È Dio che conduce il corso della nostra vita e le sue ... · Mariami Hankore, Lucia Aberash...

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È Dio che conduce il corso della nostra vita e le sue varie tappe. Tutto avviene all’ora sua. Oggi, 24 marzo 2004, a ricordo dei miei vent’anni di consacrazione religiosa e a ricordo dei vent’anni di fonda- zione della missione di Etiopia. All’Autore della vita, della gioia e dell’amore, i miei sentimenti di gratitudine.

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È Dio che conduceil corso della nostra vita

e le sue varie tappe.Tutto avviene all’ora sua.

Oggi, 24 marzo 2004, a ricordo dei miei vent’anni diconsacrazione religiosa e a ricordo dei vent’anni di fonda-zione della missione di Etiopia.

All’Autore della vita, della gioia e dell’amore, i mieisentimenti di gratitudine.

Un orizzonte per amarePresentazione di NINO BARRACO

FIGLIE DELLA MISERICORDIAE DELLA CROCE

La Serva di DioMADRE MARIA ROSA ZANGÀRA

20anni in Etiopiaanni in Etiopiaanni in Etiopiaanni in Etiopia

Suor Gabriella Ruggieriracconta la sua esperienza

Presentazione

Un libro che nasce dallo Spirito, che non ha altro scopoche rendere lode a Colui che “apre la strada nel deserto”,che “immette fiumi nella steppa” (Is 43,19).

È questo Dio il “personaggio principale” del libro.Un Dio vivente tra gli uomini di oggi, che ci manda ad

amare, che appende al braccio dei discepoli l’impossibiledel futuro, che compie meraviglie nel cuore del mondo.

Attorno a questo “personaggio” la trama di una piccolae grande storia.

1 - Un lembo del mondo, l’Etiopia, la “terra degli dei”,la “culla dell’umanità”, così come è stata chiamata per isuoi ritrovamenti archeologici, la leggenda di un popolo incui storia e mitologia si intrecciano, in cui si perpetua ilnegus Hailé Sellasié come il successore del re Salomone edella regina di Saba.

E, d’altra parte, una umanità in cerca di vita, uomini edonne mescolati con la frutta e le erbe, la carestia sempreincombente, la mortalità dei bambini, l’esodo senza scam-po, il dramma di una sopravvivenza difficile.

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2 - Una vocazione di Chiesa, per sua stessa natura,missionaria. Una Chiesa inviata da Cristo stesso adannunziare. Con leggerezza, con rispetto, con tanto dibisaccia e di mantello. Libera da ideologie, da compromis-sioni. Certe alleanze, anche inconsapevoli, con il poterepolitico hanno pesato fortemente sulla follia della croce.

Inviati, mandati tutti ad amare. Tra questi, alcuni inmodo specifico, particolare. Toccati dal “carbone ardente”,secondo la visione del profeta Isaia: “Poi io udii la voce delSignore che diceva: ‘Chi manderò e chi andrà per noi?’. Eio risposi: ‘Eccomi, manda me!’” (Is 6, 6-8).

3 - Nella trama di questa storia, anche una Serva diDio, Madre Maria Rosa Zangàra, una donna nell’Ottocen-to siciliano dei santi, consanguinea con la croce e servadelle opere di misericordia. Una vita di novità, di relazio-ne originalissima con la croce, una identità di significatopasquale, di sofferta passione, di conquistata resurrezione.

Un carisma di mistica elevazione, di totale investi-mento in quella misericordia di concretezza che ècarità del corpo ma soprattutto dell’anima. Secondo leparole di Paolo: “Il Dio ci consola in ogni nostra tribo-lazione perché possiamo anche noi consolare quelliche si trovano in qualsiasi genere di afflizione” (2 Cor1,3-4).

Con Maria Rosa Zangàra, le Figlie della Misericordia edella Croce che hanno raccolto, nello spirito della Madre,il dolore degli uomini, le lotte, le speranze, le sconfitte.Reinventando l’amore, qui, in Sicilia, in Italia, in Messico,in Romania. E, da vent’anni, in Etiopia.

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4 - Dicevamo, attorno al “personaggio principale”, que-sto Dio vivente nel Figlio in mezzo a noi, la trama di unapiccola e grande storia: una terra, l’Etiopia, una Chiesa,una Serva di Dio, questo libro.

Un libro datato nel ventesimo anniversario di quelgiorno, 26 agosto 1984, quando le Figlie della Misericordiae della Croce, richieste ed accolte dal Vicario ApostolicoMons. Armido Giuseppe Gasparini, essendo cardinale inAddis Abeba, Sua Em.za Paulos Tzauda, partono per l’E-tiopia e danno inizio alla loro missione.

A Soddu Abala, nel Sidamo, diocesi di Awasa, le primead arrivare sono Suor Maria Assunta Meli, Maria RosaMirabile, Annamaria Bonventre. È la cura dei malati diogni genere, la promozione della donna, l’annuncio delVangelo che diventa orizzonte per amare.

Seguiranno, nel tempo, Suor Gabriella Ruggieri, DeliaPalazzolo, Giuseppina Italiano, Maria Concetta Sena,Maria degli Angeli Caudullo, Paola Morgante, YolandaGomez Zuñiga.

Ogni nome contiene una vita, esprime una vocazione,grida nel silenzio l’eroismo di chi ama. Tra tutte, comedimenticare Suor Maria Rosa Mirabile, l’offerta definitivadel suo “amen” in croce?

E, stupenda meraviglia di Dio che chiama gli amicinella sua tenda, ecco le Suore etiopi, Marta Tesfaye,Ancilla Sisay, Anna Lubamo, Michela Alemu, FrancescaShurabe, Mery Tadelech, Annetta Matteosi, Hirut Petros,Mariami Hankore, Lucia Aberash Yohanes, MaristellaMadam Sahle, Bernadette Meseret Debebe, PasqualinaAlemitu Gurmanu, MariaPetros, Michelù Yayeh...

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5 - Soddu Abala, Addis Abeba, Miqe, Woliso... si molti-plicano le missioni, si confermano la fede e la carità, leopere, la scuola materna, il poliambulatorio per i malati,il servizio a domicilio, l’assistenza ai denutriti, ai tuberco-lotici, la pastorale parrocchiale, giovanile.

Il Padre e il pane, l’annunzio e la promozione, condivi-si in una terra che non è mai straniera. In comunione diChiesa, in un rapporto fecondo e stupendo con i Pastoridel luogo, quelli già citati, e, quindi, con i Vescovi Berha-ne Yesus, Lorenzo Ceresoli, Musie Gebre Ghiorghis.

Come fare il resoconto dell’amore?Essere amore per tutti, musulmani, ortodossi, cattolici,

animisti... essere con il Crocifisso in mano, tra le malattie,la fame, la solitudine, le difficoltà. Incrociare tutte lepovertà, raggiungere il fratello bisognoso, spendere la pro-pria giovinezza per qualcuno, giurare sull’impossibile.

