dinamico, scatola chiusa, ecc., i quali, unitamente ad altri strettamente connessi, facenti parte più specifica-mente della Teoria dell'informazione (input, output, messaggio, entropia, ecc.), forniscono una base teorica pro-ficua qualunque sia lo specifico campo di analisi. In particolare, la teoria di comune interesse degli studiosi di Cibernetica è quella della “regolazione”, che studia le proprietà in base alle quali i sistemi risultano dotati di ca-pacità di permanere in equilibrio per il tramite dell'esistenza in essi di forze che siano capaci di contrastare le cause di deviazione.

Quando un sistema si considera cibernetico?

Un sistema si considera cibernetico se ha la possibilità di “regolare” automaticamente il proprio modo d'esse-re e di divenire in base ad un modello prestabilito: se intervengono fattori devianti, fattori che tendono a far as-sumere al sistema caratteristiche o comportamenti differenti da quelli programmati, intervengono altresì automa-ticamente forze di contrasto che impediscono a tali fattori di esercitare nel sistema l'azione deviante. In tal modo il sistema può mantenersi in condizione di stabilità assimilabile allo stato di equilibrio assoluto nei sistemi chiusi e allo stato stazionario (equilibrio relativo) nei sistemi aperti: lo stato di equilibrio assoluto è la condizione in base alla quale il sistema, dopo che la sua entropia ha raggiunto il livello massimo, non subisce modifiche, men-tre lo stato di equilibrio relativo è la condizione in base alla quale il sistema perviene a successive e differenti situazioni di stabilità per effetto del continuo scambio di energia, o informazioni, o condizionamenti con il con-testo del quale fa’ parte.

Il vocabolo entropia indica un “valore”, o “misura della probabilità” del “disordine” che, sulla base del se-condo principio della termodinamica, applicabile notoriamente solo ai sistemi chiusi nel senso di Ludwig von Bertalanffy, tende al valore massimo che, all'atto del raggiungimento, determina nel sistema lo stato di equilibrio definitivo. La forza che contrasta i fattori devianti e consente la condizione di omeostasi si denomina feedback, o retroazione, o controreazione si può schematicamente rappresentare come risulta dalla seguente figura.

Schema elementare di feedback

Riquadro I.8

11    

nelle sue espressioni economiche, sociali, politiche, culturali, ecc.) che risulta sempre meno agevole individuare ciò che è realmente “interno” o “esterno” all’organizzazione posto che, tra l’altro, tali elementi assumono configurazioni in continua modificazione, anche per effetto dell’interdipendenza sopra richiamata. Cambiamento nelle strategie

Con riferimento a questo aspetto si può fare riferimento ad uno dei più significativi cam-biamenti verificatisi in molte organizzazioni: il passaggio dalla strategia di internalizzazione a quella di esternalizzazione che si manifesta con il ricorso al downsizing, al ricorso a dipen-denti temporanei e part-time, e simili. Una compiuta considerazione della strategia viene pre-sentata in un capitolo successivo.

Cambiamento nelle forme organizzative

In ogni periodo storico è possibile individuare una forma organizzativa prevalente sulle altre. Così, nel primo stadio dello sviluppo industriale la forma più diffusa è stata quella dell’impresa proprietaria con precipua, se non esclusiva, attenzione alla produzione.

Nel corso del tempo, con l’emergere di nuove esigenze, quali quelle dettate dal crescente rilievo dell’attività di distribuzione, è risultato necessario introdurre manager con specifiche professionalità. La forma dell’impresa diventa funzionale, poi divisionale e multi divisionale. Quest’ultima “forma” è stata utilizzata dalle imprese che hanno assunto una grande dimensio-ne (le multinazionali, per esempio).

Non dimenticando che molte grandi organizzazioni (o imprese) hanno successivamente adottato la strategia dell’esternalizzazione che ha, ovviamente, influito sulla forma organizza-tiva, è necessario richiamare l’attenzione sul crescente rilievo dei network che, pur realizzan-dosi sulla base di differenti modelli (alleanze, specifici progetti, ecc.) evidenziano l’emergere di una nuova forma organizzativa, flessibile, che si incentra sulla necessità di “mettere insie-me” differenti competenze e professionalità.

Cambiamento nei componenti delle organizzazioni

Nonostante il notevole cambiamento che ha investito le organizzazioni negli ultimi de-cenni, il “lavoro” non ha perso la caratteristica di componente fondamentale. E ciò, nonostan-te le diverse modalità di svolgimento del lavoro che si sono succedute e che hanno determina-to un maggior rilievo del lavoro in team, un’esigenza di modificazione dello stesso in funzio-ne di specifici progetti, ecc. In altri termini, pur in presenza di maggiore flessibilità e, talvolta,

La “sorgente” è la circostanza che origina la “deviazione” rispetto al programma esistente; la “percezione” della tendenziale deviazione è esercitata per il tramite di specifici “sensori”, che assumono caratteristiche con-nesse con la specifica natura del sistema; il “controllo” consiste nell'accertamento continuo della compatibilità delle condizioni che si verificano con le condizioni previste dal programma e infine la “risposta” è la fonte da cui ha origine il feedback o retroazione in senso stretto, cioè la forza che agisce all'atto dell'accertamento della ten-denziale “deviazione” e impedisce che questa si verifichi. In concreto i feedback assumono varia natura: possono essere costituiti da “potenza fisica”, da contatti elettrici, da stimoli di diverso tipo, da ordini personali di tipo ge-rarchico, da autorizzazioni, ecc. Il sistema omeostatico è evidentemente capace di autocontrollarsi, cioè è dotato dell'attributo della regolazione.

I feedback più complessi si trovano indubbiamente nel corpo umano. Si pensi al significato che assume la sudorazione, ovvero alla funzione degli anticorpi, ovvero alla ricerca automatica di un punto d'appoggio al veri-ficarsi di uno squilibrio del corpo, ecc. Più in generale si può rilevare che ogni azione dell'uomo, da qualunque organo derivi, è continuamente “regolata” al fine di conseguire nel miglior modo l'obiettivo stabilito, secondo un modello che risulta dalla sua consapevolezza.

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indeterminatezza, il ruolo centrale delle professionalità e abilità non è stato indebolito. Ciò che è cambiato è il livello di responsabilità, la maggiore frequenza di lavoro in team, così co-me è cresciuta la presenza di knowledge workers che ha influito all’emergere del cosiddetto appiattimento dei livelli gerarchici.

Cambiamento nella concezione delle organizzazioni

Tenendo ben presenti i cambiamenti fin qui considerati e i più recenti contributi degli studiosi delle organizzazioni, si rileva una crescente concezione relazionale delle stesse. A tal proposito, è stato osservato che “Relational approaches celebrate process over structure, be-coming over being. What is being processed varies greatly. In some versions it is symbols and words, in others relationships or contracts, in still others, assets. But in relational approaches, if structures exist it is because they are continually being created and recreated, and if the world has meaning, it is because actors are constructing and reconstructing intentions and ac-counts, and thereby, their own and others’ identities”6. Per una sintesi delle tappe evolutive delle teorie sulle organizzazioni si veda il successivo Riquadro I.9.

1.3. Elementi identificativi

Nello studio delle organizzazioni è rilevante prendere atto della varietà del fenomeno og-getto di attenzione: nella realtà un’organizzazione è simile solo ad alcune altre organizzazioni.

Fonte: Mary Jo Hatch, Teoria dell’organizzazione. Tre prospettive: moderna, simbolica, postmoderna, Il

Mulino, Bologna, 1999.

Tappe evolutive della teoria organizzativa Studi  di  cultura     Teoria  letteraria     Teoria  post-­‐strutturalista     Architettura  postmoderna     Linguistica     Semiotica     Folclore     Antropologia  culturale     Antropologia  sociale     Sociologia  industriale     Biologia  –  Ecologia     Scienza  politica  

  Sociologia     Ingegneria     Economia                  Primi  del  ‘900                                                Anni  ’50                                                                    Anni  ’80                                                        Anni  ‘90  

 

 Adam  Smith  (1776)   Herbert  Simon  (1945,  1958)   Alfred  Schutz  (1932)   Michel  Focault  (1972,  1973)  Karl  Marx  (1876)   Talcott  Parson  (1951)   Phillip  Selznick  (1948)   Charles  Jencks  (1977)  Emile  Durkheim  (1893)   Alfred  Gouldner  (1954)   Peter  Berger  (1966)   Jacques  Derrida  (1978,  1980)  F.  W.  Taylor  (1911)   James  March  (1958)   Thomas  Luckmann  (1966)   Mikhail  Bakhtin  (1981)  Henri  Fayol  (1919)   Melville  Dalton  (1959)   Clifford  Geertz  (1973)   Jean-­‐François  Lyotard  (1984)  Max  Weber  (1924)   Ludwig  von  Bertalanffy  (1968   Erving  Goffman  (1971)   Richard  Rorty  (1989)  Chester  Barnard  (1938)       William  Foote  Whyte  (1943)   Jean  Baudrillard  (1988)       Paul  Ricoeur  (1981)       Vladimir  Propp  (1828       Roland  Barthes  (1972)       Ferdinand  de  Saussure  (1959)       Kenneth  Burke  (1954)  

Prospettiva  classica  

Prospettiva  modernista  

 

Prospettiva  postmoderna  

 

Prospettiva  simbo-­‐lico-­‐interpretativa    

Riquadro I.9

13    

Tra coloro che soffermano la loro attenzione su una specifica tipologia di organizzazione vi è una tendenza molto diffusa a dare per scontato che gli assetti e i processi che la caratte-rizzano siano applicabili a molte o alla maggior parte delle organizzazioni; in breve, vi è la tendenza ad estendere i risultati più di quanto sia appropriato da un ambito all’altro”7.

Al contrario, le organizzazioni sono tutte diverse tra loro: non solo presentano rilevanti difformità entità operanti in comparti di attività decisamente diversi, ma si riscontrano diffe-renze – talvolta significative – anche tra organizzazioni operanti nello stesso settore o compar-to di attività.

Gli elementi di difformità emergono non solo dalla particolarità degli elementi fondanti della specifica organizzazione (attività, ruolo dei soggetti umani, risorse, ambiente di riferi-mento, ecc.) ma soprattutto dal fatto che gli elementi presenti in un’organizzazione si combi-nano tra loro per il conseguimento dei fini per i quali è stata costituita. Più specificamente, seppure in due organizzazioni fossero presenti le stesse categorie di elementi, esse differireb-bero significativamente poiché la loro combinazione non assumerebbe la stessa valenza de-terminando, appunto, la specificità di ogni entità. Inoltre, ogni organizzazione è diversamente sensibile al mutamento esterno e si caratterizza per le peculiari relazioni che si instaurano tra gli elementi interni e l’ambiente. A denotare il continuo divenire di ogni organizzazione Kau-fman ha osservato:

Il mondo delle organizzazioni è in perenne subbuglio. Se lo si osserva per un periodo di tempo abbastanza lungo, la configurazione delle organizzazioni cambia come i disegni di un caleido-scopio. Le organizzazioni si espandono, si contraggono, si disgregano, si fondono. Alcune superfici divengono spesse ed opache riducendo gli scambi tra i contenuti interni e l’ambiente esterno, mentre altre si vanificano e permettono un maggior flusso in una o in entrambe le direzioni. Le forme sono alterate. Alcuni processi ristagnano, altri si intensificano. I livelli di attività salgono e cadono. Le orga-nizzazioni si disintegrano e svaniscono mentre altre, a frotte, si formano ed i tassi di nascita e di morte variano continuamente. Nulla resta costante.

Herbert Kaufman (1975)

A motivo della vivacità propria del “mondo delle organizzazioni”, chiunque oggi intera-gisca con un’organizzazione, indipendentemente dalla tipologia di attività svolta, non ha dif-ficoltà a percepire che si trova in relazione con un’entità che presenta caratteristiche – nel suo insieme – certamente non presenti alcuni decenni fa, o solo pochi anni fa.

Tale constatazione fa emergere alcuni importanti interrogativi: È possibile individuare at-tributi caratterizzanti presenti in tutte le organizzazioni? Se si, quali? E, ancora, gli attributi caratterizzanti mantengono la loro validità inalterata nel tempo?

L’individuazione di possibili risposte ai precedenti quesiti è riscontrabile nelle osserva-zioni presentate in precedenza in merito ai motivi che determinano l’esistenza delle organiz-zazioni. Infatti, si ricorda che esse nascono perché i soggetti umani, operando insieme perse-guono fini che singolarmente non sarebbero in grado di raggiungere. Ciò implica che gli attri-buti che sono presenti ed essenziali per ogni organizzazione sono costituiti dalla presenza di una “collettività di soggetti umani” e dall’esistenza di finalità da perseguire. L’esistenza dei precedenti attributi genera la necessità che siano presenti in ogni organizzazione anche speci-fiche risorse tangibili e intangibili per lo svolgimento delle attività, nonché una struttura ade-guata. In termini sintetici si può rilevare che ogni organizzazione è caratterizzata dalla presen-za di elementi distintivi quali: a) stakeholder; b) fini; c) risorse; d) rete normativa e compor-tamentale. Di seguito viene proposta una breve analisi di ciascuno di questi elementi.

1.3.1. Stakeholder

L’individuazione del contributo che i vari soggetti umani sviluppano nei confronti di

14    

un’organizzazione risulta particolarmente complicata. È anche questo un fatto ascrivibile alle caratteristiche di complessità, incertezza, interdipendenza che sono proprie di questo periodo storico. Infatti, mentre in passato l’attività di molte organizzazioni si sviluppava in uno speci-fico contesto e l’apporto dei soggetti operanti al suo interno e al suo esterno era chiaramente individuabile e distinguibile, attualmente l’interconnessione tra interno ed esterno ha ridotto la possibilità di effettuare distinzioni certe.

Peraltro, seppure fosse individuabile – con le dovute cautele – una differente intensità di coinvolgimento e riconoscimento come “membro dell’organizzazione” da parte di coloro che operano al suo interno, è anche vero che, talvolta, il coinvolgimento, l’apporto e l’identi-ficazione con l’organizzazione di soggetti cosiddetti esterni può risultare non solo importante ma “decisiva” per la sopravvivenza e per lo sviluppo della stessa.

Per tali motivi si considera valida la proposta di Freeman relativamente al modello di sta-keholder, al quale si apporta una modificazione (riscontrabile nella Figura di seguito inserita), cioè l’inserimento all’interno dell’organizzazione dei “dipendenti”, intendendo con tale voca-bolo ogni soggetto qualunque sia il ruolo nel quale svolge la sua attività.

Per Freeman gli stakeholder sono costituiti da “any group or individual that can affect or is affected by the achievement of the organization’s objectives”8.

Il modello degli stakeholder

A denotare la difficoltà di individuazione puntuale degli stakeholder interni ed esterni, si

può citare, a titolo di esempio, il lavoro di Mitchell che ha isolato 27 differenti definizioni di stakeholder tendenti ad individuare i gruppi più rilevanti e quelli meno rilevanti. La difficoltà alla quale si sta facendo riferimento, viene determinata anche dal fatto che i soggetti umani partecipano a più di un’organizzazione, seppure con maggiore o minore coinvolgimento. Scott ha esemplificato la precedente osservazione indicando che “un singolo può essere con-temporaneamente impiegato in un’impresa, iscritto a un sindacato, fedele di una chiesa, affi-

Organizzazione    

Finanziatori

Consumatori

Collettività Altri gruppi

di stakeholder

Fornitori

Dipendenti

15    

liato a una loggia massonica, militante di un partito politico, cittadino di uno Stato, paziente di uno studio medico, azionista di una o più società, cliente di una enorme gamma di organizza-zioni di vendita al minuto e di servizi”.

In merito a coloro che sono stati indicati come “dipendenti”, pare opportuno evidenziare che, rispetto agli altri stakeholder, essi svolgono un ruolo esclusivo nel contribuire alla deter-minazione dell’identità dell’organizzazione, aspetto senza il quale la stessa non potrebbe esse-re identificata. Inoltre, tale categoria di stakeholder è, di norma, legata all’organizzazione dall’insieme di ricompense che ottengono dalla stessa, considerando il vocabolo “ricompen-se” non riferito esclusivamente alla retribuzione, ma ad ogni altro elemento capace di accre-scere nel singolo soggetto il senso di appartenenza all’organizzazione e che determina appa-gamento delle specifiche aspettative.

Un brevissimo cenno al problema della presunta contrapposizione tra shareholder e stakeholder che Freeman in un recente contributo così esprime: “Dividing the world into «shareholder concerns» and «stakeholder concerns» is roughly the logical equivalent of con-trasting «apples» with «fruit». Shareholders are stakeholders, and it does get us anywhere to try to contrast the two, unless we have an ideological agenda that is served by doing so”.

1.3.2. Fini

Porsi nella prospettiva di affrontare il problema dell’individuazione dei fini dell’organizzazione equivale ad addentrarsi in uno degli argomenti forse più controversi nell’ambito degli studi di economia e di management.

Gli interrogativi sui quali da decenni si confrontano gli studiosi sono riconducibili (con una forse eccessiva sintesi) ai seguenti: Chi stabilisce i fini nelle organizzazioni? Quale fun-zione assolvono i fini?

