Edizioni Virtuali “Il Basilisco” - poesieinversi.it · oggetto fluido, tale da essere...

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Lo specchio, nella deformazione delle identità.

Questa raccolta di poesie (estate del 2010) raccoglie una serie di impressioni nate a termine del

cinquantesimo anniversario della nascita della Cantina Sociale Cesanese del Piglio. In una continua

regressione di se, spostando ogni giorno più in la il limite psicofisico dell'esistenza, ho scelto un

dialogo immaginario con il testo "Il ritratto ovale" di Edgar Allan Poe- al quale seguirà un breve

piece teatrale- ed il libro "Il labirinto della solitudine" di Octavio Paz per la nascita improvvisa ed

inaspettata del mio alter -ego: Orma Rash.

In questa breve raccolta non vengono centellinati i giorni di festa, con l'ambizione della perfezione,

bensì le immagini di quei festeggiamenti assumono un carattere distorto, dimesso. Quasi onirico.

Non avendo paura di se, l'esistenza di questo personaggio si muove attraverso un autocoscienza che

non nasce dallo specchio, oppure dall'intelligenza dei connotati, bensì dalla mancata stima di se, dal

mancato successo di se. Il vincitore è la persona amata, che nel continuo gesto di perdersi e lasciare,

assume le sembianze di una donna che non si cura e non vuole ringiovanire. Al contrario, questa

simulazione di progresso riporta Orma Rash nella piena crisi d'identità- contro me stesso- non

avendo giorni da ricordare, scagliandosi contro lo stesso amore, in una ricerca disperata di

allontanamento dallo specchio (l'immagine riflessa di se) che mai potrà rinfrancarlo.

Maria, scappa via

le torri sono senza padrone

il tuo regno non avrà fine

e questo silenzio irradierà il confine.

Nel mese di Dicembre 2010 sono state prodotte 50 bottiglie di vino con un disegno di Orma Rash

intitolato "Rosso Rash"- in collaborazione con l'Azienda Agricola Mario Macciocca.

Il racconto "Il ritratto ovale" di Edgar Allan Poe è disponibile su internet presso il fan club

dell'autore.

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di Orma Rash

Comprendere, quindi apprezzare il messaggio globale implicito in quest’opera poetica induce ad

affrontare un’emozionante esperienza di regressione, parallela a quella che l’autore dichiara di aver

vissuto scrivendola. Ma la regressione suggerita dalla raccolta in versi, per essere interpretata, non

coincide con il cammino interiore di incontro con un nostro presunto alter ego: infatti non è

l’espansione di un Sé profondo, la proiezione di noi stessi su una cosa o persona, a rivelarsi propizia

a intendere le parole di Orma Rash, cioè dell’identità alternativa la cui nascita “improvvisa e

inaspettata” rappresenta l’epilogo e il punto di partenza del libro.

Il percorso da affrontare per chi legge è invece a ritroso nella coscienza primitiva della creazione-

esegesi di un testo letterario, poiché esso, sin dalle prime arcane formulazioni, non è mai stato

un oggetto unico inadeguato a registrare legittime modifiche nella propria sfera allusiva: in altri

termini, in nessuna epoca le frasi letterarie hanno “viaggiato”, dall’autore al destinatario, sotto un

profilo compiuto (come ha ben spiegato lo studioso Fabio Ciotti, le cui illuminanti indicazioni

rivivono qua e là, liberamente riadattate, nella presente trattazione).

Infatti, anche se il componimento relativo alla tipologia estetica tramandata grazie alla scrittura -

semplificando la questione - è da valutarsi paradigma di un costrutto lineare (e Orma, pur

rendendolo nel complesso eterogeneo, non se ne discosta, come invece avviene in molti casi di

letteratura digitale), ebbene, pur trasformandosi in elemento incisivo nell’assetto narrativo, non

costituisce garanzia della sua unicità di voce, né di piani di espressione separati e conclusi, né

tantomeno di intervalli temporali già consumati e invalicabili.

