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Istituto Teologico di Assisi aggregato alla Facoltà di Sacra Teologia della Pontificia Università Lateranense
Anno accademico 2014-2015
Elaborato per il grado accademico del Baccalaureato in Sacra Teologia
“NON ABBIATE PAURA DELLA
TENEREZZA” Uno sguardo alla pastorale carceraria
Candidato: Danilo CRUCIANI (ITA1444) Docente: Prof. P. Guglielmo SPIRITO, OFMConv
Assisi 2015
2
INDICE
SIGLE .................................................................................................................................................... 4
INTRODUZIONE .................................................................................................................................... 5
1. LA PASTORALE CARCERARIA .................................................................................................... 7
1.1. Il carcere e i carcerati nella Sacra Scrittura .................................................................... 7
1.2. Evoluzione sociale ed ecclesiale: cenni storici.................................................................. 9
1.3. Riflessione ecclesiale ......................................................................................................... 11
1.3.1. Discorsi e pronunciamento dei Papi ...................................................................... 12
1.3.2. Papa Francesco ........................................................................................................ 16
1.3.3. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, il Compendio della
Dottrina Sociale della Chiesa ................................................................................. 18
1.3.4. Gli interventi dei Vescovi ........................................................................................ 19
1.4. La base legislativa ............................................................................................................. 23
2. LA TENEREZZA: CATEGORIA BIBLICA ED INSEGNAMENTO DI PAPA FRANCESCO ............ 26
2.1. La tenerezza nella Sacra Scrittura .................................................................................. 26
2.1.1. Nel testo ebraico ....................................................................................................... 26
2.1.2. Nel testo greco .......................................................................................................... 27
2.1.3. Metafore della tenerezza di Dio .............................................................................. 28
2.2. Fondamenti teologici della tenerezza ........................................................................ 30
2.2.1. La tenerezza come pathos di Dio ........................................................................... 30
2.2.2. Gesù, rivelazione della tenerezza di Dio-Trinità ................................................... 30
2.3. La tenerezza come scelta preferenziale degli ultimi ..................................................... 32
2.4. La tenerezza nel magistero di papa Francesco .............................................................. 35
3
3. LA RELAZIONE PASTORALE D’AIUTO (RPA) COME LUOGO DI TENEREZZA DELLA
PASTORALE CARCERARIA......................................................................................................... 43
3.1. La RPA ................................................................................................................................ 43
3.1.1. Differenza tra RPA e direzione spirituale ............................................................. 45
3.1.2. Differenza tra RPA e counseling psicologico ....................................................... 46
3.2. RPA formale e informale ................................................................................................. 47
3.3. Il processo della RPA ........................................................................................................ 49
3.3.1. Accoglienza ............................................................................................................... 49
3.3.2. La fase del Discernimento ....................................................................................... 54
3.3.3. La fase dell’azione ................................................................................................... 55
3.4. Conclusione della RPA ...................................................................................................... 57
CONCLUSIONE ............................................................................................................................ 58
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................... 60
4
SIGLE
Vedi citazione estesa in bibliografia
CCC Catechismo della Chiesa Cattolica (1997)
DSC PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA
PACE, Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa (2005)
EG FRANCESCO, esort. apost. ai Vescovi ai Presbiteri e
ai diaconi, alle persone consacrate e ai fedeli laici
sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale,
Evangelii Gaudium (2013).
GS CONCILIO VATICANO II, cost. dogm. sulla Chiesa,
Gaudium et Spes (1965)
ICCPPC Intenational Commission of Catholic Prison
Pastoral Care
RPA Relazione Pastorale d’aiuto
5
INTRODUZIONE
La mia vita di frate francescano mi ha portato in questi anni a frequentare
l’ambito delle carceri e della pastorale carceraria in aiuto ai Cappellani che vi operano.
Ho avuto, in tal modo, la possibilità di immergermi nel mondo della sesta opera di
misericordia corporale (Cfr Mt 25,31-46), entrando anche in contatto con tante persone
che si prodigano con grande passione al servizio di Cristo presente nei carcerati. Tutto
ciò ha nella Chiesa una lunga tradizione, che affonda le sue radici nella Scrittura e si
evolve nella storia del popolo di Dio e nella riflessione ecclesiale. A questo excursus
biblico, storico e teologico è dedicato il primo capitolo.
Dall’esperienza concreta è nato il desiderio di comprendere meglio tale realtà
anche dal punto di vista teologico e pastorale, ma – con mia grande sorpresa – ho
dovuto constatare che, mentre la pastorale famigliare, quella sanitaria e diverse altre
hanno una loro specifica metodologia, la stessa cosa non si può dire per la pastorale
carceraria, rispetto alla quale sono rari gli approfondimenti specifici, in particolare in
relazione al colloquio individuale col carcerato.
Recentemente si è assistito ad alcuni sforzi che vanno in questa direzione: non
ultimo il Convegno Nazionale dei Cappellani delle carceri che ha cercato di mettere in
collegamento la pastorale carceraria con gli orientamenti pastorali dei vescovi italiani
per il decennio in corso. Solo pochi, tuttavia, fino ad ora sono stati i tentativi di
applicare alla pastorale carceraria – e in particolare alla relazione pastorale d’aiuto in
ambito carcerario – i tanti stimoli e suggerimenti che Papa Francesco sta inviando in
diverse occasioni sul tema della tenerezza di Dio: è per questo che mi è sembrato
6
importante raccogliere e fare un quadro di sintesi sull’insegnamento del Pontefice
proprio su questo argomento nel secondo capitolo, partendo dai fondamenti biblici e
teologici.
Il terzo capitolo cerca, infine, di analizzare la relazione pastorale d’aiuto (RPA)
come luogo di tenerezza nella pastorale carceraria, applicando l’insegnamento di Papa
Francesco alle tecniche specifiche del colloquio individuale. Questo sforzo scientifico è
giustificato dal fatto che lo spirito che deve animare il cristiano che si accosta a
qualsiasi tipo di povertà deve essere quello – nel limite del possibile – di fare bene il
bene Andando in carcere e operando con le persone che vivono un disagio sociale, ci
siamo infatti accorti che non basta la buona volontà, ma servono competenze e
conoscenze specifiche. Da questa esigenza nasce il presente lavoro.
7
1. LA PASTORALE CARCERARIA
1.1. Il carcere e i carcerati nella Sacra Scrittura
Nell’Antico Testamento il tema del carcere/prigionia è declinato in almeno tre
modi. Anzi tutto vi è la narrazione delle vicende di personaggi (generalmente “positivi”)
che hanno subito (ingiustamente) il carcere: è il caso di Giuseppe l’ebreo, calunniato,
arrestato e messo in prigione (Cfr Gn 39,20.23); di Sansone, che perde la forza, viene
legato dai nemici e costretto a girare la macina della prigione (Cfr Gdc 16,21); di
Geremia, arrestato, gettato nella cisterna più profonda, sprofondato nel fango (Cfr Ger
37,15); di Ezechiele e Daniele, deportati in Babilonia; dei martiri della rivolta
maccabaica1. In secondo luogo vi è l’esperienza collettiva e paradigmatica della
privazione della libertà, in Egitto prima e in Babilonia poi. Fin dall'inizio della sua
storia, Israele ha fatto in Egitto l'esperienza d'una “prigionia originale”, quando la terra
che aveva accolto i patriarchi divenne per i loro discendenti una «casa di servitù» (Es
13,14)2. A rigore di termini, tuttavia, gli Ebrei più che servi o prigionieri erano gli
schiavi del faraone. In seguito il popolo di Dio conobbe più di una volta la deportazione,
pratica che Amos denuncia come un delitto (Cfr Am 1, 6.9). Tale fu la sorte delle tribù
del Nord dopo la rovina di Samaria (Cfr 2 Re 17, 6.23), poi quella di Giuda all'inizio del
sec. VI (Cfr 2 Re 24-25)3. In entrambi i casi si trattava di castighi che punivano le
1 Cfr R. SUNGRANYES DE FRANCH, v. imprigionamento, in (Ed. it a c. di Romano Penna) Dizionario
Enciclopedico della Bibbia, Roma: Borla-Città Nuova, 1995, 703. 2 E. CORTESE, Visitare i carcerati in Anastasio Ballestrero (a c. d), Le opere di misericordia. Una
proposta biblico-pastorale, Milano: Edizioni Paoline, 1990, 119. 3 Cfr R. SUNGRANYES DE FRANCH, v. imprigionamento, 703.
8
infedeltà del popolo di Dio. In terzo luogo e conseguentemente, vi è l’uso metaforico
dell’immagine del carcere e della prigionia, a indicare la sofferenza, l’umiliazione, il
desiderio di libertà (Cfr Tb 3,4). È simbolo universale di oscurità, di non senso, di vita
inaccettabile, di dolore (Cfr Tb 5,10; Is 42,7). È l’anticamera della fossa della morte,
dello šheol, dell’inferno, che è descritto appunto come una grande prigione oscura da
cui non vi è speranza di uscire (Cfr Sal 88,5-7).
Il salterio ha più volte dato voce alla supplica dei carcerati: «Strappa dal carcere
la mia vita» (Sal 142,8), oppure «Dal profondo a te grido o Signore» (Sal 130,1), anche
attraverso metafore: «Per liberare il popolo che sedeva nelle tenebre e nell’ombra di
morte» (tenebre e ombra di morte sono immagini che rappresentano le condizione di
reclusione, Sap 18,4). Se Dio esige dai suoi fedeli che «rompano le catene ingiuste» (Is
58, 6) e se la visita dei carcerati fa parte delle opere di misericordia (Cfr Mt 25, 36. 40),
Egli stesso è pieno di sollecitudine per «i suoi prigionieri» (Sal 69, 34), anche per coloro
che, con disprezzo, avevano sfidato i suoi ordini (Cfr Sal 107, 10-16). Soprattutto al suo
popolo prigioniero Egli fa una promessa di libertà (Cfr Is 52, 2) che è come un preludio
del Vangelo4.
Il Nuovo Testamento nasce dall’annuncio della morte e risurrezione di Gesù;
mette dunque al centro la vicenda di un uomo che ha subìto un processo (irregolare),
una condanna (ingiusta) ed una pena atroce e maledetta. Non solo. Intorno a lui sono
persone che ne condividono la sorte: da Giovanni Battista, imprigionato e fatto
decapitare da Erode Antipa (Cfr Mt 14,9-11), a Pietro e Paolo, perseguitati, anche con la
prigionia, dalle autorità giudaiche e romane, a causa dell’annuncio del Vangelo (Cfr At
4 Cfr Ibidem.
9
12,6). Inoltre, la missione stessa di Gesù è vista da Luca come «liberazione dei
prigionieri» (Lc 4,18). Infine, lo stesso Gesù, nella parabola del “giudizio universale”, si
identifica con i carcerati, affermando che la carità nei loro confronti sarà uno dei criteri
della valutazione ultima dell’esistenza (Cfr Mt 25,31-46)5.
È dunque naturale che nella storia della Chiesa, nata dall’evento pasquale e dal
riconoscimento di Gesù Signore e modello, sia sempre stata curata l’assistenza ai
carcerati.
1.2. Evoluzione sociale ed ecclesiale: cenni storici
La lettera agli Ebrei dice: «avete preso parte alle sofferenze dei carcerati» (10,
32-35) e «ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere» (13,3).
Questo è fin dall'inizio lo stile della comunità cristiana. In Ignazio di Antiochia e nelle
Costituzioni Apostoliche già si trovano, in attuazione del compito evangelico, alcune
esortazioni a preoccuparsi dei prigionieri di ogni sorta, per motivi di fede come per
colpe o guerre. Successivamente, il Concilio cartaginese affidò fin dal 253 d.C. la visita
delle carceri ai vescovi e ai diaconi, mentre quello di Nicea del 325 istituì i procuratori
dei poveri detenuti. Il decreto conclusivo del sinodo di Orléans (538) fissò delle regole
precise per le visite settimanali dei parroci all'interno delle prigioni. Sotto l’influsso
della cultura cristiana, gli imperatori Costantino, Teodosio II, Giustiniano, e Leone III
Isaurico continuarono a promulgare leggi per assicurare il buon governo delle carceri6.
5 Cfr Ibidem. 6 Cfr T. CAPPELLI – E. CAPPELLINI, Pastorale carceraria, in Fondamenti, vol. 1 di Bruno Seveso e
Luciano Pacomio, Enciclopedia di Pastorale, Casale Monferrato: Edizioni Piemme, 1992, 171.
