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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE n. 2/2005 Italo Magnani Economisti Campani: a proposito della pubblicazione di due inediti di Carlo Antonio Broggia UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE

n. 2/2005

Italo Magnani

Economisti Campani: a proposito della pubblicazione

di due inediti di Carlo Antonio Broggia

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA

QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE UNIVERSITA’ DI PAVIA ______________________________________________________________________ REDAZIONE Enrica Chiappero Martinetti Dipartimento di Economia Pubblica e Territoriale Università degli Studi di Pavia Corso Strada Nuova 65 27100 PAVIA tel. 0039-382-984401 -984354 fax 0039-382-984402 E-MAIL [email protected] COMITATO SCIENTIFICO Italo Magnani (coordinatore) Luigi Bernardi Renata Targetti Lenti La collana di QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE ha lo scopo di favorire la tempestiva divulgazione, in forma provvisoria o definitiva, di ricerche scientifiche originali. La pubblicazione di lavori nella collana è soggetta, con parere di referees, all’approvazione del Comitato Scientifico. La Redazione ottempera agli obblighi previsti dall’art. 1 del D.L.L 31/8/1945 n. 660 e successive modifiche. Le richieste di copie della presente pubblicazione dovranno essere indirizzate alla Redazione.

QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE

n. 2/2005

UNIVERSITÀ DI PAVIA

Italo Magnani*

Professore ordinario di economia politica nella facoltà di giurisprudenza dell’università di Pavia

Economisti Campani: a proposito della pubblicazione di due inediti di Carlo Antonio Broggia

Abstract Economists from Campania: A Recent Book Relating to Two Unpublished Treatises of Carlo Antonio Broggia This article devolops a few comments on the book that includes two treatises, unpublished till now, written by an Italian economist active in the 18th century in Naples, Carlo Antonio Broggia. First of all, the article underlines the main merits of the collection of the Italian Institute of Philosophical Studies, where the book is included. It is a collection of books written by ancient authors coming from Naples and surroundings. In fact it should be stressed that Naples has been very important in the past as far as economic studies are concerned. Short mention is dedicated to the life and to the scientific work of Carlo Antonio Broggia. Finally, few considerations are developed on the topical subjects discussed in the two treatises written by Carlo Antonio Broggia on money and banks from one side, and on luxury on the other side.

JEL Classification: B1 History of Economic Thought Trough 1925; B10 General; B 15 Historical.

* Dipartimento di economia pubblica e territoriale, università di Pavia, corso Carlo Alberto, 5 - 27100 Pavia; e-mail: [email protected]; tel. dir.: 0382/984412; tel. segr.: 0382/984401; fax: 0382/984402

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ECONOMISTI CAMPANI: A PROPOSITO DELLA PUBBLICAZIONE DI DUE INEDITI DI CARLO ANTONIO BROGGIA* di Italo Magnani

“Si stava bene egualmente in quella città deliziosa”

(Vilfredo Pareto a Vittore Pansini, 29 gennaio 1918, in Pareto, 1962, p. 140).

1. Come è fatto il libro

Il proposito di questo articolo è quello di commentare il secondo volume

della collana dell’Istituto italiano per gli studi filosofici, diretta da Lilia Costabile, patrocinata dalla Società italiana degli economisti e dedicata a Teoria e politica economica nel pensiero degli economisti campani.

Nel libro si trovano pubblicate due opere risalenti alla metà del Settecento che sono una parte degli scritti inediti di Carlo Antonio Broggia [1698(?)-1767] custoditi presso la Biblioteca nazionale di Napoli: 1) La prima, che risulta terminata entro il 23 maggio 1752 (è in quel giorno che Broggia ne scrive in tal senso a Fontanesi; cfr. Patalano, 2004, p. 7), è un frammento intitolato: Il Banco ed il Monte de’ Pegni. Si tratta dell’abbozzo di un progetto per l’istituzione di un banco pubblico a Mannheim, scritto per invito di Giovan Giuseppe Fontanesi, nella sua qualità di segretario di stato dell’elettore palatino. Fontanesi era in rapporti epistolari con Broggia dal tempo in cui gli aveva chiesto chiarimenti su alcuni punti del Trattato de’ tributi, di cui si dirà oltre (la risposta ai quesiti di Fontanesi, del 22 settembre 1751, è ora in Allocati, 1978); nel seguito lo scambio di lettere crebbe, divenne fittissimo (due lettere a Fontanesi sono in Ajello, a cura di, 1978; altre sono in Patalano, 2004), e finì per investire numerose questioni tra le quali, appunto, il progetto di costituzione del banco pubblico a Mannheim; 2)

* Carlo Antonio Broggia, Il Banco ed il Monte de’ Pegni - Del lusso, Introduzioni di Luigi

De Rosa e di Augusto Graziani, trascrizione e edizione critica a cura di Rosario Patalano, collana dell’Istituto italiano per gli studi filosofici: “Teoria e politica economica nel pensiero degli economisti campani”, diretta da Lilia Costabile, vol. 2°, Edizioni “La città del sole”, Napoli, 2004, pp. XLIX-278.

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La seconda è un’opera completa che si intitola: Del lusso. Il più nocevole e de’ suoi quanto più sicuri ed efficaci, altrattanto specialmente ai nostri tempi, ignoti rimedi. È un ampio trattato, abbozzato già nel 1738 (secondo Ajello, 1978, p. 1037) e redatto probabilmente tra il 1748 e il 1751, con il quale Broggia si proponeva di criticare la difesa delle spese voluttuarie fatta da Jean François Melon [1680-1738] nel suo Essai politique sur le commerce (1734). Gli argomenti sono le spese per i beni di lusso nel regno di Napoli, gli inconvenienti, i rimedi ripetutamente proposti dalle pubbliche autorità contro l’abuso delle ricchezze, e la loro (in)efficacia.