Un aspetto propedeutico da considerare per affrontare compiutamente il primo quesito ri-guarda il pericolo, che da taluni studi è emerso, di attribuire all’organizzazione la capacità di stabilire i fini. Come Scott ha notato, “in questo modo si reifica l’organizzazione attribuendo-le proprietà antropomorfiche che essa non possiede”. Similmente Cyert e March hanno sotto-lineato che le organizzazioni non hanno fini. Solo i soggetti umani hanno fini e questi sono spesso complessi, ambigui, contraddittori e mutevoli nel tempo. Gli stessi studiosi hanno so-stenuto che i fini di un’organizzazione vengono stabiliti sulla base di una trattativa che coin-volge i membri delle coalizioni dominanti.

Per coalizione si intende un gruppo di soggetti che condividono gli stessi interessi: nell’ambito delle organizzazioni sono presenti varie coalizioni. Ciascuna di queste ultime ope-rerà per affermare i propri fini anche se, di norma, nessuna di esse riuscirà a prevaricare le al-tre. Ciò implica che i fini di un’organizzazione scaturiscono dagli accordi raggiunti tra diverse coalizioni che presentano interessi simili. Scott presenta il seguente esempio: “un gruppo diri-gente, per garantirsi l’obiettivo di una continua crescita, sarà disposto a distribuire determinati dividendi ai suoi azionisti e a pagare determinati salari agli impiegati”.

Nel Riquadro I.10 vengono riportate le motivazioni che, secondo Scott, rendono il con-cetto di coalizione dominante accettabile.

Infine, va segnalata una significativa modificazione che ha interessato e interessa sempre più le organizzazioni: il peso crescente dell’influenza dell’ambiente e dell’incertezza che lo caratterizza che ha determinato un incremento della necessità di competenze specialistiche. Tale circostanza tende a far crescere il numero di soggetti che può influire sull’individuazione dei fini in quanto espressione di una “coalizione” con conoscenze talvolta “esclusive”.

In merito alla funzione dei fini, i contributi sono numerosi e articolati. Si indicano quelli ritenuti più significativi:

a) funzione cognitiva: consentono di individuare linee di azione alternative e scegliere

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fra esse9; b) funzione di identificazione e motivazione dei soggetti umani10; c) funzione ideologica per mezzo della quale acquisire risorse dall’ambiente11.

Motivi di accettazione del concetto di coalizione dominante

Evita il problema della reificazione: individui e gruppi hanno propri interessi e viene specificato il processo per mezzo del quale queste preferenze giungono a imporsi.

Anche se ammette che i singoli possano specificare gli obiettivi dell’organizzazione, non presume che essi siano tutti alla pari né che i singoli partecipanti abbiano obiettivi comuni. Anche se gli individui possono imporre fini all’organizzazione nella maggior parte dei casi, nessun singolo individuo è abbastanza influente da poter determinare tutti i fini dell’organizzazione. Ne deriva che i fini dell’organizzazione sono distinti da quelli di ciascuno dei partecipanti. Ammette la presenza di differenze di interessi tra i partecipanti: alcune di queste differenze (anche se non tut-te) possono essere risolte con un accordo e quindi in ogni momento i fini possono essere contraddittori.

Riconosce che le dimensioni e la composizione della coalizione dominante possano variare da un’organizzazione all’altra e all’interno della stessa organizzazione in tempi successivi.

Fonte: W. R. Scott, Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1985. Pare opportuno osservare che le funzioni di cui ai punti b) e c) evidenziano proprietà

emotive dei fini, sia per gli stakeholder interni che esterni: ovviamente tali enunciazioni dei fini risultano insoddisfacenti per coloro che ne considerano in primis la funzione cognitiva.

1.3.3. Risorse

Le risorse costituiscono l’insieme di fattori di cui le organizzazioni hanno necessità per poter realizzare la propria missione. In una prima approssimazione, si può effettuare una di-stinzione tra risorse materiali e immateriali, intendendo con le prime l’insieme dei beni e ser-vizi e, con le seconde, il sistema delle capacità esprimibili dai soggetti umani.

Una considerazione distinta merita la risorsa “tecnologia” in quanto presenta sia aspetti riconducibili all’ambito materiale (gli elementi hard riscontrabili nei macchinari per il proces-so di produzione) che a quello immateriale (l’elemento soft che consente ai citati macchinari di svolgere attività non possibili in assenza di tecnologie avanzate).

Rispetto alle risorse immateriali ci si riferisce al sapere dei soggetti umani nelle sue espressioni di sapere cognitivo, sapere professionale e sapere relazionale, ma anche alla crea-tività, al ruolo delle emozioni e della motivazione. Su ciascuno di tali aspetti, a motivo del ruolo che svolgono nelle organizzazioni e, in specie nelle imprese, ci si soffermerà in una par-te successiva del testo.

Qui pare opportuno richiamare l’attenzione sulla frase di Meyer e Rowan sopra inserita

che sottolinea l’esigenza di sviluppare una particolare attenzione rispetto all’acquisizione del-

Riquadro I.10

Meyer  e  Rowan  discutendo  a  propo-­‐sito   delle   risorse   riepilogano   in  que-­‐sto  modo:   “dopotutto,   i  mattoni  per  fare   le  organizzazioni   sono   sparsi   in  giro  nella   società;   ci   vuole  un  po’   di  energia   imprenditoriale   per  metterli  insieme  e  farne  una  struttura”  

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le risorse. Infatti, solo con un atteggiamento teso a cogliere tutte le opportunità che si presen-tano, spesso in modo disordinato nell’ambiente, si può “costruire” un ‘organizzazione capace di sopravvivere e svilupparsi con l’aggiunta di sempre più adeguati “mattoni” per essere co-stantemente in sintonia con l’evoluzione dinamica che caratterizza e caratterizzerà ancora per molto tempo gli ambienti di ogni entità.

1.3.4. Rete normativa e comportamentale

L’analisi degli aspetti “strutturali” di una collettività, quindi di un’organizzazione, può essere effettuata individuando una componente normativa e una componente comportamenta-le. La componente normativa è costituita dall’insieme di valori, norme e ruoli (Riquadro I.11). Scott sottolinea che “i valori, le norme e i ruoli non sono distribuiti a caso, ma sono organiz-zati in modo tale da costituire un insieme, relativamente compatto e coerente di credenze e di prescrizioni che governa il comportamento dei partecipanti. È per questa ragione che parliamo di struttura normativa”.

La componente comportamentale si riferisce ai comportamenti effettivi dei soggetti uma-ni nelle organizzazioni e, più esattamente, alle attività, alle interazioni e ai sentimenti12.

Concetto di valori, norme e ruoli Valori - Criteri utilizzati per scegliere i fini del comportamento

Norme - Rappresentano le regole generali che governano il comportamento e che specificano, in parti-colare, i mezzi appropriati per perseguire i fini

Ruoli - Rappresentano le aspettative o i criteri di valutazione utilizzati per giudicare il comportamento di coloro che occupano una determinata posizione sociale

Fonte: Elaborazione di elementi tratti da Scott, Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1985.

Efficacemente Scott scrive: “la struttura normativa e la struttura comportamentale di un gruppo sociale non sono né indipendenti né identiche, ma sono in misura maggiore o minore interrelate. La struttura normativa impone un insieme importante di limiti alla struttura com-portamentale, formando e incanalando il comportamento e contribuendo a spiegare gran parte delle regolarità e dei modelli che ritroviamo. D’altro lato, gran parte del comportamento si di-scosta dalla struttura normativa ed è, a sua volta, una fonte importante di miglioramenti e di mutamenti per tale struttura. Il comportamento forma le norme, così come le norme formano il comportamento”. E, ancora, “Tutti i gruppi sociali – o collettività, per usare un termine più generale – si caratterizzano per una struttura normativa applicabile ai partecipanti e per una struttura comportamentale che li lega in una comune rete o modello di attività, interazione, sentimenti. Queste due strutture interrelate tra loro compongono la struttura sociale di una col-lettività”. […].

“Sottolineare l’importanza della struttura sociale delle organizzazioni non ci porta a con-dividere il punto di vista di chi sostiene che i rapporti tra i partecipanti siano sempre «rose e fiori»; la struttura sociale non postula l’armonia sociale: il conflitto è sempre possibile e nor-malmente presente tra i partecipanti ad ogni struttura sociale. Sottolineare la struttura sociale ci permette di vedere quanta parte del conflitto presente nell’organizzazione è «modellata» cioè dipende dalla struttura dei rapporti tra gli individui e i gruppi e non è dovuta alla aggres-sività innata dei singoli partecipanti. Non solo le tensioni e lo stress, ma anche la devianza e il mutamento possono spesso essere attribuite a fattori strutturali.

La struttura sociale di un’organizzazione varia a seconda che sia più o meno formalizzata. Una struttura sociale formale è quella in cui le posizioni sociali e i rapporti tra di esse sono state esplicitamente specificate e sono definite indipendentemente dalle caratteristiche perso-

Riquadro I.11

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nali di coloro che occupano quelle posizioni. Al contrario, in una struttura sociale informale è impossibile distinguere tra le caratteristiche delle posizioni e quelle di coloro che le occupano. In una struttura informale, quando i singoli vengono a far parte del sistema o lo abbandonano, i loro ruoli e i rapporti che intrattengono si sviluppano e mutano in funzione delle caratteristi-che personali e delle interazioni che si vengono a creare”.

1.4. Verso una definizione di organizzazione

Sulla base di quanto contenuto nei punti precedenti, emergono chiaramente alcuni attribu-ti delle organizzazioni che possono essere sintetizzati nel modo seguente: a. “natura di sistema che implica l’esistenza di unità parziali e di interazioni tra di esse; b. chiusura operazionale o integrazione interna (Riquadro I.12) e dinamicità; c. collettività di partecipanti, che al limite può essere costituita da due sole persone, le quali

non necessariamente si basano sugli stessi interessi e convergono sulle stesse finalità, ma operano solo dopo aver realizzato un processo di negoziazione (esplicito o implicito), o dopo che uno o più partecipanti è riuscito a compiere un’imposizione nei confronti degli altri;

d. fini e regole di funzionamento, che siano espliciti o impliciti, definiti o indefiniti”13 Pertanto, pur nella consapevolezza che una definizione non può che fare riferimento agli

aspetti più rilevanti trascurandone altri che pure sono presenti, si adotta la seguente ipotesi de-finitoria: l’organizzazione “è una collettività di soggetti umani che operano insieme per il raggiungimento di specifici obiettivi”.

Operational closure (…) the nervous system can be characterized as having operational closure. In other words, the nerv-ous system’s organization is a network of active components in which every change of relations of ac-tivity leads to further changes of relations of activity. Some of these relationships remain invariant through continuous perturbation both due to the nervous system’s own dynamics and due to the inter-actions of the organism it integrates. In other words, the nervous system functions as a closed network of changes in relations of activity between its components.

H. Maturana e F. Varela, The tree of knowledge, Shambhala, Boston & London, 1998.

1.5. Tipologie di organizzazioni

Nonostante nel punto precedente l’attenzione si stata indirizzata alla presentazione e all’analisi di un sistema di elementi caratterizzanti le organizzazioni, è agevole constatare – anche da parte di soggetti non “esperti” – l’esistenza di una notevole varietà di organizzazioni. Molti studi sono stati realizzati nel tentativo di formulare una congrua classificazione delle organizzazioni, ma la loro varietà è talmente elevata che il compito è ascrivibile all’ambito delle utopie.

Ciò che, al contrario, è realistico, proprio avvalendosi sia degli elementi comuni sopra presentati così come di altri studi che hanno effettuato ulteriori approfondimenti, è la possibi-lità di constatare l’esistenza di “insiemi” di organizzazioni (Riquadro I.13) caratterizzate da elementi comuni: - le associazioni; - le imprese; - le organizzazioni pubbliche di servizio; - la pubblica amministrazione.

- Si ritiene utile richiamare l’attenzione sul fatto che “lo schema di classificazione deb-ba «guardare lontano»: una tipologia non è un punto di arrivo, ma un punto di parten-

Riquadro I.12

19    

za, e il criterio per valutare ogni tipologia è dato dalla chiarezza e dall’interesse delle previsioni che essa produce”.

Le tipologie di organizzazioni Associazioni - Sindacati, partiti politici, club, ordini professionali, ordini religiosi, ecc.

Imprese - Imprese di produzione, commerciali, di consulenza, di servizi, ecc., banche

Organizzazioni pubbliche di servizio – Enti assistenziali, ospedali, scuole

Pubblica amministrazione - Enti statali, esercito, dipartimenti di polizia, enti di ricerca, prigioni

Fonte: Elaborazione di elementi tratti da Scott, Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1985. Né meno importante è il fatto che, nella realtà, sono ampiamente diffuse tipologie di or-

ganizzazioni miste che difficilmente si prestano ad un’agevole e certa classificazione. Tra l’altro, specifici studi hanno teso ad evidenziare l’influenza sulle forme organizzative di fatto-ri quali il periodo storico, le caratteristiche ambientali dominanti, le innovazioni tecniche. Una esemplificazione è riportata nel Riquadro I.14.

Scott osserva che “la tipologia si basa su un approccio evolutivo che enfatizza le origini delle diverse forme organizzative e presume che vi sia un generale spostamento verso forme «di ordine superiore». Infine ed è la cosa più importante ai nostri fini, l’approccio riconosce il carattere di sistema aperto delle organizzazioni costruendo tipi che tengono conto delle inter-relazioni delle organizzazioni con i loro ambienti. La diversità ambientale è vista come la fon-te della varianza organizzativa e la tipologia è costruita in modo da rendere chiaro questo nes-so”.

Riquadro I.14 Organizzazioni e influenza ambientale

Periodo Era Caratteristica

ambientale dominante

Innovazioni tecniche

Forme organizzative

1940-1970 R&D Organizzazioni orientate al prodotto

Mutamento tecnico Innovazioni e diver-sificazione del pro-dotto

Forme organiche Griglia, forme a ma-trice

Organiche Matriciali

1900-1940 Catena di montag-gio

Interdipendenza dei posti di lavoro

Coordinamento se-quenziale

Sequenziali

1700-1900 Macchine a vapore Grandi fabbriche molte operazioni

Coordinamento dei posti di lavoro

Fabbriche

1500-1700 Rivoluzione tessile Combinazione di molte unità familiari in industrie basate sul lavoro a domici-lio

Coordinamento di molte unità che non sono sotto lo stesso tetto

Tessili

2100-1500A.C. Dinastie pre-Babilonesi

Debolezza dinastica Mediazione della interdipendenza: le-gittimazione utilita-ristica

Commerciali

2900-2100A.C. Prime dinastie della Mesopotamia

Minacce di guerre Mediazione dell’interdipendenza: legittimazione coer-citiva

Palazzi

Fonte: Elaborazione di elementi tratti da Scott, Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1985.

Riquadro I.13

20    

2. Insostituibile ruolo dell’impresa

Così come noi consideriamo la scuola il luogo in cui si in-segnano cose che vanno oltre il leggere e il fare di conto, così consideriamo la fabbrica come sede di un addestra-mento che va oltre le nozioni fondamentali di tecnologia e delle abilità necessarie alla produzione industriale. Conce-piamo la fabbrica come un’organizzazione simile a una scuola per quanto riguarda l’apprendimento dei valori, de-gli atteggiamenti e degli stili di comportamento più adatti alla vita nella società moderna. Inkeles (1969)

2.1. Impresa: entità molto diffusa, ma anche realmente conosciuta? Domandarsi oggi cosa è un’impresa può sorprendere gli osservatori meno attenti i quali

possono supporre che “ormai tutto è stato detto”. In realtà, analizzare e porsi nella prospettiva di comprendere oggi l’impresa richiede

l’utilizzazione di “lenti” completamente diverse, non tanto rispetto a 100 anni fa – il che appa-re fin troppo ovvio – quanto rispetto ad un arco temporale di pochi anni.

Ciò che induce a supporre che il “mondo delle imprese” sia oramai completamente cono-sciuto è in parte determinato dal fatto che è cresciuta notevolmente la “familiarità” con tale tipologia di organizzazione, tanto che ognuno pensa di averne ampia e compiuta conoscenza.

La realtà è molto diversa: è vero che numerosissimi sono gli studi, le ricerche empiriche che affrontano i più vari e meno evidenti aspetti delle imprese, ma è anche vero che i contesti nei quali operano tali entità sono decisamente più complessi rispetto al passato, i consumatori sono più attenti e preparati, così come i fornitori sono sempre più sovente ubicati in ambiti anche molto lontani rispetto a quello dell’impresa, e vari altri simili aspetti che influiscono sull’impresa e sul suo modo di essere che è tutt’altro che scontato e semplice da conoscere e analizzare.

Sono necessarie nuove modalità interpretative per mezzo delle quali acquisire elementi cognitivi e operativi per una migliore comprensione e capacità di intervento in esse.

Ciò non toglie che i contributi di alcuni studiosi che costituiscono “pietre miliari” nel percorso di avanzamento degli studi economici, prima, e più specifici di management, poi, siano ancora oggi fondamentali per la comprensione della nascita e dello sviluppo dell’impresa.