10
La Chiesa dà un contributo specifico alla riflessione sulla prassi carceraria.
Contro l’oggettivazione del reato richiede colpevolezza soggettiva con le dovute
graduazioni, perché la pena tende ad emendare il reo mediante la penitenza, senza
recare al reo un danno maggiore di quello recato a se stesso e alla società. Il carcere ad
custodiendos homines, come luogo di riflessione e di pentimento deve prevalere sulla
pena sia corporale, sia pecuniaria7.
Tuttavia, l’influsso della Chiesa sulla legislazione penitenziaria è solo indiretto;
essa realizza la sua missione pastorale con l’assistenza. San Leonardo fonda nel 1500 il
primo ordine religioso per l’assistenza ai carcerati; confraternite di visitatori portano
sollievo ai detenuti e rilevano e denunciano sevizie. Si deve a San Vincenzo de’ Paoli,
cappellano nelle galere di Luigi XIII, se fu addolcita la sorte dei condannati. Dopo il
Concilio di Trento si formano Arciconfraternite in Roma, la Confraternita della
Misericordia, per i condannati a morte, e quella della Carità, dedita all’assistenza dei
detenuti, nasce l’Arciconfraternita della Pietà dei carcerati, ad opera del gesuita
Giovanni Tellier (1570)8.
Con l’Illuminismo settecentesco di Montesquieu, Beccaria, Romagnosi, si fa
strada nella legislazione civile il principio dell’umanizzazione della pena e
dell’individualizzazione della sanzione in rapporto alla personalità delinquenziale del
colpevole. Fioriscono le varie scuole : la scuola classica, che nega alla società il diritto
di punire; la scuola positiva, che considera il reo un tarato dalla nascita; la scuola
idealista, che ritiene il male del singolo come inferto dalla società a se stessa9.
7 Cfr T. CAPPELLI – E. CAPPELLINI, Pastorale, 171. 8 Cfr Ibidem. 9 Cfr Ibidem.
11
Continua l’attività assistenziale cristiana. Limitandoci all’Italia, già nel 1870 era
ben conosciuto nel carcere milanese di san Vittore l’impegno dei volontari delle
Misericordie, come pure, negli anni successivi, il servizio dei religiosi Salesiani a
Torino e delle Dame della Società san Vincenzo de’ Paoli in alcune grandi città italiane.
Nel 1923 nasce a Milano la Sesta Opera San Fedele, che dovrà poi aderire alla più
vecchia associazione Beccaria di Milano (sorta nel 1911).
Con il passaggio dalla monarchia alla repubblica, la nuova Costituzione
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), e precisa all’art. 27: «Le
pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere
alla rieducazione del condannato»10.
1.3. Riflessione ecclesiale
Manca nell’ambito del Magistero della Chiesa un documento interamente
dedicato alla pastorale penitenziaria e ai temi ad essa collegati. Il presente capitolo
raccoglie e sintetizza quanto è stato detto al riguardo a partire da Pio XII, considerando
il magistero pontificio ed episcopale, e i documenti rilevanti a livello italiano pubblicati
dagli stessi cappellani e da organismi pastorali nazionali. La ricerca si è focalizzata sul
ruolo del cappellano e sulla sua azione pastorale nelle carceri11.
10
Cfr Ibidem. 11
L’attività del cappellano non si esaurisce solo nel rapporto pastorale con i detenuti, ma egli nella sua cura delle anime deve occuparsi della polizia penitenziaria e dei dipendenti del carcere, in questa ricerca mi limito solo al rapporto con il detenuto.
12
1.3.1. Discorsi e pronunciamenti dei Papi
Gli interventi dei Pontefici sul carcere sono per lo più discorsi rivolti ai detenuti
nelle visite pastorali alle Chiese locali o agli istituti di pena; altri discorsi sono rivolti al
personale dell’amministrazione penitenziaria e ai giuristi cattolici in occasione di
convegni ed udienze in Vaticano, mentre solo qualche intervento è indirizzato
direttamente ai cappellani italiani che operano nelle carceri. Particolarmente pregnante è
la riflessione di Pio XII.
Nell’immediato dopoguerra i cappellani delle carceri si incontrarono a Roma ed
il 15 novembre 1947 il papa Pio XII rivolse loro in udienza un discorso intenso ed
articolato. Nella premessa definì i cappellani «soldati di prima linea, volontari in una
missione di sacrificio e di ardue conquiste»12 ed elencò le loro competenze di ordine
giuridico, tecnico, sociale, pedagogico, concernenti la rieducazione dei carcerati e la
organizzazione della cura spirituale delle prigioni. Qualità umane e cristiane dei
cappellani dovevano e devono ancora essere la padronanza di se stessi, la pazienza, la
longanimità, la circospezione, la prudenza, il tatto e soprattutto una carità piena di
abnegazione e di bontà13.
Nel 1951 Pio XII indirizzò un radiomessaggio a tutti i detenuti delle carceri
italiane e delle altre nazioni del mondo. Nel discorso, dopo aver considerato le cause del
delinquere ed il senso che la pena può e deve avere, il Papa suggerisce una missione a
12 A. PARENTE, La chiesa in carcere, Roma: Ufficio studi, Dipartimento amministrazione
penitenziaria, Ministero della Giustizia, 2007, 202. 13 Cfr A. PARENTE, La Chiesa, 202-204.
13
tutti coloro che si trovassero ad espiare una pena in modo ingiusto o eccessivamente
gravosa rispetto alle proprie colpe:
a voi è assegnata una vocazione straordinaria, e vorremmo dire di privilegio: espiare per il mondo veramente colpevole… Lungi dallo sprezzare il vostro
dono, Egli ne farà titoli preziosi di misericordia, di salvezza e di grazia, per voi stessi e per le vostre famiglie, per il mondo intero e per la sua Chiesa14.
Nel 1957 Pio XII ebbe modo di rivolgere un discorso ai rappresentanti dei
Giuristi Cattolici Italiani, in udienza a Roma15. Nella seconda parte del discorso,
parlando dell’assistenza al detenuto, distingue la dimensione personale da quella
comunitaria. Considerato come singola persona, il detenuto deve essere conosciuto ed
amato, con la ricchezza delle diverse forme dell’amore. L’amore di compiacenza trova
nel suo oggetto tutto ciò che possiede di buono e di bello. L’amore di benevolenza
vuole coscientemente il bene naturale e soprannaturale dell’amato. L’amore beneficente
offre l’aiuto materiale e spirituale. Infine, l’amore di unione ed amicizia è quello che
permette di comunicarsi mutuamente pensieri e sentimenti, mettersi in qualche modo
l’uno al posto dell’altro16.
Giovanni XXIII è il primo Papa del secolo scorso che ha visitato un carcere, il
Regina Coeli di Roma, il 26 dicembre 1958. Nel discorso rivolto ai detenuti affermava:
«Sono felice di essere qui, mandato da Nostro Signore Gesù Cristo. Questo comando
divino, questa spinta che parte dal Vangelo…»17, sottolineando così che il motivo
14 Radiomessaggio di Pio XII ai Detenuti in Italia e nelle altre Nazioni, 29 dicembre 1951, in A.
PARENTE, La Chiesa, 204. 15 Discorso pronunciato nell’aula della benedizione da PIO XII ad un gruppo di Giuristi Cattolici
Italiani il 26 maggio 1957, in A. PARENTE, La Chiesa, 204. 16 Cfr Ivi 202-204. 17 Ivi 235.
14
principale della presenza della Chiesa fra i detenuti deve essere l’annuncio salvifico del
Vangelo. Più avanti dichiarava:
vi voglio bene, non per spirito romantico, non per moto di compassione umanitaria; ma vi amo davvero perché scopro tuttora in voi l’immagine di
Dio, la somiglianza di Cristo… Vado cercando in voi l’immagine di
Cristo18.
Assimilando i carcerati alla categoria evangelica dei poveri e degli ultimi, il
Papa vedeva in loro il luogo privilegiato della presenza di Gesù: «Voi mi rappresentate
il Signore»19. Nel 1972 Paolo VI incontrava i Cappellani Capi delle Nazioni dell’Europa
Occidentale riuniti a Roma. Nel breve discorso ci sono almeno due passaggi di
particolare importanza pastorale. Il primo: «Il sacerdote chiamato a questo difficile
ministero ha bisogno di una preparazione e di una competenza tutta particolare»20. Il
secondo passaggio significativo riguarda la fede nella quale invita i cappellani a
rimanere fermi: «Essa è la sola giustificazione del vostro ministero; essa è anche, molto
spesso, il solo motivo della vostra perseveranza»21.
Nel suo lungo ministero papa Giovanni Paolo II ha viaggiato in numerosi Paesi,
e sempre ha visitato le carceri, o ha inviato un breve discorso o un saluto ai detenuti. Ai
detenuti del carcere di Papadua, a Brasilia, visitato il 1 luglio 1980, diceva che
Cristo essendo senza peccato, detestava il peccato ma amava i peccatori, li visitava per offrire loro il perdono… In voi trovo persone umane e so che
ogni persona umana corrisponde ad un pensiero di Dio. In questo senso, ogni
18 Ibidem. 19 Ivi 176. 20 Ibidem. 21 Ibidem.
15
essere umano è fondamentalmente buono e fatto per la felicità… Vi auguro
che il tempo passato qui, malgrado tutto, sia per voi, un tempo di grazia22.
Il 27 dicembre 1983 il Papa visitava il carcere romano di Rebibbia, in occasione
del Giubileo straordinario della Redenzione; citando Isaia 61,123, parlava della
liberazione del detenuto dal “carcere morale”.
In occasione del Giubileo nelle Carceri del 2000, Giovanni Paolo II invitava i
detenuti ad accogliere l’annuncio di salvezza che viene da Gesù Cristo e ricordava che il
«tempo è di Dio… anche il tempo trascorso in carcere è tempo di Dio e come tale va
vissuto; è tempo che va offerto a Dio come occasione di verità, di umiltà, di espiazione
ed anche di fede»24.
Papa Benedetto XVI è intervenuto sul tema delle carceri la prima volta in
occasione dell’incontro con il clero della diocesi di Aosta in riferimento ai detenuti che
si sentono persino disprezzati e vivono in una situazione nella quale c’è
veramente bisogno della presenza di Cristo… dobbiamo essere anche da sacerdoti fratelli di questi ‘minimi’ e veder anche in essi il Signore che ci
aspetta, è di grandissima importanza25.
Parlando ai membri dell’ ICCPPC, durante l’udienza del 6 settembre 2007
Benedetto XVI ha invitato i cappellani a rafforzare i vincoli che li uniscono ai propri
22 GIOVANNI PAOLO II, Discorso nel carcere a Papadua, Brasilia, 1 luglio 1980, online: <http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1980/july/documents/hf_jp-ii_spe_19800701_carcere-brasile_it.html> (accesso 29.12.2014).
23 “Lo spirito del Signore è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione mi ha
mandato… a portare la scarcerazione ai prigionieri”. 24 GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per il Giubileo nelle carceri, Città del Vaticano, 24 giugno
2000, online: <http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/messages/documents/hf_jp-ii_mes_20000630_jubilprisoners_it.html> (accesso 13.12.2014).
25 BENEDETTO XVI, Discorso in occasione dell’incontro con il clero della Diocesi di Aosta, Introd, 25 luglio 2005 online: <http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2005/july/documents/hf_ben-xvi_spe_20050725_diocesi-aosta_it.html> ( accesso 15.12.2014).
16
vescovi per trovare quel sostegno e quella guida che aumentano la consapevolezza della
loro vitale missione26. Ha sottolineato poi che il ministero sia svolto in seno alla
comunità cristiana locale perché anche «altri si uniscano a voi nel compiere opere di
misericordia corporale»27. Infine, il Papa ha invitato a curare la partecipazione regolare
dei detenuti alla celebrazione dei Sacramenti28.
Nella sua visita pastorale al carcere di Rebibbia del 18 dicembre 2011 il sommo
pontefice Benedetto ha citato il versetto del vangelo di Mt 25,36: «ero in carcere e mi
avete vistato»29. Ha anche ricordato che la Chiesa ha sempre annoverato, tra le opere di
misericordia corporale, la visita ai carcerati che richiede una piena capacità di
accoglienza del detenuto, «facendogli spazio nel proprio tempo, nella propria casa, nelle
proprie amicizie, nelle proprie leggi, nelle proprie città»30.