6 - Il 12 novembre 1987 parte per l’Etiopia SuorGabriella Ruggieri che, adesso, ci dà il racconto della suaesperienza.

Non il tutto di questi venti anni, non l’ostentazione di uneroismo, ma il diario semplice, senza ambizioni apostolichené letterarie, di alcuni momenti di fede, di impegno, dientusiasmo. Momenti nei quali, al di là dei fatti e dellepersone, con freschezza evangelica, con grande stupore diumanità, è facile cogliere il significato più vero di questapubblicazione.

Un atto di amore a Dio e ai fratelli, il messaggio voca-zionale di una bellezza consacrata, il riconoscimento ditanti sacrifici, non conosciuti, nascosti, in tutti i luoghi

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dove vivono, soffrono, amano, lavorano le Figlie dellaMisericordia e della Croce.

Tante Suore, tutte insieme, nei luoghi e nei ministeridiversi, ma sempre nello spirito comune di Madre MariaRosa Zangàra che provò la fede fino allo spasimo dell’a-more: “Sento tanto amore che vorrei morire d’amore, anzi,ve lo confesso, mi pare che da per tutto è amore”.

Amore che è trepidazione, che è gioia (le prime telefo-nate dalla missione!), che è sacrificio.

Dalla Madre Generale di allora, Suor Fernanda Gen-nuso, che animò la prima esperienza in Etiopia, ad oggi,alla fede di tutto l’Istituto, così fortemente espressa dal-l’attuale Madre Generale, Suor Romilde Zauner.

Ha scritto una delle Suore, agli inizi della missione,Annamaria Bonventre: “La prima sera trascorsa a SodduAbala, le capanne attorno, il fumo dei focolai, la notteprofonda. Io, affacciata alla finestra, guardavo il cielozeppo di stelle e pensavo: se salgo su una sedia, la miatesta vi sbatterà contro, talmente mi sembrava vicino”.

Qui, in queste pagine di Suor Gabriella Ruggieri, miauguro che siano molti a scoprire che davvero il cielo èvicino.

NINO BARRACO

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Storia di un inizio

La mia vita in Cristo, nasce da una missione popolare,all’interno della quale ho trovato una chiave di lettura atanti miei interrogativi e dubbi.

Avevo appena sedici anni, quando fui invitata a parte-cipare alla missione di Trapani. Quasi quasi, mi veniva daridere, perché mi sentivo incapace, o meglio non capivoneppure ciò che dovevo fare, io, misera e povera creatura,ignorante in tal senso.

Andai quasi per curiosità (vediamo cosa fanno questimissionari!), fui affidata ad una giovane suora, la qualeanche lei, per la prima volta, si trovò coinvolta nel servi-zio dell’annunzio della Parola di Dio.

Devo dire che ci confortammo a vicenda, e mentre pen-savo di affidare tutta la responsabilità del lavoro allasuora, mi trovai coinvolta in prima persona.

Il messaggio di “Pace e Bene” che dovevo dare allagente del luogo, poveri e umili pescatori, era ben preciso;non occorrevano chissà quali metodi e parole per dire cheGesù ti ama e che vuole che tu stia bene.

Durante questo servizio sentii dentro una grande gioiadi vivere, un grande desiderio di portare a tutti l’annunziodi questa gioia.

Sentivo che la mia vita stava diventando dono per glialtri, e mi sentivo coinvolgere in situazioni più o meno

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positive, per trasmettere a tutti la gioia che il Signoreaveva posto dentro di me. Il messaggio era ben preciso:dovevo portare la felicità, la contentezza, l’allegria, segnodi Colui che ha posto la Sua tenda dentro la nostra animae vi abita se trova la disponibilità e l’umiltà del cuore.

Tutto ciò che facevo aveva un nome, sì, ormai ero capa-ce di dare una chiave di lettura secondo i Suoi desideri.

È proprio così, ero stata conquistata dalla bellezza cheè Dio.

Trascorsi giorni stupendi, ma soprattutto scoprii lasicurezza di portare avanti un progetto, che via via si face-va strada.

Non potevo tornare a casa se prima non comunicavo aqualcuno i sentimenti che facevano ressa nel mio cuore;decisi di parlarne con il responsabile della missione, unpadre conventuale, che mi conosceva sin da bambina.

Mi disse che ciò era un segno dell’amore di Dio per me,e che dovevo pregare per scoprire cosa il Signore mi chie-deva in quel momento.

Immaginarsi cosa potevo sapere io di preghiera, o comemettermi in rapporto con il Signore che mi faceva capire coninsistenza che la mia vita doveva essere dono per gli altri.

Si, capii subito che dovevo fare qualcosa per aiutare ilfratello, farmi prossimo per gli altri; ma non capivo comeconcretizzare ciò che prima avevo annunziato.

Predicare è facile, ma praticare.... Spesso mi veniva inmente l’episodio del giovane ricco... (Lc 18,21-23), tornavosui miei passi perché mi sentivo incapace di realizzarequalcosa di positivo per il bene degli altri.

A casa, cominciai ad essere segno di contraddizione,bersaglio su cui tutti lanciavano frecce appuntite; il miolinguaggio era troppo duro, il mio comportamento diversoda quello precedente.

Insomma, c’era qualcosa di diverso che mi prendeva lavita, mi portava verso luoghi sconosciuti.

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Sentivo dentro la gioia di vivere, libera di amare e por-tare a tutti un messaggio di bene.

Ripresi i miei studi e le mie attività: in casa, in parroc-chia, fuori, i miei viaggi (mi piace tanto viaggiare), il cine-ma, la fotografia; ma questa volta tutto aveva un obietti-vo ben preciso: fare tesoro di tutto ciò che facevo, cioè dareun senso e non cercare distrazioni.

Cercai un direttore spirituale, cominciai a leggere libriper conoscere meglio e più da vicino Colui che mi chiama-va a vivere esperienze nuove.

Un giorno mi sentii triste, avevo tanta voglia di viag-giare, era un momento critico, volevo fuggire da tutto ciòche mi circondava, non volevo incontrare nessuno. Però,nello stesso tempo, sentivo che mi mancava qualcosa, nonriuscivo più a capire cosa desideravo.

La notte feci un sogno: mi trovai prigioniera dentro unatorre, dalla quale non riuscivo a vedere l’esterno, ero comeabbandonata e nessuno si prendeva cura di me; ad untratto, vidi dalla fenditura della torre una colomba cheaveva tra le ali un calice, mi versò alcune gocce di vino chemi fecero inebriare e mi resero felice.

Interpretai quel sogno secondo il mio stato d’animo ecapii che avevo sete di Lui, avevo sete d’Amore e non sape-vo dove attingere.

Lui è la vera sorgente dell’Amore, Lui solo non ti tradi-sce e ti aspetta anche se tu sei stata infedele. Ritornai conla preghiera sui miei passi; non dovevo perdere di vista ilprogetto che Lui voleva realizzare con me.

