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SINERGOLOGIA
COMUNICAZIONE
NON
VERBALE
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INDICE
1. La Sinergologia – Storia della teoria e delle sue applicazioni
2. Alcune Ricerche sulle emozioni
3. Gli Studi sulla Finzione
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INTRODUZIONE
ALLA
DISCIPLINA
SINERGOLOGICA
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1. La Sinergologia
Storia della teoria e delle sue applicazioni
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Durante un lavoro nell’ambito di una ricerca per il dottorato, Philippe Turchet notò
come esistevano delle correlazioni interessanti tra alcuni gesti apparentemente
spontanei delle persone e le emozioni che queste potevano provare in base al contesto
e all’atmosfera del momento. Da quest’osservazione nacque uno studio approfondito su
centinaia di video provenienti da pubblicità, cinema e web dai quali Turchet e i suoi
collaboratori crearono le basi della teoria sinergologica.
La Sinergologia è una disciplina che ha l’obiettivo di è comprendere
meglio il funzionamento della mente umana a partire dal linguaggio
del corpo e soprattutto di quell’area inconsapevole delle emozioni non
espresse verbalmente; dimostra, infatti, molto chiaramente che qualsiasi
reazione emotiva presente nell’essere umano è decodificabile
attraverso una lettura esperta dei segnali dati dal corpo, dal viso e da
altri elementi, come ad esempio, la postura. Il linguaggio del corpo esprime,
dunque, come evidenziato dallo stesso Turchet, ciò che il soggetto vuole
trasmettere e ciò che vuole tenere per sé.
La comunicazione umana interpersonale può essere consapevole e/o
inconsapevole; il linguaggio non verbale risulta essere molto spesso
inconsapevole. Questo perché l’essere umano quando comunica (si potrebbe
quindi dire sempre) utilizza due tipi di canali: il canale verbale, attraverso cui
esplicita il contenuto manifesto e formale del messaggio, e il canale non
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verbale, in cui sono veicolati tutti gli altri contenuti del messaggio che
rimangono latenti, a volte inconsci o volutamente nascosti.
La Sinergologia insegna come un gesto non abbia significato se
non viene letto insieme a tutti gli altri e a tutto il corpo. L’elemento
importante, infatti, è la coerenza o l’incoerenza dei diversi gesti visti in una
prospettiva unitaria che dà informazioni sulle emozioni simulate nel momento.
L’asimmetria tra le due parti del viso dà indicazioni importanti
in merito alla veridicità dell’espressione mostrata.
Turchet per primo introduce il concetto della logica emisferica nella
comunicazione non verbale; sulla metà destra del viso compaiono i segni
legati al calcolo e al controllo sulla comunicazione, mentre nella parte destra
leggiamo i segni di maggiore spontaneità.
Quando siamo di fronte al nostro interlocutore il prestare attenzione ai segni
che compaiono nell'uno o nell'altro emi-viso ci consentirà di leggere le scelte
emozionali dell'eventuale “apertura” o “messa a distanza”.
Unendo i diversi studi riguardanti l’espressione delle emozioni, si
acquisiscono gli strumenti per decodificare i segnali che il corpo e il viso
dell’altro inviano e, in tal modo, decodificare altresì tutti i meta-messaggi
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latenti presenti all’interno della sua comunicazione. In un messaggio, infatti,
oltre all’informazione vera e propria, esistono diversi meta-messaggi più o
meno consci; a seconda che utilizzi un tono di voce dolce o ruvido, una postura
chiaramente “aperta” oppure “chiusa”, una gestualità particolare e altro
ancora, la persona che invia il messaggio sottintende ulteriori elementi “di
cornice” del messaggio, elementi che, come si diceva precedentemente, il più
delle volte sono inconsapevoli. Attraverso gli studi di Turchet si è andati ad
indagare proprio tutti questi aspetti dei messaggi.
A tal proposito, Turchet e collaboratori individuano cinque dimensioni
del linguaggio non-verbale:
1. la dimensione peri-verbale;
2. la dimensione para-verbale;
3. la dimensione infra-verbale;
4. la dimensione sopra-verbale;
5. la dimensione pre-verbale.