Dare origine a una storia sotto forma di tradizione orale, non comporta invece d’obbligo l’adozione

di una semantica di natura rettilinea o sintagmatica. Forse attratto da una possibilità del genere,

l’autore sceglie di evocare un dialogo utopico con il racconto Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe e

il lungo saggio Il labirinto della solitudine di Octavio Paz, tentando, secondo un apposito

procedimento, di non contrarne affatto nella pagina la libertà fenomenica di articolazione.

Piuttosto, assunte le sembianze dell’altra - o seconda - personalità, Orma, lo scrittore, combinando

con grande attenzione i vari tasselli del sistema, pare quasi indotto a rispondere a un’impellente

necessità di riordinare il molteplice dell'esperienza vissuta - in prima persona e dal contesto -

proprio grazie a questa dinamica continua di linguaggio. Ma anche per lui, l’essersi rivolto

alla linearità di comunicazione non ha costretto la sua raccolta poetica a tradursi in un discorso

completo e definitivo giunto a noi come oracolo da interpellare con deferenza e sottomissione.

Scrive: “SEMPRE APERTO/SEMPRE SVEGLIO/le camicie degli evasi/stese alla finestra/le grandi

storie dei folli/(mai tornati)/sui maxischermo, in mondovisione”.

Un primo passo in direzione dei trascorsi della coscienza creativa e di utilizzazione

dell’evento letterario conduce immediatamente al riscontro di quanto, prima che si diffondesse la

stampa verso la metà del quindicesimo secolo, l’ideazione stessa di

un elaborato in sé definito fosse assai rara. Le composizioni erano, quasi sempre, lette in pubblico -

quando non se ne ascoltavano, addirittura, interi brani recitati a memoria - in occasioni per la

maggior parte celebrative.

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Con riferimento al volume di Octavio Paz (una dettagliata ricostruzione storica e culturale del

Messico dalla conquista a oggi) e in particolare alla mitologia delle feste, tanto centrali nella sua

esplorazione di civiltà, non credo sia un caso che nell’introduzione di Cespugli si precisi: “…non

vengono centellinati i giorni di festa, con l'ambizione della perfezione, bensì le immagini di quei

festeggiamenti assumono un carattere distorto, dimesso”. Forse, dimesso perché serio, impegnativo

e, appunto, di non remota matrice cultuale.

I versi della poesia “Canto dei perdenti” recitano: “Questa rabbia senza velocità/alimentata dal gas,

la nostalgia:/(i pomodori secchi, rossi/una penombra messicana,/viaggi a ritroso, partiti

d’opposizione)./Mi calo il sombrero, aspetto i 40 gradi/chiudo gli occhi ascoltando in

sordina/questo canto dei perdenti”. Nel corso del Medioevo, in ambito umanistico, la modalità di

"esecuzione" commemorativa e popolare del testo fu prevalente: pertanto, attraverso la tecnica di

trasmissione sia pubblica sia d’élite, il messaggio veniva conservato sotto la fisionomia di

oggetto fluido, tale da essere sottoposto a eventuali modifiche nel tessuto lessicale e nello sviluppo

della trama. Nuovi personaggi potevano comparire, fatti imprevisti riuscivano a inserirsi

nello svolgimento, in alcune parti diversificato secondo intervalli irregolari, giungendo così non solo

a complicare il decorso primario, ma a renderlo, persino, aperto: ed ecco Orma intrecciare la

comune crisi di identità con la facoltà attribuita a Maria - protagonista del gothic tale vittoriano di

Poe - di superare la morte (della vicenda) iniziale, in virtù dell’abbandono della propria speranza di

rinascita, rigenerazione assoluta.