1.3.2. Papa Francesco
Il 28 marzo 2013, pochi giorni dopo la sua elezione, papa Francesco ha voluto
celebrare la Messa in coena Domini nel carcere minorile della città, lavando i piedi a
dodici ragazzi detenuti, e ribadendo più volte che come donne e uomini mai tristi
26 Cfr BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti del XII Congresso Mondiale della Commissione
Internazionale della Pastorale delle Carceri, Castel Gandolfo, 6 settembre 2007 online: <http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2007/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20070906_pastorale-carceraria_it.html> (accesso 29.12.2014).
27 Ibidem. 28 Ibidem. 29 BENEDETTO XVI, Discorso visita pastorale alla Casa Circondariale di Rebibbia, Rebibbia, 18
dicembre 2011 online: <http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2011/december/documents/hf_ben-xvi_spe_20111218_rebibbia_it.html> (06.12.20114).
30 Ibidem.
17
bisogna portare Gesù31. Ancora importante è la visita alla casa circondariale di Isernia il
5 luglio 2014 dove ha parlato della sfida del reinserimento sociale:
per questa sfida c’è bisogno di un percorso, di un cammino, sia all’esterno,
nel carcere, nella società, sia al proprio interno, nella coscienza e nel cuore. Alcuni fanno questa strada a casa propria, nel proprio mestiere; altri, come voi, in una casa circondariale. Chi dice che non ha bisogno di fare un cammino di reinserimento è un bugiardo!32.
Il tema del reinserimento è ripreso anche nella visita pastorale a Castrovillari del
21 giugno 2014. Quando questa finalità viene trascurata, l’esecuzione della pena
degrada di fatto ad uno strumento di sola punizione e ritorsione sociale, a sua volta
dannoso per l’individuo e per la società. D’altra parte, un vero e pieno reinserimento
della persona non avviene come termine di un percorso solamente umano. In questo
cammino entra anche l’incontro con Dio, la capacità di lasciarci guardare da Dio che ci
ama33.
Un breve passaggio rivolto direttamente ai cappellani si ritrova nel discorso del
pontefice ai partecipanti al convegno nazionale dei cappellani delle carceri del 23
ottobre 2013:
E prego anche per voi Cappellani, per il vostro ministero, che non è facile, è molto impegnativo e molto importante, perché esprime una delle opere di
31 Cfr FRANCESCO, Omelia per la Santa Messa nella Cena del Signore all’Istituto Penale per Minori
di Casal di Marmo, Roma, 28 marzo 2013 online: <http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2013/documents/papa-francesco_20130328_coena-domini.html>(accesso 11.12.2014).
32 FRANCESCO, Discorso ai detenuti della Casa Circondariale di Isernia, Isernia, 5 luglio 2014 online: <http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/july/documents/papa-francesco_20140705_molise-detenuti.html> (accesso 02.12.2014).
33 Cfr FRANCESCO, Discorso per la visita pastorale alla Casa Circondariale di Castrovillari, Castrovillari, 21 giugno 2014 online: <http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/june/documents/papa-francesco_20140621_visita-pastorale-cassano-carcere.html> (accesso 16.12.2014).
18
misericordia; rende visibile la presenza del Signore nel carcere, nella cella. Voi siete segno della vicinanza di Cristo a questi fratelli che hanno bisogno di speranza34.
1.3.3. Il Catechismo della Chiesa cattolica, il Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, pur non parlando mai espressamente di
carcere, carcerati o cappellani penitenziari, al n. 2266 afferma che «l’insegnamento
tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima
autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto»35. La pena ha
pertanto lo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa, difendere l’ordine
pubblico e la sicurezza delle persone, contribuire alla correzione del colpevole. Quando
è volontariamente accettata dal colpevole, la pena ha valore di espiazione.
Nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, nel capitolo Primo, viene
riportato il brano del Vangelo di Matteo sul giudizio finale (Mt 25,34-36.40) al fine di
presentare l’orizzonte ultimo in cui collocare le opere di giustizia e di carità36. Il brano
che vede Gesù identificarsi tra gli altri, anche con il carcerato, ha fornito alla tradizione
cristiana l’elenco delle sette opere di misericordia corporale. Esso è citato in tutti gli
interventi dei Pontefici rivolti al mondo del carcere ed è sicuramente il passo evangelico
più rappresentativo della pastorale carceraria. Tenendo presente il contesto penitenziario
attuale, che vede le carceri custodire persone di razze, popoli e religioni diverse, è
34 FRANCESCO, Discorso ai partecipanti al Convegno Nazionale Cappellani delle Carceri Italiane, Città del Vaticano, 23 ottobre 2013 online: <http://w2.vatican.va/content/francescomobile/it/speeches/2013/october/documents/papa-francesco_20131023_cappellani-carceri-italiane.html> (30.11.2013).
35 CCC 2266. 36 Cfr DSC 58.
19
interessante sottolineare l’aspetto universalistico del brano di Matteo. Al n. 289 dello
stesso documento, i carcerati sono nominati tra coloro che trovano maggiori difficoltà
nella ricerca di una collocazione nel mondo del lavoro e al n. 403 si parla dell’attività
dei cappellani delle carceri chiamati a svolgere, non solo sotto il profilo specificamente
religioso, ma anche in difesa della dignità delle persone detenute la propria missione37.
1.3.4. Gli interventi dei Vescovi
In questa parte si prendono in considerazione tre interventi di Vescovi italiani
rivolti espressamente ai cappellani delle carceri. Scelti fra numerosi altri, questi
interventi presentano alcuni aspetti del servizio pastorale del cappellano: il rapporto del
carcere con la Chiesa locale; il triplice munus nella pastorale carceraria; la collocazione
della pastorale carceraria nell’attuale progetto pastorale della Chiesa italiana Educare
alla vita buona del Vangelo.
Il primo contributo è dato da un intenso e articolato intervento di mons.
Giuseppe Betori, al Consiglio Pastorale Nazionale dei cappellani radunato a Roma dal
25 al 27 novembre 2003. Betori parla della comunicazione del Vangelo che caratterizza
l’impegno della Chiesa all’interno del carcere, sviluppando sette punti di manifesta
debolezza dell’uomo, sottolineando in modo particolare la dimensione della speranza
dell’annuncio cristiano. Negli ultimi due punti mons. Betori parla dei compiti del
cappellano in riferimento alla comunità cristiana esterna al carcere. Il cappellano è
invitato a suscitare vocazioni al servizio del volontariato in carcere e preoccuparsi di
37 Cfr DSC 39.
20
individuare i nuovi problemi che la condizione carceraria pone e le relative risposte
ecclesiali. Inoltre, gli è richiesto di curare una stretta relazione con gli organismi
diocesani per risolvere i problemi a livello di catechesi e soprattutto di celebrazione dei
sacramenti all’interno dell’istituto38.
Il secondo intervento considerato è quello di mons. Mariano Crociata, allora
segretario generale della CEI al convegno nazionale dei cappellani delle carceri italiane
del 2013, in cui ha parlato delle tre dimensioni della vita ecclesiale della pastorale
carceraria: dimensione profetica, sacerdotale e regale. La funzione profetica ha come
suo centro l’annuncio della parola Dio e di quanto egli ha compiuto a favore degli
uomini nella storia della salvezza. L’ascolto della parola di Dio tende alla celebrazione
dei sacramenti (funzione sacerdotale). In questo è centrale il compito insostituibile del
cappellano, aiutato dai volontari, che invitino i detenuti ai momenti di preghiera e ne
predispongano lo svolgimento. Lo scorrere dell’anno liturgico, infatti, contribuisce a
caratterizzare il tempo che nel carcere pare fluire senza tappe o momenti significativi39.
L’Eucarestia domenicale deve connotarsi anche in carcere come fonte e culmine della
propria vita40. La Messa non può ridursi a mera celebrazione del rito, ma acquista un
carattere formativo, consolatorio ed educativo. Il terzo compito nel quale si esplica la
pastorale carceraria è il munus regale, l’ambito più ampio della carità, da esercitare in
innumerevoli forme e situazioni. Si tratta dell’accompagnamento quotidiano nei
38 Cfr G. BETORI, omelia del 27 novembre 2003 al Consiglio Pastorale Nazionale, online, in Ispettorato Generale dei Cappellani delle Carceri: <http://www.ispcapp.org/AttiConvCapp/docs/Omelia-Betori2003.pdf> (accesso 17.12.2014).)
39 Cfr M. CROCIATA, Educare alla vita buona in Cristo: i volti della giustizia, Convegno nazionale dei
cappellani delle carceri italiane, Sacrofano - 22 ottobre 2013, online, in Ispettorato Generale dei Cappellani delle Carceri: <http://www.ispcapp.org/AttiConvCapp/ConvNaz/AttiPub/Educare_vita_Cristo-Crociata_22-10-13.pdf> (accesso 14.12.2014).
40 Cfr CCC 1324.
21
confronti dei carcerati, il porsi al loro fianco come pastori e fratelli. Questo servizio è
sintetizzato nel gesto di Gesù che chinatosi sui discepoli, lava loro i piedi in segno di
totale dedizione41.
Infine, vorrei citare, dello stesso Crociata, il recentissimo, articolato e
approfondito intervento su “pastorale carceraria e Orientamento pastorale per il
decennio in corso” del 22 ottobre 2013. Da questo intervento, completo e sistematico, si
traggono alcuni degli spunti più significativi. In primo luogo, Crociata identifica la
natura e la missione della pastorale carceraria come missione educativa, volta a
integrare il periodo di detenzione e la necessità di scontare la pena all’interno del
cammino umano complessivo della persona. Tale obiettivo ha una dimensione
antropologica generale che vale al di là della coscienza e dell’apertura alla fede e, in
ogni caso, incontra nella fede l’orizzonte adeguato per essere compreso e perseguito in
maniera piena. L’accompagnamento nella crescita verso la pienezza della vita buona si
realizza, anche nei confronti di chi è in carcere, secondo le due linee della crescita nella
vita di fede e in quella umana. La funzione dell’assistente spirituale si svolge su
entrambi i fronti, sempre intrecciati tra loro. La vera ricchezza da fare scoprire è una
positiva progettualità, nell’amicizia con Dio42 e nella carità verso i fratelli43.
In secondo luogo, Crociata individua le tappe di questo percorso educativo:
l’accettazione costruttiva della propria vicenda personale e della propria attuale
condizione. È necessario, a questo scopo, che vi sia una presa di coscienza della propria
situazione secondo criteri di obiettività razionale e di lettura credente della propria vita.
41 Cfr M. CROCIATA, Educare. 42 Cfr F. VAN THUAN, Cinque pani e due pesci. Dalla sofferenza del carcere una gioiosa
testimonianza di fede, Milano: 2014, 63. 43 Cfr M. CROCIATA, Educare.
22
In questo percorso il dialogo interpersonale è essenziale: un dialogo fatto di
comprensione e di fermezza, di accoglienza dell’altro e di aiuto a superarsi. Di
fondamentale importanza è anche l’elaborazione del senso della giustizia e della virtù
nella vita umana, in riferimento alla coscienza morale e alla responsabilità
interpersonale e sociale. Il riconoscimento del reato commesso, cioè, deve diventare
percezione del danno inflitto ad altre persone e a tutto il corpo sociale44.
In terzo luogo, Crociata richiama l’attenzione sulle situazioni più delicate: quella
delle donne, specialmente se – come avviene nella maggioranza dei casi – sono madri;
quella delle carceri minorili; quella degli stranieri (ormai più del 35% del totale dei
detenuti), la cui situazione è particolarmente dura a causa della lontananza dalla
famiglia e dalla patria, oltre che dalle esigue risorse economiche45.
Infine, Crociata sottolinea l’inserimento della pastorale carceraria nella Chiesa
locale, così che le parrocchie, le comunità religiose e i movimenti ecclesiali si ricordino
delle persone che sono detenute e non dimentichino di visitarle. I sacerdoti facciano
visita ai loro parrocchiani carcerati, tenendo conto che anch’essi sono loro pecore46.
Sollecitati dai cappellani, colgano l’occasione dei permessi dati ai detenuti di trascorrere
alcune ore all’esterno del carcere, per farli partecipare ad alcuni momenti della vita della
comunità. Così facendo, i detenuti si prepareranno al successivo processo di
riabilitazione e reinserimento47.
44 Cfr Ibidem. 45 Cfr Ibidem. 46 Noi leggiamo nel cap. 10 del Vangelo di Giovanni che Gesù stesso si paragona al Pastore, letteralmente dal greco al Pastore Bello. Cfr D. CAROLLA, La tenerezza di Gesù. Il Verbo si è fatto carne, Assisi: Cittadella editrice, 174. 47 Cfr M. CROCIATA, Educare.