Nel 1999, Antonio Allocati aveva consegnato a Lilia Costabile le carte Broggia che lui stesso aveva trascritto e che, dal giugno 2002, sono conservate come “Fondo Allocati-Broggia” presso la biblioteca del dipartimento di Scienze economiche e sociali dell’università di Napoli Federico II (sul fondo Broggia cfr. Pinto, 2004). È stato un modo per indicare in Lilia Costabile la custode più adatta ad occuparsene, ed è naturale quindi che sia toccato proprio a lei scrivere la Presentazione della collana dell’Istituto italiano per gli studi filosofici e la Presentazione del volume. Le Introduzioni sono due: una di Augusto Graziani, dedicata a Moneta, banche e reddito nel pensiero di Carlo Antonio Broggia ; una dal titolo: Introduzione ad alcuni scritti di Carlo Antonio Broggia , di Luigi De Rosa (non possiamo tacere un senso di gratitudine e di rimpianto per lo studioso di valore, che è scomparso non appena ebbe portato a compimento questa sua ultima fatica).

Le note critiche e la trascrizione dei manoscritti sono di Rosario Patalano. Esse aiutano a collocare le due opere del Broggia nel contesto della sua vita intellettuale, fornendo utili informazioni su scritti, nomi, luoghi.

Il volume è corredato di due appendici. La prima contiene il Capitolo [sui feudi], manoscritto inedito e incompiuto, che era inserito in una stesura del trattato sul lusso anteriore a quella qui recensita. La seconda appendice è per presentare i pochi dati bio-bibliografici oggi disponibili su Broggia. Seguono bibliografia, criteri di trascrizione, indice dei nomi e indice generale.

2. La collana dell’Istituto italiano per gli studi filosofici dedicata alla “Teoria e politica economica nel pensiero degli economisti campani”

Come si è accennato, il volume che ospita gli inediti di Broggia è inserito

nella collana dell’Istituto italiano per gli studi filosofici dedicata alla Teoria e politica economica nel pensiero degli economisti campani. A sua volta, questa collana è una filiazione dell’Archivio storico degli economisti in Italia che Giacomo Becattini, come presidente pro-tempore della Società italiana degli economisti, aveva promosso nel 1993 con il proposito di realizzare e

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diffondere una sorta di censimento, il più completo possibile, delle carte inedite degli economisti italiani (per i più recenti sviluppi del “Progetto A.S.E.”, cfr. Costabile, 2004). Lilia Costabile, nella sua qualità di responsabile anche di questo Archivio storico, si è persuasa che valesse la pena di progettare una nuova iniziativa da affiancare all’Archivio e cioè di dar vita a una collana autonoma e riservata interamente agli economisti campani. E così è stato. Una scelta coraggiosa, si dirà: tuttavia, c’è modo di arricchire una collana giovane e promettente che merita gli auguri di lunga vita. I miei sono di prammatica ma non di circostanza, giacché il materiale è molto e il suo interesse va ben oltre l’ambito geografico ristretto alla regione Campania. Prova ne sia il ponderoso volume con cui si apre la collana (su cui vedasi Fusco, 2002). Si tratta di ben 600 pagine che contengono le schede dei numerosissimi autori (sono quelli che hanno vissuto, studiato e lavorato stabilmente in Campania), corredati dai relativi dati anagrafici, dalle opere e dagli scritti postumi. Non è che la prima parte del Repertorio bio -bibliografico degli scrittori di economia in Campania (si va dal 1595, anno in cui Scipione Ammirato pubblicò i Discorsi sopra Cornelio Tacito , sino al 1861). È atteso il seguito in un secondo volume attualmente in preparazione e destinato al periodo compreso tra l’unità d’Italia e i giorni nostri, con l’esclusione degli autori viventi. 3. Napoli capitale culturale

Dunque, l’idea di disegnare e di realizzare una collana specializzata in

ambito regionale è stata opportuna e concepita a ragion veduta. Essa valga come testimonianza della grande ricchezza politica, amministrativa, economica e, in due parole, di pensiero e di cultura di una Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie, dove le condizioni erano ideali perché gli studi economici potessero svilupparsi e precisarsi, come effettivamente è stato soprattutto a partire dal secolo XVII. Non per caso i curatori del Repertorio bio-bibliografico possono far notare che, “almeno fino all’unità d’Italia, una percentuale altissima degli scritti di economia veniva pubblicata in Campania, come potrà facilmente constatare chiunque voglia scorrere, anche superficialmente, i principali compendi bibliografici dedicati agli studi di economia in Italia” (Costabile e Patalano, a cura di, 2000, p. XI).

Con l’unificazione italiana, Napoli ha sofferto la perdita del ruolo di città capitale e tuttavia è riuscita egualmente a mantenere viva la sua antica tradizione: emblematicamente Enrico Barone nacque nel quartiere napoletanissimo di Montecalvario e, per un certo periodo della sua vita,

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insegnò a Napoli nella accademia militare della Nunziatella; anche Ugo Mazzola era di origine napoletana e la sua “inesauribile gaiezza [era appunto] riflesso dorato della soleggiata sua Napoli” (Pantaleoni, 1899, p. 190); e ancora, da Napoli transitarono quella “figura di economista ortodosso e liberista” che fu Antonio Ciccone (Bertolini, 1893) e, dopo di lui, molti altri economisti e “affini”, tra i quali Maffeo Pantaleoni, Augusto Graziani, Francesco Saverio Nitti, Napoleone Colajanni, giù giù sino ad Attilio Da Empoli, Lello Gangemi, Giuseppe Palomba e Claudio Napoleoni. 4. La cattedra di Economia politica dell’università di Napoli

Non è un caso che Napoli possa vantare più di un segno distintivo: la sua

era la più grande università italiana per il numero degli studenti (e non solo per questo motivo) e la sua cattedra di Economia politica era molto ambita e contesa perché godeva del più alto prestigio (cfr. Magnani, 2003, cap. 16).