Uno dei momenti stupendi fu quando andai sulleMadonie per stare da sola con me stessa e con Lui; furonomomenti di poesia, scoprii nella creazione la bellezza delgrande Fattore e mi sentii subito figlia del creato, amatadal Creatore.

Momenti di silenzio eloquente, di carica spirituale.Capii che dovevo orientare tutta la mia vita nel Suo

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Amore e mettermi alla Sua sequela per realizzare il mera-viglioso progetto d’Amore.

Cominciai a parlarne con le suore della mia Congrega-zione e pian piano mi sentii parte della famiglia.

Entrata tra le Figlie della Misericordia e della Croce(F.M.C.), dopo tante lotte, rifiuti e pianto, la prima cosaimportante che dovevo fare era quella di non cambiare,non mutare la mia bellezza interiore.

Non erano le persone che avevo scelto, né la struttura,né il carisma e tanto meno la Congregazione; avevo sceltoCristo, è Lui che mi ha posto tra le F.M.C. Il mio cammi-no di formazione alla conoscenza della vita consacrata e alcarisma dell’Istituto andavano a gonfie vele. Piccole diffi-coltà di natura umana non mi scoraggiarono anzi mi fece-ro diventare forte anche nel distacco dagli affetti più carie più legittimi.

Papà mi faceva soffrire, non voleva più vedermi daquando gli dissi della mia scelta, ma il Signore è buono esana le ferite.

Pregai tanto durante una novena di Natale, perché miopadre si rendesse conto di quanto ero felice per la sceltache avevo fatto.

Fu grande la sorpresa e la gioia di poter riabbracciaredopo tanto tempo mio padre che tanto ho amato e che con-tinuo ad amare, lì dove spero che sia, in Paradiso.

La mia vita in Cristo cresceva e più Lui cresceva, più iomi sentivo piccola, sprovvista di tutto, dinanzi a tantoAmore.

Dentro, cresceva il desiderio di fare del bene, daregioia, portare a tutti la pace e la serenità.

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Una svolta decisiva

Quando mi fu chiesto di andare in Etiopia, non stavopiù nella pelle, non credevo ai miei occhi, il Signore michiamava a concretizzare ciò che, da tanto tempo, deside-ravo, anche se non ne avevo parlato con nessuno.

L’Etiopia fu la tappa decisiva della mia vita, non avevoalcun dubbio, il progetto cominciava a prendere forma, lamia vita stava per essere donata in quella porzione divigna che il Signore aveva stabilito per me, tra i GrigiJam Jam a Soddu Abala, nel cuore della foresta vergine.

Cominciava ad allettarmi la possibilità di essere donoper gli altri. Forse, avevo iniziato la missione spinta daldesiderio di scoperta e di nuove esperienze personali.

La mia anima cominciò a godere di momenti di paradi-so, pur nelle difficoltà e nelle privazioni, tutto aveva unnome: “Amore”.

Momenti di preghiera in riva al fiume Awata, mi dava-no la ricarica per affrontare il lavoro quotidiano, acco-gliendo e amando più di centoventi ammalati al giorno.

No, non ero io ad operare, era la Sua mano che agivanella mia povera carne.

Un giorno, vennero a bussare alla porta della missione:avevamo appena chiuso la clinica ed eravamo molto stan-che, un ragazzo epilettico aveva contratto la meningite edera entrato in coma...

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Damisè, non dava segno di vita, scottava per la febbreed era decerebrato, solo un miracolo poteva salvarlo.

Quando chiesi ai padri di mettermi a disposizione ungeneratore di corrente, perché bisognava aspirare ilragazzo, mi presero per pazza, ma la mia insistenza li feceandare su tutte le furie, e montarono vicino la capanna ilgeneratore.

Insegnai al padre del ragazzo come si aspirava e cosìdurante la notte stavo sicura che Damisè non morissesoffocato.

Dopo due lunghi mesi, tutti avevano perso la speran-za, Damisè aveva le piaghe ed era ridotto come un Cro-cifisso.

I familiari decisero di portarlo a casa, al di là del fiume,io chiesi di lasciarlo qualche altro giorno.

Damisè, una mattina, fece cenno che aveva sete, ilmiracolo era avvenuto; da quel momento intensificammole cure e Damisè guarì, tornò a casa e dopo pochi mesiritornò alla missione per chiedere il battesimo.

Ecco i miracoli della missione, le meraviglie che ilSignore dona attraverso le misere creature, queste crea-ture che la gente chiama “angeli”.

Immaginate quanto ero felice, tutti eravamo felici. E diquesti episodi ne accaddero tanti.

“Donare la vita per i fratelli”, non era forse questo ilmio grande desiderio?

E il Signore che non si lascia vincere in generosità, mifece sperimentare, momento per momento, la gioia delladonazione.

La mia anima godeva della beatitudine della pace, sta -vo vivendo il Paradiso in terra.

Mi resi conto che dovevo impiegare tutte le energie pos-sibili per realizzare il progetto che la Provvidenza avevastabilito per me, allora non mi fermai alla sola visita nellecapanne della nostra missione.

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Un giorno, don Franco mi chiese la disponibilità perandare a visitare, sui monti Uraga, un anziano ammalatoda tanti mesi (Don Franco, di santa memoria, andava ognisettimana sui monti per catechizzare e costruire una cap-pella per i catecumeni). Risposi che sarei stata disponibi-le il sabato, giornata meno carica di ammalati, e destina-ta al mercato.

Quel giorno andai con suor Maria Rosa Mirabile e donFranco in un posto sperduto tra le montagne Uraga, a circatre ore di macchina dalla nostra missione di Soddu Abala.

Arrivati di buon mattino, andammo subito a visitareAbram, dopo aver camminato per due ore a piedi, in mezzoalla cicca (fango).

Abram era lì che aspettava il figlio che gli portasse unaciotola di latte cagliato, abbandonato dalle forze, aspettavala morte come momento di liberazione dalle sue sofferenze.

Portammo il vecchietto pieno di mosche e di pulci, fuoridalla capanna dove giaceva. Alla luce del sole tentammodi fare una diagnosi dei suoi sintomi. Non c’era tanto dacapire; Abram aveva la lebbra agli arti inferiori aveva solodei moncherini infetti, pieni di pus e pulci penetranti.Guardai suor Maria Rosa (anche lei di santa memoria), laquale mi incoraggiò a ripulire le ferite, non tanto provoca-te dalla lebbra, quanto dai Mojale (pulci penetranti chescavano nello strato sottocutaneo, deponendo le uova eformando caverne di pus).

Avevamo sete, fame, eravamo stanche per il viaggio apiedi, reso pesante dal fango, ma avevo dentro tanta gioiaperché avevamo cercato di alleviare qualche sofferenza adAbram.