La prima dimensione, quella peri-verbale, riguarda lo spazio dove la
comunicazione ha luogo e che intercorre tra gli individui interessati. Questa è
una dimensione dove molta importanza ha l’appartenenza socio-culturale.
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La seconda dimensione è quella para-verbale1, che viene spesso confusa
con tutto il non-verbale. Essa comprende tutto ciò che nella comunicazione
dipende dalla voce, tranne che il significato logico delle parole stesse; tutto ciò
che riguarda tono, timbro, intonazione.
La dimensione successiva, l’infra-verbale, comprende l’insieme delle
informazioni subliminali che vengono comunicate da colori, odori, tipo di
abbigliamento scelto dagli interlocutori, cioè da elementi di contorno
appartenenti al contesto in cui si svolge la comunicazione.
La quarta dimensione è il sopra-verbale che corrisponde ai messaggi
coscienti che inviamo all’altro durante la comunicazione e che, però, non sono
veicolati dalle parole, ma da elementi rilevati dal modo di porsi in relazione con
l’altro. Tutti i messaggi di questo tipo hanno lo scopo di produrre un effetto, ma
la difficoltà spesso è stabilire quale2.
La dimensione pre-verbale permette ad ogni persona di analizzare
brevemente l’altro individuo con il quale si comunica, “dargli un’occhiata”,
come si dice in gergo popolare, ed “inquadrarlo”. In seguito a questa prima
rapida valutazione, il nostro interlocutore acquista subito caratteristiche
1Il para-verbale è molto importante nei primi anni di vita del soggetto, perché attraverso tale dimensione-guida il bambino
impara i primi rudimenti della comunicazione, rudimenti che resteranno impressi indelebili nella sua memoria e che faranno pe r sempre
parte del suo bagaglio culturale e personale. 2Durante un primo appuntamento, ad esempio, per una donna la scelta del vestito e del maquillage è una scelta
assolutamente non casuale, attraverso la quale vuole trasmettere al partner messaggi precisi riguardo la predisposizione nei suoi
riguardi; è importante che il partner riesca a decodificare in modo adeguato tali messaggi in modo da evitare qualsiasi equivoco.
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positive o negative che ci permettono di provare empatia o diffidenza nei suoi
confronti ancor prima di parlare.
Quando si comunica? Sempre, ovviamente. È impossibile non
comunicare. Provate anche solo a non comunicare con la persona che avete
davanti: se la cosa dovesse inizialmente (e apparentemente) riuscirvi, ci
vorrebbe poco per svelare al vostro interlocutore, magari con dei gesti, che
l’obiettivo di ciò che state facendo è proprio non comunicare: e questa è una
comunicazione!
Autori come Watzlawick, Beavin e Jackson, attraverso le loro ricerche,
dimostrarono scientificamente la verità di tale affermazione: il diniego è
comunicazione, non rispondere è comunicazione, fuggire dalla
conversazione è comunicazione, e così via.
Qualsiasi movimento, parola o gesto trasmette una comunicazione.
Il segnale A passa dall’inviante X all’inviato Y e produce una risposta B.
Qualora anche il segnale A fosse “distogliere lo sguardo dall’interlocutore
allo scopo di interrompere la comunicazione”, tale segnale consisterebbe
comunque in un’informazione che giunta ad Y continua a produrre una
X segnale A Y risposta B
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determinata risposta B. Tutto questo processo, al di là del contenuto del
messaggio in sé, è comunicazione.
In base alla tipologia di messaggio e al tipo di relazione che intercorre tra
i due interlocutori, esistono diversi livelli comunicativi di
contenuto e di relazione; all’interno della teoria degli autori
citati (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1971), viene data molta
importanza all’aspetto meta-comunicativo.
La pratica sinergologica aiuta ad individuare entrambi i
livelli (di contenuto e di relazione) allo scopo di meglio definire e classificare i
comportamenti e gli atteggiamenti umani: in ogni comunicazione esiste un
livello di contenuto che individua l’informazione che deve essere veicolata da X
a Y ed un livello di relazione che classifica il livello precedente e che si desume
essenzialmente studiando il linguaggio del corpo.