Tra l’altro era “la più antica d’Europa, fondata a Napoli nel 1755 [Rectius: 25 maggio 1754] da Bartolomeo Intieri [Firenze 1678 - Napoli 1757] e denominata Cattedra di commercio e di meccanica. [Intieri] volle che l’occupasse per primo il Genovesi”. Così scrive Pantaleoni nelle Lezioni di economia politica da lui tenute a Roma nell’a.a. 1901-1902 (p. 247, nota). Prima di lui, Bertolini (1894, p. 731) aveva già ricordato: “l’insegnamento dell’economia politica in Italia a mezzo di lezioni dettate o impartite da una cattedra ha una storia molto antica. Risale a quel bel giorno del 5 novembre 1754 in cui a Napoli Antonio Genovesi tenne la prima di quelle sue lezioni di Commercio, ossia di Economia civile, che nel 1765 ebbero poi l’onore della stampa [cfr. Genovesi, 1765-1767]. Ed è la cattedra di Napoli, sorta per iniziativa e con lodabile dispendio di Bartolomeo Intieri - nome caro alla nostra scienza e pel quale essa ha conservato un culto di gratitudine sempre viva - che figliò poi la scuola di Milano, detta di Scienze camerali, affidata all’insigne [Cesare] Beccaria, che teneva il 9 gennaio del 1769 la sua prolusione” (cfr. Beccaria, 1769).

5. Questioni di priorità Non è poi così importante elencare con Bertolini (1896) le condizioni alle quali Intieri aveva legato l’istituzione della cattedra e sottolinearne il significato di modernizzazione, di apertura verso il mondo e di democratizzazione della cultura: 1) l’insegnamento doveva essere professato interamente in italiano (e non più in latino, come era costume per gli

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insegnamenti scientifici); 2) il primo docente doveva essere Antonio Genovesi; 3) infine, Intieri chiedeva che, dopo Genovesi (che pure era sacerdote), la cattedra venisse negata ad ecclesiastici (e perciò la sua istituzione fu molto osteggiata dai preti e ci volle l’intervento del ministro Fogliari e del principe di Sansevero per superare ogni resistenza). È anche meno importante, ai nostri fini, chiederci se abbiano ragione Cossa (1873), Pantaleoni (1901-1902) e Di Battista (1988) nell’attribuire alla cattedra di Napoli una primazia temporale che è controversa e revocata in dubbio da Michels (1916) e poi da Heckscher (1954), il quale ultimo parla di una cattedra istituita in Svezia nel 1741 (ossia quattordici anni prima di quella di Napoli) che non sarebbe neppure la prima, ma solamente la quarta in Europa. Importa invece sottolineare come tutto ciò indichi il rilievo assegnato dalla comunità scientifica all’università di Napoli come centro culturale della più grande importanza anche sotto il profilo del ruolo trainante che essa ha saputo esercitare da questo punto di vista. 6. Napoli come stato d’animo di felicità

Naturalmente la Napoli del ‘700 non era solo ricchezza di pensiero e di

cultura. Voglio dire che questa città non doveva essere poi tanto diversa da quella che Pareto ricordava a Vittore Pansini in una lettera del 29 gennaio 1918, ossia doveva essere anche allora una città bellissima e festosa: “Invidio lei [Pansini] che si gode il bel cielo napoletano. Ma che importa se i pescatori e le loro donne occupano il lungo mare! A me anzi piacerebbe di trovarmi così fuori dalle eleganze del progresso. C’era ben di peggio, trent’anni fa, quando io visitavo Napoli. La sera nei vicoli che da Toledo scendono al mare, stavano sugli usci le donne a farsi pettinare e … spidocchiare! E poi? Si stava bene egualmente in quella città deliziosa. Con cinquanta centesimi una carrozzella, che andava come il vento, faceva una corsa. Si mangiava pezzi duri, buoni come mai in vita mia ne ho mangiato, né forse ne mangerò. Divoravo i fichi d’India che a me piacciono moltissimo. Alla trattoria mi facevo servire i maccheroni al pomo d’oro, che ora sono solo un lontano ricordo, e bevevo un vino di Capri che ancora mi fa venire l’acquolina in bocca” (fonte: Pareto, 1962, p. 140).

Nello scrivere queste righe di nostalgia, Pareto commentava con la sua consueta vena di amarezza e di ironia: “ma sono tutti godimenti materiali, oggi superati dai godimenti spirituali del progresso … e dai guadagni dei nuovi ricchi. Dovrei vergognarmi di essere tanto arretrato” (ibidem).

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Nel leggere queste righe, anche a me vengono in mente le stesse cose, ossia che Napoli merita ammirazione e credo anche che vi sia molto da imparare. Ed è peccato che questa città scelga spesso di presentarsi essa stessa come un problema cui mettere riparo, piuttosto che come uno stato d’animo di felicità. Forse la pensava nello stesso modo anche quel Carlo Antonio Broggia che, senza rinnegare la sua origine e i suoi trascorsi in una città pure bellissima come Venezia, nel frontespizio delle opere sui Tributi e sulla Moneta e in calce al suo nome voleva fosse scritto in caratteri cubitali: NAPOLETANO. Era forse un modo per esprimere lo stesso orgoglio e la stessa gratitudine che hanno animato i sentimenti di Stendhal nei riguardi dell’Italia (“felicità sublime il viverci”) e di Milano, al punto da rivendicare a sé stesso l’essere MILANESE (immaginando la sua epigrafe, Stendhal scriveva: “Qui giace Marie-Henry Beyle, Milanese. Visse, scrisse, amò, …”).