23
1.4. La base legislativa
L’ordinamento penitenziario fascista del 1931 rimase in vigore fino agli anni
Settanta nonostante la promulgazione della Costituzione repubblicana del 1948 che
sancì alcuni principi fondamentali: l’esclusivo orientamento umano e rieducativo delle
pene, la libertà religiosa, la reciproca indipendenza e sovranità tra lo Stato e la Chiesa
Cattolica. Soltanto a partire dagli anni Sessanta le evidenti incompatibilità della
disciplina penitenziaria con i principi costituzionali iniziarono ad essere discusse in
ambito giuridico e fra gli stessi cappellani penitenziari. Un esempio è offerto dalla
discussione sulla libertà religiosa che nel 1966 fu portata all’attenzione della Corte
Costituzionale: il secondo comma dell’articolo 142 del regolamento penitenziario del
1931 prevedeva l’obbligo per tutti i detenuti che non avessero dichiarato di appartenere
ad altra religione, di partecipare ai riti del culto cattolico; questo comma, sarebbe stato
in contrasto con l’articolo 19 della Costituzione. La Corte costituzionale, nel dichiarare
l’inammissibilità del ricorso, si espresse sollecitando la disapprovazione della parte in
questione in cui si prescriveva l’obbligo. L’Amministrazione, anche a seguito del
dibattito in corso in parlamento sul nuovo disegno di legge sull’ordinamento
penitenziario, con propria circolare interna, dispose la sostanziale disapplicazione degli
articoli 142, 143 e 144 del regolamento del 193148.
Nel 1975 vennero promulgati il nuovo Ordinamento penitenziario e, un anno
dopo, il regolamento di esecuzione, caratterizzati, in estrema sintesi, da due punti
salienti: il trattamento individualizzato della persona detenuta, conforme ad umanità,
48 Cfr A. PARENTE, La Chiesa, 202-204.
24
volto ad assicurare la dignità della persona e programmato in modo scientifico con il
contributo delle scienze umane; e l’apertura del penitenziario al mondo esterno,
attraverso le misure alternative alla detenzione che prevedono il trattamento del
condannato in ambiente extramurario con il concorso degli Enti pubblici e il contributo
della società civile. Per quanto riguarda la disciplina dell’assistenza religiosa,
eliminando l’imposizione delle pratiche religiose ai detenuti, la nuova legge riconosce
per la prima volta la libertà religiosa, intesa come libertà di professare la propria fede, di
istruirsi nella propria religione, di praticare il culto. L’articolo 55 del regolamento
esecutivo prevede la libertà del detenuto di esporre nella propria camera immagini e
simboli religiosi e di praticare il culto nel tempo libero; la presenza interna stabile di
uno o più cappellani; l’obbligo degli istituti di dotarsi di una o più cappelle e di
ambienti idonei per il culto delle altre confessioni religiose ed infine il dovere di
assicurare la presenza di ministri di culto diversi da quello cattolico49.
La riforma carceraria del 1975 mantiene il servizio di assistenza cattolica come
servizio stabile ed interno alla struttura penitenziaria. Il cappellano viene rimosso dal
Consiglio di disciplina e dalle funzioni amministrative che il regolamento precedente gli
conferiva: è stato abolito il potere di controllo sulla corrispondenza, il governo della
biblioteca, la supervisione sull’istruzione scolastica, le relazioni sul comportamento
morale e religioso dei detenuti. Per quanto riguarda le suore, la nuova legge non prevede
più alcuna loro funzione all’interno degli istituti femminili. Il cappellano continua a far
49 Cfr Ivi 164.
25
parte della commissione per il regolamento delle modalità di trattamento e la religione è
confermata come uno dei principali elementi del trattamento50.
Un ulteriore intervento legislativo in materia è il D. P. R. 30 giugno 2000, viene
introdotto il diritto del detenuto a godere di una dieta rispettosa delle prescrizioni della
propria fede religiosa. Riguardo al criterio di valutazione della compatibilità
dell’esercizio della propria fede religiosa con la situazione detentiva, la nuova
disposizione cambia il riferimento al pregiudizio dell’ordine e della disciplina, con
quello che “non si esprima con comportamenti molesti per la comunità”. Si sostituisce il
termine ‘riti’ religiosi con ‘culti’: si sottolinea così la disponibilità di locali idonei per
pratiche religiose anche in assenza di ministri del culto51.
50 Cfr Ivi 166. 51 Cfr Ivi 167.
26
2 LA TENEREZZA: CATEGORIA BIBLICA E INSEGNAMENTO DI PAPA
FRANCESCO
2.1. La tenerezza nella Sacra Scrittura
La nozione biblica di tenerezza, sia nel testo ebraico che in quello greco,
suppone un ampia costellazione di termini e di metafore e rappresenta un orizzonte
ermeneutico fondamentale della rivelazione di Dio nella storia.
2.1.1. Nel testo ebraico
Il vocabolo ebraico più affine al sostantivo tenerezza è rḥm, radice che rimanda
a un sentimento localizzato nella parte più profonda della persona, le sue viscere
(raḥǎmîn, plurale di intensità) o l’utero materno (reḥem). Il termine indica una
partecipazione emotiva non limitata all’osservazione, ma sperimentata in prima persona.
Il termine ḥesed tradotto con grazia, bontà, benevolenza, è talvolta utilizzato come
rafforzativo dei derivati di rḥm o come sua forma esplicativa ed è di norma collegato
all’evento dell’alleanza (cfr Dt 7,9) e al concetto di ´ĕmet, fedeltà (Cfr Es 34,6; Sal
25,10), con una sfumatura affettiva52.
Affine a rḥm e ḥsd è ḥnn, radice che evoca l’idea di un piegarsi, facendosi vicino
a chi è nel bisogno. La terminologia ḥānan/ḥannûn, tradotta principalmente con far
grazia/grazia, aver pietà/pietà, riferita a Dio esprime la sua presenza salvifica. Indicativa
52 Cfr C. ROCCHETTA, v. Tenerezza in Temi teologici della Bibbia (2010), 1371.
27
è la formula cultuale riportata in Es 34,6-7: “Il Signore, Dio misericordioso e pietoso
(rahum), lento all’ira e ricco di amore (ḥesed)e di fedeltà (´ĕmet), che conserva il suo
amore (ḥesed) per mille generazioni”. L’amore di Dio riveste sempre i connotati della
tenerezza e della pietà (cfr Sal 78,38)53.
2.1.2 Nel testo greco
Il gruppo lessicale derivante dalle radici rḥm e ḥnn è abitualmente reso sia nella
versione della Settanta che nel Nuovo Testamento con spláchna e, meno di frequente,
con oiktirmós; ḥesed è invece tradotto con éleos e, meno di frequente con chrēstótēs54.
Il verbo splanchnízomai, avere compassione, evoca un sussulto nel cuore in linea
con rḥm e ḥnn; un fremito tipicamente femminile, dato che il corrispondente splánchna
richiama il grembo o le viscere materne. Nei vangeli esso connota la compassione di
Gesù (cfr 6,34; Lc 7,13; Mt 9,36) oppure quella del padre verso il figlio ritrovato (cfr Lc
15,20), del padrone per il servitore (cfr Mt 18,27), del samaritano verso il ferito (cfr Lc
10,33.37). Negli scritti paolini, invece, rimanda al cuore come centro affettivo della
persona: «Sì, mi è testimone Iddio quanto ardentemente (splánchnois) ricerchi tutti voi
col cuore di Gesù Cristo» (Fil 1,8). In Gv 3,17 equivale all’amorevolezza verso i
bisognosi richiesta per rimanere nell’amore di Dio55.
Il vocabolo oiktirmós è utilizzato sia in relazione a Dio, Padre misericordioso,
sia in riferimento ai sentimenti di benevolenza che i credenti devono coltivare tra loro.
53 Cfr Ibidem. 54 Cfr Ivi 1372. 55 Cfr Ibidem.
28
In Luca si trova come invito a essere misericordiosi come lo è il Padre celeste (Cfr Gc
5,11; Lc 6,36)56.
Éleos, il corrispondente neotestamentario, di ḥesed indica la misericordia come
manifestazione dell’amore salvante di Dio verso le miserie fisiche e morali dell’uomo. I
cantici lucani ricorrono a éleos per designare l’adempimento benevolo delle promesse
fatte ai padri (cfr Lc 1,50). Significativa è la dizione di Lc 1,78: spláchna eléous, la
compassione amante, o più crudamente le viscere misericordiose di Dio. Meno
frequente, ma indicativo, è il termine chrēstótēs, reso in latino con benignitas, a indicare
il carattere gratuito della tenerezza del Padre57.
2.1.3. Metafore della tenerezza di Dio
Un area a cui occorre richiamarsi è quella delle metafore vive, ognuna delle
quali delinea una prospettiva della divina tenerezza. Vi sono le cosiddette
micrometafore, tra cui: l’aquila, il pastore, il medico. Particolarmente indicative sono
poi le macrometafore come quelle del padre, della madre e dello sposo.
La metafora del padre è assunta in senso analogico e indica il rapporto di
tenerezza di Dio verso Israele, figlio amato (Cfr Os 11,1; Is 1,2). L’appellativo padre è
dunque finalizzato a rivelare l’amorevolezza di Dio sia nell’ordine della creazione (cfr
Dt 32,6) sia in quello della redenzione (cfr Ger 31,9); un’amorevolezza indistruttibile,
56 Cfr Ibidem. 57 Cfr Ibidem.
29
oltre l’infedeltà del popolo. In Ger 31,20 la paterna tenerezza di Dio è rivolta a tutti i
popoli di cui Israele è primogenito58.
Siracide 4,10 assicura a Israele: «l’Altissimo ti amerà più di tua madre». E in
Isaia 66,1 si fa riferimento al parto per indicare la nascita del popolo eletto. Il profeta
Geremia parla del tempo messianico come di un tempo di gestazione per il popolo in
esilio (Cfr Ger 31,18). La metafora della madre emerge specialmente nell’espressione
“si commuovono le mie viscere”, espressione idiomatica con la quale si indica la sede
delle emozioni più forti, come l’amore materno. La medesima terminologia ritorna nelle
parole della sposa del Cantico all’arrivo del diletto. Il ricorso alle viscere intende perciò
dire un’intensità dell’affetto di Dio59.
La nuzialità è un’altra immagine della tenerezza di Dio, legata all’alleanza di cui
riproduce i caratteri tipici di benevolenza gratuita (ḥesed) di affetto tenero (raḥámîn) e
di fedeltà assoluta (´ĕmûnâ). L’alleanza messianica viene descritta come uno sposalizio,
frutto della tenerezza compassionevole del Signore. Il Nuovo Testamento proclama che
con Cristo la tanto attesa alleanza nuziale è giunta. E tale è l’annuncio del Battista (cfr.
Gv 3,29-30). Il miracolo di Cana ne è primo segno (cfr Gv 2,1-11). E infatti i discepoli
non possono digiunare finché lo sposo è con loro (cfr Mt 9,14-15), come ricorda
l’immagine del banchetto nuziale delle parabole (cfr Mt 22,1-14). La Pasqua
rappresenta la realizzazione escatologica dello sposalizio di Cristo con la chiesa60.
58 Cfr Ivi 1373. 59 Cfr Ibidem. 60 Cfr Ibidem.
30
2.2 Fondamenti teologici della tenerezza
2.2.1 La tenerezza come pathos di Dio
La tenerezza di Dio appare, lungo la Scrittura, come il pathos del suo amore.
Yhwh non è un Dio apatico o indifferente. Egli è profondamente coinvolto nella storia
dell’umanità e se ne fa carico. La sua tenerezza consiste nel rendersi solidale con la
condizione umana per redimerla dal male e donarle la partecipazione alla vita divina. La
sua tenerezza è un essere con e un essere per, come sembra evocare lo stesso nome di
Yhwh (cfr Es 3,13-15)61.
2.2.2 Gesù, rivelazione della tenerezza di Dio-Trinità
Non è questo ciò che proclama il Nuovo Testamento con affermazione
dell’Incarnazione dell’Unigenito di Dio nel mondo e della sua morte in croce? Mai
come in tali eventi la tenera compassione divina si esprima e si attua, facendosi talmente
vicina all’uomo da condividere in tutto eccetto il peccato, la sua condizione (cfr Eb
4,15)62. La sua persona – Gesù è l’uomo della tenerezza assoluta; la sua tenerezza non
ha niente di sdolcinato o rassegnato, è infatti integralmente umana e al tempo stesso
sovranamente libera da legami o condizionamenti personali, familiari, nazionali; è
massimamente personale, non anonima o massificata, e tuttavia universale, priva della
61 Cfr C. ROCCHETTA, Teologia della tenerezza. Un «vangelo» da riscoprire, presentaz. di Gianfranco
Ravasi, Bologna: EDB, 2000, 129. 62 Cfr C. ROCCHETTA, Teologia, 268.