Anche la struttura del romanzo cavalleresco si basava su presupposti di esecuzione abbastanza

conformi, rimasti attivi fino al tardo Seicento in una soluzione estetica che dalla tradizione ereditava

molte qualità, vale a dire il teatro dell'arte. E la teatralità, annunciata come séguito della raccolta di

Cespugli, potrebbe, nella mente dell’autore, fornire un modello di maschere fisse interscambiabili

assai funzionale al gioco di alternanza e passaggio di voci e individualità molteplici (infinite in una

direzione, ma ridotte a potente unicità di intenti nell’altra) tra le quali si muove, ansioso e

visionario, il temerario Orma Rash, e noi con lui.

Tuttavia la tendenza fluida dei passaggi non era riservata al solo momento della genesi e fruizione

collettiva.

Persino la riproduzione manoscritta non consisteva mai in semplici trascrizioni, almeno fino al

periodo umanistico e prerinascimentale. I copisti erano spesso uomini di grande cultura o autori essi

stessi: nel procedere alla copiatura, diversificavano il risultato a vari livelli, spinti da atteggiamenti

consci oppure, al contrario, da necessità di realizzazioni inconsce. Manifestando anche loro forte

insofferenza ai vincoli interni alla consequenzialità letteraria, gestita con il rispetto dovuto a

un’affermazione chiusa e restrittiva, lo scrittore e l’alter ego, nel dialogo articolato con gli altri testi,

si sentono autorizzati a intervenire secondo personali curve di giudizio.

Accanto al compilato, i copisti introducevano commenti, destinati con il passare di mano in mano a

fondersi con l'originale. Analogamente, nelle poesie di Orma, in corsivo appaiono trascritti (oltre

che tradotti in italiano) frammenti delle opere considerate, tra citazioni e neo-formulazioni, in

sequenza indistinta nella proposta di significato complessiva.

L’indipendenza impugnata dalla proiezione dell’inconscio del lettore-esecutore nei manoscritti, con

l’avvento della testualità stampata viene senz’altro a ridursi; e quando essa verrà affidata

a strumenti virtuali di scrittura lineare, la situazione in tal senso non muterà. È dunque innegabile

che la riproduzione tecnica della scrittura - con omaggio all’epifanico saggio di Walter Benjamin -

abbia indotto la formulazione del messaggio ad assumere lo stato di un oggetto linguistico stabile,

poiché, è stato osservato da più parti - almeno nella norma - a nessuno di noi salterebbe in mente, ad

esempio, di modificare la storia dei Promessi sposi volendo magari “redimere” don Rodrigo prima

della peste per metterlo in scena, subito dopo, testimone d’onore delle modeste ma felici nozze di

Renzo e Lucia.

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Eppure, un “margine estremo” affine, Orma sembra volerlo valicare, dedicando l’ultima - almeno

per ora - scena di Cespugli a una sorta di teatralità, equivalente forse a un nuovo, provvisorio finale

(quindi, aperto) dell’avventura di Poe. In teoria, ritengo un simile atteggiamento ideativo ricco di

suggestioni ed esiti inquietanti: sono del parere che l’attuazione di questa scelta e la sua forma in

progress, ancora sperimentale, assicurino comunque un fascino indiscutibile, poiché la lettura non

può in alcun caso ridursi alla testimonianza di un processo del tutto passivo.

Anzi, per quanto i contesti di poesia possano essere fissati entro un universo di presenza concreto e

immutato nel tempo, individuarli e comprenderli significa ancora oggi collaborare con la testualità,

caricandola di significati, potenziandola con l’esperienza personale e il bagaglio di aspettative

operanti a lato di ciascuna ricezione e giudizio di gusto, speciale e irripetibile.

Ogni lettura, insomma, in compagnia di Orma e delle immagini del raddoppiamento evocate, si

moltiplica di riga in riga, da una argomentazione alla successiva, ed è diversa, ulteriore: pertanto

non risulta mai vincente confinare a priori, al di qua della pagina, lo spazio d’azione riservato alla

risposta del fruitore. Il suo intervento può trovare posto, al contrario, tra le riflessioni del messaggio

stesso: “Non ho immaginazione/i desideri scaricati,/lavati sul lavandino/i panni sporchi/lavati in

televisione/ Ti bacio come natura/come natura mi baci/e senza fiato, mi amor!”