7. Cenni sulla vita di Carlo Antonio Broggia

Dell’economista napoletano e della sua vita non si sapeva molto quando Custodi, nelle Notizie di Carlo Antonio Broggia (1804, p. 5), esordiva col dire che “infruttuose sono state tutte le mie ricerche al fine di raccogliere quanto poteva soddisfare la curiosità dei lettori intorno alla vita e alle vicende di Carl’Antonio Broggia”.

Oggi non si sa molto più di allora. Era nato a Napoli, forse nel 1698 (è l’opinione di Schipa, 1901, p. 615 e, al suo seguito, di Costabile, 2004/a, p. XI; ma Pantaleoni, 1894, p. 180, riferisce dubitativamente: “it is commonly maintained that he was born in 1683”). Era originario di Venezia per parte di padre e lì si era trasferito (nel 1717) per rimanervi nove anni presso uno zio sacerdote dopo che, ancora bambino e orfano di entrambi i genitori (1709 e 1710), era stato affidato alla tutela delle sue due sorelle. Nel 1726 tornò a Napoli, dove fu aromatarius [mercante di droghe], uomo politico e collaboratore di alcuni esponenti del governo, senza però che gli riuscisse di ottenere incarichi ufficiali da cui avrebbe voluto far valere anche nel concreto le proprie convinzioni. Fu cultore appassionato di studi economici, che iniziò sotto la guida e l’influenza di Bartolomeo Intieri (dal quale però si sarebbe staccato negli anni successivi). Si sa altresì che era sposato, che aveva numerosi figli, che “sacrificò la sua fortuna al piacere di istruire i suoi concittadini” (secondo la testimonianza dello stesso Broggia, 1755/a), che trascorse sei anni della sua vita in esilio.

Il motivo dell’esilio risale alla Memoria ad oggetto di varie politiche ed economiche ragioni e temi di utili raccordi che in causa del monetaggio in Napoli si espongono e propongono agli spettabili signori, etc., apparsa a

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Napoli il 15 febbraio 1754 e scritta quando ormai la situazione personale del Broggia era precipitata nell’isolamento e si era fatta ben difficile. La Memoria affrontava, “senza riguardo alcuno verso chicchessia, alcuni dei più scottanti problemi allora sul tappeto” (De Rosa, 1995, p. 63) ed era “un ferro e fuoco preparato «pe’ mali infistoliti del regno» e un pesante atto di accusa contro i ministri e i funzionari disonesti” (cfr. Nuccio, 1965, p. VI).

Ne scaturirono polemiche a non finire che indussero Broggia a contrattaccare con l’intransigenza propria di un uomo di onesto coraggio, di uno studioso appassionato, di un animo fiero e indipendente. Broggia reagì, infatti, e lo fece in un modo tanto sferzante da andare oltre le questioni di carattere strettamente scientifico e da sfiorare la personalizzazione. Fatto sta che il pamphlet a cui Broggia aveva affidato la sua difesa (Risposte alle obiezzioni state fatte da varj soggetti, intorno al sistema del prezzo corrente, etc., Napoli, 14 novembre 1755) fu proibito, i suoi difensori e lo stampatore furono arrestati e l’autore dovette pagare con un lungo esilio, prima a Pantelleria e poi, dal 1756, a Palermo (è all’esilio di Pantelleria che si richiama il manoscritto di Broggia, 1757).

Broggia ritornò a Napoli nell’estate del 1761 per rimanervi il resto della vita e lì morì nel 1767 (Nuccio, 1965, p. XVI, indica dubitativamente anche il giorno, che sarebbe il 24 ottobre 1767, lo stesso “nel quale il figlio Giambattista ne dava notizia al Fontanesi”).

8. Il “Trattato dei tributi, delle monete e del governo politico della sanità”

Tra le poche opere pubblicate, spiccano il Trattato dei tributi (anche tradotto in tedesco) e il Trattato delle monete considerate nei rapporti di legittima riduzione, di circolazione e di deposito.

Va menzionato altresì il Trattato politico della sanità , occasionato dalla pestilenza che aveva colpito Messina. Nel 1743 l’editore napoletano Pietro Palombo lo riunisce insieme con le altre due opere in un volume singolo nell’unica edizione originale intitolata: Trattato dei tributi, delle monete e del governo politico della sanità , etc.

Nel 1804, Custodi (a cura di, 1803-1816) provvederà a ristampare separatamente i due trattati, dei tributi (tomo IV) e delle monete (tomi IV e V), tralasciando invece lo scritto sulla igiene pubblica, “non avendo esso che una indiretta relazione con la scienza economica”. Ne saranno pubblicati solo pochi brani, raccolti sotto il titolo: Due frammenti. Estratti dal trattato politico della sanità (ivi, tomo V, pp. 339-362).

Ai nostri fini, il Trattato dei tributi, etc. è interessante perché, come si ricorderà, ha dato inizio a quella corrispondenza tra Broggia e Fontanesi che

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avrebbe condotto al progetto abbozzato ne Il Banco ed il Monte de’ Pegni. Inoltre, il Trattato è anche all’origine di quella corrispondenza con Ludovico Antonio Muratori che avrebbe finito per occuparsi, tra l’altro, dell’Essai politique sur le commerce del Melon e del problema del lusso, al punto da influenzare Broggia nella stesura del trattato Del lusso (cfr. Ajello, a cura di, 1978/a; Patalano, 2004/a).

Si può, dunque, affermare che è dal Trattato dei tributi, delle monete e del governo politico della sanità che discendono idealmente entrambi gli scritti qui commentati.