2.2. Una sfida sempre attuale: formulare un’unitaria teoria dell’impresa

Nel ribadire che non possono essere disattesi i contributi che nel corso dei decenni si so-no susseguiti nell’importante ricerca della comprensione della natura dell’impresa e di una possibile definizione, non si può non osservare che ora, nel terzo millennio, le condizioni so-no così mutate da rendere meno significative alcune delle ricordate teorie. È sufficiente ri-chiamare il rilievo che assumono la complessità, l’incertezza, la dinamicità, per posizionarsi immediatamente in un contesto di analisi che niente ha di analogo a tempi anche relativamen-te recenti.

Interrogarsi sulla natura dell’impresa oggi, richiede la percezione degli aspetti contingen-ti, con la quasi certezza che non saranno gli aspetti di domani. Pertanto, l’interpretazione non può che essere effettuata avvalendosi di una metodologia che per la sua notevole flessibilità possa essere valida anche in presenza di repentini e imprevedibili (quasi traumatici!) cambia-menti: l’approccio per sistemi, precedentemente indicato, pare idoneo a tal fine.

Le imprese, seppure non con la configurazione che presentano ai giorni nostri – non è esagerato affermare – sono sempre esistite. Se con l’immaginazione si cerca di proiettarsi nel

21    

mondo preistorico, non è difficile pensare di imbattersi in soggetti che, specialisticamente, svolgevano alcune attività – per esempio, la “fabbricazione” di coltelli o lance – da “vendere” o, meglio, “barattare” con altri prodotti.

Più evidente è la presenza delle imprese nella fiorente civiltà romana e poi ancora nei se-coli successivi, seppure con alterne vicende.

L’introduzione di macchinari nelle fabbriche tessili ha dato avvio alla cosiddetta rivolu-zione industriale e ha segnato l’avvento della “impresa moderna”. Non vi è dubbio che da quegli anni ad oggi molti cambiamenti si sono verificati all’interno delle imprese, così come negli ambienti nei quali operano. Tali cambiamenti hanno interessato anche lo sviluppo delle teorie che hanno ad oggetto tali entità.

Pur avendo l’impresa – come entità operativa – una “storia” le cui radici affondano in un lontano passato – solo nel 1937, con il contributo dell’economista Ronald Coase si è indivi-duata una possibile risposta alle motivazioni della sua esistenza.

La risposta di Coase – rivoluzionaria per il periodo storico nel quale è stata proposta – è la seguente: “l’impresa esiste perché esistono costi per l’uso del mercato”. Questa intuizione ha costituito e costituisce una pietra miliare per lo studio delle organizzazioni da parte degli economisti, e non solo.

A motivo della dinamicità, incertezza, turbolenza che ha investito e sempre più investe ogni ambito sociale, culturale, tecnologico e della crescente esigenza di interdisciplinarità scientifica per affrontare la complessità, da alcuni anni si è sviluppata una crescente – e, tal-volta, affannosa – attività di ricerca scientifica con l’intento di pervenire alla formulazione di Teorie capaci di ricondurre ad unità i vari fenomeni. Non meraviglia il diffuso fallimento di tali tentativi che costituiscono una contraddizione in termini. Come si può ricondurre ad unità – seppure teorica – una realtà multivariata come quella attuale? È ciò è vero sia che si parli di imprese o di non profit organization, o di qualsiasi altra tipologia di organizzazione.

Mentre lo sviluppo degli studi da parte degli economisti si è sviluppato dopo breve tempo

dall’intuizione di Coase, gli studiosi di management e, segnatamente di strategia, hanno svi-luppato tale interesse in tempi più recenti. Ci si può riferire, per esempio, alle Knowledge theories14 e alla Dynamic Transaction Costs15.

In realtà ciascuna delle teorie, sia inerenti l’ambito economico che di management, af-fronta e sviluppa uno specifico aspetto, incrementando il frazionamento degli studi. È anche per questo motivo che è sempre più forte la consapevolezza dell’esigenza di pervenire ad una loro integrazione. Il problema che si pone è: come? Talvolta le contrapposizioni tra studiosi – in questo caso economisti e studiosi di strategia – sono più da addebitare ad una incompren-sione della terminologia di ciascuna dell’altra parte piuttosto che ad un fondamentale disac-cordo sulla natura del fenomeno oggetto di attenzione.

A tal punto ci si può domandare: quali sono gli elementi cardine di una Teoria dell’impresa? Senza dubbio la spiegazione della sua esistenza e il posizionamento dei suoi confini. Ogni volta che un manager si impegna in una decisione di make-or-buy, sta utilizzan-do (esplicitamente o implicitamente) la teoria dell’impresa16.

Esempi di teorie economiche derivate dal contributo di Coase Teoria dell’agenzia Alchian e Demsetz 1972 Costi di transazione Williamson 1975, 1985 Property Rights and Measurement Costs Barzel, 1989; Cheung 1983 Incomplete Contracts Theory Hart 1995

22    

Gli studiosi di strategia obiettano agli economisti la propensione ad una visione dell’impresa la cui esistenza è strumentale alla protezione del vantaggio esclusivo degli azio-nisti. Al contrario, gli studiosi di strategia preferiscono focalizzare l’attenzione su apprendi-mento, comunicazione, cooperazione, coordinamento, cioè su processi dinamici che operano adeguatamente all’interno dell’impresa.

Rispetto ad una teoria strategica dell’impresa Foss17 ha osservato che essa può essere ri-condotta a due proposizioni: 1) le imprese esistono perché creano beni specializzati che i mercati non possono duplicare;

beni quali conoscenze condivise, cultura, reputazione, identità, capacità di apprendimento e tacita conoscenza;

2) la nozione di flessibilità. I manager all’interno dell’impresa possono impiegare le risorse velocemente e decidere senza contrattazioni nel mercato al fine di ottenere il risultato volu-to.

Un tentativo di integrazione fra gli approcci degli economisti (maggiore attenzione al mercato) e degli studiosi di strategia (maggiore attenzione all’impresa) viene sintetizzato nel Riquadro I.15.

Riquadro I.15 Integrazione fra gli approcci economici e strategici

Firm Benefits 1. Facilitates knowledge sharing 2. Facilitates social controls 3. Provides flexibility in resource

allocation 4. Gives legal protections incl. lim-

ited liability, property rights 5. Build intangible assets

+

Costs of Using a Market 1. Ex ante transaction costs 2. Ex post transaction costs 3. Dynamic transaction costs

= FIRM

Costs of Using a Firm 1. Co-ordination costs of scale,

scope, and geography 2. Agency costs 3. Cognitive limitations on infor-

mation processing

+

Market Benefits 1. Price acts as a signal of imbal-

ance in demand/supply 2. Price allows superior economic

calculation 3. Freedom to transact with any

agent in the economy 4. Transactions protected under con-

tract law

= MARKET

2.3. Confine dell’impresa

Una compiuta comprensione dell’impresa non può prescindere dall’interrogarsi sull’esistenza e sul ruolo che ha il confine. Si tratta, in altri termini, di evidenziare se e in che modo l’impresa mantiene la propria specificità pur interagendo costantemente con il suo am-biente. O, detto altrimenti, è un’entità correlata o avulsa dal contesto (o contesti) nel quale è inserita? Anche con riferimento a questo aspetto, non pare inutile considerare, da un lato, l’evoluzione degli studi e, dall’altro lato, i caratteri di dinamicità e complessità di questa Era.

Rispetto alle concezioni teoriche tradizionali, è stato rilevato che per esse “l’impresa è una realtà dotata di un confine che la separa nettamente dall’ambiente esterno. Tale prospetti-va è all’origine di due principali interpretazioni in ordine alla direzione del rapporto dell’impresa con l’ambiente: la prima interpretazione attribuisce all’ambiente la capacità di determinare la struttura dell’impresa; mentre per la seconda interpretazione, il soggetto attivo della relazione è l’impresa che struttura il proprio ambiente”18.

23    

In realtà nessuna delle due interpretazioni può essere considerata adeguata ad una com-prensione del ruolo del confine in contesti sempre più complessi. Pare opportuno richiamare l’attenzione sul fatto che “Nella categoria generale dei sistemi sociali, alla quale sono ricon-ducibili anche le imprese, la distinzione tra interno ed esterno non dipende da un dato oggetti-vo, ma da un processo di percezione, conoscenza e sperimentazione attraverso il quale le per-sone impegnate nella gestione dei vari processi aziendali creano l’ambiente esterno e le relati-ve distinzioni, mutevoli, per ciascuna impresa e per la stessa impresa, nel corso del tempo”19.

Da quanto appena notato emerge con chiarezza che l’individuazione del confine di un’impresa è strettamente connesso con il criterio adottato. Se a ciò si aggiunge che l’impresa in quanto organizzazione è costituita da una collettività di soggetti umani, cioè ha nei soggetti, sia l’elemento fondamentale di esistenza e di sopravvivenza, sia l’elemento che determina le sue relazioni con l’esterno, risulta evidente che l’individuazione di un confine stabile e chia-ramente percepibile tra l’impresa e l’esterno è pressoché impossibile in quanto le relazioni che i soggetti instaurano nella molteplicità di attività che pongono in essere tendono a creare una quantità non misurabile di “confini”. Ciò potrebbe indurre a supporre che si sviluppi una con-fusione (caos) difficilmente gestibile. In realtà, per una migliore comprensione di queste inte-razioni complesse, viene in aiuto la biologia e, più esattamente, lo studio del ruolo che svolge la membrana rispetto alla cellula. Come hanno sottolineato Maturana e Varela, (Riquadro I.16) la membrana costituisce un elemento di separazione, ma anche di congiunzione e di fil-tro tra l’esterno e l’interno della cellula: tale ruolo del confine impedisce il dissolvimento del-la cellula e favorisce l’acquisizione solo degli elementi utili alla sua sopravvivenza.

Il confine secondo Maturana e Varela Now, what is distinctive about this cellular dynamics compared with any other collection of molecular transformations in natural processes? Interestingly, this cell metabolism pro-duces components which make up the network of transformations that produced them. Some of these components form a boundary, a limit to this network of transformations, in morphologic terms, the structure that makes the cleavage in space possible is called a membrane. Now, this membranous boundary is not a product of cell metabolism in the way that fabric is the product of a fabric-making machine. The reason is that his mem-brane not only limits the extension of the transformation network that produced its own components but it participates in this network. If it did not have this spatial arrangement, cell metabolism would disintegrate in a molecular mess that would spread out all over and would not constitute a discrete unity such as a cell. What we have, then, is a unique situa-tion as regards relations of chemical transformations: on the one hand, we see a network of dynamic transformations that produces its own components and that is essential for a boundary; on the other hand, we see a boundary that is essential for the operation of the network of transformations which produced it as a unity:

Note that these are not sequential processes, but two different aspects of a unitary phe-nomenon. It is not that first there is a boundary, then a dynamics, then a boundary, and so forth. We are describing a type of phenomenon in which the possibility of distinguishing one thing from a whole (something you can see under the microscope, for instance) de-pends on the integrity of the processes that make it possible. Interrupt (at some point) the cellular metabolic network and you will find that after a while you don’t have any more unity to talk about! H. R. Maturana, F. J. Varela, The Tree of Knowledge, Shambhala, Boston, 1998, p. 44-46.

Dynamics  (metabolism)  

Boundary  (membrane)  

Riquadro I.16

24    

Si può osservare, con le dovute cautele, che la collettività di soggetti umani operanti nell’impresa con i loro ruoli e comportamenti pongono in essere le varie funzioni: di demar-cazione (con la struttura interna dell’impresa e, quindi, con l’individuazione di specifici ruo-li); di congiunzione con le attività di relazione che i soggetti interni all’impresa instaurano con soggetti ed entità esterni: di filtro in quanto sono i soggetti – nella loro attività di interrelazio-ne con l’esterno – che “portano” nell’impresa tutto ciò che ad essa è utile per la sua sopravvi-venza e sviluppo e impediscono che “entrino” elementi negativi o “di disturbo”.

Appare evidente quanto sia fondamentale avere compiuta percezione del ruolo del con-fine sia fondamentale poiché ogni impresa sviluppa un’articolata o complessa rete di relazioni con l’esterno che si concretizza in attività “anche di collaborazione e non semplicemente con-trattuali, sempre più necessarie per l’accesso alle materie prime, alle conoscenze e alle altre risorse possedute dai soggetti ed entità esterne, o che possono essere prodotte dall’impresa «insieme» alle entità presenti nel proprio contesto di riferimento”20.

Da quanto sin qui osservato emerge che ogni impresa ha un proprio confine e che esso è soggetto a continue variabilità in relazione alle configurazioni che, di volta in volta, risultano più appropriate per il raggiungimento del sistema degli obiettivi individuali e colletivi.

2.4. Verso una possibile definizione di impresa 2.4.1. Impresa o imprese?

Rivolgere l’attenzione al “mondo delle imprese”, come notato, significa addentrarsi in una realtà le cui molteplici configurazioni sono, nel contempo, affascinanti e inquietanti. affa-scinanti in quanto la diversità costituisce, di norma, il presupposto per nuove, impensate e im-pensabili scoperte; inquietanti perché risulta immediatamente percepibile la difficoltà di indi-viduare attributi che consentano di ricondurre tali sfaccettature ad una ipotesi di omogeneità.

Inoltre, se si ricorda che l’impresa ha nei soggetti umani il proprio fattore di centralità e che ogni soggetto umano esprime una specifica unicità, risulta evidente l’assoluta specificità di ogni impresa, non solo rispetto al settore di appartenenza e all’ambiente in cui opera, ma anche rispetto a imprese dello stesso settore operanti nel medesimo ambiente. Quanto appena notato influisce anche sulla configurazione della stessa impresa in tempi differenti.

Pertanto, domandarsi se l’attenzione debba essere riservata alla singola impresa o alle imprese rischia di essere quasi non rilevante. In realtà è necessario porre in essere un impegno teso all’evidenziazione dei caratteri di uniformità che accomunano le imprese, sulla base della consapevolezza che l’individuazione dei caratteri di specificità non può che essere effettuato a livello di ogni singola impresa: ciò implica l’impossibilità di qualsiasi individuazione genera-le non contestualizzata.

2.4.2. Elementi caratterizzanti

Come in precedenza osservato, è possibile porsi nella prospettiva di individuare alcuni attributi riscontrabili nella generalità delle imprese, anche se va subito sottolineato che anche tali elementi generali assumono, combinandosi specificamente in ogni singola impresa, inten-sità e configurazioni differenti.

Il primo elemento che pare opportuno richiamare è costituito dal fatto che le imprese appartengono alla fattispecie delle organizzazioni, come evidenziato in precedenza.

Ciò significa che costituiscono elementi caratterizzanti di tutte le imprese gli stakehol-der, i fini, le risorse e la rete normativo-comportamentale anche se nella categoria delle im-prese tali elementi assumono una particolare connotazione.

L’implicazione fondamentale dell’essere una tipologia di organizzazione riguarda il fat-to che l’elemento fondamentale dell’esistenza dell’impresa è costituito dalla presenza dei sog-getti umani. È ad essi che va riconosciuto il ruolo centrale; è da essi che deriva essenzialmente il successo o l’insuccesso dell’impresa. Si ricorda che sono i soggetti umani che individuano i

25    

fini, che costituiscono – con le loro abilità, conoscenze, professionalità – una risorsa immate-riale inimitabile e che con i loro comportamenti determinano l’identità dell’impresa, la colle-gano all’esterno e la potenziano all’interno.

L’altro elemento peculiare di ogni impresa è costituito dalla mission che riguarda la produzione di beni e/o servizi per il mercato. È la produzione per il mercato che caratterizza l’impresa rispetto a qualsiasi altra tipologia di organizzazione. Sono solo le imprese che inte-ragiscono con le “regole del mercato” e sopravvivono solo le imprese che riescono a posizio-narsi adeguatamente in esso. Interagire con il mercato significa comprendere le esigenze della domanda, valutare le modalità più consone per soddisfarla e comprendere gli orientamenti delle imprese concorrenti presenti nel proprio e in altri ambienti.

Mission di alcune imprese

Dal 1877 Barilla è l’azienda italiana e familiare che interpreta l’alimentazione come un momento conviviale di gioia, ricco di gusto, affetto e condivisione. Barilla propone un’offerta di qualità fatta di prodotti gustosi e sicuri. Barilla crede nel modello alimentare italiano che combina ingredienti di qualità superiore e ricette semplici, offrendo esperienze uniche ai cinque sensi. Il senso di appartenenza, il coraggio e la curiosità intellettuale ispirano il nostro modo di essere e identificano le persone con le quali lavoriamo. Barilla lega da sempre il suo sviluppo al benessere delle persone e delle comunità in cui opera.

