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1 Mentir, contar cosas hermosas y no verdaderas es el auténtico objectivo del arte. Oscar WILDE. La Letteratura produce contraddizioni; è il suo compito, che talora riserva sorprese. Claudio MAGRIS, L’infinito viaggiare , Oscar Mondadori contemporanea, Milano, 2008, p.93. I miei romanzi, senza che io lo voglia, rappresentano una battaglia contro la dittatura del presente, che è frutto del trionfo opprimente del potere straordinario dei mezzi di comunicazione. Javier CERCAS, La Lettura N°250, supplemento culturale del Corriere della Sera dell’11 settembre 2016, intervista, pag. 12. El IMPOSTOR di Javier CERCAS o la crescente contaminazione della letteratura dalla realtà. ///////////////////////////// Per un romanziere scrivere un romanzo consiste nell’esorcizzare i propri demoni personali o storici o culturali, quelle esperienze negative di cui l’autore si libera plasmandole, trasformate attraverso la parola e la forma, in una finzione. Mario VARGAS LLOSA, Garcia Marquez: storia di un deicidio , 1971. Paragrafo . L’Impostore, la tragedia e l’incubo. Dal giugno 2009, data in cui Javier CERCAS conosce Enric Marco, il grande impostore e il gran maledetto, l’ottuagenario barcellonese che per circa trent’anni si era fatto passare per sopravvissuto al campo di concentramento nazista di Flossembürg prima di essere smascherato nel mese di maggio 2005 dal giovane storico di Salamanca Benito BERMEJO, fino all’incontro a Madrid con lo scrittore peruano Mario VARGAS LLOSA e altri comuni amici, nel corso del quale tra le altre cose si parlò del caso Marco, delle sue menzogne, della sua incredibile propensione a falsificare la verità e delle polemiche artificiose sorte all’indomani della pubblicazione dell’articolo di VARGAS LLOSA Espantoso y genial testo apparso sul quotidiano spagnolo El País il 15 maggio 2005 e di quello dello scrittore italiano Claudio MAGRIS, pubblicato sul quotidiano il Corriere della Sera il 21 gennaio 2007 e intitolato Il bugiardo che dice la verità, Javier CERCAS, ossessionato dal fatto di cronaca in sé interessante degno di essere affrontato e raccontato in un romanzo, capì che doveva scrivere su Marco come se intuisse che in quel monstruo de vanidad y de egotismo c’era qualcosa che lo riguardava profondamente. Una sensazione che gli trasmetteva una sorta di apprensione che

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Mentir, contar cosas hermosas y no verdaderas es el auténtico objectivo del arte.

Oscar WILDE.

La Letteratura produce contraddizioni; è il suo compito, che talora riserva sorprese. Claudio MAGRIS, L’infinito viaggiare, Oscar Mondadori contemporanea, Milano, 2008, p.93. I miei romanzi, senza che io lo voglia, rappresentano una battaglia contro la dittatura del presente, che è frutto del trionfo

opprimente del potere straordinario dei mezzi di comunicazione. Javier CERCAS, La Lettura N°250, supplemento culturale del Corriere della Sera dell’11 settembre 2016, intervista, pag. 12.

El IMPOSTOR di Javier CERCAS o la crescente contaminazione della letteratura dalla realtà.

///////////////////////////// Per un romanziere scrivere un romanzo consiste nell’esorcizzare i propri demoni personali o storici o culturali, quelle esperienze negative di cui l’autore si libera plasmandole, trasformate attraverso la parola e la forma, in una finzione.

Mario VARGAS LLOSA, Garcia Marquez: storia di un deicidio, 1971. Paragrafo 1°. L’Impostore, la tragedia e l’incubo. Dal giugno 2009, data in cui Javier CERCAS conosce Enric Marco, il grande impostore e il gran maledetto, l’ottuagenario barcellonese che per circa trent’anni si era fatto passare per sopravvissuto al campo di concentramento nazista di Flossembürg prima di essere smascherato nel mese di maggio 2005 dal

giovane storico di Salamanca Benito BERMEJO, fino all’incontro a Madrid con lo scrittore

peruano Mario VARGAS LLOSA e altri comuni amici, nel corso del quale tra le altre cose si parlò

del caso Marco, delle sue menzogne, della sua incredibile propensione a falsificare la verità e delle

polemiche artificiose sorte all’indomani della pubblicazione dell’articolo di VARGAS LLOSA

Espantoso y genial testo apparso sul quotidiano spagnolo El País il 15 maggio 2005 e di quello

dello scrittore italiano Claudio MAGRIS, pubblicato sul quotidiano il Corriere della Sera il 21

gennaio 2007 e intitolato Il bugiardo che dice la verità, Javier CERCAS, ossessionato dal fatto di

cronaca in sé interessante degno di essere affrontato e raccontato in un romanzo, capì che doveva

scrivere su Marco come se intuisse che in quel monstruo de vanidad y de egotismo c’era qualcosa

che lo riguardava profondamente. Una sensazione che gli trasmetteva una sorta di apprensione che

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lo terrorizzava e che non lo metteva nella condizione ideale per cominciare a scrivere il suo El

Impostor.

Non era a corto di argomenti, non gli mancavano idee sulle quali costruire un nuovo libro, ne aveva

per racconti senza finzione e anche per storie di finzione. La verità è che dopo aver pubblicato il suo

decimo libro intitolato Anatomía de un instante, Cercas si sentiva alquanto giù di morale, non

realizzato. Il racconto rigorosamente reale, privo di fantasia non lo aveva soddisfatto intimamente e

questa sua strana condizione di disagio legata alla continua ripetizione dello slogan la realidad

mata, la ficción salva finiva per provocargli un pesante sentimento di angoscia e frequenti attacchi

di panico che non riusciva a dominare tanto che accettò il consiglio della moglie di rivolgersi subito

ad uno psicanalista, che a conclusione di un nutrito numero di sedute, confermò che il difficile

status psichico che lo scrittore stava attraversando non era dovuto al fatto che il libro appena

pubblicato era un romanzo senza finzione ma alla sua stessa vita che era percepita come banale,

infelice e poco autentica. In una parola, Javier CERCAS si sentì considerato quasi un impostore.

Questa vicenda personale gli fece ricordare Marco e quella cena a Madrid a casa del suo amico

Mario VARGAS LLOSA quando lo scrittore peruano visibilmente agitato gli rivolse con fermezza

queste parole: Marco es un personaje tuyo! Tienes que scribir sobre él! Nel suo articolo su

Marco il Nobel peruano aveva scritto che per far passare una menzogna di quella portata non

bastava essere una persona senza scrupoli, bisognava essere un genio, un fabulator exceptional, un

eximio histrión. Malgrado la sua repulsione morale e politica verso l’illusionista Marco, VARGAS

LLOSA confessava la sua ammirazione di romanziere per la prodigiosa capacità e abilità

fabulatorie di Marco e il suo potere di persuasione, all’altezza dei più grandi visionari della storia

della letteratura.

Sostenitore de la novela sin ficción era convinto che i romanzi sostenessero la verità attraverso una

menzogna, una verità letteraria attraverso una menzogna fattuale, quindi non c’è da restare stupiti

che VARGAS LLOSA giudichi Marco non solo un individuo senza scrupoli ma soprattutto un

geniale affabulatore che è riuscito a ingannare per trent’anni centinaia di persone facendo loro

vivere o rivivere attraverso il racconto menzognero della sua presenza in quei luoghi l’orrore della

deportazione nei lager nazisti. E li ha così ben ingannati da diventare il portavoce delle sofferenze e

delle angherie patite da ex deportati e sopravvissuti ai campi di sterminio, e la menzogna molto

probabilmente sarebbe diventata una verità accettata da tutti se l’ostinato storico Benito Bermejo

non si fosse impegnato con grande determinazione a consultare gli archivi dei campi di sterminio

nazisti del Terzo Reich di Mauthausen e di Flossembürg alla ricerca di fatti, nomi e documenti

oggettivi che confermassero la presenza e l’esperienza

vissuta nei campi di concentramento di Enric MARCO, il

più noto del ristretto numero di spagnoli sopravvissuti

all’orrore a fronte di ben 7000 suoi concittadini morti nei

campi hitleriani. L’impegno di ricostruire la complessa

quanto incoerente vita di Marco caldeggiato anche dal suo

amico e scrittore Ignacio Martínez de Pisón, lusingò

CERCAS ma lo mise anche a disagio. Aveva letto con un

certo imbarazzo anche l’articolo di Silvia BARROSO,

intitolato Mentiras apparso sul quotidiano El Punt che riportava la sorpresa dell’autrice nel leggere

in un romanzo di Cercas la decisione dell’autore di mentire su tutto, soltanto per raccontare

meglio la verità. La Barroso aggiungeva che Cercas aveva l’abitudine di esplorare nei suoi testi i

limiti tra la verità e la menzogna e che, in qualità di romanziere, aveva licenza di mentire, non così

Marco che agli occhi di tutti era un pericoloso imbroglione, uno straordinario impostore che si era

reincarnato nel fantasma da lui fabbricato riuscendo ad ingannare quelli che lo ascoltavano e che

avevano vissuto veramente l’orrore dei campi ai quali erano sopravvissuti per miracolo.

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Se dall’articolo di VARGAS LLOSA traspare un sentimento di attrazione e di apprezzamento per Marco è perché ha operato come un romanziere. Come Marco anche il romanziere è insoddisfatto della propria esistenza, della vita in generale e per questo la ricostruisce con le parole e con l’immaginazione. Non sopporta le vergogne, le profonde delusioni della vita reale e per nasconderle a se stesso e agli altri, per evitare di conoscersi, le trasforma in finzione. La sua personale esperienza è il suo punto di avvio e man mano mescola verità storiche o biografiche e menzogne, ciò che è accaduto con ciò che a lui sembra interessante raccontare. MARCO sa che mentire presuppone il sapere e perciò viaggia molto, si documenta, legge di tutto e soprattutto ascolta le testimonianze di tanti ex detenuti. Ma finisce per identificarsi con il personaggio fittizio e porta al limite estremo la sua sfrontatezza. Il problema era però come raccontare la verità su Marco facendola attraversare dalla finzione.

La verità è che Javier CERCAS non ne può più della realtà. Si sente attratto dal suo personaggio inquietante, seducente e pericoloso che in tutti questi anni non aveva dimenticato, Marco gli è vicino come un demone che causa insicurezze e malessere e alla fine, per liberarsene, capisce che deve raccontare la sua storia, ma è anche fermamente convinto della non separazione della fiction dalla realtà. Essa è sempre contaminata dalla realtà e tutti i libri sono autobiografici non

necessariamente perché lo scrittore narra la sua storia, ma perché rielabora quello che gli è accaduto o non gli è accaduto, le sue fantasie, ossessioni, frustrazioni, sogni. Lo scrittore catalano ha bisogno di finzione e considera ardua quasi impossibile l’impresa di scrivere il suo nuovo libro. CERCAS ammira T.S. ELIOT, poeta, critico e autore drammatico britannico di origine americana che in un verso recita Humankind cannot bear very much reality (la specie umana non può sopportare troppa realtà) perché è brutale, noiosa, insufficiente. Condivide da acceso lettore di Miguel de CERVANTES il suo modo d’intendere il romanzo quale genere della libertà totale e sostiene il bisogno vitale della finzione attraverso romanzi, film, esistenze fittizie. È quello che fanno Don Chisciotte o Madame Bovary e anche Enric MARCO. Sicché, un libro su Marco poteva essere possibile dopo che su di lui era stato realizzato un film dal titolo Ich bin Enric Marco, opera di due giovani registi argentini, Santiago Fillol e Lucas Vermal? Javier è curioso di vederlo e in un incontro con Fillol durante il quale parlano di Marco e di come i due autori-amici avevano costruito il film-documentario, Cercas ribadisce la sua esitazione nel voler scrivere un romanzo sulla vita di Marco dal momento che già era stata ricostruita ma anche la sua voglia di finzione. Il suo interlocutore si stupisce poiché, a suo parere, Marco era la finzione fatta persona e come Don Chisciotte non si era accontentato di vivere una vita ordinaria e mediocre ma aveva voluto viverne un’altra alla grande e quindi era il personaggio ideale per soddisfare il bisogno di fiction. Pur apprezzando il film CERCAS trova però che la pellicola si limitava a confrontare la storia inventata da Marco con quella vera senza rispondere a una serie d’interrogativi su chi fosse veramente Enric MARCO, come era stata la sua vita prima e dopo lo scandalo provocato dalla sua impostura, perché aveva mentito sulla sua permanenza nel campo di Flossembürg ed altre questioni strettamente personali come il rapporto con la moglie e le sue due figlie. È del tutto evidente che Cercas sta anche se lentamente convincendosi della necessità di scrivere il suo libro su Marco o almeno ci avrebbe provato. A tale scopo lo scrittore fissa un incontro con lo stesso Marco a San Cugat, una località vicino a Barcellona, in un superattico nella zona nuova della città, dove viveva solo con la moglie Dani. La prima impressione di Cercas fu negativa nel senso che gli apparve calvo, robusto, con baffi densi e neri, un tipo che non smetteva un attimo di parlare di sé, del film appena realizzato, dei libri e degli articoli di Cercas che aveva puntualmente letto e apprezzato. Ciò che colpisce Javier è lo sguardo dell’ottantenne Marco che esprimeva un’energia feroce e la vitalità giovanile segni caratteriali che accompagnavano spesso i suoi gesti così frenetici e ripetitivi mentre continuava a parlare. Cercas prova un forte senso di fastidio prima fisico poi morale. Si sente così a disagio che, a un certo momento della conversazione-monologo, l’autore ha l’impressione di stare nel posto sbagliato, davanti ad un imbroglione matricolato, a un perfetto commediante, intento ad ascoltare la sua storia forse per settimane al

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fine di scrivere il suo maledetto libro invece di dedicarsi ad altro e alla sua famiglia. A pranzo Marco lo sommerge con una serie inarrestabile di autoincensamenti senza pudore e di giustificazioni tali da restare sbigottiti. Si presentava come una persona generosa e solidale, un tenace combattente per le buone cause, amato e stimato da tutti, circondato da centinaia di amici pronti a fare qualunque cosa per lui. Ripeteva che non aveva mai cercato di essere protagonista, non ne aveva bisogno, e che non era una persona egocentrica. Erano stati gli altri che lo avevano spinto al protagonismo perché lo ritenevano capace di parlare in pubblico, di ben argomentare le sue riflessioni e di convincere tutti quelli che lo ascoltavano. Amava essere umile e modesto senza pretese e cercava di evitare con ogni mezzo che lo portassero sugli scudi. Gli alunni e i professori delle scuole in cui si recava periodicamente per tenere conferenze in prevalenza a carattere storico lo consideravano un eroe ma lui teneva a rimarcare che l’unica cosa che aveva fatto durante tutta la sua vita era stata di lottare con tutte le sue forze per la pace, la solidarietà, per la libertà e per la giustizia, per la difesa dei diritti umani e per la diffusione della cultura e della memoria storica. Riconosceva, dopo lo scandalo, di aver affermato di essere stato prigioniero in un campo di concentramento nazista mentre in realtà non ci aveva mai messo piede, ma non poteva accettare di essere stato umiliato e di essere vittima di una feroce campagna di linciaggio mediatica a danno anche della sfera familiare. Non accettava di essere considerato un impostore e nemmeno un uomo che aveva tradito la memoria di quanti morirono nei lager nazisti e, se aveva modificato la realtà, lo aveva fatto con leggerezza, sì, ma per una buona causa, per essere più convincente e più efficace nelle sue campagne contro i totalitarismi, e per far prendere coscienza dei crimini del nazismo, delle sofferenze e del coraggio dei deportati. I suoi sforzi e la sua viva passione gli erano riconosciuti anche dalla studiosa e storica Rosa TORAN, vicepresidente dell’Amical de Mauthausen, l’associazione per la memoria delle vittime del nazismo, di cui Enric MARCO è stato per ben tre anni Presidente. Pur confessando di aver mentito, Enric MARCO non si pentiva di essersi comportato da falsificatore e continuava a ripetere che tutto ciò che raccontava nelle scuole e nei convegni cui partecipava era vero e documentato. Semplicemente aveva alterato un po’ i fatti e aveva cambiato lo scenario. Si sentiva una vittima dei nazisti, era stato arrestato dalla Gestapo e aveva conosciuto le prigioni naziste e non i campi di concentramento. E se aveva detto delle cose non esatte modificando un po’ la verità lo aveva fatto non per vanità ma per altruismo al fine di educare le nuove generazioni nel ricordo delle atrocità e degli orrori perpetrati a danno di tanti giovani, donne, vecchi e bambini innocenti e indifesi costretti a subire atroci sofferenze, privazioni e umiliazioni di ogni genere. Ciò che per MARCO contava era che le sue bugie contribuissero a diffondere la verità sui Lager recuperando la memoria storica del suo paese che soffriva di amnesia. Per tutto il periodo in cui diresse l’associazione dell’Amical si era impegnato alacremente e con fervore per dar voce a coloro che non avevano voce, agli ultimi testimoni spagnoli e non solo delle barbarie naziste perché le loro sofferenze non fossero dimenticate e si desse risalto al loro coraggio e al loro spirito di sopportazione e di fiducia. I suoi racconti così ben descritti e documentati avevano avuto il grande merito di aver risvegliato nei giovani l’amore per la storia, quella concreta, viva, dolorosa e ne era fiero perché riusciva a trasmetterla rivivendola con tutta la sua vivacità, il suo sentimento, la sua emozione facendo così acquisire ai tanti giovani che affollavano i suoi interventi e comizi conoscenza e coscienza del passato. Non riusciva a capacitarsi perché tanto accanimento sulla sua persona avendo sempre lottato per i diritti dei lavoratori, sostenuto l’istruzione pubblica e la libertà della Spagna, sopportando le torture durante gli anni bui del franchismo. E soprattutto non accettava di essere considerato un criminale, non aveva commesso alcun delitto per il quale chiedere la riabilitazione. Non pretendeva la riconoscenza generale che gli avevano tolto. Enric MARCO esigeva il rispetto in particolare per sua moglie e le due figlie. E, a conclusione del loro primo