9. La reputazione di Broggia come economista di valore

Il Trattato è anche l’opera che avrebbe spalancato a Broggia le porte della notorietà. Essa si meritò l’apprezzamento di Ludovico Antonio Muratori (1749, pp. 121, 171 e 191) e di molti altri studiosi del suo tempo. Ebbe larga diffusione in Europa e diede al suo autore la fama di economista di vaglia.

Einaudi (1933, p. 88) riferisce che il conte Gian Francesco Galeani Napione di Cocconato [1748-1830] “non pare mettere lo [Adam] Smith al di sopra […] del Broggia”, il cui Trattato dei tributi è giudicato “dotto e profondo”; Custodi (1804, pp. 10-11) ne ammira “la profondità e, generalmente, l’aggiustatezza delle sue dottrine economiche [che] sono maravigliose per i tempi in cui scrisse e [che] avrebbero resa ancora più grande la di lui estimazione se un’intralciata e ruvida prolissità di stile non ributtasse una gran parte di lettori delicati o superficiali”; Pantaleoni (1894, p. 180) è dell’opinione che “both treatises [quello sui tributi e quello sulla moneta] are still interesting to read, as they contain a great deal of what at the present time is still thought correct concerning these subjects” (ma non poteva mancare di rimproverare al Broggia i “pregiudizi fisiocratici”, per altro inevitabili, se si pensa all’epoca in cui scriveva); Ricca-Salerno (1896, pp. 396 ss.) parla di un’opera scritta “con ammirabile chiarezza di idee e rettitudine di giudizio”.

Anche in tempi meno lontani, il nostro eroe ha saputo conservare la sua buona reputazione. Secondo Bousquet (1960, p. 22), il suo Trattato è “un’opera rimarchevole nella storia delle dottrine economiche […], ben costruita, assai chiara […] con equilibrio tra le diverse sue parti”; Schumpeter (1954, pp. 248-249) lo considera “il meglio della letteratura sulla finanza pubblica del secolo XVIII e di gran parte di quella del secolo XIX”; Rothbard (1995, vol. I, p. 474) suppone che Adam Smith ne sia rimasto influenzato.

(Nel coro degli elogi manca la voce dell’abate Ferdinando Galiani, il quale, pur apprezzando l’uomo di ingegno, ne criticò la teoria della preferenza per la

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moneta immaginaria e lo accusò di averla attinta da un opuscolo pubblicato a Napoli nel 1681 da un certo D. Luigi Enriques de Fonseca). 10. Le opere inedite e l’opportunità di portare alla luce “Il Banco ed il Monte de’ Pegni” e “Del lusso”

Quanto alle opere rimaste inedite, esse sono più numerose di quelle pubblicate. Lo stesso Broggia, nel lunghissimo titolo della citata Memoria ad oggetto di varie politiche ed economiche ragioni, etc., datata Napoli 15 febbraio 1754, che gli valse infinite polemiche e gli aprì la strada dell’esilio, dichiara di avere già pronti ben sette trattati di argomento economico, sebbene nessuno di questi avesse ancora una veste definitiva: rimasero tutti inediti. Tra questi Broggia menziona e riassume anche i due scritti pubblicati per la prima volta nel volume di cui si discorre qui: Il Banco ed il Monte de’ Pegni, e: Del lusso [la sintesi, apparsa nella citata Memoria con il titolo Trattato primo intitolato: del lusso, o sia abuso delle ricchezze, è ora in Ajello, et al., a cura di, 1978/b, pp. 1041-1059].

Si tratta di opere inedite e perciò poco o punto conosciute al tempo loro, troppo moderne perché potessero essere capite, troppo poco capite perché potessero suscitare interesse, troppo poco interessanti perché potessero sembrare meritevoli di studio. Per giunta, esse risalgono all’epoca pre-smithiana in cui la teoria economica, se pur c’era, era molto rudimentale e nascosta tra le pieghe di scritti descrittivi che sono spesso caratterizzati da un tono pedagogico ed etico poco accattivante e nei quali “le riflessioni di carattere generale si presentano sempre alternate a citazioni di casi storici concreti ai quali l’autore dedica la parte maggiore della sua attenzione” (Graziani, 2004, p. XV).

Opere come queste, se non fossero state adeguatamente presentate, difficilmente avrebbero potuto destare interesse, almeno sotto il profilo del loro significato di contributo al dibattito attraverso cui è passata la formazione dello stato attuale della scienza economica. E sarebbe stato un peccato, perché esse sono meritevoli di attenzione per la buona qualità dell’analisi economica e anche per il suo inquadramento nella visione storica, etica e politica dell’autore.

Era, dunque, importante superare quelle oscurità della lingua che già Custodi (1804, pp. 10-11) lamentava. Inoltre, occorreva impedire che la pubblicazione del volume (e della collana in cui esso è inserito) potesse venire fraintesa e considerata una mera operazione di erudizione.

Era altresì necessario impedire che il destino di questi scritti fosse quello stesso oblio di cui soffrì l’opera di Hermann Heinrich Gossen (1854) e dal

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quale William Stanley Jevons e Léon Walras (1874) l’avevano tratta dopo che erano trascorsi vent’anni di silenzio. Erano opportune parole di commento capaci di spiegare, alla luce anche delle conoscenze teoriche dell’economia di oggi, perché l’opera dello studioso napoletano meritasse di essere portata all’attenzione di tutti.

Ebbene, i curatori del “Broggia” si sono adoperati molto utilmente perché fossero evitate quelle stesse difficoltà di comprensione in cui persino uno studioso della forza di Pareto era inciampato nell’accostarsi all’opera di Walras. Gli era stato laborioso capire che, nascosta dietro alle molte metafisicherie in cui lo stesso Walras aveva annegato la sua economia pura, vi era una scoperta della massima importanza. Gli equilibri generali rischiavano di passare inosservati, per quanto il loro artefice fosse già allora riconosciuto come “incontestablement le chef de l’ècole [marginaliste]” (Pantaleoni a Walras, 28 agosto 1889, in Jaffé, ed., 1965, vol. II, p. 341) e lo stesso Walras si adoperasse attivamente perché “l’économie politique pure apparaître comme une science constituée” (Walras a Perozzo, 13 ottobre 1889, ibidem, pp. 358-359).