31
benché minima discriminazione di razza, di ceto sociale o di sesso; è radicale – ai limiti
dell’intransigenza – e insieme estremamente comprensiva e amabile nei confronti delle
persone e delle loro debolezze; è autorevole essendo fondata sulla sua
autoconsapevolezza divina, e al tempo stesso umile e altruista, indirizzata alla diakonia
di tutti, fino alla offerta totale di sé sulla croce e al perdono dei carnefici. Uno stile,
questo, confermato dalla sua parola e dai suoi atti63. Il discorso della montagna orienta
ad un ethos della tenerezza che va ben oltre l’antica legge e la stessa logica umana,
muovendo dalla consapevolezza che l’unico modo di vincere il male è rovesciarlo,
trasformandolo in bene. Il suo messaggio è racchiuso nelle grandi parabole della
tenerezza perdonante riportate in Luca 15, in quella del pubblicano al tempio (Cfr Lc
18, 9-14) e del buon samaritano (Cfr Lc 10,30-37) o in insegnamenti come quello di Mt
10,29-31. Non ci può essere amore autentico senza pathos della tenerezza. La tenerezza
anzi smaschera la verità dell’amore64.
L’annunzio di Gesù è d’altronde inseparabile dal suo agire, dal suo farsi vicino
agli emarginati, agli indifesi e a quanti si trovano in situazione di bisogno e di
inferiorità. La piena umanità di Gesù comporta un’integrale assunzione dei sentimenti
umani, in particolare della tenerezza come sentimento di affezione, orientato alla bene-
volenza, all’amorevolezza alla cura. Gesù ha amato con cuore d’uomo65 (Cfr GS 22). I
suoi gesti non rappresentano solo degli aneddoti o dei buoni esempi, ma le incarnazioni
storiche della tenerezza di Dio-Trinità. Ciò vale in pienezza per la croce. Essa è
comprensibile solo nella logica del dono e dell’abbandono e l’abbandono non è altro
63 La sua scelta si rivolge proprio a chi meno se l’aspetta a chi meno se ne ritiene degno e a chi anche
non avremmo mai pensato. Cfr D. COROLLA, La tenerezza, 132. 64 Cfr C. ROCCHETTA, v. Tenerezza, 1375. 65 Cfr Ibidem.
32
che lasciare ciò che si è per farsi dono e come accadimento di debolezza che si
trasforma in potenza di salvezza (cfr 1 Cor 1,17-25). Nessuna delle tre persone divine è
assente in quell’evento; ognuna vi partecipa seconda la sua specifica identità trinitaria.
È da quel medesimo accadimento di compassione che scaturisce la nuova Eva, la
Chiesa, come sacramento della tenerezza di Dio-Trinità e sgorgano i sacramenti come
dono della tenerezza del Crocifisso a quanti credono in Lui e si lasciano salvare dalla
sua oblazione amante (cfr Gv19,25)66.
2.3 La tenerezza come scelta preferenziale degli ultimi
Proprio perché centrato sulla tenerezza, l’agire della Chiesa e dei cristiani esige
una scelta fondamentale: la scelta preferenziale degli “ultimi”. È quanto ha espresso il
magistero della Chiesa in modo costante. Ricordiamo quanto ha affermato il sinodo
mondiale dei vescovi del 1971:
Ascoltando il forte grido di coloro che soffrono violenza e sono conculcati da sistemi e meccanismi ingiusti ci siamo resi conto della vocazione della Chiesa ad essere presente nel cuore del mondo, predicando ai poveri il lieto annuncio, agli oppressi la liberazione e agli afflitti la gioia. Le speranze e gli impulsi, che scuotono profondamente il mondo, non sono alieni al dinamismo del vangelo, che per virtù dello Spirito Santo libera gli uomini dal peccato personale e dalle sue conseguenze nella vita sociale… L’agire
per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come dimensione costitutiva della predicazione del vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo (n. 48)67.
66 Cfr C. ROCCHETTA, Teologia, 395. 67 Ibidem.
33
Le radici di questa vocazione della chiesa, descritta dal sinodo come dimensione
costitutiva del vangelo, vanno ricercate nella pedagogia stessa di Dio quale ci è dato di
conoscere nella storia della salvezza e nel paradosso della croce. Una Chiesa che non
ponesse al centro delle sue priorità la cura e l’attenzione privilegiata verso tutti coloro
che si trovano in situazioni svantaggiate, di sofferenza di miseria, sia sotto il profilo
dell’esistenza materiale che sotto quello della vita morale o spirituale, non sarebbe una
Chiesa fedele al suo Signore e Maestro e non testimonierebbe l’ethos nuovo del
vangelo68. Fin dall’inizio del suo ministero, in piena corrispondenza con l’annuncio
profetico, Gesù si è presentato come colui che è stato inviato per annunciare un lieto
messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista; per rimettere
in libertà gli schiavi e predicare un anno di grazia del Signore (Cfr Lc 4,18-19).
Il suo identificarsi con la figura del servo del signore in linea con i canti del libro
di Isaia, manifesta una pedagogia che colloca Gesù tra gli ultimi, sconvolgendo i criteri
abituali e le aspettative comuni della gente; in questa direzione la descrizione della
passione e il racconto della cena. È la stessa logica di Dio riassunta nel libro dei
Giudici, in occasione della battaglia contro i madianiti: Dio richiede a Gedeone di
ridurre il suo esercito in una misura tale che si riconosca con assoluta evidenza come
tale vittoria d’ Israele non possa essere attribuita alla sua forza militare, ma unicamente
alla potenza di Yhwh. Il Canto del Magnificat fa risuonare il medesimo stile. Paolo,
nella 1Cor 1,26-31, evocando l’assoluta gratuità della grazia, proclama la
“metodologia” tipica della salvezza: Dio sceglie ciò che nel mondo è debole per
confondere i forti. Coloro che agli occhi del mondo erano considerati un nulla non solo
68 Cfr Ivi 396.
34
esistono, ma esistono in una condizione centrale, ma esistono come i primi testimoni
dell’amore salvante di Dio. E tale è la forza dell’evento di Cristo: gli ultimi divengono i
primi, i primi gli ultimi. La logica che determina la grandezza della Chiesa non è la
logica della sapienza, della potenza e la nobiltà ma quella della croce e del servizio,
come il chicco di grano che muore per dare la vita; il paradosso della tenerezza cristiana
nelle sue implicazioni esistenziali, è perfettamente riassunto da Giacomo: «Dio non ha
forse scelto i poveri del mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del Regno che ha
promesso a quelli che lo amano?» (Gc 2,5)69.
La dizione di ultimi acquista un fondamentale spessore storico salvifico, sia nel
senso che conferma come non si possa appartenere alla comunità cristiana se non ci si
colloca in questa dimensione di verità, la sola che fa avvertire il bisogno della salvezza e
apre alla fede come dono, sia nel senso che gli ultimi sono generalmente più disponibili
all’invito di Dio, a condizione che indossino anch’essi l’abito nuziale (Cfr Mt 22,11-
14)70.
La tenerezza evangelica non tollera che si faccia la retorica degli ultimi. La
chiesa è chiamata a farsi portavoce di Dio71, lottando con tutte le sue forze per l’uomo; è
un impegno di promozione della giustizia e della solidarietà. L’etica della tenerezza è
l’etica oblativa della croce come etica del cuore di Dio, in ragione di cui la comunità dei
cristiani si fa amore amante sulle strade del mondo. Nella tenerezza della comunità
ecclesiale e dei suoi membri è lo stesso Gesù che solidarizza con i poveri e con tutti
69 Cfr Ibidem. 70 Cfr Ibidem. 71 Cfr D. COROLLA, La tenerezza, 223. La tenerezza di Gesù non si esaurisce con la sua ascensione al
cielo. Anche dopo questo evento la sua tenerezza si manifesta ampiamente nella storia della Chiesa che è il suo Corpo mistico.
35
coloro che soffrono, con i peccatori e con gli ultimi, perché riconoscano la misericordia
del Signore e accolgano il lieto annuncio della grazia. La tenerezza riveste un valore
salvifico come un sacramento che rivela, porta in sé e attua ciò cui rimanda72.
2.4 La tenerezza nel magistero di papa Francesco
Da quando papa Francesco è salito al soglio pontificio, tra le parole che più ha
usato vi sono misericordia e tenerezza. In occasione della celebrazione di inizio
pontificato, nella solennità di San Giuseppe, ha detto: «Abbiamo ascoltato nel Vangelo
che “Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua
sposa» (Mt 1,24). Ė la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos,
custode. Custode di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa73.
Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è
proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle
che distruggono! «Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della
tenerezza!»74. E il papa aggiunge un’ulteriore annotazione il prendersi cura, il custodire
chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza75.
Nei Vangeli, infatti, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso,
lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del
debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di
72Cfr C. ROCCHETTA, Teologia, 396. 73 Cfr D. CAROLLA, La tenerezza, 7. 74 B. BAFFETTI, – F. MARCACCI, La Tenerezza salverà il mondo. Imparare l’Amore alla scuola di
Papa Francesco, Assisi: Edizioni Porziuncola, 2014, 11. 75 Cfr B. BAFFETTI, – F. MARCACCI, La Tenerezza, 13.
36
compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore76. «Non dobbiamo avere
timore della bontà, della tenerezza!»77. Il successore di Pietro dice con forza che il vero
potere è il servizio e che anche lui stesso per esercitare il potere deve entrare sempre più
in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce, per custodire tutto il Popolo
di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più
deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha
fame, sete, chi è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46). Solo chi serve
con amore sa custodire!78
Simili espressioni troviamo in altre omelie e discorsi. Per esempio, nell’omelia
del 7 aprile 2013, durante la celebrazione di insediamento nella Basilica Lateranense, ha
detto:
Che bello è questo sguardo di Gesù – quanta tenerezza! Fratelli e sorelle, non perdiamo mai la fiducia nella misericordia paziente di Dio!(…). Cari
fratelli e sorelle, lasciamoci avvolgere dalla misericordia di Dio; confidiamo nella sua pazienza che sempre ci dà tempo; abbiamo il coraggio di tornare nella sua casa, di dimorare nelle ferite del suo amore, lasciandoci amare da Lui, di incontrare la sua misericordia nei Sacramenti. Sentiremo la sua tenerezza, tanto bella, sentiremo il suo abbraccio e saremo anche noi più capaci di misericordia, di pazienza, di perdono, di amore79.
Così anche il suo primo messaggio su Twitter: «Che bello è lo sguardo di Gesù
su di noi, quanta tenerezza!»80. Anche nella sua enciclica Evangelii Gaudium questo
termine viene usato 11 volte.
76 Cfr Ibidem. 77 Ibidem. 78 Cfr Ibidem. 79 Ivi 18. 80 Ibidem.
37
Papa Francesco si è presentato fin da subito come un papa buono, sorridente e
capace di muovere le coscienza verso un rinnovato desiderio di Cristo e della chiesa.
Anche il mondo laicista ne è sembrato positivamente toccato, tanto da costruire attorno
a questo nuovo papa una pubblicistica positiva e serena, seppur insinuante una presunta
contrapposizione tra il papa e una parte della chiesa non interessata e addirittura ostile a
questa tenerezza81.
Non è certo nuova l’attenzione della fede cristiana al tema della misericordia,
che anzi la caratterizza al punto che il fenomenologo delle religioni F. Van der Leuww,
confrontando le varie religioni, appella il cristianesimo come religione dell’amore82.
Papa Francesco ha voluto associare questa prerogativa ad una parola specifica:
tenerezza. Perché? Perché la tenerezza è l’aspetto dell’amore di Dio che crea continuità
tra amore umano e amore divino; è un sentimento inscritto in noi – di cui ogni uomo e
ogni donna sono naturalmente capaci – che ci fa provare affetto per l’altro, che ci fa
tendere all’altro e rende possibile la comunione. Un amore che non fosse anche
tenerezza sarebbe distante, freddo e difficilmente credibile poiché sembrerebbe morale,
calcolato, precettistico83. Eppure non sempre abbiamo consapevolezza di una simile
attitudine originaria della tenerezza: questa dimensione va dapprima scoperta, poi
compresa e quindi fatta crescere. Esiste, infatti, una tenerezza di dimensione puramente
umana, istintuale: va benissimo coltivarla nelle proprie relazioni e renderla una
componente essenziale della vita. Ma in altri momenti siamo ben consapevoli che da
sola non basta: quando le difficoltà e le divisioni si fanno troppo pesanti fino a renderci
81 Cfr Ibidem. 82 Cfr Ibidem. 83
Cfr D. CAROLLA, La tenerezza, 174.
