Economia dello Sviluppo - Benvenuti nel Sito degli Appunti · Riassunto lezione precedente: gli...
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Economia
dello
Sviluppo
Appunti a cura di Alessio Brunelli
AFC – 1 semestre – 2010
Appunti presi a lezione
(1 lezione non trascritta)
Riassunto lezione precedente: gli economisti classici (1600-1850; Smith, Ricardo, Marx) si sono
trovati di fronte un mondo nuovo che non c'è mai stato prima e grazie all'invenzione del motore a
scoppio l'uomo ha sostituito l'energia derivante dal cavallo con il cavallo vapore aumentando
produttività e quindi la produzione e la popolazione ha potuto crescere. Il limite della rivoluzione
agricola era che l'energia poteva trarsi dalla terra (più terra si aveva e più energia si aveva). Con la
rivoluzione agricola l'uomo ha imparato la socialità e quindi la nascita delle istituzioni.
Gli economisti hanno cercato di copiare gli strumenti forniti dai fisici e dai matematici introducendo
così il calcolo marginale. Il paradigma dell'economia classica è quello che c'è una forte attenzione
per lo scambio (microeconomia le curve di indifferenza creano la curva di domanda individuale, il
consumatore che cerca di massimizzare la soddisfazione dà luogo ad una curva inclinata
negativamente, i produttori cercano di massimizzare il profitto e la curva è quindi inclinata
positivamente. Al centro c'è lo scambio.
Neoclassici (1850 in avanti; Keynes). Keynes: la moderna economia è industriale cioè si producono
beni attraverso altri beni e produrre richiede tempo (esempio della produzione di una nuova
macchina) quindi a priori non si sa quanto si riuscirà a vendere, non si sa la domanda aggregata. La
domanda aggregata è la somma di quelle 4 categorie (consumi, investimenti, spesa pubblica,
domanda estera). Il pil è un flusso: valore dei beni e servizi in un certo periodo di tempo. L'offerta
aggregata comprende la variazione delle scorte e permette l'uguaglianza tra domanda e offerta. È
assolutamente straordinario che si produca la giusta quantità. Stando così le cose sarà l'offerta
aggregata che si adeguerà alla domanda aggregata. Il reddito di equilibrio è quella produzione verso
cui il paese tende, questo non è il massimo perché il massimo è quello potenziale e il gap è. Poi ha
creato varie teorie (del consumo, dell'investimento) e alla fine politica fiscale e politica monetaria
sono le due politiche su cui uno stato interviene per aggiustare l'economia. K. : la disoccupazione
non dipende dal fatto che i lavoratori non hanno voglia di lavorare ma dovete pagarli di più se
volete che comprino le vostre merci. Lui spiega che attraverso politica fiscale e monetaria si può
provare ad aggiustare le cose. K. Con la teoria quantitativa della moneta si spiega il legame tra
moneta e inflazione.
Harrod: 1933 è incaricato di scrivere un trattato di economia internazionale e scrive l'idea del
moltiplicatore del commercio estero. Era preoccupato di tradurre dinamicamente la teoria
Keynesiana che non prendeva in considerazione il fattore tempo. Keynes: tu hai introdotto tre
diversi concetti di reddito (offerta aggregata, reddito di equilibrio, reddito potenziale), nel tempo
questi variano e quand'anche si raggiungesse la piena occupazione a meno che queste tre variabili
non crescano con lo stesso tasso si creeranno degli squilibri. Keynes pubblica nel 36 la teoria
generale e un mese dopo H pubblica “the trade cycle” quindi ragiona in termini dinamici. Lo
svilupppo economico nasce con i classici poi abbandonata, poi microeconomisti poi Keynes e H. La
crescita è la variazione del pil tra un anno e l'altro in valore assoluto o in termini percentuali. La
crescita, che è misurata in termini assoluti dall’incremento del PIL tra un periodo e l’altro e in
termini relativi dal tasso percentuale di crescita del PIL, attiene agli aspetti quantitativi del sistema
economico. Lo sviluppo invece implica delle modificazioni nella struttura produttiva quindi crescita
è diverso da sviluppo. Metafora dei bambini per capire differenza tra sviluppo e crescita. Quindi c'è
differenza tra teorie dello sviluppo e teorie della crescita. Queste sono discipline empiriche, senza i
dati non si va da nessuna parte. E devono essere dati comparabili. Questo è possibile dalla seconda
metà degli anni 50, momento in cui si raccolgono dati internazionali. Caldor arriva ad avere questi
dati e pubblica. Nel 1946-47 doveva guidare 25 fra economisti e statistici per studiare la possiblità
di giungere ad una unificazione dei paesi usciti dalla guerra (la CEE che nascerà nel 57). quindi si
voleva capire come si potevano confrontare le diverse economie nazionali europee. Tra questi 25
c'era Verdoorn che era l'assistente di Tim Berger (curva Cobb-Douglas). Nel 1964 i confronti
internazionali si potevano solo fare tra 9 paesi, fra 12 paesi sono negli anni 70, poi gruppo di statisti
si mette a lavorare per confrontare 56 paesi (uniformare le modalità di calcolo del PIL, della
disoccupazione eccetera, poi c'erano le monete diverse quindi occorreva tradurlo in una unica
moneta cioè il dollaro americano. Perché il dollaro americano? Keynes è stato uno dei fautori degli
accordi di Bretton-Woods che pone le basi per gli scambi internazionali del dopoguerra. Voleva
creare moneta unica (bancor) e creare due istituzioni per controllare la moneta e aiutare i paesi in
difficoltà. Ma gli usa non volevano abbandonare il dollaro quindi cambi fissi ma trattabili
agganciato all'oro. Fare dei confronti internazionali servono dei dati e degli elaboratori per condurre
le ricerche. Solo nell'85-86 ci sono molti dati. Teoria dello sviluppo (povertà, effetti
dell'antropizzazione) e teoria della crescita marciano paralleli.
INDICATORI DELLO SVILUPPO ECONOMICO:
La prima tabella riguarda la dimensione dell'economia. Popolazione mondiale quasi 7 miliardi. Di
questi poco meno di un miliardo vive in paesi a basso reddito ed un reddito di poco più di un euro al
giorno. 4 miliardi e mezzo di persone vivono in paesi a medio reddito con 6 dollari al giorno ed è il
70% della popolazione mondiale. Un miliardo nell'alto reddito con 70 dollari. Gli economisti hanno
trovato un sistema per uniformare il potere d'acquisto (con meno moneta in Mozambico si vive
ugualmente). L'europa è più grande degli usa e cercano di metterci i bastoni tra le ruote perché
diventeremmo la prima potenza economica mondiale e la terza demografica. I tassi di crescita in
generale sono piccoli e occorre sapere valutare un po' bene: 70/tasso di crescita mi dice quanti anni
ci mette un certo aggregato a raddoppiare. Se la popolazione cresce al 2% ci metterà 35 anni a
raddoppiare. La nigeria in meno di 20 anni raddoppierà la popolazione. Questo quindi spiega perché
gli usa mettono i bastoni tra le ruote ai meccanismi di integrazione europea. La cina cresce a nove
volte la velocità della germania.
Le economie a reddito basso sono quelle caratterizzate da economia agricola. Le economie a reddito
basso producono beni agricoli, i medi producono beni industriali che prima producevamo noi, il
reddito alto producono i servizi quindi lo sviluppo comporta modificazioni strutturali. In italia
grande crescita dopo anni 50 poi siamo calati. Dobbiamo capire perché è successo così e da cosa è
composto il motore della macchina e a che velocità può andare.
Le differenza tra teoria dello sviluppo e teoria della crescita prima di capire la differenza bisogna
sapere cos'è una teoria. Una teoria è un insieme di ipotesi circa il modo in cui si ritiene che funzioni
un certo aspetto della realtà. Principio(boh): siccome produrre richiede tempo e le imprese devono
decidere la quantità da produrre molto in anticipo possono trovarsi ad avere prodotto troppo o
troppo poco quindi variazione delle scorte. Siccome produrre richiede tempo è la offerta aggregata
che si adegua alla domanda aggregata e non viceversa. Offerta aggregata è un concetto ex post cioè
il suo valore diventerà noto solo al termine del periodo considerato occorre esprimere in valore
quindi non sommare litri di vino e quintali di carne quindi occorre esprimere il pil in termini
monetari quindi di prezzi. Può succedere quindi che il pil sia aumentato perché sono aumentati i
prezzi essendo che il pil è prezzi per quantità allora ci si è inventati il pil reale che prende i prezzi di
un anno base e questo permette il confronto temporale. Essendo le due teorie empiriche occorre
confrontare dati confrontabili quindi i dati devono essere espressi in termini reali quindi depurati
dalla variazione dei prezzi. Pil valore dei beni e servizi finali, considera gli aggregati della
macroeconomia che sono gli operatori di spesa che a differenza degli agenti della microeconomia
(gli agenti della microeconomia sono tanti, quelli della macroeconomia sono 4 perché la
macroeconomia considera degli aggregati di beni eterogenei, mentre la curva di domanda si fa in
riferimento a un solo tipo di beni), finali perché non ci sono quelli intermedi sommando i quali
avremmo il prodotto nazionale vendibile. Se contiamo automobile più pneumatici pirelli contiamo
gli pneumatici due volte. Sono finali perché sono acquistati dai consumatori finali che sono quelle 4
categorie. L'offerta aggregata invece è quello prodotto dalle imprese e non è detto che coincida e
per essere uguale probabilmente si muovono le scorte e capisco se ho prodotto troppo o troppo
poco. Il principio della domanda effettiva è la visione del mondo in un ottica macroeconomica e che
pone l'accento sulla produzione. Antagonista a questa visione è quella neoclassica che pone
l'accento sul momento dello scambio. Nella economia del mercato del villaggio la variazione dei
prezzi è il meccanismo che porta in relazione domanda e offerta, nella teoria macroeconomica è
invece la variazione della quantità attraverso le scorte. A seguito di Keynes che ha inventato la
contabilità nazionale, teoria del consumo, teoria dell'investimento. K ha partecipato alla messa
appunto degli accordi di Bretton Woods e la stabilità dei cambi ha permesso il forte sviluppo anni
50-70 poi si è passati a cambi flessibili questo lascia aperta la porta alla speculazione sulle monete.
Nessun paese piccolo come l'Italia può resistere all'attacco della speculazione internazionale perché
ci sono finanzieri che muovono quantità enormi di denaro. Quindi poi si è andati verso l'euro perché
i cambi flessibili mettevano in crisi le quote di finanziamento europee per i coltivatori quindi ci
siamo fatti un sistema di cambi fissi creando l'euro. La Cina e l'India sono le due nuove
superpotenze e la cina ha tantissimi dollari, ha creato il fondo sovrano che gestisce le risorse
finanziarie che risultano dall'eccedenza tra esportazioni ed importazione e si comprano le economie
cioè case e fabbriche a NY, in Italia, in Germania.
Non sono sinonimi crescita e sviluppo, non esiste la teoria vera perché se vengono smentite le
ipotesi che stanno alla base essa crolla.
Dopo seconda guerra biforcazione tra teoria dello sviluppo e teoria della crescita economica. Noi le
teniamo separate perché vogliamo capire bene e la separazione passa attraverso il fatto che le teorie
della crescita sono uniformi, mentre lo sviluppo economico è caratterizzato da mutamenti
strutturali. Uniformi: tutti i settori crescono mantenendo invariate le proporzioni. La torta è divisa in
tre poi cresce e tutti hanno la stessa quantità rispetto agli altri. Invece lo sviluppo il settore agricolo
ha ceduto quota al manifatturiero e rosicchia valore aggiunto all'agricoltura. Quindi i settori
crescono a diversi tassi e questo è determinato dal tasso del progresso tecnico.
Questione demografica, questione della ecocompatibilità dello sviluppo, questione della povertà.
Sono questi i temi dello sviluppo.
Ieri abbiamo preso i dati e abbiamo visto il mondo. Madison è l'autore che ha guardato indietro e ha
cercato di capire cos'è successo nel passato. Il reddito è cresciuto nel periodo industriale del 2,5%
quindi in 28 anni. Ogni 28 anni raddoppia l'aggregato. Durante il periodo mercantile il reddito
raddoppiava ogni 116 anni. Il reddito pro capite è il pil / popolazione cioè la capacità di spesa media
di un abitante che vive in quel sistema economico. Il reddito pro capite risente della velocità a cui
va la macchina economica a numeratore e della velocità a cui va la macchina demografica a
denominatore. Il reddito pro capite rimane immutato quando i tassi di crescita economica e
demografica crescono alla stessa velocità.
Dal 900 sono cresciute a tassi intorno al 3%.
tabella 3 colpisce il 3.8 come media aritmetica. È la crescita più grande di sempre è la golden age
dello sviluppo. Se si guarda tra i paesi si vede che l'italia e il giappone hanno fatto catching up cioè
cresce più velocemente per poi raggiungere.
Tabella uno: l'europa occidentale nel 1820 aveva un redito pro capite di 1292 e nel 1992 è salito a
17384 significa che è stato moltiplicato per 13 volte mentre la popolazione è auemntata solo di tre
volte. Quindi il reddito pro capite è cresciuto molto. Occidentali d'oltre oceano la popolazione è
aumentata moltissimo e questo significa che c'è stato fenomeno migratorio enorme. Emigrazione
europea 70 milioni.
Tratterò il tema demografico, illustrando come si possa elaborare un modello previsivo che sarà
utilizzato per molte altre questioni.
30 novembre: prova scritta.
Esiste la teoria vera? no. Esistono teorie alternative e talvolta complementari. Perché non esistono
risposte semplici a problemi complessi. Ciascuna teoria ha anche un campo di applicazione ristretto.
Oggi vediamo come si costruisce un modello e un esempio di teoria. Modello: la bomba
demografica termine introdotto in anni 70 quando popolazione ha subito una accelerazione (tassi di
crescita che aumentano) notevole, decelerazione è tassi di crescita che diminuiscono. È successo
che da 0 popolazione mondiale stazionaria per 1750 anni. Qualcosa di simile ad ora era successo
con la rivoluzione agricola cioè forte accelerazione (l'uomo si dota delle risorse per sfamare o per
trasformare l'energia e ha trovato il modo per rendere efficiente , col bue e cavallo tira fuori
tantissimo grano, più che con la zappa). Ora da cavallo a cavallo vapore e poi dopo II GM da
cavallo vapore a energia nucleare. Tutto comincia con rivoluzione industriale del 1750. nel 1804 era
1 miliardo, 2 nel 1927, 3 nel 1960, 4 nel 1974 cioè raddoppiato in meno di un secolo, 5 nell'87, 6
nel 2000, 6,7 nel 2008. poi diventerà stazionario intorno al 2050. sembra una esse. Come si fa per
prevedere la popolazione? Primo metodo empirico: la popolazione è uno stock, tutti gli stock si
alimentano con uno stock in entrata (nuomero dei nati) e uno stock in uscita (numero dei morti).
Pop t= pop t-1 + num nati – num morti. L'incremento è la velocità con cui si muove la macchina
demografica. Se ho pop 2003 6,273 * 1% = popo 2004. poi pop 2004 *1%= pop 2005 e così vi fino
al 2008. 1% è l'incremento medio annuo che mi dice la banca mondiale. Relazione di definizione
(Pt=Pt-1 + deltaP) ipotesi di comportamento (deltaP=p*Pt-1). Modello: traduzione in simboli delle
ipotesi che secondo me consentono di spiegare un fenomeno in esame. Pt=P0*(1+p)^t. Da
qualunque momento posso avere un anno qualunque. Deve essere giusta la popolazione iniziale e il
tasso di crescita. Ma viene un modello esponenziale. La stazionarietà significa tasso di crescita
vicino allo 0 (questo è successo fino al 1750). se N=M la popolazione rimane costante. Devo
spiegare perché subito è stabile poi forte accelerazione poi torna stazionario. Da molto prossimo
allo 0 fino a 2,7%, poi dagli anni 70 decelerazione fino a popolazione limite (non esiste perché
magari uomo inventa qualcosa per economizzare l'energia e può aumentare ancora). Per migliorare
il modello occorre vedere cosa influenza il tasso di crescita. La popolazione limite è intorno agli 11
mld. Il controllo della popolazione è possibile solo se lo stato ha il controllo del territorio (nessuno
si fida di nessuno in cina, nel caseggiato c'è di sicuro una spia del regime. Teoria: significa che
dovrei disporre di qualche ipotesi su come funziona il tasso di crescita. Voglio trovare quando p
cresce e diminuisce. Per elaborare una teoria. Teoria degli stadi: ipotizza (parte dal presupposto) che
dobbiamo spiegare il tasso di crescita della popolazione. Si può dimostrare che il tasso di crescita
della pop è uguale al tasso di natalità meno tasso di mortalità. Allora se il tasso di crescita é quel p =
n-m. n= N/popolazione. Allora si può suddividere la storia in stadi: I alta mortalità e alta natalità
rimane stazionaria. Si impenna nel 1800 grazie a grandissima innovazione cioè fognature a londra
che hanno consentito di abbattere tasso di mortalità (prima bevevano la merda che cagavano). E per
un periodo di tempo la natalità è stata quella di prima. Poi succede che nel terzo stadio le donne si
fanno furbe: non vogliono più fare 10 figli. Con passaggio da industriale a terziarizzato questo ha
comportato profonde trasformazioni etiche sul ruolo della famiglia, della donna. La natalità si
riporta in linea con il tasso di natalità e sono su livelli più bassi!. Poi si riallinea. Questa teoria
spiega abbastanza bene l'evoluzione demografica. Quindi il modello ha un campo di validità
limitato. Ma quel modello è potentissimo perché è un esempio di modellino dinamico. Nella statica
le variabili non hanno il pedice tempo (C, G..). Harrod occorre arrivare per dinamica: le variabili
sono datate e la datazione consente di avere modelli discreti (1,2,3,4) oppure continui (tutti i numeri
che ci sono tra 1 e 2). se vogliamo parlare della teoria della crescita facciamo riferimento alla scala
dell'anno. Potrei mettere PIL stati uniti* il suo fattore di crescita = PIL cina * il suo fattore di
crescita e poi risolvo secondo t (uso la formula del modello). I dati sulle migrazioni anticipano il
ciclo economico cioè ci si muove verso dove ci sarà forte crescita. La diminuzione della
popolazione in liguria dimostra che è diminuita la crescita (300.000 persone che non si vestono, non
mangiano, non comprano servizi). L'andamento della popolazione è endogeno rispetto
all'andamento dell'economia.
La povertà estrema.
I primi studi sulla povertà del mondo. Economia sviluppo e crescita sono empiriche quindi senza
dati non si fa niente. Per trovare dati confrontabili si è dovuto spendere tanto tempo. Il pil deve
essere valutato ai prezzi quindi hanno inventato degli indici per depurare il fenomeno
dell'inflazionistico. Nei confronti spaziali invece c'è problema che europa in euro e altri in altre
monete allora occorre tradurlo tipo in dollari oppure altra opzione è che il dollaro non ha la capacità
di acquisto negli stessi paesi allora il dollaro non ha la stessa capacità di acquisto. p*q è molto
diverso se lo faccio col mais in Italia e in Mozambico vengono risultati molto diversi e ci sono
voluti 15 anni per avere questi dati. Tipo si fa prezzo medio in 200 stati e poi le q si moltiplicano
per questo prezzo medio. I dati escono nel 1990 quindi poco fa grazie alla banca mondiale. Secondo
studio è delle UNDP anche questo del 1990. gli studi più recenti sono banca mondiale nel 2004,
2007 e 2009 e anche 2010.
povertà è la condizione di chi ha fame, di chi è senza alcuna protezione sociale, è ammalato senza
potersi curare, chi non ha accesso all'acqua potabile, è analfabeta, è senza lavoro neé prostepttiva
per il futuro, non è libero.
La soglia di povertà in italia è meno di 11000 euro all'anno. Prospettiva del reddito è molto criticata
da economisti quella misura di un dollaro, perché la povertà non è fatta solo di reddito.
Introduciamo allora altre dimensioni della povertà. Quindi occorre considerare la povertà sotto tutte
quelle accezioni per avere una visione completa.
Nei momenti di crisi si acuisce la povertà: il PIL è una torta, quando la torta cresce in dimensioni
ma le proporzioni rimangono immutate allora c'è aumento della distanza tra 1 e 2. Nei momenti di
crisi chi ha 75% anche se gliene togli un pezzo gliene rimane tanta, invece se ne hai poca appena
diminuisce ti incazzi subito.
Il tasso di crescita è ovviamente più alto perché non hanno niente: da 1 2 aumento del 100%, da 100
a 101 aumento dell'1%.
Il 10% delle strade sono asfaltate nella provincia di niassa. Le altre strade sono picada cioè terra
battuta. Quando ci sono i monsoni non si va senza 4X4 e sono a schiena d'asino. Come puoi pensare
si fare impresa lì che il trasporto è un casino per portare fuori i prodotti. Poi c'è ferrovia e arriva
ogni 15 giorni e c'è festa perché arrivano cose che lì non ci sono tipo cemento è molto importante.
Nelle montagne passa anche il treno ma la gente stacca le traversine per fare il fuoco quindi è
difficile fare infrastrutture. No luce no acqua no servizi, nelle case c'è questo. Il territorio è pieno di
quelle case fatte in modo che le alluvioni non possano distruggerle. Non c'è nessuna possibilità di
cambiamento quindi la cosa del ventaglio della possibilità di scelta. Non hanno neanche surplus,
quello che coltivano mangiano se gli serve qualcosa scambiano. Nei celeiro mettono il mais che
hanno coltivato e cercano di riempirlo per essere tranquilli fino al prossimo raccolto. Sono colpiti da
malnutrizione, cioè mangiano solo mais e si gonfia la pancia. Nonostante siano sollevate le
costruzioni il 25% è distrutto, 3 tonnellate in un ettaro in italia, da loro 700 chili (2 etti di
granoturco al giorno poi magari arricchito da un pò di frutta o da un pò di fagioli). La machamba è
il loro pezzo di terreno dove mettono il granoturco. Il terreno non avendo possibilità di concime può
dare una quantità di mais per la famiglia per 2 anni 3 al massimo poi si spostano di altri 3 chilometri
abbattono gli alberi col macete e con questo ci fanno una capanna. Una volta abbattuto questo, si
alzano quando il sole sale (sono i ¾ la popolazione mozambicana i contadini). Lavorano dal mattino
alla sera per 2 etti e mezzo di mais al giorno. Il granoturco devono trasformarlo in farina e usano il
pilao. Il lavoro di una bambina dai 7 anni in poi fanno quel lavoro li per tutta la vita. E poi fanno la
polente bianca. Non ci mettono il sale perché costa. Lo mangiano e riempie parecchio. Poi c'è il
mercado: tubero e mandioca cresce in terreni poco umidi e li mangiano, aglio, cipolle, banane. Sono
mucchietti perché le banane costano 3 centesimi al gruppetto. Poi possono vendere l'olio, il sale
sono piccoli i sacchetti perché intanto non hanno i soldi. L'acqua: c'è un pozzo fatto dallo stato e
quelli sono i pozzi migliori. Serve trivella per arrivare a 80 metri perché cessi e morti sono intorno a
a capanne quindi occorre andare in profondità. 5200 persone con un pozzo quindi si può rompere
facilmente. 5 chilometri per andare e venire, a prendere l'acqua alla depressione tipo lago.
Impiegano 2 ore. Quando portano i 12 litri serve per tutta la famiglia quindi devono fare 2 viaggi al
giorno. Noi usiamo 9 litri per il cesso. Loro 12 per tutta la famiglia quindi 4 ore. Analfabetismo:
creare condizioni per l'istruzione è fondamentale, lo stato vuole istruzione di 5 anni e 2 di medie
obbligatoria. In quinta non ci arriva nessuno: le bambine vengono ritirate dalla scuola dopo la terza
e poi devono lavorare in casa (acqua e altri lavori), e i maschi devono aiutare in casa e intanto non
cambia niente perche dopo 2 anni si sono gia dimenticati tutto. A 8 anni c'è iniziazione vivono per
40 giorni e è insegnano: campi, capanna, onorare i morti e igieni, acquisiscono la dignità di adulti
quindi possono parlare nelle assemblee, hanno posto per loro in paliota, accudire i morti e sposarsi.
Alle bambine è detto che devono seguire i desideri dell'uomo quindi succede che a 12 anni si
sposano, fanno figli e muoiono. Lo sanno che i bambini muoiono ed è per questo che ne fanno tanti.
Mettono radice nel sacchetto affinché proteggano dalle malattie. Il bimbo si ammala e 30 cent per
farlo guarire, la vita del bimbo vale un terzo di un accendino. Per cui il bambino sarebbe morto e ne
avrebbe fatto un altro.
Lui ha fatto la scuola elementare,
In un modello dinamico quando si fa un piccolissimo errore, il tempo che trascorre ingigantisce
enormemente l'errore (può essere un errore di misurazione oppure dovuto al fatto che il valore del
parametro che è alla base del modello sia variato nel tempo). Sono le teorie del caos che studiano
questi aspetti di rilevanza dell'errore che si ingigantisce. La teoria del caos si inserisce nella teoria
della complessità.
Sviluppo e crescita non sono fenomeni interscmabiabili. Lo sviluppo induce trasformazioni
settoriali mentre crescita si occupano solo della crescita economica. Questione demografica, della
povertà, e sviluppo ecocompatibile sono temi dello sviluppo. Lo sviluppo ecocompatibile ha dato
vita al filone della decrescita felice. Lo sviluppo sostenibile è un filone delle teorie della crescita.
Occorre prima sapere quali sono i vantaggi della crescita. Gli economisti non si sono mai interessati
della decrescita. Ecocompatibilità ne parleremo alla fine del corso.
Introduciamoci alle teorie della crescita. Occorre prima fare due cose: capirne gli origini e
attrezzarci degli strumenti che consentono di capire le teorie.
Prima cosa: come avviene l'evoluzione culturale. L'evoluzione culturale tiene conto di due
dimendioni: lo spazio e il tempo. Sullo spazio siamo informati perché è la nostra dimensione
prediletta. La dimensione temporale è più da poco tempo che è concettualizzata perché richiede
strumenti che non esistevano: possiamo distinguere teorie statiche e teorie dinamiche (datano le
variabile e cercano di comprenderne l'evoluzione nel corso del tempo). Già così capiamo l'origine
keynesiana delle teorie della crescita. Nell'ottica di harrod discepolo di keynes che ha scritto in
contemporaneo con teoria generale di keynes la trading cicle e criticava keynes per aver lavorato la
teoria statica. Keynes in realtà il suo principio della domanda effettiva (processo di aggiustamento
della offerta aggeegato su domanda aggregata che fa convenrgere l'offerta alla domanda). Se quindi
tre livelli di reddito: reddito potenziale, di equilibrio e ... il processo di aggiustamento è dinamico
quindi il sistema economico si muove a cicli. Se c'è gap tra Y c'è anche gap tra disoccupazione e se
si vuole portare al pieno impiego bisogna far muove il Ye per portarlo a Y maggiore e allora
occorre capire le determinanti del reddito per poi farlo salire.
Si può fare quindi politica monetaria (
aumentare offerta di monete
far abbassare il tasso di interesse, rendere convenitne gli investimenti e influire sul reddito) e
politica fiscale (direttaemente
con infrastrutture e spesa pubblica)
questa è una teoria statica che prescinde dal tempo. Se il reddito di equilibrio esiste questo è dato da
domanda aggregata. Poi faccio scomposizione della domanda poi c'è teoria del consumo, teroia
dell'investimento, se faccio dipendere tasso da offerta e domanda di moneta ecc che trovo offerta
aggregata e so dove intervenire. Poi ipotizziamo teoria del consumo di tipo lineare. Con la linearità
si può scomporre: teoria del consumo abbimao componente del reddito, componente della
ricchezza, componente del tasso di interesse. Stessa cosa per teoria dell'investimento. Stessa cosa
per il reddito di equilibrio cioè lo scompongo in politica fiscale e politica monetaria. Se questo è
l'esito della teoria questa è statica dice harrod. Per avere teoria dinamica occorre datare il consumo,
l'investimento, il reddito. Allora dice se la tua teoria si può sintetizzare con tre diversi livelli di
reddito, dinamicamente significa che questi avranno un loro tasso di crescita.
Pt = f (P0,p,t) il problema è che se faccio un piccolissimo errore nella popolazione iniziale faccio un
errore enorme. Per un periodo di tempo limitato, questo modello spiega bene l'andamento della
popolazione. Delta P è la crescita della popolazione, p=deltaP /Pt-1. Applichiamo questo modellino
al reddito:
Yt=Y0 + deltaY. Delta Y è la crescita economica che è la variazione che il reddito subisce tra un
periodo e l'altro. Delta Y=yYt-1 che è il tasso di crescita. Yt=Y0(a+y)^t. La teoria degli stadi fa
delle ipotesi: nel primo stadio il tasso è uguale, nel secondo ecc e nel tezo così allora se valgono
queste ipotesi io posso fare previsioni. Come faccio qui a spiegare da cosa dipende il tasso di
crescita dell'economia. Mi servono delle teorie che me lo spiegano: sono le teorie della crescita.
Posto che quella sia la crescita economica, la teoria della crescita serve per capire come varia il
tasso di crescita nel tempo.
Y=Y0(1+y)^t
Yet=Ye0(
Yp
Il sentiero temporale di crescita quindi è quanto tempo ci vuole perché laYe arrivi a Yp.
Questa teoria si può applicare anche alla teoria del capitale:
Kt=Kt-1+deltaK
deltaK=kKt-1
Kt=K0(1+k)^t
delta K sono gli investimenti.
Lo stesso modello consente di definire evoluzione demografica, il reddito, il capitale.
L'offerta di moneta è un multiplo della base monetaria. La base monetaria è uno stock alimentato da
flussi che sono i canali di formazione della base monetaria.
Bmt=BMt-1 + delta BM
delta BM sono i canali di formazione della base monetaria.
deltaM=mbm * deltaBM
Mt=M0 (1+m)^t
che cos'è il progresso tecnico:
lambda t (stock conoscenze tecnologiche) = lambda t-1 + delta lambda t
delta lmbda t è il flusso di variazione dello stock delle conoscenze tecnologiche.
Poi deduco le altre due formule.
Stock delle conoscenze tecnologiche è la ricetta di tutte le merci. Il bene si fa così e così poi arriva
il celiaco e io devo modificare il prodotto allora c'è progresso tecnico che modifica lo stock delle
conoscenze tecnologiche. Innovazioni sono il flusso con cui si costituisce il progresso tecnico.
Riepilogo lezione precedente: illustrazione dello strumentoo principe per le manipolazioni che
faremo. La formula era il sentiero temporale di crescita: è la forma esplicita della soluzione di un
modello con cui rappresentiamo il fenomeno. Abbiamo preso il fenomeno della popolazione
mondiale perché è facile da maneggiare e imparare la differenza tra variabili stock e variabili flusso
(è chiusa la popolazione mondiale, la regione liguria è aperta perché ci sono tassi in uscita e in
entrata dalla regione). Presa questa variabile ha messo in evidenza il fatto che la pop mondiale è uno
stock che viene alimentato dai flussi che abbiamo detto ora. Se scriviamo la relazione è questa Pt =
Pt-1 + flusso di accrescimento. Flusso di accrescimento è nati meno morti. Ma dobbiamo sempre
aspettare la fine dell'anno per calcolare il flusso. Se vogliamo prevedere allora dobbiamo stimare il
flusso di accrescimento. Lo stimiamo rapportandolo alla popolazione dell'anno precedente, l'ipotesi
è se la popolazione dovesse crescere allo stesso tasso dell'anno prima allora la popolazione sarebbe
questa. La popolazione per raddoppiare dovremmo lavorare su questo fattore di crescita (1+p)^t per
trovare il tempo che mi consenta di raddoppiare la popolazione. Per raddoppiare il fattore dev'essere
uguale a 2. (1+p)^t = 2 se risolvo trovo quel famoso 70. per giudicare se è grande faccio tasso /70.
La popolazione mi serve per definire la crescita che è il PIL quindi applichiamo di nuovo quella
formula. Le teoria della crescita cercano di spiegare perché le economie crescono a tassi diversi. Per
capire che questo strumento è importante: la FED ha come obiettivo della propria politica monetaria
quella di agire sulla q di moneta per fare crescita economica. Quel'è il nesso tra quantità di moneta e
crescita economica? Ce lo spiega Keynes. Quantità di moneta * moltiplicatore = offerta di moneta.
L'offerta di moneta influenza il tasso di interesse. Il consumo poi dipende almeno in parte dal tasso
di interesse. Gli investimenti dipendono da a) il costo del bene strumentale b) i rendimenti netti
attesi c) tasso di interesse. Gli investimenti e i consumi sono inversamente proporzionali al tasso di
interesse. Il reddito di equilibrio è componente autonoma * moltiplicatore +. la BCE deve occuparsi
della stabilità dei prezzi. Qual'è il nesso tra la gestione dell'offerta di moneta e il livello generale dei
prezzi? Teoria quantitativa della moneta: MV= YP (non è uguale ma è tre trattini). Per avere visione
dinamica devo datare le variabili. MtVt=YtPt. Allora ho tutti quei sentieri: M0(1+m)^t * V0 (1+v)^t
= Y0 (1+y)^t * P0 (1+p)^t. Facendo calcoli ottengo m + v = y + p (non è uguale ma è circa).
Dovrebbero esserci altri prodotti ma sono trascurabili perché molto piccoli. p = m+v-y. v=0 dicono i
francesi allora poi dico che l'inflazione deve essere del 2% quindi se il tasso di crescita
dell'economia è del 5% allora posso incrementare la moneta del 7%. e la risposta a che cosa
influenza il tasso di crescita lo troviamo nelle teorie della crescita.
Vediamo cos'è il tasso di crescita dell'economia osservando l'economia italiana. L'economia italiana
tra il 1970 e il 2009 è poco più che raddoppiata. Voglio trovare quel tasso di crescita che mi
consente il raddoppio del PIL nell'arco di 39 anni e questo è circa il 2%. 10043/552413 = tasso di
crescita. È una crescita non regolare. L'aumento del tasso di crescita è accelerazione, diminuzione
del tasso di crescita è decelerazione, tasso negativo è crisi. Negativo la prima volta per crisi
petrolifera, nel 92 attacco sulla lira da Soros rischiato il default l'anno successivo crisi quindi anche
per diminuzione spesa pubblica (stipendi dei pubblici dipendenti). 2009 peggiore crisi dal dopo
guerra. LnPIL è logaritmo naturale del PIL 13,22 è l'esponente che dobbiamo dare a e per avere il
PIL. La variazione tra due valori logaritmici è un'ottima approssimazione del tasso di crescita. o è
tasso di crescita degli occupati. y tasso di crescita del reddito, o tasso di crescita dell'occupazione, pi
aumento della produttività. Cittafutura: tendina politica, dietro la notizia ci sono i suoi articoli e poi
ha scritto il gatto della crisi. Debito è lo stock alimentato dal flusso che è il deficit. Inoltre il fatto
che hai debito allora l'anno dopo hai incremento perché ci sono gli interessi Dt=D0 (1+i)^t. Col
trattato di Maastricht abbiamo vincolo su debito /pil quindi avremo sentiero temporale di crescita
del debito e sentiero temporale di crescita del pil.
Slides: angus medison ha ricostruito i dati relativi a tutti i paesi e un allievo ha preso i dati di
madison e ha ristimato il pil italiano di lungo periodo. Il grafico è in scala logaritmica. La crescita
della popolazione è avvenuta in maniera regolare. Invece la crescita economica possiamo
identificare le quattro grandi fasi. La prima fase è grazie all'aumento del commercio mondiale cioè
è la prima fase della globalizzazione. Appena c'è stata chiusura c'è stata prima GM e poi seconda
GM. 50-70 enorme crescita e molto rapida è l'età d'oro dello sviluppo economico. Dagli anni '70 c'è
ristrutturazione, forte contestazione.