Lasciamo che sia Pareto a raccontare: “Avevo letto le opere di Walras - dichiara Pareto nella sua Economia dimessa, 1912, p. 288 - e avevo lasciato l’oro per badare alla roccia sterile, cioè alle considerazioni metafisiche. Respinto da queste, che mi parevano (e tuttavia mi paiono) assurde, non credevo che simili teorie potessero aver luogo nella scienza sperimentale. Ma, dopo aver letto i Principii del Pantaleoni [1889], si modificò in me questo concetto. Tornai a leggere le opere di Walras e vi trovai l’oro cioè il concetto dell’equilibrio economico” (Pareto si era già espresso negli stessi termini in una lettera indirizzata a Sensini l’ 8 agosto 1911, in Sensini, 1948, p. 61, e anche in Pareto, 1973) . 11. La modernità del pensiero di Carlo Antonio Broggia: l’economia monetaria e le spese per i beni di lusso

Se quelli indicati nel par. 10 erano gli obiettivi, le Introduzioni affidate a

De Rosa (2004) e a Graziani (2004) hanno colto nel segno perché hanno chiarito, molto nitidamente e nei rispettivi campi di competenza, i motivi di interesse dei due scritti broggiani.

In questo lavoro facciamo nostro lo scritto di Graziani e ci limitiamo a segnalare che esso propone una interpretazione analitica che spiega persuasivamente il significato del pensiero del Broggia, la sua rilevanza e la modernità nella costruzione di una economia monetaria ove confluiscono

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l’equilibrio macroeconomico in una economia aperta, il ruolo della moneta e del credito bancario e quello della regolazione dei flussi finanziari. Nel seguito, ci soffermeremo invece a commentare alcune interessanti considerazioni sviluppate da Broggia a proposito degli inconvenienti di carattere strettamente economico legati al consumo eccessivo di beni di lusso, specialmente se perseguito per scopi di ostentazione.

Una prima critica attiene al deterioramento della bilancia dei pagamenti dovuto al consumo dei beni di lusso, i quali, essendo ritenuti provenire per lo più dall’estero, alimenterebbero le importazioni. Di qui l’opportunità di misure che, riducendo il consumo di beni voluttuari e le relative importazioni, possano favorire la produzione interna, con vantaggio per il paese. Una seconda censura rivolta alle spese per i beni di lusso è che esse sarebbero di danno per gli investimenti produttivi e quindi anche per la crescita del paese. Si potrebbe discutere a lungo attorno a questi argomenti e alla loro capacità di persuasione. Ad esempio, il binomio “più spese di lusso - più importazioni” richiede di essere collocato nel contesto storico e geografico della Napoli del Settecento, come del resto fa lo stesso Broggia; a sua volta, il binomio “più lusso - meno investimenti produttivi” non è così immediato come si vorrebbe; allo stesso modo, possono non essere così automatici gli effetti redistributivi di politiche di contenimento delle spese di lusso (la cui importanza Broggia non sembra disposto a sopravvalutare, stando a una lettera da lui indirizzata a Ludovico Antonio Muratori nei primi giorni del luglio 1746, in Ajello, et al., a cura di, 1978/b, p. 1121). Di fatti, le opinioni erano numerose anche allora. Lo stesso Muratori (al quale non mancavano affinità di vedute con Broggia) ricorreva all’argomento mercantilista per riconoscere alle spese voluttuarie un possibile e desiderabile effetto di trascinamento delle attività produttive del paese. Prendeva così le distanze dal Broggia e dalla sua “dimostrazione indubitosa per la quale si fa vedere non essere vero e di quanto danno sia il credere che le profusioni dei ricchi contribuiscono al commercio e allo stato, etc.” (inizia così il lunghissimo titolo del cap. II di Broggia, 2004/b, p. 67). Né l’abate Galiani poteva accettare che il lusso fosse sempre e soltanto un male perché, quantomeno, “se pel lusso le famiglie nobili si impoveriscono e si estinguono, le popolari si moltiplicano e si sollevano” (cfr. Galiani, 1750, libro IV, cap. I, Digressione attorno al lusso considerato generalmente , p. 212).

Del resto, il trattato Del lusso era stato scritto in costante polemica e contrapposizione con le tesi proposte nell’opera Della moneta del Galiani (1750) e, prima ancora, nell’Essai di quel Melon (1734) che, invece, aveva suscitato l’ammirazione di Antonio Genovesi: “è necessaria la scienza politica del commercio, quale verbigrazia l’ha scritta il savio Melon. Senza questa

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scienza si va a tastoni e non già ad occhi veggenti” (Genovesi, 1765-1767, pp. 6-7 della ed. critica).

Quale che sia la tesi più convincente, è certo che neanche Broggia poteva valersi di modelli di equilibrio economico generale! Ma ciò non indebolisce il significato del suo contributo, ben più ricco e più articolato di quanto si possa dar conto qui. Basti dire che l’analisi è condotta con molta finezza e acume, con ricchezza di argomentazioni e robustezza logica e testimonia la capacità dell’economista campano di capire nel profondo la complessità delle relazioni che legano insieme le principali grandezze preposte al funzionamento del sistema economico. 12. Attorno al lusso dei napoletani del Settecento

Come ho detto (par. 11), Broggia elabora il proprio schema di analisi onde

poter valutare gli effetti delle spese per i beni di lusso sul buon andamento dell’economia, e perciò anche per trovarsi nella condizione di esprimere giudizi ragionati attorno all’opportunità o meno di provvedimenti correttivi.