Sono dalla parte dell’autore: la poesia, le indicazioni semantiche non possono sopravvivere e

giungere a noi, da qualsiasi parte provengano, mentre le concediamo di avanzare tra binari stretti e

invalicabili, ostili a riformulazioni ed emozionalità libere e genuine. Alcuni grandi, del resto, hanno

già sperimentato soluzioni che invalidassero, almeno parzialmente, siffatti limiti, adoperandosi a

raggiungere la mèta, talvolta, di scrivere un romanzo infinito, un sentiero di trama-intreccio pronto

ad accogliere tante diverse ipotetiche storie, in maniera che ognuno, con la propria parafrasi,

potesse organizzare uno svolgimento inedito dell’opera. Basti pensare al prezioso ed

epifanico Tristram Shandy di Lawrence Sterne nel lontano Settecento o, durante il secolo scorso,

all'Ulysses di James Joyce, ai racconti-saggi di Jorge Luis Borges, al nostro indimenticabile Italo

Calvino con I figli di Babbo Natale, ultimo episodio di Marcovaldo.

In conclusione, mentre gridiamo a Maria una speranza di vita mai spenta, prescindendo dalla

violenza o costrizione a codici imposti, oltre la gabbia di qualsiasi convenzione autoritaria (“Maria,

scappa via…/ le tue torri sono senza padrone/ il tuo regno non avrà fine / e questo silenzio irradierà

il confine), adesso sono io a introdurre il discorso in un altro testo - ovvero la sceneggiatura

di Malice, stupendo film di Harold Becker scritto da Aaron Sorkin - rivolgendo a te, Orma, la

battuta pronunciata dal personaggio dell’anziana mrs. Kennsinger (cameo di Anne Bancroft):

“Welcome to the game!”, “Benvenuto nel gioco!”.

Cinzia Baldazzi

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Il castello, nel qual il mio domestico s’era deciso di penetrare a viva forza, anziché permettermi,

deplorevolmente ferito come io era, di passare una notte all’aria aperta, era una di quelle

costruzioni, indecifrabile miscuglio di grandezza e melanconia, che hanno per sì lungo tempo

innalzate le loro rocche eccelse in mezzo agli Appennini, tanto nella realtà quanto

nell’immaginazione di mistress Radcliffe.- Secondo ogni apparenza, esso era stato abbandonato

temporariamente e tutt’affatto di recente.

Noi ci adattammo in una camera fra le più piccole e le meno riccamente ammobiliate, posta in una

torre appartata dal fabbricato. Lungo i muri erano tese delle tappezzerie adorne di numerosi trofei

araldici d’ogni forma, nonché di una quantità veramente prodigiosa di pitture moderne, in sontuose

cornici dorate, d’un gusto arabesco.

Io provai tosto un vivo interesse (e la causa ne era forse il delirio che incominciava ) per questi

dipinti che erano affissi, non solamente sulle pareti principali delle diverse camere, ma altresì in una

sequela di anditi e corridoi che, per la bizzarra architettura del castello, dovevamo passare

inevitabilmente; e crebbe tanto l’interesse, che ordinai a Pietro di chiudere le massicce imposte

della camera – di accendere un gran candelabro a più bracci, collocato vicino al mio capezzale, e di

alzare invece, quanto era possibile, le tende di velluto nero, guarnite di frangie che circondavano il

letto. – Io desiderava tutto ciò per poter almeno, quando non mi fosse dato di addormentarmi,

consolarmi alternativamente nella contemplazione di quei dipinti e nella lettura di un piccolo

volume che io avevo trovato sull’origliere, che enunciava appunto il valore di essi e ne conteneva la

descrizione.

Io lessi lungo tempo, assai lungo tempo; contemplai tutto religiosamente, devotamente quasi; e le

ore passarono rapide e brillanti, direi così, talché udii suonare la solenne ora della mezzanotte. La

posizione del candelabro non mi garbava, e, protendendo la mano con certa difficoltà, per non

disturbare di soverchio il mio domestico addormentato, io lo collocai in maniera che i suoi raggi si

proiettassero in modo completo sul libro.