Un secolo di crescita del'economia italiana: la crescita non avviene in maniera regolare, ci sono fasi.
Dal 70 è iniziato il declino dell'economia italiana. Ma perché il tasso di crescita era 7,2 poi è
diventato 2.
tra 2000 e 2007 è cresciuta ma molto poco alla volta. Ora c'è l'effetto di rimbalzo: se lascio pallina
da 20 cm rimbalza di 15 cm, se da un metro e mezzo fa un metro.
Il problema diventa: abbiamo visto la contabilità cioè cos'è il tasso di crescita, il fatto hce non
cresce in maniera regolare, abbiamo anche visto che il tasso medio annuo fa scomparire la storia
cioè il taso di crescita nnuo medio è quel numero che mi dice se l'economia fosse cresciuta sempre
allo stesso tasso. Ma in realtà ci sono i cicli. Quindi nel periodo in cui K lavorava la sua teoria e H
la traduceva in termini dinamici si studiavano i cicli. Ciclo e crescita sono strettamente
interconnessi in quanto la crescita è l'esito del ciclo. Però quasi tutte le teorie cercano di spiegare il
tasso annuo medio quindi il trend quindi la crescita. La velocità costante è il trend ma il trend è fatto
di cicli. Qualunque modello si porta dietro degli errori ma anche se sono minuscoli se lo facciamo
girare nel tempo diventa un errore enorme. Non si possono usare modelli che si usano per il lungo
periodo in un corto periodo.
Anticipa gli argomenti di domani: sono gli strumenti indispensabili per riuscire a capire le teorie di
H e Domar. Sono due economisti che hanno criticato le teorie di K. Qual'è l'ipotesi della teroia
macrostatica Keynesiana: lui si occupa del periodo breve cioè quello in cui la capacità produttiva
rimane immutata infatti lavorava sulla variazione delle scorte. Il reddito di equilibrio attirava
l'offerta aggregata a sé come una calamita. Per capire la teoria di H occorre sapere il perno della sua
teoria che è la teoria dell'investimento che contrappone a quella di K. Domar ha scopetto anceh lui
ceh il problema degli investimenti non era trattato i maniera adegutata nella teoria keynesiana.
Allora cosa sono gli investimenti: il flusso dello stock di capitale. Se ci sono investimenti che fanno
aumentare stock di capitale e stock di capitale influenza la capacità produttiva allora la teoria
keynesiana non sta in piedi. H intitola il suo libro: the trade cycle. Il suo obiettivo era ricondurre in
termini dinamici la teoria macrostatica keynesiana. Dice che K individua 3 tipi di reddito: offerta
aggregata, reddito di equilibrio, reddito di piena occupazione (potenziale). Ma se ce ne sono 3 allora
ci sono tre tassi di crescita e tre sentieri di crescita. E allora bisogna indagare questi tre aspetti. Poi
le teorie della crescita vanno in declino e rietrano negli anni '60 quando occorreva spiegare la
grande crescita. Poi occorre spiegare anche perché nelle prime fasi dello sviluppo economico ci
sono tassi di crescita cinesi e poi scendono allora per dare risposta bisogna indagare il progresso
tecnico.
La povertà estrema.
I primi studi sulla povertà del mondo. Economia sviluppo e crescita sono empiriche quindi senza
dati non si fa niente. Per trovare dati confrontabili si è dovuto spendere tanto tempo. Il pil deve
essere valutato ai prezzi quindi hanno inventato degli indici per depurare il fenomeno
dell'inflazionistico. Nei confronti spaziali invece c'è problema che europa in euro e altri in altre
monete allora occorre tradurlo tipo in dollari oppure altra opzione è che il dollaro non ha la capacità
di acquisto negli stessi paesi allora il dollaro non ha la stessa capacità di acquisto. p*q è molto
diverso se lo faccio col mais in Italia e in Mozambico vengono risultati molto diversi e ci sono
voluti 15 anni per avere questi dati. Tipo si fa prezzo medio in 200 stati e poi le q si moltiplicano
per questo prezzo medio. I dati escono nel 1990 quindi poco fa grazie alla banca mondiale. Secondo
studio è delle UNDP anche questo del 1990. gli studi più recenti sono banca mondiale nel 2004,
2007 e 2009 e anche 2010.
Economia dello svilippo è nata con economisti classici: come funziona ciò che è uscito dalla
rivoluzione industriale cioè il sistema capitalistico. Successivamente alla teoria classica è succeduta
la rivoluzione marginalista che è l'approccio microeconomico. Poi arriva K che dice che non basta
conisde3rare il sistema economico come il festival del villaggio perché la produzione industriale
richiede tempo e non si possono vedere solo i singoli agenti. Noi partiamo da H e D che hanno
introdotto le teorie della crescita. Dobbiamo prima avere il linguaggio opportuno per capire queste
teorie. Dal 1964 in cui si pensava che le teoria della crescita fossero impacchettate nel modello di H
e in quello di D. Il primo a risolvere il problema di H e D è stato risolto prima da Solw attraverso
l'approccio formale. Altro economista è Kaldor che aveva in antipatia la teoria di Solow che
supponeva l'eliminazione del contrasto nella distribuzione del reddito (tra profitti e salari). Ci sono
momenti in cui il reddito è distribuito a favore del lavoro e fasi in cui si destina maggiore reddito ai
profitti. Contro questa impostazione Kaldor ha speso tutta la vita per proporre una teoria alternativa.
Quindi l'approccio formale sarà Solow vs Kaldor. Formale significa che a tavolino costruisco un
modello che secondo me spiega la realtà e poi vedo se trova riscontro. L'approccio valutativo è
invece inverso: analizzo i dati, capisco come si muove la realtà e poi creo teoria per spiegare come
si muove la realtà. Eterodosso: non è valutativo e nemmeno del tutto formale. Ha due rami:
evoluzionistico (sopravvivono le imprese che sanno produrre meglio), postkeynesiana (è una
derivazione dalla teoria di Kaldor, teoria della crescita vincolata a mantenere in equilibrio i conti
con l'estero).
Occorre però ora avere altri strumenti: offerta aggregata può essere vista come numero occupati *
prodotto per addetto. Y = n° occupati * z. Z = Y/o. y= o+z. Dimmi quanto cresce l'occupazione e
quanto cresce il prodotto per addetto e ti dirò quanto crescerà il reddito. Infatti z=y-o. Il metro con
cui si fanno i confronti internazionali è il PIL pro capite (importante, occorre avere una variabile
standardizzata). R= Y/P. r=y-p. Il tasso di crescita di una variabile moltiplicativa (prodotto di due
fattori) è la somma dei tassi di crescita. Se variabile è divisa allora c'è sottrazione. Cosa succede se
O/P= costante allora se rimane costante allora metto pedice tempo, faccio sentiero temporale di
crescita. La quota degli occupati sulla popolazione non rimane costante quindi differenze di reddito
procapite possono essere spiegate dal fatto che O/P = costante.
2) C'erano delle cose che occorreva tenere nascoste. H nel 1936 ha pubblicato il trade cycle in cu
metteva idee sulla teoria dinamica. Moltiplicatore del commercio estero di H e vederemo le teorie di
Caldor che si basano su questo. Moltiplicatore del commercio estero di H lui cercherà di dimostrare
come in realtà H non avesse inventato il moltiplicatore ma ne avesse fatto una applicazione del
moltiplicatore inventato da Kaan. Ma quando scriveva aveva capito la meccanica del moltiplicatore
ma non possedeva il cuore della teoria di K che è quello della domanda effettiva. E quindi H
diventerà consapevole della teoria K. Nel 1935 K gli manda da correggere le bozze della teoria
generale e allora H si convince della validità della domanda effettiva. Se non si accetta la domanda
effettiva alora non c'è il reddito di equilibrio. È quel valore di domanda aggregata a cui l'offerta
aggregata tende. Poi c'è il discorso del centrifugo (K) e centrifugo (H).
(lezione non trascritta)
1. 1500-1820: si deve ricorrere a congetture e ipotesi non avendo sufficienti dati. Visione
molto negativa di questo periodo per colpa di malthus che pensava che la popolazione
aumentava in serie geometrica (1-2-4-8...) mentre il reddito in serie aritmetica (1-2-3-4...)
quindi il reddito pro capite sarebbe diventato 0. in realtà le risorse sono aumentate molto di
più della popolazione. Smith invece visione positiva e pensava che con le scoperte
geografiche l'apertura dei mercati avrebbe aiutato molto anche la specializzazione del lavoro
(spillo) aiuta tanto dice. Madison conclude che in quegli anni la crescita è di 1,5% annuo. In
quest'epoca la crescita è stata spinta dai progressi in campo navale. Sistema mercantile:
l'aumento del pil è fatto grazie al pil degli altri, cioè prendo risorse dagli altri attraverso le
importazioni. La globalizzazione c'è da allora e forse in misura molto più forte rispetto ad
oggi. Si scambiano tantissimi prodotti e anche i metalli preziosi.
Ascesa dell'occidente grazie a diffusione delle università: la cultura è capitale umano e noi
ce lo avevamo. Abbiamo creato una tecnologia e una conoscenza, l'invenzione della
possibilità di aumentare la produttività attraverso le macchine ha fatto sì che ci fosse
un'esplosione di ricchezza (rivoluzione industriale). Diffusione della stampa: contribuisce al
diffondersi nella cultura, spartiti, mappe geografiche. La superiorità della razza umana
rispetto ad ogni altro essere è fatto attraverso il linguaggio. In questo modo il linguaggio è
esploso. Sviluppo della ricerca empirica e sperimentale: svincolata dalle credenze religiose.
Sviluppo borghesia urbana e imprenditorialità: il commercio si diffonde ed è necessario
tutelare la proprietà, recinzione delle terre, istituti giuridici come i contratti, le banche.
Nascita stati nazionali: avere un territorio unito in cui si parla la stessa lingua e con le stesse
leggi aiuta lo sviluppo. Adozione del cristianesimo come religione: tutte le religioni
precedenti quelle greche e romane non favorivano l'individualismo della persona e creavano
una sorta di clan e di famiglia mentre la religione cattolica ha permesso una vita più
individuale.
1820 in poi: aumenta il divario tra occidente e resto del mondo. L'occidente cresce di 20 volte dino
al 2001 e gli altri di 7 volte. C'è da dire che c'era imperialismo. La causa numero uno è la
rivoluzione industriale comunque. Il progresso tecnico è il flusso di accrescimento delle conoscenze
tecnologiche. Madison critica il fatto che certe innovazioni avvengono ad onde. Cambi fissi danno
stabilità al sistema e per questo c'è grande sviluppo età dell'oro 1950-1973. c'è da dire anche che i
paesi occidentali usano il petrolio a prezzo quasi 0.
I/Y aumenta di 20 volte.
2) non trascritto
(lezione non trascritta)
1)la teoria della funzione di produzione aggregata dice: il processo produttivo si può fare con certi
fattori produttivi (capitale e lavoro) e a partire da certe conoscenze tecnologiche. La produzione può
avvenire a coefficienti fissi o variabili. Harrod ha scoperto che a differenza della t di K che
prevedeva in virtù el principio della domanda effettiva il fatto che l'offerta aggregata si adeguasse al
valore della domanda aggregata e avesse quindi trovato i tre livblli di reddito, lo scopo ella politica
economica era avvicinare la domanda a produzione di massima occupazione, gli strumenti sono
politica monetaria e politica fiscale. Harrod che quasi contestualmente si era preoccupato del ciclo
economico nel 1936 pubblicherà il suo the trade cycle nel quale cercava di mostrare come se si
vuole avere una teroia dinamica occorre far riferimento ai tassi di crescita. Ci sono due problemi:
ciclo e conoioniia (viene fuori dalla diff tra tasso garantito ) e disoccupazione involontaria. Ha
messo in evidenza che accettando la sua teoria il sistema economico è intrinsecamente instabile e il
sistema non ha meccanismi di autoregolazione tale da riportarlo sul sentiero ottimale.
La teoria dominante è quella liberista che dice che il mercato si autoregola col meccanismo dei
prezzi.
Solow: supponiamo che sistema economico possa essere rappresentato da funzione di produzione
aggregata. Il reddito dipende da capitale, lavoro e progresso tecnico. i fattori sono moltiplicati per
delle elasticità gli esponenti. Supponiamo che non ci sia progresso tecnico, lo stock delle
conoscenze tecnologiche è sempre lo stesso, allora posso dargli qualsiasi valore. Appartiene alla
classe delle funzioni omogenee: se moltiplica K,L,T per j allora.
Y/L è la produttività del lavoro quindi è il prodotto per addetto. Quindi il prodotto per addetto
dipende dal capitale per addetto che è il grado dell'intensità di capitale cioè quanto capitale è in
dotazione a ciascun lavoratore. 1/v è il reciproco del coefficiente capitale prodotto, se rimane
costante è uguale all'ICOR. Più aumenta il grado di intensità di capitale più il rapporto 1/v tende a
diminuire.
Il reciproco v varia al variare dell'intensità di capitale.
Il tasso di harrod che è s/v allora lo riporta nel grafico e dimostra che varia al variare dell'intensità
di capitale, attraverso il meccanismo della variazione dei prezzi. Ho eliminato il problema
dell'instabilità. Non ho più quel problema. Però abbiamo usato la funzione in assenza di progresso
tecnico.
Allora ci metto anche il progresso tecnico. Il tasso di crescita della produttività diventerà
intensiva: siamo passati dall'espressione. Elasticità parziale del capitale è alfa. Questa teoria è quella
che ci proponinano quando dicono che.
Innovazioni esogene: il progresso tecnico è la manna che scende dal cielo, non dipende da quanto
investo in R&D. Diffuse: si appiccano come dei numeri alle unità produttive.
Abbiamo ottenuto una relazione che ci consente di scomporre il tasso di crescita nelle sue
componenti. L'economia potrà crescere anche se i fattori produttivi non crescessero. Ho sempre lo
stesso numero di occupati, lo stesso numero di capitale ma il progresso tecnico mi ha permesso di
farli rendere di più.
La produttività dipende da quelle due cose. Il progresso tecnico e l'altro. Se a e b sono 0 allora torno
a quello senza progresso tecnico.
Parliamo di innovazioni esogene, diffuse e se il progresso tecnico assumesse proprio questa forma
allora il tasso di crescita...
poi qualcuno gli ha fatto notare (crescita uniforme: capitale cresce come reddito e come lavoro;
quasi uniforme: capitale cresce come reddito ma lavoro ha percentuale diversa).
Qualcuno ha dimostrato che prendendo le ipotesi alla base della teoria di solow non si riscontra
nella realtà.
Peccato che non è vero che le quote distributive sono costanti. Variano nel tempo le quote
distributive e quindi il processo di aggiustamento portato dalla teoria di solow non funziona. Tutte
queste conclusioni valgono quando ci sono rendimenti di scala costanti.
Abramiviz all'inizio degli anni 60 si è interessato a FPA e ha cercato di calcolare la TFP e ha
scoperto che l'80% deriva da TFP e quindi significa che la teoria non spiega niente.
Poi arriva dennison: scrive un libro che indaga perché i tassi di crescita dei paesi differiscono.
Attraverso manipolazioni sui dati è riuscito a scomporre il residuo in ciò che dipende da tutta una
serie di elementi che hanno preso il nome di contabilità della crescita che è l'esercizio con il quale si
è cercato di scomporre il residuo (TFP) in tutte le sue componenti. Ci sono motivi più che
abbondanti per dire che questa teoria non spiega bene.
A partire da studi di A e D e anche Kaldor.
Pag 20 ci sono troppi se,
1. tre fasi delle sue teorie: I fase: il problema sembrava essere quello di risolvere il problema
del ciclo che è uno dei due problemi sollevati da Harrod, quando c'era differenza tra tassi
che devo vedere negli appunti. II fase: quasi tutti i lavori di questo periodo sono una
opposizione alla teoria di Solow. III fase: teoria che non è mai riuscito ad elaborare in un
modello.
Lasceremo perdere la prima fase e ci concentreremo solo sulla seconda, nella quale darà
risposta a quesito di hd partendo da ipotesi di partenza molto diversa da quelle di Solow. K
dice che il modello non può essere calato dall'alto perché è traduzione delle ipotesi di una
teoria attraverso un linguaggio simbolico. Fatti stilizzati sono regolarità empiriche e la teoria
deve essere confrontabile con quei fatti stilizzati.
1) è continua ma non regolare perché ci sono i cicli. È continua in media.
2) dotazione di capitale per ciascun lavoratore. Il ritmo di crescita di K è maggiore del ritmo
di crescita di L perché il grado dell'intensità del capitale cresca.
4) allora il capitale e il reddito crescono più o meno allo stesso tasso, ma entrambi crescono
ad un tasso superiore a quello del lavoro.
6) se guardiamo a livello spaziale tra paesi e regioni un paese cresce più velocemente di
altri.
I fatti stilizzati alla fine si riducono a 2 o 3. le condizioni di crescita sono quasi uniformi e ci
sono differenze nei tassi di crescita del reddito tra i vari paesi.
S (risparmio) = s (percentuale di guadagni del lavoro che il lavoratore risparmia) * W + s * P
se propensione al risparmio dei lavoratori è uguale a quello dei capitalisti allora si torna alla
concezione di Keynes del risparmio. Ma lui ha l'intuizione di dire che le due propensioni al
risparmio sono diverse.
K scopre che la propensione al risparmio è variabile in base alle quote distributive (diverso da
Solow).
A differenza della soluzione di Domar, lui dice che il tasso di crescita del reddito dipenderà dalla
quota dei profitti sul reddito. Ha trovato una relazione che esprime il tasso di crescita dell'economia
come una funzione crescente del tasso di profitto.
Emerge quel tasso di profitto che permette una crescita al livello della crescita potenziale.
Poi K si disinnamora della soluzione che aveva trovato. Nel frattempo K era diventato un
consulente di molti paesi in via di sviluppo e ha visto che quelle teorie non spiegavano bene lo
sviluppo economico.
Lui era affascinato nel trovare le regolarità empiriche e le sue tre leggi nascono da queste. Lui aveva
i dati di 11 paesi. 1. Il tasso di crescita di un'economia dipende dalla forte crescita del settore
manifatturiero. 2. il settore manifatturiero è il motore dello sviluppo economico. Il tasso di crescita
del reddito è la media ponderata dei tassi di crescita dei singoli settori moltiplicati per il loro peso.
Nel settore manifatturiero ci sono le innovazioni quindi il progresso tecnico ed è grazie a questo che
riesce a crescere a ritmi superiori degli altri oltre per il fatto che ci sono rendimenti di scala
crescenti. Se dipende dal tasso di crescita della produzione manifatturiera allora è endogena. z è il
tasso di crescita della produttività del lavoro forse. Il settore manifatturiero è il motore dello
sviluppo economico. Questo ci dicono le prime due leggi. 3. tirar via occupati dal settore agricolo fa
alzare la produttività nell'agricoltura, e portarli nel settore manifatturiero fa aumentare la
produttività globale. Questo visto che i rendimenti di scala nell'agricoltura sono decrescenti,
manifatturiera è crescente, terziario è decrescente o costante.
Allora la crescita può essere circolare e cumulativa. Il tasso di crescita di un paese dipende dalle
esportazioni quindi si innamora delle teorie di export led.
Se i salari crescono ad un tasso superiore alla produttività allora i prezzi crescono.
Il tasso di crescita della produttività dipende dal tasso di crescita del reddito.
Credo sia importante la penultima relazione.
Circolare e cumulativa: chi cresce di più cresce ancora di più.
Il responsabile della circolarità del processo è il coefficiente di Verdoorn.
(lezione non trascritta)
Liguria:
abbiamo iniziato il percorso con uno sguardo sul mondo (le tabelle), con la lezione di oggi passiamo
dal mondo all'ombelico (Liguria).
Vediamo con le teorie della crescita come si può spiegare il declino della Liguria, è collegato al
declino della regione Piemonte.
Abbiamo visto che ci sono filoni diversi nelle teorie della crescita: i filoni appreciative hanno un
approccio che parte non dalla costruzioni di una teoria astratta. Kaldor parlava di partire dai fatti
stilizzati cioè deve dare una spiegazione dei fatti stilizzati.
La costituzione delle regioni nella forma amministrativa che noi oggi conosciamo ha luogo nel
1975.
occorre prima capire cosa è accaduto (ricognizione dei fatti stilizzati) e poi andare a capire le cause
e quindi se e come si potrebbe intervenire. Prima si facevano solo analisi descrittive quindi non si
addentravano nelle cause.
La liguria ha avuto un andamento ben particolare.
E qual'è la ragione dell'alternanza delle regioni in testa alla graduatoria e poi perché la liguria sale e
scende?
Se proviamo ad analizzare cos'è successo attraverso le teorie che richiamano la convergenza quindi
usando la funzione di Solow che prevede la convergenza verso un determinato livello del reddito
pro capite. Ma assoluta non si verifica allora hanno detto della convergenza relativa cioè
convergenza verso dei poli.
Più che la posizione in un certo istante è interessante studiare l'avvicendamento.
È ingannevole per il motivo scritto subito dopo.
Quindi occorre capire che cosa determina la velocità della macchina economica e la velocità della
macchina demografica.
L'incrocio degli assi è la media.
Quindi vedere tassi del reddito pro capite è ingannevole perché occorre scomporlo.
È causa della crescita perché la crescita della popolazione dà stimolo alla crescita economica. È
anche conseguenza perché se la crescita rallenta allora la gente se ne va (treni per Milano il lunedì
mattina alle 6 zeppi di persone).
-280.000 residenti è come uno tzunami che cancella Savona. Meno case, meno produzione, meno
servizi, c'è bisogno di meno di tutto, le imprese chiudono e se ne vanno e non devono fare
investimenti. Però vogliamo trovare una bella spiegazione cioè da cosa è nato tutto questo, se
spiego l'evoluzione economica riesco forse a spiegare l'evoluzione demografica.
Perché già dal 1970 l'economia ligure era così scarsa?
La popolazione lombarda ha continuato ad aumentare anche grazie al fatto che l'economia tirava.
Declino economico è tasso negativo della popolazione e tasso sotto la media di crescita del reddito.
Le regioni che hanno crescita più forte hanno anche crescita della popolazione più elevato e quindi
l'aumento della popolazione è endogeno perché deriva dal reddito interno della regione.
Immigrazione va dove ci sono occasioni di lavoro.
Il fatto che il settore industriale sia diminuito e secondo Kaldor è il motore dello sviluppo quindi
abbiamo il motore rotto.
Negli anni '70 il peso dell'industria era il 70%
dal 51 al 71 è arrivata in testa grazie a quei tre settori che negli anni del boom pesa tanto e quindi
attira popolazione anche. Forte concentrazione in attività settoriale che hanno avuto crisi a livello
internazionale.
La struttura produttiva direi che sono le quote.
Torniamo ad avere informazioni coerenti con il modello di Kaldor, progresso tecnico e rendimenti
di scala.
Motivazione sociale: sono molto motivati, ci credono.
Il settore manifatturiero fa tutte quelle cose lì, se non ce li hai li perdi.
La teoria di Abramovitz include quella di Kaldor.
La liguria quando aveva il settore siderurgico forte, li ha venduti al Brasile.
Rallenta perché tende a tornare al livello del suo reddito potenziale.
Il 70% della produzione ligure è a Genova. Pochissime grandi imprese e una miriade di piccole
imprese. La liguria è una regione isolata dal mondo.
Ma ci sono anche altri fattori che la realizzazione del potenziale potesse avvenire.
APPENDICE: pdf Allegati.
Indice:
1. sviluppo economico e teorie della crescita
2. La questione demografica
3. Ciclo crescita
4. Harrod e Domar
5. Cobb-douglas e il progresso tecnico
6. Kaldor
7. Divari e convergenza
8. Thirwall
9. Liguria – declino o trasformazione? D’Alauro
10. Crescita nell’economia italiana
11. Economisti classici e neoclassici
12. Moltiplicatore del commercio estero
13. declino
Università degli Studi di Genova Facoltà di Economia Corso di Economia dello sviluppo
Anno accademico 2010-11
1 - SVILUPPO ECONOMICO E TEORIE DELLA CRESCITA
Lo sviluppo economico ha diversi significati Teorie della crescita e teorie dello sviluppo
“Il «problema economico», come possiamo definirlo per brevità, il problema del bisogno e della miseria, e la lotta economica fra classi e paesi, non è che un terribile pasticcio, un pasticcio contingente e
non necessario. Infatti, il mondo occidentale dispone già delle risorse, ove sapesse creare l’organizzazione per utilizzarle, capaci di
relegare in una posizione di secondaria importanza il «problema economico» che assorbe oggi le nostre energie morali e materiali”.
J.M. Keynes,
Prefazione (8 novembre 1931), in Esortazioni e profezie, Il Saggiatore: Milano, 1968
L’espressione Teoria dello sviluppo economico ha assunto nel corso del
tempo significati alquanto differenti. E' sufficiente, infatti, scorrere l'indice di opere
ormai classiche come quelle di Schumpeter (1971), di Lewis (1963), di Robbins
(1970) o di Kuznets (1973), nonché quello della raccolta di saggi curata da Nardozzi
e Valli (1971), o, ancora, l’indice di manuali di uso corrente come quelli di Cozzi
(1979), di Eltis (1973) e di Musu (1980), per convincersi del fatto che il campo di
analisi della Teoria dello sviluppo economico spazia dalle grandi teorie
classiche dello sviluppo capitalistico, alle moderne teorie della crescita, passando
attraverso l'esame dei problemi delle economie sottosviluppate.
Appare quindi ampiamente giustificata l’osservazione secondo la quale "in
italiano per teoria dello sviluppo economico si intendono troppe cose" [Cozzi
(1979), p. 5]. Anche nel nostro paese si è andata pertanto consolidando, nella
letteratura più recente, la distinzione di origine prettamente anglosassone tra
teorie della crescita (growth theories) e teorie dello sviluppo (development
theories). Le prime, che si basano su un approccio di tipo formale, si ripropongono,
almeno a livello di intenzione, “di dire qualcosa -anche se, ovviamente, non tutto-
sulle leggi di movimento di alcuni tipi di sistemi economici (le economie
industriali avanzate), la cui evoluzione appare caratterizzata da alcuni «fatti
stilizzati» che un modello bene articolato dovrebbe essere in grado di riprodurre”
[Solow (1990), pag. VI]. Di fatto, poi, nel passaggio dalle intenzioni alla realtà, gran
parte della moderna teoria della crescita, dopo aver depurato i «fatti stilizzati» in
modo da mettere in evidenza soltanto quegli aspetti che caratterizzano la crescita
uniforme [Castellino (1990), pag. 36], si è dedicata “all'analisi delle proprietà degli
stati uniformi e alla ricerca del modo in cui un'economia, che inizialmente non si
trovi in uno stato uniforme, possa pervenirvi osservando precise regole del gioco”
2
La crescita lascia invariata la struttura produttiva che muta invece nel corso dello sviluppo economico La teoria dinamica di Harrod
[Solow (1990), pag. 7]. Le seconde, che si basano invece su un approccio
interdisciplinare, prevalentemente empirico-descrittivo e in molti casi poco
formalizzato, sono caratterizzate da una visione dello sviluppo come processo
sociale. Ciò rende necessario attingere ai contributi di diverse discipline, quali, ad
esempio, la demografia, la sociologia e la storia.
Vi sono poi Autori come Lombardini (1991), che operano una netta distinzione
tra il fenomeno della crescita, che lascerebbe invariata la struttura dell’economia,
e quello dello sviluppo, che implicherebbe invece modificazioni nella struttura
produttiva. In quest’ottica, le teorie della crescita e le teorie dello sviluppo
opererebbero in campi nettamente separati.
La possibilità di tracciare una linea di demarcazione così netta tra le teorie della
crescita e quelle dello sviluppo non è tuttavia totalmente priva di aspetti
controversi. E’ sufficiente infatti anche un semplice sguardo ad alcune rassegne
sulle teorie dello sviluppo economico, quali ad esempio quelle di Ricottilli (1988) e
di Stern (1989), ma anche alla manualistica più recente - come i manuali di Boggio-
Seravalli (2003) e di Weil (2007) - per accorgersi come sia sempre più frequente
l’applicazione ai problemi dello sviluppo economico dei modelli elaborati
nell’ambito di altri campi di analisi considerati più moderni, tanto da indurre
alcuni Autori a ritenere che l'economia dello sviluppo sia stata ormai riassorbita nel
filone principale di studi della moderna teoria del commercio internazionale e non
richieda pertanto alcuna trattazione separata [Bell (1987)].
Considerata in una prospettiva storica, la Teoria dello sviluppo economico
ha conosciuto alterne fortune. E' noto, infatti, come il problema dello sviluppo
economico fosse al centro dell'attenzione nel pensiero degli economisti classici, a
tal punto che, secondo alcuni Autori, quel problema costituiva l’oggetto stesso
dell’analisi economica degli stessi. Secondo gli economisti classici, pertanto, la
Teoria dello sviluppo economico veniva a coincidere, di fatto, con la Teoria
economica. Con l’avvento della cosiddetta rivoluzione marginalistica l’oggetto
dell'analisi economica divenne invece essenzialmente quello della «efficiente
allocazione di risorse scarse per usi alternativi» per cui, con la sola eccezione di
Schumpeter, il problema dello sviluppo economico venne accantonato e con esso la
Teoria dello sviluppo economico.
Sarà infatti soltanto con il tentativo di Harrod (1948) di rendere dinamica la
Teoria generale di Keynes che l'analisi delle determinanti della crescita torneranno
ad occupare un certo spazio nel pensiero economico moderno. Tuttavia, con il
passare degli anni e nonostante il fatto che “il modello neoclassico di crescita
3
Le nuove teorie della crescita endogena
abbia dato vita a una piccola industria” [Solow (1990), p. XII], anche l'interesse
per le teorie della crescita sembrava ormai essersi affievolito, soprattutto dopo il
periodo di relativo disinteresse seguito alla controversia tra le due Cambridge sulla
teoria del capitale. Per avere un riscontro di questo relativo disinteresse per le
teorie della crescita basterebbe, ad esempio, fare riferimento alla progressiva
riduzione del numero dei capitoli dedicati a questo argomento nei manuali di
Macroeconomia e di Politica economica.
E’ solo negli anni più recenti, infatti, che la teoria della crescita sembra essere
tornata al centro del dibattito economico, grazie soprattutto al lavoro di Scott
(1989), e ai contributi di Romer (1986) e di Lucas (1988), i quali hanno dato
origine al filone di pensiero noto come nuova teoria della crescita endogena.
Va notato, in ogni caso, come accanto alle teorie della crescita uniforme si siano
sviluppati due distinti filoni di studi di carattere più spiccatamente empirico: il
primo, incentrato prevalentemente sui problemi dei paesi sottosviluppati e sul
rapporto tra queste economie e quelle dei paesi industrializzati; e il secondo,
incentrato invece sul problema delle differenze internazionali tra i tassi di
crescita.
Sul primo filone di studi, che potremmo indicare come quello delle moderne
teorie dello sviluppo economico, esistono ormai anche in lingua italiana
recenti e ben documentate rassegne, mentre sul secondo non esiste ancora una
rassegna esauriente. Allo scopo di fornire uno sguardo d’insieme sulla vastità delle
teorie dello sviluppo economico, nell’Appendice posta alla fine di questi appunti
viene riportata una sintesi dei principali approcci, limitata peraltro ai soli
contributi più significativi tra quelli che si collocano all'interno dei diversi filoni
individuati.
Di fronte all’ampiezza dei problemi riguardanti lo sviluppo economico e
soprattutto in considerazione della vastità e complessità delle teorie sopra
ricordate, si impone, nel predisporre i materiali per un corso di Economia dello
sviluppo, la necessità di delimitare il campo di interesse. Dopo aver illustrato i
principali concetti, le tendenze recenti ed i grandi temi dello sviluppo economico, la
nostra scelta è stata quella di ripercorrere brevemente il percorso che conduce dalle
teorie classiche dello sviluppo capitalistico alle moderne teorie della crescita,
dedicando una particolare attenzione agli approcci teorici elaborati per dare una
spiegazione al fenomeno delle differenze internazionali tra i tassi di crescita del
reddito pro capite.
Si è detto che lo sviluppo economico è un fenomeno alquanto complesso che si
4
La fonte permissiva, il risultato e la finalizzazione dello sviluppo Lo sviluppo economico secondo il Premio Nobel Amartia Sen I grandi temi dello sviluppo economico: 1) l’evoluzione demografica 2) la lotta alla povertà 3) lo sviluppo sostenibile
presta ad essere considerato da diverse angolature. In una accezione che fa
riferimento unicamente agli aspetti economici del problema, esso consiste nella
capacità di un sistema economico di assicurare nel corso del tempo alla sua
popolazione un flusso crescente di beni e di servizi sempre maggiormente
diversificati [Kuznets (1971), Nobel Lecture]. Questa semplice definizione sintetizza
in maniera molto efficace i tre principali aspetti in cui si articola la vasta
problematica dello sviluppo economico: il primo attiene alla fonte permissiva
dello sviluppo, ossia al fatto che un sistema economico debba in primo luogo
possedere una certa capacità produttiva (la quale dipenderà sia dallo stato delle
conoscenze tecnologiche che dal progresso tecnico); il secondo, si riferisce invece al
risultato dello sviluppo, ovvero al fatto che affinché vi sia sviluppo economico
occorre che il flusso di beni e servizi che la capacità produttiva del sistema pone in
essere cresca nel corso del tempo; il terzo aspetto, infine, fa riferimento alla
finalizzazione dello sviluppo, ossia al fatto che la popolazione del sistema possa
effettivamente fruire dei benefici derivanti dallo sviluppo economico.
Il processo di sviluppo passa poi attraverso alcune fasi che implicano delle
trasformazioni nella struttura produttiva, nonché modificazioni negli assetti sociali
e istituzionali. Come si è già accennato in precedenza, il fatto stesso di considerare
o meno il problema delle modificazioni nella struttura produttiva costituisce,
secondo alcuni Autori, la linea di demarcazione tra le teorie dello sviluppo e le
teorie della crescita.
Vale la pena di ribadire che «crescita» e «sviluppo» non sono sinonimi: la
prima, che è misurata in termini assoluti dall’incremento del PIL tra un periodo e
l’altro e in termini relativi dal tasso percentuale di crescita del PIL, attiene agli
aspetti quantitativi del sistema economico. Il secondo non è riconducibile alla sola
dimensione quantitativa, ma consiste, sulla scia degli studi del Premio Nobel
Amartia Sen, nel contestuale ampliamento delle opportunità offerte agli
abitanti di un sistema economico e delle libertà di cui essi godono nella
scelta dell’opportunità che preferiscono. In quest’ottica, l’Economia dello
sviluppo studia le modificazioni che si accompagnano alla crescita e gli effetti che
tali modificazioni inducono sull’evoluzione demografica e sugli aspetti sociali ad
essa collegati. I grandi temi dello sviluppo economico sui quali concentreremo la
nostra attenzione sono:
• l’evoluzione demografica
• la lotta alla povertà estrema
• lo «sviluppo sostenibile» e gli effetti dell’antropizzazione.