The mission of The Walt Disney Company is to be one of the world’s leading producers and providers of entertainment and information. Using our portfolio of brands to differenti-ate our content, services and consumer products, we seek to develop the most creative, in-novative and profitable entertainment experiences and related products in the world

Qualità elevatissima, cura artigianale, freschezza del prodotto, accurata selezione delle mi-gliori materie prime, rispetto e considerazione del cliente: ecco le “parole chiave” e i valori Ferrero, che hanno reso note e apprezzate da milioni di consumatori le specialità dolciarie prodotte nel mondo. Prodotti frutto di idee innovative, quindi spesso inimitabili pur essendo di larghissima diffusione, entrati a far parte della storia del costume di molti paesi, dove sono a volte considerati autentiche icone. Ferrero è anche attenzione alla sicurezza alimentare, all’ambiente, al sociale, alle comunità locali in cui opera, alle proprie risorse umane. Oggi molti dei prodotti Ferrero sono “globali”, venduti dovunque. Il Gruppo Ferrero è tra le primissime industrie dolciarie nel mondo. La sua particolarità è il suo essere “glocal” (pensare globale, agire locale), cioè una azienda insieme globale e locale, attenta allo sviluppo internazionale, ma anche al suo rapporto con il territorio. Al centro dell’impegno quotidiano da sempre sta il consumatore. Un rapporto di fiducia fatto di conoscenza, esperienza, “feeling” e intuizione, un meccanismo di fedeltà reciproco e duraturo è ciò che lega Ferrero ai propri consumatori, indice dell’attenzione alle loro esi-genze, elemento chiave del successo dell’azienda.

Grazie al nostro entusiasmo, al nostro lavoro in team e ai nostri valori, vogliamo deliziare tutti coloro che, nel mondo, amano la qualità della vita, attraverso il migliore caffè che la natura possa offrire, esaltato dalle migliori tecnologie nonché dall’emozione e dal coin-volgimento intellettuale che nascono dalla ricerca del bello in tutto quello che facciamo.

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We save people money so they can live better

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Le “regole del mercato” sono spietate: l’impresa che non riesce a trovare un giusto equi-librio tra domanda e offerta raramente ha una “prova d’appello” e, in tempi più o meno rapidi, viene espulsa dal mercato. È questo l’elemento che maggiormente consente di identificare le imprese rispetto a qualsiasi altra organizzazione che costituisce il più significativo fattore di uniformità.

In letteratura sono stati indicati anche altri elementi quali, ad esempio, il vincolo di eco-nomicità. È pur vero che un’impresa che non riesce ad ottenere un risultato positivo (ricavi superiori ai costi) ha difficoltà a rimanere nel mercato, ma tale vincolo – con crescente rilievo – riguarda anche altre organizzazioni che, magari, qualche tempo addietro ne risultavano me-no significativamente implicate: ci si riferisce, per esempio, agli enti pubblici. Peraltro, si può notare che il rispetto dell’economicità è implicito anche nell’elemento sopra considerato: un’impresa rimane “nel mercato” se ciò è per lei “conveniente”, cioè ottiene risultati econo-mici positivi.

2.4.3. Obiettivo o obiettivi?

Da oltre un secolo si è sviluppato un dibattito sull’obiettivo dell’impresa che ha sottoli-neato, con alternanza ciclica, talvolta la massimizzazione del risultato per gli shareholders – proprietari dei capitali – tal’altra la centralità dei portatori di interessi (stakeholders).

Il dibattito, ai giorni nostri, è ben lontano dall’essersi esaurito, anzi è riemerso con forza in seguito ai più o meno recenti fallimenti di imprese considerate “di successo” in ogni parte del pianeta.

In realtà, tale dibattito – degno di rispetto – appare, per certi aspetti, sterile. Ciò che tal-volta viene dimenticato, o sottovalutato, è connesso con le mutate condizioni dei sistemi eco-nomici e della complessiva realtà mondiale che richiede, senza dubbio, un nuovo posiziona-mento da parte delle imprese e, ovviamente, una rivisitazione di molte delle concezioni for-mulate nei secoli precedenti e attualmente parzialmente o totalmente inadeguate.

E’ anche da rilevare che l’individuazione dell’obiettivo non è disgiunta dal concetto di impresa che si adotta. Pertanto, se il concetto di impresa adottato è basato sulla centralità dei soggetti umani, cioè nel dare rilievo all’elemento sociale, non vi è dubbio che si configura un’impresa decisamente diversa da quella che poneva al centro la produzione, cioè l’elemento materiale. Risulta evidente che nell’un caso e nell’altro non può esservi compiuta coincidenza di obiettivi o, meglio, nel caso dell’orientamento esclusivo alla produzione e agli aspetti mate-riali, veniva considerato il profitto e la sua massimizzazione come obiettivo primario ed esclusivo dell’impresa. Attualmente, con un forte orientamento sociale, si individua una plu-ralità di obiettivi tra i quali, ovviamente, è presente anche il perseguimento del profitto ma quale fattore strumentale al più generale obiettivo della sopravvivenza che comprende anche attenzione al perseguimento degli obiettivi dei soggetti che operano nell’impresa.

I singoli soggetti hanno loro specifici obiettivi che possono più o meno coincidere con quelli dell’organizzazione, ma sono portati ad agire per conseguire gli obiettivi dell’organizzazione come “mezzo” per raggiungere almeno una parte dei propri obiettivi. Non va dimenticato che ogni soggetto umano è membro di più organizzazioni, una o più delle qua-li “scelta” in quanto idonea a soddisfare i propri obiettivi. Ciò implica che ogni organizzazio-ne può soddisfare una parte di obiettivi individuali o anche nessuna parte.

Pfeffer e Salancik21 considerano le organizzazioni “come ambienti in cui gruppi o singoli individui con differenti interessi e preferenze si trovano riuniti e si impegnano in attività di scambio”. Si conclude questo punto con la seguente frase di Levitt22 (Riquadro I.17) che risul-ta tanto pregnante da non richiedere commenti.

27    

                                           A proposito del fine della massimizzazione del profitto …….  

“Fino a poco tempo fa, molte aziende avevano un’idea alquanto diversa del proprio scopo. Af-

fermavano semplicemente che era fare soldi. Ma ciò si è dimostrato privo di significato quanto as-serire che lo scopo della vita è mangiare. Mangiare è un requisito, non uno scopo della vita. Senza mangiare, la vita finisce. Il profitto è un requisito dell’azienda. Senza profitto l’azienda cessa di esi-stere”. (T. Levitt)

2.4.4. Definizione

Le considerazioni svolte nei punti precedenti, consentono di pervenire ad una definizione di impresa pur nella consapevolezza che definire l’impresa è un compito decisamente non agevole. Si tratta di un’entità così prossima a ciascun soggetto umano che ognuno suppone di conoscerne appieno le caratteristiche ma, di norma, ne apprezza uno o pochi elementi di spe-cificità, talvolta perché più prossimi alle sue sensibilità o esigenze da soddisfare, tal’altra per-ché in accordo con punti di vista “alla moda” o di successo. Ciò è realistico sia per soggetti “non esperti” che per gli studiosi.

In realtà ogni soggetto può avere la “sua” percezione di impresa e, ciò che è più strabi-liante, è che ciascuno ha una grande probabilità di essere nel giusto! Come è possibile? L’impresa è talmente poliedrica che si presta a molteplici corrette interpretazioni. Ciò che è necessario dal punto di vista della rigorosità dell’analisi è trovare una definizione capace di comprendere le più significative caratterizzazioni che può assumere.

Rispetto alla formulazione della definizione pare opportuno richiamare prioritariamente l’attenzione sul fatto che i concetti sintetici che esse richiedono e consentono, devono essere considerati quali modelli interpretativi e non già quali spiegazioni esaustive del fenomeno.

In tal senso non pare inutile ribadire che la definizione, fornendo il modello attribuibile alla natura dell’impresa, costituisce necessariamente una schematizzazione della realtà la qua-le, comunque e sempre, è ben più complessa, varia e variabile, rispetto a quanto la definizio-ne, qualsiasi definizione, riesca a porre in evidenza.

Da questa, peraltro, ci si può attendere molto e, in particolare, l’evidenziazione dell’elemento o degli elementi ritenuti prioritari o degni di essere posti in evidenza. A ben ve-dere, pertanto, con la proposta della definizione si pone in essere un’attività di attribuzione di priorità che, evidentemente, si connette ai convincimenti di chi presenta la proposta. Solo in questo senso la definizione risulta essenziale: essa, infatti, discrimina tra elementi ritenuti im-portanti ed elementi ritenuti meno importanti e persino trascurabili; essa determina una sche-matica gerarchizzazione tra gli elementi con tutti i limiti che questo modo di procedere com-porta, ma altresì con i vantaggi di evidenziare le priorità.

Al di là di questo contributo, alla definizione non si può “chiedere di più”, proprio perché essa esprime un modello. Anzi è da dire che quanto più si vuole che la definizione sia riferibi-le ad un gran numero di fenomeni, i quali in tema d’impresa, ma non solo in questa, presenta-no spiccati caratteri di complessità, varietà e variabilità, tanto più essa deve essere schematica e forse pure tendenzialmente generica.

In questo campo si pone l’arduo problema della scelta del fenomeno cui riferire la defini-zione. In proposito si possono distinguere varie soluzioni: a) riferirsi al fenomeno ritenuto più frequente rispetto all’universo considerato; b) riferirsi al fenomeno ritenuto paradigmatico, cioè più espressivo (ovviamente in relazione

al sistema di valori anche scientifico-culturali di riferimento); c) riferirsi al fenomeno che esprime in massimo grado gli attributi ritenuti più importanti o

Riquadro I.17

28    

significativi rispetto ai differenti casi riscontrabili nella realtà; d) riferirsi a tutti i fenomeni componenti l’universo considerato, con l’ovvia conseguenza

dell’assoluta genericità della definizione; e) riferirsi, infine, alle varie classi di fenomeni per mezzo della costruzione di matrici di diffe-

renziazione. Fra tutte queste possibilità la definizione che di seguito si propone, privilegerà quella che

pone in evidenza gli elementi ritenuti più significativi: la scelta è dettata dalla supposizione che in tal modo si possa fornire in massimo grado un contributo interpretativo che, al contra-rio, non potrebbe avere nessun valore se si assumesse una definizione onnicomprensiva e, in quanto tale – è opportuno ribadirlo – oggettivamente generica.

Una proposta interpretativa, che pare pertinente, è quella che fa riferimento prioritario ai soggetti umani operanti nel contesto denominato impresa: in tal caso ci si troverebbe in pre-senza di un’organizzazione, cioè di una collettività di soggetti umani accomunati nell’impegno della produzione di beni e/o servizi per il mercato, con l’ulteriore specificazione che tali soggetti opererebbero in modo sistemico, cioè costituirebbero comunque un sistema.

Pertanto, l’impresa può essere definita come segue:

 

•  L'impresa è un'organizzazione (sistema asperto e dinamico con chiusura operazionale) che produce beni e/o servizi per il mercato

Definizione di impresa

29    

3. L’impresa oggi: una cellula di un sistema di interdipendenze 3.1. Premessa

Da quanto esposto nel capitolo precedente emerge chiaramente non solo che l’impresa è un’entità complessa, ma anche che si è in presenza di un’entità la cui evoluzione è strettamen-te connessa con l’evoluzione sociale, culturale, dello sviluppo scientifico e tecnologico o, in sintesi, con i cambiamenti che hanno caratterizzato e caratterizzano l’evoluzione dell’Umanità nel secolo precedente e in quello appena iniziato.

A complicare la compiuta percezione dei connotati distintivi e peculiari dell’impresa, si aggiunge la circostanza che l’impresa non è un’entità “passiva” ma essa interagisce “attiva-mente” con il suo esterno e contribuisce alla generazione del cambiamento.

Fra i quesiti da porsi all’inizio del terzo millennio si possono individuare i seguenti: quali sono le peculiarità delle imprese del Terzo millennio? In quali aspetti differiscono – se differi-scono – rispetto alle imprese operanti nei secoli precedenti? In che modo delinearne la natura per adottare le più corrette tecniche di intervento? Su quali aspetti fare leva per creare l’indispensabile vantaggio competitivo?

Dai quesiti proposti e da altri possibili, emerge chiaramente il non agevole compito di in-dividuare adeguate risposte. Ciò che in prima approssimazione si può rilevare è che non esiste la risposta e che, certamente, alcune delle risposte individuabili sono significativamente diffe-renti rispetto a quelle formulate anche in tempi recenti e che hanno portato al successo un numero significativo di imprese.

Un valido supporto per un efficace orientamento si individua nella Teoria delle contin-genze di Lawrence e Lorsche (Riquadro I.18), da un lato, e nei concetti di organizzazione e struttura proposti da Maturana e Varela (Riquadro I.19).

La Teoria delle contingenze indica l’esigenza di considerare ogni organizzazione come espressione delle circostanze (tempo), del contesto nel quale opera (spazio) e delle persone coinvolte. In tal modo ogni organizzazione non risulta considerata in base a connotati “idea-li”, ma in relazione alla precisa configurazione che assume sulla base dei fattori “contingenti” che con essa interagiscono.

Dal contributo desumibile dagli studi di Maturana e Varela, sulla base dei concetti di or-

ganizzazione e struttura che essi elaborano (si veda il Riquadro I.18), appare evidente la coe-sistenza di elementi “invarianti” (organizzazione) e di elementi “flessibili” (struttura).

Organization and Structure

Organization denotes those relations that must exist among the components of a system for it to be a member of a specific class. Structure denotes the components and relations that actually constitute a particular unity and make its organization real. Thus, for instance, in a toilet the organization of the system of water-level regulation consists in the relation be-tween an apparatus capable of detecting the water level and another apparatus capable of stopping the inflow of water. The toilet unit embodies a mixed system of plastic and metal comprising a float and a bypass valve. This specific structure, however, could be modified by replacing the plastic with wood, without changing the fact that there would still be a toilet organization. H. Maturana e F. Varela

Riquadro I.19

Teoria delle contingenze La Teoria delle contingenze, formulata dagli studiosi P.R. Lawrence e J.W. Lorsch, pone in evidenza che am-bienti differenti pongono alle organizzazioni differenti richieste: in particolare, gli ambienti caratterizzati da in-certezza e da tassi elevati di mutamento nelle condizioni di mercato o nella tecnologia presentano alle organizza-zioni sfide differenti – sia in termini di opportunità che di limiti – da quelle poste da ambienti tranquilli e stabili. Jay Galbraith esprime in modo sintetico i presupposti fondamentali della Teoria delle contingenze:

• Non c’è un unico “miglior modo” di organizzare • Non tutti i modi di organizzare sono egualmente efficaci

Riquadro I.18

30    

Ciò implica che gli elementi “fondanti” dell’impresa - cioè la specificità della sua “mis-sion”, produzione di beni o servizi per il mercato - mantengono la loro validità e invarianza nel tempo, indipendentemente da modificazioni del modo d’essere interno e di significativi cambiamenti esterni. Al contrario, si modificano gli elementi strutturali, flessibili, suscettibili di adeguamento, cioè capaci di consentire l’armonizzazione dell’impresa con il continuo cambiamento, anche turbolento.

Avvalendosi delle osservazioni appena presentate, se è vero che l’impresa del passato ba-sava la sua forza, il suo vantaggio competitivo, su aspetti materiali e su tecniche improntate alla razionalità, l’impresa del presente è chiamata a poggiare la sua sopravvivenza su elementi immateriali. Si tratta di fattori che risultano, da un lato, non chiaramente e quantitativamente percepibili e, dall’altro lato, tanto rilevanti da influire sulla permanenza o uscita dal mercato di ogni impresa. Nei paragrafi successivi si considerano, a motivo del nuovo e/o più incisivo ruolo assunto negli ultimi decenni, l’orientamento alla responsabilità sociale e il ruolo dell’innovazione. Altri fattori quali la cultura – sia come fattore rilevante all’interno dell’impresa, sia come elemento di rilevante cambiamento dei caratteri degli ambienti di rife-rimento dell’impresa – le emozioni e altri che sono significativi rispetto alla “costruzione” dell’ambiente interno dell’impresa, vengono analizzati nella Parte II dedicata, appunto, all’analisi dell’ambiente esterno ed interno dell’impresa.

3.2. Etica e responsabilità sociale

La questione della responsabilità sociale dell’impresa affonda le sue radici nei lontani an-ni trenta e quaranta grazie ai contributi di pensatori quali Chester J. Barnard23, John M. Clark24 e Theodor Kreps25. È negli anni cinquanta che comincia a sorgere la cosiddetta era moderna della responsabilità sociale, grazie a Howard R. Bowen che è considerato, appunto, il “padre della Corporate Social Responsibility”26, anche se in questi scritti ed ancora sino a metà degli anni sessanta – periodo in cui la letteratura si espande – non ci si riferisce alla re-sponsabilità dell’impresa quanto piuttosto alla responsabilità dei “Businessmen”. A partire dal 1967 si utilizza esplicitamente e direttamente l’espressione “Corporate Social Responsibility” (CSR)27.