Certamente non potevamo lasciarlo in quelle condizio-ni, non bastava quello che avevamo fatto in una mattina-ta: Abram, anche se ormai era alla fine dei suoi giorni,aveva bisogno della terapia e delle medicazioni frequenti.Ci mettemmo d’accordo con don Franco, il quale ci assi-

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curò che ogni settimanalo avrebbe portato allamissione per essere se -guito più da vicino.

Quel giorno, ritornam-mo a casa verso sera, c’i-noltrammo nella foresta;don Franco era stanco eaffamato, noi avevamopreso delle pannocchieabbrustolite che la genteci aveva offerto in segno digratitudine per il servizioreso ad un loro fratello.

La gioia albergava nelmio cuore, nonostante lastanchezza; mi sentivo

parte di quella gente, ave -vo solo il desiderio di daredi più, il meglio di me stes-

sa, con tutte le mie forze, con tutta la mia anima. La fedeopera grandi cose, anche i miracoli. Ne è conferma un epi-sodio molto forte.

Una sera, un uomo venne a bussare alla porta dellamissione. Il tempo in cui vivevamo era molto triste e peri-coloso per la presenza dei ribelli che vivevano al l’internodella foresta. Era tardi e non avevamo il permesso di usci-re dopo il coprifuoco.

Quell’uomo aveva la moglie in gravi condizioni, nonriusciva a partorire.

Quando l’uomo mi vide titubante mi interrogò: Sister,di che cosa hai paura? Tu hai Dio dentro di te, ma miamoglie e il mio bambino chi li salverà?

E chi potè resistere a tale affermazione! Il Signore èdentro di me e mi manda a salvare il suo popolo.

Nugusè: il bambino della fedenato per miracolo.

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Quell’uomo, pagano, appena nacque il bambino, loportò fuori dalla capanna, lo elevò al cielo dicendo: chiun-que Tu sia, lo offro a Te perché Tu, per mezzo di questiangeli, lo hai salvato!

Ancora una volta, sperimentavo la Sua mano dentrome, la sua forza che penetrava dentro le mie viscere peressere segno concreto di salvezza per il fratello.

Alla sera, sentivo tanta pace nel cuore e nella miamente si affollavano nuove idee, in modo particolare per imiei piccoli denutriti per i quali progettare la costruzionedi una sala mensa per assicurare loro il pasto giornaliero.

Dovevo fare i conti con i responsabili della missione econ l’economia della clinica, non disperavo però!

Grazie a Dio, per mezzo dei benefattori, la Provvidenzaarrivava puntuale.

Alla fine di marzo, dovevo andare ad Awasa a 280 chi-lometri di distanza, per comprare i farmaci per gli amma-lati, ma venne alla porta una donna, con in mano un pezzodi labbro; sanguinava e piangeva, era disperata, aveva liti-gato con la suocera e questa nel momento dell’aggressionele aveva morsicato e quindi strappato parte del labbro infe-riore.

Non sapevo se ridere o piangere, la scena che mi si pre-sentò davanti era piuttosto insolita, ma la donna a tutti icosti voleva che le riattaccassi il labbro, altrimenti il maritol’avrebbe abbandonata e si sarebbe cercato un’altra donna.

La sua preoccupazione non fu il dolore di quella feritalacero contusa, ma la perdita del marito con cui avevaavuto sedici figli.

Per quel giorno dimenticammo di andare ad Awasa e cidedicammo con Elema, il fedelissimo ragazzo aiutante,alla ricostruzione del labbro di Lukku [Gallina].

Dopo svariate medicazioni, la donna non tornò più peressere curata ed io, preoccupata, mandai un ragazzo a cer-carla al di là del fiume.

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Arrivò la missiva che la donna era completamente gua-rita, l’unico inconveniente era il labbro rimpicciolito daipunti di sutura, ma tutto sommato lei era contenta.

Un giorno Lukku, in segno di riconoscimento si pre-sentò alla clinica con una zucca e due uova: “Oboletti Tja,Kennanza Keti” (Ecco il regalo per te!).

Essere segno concreto di gioia per gli altri mi facevasentire bene, non avevo il tempo di annoiarmi o dare spa-zio alle tentazioni; ero entrata pienamente a far parte diquella gente, era la mia gente, la mia casa, il mio villag-gio, la mia foresta, perché lì, avevo preso coscienza di unaPresenza straordinaria dentro di me, che non lasciavaspazio per le cose futili di questa terra.

Vivevo già il cielo in terra, quella terra benedettasegnata dalla povertà, dalla miseria, dall’ignoranza, dallemalattie...

Ricordo quando con suor Maria Rosa progettammo unpiano di educazione sanitaria. Lei si occupava di darelezioni di taglio e cucito, di economia domestica, come lapreparazione del sapone e l’insegnamento della bollituradell’acqua, la pulizia della capanna etc., mentre io mioccupavo della cura dell’igiene del bambino e della curadelle malattie intestinali. Alla fine della giornata ledonne, con le quali ci si incontrava due volte a settimana,portavano a casa il latte e i biscotti per i loro bambini. Chegioia nel vivere tutto questo!

E così passavano i giorni e la conoscenza della linguagugj prendeva consistenza, dandomi la possibilità dirispondere meglio alle attese di quella povera gente.

Alla sera, stanca ma felice, ritornavo a casa raccontan-do tutto alle sorelle della comunità, e spesso prendevamoin considerazione molti spunti per ricrearci nel corpo enello spirito.

La cosa più bella era quando la domenica andavamo apregare il Vespro in riva al fiume. Quello era il momento

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più avvenente, il tempo dello spirito, il tempo in cui l’ani-ma poteva godere della bellezza del creato e sentirsi partedella creazione. Portavamo con noi tanta gioia nel cuore,cantando, tornavamo felici e ricaricate per il nuovo servi-zio di misericordia che il Signore preparava per noi.

Vivevamo alla giornata, niente grandi progetti, il pro-getto era solo uno: quello di portare a tutti l’annunziodella buona novella: i padri, attraverso la predicazione, lesuore nella concretizzazione delle opere di misericordia.

Quante volte ho riflettuto, ho meditato sugli insegna-menti della mia Fondatrice: “Figlie carissime, la vostramissione nella Chiesa è grande, voi siete martiri, doveteamare fino al martirio”. E ancora: “preoccupatevi, figliecarissime, di procurare ai poveri, non solo il cibo mate-riale, ma preoccupatevi di dare il cibo della Grazia diDio”.

Che grande insegnamento! Che donna eccezionale,dotata di grandi carismi, Madre Maria Rosa Zangara!

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Capanna dei sidamo nella missione di Miqe.

I giorni trascorrevano in fretta nella missione e, quan-do trascorsero due anni e dovevo rientrare in Italia peruna pausa e per ricaricarmi fisicamente e spiritualmente,mi venne come un tonfo; avevo il desiderio e la gioia dirivedere i miei genitori, le mie sorelle, ma non volevolasciare la mia gente.