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incontro, sottolineava che aveva accettato di parlare di sé e della sua vicenda solo per poter dare la sua versione della verità ed era contento di poterlo fare grazie a Javier CERCAS che considerava un grande scrittore. A dir il vero quello non fu un incontro decisivo, anzi rafforzò l’esitazione e lo stato d’animo di perplessità dello scrittore iberico che capì di essersi imbattuto in un vero mascalzone senza scrupoli che voleva servirsi del suo prestigio di letterato conosciuto e stimato per far passare le sue menzogne per verità. Per questo scrivere un romanzo sulla storia immorale di Marco gli sembrò un’impresa assolutamente impraticabile anche perché raccontarla significava riportare alla ribalta e riproporre la vita di un uomo, un falsario, protagonista di un caso eclatante di menzogna che aveva scosso violentemente l’opinione pubblica spagnola e amareggiato gli ex deportati sopravvissuti alle atrocità dei campi di sterminio nazisti. Lo scrittore catalano considerava il suo progetto temerario e pericoloso perché, a differenza del giornalismo la cui indagine è di natura fattuale e concreta, la verità del romanzo è letteraria, morale, astratta, universale. Rientra tra le finalità precipue della Letteratura quella di capire ciò che accade a tutti gli uomini in qualunque circostanza e in qualunque luogo e di chiedersi il perché si verificano simili fatti. Il suo Anatomía de un instante (2009), per esempio, aveva voluto raccontare cose importanti sulla Transición spagnola prescindendo dalla fiction per ricostruire a modo di una cronaca storica il fallito golpe di Stato a Madrid del 23 febbraio 1981, ma era mancata la verità letteraria. A tale riguardo Javier CERCAS non può non ricordare la lettera al direttore de El País di Teresa SALA, figlia di un ex deportato a Mauthausen che, dopo lo scandalo, indignata e piuttosto imbarazzata sosteneva che non fosse necessario capire i motivi dell’impostura di Enric MARCO. Cercare giustificazioni per il suo comportamento significava disprezzare l’eredità dei deportati e le parole che Primo LEVI pronunciò riferendosi alla sua esperienza ad Auschwitz: Tal vez lo que occorrió no deba ser comprendito, en la medida que

comprender es casi justificar (tutto ciò che era accaduto in quel campo non doveva essere capito nella misura in cui capire significa giustificare). Era questo che rendeva esitante il nostro autore, il rischio cioè che il racconto sulla vita di Marco potesse contribuire ad assolverlo. CERCAS pensava che compito dell’arte e della Letteratura fosse di esplorare ciò che siamo rivelando la nostra infinita, ambigua e contraddittoria varietà e non pronunciare sentenze di colpevolezza né giudizi assolutori. Per conoscere l’avventurosa vita di Marco il lettore poteva leggere un qualsiasi reportage giornalistico, un testo letterario ambisce, invece, a entrare nei labirinti morali, nei meandri più reconditi dell’animo umano per cercare di capire ogni più piccola emozione o contraddizione.

Tuttavia agli inizi del 2013 qualcosa cambiò nell’autore catalano. CERCAS aveva pubblicato nel 2012 un romanzo di finzione Las leyes de la frontera, aveva ripreso a viaggiare per la Spagna e per gli Stati Uniti, aveva risolto il suo disagio psichico che tanto lo aveva angustiato e anche in famiglia era ritornata la serenità, amava dialogare di macchine e di musica con il figlio Raül ormai diciottenne. Ma il

suo ricorrente pensiero restava sempre la possibilità di scrivere il suo El Impostor e si chiedeva con insistenza se valesse la pena occuparsi ancora di un individuo come Marco, cercare di capire la sua strana condotta, se fosse utile indugiare su di un individuo che poteva prendersi gioco di lui dopo che si era preso gioco delle vittime del peggior crimine dell’umanità. Era vero che considerava il progetto su Marco interessante e affascinante trovandosi in perfetta sintonia con suo figlio che di Marco diceva: es el puto amo (questo è un buon tema) degno di essere trattato in un libro, ma continuava a credere che così facendo avrebbe dato a Marco la possibilità di riscattarsi e questo non poteva permetterselo in nessun modo perché si trovava di fronte a un individuo-mostro di un’immoralità o di un’amoralità assolute. Ricordava sempre le parole risentite e severe di Teresa SALA e soprattutto quelle equivalenti di Primo LEVI che gli ponevano un freno fino a quando CERCAS non trovò la soluzione alle sue paure in un libro di Tzvetan TODOROV dal titolo Memoria del mal, tentación del bien (2002) in cui l’autore affermò che ciò che Primo LEVI voleva dire in quella celebre frase era valido soltanto per lui stesso e per gli altri sopravvissuti ai Lager nazisti: essi non dovevano cercare di capire i propri aguzzini perché per Todorov la comprensione li avrebbe in qualche modo contaminati, ma per gli altri che non possono evitare di comprendere il male, soprattutto quello estremo, perché, concludeva lo scrittore bulgaro, comprender el mal no significa justificarlo, sino darse los medios

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par impedir su regreso. Il critico naturalizzato francese ritorna sullo stesso tema all’interno dell’articolo Comprender el mal in cui mostra come avvicinarsi e trattare casi peggiori di quello di Enric MARCO. Egli sostiene che per giudicare e riprovare gli individui, l’empatia non è indispensabile e a volte risulta persino fastidiosa, ma non possiamo prescindere da essa se l’obiettivo dell’indagine è comprendere le ragioni oscure delle nostre azioni per quanto odiose esse siano. Javier CERCAS che riprende il pensiero di Todorov arriva a provare simpatia per il señor Marco studiato sempre attraverso i fatti che attraversano la confusa esistenza del suo personaggio. Confortato dalle parole dello storico e saggista sulle finalità della Letteratura, Javier CERCAS ora si sente abbastanza forte e animoso per raccontare la straordinaria vita di Enric MARCO. Si rende conto finalmente che proporre la cronaca della menzogna di Marco come una storia vera era possibile e che bisognava mettersi subito all’opera accettando anche l’idea di Raül di filmare ogni incontro del padre con Marco. Al telefono CERCAS fissa un appuntamento e spiega a Marco di voler scrivere un racconto assolutamente reale, una novela sin ficción (un romanzo senza finzione), che non tenderà a riabilitarlo né a condannarlo ma che cercherà di tracciare un ritratto biografico attraverso documenti, lettere, foto, scritti e testimonianze di persone o amici che l’avevano conosciuto al fine di ricostruire un’esistenza particolarmente intensa caratterizzata da cruciali e drammatici avvenimenti storici che sconvolsero l’umanità intera nel XX° secolo. Lo scrittore iberico capì allora il vero senso delle parole che l’amico Mario VARGAS LLOSA cenando gli aveva rivolto in modo brusco quanto diretto e concordò con quanto detto dal figlio circa la bontà del tema su Marco, no se puede ser tan mentiroso sin ser interesante. Il primo incontro avviene nello studio di Cercas nel quartiere di Gracia. Dopo una prima mezz’ora in cui Marco si lamenta e si autoincensa l’intervista inizia a ripercorrere le fasi sanguinose dei primi giorni della guerra civile culminati domenica 19 luglio 1936 con il rifiuto del presidente autonomo catalano di consegnare le armi al popolo. Ciò aveva indotto il CNT, il sindacato anarchico e maggioritario nella città di Barcellona, ad armare i suoi militanti per combattere in ogni angolo della città. Nel volgere di poco tempo la situazione era precipitata, morti dappertutto e incendi delle chiese e dei conventi. Il quindicenne Marco era a Barcellona ospite di suo zio Francesco e di sua zia Caterina. Ricorda che la confusione era quasi totale, si parlava della sollevazione dell’esercito e dei combattimenti che si stavano intensificando. Marco, che apparteneva alla CNT, ricevette l’ordine di recarsi nel centro della città allo scopo di frenare la ribellione per dimostrare ai militari che il popolo era contrario alla sollevazione. Recatosi davanti alla caserma di San Andreu ricorda che al suo interno trovò pochi soldati ubriachi e impauriti che si arresero senza opporre resistenza. Di ciò che successe dopo Marco non ricorda quasi nulla tranne che tre settimane dopo partecipò con suo zio Anastasio alla conquista di Maiorca. Aveva appena quindici anni quando il giovane e idealista Marco seguì lo zio Anastasio per dare il suo contributo alla liberazione dell’arcipelago delle Baleari caduto nelle mani dei fascisti. Di fronte al disordine assoluto ricorda di aver provato una certa inquietudine che diventò delusione quando incontrò persone che non mostravano alcun entusiasmo per la libertà conquistata. Del viaggio di ritorno Marco ricorda che non sbarcò a Barcellona ma a Valencia e che arrivò a Barcellona in treno da cui ripartirono per arruolarsi come volontari nella cosiddetta Colonna Rossa e Nera, un’unità di miliziani anarchici reduci dalla spedizione a Maiorca, per poi raggiungere il fronte di Huesca. Fu lì che Marco vide morire per la prima volta un uomo e fu spettatore muto di altre orribili scene di guerra. Lì lo zio Anastasio fu ferito leggermente e, a causa della ferita, si convinse a congedarsi volontariamente. Anche Marco prese la stessa decisione e, tornato a Barcellona, cominciò a lavorare come meccanico nella fabbrica Ford. Mantenne la sua iscrizione alla CNT e un incarico sindacale alla difesa civile. Allo zio Anastasio, tornato ferito da Huesca, fu concesso il portierato di un palazzo e lì il vecchio e malandato anarchico morì nel 1938. Marco dice che non partecipò ai funerali perché era di nuovo al fronte. Intanto la voglia di ricostruire la vera vita di Enric MARCO, incontro dopo incontro passando dallo studio di Cercas a casa di Marco, finì per trasformarsi in un’ossessione. Tutto ciò che lo scrittore faceva: parlare, leggere, incontrare vicini e parenti di Marco, lo rimandava a lui fino a sognarlo spesso e nel sogno si difendeva dall’accusa mossagli da Marco stesso di essere un bugiardo e un commediante, di essere molto

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peggio di lui. Fin dalle prime interviste l’autore capì quanto fosse ardua l’impresa poiché richiedeva da parte sua un impegno continuo e una preparazione completa, ragion per cui incominciò a leggere articoli, reportage su Marco e a recuperare documenti sulla sua vita in Spagna e in Germania. Riascoltò le molte interviste radiofoniche e televisive e si dedicò alla lettura di libri di psicologia, di filosofia, di sociologia e soprattutto di Storia, interpellando storici esperti della Guerra Civile, dell’anarchismo e della Germania nazista. Prese contatti con tutti quelli che avevano conosciuto Marco cinquant’anni prima, con i responsabili e i membri della CNT, della FAPAC e dell’Amical de Mauthausen. Javier CERCAS normalmente svolgeva da solo queste ricerche ma a volte si faceva aiutare da suo figlio, da sua moglie e anche da sua sorella Blanca. La prima persona con cui CERCAS si mette in contatto non poteva che essere Benito BERMEJO Sánchez,

lo storico che aveva smascherato Enric MARCO e svelato la sua impostura 1. Nel corso di un incontro a

Madrid, il giovane e determinato ricercatore confidò a Cercas due notizie importanti. Era certo che contrariamente a quanto si pensava Marco non aveva avuto due mogli: la donna che ora stava con lui, Danielle Olivera, trent’anni più giovane e Maria BELVER, la precedente con la quale aveva vissuto per vent’anni, ma tre. Gli raccontò di averlo appreso consultando l’archivio di Alacalà de Henares, aveva letto del suo matrimonio con una certa Ana Beltrán Ribes nella lista facente parte della documentazione relativa

ai lavoratori spagnoli volontari che negli anni Quaranta il Generalísimo Francisco FRANCO aveva mandato in Germania. Incuriosito aveva trovato nell’elenco telefonico di Barcellona una Ana María Beltrán che presumibilmente era la figlia di Marco. Raggiunta per telefono, la ragazza confermò che sua madre ed Enric MARCO si erano sposati negli anni Quaranta ma che per lei il caso era definitivamente chiuso. Il giorno seguente Benito BERMEJO ricevette una telefonata da un uomo che diceva di essere il nipote di Marco e che voleva capire perché il nonno avesse tenuto nascosta la sua prima famiglia. Bermejo aveva fatto anche delle ricerche sul ruolo di Marco nella CNT, il sindacato anarchico di cui, negli anni Settanta, durante il passaggio dalla dittatura alla democrazia era stato segretario generale e nella FAPAC. Aveva già raccolto alcune testimonianze di anarchici che avevano messo in dubbio la militanza clandestina di Marco durante la dittatura e il suo lavoro come dirigente del sindacato libertario e dichiaravano che Marco percepiva lo stesso tipo di pensione che percepiscono i funzionari o i militari che avevano fatto la guerra. Siccome lo storico di Salamanca dubitava che Marco avesse fatto la guerra perché l’ultima leva della Seconda Repubblica (la cosiddetta Classe del biberon) era stata quella del 1920 e Marco era nato nel 1921, alla fine si convinse che Marco percepisse la pensione non per aver partecipato alla guerra né perché fosse un funzionario ma perché forse era un poliziotto-informatore, deduzione confermata da molti suoi vecchi compagni. Benito BERMEJO ribadiva che la sua era una semplice congettura di cui però si parlava frequentemente. ________________________________________________ 1. Lo storico Benito BERMEJO, da sempre impegnato a studiare e a ricercare con paziente e minuzioso lavoro dati,

documenti e liste di deportati spagnoli nei campi di concentramento tedeschi, si era interessato alla figura di Enric

MARCO dopo averlo ascoltato ad una conferenza nel 2002. Aveva letto alcuni suoi scritti e interviste sul periodo

storico che lo riguardava in cui diceva di essersi trovato rinchiuso nel campo di sterminio di Flossembürg, in Baviera.

Al giovane ricercatore la ricostruzione di Marco parve subito intrigante ed anche abbastanza strana. Aveva notato che i

discorsi e le argomentazioni di Marco erano zeppi di dettagli truculenti e le testimonianze erano piene d’imprecisioni o

di nonsense storici, ma soprattutto non riusciva a spiegarsi perché Marco parlasse con troppa sufficienza delle

sofferenze altrui. Bermejo che conosceva per esperienza diretta la reticenza dolorosa, il disagio degli ex deportati

interrogati, trovò molto strano e di cattivo gusto che il nostro uomo raccontasse con eccessiva facilità gli orrori subiti

dai sopravvissuti spagnoli e che fosse ritornato umanamente indenne dall’inferno dei Lager.