Ciò che interessa non è l’informazione, ma la pragmatica della
comunicazione. L’aspetto meta-comunicativo rappresenta, dunque, uno degli
aspetti essenziali sia dal punto di vista della Scuola di Palo Alto sia dal punto di
vista sinergologico.
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2. Alcune ricerche sulle emozioni
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Charles Darwin scrisse nel 1872 “The
expression of the emotions in man and
animals”.
A quel tempo già altri scienziati avevano
studiato le espressioni del volto.
Il fisiologo francese Duchenne, ad esempio,
scrisse un libro in cui voleva dimostrare la funzione di determinati
muscoli nel produrre le espressioni facciali.
Per far ciò, utilizzò deboli scariche elettriche allo scopo di produrre
contrazioni dei muscoli del volto e fotografò tali espressioni.
Molti altri autori indagarono la funzionalità di tali muscoli,
cercando di mettere in connessione questi con la modalità di espressione delle
emozioni.
Alcuni studi hanno interessato le espressioni facciali
simulate, arrivando a costruire griglie di risposte, alcune delle quali
riconosciute all’unanimità (o quasi) dal campione scelto, altre di ambigua
collocazione: alcune espressioni, infatti, destavano risposte diverse a seconda
degli individui coinvolti appartenenti al campione.
Ciò accadeva perché le fotografie raffiguranti le emozioni simulate
contenevano espressioni che spesso non esprimevano sempre il pattern
desiderato dai ricercatori. Inoltre, ciascun attore-soggetto trasportava nella
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fotografia rughe di espressione e smorfie appartenenti al suo particolare ed
unico modo di esprimersi, fatto questo che poteva influenzare la posa e,
quindi, le risposte. L’ambiguità di alcune espressioni derivava anche dal
fatto che la denominazione degli affetti è spesso ambigua perché
ciascuno porta dentro di sé una particolare storia personale che è
fortemente legata all’apprendimento del linguaggio emozionale.
Ma il fatto più importante che i ricercatori dimenticarono di considerare
fu che una risposta emozionale è un evento che si verifica nel tempo e
che difficilmente si può imprimere in una fotografia.
Altre ricerche furono volte ad indagare la parte del volto che più di tutte
riflettesse le emozioni. I risultati mostrarono che non esiste tale area, ma
l’importanza delle diverse zone facciali nel distinguere le emozioni dipende
dall’emozione che si intende valutare.
Tutte queste ricerche ebbero il grosso limite della metodologia: i
ricercatori utilizzarono strumenti, come la fotografia, che impedivano di
analizzare la molteplicità di cambiamenti di espressione che si verifica nel
tempo dell’emozione, perché focalizzavano l’attenzione su un momento preciso
e statico impresso nella pellicola.
Da studi antropologici e transculturali più recenti e da studi svolti con
bambini nati ciechi e sordi, si è concluso che molte espressioni emozionali sono
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innate e riflettono programmi neuromuscolari fondamentali, geneticamente
determinati.
Se molte espressioni emozionali sono innate è anche vero che ne
esistono di apprese. Le espressioni innate non sono passibili di modifiche ed
aggiustamenti.
I comportamenti non verbali sono quindi intimamente connessi
con le emozioni:
le espressioni facciali
i movimenti oculari e la direzione dello sguardo
i gesti
la postura
le caratteristiche della voce (tono, inflessione, ecc.)
le esitazioni nel discorso
i suoni non linguistici (risate, sbadigli, ecc.)
l’uso dello spazio sociale
il tocco
gli odori e l’olfatto.
Gli esseri umani (e prima di loro già i Primati) usano una gran varietà di
gesti nella conversazione parlata. Ogni gesto ha un particolare significato da
solo e nella combinazione con altri gesti. Alcuni sono volontari, ma la maggior
parte di questi risulta essere inconsapevole ed aiuta ad individuare i messaggi
latenti che il soggetto comunica senza intenzione.
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3. Gli studi sulla finzione
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Le prime ricerche sulle emozioni
furono svolte con l’ausilio di semplici
fotografie; nello specifico, i ricercatori
sottoponevano ai soggetti del campione
delle fotografie con volti umani aventi
particolari espressioni e i soggetti dovevano indicare di quali emozioni si
trattava. In alcuni casi, le risposte risultavano omogenee3, in altri c’era molta
discordanza.