A loro volta, giudizi ragionati su eventuali misure correttive non possono prescindere dalla loro efficacia, la quale, dal canto suo, dipende da mille motivi, tra i quali anche il comportamento delle persone e il modo in cui esse reagiscono e, perciò, dipende dalle ragioni che vi stanno dietro, che non si debbono trascurare (checché ne potesse pensare Pareto) e che sono, ad esempio, la tenacia delle idee, la consuetudine con cui le persone guardano al lusso e il particolare significato psicologico ad esso attribuito. Ebbene, il significato che anche i napoletani del Settecento attribuivano al lusso e alla sua ostentazione aveva le più svariate spiegazioni. Vi era indubbiamente millanteria, tracotanza, becera iattanza e tutto ciò che poteva alimentare egoismi, gelosie, invidie e rivalità. Ma non stupisca che vi potessero essere anche motivi del tutto opposti, i quali tante volte sono mescolati insieme e convivono persino nella medesima persona, specialmente se a questa mancasse la voglia e la capacità di guardarsi dentro, nel profondo del cuore.

Potrà sembrare paradossale, ma io amo pensare che vi fosse una sorta di diffuso e intimo senso di comune appartenenza al quale attingeva l’ostentazione del lusso e che trovava il suo sbocco naturale nel bisogno e nel piacere di rendere partecipe il popolo tutto di quella illusione di un istante di sogno di felicità che, in genere, il lusso porta con sé. L’esibizione del lusso diventava allora un modo un po’ naïf per esprimere e diffondere quella chiassosa e sgargiante festosità della quale si è detto nel par. 6 a proposito di Napoli città bellissima, dove “le passioni umane, l’odio, il piacere, l’amore

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della donna, gli onori e i poteri sono simili ai fuochi di gioia in una sera di festa” (Deledda, 1912, p. 214).

E forse utile notare che tutto ciò armonizza con un modo particolare di concepire il lusso, da intendersi, cioè, come strumento per destare ammirazione e per fornire una “eccezionale immagine di sé stesso”. La sua ostentazione trova dunque, per molti versi, la stessa origine di quella “munificenza del principe” di cui discorre Machiavelli nel suo capolavoro: “dico che sarebbe bene [per il principe] essere ritenuto munifico. La munificenza però, se usata in modo appariscente, ti danneggia. Se la usi con intelligenza e nei modi dovuti, riesci a non renderla appariscente e, nello stesso tempo, eviti l’accusa di essere un tirchio. Chi vuol diventare famoso per la sua munificenza, non deve arretrare di fronte a nessun lusso” (Machiavelli, 1513, cap. XVI: De liberalitate et parsimonia, corsivo mio).

Se questi erano i motivi profondi che spingevano anche i napoletani a forme di ostentazione del lusso e di competizione su questo terreno, di sicuro essi dovevano essere tanto robusti da non vacillare neppure di fronte alla prospettiva della povertà. Non diversamente un principe costretto a non “arretrare di fronte a nessun lusso” non sarebbe arretrato neppure di fronte alla rovina: “un principe di tal genere consumerà sempre tutte le sue sostanze e sarà alla fine costretto, se vorrà continuare ad aver fama di munificenza, a imporre tasse eccezionali, a diventare esoso e far tutto il possibile per ricavar danari. In tal modo, sarà odiato dai sudditi e verrà poco stimato dagli altri, diventando povero. Dato che la sua munificenza avrà danneggiato molti e premiato pochi, comincerà ad avvertire anche le più piccole difficoltà e rischierà il potere al minimo pericolo. Rendendosi conto di ciò e volendo fare marcia indietro ecco proprio lui si attirerà immediatamente la fama di uomo misero” (ibidem, p. 153, corsivo mio).

Sembra di vedere lo stesso principe e di ascoltare le stesse profezie di cui scriverà anche Broggia due secoli e mezzo più tardi, per augurarsi che “l’Ofir [località che forniva oro ad Israele] non somministri ad un Salomone le ricchezze più copiose, affinché questo principe, per altro sì abile e sì prudente, non faccia un abuso totale delle ricchezze medesime […] e, malgrado le tante dovizie , non si renda in modo che sia obbligato ad aggravare di insopportabili tributi i popoli suoi; e così possa vietare la scissione del regno, che per tal motivo dovrà avvenire” (Broggia, 2004/b, p. 53, corsivo mio).

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13. Il rincorrersi tra istituzioni e comportamenti della società civile

Si capisce bene perché le pubbliche autorità napoletane, nel combattere le manifestazioni più eclatanti di ostentazione del lusso, si scontrassero con costumi così profondamente radicati da non essere possibile estirparli, neppure ricorrendo alle più severe pragmaticae [nella legislazione spagnola le pragmaticae erano provvedimenti volti all’applicazione di una legge-regolamento di attuazione].

Per giunta, v’è da credere che le pubbliche autorità si trovassero a lottare da sole e senza un reale appoggio della popolazione. Infatti, sarebbe difficile trovare un privato cittadino disposto a prendere l’iniziativa e a farsi parte attiva contro il lusso, se fosse tra coloro che provano ammirazione verso chi lo esibisce; né sarebbe facile trovare un privato cittadino amante del lusso disposto ad attivarsi contro di esso! Se è vero che l’ostentazione del lusso si proponeva di suscitare ammirazione e la otteneva effettivamente, non poteva esservi rivalità tra chi esibiva il lusso e chi ne rimaneva ammirato, sicché nessuna delle due parti in causa poteva avere interesse a chiamare in soccorso la severità dei divieti contemplati dalle pragmaticae onde risolvere a proprio favore un conflitto inesistente.