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Se da un lato la conversazione con Bermejo permise allo scrittore iberico di conoscere altri aspetti della vita di Marco, dall’altro provocò in Cercas il ritorno allo stato d’animo d’angoscia e d’inquietudine di un tempo. La possibilità che Marco fosse stato un infiltrato della polizia, un confidente, una sorta di mouchard, cosa che poteva essere non inverosimile, gli risvegliò le antiche paure sull’opportunità di scrivere il suo libro. Si chiese se era moralmente giusto che la moglie e le due figlie apprendessero dal suo racconto fatti e comportamenti riprovevoli del marito e padre. Paragrafo 2. Enrique MARCOS, il suo ruolo revoltoso nella CNT e poi nella FAPAC. L’attività pubblica di Marco era cominciata nella fase storica detta della Transición quando si faceva chiamare Enrique MARCOS. Con questo nome militò in un preciso momento nella CNT (Confederación Nacional del

Trabajo) e arrivò a essere Segretario Generale della Federazione catalana nel 1977 e Segretario Generale della Confederazione dall’aprile del 1978 fino al V Congresso nel dicembre del 1979. La CNT ha avuto durante la Guerra Civile spagnola un’enorme importanza politica e, alla morte di Francisco FRANCO, ci si aspettava una sua rinascita. La morte di FRANCO (1975) trovò l’anarchismo spagnolo diviso in due blocchi, uno maggioritario formato da vecchi anarchici che durante la guerra erano in esilio (anarcosindacalisti) e l’altro formato da individui più giovani, molto attivi con una visione più realistica che erano rimasti all’interno del paese e si ritenevano eredi dello spirito libertario del maggio ’68, i cosiddetti contro culturali. Va da sé che la convivenza tra i due gruppi si presentava assai difficile. Un abisso ideologico e culturale li divideva. Due modelli molto diversi anche sul modo d’intendere il ruolo e la funzione del sindacato, due modi contrastanti d’intendere la finalità ultima del movimento sindacale. In questa realtà verso il 1977 e 1978 s’inserisce Marco che viene considerato dai militanti del CNT la persona giusta per risolvere le contraddizioni e far convivere pacificamente le due realtà discordanti e contrarie. Aveva l’età giusta (52 anni, un aspetto giovanile, era energico e simpatico), conosceva il paese e i problemi occupazionali del dopoguerra, aveva fatto la resistenza. C’era nel movimento chi diffidava di lui, del suo egocentrismo e dell’eccessivo protagonismo, ma ciò non gli impedì di essere proclamato nell’aprile del 1978 Segretario Generale della CNT, in Spagna. La ricostruzione del sindacato non fu per niente facile per Marco. Il momento non era propizio, risentiva del caos e dell’incertezza che la Spagna postfranchista stava vivendo. Si trattava di colmare un vuoto di quarant’anni in cui la CNT era stata aggiogata e annullata. Nella doppia ingarbugliata situazione della transizione politico-sociale affidata ad Adolfo Suárez e della ricostruzione della CNT, un tipo assai dinamico nel suscitare attenzione e interesse sui problemi del lavoro come Marco poteva essere la persona ideale a portare la CNT a primo sindacato del paese e a far convivere le due diverse fazioni sulle prime inconciliabili. Marco non mancò di approfittare di questo generale caos per pensare a se stesso. Difatti il 2 luglio 1977, giorno della prima grande manifestazione della CNT nel parco di Montjuich a Barcellona, il protagonismo di Marco toccò l’apice: faceva tutto lui, conduceva il meeting, pronunciava discorsi, lanciava slogan, presentava i diversi oratori, sul palco c’era soprattutto lui in preda a una frenesia invincibile. Il suo discorso sembrò molto chiaro, diretto, aderente alla realtà e incontrò le simpatie di tanti partecipanti tanto che, meno di un anno più tardi (metà aprile 1978) è a capo della segreteria generale della CNT di tutta la Spagna. Il suo successo poggiava sul fatto che nella direzione del sindacato non si presentava come un ideologo o un intellettuale, ma come un uomo d’azione, ascoltava tutti in maniera prudente e alla fine si schierava dalla parte della posizione vincente. Non interveniva quasi mai nei dibattiti ma svolgeva un ruolo arbitrale che gli consentiva di trovare una soluzione adeguata a ogni controversia. Nel frattempo continuava a lavorare nella sua autofficina e a studiare all’Università. In poco tempo era diventato una persona arcinota e compariva in tutte le foto, sui giornali, ripreso mentre parlava in

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strada con la gente ammirata per il suo passato(fittizio). Insomma Enrique MARCOS era quello che aveva sognato di essere: un leader ascoltato, ammirato, amato, soddisfatto per aver promosso una significativa crescita del numero degli iscritti al sindacato tanto che da far dire al segretario generale uscente Juan Gómez

CASAS che Marco era l’uomo di cui l’organizzazione aveva bisogno. Ma l’autodistruzione della CNT era dietro l’angolo. Essa iniziò quando, su pressione dei giovani anarcosindacalisti, Marco sostenne la proposta di tenere un congresso per ripensare la struttura interna dell’organizzazione e rivedere molte sue impostazioni adattandole ai nuovi tempi. Tra i punti all’odg. fu inclusa la revisione del ruolo svolto dai dirigenti che erano stati in esilio durante la dittatura franchista. E fu un errore perché quest’ultima questione suscitò aspre polemiche, scatenate definitivamente dal caso SCALA quando, sul finire di una riuscita manifestazione di protesta (15 gennaio 1978) contro un accordo promosso dal governo Suárez e firmato dai principali partiti politici, dai sindacati e dalle associazioni imprenditoriali al fine di pacificare il processo di transizione, nella sala da ballo SCALA esplosero quattro bottiglie molotov che causarono la morte di quattro lavoratori. I sospetti caddero sul sindacato e anche su infiltrati della polizia che al soldo del governo cercavano di screditare l’unica organizzazione sindacale che si opponesse alla transizione politica. Nel dicembre 1980 un tribunale condannò sei persone iscritte al CNT per l’attentato alla SCALA e due anni dopo un confidente della polizia. Alcune frange del sindacato colsero la palla al balzo per modificare la tendenza realistica e possibilista e ritornare alla tradizionale tendenza alla violenza della CNT. Marco e i suoi sostenitori furono allontanati dalla direzione del sindacato e quella decisione segnò la fine della CNT. Molti simpatizzanti dell’anarchismo presero le distanze, la moda libertaria si indebolì e le forze governative strumentalizzarono l’accaduto associando la CNT al radicalismo insensato e al terrorismo. Il sindacato anarchico si divise nuovamente e Marco tentò di ricucire le due correnti proponendo una sorta di terza via, ma in una manifestazione a Barcellona (28 settembre 1979), la polizia lo fermò e lo malmenò. Ritornò in libertà quella stessa notte e si fece scattare diverse fotografie poi apparse sui giornali in cui si notavano enormi ematomi sulla schiena e sui fianchi prodotti dai manganelli e dal calcio dei fucili dei poliziotti. Foto che presentavano il nostro uomo coraggioso e vittima di quello che restava del franchismo. A dicembre 1979 Marco si presentò al nuovo congresso ma non ottenne i voti necessari per essere rieletto. Stravinsero i vecchi puristi dell’esilio che non si erano mai fidati di lui e qualcuno lo ritenne anche responsabile della strage alla SCALA. Anzi fu apertamente accusato di essere un traditore, un infiltrato e un collaborazionista e lì finì la sua carriera di sindacalista. Marco riprese a studiare, si laureò in Storia e continuò a lavorare nella sua autofficina ma ancora per poco perché nel 1986 raggiunse l’età della pensione. Enric MARCO non era un tipo da starsene tranquillo. Non si scoraggiò per come fu espulso dalla CNT e non pose fine alle sue ambizioni in seno al sindacato poiché divenne poco dopo Dirigente della FAPAC (Federación

de Asociaciones de Padres de Alumnos de Cataluña) un’organizzazione di genitori di sinistra che riuniva le scuole pubbliche della Catalogna. Era un momento di grande confusione sociale, la gente era delusa dalle scelte governative e preferiva rifugiarsi nella militanza civica delle associazioni. A quell’epoca (1987) una proposta di legge generale sull’istruzione, la cosiddetta LOGSE, era osteggiata perché si pensava che favorisse la scuola privata a scapito di quella pubblica. Proteste e manifestazioni provocarono le dimissioni della direzione della FAPAC. Marco aveva preso parte alle assemblee come rappresentante dell’istituto che frequentava sua figlia Elisabeth e sebbene non fosse comunista poiché la sua candidatura era stata sostenuta dai leader della rivolta contro la vecchia dirigenza, finì per far parte del nuovo direttivo comunista. Il suo impegno fu costante, serio e prezioso tanto da essere eletto vicepresidente e delegato dell’organizzazione a Barcellona. Pur non essendo presidente Marco si comportava come se lo fosse, dedicava tutto il suo tempo all’organizzazione, gestiva gli affari quotidiani della FAPAC senza pretendere denaro o altro. In sostanza era lui la FAPAC e grazie al dono di seduzione che tutti quelli che lo ascoltavano gli riconoscevano si presentava come un eroe. Andava d’accordo con le personalità politiche e sociali più influenti. Molti lo apprezzavano ma altri che lavoravano all’interno dell’associazione, quando esplose lo scandalo, dicevano di aver già intuito chi realmente fosse Marco e cioè un commediante, un mostro di vanità che ingannava tutti con

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le parole. Alcuni ricordavano che nei cortei di protesta si metteva sempre in prima fila e a sosteneva i cartelloni unicamente per farsi riprendere dai fotografi e dalle telecamere. Il suo tallone di Achille era la vanità, ma veniva apprezzato per la sua vitalità, la sua abilità nel dire sempre ciò che la gente voleva sentire da lui, il suo continuo impegno. Paragrafo 3. La (finta) partecipazione di Enric MARCO alla Guerra Civile (1936-1939). Negli altri incontri Marco continua a raccontare le sue vicissitudini e dice di essersi di nuovo arruolato nell’esercito repubblicano (primavera del 1938) in seguito allo sfondamento ad opera dei franchisti del fronte di Aragona. La Catalogna era chiaramente minacciata e Marco si spostò al fronte del fiume Segre, scenario di aspri combattimenti. Faceva parte della 121° Brigata della 26° Divisione, ex Colonna Durruti e la sua unità si dispose sulla Sierra del Montsec. Lui, il più giovane tra i suoi compagni, provvedeva a scrivere lettere ai loro familiari, amici e fidanzate e a faceva cose alquanto strane quali per esempio spingersi nella terra di nessuno urlando o facendo domande ai fascisti. Divenne per molti un idolo molto amato e ammirato per il suo coraggio. Sul fronte del Segre conobbe Quico Sabaté, leggendario guerrigliere anarchico che, dopo aver combattuto contro la dittatura, trovò la morte vicino alla frontiera francese. Marco riferisce ancora di aver frequentato la scuola di guerra, appreso l’alfabeto morse e, finito l’addestramento, di aver ricevuto il grado di caporale. Un giorno arrivò alle trincee una circolare della CNT in cui si leggeva della vittoria del franchismo nella guerra spagnola e si consigliava ai militanti del sindacato di passare in clandestinità per organizzare la resistenza. Nel frattempo per il coraggio dimostrato sul campo, era stato promosso sergente. Ricorda ancora che si trovò nel bel mezzo di un bombardamento nemico e che lo scoppio di un obice gli fece perdere i sensi ferendolo. L’esplosione non gli procurò alcuna cicatrice sul corpo ma fu costretto a un lungo recupero in strutture di pronto soccorso. Non ricorda quasi nulla del periodo che lo vide convalescente. Arrivò poi a Barcellona prima che la città fosse occupata dai franchisti e che lì restò per seguire le istruzioni del sindacato invece di scegliere l’esilio come fecero tanti suoi compagni perché non si era del tutto rimesso dalle ferite . Fu poi accolto dagli zii Anastasio e Ramona e per molto tempo rimase nascosto nella loro casa. Le vicissitudini belliche di Marco così com’erano state raccontate apparivano alquanto intricate, a volte confuse inducendo molti come Benito BERMEJO a pensare che probabilmente Enric MARCO non aveva fatto la guerra. Nessuno aveva trovato un solo documento che certificasse la partecipazione di Marco alla guerra. E lo stesso Marco si era prodigato alla fine degli anni ’70 a cercare invano il suo foglio di servizio militare. Il nome di Marco non figurava in nessuno degli archivi consultati dallo scrittore . Ci si rese conto però che l’assenza di un pur piccolo documento non dimostrava nulla come pure il fatto che Marco avesse una pensione come ex sottufficiale repubblicano e che si fosse inventato la sua permanenza a Flossembürg. Era noto che alla fine della dittatura le nuove autorità democratiche avevano concesso benefici economici senza fare verifiche e persino senza vagliare la documentazione necessaria, bastavano le testimonianze di compagni d’armi e di ufficiali dell’esercito sconfitto che più di una volta erano alterate se non falsificate. La congettura di Bermejo a questo riguardo sembrava se non sbagliata almeno molto fragile. Comunque erano in molti a pensare che l’avventura di guerra e la permanenza a Flossembürg di Marco fossero il frutto d’invenzione e dovevano servire a presentarlo come un eroe. Anche Juan Gómez CASAS in un suo libro sul sindacato CNT aveva messo in dubbio il curriculum da militante anarchico di Marco durante la dittatura e denunciava che per la sua giovane età Marco non aveva potuto partecipare alla guerra. L’argomentazione poteva, però, essere confutata poiché era comunque possibile che Marco si fosse arruolato come volontario anche se per farlo avrebbe dovuto mentire sulla sua età (i volontari dovevano essere maggiorenni e Marco ne aveva diciassette).

Javier CERCAS si rendeva conto di quanto fosse difficile se non impossibile risolvere le questioni in esame. Mancavano i documenti giustificativi e anche i testimoni, perciò l’unico terreno praticabile era quello delle ipotesi. E anche quando l’autore riesce a rintracciare e a parlare con Enric Casañas, il grande amico di Marco militante anarchico che era ancora in vita, conosciuto durante

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l’assedio alla caserma di Sant Andreu, non apprende nulla di nuovo perché Casañas aveva perso la memoria. La verità era che nessuno aveva mai sentito Casañas parlare di Marco così come Casañas non era presente nei racconti di guerra di Marco. Molto probabilmente Marco si era appropriato del passato altrui e tutto ciò induceva chiunque a dubitare anche della sua presenza durante la guerra a Maiorca e a Huesca. L’autore iberico non riuscì a documentare questo fatto anche perché i ricordi di Marco, riferiti a quell’epoca, erano vaghi, confusi e generici e d’altra parte i membri dell’Estel Negre, l’ateneo libertario di Maiorca, sostenevano dopo aver ascoltato Marco in una conferenza del febbraio 2004 sull’esperienza dello sbarco sull’isola, che nell’agosto del 1936 Marco non avesse messo piede a Maiorca perché non raccontò quasi nulla di concreto su ciò che era accaduto. Anche gli storici più noti sostennero questa imbarazzante ipotesi e si convinsero che Marco non aveva vissuto gli avvenimenti di cui parlava. Di riflesso Javier CERCAS che stava conoscendo meglio Marco nonché le sue finzioni cominciò a dubitare persino dell’amicizia con il leggendario Quico Sabaté riferita con tono retorico e sentimentale, nella lettera che Marco indirizzò al direttore de El País (gennaio 2000) nella quale esaltava la figura dell’indomabile anarchico mentre in realtà stava magnificando se stesso per motivi etico-politici. E che dire dell’episodio della ferita di Marco al fronte che lo costrinse a mesi di convalescenza passando per diversi ospedali? Sulla base del vago racconto di Marco, CERCAS non può che considerarlo inverosimile. In nessuna delle due biografie (quelle del 1978 e del 2002) l’episodio è menzionato, eppure era molto importante per ometterlo. Era molto strano comunque che una ferita di obice non lasciasse alcuna cicatrice sul corpo di Marco. Dopo aver parlato con alcuni medici CERCAS si convince che, trattandosi dell’esplosione di un organo interno, per non morire di emorragia, il paziente Marco avrebbe dovuto sottoporsi a operazione cosa che secondo lo stesso Marco non era accaduto. Esponendogli un giorno nel suo salotto di casa le sue perplessità, Marco messo alle strette, finì per riconoscere che non era mai andato con suo zio Anastasio a Maiorca e che per un certo periodo era rimasto a Barcellona per passare inosservato e per non subire rappresaglie. Contrariamente all’idea che la vita di Marco fosse tutta una menzogna, accadde un fatto che lo fece ricredere. Lo scrittore catalano lesse un breve articolo pubblicato sul giornale La Vanguardia del 29 settembre 1938 in cui, a chiusura del corso della Scuola di formazione per caporali della 121° Brigata, era citato al primo posto della graduatoria il nome di Enrique MARCO BATLLE. Era quindi vero che il suo personaggio aveva fatto la guerra nell’esercito repubblicano non col grado di tenente ma con quello di sergente, dimostrando così che anche se non era stato in un campo nazista, era tuttavia stato un intrepido combattente antifascista. Proseguendo nel suo racconto Marco dice che di ritorno a Barcellona dal fronte del Segre (inverno 1939) trovò riparo nella portineria concessa allo zio Anastasio come ricompensa per la sua invalidità di guerra. Vi restò per un po’ di tempo nascosto perché non voleva accettare le autorità franchiste e temeva per la sua incolumità. Dalla portineria della zia Ramona Marco guardava la realtà esterna, spiava le sfilate militari, le processioni religiose, il continuo andare e venire della gente affamata, umiliata, un popolo servile composto da collaborazionisti, delinquenti, corrotti, un popolo che viveva da esiliato nella propria città. Per lui, ragazzo idealista e ribelle che aveva vissuto la rivoluzione libertaria, vivere in quella realtà era vergognoso e indegno. Quando uscì dalla casa, per nascondere le sue attività clandestine trovò un lavoro nell’autofficina di Felip HOMS, un vecchio repubblicano che aveva bisogno di un apprendista. Iniziò così la sua vita normale. Ma a causa del suo carattere impulsivo e spesso temerario, incapace di sopportare l’arroganza dei vincitori, Marco è arrestato per la prima volta perché sprovvisto di documenti, poi, fu perquisita l’officina senza che trovassero nulla di sovversivo e di compromettente. Ciononostante le autorità chiusero l’officina e portarono via in stato di arresto anche il proprietario HOMS. Marco cominciò ad aver paura perché qualche settimana prima un gruppo di falangisti aveva setacciato la casa della zia Ramona sicché decise di scappare gettandosi dall’auto in corsa diretta al commissariato più vicino. Ripreso l’ispettore, nell’apprendere la giovanissima età del sospettato, dopo essersi accertato che i falangisti si erano allontanati, disse a Marco di andare subito via e di non farsi più vedere. Fu quello un periodo di grande sofferenza per Marco ma si sentiva orgoglioso, credeva di essere un simbolo perché non si era piegato al terrore e alla stupidità mantenendo dignità e onore. Marco racconta inoltre che prima della sua partenza dalla Spagna aveva partecipato ai funerali di sua nonna Isabela, la madre di suo padre, che si sarebbero celebrati a La Trinidad, il quartiere della sua infanzia. Fu

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l’occasione per rivedere parenti, amici e conoscenti che aveva perso di vista tra cui Antonio FERNÁNDEZ