5
L’importanza dei dati
L’Economia dello sviluppo e l’Economia della crescita sono due discipline
eminentemente empiriche e per poter fare dei confronti internazionali occorrono
dati omogenei. I primi studi comparativi tra i sei paesi che avrebbero dato vita alla
Comunità Economica Europea sono stati effettuati nel 1948, per conto della
Commissione Economica per l’Europa con sede a Ginevra, da un gruppo di 25 tra
economisti e statistici coordinato da Nicholas Kaldor. Agli inizi degli anni Sessanta,
prima Maddison (nel 1960) e poi due economisti inglesi, Beckerman (nel 1962) e lo
stesso Kaldor (nel 1964), hanno effettuato i primi confronti internazionali limitati
però ad una decina di paesi industrializzati. Il primo set di dati omogenei utili per
effettuare comparazioni internazionali (ancorché limitatamente a soli 60 paesi e la
cui costruzione ha impegnato un’equipe di ricercatori per ben15 anni di lavoro), è
stato ultimato nel 1980, mentre il primo set di dati esteso a 132 paesi è stato messo
a disposizione degli studiosi dalla Banca Mondiale solo nel 1976. Le prime verifiche
empiriche su questo set di dati (progressivamente esteso a 120 paesi) sono state
effettuate nella seconda metà degli anni ’80 – primi anni ’90 e hanno dato origine
al filone di pensiero delle moderne teorie della crescita endogena.
I primi studi sulla povertà estrema, condotti sotto l’egida della Banca Mondiale
e del FMI e che hanno innovato alcuni importanti indicatori, tra cui l’Indice di
Sviluppo Umano e l’Indice di Libertà Umana, risalgono alla prima metà degli anni
’90. Dalla fine degli anni ‘90 del secolo scorso, la Banca Mondiale mette a
disposizione un ricco set di dati riguardanti oltre 200 paesi raccolti nella
pubblicazione annuale del Word Development Indicators (WDI).
Alcune indicazioni bibliografiche per approfondire:
BELL C. (1987), Development Economics, in J. EATWELL, M. MILGATE, P.
NEWMAN (Eds), The New Palgrave Dictionary of Economics, London:
McMillan, 818-825.
BOGGIO L., G. Seravalli (2003), Lo sviluppo economico. Fatti, teorie, politiche, il
Mulino, Bologna.
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ELTIS W.A. (1973), Lo sviluppo Economico, Bologna: Il Mulino.
HARROD R.F. (1948), Towards a Dynamic Economics, London: Mcmillan
[traduzione italiana. in R. F. HARROD, Dinamica economica, Bologna: Il
Mulino, 1990].
6
KUZNETS S. (1971), Economic Growth of Nations: Total Output and Production
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KUZNETS S. (1990), Popolazione, tecnologia, sviluppo, Bologna: Il Mulino.
LEWIS W.A. (1954), Economic Development with Unlimited Supplies of Labour,
in The Mancester Scool [traduzione italiana in B. JOSSA (1973) (a cura di),
L'economia del sottosviluppo, Bologna: Il Mulino, 41-48.
LOMBARDINI (1991), Economia Politica, Torino: UTET, capitoli 25 e 26, 794-860.
LUCAS R.E. (1988), On the Mechanism of Economic Development, Journal of
Monetary Economics, 22, 3-42.
MUSU I. (1980), Teorie dello sviluppo economico, Milano: ISEDI.
NARDOZZI G., V. VALLI (1971) (a cura di), Teoria dello sviluppo economico,
Milano: Etas Kompass.
RICOTTILLI M. (1988), La teoria dello sviluppo dal dopoguerra ad oggi,
Economia Politica, V,1, 101-147.
ROBBINS L. (1970), La teoria dello sviluppo economico, Torino: UTET.
ROMER P. M. (1986), Increasing returns and long run growth, Journal of
Political Economy, 94, 5, 1002-1037
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Boringhieri.
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Economic Review, 78, 3, 307-317 [traduzione italiana in SOLOW R. (1990),
La teoria della crescita, Milano: Edizioni Comunità].
STERN N. (1989), The Economics of Development: A Survey, The Economic
Journal, 99,597-685.
7
SINTESI DEI PRINCIPALI APPROCCI AI PROBLEMI DELLA CRESCITA E DELLO SVILUPPO ECONOMICO
Teorie dello sviluppo economico
Teorie della crescita economica
Le teorie
classiche
dello sviluppo
capitalistico
(*)
Le moderne teorie dello
sviluppo economico
(**)
Le teorie della crescita
uniforme
(***)
Le teorie sulle differenze
internazionali tra i tassi
di crescita
(****)
a b c d e f g h i
1758 Quesnay
1776 Smith
1798 Malthus
1815 Ricardo
1894 Marx
1911 Schumpeter
1939 Fisher Harrod
1940 Clark
1941 Domar
1946 Domar Newmann
1947 Kuznets
1950
1953 Nurske Mahalanobis
1954 Lewis
1955 Kuznets
1956 Myrdall Kaldor Solow Verdoorn
Abramovitz
1957 Lutz-Hirschman
1958 Nurske
1959 Rostow Chenery
1960 Rosestain-Rodan
1961 Gerschenkron Robinson Meade Kaldor
1962 Denison Pasinetti Samuelson Beckerman , Solow
1963 Bairoch Lamfalussy
1964 Koopmans
1965 Pasinetti Uzawa
1966 Kuznets Eltis
1967 Goodwin Denison
1968 Krueger
1969 Taylor Morishima
1970 Kaldor
1971 Gomulka
1972 Cornwall
1973 Kuznets
1974
1975 Chenery-Syrquin Dixon-Thirlwall Kaldor
1976 Kahn
1977 Simon Pasinetti Cornwall
1978 Thirlwall
1979 Chenery
1980 Fuà Abramovitz
1981 Sen Pasinetti North Nelson
1982 Maddison Feder Nelson-Winter
1983 Sylos Labini
1984 Lewis
1985
1986 Chenery-Robinson-Syrquin Romer Maddison Abramovitz
1987
8
1988 Abramovitz Lukas Scott
1989 Stern Romer
1990 North
1991 Maddison Barro
1992 Sen Pomfret Barro-Sala-i-Martin Aghion-Howitt
1993 Lucas Abramovitz
1994 Grossman-Helpman Krugman
1995 Maddison Mankiw Barro-Sala-i-Martin
1996 1997 Barro
Quah 1998
1999 Sen Durlauf-Quah
2000
2001 Maddison
2002 Stiglitz Quah
2003
2004 Helpman
2005 Sachs
2006
2007 Maddison
2008 Sachs
2009
2010
(*) All'interno delle teorie classiche dello sviluppo capitalistico ciascun Autore, tra quelli considerati, ha sviluppato un proprio approccio metodologico. (**) All'interno delle moderne teorie dello sviluppo economico possono essere individuati tre distinti filoni di studio in base al tipo di approccio utilizzato: a) filone storico-descrittivo, b) filone economico-teorico, c) filone econometrico. (***) All'interno delle teorie della crescita uniforme possono essere individuati tre distinti filoni di studi: quello keynesiano d), quello neoclassico e), e quello delle teorie multi settoriali f). (****) Anche all'interno delle teorie sulle differenze internazionali tra i tassi di crescita si possono individuare almeno tre distinti filoni di studi: l’approccio formalizzato g), quello valutativo h) e un approccio eterodosso i). N.B. Gli Autori riportati nella tabella sono solo una piccola selezione di quanti si sono occupati dello sviluppo economico e delle teorie della crescita. La tabella non quindi in alcun modo esaustiva, ma contiene semplicemente una ristretta selezione degli autori che si sono maggiormente distinti nello studio dei problemi dello sviluppo economico e della crescita, con il solo scopo di evidenziare una possibile, per quanto largamente arbitraria, articolazione dei diversi approcci.
9
Sette Premi Nobel per la crescita e lo sviluppo economico
1969, IAN TINBERGEN (1903-1994) e RAGNAR FRISH (1895-1973): “Per aver sviluppato e applicato
modelli dinamici nell’analisi del processo economico”.
1971, SIMON KUZNETS (1901-1985): “Per la sua analisi empirica della crescita economica statica e
dinamica e per i suoi contributi ad accrescere il livello dell’analisi nella scienza economica”.
1974, GUNNAR MYRDALL (1898-1987) e FRIEDRICH Von HAYEK (1899-1992): “Per i loro lavori
riguardanti la teoria della moneta e per le fluttuazioni economiche e per le loro analisi delle interdipendenze
di fenomeni economici, sociali e istituzionali”.
1979, Sir WILLIAM LEWIS (1915-1991) e THEDORE SCHULTZ (1902-1998): “Per le loro ricerche sullo
sviluppo economico ai problemi dei paesi in via di sviluppo”.
1987, ROBERT SOLOW (1924): “Per i suoi contributi alla teoria della crescita economica”.
1993, ROBERT FOGEL (1926) e DOUGLAS NORTH (1920): “Per aver innovato la ricerca nella storia
economica applicandovi teoria economica e metodi quantitativi al fine di spiegare i cambiamenti economici
ed istituzionali”.
1998, AMARTYA SEN (1933): “Per i suoi contributi all’economia del benessere”.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTÀ DI ECONOMIA CORSO DI ECONOMIA DELLO SVILUPPO
1
2 - MODELLI E TEORIE – LA QUESTIONE DEMOGRAFICA
“I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a
provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi.”
John Maynard Keynes,
Da Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la “Teoria Generale” potrebbe condurre, Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di A.
Campolongo, UTET, Torino, 1971
Non esiste la teoria «vera» Teorie antagonistiche e teorie complementari Ogni teoria ha una sottostante «visione» della realtà Ogni teoria possiede un limitato campo di applicazione Come si costruisce un modello La «bomba» demografica.
� A) ALCUNI CONCETTI DI BASE � Non mi stancherò mai di ripetere che non esiste la teoria «vera»,
quella che offre delle certezze assolute. In tutti i rami del sapere esistono solo teorie che offrono spiegazioni plausibili circa il fenomeno oggetto di indagine: spiegazioni che scaturiscono dal confronto tra ipotesi alternative (peraltro mutevoli nel corso del tempo) passate al vaglio dai ricercatori.
� Anche in economia possono quindi convivere, nella spiegazione di
un dato fenomeno, teorie tra di loro antagonistiche (come ad esempio l’approccio «da domanda» oppure quello «da offerta» nella spiegazione di quali siano le determinanti del reddito nazionale), così come può accadere che alcune teorie siano tra di loro complementari. Pertanto, nell’affrontare un determinato problema, quando si opta per una teoria piuttosto che per un’altra (come nel caso citato dell’approccio «da domanda» o «da offerta»), ciò non vuol dire affatto che la teoria alternativa sia «sbagliata». Quando si elabora una teoria si fa una scelta, si assume una certa visione della realtà e nell’affrontare quello specifico problema si opta per l’angolo visuale che quella teoria assume. L’invalidazione di una teoria avviene solo quando le sue previsioni contrastano con la realtà, come nel caso di una teoria che prevedesse che tutte le economie debbano convergere verso il medesimo livello del reddito pro capite, quando i dati smentiscono quella ipotesi. In tal caso, o la teoria viene emendata, mediante l’introduzione di qualche ulteriore ipotesi che dia conto del fenomeno della non convergenza, oppure deve essere abbandonata. Si sottolinea infine che ciascuna teoria, ancorché coerente al suo interno e non smentita dalla verifica empirica, possiede un limitato campo di applicazione.
� Per illustrare come si può procedere alla costruzione di un semplice
«modello» dinamico, prendiamo in considerazione un aggregato, lo stock della «popolazione mondiale» (PM), la cui misurazione presenta (relativamente) pochi problemi. Osserviamo, innanzitutto, com’è cambiata la popolazione mondiale negli ultimi due secoli:
� era 1 miliardo nel 1804 (vale a dire due secoli fa); � ha raggiunto i 2 miliardi nel 1927 (essa è raddoppiata una prima
volta in 123 anni, ossia in poco più di un secolo);
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2
Tutto ha avuto inizio con la Rivoluzione Industriale 10 miliardi la «popolazione limite»?
� ha raggiunto i 3 miliardi nel 1960 (è aumentata cioè di un altro
miliardo dopo soli 33 anni, un terzo di secolo); � ha raggiunto i 4 miliardi nel 1974 (è aumentata cioè di un altro
miliardo dopo soli 14 anni, ed è raddoppiata nuovamente in soli 47 anni, vale a dire meno di mezzo secolo);
� ha raggiunto i 5 miliardi nel 1987 (è aumentata cioè di un altro miliardo dopo soli 13 anni);
� ha raggiunto i 6 miliardi nel 2000 (è aumentata cioè di un altro miliardo dopo soli 13 anni);
� ha raggiunto i 6 miliardi e 700 milioni alla fine del 2008 � si prevede che essa possa raggiungere i 7 miliardi nel 2015; i 9
miliardi nel 2040 e dovrebbe stabilizzarsi attorno ai 10 miliardi nel 2050.
La «bomba demografica»
0,00
2000,00
4000,00
6000,00
8000,00
10000,00
12000,00
0 100 200 300 400 500 600 700 800 900 1000 1100 1200 1300 1400 1500 1600 1700 1800 1900 2000 2100 2200
Fonte: M. Livi Bacci, Banca mondiale
1804 = 1 md
1902 = 2 md
1750: ha inizio la Rivoluzione Industriale
1974 = 4 md
2000 = 6 md
2010 = 6,7 md2050 = 10 md
� Come si può notare l’andamento della popolazione mondiale è stato
caratterizzato da un’impressionante accelerazione a partire dall’avvio della Rivoluzione Industriale ed é proseguita per quasi tutto il secolo scorso: un lieve rallentamento si nota infatti solo a partire dalla fine degli anni ’80/primi anni ’90 del Novecento. Secondo gli esperti delle organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, ONU) la popolazione mondiale è destinata a rallentare progressivamente la sua crescita, raggiungendo, entro la fine del primo secolo del Terzo Millennio i 10 miliardi. Tale cifra rappresenta, in base alle stime attuali, la cosiddetta «popolazione limite», il livello oltre il quale la popolazione dovrebbe cessare di crescere, tornando ad essere, come in passato, stazionaria. Gli storici dei fatti economici ci ricordano infatti come un fenomeno simile sia già accaduto circa 10-12 mila anni fa, con l’avvento della Rivoluzione Agricola: la maggiore disponibilità di energia, derivante dalla scoperta che la coltivazione della terra aveva consentito l’ottenimento di una maggiore quantità di mezzi di sostentamento e ciò ha avuto come conseguenza un forte aumento della popolazione.
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3
Stock e flussi. Il reddito nazionale e le sue componenti sono dei flussi La popolazione mondiale è uno stock alimentato dal flusso netto dato dal «saldo naturale» Si può prevedere l’andamento della popolazione mondiale? PM2003 = 6,273 md PM 2004 = 6,273 md + ∆ PM ∆ PM = 6,273*0,013 = 81,5 PM 2004 = 6,355 md PM 2005 = 6,355 md + ∆ PM ∆ PM = 6,355*0,013 = 82,6 PM 2005 = 6,434 md PM 2006 = 6,434 md + ∆ PM ∆ PM = 6,434*0,013 = 84,8 PM 2006 = 6,521 md PM 2007 = 6,521 md + ∆ PM ∆ PM = 6,521*0,013 = 84,8 PM 2007 = 6,606 md PM 2008 = 6,606 md + ∆ PM ∆ PM = 6,606*0,013 = 85,9 PM 2008 = 6,691 md PM 2009 = 6,691 md + ∆ PM ∆ PM = 6,691*0,013 = 87,0 PM 2009 = 6,778 md PM 2010 = 6,691 md + ∆ PM ∆ PM = 6,778*0,013 = 89,6 PM 2010 = 6,868 md Il tasso di crescita della popolazione mondiale non è costante Con un tasso di crescita dell’1% la popolazione mondiale raddoppierebbe in 70 anni!
� Si noti, per inciso, come la popolazione mondiale costituisca un
valido esempio di variabile di tipo «stock» il cui valore può essere calcolato facendo riferimento ad un preciso istante nel tempo (come l’inizio o la fine di un determinato anno). Le variabili di tipo «flusso» (come il reddito nazionale e le sue componenti), sono invece quelle il cui valore è definito con riferimento ad un determinato intervallo di tempo (un anno, un trimestre, un mese e così via). Le variabili di tipo stock e quelle di tipo flusso sono legate da una precisa relazione: le prime sono alimentate dalle seconde mediante uno o più flussi netti.
� Supponiamo ora di voler conoscere (e quindi prevedere) a quanto
ammonterà la popolazione mondiale alla fine del 2010 (i dati relativi all’anno in corso verranno resi noti dalla Banca Mondiale solo nel 2011). A tale scopo occorre disporre innanzitutto di un certo valore iniziale. Apprendiamo, dal sito della Banca Mondiale [http://www.worldbank.com], che alla fine del 2003 la popolazione complessiva ammontava a 6 miliardi e 273 milioni. Per effettuare la nostra stima si può procedere nella maniera seguente: poniamo
innanzitutto mdPM 273,62003 = . Occorrerà poi disporre di un tasso
annuo di crescita. Dal World Development Indicators (WDI) del 2010 apprendiamo che nel periodo 1990-2008, la popolazione mondiale è cresciuta ad un tasso annuo medio dell’1,3%. Possiamo allora assumere la seguente ipotesi di lavoro. Supponiamo che la popolazione mondiale continui a crescere sempre a quello stesso tasso. In tal caso, si potrà calcolare il flusso netto di accrescimento
che ci interessa ( mlmdPM 5,81013,0*273,62004 ==∆ ) e sommare tale
flusso al valore della popolazione del 2003 ottenendo in quel modo il valore della popolazione del 2004, che sarà pari a 6 miliardi e 355 milioni. Allo stesso modo potremo stimare il valore della popolazione per tutti gli anni successivi come nell’esempio riportato a lato.
� Con l’ausilio del nostro semplice modello abbiamo stimato la
popolazione alla fine del 2008 in 6 miliardi e 691 milioni, che differisce dal dato ufficiale contenuto nel WDI del 2010 (6 miliardi e 697 milioni) di “soli” 6 milioni, un errore dovuto, con ogni probabilità agli arrotondamenti. Sempre dalla stessa fonte apprendiamo che il tasso annuo medio di crescita, che nel periodo 1990-2002 era dell’1,4% è sceso nel frattempo all’1,3% e che nel periodo 2008-2015 possa scenda ulteriormente all’1%. Occorrerà pertanto prestare molta attenzione alla validità dell’ipotesi che abbiamo assunto circa il fatto che il tasso di crescita della popolazione mondiale rimanga costante.
� In ogni caso, si rifletta sul fatto che con un tasso annuo di crescita
dell’1% la popolazione mondiale aumenta ogni anno di circa 90 milioni di unità. Pertanto, restando così le cose, in soli 5 anni essa aumenterà di circa 450 milioni di unità, un aumento pari all’intera popolazione dell’Unione Europea a ventisette paesi! Osserviamo infine che se la popolazione continuasse a crescere sempre al tasso dell’1% essa raddoppierebbe in circa settanta anni.
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4
La formalizzazione del modello Nelle analisi di tipo statico si prescinde dal tempo, mentre nelle analisi dinamiche si studia l’evoluzione nel tempo degli elementi che si ritengono rilevanti nella spiegazione dei fenomeni La formalizzazione del modello «popolazione mondiale» Come varia lo stock della popolazione mondiale La relazione di definizione Un’ipotesi (semplice) su come si potrebbe calcolare il flusso netto La relazione di comportamento Il tasso proporzionale di crescita della popolazione Il modello formale per prevedere l’andamento della popolazione mondiale
� Prima di procedere alla formalizzazione del nostro «modello di crescita della popolazione mondiale» occorre introdurre qualche altra specificazione circa il modo con cui si procede nella costruzione di un modello. Quando si costruisce un modello si isolano gli effetti che si ritengono rilevanti tra quelli che concorrono a determinare l’evento. Ora, mentre in un’analisi di tipo statico si cerca di stabilire quali relazioni intercorrano tra i vari elementi che si ritengono rilevanti nella spiegazione del fenomeno, in un’analisi di tipo dinamico, oltre a prendere in considerazione quegli stessi elementi, se ne studia l’evoluzione nel corso del tempo.
� Vediamo ora come si possa formalizzare in maniera semplice il
procedimento adottato per calcolare l’andamento della popolazione mondiale. A tale scopo possiamo sfruttare la relazione che intercorre tra lo stock della popolazione ed il relativo flusso. Indicando con
MtP lo stock della popolazione alla fine di un dato anno e con
Mt
Mt
Mt PPP 1−−=∆ il flusso netto di accrescimento tra quello stesso
anno e quello immediatamente precedente scriveremo:
{nettoflusso
MM
t
M
tPPP
−−
∆+≡1
� Per calcolare il flusso netto di accrescimento possiamo assumere la stessa ipotesi di prima, ovvero che tale flusso sia proporzionale al valore assunto dalla popolazione del periodo precedente. In tal caso si potrà scrivere:
M
t
M
nettoflusso
M
t
M
t
M PpPPP11 −
−
−=
−=∆48476
� In questa espressione si riconosce agevolmente il tasso di crescita della popolazione, che indicheremo con la corrispondente lettera minuscola:
Mt
MM PPp 1−∆=
� Supponiamo ora di conoscere il tasso annuo medio della popolazione relativo al periodo che interessa (nel nostro esempio di prima l’1,3%), e che tale tasso si mantenga sempre lo stesso anche negli anni successivi (in altre parole che rimanga costante). Le informazioni che possediamo possono ora essere raccolte nel seguente modello:
=∆
∆+=
−−−−
−
−−
−
44 344 21
444 3444 21
nettoflussodelcalcolodiipotesi
M
t
MM
edefiniziondiequazione
MM
t
M
t
PpP
PPP
1
1
� Esso risulta composto da due equazioni: la prima, che descrive come
si comporta lo stock della popolazione nel corso del tempo e la seconda, che formula un’ipotesi di calcolo del flusso netto di crescita (che sconta il fatto che si conosca il tasso annuo medio di crescita).
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5
La soluzione del modello Alcune applicazioni del sentiero temporale di crescita Il metodo iterativo per la ricerca della soluzione del modello
� Questo semplice modello possiede una «soluzione» che potrà essere
individuata con un procedimento iterativo (come verrà illustrato qui di seguito). La soluzione del modello, che prende il nome di «sentiero temporale di crescita della popolazione mondiale» è la seguente:
( )444 8444 76
43421
crescitaditemporalesentiero
crescitadifattore
tMMM
tpPP
−−−
−−
+= 10
� Utilizzando questa relazione diviene agevole, a partire da un certo valore noto (nel nostro esempio ponendo la popolazione del 2003 PM0=6,273 md. e assumendo quale tasso di crescita della popolazione mondiale pM=1,3%, riscontrare come la popolazione del 2008 risulti uguale a 6,691 md). Si noti come la relazione che abbiamo indicato come sentiero temporale di crescita della popolazione mondiale sia una combinazione di quattro elementi, detti variabili, la popolazione finale (PMt), la popolazione iniziale (PM0), il tasso di crescita costante (pM) e il tempo (t) che compare quale esponente del fattore di crescita. Usando la notazione introdotta in precedenza potremmo esprimere sinteticamente e in forma implicita tale relazione nella maniera seguente:
( )tpPfP MMM
t,,
0=
Sotto le nostre ipotesi (conoscenza del valore iniziale e del tasso annuo di crescita) questa relazione assumerà la forma esplicita del sentiero temporale di crescita:
( ) ( )tMMMMMt pPtpPfP +== 1,, 00
� E’ appena il caso di sottolineare come sia possibile, operando le
opportune manipolazioni (che richiedono però l’uso dei logaritmi), risolvere l’espressione del sentiero temporale di crescita rispetto ad una qualsiasi delle variabili noto che sia il valore delle restanti. Diviene possibile inoltre utilizzare la stessa espressione per utili applicazioni, quali ad esempio il tempo di raddoppio di un dato valore iniziale; il tasso di crescita che consente ad un dato valore iniziale di trasformarsi proprio nel valore finale dato; quanto tempo occorre al reddito di un paese follower di raggiungere quello del paese leader, dati i tassi di crescita di entrambe le economie. Tutte queste applicazioni sono illustrate nel testo “L’economia dello sviluppo. Strumenti, applicazioni e concetti di base” riportato nel programma.
� Per i più volenterosi illustriamo il metodo iterativo con il quale si può procedere per individuare la soluzione del modello. Indichiamo innanzitutto con il pedice zero la popolazione riferita ad un ipotetico anno iniziale e con il pedice uno quella dell’anno successivo procedendo poi nella maniera seguente:
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6
Il modello è utile per fare previsioni a breve termine, ma possiede alcune limitazioni:
1. la popolazione mondiale è un sistema isolato;
2. si suppone che il valore iniziale sia corretto;
3. si suppone che il tasso di crescita sia costante
In un sistema aperto come quello regionale occorre tenere conto anche dei saldi migratori Il bilancio demografico della regione Liguria Un percorso inverso: dal modello alla teoria
( )}
( ) ( )( )
.cos
1
11
1
3
0223
2
0
10
1112
0001
−−
+=+=
+=+=+=
+=+=
+=
viaìe
pPPpPP
pPpPPpPP
pPPpPP
MMMMMM
MMM
MpMP
MMMMM
MMMMMM
� In generale avremo quindi che la relazione più sopra riportata
corrisponde proprio alla soluzione del modello con il quale abbiamo descritto l’evoluzione della popolazione mondiale. Tale soluzione ci sarà molto utile in seguito, dal momento che troverà numerose applicazioni. In essa, il valore finale della popolazione dopo un determinato periodo di anni è il risultato di una operazione (una moltiplicazione) tra due fattori: il valore iniziale della popolazione (che si assume noto) e il fattore di crescita (che aumenta invece nel corso del tempo). Si noti come il fattore di crescita sia dato dal numero uno più il tasso di crescita della popolazione (che abbiamo assunto anch’esso come noto e costante) elevato ad una potenza pari al numero degli anni che separa il valore finale da quello iniziale. La correttezza della nostra previsione riposa quindi su tre ipotesi rilevanti: i) che la nostra variabile (in questo caso la popolazione mondiale) operi in condizioni di «isolamento» (vale a dire che non vi siano altri flussi netti che alimentano lo stock al di fuori del numero dei nati e di quello dei morti); ii) che il valore iniziale sia corretto; iii) che la popolazione continui a crescere sempre a quello stesso tasso. Impareremo che occorre prestare sempre molta attenzione alle ipotesi implicite dalle quali dipende la capacità del nostro modello di effettuare previsioni attendibili.
� Una possibile complicazione. Qualora volessimo analizzare
l’evoluzione demografica a livello regionale occorre prestare attenzione al fatto che il sistema regionale non è più «chiuso», ma aperto. A differenza della popolazione mondiale (che è una variabile isolata), la popolazione di un’area regionale (comunque definita) sarà infatti alimentata, oltre che dal saldo naturale (il numero dei nati al netto dei morti), anche dai flussi netti migratori (il saldo migratorio interno, vale a dire da altre regioni dello stesso paese, e il saldo migratorio estero, vale a dire da altri paesi). Ciò darà luogo ad una relazione più complessa rispetto a quella considerata, nella quale figurano, oltre al saldo naturale, anche altri due flussi netti: quello imputabile delle migrazioni interne (che sarà dato dal saldo delle migrazioni infraregionali), e quello delle migrazioni da e per l’estero (che sarà dato dal saldo delle migrazioni interregionali):
( ) ( ) ( )44 344 2144 344 2144 344 21
esteromigratoriosaldo
Estero
t
Estero
t
nazionalemigratoriosaldo
Italia
t
Italia
t
Liguriadellanaturalesaldo
Lig
t
Lig
t
Lig
t
Lig
tEIEIMNPP
−−−−
−−∆+−∆+−∆+=
1
� Giunti a questo punto, siamo in grado di comprendere il significato che attribuiamo al termine «teoria»: come recita sempre il DISC, “un’ipotesi scientifica formulata per la spiegazione di fenomeni particolari”.
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7
Nel lungo periodo il tasso di crescita della popolazione mondiale non è costante Il flusso netto di accrescimento della popolazione mondiale è il saldo naturale e ... ... il tasso di crescita della popolazione è la differenza tra il tasso di natalità e quello di mortalità
� Considerando sempre il caso della popolazione mondiale, sappiamo
che una delle ipotesi sulla quale il nostro modello è stato costruito (la costanza del tasso di crescita) è poco realistica: il tasso di crescita della popolazione mondiale non è rimasto infatti sempre lo stesso come da noi ipotizzato, ma presenta una netta tendenza alla diminuzione. Così, nel ventennio 1970-1990, la crescita media annua della popolazione ha sfiorato il 2% all’anno; nel periodo 1990-2000 essa è scesa intorno all’1,3%, e negli anni più recenti si è attestato intorno all’1%.
� Pertanto, nella realtà le cose non vanno esattamente come da noi
ipotizzato: vi sono diversi fattori (quali guerre, epidemie ecc.) che ostacolano la crescita. Per migliorare la capacità del nostro modello di effettuare delle previsioni sarebbe quindi importante conoscere (e conseguentemente aggiungere delle ipotesi al modello stesso) i fattori da cui dipende il tasso di crescita della popolazione mondiale.
� Una risposta che ci pare convincente è stata proposta dai demografi,
e prende il nome di «teoria degli stadi della transizione demografica», una teoria che ci limiteremo a descrivere per grandi linee, senza addentrarci nei dettagli della spiegazione formale. Si rifletta innanzitutto sul fatto che il flusso netto di accrescimento della popolazione mondiale altro non è che il numero dei nati (NN) al netto del numero dei morti (NM). Riconsideriamo quindi il nostro modello tenendo conto esplicitamente di questa informazione:
−+=∆+=∆
−−
48476MP
Mt
Nt
M
t
MM
t
M
tNNPPPP
11
� Dalla quale si ottiene agevolmente che:
{ } 1
MMt
Nt
M
t
M
tPNNPP ∆=−=−
−
� Ora, dal momento che il tasso di crescita è dato da { } 1M
tM PP −∆
moltiplicando entrambi i lati della nostra espressione per il reciproco della popolazione riferita al periodo precedente (vale a
dire moltiplicando ambo i lati della nostra espressione per { } 1 1M
tP− si
ottiene una espressione del tasso di crescita della popolazione mondiale:
( ) 1
1111
1
M
mortalitàditassoilmenonatalitàditasso
M
t
Nt
M
t
Nt
epopolaziondellacrescitaditasso
M
t
MM
t
M
tM
t
pP
M
P
N
P
PPP
P=
−=∆=−
−−−−−−
−−
−−−
−−
− 4434421321
� Il lato di sinistra di questa espressione altro non è, quindi, che il
tasso di crescita della popolazione, vale a dire quel tasso che nel nostro precedente modello era stato assunto come noto (pM=1,3%) e costante (ossia sempre uguale da un anno all’altro).
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8
La teoria degli stadi della transizione demografica Il nostro modello possiede una capacità di prevedere l’andamento della popolazione limitata al breve periodo
� A questo punto sappiamo però che il valore di questo tasso sarà dato
dalla differenza tra il tasso di natalità (NM/PMt-1) e quello di mortalità (NM/PMt-1). Secondo la teoria degli «stadi della transizione demografica», questi due tassi (e quindi anche la differenza tra gli stessi) variano in relazione allo stadio di sviluppo raggiunto da ciascun paese (o da un gruppo di paesi).
� Vi sono quindi buone ragioni per ritenere che l’andamento della
popolazione mondiale e lo sviluppo economico non siano fenomeni tra di loro indipendenti, come spesso si ipotizza, ma strettamente interconnessi tra di loro (anche se vi è discussione tra gli economisti su quale sia la direzione del nesso causale che lega l’andamento della popolazione mondiale allo sviluppo economico). Come si è visto, la popolazione mondiale ha subito nel secolo scorso una impressionante accelerazione (il tasso di crescita è passato rapidamente da un valore prossimo allo zero, nel lungo periodo di tempo che ha preceduto la Rivoluzione Industriale, ad un valore prossimo al 2% intorno agli anni ’70, per poi ridiscendere a partire dagli anni ’90 attorno all’1% attuale).
La teoria degli stadi della transizione demografica
Stadio I
natalità
La popolazione rimane
stazionaria
mortalità
La
popolazione
accelera
Stadio II
natalità
mortalità
Stadio IV
La popolazione
totale ritorna
stazionaria
natalità
mortalità
Stadio III
La popolazione
decelera
natalità
mortalità
� Il nostro semplice modello andrebbe pertanto arricchito (integrato)
con una terza relazione capace di spiegare la variabilità del tasso di crescita della popolazione mondiale nel corso del tempo. In altri termini, occorrerebbe esplicitare il fatto che il tasso di crescita della popolazione si mantiene costante solo in una prima fase, dopo di che inizia a diminuire all’aumentare della popolazione stessa. In tal caso, la soluzione del modello darebbe luogo ad una espressione analitica rappresentabile graficamente con una «curva di crescita logistica», che possiede una forma a «esse» rovesciata simile a quella che si può intuire dal grafico dell’andamento della popolazione mondiale. Per chi volesse saperne di più rinvio alla lettura del libro di Israel indicato in calce di questi appunti.
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9
E’ possibile il controllo demografico? É efficace il controllo demografico? Uno sguardo al mondo Size of the economy
� Le organizzazioni internazionali (principalmente l’ONU e la Banca
Mondiale) si sono pertanto posti il problema di come intervenire sull’evoluzione demografica cercando di disinnescare quella che è stata definita la «bomba» demografica. La teoria degli stadi della transizione demografica lascia intendere che sia possibile intraprendere misure di controllo dell’andamento demografico, misure sulle quale è opportuno riflettere un istante. Da un lato, l’accelerazione del processo di sviluppo economico di quei paesi che da poco tempo sono entrati nella fase dell’industrializzazione (fase nella quale il tasso di crescita della popolazione tende a ridursi perché si arresta la diminuzione del tasso di mortalità, mentre il tasso di natalità inizia a diminuire) ridurrebbe i tempi della transizione demografica. Dall’altro, l’adozione di politiche volte al «controllo demografico» – laddove le condizioni politiche, sociali e culturali lo consentano –, favorirebbe la riduzione del tasso di natalità e quindi (a parità di tasso di mortalità), la riduzione del tasso di crescita della popolazione mondiale. Entrambe queste politiche sono oggetto di attenzione (e di discussione) da parte delle Istituzioni internazionali che operano per lo sviluppo economico. Si ponga attenzione, comunque, che mentre l’adozione di misure volte a favorire lo sviluppo dei paesi poveri (quelli che fanno registrare un più elevato tasso di crescita della popolazione) viene solitamente accolta (non senza riserve) da parte dei paesi interessati, le misure volte al «controllo demografico» implicano un controllo politico della popolazione (che spesso manca proprio nei paesi interessati). Non solo, ma spesso contrastano con i principi etici delle popolazioni medesime. Di qui la scarsa efficacia delle misure che si possono adottare per il controllo demografico.
� Prima di concludere queste nozioni introduttive, vale la pena di
lanciare uno sguardo sul mondo, così come esso emerge dai principali indicatori sullo sviluppo economico messi a disposizione dalla Banca Mondiale. Come si evince dalla tabella 1 (Size of the economy), delle tabelle inviate a parte, i circa 210 paesi per i quali sono disponibili informazioni affidabili per effettuare dei confronti internazionali sono suddivisi in tre grandi categorie: a) le economie a reddito pro capite basso (Low income), quelle il cui reddito pro capite risultava inferiore a 975 dollari USA nel 2008; b) le economie a reddito pro capite medio (Middle income), quelle il cui reddito pro capite era compreso tra i 976 e gli 11.906 dollari; c) le economie a reddito pro capite alto (High income) quelle il cui reddito pro capite risultava superiore a 11.906 dollari.