38
rigidi e chiusi all’altro e agli eventi della nostra storia, allora serve un dono, una grazia
che venga ad irrorare i cuori per aprirli al perdono e alla bellezza84. È la tenerezza di
Gesù che ha una misura infinita! Solo se assumiamo questa misura, tutto si supera nelle
difficoltà, la vita è sempre nuova e la gioia sgorga con abbondanza85.
Quando la nostra capacità di accogliere l’altro e la vita vacilla, è la tenerezza di
Gesù che viene in nostro aiuto e ci sostiene, in particolare di fronte allo sconforto, alla
rabbia, alla tristezza o all’ansia. Una tenerezza che rivela lo stile dell’amore di Dio fatto
di doni che talvolta non riconosciamo, come il nostro stesso esistere e la chiamata a
costruire un mondo nuovo. Uno stile attraverso il quale Egli cerca ripetutamente di
entrare in rapporto con noi, ma senza imporsi, poiché la porta deve essere aperta
dall’interno. Certo, è tenerezza anche la forza con cui ci chiede di aprirci al mistero, per
comprendere che Lui ci aspetta là dove non pensavamo di incontrarlo, in contesti ed
esperienze dove non lo avremmo creduto presente, in situazioni che non avevamo
pensato di vivere86; Dio abita proprio in quei luoghi e chiede solo di cambiare lo
sguardo per riconoscerlo87.
Il Papa ha voluto anche trattare delle manifestazioni concrete della tenerezza:
nell’omelia del 7 giugno 2013 ha parlato della “scienza della carezza”, che manifesta i
due pilastri dell’amore: la vicinanza e la tenerezza. E «Gesù conosce bene questa bella
84 Cfr Ibidem. 85 Cfr Ivi 19. 86 Cfr F. VAN THUAN, Cinque pani e due pesci. Dalla sofferenza del carcere una gioiosa testimonianza di fede, Milano: 2014, 15. 87 Cfr C. ROCCHETTA, Gesù medico degli sposi. La tenerezza che guarisce, Bologna: EDB, 2008,
124.
39
scienza»88. Proprio quanto a queste concrete manifestazioni, c’è chi ha parlato di
un’enciclica dei gesti di papa Francesco, gesti spiazzanti per la loro immediatezza,
semplicità e intensità; gesti che appartengono alla sua identità di pastore. Ha notato il
Papa:
Dio facendosi vicino a noi, il pastore vicino al suo gregge, alle sue pecorelle che conosce una per una; vicinanza e tenerezza sono dunque le due maniere dell’amore del Signore, che si fa vicino e dà tutto il suo amore anche nelle cose più piccole con tenerezza89.
Tuttavia si tratta di «un amore forte. Perché vicinanza e tenerezza ci fanno
vedere la forza dell’amore di Dio», fino a diventare «pastori con l’odore delle pecore»90.
Come scrive nel paragrafo 3 dell’EG, Dio
torna a caricarci sulle sue spalle una volta dopo l’altra. Nessuno potrà
toglierci la dignità che ci conferisce questo amore infinito e incrollabile. Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia91.
Non è sufficiente, ha aggiunto ancora il Papa, costituire una fondazione per
aiutare tutti, né fare tante cose buone per aiutarli. Tutto questo è importante, ma sarebbe
solo un comportamento da filantropi. Ad alimentare la tenerezza non è un sentimento
puramente umano, e neppure solo l’esempio di Gesù; ma è soprattutto l’amore per Lui,
il desiderio di incontrarlo e servirlo. «Dobbiamo curare le piaghe di Gesù con tenerezza.
88
FRANCESCO, Meditazione La difficile scienza dell’amore del 7 giugno 2013, Domus Sanctae Marthae online: <https://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2013/documents/papa-francesco-cotidie_20130607_tenerezza-divina.pdf> (accesso 11.12.2014).
89 Ibidem. 90 Ibidem. 91 EG 3.
40
Dobbiamo letteralmente baciare le piaghe di Gesù»92. La vita di san Francesco, ha
ricordato, è cambiata quando ha abbracciato il lebbroso perché ha toccato il Dio vivo e
ha vissuto in adorazione93.
La tenerezza è strettamente connessa col perdono. Trattando del ministero del
confessionale, il 29 aprile 2013 ha detto: «Dio non ci aspetta per bastonarci ma con
tenerezza per perdonarci. Lui continua a perdonarci. Sempre ci aspetta con tenerezza,
umiltà, mitezza»94. Anche nei confronti dei peccatori, il modello di tenerezza è Gesù
stesso, che perdona ai suoi nemici. In particolare basta pensare con quanta tenerezza
Gesù riceve Giuda nell’orto degli ulivi. Questo non vuol dire che non dice la verità
anche se con tenerezza e amore95.
Un altro aspetto ricorrente nel magistero di papa Francesco è il binomio Maria-
Tenerezza. Nel discorso del 1° settembre 2013, nella ricorrenza del 60° anniversario
delle lacrime della Madonna di Siracusa, ha detto: «Attraverso Maria, il Signore ci fa
sentire la sua tenerezza!»96. Al numero 286 dell’EG afferma che «Maria è colei che sa
trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una
montagna di tenerezza»97. Ancora al numero 288 scrive di uno stile mariano nell’attività
evangelizzatrice della Chiesa: Perché ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a
92 R. VINERBA, Lo spirito di Assisi e Papa Francesco. La bellezza di Cristo Crocefisso si è fatta storia
in Assisi, Assisi: Cittadella, 2014, 105. 93 Cfr P. MARANESI, Facere Misericordiam. La conversione di Francesco d’Assisi: confronto critico
tra il Testamento e le Biografie, Assisi: Porziuncola, 2007, 61-62. 94 FRANCESCO, Meditazione Benedetta vergogna del 29 aprile 2013, Domus Sanctae Marthae online:
<http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2013/documents/papa-francesco-cotidie_20130429_benedetta-vergogna.html> (accesso 19.11.2014).
95 Cfr Ibidem. 96 FRANCESCO, Angelus del 1 settembre 2013, Piazza San Pietro online:
<http://w2.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2013/documents/papa-francesco_angelus_20130901.html> (accesso 10.12.2014).
97 EG 286.
41
credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto. In lei vediamo che
l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, che non hanno bisogno di
maltrattare gli altri per sentirsi importanti. Guardando a lei scopriamo che colei che
lodava Dio perché «ha rovesciato i potenti dai troni» e «ha rimandato i ricchi a mani
vuote» (Lc 1,52.53) è la stessa che assicura calore domestico alla nostra ricerca di
giustizia. È anche colei che conserva premurosamente «tutte queste cose, meditandole
nel suo cuore» (Lc 2,19). Maria sa riconoscere le orme dello Spirito di Dio nei grandi
avvenimenti ed anche in quelli che sembrano impercettibili. È contemplativa del mistero
di Dio nel mondo, nella storia e nella vita quotidiana di ciascuno e di tutti. È la donna
orante e lavoratrice a Nazareth, ed è anche nostra Signora della premura, colei che parte
dal suo villaggio per aiutare gli altri «senza indugio» (Lc 1,39). Questa dinamica di
giustizia e di tenerezza, di contemplazione e di cammino verso gli altri, è ciò che fa di
lei un modello ecclesiale per l’evangelizzazione98.
Il Papa, consapevole della portata di questa tematica, arriva a parlare di una
“Rivoluzione della Tenerezza”; «senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza, si
ignora la "rivoluzione della tenerezza" che provocò l’Incarnazione del Verbo»99. Questa
rivoluzione deve riguardare soprattutto la pastorale: Esistono pastorali “lontane”,
pastorali disciplinari che privilegiano i principi, le condotte, i procedimenti
organizzativi… ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza100. Vi sono
pastorali impostate con una tale dose di distanza che sono incapaci di raggiungere
l’incontro: incontro con Gesù Cristo, incontro con i fratelli. Da questo tipo di pastorali
98 Cfr EG 288. 99 G. VECCHI, Francesco. La rivoluzione della tenerezza. In viaggio col Papa che sta cambiando la Chiesa, Milano: Corriere della sera, 2013, 39. 100 Cfr G. VECCHI, Francesco, 39.
42
ci si può attendere al massimo una dimensione di proselitismo ma mai portano a
raggiungere né l’inserimento ecclesiale né l’appartenenza ecclesiale. La vicinanza crea
comunione e appartenenza, rende possibile l’incontro. La vicinanza acquisisce forma di
dialogo e crea una cultura dell’incontro101.
101 Cfr Ivi.
43
3. LA RELAZIONE PASTORALE D'AIUTO (RPA) COME LUOGO DI
TENEREZZA DELLA PASTORALE CARCERARIA
3.1 La RPA
Scrive mons. Mariano Crociata: «Il terzo compito nel quale si esplica la
pastorale carceraria è il munus regale, l’ambito più ampio della carità, da esercitare in
innumerevoli forme e situazioni»102. Si tratta dell’accompagnamento quotidiano nei
confronti dei carcerati, questi si rivolgono al cappellano o al volontario primariamente
per chiedere qualcosa: una telefonata, del vestiario, delle lettere da scrivere, francobolli,
le sigarette, un sussidio per prendere le cose di prima necessità, ecc.. Questa gran
quantità di richieste non può essere gestita totalmente dal cappellano che quindi dovrà
dotarsi di collaboratori o associazioni di volontariato interne al carcere103. Ma al di là di
questo, mi pare di poter sottolineare che la modalità del chiedere qualcosa è il primo
approccio che ogni detenuto ha con il cappellano o chi per lui. È attraverso un gesto di
attenzione, di ascolto, e se possibile di esaudimento della richiesta, che il cappellano
instaura un primo rapporto con il detenuto che può poi aprirsi alla confidenza, alla
richiesta di aiuto spirituale e alla celebrazione dei sacramenti come la confessione e
l’Eucaristia. Dato però che più della metà dei detenuti stranieri è di fede musulmana, la
carità o la stessa tenerezza è l’unico Vangelo che possiamo annunciare loro dentro le
mura di un carcere. Questo servizio è sintetizzato nel gesto di Gesù che chinatosi sui
102 M. CROCIATA, Educare. 103 Cfr A. PARENTE, La chiesa, 171.
44
discepoli, lava loro i piedi in segno di totale dedizione. Un aiuto concreto per far visita a
questi fratelli sofferenti è la relazione pastorale d’aiuto (RPA)104.
La RPA o counseling pastorale è quel ministero della comunità credente che si
attua attraverso un tipo particolare di relazione tra un operatore pastorale competente e
una persona in cerca di aiuto, con lo scopo di favorire in quest’ultima, insieme al
superamento delle proprie difficoltà, una crescita a livello personale, interpersonale e
spirituale. Come diaconia, è una delle modalità attraverso cui viene veicolato l’amore
redentivo di Cristo che libera, riconcilia e risana105.
Nell’EG il Papa scrive:
Dio torna a caricarci sulle sue spalle una volta dopo l’altra. Nessuno
potrà toglierci la dignità che ci conferisce questo amore infinito e incrollabile. Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia106.
La RPA si colloca quindi, con una sua specifica identità, accanto alla
predicazione, alla celebrazione liturgica e all’insegnamento. Eccetto nei casi in cui sia
inserito nella pratica del sacramento della Riconciliazione, l’esercizio della RPA non è
legato all’ordinazione sacerdotale. Nella cura animarum praticata lungo i secoli, hanno
sempre trovato la loro collocazione forme di aiuto rivolte dagli operatori pastorali ad
individui e gruppi. Di esse, però, solo la direzione spirituale ha assunto una struttura
propria e una precisa metodologia, richiedendo quindi una specifica preparazione. È
solo verso la metà del Novecento che è emersa l’esigenza d’imprimere una più grande
104 Cfr A. BRUSCO, v. Relazione Pastorale di aiuto in Dizionario di Teologia Pastorale Sanitaria,
Edizioni Camilliane; Torino, 1997, 1045. 105 Cfr BRUSCO, Relazione 1045. 106 EG 3.