Le definizioni che vengono proposte negli anni sessanta non appaiono molto precise, nel senso che considerano la stretta correlazione tra le decisioni, le azioni degli uomini d’affari e la società, sottolineando che l’impresa ha “non solo obbligazioni economiche e legali ma an-che certe responsabilità verso la società che si estendono al di là di queste obbligazioni”28, senza specificare adeguatamente a quali responsabilità ci si riferisca. Tentativo di esplicita-zione che si cerca di realizzare negli anni settanta, allorquando le definizioni proliferano. Ne-gli anni ottanta e novanta, invece, più che soffermarsi sulla creazione di nuove definizioni, si realizzano una molteplicità di ricerche aventi lo scopo di approfondire l’argomento e di indi-viduare modelli applicativi: in questo ventennio la CSR si frammenta in numerosi temi di ri-cerca alternativi e si sviluppano una molteplicità di approcci allo stesso fenomeno29. Ancora oggi non è possibile indicare una definizione di responsabilità sociale dell’impresa universal-mente accettata dagli studiosi.

Non tutti, tra l’altro, sono d’accordo sul fatto che l’impresa abbia una responsabilità so-ciale. Tra questi, Milton Friedman, ad esempio, afferma con decisione che “c’è una ed una so-la responsabilità dell’impresa – utilizzare le proprie risorse e impegnarsi in attività progettate per incrementare i propri profitti mantenendosi all’interno delle regole del gioco, cioè, impe-gnandosi in un’aperta e libera competizione senza inganno o frode”30. Coloro che abbracciano tale prospettiva vengono ricompresi da Klonosky nell’approccio fondamentalista della pro-spettiva amorale, per cui all’impresa non può essere computata nessuna responsabilità morale se non quella relativa all’accordo preso nei confronti degli azionisti (traditional stockholders

31    

model), per cui l’unico ruolo dell’impresa è quello di fare profitti. Anche tra coloro che sottolineano che l’impresa sia un’istituzione sociale, e quindi dotata

di una responsabilità sociale, si riscontrano vari approcci. Secondo lo “stakeholder approach” l’impresa ha una serie di doveri derivanti dal network

di relazioni che essa intesse e sviluppa con i diversi gruppi di persone che hanno un qualche interesse nell’impresa.

Archie B. Carroll, ed altri autori che ne hanno arricchito l’apporto nel tentativo di com-pletare i contributi che storicamente si erano sviluppati sul tema della CSR attorno alla teoria degli stakeholder, sostengono che nella conduzione dell’impresa i manager devono far fronte continuamente e contemporaneamente ad una serie di responsabilità economiche e non eco-nomiche (Riquadro I.20).

Tra le prime rientrano la produzione di beni e servizi che devono essere venduti per rea-lizzare un profitto; tra quelle non economiche rientrano le responsabilità legali, ossia fare pro-fitto ma rispettando le “regole del gioco”, le responsabilità etiche – rispettare il tipo di norme etiche e di comportamenti attesi dalla società – e quelle discrezionali o volontarie e filantropi-che, relative a quei ruoli volontari assunti dall’impresa senza una chiara aspettativa da parte della società. Carroll nota come queste ultime acquisiscano sempre più importanza strategica per l’impresa e tra queste cita, ad esempio, contribuzioni filantropiche, programmi per il recu-pero di tossicodipendenti, riqualificazione dei disoccupati, centri per le lavoratrici-madri.

Le quattro responsabilità dei manager proposte da Archie Carroll: in

ordine di priorità Economic responsibilities of a business organization’s management are to produce goods and services of val-ue to society so that the firm may repay its creditors and shareholders

Legal responsibilities are defined by governments in laws that management is expected to obey

Ethical responsibilities of an organization’s management are to follow the generally hed beliefs about behav-ior in a society

Discretionary responsibilities are the purely voluntary obligations a corporation assumes Fonte: Adattato da A.B. Carroll, Managing Ethically with Global Stakeholders: A Present and Future Challenge, Acade-

my of Management Executive, May 2004  

Egli, inoltre, non manca di sottolineare, ricordando una sua precedente definizione del 1979, che “oggi molti pensano ancora alla componente economica come ciò che l’impresa fa per se stessa, e le componenti legale, etica e discrezionale (o filantropica) come ciò che l’impresa fa per gli altri. Sebbene questa distinzione sia attraente, sosterrei che anche la soste-nibilità economica è qualcosa che l’impresa fa per la società, sebbene raramente guardiamo a ciò in questo modo”31. Piuttosto, “l’orientamento sociale di un’organizzazione può essere va-lutato appropriatamente attraverso l’importanza che essa pone sulle tre componenti non-economiche rispetto a quella economica”32. Infine, sintetizza la propria posizione affermando che “l’impresa socialmente responsabile deve sforzarsi di fare profitti, obbedire alla legge, es-sere etica ed essere una buona cittadina”33.

Il “corporate social responsiveness approach” presenta una prospettiva di responsabilità sociale in chiave strategica. Ossia, l’impresa deve mettersi nelle condizioni di anticipare i cambiamenti, realizzando programmi e politiche tali da minimizzare gli effetti negativi che le proprie attività presenti e future possono avere in termini di ricaduta sociale, evitando così di catalizzare sull’impresa ondate di protesta34.

Altri studiosi sostengono che tra l’impresa e la società sia stato siglato una sorta di con-tratto sociale. In particolare, dopo gli anni cinquanta tale contratto necessitava in qualche mo-do di essere innovato, portando dei cambiamenti nell’equilibrio tra il fare profitti e la respon-

Riquadro I.20

32    

sabilità sociale dell’impresa. La prospettiva contrattualista vede l’impresa come un nexus di contratti che si realizzano al suo interno ed all’esterno. Ecco quindi la necessità di trovare un adeguato bilanciamento tra gli interessi dei vari stakeholder. Ciò che dovrebbe spingere l’impresa ad onorare il contratto sociale stipulato sarebbe la reputazione. Essa, però, violereb-be il contratto sociale stipulato ogni qualvolta si trovasse nella condizione di farlo senza so-stenere alcun costo (ossia senza che la sua reputazione ne risentisse). Perché il sistema di con-trollo reputazionale funzioni è necessario che gli stakehoder abbiano una conoscenza perfetta di ciò che accade nel mercato, circostanza impossibile. Anche la formulazione di standard condivisi con gli stakeholder35 non risolve del tutto la problematica correlata all’asimmetria informativa insita nei contratti. Inoltre, la prospettiva antropologica sottostante la teoria con-trattualista è quella dell’individualismo, con soggetti mossi dal raggiungimento del proprio in-teresse personale per cui se si dovessero trovare nella condizione di trasgredire il contratto senza doverne pagare un costo trasgredirebbero senza dubbio36. Ma proprio in ciò costituisce il punto di maggiore debolezza della prospettiva contrattualista

Di non poco rilievo è il contributo dato dalle Istituzioni internazionali. In particolare l’Onu, ha dato vita ad una propria iniziativa in favore della diffusione della responsabilità so-ciale dell’impresa: lo United Nations Global Compact (Riquadro I.21).

I 10 principi del Global Compact

 Diritti umani

Principio I – Alle imprese è richiesto di promuovere e rispettare i diritti umani uni-versalmente riconosciuti nell’ambito delle rispettive sfere di influenza:e di

Principio II – assicurarsi di non essere, neppure indirettamente, complici negli abusi dei diritti umani

 Lavoro

Principio III – Alle imprese è richiesto di sostenere la libertà di associazione dei la-voratori e riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva;

Principio IV – l’eliminazione di tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio;

Principio V – l’effettiva eliminazione del lavoro minorile;

Principio VI – l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in materia di impie-go e professione.

Ambiente  

Principio VII – Alle imprese è richiesto di sostenere un approccio preventivo nei confronti delle sfide ambientali, di

Principio VIII – intraprendere iniziative che promuovano una maggiore responsabi-lità ambientale: e di

Principio IX – incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie che rispettino l’ambiente.

 Corruzione

Principio X –Le imprese si impegnano a contrastare la corruzione in ogni sua forma, incluse l’estorsione e le tangenti.

Fonte: Global Compact Network Italia

Riquadro I.21

33    

Il Global Compact è un network di imprese e organizzazioni che si impegnano a rispetta-re dieci principi afferenti i diritti umani, le tematiche del lavoro, la difesa dell’ambiente, non-ché la problematica della corruzione nelle sue varie forme37.

Dal canto suo l’Unione Europea ha adottato una prospettiva strategica e utilitaristica alla responsabilità sociale, affermando che adottare pratiche di CSR sia conveniente per l’impresa, con l’intento di incoraggiare gli imprenditori europei ad intraprendere questo percorso. Nel libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” si evidenzia che è possibile riferirsi alla responsabilità sociale quando “assumendo di propria iniziativa impegni che vanno al di là delle esigenze regolamentari e convenzionali cui devono comunque conformarsi, le imprese si sforzano di elevare le norme collegate allo sviluppo so-ciale, alla tutela dell’ambiente e al rispetto dei diritti fondamentali, adottando un sistema di governo aperto, in grado di conciliare gli interessi delle varie parti interessate nell’ambito di un approccio globale della qualità e dello sviluppo sostenibile”38, quindi, non solo rispettando la legge, bensì andando al di là di essa “investendo «di più» nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate” .

Anche l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD) non ha mancato di esprimere la propria posizione, sottolineando che “le imprese più esperte nella CSR trovano che essa non possa essere trattata come un caratteristica aggiunta dell’impresa. La CSR deve diventare valore e strategia centrale per l’impresa integrato in tutti gli aspetti dell’impresa”39 ed avvalorando evidentemente l’adozione di un autentico orientamento socia-le, che presuppone l’integrazione delle prospettive di responsabilità sociale con uno sfondo etico, che costituisca riferimento nel proprio agire nelle relazioni all’interno dell’impresa co-me all’esterno di essa.

Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dal prodursi di notevoli mutamenti negli aspetti fondamentali della società, influendo in modo rilevante anche nelle relazioni che essa instaura con l’impresa40. Peraltro, è anche opportuno non affrontare il problema concernente la re-sponsabilità sociale dell’impresa sulla base di “comportamenti apparenti”. D’altro canto la stessa crisi economico-finanziaria che è stata subita in tutta la sua devastante potenza ha sol-levato non pochi interrogativi sul sistema economico di tipo capitalistico. Di fatto per lungo tempo si è fatta confusione tra l’economia di mercato e il sistema capitalista. Il capitalismo è, infatti, uno dei modi – non l’unico modo – con cui si può declinare l’economia di mercato. Quel che appare certo è che la crisi di questi ultimi anni non è semplicemente una crisi finan-ziaria ed economica, bensì una crisi sociale, relazionale. Da più fonti si è anche richiamata la necessità di un recupero della dimensione etica nell’agire dell’impresa e nell’impresa41.

Differenti sono le prospettive e i principi etici adottabili, senza pretesa di esaustività di seguito ne vengono presentate alcune tra le principali. La prospettiva teleologica focalizza l’attenzione sulle conseguenze delle azioni più che sui principi che le animano. La prospettiva deontologica fa invece riferimento ai doveri o obbligazioni che dovrebbero muovere i soggetti nelle loro azioni. Nell’ambito della prima prospettiva si trova, ad esempio, l’etica utilitarista; nell’ambito della seconda l’etica della giustizia; altre impostazioni etiche – come ad esempio l’etica delle virtù – sembrano contenere un mix delle due prospettive42.

Secondo l’etica utilitarista un’azione è da intraprendere quando permette di raggiungere il miglior risultato per il maggior numero di persone. Un punto critico dell’etica utilitarista è rappresentato dal fatto che essa non tiene conto delle modalità in cui e delle vie attraverso le quali si raggiunge il risultato. Per cui, in estrema sintesi, il fine da raggiungere giustifichereb-be i mezzi che si impiegano per raggiungerlo anche se scorretti, ingiusti, o quant’altro. Inoltre la ricerca del cosiddetto bene totale (che, si noti, è diverso dal bene comune) può portare ad un risultato opinabile dal punto di vista della giustizia. Infatti nulla si dice a proposito del mo-do in cui i benefici dell’azione intrapresa si distribuiscano tra i beneficiari ed anche del fatto

34    

che raggiungendo il bene per il maggior numero si ledano diritti moralmente legittimi di sin-goli o gruppi minoritari.

L’etica individualista fonda il giudizio di bontà e correttezza dell’azione se questa corri-sponde all’interesse di chi la pone in essere, sia nei comportamenti di tipo meramente egoisti-co che in quelli di tipo altruistico43.

L’etica della giustizia pone la propria enfasi sul trattare ogni persona in modo giusto. Il problema sorge quando si intenda traslare tale principio nell’operare quotidiano. “Come deci-dete cosa è dovuto ad una persona? Può essere dato alle persone ciò che gli è dovuto in rela-zione al tipo di lavoro che svolgono, allo sforzo profuso, al merito, alle loro necessità, e così via. Ciascuno di questi criteri può essere appropriato in diverse circostanze”44. È possibile in-dividuare diversi tipi di giustizia: la giustizia distributiva, la quale fa riferimento al modo con cui vengono distribuiti – appunto – oneri e benefici; la giustizia compensativa, la quale mira a compensare chi abbia subito un’azione ingiusta nel passato; la giustizia procedurale, la quale è inerente alle procedure di decisione, alle pratiche ed agli accordi.

Se le tipologie etiche che sono state sin qui evidenziato cercano essenzialmente di rispon-dere alla domanda “cosa devo fare?” l’etica delle virtù intende rispondere alla domanda “che tipo di persona devo essere o diventare?”45. Le virtù cui si fa generalmente riferimento sono l’onestà, l’integrità, la fedeltà, il mantenere fede alle promesse, la correttezza ed il rispetto de-gli altri.

“Il problema più serio – afferma Zamagni – con le varie teorie di etica degli affari di ma-trice individualista è che queste non sono in grado di fornire un motivo per “essere etici”. Se non è bene per se stessi comportarsi in modo etico, perché non fare ciò che è bene per sè, an-ziché fare ciò che è raccomandato dall’etica? D’altro canto, se è bene per sé “essere etici”, che bisogno c’è di offrire incentivi ai manager perché facciano ciò che è nel loro stesso bene fare? La soluzione al problema della motivazione morale del manager non è quella di fissargli vin-coli (o dargli incentivi) per agire contro il proprio interesse, ma di offrirgli una più completa comprensione del suo bene. Solo se l’etica entra quale argomento della funzione obiettivo de-gli agenti, quello della motivazione morale cessa di essere un problema, dal momento che siamo automaticamente motivati a fare ciò che crediamo sia bene per noi”.

Evidentemente la questione etica è anch’essa di per sé caratterizzata da forte complessità. L’impresa è composta da più persone le quali possono essere animate da principi etici diversi, talora anche contrastanti. Allora, per così dire, il grado di “eticità” di un’impresa dipenderà sia dai valori etici facenti capo alle singole persone che la costituiscono e dal modo in cui questi si compenetrano nello sviluppo dei processi decisionali, così come dalla cultura dominante nell’impresa stessa, e dalla cultura dominante nell’ambiente di riferimento. Ecco perché un ruolo non indifferente nel promuovere una cultura vitalmente ancorata a solidi principi etici deve essere svolto dalle Istituzioni educative, governative, associazionistiche, ecc.

Proprio tale complessità avvalora la tesi della necessità di un ancoraggio etico della CSR di un’etica antropologicamente fondata46 che sappia guardare alla persona nella sua unicità, alle relazioni che essa pone in essere con gli stakeholder – dando anche ad essi un volto per-sonale – e alla società generalmente considerata, ossia al bene comune (che comprende il bene dei singoli e della società).

Correttamente Klonosky47 pone con forza una questione nodale, cioè che l’aspetto centra-le del dibattito verte sulla natura dell’impresa. Infatti, dalla definizione di impresa che si con-sidera discendono una molteplicità di implicazioni che portano all’affermarsi o meno di una sua qualche responsabilità sociale e di un’etica d’impresa.

A questo punto pare congruo richiamare la questione definitoria per cui, se si considera l’impresa quale “collettività di soggetti umani, che insieme affronta la produzione di beni e servizi per il mercato”48, la centralità della persona assume di per sé importanza primaria e

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decisiva. Per cui nell’implementazione dell’orientamento sociale tale opzione costituisce na-turalmente lo sfondo di riferimento che sottostà a tutto il suo operare.

Se si assume la centralità della persona, singolarmente considerata o associata in organiz-zazioni, quale cuore pulsante dell’impresa (nei membri che a diverso titolo la costituiscono), o quale destinataria diretta o indiretta della sua azione (stakeholder generalmente considerati) ed intendendo dare a questa opzione valenza operativa, emerge l’importanza di implementare una gestione interna in cui le relazioni siano improntate al dialogo ed alla reciprocità in un clima di fiducia49. In altri termini, da questa prospettiva pare assumere notevole rilevanza la creazione delle cosiddette “condizioni di comunione” che Barnard riassume in “quel sentirsi a proprio agio nei rapporti sociali che è talvolta chiamato solidarietà, integrazione sociale, so-cievolezza o sicurezza sociale (nel senso originale, non nel suo presente svilito senso econo-mico)”50. Esse assumono valore non trascurabile, in quanto attraverso la loro evidenziazione e applicazione operativa si considera il singolo soggetto come parte attiva della comunità socia-le che vive nell’impresa, o più in generale nelle organizzazioni, e si afferma l’importanza del-le relazioni tra i soggetti ivi presenti, senza trascurare, anzi ponendo in rilievo, anche le pecu-liarità del singolo. Nel Riquadro I.22, viene presentato il “credo” della Johnson & Johnson ri-spetto alla responsabilità nei confronti di varie categorie di soggetti.