Ekman sottolinea come a volte la causa della disomogeneità nei risultati
delle ricerche stia nella difficoltà a distinguere le diverse emozioni, soprattutto
perché nella quotidianità è raro incontrare un’emozione pura, si tratta quasi
sempre di emozioni multiple.
Ognuno di noi, fin da piccolo, ha dovuto fare i conti con le proprie ed
altrui emozioni e con l’espressione o con il mascheramento di queste. Anche a
fronte di anni di allenamento, non è sempre facile controllare la mimica delle
emozioni.
Siamo più abituati a mentire con le parole e ci sentiamo anche più
abili nel farlo; la mimica, infatti, può essere questione di frazioni di secondo,
può essere a volte impercettibile e difficile da interpretare anche per
3Un’emozione, infatti, come la paura ha caratteristiche manifeste universalmente conosciute e condivise che ne facilitano
l’individuazione attraverso il riconoscimento dell’espressione facciale. In particolare, circa l’80% dei soggetti delle ricerche concordava nel definire “impaurita” una determinata espressione facciale.
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l’osservatore più attento. Le parole, di contro, agevolano il nostro processo di
empatia4. Inoltre, non dimentichiamo che le espressioni del viso sono
involontarie, le parole non lo sono; questo non vuol dire che non possono
essere apprese o simulate, ma che ci sono alcune situazioni in cui sarà forse
impossibile celare determinate emozioni, o meglio, celare l’espressione
inconsapevole e autonoma di tali emozioni.
Durante il processo di apprendimento, buona parte di ciò che il bambino
impara (almeno per i primi periodi) passa attraverso il meccanismo
dell’imitazione: il bambino vede gli altri suoi simili (gli adulti) comportarsi in un
determinato modo, assumere quella particolare espressione o adottare un
particolare atteggiamento e prontamente lo imita. L’apprendimento del
linguaggio ha come base il processo di imitazione dei primi suoni, poi sillabe,
poi micro-frasi, poi frasi vere e proprie.
Così avviene anche per l’apprendimento delle emozioni e per
l’espressione delle stesse: non esiste, però, un dizionario delle
emozioni riconosciuto ed è per tale motivo che la ricerca è tuttora
aperta.
4Con le parole, infatti, noi riusciamo meglio a metterci nei panni dell’altro che ascolta la nostra voce con la nostra tonalità, ed in tal modo
riusciamo a modificare l’intervento in base a ciò che empaticamente sentiamo. Su ciò che accade sul nostro viso mentre parliamo
non possiamo, invece, avere un feedback costante ed è molto più difficile l’automonitoraggio e, conseguentemente, il mascheramento.
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Paul Ekman (2003) individua quattro ragioni per controllare l’espressione
del viso. Vediamole qui di seguito:
1. regole di esibizione culturali, che individuano l’appartenenza di un
individuo ad una determinata classe sociale o culturale. Sono regole che, una
volta apprese, diventano abitudini;
2. regole di esibizione personali, costituiscono automatismi che derivano
dalle esperienze e dall’ambiente familiare;
3. regole di esibizione professionale, dettate dalla propria appartenenza ad
un ambito professionale;
4. regole di esibizione contingenti, definite dall’esigenza del momento
presente.
Queste quattro ragioni possono portare a messaggi falsi od
omessi.
Ekman sostiene che «la stessa parola menzogna, tuttavia, può
essere ingannevole: fa supporre che il solo messaggio importante sia quello
vero, nascosto, mentre invece anche il messaggio falso è importante, se
sappiamo che è falso. Invece di parlare di menzogna, preferiamo parlare di
controllo del messaggio, perché la menzogna stessa può comunicare qualcosa
di utile» (Ekman, 2003, pag. 185).
Il controllo delle emozioni è ovviamente volontario e l’individuo può avere
diverse motivazioni che lo muovono: si può, ad esempio, cercare di modificare
l’intensità delle emozioni, andando incontro ai dettami socio-culturali oppure
allo scopo di soddisfare le aspettative dell’altro interlocutore.