45
efficacia a tutte le forme di ministero individuale, espresse attraverso l’incontro
individuale e il dialogo con persone in difficoltà o desiderose di compiere un cammino
di crescita107.
3.1.1 Differenza tra RPA e direzione spirituale
Le differenze riguardano la storia, il luogo-contesto in cui si attuano e,
soprattutto, la finalità. Tralasciando i primi due fattori e volendoci, soprattutto,
soffermare su quest’ultimo, occorre dire che la direzione spirituale ha sempre perseguito
la santità del soggetto, aiutandolo ad aprirsi alla grazia nella sua evoluzione. Lo stesso
vale per il dialogo tra il penitente e il confessore; pur non essendo essenziale alla
celebrazione del sacramento della Confessione, tale dialogo vuole rendere il penitente
disponibile a ricevere il perdono del Signore e ad attuare un cammino autentico di
conversione108.
La RPA ha, invece, una finalità più ampia. Il consigliere pastorale si propone di
accompagnare l’assistito a far fronte positivamente ai più disparati problemi: sensi di
colpa, lutti, fallimenti, paura della morte, divorzi, problemi educativi, solitudine,
mancanza di libertà, dubbi, malattie, problemi finanziari, interrogativi esistenziali, ecc.
Tali situazioni non sono esplicitamente spirituali e lo scopo manifesto per cui la persona
si rivolge all’operatore pastorale non è necessariamente religioso. In molti casi, infatti,
gli interlocutori seguono una logica esistenziale estranea alla fede, pur non escludendo
che i casi non vengano confrontati con il Vangelo e considerati alla luce della fede.
107 Cfr BRUSCO, Relazione 1045. 108 Cfr Ivi 1046.
46
Proprio per questo c’è chi afferma che RPA e direzione spirituale si situano nello stesso
continuum, occupando posizioni diverse a seconda della maturità umana e spirituale del
soggetto, del problema presentato e degli obiettivi perseguiti. Ad ogni modo, in
ambedue le forme di accompagnamento, gli operatori pastorali agiscono “nel nome del
Signore”, nella certezza di fede il Signore è sempre presente nell’incontro e nella
prospettiva della salvezza dell’altro, alla cui gratuita realizzazione ogni situazione può
offrire un’apertura109.
3.1.2. Diversità tra RPA e counseling psicologico
La RPA è un ministero pastorale, che è quindi tipico della comunità credente;
mediante la RPA si veicola ad un concreto soggetto l’amore redentivo, sanante e tenero
del Signore, perché superi le svariate forme problematiche di difficoltà esistenziali, al
fine di un’integrale sua crescita spirituale; la RPA è un’attività ‘pastorale’ che, senza
fare psicologia, ne utilizza i dati. In primo luogo, la psicologia offre una conoscenza più
realistica dell’uomo, in particolare delle motivazioni che stanno alla base del suo
comportamento. In secondo luogo, la psicologia permette di migliorare l’approccio nella
relazione e nel dialogo. In un contesto cristiano, l’obiettivo dei dialoghi dipende dalle
premesse teologiche e antropologiche, cioè da un certo modo di concepire l’azione dello
Spirito Santo, ma le modalità pratiche dipenderanno dalle qualità psicologiche, dalla
capacità di ascolto e di consiglio dialogico, da atteggiamenti eventualmente educabili.
109 Cfr Ibidem.
47
Di fatto, la psicologia e i vari sistemi psicoterapici hanno offerto una lezione importante
ai consiglieri pastorali, invitandoli a superare gli atteggiamenti moralistici110.
Proprio per la sua tendenza ad aiutare gli uomini a crescere e a trovare la loro
esatta relazione con Dio, la RPA è un processo religioso, attraverso il quale la persona
fa esperienza del Signore, che redime, risana, riconcilia e promuove la crescita verso la
pienezza della vita. Di tale azione redentrice, il consigliere pastorale non è che il
mediatore. Ugualmente, assume un senso differente la liberazione, che è il fine sia della
psicoterapia sia della RPA. Infatti, secondo la fede e la morale cristiana, la liberazione
umana è sempre un combattimento ricettivo, cioè una reale battaglia contro le forze
egocentriche del peccato, battaglia che avrà esito positivo nella misura in cui la persona
sarà aperta all’intervento liberatore di Dio111.
3.2. RPA formale e informale
La RPA può essere praticata in modo informale o formale. La RPA informale
consiste in incontri occasionali o in una serie d’incontri non strutturati. Non bisogna
sottovalutare l’importanza delle RPA informali soprattutto in carcere, perché sono
anch’esse un’espressione valida di ministero pastorale e, nello stesso tempo, possono
avviare ad un tipo di counseling più approfondito. Impregnati di sensibilità e condotti
appropriatamente, tali incontri unici, su appuntamento o occasionali, possono risultare
di grande efficacia. Nella pratica, la RPA informale è certamente la più utilizzata, tanto
che si potrebbe affermare che gran parte dell’aiuto dato dai consiglieri pastorali è
110 Cfr Ivi 1047. 111 Cfr Ibidem.
48
offerto in occasione di un unico incontro. Basti pensare alla visita dei cappellani nei
lunghi corridoi delle carceri, o nelle celle, dove consentito, ai dialoghi legati alla pratica
del sacramento della Riconciliazione, o alle persone incontrate durante la celebrazione
eucaristica nei vari reparti112. La RPA formale implica, invece, una certa presa di
coscienza del problema da parte della persona bisognosa di aiuto e la volontà di
impegnarsi in un processo di relazione di aiuto, strutturato secondo norme e
metodologie particolari. Anche nel contesto carcerario è facile trovare persone,
soprattutto nella sezione dei carcerati con pena definitiva, che vogliono impegnarsi in
una relazione d’aiuto strutturata113.
Nonostante le notevoli differenze, la RPA formale e quella informale hanno
alcune importanti caratteristiche comuni, per cui quanto detto sulla RPA formale può
essere applicato, almeno parzialmente, anche a quella informale. Già la vita all’interno
del carcere è scandita da una certa formalità; il tempo scandito dal regolamento intero
della sezione: ora d’aria, ora doccia, ora dei pasti; qualsiasi attività deve essere
preceduta dalla cosiddetta “domandina” o modello 393, compreso il colloquio formale
con il cappellano o qualsiasi altro operatore. Infatti, la prospettiva teologica, gli
atteggiamenti del consigliere, certe abilità tecniche e alcuni elementi metodologici sono
ugualmente validi ed efficaci sia negli incontri occasionali sia in quelli strutturati e ben
definiti della RPA formale114.
112 Cfr CAPPELLANI DELLE CARCERI DELLA LOMBARDIA, La missione, Bologna: Centro editoriale
dehoniano, 2004, 17. L’assenza o la non cura di tali incontri comporterebbe, in alcuni casi
irrimediabilmente, la possibilità di proporre, attraverso la nostra azione pastorale, cammini di evangelizzazione, di catechesi, di liturgia e di testimonianza di carità.
113 Cfr BRUSCO, Relazione 1048. 114 Cfr Ibidem.
49
3.3. Il processo della RPA
3.3.1. Accoglienza
In un ambiente poco umano e punitivo, in cui i sentimenti e gli affetti sono
negati e la violenza (fisica e verbale) è particolarmente presente115, il cappellano o
l’operatore pastorale laico si pone anzitutto come un volto, espressione di una fisicità
pacifica e amabile, accogliente, paterno e fraterno insieme. Egli testimonia con il
proprio atteggiamento una sana umanità che con singolare equilibrio manifesta rispetto,
affetto, calore umano, stima, passione per la vita e per l’uomo, per ogni uomo116.
Capace anche di quei gesti che nessuno può permettersi in carcere come l’abbraccio e la
carezza, gesti a volte necessari per smuovere alla conversione persone indurite dalle
prove della vita, dai sensi di colpa, dalla mancanza degli affetti e dagli effetti del
peccato. Quello che lo stesso Pontefice definisce come la «scienza della carezza o
dell’amore che manifesta i due pilastri che la sorreggono: la vicinanza e la
tenerezza»117. La RPA è un processo che inizia prima ancora dell’incontro tra il
consigliere e la persona detenuta o, comunque sia, bisognosa di aiuto. Diversi Autori,
infatti, parlano dell’importanza dell’iniziativa nella RPA, intendendo con questo
termine quell’insieme di atteggiamenti e di gesti che consentono al consigliere pastorale
di andare verso quanti, carcerati e non, sono bisognosi di aiuto e di rendersi, così, ad
115 Cfr Ibidem. 116 Cfr CAPPELLANI DELLE CARCERI DELLA LOMBARDIA, La missione, 17. L’incontro personale, come
cappellani, è il tentativo di ridire l’amore del Padre, la cui nostalgia alberga in molti; ma, nel contempo, è
l’amore per la Chiesa, sacramento visibile del Figlio. 117 FRANCESCO, Meditazione Benedetta.
50
essi disponibile118. Nell’apostolato di Gesù l’iniziativa occupa un posto di rilievo: egli
raggiunge i discepoli di Emmaus (Lc 24, 17) ed inizia la conversazione con la donna di
Samaria (Gv 4, 7). Il Vangelo di Luca ci parla di Maria, che si mise in viaggio verso la
montagna (Cfr Lc 1, 39).
Un ruolo centrale ha nella RPA l’empatia Il consigliere empatico comprende il
vissuto della persone sofferente come se fosse suo, mantenendo tuttavia una sufficiente
distanza affettiva, necessaria per garantire oggettività alla sua valutazione della
situazione. La pratica dell’empatia è possibile solo se il consigliere pastorale accetta di
essere vulnerabile, cioè suscettibile di venire ferito dal vissuto del detenuto. Trattando di
questo aspetto, il Papa ha usato alcune immagini: quella dell’artigiano, dell’operaio e
dell’infermiere che in un ospedale guarisce le ferite una a una, ma con le sue mani Dio
si immischia nelle nostre miserie, si avvicina alle nostre piaghe e le guarisce con le sue
mani; e per avere mani si è fatto uomo. È un lavoro di Gesù, personale: un uomo ha
commesso il peccato, un uomo viene a guarirlo119. Perché «Dio non ci salva soltanto
mediante un decreto, con una legge; ci salva con tenerezza, ci salva con carezze, ci salva
con la sua vita per noi»120.
La disponibilità a dare la vita per gli altri (cfr 1Gv 3, 16), esponendosi al rischio
d’essere toccati dalle loro ferite, deve tuttavia essere costantemente accompagnata
118 Cfr BRUSCO, Relazione 1048. 119 Cfr H. NOUWEN, Il guaritore ferito. Il ministero nella società contemporanea, Brescia:
Queriniana,1982, 81. 120 FRANCESCO, Meditazione Intelligenza, Cuore, Contemplazione del 22 ottobre 2013, Domus
Sanctae Marthae online: <https://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2013/documents/papa-francesco-cotidie_20131022_contemplazione-vicinanza-abbondanza.html> (accesso 06.12.2014).
51
dall’attenzione a prevenire il logorio psicologico o burnout, inevitabile quando il
coinvolgimento emotivo nella situazione del detenuto è eccessivo121.
L’empatia consiste nella comprensione del vissuto della persona sofferente e
nella comunicazione a quest’ultimo di tale comprensione. La risposta empatica è,
quindi, parte essenziale di tale atteggiamento. Ciò che distingue questa risposta dalle
molte altre, che vengono abitualmente utilizzate, è costituito dal fatto che essa non si
sofferma a giudicare quanto è stato comunicato dal detenuto, non opera interpretazioni,
non si limita a offrire supporto, non indulge a investigazioni, non offre soluzioni
immediate, ma, centrandosi sul “tu” del detenuto, gli rispecchia quanto egli ha
comunicato in termini, sia di concetti-contenuti, sia di sentimenti122.
Il sentirsi considerati come individui degni di valore è un bisogno fondamentale
di ogni persona umana; bisogno avvertito più acutamente da coloro che si trovano in
situazioni caratterizzate da prigionia, malattie, crisi e conflitti. Ė la considerazione
positiva che prende vari nomi: è accettazione incondizionata, per la quale il detenuto è
una persona con un valore-dignità, che è indipendente dal suo reato o dalla sua storia; è
rispetto e stima per le sue eventuali idee o credenze diverse dalle mie; è fiducia,
dimostrandogli di credere in lui, nelle sue risorse e capacità di poter affrontare e
risolvere i problemi; è calore umano, veicolato in modo verbale e non, mediante il tono
di voce, la mimica del volto, i gesti di tenerezza123. Cade nella mancanza di rispetto il
consigliere incapace di mantenere la parola data e la puntualità o incapace di accogliere
con gentilezza e di ascoltare con empatia. Si mostrano, infine, inadeguati quei
121 Cfr Ibidem. 122 Cfr BRUSCO, Relazione, 1048. 123 Cfr FRANCESCO, Meditazione La difficile.
52
consiglieri ai quali riesce difficile evitare la troppa distanza o l’eccessiva effusione di
affetto nei confronti dei detenuti. La presenza d’inautenticità nel colloquio pastorale si
manifesta, spesso, nell’incoerenza tra linguaggio verbale e non verbale, creando, così,
un clima di diffidenza, disagio, incapacità di ascolto e di partecipazione124.