Così, pur nel rispetto dei diversi ruoli, sarà compito del management incoraggiare la par-tecipazione alle decisioni da parte di tutti i lavoratori, soprattutto in relazione a quegli aspetti che li coinvolgono direttamente, ma più in generale nel definire gli obiettivi dell’impresa, creando le condizioni per lo sviluppo e la diffusione del sapere, nella consapevolezza che il raggiungimento degli obiettivi dipende, in larga parte, dall’impegno profuso dai singoli, e questo – a sua volta – è legato, in modo significativo, alle motivazioni intrinseche che in essi vengono espresse. Caratteristiche importantissime che devono essere continuamente sviluppa-te, per cui sarà compito dell’impresa realizzare opportuni piani di formazione condivisi con tutti i soggetti interessati per una loro adeguata implementazione. Non deve sfuggire, altresì, la circostanza che all’interno dell’impresa si realizzino situazioni conflittuali; sarà quindi ne-cessario verificare periodicamente la qualità delle relazioni interpersonali, allorché attraverso un proficuo scambio di idee, realizzato attraverso l’ascolto reciproco51, i momenti di crisi pos-sano essere trasformati in momenti di crescita per tutta l’organizzazione, nella consapevolezza che i conflitti non vanno celati, bensì superati e che in questo modo la diversità che li ha, eventualmente, determinati può realmente trasformarsi in ricchezza.

Il convincimento di una simile impostazione di fondo si estrinseca anche nelle relazioni che l’impresa realizza al suo esterno, partendo dal presupposto che essa entra in relazione con altri soggetti come, ad esempio, i clienti, ai quali offrirà i prodotti non limitandosi a conside-rare gli obblighi contrattuali, bensì valutando anche gli oggettivi riflessi della qualità dei beni e servizi che offre sul benessere dei consumatori, nonché adottando uno stile comunicativo in-formato alla correttezza e trasparenza (nelle azioni di comunicazione attraverso i mass media, nelle etichette, ecc.); i fornitori con i quali punterà all’adozione di rapporti di reciproca colla-borazione e rispetto; i concorrenti in un rapporto di lealtà e, laddove possibile, di cooperazio-ne, pur nell’ambito della competizione; la Pubblica Amministrazione con cui intratterrà rap-porti incentrati alla correttezza; la comunità locale nella quale essa è inserita ed alla quale de-ve rispetto sia in riferimento alle persone che all’ambiente (qui inteso in senso ecologico) in cui le persone vivono, senza dimenticare la comunità nazionale ed internazionale di cui è co-munque parte; infine, un ulteriore aspetto che scaturisce da una simile impostazione è rappre-sentato da un congruo sistema di comunicazione interno ed esterno che l’impresa dovrà met-tere in atto con tutte quelle forme che le consentano di trasmettere adeguatamente i propri convincimenti e le azioni, anche di carattere sociale, che vengono poste in essere, in questo senso può svolgere un ruolo di supporto il cosiddetto Bilancio sociale.

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Sono le persone, infatti, che costituiscono le organizzazioni ed il successo di queste ulti-me dipende in gran parte dalla qualità del loro operare e del loro operare insieme, ossia dalla qualità delle loro relazioni. Nel contempo occorre non dimenticare che i soggetti umani tra-scorrono gran parte del loro tempo nelle imprese quindi è auspicabile che esse vengano go-vernate in modo tale da offrire loro la possibilità di esprimere al meglio la propria personalità trovando, come già osservato, la possibilità di realizzarsi nel lavoro come nel resto della pro-pria esistenza che viene vissuta fuori dall’impresa.

Riquadro I.22

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Adottare un orientamento sociale significa quindi implementare una prospettiva integrata, multidimensionale, in cui tutte le responsabilità (economiche e sociali) vengono ottemperate con un animus comune, per cui non ci si trova di fronte ad una sequenza discreta di eventi e decisioni orientati ora all’una ora all’altra dimensione. Si realizza così una sorta di unificazio-ne nell’agire delle persone, in ogni fase in cui si esplica l’attività di impresa, nella produzione dei beni e servizi, come nella vendita degli stessi, nella realizzazione dell’azione di marketing e così via.

In questo senso l’adozione dell’orientamento sociale richiede una precisa opzione cultu-rale, nel senso che non si tratta di definire la mission, adottare una strategia e poi, a mo’ di appendice, giustapporvi una qualche pratica di responsabilità sociale, bensì occorre far assur-gere la responsabilità sociale dell’impresa a vera e propria categoria manageriale. Per cui, l’orientamento sociale dell’impresa costituisce l’impostazione di fondo che sottende ad ogni azione imprenditoriale, dalla definizione della missione dell’impresa, alla strategia, all’implementazione delle funzioni direzionali e gestionali, cioè, il quadro di riferimento del suo modo di essere nel mercato e nell’ambiente. E’ nella centralità dei soggetti umani e nella qualità delle relazioni che essa riesce ad instaurare al suo interno e nei rapporti con esterno, nonché nella rivisitazione concreta del suo operare alla luce di una simile impostazione, che può considerarsi coerentemente socialmente orientata. Nel Riquadro I.23 vengono riportate alcuni elementi della discussione tra i sostenitori e contrari alla responsabilità sociale.  

Discussione sui PRO e Contro della Responsabilità Sociale

PRO CONTRO

Aspirazioni pubbliche La pubblica opinione ora sostiene le imprese che perse-guono obiettivi economici e sociali Profitti di lungo termine Le imprese socialmente responsabili tendono ad avere più sicuri profitti di lungo termine Obblighi etici Le imprese dovrebbero essere socialmente responsabili perché le azioni responsabili sono le giuste cose da fare Immagine pubblica Le imprese possono creare una immagine pubblica favo-revole perseguendo obiettivi sociali Ambiente migliore Il coinvolgimento delle imprese può aiutare a risolvere difficili problemi sociali Disincentivo per ulteriori norme governative Diventando socialmente responsabili, le imprese possono aspettarsi minori norme governative Equilibrio tra responsabilità e potere Le imprese hanno grande potere ed un ugualmente ampio ammontare di responsabilità è necessario per un equili-brio contro questo potere Interessi degli azionisti La responsabilità sociale migliorerà il prezzo delle azioni dell’impresa nel lungo termine Possesso di risorse Le imprese hanno le risorse per sostenere progetti pub-blici e di carità che hanno bisogno di assistenza Superiorità della prevenzione sulle cure Le imprese dovrebbero indirizzarsi verso i problemi so-ciali prima che essi diventino seri e costosi da correggere

Violazione della massimizzazione del profitto L’impresa diventa socialmente responsabile solo quando persegue i suoi interessi economici Diluizione degli obiettivi Perseguendo obiettivi sociali si diluisce l’obiettivo primario dell’impresa – la produttività economica I costi Molte azioni socialmente responsabili non coprono i loro costi e qualcuno deve pagare questi costi Troppo potere Le imprese hanno già una gran quantità di potere e se per-seguono obiettivi sociali potrebbero averne anche di più Assenza di abilità I leader delle imprese non hanno le necessarie abilità per risolvere problemi sociali Assenza di responsabilità Non ci sono linee dirette (guide) di responsabilità per le azioni sociali

L’impresa quindi persegue un successo stabile e duraturo sia dal punto di vista economi-

Riquadro I.23

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co che sociale, cercando di considerare in modo coerente le attese dei suoi interlocutori nella consapevolezza che efficienza e reciprocità, economia e socialità non costituiscono elementi contrapposti, bensì aspetti complementari da integrare e che possono informare l’impresa del presente e del futuro. Potrà così contribuire alla costruzione di una società e di un’economia veramente civili52, capaci cioè di valorizzare adeguatamente le persone. In tal modo non solo risponde alle istanze della società, ma a quell’insopprimibile «vocazione comunitaria» che scaturisce direttamente dalla sua stessa natura.

Di seguito si inserisce il Riquadro I.24 nel quale viene riportata la graduatoria stilata da Fortune delle 10 imprese ritenute più socialmente responsabili.  

Le 10 grandi imprese più responsabili

Posizione   Impresa   Azioni  socialmente  responsabili    

   1  

 

 

Vodafone impegna i suoi stakeholder su problemi legati alla competitività globale e chiede il loro input per la creazione di nuovi prodotti. Per questo, l’impresa è un innovatore primario di prodotti socialmente responsabili. La Fondazione Vodafo-ne sta lavorando con il World Food Program e la Fondazione delle Nazioni Unite per rendere più facile installare reti di comunicazione durante le grandi emergen-ze e i disastri nel mondo.

   2  

 

 

General Electric fornisce regolarmente aggiornamenti sul progresso di obiettivi ambiziosi quale il miglioramento della politica dell’assistenza sanitaria e la predi-sposizione di tirocini professionali nei Paesi in via di sviluppo. Ma il gioiello dell’impresa è la sua iniziativa Ecoimagination, un programma che ha l’obiettivo di espandere il portafoglio dei prodotti e delle tecnologie a favore dell’ambiente. Rientrano in tale obiettivo le locomotive ultra-efficienti e le membrane avanzate per filtrare l’acqua.

   3  

 

 

La responsabile della corporate sustainability, Teresa Au, ha detto che nonostante la situazione economica, HSBC continuerà la sua campagna sulla sostenibilità. Tra le iniziative, il sostenimento di piccole imprese con opzioni assicurative so-stenibili. HSBC ha una unità americana che è dedicata all’assistenza di comunità locali per promuovere l’acquisto della casa convenientemente e simili altri obiet-tivi.

   4  

 

 

Per migliorare la sua identità aziendale, la France Telecom ha creato precise pro-cedure ed ha lanciato una extranet per condividere le idee con soggetti esterni. Iniziative recenti includono l’installazione di unità di energia solare in Senegal per estendere la copertura della rete e la creazione di programmi di educazione avvalendosi di Internet per studenti in Giordania.

   5  

 

 

E’ la prima grande banca britannica che collabora con il Carbon Trust (creata dal Governo per aiutare le imprese a ridurre le emissioni di carbone) per creare un meccanismo per calcolare il gas serra emesso. HBOS ha anche sostenuto iniziati-ve quali progetti idroelettrici, produttori di biomassa, energia rinnovabile per due milioni di abitazioni. Recentemente ha lanciato un programma pilota per “prestiti verdi”, con i quali compensa 3 tons di biossido di carbonio per ogni prestito che viene processato.

   6  

 

 

Un esponente di Nokia ha condotto una valutazione sui loro fornitori evidenzian-do le violazioni delle richieste e ha predisposto una relazione indicando consigli su come rimediare alle loro imperfezioni. Essi lavorano strettamente con i loro contribuenti per gestire il ciclo di vita dei prodotti. L’impresa vaglia interamente tutti i materiali che entrano nei loro cellulari. AMR Research ha recentemente indicato la supply chain di Nokia come la seconda migliore al mondo in relazione al turnover, crescita del reddito e ritorno sugli investimenti.

Riquadro I.24

39    

   7  

 

 

E’ la più grande impresa produttrice di energia in Europa: il 75% della sua produ-zione è basata sul nucleare. Électricitè de France non ha investito solamente nel nucleare: essa è impegnata anche nello sviluppo di metodi per la produzione di energia geotermica, dal vento e dal sole. EDF, con le sue 1.500 auto elettriche, ha il parco più grande del mondo. L’impresa ha assunto l’obiettivo di triplicare per il 2012 la sua capacità di energia rinnovabile, escludendo quella idroelettrica.

   8  

 

 

Suez, ora GDF Suez (dopo la fusione con Gaz de France) vanta un’intera divisio-ne dedicata allo sviluppo sostenibile. Nell’autunno del 2007, Suez ha operato in partnership con Volvo, per edificare la prima fabbrica del mondo per la costru-zione di auto senza produzione di biossido di carbonio, cioè alimentata con l’energia del vento, della biomassa e del sole. Suez continua a promuovere la sua principale linea d’impresa, il gas naturale, che è più pulito del petrolio.

   9  

 

 

La British Petroleum è amica o nemica dell’ambiente? Ci sono abbondanti evi-denze che supportano quest’ultima. La BP ha pagato milioni di dollari di multa per inquinamento. La BP ha anche utilizzato la sua dimensione a buon fine, inve-stendo ingenti risorse nelle energie rinnovabili: 1,5 bilioni di dollari solo nel 2008! La BP ha anche evidenziato che sa imparare dai suoi errori: dopo l’esplosione della raffineria di Texas City, l’impresa ha costituito un comitato per la sicurezza, per l’etica e per la salvaguardia ambientale per evitare che simili incidenti accadano.

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Quando I biocarburanti basati sulle colture (l’etanolo, per esempio) cominciarono a perdere di interesse, la Royal Dutch Shell, spostò l’attenzione verso i biocarbu-ranti di seconda generazione, quadruplicando gli investimenti per le nuove fonti. In agosto il WWF del Regno Unito ha emanato un pubblico reclamo per la pub-blicità di Shell; l’impresa petrolifera ha sottolineato i suoi investimenti in energia rinnovabile, ma il WWF ha precisato che la raffineria rappresentata nella pubbli-cità non contribuisce alla causa.

Fonte:  Fortune,  Accountability  Rank  2008  

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3.3. Il ruolo dell’innovazione Il verificarsi di mutamenti continui e pervasivi che caratterizza la contemporaneità e il

combinarsi dei loro effetti ha concorso a modificare le caratteristiche generali del contesto globale nel quale operano tutte le organizzazioni e le imprese in particolare. Tra le varie im-plicazioni che il manifestarsi della crescente complessità ha determinato per le imprese, è da rilevare l’importanza assunta dai processi d’innovazione tecnologica. La chiave del successo di imprese globali quali Apple, Samsung, 3M, Honda, Nokia, Amazon, Wirpool, pare univer-salmente risiedere nella loro capacità di fare del cambiamento la variabile dominante della lo-ro strategia di posizionamento nel mercato. Per le imprese, infatti, oggi l’innovazione rappre-senta non soltanto la modalità per la creazione di nuovi prodotti, nuovi processi e nuove mo-dalità di organizzazione, ma un’occasione per aumentare la propria competitività.

Google, riconosciuta come la principale società mondiale nel settore della tecnologia di ricerca su Internet, ha fondato il suo successo sullo sviluppo continuo di nuove applicazioni e nuovi prodotti, quali Gmail, Google Desktop e Google Maps, che hanno il proprio presuppo-sto sulla capacità di innovazione tecnologica. Il numero di brevetti legati ad innovazioni tec-nologiche registrati in Europa e Stati Uniti è cresciuto in termini esponenziali passando da circa 224.000 nel 1992 ad oltre 700.000 richieste nel 200953. Dal 2000 a oggi, i budget pub-blici per la R&S nei paesi dell’Ocse hanno mediamente registrato un incremento annuo del 3,5% (in termini reali)54 e le prime 1.000 imprese per fatturato a livello globale sono tutte ac-comunate per l’attenzione verso la ricerca e l’innovazione e rappresentano l’86% degli inve-stimenti complessivi mondiali in R&S55.

In questa prospettiva emerge come, l’innovazione tecnologica sia in grado di attivare pro-cessi che modificano le dinamiche di creazione del vantaggio competitivo e i rapporti tra im-prese. Attualmente, le imprese si trovano di continuo a “riadattare”, e in molti casi a ridefini-re, le loro scelte strategiche allo scopo di acquisire un posizionamento nell’ambiente nuovo e migliore e, in questo sforzo, attivano a loro volta processi innovativi che modificano ulterior-mente le condizioni dell’ambiente di riferimento. In ultimo, ma non per importanza, per la maggior parte delle imprese innovare rappresenta un imperativo strategico.

La rappresentazione del fenomeno dell’innovazione tecnologica, dei suoi caratteri, delle modalità con cui si manifesta, dei fattori che lo determinano e delle implicazioni che ne deri-vano, tanto a livello della singola impresa quanto a livello di sistema socio-economico, neces-sita in via preliminare, tuttavia, di un’appropriata delimitazione del suo dominio concettuale. Tale esigenza deriva dall’obiettivo di sgomberare il campo da equivoci e da definizioni im-proprie.

L’espressione “innovazione tecnologica ” è, infatti, sintetica e al tempo stesso ambigua dal momento che evoca significati ampi e, per certi aspetti, differenti. Come per molti altri concetti utilizzati nelle scienze sociali, l’innovazione tecnologica è un significante per molti significati. Il termine è usato, di fatto, in relazione a distinti ambiti di riferimento e può con-notare contemporaneamente il miglioramento nella performance di una tecnica o nella com-mercializzazione di nuovi ritrovati tecnologici.

Se è indiscutibile l’idea che l’innovazione tecnologica sia una delle determinanti princi-pali del mutamento industriale, il motore dello sviluppo economico, e sia in grado di trasfor-mare gli equilibri esistenti all’interno dell’economia56, nella pratica manageriale, la parola in-novazione costituisce spesso un contenitore atto a significare fenomeni diversi sulla base degli obiettivi di coloro che utilizzano il termine stesso. In tal senso si evidenzia una certa incoe-renza esistente spesso tra i presupposti definitori e gli aspetti e i problemi esaminati. A tal proposito, numerosi sono gli elementi da esplorare, sebbene siano tutti riconducibili ad un unico ampio tema: quello della trasformazione e dello sviluppo delle conoscenze dell’umanità intera.