� Da quella tabella possiamo dedurre le seguenti informazioni: 1. I ricchi sono pochi ma producono quasi tutto: il 16% della popolazione mondiale, che vive principalmente nei paesi occidentali, produce il 73% della produzione complessiva;
2. Poco meno di un miliardo, pari al 14,6% della popolazione mondiale vive in paesi a basso reddito, con un reddito pro capite medio di 523$, pari a poco più di 1 euro al giorno;
3. Più di 4 miliardi e 600 milioni, pari al 69,5% della popolazione mondiale vive in paesi a reddito medio, con un reddito medio pro capite di 3.251$, pari a 6 euro e mezzo al giorno;
4. L'84% della popolazione mondiale vive con un reddito pro capite medio di 2.780&, pari a 5 euro e mezzo al giorno;
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10
I «big ten»: potenza economica e demografica La struttura dell’output Uno sguardo all’Unione Europea
5. Poco più di un miliardo di popolzione, pari al 16% vive nei paesi ad alto reddito, con un reddito pro capite medio di 339687$ pari a 79 euro al giorno;
6. Le disparità si riducono se si considerano i redditi pro capite a parità di potere d'acquisto tra le monete, ma il divario tra ricchi e poveri resta enorme;
7. I più poveri tra i poveri del mondo vivono nell'Asia del Sud e nell'Africa Sub-Sahariana, dove vive il 35% della popolazione mondiale
8. Le economie a reddito medio e basso crescono mediamente ad un tasso superiore a dieci volte rispetto a quello delle economie a reddito alto;
9. La popolazione delle economie a reddito basso cresce ad un tasso più che doppio rispetto a quella delle economie a reddito alto;
10. La popolazione che vive nei paesi dell'Unione monetaria europea è superiore a quella degli USA, produce circa un quinto della produzione mondiale e vive con un reddito pro capite medio pari a circa l'80% di quello statunitense.
� Dalla seconda tabella (I big ten) possiamo dedurre le seguenti
informazioni: 1. Cina e India sono le due principali potenze demografiche: assieme
posseggono poco meno del 40% della popolazione mondiale; 2. L'Unione Europea a 27 paesi è la terza potenza demografica,
superiore di una volta e mezza quella degli Stati Uniti; 3. Con il 25% della produzione complessiva, gli USA sono la prima
potenza economica mondiale; 4. Avendo superato nel corso del 2010 il Giappone, la Cina è la seconda
potenza economica mondiale; 5. L'Italia è la settima potenza economica mondiale; 6. Con poco meno del 30% della produzione annua mondiale, l'Unione
Europea a 27 paesi è la prima potenza economica. � Dalla terza tabella (Structure of output) possiamo dedurre le
seguenti informazioni: 1. Le economie a reddito basso sono essenzialmente agricole mentre le
economie a reddito alto sono terziarizzate; 2. La quota della produzione agricola è in progressiva diminuzione
ovunque; 3. La quota della produzione manifatturiera è elevata e in crescita nelle
economie a reddito medio-basso; è bassa e in diminuzione nelle economie del Continente africano e nelle economie a reddito alto;
4. La strutta della produzione è molto simile negli USA e nella UE.
� Dalla quarta tabella, infine (UE a 27 paesi) possiamo dedurre le seguenti informazioni:
1. La popolazione dei paesi dell'eurozona è il 66% dell'intera popolazione della UE ed è superiore alla popolazione degli USA;
2. I paesi dell'eurozona producono il 73% dell'intera produzione della UE, di poco inferiore alla produzione degli USA;
3. Cinque paesi della UE (Francia, Germania Italia, Spagna e Regno Unito), appartengono alle prime dieci potenze economiche mondiali;
4. Quattro paesi dell'eurozona (Germania, Francia, Italia e Spagna) producono da soli il 57% dell'intera produzione della UE (che raggiunge il 73% se si aggiunge il Regno Unito);
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11
Cinque «fatti stilizzati»
5. Negli anni che hanno preceduto la crisi economica (2001-06) i paesi
dell'eurozona sono cresciuti ad un tasso inferiore rispetto alla media UE;
6. Ad eccezione di Malta, i tre paesi più importanti dell'eurozona sono cresciuti più lentamente della media UE.
� In sintesi, dallo sguardo all’economia mondiale (unitamente a
qualche altra informazione demografica) possiamo dedurre i seguenti cinque fatti stilizzati (questa espressione verrà ampiamente ripresa ed approfondita in seguito e ai quali le teorie della crescita e dello sviluppo economico cercano di fornire una spiegazione plausibile):
1. I ricchi sono pochi ma producono quasi tutto. Lo sviluppo economico, come noi lo conosciamo, ha origini relativamente recenti (dal secondo dopoguerra). Le origini più remote vanno fatte risalire all’avvio della Rivoluzione Industriale.
2. I poveri crescono più in fretta; i bambini poveri muoiono in tenera età più di quelli ricchi; i ricchi vivono più a lungo. L’evoluzione demografica riflette lo stadio raggiunto nello sviluppo economico.
3. Il divario tra i (pochi) ricchi e i (molti) poveri è enorme. A partire dalla Rivoluzione Industriale, l’innovazione tecnologica accresce fortemente la capacità di produrre beni e servizi. Chi è più avanti nel progresso tecnico ne accumula i vantaggi.
4. Le economie dei paesi poveri crescono più in fretta di quelle dei paesi ricchi. Coloro che sono più indietro nella fase di sviluppo economico crescono più velocemente, ma il loro tasso di crescita tende, col tempo, a portarsi in linea con il tasso di crescita naturale.
5. Le economie dei paesi poveri producono prevalentemente beni agricoli e industriali e quelle dei paesi ricchi producono servizi. L’innovazione tecnologica favorisce la smaterializzazione della produzione manifatturiera e la globalizzazione agevola la delocalizzazione delle produzioni industriali.
� Prima della fine corso dedicheremo un’intera lezione alla
spiegazione di questi cinque fatti, e daremo uno sguardo ad alcune altre grandi sfide che l’umanità si trova a dover affrontare, quali: la lotta alla povertà estrema; la compatibilità tra lo sviluppo economico e l’equilibrio ambientale; i possibili effetti dell’antropizzazione sui mutamenti climatici. Per poter affrontare questi temi con una qualche capacità analitica occorre predisporre una adeguata «cassetta degli attrezzi» (nella quale debbono trovare posto sia una adeguata conoscenza del linguaggio (formale e non), che alcuni strumenti concettuali che andremo ad acquisire durante il corso. Buon divertimento.
Per saperne di più:
� O. BLANCHARD, Scoprire la macroeconomia, I. Quello che non si può non sapere, Capitolo 1: Un viaggio intorno al mondo, pagine 25-32.
� L. BOGGIO, G. SERAVALLI, Lo sviluppo economico. Fatti, teorie, politiche, il Mulino, Bologna 2003.
� M. BONAIUTI (a cura di), Obiettivo decrescita, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 2004.
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12
� C.M. CIPOLLA, Uomini, tecniche, economie, Milano: Saggi Universale Economica Feltrinelli, 2005.
� J. COHEN, Una popolazione che cambia, in «Le Scienze», novembre 2005, pp. 50-59.
� G. ISRAEL***, Modelli matematici. Un’introduzione alla matematica applicata, Muzzio Editore, Roma 2002.
� M. LIVI BACCI, Popolazione e clima: le incerte relazioni, LIMES, n. 6, dicembre 2007.
� I. MUSU, Crescita economica, il Mulino, Bologna 2007. � J.D. SACHS, La fine della povertà. Come i paesi poveri
potrebbero eliminare definitivamente la miseria dal pianeta, Mondatori, Milano 2005.
� J.D. SACHS, Il bene comune. Economia per un pianeta affollato, Mondatori, Milano 2008.
� D. WEIL, Crescita economica. Problemi, dati e metodi di analisi, Hoepli, Milano 2005.
*** Lettura impegnativa
Per capirne di più: � J. DIAMOND, Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli
ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 1997.
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3 - FASI CICLICHE E TREND DELL’ECONOMIA ITALIANA
«Un’economia in via di sviluppo che riesce ad aumentare permanentemente il proprio tasso di risparmio (investimento) avrà un livello di produzione più elevato rispetto al caso in cui non fosse riuscita a farlo e deve pertanto crescere più rapidamente per un certo periodo. Tuttavia
essa non otterrà un tasso di crescita della produzione permanentemente più elevato. Più precisamente il tasso di crescita permanente della produzione per unità di lavoro impiegata è indipendente dal tasso di risparmio (investimento) e dipende soltanto dal tasso di progresso
tecnologico inteso in senso lato».
Robert M. Solow, Teorie della crescita e oltre, Lezione Nobel pronunciata l’8 dicembre 1987 in occasione del
conferimento del Nobel per l’Economia, traduzione italiana in Crescita, produttività, disoccupazione, il Mulino, Bologna 1996, p. 73.
La crescita e il tasso annuo di crescita
1. COME SI MISURA LA CRESCITA � Facendo uso del nostro modello dinamico, vediamo innanzitutto di
dare un significato preciso ai termini «crescita economica» e «tasso di crescita» dell’economia.
{
=∆∆+=
−−−
−
−
1
tancos
1
t
tecrescitaditasso
economicacrescita
tt
PILyPIL
PILPILPIL876
� La crescita economica è la variazione intervenuta nel PIL da un
periodo all’altro, mentre il tasso proporzionale di crescita è il rapporto tra la crescita e il valore del PIL nel periodo precedente. Sappiamo inoltre che qualora il tasso di crescita si mantenesse sempre costante la soluzione di questo modello sarebbe fornita dal
sentiero temporale di crescita del reddito: ( )tt yPILPIL += 10 .
� Vediamo ora di chiarire come si calcola il tasso di crescita del
reddito; che cosa si intende per trend di crescita dell’economia, e quale relazione vi sia tra quest’ultimo e le diverse fasi cicliche.
� Disponendo della serie dei dati relativi al PIL dell’economia
italiana tra il 1970 e il 2009 e utilizzando la formula implicita nella
definizione di tasso di crescita ( 1−∆= tPILPILy ) possiamo
innanzitutto calcolare la serie dei tassi annui di crescita (vedere la tabella riportata in calce). Ciò che balza subito evidente, è la marcata variabilità dei tassi di crescita del PIL da un anno all’altro. Ciò è la conseguenza del fatto che la crescita economica non avviene in maniera regolare, ma attraversa delle fasi cicliche.
Università degli studi di Genova Facoltà di giurisprudenza Corso di politica economica
2
L’economia italiana dal 1970 al 2009 Il tasso annuo medio di crescita Il tasso annuo medio di crescita annulla la storia!
� Si noti, ad esempio, la forte accelerazione tra il 1971 e il 1973 - quando il tasso di crescita è passato da poco meno del 2% a oltre il 6%, nonché la brusca decelerazione intervenuta nei due anni successivi (quando tra il 1974 e il 1975 il valore del PIL è diminuito! In quell’anno vi è stata quindi recessione). Inoltre, un semplice sguardo ai dati ci conferma che nell’arco di trentasette anni il PIL dell’economia italiana è più che raddoppiato. Ciò implica che il fattore di crescita (il numero che trasforma il valore del PIL del 1970 in quello del 2007), sarà maggiore di due.
Fonte: ISTAT, I conti economici nazionali, 1970-200 9
L'economia italiana (1970-2009)
500.000
600.000
700.000
800.000
900.000
1.000.000
1.100.000
1.200.000
1.300.000
1.400.000
1968 1970 1972 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012
L’indicatore più efficace per sintetizzare il fatto che nell’intero periodo l’economia italiana sia cresciuta è il tasso annuo medio di crescita (o trend), che si può ottenere semplicemente calcolando la media semplice dei tassi annui di crescita: nel nostro caso il tasso annuo medio di crescita con riguardo all’intero periodo 1970-2009 è stato il 2,05%. Conoscendo il tasso annuo medio di crescita, e rammentando la relazione che esprime il sentiero temporale di crescita, possiamo intendere il valore finale della serie (il PIL2009) come la trasformazione del valore del valore iniziale (il PIL1970) tramite un fattore di crescita [che tra il 1970 e il 2007 risulterà uguale a (1+0,0205)39 = 2,18136 (sappiamo infatti che il valore iniziale è più che raddoppiato)]. Applicando il fattore di crescita al valore del PIL1970 (=552.413) si ottiene un valore stimato del PIL2009 pari a 1.205.012. Osserviamo come la differenza tra il valore stimato con questo metodo e il valore effettivo (1.207.876) può essere considerata come accettabile (si tratta di un errore in difetto di appena -0,24%!). Applicando sempre lo stesso tasso si potrebbe poi ricalcolare l’intera serie del PIL. Ci si accorgerebbe, in tal caso, che l’errore (in difetto o in eccesso) che si commette è tanto più grande quanto maggiore è la differenza tra i singoli tassi annui e quello medio riferito all’intero periodo. Il dato medio ci dice infatti che nel periodo considerato c’è stata una certa crescita del PIL, ma non ci dice nulla circa le fasi cicliche che l’economia ha realmente attraversato: il dato medio annulla la “storia” dell’intero periodo.
Università degli studi di Genova Facoltà di giurisprudenza Corso di politica economica
3
A differenza della popolazione, il reddito presenta un andamento molto più irregolare: con un alternarsi di fasi di accelerazione (quando il tasso di crescita del reddito aumenta), di decelerazione ((quando il tasso di crescita del reddito diminuisce), di stazionarietà (quando il tasso di crescita del reddito è prossimo allo zero), di crisi (quando il tasso di crescita del reddito è negativo) La crescita dell’economia italiana dal 1970 al 2009
� Chiaramente, qualora fossimo interessati a mettere in evidenza il
fatto che la crescita dell’economia italiana è avvenuta per fasi, anziché calcolare la media relativa all’intero periodo si potrebbe calcolare dei valori medi riferiti alle singole fasi. Per meglio evidenziare le fasi è opportuno considerare il grafico riportato più sotto. Dall’analisi di quel grafico emerge immediatamente come l’evoluzione dell’economia italiana, come si è già detto commentando la variabilità dei tassi annui di crescita del PIL, sia stata caratterizzata da una successione di fasi: di forte espansione (come nel periodo 1970-73); di recessione (come negli anni 1974-75; 1992-3, quando il tasso di crescita è risultato negativo), di rallentamento (come negli anni 1980-83; 1989-92) e di relativa stazionarietà (come tra il 1992 e il 1992).
� Un metodo alternativo per calcolare il tasso annuo medio di
crescita del PIL è quello che fa uso della trasformazione di quest’ultimo nei suoi valori logaritmici. Si rammenta che il logaritmo naturale del PIL, che indicheremo con LNPIL è l’esponente al quale occorre elevare il numero e (e=2,718281828459) per ottenere il valore desiderato. Così, ad esempio, il valore del PIL1970 si può scrivere nella maniera seguente: 552.413 = e13,22211. Una volta trasformata l’intera serie del PIL nei valori logaritmici, osserviamo come la differenza tra due valori logaritmici consecutivi sia un’accettabile approssimazione del tasso annuo di crescita del reddito (si veda l’ultima colonna della tabella riportata di seguito). Il tasso di crescita annuo medio che si ottiene con questo metodo, pari a 2,01%, è un valore assai prossimo a quello ottenuto con il metodo precedente.
La crescita dell'economia italiana 1970-2009
-6,00
-4,00
-2,00
0,00
2,00
4,00
6,00
8,00
1970 1973 1976 1979 1982 1985 1988 1991 1994 1997 2000 2003 2006 2009
Fonte: ISTAT, I conti economici nazionali, 1970-200 9
� Il metodo più attendibile per calcolare il tasso annuo medio di una
serie di dati resta in ogni caso quello basato sulla stima del coefficiente di regressione di una retta semi logaritmica. E’ questo il metodo utilizzato, tra l’altro, dalla Banca Mondiale per calcolare i tassi annui medi di crescita.
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4
Il capitale nelle sue molteplici forme
� Con questo metodo si va a stimare il coefficiente angolare di quella
retta che meglio interpola tutti i punti grafico, vale a dire che possiede la proprietà di minimizzare la distanza tra i singoli valori logaritmici e la loro media. Il vantaggio di utilizzare questo metodo consiste nel fatto che esso consente anche di valutare, attraverso opportuni test statistici, l’affidabilità statistica del risultato ottenuto.
� Il fatto di sapere come si calcola il tasso di crescita del reddito
consente di affrontare meglio lo studio della teorie della crescita, nonché di affrontare questioni molto importanti per l’economia dello sviluppo, quali il diverso effetto del raddoppio del valore iniziale (effetto di livello) o del raddoppio del tasso di crescita (effetto tasso di crescita); il concetto e l’evoluzione dei divari relativi; il «sorpasso» tra i livelli del reddito pro capite e il catching up; la stima del tempo necessario ad un paese follower per raggiungere il livello del reddito pro capite di un paese leader e così via.
B) IL CAPITALE NELLE SUE MOLTEPLICI FORME. � La stima del valore del capitale è sempre stato oggetto notevoli
controversie nella teoria economica. Come emerge dallo schema più sotto riportato il capitale può assumere molteplici forme.
IL CAPITALE NELLE SUE MOLTEPLICI FORME
in senso finanziario
naturale sociale
circolante
lordo netto
fisso
industriale
materiale
capitale umano beni registrati
immateriale
in senso tecnico
Il capitalesi può intendere
� Lo stock di capitale si può intendere infatti sia in senso finanziario
sia in senso tecnico. Nel primo caso, data l’unità di conto, la misurazione del capitale non comporta grandi problemi. La misurazione del capitale in senso tecnico presenta invece numerose difficoltà. Innanzitutto il capitale in senso tecnico può essere sia materiale che immateriale. Il capitale materiale può poi assumere le seguenti forme: 1. naturale (una miniera o un pozzo petrolifero, ma anche una
bellezza naturale esclusiva);
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Il capitale fisso industriale e il metodo di stima dell’inventario permanente La relazione tra lo stock di capitale fisso industriale e il flusso degli investimenti
2. infrastrutturale, dato dalla rete delle infrastrutture viarie, aeree,
marittime, ma anche di comunicazione); 3. industriale.
Quest’ultimo si può poi intendere sia come capitale circolante (il valore di tutto ciò che viene anticipato in termini di costo della produzione che viene recuperato con la vendita del prodotto), sia come capitale fisso, dato dal cumulo dei beni strumentali atti a produrre altri beni (i cosiddetti investimenti fissi). Infine, a seconda che comprenda o meno gli ammortamenti esso darà luogo al capitale fisso lordo oppure netto. Il capitale immateriale, può riguardare invece i cosiddetti beni registrati (i marchi, i brevetti); il capitale umano, vale a dire l’insieme di tutto ciò che in termini di conoscenza può influire sulla capacità di produrre di ciascuna unità di lavoro; il capitale sociale, inteso come rete di relazioni interpersonali, che accresce la funzionalità delle istituzioni.
� Vale la pena di rammentare come le tradizionali teorie della crescita
facciano riferimento quasi esclusivamente al capitale fisso industriale, il quale determina la capacità produttiva di un sistema economico. Le moderne teorie della crescita endogena, invece, hanno messo l’accento anche sull’importanza di altre forme di capitale, come il capitale umano e il capitale sociale: forme che rivestono una certa importanza sulla crescita economica. Data la limitatezza del corso ci si limiterà a fornire qualche nozione sul capitale fisico e sulla relazione che intercorre tra questo aggregato, il livello degli investimenti fissi e la relazione che lega questi ultimi alla variazione del reddito (nota come teoria dell’acceleratore degli investimenti).
C) La relazione tra lo stock di capitale fisso industriale e il
flusso degli investimenti.
Se si considerata solo la forma del capitale fisso industriale, lo stock di capitale potrà essere messo in relazione con il flusso degli investimenti utilizzando la relazione di definizione ormai nota.
� Lo stock di capitale fisso industriale (K) è alimentato dal flusso
netto degli investimenti, vale a dire la differenza tra gli investimenti fissi lordi (I) e le «rottamazioni» (o ammortamenti in senso economico) (A):
{nettoflusso
K
KKAIKK−
∆
∆+=−+= 01101
876
� Supponiamo, per semplicità, che un bene strumentale abbia una
durata limitata a soli due anni, dopo di che debba essere rottamato. Supponiamo inoltre che il capitale iniziale sia nullo (vale a dire che K0=0).
Alla fine del primo anno si avrà: K1 = K0 + I1 = I1 Alla fine del secondo: K2 = K1 + I2= I1+ I2 Alla fine del terzo:
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La regola generale La regola generale quando i beni strumentali hanno durata illimitata Nell’ipotesi che i beni strumentali abbiano durata illimitata i nuovi investimenti coincidono con il flusso di crescita del capitale Il coefficiente capitale/prodotto
( ) 3
2
2
1
23
2
213323 5,015,0 IKKIIIAIKK
KK
I
KK
+−=−++=−+=∆∆ 4847648476
321
876876
in cui ( ) 15,01 −− tK è lo stock di capitale al netto delle rottamazioni.
Alla fine del quarto anno si avrà:
( ) 4
3
33434434 5,015,0 IKKIKAIKK
KKK
+−=−+=−+=∆∆ 4847648476876
In generale si avrà che:
( ) ttt IKK +−= −15,01
� Se si conosce la regola valida per l’ammortamento (ad esempio, se
si suppone che la quota annua di ammortamento sia una certa percentuale del capitale del periodo precedente, per cui si avrà che
1−= tKA δ ) varrà la seguente regola generale:
( ) t
tiammortamenlinettoalprecedente
periodoalcapitale
tt IKK +−=
−−−
−−−43421
deg
11 δ
� Nel caso particolarissimo, poi, in cui i beni strumentali avessero
una durata illimitata (nel qual caso il tasso di ammortamento sarà uguale a zero) si avrebbe la seguente relazione:
ttt IKK += −1
� In questo caso (ma solo in questo caso), il flusso dei nuovi
investimenti verrà a coincidere con l’incremento dello stock di capitale:
KKKI ttt ∆=−= −1
C) LO STOCK DI CAPITALE E LA CAPACITÀ PRODUTTIVA. � Per capacità produttiva si intende la quantità di beni (reddito) che
un dato stock di capitale consente di attivare. Indichiamo con v = K/Y il cosiddetto «coefficiente capitale/prodotto», ossia quante lire di capitale sono necessarie per produrre una lira di reddito. Supponiamo ora che tale coefficiente si mantenga costante nel tempo (vedremo in seguito quali implicazioni quest’ipotesi comporti). In tal caso, noto il coefficiente capitale/prodotto, si potrà agevolmente passare dal concetto di capitale a quello di capacità produttiva. Si avrà infatti che:
}vYK
capitalediStock
=−−
e }
Kv
Q
produttivaCapacità1=
−
� Tenendo conto del legame esistente tra lo stock di capitale e la
capacità produttiva, e supponendo che quest’ultima sia sempre pienamente utilizzata (vale a dire, per Q = Y.
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Noto il coefficiente capitale/prodotto lo stock di capitale si potrà esprimere in relazione al reddito e la capacità produttiva in relazione al capitale Sotto queste ipotesi il flusso degli investimenti diviene proporzionale alla variazione del reddito (diviene cioè endogeno rispetto al reddito). La relazione che fa dipendere il livello degli investimenti dalla crescita economica è nota come «principio dell’acceleratore degli investimenti»
� Si ponga attenzione al fatto che qualora la capacità produttiva fosse
utilizzata, poniamo, solo all’85%, si avrebbe Q = 0,85Y ), si avrà che:
{( ) {
KK
tt
K
t
K
tt YvYYvvYvYI
tt∆∆
−− ∆=−=−=−
43421321 11
1
� Osserviamo come, in base a quest’ultima relazione, il flusso degli
investimenti venga ora a dipendere dalla crescita economica! Va sottolineato come in questo caso il flusso degli investimenti potrà assuemere un valore positivo solo in presenza di una variazione del reddito. In altri termini, affinché nel sistema produttivo possano esservi nuovi investimenti fissi lordi è necessario che il flusso del reddito cresca da un periodo all’altro: Detto in altri termini occorre che vi sia crescita economica.
� La relazione tra il flusso dei nuovi investimenti e la variazione del
reddito che giustifica tale flusso prende il nome di principio dell’acceleratore degli investimenti. Come si avrà modo di approfondire in seguito, questo principio assume un ruolo molto importante nella teoria dinamica di Harrod. Inoltre, l’esistenza della relazione tra il flusso degli investimenti e lo stock di capitale è alla base della critica mossa da Domar alla teoria statica keynesiana: infatti, nella misura in cui gli investimenti figurano tra le componenti della domanda effettiva (vale a dire nella misura in cui vi sono nuovi investimenti) la capacità produttiva non potrà più essere considerata costante.
� In conclusione: se si accetta la teoria keynesiana dell’investimento,
il livello dell’investimento dipenderà, a parità di tasso d’interesse, dal livello delle aspettative (che si riflette sul valore della componente autonoma degli investimenti) e, a parità di aspettative, dal tasso d’interesse. Una variazione dell’investimento, che come sappiamo dal modello reddito/spesa metterà in moto il processo del moltiplicatore, si ripercuoterà quindi sul livello dell’attività economica. Stando a questa teoria, diverrebbe possibile influire sul livello degli investimenti (attraverso la politica monetaria) e conseguentemente anche sulla crescita economica. Per contro, se si assume un’ottica di tipo macrodinamica, il livello degli investimenti viene a dipendere dalla crescita economica (cessa cioè di dipendere dal tasso d’interesse e diviene endogeno rispetto al reddito.
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La crescita dell’economia italiana (1970-2007)
Occupazione
totale Produttività
Anno PIL ∆∆∆∆PIL y lnPIL ∆∆∆∆lnPIL (migliaia) o (PIL/Occ.)
1971 562.456 10.043 1,82 13,2401 1,80 19.937,7 0,03 28.211
1972 583.214 20.757 3,69 13,2763 3,62 19.886,2 -0,26 29.328
1973 624.773 41.559 7,13 13,3451 6,88 20.167,8 1,42 30.979
1974 659.136 34.363 5,50 13,3987 5,35 20.481,1 1,55 32.183
1975 645.359 -13.777 -2,09 13,3776 -2,11 20.496,8 0,08 31.486
1976 691.344 45.984 7,13 13,4464 6,88 20.704,2 1,01 33.391
1977 709.045 17.702 2,56 13,4717 2,53 20.767,8 0,31 34.142
1978 732.019 22.974 3,24 13,5036 3,19 20.836,7 0,33 35.131
1979 775.642 43.622 5,96 13,5614 5,79 21.068,4 1,11 36.815
1980 802.246 26.605 3,43 13,5952 3,37 21.373,0 1,45 37.536
1981 809.019 6.773 0,84 13,6036 0,84 21.355,7 -0,08 37.883
1982 812.365 3.346 0,41 13,6077 0,41 21.399,4 0,20 37.962
1983 821.863 9.498 1,17 13,6193 1,16 21.468,4 0,32 38.282
1984 848.375 26.512 3,23 13,6511 3,17 21.467,2 -0,01 39.520
1985 872.114 23.738 2,80 13,6787 2,76 21.670,4 0,95 40.244
1986 897.056 24.942 2,86 13,7069 2,82 21.819,5 0,69 41.113
1987 925.690 28.634 3,19 13,7383 3,14 21.869,3 0,23 42.328
1988 964.516 38.827 4,19 13,7794 4,11 22.104,0 1,07 43.635
1989 997.198 32.682 3,39 13,8127 3,33 22.254,9 0,68 44.808
1990 1.017.666 20.468 2,05 13,8330 2,03 22.609,5 1,59 45.011
1991 1.033.275 15.608 1,53 13,8482 1,52 23.032,6 1,87 44.861
1992 1.041.261 7.987 0,77 13,8559 0,77 22.865,5 -0,73 45.539
1993 1.032.013 -9.249 -0,89 13,8470 -0,89 22.251,3 -2,69 46.380
1994 1.054.220 22.208 2,15 13,8683 2,13 21.884,9 -1,65 48.171
1995 1.084.023 29.802 2,83 13,8962 2,79 21.841,2 -0,20 49.632
1996 1.095.897 11.874 1,10 13,9071 1,09 21.966,0 0,57 49.891
1997 1.116.415 20.518 1,87 13,9256 1,85 22.034,7 0,31 50.666
1998 1.132.060 15.645 1,40 13,9395 1,39 22.252,6 0,99 50.873
1999 1.148.636 16.577 1,46 13,9541 1,45 22.493,9 1,08 51.064
2000 1.191.057 42.421 3,69 13,9904 3,63 22.930,1 1,94 51.943
2001 1.212.713 21.656 1,82 14,0084 1,80 23.393,1 2,02 51.841
2002 1.218.220 5.506 0,45 14,0129 0,45 23.793,1 1,71 51.201
2003 1.218.013 -206 -0,02 14,0127 -0,02 24.149,6 1,50 50.436
2004 1.236.671 18.658 1,53 14,0279 1,52 24.256,1 0,44 50.984
2005 1.244.782 8.111 0,66 14,0345 0,65 24.395,8 0,58 51.024
2006 1.270.126 25.344 2,04 14,0546 2,02 24.874,1 1,96 51.062
2007 1.288.953 18.826 1,48 14,0693 1,47 25.183,5 1,24 51.182
2008 1.271.958 -16.994 -1,32 14,0561 -1,33 25.262,9 0,32 50.349
2009 1.207.876 -64.082 -5,04 14,0044 -5,17 … … …
Media 2,05 Media 2,01 Media 0,63 Fonte: nostre elaborazioni su dati ISTAT(2007), Contabilità nazionale. Conti economici nazionali, Anni 1970-2005; Conto economico delle risorse e degli impieghi (milioni di euro dal 1999; milioni di eurolire per gli anni precedenti;
Valori concatenati, Anno 2000).
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1
4 - HARROD, DOMAR E LE ORIGINI KEYNESIANE DELLE MODERNE TEORIE DELLA CRESCITA
Sir Roy F. Harrod (1900-1978), è stato “prima discepolo di Keynes, poi collega ed amico, ed infine biografo
ufficiale” (Pugno, 1992). Nel 1928 egli introduce nella teoria economica il concetto di ricavo marginale; nel 1933
elabora il concetto di moltiplicatore statico del commercio estero e tra il 1936 e il 1939 formula la sua teoria
dinamica del ciclo e della crescita economica. Profondo conoscitore della Teoria Generale keynesiana, Harrod ha
fornito un’efficace sintesi della teoria keynesiana basata sulla distinzione di tre concetti di reddito: quello
deducibile dalla contabilità nazionale, quello di equilibrio (basato sul principio della domanda effettiva e sulle
teorie della domanda effettiva) e quello di piena occupazione (stimabile con metodi statistici). In analogia allo
schema analitico keynesiano, Harrod, nella sua teoria macro dinamica, individua per ciascun livello di reddito il
corrispondente tasso di crescita. Ciò gli ha consentito di mettere in luce la natura intrinsecamente instabile del
sistema economico.
A) LE TRE RELAZIONI FONDAMENTALI DELLA TEORIA DINAMICA DI HARROD � Sappiamo dalla Contabilità nazionale che il PIL e il reddito interno lordo sono in valore
identici poiché entrambi misurati dal Valore aggiunto. Da questa prima identità fondamentale della Contabilità nazionale ne discende una seconda che riguarda l’identità tra l’investimento e il risparmio:
SI ≡ � Nella definizione del concetto reddito di equilibrio (YEQ) è implicita invece una condizione
di equilibrio, vale a dire l’uguaglianza tra l’investimento programmato (Ia) ed il risparmio programmato (Sa):
aa SI = � Il reddito di piena occupazione (Yp), che è anch’esso un concetto teorico, può essere
stimato, ad esempio, moltiplicando il prodotto per addetto (Z) per dell’occupazione potenziale (Lp), che può essere fatta coincidere con le forze di lavoro:
Yp = ZLp
� Nella teoria macrostatica keynesiana, la possibilità che si verifichi l’uguaglianza tra i tre
livelli di reddito di Contabilità nazionale, di equilibrio e potenziale ( pEQ YYY == ) è del tutto casuale. Posto che valga il principio della domanda effettiva, l’offerta aggregata tenderà a convergere sul valore del reddito di equilibrio, in corrispondenza del quale l’offerta aggregata e la domanda aggregata coincidono. In questo contesto, il raggiungimento della piena occupazione è legato al fatto che nel sistema economico si formi una domanda effettiva di livello pari al reddito potenziale.
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� Se ciò non accade il principio della domanda effettiva farà sì che nel sistema economico si
formi un gap di domanda (dato dalla differenza tra il reddito potenziale e quello di equilibrio, a cui corrisponderà un certo ammontare di disoccupazione involontaria). La politica economica di derivazione keynesiana suggerisce che tale gap potrà essere colmato con opportune misura di politica economica.
� Nell’ultima versione della sua teoria dinamica (Economic Dynamics, Macmillan 1973), Sir
Roy Harrod ha così sintetizzato la sua teoria: � Poiché la teoria keynesiana si basata su tre distinti livelli di reddito, a ciascuno di essi si
potrà far corrispondere una relazione fondamentale: � La prima relazione identifica il tasso di crescita dell’offerta aggregata come rapporto tra la
propensione media al risparmio (uguale a quella marginale) ed il rapporto incrementale capitale prodotto. Con alcune semplici manipolazioni, dalla definizione del tasso proporzionale di crescita del reddito si ottiene agevolmente che:
ICOR
s
Y
S
ICORY
I
ICORY
K
K
Y
K
K
Y
Yy ===∆
∆∆≡
∆∆∆≡ 11
� La seconda relazione definisce invece il tasso di crescita garantito (il cui significato
diverrà chiaro tra poco) come rapporto tra la propensione media al risparmio e l’ICOR desiderato (ICORD). In base alla teoria dell’acceleratore si avrà che
444 3444 21reacceleratodellteoria
EQDa YICORI'−
∆=
� D’altra parte, stando alla teoria del moltiplicatore si avrà che:
44 344 21toremoltiplicadelteoria
EQaa sYSI−−
== )(
Sostituendo la seconda relazione nella prima e con qualche semplice manipolazione si
ottiene
gD
EQg
v
s
ICOR
s
Y
Yy ==∆=
� Considerando poi che in condizioni di crescita (quasi) uniforme, il coefficiente capitale
prodotto (v ) è costante (e uguale all’ICOR), il tasso di crescita garantito diverrà uguale al rapporto tra la propensione media al risparmio ed il coefficiente v desiderato.
� La terza relazione, infine, definisce il tasso di crescita potenziale (che Harrod chiama
naturale) come somma dei tassi di crescita del prodotto per addetto e dell’occupazione:
{
} epopolaziondellacrescitaditasso
tecnicoprogressodelcrescitaditasso
p pblzy
−−−
−−−−
+=+=
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3
� Ora, poiché sotto certe ipotesi il tasso di crescita del prodotto per addetto coinciderà con
il tasso di crescita del progresso tecnico e il tasso di crescita dell’occupazione coinciderà (sempre sotto certe ipotesi) con quello della popolazione, il tasso di crescita naturale risulterà esogenamente determinato dalla somma tra il tasso di crescita del progresso tecnico e quello della popolazione.
B) ALCUNE IMPLICAZIONI DELLA TEORIA MACRO DINAMICA DI HARROD � Dalla prima relazione si ottiene quella che Harrod chiama la versione dinamica
dell’identità contabile tra investimento e risparmio:
{ {
Y
IY
S
vysv
sy ≡⇔≡
� Analogamente, dalla seconda relazione si ottiene quella che Harrod chiama la versione
dinamica della condizione di equilibrio del reddito, vale a dire l’uguaglianza tra il risparmio programmato (che dipende dal reddito) e l’investimento programmato (che dipende dal valore dell’ICOR programmato:
( )EQ
EQ
EQ
dgd
Y
YS
Y
Iyvs =⇔=
� Essa sta ad indicare quella situazione nella quale “i produttori (e i consumatori) sono
soddisfatti di quello che stanno facendo”. In essa, il tasso di crescita garantito (yg) assume un ruolo analogo a quello che il reddito di equilibrio assume nella teoria keynesiana, vale a dire, quello di far sì che nel sistema economico si formi proprio quella quota di risparmio desiderato in grado di eguagliare la quota dell’investimento desiderato. Si noti la sorprendente analogia con lo schema keynesiano: a fronte di tre distinti livelli di reddito, Harrod contrappone tre distinti tassi di crescita dello stesso. Pertanto, anche nella teoria macro dinamica di Harrod il fatto che il sistema economico possa trovarsi in una situazione di equilibrio dinamico (con tutti e tre i tassi di crescita uguali) è del tutto casuale: essendo determinati da fattori diversi, non è affatto detto che i tre tassi di crescita debbano essere necessariamente uguali! (anzi, normalmente non lo saranno, per cui si
avrà che pg yyy ≤≠ ).