Ma questa operazione produsse un effetto assolutamente inatteso. I raggi delle molteplici candele

(poiché ve ne erano molte) caddero allora sopra una nicchia che trovavasi sulla parete e che una

colonna del letto aveva fino allora coperta d’un ombra profonda: e mi apparve d’un tratto, in mezzo

alla viva luce, un quadro che m’era dapprima sfuggito all’esame. Era il ritratto d’una giovine le cui

forme già pronunciate, accennavano a una donna ormai fatta.

Io gettai sul dipinto un rapido sguardo e chiusi gli occhi: il perché non lo compresi bene io stesso a

tutta prima. Ma nel mentre le mia pupille rimanevano abbassate, analizzai rapidamente la ragione

che mi obbligava quasi di ricorrere a tale espediente. Era questo un movimento involontario per

guadagnar tempo e per pensare, per assicurarmi che la mia vista no mi aveva ingannato, per

calmare, direi così, e preparare ad un tempo istesso il mio spirito ad una contemplazione più pacata

e sicura. Dopo alcuni istanti guardai di nuovo quel dipinto fissamente.

Io non poteva allora più dubitare, quand’anche lo avessi voluto, di distinguere ogni cosa assai

nettamente; giacchè il primo baleno di luce su quella tela aveva dissipato lo stupore da trasognato

da cui i miei sensi erano invasi, e mi aveva richiamato d’improvviso alla vita reale. Il ritratto, io

l’ho già detto, era quello d’una giovine donna.

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Era una semplice testa, giacché il collo e le spalle vi si intravedevano appena ; il tutto composto in

quello stile che suol chiamarsi, in linguaggio tecnico, stile da vignetta; vi era assai della maniera di

Sully nelle teste di sua predilezione. Il braccio, il seno, e fino le ultime ciocche di capelli, si

fondevano in modo da sfuggire ad ogni indagine, nell’ombra indefinita ma intensa che serviva di

fondo all’insieme. La cornice era ovale, magnificamente dorata e foggiata a rilievi sul gusto

moresco. Come opera d’arte non si poteva, del resto, trovar nulla di più ammirabile di quel dipinto.

Tuttavia non dovevano essere né la perfetta esecuzione dell’artista, né l’immortale bellezza della

fisionomia, che mi impressionavano così d’improvviso e sì fortemente; ed io dovevo poi credere

ancor meno che la mia immaginazione, non ancor ben risveglia, avesse preso quella testa per quella

d’una persona vivente.

Allora mi s’affaccio senz’altro al pensiero che i dettagli del disegno, lo stile di vignetta e l’aspetto

del quadro avrebbero ben tosto dissipato una simile allucinazione, cosicché io sarei stato liberato

repentinamente da ogni illusione. Nel mentre maturava tra me queste riflessioni, assai preoccupata,

io restai, mezzo seduto, mezzo sdraiato, più di un’ora forse cogli occhi fissi in quel ritratto.

A lungo andare però, sembrandomi d’aver scoperto il vero segreto del suo effetto, mi lasciai

ricadere sul letto. Io aveva indovinato che il fascino di quella pittura era un’impressione vitale

assolutamente adeguata alla vita stessa; ciò che dapprima m’aveva fatto trasalire, poi confuso,

soggiogato, atterrito.

Pieno di spavento profondo, misterioso, io ricollocai il candelabro alla sua pristina posizione, ed

essendomi così tolto dagli occhi la causa della mia violenta agitazione, cercai ansiosamente il

volume che conteneva l’analisi dei dipinti e la loro istoria. Passando tosto al numero che disegnava

il ritratto ovale, io vi lessi allora lo strano e singolare racconto che segue:<< Era una giovinetta

veramente d’una rara bellezza e che non era meno amabile di quel che fosse piena di giovialità. E

maledetta sia l’ora in cui essa vide il pittore! innamorossi di lui e divenne infine sua sposa.