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Il risultato della diffusa inosservanza della necessità di una precisa definizione della natu-ra del fenomeno dell’innovazione è la proposizione di un coacervo di definizioni, anche al-quanto diversificate tra loro e talvolta estremamente generiche. Da ciò può derivare un’interpretazione del fenomeno dell’innovazione esclusivamente in termini di modificazioni fisiche nei prodotti e nei processi o focalizzata unicamente sui cambiamenti nelle conoscen-ze, o ancora, come forza determinante nelle variazioni nel livello di performance delle impre-se.

Non mancano, inoltre, spiegazioni più riduttive che considerano l’innovazione tecnologi-ca alla stregua di uno strumento per aumentare strutturalmente la capacità competitiva dell’impresa, trascurando l’esistenza di aspetti importanti quali la dimensione processuale, la pluralità di attori coinvolti, la presenza di finalità differenti e, infine, la necessità di studiare il tema con un approccio interdisciplinare per l’intersecarsi di profili economici, sociologici e organizzativi.

In questa sede, l’innovazione tecnologica può essere definita come un processo iterativo e cumulativo, che implica la percezione di una opportunità legata alla creazione di un nuovo mercato e o un nuovo servizio che può derivare da una invenzione basata sulla tecnologia e lo sviluppo, la produzione e la promozione di tale invenzione, richiedendo un impegno per il successo commerciale dell’invenzione.

 

I profili che tale definizione è in grado di evidenziare sottintendono l’idea

dell’innovazione come un fenomeno in continuo divenire, che si presenta come processo di cambiamento di natura cumulativa, che coinvolge tutti i soggetti umani all’interno dell’organizzazione, con accelerazioni e rallentamenti, ma soprattutto si qualifica come pro-cesso sistemico e iterativo, dove ogni iterazione rappresenta un successivo stadio di sviluppo che implica vari gradi di “innovatività”.

In particolare, la definizione d’innovazione tecnologica fornita permette di cogliere im-portanti elementi chiarificatori del fenomeno, quali: 1. il processo innovativo comprende lo sviluppo tecnologico di un’invenzione combinata

con la sua introduzione nel mercato per l’utente finale attraverso la sua adozione e diffu-sione;

2. l’innovazione tecnologica non è semplicemente la commercializzazione di nuove tecno-logie, ma un fenomeno nel quale il focus della novità è di tipo tecnologico;

3. l’innovazione tecnologica si caratterizza per essere un fenomeno multidimensionale e in-terfunzionale, poiché coinvolge diverse funzioni gestionali e si articola attraverso proces-si complessi e multipli. A questo proposito, si rileva come spesso lo sviluppo della tecno-logia tende ad essere erroneamente associato esclusivamente con il reparto ingegnerizza-zione o con il settore sviluppo. Al contrario, le idée che generano innovazione possono essere il risultato dell’interazione con clienti, fornitori o anche concorrenti e non sono molto spesso associate esclusivamente ai laboratori di ricerca. L’idea dello Scotch, il na-stro adesivo che ha reso la 3M famosa in tutto il mondo, è il risultato dell’idea non di un ricercatore, ma di un rappresentante commerciale della società!

• Processo che implica la percezione di un'opportunità legata al la creazione di un nuovo mercato e/o un nuovo servizio

Definizione di innovazione

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4. l’innovazione tecnologica non è il risultato esclusivo dell’azione dell’imprenditore, ma la conseguenza dell’attività svolta collettivamente da tutti i soggetti appartenenti all’organizzazione;

5. l’innovazione non è in generale un singolo atto, ma piuttosto può essere interpretata come un processo, non guidato da una rigida sequenza di fasi predefinite, ma da interazioni multiple tra ricerca, tecnologia, produzione, domanda di mercato e istituzioni;

6. l’innovazione tecnologica è un processo di avanzamento della conoscenza che integra tecnica e organizzazione; la scelta della Whirpool Corporation, leader mondiale nel mon-do degli elettrodomestici, di puntare sul design e sull’innovatività dei suoi prodotti come variabile di successo, ha richiesto negli ultimi anni una riorganizzazione aziendale volta ad “istituzionalizzare” i processi di innovazione. Tale riorganizzazione ha coinvolto a 360 gradi il management (attraverso il monitoraggio, la reportistica, e la comunicazione), il sistema di controllo delle prestazioni (attraverso le ricompense, gli incentivi, e le strategie di comunicazione dei risultati), le attività di Operation &Technology (sviluppo prodotti, allineamento obiettivi), il sistema di allocazione delle risorse e il piano prodotti, e infine anche i processi di sviluppo, selezione, valutazione del personale;

7. le attività innovative sono normalmente caratterizzate da elevati gradi di rischio, legati all’incertezza tecnica e di mercato sottostante lo sviluppo del progetto. C’è stato un mo-mento nella storia delle organizzazioni in cui era “innovativo” costruire uffici “open spa-ce”, che non prevedevano stanze separate, ma un unico ambiente per tutti i dipendenti. Questa innovazione nella distribuzione dello spazio interno aveva l’obiettivo di promuo-vere uno sviluppo del lavoro fondato “sull’interazione” e sulla “trasparenza”. In molte circostanze il risultato è stato opposto a quello desiderato. In alcune organizzazioni questa innovazione ha fatto pensare ai dipendenti che il management volesse attivare un control-lo, per questo era importante rendere tutto “trasparente”. In altri casi la sensazione forzata dello stare in relazione ha aumentato il senso di alienazione nelle persone;

8. l’innovazione non è un fatto esogeno all’organizzazione e in particolare non è pienamente e immediatamente accessibile senza alcuna barriera o costo di apprendimento: è un pro-cesso costoso e dal risultato incerto. L’emergere e il diffondersi del fashion jeans ha ri-chiesto alle imprese del settore dell’alta moda di acquisire conoscenze relative alle tecno-logie di lavaggio e di trattamento dei tessuti industriali, prima considerate assolutamente estranee al settore e sviluppate prevalentemente per le esigenze del settore ospedaliero e alberghiero;

9. il processo innovativo non ha soluzione di continuità e la distinzione in tre momenti (in-venzione, innovazione e diffusione) radicata nella teoria dominante (che in realtà sottende a una concezione statica dell’attività innovativa), va superata. Il processo innovativo va interpretato come il risultato di un unico processo di apprendimento, di produzione di co-noscenza e di applicazione del sapere;

10. il processo innovativo è iterativo nella sua natura e questo significa che l’introduzione di una innovazione è spesso seguita dal successive innovazioni di miglioramento; l’introduzione del telefono cellulare, risultato della combinazione della tecnologia telefo-nica con le conoscenze di diffusione delle onde radio, ha visto nel corso del tempo una serie di miglioramenti che ne hanno progressivamente ridotto in maniera esponenziale dimensioni e peso, aumentandone le prestazioni e la capacità di recezione;

11. l’innovazione tecnologica non è una caratteristica specifica di alcuni settori, ma può coinvolgerli tutti; settori ritenuti “tradizionali” come quello agricolo o tessile, sono stati investiti di recente da ondate innovative, legate alla diffusione delle biotecnologie indu-striali;

12. infine, il riferimento allo sviluppo, alla produzione, alla promozione e alla commercializ-

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zazione dell’innovazione implica che le imprese sono da considerarsi come il luogo e il soggetto principale dell’innovazione tecnologica, nel senso che la pongono in essere e/o subiscono i suoi effetti. Il richiamo alla centralità dell’impresa come protagonista dell’analisi, con riferimento alla

definizione d’innovazione tecnologica fornita, richiede tuttavia alcune precisazioni. L’innovazione tecnologica emerge grazie a complessi processi d’interazione sociale che

non avvengono soltanto fra i soggetti appartenenti ad un’unica impresa, ma possono coinvol-gere, anche in modo determinante, soggetti presenti a vari livelli dell’ambiente esterno. Le in-terazioni tra diversi e numerosi attori come, ad esempio, laboratori di ricerca pubblici e priva-ti, istituzioni, reti di imprese, utilizzatori/consumatori, sono ritenute attualmente una delle forme dominanti nella caratterizzazione dei processi innovativi, soprattutto se si riconosce la crescente importanza svolta dalle conoscenze e dalle competenze presenti all’esterno della singola organizzazione e diffuse nel sistema (sia questo un sistema nazionale territorialmente definito, o un sistema di organizzazioni legate da relazioni di interdipendenza). In definitiva, l’innovazione e la sua diffusione, è anche il risultato di un processo collettivo e iterativo in quanto richiede il contributo di un’eterogeneità di soggetti diversi che interagiscono tra loro, all’interno di una rete di connessioni personali e istituzionali che evolvono nel tempo (a tal proposito si veda il Riquadro I.25 relativo al caso Toy Story).

Caso: Toy Story, la storia di un’innovazione Nell’Università dello Utah, un professore e un ricercatore d’informatica, Dave Evans ed Ivan Sutherland,

fondarono nel 1968 la "Evans & Sutherland", una società che divenne in breve leader nel settore della simula-zione computerizzata di sistemi di guida civili e militari. Intorno a questo sodalizio si raccolse tutta la sparuta comunità della computer grafica attiva in quegli anni.

Con la recessione degli anni ‘70 all’Università dell’Utah vennero a mancare i fondi necessari a proseguire la ricerca. Un facoltoso newyorkese appassionato di animazione, Alexander Shure, intervenne offrendosi di so-stenere il fertile gruppo di ricercatori presso il proprio laboratorio, il New York Institute of Technology: qui ini-zialmente si studiavano nuove tecniche per l’animazione bidimensionale, i sistemi di disegno pittorico digitale, ma con l’arrivo dei ricercatori dallo Utah il gruppo del NYIT iniziò a dedicarsi alle tecnologie 3D, giungendo fino alla realizzazione di piccole animazioni per la pubblicità e alla simulazione dell’atterraggio della sonda Vo-jager su Marte.

Proprio in questo periodo il grande successo di Star Wars, prodotto dalla piccola casa cinematografica LucasFilm, convinse George Lucas a creare la Computer Animation Division della Lucasfilm un reparto comple-tamente dedicato alla ricerca e alla sperimentazione dell’effettistica digitale: qui dentro venne a riversarsi tutto il NYIT, nonché figure provenienti dal mondo scientifico, le quali erano solite utilizzare da tempo animazioni digi-tali per esporre tesi scientifiche. Dopo la realizzazione di alcuni cortometraggi e lo sviluppo e la produzione di hardware specifici per la computer grafica, il gruppo era maturo per buttarsi nel progetto per un lungometraggio interamente realizzato con tecnologia 3D. A favore delle ambizioni del gruppo di Catmull, intervene Steve Jobs (il leader della Apple), che nel 1986 rilevò il gruppo di ricercatori dalla Computer Animation Division della Lu-casfilm per dieci milioni di dollari.

La nuova società, che aveva come socio di maggioranza appunto Jobs, prese il nome di Pixar Animation Studios, e da qui in poi iniziò a dedicarsi esclusivamente al cinema d’animazione lavorato al calcolatore.

Nel 1991 la Disney, ormai ricredutasi sulle possibilità del digitale, firma un accordo con la Pixar per la produzione di un film interamente creato al calcolatore, quel Toy Story che nel 1995 approda nelle sale cinema-tografiche di tutto il mondo ed è destinato a rivoluzionare per sempre il settore dell’enterteinement. I primi cin-que lungometraggi della Pixar incassano più di 2,5 miliardi di dollari, rendendola, film dopo film, la casa di pro-duzione con il maggior successo di tutti i tempi.

Nel 2006 la Disney acquista, con un’operazione da 7,4 miliardi di dollari (contro i 10 milioni pagati da Jobs nel 1986) la Pixar, diventando così il più grande studio d’animazione del mondo; Steve Jobs entra nel con-siglio di amministrazione della Disney e assume il ruolo di maggiore azionista individuale.

Estratto con adattamenti da: Close-Up.it - rivista e magazine di cinema, teatro e musica con recensioni, forum, blog - diretta da Giovanni Spagnoletti

Riquadro I.25

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Ancora, un importante aspetto concernente l’innovazione tecnologica che appare oppor-tuno evidenziare in sede definitoria, fa riferimento al fatto che l’innovatività di un prodotto non deve essere confusa con l’innovatività di un’impresa. L’innovatività di un’impresa è stata definita come la sua propensione ad innovare o sviluppare nuovi prodotti, ma anche come la propensione di un’impresa ad adottare innovazioni. In entrambi i casi, l’innovatività del pro-dotto che un’impresa sviluppa o adotta non è una misura esclusiva dell’innovatività dell’organizzazione di riferimento. Molte imprese hanno scelto come strategia innovativa quella di imitare o potenziare i prodotti esistenti o le tecnologie già affermate. Questo in altri termini significa che un prodotto molto innovativo non implica automaticamente un’impresa molto innovativa. Microsoft ne è un importante esempio. Questa impresa è infatti vista dai concorrenti come un grande imitatore piuttosto che un grande innovatore. A questo proposito, si ricorda nel 1998 la cosiddetta guerra dei browser57, una competizione inizialmente com-merciale e poi di immagine cominciata da Microsoft nei confronti della Netscape Corporation del suo prodotto Nascape Navigator, che rappresentava il browser più diffuso con punte del 90% del mercato. Per vincere la concorrenza, Microsoft incluse Internet Explorer nel proprio sistema operativo. Questa mossa fu motivo di numerose cause legali per la difesa della libera concorrenza e contro la nascita di monopoli informatici, ma portò la Microsoft nel giro di due anni a diventare leader nel settore.

Un’ulteriore implicazione alla quale si ritiene particolarmente utile fare riferimento, è le-gata alla distinzione tra innovazione tecnologica e invenzione. Un’invenzione non diventa un’innovazione fino a quando: - non è passata attraverso la fase della produzione e della commercializzazione; - ed è stata diffusa sul mercato.

La soluzione di un “dilemma” esclusivamente scientifico o l’invenzione di un nuovo “prodotto potenziale” che resta in laboratorio, non è un’innovazione in quanto non ha un di-retto contributo socio-economico. Ciò significa in altri termini che l’innovazione include non soltanto la fase della ricerca di base e applicata ma anche lo sviluppo del prodotto, la produ-zione, la promozione e la sua distribuzione.

Distinzione tra innovazione e invenzione

Un'invenzione diventa

innovazione

Passa attraverso la fase della produzione

e della commercializzazione

E' diffusa nel mercato

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Una scoperta che resta in laboratorio è un’invenzione. Una scoperta che “si muove” dal laboratorio alla catena di produzione e che aggiunge valore economico all’impresa (anche so-lo in termini di risparmio nei costi) può essere considerata un’innovazione. Lungo questa li-nea di riflessione e rivelando un orientamento focalizzato alle dinamiche di mercato, l’innovazione è schematizzabile come l’uso di un nuovo sapere di tipo scientifico e tecnologi-co per offrire un nuovo prodotto o servizio che il cliente è disposto ad acquistare. In modo estremamente sintetico, l’innovazione è l’insieme dell’invenzione e della sua commercializ-zazione, o meglio, per usare le parole di Porter è un nuovo modo di fare le cose che viene commercializzato58.

L’innovazione non è sempre e necessariamente legata ad una nuova invenzione. Il forno a microonde dotato di grill, un’innovazione interessante legata al settore degli elettrodomestici, non ha richiesto nessuna invenzione. La creazione del walkman da parte della Sony, uno dei prodotti di più grande successo commerciale degli anni 80, non ha richiesto l’applicazione di una tecnologia nuova, ma ha creato un nuovo mercato offrendo alla gente la possibilità di por-tare la musica sempre con sé,

Emerge da queste considerazioni quanto l’innovazione risulti legata al concetto di creati-vità, tuttavia l’innovazione non coincide con la creatività, è qualcosa di più. La creatività è un processo che porta a generare idee nuove e originali. La creatività non è privilegio di pochi e non richiede ‘istruzione’ per essere usata, in altre parole chiunque può essere creativo. Non vi sono restrizioni al campo di applicazione della creatività, perché la creatività ha a che fare con il pensiero e il suo strumento primario è l’immaginazione. L’innovazione per le imprese è un processo un po’ più strutturato rispetto a quello creativo. Partendo da una nuova idea, è re-sponsabilità di una o più persone all’interno di un’impresa o di un consorzio di organizzazio-ni, di aggiungere sostanza (tecnologia, processi, risorse) per produrre qualcosa di concreto, ad esempio un nuovo prodotto o servizio. Quindi il suo strumento primario è la conoscenza.

Le organizzazioni creative sono anche innovative, o viceversa?