� L’analogia tra le due formulazioni della teoria keynesiana, quella macro statica di Keynes
e quella macro dinamica di Harrod è tuttavia soltanto apparente; infatti, mentre nella teoria statica keynesiana il principio della domanda effettiva assicurava la convergenza del livello del reddito effettivo su quello di equilibrio, nella teoria macro dinamica di Harrod una eventuale diversità tra i tassi di crescita costanti renderebbe la situazione instabile, in quanto in questa teoria il tasso di crescita garantito è intrinsecamente instabile. Nella teoria macro dinamica di Harrod, quindi, la situazione particolare che la crescita possa
essere, al tempo stesso equilibrata e appropriata (4434421
aappropriateaequilibratcrescita
pg yyy−−−
== ) non potrebbe
che essere del tutto casuale.
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4
� E’ infatti assai probabile che quand’anche fosse equilibrata (vale a dire stabile lungo il
sentiero di crescita del reddito di equilibrio), essa possa non essere appropriata (vale a dire stabile lungo il sentiero di crescita del reddito potenziale).
� In tal caso si avrebbe 4434421
aappropriatnonmaaequilibratcrescita
pg yyy−−−−
≠= . Infine, la crescita potrebbe non essere
né equilibrata né appropriata, vale a dire: 4434421
aappropriatnoneaequilibratnoncrescita
pg yyy−−−−−
<≠
� In questa teoria, inoltre, il principio della domanda effettiva, che prevede la convergenza
del reddito effettivo su quello di equilibrio, viene ad essere sostituito dal principio di instabilità, secondo il quale, “uno scostamento dal sentiero garantito induce un ulteriore allontanamento da esso”. Pertanto, secondo Harrod il processo di crescita è caratterizzato da una intrinseca instabilità.
� In sintesi, secondo Harrod, in un’economia dinamica “vi sono due insiemi distinti di
problemi, sia per l’analisi teorica che per la politica economica, vale a dire: 1) la divergenza tra il tasso di crescita garantito e quello naturale, e 2) la tendenza del tasso di crescita effettivo ad allontanarsi da quello garantito. Il primo è il problema della disoccupazione cronica, il secondo è il problema del ciclo economico” [Harrod (1948)].
C) AFFINITÀ E DIFFERENZE TRA KEYNES E HARROD � Tra Keynes e Harrod vi sono affinità e differenze significative; � entrambi ritengono che i meccanismi di mercato siano inadeguati ad assicurare e il
raggiungimento della piena occupazione ed il suo mantenimento nel corso del tempo; � questo fatto giustifica per entrambi la necessità dell’intervento pubblico correttivo (la
Politica economica); � diversa è invece la concezione della Politica economica; � secondo Keynes essa dovrebbe avere lo scopo di sopperire alla cronica carenza di domanda
effettiva; � secondo Harrod, essa dovrebbe, da un lato, fronteggiare l’instabilità ciclica e, dall’altro,
conciliare la crescita equilibrata con quella appropriata; � inoltre, nella teoria macrostatica keynesiana gli investimenti sono autonomi (nel modello
reddito-spesa) e/o dipendono dal tasso d’interesse (nel modello IS-LM); � nella teoria dinamica di Harrod gli investimenti dipendono dalle variazioni del reddito (via
teoria dell’acceleratore); D) LA NATURA DICOTOMICA DEGLI INVESTIMENTI: IL MODELLO DI DOMAR � Mentre Roy Harrod si proponeva di elaborare una versione dinamica della Teoria
Generale keynesiana, l’obiettivo di Evsey D. Domar (1914-1997) era molto meno ambizioso. Egli si proponeva, infatti, di “colmare o comunque ridurre il gap lasciato nella teoria del reddito e dell’occupazione dal modo particolare con cui Keynes ha trattato l’investimento” [Domar (1957)]. Per Domar, infatti, l’attività di investimento ha una natura dicotomica, in quanto “la costruzione di una nuova fabbrica ha un effetto duale: essa aumenta la capacità produttiva e genera reddito” [Domar (1947)].
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5
� Il problema di Domar era dunque quello di individuare a quale tasso gli investimenti
avrebbero dovuto crescere “al fine di far sì che l’incremento del reddito eguagliasse quello della capacità produttiva”;
� La risposta a quella domanda è fornita dalla soluzione di un’equazione fondamentale, quella che individua “il tasso di crescita dell’investimento e/o del reddito nazionale che è necessario affinché siano mantenuti in equilibrio questi due effetti dell’investimento”.
� Le ipotesi su cui si basa il modello di Harrod sono le seguenti: a) assenza di inflazione; b) assenza di ritardi temporali; c) ammortamenti al costo di sostituzione; d) piena capacità produttiva; e) equilibrio inteso come capacità produttiva uguale reddito. � Sotto queste condizioni l’equazione fondamentale si riduce all’espressione riportata di
seguito, dalla quale, ponendo σ=∆∆
K
Q si ricava agevolmente il tasso di crescita (costante)
degli investimenti:
{ 321produttivacapacitàsullaeffettoredditosuleffetto
IK
QI
s−−−−−
∆∆=∆1
� Considerato che con il pieno utilizzo della capacità produttiva quest’ultima è uguale al
reddito, il coefficiente σ altro non è che il reciproco dell’ICOR. Il tasso di crescita degli investimenti, vale a dire la soluzione del problema di Domar, coincide quindi con il tasso di crescita del reddito che, nella teoria di Harrod, consente la crescita equilibrata:
yICOR
ss
K
Y
Y
S
K
Qs
I
I ==∆∆=
∆∆==∆ σ
� che è sostanzialmente identica alla formula che identifica il tasso di crescita del reddito
nella teoria di Harrod. � Domar introduce poi il concetto di “grado di capacità produttiva utilizzata”, intendendo
con questa espressione il rapporto tra la produzione (reddito) e la massima capacità produttiva esistente:
}
{
( )tqs
massimacapacità
t
effettivaproduzione
tt e
Q
Y
Q
Y −
−
−
== σχ0
0
� Partendo sempre da una situazione di piena utilizzazione della capacità produttiva,
affinché nel corso del tempo la stessa rimanga sempre pienamente utilizzata occorre che gli investimenti (e quindi il reddito) crescano allo stesso tasso della capacità produttiva:
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6
( ){ 4434421321
cronicaionedisoccupaz
t
potenzialecrescita
aequilibratcrescita
temponelqys −↓⇔<= χσ
� In caso contrario, infatti, si avrà “capacità produttiva inutilizzata e disoccupazione”. E) IL PROBLEMA DI HARROD-DOMAR E L’IPOTESI DELLA CONVERGENZA � Il fatto che la crescita economica possa avvenire in maniera equilibrata ed appropriata ad
un unico tasso costante è del tutto casuale. Il tasso di crescita del reddito (=s/v), quello garantito (=s/ICORG) e il tasso di crescita del reddito potenziale (=z+p) dipendono infatti da elementi diversi e la loro coincidenza non può che essere fortuita. Se si prescinde dal fatto che la crescita possa essere equilibrata (se si prescinde cioè dal primo motivo di instabilità messo in luce da Harrod), il secondo motivo di instabilità, legato al fatto che la crescita (ancorché equilibrata) possa non essere appropriata, è divenuto noto nella letteratura economica come «problema di Harrod-Domar ».
� Una possibile soluzione di questo problema è stata proposta da Solow, facendo uso della
teoria della funzione di produzione aggregata, nella forma Cobb-Douglas. Si supponga che il progresso tecnico avvenga esclusivamente in maniera esogena, diffusa e accrescitiva del solo lavoro (vale a dire che esso sia neutrale nel senso di Harrod). Sappiamo che in tal caso il tasso di crescita del prodotto per addetto viene a coincidere, in condizioni di crescita uniforme, con il tasso di crescita del progresso tecnico. Si supponga, inoltre, che l’occupazione cresca allo stesso tasso della popolazione e che quest’ultimo sia noto e indipendente dallo sviluppo economico. Se si accolgono tutte queste ipotesi, il tasso di crescita del reddito potenziale si può assumere come noto e costante, per cui, noto un certo valore iniziale, sarà possibile rappresentare il sentiero temporale di crescita del reddito potenziale stesso.
� Sappiamo inoltre che, nell’ipotesi in cui il processo produttivo avvenga in un contesto di
rendimenti di scala costanti e sia rappresentabile mediante una funzione di produzione di tipo Cobb-Douglas, il prodotto per addetto si potrà esprimere in funzione del grado dell’intensità di capitale:
α
=L
KAZ
� Questa funzione potrà essere rappresentata graficamente come una linea che esce
dall’origine degli assi e cresce all’aumentare del grado dell’intensità di capitale ad un ritmo decrescente. Si noti come l’angolo formato dalla congiungente la funzione in ogni punto che esce dall’origine degli assi altro non sia che il reciproco del coefficiente capitale prodotto. Infatti, rapportando il valore di Z0 in corrispondenza del grado dell’intensità di capitale (K/L)0 si avrà:
( ) 00
0
0
0
0 1
=
=
=vK
Y
L
K
L
Y
LK
Z
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7
Grafico 1 – La funzione di produzione aggregata di tipo Cobb-Douglas in forma intensiva
� Si noti inoltre come, all’aumentare del grado dell’intensità di capitale, il valore del
reciproco del coefficiente capitale prodotto diminuisce. Anche questa relazione può essere rappresentata graficamente come una linea che diminuisce all’aumentare del grado dell’intensità di capitale nella maniera seguente:
Grafico 2 – Come varia il reciproco del coefficiente capitale prodotto
� Ora, poiché il tasso di crescita del reddito è il prodotto tra il reciproco del coefficiente
capitale prodotto e la propensione media (e marginale) al risparmio (y=s/v) e la propensione al risparmio è un numero inferiore a uno, il tasso di crescita del reddito verrà a dipendere anch’esso dal grado dell’intensità di capitale e la sua rappresentazione grafica sarà simile a quella del reciproco del coefficiente capitale prodotto (solo spostata un po’ più a sinistra).
1/v
K/L
Z
K/L
α
=L
KAZ
0
1
v
Z0
( )0LK
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8
Grafico 3 – Il tasso di crescita del reddito varia al variare del grado dell’intensità di capitale
� Tenendo conto, infine, che il tasso di crescita del reddito potenziale non varia al variare
del grado dell’intensità di capitale (per cui la sua rappresentazione grafica è una retta parallela all’asse delle x), il punto di incontro tra questa retta e la curva del reddito effettivo rappresenterà la sola soluzione del problema posto da Harrod e Domar. Vi sarà quindi un solo valore del grado dell’intensità di capitale in corrispondenza del quale si realizza l’uguaglianza tra i due tassi di crescita del reddito.
� L’essenza della soluzione suggerita da Solow è pertanto la seguente. Posto che i fattori
produttivi siano tra di loro sostituibili (nella misura indicata dal valore dell’elasticità di sostituzione che caratterizza la funzione di produzione di Cobb e Douglas) e vengano scambiati in mercati perfettamente concorrenziali, i loro prezzi si adegueranno alla quantità che il sistema economico considera efficiente. Il processo di aggiustamento, che prende il nome di dinamica di transizione, farà sì che alla fine del processo (vale a dire in condizioni di crescita uniforme) il sistema economico finirà per adottare proprio quella tecnica che richiede il grado dell’intensità di capitale compatibile con la soluzione del problema di Harrod-Domar.
y = s/v
pzyP +=
=L
Kfy
K/L
(K/L)*
1
La teoria della funzione di produzione aggregata, la soluzione al
problema di Harrod e Domar e gli effetti del progresso tecnico
esogeno e diffuso.
2
La teoria della funzione di produzione aggregata in forma statica
• La teoria della funzione aggregata (FDA) postula che il processo produttivo possa
essere rappresentato mediante la combinazione più efficiente tra i fattori produttivi
capitale e lavoro (dotati di un certo grado di sostituibilità) e lo stato delle conoscenze
tecnologiche. Assumendo la funzione suggerita da Cobb e Douglas si avrà:
Y = f (K,L,T) = T KααααLββββ
• Supponiamo, inizialmente, che non vi sia progresso tecnico ponendo T = 1
• La FDA possiede le seguenti caratteristiche:
• ha una elasticità di sostituzione unitaria;
• appartiene alla classe delle funzioni omogenee;
• le elasticità parziali dei fattori sono costanti;
• la somma delle elasticità parziali indica i rendimenti di scala:
• α + βα + βα + βα + β = 1 ⇔⇔⇔⇔ r. costanti
• α + βα + βα + βα + β > 1 ⇔⇔⇔⇔ r. crescenti
• α + βα + βα + βα + β < 1 ⇔⇔⇔⇔ r. decrescenti.
3
• Se i rendimenti sono costanti, la FDA assume la forma:
Y = f (K , L ,1111 ) = KααααL1111−−−−αααα
• Sfruttando la proprietà delle funzioni omogenee e ponendo il fattore moltiplicativo
j = 1/L si potrà passare alla corrispondente forma “intensiva”:
Y 1/L = KaL1-a1/L = (K/L)a = f (K/L ) = Z
• Nella forma intensiva statica, il prodotto per addetto diviene pertanto una funzione
del grado dell’intensità di capitale (K/L)
• Pertanto, con una funzione di produzione Cobb-Douglas e in assenza di progresso
tecnico, il prodotto per addetto aumenta all’aumentare del grado dell’intensità di
capitale.
La funzione di produzione aggregata in forma intensiva statica
4
Z
K/L
α
=
t
tt
L
KZ
Con la funzione di produzione Cobb-Douglas in forma intensiva il prodotto per addetto
aumenta all’aumentare del grado dell’intensità di capitale.
5
Con la funzione di produzione aggregata in forma intensiva, il rapporto tra il prodotto per addetto e il grado dell’intensità di capitale è il reciproco del coefficiente capitale prodotto, che varierà inversamente al variare
del grado dell’intensità di capitale:
Z
K/L
Z’
(K/L)’
1/v’
Z’’
1/v’’
Prodotto per addetto e coefficiente capitale prodotto
6
Con una funzione di produzione di tipo Cobb-Douglas in forma intensiva, il coefficiente capitale prodotto,
diversamente da quanto ipotizzato da Harrod e Domar, varia al variare del grado dell’intensità di capitale.
1/v
K/L
Come varia il coefficiente capitale prodotto
7
Ora, dal momento che nelle teorie di Harrod e Domar il tasso di crescita del reddito è dato dal rapporto tra la
propensione media e marginale al risparmio e il coefficiente capitale prodotto, con una funzione di
produzione di tipo Cobb-Douglas in forma intensiva, il tasso di crescita del reddito varierà al variare del
grado dell’intensità di capitale. Pertanto, noto il tasso di crescita del reddito potenziale, si avrà che:
1/v, s/v
K/L
La soluzione del problema di Harrod e Domar
y = s/v 1/v
yP = z + l
Dinamica di transizione verso il grado dell’intensità di
capitale che corrisponde alla piena occupazione
y
(K/L)*
8
• Poiché il grado dell’intensità di capitale è proporzionale al prodotto per
addetto (K/L = v Z) e al reddito pro capite (v Z = v/q R), il sistema economico,
nella misura in cui può essere rappresentato da una funzione di produzione
aggregata (avente le opportune caratteristiche), diversamente da quanto
ipotizzato nei modelli tipo Harrod e Domar, possiede un meccanismo di
aggiustamento spontaneo basato sul sistema dei prezzi (ivi compresi i prezzi
dei fattori produttivi) che farà sì che il suo tasso di crescita del reddito tenderà
ad approssimarsi a quella di piena occupazione.
• Vediamo ora che cosa accade quando si consideri esplicitamente la presenza
del progresso tecnico.
La soluzione del problema di Harrod e Domar
9
Yt = f (Kt ,Lt ,ΤΤΤΤt ) = Tt KtααααLt
ββββ
• Nei tassi di crescita, e in assenza di progresso tecnico diviene:
Yt = KtααααLt
β β β β = Y0 eyt = K0 e
ααααktL0 eββββlt = Y0 e
(ααααk+ββββl)t
• In questa relazione si riconosce agevolmente all’esponente del fattore e il tasso di crescita del reddito:
y = ααααk + ββββl
• Da quest’ultima relazione e nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti si ottiene altrettanto agevolmente l’espressione del tasso di crescita della produttività:
y – l = ααααk + ((((1111−−−−αααα)l = αααα ((((k−−−−l) = z
• Sotto le ipotesi assunte (forma Cobb-Douglas della funzione di produzione, rendimenti di scala costanti e assenza del progresso tecnico) la produttività del lavoro crescerà pertanto al tasso:
z = αααα ((((k−−−−l)
La funzione di produzione aggregata in forma dinamica (in assenza di progresso tecnico)
10
In assenza di progresso tecnico, la funzione di produzione Cobb-Douglas intensiva e dinamica si potrà quindi
rappresentare graficamente come una retta uscente dall’origine degli assi e con una pendenza pari
all’elasticità parziale del capitale. In questo caso, il prodotto per addetto potrà crescere (il suo tasso di
crescita sarà positivo) solo se il grado dell’intensità di capitale aumenta.
z
k - l
La rappresentazione grafica della funzione di produzione aggregata in forma dinamica
(in assenza di progresso tecnico)
z = α (k-l)
11
La funzione di produzione aggregata in presenza di progresso tecnico
• Assumiamo, innanzitutto, che le
innovazioni siano esogene, diffuse e che
diano luogo ad un flusso continuo,
rappresentabile, come sappiamo, dalla
relazione:
• Assumiamo, inoltre, che la funzione di
produzione sia di tipo Cobb-Douglas a
rendimenti di scala costanti e che il
progresso tecnico sia esogeno, diffuso e
accrescitivo di entrambi i fattori. La
funzione di produzione assumerà la
seguente forma:
• Espressa nei tassi di crescita questa
relazione diviene:
( )t
t τ+Τ=Τ 10
( ) ( )tttt
E
t
E
tt LBKAfLKfY ,, ==
( ) ( ) ( )( )lbkalkyEE +−++=−+= αααα 11
12
La funzione di produzione aggregata in presenza di progresso tecnico
• Per prima cosa osserviamo che,
espressa in questi termini, la
produzione potrà crescere anche
quando i fattori produttivi non
crescessero.
• Svolgendo i prodotti e operate le
opportune manipolazioni otteniamo:
• Dalla quale otteniamo agevolmente
la corrispondente espressione del
tasso di crescita della produttività:
• Il primo termine rappresenta il
contributo imputabile alla dinamica
del capitale per addetto e il secondo
il contributo del progresso tecnico
• Notiamo infine che qualora il
progresso tecnico fosse accrescitivo
di entrambi i fattori produttivi nello
stesso identico modo (per cui a = b) si
avrebbe che:
( ) ( ) bbalkz +−+−= αα
( ) ( ) lbbalky ++−+−= αα
( ) blkz +−= α
13
• La TFP è ciò che resta della crescita della
produttività al netto del contributo dei
fattori produttivi, nel nostro caso si avrà
che:
• Qualora, quindi, il processo produttivo
fosse rappresentabile mediante una
funzione di produzione aggregata avente
le opportune caratteristiche, la TFP
verrebbe a coincidere con il tasso di
crescita del progresso tecnico.
• Osserviamo ora che il progresso tecnico
neutrale nel senso di Hicks comporta che i
fattori produttivi crescano allo stesso
tasso: k = l. In tal caso si avrebbe che:
• Pertanto in condizioni di crescita
uniforme, ossia per y = k = l si avrebbe
che la sola possibilità che si verifichino
tutte le condizioni poste dalla teoria
comporterebbe l’assenza del progresso
tecnico!
( ) blkzTFP =−−= α
La Total Factor Productivity (TFP) e la neutralità del progresso tecnico nel senso di Hicks
( ) bkyzTFP =−==
14
• Accortosi di questa limitazione, Solow ha
dovuto convenire che la sola forma di
progresso tecnico compatibile con la sua
teoria è che le innovazioni siano neutrali
nel senso di Harrod.
• In tal caso, la funzione di produzione
aggregata assume la forma:
• Che, con una funzione di produzione
Cobb-Douglas a rendimenti crescenti il
tasso di crescita del reddito diviene:
• In tal caso, il tasso di crescita della
produttività sarà dato da:
• Ora, poiché in crescita quasi uniforme si
avrà che y = k diversi da l l’espressione del
tasso di crescita della produttività diviene:
• Dalla quale si ottiene agevolmente che il
tasso di crescita della produttività viene a
coincidere esattamente con il tasso di
crescita del progresso tecnico
( ) ( )ttt
E
ttt LBKfLKfY ,, ==
La Total Factor Productivity (TFP) e la neutralità del progresso tecnico nel senso di Harrod
( ) ( ) ( ) lblklbblky +−+−=++−−= αααα 1
( ) ( )αα −+−= 1blkz
( ) ( )αα −+−==−=
1)(
blyzzly
15
La Total Factor Productivity (TFP) e la neutralità del progresso tecnico
• In conclusione, la sola forma di progresso tecnico compatibile con le ipotesi
tradizionalmente assunte dalla teoria della funzione di produzione aggregata e
dall’ipotesi che la crescita avvenga in maniera quasi uniforme è che le innovazioni siano
esogene, diffuse, accrescitive del solo lavoro e neutrali nel senso di Harrod.
• Per comprendere le ragioni per le quali questa teoria possiede tuttora un certo seguito
occorre considerare che lo stesso Solow è riuscito a dimostrare che sotto certe ipotesi, le
elasticità parziali della funzione di produzione verrebbero a coincidere con le quote
distributive, per cui, nel caso di rendimenti costanti basterebbe conoscere la quota di
reddito che va ad uno dei fattori produttivi e il tasso di crescita del capitale per addetto
per poter operare la scomposizione del tasso di crescita del reddito (e/o del tasso di
crescita della produttività) nelle sue componenti, ottenendo per differenza il contributo
apportato dal progresso tecnico.
16
A parità di grado dell’intensità di capitale, la presenza di progresso tecnico esogeno, diffuso e accrescitivo
del solo lavoro (vale a dire neutrale nel senso di Harrod), provoca uno spostamento verso l’alto della
funzione di produzione aggregata.
Z
K/L(K/L)’
α
=
t
tt
L
KZ
αα
−
= 1
BL
KZ
t
tt
Zspt
Zconpt
Effetto imputabile
al p.t.
Gli effetti del progresso tecnico sul livello della produttività
17
In condizioni di crescita quasi uniforme (vale a dire per y=k>l), il coefficiente capitale prodotto rimane immutato.
Con riguardo a due distinte situazioni di crescita quasi uniforme, una in assenza e l’altra in presenza di progresso,
tecnico il prodotto per addetto aumenta: in parte, per effetto dell’aumento del grado dell’intensità di capitale (lo
spostamento lungo la curva) e in parte per effetto del progresso tecnico(lo spostamento della curva) .
Z
K/L(K/L)’
α
=
t
tt
L
KZ
αα
−
= 1
BL
KZ
t
tt
Effetto imputabile al p.t.
Effetto imputabile all’aumento
di K/L
(K/L)’’
1/v
Gli effetti del progresso tecnico sul livello della produttività
18
In presenza di progresso tecnico (esogeno, diffuso e accrescitivo del solo lavoro, vale a dire neutrale nel senso di
Harrod), la funzione di produzione Cobb-Douglas intensiva e dinamica, si potrà rappresentare sempre come una
retta avente la stessa pendenza, ma con un’intercetta positiva, pari al prodotto tra la quota di reddito destinata al
lavoro e il tasso di crescita del progresso tecnico. A parità del grado dell’intensità di capitale, la presenza del
progresso tecnico farà quindi aumentare il tasso di crescita del prodotto per addetto.
z
k - l
( )bα−1
( )lkz −=α
( ) ( )blkz αα −+−= 1
Senza p.t.
Con p.t.
Effetto del p.t.
Gli effetti del progresso tecnico sulla crescita della produttività
19
La funzione di produzione Cobb-Douglas è compatibile con il progresso tecnico neutrale sia nel senso di
Hicks, sia in quello di Harrod. Solo quest’ultima forma, però, è compatibile con la (quasi) crescita
uniforme. Se il progresso tecnico è neutrale nel senso di Harrod e in condizione di crescita quasi-uniforme,
il prodotto per addetto crescerà ad un tasso esattamente uguale al tasso di crescita del progresso tecnico.
z
k - l
( )bα−1
( ) ( )blkz αα −+−= 1
y = k
45°
b
(k - l)*
La crescita della produttività con il progresso tecnico neutrale nel senso di Harrod
20
In conclusione:
• se si ritiene accettabile l’ipotesi che il processo produttivo possa essere
rappresentato mediante una funzione di produzione aggregata, omogenea e con
rendimenti di scala costanti;
• se la funzione di produzione aggregata è una Cobb-Douglas;
• se il progresso tecnico è totalmente esogeno, diffuso e neutrale nel senso di
Harrod;
• se si accetta l’interpretazione economica in base alla quale le elasticità costanti
della funzione di produzione Cobb-Douglas rappresentano le quote distributive;
•allora (e solo allora) il prodotto per addetto crescerà, in condizioni di quasi
crescita uniforme, allo stesso tasso di crescita del progresso tecnico. Quest’ultimo
misurerà nel contempo anche la TFP.
21
s/v
yn
(K/L)L K/L (K/L)F
yF
yL
(K/L)*
yn=b+p
y=s/v
Una implicazione della teoria di Solow: l’ipotesi della convergenza “assoluta”: tutti i paesi convergono allo
stesso tasso di crescita quasi uniforme e allo stesso grado dell’intensità di capitale [(K/L)F e (K/L)L indicano
rispettivamente il grado dell’intensità di capitale di un paese follower e quello del paese leader.
Due possibili implicazioni: ’ipotesi della convergenza “assoluta”
22
s/v
(K/L)* K/L (K/L)**
yn
(s/v)L
(s/v)F
yn=b+p
Una seconda implicazione della teoria di Solow: l’ipotesi della convergenza “condizionale”: due paesi con diversa
propensione al risparmio tendono allo stesso tasso di crescita, ma con due diversi gradi di intensità di capitale.
L’ipotesi della convergenza “condizionale”
NICHOLAS KALDOR (1908-1986) E LE TEORIE DELLA CRESCITA E DELLO SVILUPPO
ECONOMICO
1 - LE TEORIE DELLA CRESCITA UNIFORME
• prima fase . I lavori di Kaldor pubblicati tra il 1938 e il 19 57 riguardano
essenzialmente il problema dell’instabilità ciclica .
• seconda fase . Nei lavori pubblicati tra il 1957 ed il 1964, l’ attenzione di
Kaldor è stata attratta dalle teorie della crescita uniforme.
• terza fase . Dopo il 1964 si è dedicato alla elaborazione di u na teoria
sulle differenze internazionali (e regionali) tra i tassi di crescita.
I “FATTI STILIZZATI” DELLA CRESCITA
1.una crescita continua e regolare sia del reddito che del prodotto per addetto;2.una crescita continua del grado dell’intensità ca pitalistica;3.una relativa costanza del tasso di profitto;4.una relativa costanza del rapporto capitale/prodo tto;5.una relativa costanza della quota degli investime nti sul reddito; ciò, unitamente
ad una correlazione tra quest’ultima e la quota dei profitti sul reddito e ad una relativa costanza nella distribuzione del reddito t ra profitti e salari;
6.l’esistenza di sensibili e persistenti differenze tra i tassi di crescita del reddito e del prodotto per addetto.
Alcuni di questi “fatti stilizzati” sono tra loro c ollegati (nel senso che se il coefficiente capitale/prodotto è costante anche la quota dei profitti sul reddito lo
sarà; se le quote distributive sono costanti, anche il tasso di profitto lo sarà e così via).
LA SOLUZIONE KALDORIANA AL PROBLEMA DI HARROD-DOMAR
Π+= πsWsS w
( )44 344 21
redditosulrisparmiodelquota
www Ysss
Ys
Y
Wss
−−−
Π−+=Π+= ππ
yvyICORY
Y
Y
K
Y
K
Y
I
redditosultoinvestimendellquota
==∆∆∆=∆=
−−
321'
La funzione kaldoriana del risparmio
La propensione al risparmio dipende dalla distribuzione del reddito
La quota dell’investimento, uguale a quella del risparmio è uguale al tasso di crescita del
reddito per il coefficiente capitale prodotto
( )Y
ssvv
sy w
w Π−+= π1
( ) ( )44 344 21
redditodelcrescitaditasso
ww
ww ss
v
s
YK
Yss
v
sy
−−−−
−+=Π−+= πππ
LA SOLUZIONE KALDORIANA AL PROBLEMA DI HARROD-DOMAR - segue
Il tasso di crescita del reddito viene a dipendere dalla distribuzione
Il tasso di crescita del reddito viene a dipendere dal tasso di profitto
pzlzyn +=+= ** Il tasso di crescita potenziale
LA SOLUZIONE KALDORIANA AL PROBLEMA DI HARROD-DOMAR - segue
( )
=
+=
−+=
n
n
ww
yy
pzy
ssv
sy
*
ππ
−−
=v
sy
sswn
wππ 1* Il tasso di profitto compatibile con la crescita
potenziale
Il modello di crescita kaldoriano basato sulla distribuzione del reddito
y,yn
ππππ (tasso d i profitto )
sw/v sπ-sw
yn= z*+ l
y= (s w/v)+ (sπ-sw)π
Il fatto che l’economia possa crescere al suo tasso potenziale dipenderà dall’esistenza di un tasso di profitto ad esso compatibile
La rappresentazione grafica della soluzione kaldori ana al problema di Harrod-Domar.
LA FUNZIONE KALDORIANA DEL PROGRESSO TECNICO
( )
( )43421
44 344 21
offertadelllatodalapproccio
andaddellalatodalapproccio
MA
LKfY
mmMAfY
'
om
,,
,,,
−−
−−−
Λ=
=
La visione kaldoriana del processo produttivo enfatizza il ruolo dei fattori da domanda
Per Kaldor il progresso tecnico è un fenomeno essen zialmente endogeno (per la presenza di “ learning-by-doing” ) e
incorporato nelle nuove macchine. L’introduzione de lle innovazioni nell’attività produttiva è inscindibile
dall’investimento
( ) {
fattorialtridic
oincorporattpdelc
zalkfz−−−−
+−=....
43421
( ) ( )32143421
.....
1tpdelcfdeic
blkz−−−−
−+−= αα Nella sua versione lineare e in condizioni di cresc ita uniforme,la funzione kaldoriana del progresso tecnico è indist inguibile
dalla funzione di produzione aggregata di tipo Cobb -Douglas in forma intensiva e dinamica, con rendimenti di scala costanti e
con progresso tecnico esogeno, diffuso e accresciti vo del solo lavoro.
IN CONCLUSIONE:
• Secondo Kaldor, il “problema di Harrod-Domar” può t rovare soluzione se, anziché considerare la propensione al risparmio una costante, la si consid eri come una variabile dipendente dalla distribuzione del reddito. Una crescita regolare (u niforme) dell’economia al suo tasso naturale, presuppone quindi che nel sistema economico si form i una “adeguata” distribuzione del reddito tra profitti e salari, vale a dire che il tasso di prof itto raggiunga il suo valore “ottimale”.
• Va in ogni caso sottolineato come lo stesso Kaldor abbia preso le distanze dalle teorie della crescita uniforme, ritenute in seguito del tutto inadeguate ad affrontare lo studio dei problemi dello sviluppo economico. In particolare, in uno dei suoi ultimi s critti, pubblicato lo stesso anno della sua morte (avvenuta nel 1986), Kaldor ha richiamato l’attenzi one sui motivi che lo avrebbero indotto ad abbandonare la teoria della crescita uniforme. Essi sono i seguenti:
• In primo luogo, sarebbe carente il fondamento micro economico dei meccanismi di formazione dei prezzi nei diversi settori produttivi (di concorren za in agricoltura e oligopolistico nel settore manifatturiero);
• Secondariamente, manca qualsiasi relazione di scamb io tra le diverse economie. Ciò fa attribuire un’eccessiva importanza ai vincoli derivanti dal la to dell’offerta dei fattori produttivi, a scapito d i quelli esistenti dal lato della domanda effettiva, con particolare riguardo ai vincoli connessi all’interscambio commerciale;
• In terzo luogo, i settori produttivi non esercitano sul processo di crescita il medesimo ruolo: in particolare, il settore manifatturiero, caratterizz ato dalla presenza di rendimenti di scala crescenti (sia statici che dinamici) assume il ruolo di “moto re dello sviluppo”;
• Infine, manca qualsiasi riferimento a quella che Ka ldor considera la caratteristica principale del processo di crescita: la sua natura circolare e cum ulativa. E’ a questa caratteristica, infatti, che andrebbe imputata la responsabilità della polarizza zione delle attività economiche nei poli industriali di “successo”.
• La maggior parte di queste ipotesi, da sole o in co mbinazione tra di loro, sono alla base delle moderne teorie della crescita.
2 - LE “LEGGI” DI KALDOR
manybay 00 +=
manman ybaz 11 +=
nmanman lblbaz 322 −+=
La crescita del reddito dipende dal tasso di crescita della produzione manifatturiera
Il tasso di crescita della produttività del settore manifatturiero è endogeno e dipende dal tasso di
crescita della produzione del settore manifatturiero, l’unico in cui i rendimenti di scal a
(statici e dinamici) sono crescenti. Il settore manifatturiero va quindi considerato il motore
dello sviluppo economico.
Il tasso di crescita della produttività dipende dal trasferimento dell’occupazione degli altri
settori verso il settore manifatturiero
LA CRESCITA CIRCOLARE E CUMULATIVA
xy α=
( )eixa ppxx −−= η
zwp ai −=
yzz a β+=
( )eaaxa pzwxy −−−= ηαα ''
xαβηαα
−=
1'
La crescita del reddito dipende dal tasso di crescita delle esportazioni
Il tasso di crescita delle esportazioni dipende dall’andamento dei prezzi
Il tasso di inflazione dipende dall’andamento dei s alari rispetto alla crescita della produttività
La crescita della produttività è endogena in base a lla legge di Verdoorn
La crescita del reddito dipende dal tasso di crescita delle
esportazioni e dalla loro competitività
La crescita circolare e cumulativa dipende dal coefficiente di Verdoorn
• In base a questa teoria, elaborata da Kaldor nel 19 70 e formalizzata da Dixon e Thirlwall nel 1975, le differenze internazio nali tra i tassi di crescita del reddito sarebbero imputabili:
• a) alle differenze nei tassi di crescita delle espo rtazioni; b) alla diversa dinamica dei prezzi;
• c) oppure a differenze nei valori dei parametri del le quattro relazioni che concorrono a formare il modello
• Si noti che qualora le esportazioni non fossero sen sibili ai prezzi, il secondo termine si annullerebbe, ed il moltiplicato re del primo termine diverrebbe uguale al super moltiplicatore di Hicks. Si noti, infine, che se il coefficiente di Verdoorn fosse uguale a zero il processo cumulativo verrebbe meno.
IN CONCLUSIONE:
3 - IL PROGRESSO TECNICO ENDOGENO E LA “LEGGE DI VER DOORN”
5,0YYZ ==
yz φ=
Nella sua formulazione originaria la legge di Verdo orn asserisce che la produttività del lavoro cresce in
funzione della radice quadrata del volume della produzione.