<< Egli, appassionato, studioso, austero, e che aveva già trovato nell’arte la sua fidanzata: ella una

giovinetta non meno amabile che piena di gaiezza, tutta luce e sorrisi e colle pazzie in capo di una

giovine gazzella; innamorata alla follia d’ogni cosa, e non odiando che l’arte, che ora la sua rivale;

nulla temendo fuorché la tavolazza e i pennelli e gli altri odiosi istrumenti che la privavano

dell’aspetto del suo adorato amante. Oh! fu una ben terribile cosa per questa poveretta quando essa

udì il pittore manifestarle il desiderio di dipingere egli stesso la sua giovine sposa. Ma essa era

umile ed obbediente, e posò quindi con dolcezza, durante ben lunghe settimane, nella tetra e più alta

camera della torre, ove la luce pioveva sulla bianca tela solamente da un’apertura del soffitto. Ma

egli, il pittore, metteva ogni sua gloria in quel lavoro, che progrediva di giorno in giorno, di ora in

ora. Ed era un uomo appassionato e strano e pensieroso che si perdeva in fantasticherie; cosicché

egli non voleva vedere come la luce che cadeva così lugubremente in quella torre isolata dissecava

le fonti della salute ed ogni vigoria di spirito della sua amata, la quale deperiva visibilmente agli

occhi di tutti, fuorché ai suoi.

Ma essa sorrideva sempre, e sempre senza muover lamento, giacché s’accorgeva come il pittore

(che già aveva una gran fama) provava un piacer vivo ed ardente nel suo compito e lavorava notte e

giorno per ritrarre quella che l’amava tanto, nonostante che si facesse di giorno in giorno più debole

e languente.

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E in verità, quanti contemplavano il ritratto parlavano a bassa voce della sua rassomiglianza, come

di una superba meraviglia, e di una prova non meno grande della potenza del pittore, che del suo

profondo amore per quella che egli dipingeva sì mirabilmente e in modo quasi prodigioso. – Ma a

lungo andare, appressandosi il lavoro al suo compimento, niuno fu più ammesso nella torre; poiché

il pittore, divenuto demente quasi dall’ardore della sua opera, staccava raramente gli occhi dalla tela

nemmeno per guardare l’aspetto della sua amante. Ed egli non voleva vedere come i colori che

stemprava sulla tela, erano tolti dalle guance di quella che era seduta e posava presso di lui.

E quando furono trascorse lunghe settimane e non restava ormai che ben poco a fare, null’altro che

un ultimo tocco alle labbra e un tratto all’occhio, lo spirito della giovine donna palpitò ancora un

istante come l’ultimo guizzo della fiamma d’una lampada. E allora il tocco fu dato e il tratto fu

posto, e per un momento il pittore si trattenne in estasi davanti il proprio quadro – quel quadro che

egli stesso aveva dipinto; ma un momento appresso, mentre egli stava tuttora contemplando, prese a

tremare, si fe’ pallido in viso e, come colpito di repentino spavento, gridando con voce possente: <<

davvero che è la vita istessa! >> – egli si rivolse bruscamente per riguardare la sua amato; – essa era

morta! >>

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Questi sogni infranti

dal caro petrolio, gli amori:

(le scatole di latta

le stanze segrete

le poesie al telefono

i mostri nell’armadio).

Cade un foglio di carta lucida

nello stomaco d’amianto

l’eternità (al migliore offerente)

è una pioggia dorata

(poi scoprire che la montagna

da scalare

era la schiena di tuo padre).

Questa rabbia senza velocità

alimentata dal gas, la nostalgia:

(i pomodori secchi, rossi

una penombra messicana,

viaggi a ritroso, partiti d’opposizione).

Mi calo il sombrero, aspetto i 40 gradi

chiudo gli occhi ascoltando in sordina

questo canto dei perdenti

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CADO e non so spiegare

il buco del cielo, qui a terra

tra le radici secche dell’omo morto

sul movimento allegro del ventilatore.