VALLET. Sebbene avessero condiviso gli stessi ideali libertari e le stesse letture, i due giovani da adulti avevano scelto due associazioni diverse, Marco si era iscritto alla CNT e l’amico aveva aderito alle JUVENTUDES LIBERTARIAS. In quella triste circostanza Fernández Vallet gli aveva mostrato un volantino in cui l’UJA (Unión de Juventudes Antifascistas) chiamava alla lotta i suoi sostenitori anarchici, comunisti e socialisti appartenenti alla classe operaia di Barcellona. A Marco non piaceva quella mescolanza ideologica e rifiutò di farne parte 2 . Il suo obiettivo era di trasformare le ribellioni individuali in lotta organizzata e per settimane e mesi si adoperò a reclutare ragazzi come lui, coraggiosi ma delusi, per combattere il nemico comune rappresentato dal nuovo regime. Pensò poi a cercare un luogo dove riunirsi e lo trovò in un caffè situato nel quartiere di Gracia e, provvisto di un minimo equipaggiamento, il gruppo si attivò alla scrittura di volantini che erano distribuiti per la città e portò avanti la discussione sul modo di contrastare il regime. Quest’attività d’informazione e di reclutamento durò poco e soprattutto perché il segretario dell’organizzazione era stato arrestato, la sede perquisita e la lista di nomi e domicili degli iscritti sottratta. Presi dalla paura gli adepti all’associazione si dispersero. Marco dice che il suo gruppo non si riunì più e fu la fine dell’organizzazione UJA. La situazione era disperata. Senza lavoro, senza casa, senza amici, ricercato dalla polizia, il nostro uomo pensò che non gli restasse altro che allontanarsi dalla Spagna. ____________________________________________________

2.Javier CERCAS trovò interessante il rapporto del giovane meccanico e antifranchista con la UJA e con il suo segretario-organizzatore nonché amico d’infanzia Antonio Fernández VALLET e si impegnò ad approfondirlo. La storia dell’UJA è di per sé importante ma per molti anni è stata trascurata. Soltanto da un decennio a questa parte è stata ripresa da alcuni storici locali anche sotto la spinta del romanzo El Impostor. Essa ha origine nel gennaio 1939 quando, pochi mesi dopo la caduta di Barcellona nelle mani dei franchisti, un gruppo di ragazzi catalani, tutti molto giovani, provenienti da ambienti sociali e culturali assai popolari e svantaggiati, decisero di organizzarsi in associazione con l’obiettivo di continuare a combattere per affermare principi e valori di democrazia offuscata e pure negata. Per i primi tempi il gruppo comincia a stampare e a distribuire opuscoli con i quali s’invitava la popolazione alla rivolta. Poi passò a sabotare le infrastrutture e a rapinare noti franchisti ricchi e benestanti e con i soldi recuperati sostenne le famiglie antifranchiste particolarmente disagiate. La vita dell’UJA fu breve e terminò il 30 maggio 1939, circa tre mesi dopo il suo inizio, data in cui cominciarono gli arresti. L’anno successivo ventuno militanti dell’organizzazione furono condannati a pene molto severe(una condanna a morte, otto ergastoli, due condanne a vent’anni di carcere, quattro a quindici e due a sei). Molti militanti non si piegarono e non si rassegnarono all’umiliazione della sconfitta tra questi Antonio F. VALLET che aveva ricoperto l’incarico di segretario della Propaganda. Durante le sue indagini, però, CERCAS si convince che il suo personaggio non ne aveva fatto parte in nessun tempo. Il convincimento era derivato dalle numerose testimonianze orali e scritte e dalle interviste e dai racconti poiché nessuno ammetteva la presenza di Marco tra i membri dell’organizzazione. Messo di fronte a questi inconfutabili dati Marco, una mattina di settembre del 2013, riconosce la sua estraneità all’organizzazione. Cercas va anche oltre e dimostra che il suo interlocutore aveva mentito pure sul luogo dove i due amici s’incontrarono non ai funerali della nonna di Marco ( secondo l’archivio municipale di Barcellona Isabela CASAS morì il 15 marzo quando la UJA non esisteva più da un anno) ma probabilmente nel quartiere de La Trinidad. Forse in quell’occasione Fernández VALLET gli propose di entrare nell’organizzazione ma Marco rifiutò per paura o per prudenza perché in quel momento aveva altro a cui pensare: la moglie, il figlio di lei, i suoceri e il lavoro all’autofficina. Tempo dopo, quando seppe che il suo amico era uscito di prigione malato e privo di risorse economiche, Marco non si fece vivo e da allora i due amici volontari non si videro più. Molto probabilmente per rafforzare la sua immagine di resistente al fascismo, Marco si appropriò come aveva fatto in altre situazioni di quell’episodio, trasformandosi in capo fittizio dell’organizzazione barcellonese composta di coraggiosi e idealisti ragazzi . Javier CERCAS è forse eccessivamente duro e severo quando definisce il suo personaggio non un simbolo di dignità e d’integrità, non un eroe ma soltanto un uomo ordinario, un narciso che si auto esalta di fronte a un qualsiasi pubblico senza provare vergogna.

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Di come lasciò la Spagna, Enric MARCO ci dà due versioni contrastanti con qualche variante. Nella prima, espressa in una lunga, vivace e appassionata intervista al periodico Por favor (1978), dice che partì per la Francia nell’autunno del 1941 grazie ad un suo cugino che lo fece imbarcare su un mercantile diretto a Marsiglia. In un altro momento Marco raccontò poi che iniziò il suo viaggio clandestino nell’inverno del 1942. Nella seconda contenuta nel suo libro Memorias de l’infierno (1978) Marco parla della sua vita con maggiore intensità e completezza. Nella prima versione Marco riporta che a Marsiglia lo avrebbe aspettato un membro della CNT, un certo García, in quella successiva dice che a Marsiglia non l’aspettava nessuno e che fu arrestato al porto dalla polizia di Pétain, il maresciallo francese, eroe di Verdun, che i nazisti avevano messo a capo di un governo fantoccio nella zona occupata del paese non sapendo o meglio fingendo di non sapere che Marsiglia era considerata zone libre. Nella prima versione l’anarchico García sostiene che Marco fu arrestato non al porto ma ad un posto di blocco della polizia. Poi il nostro personaggio racconta di essere stato consegnato alla Gestapo che lo trattenne a Marsiglia e poi lo condusse a Metz e infine lo deportò al campo di Flossembürg. Nella seconda versione, formulata dopo l’esplosione del suo caso d’impostura (2005), Marco invece sostiene di aver letto su di un giornale di un’attraente offerta di lavoro in Germania in cambio però dell’obbligo a restare in quel paese per tre anni. L’offerta era il frutto di un accordo tra il caudillo Francisco FRANCO e Hitler con il quale il governo franchista contribuiva allo sforzo bellico di quel paese in piena guerra mondiale. Marco non dà importanza all’aspetto politico e si presenta negli uffici della Deutsche Werke Werft a Barcellona chiedendo di quel lavoro. Agli inizi del 1941 parte su di un treno pieno di lavoratori spagnoli diretto a Kiel nel Land più settentrionale della Germania per lavorare in una fabbrica di montaggio.

Javier CERCAS aveva scritto nel suo articolo a El País del 27 dicembre 2009

che una mentira sólo triunfa si está amasada con verdades (una menzogna ha successo solo se è mescolata a verità) e quindi, dopo aver ascoltato il racconto alquanto confuso di Marco, si mette a spulciare con un lavoro meticoloso quanto logico dati e notizie articolate dal suo loquace interlocutore differenziando il vero dal falso, il dato certo da quello modificato. E cioè: era vero che arrivato a Barcellona Marco trovò rifugio a casa della zia Ramona e che lì restò qualche

tempo per avere conforto e sollievo dopo aver partecipato alla guerra civile, ma non era vero che la zia Ramona vivesse da sola, c’era con lei una ragazza chiamata Ana Beltrán Ribes e che era del tutto falso che fosse stato ferito. È vero che tardò molto tempo per farsi vedere in strada perché era demoralizzato e stanco ma il vero motivo del suo rifiuto a riprendere una vita normale era la paura di rappresaglie. È vero che il proprietario dell’autofficina dove Marco fu assunto come meccanico valutò positivamente le sue capacità ma è improbabile che lo assunse perché era contento del suo passato repubblicano. CERCAS non crede nemmeno al fatto che il suo personaggio conduceva a Barcellona una vita clandestina. Era comprensibile che, come quasi tutti i giovani, anche Marco fosse sensibile da anarchico infiammato da un travolgente stato d’animo di esaltazione degli ideali rivoluzionari, a ciò che succedeva negli ultimi anni della Guerra Civile, ma è altrettanto ragionevole pensare che come tanti giovani anche lui aveva finito per accettare quella vita barbara e claustrofobica imposta dai vincitori. Lui che per tre anni aveva combattuto per la libertà, non si sentiva pronto a combattere, non era più sostenuto dalla volontà intrepida di entrare in clandestinità e nella lotta armata ma voleva passare inosservato per sopravvivere al disastro. CERCAS pone in risalto un punto assai qualificante della vita di Marco che da eroe e simbolo della dignità e dell’onore si sente ora dominato dall’indifferenza e da un senso, inspiegabile per l’autore, di estraneità di fronte al particolare momento della storia del suo paese. Ritornando al periodo in cui Marco abitava con la zia Ramona, CERCAS precisa che Ana Beltrán Ribes

aveva da poco lasciato il marito ed era stata accolta da Ramona con il suo bambino ancora in fasce. I suoi genitori, cattolici e repubblicani, non permisero alla figlia di ritornare a casa ed è molto probabile che la zia Ramona che conosceva la ragazza del suo quartiere, ne provasse compassione e allo stesso tempo vedesse nell’abbandono della ragazza un’occasione per alleviare la sua vedovanza e la solitudine dovuta alla morte del marito Anastasio. La vita dei tre era condotta in armonia fino a quando Marco non s’innamora di Anita.

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Malgrado qualche iniziale perplessità e contrarietà sorta perché la ragazza era più grande del nipote di quattro anni e aveva un figlio, Marco non si convince a lasciarla. E anche quando la ragazza, cacciata dalla portineria, ritorna dai suoi genitori, gente umile e molto amata che l’accolgono in casa, Marco la segue. I genitori di Anita avevano perso il loro unico figlio maschio e la presenza di Marco poteva sopportare la perdita. Questo può forse spiegare che Marco e Anita convivessero senza essere sposati sotto lo stesso tetto in quella casa dove abitavano pure le due sue figlie e un genero. Marco e Anita si sposano nella chiesa della Sagrada Familia il 10 agosto 1941. Marco aveva sedotto la nuova famiglia, era considerato un ragazzo intelligente, colto, affabile, pronto ad aiutare i suoceri e a proteggere le cognate, insomma sembrò loro il marito ideale, certamente un uomo felice, anche se non aveva regolarizzato la sua situazione rispetto alla legalità imposta dai vincitori. Marco ha sempre sostenuto che non aveva voluto risolverla perché la sua dignità glielo aveva impedito. La verità è un’altra e lo scrittore catalano, in conformità a due documenti-annunci pubblicati rispettivamente sul giornale La Vanguardia i giorni 23 luglio 1940 e 2 aprile 1941, dimostra che Marco aveva mentito. Un anno e mezzo dopo il suo ritorno dalla guerra, le autorità militari gli avevano chiesto in modo perentorio di presentarsi all’Ufficio Intendenza del Comando Militare della Marina per essere reclutato, cioè schedato e sottoposto a visita medica e dichiarato idoneo al servizio militare. Nelle successive ordinanze gli veniva intimato la presentazione agli stessi uffici per ricevere il libretto navale, l’ultima richiesta prima di essere dichiarato disertore. Ciò significa che quelle autorità militari che Marco temeva non avevano dato importanza al suo passato di anarchico e sottufficiale repubblicano e che non subì alcuna punizione. Difatti il processo di reclutamento proseguì regolarmente e nell’aprile 1941 il nostro personaggio fu ritenuto idoneo all’arruolamento, cosicché messo alle strette Marco riconosce di aver raccontato una menzogna e cioè che era a conoscenza dell’ordine a presentarsi al Comando Militare della Marina (agli inizi del 1940 la zia Ramona gli aveva consegnato personalmente la notifica ufficiale) ma che coscientemente aveva deciso di non ottemperare confidando sulla dimenticanza dei militari. Dopo altre notifiche sempre più pressanti alla fine il nostro uomo decide di presentarsi all’ufficio preposto per ricevere l’idoneità a essere reclutato. Marco non ricorda come riuscì a nascondere il suo passato reale. Molto probabilmente sfruttò il suo connaturato carisma e il suo modo accattivante di parlare convincendo le autorità di avere un passato senza macchie e presentandosi dunque un ragazzo inoffensivo. Regolata la sua situazione sul piano amministrativo Marco cerca di evitare il servizio militare (sarebbe stato impegnato per quindici mesi) ma la prospettiva di ritornare in guerra gli sembrò sconcertante e fortemente penalizzante. È però fortunato perché il 21 agosto 1941 il governo spagnolo e quello tedesco firmano un patto per l’invio di lavoratori spagnoli in Germania. L’obiettivo era rifornire l’industria tedesca di manodopera a basso prezzo, rafforzare il vincolo di alleanza politica tra i due regimi e dare un po’ di sollievo all’economia spagnola alle prese con un enorme problema di disoccupazione. Resosi conto delle favorevoli condizioni contrattuali, Marco afferra subito l’occasione. Il resoconto della sua partenza dalla Spagna che leggiamo nella sua autobiografia Memorias de l’inferno è essenzialmente corretto e vero, fatta eccezione per l’immagine costruita di sé, di partigiano perseguitato dalla polizia franchista. Anzi è assurdo pensare che Marco potesse partire per la Germania come lavoratore volontario com’è altrettanto illogico che qualcuno con un minimo di coscienza antifascista come lui fosse disposto, andando in Germania, a contribuire allo sforzo bellico del paese che stava distruggendo l’Europa. È pacifico che ogni lavoratore prima di firmare il contratto dovesse certificare la sua adesione al regime ma è altrettanto vero che la stragrande maggioranza di quegli uomini (si stima in venti mila i lavoratori spagnoli in partenza) non emigrava per aiutare i nazisti a vincere la guerra ma per sottrarsi alla miseria di una Spagna affamata, schiacciata dalla doppia tirannia della Chiesa e dei falangisti. È il caso di Enric MARCO che parte per la Germania con lo scopo principale di evitare il servizio militare e secondariamente di guadagnarsi da vivere. Le aziende tedesche richiedevano imprescindibilmente che il lavoratore avesse assolto gli obblighi militari, richiesta che con Marco non fu ottemperata molto probabilmente, ne è convinto l’autore iberico, perché i funzionari spagnoli furono abilmente convinti giudicandolo fedele o inoffensivo e gli imprenditori tedeschi furono favorevolmente impressionati dalla gioventù dalla vitalità ed entusiasmo di Marco e non ultimo dalla sua competenza come meccanico.

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Il 27 novembre 1941 dopo aver firmato il contratto biennale di lavoro dalla Deutsche Werke Werft, Marco parte da Barcellona su di un convoglio gremito di lavoratori spagnoli diretto in Germania 3.