Passando dai livelli ai tassi di crescita, la legge di Verdoorn farebbe dipendere il tasso di crescita della produt tività del
lavoro unicamente dalla crescita del reddito. Poich é esistono altri fattori che influiscono su di essa, la forma più generale
comprenderà la presenza di una componente autonoma
{ {
fattorialtrilic
endogenotpdelc
zayz−−−−
+=deg....
φLa componente autonoma del tasso di
crescita della produttività del lavoro riflette il contributo imputabile ad altre forme di
progresso tecnico, unitamente ad altri fattori, quali le modificazioni strutturali, la maggiore
o minore attitudine delle imprese ad introdurre le innovazioni, le riorganizzazioni
del lavoro e così via.
LA “LEGGE DI VERDOORN” E LA DISOCCUPAZIONE TECNOLOGI CA
La “legge di Verdoorn” è suscettibile di un’interes sante applicazione: essa consente di fornire un’accettabi le spiegazione del fenomeno della “disoccupazione tecnologica”.
zayly +=− φ
{ {
fattorialtrilic
endogenotpdelc
zayz−−−−
+=deg....
φ
zayyzayl −−=−+= )1( φφ
Sapendo che il tasso di crescita della produttività del lavoro è(approssimativamente) uguale alla differenza tra il tasso di crescita del reddito e il tasso di crescita dell’oc cupazione dalla relazione precedente si ottiene agevolmente il tass o di crescitadell’occupazione.
Da questa relazione si deduce che affinché l’occupa zione possa crescere occorre che il reddito cresca ad un tasso tale da più che compensare gli effetti sull’occupazione del progres so tecnico
φ−=
1min
zay
Dalla relazione precedente si ricava agevolmente l’ espressione del tasso di crescita minimo della produzione che c onsentirebbe all’economia di assorbire la disoccupazione tecnolog ica: quel tasso cioè in corrispondenza del quale il tasso di crescita dell’occupazione fosse uguale a zero.
Le differenze internazionali tra i tassi di crescita. Fatti e teorie.
Bruno Soro
26 novembre 2010
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
La meccanica dello sviluppo economico secondo il Premio Nobel Robert Lucas
“Per problema dello sviluppo economico intendo semplicemente la
contabilizzazione del pattern osservato, tra i paesi e nel tempo, dei livelli e dei tassi di crescita del reddito pro capite”.
R. Lucas (1988), On the Mechanics of Economic Development.
�Temi sottaciuti:
L’esistenza di nessi tra sviluppo economico e andamento demografico
L’inscindibilità dello sviluppo economico con le modificazioni strutturali
L’esistenza di approcci alternativi (Sen e l’approccio della povertà)
Il divario economico in termini di reddito pro capite
� Il divario assoluto è la differenza tra il reddito pro capite del paese
leader e quello di un paese follower;
� Il divario relativo è il (complemento ad uno del) rapporto tra il reddito
pro capite del paese follower e quello del paese leader.
� Affinché il divario economico (sia assoluto che relativo) possa ridursi
occorre che il reddito pro capite del paese follower cresca più
velocemente di quello del paese leader. occorre cioè che vi sia una
differenza positiva, a vantaggio del paese follower, tra i tassi di
crescita del reddito pro capite.
L’evoluzione dei divari nella seconda metà del Novecento
Fonte: Maddison 2001
DIVARI RELATIVI NEI PAESI EUROPEI
-0 ,2
0
0 ,2
0 ,4
0 ,6
0 ,8
1
1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000
Austria
Belg io
Danimarca
Finland ia
Francia
Germania
Italia
Olanda
Norveg ia
Svezia
Svizzera
UK
Irlanda
Grecia
Portogallo
Spagna
DIVARI RELATIVI - PAESI D'OLTRE OCEANO
0
0 ,05
0,1
0 ,15
0,2
0 ,25
0,3
0 ,35
0,4
0 ,45
0,5
1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000
Australia
Nuova Zelanda
Canada
DIVARI RELATIVI IN ALCUNI PAESI DELL'AMERICA LATINA
0
0 ,1
0 ,2
0 ,3
0 ,4
0 ,5
0 ,6
0 ,7
0 ,8
0 ,9
1
1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000
Argentina
Brazil
Chile
Co lomb ia
Mexico
Peru
Uruguay
Venezuela
DIVARI RELATIVI IN ALCUNI PAESI ASIATICI
0
0 ,2
0 ,4
0 ,6
0 ,8
1
1 ,2
1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000
China
Ind ia
Indones ia
Japan
Philipp ines
South Corea
Thailand
Taiwan
Hong Kong
Singapore
DIVARI RELATIVI PER GRANDI AREE GEOGRAFICHE
0
0,1
0 ,2
0 ,3
0 ,4
0 ,5
0 ,6
0 ,7
0 ,8
0 ,9
1
1950 1960 1970 1980 1990 2000
16 Paesi Europei
7 Paesi Europa dell'Est
3 Paesi d 'Oltre Oceano
8 Paesi American Lat ina
16 Paesi As iat ici ex. Japan
Japan
57 Paesi Africani
Il regime di doppia convergenza Il regime di doppia convergenza
TempoTempo
75 %75 %
50 %50 %
25 %25 %
LeaderLeader
a a -- convergenticonvergenti
b b --convergenticonvergenti
I tre filoni principali delle teorie della crescita economica
L’approccio
formale
L’approccio
valutativo
Gli approcci
eterodossi
Solow
e la crescita
esogena
Romer - Lucas
e la crescita
endogena
Maddison
e la contabilità
della crescita
Abramovitz
e la teoria
del catching up
North
e il ruolo delle
istituzioni
Nelson - Winter
e la teoria
evoluzionistica
Kaldor - Thirlwall
e il vincolo dei
conti con l’estero
Georgescu-Roegen
e la bioeconomia
Latouche
e la teoria della
decrescita
Formal Formal TheorisingTheorising
�� L’approccio neoclassico tradizionale L’approccio neoclassico tradizionale
�� La nuova teoria della crescita endogena La nuova teoria della crescita endogena
�� La ‘La ‘ Twin Peaks Dynamic DistributionTwin Peaks Dynamic Distribution’ ’
Le teorieLe teorie
�� La teoria del La teoria del CatchingCatching UpUp
�� La Contabilità della crescitaLa Contabilità della crescitaAppreciative Appreciative TheorisingTheorising
�� La teoria istituzionalisticaLa teoria istituzionalistica
�� Le teorie eterodosseLe teorie eterodosse
� potenziale di crescita di ciascun paese
- effetto di obsolescenza
� capacità di realizzazione del potenziale
- grado di intensità capitalistica
- trasformazioni strutturali
- effetti endogeni della crescita
- fattore esterno
- congruenza tecnologica
- capacità sociale
La teoria del catching up (Abramovitz)
Ciascun paese può crescere a un tasso diverso. La possibilità di
raggiungere il paese leader dipende da
La contabilità della crescita (Maddison)
�� contributi dei fattori produttivi alla crescitacontributi dei fattori produttivi alla crescita
�� contributo ‘residuo’ di altri fattoricontributo ‘residuo’ di altri fattori
-- fattori sistematicifattori sistematici
-- fattori ad hocfattori ad hoc
-- effetti ciclicieffetti ciclici
Ciascun paese può crescere a un tasso diverso. La possibilità diCiascun paese può crescere a un tasso diverso. La possibilità di
raggiungere il paese leader dipende daraggiungere il paese leader dipende da
La teoria istituzionalistica (North)
�� dall’esistenza (o dalla predisposizione) di adeguate
istituzioni;
�� da quanto ciascun paese è disposto ad investire in
conoscenza (capitale umano).
Ciascun paese può crescere a un tasso diverso. La possibilità diCiascun paese può crescere a un tasso diverso. La possibilità di
raggiungere il paese leader dipende:raggiungere il paese leader dipende:
�� La Contabilità della crescitaLa Contabilità della crescita
�� La teoria del Catching UpLa teoria del Catching Up
Appreciative Appreciative TheorisingTheorising
�� L’approccio neoclassico tradizionale L’approccio neoclassico tradizionale
�� La nuova teoria della crescita endogena La nuova teoria della crescita endogena
�� La ‘Twin La ‘Twin PeaksPeaksDynamicDynamic Distribution’Distribution’
Le teorie
Formal Formal TheorisingTheorising
�� La teoria istituzionalisticaLa teoria istituzionalistica
�� Le teorie eterodosseLe teorie eterodosse
Approccio neoclassico tradizionale (Solow, Barro, Sala-i-Martin)
� Tutti i paesi convergono verso il medesimo tasso di crescita
naturale (ipotesi della convergenza assoluta di Solow).
� Tutti i paesi che sono uguali nelle caratteristiche strutturali convergono verso il medesimo tasso di crescita naturale (ipotesidella convergenza relativa forte).
� Tutti i paesi che sono uguali nelle caratteristiche strutturali e che si trovano nelle stesse condizioni iniziali convergono verso il medesimo tasso di crescita naturale (ipotesi della convergenza relativa debole).
Nuova teoria della crescita endogena (Romer, Lucas)
Ciascun paese ha un proprio tasso di crescita di steady state.
Questo tasso di crescita è determinato da
� alcuni parametri strutturali
� la condizione iniziale
- dai rendimenti di scala decrescenti- dalla presenza di esternalità- dalla varietà di beni intermedi
- dalla diversità dei gusti
- la dotazione di capitale umano
- le conoscenze tecnologiche
, il valore dei quali dipende:
, che riflette
Twin Picks Dynamic Distribution (Galor, Quah)
La distribuzione dei paesi in base al reddito pro capite in due
gruppi distinti dipende da alcuni requisiti che determinano
l’appartenenza all’uno oppure all’altro club.
� ampiezza delle barriere all’ingresso
� imperfezione dei mercati dei capitali
� eterogeneità dei mercati
� dimensione dei mercati
La teoria evoluzionistica (Verspagen)
Il mercato globale è dominato dalla competizione attraverso
l’innovazione tecnologica.
�� Il progresso tecnico provoca un processo di
“distruzione creatrice”, che seleziona le imprese
migliori;
�� La crescita di un’economia dipende dalla rapidità con
cui si diffondono le nuove tecnologie.
La teoria post-keynesiana (Kaldor-Thirlwall)
Il settore manifatturiero è “il motore dello sviluppo
economico”.
� La crescita di un’economia dipende dalla crescita
della domanda (sia interna che internazionale) rivolta
al settore manifatturiero;
� In un’economia aperta il tasso di crescita del reddito è
vincolato dalla necessità di mantenere in equilibrio i
conti con l’estero.
Conclusione sulle teorie della crescita
� Non esiste una teoria generale: esistono teorie in competizione
tra di loro (alcune alternative, altre complementari);
� Non esiste una teoria superiore alle altre: ciascuna teoria è
valida in relazione alle ipotesi sulle quali è costruita.
Le differenze internazionali tra i tassi di crescita. Fatti e teorie.
Bruno Soro
26 novembre 2010
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTÀ DI ECONO MIA CORSO DI ECONOMIA DELLO SVILUPPO
1
LA TEORIA DELLA CRESCITA
VINCOLATA DAL COMMERCIO CON L’ESTERO
La teoria della crescita vincolata dal commercio con l’estero, elaborata da A.P. Thirlwall nel 1978,
trova la sua origine nella teoria kaldoriana sulle differenze internazionali tra i tassi di crescita. Tuttavia, rispetto a quest’ultima, quanto meno avendo riguardo alla sua formalizzazione operata
dallo stesso Thirlwall (in collaborazione con Dixon) nel 1975, vi sono alcune sostanziali innovazioni. Nella teoria della crescita vincolata dal commercio con l’estero si prescinde, infatti,
dalla natura circolare e cumulativa del processo di crescita (una delle caratteristiche della teoria di Kaldor) e viene introdotto, accanto al ruolo delle esportazioni anche quello delle importazioni (che
nella teoria kaldoriana non giocavano alcun ruolo). La teoria di Thirlwall, infatti, è incentrata sull’equilibrio della bilancia dei pagamenti e sulla necessità che tale equilibrio debba essere
mantenuto nel corso del tempo. Partendo dall’ipotesi che nessuna economia riesca a sostenere per lungo tempo uno squilibrio della propria bilancia commerciale, questa teoria suggerisce che la
crescita di un paese (e conseguentemente anche quella delle importazioni di cui l’economia stessa necessita), debba necessariamente adeguarsi alla sua capacità di esportare.
I presupposti. Sappiamo dalla macroeconomia che il saldo della bilancia dei pagamenti si ottiene sommando tra di loro il saldo delle partite correnti e quello dei movimenti di capitali. Sappiamo inoltre, che, a parità di prezzi, il saldo delle partite correnti (identificato con quello della bilancia commerciale che ne costituisce la parte prevalente), dipende essenzialmente dal reddito, mentre il saldo dei movimenti di capitali dipende dalla differenza tra il tasso d’interesse interno e quello estero. Poiché, in un contesto di libertà di movimento dei capitali, i tassi di interesse tenderanno a divenire uguali, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti verrà a dipendere esclusivamente dall’equilibrio della bilancia commerciale.
321321
niimportaziodellevalore
mtt
niesportaziodellevalore
xtt PMPX
−−
=
{ {{
scambiodiragione
xt
mt
realiiterinniimportazio
t
realiiterinniesportazio
tP
PMX
−−−−
−
=
minmin
� Supponiamo, per semplicità, che il tasso di cambio
Euro/Dollaro sia unitario e che si mantenga stabile nel tempo. Ciò equivale, di fatto, a considerare un regime di cambi fissi e l’esistenza di una moneta unica.
� A partire da una iniziale situazione di equilibrio, affinché la bilancia commerciale possa mantenersi in pareggio, occorre che il valore delle esportazioni eguagli quello delle importazioni. La relazione riportata a lato rappresenta quindi la condizione che deve essere rispettata affinché i conti con l’estero si mantengano in equilibrio nel corso del tempo. [Si ponga attenzione al fatto, meglio evidenziato isolando le esportazioni in termini reali, che queste ultime dovranno essere in grado di coprire sia le importazioni in termini reali che un’eventuale modificazione nella ragione di scambio (espressa dal rapporto tra l’indice dei prezzi dei prodotto importati e quello dei prodotti esportati).
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTÀ DI ECONO MIA CORSO DI ECONOMIA DELLO SVILUPPO
2
xm ppmx −+=
M
xt
mt
txt
mt
tP
PY
P
PYfM
ηπ
=
=
−+,
( )X
mt
xtRM
tmt
xtRM
tP
PY
P
PYfX
ηε
=
=
−+
,
� Analizziamo un po’ più in dettaglio il significato
della ragione di scambio. Supponiamo che sia le importazioni che le esportazioni riguardino un solo bene (siano, rispettivamente, petrolio e abiti). Ora, un aumento del prezzo del petrolio comporterà, a parità di quello degli abiti, un aumento della ragione di scambio e quindi un aumento del secondo termine dell’uguaglianza. Al fine di mantenere l’equilibrio dei conti con l’estero occorrerà quindi compensare tale aumento con un aumento corrispondente delle esportazioni in termini reali.
� Supponendo ora che tutte le variabili crescano nel
tempo ad un tasso costante (e rammentando la regola dei tassi di crescita delle variabili moltiplicative), possiamo esprimere la condizione di equilibrio della bilancia dei pagamenti nei tassi di crescita, come nella relazione riportata a lato. Essa evidenzia che, affinché l’equilibrio dei conti con l’estero possa essere mantenuto nel corso del tempo, le esportazioni in termini reali dovranno crescere ad un tasso tale da compensare sia la dinamica delle importazioni in termini reali, sia quella della ragione di scambio.
� Si assuma ora che le importazioni reali dipendano
(positivamente) dal reddito interno, e (negativamente) dal loro prezzo relativo (e quindi dalla ragione di scambio). Si assuma, inoltre, che la funzione abbia una forma moltiplicativa, nella quale gli esponenti rappresentano, rispettivamente, l’elasticità parziale delle importazioni rispetto al reddito (interno) e l’elasticità parziale (negativa) rispetto alla ragione di scambio.
� Poiché le esportazioni di un paese verso il resto del
mondo sono le importazioni del resto del mondo da quel paese, si assuma che anche le esportazioni reali dipendano (positivamente) del reddito del resto del mondo e (negativamente) dal loro prezzo relativo (e quindi dal reciproco della ragione di scambio), e che la forma di questa funzione sia moltiplicativa. In essa, gli esponenti rappresenteranno, rispettivamente, l’elasticità parziale delle esportazioni rispetto al reddito (estero) e l’elasticità parziale (negativa) rispetto alla ragione di scambio.
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTÀ DI ECONO MIA CORSO DI ECONOMIA DELLO SVILUPPO
3
( ) eyppym mxm
m ηπηπ +=−+=
( ) eyppwx xRMmx
x ηεηε −=−+=
{
scambiodiragionedella
crescitaditasso
niimportaziodellecrescitaditasso
niesportaziodellecrescitaditasso
xRM eeyey
m
−−−−
−−−
−−−
++=−4342143421
ηπηε
( )
eyy mxRMB π
ηηπε ++−= 1
( ) ( )mxmxRM
B ppyy −−−+=π
ηηπε 1
� Assumiamo ora che tutte le variabili
crescano a tassi positivi e costanti, per cui (sempre rammentando le regole per il passaggio dalla forma nei livelli a quella nei tassi di crescita) i tassi di crescita delle importazioni e delle esportazioni in termini reali si potranno esprimere nella forma riportata a lato, nella quale si è
indicato con la lettera ( )xm ppe −= il tasso di crescita della ragione di scambio
e con ( )mx ppe −=− il suo reciproco. � Sostituendo queste due espressioni nella
condizione di equilibrio dinamico e risolvendo quest’ultima rispetto al tasso di crescita del reddito, si otterrà il valore di quell’unico tasso di crescita del reddito compatibile con il mantenimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti, vale a dire il tasso di crescita del reddito vincolato (yB).
� Questo tasso di crescita ha un preciso significato: esso sta ad indicare che qualora un’economia crescesse ad un tasso superiore (inferiore) essa andrebbe incontro ad un disavanzo (avanzo) della bilancia commerciale. Una situazione che non potrà essere sostenuta per lungo tempo.
� Rammentando che le elasticità parziali rispetto ai prezzi hanno segno negativo, e
che ( )mx ppe −=− , nell’espressione che definisce il tasso di crescita del reddito vincolato si possono individuare due distinte componenti.
� La prima, il cui valore è dato dal prodotto tra il rapporto tra le elasticità di reddito (il cosiddetto moltiplicatore dinamico del commercio estero di Harrod) e il tasso di crescita del reddito del resto del mondo, starebbe ad indicare l’effetto imputabile alla dinamica dell’economia mondiale.
� La seconda, indicherebbe invece l’effetto imputabile alla dinamica della ragione di scambio.
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4
ππε x
wyB ==
� Esaminiamo ora con maggiore attenzione questa
seconda componente. In essa si riconosce al numeratore, la cosiddetta condizione di Marshall-Lerner, vale a dire la condizione che deve essere rispettata affinché una svalutazione del tasso di cambio possa essere efficace [essa prevede che la somma delle elasticità di prezzo debba eccedere, in valore assoluto, l’unità]. Nel nostro caso, poiché abbiamo ipotizzato tassi di cambio fissi, tale condizione in rapporto all’elasticità di reddito delle importazioni, misura (se soddisfatta) unicamente l’impatto sul tasso di crescita del reddito vincolato riconducibile alla dinamica della ragione di scambio. Si noti, per inciso, come nel caso di una elasticità di prezzo delle importazioni molto piccola (come quella dei prodotti petroliferi) e un’elasticità di prezzo delle esportazioni maggiore di uno (come presumibilmente quella degli abiti), un tasso di crescita dei prezzi dei prodotti esportati superiore a quello dei prodotti importati avrebbe un effetto negativo sul tasso di crescita vincolato.
� Si noti, infine, come, nell’espressione che definisce il tasso di crescita del reddito vincolato dai conti con l’estero, il secondo termine divenga nullo in due casi: quando la ragione di scambio si mantenesse costante; quando non fosse soddisfatta la condizione di Marhall-Lerner (vale a dire quando la somma delle elasticità di prezzo fosse uguale a uno). In entrambi i casi, il tasso di crescita vincolato dall’equilibrio della bilancia dei pagamenti si ridurrebbe alla cosiddetta “legge” di Thirlwall.
� Secondo questa “legge”, poiché nel lungo periodo la ragione di scambio sembrerebbe mantenersi costante, nessun paese potrà crescere per lungo tempo ad un tasso superiore a quello vincolato, vale a dire, ad un tasso pari al rapporto tra il tasso di crescita delle sue esportazioni e l’elasticità di reddito delle sue importazioni.
� Posto che valga la “legge” di Thirlwall, le differenze internazionali tra i tassi di crescita del reddito andrebbero imputate principalmente all’esistenza di differenze nei valori delle elasticità di reddito delle esportazioni e/o delle importazioni (che si rifletterebbero sul loro rapporto, noto come moltiplicatore dinamico del commercio estero di Harrod.
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTÀ DI ECONO MIA CORSO DI ECONOMIA DELLO SVILUPPO
5
UNA POSSIBILE APPLICAZIONE DELLA TEAORIA DI THIRWAL L ALLA
SPIEGAZIONE DELLE DIFFERENZE INTERNAZIONALI TRA I T ASSI DI CRESCITA.
( ) ( ) 0>−−−=− llfflf pypyrr
lflf ppyy −>−
{ {
( ) lflf
leaderdelniesportazio
dellecrescita
l
followerdelniesportazio
dellecrescita
flB
fB
ppw
wwyy
−>−=
=−=−
−−
−−
γγ
γγ
� In sintesi, in base alla teoria di Thirlwall, se è
possibile, nel breve periodo, fronteggiare uno squilibrio di parte corrente della bilancia dei pagamenti con un saldo positivo nei movimenti di capitali, nel lungo periodo il tasso di crescita effettivo (il trend) di ciascuna economia tenderà ad approssimarsi al tasso di crescita delle sue esportazioni in rapporto alla elasticità di reddito delle importazioni.
� Questa teoria, oltre a fornire una spiegazione delle differenze internazionali tra i tassi di crescita si presta ad una interessante applicazione al problema della convergenza e/o del catching up.
� Sappiamo infatti che la condizione necessaria perché avvenga il catching-up è che il reddito pro capite di paese follower cresca ad un tasso superiore rispetto a quello del paese leader.
� Tale condizione si potrà riscrivere anche in un altro modo (sempre riportato a lato); quindi, affinché un paese follower possa fare catching-up, occorre che la sua crescita economica sia tale da più che compensare la differenza (a suo svantaggio) nella crescita della popolazione.
� Pertanto, posto che valga la “legge” di Thirlwall, e indicando con il simbolo γ il moltiplicatore dinamico del commercio estero di Harrod, quest’ultima condizione si potrà riscrivere nella maniera riportata a lato.
� In base a questa teoria, quindi, in presenza di una differenza tra i tassi di crescita della popolazione tra due paesi (a svantaggio del paese follower, come spesso accade), affinché quest’ultimo possa fare catching-up occorre che si verifichino due distinte condizioni: a) che l’economia mondiale cresca, vale a dire che si abbia w>0; b) che il “moltiplicatore dinamico del commercio estero di Harrod” del paese follower sia superiore a quello del leader. Detto in altri termini, occorre che le esportazioni del paese follower (in rapporto alla sua elasticità al reddito delle importazioni) crescano in modo tale da far sì che sia compensata l’eventuale differenza tra i tassi di crescita della popolazione.
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Università degli Studi di Genova Facoltà di Economia Corso di Economia dello sviluppo
La crescita dell’economia italiana (1970-2009)
Oc. Tot.
Anno PIL ∆∆∆∆PIL Y LNPIL ∆∆∆∆LNPIL (migliaia) o PIL/Occ. z y o
1970 552.413 - 13,2221 - 19.931,4 - 27.716 - -
1971 562.456 10.043 1,82 13,2401 1,80 19.937,7 0,03 28.211 1,786 1,818 0,032
1972 583.214 20.757 3,69 13,2763 3,62 19.886,2 -0,26 29.328 3,959 3,690 -0,258
1973 624.773 41.559 7,13 13,3451 6,88 20.167,8 1,42 30.979 5,630 7,126 1,416
1974 659.136 34.363 5,50 13,3987 5,35 20.481,1 1,55 32.183 3,886 5,500 1,553
1975 645.359 -13.777 -2,09 13,3776 -2,11 20.496,8 0,08 31.486 -2,165 -2,090 0,077
1976 691.344 45.984 7,13 13,4464 6,88 20.704,2 1,01 33.391 6,052 7,125 1,012
1977 709.045 17.702 2,56 13,4717 2,53 20.767,8 0,31 34.142 2,246 2,561 0,307
1978 732.019 22.974 3,24 13,5036 3,19 20.836,7 0,33 35.131 2,899 3,240 0,332
1979 775.642 43.622 5,96 13,5614 5,79 21.068,4 1,11 36.815 4,794 5,959 1,112
1980 802.246 26.605 3,43 13,5952 3,37 21.373,0 1,45 37.536 1,956 3,430 1,446
1981 809.019 6.773 0,84 13,6036 0,84 21.355,7 -0,08 37.883 0,926 0,844 -0,081
1982 812.365 3.346 0,41 13,6077 0,41 21.399,4 0,20 37.962 0,209 0,414 0,205
1983 821.863 9.498 1,17 13,6193 1,16 21.468,4 0,32 38.282 0,844 1,169 0,322
1984 848.375 26.512 3,23 13,6511 3,17 21.467,2 -0,01 39.520 3,232 3,226 -0,006
1985 872.114 23.738 2,80 13,6787 2,76 21.670,4 0,95 40.244 1,834 2,798 0,947
1986 897.056 24.942 2,86 13,7069 2,82 21.819,5 0,69 41.113 2,157 2,860 0,688
1987 925.690 28.634 3,19 13,7383 3,14 21.869,3 0,23 42.328 2,957 3,192 0,228
1988 964.516 38.827 4,19 13,7794 4,11 22.104,0 1,07 43.635 3,088 4,194 1,073
1989 997.198 32.682 3,39 13,8127 3,33 22.254,9 0,68 44.808 2,687 3,388 0,683
1990 1.017.666 20.468 2,05 13,8330 2,03 22.609,5 1,59 45.011 0,452 2,053 1,593
1991 1.033.275 15.608 1,53 13,8482 1,52 23.032,6 1,87 44.861 -0,331 1,534 1,871
1992 1.041.261 7.987 0,77 13,8559 0,77 22.865,5 -0,73 45.539 1,509 0,773 -0,725
1993 1.032.013 -9.249 -0,89 13,8470 -0,89 22.251,3 -2,69 46.380 1,848 -0,888 -2,686
1994 1.054.220 22.208 2,15 13,8683 2,13 21.884,9 -1,65 48.171 3,862 2,152 -1,647
1995 1.084.023 29.802 2,83 13,8962 2,79 21.841,2 -0,20 49.632 3,033 2,827 -0,200
1996 1.095.897 11.874 1,10 13,9071 1,09 21.966,0 0,57 49.891 0,521 1,095 0,571
1997 1.116.415 20.518 1,87 13,9256 1,85 22.034,7 0,31 50.666 1,555 1,872 0,313
1998 1.132.060 15.645 1,40 13,9395 1,39 22.252,6 0,99 50.873 0,408 1,401 0,989
1999 1.148.636 16.577 1,46 13,9541 1,45 22.493,9 1,08 51.064 0,376 1,464 1,084
2000 1.191.057 42.421 3,69 13,9904 3,63 22.930,1 1,94 51.943 1,721 3,693 1,939
2001 1.212.713 21.656 1,82 14,0084 1,80 23.393,1 2,02 51.841 -0,197 1,818 2,019
2002 1.218.220 5.506 0,45 14,0129 0,45 23.793,1 1,71 51.201 -1,235 0,454 1,710
2003 1.218.013 -206 -0,02 14,0127 -0,02 24.149,6 1,50 50.436 -1,493 -0,017 1,498
2004 1.236.671 18.658 1,53 14,0279 1,52 24.256,1 0,44 50.984 1,086 1,532 0,441
2005 1.244.782 8.111 0,66 14,0345 0,65 24.395,8 0,58 51.024 0,079 0,656 0,576
2006 1.270.126 25.344 2,04 14,0546 2,02 24.874,1 1,96 51.062 0,074 2,036 1,961
2007 1.288.953 18.826 1,48 14,0693 1,47 25.183,5 1,24 51.182 0,235 1,482 1,244
2008 1.271.958 -16.994 -1,32 14,0561 -1,33 25.262,9 0,32 50.349 -1,629 -1,318 0,315
2009 1.207.876 -64.082 -5,04 14,0044 -5,17 … … … … -5,038 …
Media 2,05 Media 2,01 Media 0,63
Fonte: ISTAT(2010), Contabilità nazionale, Conti economici nazionali
1
ECONOMISTI CLASSICI E NEOCLASSICI O MARGINALISTI
valore ed equità distributiva come alternativa alla efficienza allocativa del mercato1
ECONOMISTI CLASSICI E NEOCLASSICI O MARGINALISTI ................................................................................. 1 valore ed equità distributiva come alternativa alla efficienza allocativa del mercato ......................................................... 1 1. INTRODUZIONE ................................................................................................................................................... 1 2. ECONOMISTI CLASSICI..................................................................................................................................... 3 2.1 Critica ai classici in sintesi ................................................................................................................................. 6 3. ECONOMISTI NEOCLASSICI MARGINALISTI............................................................................................. 6
3.1 Il mercato del lavoro .......................................................................................................................................... 7 3.2 Il mercato dei beni .............................................................................................................................................. 8 3.3 La moneta............................................................................................................................................................ 8 3.4 Il sistema dei prezzi ............................................................................................................................................ 9 3.5 Critica di Wicksell alla teoria quantitativa ........................................................................................................... 9 3.6 Critica di Hayeck alla teoria quantitativa ......................................................................................................... 10 3.7 La proposta teorica, elaborata dalla nuova macroeconomia classica (NMC) ............................................. 11 3.8 critiche al marginalismo in sintesi................................................................................................................... 11
4 KEYNES (1883 - 1946) ......................................................................................................................................... 11 4.1 L’economia capitalistica come economia monetaria ..................................................................................... 13 4.2 Equilibrio capitalistico e disoccupazione........................................................................................................ 14 4.3 Attualità di Keynes ........................................................................................................................................... 16
5. LA NUOVA ECONOMIA KEYNESIANA ........................................................................................................ 19 5. RITORNO AI CLASSICI .................................................................................................................................... 21 5.1 SRAFFA (1898-1983) ....................................................................................................................................... 21
6. Virtù e limiti del mercato concorrenziale ........................................................................................................... 24 7. Riferimenti bibliografici ....................................................................................................................................... 25
1. INTRODUZIONE
In economia politica possiamo distinguere due impostazioni di fondo, radicalmente diverse
di cui consideriamo qui alcuni esponenti. L’impostazione degli economisti classici (Smith, Ricardo,
Marx ripresi poi da Keynes e Sraffa) e quella degli economisti marginalisti o neoclassici
(Marshall, Walras, Pareto e più di recente Samuelson). Nel primo caso l’economia è una Scienza
sociale, che in parte si sovrappone alla storia, alla sociologia, alla psicologia. Nel secondo caso è
una scienza assiomatica del comportamento razionale. Essendo assimilabile alla logica può essere
descritta con ipotesi semplificatrici e con formule matematiche. L’obiettivo di questa nota è capire
se esistono sempre diversi metodi di analisi in economia e almeno due modi diversi di affrontare il
problema centrale del valore e della distribuzione, guardandolo da differenti punti di vista (Classico,
Marginalista o Marshalliano, Keynesiano, Neokeynesiano, della Nuova macroeconomia classica,
Neoricardiano).
Secondo la concezione classica, prevalente nel periodo della nascita dell’economia come
scienza (Sei – Settecento) e fino alla seconda metà dell’Ottocento, l’economia analizza il
funzionamento di una società caratterizzata dalla divisione del lavoro e dallo scambio di merci,
1 A cura di Francesco Montaruli
2
studiando questioni quali la teoria del valore delle merci, la distribuzione del reddito (tra salari,
rendite e profitti) o il ritmo di accumulazione del capitale e lo sviluppo delle nazioni. In generale il
valore di scambio delle merci deve essere proporzionale alla quantità di lavoro necessario a
produrle. Elemento centrale del paradigma classico è il concetto di “sovrappiù”. Il prodotto sociale
veniva distinto in due parti (i) la parte reimpiegata nel processo produttivo affinché esso possa
ripetersi (reintegrazione dei mezzi produttivi e sussistenze dei lavoratori) e la parte rimanente, che
costituisce il “sovrappiù”. L’ampiezza del sovrappiù, la sua distribuzione tra le diverse classi, il suo
utilizzo per consumi improduttivi o per l’accumulazione, sono i termini sui quali concentrano
l’attenzione gli economisti classici. I teorici del sovrappiù ritenevano che il salario reale fosse
determinato da circostanze di carattere storico e sociale. Il loro metodo di indagine economica è
senza domanda e offerta e equilibrio di piena occupazione, ma affrontando anche il problema
dell’equità distributiva, contempla la disoccupazione involontaria, lo sfruttamento, le virtù e i limiti
del mercato.
Dagli ultimi decenni dell’Ottocento invece il problema economico coincide con quello del
calcolo razionale: come ottenere il massimo, dato l’ammontare di risorse disponibili. La teoria
economica neoclassica (la teoria egemone dopo il 1870 fino a oggi), anziché analisi di un dato
modo di produzione, è tecnica di soluzione efficiente del problema economico, che vi è assunto
come generale ed eterno. Il problema si riduce a studiare secondo quali rapporti gli individui
dovrebbero redistribuirsi, mediante lo scambio, i beni e i servizi produttivi di cui dispongono
inizialmente, allo scopo di ottenere la situazione finale più vantaggiosa, date le loro preferenze.
Questo approccio si riallaccia a nozioni secondo cui il valore di scambio delle merci sarebbe
determinato da forze di “domanda e offerta”. Il principio di spiegazione delle forze di domanda
viene trovato nella tendenza dei consumatori a rendere massima la “soddisfazione” o “utilità”. Per
esprimere le condizioni di tale massimo si introduce la nozione di utilità marginale decrescente di
ogni bene consumato. Si suppone poi, dal lato dell’offerta, che ogni bene possa essere prodotto con
proporzioni variabili dei due fattori produttivi “lavoro” e “capitale”. Da questa supposizione di
proporzioni variabili dei fattori discendono le condizioni di minimo costo di produzione, esprimibili
in termini dei “prodotti marginali” dei fattori. Il libero gioco delle forze di domanda e offerta tende
a realizzare prezzi tali da garantire l’equilibrio in ogni mercato e la distribuzione del prodotto
sociale tra le classi.
3
2. ECONOMISTI CLASSICI
Per Smith (1723 -1790 – Indagine sulla natura e cause della ricchezza delle nazioni, 1776) Il
problema al centro della riflessione è quello della divisione del lavoro, che accresce la destrezza
(oggi diremmo la produttività). La divisione del lavoro progredisce solo se c’è un allargamento dei
mercati, di qui la posizione liberista di Smith. Inoltre il benessere collettivo è meglio conseguito in
molti settori (ma non tutti) affidandosi al libero perseguimento degli interessi individuali.