Le barche arenate nei disegni duemiladieci

gli spazi disponibili per un nuovo amore.

(c’è qualcosa dentro di me che è sbagliato

e ci rende simili)

Mi piscio sui piedi

come gli indiani

cerco di uccidere qualche insetto

ma loro uccidono me

in una danza a zampe levate

eliche inclinate, natiche statiche

sul lettino dello psicanalista.

Mi piscio sui piedi

come gli indiani

nuvoletta di Luglio

SEMPRE APERTO

SEMPRE SVEGLIO

le camicie degli evasi

stese alla finestra

le grandi storie dei folli

(mai tornati)

sui maxischermo, in mondovisione.

Mi piscio sui piedi

questa momentanea felicità

senza velocità, senza vanità.

Il vento spense la candela

la noia scese dal soffitto

la camera piena di spilli

dalle cornici d’amianto (rovesciate)

il senso dell’orrore, distratto.

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Un fuoco lento

sul letto sfatto

la violenza della città

sulla bianca schiena

(il latte scende piano)

Simbiosi d’amore

nel tempo d’analisi

i soffi nel verde

vegetale (la natura)

Un fuoco spento

sul filo interrotto

la strada più corta

per non essere. Mai.

pantaloni, qualche calza nera, un panno bucato, i disegni a mano libera

l’amore che prende l’acqua, il silenzio della tromba, lo sgabello di legno

il gomito sul divano, il vuoto di classe, la miseria dello spettacolo.

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Non ho sonno

guardo il cielo cadere

tra i perdenti

per la strada,

raccolgo pezzi di ghiaccio

qualcuno sa di essere ricco così,

altri invece non sanno che fare

buttandosi via.

Una discarica di desideri

s’apre a lato, sul letto del fiume.

Non ho sonno

nel labirinto della solitudine

scritto da Octavio Paz

il mondo brucia troppo in fretta

gli ispanici hanno gli occhi sempre aperti

non conoscono la fatica

e gli insetti non fanno mai paura!

Bucami il sorriso,

spacca lo specchio

dentro di me

altro non è che la maschera del difetto

un dipinto riletto nell’adolescenza

quando l’amore

(assediato dal cemento)

non s’è mai realizzato.

Ora,

tra cespugli, coriandoli di festa abbandonati

(alcuni cimiteri)

silos di plastica e vita in vitro

Bucami il sorriso, splendi su di me!

perdersi, ma anche trovare nuove strade

nascondersi, per non trovarsi più.

E’ sparito il sole, un fulmine cade verso di noi.

Le emozioni di una flebo nel braccio,

la fine del verso, verso la fine del temporale.

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Le labbra così fredde

in questa estate torrida

(senza accenti, senza replay)

mi spengono in delay.

Non ho immaginazione

i desideri scaricati,

lavati sul lavandino

i panni sporchi

lavati in televisione.

Ti bacio come natura

come natura mi baci

e senza fiato, mi amor!

L’ego confuso dei tempi moderni

i nostri sistemi nervosi troppo fusi

la musica sparata endovena, sottoterra

uomini già morti e uomini mai vivi

i massimi sistemi

la noia sulla schiena. Mi schiaccia.

Maria scappa via

Maria scappa via

questo paese è l’inferno

sempre a terra

trombe buttate, arrugginite

l’ossido m’assale nei pensieri

e ritorno a scrivere di ieri

che oggi non è stato, non verrà.

Maria scappa via

Maria, scappa via

lingue di velluto sulla tua schiena

dischi rotti sospesi nell’empasse

figure da ranocchio, mancata teatralità!

Maria, scappa via

Maria, scappa via

le torri sono senza padrone

il tuo regno non avrà fine

e questo silenzio irradierà il confine.

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Finito di realizzare nel Marzo 2011

presso Edizioni Virtuali “Il Basilisco”

Ogni riproduzione o modifica, anche parziale dell’opera, è vietata