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3. Sulle modalità di permanenza del nostro personaggio a Kiel per lavoro, Javier CERCAS con la sua indagine riesce a dare un quadro più completo e veritiero. Prima di tutto il nostro autore precisa ancora una volta che ciò che mosse Marco ad accettare la proposta di lavorare in Germania nell’azienda Deutsche Werke Werft da sempre impegnata nel campo mercantile, specializzata, con l’arrivo al potere dei nazisti, della costruzione di navi da guerra, sottomarini e altre imbarcazioni militari, fu la volontà di evitare il servizio militare e guadagnarsi da vivere meglio di quanto poteva fare in Spagna. Risulta da alcuni documenti che Marco non alloggiò a Kiel ma visse per tre mesi in un campo di baracche di legno a Wattembeck distante dalla città venticinque Km.. Marco lavorava come meccanico nei cantieri e si occupava prevalentemente della manutenzione dei motori ma anche della fabbricazione di pezzi di precisione. Era considerato un bravo lavoratore, diligente e aperto. Si riteneva superiore agli altri lavoratori balordi, analfabeti e fannulloni e teneva rapporti di amicizia con francesi e belgi fino a organizzare con loro una cellula di resistenza, così dice Marco, anche se non esiste la minima prova di ciò che afferma e tantomeno del fatto che avesse compiti di sabotaggio. Ciò di cui si è certi è che Marco fu arrestato dalla polizia tedesca, sottoposto a processo e condotto alla caserma della Gestapo a Kiel. Restò nove mesi (o meglio sette) in una cella senza servizi igienici e acqua corrente per lavarsi, solo un piccolo lavabo e un pagliericcio di due dita circa di spessore per dormire. Tutte le mattine un sottoposto gli portava casse di materiale, pezzi metallici da sgrossare e di tanto in tanto subiva pestaggi e privazioni che lo gettavano nella più profonda disperazione. Nel racconto che Marco aveva fatto a Pons-Prades c’era un episodio, quello delle urla dei gabbiani e quelle dei figli dei funzionari che il nostro uomo sentiva dalla cella che in qualche modo spezzavano la sua solitudine. Un altro antidoto alla inevitabile depressione in quella precaria condizione di vita Marco lo trovò nella scrittura. Gli permettevano di scrivere delle lettere solamente in tedesco che non arrivavano mai a destinazione. Una lettera datata 1° settembre 1942 é indirizzata alla moglie. In essa CERCAS ha potuto leggere il disperato tentativo di Marco di ingraziarsi i giudici giudicanti e di descriversi come un uomo affidabile, generoso nel lavoro e rispettoso delle regole. Si riteneva del tutto innocente nonostante l’accusa strumentale di essere stato un volontario rosso e si mostrava fiducioso sulla sentenza di assoluzione di cui era convinto anche il suo avvocato difensore. Nella suddetta lettera Marco fa riferimento al figlio biologico di Anita, Toni e invita la moglie a vivere con lui in Germania e a non temere la gente tedesca di cui apprezzava la prudenza e la generosità. A giudicare dal tono Marco inaspettatamente sembra molto ottimista sul risultato positivo del suo processo, eppure è accusato di un reato molto serio: pianificare in modo sistematico il cambiamento violento della Costituzione tedesca. In sostanza era accusato di aver fatto propaganda comunista tra i lavoratori spagnoli, un delitto di alto tradimento che se confermato lo avrebbe spedito dritto in un campo di concentramento. Invece Enric MARCO fu assolto. Il giudizio del magistrato giudicante confermava la non pericolosità dell’uomo sulla base anche della ritrattazione dei due delatori spagnoli Poch Torres e Robledo Canales i quali discolparono Marco di averli voluti convertire alla causa del comunismo e sostennero che Marco era un ragazzo molto giovane che aveva cercato di darsi importanza davanti ai suoi compagni. Anche il diretto superiore di Marco ritirò l’accusa di sabotaggio definendolo un lavoratore magnifico. CERCAS é stupito e va alla ricerca delle vere motivazioni di queste ritrattazioni strane e inspiegabili e qualcuno fece allusione a possibili intercessioni da parte delle autorità spagnole. Queste ricerche non risolsero le grandi incongruenze, molto probabilmente e, siamo nel campo delle ipotesi, il nostro uomo fondamentalmente un picaro, un ciarlatano scatenato, un imbroglione unico, ma ottimo parlatore, aveva messo in atto con le autorità giudiziarie naziste la stessa strategia fatta di confusione e di adulazioni che aveva applicato e con successo un anno prima con le autorità militari franchiste. Su questo specifico punto lo scrittore catalano non è in grado di dare spiegazioni definitive. Comunque sia, il 7 ottobre 1942 l’ordine di detenzione contro Marco è revocato, ma le sofferenze non cessano perché solo, senza un marco (nei sette mesi di reclusione non aveva percepito alcuna somma di denaro) non sapeva dove andare. Dopo tanto cercare trovò rifugio per la notte in un cimitero. Poi chiese aiuto ai lavoratori spagnoli nei cantieri della Deutsche Werke Werft e lì un tedesco che faceva da interprete, mosso a compassione, lo sistema alla Hagenuck, un’azienda di telecomunicazioni, che gli permise di mangiare e di dormire sotto un tetto in un campo della stessa fabbrica. Lo stesso uomo si prese l’impegno d’infilarlo su uno dei convogli di lavoratori che tornavano in ferie in Spagna. Marco dice di aver subito accettato senza preoccuparsi di cosa avrebbe fatto quando le autorità spagnole avrebbero preteso che facesse il servizio militare. Il suo unico desiderio era di tornare a casa come se avesse intuito quello che poi sarebbe successo alla città di Kiel in seguito bombardata.

Paragrafo 4. Enric MARCO BATLLE, da un finto passato da partigiano antifascista all’esperienza truffaldina a Flossembürg. Sappiamo che Marco raccontò la storia della sua falsa deportazione un’infinità di volte e in modi sempre diversi, con una varietà di particolari e sfumature che finiscono coll’indurre il lettore o ascoltatore a confusione e a dubbi. Sicché per non cadere in questa trappola, Javier CERCAS nel cercare di far luce sulla condizione di Marco prigioniero a Flossembürg (Baviera) e vittima dei campi nazisti, decide di non allontanarsi dalle due biografie sintetiche e conosciute sull’esperienza del suo controverso personaggio. La prima fu pubblicata nel

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1978 da un poligrafo libertario chiamato Pons-Prades con il titolo Los Cerdos del comandante (I maiali del comandante), la seconda è opera di un giovane giornalista catalano chiamato David BASSA intitolata Memoria del infierno pubblicata nel 2002 in collaborazione con un giovane fotografo. Le due biografie sono molto simili, nel senso che sono zeppe di menzogne e di verità, differiscono però per alcuni particolari riguardante il tono del racconto. Nella prima, forse perché molti sopravvissuti spagnoli erano ancora vivi, Marco parla della sua esperienza con tatto, senza eccedere in ricostruzioni lunghe e dettagliate (forse per paura di essere smentito o di commettere errori), nella seconda, quella di BASSA, scritta in terza persona, Marco appare più sicuro, si esprime con più disinvoltura e ricchezza di particolari (forse perché dei deportati spagnoli sopravvissuti ne rimanevano pochi, una decina) e forse perché nel frattempo si era abbastanza documentato, aveva visitato in qualità di Presidente dell’Amical de Mauthausen i campi di sterminio in particolare quello di Flossembürg dove asseriva di essere stato internato. Nel testo di PONS-PRADES, Marco parla del suo isolamento a Flossembürg con cautela ma quando non parla della cittadina bavarese, le descrizioni colorite ed eroiche abbondano e sfociano nell’inverosimile quando, per esempio, il nostro uomo riferisce di bombardamenti al fosforo e del suo impegno a scavare tra le macerie e a recuperare parti di cadaveri nel campo annesso di Neumünster, vicino ad Amburgo. Lo stesso riporta che insieme con uno spagnolo e un andaluso fece parte di un organismo internazionale di resistenza creato dai francesi insieme a belgi, polacchi, italiani e lettoni. Da questo punto in poi non troviamo che inesattezze e poche verità. Marco racconta che un giorno la Gestapo lo trasferì al carcere di Kiel dove restò in completo isolamento per otto mesi riuscendo anche a imparare il tedesco. A Kiel seppe che i franchisti avevano infiltrato gruppi di falangisti e volontari tradizionalisti che internati nei campi come spie dovevano scovare traditori e oppositori al regime. Il nostro personaggio fu accusato di farne parte e nel contempo di essere il principale animatore della resistenza a Neumünster, per quest’ultimo fatto fu accusato di cospirazione contro il Terzo Reich e condannato a dieci anni di lavori forzati, pena che scontò solo in parte perché nel maggio 1945 i canadesi liberarono Kiel e Marco tornò libero. La verità è, però, un’altra perché, sostiene Cercas, è vero che Marco fu rinchiuso nel carcere di Kiel, che restò in isolamento e che imparò il tedesco ma è falso che vi arrivò da deportato e che fu tenuto in isolamento per otto mesi( vi restò soltanto cinque giorni), com’è falso che fosse accusato di cospirazione contro il regime in quanto capo della resistenza nel campo di Neumünster (in realtà fu accusato di alto tradimento per aver parlato male dei nazisti e bene dei russi sovietici tra i suoi compagni della Deutsche Werke Werft). Non fu condannato a dieci anni ma fu assolto da tutte le imputazioni. Anche il racconto della sua partenza dalla Germania alla fine della guerra e il suo ritorno in Spagna che Pons-Prades attribuisce a dichiarazioni di Marco é pieno d’imprecisioni e fantasie, di una sequenza di alterazioni a carattere sentimentale e psicologico (vedi l’immagine delle urla dei gabbiani e dei figli dei funzionari in prigione che Marco sentiva in cella a Kiel). Il racconto biografico di BASSA è più lungo e articolato di quello di Pons-Prades ma anche più falso. Secondo questa versione il nostro uomo non fu deportato dalla Francia al campo di Flossembürg ma a Kiel dove fu condannato ai lavori forzati nei cantieri navali della città e dove cominciò a praticare il sabotaggio. Sulla permanenza di Marco a Kiel i due racconti non differiscono molto (gli anni d’isolamento diventano nove ed è sottolineato l’orgoglio e la dignità con cui Marco sopportò gli interrogatori della Gestapo) ma in quello di Bassa la permanenza a Flossembürg è descritta con maggiore intensità e compiutezza (vedi l’episodio del treno nei cui vagoni Marco fu costretto ad entrare e a vedere i prigionieri ammassati come animali che vomitavano per le precarie condizioni igieniche e per mancanza di aria e a sentire urla e gemiti poiché nelle poche soste i prigionieri erano picchiati dalle SS, attaccati dai cani, alcuni pestati, altri liquidati dopo aver ricevuto botte, frustate e morsi. È il classico arrivo dei deportati nel campo di sterminio 4 ma Marco reinventò la scena nelle sue conferenze, nei suoi scritti e nelle sue interviste. ___________________ 4. Particolarmente toccante è la magistrale descrizione che Eliezer/Wiesel fa nel suo romanzo La Notte, Ed. la Giuntina, Firenze,

1980 (la prima edizione è del 1956), del drammatico viaggio in compagnia di suo padre Shlomo, di sua madre Hilda, delle due sorelle Beatrice e Tzipora, costretti a stare in uno stato inaccettabile di promiscuità con altri amici e residenti ebrei del piccolo ghetto di Sighet, ammassati l’uno sull’altro dentro un carro bestiame e a provare un comune sentimento di terrore sul convoglio diretto al campo di Auschwitz II-Birkenau, detto il campo della morte.

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Il racconto di Marco filtrato dalla prosa di BASSA prosegue con un’altra notizia. Dopo tre giorni di quarantena Marco fu mandato alla cava, il servizio più duro, poi dirottato a riparare fusoliere di aerei grazie alla sua riconosciuta abilità di meccanico. Nella sua baracca c’erano circa duecento uomini ma Marco si sente molto solo. Non sopporta di essere tenuto all’oscuro sulla guerra e cerca, conservando qualche ritaglio di giornale, di mantenere i contatti con la realtà esterna al campo. Marco nota che la vigilanza politica all’interno del campo era molto diminuita. A conferma di quest’atmosfera rilassata, Marco ricorda l’aneddoto della partita a scacchi con uno delle SS, una partita che vinse pur sapendo cosa poteva costargli. Per il nostro personaggio fu la vittoria della dignità sulla violenza e la prevaricazione. I nazisti erano sconfitti dal suo coraggio e dalla sua abilità. Quel memorabile giorno uno spagnolo aveva dimostrato di essere migliore e superiore a quelli che usano soltanto il potere della forza, della violenza e della sopraffazione come quel giorno in cui per punizione per aver fatto i bisogni fuori dalla baracca, le autorità del campo tennero nudi per tutta la notte in pieno inverno i presunti responsabili del riprovevole atto e, al mattino dopo, una dozzina di prigionieri furono trovati morti per congelamento.

Il racconto di Marco é una sequela ininterrotta di fatti misti ad aneddoti personali pieni di angoscia e di paura per ciò che era costretto a vedere: la scena di alcuni deportati condotti nudi alla camera di disinfezione, ma tutti pensavano al gas e al peggio o l’obbligo di guardare come impiccavano i venticinque cechi che avevano tentato la fuga sono molto eloquenti. Marco racconta che resistette grazie

alla sua forza d’animo fino al 22 aprile 1945 quando l’esercito nordamericano raggiunse Flossembürg e gli alleati liberarono il campo temendo però che le SS giustiziassero i prigionieri per non lasciare testimoni delle loro nefandezze. È inutile dire che furono giorni di caos, un fuggi fuggi generale senza nessuno che sapesse cosa fare e dove andare. Nel corso di una cerimonia solenne, quella del 27 gennaio 2005, diventato poi giorno della memoria, ricordando la liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico, in cui per la prima volta dopo anni di oblio il parlamento spagnolo commemorava le vittime dell’Olocausto e dei crimini contro l’umanità (quasi nove mila repubblicani spagnoli deportati nei Lager nazisti) Marco fu invitato a raccontare di fronte ai parlamentari, ai ministri e all’Ambasciatore d’Israele le infinite crudeltà, umiliazioni e violenze di ogni specie inflitte ai deportati prima di essere uccisi dai boia nazisti nei campi di concentramento. Senza esserci mai stato il nostro personaggio lo fa con dovizie di particolari che finivano per commuovere molti dei presenti, compresi figli e nipoti dei veri deportati fino a far piangere parecchi parlamentari compresa la giovane vicepresidente del Parlamento Carme Chacón. Il momento è storico. Le persone lì convenute non immaginavano che l’oratore Enric MARCO non fosse mai stato deportato, che lui, punta di diamante contro l’oblio, mentiva, che non aveva mai portato la matricola 6448 di deportato. Così termina il racconto di Enric MARCO in cui verità e menzogna sono di nuovo mescolate. Paragrafo 5. Il narcisismo di Enric MARCO BATLLE, un hombre corriente.

Dopo lo scoppio del caso-Marco, giornalisti, storici, filosofi, politici e anche psicologi e psichiatri cercarono di dare una loro interpretazione. Anche la Letteratura e Javier CERCAS in prima linea non mancarono di riflettere sull’avvenimento e sulla contorta e complicata personalità del nostro uomo. Marco appare a tutti una persona normale ma dedita al culto di sé con la necessità compulsiva di ammirazione e di esaltazione della propria grandezza. In una parola Marco è un narciso che pratica l’autoincensamento in continuazione e in qualsiasi contesto si aspetta di ricevere lodi e riconoscimenti. CERCAS scrive che Marco è un seduttore irrefrenabile, un manipolatore nato, un

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individuo che per nascondere la sua mediocrità, la sua realtà repellente e la sua viltà si ripara all’interno di una finzione per trovare conferme ai suoi sogni di grandezza e di superiorità. Il suo narcisismo ha lontane origini nell’infanzia quando il bambino Marco, nato in manicomio da una madre pazza, schizofrenica e maltrattata dal marito, che non lo ha mai riconosciuto in quanto figlio, cresce privo di affetto affidato unicamente alle amorevoli cure della zia Caterina. In piena guerra civile Marco adolescente, infiammato da idee rivoluzionarie, decide d’inventare il proprio passato e di raccontare che non era stato chi era stato e cioè uno della maggioranza che dice sempre Sì, ma un individuo eccezionale che durante la guerra si era schierato dalla parte di chi dice No. Per lui la sua infanzia fu una profonda ferita così come per Narciso che nasce dalla violenza esercitata da Cefiso, dio-fiume, sulla giovane naiade Liriope. Un evento terribile che Marco e Narciso non furono in grado di elaborare sicché, per superare l’umiliazione subita, tutte e due ricorrono alla finzione salvifica. A Barcellona dove era ritornato, Marco era riconosciuto come il combattente inflessibile contro la dittatura, si direbbe che per molti spagnoli rappresentasse il più alto esempio dell’innato ribellismo dei catalani nonché dell’amore per la libertà. Il suo desiderio di reinserirsi nella lotta clandestina in Spagna dopo la falsa permanenza a Flossembürg a metà degli anni quaranta non lasciava alcun dubbio. Lo aveva dichiarato inconfutabilmente lo stesso Marco nella biografia Memoria del infierno (2002) quando affermava che avrebbe continuato la lotta clandestina fino al 1975. La volontà di rimettersi in gioco è percepita anche in un suo articolo pubblicato su L’Avenç, una rivista di storia che si stava occupando della liberazione dei campi nazisti, in cui il nostro personaggio ribadiva che l’unico lavoro che sapeva e voleva fare era di vivere meglio e bene lottando per la libertà. A poco a poco Marco diviene un personaggio ufficiale, la voce ideale di chi ha vissuto uno dei più grandi orrori della Storia. Come membro della Federación de Asociaciones de Padres

de Alumnos de Cataluña (FAPAC), di cui fu vicepresidente per vent’anni, l’infaticabile Enric MARCO partecipa ogni anno a più di cento conversazioni e conferenze nelle scuole e nelle sedie radio-televisive, visita molti luoghi teatro dei più orrendi crimini, informando i giovani e trasmettendo emozioni intense sul totalitarismo nazista. I suoi sforzi furono abbondantemente ricompensati dalle istituzioni democratiche in tutta la Spagna e diventa segretario generale della CNT. La comunità di Catalogna, rappresentata dal suo Presidente Jordi PUJOL gli consegna nel 2001 la croce di Sant Jordi per l’impegno da lui profuso nella lotta antifranchista e sindacale. Oltre a queste attività che gli procurano fama, onore, ma non denaro, Marco continua a esercitare il suo mestiere di meccanico di automobili nell’autofficina di Felip HOMS. Ritornato a vivere nell’affollata casa dei suoceri con la moglie e il figlio Toni, Marco sembra condurre una vita normale, quella che aveva tanto sognato quando era in Germania. C’erano però due problemi che lo mettevano in ansia, uno era la consapevolezza che scaduto il permesso sarebbe dovuto tornare a Kiel, il secondo era legato al fatto che se riusciva a non tornare a Kiel sarebbe stato costretto a fare il servizio militare. Marco non ci dice (non lo ricorda) come fece, ma non tornò a Kiel e non fece il servizio militare. Riprese la sua vita lavorativa, diventò padre di una sua prima figlia che chiamò Ana María e trovò lavoro come commesso viaggiatore in una ditta di ricambi per auto chiamata Comercial Anónima Blanch, un lavoro nuovo e migliore. Usciva dalla casa ben vestito, guadagnava bene e la sua vita sociale era più varia e intensa. Marco cominciò a bere, a uscire la notte e a fare cose che non aveva fatto prima, tant’è che insospettì la moglie che dopo averlo seguito, scoprì che frequentava postriboli e cattive amicizie. Fu accusato di furto e dormì diverse notti in carcere. Le cose peggiorarono in poche settimane e, dopo aver partecipato al matrimonio della sorella di sua moglie, Paquita, Marco se ne va via di casa. Subito dopo la moglie entra in depressione e di lui non se ne sa nulla per sette anni. Quando Marco si rifà vivo cerca di aiutare la sua bambina dandole dei soldi così come fa con il fratellastro Toni. Poi per quasi vent’anni la famiglia non ha sue notizie se non dai giornali, dalle trasmissioni radio-televisive alle quali partecipava. Dagli uffici della FAPAC Ana María apprende il nuovo status coniugale del padre (si era risposato e aveva due figlie). La famiglia Beltrán non capiva perché Marco diceva di essere stato deportato in un campo