 

                                                                                             Organizzazioni creative e innovative

Organizzazioni che sono creative

ma non innovative

Organizzazioni che sono

innovative ma non creative

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In tale condizione, è il livello di conoscenza legata all’avanzamento tecnico o ad una nuova tecnologia la dimensione cui si guarda come misura del grado di novità di un’innovazione. Questo concetto apparentemente semplice e universalmente condiviso, è il fulcro di un dibattito molto serrato che fa riferimento alla prospettiva da considerare per defi-nire il grado di innovatività del prodotto, ovvero che cosa cambia, quanto grande deve essere questo cambiamento, e rispetto a chi deve considerarsi nuovo.

Il prodotto o il servizio è da considerarsi nuovo perché, per esempio, il suo costo è più basso, le sue caratteristiche sono migliorate, ha delle proprietà che prima non aveva, o addirit-tura è un prodotto che non esisteva nel mercato. Su tale tema è possibile adottare una duplice prospettiva, a livello macro e a livello micro.

Da un punto di vista macro, l’innovatività è la capacità di una innovazione di creare uno spostamento nel paradigma scientifico-tecnologico dominante o una modificazione della struttura del mercato di un settore.

Da un punto di vista micro, l’innovatività è la capacità di un’innovazione tecnologica di influenzare l’insieme esistente di risorse di marketing, tecnologiche, di knowledge, di capacità e di strategia di un’impresa.

In merito alla grandezza del cambiamento tecnologico nel tempo si sono adottate una se-rie di definizioni che fanno riferimento al grado di significatività dell’innovazione.

Le innovazioni possono essere di processo o di prodotto. Le innovazioni di prodotto sono identificabili come tipologie di prodotto fondamentalmente differenti, in grado di offrire van-taggio significativo in termini di costo, qualità o prestazioni rispetto a prodotti già presenti sul mercato, si pensi alla penna a sfera, al forno a microonde o al personal comuputer; le innova-zioni di processo, invece, sono modi fondamentalmente diversi di realizzare un prodotto che consentono di abbattere in maniera significativa i costi di produzione e di innalzare corri-spondentemente la qualità del prodotto realizzato, si pensi per esempio a quanto la tecnologia digitale abbia influenzato e rivoluzionato la produzione cinematografica degli ultimo anni.

Altro aspetto interessante da rilevare è che nelle classificazioni più comuni, le innovazio-ni vengono distinte in “innovazioni radicali” determinate da eventi discontinui in grado di ri-voluzionare i paradigmi tecnologici dominanti, e che determinano un cambiamento che spaz-za via molti degli investimenti compiuti dalle imprese in termini di competenze tecniche e sa-pere, tecniche produttive e di progettazione; si pensi all’emergere di Internet, all’invenzione del telefono, o alla macchina a vapore. e “innovazioni incrementali” quali miglioramenti, ade-guamenti che possono verificarsi come risultato dell’attività di ricerca e sviluppo, del proces-so produttivo o per iniziative e proposte da parte degli stessi utilizzatori e tipici dei prodotti allo stato già avanzato del ciclo di vita.

In alcuni casi è possibile proporre una categorizzazione a tre livelli che distingue le inno-vazioni tecnologiche in relazione ad una “alta”, “moderata” e “bassa” innovatività. Un prodot-to altamente innovativo fa riferimento ad un prodotto nuovo per il mercato e l’impresa; un prodotto moderatamente innovativo indica prodotti nuovi per le esistenti linee produttive; mentre un prodotto poco innovativo si caratterizza per modificazioni che determinano ridu-zione nei costi di produzione o semplicemente un nuovo posizionamento sul mercato.

La capacità delle imprese, già presenti e affermate nel mercato, di introdurre e sfruttare una innovazione, così come quella delle imprese nuove entranti, è di norma relazionata al fat-to che l’innovazione sia incrementale o radicale. Le innovazioni incrementali introducono ge-neralmente cambiamenti relativamente piccoli rispetto ai prodotti e ai processi esistenti e, per tale ragione, spesso, consolidano la posizione sul mercato delle imprese leader. Le innovazio-ni radicali, che al contrario sono basate su una differente strutturazione delle conoscenze e dei principi scientifici e su un sapere parzialmente o totalmente nuovo, generano con la loro in-troduzione, la creazione di nuovi mercati e, spesso favoriscono l’affermazione di nuove im-

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prese. Di norma, le innovazioni che sfruttano le competenze già acquisite creano vantaggi per le imprese esistenti e affermate; al contrario, le innovazioni che si fondano su competenze po-tenzialmente originali il più delle volte, danno origine a opportunità per le imprese nuove nel mercato. Ecco dunque per quali ragioni le innovazioni radicali creano generalmente difficoltà alle imprese già presenti e affermate nel mercato e possono rappresentare il trampolino di lan-cio, la base del successo e dell’affermazione per nuove imprese, determinando la conseguente ridefinizione degli assetti di un settore industriale.

Mettendo in relazione le considerazioni fin qui esposte, è possibile trarre alcune valuta-zioni. Le innovazioni radicali possono essere, di norma, classificate come innovazioni che causano discontinuità tecnologiche sia ad un livello macro che ad un livello micro. Le inno-vazioni incrementali si verificano solo ad un livello micro. Esistono poi un insieme di innova-zioni che si situano a metà strada tra questi due estremi. Si tratta, ancora una volta, di opzioni che al loro interno ne ammettono altre e che in una analisi non possono risultare disgiunte dall’esame complessivo dei processi di innovazione tecnologica.

Il quadro che emerge da queste brevi considerazioni sulle dimensioni esplicative è che il tema dell’innovazione per le imprese ha bisogno di essere affrontato all’interno di un contesto di crescente interdipendenza e complessità, che metta al centro il ruolo dei soggetti all’interno dell’impresa.

Se si parte dalla considerazione di base che tutte le organizzazioni, e quindi anche le im-prese, sono collettività di soggetti umani i quali insieme svolgono attività specificatamente fi-nalizzate, ci si rende immediatamente conto di come la centralità dei soggetti umani nell’analisi organizzativa costituisca un valore e una potenzialità per l’approfondimento delle tematiche legate all’innovazione tecnologica.

L’elemento dominante di questa prospettiva è costituito dai soggetti che sono importanti, non soltanto per il loro lavoro, ma anche, e forse soprattutto, per il loro “sapere”, inteso nelle varie espressioni di sapere cognitivo, di saper fare e di sapere relazionale. Tale considerazione è legata al fatto che ad avere rilievo per l’innovazione sono le conoscenze: il “sapere cogniti-vo”, che provvede ad interpretare la realtà e a cogliere eventuali opportunità di innovazione, il “saper fare” che consente di affrontare in modo efficace i problemi nuovi che si pongono e, infine, il “sapere relazionale”, che consente di operare con gli altri soggetti, coordinare cono-scenze differenti ed è essenziale per l’esistenza di un efficace sistema di relazioni.

In tal senso, la considerazione appena sviluppata conduce alla conclusione che, per ogni impresa, il successo o l’insuccesso in tema di innovazione tecnologica è connesso con le ca-ratteristiche dei soggetti umani che la compongono e delle relazioni che si instaurano tra essi e con l’ambiente esterno. È evidente, a tal proposito, che per ogni soggetto che opera all’interno dell’impresa che innova, si pone il problema di sollecitare nel modo più adeguato possibile le doti di creatività, flessibilità e vitalità .

Questo approccio all’innovazione tecnologica, pone al centro del processo innovativo le persone, non come fattori o risorse produttive, ma nella loro complessa realtà multidimensio-nale, senza relegare il fenomeno dell’innovazione alla volontà eroica di un unico soggetto, l’imprenditore innovatore, ma evidenziando come tutti i soggetti umani appartenenti all’impresa, in modo e per gradi diversi, siano coinvolti nei processi innovativi. È possibile su tali basi valorizzare le differenze presenti all’interno delle imprese e costruire dinamicamente le conoscenze e competenze adatte a sostenere le strategie innovative. Nel momento in cui le modificazioni del sapere globale divengono fondamentali per un processo di innovazione, poiché i soggetti umani ne sono gli artefici, è nei loro riguardi che deve essere riposta la mag-giore attenzione per comprendere le condizioni d’impresa e d’ambiente alla base dell’innovazione tecnologica.

In merito a quest’ultimo punto, assume importanza il fatto che i soggetti umani, parte

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dell’impresa che innova, sono allo stesso tempo soggetti che appartengono anche all’ambiente di riferimento dell’impresa stessa, e da questo traggono stimoli e condizionamenti. Questa duplice appartenenza ha le sue implicazioni anche in tema di innovazione, perché, indipen-dentemente da ogni altra circostanza, l’ambiente esercita sull’impresa un sistema di vincoli, condizionamenti e opportunità in grado di condizionarne l’attività innovativa. Il modo di con-cepire ed attuare i rapporti di interazione fra impresa e ambiente, costituisce senza alcun dub-bio il tratto essenziale per penetrare le dinamiche innovative che condizionano le imprese. In altri termini, come conseguenza della forte interrelazione evidenziata tra l’ambiente e l’impresa, si crea un forte condizionamento tra i caratteri dell’uno e dell’altra, ovvero se l’ambiente si caratterizza in relazione a determinati valori è possibile che le imprese radicate in tale ambiente risultino permeabili a tali valori.

La relazione esistente tra la capacità innovativa delle imprese e l’ambiente dove le impre-se operano è un argomento centrale negli studi d’innovazione. La sostenibilità del sistema d’innovazione locale è stata legata alle politiche imprenditoriali e istituzionali di ricerca di ba-se e applicata, ai vantaggi di aggregazione in cluster, ad effetti di spillovers derivanti dalle agglomerazioni, ad una ritardata diffusione internazionale della conoscenza e ai processi di diffusione delle conoscenze e delle competenze. Malgrado possa sembrare per certi versi pa-radossale, in un mondo sempre più globale, il vantaggio competitivo delle imprese è comun-que legato strettamente al dinamismo del sistema locale dell’innovazione.

Di seguito si presenta (Riquadro I.26) la graduatoria delle 10 imprese più innovative del 2009.

 

Le più innovative imprese del mondo

 1  

Apple  

 

 6  

IBM  

 2  

Google      7  

Hewlett-­‐Packard  

   3  

Toyota  Motor  

 

 8  

Research  in  Motion    

 4  

Microsoft    

 9  

Nokia  

   5  

Nintendo    

10  Wal-­‐Mart  Sto-­‐

res    

Fonte: Business Week, 2009  

Riquadro I.26

49    

Riferimenti bibliografici                                                                                                                          1 FRENCH R., RAYNER C., REES G., RUMBLES S. (2008), Organizational Behaviour, John Wiley &

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Palgrave MacMillan, New York. 4 LAWRENCE P.R., E LORSCH J.W. (1967), Organization and Environment: Managing Differentiation

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Palgrave MacMillan, New York. 6 SCOTT W.R.(2004), Organizing for a New Century, in LEONI R E USAI G. Organizations Today,

Palgrave MacMillan, New York. 7 SCOTT W.R (1985), Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna. 8 FREEMAN R.E. (1984), Strategic Management: A Stakeholder Approach, Pitman, Boston, p. 46. 9 SIMON H.A. (1957), Administrative Behavior, Macmillan, New York; (1964), On the Concept of

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19 CARRUS P. E MELIS G.(2006), L’innovazione delle scelte strategiche in condizioni di crescente complessità, FrancoAngeli, Milano, p. 115.

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26 CARROLL A. B. (1999), “Corporate Social Responsibility. Evolution of a Definitional Construct”, in Business and Society, September 1999, vol. 38, n. 3.

27 WALTON C.C. (1967), Corporate Social Responsibility, Belmont, Ca., Wadsworth. 28 MC GUIRE J.W. (1963), Business and Society, McGraw-Hill, New York. 29 Per un’ampia rassegna storica sulla questione definitoria della responsabilità sociale dell’impresa

Cfr. CARROLL A. B. (1999), “Corporate Social Responsibility. Evolution of a Definitional Con-struct”, in Business and Society, September 1999, vol. 38, n. 3 DE SANTIS G., Responsabilità so-ciale, in Caselli L. (a cura di), Le parole dell’impresa, F. Angeli, Milano, 1995; DI TORO P. (1993), L’etica nella gestione d’impresa, Cedam, Padova.

30 FRIEDMAN M. (1983), The Social Responsibility, in Beauchamp T. L. e Bowie N.E., Ethical Theory and Business, 2nd ed., Englewood Cliffs, N.J., Prentice Hall, Inc.

31 CARROLL A. B. (1999), “Corporate Social Responsibility. Evolution of a Definitional Construct”, in Business and Society, September 1999, vol. 38, n. 3.

32 AUPPERLE K.E., CARROLL A. B., HATFIELD J.D. (1985), “An Empirical Investigation of the Rela-tionship between Corporate Social Responsibility and Profitability”, in Academy of Management Journal, n. 28.

33 CARROLL A. B. (1999), “Corporate Social Responsibility. Evolution of a Definitional Construct”, in Business and Society, September 1999, vol. 38, n. 3.

34 SETHI S. P. (1975), Dimension of Corporate Social Performance: an Analytical Framework, in California Management Review, Spring, Vol. XVII, n. 3

35 DEGLI ANTONI G., SACCONI L. (2009), Responsabilità Sociale d’impresa, in Bruni L., Zamagni S. (a cura di), Dizionario di Economia Civile, Città Nuova, Roma.

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37 ARGIOLAS G. (2007), Management della conoscenza e orientamento sociale delle organizzazioni, Dispensa ad uso esclusivo degli studenti, Università degli Studi di Cagliari.

38 COMMISSIONE EUROPEA, 2001. 39 OECD (2001), Corporate Social Responsibility, Partners for Progress, Paris. 40 GIUDICI E. (1997), I mutamenti nelle relazioni impresa-ambiente, Giuffrè editore, Milano; GIUDICI

E. (1992), Le nuove prospettive per l’efficienza e l’efficacia delle imprese, G. Giappichelli ed., To-rino.

41 RUSCONI G. (2009), Etica aziendale, in Bruni L., Zamagni S. (a cura di), Dizionario di Economia Civile, Città Nuova, Roma.

42 CARROLL A. B., BUCHOLTZ A. (2006), Business and Society: Ethics and Stakeholder Management, South-Western Thomson, Mason, Ohio.

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Western College Publishing, Ontario, Canada. 44 CARROLL A. B., BUCHOLTZ A. (2006), Business and Society: Ethics and Stakeholder Management,

South-Western Thomson, Mason, Ohio. 45 CARROLL A. B., BUCHOLTZ A. (2006), Business and Society: Ethics and Stakeholder Management,

South-Western Thomson, Mason, Ohio. 46 CASELLI L. (2004), “Ethics in Organization: Theory and Practice”, Rivista di Politica Economica,

January-February, n. I-II. 47 KLONOSKY R. J. (1991), “Foundational Considerations in the Corporate Social Responsibility De-

bate”, in Business Horizons, July-August. 48 USAI G. (2002), Le organizzazioni nella complessità, Cedam, Padova. 49 ARGIOLAS G., CABRAS S., DESSÌ C., FLORIS M. (2009), “Challenges for New Models of Territorial

Governance: Learning from the Experience of Italian LAGs”, in Solomon G.T. (Edt.) Proceedings of the Sixty-Nine Annual Meeting of the Academy of Mangement (CD), ISSN 1543-8643, Best Paper. Academy of Management Meeting “Green Management Matters”, Chicago (Illinois) Au-gust, 7-11 2009

50 BARNARD C. J. (1938), The Function of the Executive, Harvard University Press, Ma. 51 CROZIER M. (1992), E’ vincente l’impresa che impara ad ascoltare, Intervista a cura di Libelli M.,

in L’Impresa, n. 2. 52 BRUNI L., ZAMAGNI S. (2004), Economia Civile, Il Mulino, Bologna. 53 OECD (2001), Corporate Social Responsibility, Partners for Progress, Paris. 54 OECD (2001), Corporate Social Responsibility, Partners for Progress, Paris. 55 Relazione del Ministero del Commercio e dell'Industria Britannico, 2005. 56 La letteratura su questo tema è ampia e risale a SCHUMPETER J.A. (1934), The Theory of Economic

Development, Harvard University Press, Cambridge; Denison E.F. (1962), The Sources of Econom-ic Growth in the US and the Alternatives Before US, Commitee for Economic Development, New York; Carré Dubois M. (1975), La croissance française, Seuil; Harberger A. (1984), Basic Needs Versus Distributional Weights in Social Cost-Benefit Analysis, in Economic Development and Cul-tural Change, 32, 3; Franko L.G. (1989), Global Corporate Competition: Who’s Winning, Who’s Losing, Strategic Management Journal, 10, 5, 449-474.

57 Il termine Browser (letteralmente “lo scorri pagine”) fa riferimento al programma che permette la visualizzazione delle pagine Web e l’utilizzo di tutti quei molteplici servizi offerti dalla navigazio-ne in rete. I browser sono in continuo sviluppo e non sono più strettamente legati alla sola consulta-zione di pagine ipertestuali presenti in Internet; per fare alcuni esempi è possibile utilizzare un na-vigatore web per vedere dei brevi filmati mpeg, interagire con programmi Java, ascoltare la radio, consultare basi di dati, etc.

58 PORTER M.E. (1980), Competitive Strategy, The Free Press, New York; (1985), Competitive Ad-vantage, The Free Press, New York.