Fu doloroso il momento della partenza, la gente noncredeva al mio ritorno in Etiopia, pensavano che andassiin Italia per sempre. Cominciò la processione dei saluti ei regali in natura: uova, latte, banane, galline, cestini dipaglia, insomma dovevo accettare tutto quello che la genteportava, altrimenti li avrei delusi.

Prima di partire, mi invitarono a prendere, ancora unavolta, il caffè in una delle loro capanne addobbata per lafesta. In Etiopia, l’ospite è sacro e viene accolto con profu-mi d’incenso, tappeti di fiori e di erba fresca, stuoie dipelle di mucca, insomma tutto era pronto per la festa. Unfuoco acceso al centro della capanna illuminava i voltiscuri e gli occhi grandi e lucidi dei convenuti. Un canto diaccoglienza e la cerimonia del caffè, tipica dell’Etiopia.

Ero commossa per la manifestazione d’affetto che lagente esprimeva attraverso il canto e la danza, anche se,a dire il vero, l’aria che si respirava era piuttosto maleo-dorante e rischiavo il volta stomaco. Per fortuna, quellasera non successe niente, e ritornammo a casa contente diaver salutato i vicini di casa, i nostri fratelli gugj.

La mattina seguente, alle ore 4.00 la sveglia; suorMaria Rosa mi portò il caffè in camera e mi disse che dove-vamo partire presto perché era piovuto e quindi bisognavaandare piano, soprattutto all’interno della foresta.

Arrivati la sera ad Addis Abeba, dopo dodici ore di viag-gio nella Toyota, trovammo alloggio presso le suore com-boniane che, come sempre, ci ospitarono con tanta cortesiae premura, fino a quando non comprammo una casa d’oc-casione in Addis Abeba, per avere un punto di riferimento

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tutte le volte che dovevamo recarci nella capitale, per farerifornimento di medicine o approvvigionamento di viveri,o quando arrivava qualche ospite dall’Italia e da ogni dove.

Non vedemmo l’ora di poter accarezzare il letto e rilas-sare le membra doloranti dalla fatica del viaggio, effet-tuato su strade prima di fango, poi di polvere del desertoe ancora dell’asfalto rovente della capitale.

Al mattino, dopo la S. Messa, dopo una colazione benfatta, come direbbe la buon anima di fratel Vik, e dopo gliulteriori convenevoli, padre Valdameri, comboniano, miaccompagnò all’aeroporto insieme a suor Maria Rosa, men-tre suor Maria Assunta Meli era rimasta nella missione acurare gli ammalati.

“L’anima mia magnifica il Signore!”.Come vorrei poter magnificare con tutta l’animala bontà del mio Signore, ma non ho paroleche possano riempire di magnificenzal’Amato del mio cuore.La mia anima gode per i benefici che concedealla mia povera e misera persona;senza mio merito, Egli opera meravigliealle creature che a Lui si volgono,e non lascia incompiuto ogni Suo progettoa chi lo cerca con cuore sincero!

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Un rientro provvidenziale

Il mio rientro in Italia fu provvidenziale per diversiaspetti; avevo contratto una disvitaminosi, per cui dovevoripristinare tutte le vitamine e proteine che mancavanoall’organismo.

Cercai, per quanto mi fu possibile, di fare animazionemissionaria. Dovevo raccogliere fondi per costruire la casaper i denutriti, almeno una baracca dove accoglierli tuttie assicurare loro il cibo necessario per la loro crescita.

Il contatto con le mie consorelle e i miei familiari giovòa farmi riprendere il tono di vita che, per certi versi, in meera cambiato.

Nonostante la positività di questo rientro, sentivo unasolitudine immensa; mi accorsi che tutto ciò che mi cir-

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Bambini davanti alla missione di Soddu Abala.

condava era futile, superfluo; vedevo, da ogni dove, sprecoe molto disinteresse nei confronti di chi sta male e lasocietà che cresceva con sentimenti di indifferenza neiconfronti degli ultimi.

Con fatica raccolsi del denaro che serviva per i più pic-coli. Ma quando mi diedi alla raccolta di farmaci, vitami-ne e alimenti per i denutriti, raccolsi un quantitativo chemi riempì sei bagagli; erano tanti, secondo gli standardaeroportuali, ma erano niente nei confronti di chi dovevaricevere un minimo di sollievo.

Il giorno del mio ritorno in Etiopia, pregai gli addetti aiservizi di darmi una mano, spiegando che avevo raccoltoquesto materiale per i poveri. Ebbi scarso successo perchémi fecero passare soltanto sessanta chilogrammi; quandomi chiesero 750 mila delle vecchie lire, scoppiai a piange-re, una rabbia dentro che non so come avrei reagito se nonavessi avuto l’abito che indosso.

Le mie consorelle m’incoraggiarono e pagarono per meuna parte del sovrappeso.

Mi sentivo sconfitta, quel denaro che con tanti sacrificiavevo raccolto, ora lo vedevo sciupato da chi non è sensi-bile ai bisogni del fratello.

Dicevo dentro di me: Quanta ingiustizia! L’aereo nonpuò portare tanti pesi, però, chissà come, pagando, potevoportare tutto quello che volevo, perché il peso pagato comeoro diventava leggero. Che mistero!

Mi resi conto che non è dato a tutti di avere dei senti-menti di bene per la gente segnata dalla povertà e dallamalattia. Qualcuno mi rispose: ma chi la porta a metter-si nei pasticci? Li lasci stare nella loro terra, loro sonoabituati così e non si pongono tanti problemi.

Ma che cosa è venuto a fare Gesù Cristo? L’amore, lacarità, la misericordia, dove sono andati a finire questivalori?

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Avevo in cuore sentimenti negativi nei confronti di que-sto razzismo così spietato, e più sentivo queste note, piùdentro di me, amavo quella gente.

Amo il mio Signore e in Lui amo tutti coloro che laProvvidenza metterà sul mio cammino, senza alcuna dif-ferenza, senza paura, a costo di dare la stessa mia vita perla causa dell’Amore.

Salutai le sorelle che mi avevano accompagnato all’ae-roporto e rientrai nel pensiero di ritorno in Etiopia. Ilviaggio mi sembrò interminabile, tanto era il desiderio diarrivare e riabbracciare le mie consorelle e la mia gente.

Quando annunciarono che mancavano pochi minutiall’arrivo, dentro di me tornò il sole; gioivo al pensiero diriabbracciare suor Maria Rosa che sarebbe venuta a pre-levarmi all’aeroporto; gioivo perché cominciavo a sentirel’odore dell’Africa, l’odore di una terra vergine, l’odore diuna terra assetata d’Amore e di Giustizia.

Il viaggio sulla Toyota di ritorno a Soddu Abala, fuun’avventura: tra un racconto e l’altro dovevamo fermarciperché la macchina faceva un rumore strano che non riu-scivamo ad identificare. Marta Tesfaye, la sorella etiopeche era venuta con suor Maria Rosa, ci propose di fermar-ci a Wondo, suo villaggio di origine dove c’erano i suoigenitori.