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di concentramento mentre la moglie sapeva che non era mai stato in un Lager nazista. Quando scoppia il caso-Marco la figlia Ana María conosce le due sorelle Elisabeth e Ona Marco. Nel corso delle ricerche per scrivere il suo libro su Enric MARCO, Javier CERCAS apprende altri particolari sul lavoro di Marco che, da semplice meccanico, gestiva, mentre conviveva con la seconda moglie, María

Belver, in regime cooperativo diverse autofficine nell’hinterland di Barcellona. Una di queste si chiamava Auto Taller Cataluña che aveva poi cambiato nome in Taller Viñals. Cercas conosce il proprietario che gli confessa di aver avuto un rapporto di lavoro con Marco e di averlo apprezzato nonostante lo scandalo di cui si era reso responsabile. Gli parla anche di un uomo che lavorava come apprendista nell’officina a Sant Just Desvern di nome Antonio, un tipo sotto i sessant’anni che, interpellato dallo scrittore, conferma di aver conosciuto Marco ma di non volerne parlare. Il vero motivo del suo rifiuto fu chiaro a Cercas quando seppe che il meccanico si chiamava Antonio Ferrer Belver ed era nipote della moglie di Marco. La verità è che Antonio non aveva preso bene la decisione di Marco di disfarsi dell’attività precedente come non aveva accettato a metà degli anni ’70 la sua decisione di disfarsi della zia María sostituita con una ragazza più giovane di lui. Come scrivere allora un romanzo su una vita intessuta di menzogne inaccettabili e a volte incomprensibili con l’obbligo di dire la verità su Enric MARCO ? Come superare tutte le inquietudini e le angosce che lo accompagnavano non solo dopo aver ascoltato il nipote di María Belver e le parole di Benito BERMEJO a Madrid ma anche l’ipotesi che Marco potesse essere stato un confidente della polizia durante il periodo in cui era responsabile della CNT? E ancora come fare per non abbandonare l’idea temeraria di scrivere un libro su Marco e portarlo a conclusione? Javier CERCAS, inoltre, continua a chiedersi se avesse il diritto di interferire nella vita del suo personaggio e

della sua famiglia sebbene Marco lo avesse autorizzato a farlo e stesse collaborando alla sua impresa. Lo scrittore iberico è comunque fiducioso di portare a termine il suo progetto di scrittura. Ha davanti a sé due modelli paralleli e contrapposti, due storie raccontate, la prima, da Truman CAPOTE, autore del libro IN COLD BLOOD (1965) e, la seconda, dallo scrittore francese Emmanuel CARRÈRE , intitolata EL ADVERSAIRO (2000). Molto diversi uno dall’altro i romanzi di Capote e di Carrère hanno una caratteristica in comune: gli autori sono molto presenti nel racconto come ricercatori di verità e

interloquiscono con i personaggi. Il non-fiction novel dell’autore statunitense, tratto da una storia vera, parla dell’assassinio crudele quanto insensato di un’intera e ricca famiglia di contadini del Kansas (i Clutter) commesso da due giovani e sconosciuti teppistelli Dick Hickock e Perry Smith che Capote conobbe personalmente e accompagnò nel corso di un lungo processo (cinque anni) fino alla loro condanna per impiccagione. Quello scritto da Emmanuel Carrère racconta l’impostura criminale di Jean-Claude ROMAND che viveva sotto un’altra identità (diceva di essere medico e di lavorare presso l’OMS invece trascorreva le sue giornate nei caffè o passeggiava nei boschi dei monti Jura). Lo scrittore francese si avvicina a questo tragico fatto di cronaca (sul punto di essere scoperto Jean-Claude ROMAND uccide la moglie, i suoi due figli e i genitori di cui non poteva sopportare lo sguardo e il giudizio) e scosso da quest’assurdo delitto, comincia a raccogliere notizie e a leggere gli atti processuali per capirne le motivazioni fondamentali. Non soltanto segue il processo ma incomincia, come aveva fatto T. Capote con i due ex detenuti e protagonisti del suo libro, a scambiare con il falso medico una serie di lettere entrando così nella vita più intima e personale dell’impostore Jean-Claude che a forza di menzogne e di viltà finirà per perdere la sua vita e la sua anima. Questi due modelli non abbandoneranno mai il nostro autore che s’imporrà con fermezza il suo piano d’indagine nella ricostruzione della rocambolesca vita di Marco. Fedele al modo di procedere comune ai due celebri scrittori e alle loro opere, CERCAS verifica le testimonianze pazientemente raccolte, riascolta le parole registrate del suo uomo, dei testimoni e di quanti amici, conoscenti, storici avevano avuto rapporti con Enric

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Marco Batlle, cercando di chiarire alcune incognite della sua vera vita al fine di tracciare un suo ritratto fisico e psicologico che se in principio sembra del tutto discutibile a poco a poco diventa patetico, deplorevole, comico e commovente in taluni momenti. Il tutto in perfetta continuità con la démarche narrative adottata dai due suoi modelli di riferimento. E cioè: in opposizione all’impassibilità e al distacco flaubertiano di restare quanto più possibile lontano dalle situazioni raccontate e dai suoi protagonisti escludendo ogni intervento sugli aspetti etici e individuali e scrivendo preferibilmente alla terza persona, JAVIER CERCAS sceglie di raccontare la sua storia in prima persona manifestando pure le sue perplessità e dubbi di natura morale. É questa la strada che lo scrittore catalano finalmente intraprende per salvarsi come scrittore e come uomo. L’eroe si trasforma in picaro, in piccolo delinquente, in piccolo impresario, scroccone sotto la dittatura del Generalísimo Francisco Franco, nell’uomo normale che è, ordinario tra i tanti sudditi impauriti. È vero, dice l’autore catalano, che Marco è un simbolo di questo momento della storia del suo paese ma è altrettanto vero che Marco non fu un simbolo della dignità e dell’onore nella disfatta ma della sua mancanza di decoro e comune disonore. Marco no partenecía a la minoría (Marco non apparteneva alla minoranza), scrive Javier CERCAS. Per lui Marco es un hombre corriente che ha, sì, conosciuto negli anni Cinquanta le prigioni franchiste ma anche quelle statali come delinquente comune. Fu grazie all’avvocato Ignasi de Gispert che venne alla luce un episodio utile a spiegare la trasformazione del nostro uomo da operaio colto, antifranchista e rivoluzionario, da marito e padre ideale in un ladro. De Gispert si recò nel carcere Modelo su richiesta della moglie María Belver, per prestargli aiuto. Marco, com’è sua abitudine, non gli dice la verità e racconta di essere stato arrestato per motivi politici e torturato per una pratica burocratica. L’avvocato che non aveva creduto alla ricostruzione del fatto scopre che Marco si trovava agli arresti per un reato di rapina a mano armata commesso sulla Rambla. Fortunatamente il delitto andò in prescrizione e dopo poco il nostro personaggio ritornò a casa. La modificazione radicale di Marco è dovuta essenzialmente al suo lavoro alla Comercial Anónima Blanch, un lavoro che gli permetteva di guadagnare bene ma per mantenere un tenore di vita piuttosto alto fu costretto a vendere di nascosto gli articoli del campionario di proprietà dell’azienda, fino a che i capi della Comercial Anónima Blanch scoprirono le frodi e decisero di sospenderlo dal lavoro e dallo stipendio anche se provvisoriamente. Il nostro personaggio non rivelò nulla alla famiglia e ogni mattina era costretto a uscire presto da casa per andare in ufficio. In verità vagava tutto il giorno per la città in attesa di rientrare la sera. Cominciò così a commettere furti di gioielli, tentò di aprire la cassaforte di un cliente e altri piccoli colpi che lo portarono dritto al commissariato costringendolo a restituire i gioielli e a subire l’umiliazione della denuncia con l’obbligo a presentarsi ogni tanto alle autorità. Alla fine Marco non sopportò la vergogna e finì per decidere di allontanarsi definitivamente dalla famiglia dei Beltrán. Le settimane successive Marco visse momenti di vita difficili. Di colpo si era ritrovato senza famiglia, senza lavoro, senza casa, in più era stato schedato come un latitante e ricercato dalle forze dell’ordine come soggetto pericoloso. Fortunatamente quella crisi non durò a lungo perché conobbe un uomo chiamato Peiró che lo prese a ben volere tanto che suo fratello di nome Paco gli offrì un lavoro per il quale non riceveva salario. Si trattava di aggiustare due camion dell’esercito. Marco non esitò ad accettare questo piccolo lavoro in un malsano garage che però gli assicurava un tetto sotto il quale dormire. Benché il garage fosse un luogo igienicamente inidoneo, sporco e pieno d’infiltrazioni d’acqua, Marco incominciò a lavorare con impegno e in poco tempo non soltanto rimise in sesto i due camion ma trasformò quel garage in un’autofficina dove riparava auto, camion, taxi della stessa famiglia Peiró e di altri clienti del quartiere. Le cose andarono così bene che assunse un apprendista e due ragazzi poveri figli d’immigrati che Marco pagava bene ricevendo rispetto e gratitudine anche se sospettavano che il loro datore di lavoro intelligentissimo, generoso e leale avesse rapporti con organizzazioni politiche clandestine e che fosse sulla lista dei ricercati dalla polizia. Per incrementare il lavoro Marco affittò un’officina in calle Montseny e poi mise su la prima officina tutta sua, la Talleres Collbanch. Viveva già con María Belver che si era perdutamente innamorata di lui e con cui trascorre i successivi vent’anni della sua vita in un comodo appartamento. Marco non solo cambiò donna (da Ana Beltrán a María Belver) ma anche famiglia. Il clan andaluso e parlante castigliano, agnostico e misero dei Belver subentrò a quello catalano, cattolico e povero dei Beltrán. Ma ambedue le famiglie avevano una scarsa cultura a fronte di Marco, lettore appassionato, ciarlatano

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irrefrenabile, un uomo che poteva vantarsi di aver lasciato la Spagna e di aver vissuto in Germania, che brillava per un linguaggio preciso e adeguato a ogni situazione, sempre pronto a tendere una mano a chi chiedeva aiuto e attenzione. Il benessere acquisito da Marco con un serio e duro lavoro rispecchiava la prosperità di tutta la Spagna, un paese che mentre pensava a dimenticare la miseria e le atrocità della guerra e dell’immediato dopoguerra, guardava avanti e costruiva il proprio futuro. Le cose precipitarono quando appena quarantotto ore prima della commemorazione a Mauthausen dei sessant’anni dalla fine del delirio nazista, prevista per l’8 maggio 2005, Marco che si trovava in Austria come rappresentante spagnolo delle vittime dell’Olocausto per pronunciare un discorso davanti al Presidente Rodríguez Luis ZAPATERO e al Cancelliere dell’Austria e per partecipare a una serie d’incontri commemorativi in qualità di Presidente della Asociacíon Amical de Mauthausen, fu informato del rapporto circostanziato di Bermejo a suo carico e fu non solo costretto a dimettersi ma a ritornare precipitosamente in Spagna motivando tale decisione alla stampa con sopraggiunti motivi di salute. È facile immaginare l’ondata d’indignazione e d’incredulità specialmente nei testimoni e nei parenti dei veri deportati che si diffuse nell’opinione pubblica spagnola. La notizia della scoperta dell’impostore ebbe larga risonanza su tutti i giornali del mondo con articoli denigratori e malevoli ad eccezione di quelli che il Nobel Mario Vargas LLOSA e lo scrittore italiano Claudio MAGRIS dedicarono all’avvenimento. Marco confessa e il sogno di essere un eroe finisce bruscamente. Enric MARCO BATLLE si era inventato per trent’anni la persona che avrebbe voluto essere, una storia di coraggio e di avventura, di resistenza e di orgoglio. Una storia talmente bella, talmente incoraggiante che tutti gli avevano creduto, dalla moglie agli amici e ai dirigenti politici, ci si sofferma sul perché il nostro uomo si era inventato questa enorme menzogna e perché questa colossale bugia affascinasse così tanto la letteratura. Con le prime reazioni le argomentazioni pro e contro Marco si sprecano tanto che vediamo affermarsi due partiti o fazioni: quelli che cercano di affrontare il caso particolare collocandolo in una realtà più generale, in un momento storico particolarmente concitato quanto complesso (la Spagna del franchismo e del dopoguerra) in cui la bassezza di Marco è messa in relazione con i peggiori anni del franchismo, quando l’istituto di conservazione si trasforma in codardia quotidiana della maggioranza senza però scivolare nella delinquenza comune, e quelli, alla testa Claudio MAGRIS, che vogliono vedere nella storia di Marco una lezione positiva e credere che l’impostura smascherata serviva al recupero di una memoria storica per molto tempo trascurata in Spagna se non dimenticata. Complessivamente la Shoah restava in Spagna abbastanza ignorata se non banalizzata, appena sfiorata nelle scuole secondarie superiori, all’Università e nella stampa giornalistica e televisiva e Enric MARCO aveva avuto certamente il merito di esprimere brillantemente ciò che per tanto tempo era stato taciuto. Lo scrittore triestino sostiene che ciò che conta è che le bugie di Marco contribuiscano a diffondere la verità sui Lager, contro le menzogne di coloro che le negano. Marco dice che ciò che conta è la realtà sui Lager e su questo tema egli ha detto la verità. Non importa che non sia stato lui ad aver vissuto quelle dolorose sofferenze e che altri le abbiano veramente conosciute, ciò che conta è che tutti, grazie a Marco, ora sanno. Ma le testimonianze di un impostore rischiano di non essere credute e di dare involontariamente più forza alle tesi dei negazionisti, di quelli che affermano che i forni crematori a Auschwitz come a Mauthausen, a Triblinka, a Rovenbrüch come a Dachau non sono mai esistiti e che i sei milioni di ebrei trucidati sono una pura invenzione della propaganda sionista. Se Marco aveva mentito sorge il dubbio che gli altri testimoni ex deportati e sopravvissuti ai Lager avevano anch’essi mentito. In questo senso l’irresponsabilità di Marco è criminosa. Marco si confessa un impostore a metà ma dice di averlo fatto por una buena causa (per una buona causa). Ammette di aver commesso gravi errori nel raccontare le sue vicissitudini personali e collettive dovuti a ignoranza o superficialità (a Flossembürg non c’é mai stata una camera a gas) e di aver alterato la realtà senza accorgersi che così facendo rischiava di togliere credibilità a tutti i racconti sui campi di concentramento. Non esiste una nobile menzogna come scriveva Platone nella

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Repubblica, né menzogne altruistiche quelle cioé formulate in beneficio di altri, come sosteneva Montaigne. La menzogna, Kantianamente parlando, è sempre un male che non ammette eccezioni, un’azione malvagia che è ancora più grave se chi la commette non prevede le conseguenze che provoca. E Marco, secondo CERCAS, è stato un inarrestabile fabbricante di Kitch, un raccontatore non soltanto di falsità storiche ma anche estetiche e morali. Estuvo siempre donde estaban todos con la inmensa mayoría, scrive lo scrittore catalano di Marco impegnato a evitare di compromettersi, non fu un eroe anche se con tenacia contrastò la perdita di reputazione, è un Narciso nel senso che Ovidio diede alla favola mitologica: non s’innamora di se stesso ma evita di conoscersi com’è e così preferisce inventarsi in un altro modo. Se apropriaba del pasato anjeno o se incrustaba en él , scrive ancora CERCAS che fa come Leonardo ZELIG, il protagonista del film di Woody ALLEN che fisicamente si trasformava negli esseri che gli stavano attorno. Un intervento particolarmente duro e critico contro Enric MARCO e la sua controversa funzione di testimone privilegiato é quello che apparve il 18.06.2005 sul giornale LA VANGUARDIA intitolato La naturaleza del impostor a firma del giornalista e scrittore Gregorio MORÁN. Pur riconoscendo che la categoria impostori esercita un irresistibile fascino sulla Letteratura, forse perché gli scrittori trattano temi che non hanno vissuto o che solo immaginano, c’è comunque una categoria di mistificatori e millantatori che suscita repulsione, quella che gioca con le sofferenze altrui, con la vita e con il lavoro degli altri. Este tipo despreciable , dopo aver mostrato comprensione per le altrui sfortune, quando queste vittime non ci sono più ne assume il ruolo mostrandosi più vittima di tutti quelli che hanno provato veramente dolore e tormenti. Il riferimento è chiaramente rivolto a Enric MARCO BATLLE, este estafador ideológico, che si era presentato quale prigioniero ed ex deportato nei campi di sterminio nazisti e che era riuscito con bugie e complicità a essere il rappresentante più qualificato in Spagna per la funzione di Presidente dell’Amical delle vittime di Mauthausen. Ci sono cose, si legge nel succitato articolo, con le quali non è possibile giocare, quelle nelle quali qualsiasi

frivolezza è un crimine e i campi di concentramento sono una di queste. MORÁN va oltre nel suo acrimonioso commento quando legge che Marco, el muy gañan, ha avuto l’impudenza di protestare, dopo lo scoppio dello scandalo che lo aveva direttamente implicato, perché non gli era concesso el beneficio de la duda. Il giornalista e scrittore non può accettare che la rivista L’Avenç, simbolo degli studi storici in Catalogna, abbia ospitato un articolo non corrispondente al vero firmato da Marco nel quale nel raccontare la sua esperienza nel campo di concentramento

sosteneva di non aver vilipeso nessuno. Per Gregorio MORÁN un tipo come Marco capace di mentire su tutto, persino sulla sua data di nascita (era nato il 12 aprile 1921 e non il 14 aprile come falsamente diceva) e sul nome quando smise di essere Enrique Marco e si trasformò in Enrique DURRUTI o in Enrique il meccanico) presentandosi come una vittima dei grandi avvenimenti del secolo, come l’uomo della provvidenza e la personificazione stessa della storia del suo paese, non meritava in alcun modo l’opportunità di continuare a prendersi gioco della credulità di tanti lettori e ascoltatori. L’inganno è peggiore di un tradimento e l’impostore merita una punizione esemplare. Per un estafador che beneficia di un prestigio, di un’immagine non corrispondente a verità, non c’è pena che risarcisca del danno causato. In conclusione MORÁN è sicuro che tipi come Marco non si uccideranno e che anzi saranno orgogliosi di aver reso alla comunità un buon lavoro sociale e si sorprenderanno che non ci sia alcuno che li esalti come modelli esemplari. Paragrafo 6. Enric MARCO BATLLE e DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA, due campioni d’impostura. Javier CERCAS paragona il suo personaggio a Don Chisciotte o a Emma Bovary e ad altri grandi impostori che come l’ex meccanico di Barcellona non si adattarono al grigiore di un’esistenza ordinaria e ripetitiva e s’inventarono un’eroica vita fittizia. È la storia di Don Chisciotte/Alonso QUIJANO, semplice gentiluomo che vissuto in un paesone della Mancha, poco prima di compiere cinquant’anni e dopo aver condotto una esistenza noiosa quanto mediocre, decide come Marco di reinventarsi, il primo, come cavaliere errante e il secondo come eroe civile, una vita idealistica, coraggiosa, onorevole, in difesa dei valori morali e civili della

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gente più umile e laboriosa. In fondo i due narcisi affidarono ad un altro diverso da sé il compito di realizzare un comune sogno, vivere una vita magnifica, virtuosa e intensa che non hanno mai vissuto.