Fu così che le numerose pragmaticae che i napoletani vedevano snocciolarsi una dopo l’altra non avevano chi le facesse vivere e rimanevano asfittiche, precisamente come le grida manzoniane (alle quali molto somigliavano, sia perché risalivano all’incirca all’epoca in cui Manzoni colloca I promessi sposi, sia perché erano di fonte spagnola, sia, inf ine, perché anch’esse si rivelarono inadatte a raggiungere checchessia, meno che mai ciò che era nelle loro intenzioni).

È in particolare l’Introduzione di De Rosa (2004) che si incarica di raccontarci una vicenda su cui le autorità di governo erano dovute intervenire già verso la fine del Cinquecento e che si era protratta tanto a lungo che, un secolo e mezzo dopo, Broggia ne scriveva come di problema ancora aperto, irrisolto e per il quale occorreva rinunciare alla speranza di trovare un sostegno attivo nella popolazione, sicché non restava che ripiegare su controlli più rigidi e su più aspre sanzioni: “tanto più v’è bisogno di confirmare le leggi suntuarie e di mantenerle con le più severe censure” (Broggia, 2004/b, p. 52).

Non potendosi colpire direttamente un “bene immateriale” come lo è il lusso, occorreva rivolgersi alle sue manifestazioni fisiche: l’abbigliamento, l’addobbo delle case, i vestiti dei servitori e degli stallieri, i cocchi e le lettighe, le carrozze, i calessi, le sedie, le selle, tutto era descritto, prescritto e regolamentato minuziosamente. E così lo erano anche le eccezioni, che pure bisognava prevedere ed elencare dettagliatamente: ad esempio, la Chiesa e le cerimonie religiose, i soldati a cavallo che seguivano il loro stendardo, oppure

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gli sposi, oppure ancora i doni di nozze che, a loro volta, non potevano essere lasciati alla discrezione degli interessati, ma dovevano anch’essi conformarsi alle più minute caratteristiche che le pubbliche autorità definivano ad hoc per poter separare ciò che era lecito da ciò che lecito non era.

Né si poteva trascurare il periodo transitorio, in cui bisognava riservare la vecchia disciplina ai soli oggetti di lusso già esistenti, e si doveva trovare il modo di farla convivere con la nuova, destinata invece ai beni di nuova produzione: occorreva consentire di godere l’esistente, ma era anche necessario prevedere i tempi per il suo ammortamento; e non doveva essere poi così facile stabilirne la durata, distinguere il vecchio dal nuovo, impedire le frodi, predisporre misure di tutela tanto necessarie quanto difficili da realizzare se non escogitando macchinose forme di registrazione in appositi elenchi pubblici.

E poi ancora occorreva decidere quali fossero i destinatari delle pragmaticae e quali fossero le pene per i trasgressori. Non era bastante né conveniente guardare ai soli utenti finali, stante che era più efficace impedire la produzione del nuovo anziché intervenire a cose fatte sul consumo di un bene oramai prodotto. E allora bisognava pensare anche ai fabbricanti e ai fornitori: ricamatori, cucitori, bandierai, carrozzieri, sediari e indoratori diventavano tutti quanti responsabili al pari dei consumatori finali. Egualmente, i servitori al seguito, quali i decani, gli staffieri, gli aiduchi, i volanti e altri ancora erano considerati anch’essi tutti quanti responsabili insieme ai loro padroni ed erano colpevoli e meritevoli di punizione essi stessi quando fossero stati più numerosi del consentito.

Si trattava, infine, di star dietro e rimediare al modo con cui i destinatari di provvedimenti repressivi riuscivano ad eluderli, magari ricorrendo a espedienti così imprevedibilmente strabilianti per la loro capacità di insinuarsi negli interstizi tra un divieto e l’altro da sollevare nuovi problemi, nuove complicazioni, nuovi rimedi e rincorse affannose onde mettervi riparo.

Quella di De Rosa (2004) non è solo una descrizione interessante di un fenomeno per molti versi pittoresco. È anche una lezione che spiega silenziosamente perché i comportamenti della gente non mutassero neppure di fronte alla prospettiva della povertà e perché, meno che mai, essi non potessero lasciarsi intimidire da norme destinate a rimanere inefficaci, per quanto ripetutamente riconfermate e inasprite. Ai miei occhi, si tratta di un invito che andrebbe rivolto principalmente ai giuristi e agli economisti di oggi, perché riflettano attorno alla necessità di capire nel profondo la complessa fragilità delle reciproche interazioni tra istituzioni e società civ ile e vogliano tenerne conto ricorrendo alla ragione. Infatti, come si è cercato di far vedere sopra, sembra particolarmente appropriata la frase posta a didascalia di

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una notissima acquaforte di Francisco Goya: “il sonno della ragione genera mostri”.

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(Final version received May 2005)

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di Carlo Antonio Broggia

********** n. 1/2004 Italo Magnani, Il “Paretaio” n. 2/2004 Italo Magnani, L’economia di Luigi Einaudi: ovvero la virtù del buon senso n. 3/2004 Marisa Bottiroli Civardi e Enrica Chiappero Martinetti, Povertà between and within groups: a reformulation of the FGT class of index n. 4/2004 Marco Missaglia, Demand policies for long run growth: being Keynesian both in the

short and in the long run? n. 5/2004 Andrea Zatti, La tariffazione dei parcheggi come strumento di gestione della

mobilità urbana: alcuni aspetti critici

********** n. 1/2003 Giorgio Panella, La gestione delle aree protette: il finanziamento dei parchi regionali n. 2/2003 Marco Stella, A Ban on Child Labour: the Basu and Van’s Model Applied to the Indian “Carpet-Belt” Industry n. 3/2003 Marco Missaglia e Paul de Boer, Employment programs in Palesatine: food-for-work or cash-for-work?

Dicembre, 2005