Il funzionamento del sistema economico è rappresentato come un processo circolare o a
spirale. All’inizio del processo produttivo abbiamo determinate quantità di merci, che vengono
usate come mezzi di produzione e anche come mezzi di sussistenza per i lavoratori. Un sistema
produttivo è vitale se la quantità prodotta di ogni merce è uguale o superiore alla quantità della
stessa merce che era stata utilizzata nei processi di produzione (sovrappiù). Ciascun settore
produttivo, preso isolatamente, non è in grado di continuare la propria attività, ma deve entrare in
contatto con gli altri settori dell’economia per ottenere da essi i propri mezzi di produzione in
cambio di una parte del proprio prodotto.
Si ha così quella rete di scambi che caratterizza le economie di mercato. Il coordinamento
delle attività individuali è proprio assicurato dal mercato, che “premia” quanti producono ciò che è
maggiormente richiesto e “punisce” quanti si dedicano ad attività che gli altri considerano inutili.
L’interesse individuale agisce quindi da molla per il conseguimento di quello collettivo, ma ciò non
significa che per Smith ne sia il fondamento, anzi, in alcuni settori il mercato fallisce nel fornire i
beni o servizi a causa dell’assenza di incentivi per l’iniziativa privata. I rapporti di scambio
determinano la ripartizione del sovrappiù tra i settori economici e le varie classi sociali.
L’analisi del valore in Smith non è altro che stabilire il rapporto in cui le merci si
scambiano. In una società primitiva in cui le terre non siano state appropriate e non vi sia
accumulazione di capitale il valore di scambio è proporzionale alla quantità di lavoro necessaria a
produrle. Successivamente, in seguito all’appropiazione da parte di alcuni dei mezzi di produzione,
il valore di scambio della merce non può più essere costituito dai soli salari ma deve comprendere il
profitto e la rendita. Questo nuovo valore di scambio è chiamato “prezzo naturale” attorno al quale
gravita il “prezzo di mercato” che dipende dalla proporzione tra la quantità prodotta e domandata.
La ricchezza di una nazione dipende dalla proporzione in cui si dividono lavoro produttivo e
improduttivo e la produttività del lavoro, che dipende dalla divisione del lavoro. La ricchezza di una
nazione dipende dal suo modello di specializzazione rispetto al lavoro produttivo, dalla ripartizione
del sovrappiù tra consumo dei lavoratori produttivi e improduttivi.
4
Per Ricardo (1772 - 1823) “Principi di economia politica” il punto di partenza è il contrasto
di interessi tra i proprietari terrieri e la borghesia industriale nascente. Egli assume che il salario sia
pagato al livello di sussistenza come minimo tenore di vita pagato ai lavoratori. Ricardo accoglie la
tripartizione in lavoratori, proprietari, terrieri e capitalisti e il sovrappiù è ripartito tra rendite e
profitti, che possono tradursi in nuovi investimenti. L’importanza della teoria di Ricardo sta
nell’aver fornito una rappresentazione analitica di un flusso circolare di produzione e consumo in
una società sempre basata sulla divisione del lavoro. In tale sistema il prodotto di ciascuna impresa
non corrisponde al suo fabbisogno di mezzi di produzione, pertanto ciascun produttore preso
isolatamente non è in grado di continuare la propria attività, ma deve entrare in contatto con gli altri
settori dell’economia. I profitti costituiscono, assieme alle rendite (ed eventualmente assieme ai
salari eccedenti il livello di sussistenza), il risultato della distribuzione del sovrappiù.
Ricardo riprese e utilizzò la teoria del sovrappiù per una teoria del saggio del profitto e
riuscì a isolare la rendita fondiaria dal resto del prodotto sociale. La teoria del saggio del profitto
costituisce la base delle successive elaborazioni teoriche del sovrappiù e di ogni analisi fondata
delle relazioni tra saggio di salario, di profitto e valore delle merci.
In analogia con Smith la concorrenza dei capitalisti tenderebbe a realizzare un saggio
uniforme di profitto, a partire dal settore agricolo. Il saggio di profitto può dipendere (i) in misura
inversa dalla diminuzione del saggio di salario (ii) in misura diretta dalla produttività del lavoro. Il
saggio del profitto era dato dal rapporto tra valore del sovrappiù e valore del consumo necessario.
Essendo però i due aggregati eterogenei, il loro rapporto non potrà dare il saggio del profitto. Per
determinarlo occorre esprimere le due grandezze in termini di valore e passare attraverso lo studio
delle circostanze che determinano i rapporti di scambio tra le merci.
In un economia non di solo grano, ma più avanzata, il saggio di profitto tuttavia non è più
indipendente dal valore relativo delle merci. Nella teoria della distribuzione egli tende a dimostrare
il principio che le merci si scambiano sempre sulla base del lavoro incorporato, anche in presenza di
profitti e rendite, quando prodotto e consumo necessario siano misurati in termini di lavoro
incorporato. Ciò gli consente di superare l’ipotesi che i salari siano costituiti solo da grano e
risolvere il problema del valore. Due sono i limiti alla sua analisi. Il suo sistema non funziona più
quando non tutte le merci si scambiano secondo il lavoro incorporato: il saggio di profitto non è più
uguale a sovrappiù su consumo anticipato. Dimentica che i mezzi di produzione impiegati sono una
circostanza che può influire sul saggio di profitto. Ricardo, tuttavia, nei Principi ammise l’esistenza
di eccezioni alla regola secondo la quale le merci si scambiano in base alla quantità di lavoro
incorporato. E’ la tendenza a un saggio uniforme di profitto dovuta alla concorrenza capitalistica a
5
impedire che le merci si scambino secondo il lavoro incorporato. La divergenza tra prezzi relativi e
quantità di lavoro incorporate ha il significato di redistribuire il plusvalore complessivo.
Per Ricardo e Marx (1818 -1883) le merci si scambiano secondo rapporti determinati (in
ultima analisi) dalle quantità di lavoro incorporato, ed è in questo preciso senso che il lavoro è il
solo creatore del valore di scambio. La teoria del sovrappiù diventa una teoria del saggio del
profitto. Per Marx se il valore di scambio di un prodotto è uguale al tempo di lavoro che vi è
immedesimato, il valore di scambio di una giornata di lavoro è uguale al suo prodotto, il salario
dovrebbe cioè coincidere sempre con l’intero prodotto del lavoro e l’esistenza di profitti
comporterebbe sfruttamento del lavoro. Il problema del valore e della distribuzione è connesso al
potenziale antagonismo che caratterizza la divisione del prodotto sociale tra lavoratori e
imprenditori. Marx pone al centro dell’analisi lo scontro di interessi tra borghesia e proletariato.
Con la teoria dello sfruttamento, che caratterizza il modo di produzione capitalistico, cerca
di dimostrare che i profitti derivano da “lavoro non pagato”. Questo fatto implica che il saggio del
profitto e il salario non siano indipendenti l’uno dall’altro. Marx chiamerà le apparenze della
libera concorrenza quelle per le quali il prezzo di una merce quando sia preso come somma di
profitti e salari, sembra capace di accomodare una crescita dei salari senza una corrispondente
diminuzione dei proftti e viceversa. Smith, al contrario, perse spesso di vista il vincolo che lega i
salari ai profitti e considerò il salario e il saggio del profitto come determinati in modo autonomo.
Resta insoluto il problema del perché non sempre le merci si scambiano secondo il paradigma
valore-lavoro.
Marx cerca anche di chiarire il ruolo dei mezzi di produzione (capitale costante) quale
elemento del capitale oltre ai lavoratori (capitale variabile) e si occupa delle “eccezioni” al
principio che le merci si scambino secondo la quantità di valore incorporato. Il valore del prodotto
sociale annuo oltre a profitti e salari include il valore del capitale costante. Il rapporto tra capitale
costante e capitale variabile è chiamato da Marx “composizione organica del capitale”. Così il
saggio del profitto oltre che essere influenzato direttamente dal sovrappiù o plusvalore in Marx, sarà
tanto più alto quanto più è bassa la composizione organica del capitale. Tanto minori sono i mezzi
di produzione rispetto ai lavoratori impiegati nella produzione, tanto maggiore sarà il saggio di
profitto. Una conclusione forte è la dipendenza del saggio di profitto dal saggio di salario. La
conclusione che il salario diminuisce all’aumentare del profitto è vera qualunque sia la merce con
cui si sceglie di misurare il salario.
6
2.1 Critica ai classici in sintesi
Perché tutte le merci si scambino secondo la quantità di lavoro incorporata è dimostrabile
che la composizione organica del capitale deve essere la stessa in tutti i rami produttivi in modo da
aversi un saggio uniforme di profitto, ma così non è sempre. Quindi la critica a Ricardo e Marx è
che il principio che le merci si scambino secondo le quantità di lavoro incorporato poggia su ipotesi
non sempre realizzate nella realtà. Questa deficienza della teoria del valore pone in discussione
anche la teoria dei profitti. Su questo problema allora irrisolto appuntarono le loro critiche i teorici
marginalisti.
Nel modello canonico classico di Samuelson (1978) l’autore quindi accomuna i lavori di
Smith, Ricardo, Malthus e Mill all’interno di un’unica interpretazione dell’economia. Ridotto ai
minimi termini il paradigma interpretativo classico non fornirebbe un approccio alternativo alla
teoria economica oggi dominante, ma ne costituirebbe, al contrario, il naturale presupposto. La
limitazione delle conoscenze e degli strumenti dei primi economisti avrebbe loro impedito di
formulare in maniera organica e analitica la dinamica dei processi. I meccanismi di adeguamento
dei prezzi e dei salari e le ipotesi sui comportamenti degli agenti sarebbero invece già da allora
coerenti con la sintesi Marshalliana in termini di curve di domanda e offerta
3. ECONOMISTI NEOCLASSICI MARGINALISTI
In questo schema la struttura di classe diventa analiticamente irrilevante, e così il concetto di
sovrappiù. Il loro metodo utilizza le schede di domanda e offerta, funzioni obiettivo,
massimizzazioni/minimizzazioni equilibri singoli e multipli. La teoria fondata sul metodo marginale
ha al suo centro i concetti gemelli di utilità (incremento di soddisfazione dovuta all’incremento
unitario del consumo) e prodotto marginale (incremento di prodotto dovuto all’incremento unitario
di fattore produttivo). Tale incontro “equilibrio” tra le domande e offerte dei fattori produttivi
avrebbe poi comportato analoghi equilibri sui mercati dei prodotti. Seguendo Alfred Marshall “(…)
il valore normale di ciascuna cosa si regge, come la chiave di volta di un arco, in equilibrio tra le
opposte forze che premono sui due lati.” I prezzi assicurano l’equilibrio del sistema, in quanto
assicurano che per nessun bene o servizio produttivo la domanda ecceda l’offerta, e in quanto tutti i
redditi sono determinati simultaneamente, poiché il caso e il mercato mediano rimediano ai
privilegi e ai rapporti di forza.
Nel sistema neoclassico la teoria e la pratica economica si risolvono tutte e interamente nella
teoria e nella pratica dei rapporti di scambio. Questo approccio riduce la teoria del valore a teoria
7
dei prezzi di mercato, sopprimendo i problemi lasciati irrisolti dai classici e resi espliciti dalla
critica marxiana dell’economia politica. Se nel sistema teorico classico la teoria dei prezzi è solo un
termine medio dell’analisi del valore, della distribuzione e dell’accumulazione, e i prezzi di
equilibrio sono condizione soltanto necessaria per la riproduzione del rapporto capitalistico, nel
sistema teorico neoclassico i prezzi di equilibrio sono condizione sufficiente per il mantenimento
dello status quo ante, e ogni problema viene ridotto a un problema di scelta, date le preferenze. Il
problema è unicamente l’ottima distribuzione delle risorse scarse tra gli usi alternativi possibili.
La tesi centrale riguarda la natura ottimale delle posizioni di equilibrio. Quando prevale la
concorrenza perfetta, senza disturbi esogeni, il sistema tende all’equilibrio in senso Paretiano
(Pareto-efficienza). In questo quadro anche il salario reale si muove assieme agli altri prezzi relativi
verso un livello tale da assicurare uguaglianza tra domanda e offerta di lavoro, ossia piena
occupazione. Così salario e saggio di profitto corrispondono, dal lato della domanda, alla
produttività marginale di lavoro e di capitale e dal lato dell’offerta corrispondono al “costo reale”
dei rispettivi fattori di produzione.
La teoria neoclassica è una teoria dell’allocazione ottima di risorse date, in vista della
massima soddisfazione del consumatore. Questo problema, e conseguentemente quello distributivo,
si pone e si risolve nella sfera dello scambio piuttosto che della produzione. Infatti, se si assumono
le risorse e la tecnologia come parametri, le scelte individuali di consumo possono essere trattate
come le determinanti di tutte le variabili importanti: allocazioni dei fattori, prezzi, redditi e
allocazioni delle merci. La teoria della scelta è dunque il nucleo dell’economia neoclassica.
Questo nucleo teorico, e le conseguenti scelte di politica economica che da esso derivano,
possono essere illustrate tramite un semplice modello di equilibrio economico generale aggregato
in cui il prezzo dei beni, dei servizi e dei fattori della produzione risulta determinato dalle leggi
della domanda e dell’offerta. In un mondo neoclassico non esiste disoccupazione involontaria, la
produzione viene massimizzata sotto il vincolo delle tecnologie disponibili, i prezzi vengono
minimizzati, date le condizioni di circolazione della moneta. Valgono la legge degli sbocchi di Say,
e la teoria quantitativa della moneta.
3.1 Il mercato del lavoro
Sul mercato del lavoro si individua un salario (reale) di equilibrio che, date le tecniche che
massimizzano la produzione e date le condizioni di circolazione della moneta che minimizzano i
prezzi, non dà luogo a disoccupazione involontaria. In tal senso, l’equilibrio descritto da un modello
di equilibrio economico generale, è un equilibrio di piena occupazione. Esisterebbe, in altre parole,
un livello naturale del salario, in corrispondenza del quale si ha piena occupazione della forza
8
lavoro, piena utilizzazione della capacità produttiva, e, data la quantità di moneta, il più basso
livello dei prezzi. Ne segue un importante corollario: fra profitti e salari, dunque fra capitale e
lavoro, non vi sarebbe conflitto, poiché qualsiasi tentativo di spingere i salari al di sopra del livello
di equilibrio romperebbe una divina armonia.
3.2 Il mercato dei beni
La teoria neoclassica accetta la legge di Say dunque assume l’esistenza di meccanismi di
mercato capaci di assicurare che il reddito non consumato sia interamente speso in investimenti. Il
livello del prodotto dipende dalle quantità impiegate dei fattori capitale e lavoro. Ciò viene
rappresentato da una funzione di produzione. La funzione di produzione neoclassica rappresenta
una sintesi del principio secondo cui quale che sia la produzione, il valore della domanda non può
essere inferiore al valore dei beni prodotti. Lo stesso principio è espresso dalla legge di Say,
secondo cui l’offerta crea sempre la propria domanda.
3.3 La moneta
Nello schema neoclassico la moneta è un numèraire, pertanto la moneta non influisce sui
livelli di produzione, di occupazione, del salario reale e del tasso di interesse. Si assume che la
moneta sia unicamente desiderata al fine di effettuare scambi. Inoltre essa non rende alcun interesse
e quindi non può entrare in concorrenza con i titoli. Vale pertanto la teoria quantitativa della
moneta: la quantità di moneta in circolazione (M), moltiplicata per il numero medio di volte che
circola nell’unità di tempo (v) eguaglia il valore della produzione scambiata (pY):
Mv = pY
Una volta che la produzione di equilibrio, Y*, sia stata determinata sul mercato dei beni, e
assumendo che la velocità di circolazione della moneta (v) sia una costante istituzionale determinata
dalle abitudini di pagamento della collettività, le variazioni dell’offerta di moneta (M) si riflettono
unicamente sul livello dei prezzi assoluti (p).
p = Mv/Y
Dunque la moneta è neutrale, non avendo influenza né sul salario reale, né sul tasso di
interesse. Una notevole implicazione di questo assunto è che le decisioni delle banche centrali sullo
stock di moneta non avrebbero alcuna influenza sui livelli di produzione e occupazione.
9
3.4 Il sistema dei prezzi
In questo contesto, il sistema dei prezzi assume per tutti i singoli agenti una funzione
parametrica: nel senso che ciascuno di essi deve assumerli come dati. Il ruolo dei prezzi nella
determinazione dell’equilibrio neoclassico può dunque essere descritto nel modo seguente.
Si supponga che in un certo momento si fissino a caso dei prezzi. Soggetti e imprese li
assumono come dati e vi conformano i propri comportamenti massimizzanti. In conseguenza di tali
comportamenti si formeranno sul mercato offerte e domande di beni e servizi produttivi da parte dei
soggetti e delle imprese; niente assicura, tuttavia, che l’offerta complessiva e la domanda
complessiva siano uguali su tutti i mercati. Lo sarebbero soltanto se i prezzi criés par hazard, per
caso (ecco il “caso” neoclassico) coincidessero con quelli di equilibrio. Se però i prezzi non sono
quelli di equilibrio, su alcuni mercati vi sarà un eccesso di offerta, su altri un eccesso di domanda:
cosicché le posizioni di massimo individuali non saranno compatibili fra loro. Si darà allora una
nuova fissazione dei prezzi, tale che saranno minori, rispetto a quella iniziale, i prezzi nei mercati
sui quali vi è un eccesso di offerta, maggiori là dove vi è un eccesso di domanda. Gli aggiustamenti
proseguiranno fin quando offerta e domanda non saranno uguali su tutti i mercati (tâtonnements).
La stabilità è dunque presupposta, e la concorrenza costituisce il meccanismo che assicura in
maniera oggettiva e impersonale, il raggiungimento della configurazione di equilibrio.
La soluzione teorica, mediante il calcolo matematico, e la soluzione pratica del problema
della determinazione dell’equilibrio, mediante i tâtonnements del mercato, cioè mediante il
meccanismo della concorrenza, vengono a coincidere. Nello schema neoclassico il mercato
funziona come una macchina perfetta, anzi come un calcolatore, direbbe Walras. “Anche
praticamente, ci sono dei mercati in cui le vendite e gli acquisti si fanno à la criée per mezzo di
agenti, quali agenti di cambio o agenti di commercio, e questi mercati sono proprio quelli meglio
organizzati sotto il rapporto della concorrenza.”
3.5 Critica di Wicksell alla teoria quantitativa
Wicksell (1936) sostiene che la teoria quantitativa della moneta non propone alcuna analisi
dinamica e non si può applicare in una economia moderna perché non considera il ruolo
determinante delle banche. Esse attraverso la loro azione sull’offerta di moneta e il livello dei tassi
sono all’origine dell’apparizione del disequilibrio economico.
Wicksell distingue il tasso naturale che corrisponde al costo teorico del capitale. Con
l’avvento delle banche la conessione dei crediti rende instabile la velocità di circolazione della
moneta. Poiché il credito genera un’offerta di moneta addizionale. Si determina un disequilibrio tra
10
l’offerta e la domanda di moneta. Inoltre i fenomeni economici sono integrati e non c’è più
dicotomia tra settore reale e monetario. Il tasso di interesse monetario è semplicemente il tasso
praticato sul mercato da una banca e non necessariamente garantisce l’equilibrio sul mercato della
moneta. Il tasso di interesse naturale è il tasso di profitto che ci si attende da un investimento
ottenuto grazie a un prestito bancario. I due tassi coinciderebbero soltanto in una economia di
baratto. Invece in una economia moderna dalla loro divergenza deriva una modificazione nel livello
generale dei prezzi che non assicura più l’uguaglianza risparmi investimenti. Secondo Wicksell il
tasso monetario è generalmente inferiore al tasso naturale e l’equilibrio è ristabilito soltanto quando
il tasso monetario ridiventa uguale al tasso naturale. In questo caso il risparmio assicura il
finanziamento degli investimenti e il livello generale dei prezzi cessa di modificarsi. Ma il ritorno a
un equilibrio stabile è problematico perché le banche hanno un’offerta di credito elastica e i tassi
monetari si adattano con ritardo al tasso naturale che poi si modifica continuamente.
Quindi in un’economia moderna l’esistenza di un tasso monetario diverso dal tasso naturale
conduce a un equilibrio instabile. E’ una analisi dinamica, mette in evidenza il ruolo delle banche e
non giustifica la dicotomia e la teoria quantitativa della moneta che come un caso particolare.
Mostra come l’obiettivo della politica monetaria sia quello di condurre il tasso di interesse effettivo
il più vicono possibile al tasso naturale per garantire l’equilibrio stabile.
3.6 Critica di Hayeck alla teoria quantitativa
Se la teoria quantitativa della moneta conclude per la neutralità della moneta nel lungo termine
molti accettano che essa abbia un’influenza significativa sul reddito nel breve termine. Frederick
Von Hayeck sostiene che variazioni nella quantità di moneta conducono sempre a variazioni nei
prezzi relativi. Per Hayeck quattro ipotesi discutibili rendono la teoria quantitativa discutibile:
• l’economia è al livello di pieno impiego
• la simultaneità delle variazioni del livello della moneta e dei prezzi significa che c’è una
relazione di causalità tra le due variabili
• il ragionamento è condotto sul piano macroeconomico senza tener conto dei comportamenti
individuali
• tutti i beni son considerati equivalenti
Variazioni iniziali dei prezzi relativi, la struttura della produzione e il credito bancario conducono le
imprese a indebitarsi troppo o troppo poco, generando disequilibrio tra risparmio e investimento e
quindi anche nel settore reale. L’esistenza del credito bancario conduce a perturbazioni nel sistema
economico nelle quali fasi di espansione e di recessione si succedono connotate da eccessi o difetti
11
di investimenti dovuti a sfasamenti temporali, informazioni e aspettative inprecise. Ne discende il
ruolo della politica monetaria anticiclica.
3.7 La proposta teorica, elaborata dalla nuova macroeconomia classica (NMC)
Negli anni settanta, ha riaperto problemi che l’ortodossia macroeconomica Keynesiana degli
anni sessanta trattava come risolti. Si consideri segnatamente la proposizione di inefficacia della
politica monetaria in caso di aspettative razionali. Tassi attesi d’inflazione nella determinazione dei
salari e assenza di illusione monetaria implicano che ogni shock espansivo dal lato della domanda
aggregata abbia come unico effetto stabile un proporzionale aumento nei salari monetari e nei
prezzi nominali dei beni. L’aspetto analitico della NMC risiede nel fatto che in ogni istante di
tempo i prezzi garantiscono l’equilibrio ottimale dei mercati e l’assenza di disoccupazione
involontaria. La politica monetaria può avere effetti reali e temporanei, solo se non viene anticipata
dagli agenti perché deviante dal modello di ottimale di funzionamento del sistema.
3.8 critiche al marginalismo in sintesi
Le critiche rivolte hanno dapprima toccato alcune conclusioni. Vennero posta in discussione
la corrispondenza con i fatti della libera concorrenza a cui quella teoria conduce (Sraffa, 1926). E’
venuta poi la critica alla conclusione che le forze economiche spontaneamente tendano a realizzare
l’eguaglianza tra quantità domandate e offerte dei fattori.
In anni più recenti la critica è risalita alle premesse delle teorie marginaliste, ed ha posto in
luce l’impossibilità di concepire “quantità” del fattore produttivo capitale in termini indipendenti
dai valori di scambio delle merci: è allora divenuta chiara l’erroneità di alcune proposizioni poste a
fondamento di quella teoria. I termini della difficoltà riguardano la nozione di “quantità” di capitale,
che vizia alla base questo modo di avvicinare i problemi del valore e della distribuzione.
4 KEYNES (1883 - 1946)
Nella sua opera più famosa, “La Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della
moneta”, apparsa nel 1936, Keynes esamina due punti cruciali della costruzione neoclassica: la
determinazione del livello dell’occupazione e la determinazione del tasso di interesse.
Per quanto riguarda il livello dell’occupazione, Keynes mostra come esso non sia
determinato nel mercato del lavoro dall’operare congiunto di due funzioni, una di domanda e una di
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offerta, così come afferma la teoria neoclassica, bensì da altre forze che agiscono su altri mercati
(mercati della moneta, dei capitali, dei beni), dei quali si deve tener necessariamente conto
(superando così il metodo neoclassico del ceteris paribus). In particolare non vi sarebbe
necessariamente una relazione inversa fra il salario e l’occupazione: una diminuzione del salario
potrebbe anche non condurre a un aumento dell’occupazione. Per quanto riguarda il tasso di
interesse, Keynes mostra come esso, a differenza di quanto affermato dalla teoria neoclassica, non
sia il prezzo che equilibra domanda e offerta di beni capitali, cioè investimenti e risparmi in un dato
mercato. Per spiegare la determinazione di questo prezzo particolare si dovrebbe invece far
riferimento a elementi diversi dal mero interagire delle forze di domanda e offerta: in particolare,
bisogna riferirsi alla preferenza per la liquidità dei soggetti che operano in un mondo e in una storia
caratterizzati dall’incertezza.
Il problema diventa allora quello di determinare che cosa determini gli ‘imprenditori’ a fare
quel che fanno, posto che la “Teoria generale” si può ridurre a questa proposizione: l’occupazione è
quella che i capitalisti decidono di dare, secondo le loro aspettative. Secondo lo stesso Keynes, “la
teoria si può riassumere dicendo che, data la psicologia della gente, il livello della produzione e
dell’occupazione complessiva dipende dall’ammontare dell’investimento.”
Al centro del ragionamento di Keynes sta l’idea che noi, nella realtà, abbiamo soltanto una
percezione molto vaga delle conseguenze non immediate dei nostri atti. La nostra conoscenza, in
generale e anche per quanto riguarda le decisioni economiche più importanti, è una ‘conoscenza
incerta’. Il significato in cui Keynes usa questo termine è quello per cui si può dire che sono incerti
la prospettiva di un’altra guerra in Europa, o il prezzo del rame e del tasso di interesse di qui a
vent’anni, o l’obsolescenza di una nuova invenzione, o la posizione dei proprietari di ricchezza
privata nel sistema sociale tra cinquant’anni: “Su queste cose non c’è alcuna base scientifica su cui
fondare un qualsivoglia calcolo probabilistico. Noi semplicemente non sappiamo.” Anche se in
condizioni di conoscenza incerta, tuttavia, dovremo prendere delle decisioni, e ciò faremo
rimuovendo l’esperienza passata e dunque sottovalutando la possibilità di mutamenti futuri; oppure
fingendoci che lo stato attuale dell’economia sia basato su una corretta ponderazione delle
prospettive future (che è l’assunto epistemologicamente ingenuo della moderna teoria delle
«aspettative razionali»); oppure ammettendo che il nostro giudizio individuale non vale nulla, e che
perciò ci converrà ricorrere al giudizio del resto del mondo, che forse è meglio informato.
La psicologia di una società di individui, ciascuno dei quali cerca di copiare gli altri,
conduce a ciò che Keynes definisce un giudizio ‘convenzionale’. Una siffatta concezione del futuro,
essendo basata su fondamenta inconsistenti, “è soggetta a improvvisi e violenti mutamenti. Il fatto
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che la nostra conoscenza sia incerta ha dunque come conseguenza principale la fragilità, la
precarietà dell’equilibrio del sistema.”
4.1 L’economia capitalistica come economia monetaria
Per Keynes l’analisi tradizionale dell’equilibrio capitalistico è difettosa in quanto non è
riuscita a isolare correttamente le variabili indipendenti del sistema: risparmio e investimenti non
sono le determinanti del sistema, bensì i risultati gemelli delle determinanti del sistema, che sono la
propensione al consumo, la scheda dell’efficienza marginale del capitale e il saggio di interesse.
Queste determinanti sono esse stesse complesse e ciascuna è suscettibile di essere influenzata da
cambiamenti prospettivi delle altre. Le variabili dipendenti sono il volume dell’occupazione e il
reddito nazionale.
Per Keynes l’equilibrio capitalistico non solo è possibile, ma è anche normale, nel senso che
un qualche equilibrio si dà sempre. Tuttavia normalmente esso è iniquo. E’ perfettamente possibile
che la domanda (effettiva) uguagli il reddito, ma normalmente l’uguaglianza fra domanda e offerta
sul mercato della moneta e sul mercato dei beni si accompagna all’esistenza di disoccupazione
involontaria (il marxiano esercito industriale di riserva). Un’eventuale diminuzione del salario,
comunque ottenuta, non è un rimedio alla disoccupazione, poiché non determina necessariamente
una modifica delle aspettative e perciò delle decisioni dei capitalisti, dalle quali dipende il volume
dell’occupazione.
Nella determinazione dell’equilibrio capitalistico i prezzi sono del tutto secondari rispetto
all’investimento e alla moneta; mentre per la teoria ortodossa è vero il contrario. Per Keynes (come
per Marx) l’equilibrio classico (e per Keynes anche l’equilibrio neoclassico) - un equilibrio che
esiste come unico, stabile (e ottimo in un qualche senso) - non è affatto il caso naturale, necessario e
generale. Tutta l’opera di Lord Keynes intende dimostrare che i “postulati della teoria (Neo)
classica sono applicabili soltanto a un caso speciale e non al caso generale, alla situazione che essa
assume essere un punto limite delle possibili soluzioni di equilibrio. Inoltre, le caratteristiche del
caso speciale presupposto dalla teoria classica risultano non essere quelle proprie alla società
economica nella quale effettivamente viviamo, con la conseguenza che il suo insegnamento è
fuorviante e disastroso se si tenta di applicarlo ai fatti dell’esperienza.”
In questo quadro assume un’importanza centrale la visione keynesiana dell’equilibrio
capitalistico come equilibrio monetario: “l’importanza della moneta scaturisce essenzialmente dal
fatto che essa costituisce un legame fra presente e futuro.” A causa di questa proprietà della moneta,
gli effetti di aspettative mutevoli circa il futuro delle attività correnti non possono essere discussi
altro che in termini monetari. Qui Keynes concede che a Marx si deve un’osservazione feconda: “
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La natura della produzione nel mondo reale non è, come gli economisti sembrano spesso supporre,
un caso del tipo Merce-Denaro-Merce, cioè inteso a scambiare una merce contro denaro al fine di
ottenere un’altra merce.”
Questo può infatti essere la prospettiva del singolo consumatore, ma certamente non è quella
del mondo degli affari: che dal denaro si separa in cambio di una merce soltanto al fine di ottenere
più denaro, secondo un processo del tipo Denaro-Merce-Denaro, cioè un processo inteso a ottenere
più denaro per chi lo muove anziché al soddisfacimento dei bisogni dei consumatori. Il punto di
partenza di Keynes è lo stesso di Marx: noi non viviamo in una real-exchange economy, bensì in
una monetary economy.
L’opinione di Keynes è che anche il tasso di interesse è determinato non da fenomeni reali
(come la domanda di investimenti o l’offerta di risparmio), bensì da grandezze puramente
monetarie, cioè dalla domanda e dall’offerta di moneta. Si tratta perciò di spiegare le circostanze
che influenzano lo stato del mercato monetario. La relazione tra domanda di moneta e tasso di
interesse dipende dal fatto che esiste un movente speculativo, cioè il desiderio di detenere risorse in
forma liquida allo scopo di trarre vantaggio dal mercato (in particolare dal mercato dei titoli,
lucrando una differenza tra il prezzo corrente ed il prezzo futuro). L’incertezza circa il corso futuro
del saggio di interesse è, secondo Keynes, “l’unica spiegazione intellegibile” della domanda
speculativa, che dipende dal rapporto tra il saggio corrente e le aspettative circa un saggio
“normale” o “sicuro”.
4.2 Equilibrio capitalistico e disoccupazione
La teoria keynesiana, come si è detto, si può riassumere così: “data la psicologia della gente,
il livello della produzione e dell’occupazione complessive dipende dall’ammontare
dell’investimento”. Più esaurientemente, la produzione totale dipende dalla propensione al
tesoreggiamento, da come la politica monetaria influenza la quantità di moneta, dallo stato di
fiducia relativamente al rendimento futuro dei beni capitali, dalla propensione alla spesa, e dai
fattori sociali che influenzano il livello del salario monetario. Di questi diversi fattori sono però
quelli che determinano il tasso dell’investimento, quelli dei quali ci si può fidare di meno, perché
sono quelli che sono influenzati dalle nostre previsioni sul futuro del quale sappiamo così poco.
Quando l’occupazione cresce, il reddito reale aggregato cresce. La psicologia della
collettività è tale che quando il reddito reale aggregato cresce, il consumo cresce, ma non quanto il
reddito. Di conseguenza i datori di lavoro avrebbero delle perdite se destinassero l’intero aumento
di occupazione alla soddisfazione dell’aumento nella domanda per il consumo immediato. Così, per
giustificare ogni dato ammontare di occupazione vi deve essere un ammontare di investimento
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corrente sufficiente ad assorbire l’eccesso della produzione totale rispetto a quanto la collettività
sceglie di consumare quando l’occupazione è al livello dato. Se non vi fosse questo ammontare di
investimento, i ricavi degli imprenditori sarebbero minori di quanto occorre per indurli ad offrire
quel dato ammontare di occupazione. Ne segue perciò che, data quella che chiameremo la
propensione al consumo della collettività, il livello di equilibrio dell’occupazione, cioè il livello al
quale non vi è alcun motivo perché i datori di lavoro nel complesso espandano o contraggano
l’occupazione, dipenderà dall’investimento corrente.
L’ammontare di investimento corrente, a sua volta, dipenderà da quello che chiameremo lo
stimolo a investire; e lo stimolo a investire si vedrà che dipende dalla relazione fra la scheda di
efficienza marginale del capitale e il complesso dei tassi di interesse su prestiti di varie scadenza e
rischi. Così, data la propensione al consumo e il saggio di nuovo investimento, vi sarà un solo
livello di occupazione compatibile con l’equilibrio; poiché qualsiasi altro livello condurrebbe a una
disuguaglianza fra il prezzo di offerta aggregata della produzione nel complesso e il suo prezzo di
domanda aggregata.
Questo livello non può essere maggiore della piena occupazione, cioè il salario reale non
può essere minore della disutilità marginale del lavoro. Tuttavia non vi è alcuna ragione in generale
per aspettarsi che esso sia uguale alla piena occupazione. La domanda effettiva associata alla piena
occupazione è un caso speciale, che si realizza soltanto quando la propensione al consumo e lo
stimolo a investire stanno fra loro in una relazione particolare. Questa relazione particolare, che
corrisponde ai presupposti della teoria classica, è in un certo senso una relazione di ottimo. Tuttavia
può esistere soltanto quando, per caso o per disegno deliberato, l’investimento corrente fornisce un
ammontare di domanda giusto uguale all’eccesso del prezzo di offerta aggregata della produzione
corrispondente alla piena occupazione, rispetto a quanto la collettività sceglierà di spendere in
consumi quando è pienamente occupata.
Per Keynes in ogni situazione data vi è un unico livello di occupazione compatibile con
l’equilibrio, e tale equilibrio è stabile anche se l’occupazione non è piena. A ciò basta che la
domanda aggregata sia uguale all’offerta aggregata. Questa analisi ci fornisce, secondo Keynes, una
spiegazione del paradosso della povertà nel bel mezzo dell’abbondanza. “E’ caratteristica saliente
del sistema economico in cui viviamo che, mentre è soggetto a fluttuazioni severe per quanto
riguarda la produzione e l’occupazione, esso non è violentemente instabile. In effetti esso sembra
capace di permanere in una condizione cronica di attività subnormale per un periodo considerevole,
senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso complesso [...]. Una situazione
intermedia, né disperata né soddisfacente, è la nostra sorte normale.”
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4.3 Attualità di Keynes
L’opinione comune circa le cosiddette ‘politiche keynesiane’ è che esse consistano in
qualche generica forma di spesa pubblica, intesa a innalzare la domanda effettiva a un livello più
alto di quello che altrimenti si avrebbe con i soli consumi e investimenti privati, a un livello
possibilmente pari a quello che comporta la piena occupazione. A questa interpretazione spuria
della lezione keynesiana hanno contribuito il keynesismo che riduce la ricetta keynesiana a un
rilancio della domanda effettiva, accompagnato da un taglio dei salari. Keynes, probabilmente, non
se ne sarebbe meravigliato: “Queste franche conclusioni di un economista possono essere
interpretate in un senso sia conservatore che rivoluzionario. [...] Così credo proprio di essere stato
capace, una volta tanto, di accontentare tutti”.