A dire il vero, non mi sentivo di andare a dormire inuna capanna, e poi avevo paura che, durante la notte, iribelli svuotassero la macchina.

Giungemmo nei pressi di Ergalem, a circa 180 chilo-metri dalla missione. Lì trovammo un ragazzo che cono-scevamo, un meccanico che era stato alla scuola di FratelTony, quindi si intendeva di riparazioni.

La Toyota aveva perso un ammortizzatore e non ci era-vamo accorte di niente perché era piena, carica come unuovo, quindi non percepivamo nemmeno lo squilibrio,anche perché stavamo attraversando una strada dissesta-

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ta, per noi era normale. Fu solo il rumore strano che ci misein allarme.

Avevo tanta fretta di arrivare alla missione, tanto desi-derio di comunicare a qualcuno i sentimenti che facevanoressa nel mio cuore.

Quando finalmente ci inoltrammo nel cuore della fore-sta, mi venne come un tonfo al cuore, non so, avvertivoqualcosa di strano, ma non riuscivo a capire cosa fosse; laforesta mi si presentò come nuova, avevo lasciato le gran-di piogge e tornavo a casa quasi alla fine delle piccole piog-ge. La cosa strana fu la pioggia insolita, era piovuto tuttala notte e il sentiero era viscido, si poteva fare pattinaggioartistico.

Eravamo quasi arrivate alle prime capanne, quandorallentammo la nostra corsa a causa del terreno acciden-tato e fangoso; la sorpresa fu quando non riuscimmo adinserire le marce ridotte, tentammo in ogni modo, maniente.

Intanto alla missione, suor Maria Assunta aspettavacon ansia il nostro ritorno. Noi non sapevamo come tirarefuori l’automobile dal fango, mancavano pochi metri allamissione e così pensammo di proseguire il cammino apiedi.

Erano circa le ore diciassette e sembrava notte fonda,non riuscivamo a vedere la strada; suor Maria Rosa midiceva di andare con più tenacia, ma, a dire il vero, quellasera avevo tanta paura. Non volevo intimorire Marta esuor Maria Rosa, ma dentro provavo angoscia ed abbando-no; ero molto stanca, sette ore di volo e dodici di macchinami avevano stremata, avevo solo desiderio di dormire.

Avevamo percorso un centinaio di metri, quando c’im-battemmo contro due fari antinebbia; la forza tornò den-tro di me, anche se mi aspettavo le battute di don Flavio,che era venuto a soccorrerci: voi donne siete sempre inca-paci, avete bisogno di noi, la povera suor Maria Assunta

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era in pensiero per voi, disse, e allora mi ha chiesto divenirvi incontro.

Non ho dato peso a quella battuta, ero felice di poterraggiungere la missione, non avevo nessuna intenzionedi rimandare battute, anzi, ebbi la forza di prendere confilosofia e umorismo le sollecitazioni del padre e così,giunti alla missione, dopo i convenevoli e saluti contutta la gente che era venuta per salutarmi, ci animam-mo di buona volontà e con suor Maria Rosa prendemmola vecchia survive per ritornare nella foresta e trainarela Toyota.

Non potevamo lasciare la macchina con tutti i bagagliall’interno, sarebbe stato imprudente, visti i tempi duri epericolosi. Pregai il Signore che mi desse ancora per quel-la sera, la forza di portare a termine quell’avventura, sì,

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Suor Maria Rosa, la prima scuola di taglio e cucito... sotto gli alberi.

una delle tante avventure. La pace tornò dentro me, ripre-si forza ed entusiasmo per seguire il cammino dell’Amore.L’accoglienza delle sorelle della comunità e di Ester, laragazza che ci aiutava nelle faccende domestiche, miricrearono nel corpo e nello spirito.

La cappellina all’interno della nostra abitazione, misembrò una cattedrale; il murales che avevano allestitoper renderla più accogliente, mi portò con la mente versonuovi orizzonti di luce e splendore.

Per un attimo, non so per quanto tempo, mi trovai inun prato verde con tanti fiori colorati e profumati; godevodi quella meraviglia, scoprendo in tutto la presenza delCreatore.

Provai una dolcezza spirituale indicibile, non ero piùstanca, avevo ripreso quota, ero pronta per ricominciare.

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Un passo avanti, una nuova struttura...in lamiera e legno.

Il giorno seguente, al mattino presto, attraversammo ilprato per recarci in chiesa; una sensazione bellissimabagnarsi con la rugiada della notte, ma quando su quellarugiada, poco più vicino alla clinica, stavano seduti più dicento ammalati, mi venne una stretta al cuore.

Da quel momento scaturì in me il desiderio di farcostruire una sala d’attesa, una ba racca con la tettoia e,all’interno, delle panche per accogliere gli am malati chevenivano nella nostra clinica a flotte, dopo aver cammina-to a piedi nudi chilometri e chilometri di strada, nel fangoe nel freddo della notte.

Mi venne in mente di far aprire a Jacob una piccolaattività. In pratica, doveva metter su una baracca e pre-parare il thè con il pane per tutti gli ammalati che giun-gevano da posti lontani.

Ne parlai con don Flavio e con le sorelle della comunitàche accolsero l’idea.

Jacob realizzò il bar nella foresta, un punto di ristoro:vendeva thè, pane, mirinda (aranciata), caffè, insommaquello che bastava per rifocillare la povera gente dopo unlungo cammino.

Jacob era molto contento, quei pochi centesimi di gua-dagno gli servirono per costruire la nuova capanna per lasua famiglia e gli diedero la possibilità di proseguire glistudi.

Divenne il primo catechista della missione e conseguìla licenza media nella scuola di Kibre Mengist.

Jacob non finiva mai di ringraziare e lodare il Signo-re per la presenza dei missionari che gli avevano fattoscoprire una nuova vita: la vita in Cristo a servizio deifratelli.

O Dio, Tu sei il mio Dio all’aurora ti cerco, di Te ha setel’anima mia! (Sl 63, 2)

Che cos’è questa sete che non riesco a spegnere?

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Mi tornò in mente un episodio avvenuto prima dellamia adesione alla chiamata del Signore, ma dissi tra me:sto lavorando per la Sua causa, ho lasciato i beni più cari,sono disposta a dare la vita per i fratelli bisognosi, checosa ancora? Perché tanta sete?

Non mi rassegnavo, non riuscivo a stare serena nelvedere quella povera gente che fatica la fame, mentre noi,alla missione avevamo il necessario per vivere.

Perché tanta discrepanza tra le creature se il Fattore èunico? Ma io cosa potevo fare?