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Un altro obiettivo può essere la falsificazione delle emozioni attraverso la
simulazione (mostrare un sentimento che non esiste), la neutralizzazione (non
mostrare un sentimento che proviamo) o il mascheramento (sostituire
l’emozione veramente provata con un’altra falsa).
Come si può capire se una mimica è controllata, se è falsificata?
Culturalmente siamo stati educati più che ad imparare a riconoscere i
sintomi della manipolazione, a collaborare con questi; ciò avviene perché
spesso intervengono regole di esibizione culturali condivise e può capitare che
un soggetto non abbia desiderio di affrontare una manipolazione (per paura di
vedere la realtà o per incapacità ad affrontare la situazione) e colluda, in tal
modo, con l’interlocutore. Altre volte capita che le emozioni siano falsificate
con l’obiettivo di rendere noto a tutti che sono false. Capitano anche situazioni
in cui la manipolazione-falsificazione ha lo scopo di ingannare sulle emozioni.
In questi casi può essere molto difficile individuare l’inganno, perché di solito si
tratta di persone molto abili5.
Nel tentativo di scoprire una falsificazione occorre sempre considerare le
caratteristiche peculiari del soggetto che vogliamo esaminare: ognuno di noi,
infatti, nel corso del suo sviluppo ha acquisito una serie di movimenti ed
atteggiamenti che sono entrati a far parte con il tempo del suo modo di
parlare, muoversi, gesticolare e che devono essere conosciuti dall’esaminatore
5Anche se in qualsiasi simulazione anche l’individuo più bravo lascia intravedere per un tempo brevissimo il vero sentimento a lla base di
quello falso.
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al fine di non confonderli con eventuali comportamenti menzogneri.
Tutti i possibili indizi di falsificazione non devono mai essere considerati
da soli; se prendiamo, ad esempio, i lapsus gestuali vedremo come non
tutti sottintendano menzogne, anzi la maggior parte di queste non sono
tradite dai lapsus. Possono indicare anche la presenza di uno stress di vario
tipo6.
Negli anni si è cercato di creare uno strumento che individuasse le
modificazioni del sistema nervoso autonomo in seguito a menzogna; da questa
esigenza è nato il poligrafo, la cosiddetta “macchina della verità”. Per anni
scienziati ed organi di sicurezza dei diversi Stati del mondo hanno creduto
nell’infallibilità di tale macchina, ma oggi non si è più così sicuri. Ekman, in
particolare, è molto critico in merito; egli sostiene che il poligrafo non individui
le bugie: le alterazioni rilevate dalla macchina indicano il grado di intensità
dell’emozione, ma non dicono nulla sul tipo di emozione provata. Provare una
forte emozione significa allora mentire?
Ekman si occupò per anni di studiare i segni di finzione, in particolare sul
viso delle persone. Il presupposto alla base delle sue ricerche è che esistono
emozioni vere ed emozioni false e la loro espressione interessa parti diverse
6Prendiamo l’esempio di una situazione che porti l’individuo ad una generica eccitazione emotiva: le conseguenze saranno l’aumento
del ritmo respiratorio, della frequenza nella deglutizione e della sudorazione; tutti possibili indizi di menzogna che devono
comunque sempre essere valutati caso per caso: una generica eccitazione emotiva, infatti, non significa necessariamente
falsificazione.
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del cervello (le emozioni vere producono movimenti involontari, mentre quelle
false producono movimenti volontari). Il volto mostra entrambi i messaggi:
quello che si ha intenzione di comunicare e quello che, invece, si vuole
nascondere.
Tra le più inafferrabili fonti che nel viso fanno trasparire emozioni
nascoste ci sono le microespressioni, mimiche emotive complete che si
presentano sul volto per una frazione di secondo (1/4 di secondo) e che,
se individuate, non lasciano dubbi in merito all’emozione dell’interlocutore.
Oltre alle microespressioni esistono altri
due modi in cui possono trasparire i
sentimenti nascosti: le espressioni che
l’individuo si lascia sfuggire prima di
controllarle e/o soffocarle e le
tracce che rimangono sul viso a causa dell’impossibilità dell’inibizione dei
muscoli governati dal sistema vegetativo.
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