Completiamo il discorso sulla fase dell’accoglienza con alcune osservazioni.
Nella visione cristiana, Dio è Colui che accoglie incondizionatamente l’uomo,
infondendogli fiducia e capacità di autoaccettazione. Fare esperienza dell’amore
accogliente di Dio è, perciò, indispensabile per situarsi di fronte agli altri con cuore
ospitale. Ma noi come possiamo ridare al Signore tante cose belle, tanto amore, questa
vicinanza, questa tenerezza? Certamente, ha detto il Pontefice,
possiamo dire: Sì, amandolo, diventare vicini a lui, teneri con lui. Sì, questo è vero, ma non è la cosa più importante. Può sembrare un’eresia ma è la verità più grande: più difficile che amare Dio è lasciarci amare da lui! È questo il modo per ridare a lui tanto amore: aprire il cuore e lasciarci amare. Lasciare che lui si faccia vicino a noi, e sentirlo vicino. Lasciare che lui si faccia tenero, ci accarezzi125.
Nel manifestare la sua accoglienza ai carcerarti incontrati, il consigliere è
chiamato a potenziare la consapevolezza di essere mediatore dell’atteggiamento ospitale
del Signore. In questa luce, tutti gli atteggiamenti e le tecniche, da lui utilizzate,
acquistano un significato dall’esperienza cristiana, prima ancora che dallo studio delle
scienze umane126. Sia il consigliere pastorale, sia quello psicologico sono chiamati ad
essere empatici, autentici, a considerare positivamente i propri detenuti. Tuttavia,
124 Cfr BRUSCO, Relazione 1048. 125 FRANCESCO, Meditazione La difficile. 126 Cfr BRUSCO, Relazione, 1049.
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mentre il secondo lo fa perché è convinto che senza tali atteggiamenti è difficile che si
attui il processo terapeutico, il primo è motivato dal fatto che in tali atteggiamenti si
rispecchi la relazione di Dio nei confronti dell’uomo. Infatti, la comprensione empatica
e l’accettazione incondizionata, presenti nei processi terapeutici, trovano il loro
fondamento nell’atteggiamento di Dio, archetipo della relazione interpersonale. È
nell’evento Cristo che si sono manifestate l’empatia e l’accettazione incondizionata,
presenti in ogni forma significativa di relazione di aiuto. Ne deriva che tutte le
espressioni di amore empatico e di accettazione incondizionata diventano una
dossologia, una lode a Colui che si è fatto conoscere, condividendo la nostra condizione
umana (Fil 2, 6-7) e salvandoci attraverso la sua trascendente accettazione127 .
I frutti della fase dell’accoglienza si concentrano intorno all’esplorazione del
problema vissuto dal detenuto. Tale esplorazione non si limita a far emergere i contenuti
della situazione problematica, ma anche le sue ripercussioni emotive sulla persona che
la vive. Uno degli effetti dell’empatia, infatti, consiste nel far emergere i sentimenti che
abitano l’interlocutore e che danno una particolare fisionomia ai suoi problemi. Se ben
praticate, la considerazione positiva, comprensione empatica e l’autenticità esercitano
un impatto positivo sul detenuto, portandolo ad una migliore autocomprensione, ad una
più positiva autoconsiderazione e ad un desiderio di essere se stesso in ciò che è e che
compie128.
127 Cfr Ivi, 1051. 128 Cfr Ibidem.
54
3.3.2.La fase del Discernimento
Se la fase dell’accoglienza ha come scopo di aiutare l’infermo a “girare intorno”
alla situazione problematica della sua condizione “ferita” per esplorarla in se stessa e
nei suoi riflessi emotivi, la fase del discernimento mira ad aiutarlo a riconoscerla, ad
accettarla come qualcosa che fa parte della sua vita e di cui deve prendere la
responsabilità, per darle un senso e guardare in quale direzione intende muoversi per
poterla ‘integrare’ nella propria esistenza. Durante questa fase, oltre gli atteggiamenti
propri del momento dell’accoglienza (attenzione, empatia, considerazione positiva,
autenticità, concretezza), il consigliere pastorale è chiamato a praticare: il confronto,
l’autorivelazione e l’immediatezza129.
Il confronto consiste nel porre il carcerato di fronte alla situazione problematica,
che sta vivendo, in modo che egli ne possa vedere gli aspetti positivi e coerenti e quelli
negativi e contraddittori. Esso può essere attuato tra due affermazioni verbali
contrastanti, tra un’asserzione verbale e una comunicazione non verbale, tra teoria e
pratica. Affinché il confronto possa riuscire efficace occorre che si risolva in
un’espressione di autentico amore, secondo il motto paolino del fare la verità nella
carità130 (Cfr Ef 4,15). Quando, infatti, vengono evitati giudizi e condanne, il detenuto
può cogliere nell’atteggiamento di confronto del consigliere una presenza amica e una
volontà di aiutarlo. Pur essendo difficile da praticare per vari fattori (paura di
disapprovazione, timore di “far soffrire”, ecc.), il confronto riveste tuttavia una grande
importanza nella RPA. In tal modo, alla dimensione “materna” e ricettiva, costituita
129 Cfr Ibidem. 130 Cfr Ibidem.
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dall’empatia, si aggiunge ora quella paterna, senza la quale la prima rischierebbe di
rimanere inefficace131.
L’autorivelazione è la disposizione e la libertà, di cui gode il consigliere
pastorale, quando ritiene conveniente e utile comunicare al detenuto aspetti personali
della propria esistenza, come: opinioni, esperienze, situazioni esistenziali, tendenze,
sentimenti, ecc.. Perché l’autorivelazione contribuisca all’efficacia della RPA, occorre
che essa non interrompa il flusso comunicativo della persona ristretta e tanto meno
appesantisca la sua situazione. Al contrario deve contribuire a rafforzare nell’altro la
certezza di essere compreso, permettendo al consigliere di chiarire, nel contempo, la
propria posizione132.
Durante la fase del discernimento, il detenuto vive un combattimento interiore,
che è bene identificare. E nell’accompagnare il detenuto, impegnato in tale processo, il
consigliere pastorale non può esimersi dal lasciarsi raggiungere, nel profondo
dell’essere, dal vissuto della persona incontrata, pur evitando un coinvolgimento
emotivo che potrebbe nuocere all’efficacia del suo intervento133.
3.3.3. La fase dell’azione
A poco o a nulla servirebbe l’accompagnamento di quanti si trovano in
difficoltà, se tale accompagnamento non approdasse ad un cambiamento del loro modo
di essere e di agire, al superamento di una crisi, ad una decisione morale, ad un passo in
131 Cfr Ibidem. 132 Cfr Ibidem. 133 Cfr Ibidem.
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avanti nella crescita umana e spirituale. I risultati della RPA sono dipendenti da
numerose variabili: la frequenza degli incontri, la natura dei problemi, la personalità
dell’interlocutore, senza mai dimenticare l’azione dello Spirito! Ora questa fase
dell’azione non inizia, di certo, improvvisamente: infatti, già durante la fase
dell’accoglienza e del discernimento, il consigliere pastorale deve preoccuparsi di
favorire nella persona da aiutare un’apertura al coraggio e alla speranza, alla tenerezza
di Dio, infondendogli la certezza che è possibile accedere a nuove esperienze, a nuove
possibilità, a nuove attività, a continui cambiamenti, a modi diversi di credere e di
vivere, di pensare e sentire la sua situazione. Solo quando l’interlocutore chiarisce ed
accoglie l’alternativa alla situazione insoddisfacente che sta vivendo, può passare ad un
impegno concreto. Impariamo a riposare nella tenerezza delle braccia del Padre in
mezzo alla nostra dedizione creativa e generosa. Lasciamo che sia Lui134 a rendere
fecondi i nostri sforzi come pare a Lui135. A volte può capitare che lo stesso
interlocutore, in seguito all’autocomprensione acquisita, proponga da sé delle iniziative
concrete per aprirsi ad un cambiamento. Quando ciò non avviene, spetta al consigliere
stimolarlo ad elaborare un piano d’azione136.
134 Cfr CAPPELLANI DELLE CARCERI DELLA LOMBARDIA, La missione, 17. Consapevolezza d’essere
coinvolti in un percorso sorretto dall’abbraccio di Dio che mette e rimette in piedi, guarisce, salva e apre
sempre nuovi orizzonti. 135 Cfr Cfr BRUSCO, Relazione, 1052. 136 Cfr Ibidem.
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3.4 Conclusione della RPA
Lo scopo della RPA è di portare la persona ferita a diventare autonoma nella
gestione della propria vita, più forte nell’affrontare il difficile momento della prigionia e
meglio orientata nel processo di crescita umana e spirituale. Quando tale obiettivo è
raggiunto, la RPA può terminare. A volte può accadere che il consigliere pastorale
debba interrompere gli incontri con l’interlocutore perché le situazioni presentate
superano la sua competenza. In questi casi, è importante che il passaggio ad altre figure
(sacerdoti psicologi, esperti vari) venga attuato delicatamente, in modo che la persona
aiutata non si senta rigettata.
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CONCLUSIONE
Ė ben evidente dall’excursus effettuato che la tenerezza è uno dei volti
dell’Incarnazione del Figlio di Dio; i suoi gesti, fino all’estremo della croce, non
rappresentano solo degli aneddoti o dei buoni esempi, ma le manifestazioni storiche
della tenerezza di Dio-Trinità. La Chiesa, sposa di Cristo, e, in Lui, sacramento
universale di salvezza, icona della Trinità, sacramento della koinonia trinitaria, è
chiamata ad essere anche sacramento della tenerezza di Dio-Trinità. La Chiesa realizza
la propria mediazione attraverso la liturgia, la martyria e la diakonia. A quest’ultima
appartiene fin dalle sue origini una pluriforme attenzione alle diverse forme di povertà,
sul modello di Gesù e in obbedienza ai suoi insegnamenti. In questa grande storia di
carità si colloca la pastorale carceraria, che solo recentemente è divenuta oggetto di una
riflessione più consapevole e sistematica, recepita e illuminata dal magistero pontificio
ed episcopale. In questo contesto papa Francesco ha ripetutamente richiamato
l’attenzione sul tema della tenerezza. Lo ha fatto tanto con le sue parole, quanto con
quella che è stata definita l’enciclica dei gesti137. Poiché la pastorale carceraria si
configura essenzialmente come relazione pastorale d’aiuto, abbiamo cercato di vedere
come la tenerezza può connotarne le diverse fasi e aspetti. Il concetto più vicino a quello
di tenerezza è certamente quello di empatia; se è possibile individuare delle sfumature,
la tenerezza sembrerebbe la traduzione verbale e non verbale, anche gestuale,
dell’atteggiamento empatico. Inoltre, se la tenerezza può facilmente ritrovarsi nella
caratteristica materna della fase di accoglienza, essa non è esclusa dalle successiva fasi
137 Cfr FRANCESCO, Meditazione La difficile.
59
paterne del discernimento e dell’azione. Tenerezza sembra essere la concretezza di un
amore autentico, che mette al centro il bene integrale dell’altro, che include sempre il
bisogno di stima e di affetto. Tenerezza suona anche provocazione in qualsiasi contesto
istituzionale, soprattutto se burocratizzato, e tanto più se caratterizzato dalla
coercizione, dalla restrizione della libertà e spesso dalla violenza e dall’abuso, quale
quello carcerario; ma proprio per questo motivo il carcere ne ha maggiormente bisogno.
D’altra parte, immaginare la tenerezza in carcere comporta un immediato superamento
di concezione spontaneiste o sdolcinate, e l’evidente necessità di un’adeguata
formazione e consapevolezza degli operatori pastorali. Il progetto di una pastorale
carceraria della tenerezza può allora diventare un banco di prova per quella opzione
preferenziale per i poveri che la Chiesa da sempre esprime sulle orme del suo Signore.
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