Come Marco, Don Chisciotte persegue notorietà e attende che le sue incredibili imprese siano amate, ammirate e ritenute eccezionali tali da restare nella memoria del mondo. Don Chisciotte è un mediopatico e anche lettore compulsivo, possiede come l’irriducibile operaio libertario e resistente antifranchista virtù fondamentali quali la fantasia, l’immaginazione, il gusto della parola, la pazienza di ascoltare i bisogni della gente in difficoltà ma trasforma la menzogna in verità e riesce a convincere tutti. Il Don Chisciotte della prima parte del libro di Cervantes, quello che s’inventa i prodigi cavallereschi di cui è protagonista, nella seconda parte si verificano davvero o così crede, allo stesso modo Enric MARCO, dopo aver raccontato la sua incredibile esistenza immaginandosi un profilo eroico e strabiliante, finì per incarnarlo veramente quando, diventato leader operaio, si scontrò con la

polizia venendo percosso con violenza, condotto in commissariato e anche imprigionato per poco tempo. In tutte e due le personalità l’io inventato e l’io eroico coincidono. Il vero Marco interpreta il Marco fittizio come Alonso Quijano interpretava Don Chisciotte, perciò per lo scrittore catalano Marco è Don Chisciotte. Se c’è una differenza è che Don Chisciotte è pazzo, quasi privo di un passato, mentre Marco non soltanto ne ha uno, ma sa anche che il passato non passa mai, es una dimensión del presente come dice Faulkner. Per questo oltre a reinventare il suo presente Marco reinventa il suo passato. E forse è un Don Chisciotte di maggiore successo (così pensa il figlio di Javier, Raül) perché Alonso Quijano non ingannò nessuno e tutti sapevano che Don Chisciotte, il suo alter ego, era un pover’uomo che credeva di essere un eroe cavalleresco, Marco invece ingannò tutti facendo credere che il Marco fittizio fosse il Marco reale e che fosse un eroe civile. La verità è che i due vogliono essere protagonisti, vogliono vivere più intensamente e presentarsi al mondo come il grande Don Chisciotte e il grande Enric Marco che tra la menzogna e la verità scelgono la menzogna, tra la finzione e la realtà propendono per la finzione come pensava Nietzsche quando affermava che noi esseri umani non possiamo sopportare troppa realtà e che spesso la verità è un danno per la vita. Ora non c’è alcuna esitazione in noi a biasimare, ben inteso, il personaggio di Marco per aver truccato il suo passato ma questa misera operazione di trucco o di abbellimento va anche letta e inserita all’interno di un preciso momento storico, la Transición dalla quarantennale dittatura franchista alla democrazia in Spagna. In questo contesto molti politici, intellettuali, giornalisti ma anche gente comune, pensavano di ricostruirsi un passato, in modo da presentarsi come democratici da sempre. Insomma avevano cose da nascondere (quasi tutti avevano collaborato con il potere franchista e quasi tutti ne avevano tratto vantaggi o benefici) e Marco fece la stessa cosa inventandosi un finto passato individuale e collettivo. Durante gli anni di dittatura la Spagna fu un paese narcisista quanto Marco e, a questo proposito, Javier CERCAS amaramente pensa che la democrazia é stata costruita su una menzogna collettiva o su una lunga sequela di piccole menzogne individuali mentre sarebbe stato opportuno, si chiede con pungente rammarico l’autore de La velocidad de la luz, che l’intero popolo spagnolo avesse esaminato criticamente i propri errori e cercato di costruire un nuovo mondo basato sulla verità. MARCO, in fondo, si era difeso come tutti avevano fatto anche se nessuno aveva osato portare la propria impostura a un così alto livello di fantasia. In questo senso, Javier CERCAS termina il suo ragionamento (El País, 27 dicembre 2009) affermando che c’è qualcosa nel destino di MARCO come in quello di Don Chisciotte o di Emma Bovary che ci riguarda tutti e

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che gli fa dire che todos representamos un papel; todos somos quienes no somos; todos, de algún modo, somos Enric MARCO.

Paragrafo 7. MARCO, el Impostor, e la sua folgorante ascesi all’Amical de Mauthausen. Ultimo atto. A MARCO mancava ancora qualcosa. La finta storia personale di resistente franchista non gli bastava, aveva bisogno di un riconoscimento più nobile e collettivo. E difatti grazie ai suoi studi di Storia all’Università Autónoma riesce ad approfondire il tema dei campi di sterminio in tempo di guerra. Legge un libro intitolato La deportación (1969) in cui era riportata una lista di campi di concentramento tra cui quello di Flossembürg con la foto del campo, delle baracche, delle torri di controllo, dei prigionieri e anche di gerarchi nazisti in

visita di controllo alle installazioni. Marco nota che tra i prigionieri c’erano anche alcuni di nazionalità spagnola, molto pochi in verità (circa quattordici) e subito fiuta la possibilità d’inventarsi la sua presenza in quel campo di concentramento secondario e di farsi passare per un sopravvissuto ex deportato a Flossembürg. Nel suo periodico incontro- intervista con l’autore catalano motivava il suo interessamento per quel triste periodo storico allo scopo di rivendicare la memoria degli spagnoli morti ma la verità è che voleva aggiungere un nuovo capitolo al profilo di eroe antifascista che si stava costruendo. Dal punto di vista della ricostruzione storica il tema della deportazione era poco trattato in Spagna ma uno studio critico, a firma di due attenti studiosi Mariano Constante e Eduardo Pons-Prades prossimo alla pubblicazione, spinge il nostro personaggio a interloquire con Pons-Prades e a raccontargli la sua verità con l’abituale perizia e prudenza tipiche di chi non si sente culturalmente sicuro né sufficientemente competente. Il libro dei due ricercatori esce nel 1978 con un piccolo accenno al racconto di Marco ma niente di più e di sorprendentemente nuovo. A quel punto Marco pensa di legare la sua fittizia presenza a Flossembürg con il suo reale soggiorno a Kiel. Ma per una costruzione convincente aveva bisogno di documentarla e per questo motivo il 12 aprile 1978 scrive una lettera al console spagnolo a Kiel per chiedere attestati sul suo soggiorno in Germania. La lettera è datata Barcellona con il timbro e l’intestazione della CNT a firma del segretario della CNT spagnola (in realtà a Marco mancano dieci giorni esatti per essere eletto a quell’incarico). Dalla lettera traspaiono alcune inesattezze e cioè 1. non furono gli inglesi a liberare Flossembürg ma gli americani; 2. la grafia Flossembürg è scorretta, confonde Flossembürg con Flensburg; 3. si firma con la grafia Marco e non Marcos che era il modo giusto perché quando firmò la lettera guidava la CNT sotto questo nome. MARCO non ha risposta e nel 1982 scrive nuovamente al Console spagnolo a Kiel indicando come indirizzo del mittente quello della casa di Sant Cugat e giustificando il suo sollecito con il desiderio di far luce su questa parte della sua vita abbastanza misteriosa. Questa volta MARCO riceve una risposta con la quale si assicurava l’interessamento del consolato di Spagna ad Amburgo. Dopo circa un anno si riesce ad appurare che al Servizio ricerca persone della Croce Rossa in Germania non c’era alcun dato su di lui. La cosa sembra terminare lì. L’interesse ritorna alla fine degli anni Novanta quando Marco si avvicina all’Amical de Mauthausen, l’associazione che riuniva gli ex deportati spagnoli residenti in Spagna. Come prima cosa, nel 1999, durante le vacanze di Natale, Marco fa un viaggio con la moglie in Germania passando da Kiel. Cercò a

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Kiel i luoghi della sua memoria ma inutilmente perché tutto era scomparso o irriconoscibile. Si rese conto che del suo soggiorno in città negli anni Quaranta non c’era traccia, nemmeno del suo arresto e del conseguente processo e apprese che tutta la documentazione era stata depositata all’archivio statale dello Schleswig-Holstein. Dopo aver pubblicato sul quotidiano La Vanguardia una lettera al direttore in cui MARCO parla de La Vita è bella, lo sdolcinato, a suo parere, film dell’italiano Roberto Benigni sui Lager nazisti,e dopo aver fatto una sintesi delle sofferenze che aveva vissuto da deportato, si lancia in un inno a se stesso e alla vita. In occasione di una vacanza a Praga in compagnia della moglie Dani, il nostro uomo ritorna a Flossembürg, molto vicino alla capitale ceca. In quel periodo il Memorial del campo esisteva già. Marco è ricevuto al Municipio e con la moglie visita i resti del campo e porta a Barcellona opuscoli informativi e libri per leggerli e forse per assimilarli insieme a tutte le notizie sulla deportazione generale e su quella spagnola in particolare. Capisce subito che la sua impostura sarebbe stata più facile se l’avesse collocata in campi di sterminio secondari e se fosse stato deportato dalla Germania e non dalla Francia in cui la deportazione era ben documentata. Aveva saputo inoltre che alcuni prigionieri passati da Flossembürg figuravano negli archivi con nomi diversi dal loro e che parecchi non erano stati iscritti nel registro di entrata. Venticinque anni prima MARCO era riuscito a farsi passare per un resistente antifranchista e ora perché non poteva farsi passare per un deportato spagnolo in un lontano campo nazista fra i tanti deportati spagnoli? E poi, perché qualcuno avrebbe dovuto smascherarlo? Pochi mesi dopo la sua prima visita a Flossembürg, MARCO comincia a partecipare alle riunioni di ex deportati nel Memorial del campo. Fu un assiduo partecipante e probabilmente lì conobbe lo storico Johannes IBEL incaricato di stilare una lista con le informazioni complete di tutti i prigionieri che erano passati per il campo e MARCO da sempre interessato ad accreditare documentalmente la sua presenza nel campo di concentramento, dichiara a Ibel, mostrandolgli una fotocopia di un registro dove figurava il suo nome, che quel prigioniero numero 6448 era lui, anche se il nome era Enric Moné. Ibel prestò attenzione a quanto veniva detto, ma scoprì che quello spagnolo era di Figueras e che i dati non coincidevano con le dichiarazioni di Marco. La discussione terminò lì e anzi, alla pressante richiesta di Marco che gli fosse rilasciato un certificato attestante che era lui il prigioniero N°6448 del campo di Flossembürg, Ibel si rifiutò di darglielo perché non aveva la certezza che Marco era stato prigioniero in quel campo di concentramento. Da quel momento il nostro personaggio utilizzò impropriamente sia il nome che si accertò essere Enric Moner e anche il numero del campo. Il numero di matricola risultò non essere mai appartenuto a nessun prigioniero, ma Marco continuò a essere presente ogni anno alle celebrazioni dei sopravvissuti, partecipava agli eventi commemorativi, deponeva fiori sulle lapidi degli spagnoli morti, pronunciava discorsi e teneva conferenze nelle scuole sulla sua esperienza di deportato. Insomma l’organizzazione del Memorial lo trattava come un sopravvissuto senza che lo fosse. Tutto ciò gli permise di conoscere sopravvissuti di altre nazioni e finì per riconoscersi come un deportato. Degli ex deportati a Flossembürg c’è una foto che li inquadra durante uno degli abituali incontri e MARCO, com’è sua abitudine, occupa un posto ben visibile centrale nella foto, guarda in macchina e mostra sotto i baffi densi e neri un leggero sorriso di contentezza. Il suo processo d’identificazione e di appropriazione di un nuovo e falso profilo identitario era completato. La sua partecipazione all’Amical de Mauthausen fu abbastanza frequente. In uno dei tanti incontri Marco conosce Rosa TORΆN, una professoressa di storia alla quale raccontò la sua esperienza di prigioniero, il suo lavoro di conferenziere negli Istituti Secondari. Per iscriversi all’Associazione compilò un questionario le cui risposte sono una mescolanza quasi perfetta di menzogne e di verità. Allegò in fotocopia alcuni documenti tra cui una pagina del registro di campo in cui c’era scritto a mano il nome di Enric MONER che poteva essere confuso con quello di Enric MARCO. Comunque nessuno dei documenti consegnati dal nostro personaggio

dimostrava che fosse stato un deportato nel campo di Flossembürg e nessuno pensò di opporsi alla sua richiesta d’iscrizione. Non appena entrò nell’Amical MARCO sembrò l’uomo di cui avevano bisogno a causa della crisi che l’Associazione stava attraversando. Si trattava di rinnovarla, di modernizzarla e Marco con il suo instancabile e generosissimo impegno, riuscì in poco tempo, grazie anche al suo prestigio di eroe civile a dare centralità e valore alla

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memoria della Deportazione. Fu il periodo in cui MARCO intensificò le sue apparizioni pubbliche alternando ricostruzioni storiche ad aneddoti e storie inventate, ricreava atmosfere e stati d’animo e dava informazioni più dettagliate su luoghi, personaggi e date. In una delle frequenti visite a Flossembürg con Rosa Torán la donna poté notare l’insistenza con la quale Marco chiedeva di poter vedere la sua scheda d’ingresso nel campo, la stessa si stupì non poco nell’apprendere dal responsabile dell’archivio che non c’era alcuna garanzia che il nome di Marco risultasse dalla documentazione in loro possesso. Comunque, pur con qualche timida riserva, il 6 aprile 2003 MARCO è eletto Presidente dell’Amical e Rosa Torán vicepresidente. La presidenza di Marco coincise con l’esplosione della cosiddetta memoria storica in Spagna, con l’enorme interesse per il passato recente e per il ricordo delle sue vittime. Durante il suo mandato la Amical passò da associazione che aggregava i deportati spagnoli a centro di documentazione e diffusione della loro storia. Si cominciò a mettere in ordine gli archivi, la biblioteca fu ampliata, si organizzarono più viaggi e convegni, si ottennero aiuti finanziari dalla pubblica amministrazione e in ultimo si portò la nuova sede nel centro storico di Barcellona (calle Sils). Tutto questo fu possibile grazie al dinamismo e alle capacità organizzative del suo Presidente che aspirava a presentarsi come l’uomo della provvidenza, un uomo che incarnava la storia del suo paese, un uomo che da quando aveva quindici anni aveva difeso la libertà, la solidarietà e la giustizia sociale. Era la storia di un resistente contro il fascismo, il franchismo e il nazismo che aveva patito ogni tipo di sofferenza senza mai smettere di lavorare per costruire un mondo migliore affinché le nuove generazioni non vivessero ciò che lui aveva visto e vissuto. Ecco il senso del monito Perdonare, Sì; dimenticare, NO rivolto ai ragazzi delle scuole con cui MARCO soleva terminare le sue conferenze. Per lui era finito il tempo del silenzio e dell’occultamento ed era venuto il momento di affrontare la verità. Le sue erano lezioni morali più che testimonianze ai giovani che si potevano superare le prove più dure a patto di mantenersi liberi, degni e solidali. Ora se da quel momento MARCO è riconosciuto come un eroe civile, campione della cosiddetta memoria storica, ciò é dovuto all’effetto dei media che gli assicurarono il successo mediatico e la centralità del ruolo. Per Javier CERCAS questa dittatura del presente che trasformò MARCO una rock star della memoria storica non solo non lo aiutò a uscire da un blog fantasioso formato da poche verità e da molte menzogne ma gli fece perdere la prudenza sostituita da un vizio insopportabile e repulsivo: l’arroganza. Sicuro del raggiungimento di una solida posizione sociale e da un prestigio politico e convinto e, convinto di essere visto come un eroe e martire, MARCO cominciò a prendere le distanze dai vecchi deportati, a disprezzare i suoi compagni dell’Amical, a inventarsi episodi a carattere sessuale del tutto inverosimili accaduti nel campo di Flossembürg e soprattutto non esitò a raccontare qualsiasi cosa non supportata da documentazioni perché credeva ingenuamente che nessuno mai l’avrebbe messo in discussione. Fu la superbia che lo fece precipitare in basso e soprattutto l’aver creduto che come diceva Faulkner il passato non passa mai, è una dimensione del presente. Il passato ritorna sempre ma non sempre per salvarci bensì, a volte, ritorna come realtà per ucciderci. E stavolta, dice Javier CERCAS, lo uccise. Paragrafo 8. Sulla tirannia della memoria e sul ruolo della vittima-testimone. Il romanzo EL IMPOSTOR negli ultimi capitoli inserisce altre tematiche che possono essere considerate sulle prime lontane dal racconto di Enric MARCO ma che a ben vedere sono parte integrante di esso. I temi cui facciamo riferimento sono il senso e il ruolo della cosiddetta memoria storica e al suo interno la figura del testimone, temi che per più di una decade sono stati centrali negli articoli giornalistici e nei saggi dell’autore iberico per spiegare le origini del suo progetto narrativo, de la novela sin ficción, sulla base di quanto

già realizzato in A sangre fría (A sangue freddo) da Truman CAPOTE e in El adversario (L’avversario) di Emmanuel CARRÈRE.