Quando prelevavo qualcosa dalla missione per darla aipoveri, spesso venivo richiamata, perché non era correttodare via la roba senza alcun provento; è vero, avevanoragione i padri e le suore, non potevamo abituare la gentead avere tutto pronto, senza che questi mettessero a ser-vizio la propria energia e il proprio ingegno.

Suor Maria Rosa, donna eccezionale e piena d’inventi-va, creò un centro di taglio e cucito, invitò la donne (inEtiopia sono gli uomini addetti ai lavori di sartoria), allelezioni che dava settimanalmente, in una baracca di legnoe lamiera. Da premettere che suor Maria Rosa aveva ini-ziato il suo lavoro sotto una pianta di sicomoro e le donnestavano appollaiate per terra, tentando di realizzare gliindumenti più semplici.

Lo scopo principale fu quello di incrementare tra diloro, un piccolo commercio o scambio di merci, e nel con-tempo suor Maria Rosa dava lezioni d’igiene.

Allora sì, che il nostro apporto fu valido e la gente sisentì gratificata, mentre nel contesto in cui avevo impo-stato la carità o, se così si può chiamare, la distribuzionedei vestiti, non mortificò più quella gente.

La mia sete inestinguibile scaturiva proprio daldesiderio di dare, di colmare tutte le sofferenze di quel-la povera gente, ma nella maniera più concreta ecostruttiva.

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Ero felice nel vedere pian piano realizzare qualcosa alleragazze guji, che fino all’arrivo dei missionari nel villaggiose ne stavano tutto il giorno a spulciare i propri figli o gira-re per il mercato in cerca di rifiuti da mangiare.

Entravamo a far parte della loro cultura, del loro mododi vivere, portando valori concreti per la loro crescitaumana e morale.

Un giorno, venne una ragazza, Taitù, a bussare allaporta della missione, aveva un problema grave da risolve-re, e se entro la sera non avesse trovato la soluzione, ilpadre l’avrebbe uccisa.

La ragazza aveva rifiutato, davanti agli anziani del vil-laggio, la proposta di matrimonio che il padre le avevafatto, lei non voleva sposare quel ragazzo, ma nella lorocultura è il padre che sceglie lo sposo alla figlia, in cambiodi due o tre mucche o altri capi di bestiame.

Taitù, da tempo, guardava un altro ragazzo e nonaccettò la proposta.

Scappò di casa e venne a chiedere aiuto alla missione.Certamente, non potevamo andare contro la legge dei Gujie tanto meno assecondare i desideri del padre della ragaz-za che, in pratica, cercava rifugio da noi.

Al padre arrivò la notizia che Taitù si nascondeva dallesuore e così venne con tutta la sua tribù, armato di lance ebastoni, per ri prendere la poveretta.

Cercammo di convincere la ragazza a ritornare e chie-dere scusa per la ri sposta negativa, con la promessa di sot-tomissione alle decisioni dei Jarsa (anziani del villaggio).La ragazza si convinse e si salvò dalla morte.

È finito il mo mento dell’Attesa; an che nella nostra mis-sione si av verte la preparazione al Natale.

I fedeli cristiani han no avuto modo di partecipare allacatechesi comunitaria, che li prepara ad accogliere lavenuta di Gesù, con cuore penitente e gioioso.

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I Guji hanno capitoche il tempo dell’Avven-to è ricco di possibilitàper operare la carità e,per primi, giungono allamissione per aiutare chiè meno abbiente, chi habisogno di ricostruire lacapanna dopo le fortipiogge, di arare ilcampo per il grano, diportare ai più poveri unpezzo di Kitta (paned’orzo), un pugno dicaffè, un orcio di latte.Nella semplicità del lorocuore, hanno inteso ilsenso della conversione:“La carità copre lamoltitudine dei peccati”(1Pt 4,8).

In quei giorni, erava-mo in fervente desideriodi preparare qualcosa di particolare per i nostri fratelli;non il semplice dono, ma qualcosa che li portasse a contri-buire alla solenne Celebrazione Eucaristica, il Natale deipoveri, il Natale di 2000 anni fa.

Con Suor Maria Rosa, un giorno, siamo andate al mer-cato di Shakiso per trovare, in uno store, qualche indu-mento locale per vestire, nella notte di Natale, tutti i bam-bini da battezzare. Bambini dell’età compresa tra i 3 e i 10anni, secondo il loro calendario e secondo il calcolo appros-simativo dei loro genitori. I Guji non conoscono la loro età,non sanno nemmeno quando sono nati e spesso alla clini-ca dovevamo indovinare l’età degli anziani e dei bambini;

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In primo piano Sr. Maria Rosa la primasuora missionaria che insieme a SuorGiuseppina Italiano e Suor Delia attra-versano il fiume „Awata‰.

una delle espressioni più significative che la gente ci dice-va: “è nato al tempo del Bakkollo”, cioè al tempo del gra-noturco e così via...

Quella mattina, ci venne in mente, mentre andavamo aShakkiso, di preparare tutti i chierichetti vestiti da ange-li per la processione offertoriale. Per noi era una cosa bel-lissima vedere tutti questi bambini di colore vestiti daangioletti, ma scartammo subito questo pensiero; voleva-mo vivere, quell’anno, il Natale del Signore, come memo-ria viva e reale del Natale di 2000 anni fa. Non occorrevacercare il muschio per il presepe o le casette per il villag-gio. Nella nostra missione ogni giorno era Natale, e in par-ticolare in prossimità della festa si accentuava l’atmosfe-ra di Betlemme: l’odore della stalla, del fieno, del fuocoacceso per riscaldare Gesù Bambino, insomma tutto eraun incanto.

Dopo aver fatto alcuni acquisti per la festa, suor MariaRosa mi disse che dovevamo prepararci a vivere un Nata-le diverso dagli altri anni, dovevamo fare spazio nel nostropovero cuore per accogliere il Re dei re.

Ricordo che facemmo comunione al pensiero di vivereintensamente l’evento della nascita di Gesù, ponendocicome umili pastori che portano doni alla capanna dovegiace il Dio bambino. Questi pensieri caratterizzavano iltempo dell’attesa, godevamo di gioie semplici, era unadelizia confrontarsi con la Parola che giorno dopo giornoprendeva consistenza nella nostra anima.

Una mattina, mi recai di buon ora in cappella e nellamia mente cominciarono a balenare pensieri di bene dadestinare alla gente del villaggio; in pratica, volevo chetutti gli abitanti di Soddu Abala (pietra eretta) parteci-passero alla festa del Natale e godessero della gioia distare insieme, consumando il pasto con i missionari. Nellamente avevo progettato tutto e quindi per me si potevadare il via ai preparativi.

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Nella riunione comunitaria del giovedì, quando con ipadri condividevamo la preghiera e la cena, feci una pro-posta che, inizialmente, sembrò molto dispendiosa per lepoche risorse che avevamo a disposizione, ma più tardi, fuallettante per tutti.

La Provvidenza fu puntuale come sempre, la sensibilitàdei nostri benefattori ci permise di realizzare un Nataleall’insegna dell’amore e della condivisione dei beni.