Il pensiero di Keynes è realmente pericoloso, poiché comporta una riflessione e una
scommessa sui fini, anziché sui mezzi, che la politica può e deve darsi in questo mondo. Questo
mondo, “il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico”, a Keynes non piace: “Non è
intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e
anzi stiamo cominciando a detestarlo.”
Ma quando ci domandiamo che cosa mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi.
Per quanto perplesso, anzi proprio per questo, Keynes non è un conservatore. Infatti esclude che i
difetti di questo mondo possano essere emendati applicando la dottrina del laissez faire, di cui
confuta i princìpi metafisici e denuncia le conseguenze: “Se lo scopo della vita è di cogliere le
foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di raggiungere questo scopo
è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. I
difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono, per Keynes, l'incapacità a
provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito.
Keynes nega, con eccellenti argomentazioni teoriche, che possa essere “lui - il grande capitano di
industria, il maestro individualista - che ci condurrà per mano in Paradiso”. Dunque dovrà
intervenire il governo. Questo non significa che il governo debba sostituirsi all'impresa privata:
“Dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono
tecnicamente individuali. L’azione più importante dello stato si riferisce non a quelle attività che gli
individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d'azione degli
individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo stato. La cosa
importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’
peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto. [...] Il nostro problema è di elaborare
un’organizzazione sociale che sia la più efficiente possibile, senza offendere le nostre nozioni di un
soddisfacente sistema di vita”.
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E’ impressionante che i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo
siano oggi gli stessi che Lord Keynes denunciava nel 1936: “l'incapacità a provvedere una
occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito”. Questa
persistenza patologica non trova spiegazioni convincenti nell’antropologia e nell’analisi economica
reazionarie; mentre la possono spiegare la Teoria generale di Keynes e la miopia dei conservatori:
“La difficoltà sta nel fatto che i leaders capitalisti nella City e in parlamento non sono capaci di
distinguere i nuovi strumenti e le misure per salvare il capitalismo da quello che loro chiamano
bolscevismo”.
Per lunghi periodi il ‘keynesismo’ può anche essere sembrato dominante, in forme più o
meno oneste di spesa pubblica. Keynes ha certamente autorizzato un intervento, diretto o indiretto,
a sostegno della domanda effettiva e dunque (“dunque” ai suoi tempi) dell’occupazione. L’idea era
che soltanto per caso la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, avrebbe coinciso con la
produzione corrispondente al pieno impiego, e che dunque un intervento attivo del governo
normalmente sarebbe stato necessario. Anche questo tipo di intervento oggi potrebbe essere utile.
Anziché il Keynes del breve periodo, tuttavia, è il Keynes radicale cui si dovrebbe pensare, anche
perché ce ne sono le condizioni (non anche la volontà politica). Questo Keynes, il Keynes del
capitolo 24 della Teoria generale, sulla filosofia sociale verso la quale la teoria generale potrebbe
condurre, in verità non ha mai dominato, in nessun governo e in nessuna università. Eppure ci si
trovano analisi e disegni di estremo interesse.
Che cosa si dovrebbe fare, e si potrebbe fare, se davvero si condivide il giudizio che la
disoccupazione e l’ineguaglianza sono dei mali da guarire ? Secondo questo Keynes, citato qui di
seguito, si dovrebbero fare tre cose.
1) Nelle condizioni contemporanee l’aumento della ricchezza, lungi dal dipendere
dall’astinenza dei ricchi, come in generale si suppone, è probabilmente ostacolato da questa. Viene
quindi a cadere una delle principali giustificazioni sociali della grande disuguaglianza delle
ricchezze. “[...] Per mio conto, ritengo che vi siano giustificazioni sociali e psicologiche per
rilevanti disuguaglianze dei redditi e delle ricchezze, ma non per disparità tanto grandi quanto
quelle oggi esistenti. Vi sono pregevoli attività umane che richiedono il movente del guadagno e
l’ambiente del possesso privato della ricchezza affinché possano esplicarsi completamente. Inoltre,
l’esistenza di possibilità di guadagni monetari e di ricchezza privata può istradare entro canali
relativamente innocui pericolose tendenze umane, le quali, se non potessero venir soddisfatte in tal
modo, cercherebbero uno sbocco in crudeltà, nel perseguimento sfrenato del potere e dell’autorità
personale e in altre forme di autopotenziamento. E’ meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul
proprio conto in banca che sui suoi concittadini. [...].” Ma per stimolare queste attività e per
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soddisfare queste tendenze non è necessario che le poste del gioco siano tanto alte quanto adesso.
Poste assai inferiori serviranno ugualmente bene, non appena i giocatori vi si saranno abituati. Però
non deve confondersi il compito di tramutare la natura umana col compito di trattare la natura
umana medesima. Sebbene nella repubblica ideale sarebbe insegnato, ispirato o consigliato agli
uomini di non interessarsi affatto alle poste del gioco, può essere pur tuttavia saggia e prudente
condotta di governo consentire che la partita si giochi, sia pure sottoponendola a norme e
limitazioni, fino a quando la media degli uomini, o anche soltanto una sezione rilevante della
collettività, sia di fatto dedita tenacemente alla passione del guadagno monetario.
2) Ora, sebbene questo stato di cose sarebbe affatto compatibile con un certo grado di
individualismo, esso significherebbe tuttavia l'eutanasia del rentier e di conseguenza l'eutanasia del
potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. Oggi
l’interesse non rappresenta il compenso di alcun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la
rendita della terra. [...] Potremmo dunque mirare in pratica (non essendovi nulla di tutto ciò che sia
irraggiungibile) a un aumento del volume di capitale finché questo non fosse più scarso, cosicché
l’investitore senza funzioni non riceva più un premio gratuito: e a un progetto di imposizione diretta
tale da permettere che l’intelligenza e la determinazione e l’abilità del finanziere, dell’imprenditore
et hoc genus omne (i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro potrebbe
ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano imbrigliate al servizio della collettività, con
una ricompensa a condizioni ragionevoli.
3) Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in
parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in
parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra improbabile che l'influenza della politica bancaria sul
saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento.
Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà
l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena; sebbene ciò non escluda
necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori
con la privata iniziativa. [...] Non è la proprietà degli strumenti di produzione che è importante che
lo Stato si assuma. Se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo dei mezzi
dedicati ad aumentare gli strumenti di produzione e il saggio base di remunerazione per coloro che
li possiedono esso avrà compiuto tutto quanto è necessario.
Proporre queste tre ricette (redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del
rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell'investimento) come strumenti per
combattere la disoccupazione e l'ineguaglianza può sembrare una predica. Esse si reggono invece su
analisi difficili da liquidare, tanto che il problema viene spesso rimosso definendo la
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disoccupazione e l’ineguaglianza come fenomeni “naturali”. Citando Paul Valery, Keynes ricorda
che i conflitti politici distorcono e disturbano nella gente il senso di distinzione tra questioni di
importanza e questioni di urgenza e che dunque il cambiamento economico di una società è cosa da
realizzare lentamente. E’ vero che il cambiamento economico di una società è un processo lento,
poiché richiede consenso politico circa un diverso modello di società, diverso circa la strada da
prendere anziché restare in un centro inesistente. Eppure Keynes è sicuro che “il potere degli
interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la progressiva estensione delle idee. Non però
immediatamente, [...] giacché nel campo della filosofia economica e politica non vi sono molti sui
quali le nuove teorie fanno presa prima che abbiano venticinque o trent’anni di età, cosicché le idee
che funzionari di Stato e uomini politici e perfino gli agitatori applicano agli avvenimenti correnti
non è probabile che siano le più recenti. Ma presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti,
che sono pericolose sia in bene che in male.”
5. LA NUOVA ECONOMIA KEYNESIANA
La Nuova economia Keynesiana (NEK) ha rilanciato la sfida del disequilibrio fornendo a
questi problemi risposte compatibili con i risultati Keynesiani (Messori, 1996). La NEK si divide in
due filoni: il filone incentrato sulle rigidità nominali e reali (NEKIM) e quello incentrato sulle
imperfezioni dei mercati dei capitali (NEKIA). I limiti del lascito Keynesiano sono collegabili a (i)
insufficiente specificazione dei legami tra salari nominali flessibili e variazioni delle aspettative
degli imprenditori (ii) offerta esogena di moneta e meccanismo di trasmissione incentrato su nesso
causale tasso d’interesse nominale e investimenti (iii) incongruenza delle dinamiche cicliche delle
variabili di prezzo (andamenti stabili o prociclici dei salari). Effetti di shock esogeni delle
aspettative che non sono considerati nella Sintesi neoclassica di Hicks (1939).
Il principale obiettivo della Nuova economia Keynesiana delle imperfezioni (NEKIM) è
quello di riottenere i principali risultati della sintesi di Hicks nell’ambito di modelli microfondati e
con aspettative (quasi) razionali. (i) gli agenti attuano in modo (quasi razionale) comportamenti
massimizzanti (ii) in presenza di rigidità microfondate (che ostacolano l’aggiustamento dei prezzi
monetari) i comportamenti determinano equilibri macroeconomici subottimali con disoccupazione
involontaria. (iii) gli shock dal lato della domanda e dell’offerta incidono su occupazione e reddito
almeno nel breve periodo e la politica monetaria torna ad avere effetti reali.
Esempi: contratti salariali e aggiustamenti dei listini scaglionati nel tempo (comportamenti
quasi razionali fanno in modo che le imprese non aggiustino salari e prezzi nominali
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tempestivamente) impediscono gli aggiustamenti simultanei nei prezzi. In presenza di shock
negativi di domanda e offerta si verificano quindi aggiustamenti di quantità (per esempio con
disoccupazione) piuttosto che di prezzo. Esempio shock di domanda: crolla la domanda di un
prodotto le imprese non abbassano il prezzo ma diminuiscono i costi, licenziando. Shock di offerta:
aumenti dei prezzi dell’energia le imprese non aumentano i prezzi finali ma diminuiscono i costi
licenziando.
Imperfezioni nei mercati dei capitali. Definizione Nuova economia Keynesiana dell’informazione
asimmetrica (NEKIA). L’attenzione per il mercato dei capitali e per il lato dell’offerta di beni fa sì
che il filone della NEKIA abbia legami meno stretti con la Sintesi Neoclassica di Hicks e assuma
con più riferimento esplicito la NMC.
Nei modelli della NEKIA si realizzano equilibri subottimali con disoccupazione involontaria
e fluttuazioni cicliche anche a causa dell’inefficiente funzionamento delle varie sezioni che
compongono il mercato dei capitali e dei conseguenti vincoli finanziari che pesano sulle decisioni
produttive delle imprese. La NEKIA attribuisce molta importanza alla incompletezza dei mercati e
alle imperfezioni informative utilizzando e rendendo omogenei al proprio scopo i principali risultati
microeconomici delle teorie con informazione asimmetrica (Akerlof, 1970; Stiglitz e Weiss, 1981).
Questi riferimenti microeconomici fondano l’analisi della NEKIA rispetto alle imperfezioni di tre
mercati: il mercato del credito, il mercato azionario e il mercato del lavoro. Dalle imperfezioni di
questi mercati discendono i vincoli alla produzione.
Un esempio di vincolo finanziario è quello del razionamento del credito (Stiglitz e Weiss,
1981). Una banca posta di fronte a un sottoinsieme di mutuatari con progetti di diversa rischiosità
ma ex ante indistinguibili a causa delle asimmetrie informative, può trovare conveniente la
fissazione di un tasso di interesse di equilibrio al quale soddisfa totalmente la parte di credito di una
parte soltanto di questo sottoinsieme e non concede alcun credito alla parte restante. Si determina un
equilibrio con razionamento del credito. Ogni aumento del tasso d’interesse modifica
negativamente il sottoinsieme dei progetti finanziati dalla banca, nel senso che spinge i mutuatari a
scegliere progetti sempre più rischiosi fra quelli a loro disposizione (incentivo avverso) e spinge i
mutuatari meno rischiosi a rinunciare alla domanda di credito (effetto di selezione avversa). Il
razionamento del credito ha effeti macroeconomici sul livello di attività.
Ancora una volta i fallimenti del mercato implicano livelli subottimali di attività e
disoccupazione involontaria. Inoltre il meccanismo di mercato si inceppa inpedendo l’aggregazione
della curva di offerta e di domanda. I segnali di prezzo non sono più riducibili alla tradizionale
funzione allocativa e i vincoli di quantità diventano dominanti.
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5. RITORNO AI CLASSICI
Ritorno ai classici: la critica di Keynes non risale alla critica delle premesse teoriche delle teorie
ortodosse. Nella impostazione teorica dei classici Ricardo, Quesnay, Marx, Smith il salario non
appare determinato dall’equilibrio di forze contrapposte. Esso appare regolato al livello storico di
sussistenza o dai rapporti di forza tra le classi sociali. In questo modo il salario può essere spiegato
separatamente dagli altri redditi: può essere assunto come un dato quando si determinano questi
ultimi, e in particolare quando si determinano i profitti. I redditi diversi dal salario vengono allora
ottenuti come un residuo, cioè come ciò che rimane del prodotto sociale una volta dedotta la quota
nota spettante ai lavoratori. Essi appaiono come il sovrappiù al di sopra di tale quota.
5.1 SRAFFA (1898-1983)
Sraffa ha riportato alla luce questa impostazione classica. Sraffa inoltre ha proposto una
soluzione alla determinazione del saggio del profitto e dei prezzi relativi delle merci, per ipotesi
più generali di quelle per le quali esse si scambierebbero secondo il lavoro incorporato.
Le critiche alla teoria marshalliana della concorrenza perfetta. Secondo i marginalisti i
prezzi sono indici di scarsità relativa e determinati dal livellamento tra domanda e offerta,
nell’ambito degli equilibri parziali. In particolare Sraffa ricorda che i rendimenti decrescenti hanno
a che fare con modifiche nelle proporzioni tra i fattori della produzione, mentre i rendimenti
crescenti hanno a che fare con l’espansione della produzione e la crescente divisione del lavoro. I
rendimenti crescenti non possono riguardare simultaneamente l’industria e le imprese al suo
interno, perché altrimenti queste tenderebbero a espandersi fino a uscire dalla condizione di
concorrenza (come difatti avviene con la tendenza indiscutibile all’oligopolio!). La teoria
Marshalliana non ha una coerenza logica interna c’è una contraddizione quindi tra rendimenti
crescenti ed equilibrio concorrenziale.
L’oggetto dell’analisi di Sraffa è anche la ricerca sulla teoria del valore e la distribuzione
del sovrappiù fra profitti e salari. L’indagine viene condotta senza far ricorso alle funzioni e curve
di domanda e offerta. Non è più possibile stabilire una significativa relazione inversa tra il prezzo di
un fattore e la quantità di esso impiegata. L’idea neoclassica che il comportamento massimizzante
dei soggetti conduca all’eguaglianza tra il prodotto marginale del capitale e il suo prezzo,
risolvendo il problema distributivo, ne risulta compromessa.
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Egli vuole dimostrare come la teoria del valore sia più corretta per spiegare il disequilibrio.
Il prezzo si fissa secondo la teoria del valore e cioè in relazione al processo di produzione e non
secondo la curva di domanda e offerta quando Rmg = Cmg. Il problema della determinazione dei
rapporti di scambio tra i diversi settori dell’economia va affrontato simultaneamente al problema
della distribuzione del reddito tra le classi sociali dei lavoratori, dei capitalisti, dei proprietari
terrieri. L’intersezione tra questi due problemi costituisce ciò che nella tradizione classica è indicato
come problema del valore.
La critica di Sraffa colpisce una tesi vitale per la tradizione marginalista: l’idea cioè che la
riduzione del salario reale causata dalla disoccupazione nel caso di un mercato del lavoro
concorrenziale porti a un riassorbimento della disoccupazione stessa (inducendo gli imprenditori a
scegliere tecniche a maggiore intensità di lavoro). Quindi i meccanismi autoequilibratori del
mercato non agiscono più spontaneamente. Inoltre, l’unicità dei rendimenti dei beni capitali non è
più garantita e non si può più avere, come nel sistema di Walras, un unico tasso di rendimento in
tutti i settori produttivi (non c’è uniformità nel tasso di profitto).
Inoltre la teoria moderna (neoclassica o marginale), determina la configurazione di
equilibrio economico del sistema, e quindi la distribuzione del prodotto fra i soggetti che ne fanno
parte, sulla base della legge della domanda e dell’offerta. Essa si fonda su due presupposti: a) che la
quantità delle risorse disponibili in un determinato momento, e quindi dei cosiddetti ‘fattori della
produzione’, cioè il lavoro e il capitale, siano date; b) che, come per qualsiasi altra merce, anche il
prezzo di un fattore della produzione dipenda dalla sua scarsità relativa, ovvero che vi sia una
relazione inversa tra il prezzo di un fattore e la quantità di esso impiegata nel processo produttivo.
L’analisi di Sraffa critica soprattutto il primo presupposto (quantità dei fattori produttivi date) della
teoria tradizionale dimostrando l’impossibilità di concepire il capitale come una merce qualsiasi,
del cui servizio il saggio del profitto possa essere considerato il prezzo. La critica pone in rilievo il
fatto che il capitale è in realtà un insieme di mezzi di produzione prodotti, i cui prezzi non variano
in modo univoco al variare della distribuzione del reddito.
Tale critica alla teoria neoclassica del valore e della distribuzione è stata sviluppata a partire
dal dibattito sul concetto di capitale, sulla funzione aggregata di produzione e sul ritorno delle
tecniche nell’opera Produzione di merci a mezzo di merci (1960). In questo libro schematico ed
enigmatico si dimostra, in un centinaio di pagine, l’impossibilità di concepire il capitale come una
merce, di cui il profitto possa essere considerato il prezzo, essendo il capitale in realtà un insieme di
mezzi di produzione eterogenei. Da ciò consegue che il capitale non può essere dato, cioè misurato
in termini di valore, indipendentemente dalla determinazione dei valori delle merci che lo
costituiscono e anteriormente ad essa. Se questo non è possibile, allora non è possibile nemmeno
23
misurare il prodotto marginale del capitale, e nemmeno quello del lavoro. Pertanto non esiste la
possibilità di risolvere il problema distributivo adottando l’impianto marginalista, che calcola il
profitto e il salario d’equilibrio proprio sulla base dei prodotti marginali di capitale e lavoro.
Ne deriva che la divina armonia distributiva sancita dai neoclassici non è dimostrabile: non
esiste quindi nessun livello “naturale” del salario, e di conseguenza nessuna configurazione
distributiva del prodotto sociale d’equilibrio. Esistono invece limiti alquanto ampi entro i quali le
quote distributive possono variare, ed entro tali limiti la situazione viene determinata in primo
luogo dalle influenze storiche esercitate gradualmente dalle forze sociali e politiche.
Lo scopo principale di Produzione di merci a mezzo di merci è enunciato nel sottotitolo:
Premesse a una critica della teoria economica, e ancora nella Prefazione: è “carattere particolare
della serie di proposizioni che vengono ora pubblicate che esse, per quanto non si addentrino
nell’esame della teoria marginale del valore e della distribuzione, sono state tuttavia concepite così
da poter servire di base per una critica di quella teoria”.
Oggetto dell’analisi è la relazione che corre, in un dato momento di un sistema economico,
tra i prezzi relativi e le categorie della distribuzione. L’obiettivo è l’elaborazione di una teoria
economica che giunga alla determinazione dei prezzi delle merci e delle variabili distributive in
maniera indipendente dal concetto di scarsità relativa dei fattori produttivi. L’analisi di Sraffa si
struttura su uno schema del processo economico che non presuppone l’agire delle forze della
domanda e dell’offerta come determinanti dei valori di equilibrio. La visione del sistema di
produzione e di consumo che si ricava è di un processo circolare; la stessa visione propria del
Tableau économique di Quesnay e degli schemi di riproduzione di Marx.
La conclusione analitica di Sraffa è la seguente: in un mondo con più merci, date le sole
condizioni tecniche di produzione (la matrice dei coefficienti tecnici), e una delle due variabili
distributive (poniamo il salario) si determinano, mediante un sistema di equazioni simultanee i
prezzi che assicurano il pareggio del bilancio nelle diverse industrie e l’altra variabile distributiva
(cioè il saggio del profitto). Viceversa se si ponesse come dato il saggio del profitto, il quale è
“suscettibile di esser determinato da influenze estranee al sistema della produzione, e
particolarmente dal livello dei tassi di interesse monetario”, si determinerebbero i prezzi e l’altra
variabile distributiva (cioè in questo caso il salario). Poiché a seconda del valore dato a una
variabile distributiva cambia il valore dell’altra variabile distributiva, lo schema di Sraffa mostra
come non vi sia un unico salario o profitto di equilibrio, ma vi siano, dal punto di vista logico,
infinite configurazioni distributive ammissibili. Questa è una profonda differenza con la teoria
tradizionale.
24
Per la teoria tradizionale, la distribuzione del reddito non è che la conseguenza necessaria
delle dotazioni iniziali dei soggetti e delle scelte che essi hanno compiuto relativamente al consumo
e alla produzione. Nella concezione di Sraffa, invece, e proprio come nella concezione di Ricardo,
la distribuzione del reddito non dipende soltanto dalle condizioni della produzione: vi è anche una
componente esogena. Affermare che la remunerazione dei ‘fattori’ della produzione, lavoro e
capitale, ovvero la distribuzione del reddito tra salario e profitto, è ‘esterna’ alle condizioni della
produzione significa negare che esistano ‘leggi di mercato’ che univocamente e necessariamente
stabiliscano quale sia la ‘giusta’retribuzione dei fattori.
6. Virtù e limiti del mercato concorrenziale
Alla luce di quanto esposto è difficile considerare il mercato concorrenziale, inteso in senso
neoclassico, come l’unica maniera per regolare la società. Disoccupazione e disequilibrio sono in
effetti molto frequenti nel breve e nel lungo termine. Inoltre dagli anni ottanta in poi il “mercato” è
stato visto come l’unico strumento per promuovere lo sviluppo e combattere la povertà, in un
quadro neoliberista in cui si preferisce alla giustizia e alla solidarietà sociale la presunta efficienza
allocativa. Spesso si tende a confondere anche la democrazia con il mercato. Si riducono anche le
relazioni sociali a pure forme di scambio (generalizzazione dell’uso delle merci). Il mercato viene
considerato l’unica maniera per agirare l’insopportabile burocrazia, dopo il fallimento delle
economie pianificate (Sachs, 2004).
Imponendo i principi del mercato su scala globale, possono accedere allo sviluppo solo
coloro che sono pronti a sbarazzarsi del tutto delle proprie tradizioni e a consacrarsi al
conseguimento del profitto economico. Ciò avviene, a spese, sovente, dell’intera gamma degli
obbighi sociali e morali. Seguendo Sapelli (2005) queste forme di devianza sociale manifestano
un’assenza di sincronia tra sviluppo economico ed elaborazione dei modelli di comportamento
sociale. Il neocapitalismo è lo sviluppo ininterrotto della mercificazione, dove tutto diventa merce,
anche la cultura: un processo che genera nel tempo una società fondata sui consumi di massa. Ad
esempio, in molti dei paesi in via di sviluppo non è possibile impegnarsi in scambi utilitaristici, e
allora? Esistono dei limiti alla mercificazione per la crescita?
25
7. Riferimenti bibliografici
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Vicarelli, F. (1983), Keynes, L’instabilità del capitalismo Etas Libri collana gli economisti
VI. MOLTIPLICATORE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE.
1. Il moltiplicatore in una economia chiusa
1.1 In un'economia chiusa, ove A indichi la spesa autonoma, cioè quella spesa che non ha
luogo sulla base della disponibilità consentita dal reddito corrente, il moltiplicatore del
reddito è il rapporto tra il reddito e la spesa autonoma ed è concepito come un multiplo delle
dispersioni che avvengono nel circuito di generazione del reddito, pensate come stabili,
costanti, uniformi.
Y=1\s A,
dove s rappresenta il complesso delle dispersioni. In un' economia aperta, le dispersioni nel
circuito di generazione del reddito sono costituite non soltanto da quelle che agiscono in una
economia chiusa (risparmi, tassazione, ecc) ma anche da ciò che va in importazioni.. La
moltiplicazione indotta dalla spesa autonoma può essere posta come la seguente relazione:
(Y=1\m+s) A.
Se non vogliamo interpretare la relazione scritto come pura relazione ex post, che stabilisce
un legame logico e non metrico tra spesa autonoma e reddito, possiamo supporre che le
dispersioni siano costanti e parlate di propensione al risparmio, s, (trascurando tutte le altre
dispersioni interne e propensione ad importare, m. É un modo molto semplice e alquanto
impreciso di scrivere il moltiplicatore in un’economia aperta ma lo adotteremo per ragioni di
semplicità analitica, ricordando che varie sono le ipotesi sottostanti a questo modo di
impostare la generazione del reddito. La più importante é che prevalga uno stato normale
delle aspettative e che gli imprenditori regolino l'attività sulla costanza delle scorte (man
mano che le scorte diminuiscono essi le ricostituiranno dando un impulso alla produzione e
al reddito). Questo modo meccanico di rappresentare il processo vale solo a fini didattici; in
generale non sappiamo quali condizioni ci siano dietro la relazione ex post tra spesa
autonoma e indotta. Possiamo solo ex-post mettere in rapporto il reddito complessivo che si
è generato con gli impulsi autonomi e fare poi esercizi di statica comparata, ma quale sia il
vero processo dinamico sottostante non lo sappiamo. Altra ipotesi semplificatrice dietro la
formula è che non ci sono importazioni finali nella spesa autonoma, perché altrimenti
andrebbero sottratte ad A. Inoltre, il reddito che si forma incorpora beni importati nella
percentuale "m", ma le importazioni intermedie andrebbero rapportate alla produzione e non
al reddito (i due aggregati coincidono solo nel caso di prezzi costanti). Oltre le esportazioni
(che in questo caso sono autonome per definizione e non dipendono dal reddito del paese)
anche le importazioni possono avere una componente autonoma.
Accettiamo queste semplificazioni; ragioniamo come se la spesa autonoma generi un
reddito secondo un processo meccanico.
2. Il moltiplicatore in una economia aperta
2.1 Per rappresentare il processo di generazione del reddito su scala mondiale supponiamo
che ci siano solo due paesi, A e B. Abbiamo visto che una parte di dispersione in A è
rappresentata dalle importazioni. Se queste sono dispersioni per il paese A, non lo sono nel
reddito mondiale: le importazioni di A non sono altro che le esportazioni per un altro paese,
nel nostro caso del paese B, cioè un reddito che si forma altrove. Attraverso le importazioni
del paese A, dovute alla generazione del reddito nel paese A, il paese B riceve uno shock di
domanda (autonoma) e da vita a una generazione di reddito incrementale all’interno. Se le
politiche economiche non intervengono e tutto si sviluppa meccanicamente, si avrà attraverso
le importazioni anche una ripercussione di ritorno del reddito incrementale generato in B nel
paese A e così via. L'impulso della generazione di reddito in un paese sarà tanto più forte per
l'altro quanto più alta è la propensione ad importare e quanto più bassa è la propensione al
risparmio. Un più alto "m" trasmette più alta espansione all'estero e un più basso "s" darà
luogo ad un reddito più alto e, quindi, a più alte ripercussioni a parità di "m". Nell'economia
mondiale le esportazioni di ciascun paese sono una variabile endogena e non esogena: cioè:
derivata, non autonoma. Il livello del reddito mondiale è determinato dalla spesa autonoma
mondiale dei singoli paesi. Possiamo vedere il tutto formalmente:
Ya = Ca +Ia +Ea -Ma
Yb = Cb +Ib +Eb -Mb
dove Ia e Ib indicano tutte le spese autonome, cioè tutte quelle che non dipendono dal reddito,
mentre Ca e Cb tutte quelle indotte, cioè dipendenti dal reddito; chiamando sa e sb la
propensione al risparmio dei due paesi e ma e mb quella all'importazione , si può scrivere:
Ya = ( 1-saA ) Ya +Ia +mb Yb –maYa
Yb = ( 1-sbB ) Yb +Ib+maYa -mbYb
dove abbiamo sostituito :
Ca = ( 1-sa )Ya
Cb = ( 1-sb )Yb
Ea = mb Yb
Eb =ma Ya
Con semplici passaggi algebrici:
Ya={(sb +mb )\(sa +ma )(sb +mb)-mamb}Ia+{mb\(sa+ma)(sb+mb) -mamb}Ib
Yb={ma\(sa+ma)(sb+mb)-mamb}Ia+{(sa+ma\(sa+ma)(sb+mb)- mamb}Ib
La spesa autonoma di A influenza quindi il reddito sia in A che in B. Il reddito mondiale
(Ya+Yb) è il prodotto della generazione del reddito sia in ogni singolo paese sia di effetti che
derivano dall’entità per cui quella moltiplicazione travalichi ogni singolo paese, provocando
moltiplicazioni secondarie sia nel paese estero che in quello d’origine. Sempre in esercizi di
statica comparata, supponiamo ora che, a partire da una situazione data, ci sia un'espansione
del reddito di A dovuto ad un aumento della spesa autonoma, �Ia , mentre l'espansione in B
sia nulla:
�Ya ={(sb+mb)\(sa+ma)(sb+mb)-mamb} �Ia
Se raccogliamo, otteniamo:
1) �Ya ={(1+mb\sb)}\{(ma+sa(1+mb\sb)} �Ia
mentre la formula semplice del moltiplicatore senza ripercussione è:
2) �Ya = {1\(sa+ma)} �Ia
Ma in qualche modo l'effetto esercitato nel primo moltiplicatore da (1+mb\sb) è superiore nel
numeratore rispetto al denominatore se sA<1. Ciò vuol dire che l'espansione è più forte in
questo caso che non nella formula 2 quanto più alto è mb, cioè la propensione ad importare di
B, e quanto più bassa è sb , cioè la propensione a risparmiare di B.
2.3 Abbiamo detto qui che questo modo nuovo di porre la generazione del reddito mondiale
è una rappresentazione meccanicistica di come avvengono le cose. Lo è, se non altro perché
durante la generazione del reddito, e in risposta alle circostanze che si producono nelle
economie, le autorità possono intervenire con decisioni di politica economica. Ad esempio
per alcuni paesi si determinerà una bilancia di conto corrente attiva e per altri, invece,
passiva, in conseguenza sia dell'entità della propria spesa autonoma che di quella degli altri
paesi; sia, ancora, in conseguenza dei valori che assumono i parametri che influenzano la
generazione del reddito e che possono variare in conseguenza di essa. Certamente un paese
con un un'alta spesa autonoma e un'alta propensione ad importare, se trova di fronte a sé altri
paesi con bassa spesa autonoma e bassa propensione ad importare, incorrerà in un deficit di
conto corrente, mentre gli altri genereranno un surplus di conto corrente. Sempre in un
esercizio di statica comparata noi possiamo provare interesse a esaminare se l’operare
meccanico del moltiplicatore consente la risoluzione di un problema di trasferimento,
prevedendo un impulso originario pari a T per il paese B (che riceve) il trasferimento e un
demoltiplicatore –T per il paese A che lo fa. L’ipotesi è che entrambi trasferiscono il
trasferimento da effettuare sul reddito dei residenti (forse attraverso il sistema fiscale),
predisponendosi l’uno ad accogliere e l’altro ad attuare il trasferimento. Si può vedere che,
anche in questo caso nulla garantisce che il trasferimento sia effettuato e che (mbYb –
maYa)>T o viceversa.
2.3 L’esercizio può essere ripetuto nel caso in cui il paese B riesca a strappare ad A una
parte di mercato interno con un incremento autonomo delle proprie esportazioni �MA.
L’impulso positivo in B pari a �MA e negativo in A non è generalmente (a meno di ipotesi
particolari sui parametri) tale da consentire a A di recuperare il reddito perso tramite il
trascinamento dell’espansione di reddito e importazioni in B. Il risultato è che B si ritroverà
con un surplus in conto corrente e espansione dell’attività economica mentre A con l’esatto
inverso, il che da un’idea della natura conflittuale che può essere insita, in condizioni non
cooperative, nel commercio internazionale. Sempre rimanendo in una visione meccanicistica,
possiamo mettere un ingranaggio in più nel meccanismo del moltiplicatore internazionale e
supporre qualche funzione di reazione in relazione all'andamento del conto corrente che,
attraverso l’azione compensatrice delle autorità, faccia diventare endogene le variazioni della
spesa autonoma. Ma sono puri espedienti perché i paesi non agiscono in modo standardizzato
(si ricordi la lezione sulla sostenibilità). I prezzi sono una variabile in più che entra in azione
durante il processo; altrettanto i cambi. Il mutamento delle ragioni di scambio può far mutare
il contenuto di importazioni e la parte autonoma delle esportazioni (con ripercussioni sul
reddito estero )
2.4 Possiamo, tuttavia, ancora tenere il moltiplicatore per esercizi di meccanica e di dinamica
deterministica e continuare a standardizzare. Se introducessimo i prezzi, la funzione di
reazione potrebbe avere tra i suoi argomenti anche l'inflazione e in questo modo dar conto
degli interventi delle autorità sulle variabili di spesa. Ovviamente il tutto potrebbe essere
sviluppato in un vero e proprio modello. Si potrebbero introdurre tante altre varianti sul tema;
cioè ad esempio ipotizzare che i paesi che sono in surplus non correggano gli andamenti della
spesa autonoma in funzione del conto corrente, mentre quelli in deficit lo facciano.
Ovviamente ciò introdurrebbe una spirale deflattiva. Infatti in questo caso si verificherebbe
che i paesi in deficit deflazionino e così facendo passino il deficit a qualche altro paese, in
quanto la somma dei conti corrente deve essere uguale a zero a livello mondiale. A loro volta
questi ultimi paesi avrebbero un comportamento deflazionistico per rimediare al deficit
sopravvenuto, e così via.
2.5 Il comportamento del reddito mondiale dipende molto dai comportamenti di politica
economica che influenzano la spesa autonoma, se non altro influenzano le aspettative sulla
dinamica dell'attività economica in futuro. Il realismo di ipotesi come quelle adombrate, che
legano la politica economica al comportamento del conto corrente, dipendono dalla
situazione finanziaria internazionale e dalla sostenibilità e finanziabilità del deficit; una
condizione che vedremo meglio attraverso la voce: sistema finanziario internazionale. Nello
schema precedente si può immaginare che esistano paesi che ignorano il segno del proprio
conto corrente in quanto non subiscono alcun vincolo finanziario, mentre altri lo subiscono
fortemente; a volte è il frutto di una situazione pregressa di indebitamento, che rende difficile
finanziare un deficit, mentre la possibilità di avere credito internazionale rende più facile
finanziarlo. Ciò dipende anche dal modo di generazione della liquidità internazionale e della
sua abbondanza o scarsità. Alcuni sono più condizionati dagli andamenti inflattivi e altri
meno. Sia come sia, quando noi spieghiamo gli alti e bassi del ciclo internazionale, stiamo
spiegando fatti che hanno a che fare con il finanziamento espansivo o deflativo dei rimandi
del moltiplicatore internazionale e al modo espansivo o deflattivo di come si generano e
risolvono gli squilibri e vengono percepiti i vincoli. L’insieme del quadro dei possibili
rimandi ci deve essere presente, dato il ruolo eccezionale che ha rivestito nel secondo
dopoguerra la domanda come veicolo di trasmissione degli impulsi.
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