Javier CERCAS nel suo libro si mostra esitante ad accettare che la riflessione sulla memoria histórica sia passata dall’essere un caso specifico spagnolo ed europeo a un modo allargato e globale d’intenderla. Una

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discussione che a volte trae origine dall’industria dell’Olocausto e poi cresce in modo trasversale coinvolgendo le funzioni dello storico e della vittima-testimone. In fondo l’espressione memoria histórica è equivoca e si presta a più malintesi sicché per CERCAS dovrebbe chiamarsi memoria de las victimas o in Spagna memoria repubblicana. Per lo scrittore catalano è un dovere che la Letteratura difenda e riconosca la causa delle vittime, però è altrettanto doveroso riprovare la gente che le usa a proprio vantaggio al fine di ricavare benefici personali, morali, simbolici e anche economici poiché c’è un uso politico buono della memoria e un altro cattivo da condannare per evitare che le vittime ci vedano falsi e interessati. In Spagna e anche altrove accade che un movimento pro-vittime fallisca per la mercantilizzazione che si fa della memoria storica. Enric MARCO ne è un esempio perfetto: lui ottenne benefici personali e morali per le sue menzogne e per questo non smetteva mai di dirle sempre più grosse, più sentimentali, più eroiche, quelle che la gente semplice attendeva da lui e per le quali restava incantata ad ascoltare. Per CERCAS il risultato di questo mercantilismo non è il trionfo della memoria o della storia ma quello del kitsch de la memoria, il trionfo di una memoria contraffatta. D’altronde nella stessa espressione memoria histórica c’è una contraddizione, nel senso che i due termini

sono in opposizione, essendo la memoria individuale, parziale e soggettiva mentre la storia è collettiva e vuole essere totale e oggettiva. Nessuno meglio di Marco trasse profitto da questa antitesi. Qualcuno (Maurice HALBWACHS) afferma che bisognerebbe piuttosto parlare di memoria in prestito attraverso la quale non ricordiamo memorie nostre ma degli altri, quelle che non appartengono al nostro vissuto esperienziale ma che abbiamo ascoltato da altri. A questo riguardo, Enric MARCO fu uno dei tanti che costruì i

suoi racconti con ricordi altrui. Sebbene dicesse con orgoglio di voler difendere e recuperare la memoria delle vittime repubblicane della guerra civile e del franchismo ( così facendo contribuiva definitivamente al superamento di quel terribile passato), in pratica non faceva altro che portare acqua al mulino della sua grigia esistenza abbellendola e alterandola. Non crediamo, comunque, a MARCO quando dichiarava di voler far uscire dall’oblio la sua nazione e a far emergere l’ipocrisia di tante persone che in tempo di dittatura e di Transición si erano costruite un passato fittizio, inventandosi biografie da oppositori e resistenti dopo anni di silenziosa complicità. Ma in realtà fu uno di quelli che trasse vantaggio dal fatto che i crimini della dittatura non erano perseguiti e che tutti i partiti politici

dalla destra alla sinistra furono d’accordo a non fare luce su quel periodo storico. La vera questione da affrontare in campo istituzionale e sociale non era tanto recuperare la memoria histórica quanto la fiducia e il rispetto delle vittime e dei sopravvissuti alla guerra e alla dittatura franchista, non era tanto di dare un nome e un cognome ai numerosi approfittatori e falsificatori che si nascondevano dietro termini confusi e equivoci quanto venire incontro alle richieste di risarcimento avanzate dalle vittime, di riconoscimento della volontà di combattere il male della dittatura e realizzare un inventario degli scomparsi assolutamente completo e vero. A Javier CERCAS non piace per niente che lo Stato come ha fatto con La Ley de la Memoria Histórica (2007) si sia assegnato il compito di legiferare sulla Storia perché spetta agli storici analizzare la Storia, non ai politici. Il rischio, sostiene lo scrittore catalano, è di ripristinare goffamente metodi e procedure

degli Stati totalitari che sanno troppo bene che per dominare il presente devono dominare il passato e non spetta neanche alla magistratura e ai giudici come Baltazár GARZÓN. Cosicché alcuni storici cominciano già

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a temere che il tentativo di assoggettamento della Storia da parte della memoria vada allargandosi con contropartite pericolose. A questo riguardo Pierre NORA e Élie BARNAVI mettono in guardia all’unisono contro ciò che chiamano la tiranía de la memoria cioè il fenomeno, non esclusivo della Spagna, che vede la memoria imporsi sulla Storia. La Storia, ribadisce lo scrittore catalano, non può e non deve essere al servizio della memoria ma della verità dal momento che la memoria è per definizione il contrario della verità, es un instrumento, un ingrediente, una parte de la história. Per Javier CERCAS è rischiosa la tendenza a scrivere la Storia dal punto di vista esclusivo delle vittime perché la storia delle vittime è appena una parte della storia. Il racconto del proprio passato perderebbe la sua funzione di ricostruzione oggettiva se fosse subordinato alla sola fragíl memoria. Perciò, termina l’autore dell’articolo uscito il 2 gennaio 2008 sul quotidiano El País, lo Storico non è un ideologo, non è un politico e nemmeno un magistrato. Lo Storico non è nulla di più e nulla di meno che uno storico. Queste osservazioni conclusive che leggiamo nel succitato contributo di CERCAS sono da interpretare come una sua risposta a quanto affrontato in un recente dibattito sulla figura della vittima-testimone sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti. Nell’articolo pubblicato su El País del 26 dicembre 2010, lo stesso Javier CERCAS ritorna sull’argomento contestando l’assunto di Elie WIESEL, sopravvissuto ad Auschwitz e a Buchenwald, secondo cui los supervivientes tienen que decir sobre lo que allí pasó mas que todos los historiadores junto…porque sólo los que estuvieron allí saben lo que fue aquello; los demás nunca lo sabrán. Per lo scrittore iberico le argomentazioni di Elie Wiesel sono credibili ma solo in parte, é vero che i sopravvissuti ai Lager sono gli unici che conoscono la verità sugli orrori di quel fenomeno diabolico ma non significa, però, che lo comprendano nella sua totalità e complessità poiché occupati a garantirsi la propria sopravvivenza, forse si trovano nella peggiore situazione possibile per capirlo fino in fondo. Lo dimostra il caso di Enric MARCO quando, falsificando la realtà e facendosi forza dell’essere stato testimone e quindi depositario di verità, si è spacciato per reduce del campo di Flossembürg costruendosi un’immagine e una storia irreprensibili ricorrendo a continue menzogne, salvo poi essere smascherato da uno scrupoloso storico spagnolo, Benito BERMEJO SÁNCHEZ, dopo anni di finte lacrime e di varie complicità, scandalo che declassò Marco dall’essere un esempio morale a rappresentante illustre de la Historia Universal de la Impostura. Non è un caso che sia stato uno storico madrileno, esperto di deportazione, che scoprì nel 2005 che la storia raccontata da Enric MARCO era solo una geniale, sofisticatissima, dettagliatissima menzogna. Una menzogna era l’abito di eroe che Marco con straordinaria abilità si era cucito addosso e che ostentava in ogni occasione della sua normale quanto dinamica esistenza suscitando l’ammirazione di chi desiderava rispecchiarsi in qualcosa di cui andare fieri. Lo storico non pretende di raggiungere la verità assoluta, somma d’infinite verità parziali e perché tale irraggiungibile, ma a meno che non sia un incosciente o un pigro, lo storico sa che ha l’obbligo di avvicinarsi a quella perfetta verità e che può farlo più di tutti. È per questo che la maniera di operare del giudice è simile a quella dello storico; come la magistratura lo storico ricerca la verità, come il giudice lo storico esamina i documenti, verifica l’autenticità o attendibilità delle prove di cui dispone, mette in relazione i fatti, interroga i testimoni e poi alla fine emette un verdetto che non è definitivo e che può essere confutato. È comunque solo il giudice o lo storico a formulare un giudizio. Non certamente il testimone che non ha sempre ragione perché le motivazioni possono inquinare la memoria che é

spesso inconsistente e interesada, non sempre ricorda tutto e bene, non sempre riesce a separare il ricordo dall’invenzione o ricorda semplicemente ciò che conviene ricordare. Per Javier CERCAS, in tempo di saturazione di memoria, occorre affidare la Storia agli storici di professione. Il caso-MARCO è il risultato di un eccesso di sacralizzazione che colloca il testimone-vittima in una dimensione che non gli

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appartiene. MARCO trae beneficio da questo momento storico che lo vuole vittima e quindi intoccabile. Javier CERCAS invece crede che la vittima meriti comprensione ma non necessariamente deve essere un eroe giacché un eroismo erroneamente inteso può essere una pericolosa arma politica. MARCO non è un eroe, non lo è mai stato. È solo un grande impostore, il grande maledetto.

CONCLUSIONE.

Quando Enric MARCO diceva di essere stato prigioniero nel campo di concentramento di Flossembürg non romanzava, falsificava la verità. Ma ci è difficile pensare che per MARCO e per certa critica l’uso di falsi ricordi, di ambiguità e d’incredibili panzane di cui il protagonista de El Impostor si era servito a piene mani, sia la strada più giusta per promuovere il recupero della memoria storica. Non ci sentiamo di condividere l’opinione di Claudio MAGRIS quando, in riferimento alle parole di Voltaire, dopo aver considerato pietosamente Marco un bugiardo che diceva la verità, lo definisce un benefattore dell’umanità e ritiene

la menzogna una grande virtù quando fa del bene. Non possiamo accettare che determinate fragilità collettive abbiano assicurato il trionfo dell’impostura di MARCO che si servì del prestigio della vittima e quello del testimone e che nessuno nel complesso periodo de la Transición, abbia messo in dubbio l’autorità della vittima e l’attendibilità del testimone ex deportato e sopravvissuto. È certo che la vile accondiscendenza ha rafforzato o sostenuto l’inganno di MARCO, per Javier CERCAS essa è dovuta a una relativa ignoranza del passato in generale e del nazismo in particolare. Lo stesso scrittore sostiene che benché MARCO si spacciasse come un rimedio contro l’oblio nazionale, occorre rilevare la responsabilità dei partiti politici di destra e di sinistra che ipocritamente preferirono per interesse di parte silenziare la questione. Le menzogne di Marcovennero a soddisfare la richiesta della maggioranza degli spagnoli de venenoso forraje sentimental aderezado de buena consciencia histórica (di velenosa mescolanza sentimentale condita da buona coscienza storica).Egli, impersonando la menzogna ambulante, esagerò e interpretò mostruosamente questa necessità. A questo punto urge farsi questa domanda: le menzogne di MARCO erano necessarie per il suo bene, per far sapere a tanti cittadini spagnoli in prima persona gli orrori delle barbarie nazi-fasciste, lui che aveva detto di aver mentito sulla permanenza nel campo di concentramento di Flossembürg ? Noi crediamo di no, all’autore iberico si oppone a MARCO prendendo la parola nella parte finale del suo libro in un dialogo immaginario con lui (pp.338-352) il tono accusatorio ricorda La Nochebuena di LARRA e l’incontro dell’UNAMUNO di NIEBLA con Augusto. MARCO replica accusando il suo creatore di aver tratto benefici quanto lui dall’industria della memoria, di essere diventato ricco e famoso con un libro dal titolo Soldados de Salamina (2001) che bello non è ma che la gente aveva letto perché aveva bisogno di ricordare il proprio passato repubblicano, di piangere per quel vecchio , Miralles, dimenticato in un ospizio di Digione e per i suoi amici morti in guerra, così come aveva bisogno di piangere per ciò che aveva raccontato nelle sue conferenze sulla guerra e su Flossembürg. Ribadiva che grazie a lui si era cominciato a parlare della Shoah, degli orrori dei campi nazisti, della giustizia, della libertà, di solidarietà e dell’esistenza del campo di Flossembürg dove erano morti quattordici cittadini spagnoli. CERCAS non può sopportare queste accuse e risponde rimarcando che il romanziere ha l’obbligo di fantasticare e che il suo personaggio invece doveva dire la verità. MARCO continua con il suo tono inquisitorio, a volte violento e gli dice di essersi comportato come lui, facendo diventare di moda la memoria storica e contribuendo a creare l’industria della memoria, con la differenza che lo scrittore iberico è stato premiato mentre lui è diventato un apestato y corrompido. È di tutta evidenza che le incalzanti argomentazioni di MARCO tendono a far sentire in colpa l’autore che ribatte punto su punto rimanendo calmo e non cadendo in nessun modo nelle provocazioni diffamatorie del suo personaggio, anche quando MARCO tira in ballo il difficile periodo di salute di Javier costretto ad andare in analisi per domare il suo senso di colpa. CERCAS non cade nella trappola dell’insulto personale, degli improperi rabbiosi e irriverenti diretti alla sua attività professionale nemmeno quando il suo personaggio lo giudica un impostore, una farsa di scrittore, uno scrittore senza talento, senza intelligenza, insomma un fantoccio, un personaggio penoso, un asociale e un’autentica canaglia

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consigliandogli, al colmo del nonsense, di uscire dal nascondiglio rappresentato da ciò che scriveva per riconoscere o riconoscersi per quello che realmente era perché parlando del bugiardo e commediante Enric MARCO Javier CERCAS non parlava che di sé, il grande impostore e il grande maledetto. Ma lo scrittore catalano ribadisce che il grande errore del suo personaggio è stato quello di farsi beffa di milioni di morti e di tanti, soprattutto giovani che hanno creduto ingenuamente ai suoi falsi racconti e lo hanno, sì, ammirato e adorato per poi scaricarlo miseramente dopo aver letto le bugie ma anche le mezze verità ne El Impostor, il suo libro. La sua bassezza è ciò che aveva caratterizzato i peggiori anni del franchismo, quando l’istinto di conservazione si trasformò in codardia quotidiana della maggioranza. MARCO reinventò la sua vita in un momento in cui il paese tutto stava reinventandosi dopo la dittatura di Francisco FRANCO costruendosi una nuova immagine in chiave democratica. Essendo frutto della sua epoca Enric MARCO, continua ancora CERCAS, fu fedele alla verità e all’onestà e diventò falsamente un eroe nietzschiano, un uomo che credeva in una vita a misura dei propri desideri e ideali e si lanciò a viverla senza curarsi di niente e di nessuno, né dei

valori morali fondamentali né del rispetto degli altri. MARCO ha dimenticato che i sogni devono fare i conti con la realtà. A differenza di quanto aveva fatto Truman CAPOTE con i due giovani assassini protagonisti del suo In Cold Blood, che per conoscerli a fondo frequentava le loro celle facendo nascere e poi consolidare un utile e ambiguo rapporto di amicizia (lo stesso aveva fatto Emmanuel Carrère che scambiava regolarmente delle lettere con il protagonista del suo romanzo EL Adversairo, entrando così nella vita più intima e

personale del falso medico Jean-Claude ROMAND), lo scrittore catalano e Marco non potevano diventare amici, né esserci alcuna empatia poiché tutto li divideva sul piano caratteriale e culturale. E difatti i loro incontri di lavoro a volte terminavano bruscamente, senza un saluto, interrompendosi per qualche tempo per poi riprendere con la stessa scialba atmosfera: da un lato lo scrittore che lo incalzava rimarcando le sue contraddizioni, le sue menzogne, e dall’altro MARCO che tenacemente cercava di controbattere ricorrendo a motivazioni che puntualmente erano sconfessate dai fatti e dalle testimonianze. Il personaggio di ENRIC MARCO non poteva uscire indenne da un’impostura così enorme, intensa e compiaciuta. E difatti sopraggiunse lo scandalo che condannò MARCO, alla stessa stregua di Truman Capote, a essere per molti, lui Sì, il grande impostore. Prof. Raffaele FRANGIONE _________________________________