La notte del 24 dicembre, la gente arrivò da tutti i vil-laggi e anche dai posti più lontani; avevano sentito chealla missione dei farengy (stranieri) avveniva qualcosa distraordinario, per cui tanti vennero per pura curiosità, maben presto furono coinvolti a condividere la grande festadel Natale.

Fu uno spettacolo commovente vedere tutta la follapervenuta a piedi scalzi, sporchi, affamati; cercammo dicoinvolgere i vicini di casa, i quali ci diedero una mano apreparare latte, thè e biscotti per tutti. Fu un miracolo,tutti ne presero e furono soddisfatti. Mentre i nostri Gujipensarono a rifocillare gli ospiti, le suore e i padri prepa-rarono la celebrazione all’aperto; la chiesa non poteva con-tenere tutta quella gente per cui, quella cappella, divennela grotta della nascita di Gesù.

Ho vissuto momenti di paradiso, non sentii più l’odoreacre del burro rancido (i Guji ungono i piccoli con il burroe le donne lo mettono nei capelli che diventano lucidi emaleodoranti), la mia anima fu piena di gioia, commozio-ne e nel contempo sofferente. Facevo questa considerazio-ne: quanto spreco nelle nostre case, quanta abbondanza,qui si vive ancora allo stato primitivo come 2000 anni fa.La gente non si pone il problema, è vissuta in quel conte-sto, non ne conosce altri, e quindi è felice per quel poco chela Provvidenza gli offre.

Spesso, siamo noi che non riusciamo a rinunciare alsuperfluo e tutto diventa necessario, utile per il servizio

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che prestiamo, ma non è così: ho sperimentato sulla miapelle la privazione anche di materiale utile per la missio-ne da svolgere, ma non ho mai disperato; ho cercato dichiedere e ho sempre ricevuto in grande abbondanza e conlarghe benedizioni.

Ho avuto modo di sperimentare la povertà del cuore emi è stato riempito di gioie e dolcezze spirituali, la miafelicità in quel tempo fu spaventosa: ero pronta anche amorire se fosse stato necessario per salvare una vita, lavita che ho messo sempre al primo posto come dono, comevalore incommensurabile; sì, contro la cultura dellamorte, ho gridato e griderò sempre alla vita, difendendolacon tutte le mie forze.

Ricordo quando suor Maria Rosa metteva delle semen-ti nell’orto; era sollecita, giorno dopo giorno, a controllarele tenere pianticelle, la vita che spuntava rigogliosa sottogli splendidi raggi del sole, che dà alimento e sostegno allavita umana. Se pensassimo queste cose chissà quante viteumane potremmo salvare!

“Benedici il Signore anima mia, quanto è in me bene-dica il suo santo nome. Benedici il Signore anima mia!”(Sl 103, 1-2).

Il tempo in cui ho vissuto, fu un tempo di grazia, iltempo dello Spirito, vissuto accanto alle mie sorelle e aifratelli che il Signore mi ha affidato.

Suor Maria Rosa era una donna eccezionale, unadonna forte che non ha risparmiato la sua vita per il benedi quella povera gente; lei ha speso tutte le sue energieper la causa dei Guji, ha lottato contro ogni insidia eavversità ritornando vittoriosa per la grazia che il Signo-re le concedeva affinché lei potesse operare il bene.

Ricordo la sua convinzione sulla necessità e urgenza diandare incontro a chi soffre. Suor Maria Rosa, da sempre,è stata missionaria, fin dalla sua giovinezza, ed è entrata

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nella congregazione con il vivo desiderio di poter dare lasua vita per gli ultimi.

Ha vissuto la sua vita di consacrazione a Cristo e aifratelli nella completa donazione e senza riserve fino aquando il Signore le ha detto: Vieni, o Sposa dell’EternoRe, ricevi la corona che il Signore ha preparato per te, findall’eternità.

Nonostante la gravità della sua malattia, suor MariaRosa rispondeva con ardente zelo: devo tornare in Etiopiadai miei poveri, perché mi stanno aspettando. Oggi leiprega per loro, è andata a difenderli dalle ingiustizie edalle oppressioni, è andata a perorare la loro causa pres-so Colui che l’ha scelta e l’ha prediletta tra mille e mille,per essere il segno della Sua bontà e misericordia.

Il ricordo di lei è sempre vivo dentro di me, non hosmesso di assistere i suoi poveri, e in tal senso cerco, nellamia pochezza, di continuare la sua opera anche a distan-za, ma vicina con il cuore e con lo spirito. Il pensiero di leimi dà tanta pace e mi porta a rivivere momenti di para-diso vissuti insieme nella missione di Soddu Abala.

Ricordo quel giorno quando tornai dalla clinica, suorMaria Rosa si fece trovare davanti la porta di casa moltodispiaciuta: non aveva potuto preparare il pane perchénon avevamo più farina e la faffa, che spesso utilizzava-mo per fare le focacce, era stata distribuita ai poveri diAngadi (i Guji che abitavano sulle montagne a circa 8 oredi cammino a piedi).

Cercai di rassicurarla dicendo che andavo a KibreMengist, il primo centro a 18 chilometri dalla foresta, percomprare del pane di tieffe, una farina che serve per pre-parare l’engera, il pane degli Etiopici. In altro momento,saremmo andate alla procura di Awasa (280 chilometridalla missione) per trovare della farina.

Venne con noi anche suor Maria Assunta, era merco-ledì e a Kibre Mengist è giorno di mercato; ci inoltrammo

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all’interno, dove le donne sedute per terra vendono dellefocacce nere, cotte su una piastra di ferro arroventatadallo sterco di mucca. Suor Maria Rosa mi guardò, ledissi: meglio mangiare questi pani che niente. Compram-mo anche delle banane e la carne per gli ammalati tuber-colotici.

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La gioia di condividere lÊamore per gli altri.

Il mercato e la carità

Il mercato per me fu sempre un’esperienza bellissima,arricchente e divertente; lì si trovava di tutto per quellapovera gente, quasi niente per noi che non ci accontentia-mo del poco ma vogliamo sempre l’esclusiva.

Il mercato era distribuito per settori, tutto si svolgevasulla nuda terra o su qualche bancarella preparata concanne legate con delle corde di Agave o liane; c’era ditutto: lattine riciclate, bottiglie, chiodi arrugginiti, scarpeusate, cestini di bambù, pali di legno ricavati a mano datronchi d’albero, vestiti usati, un bazar di merce riciclata.Dall’altra parte i frutti della terra: frumento, mais, ver-dure, patate, etc...

Il momento più divertente era il baratto. Le donne por-tavano per esempio un orcio di latte e in cambio avevanodue uova o un mazzetto di verdure. Gli uomini si occupa-vano della vendita del bestiame e i ragazzini tagliavano lacanna da zucchero da vendere ai loro coetanei.

I musulmani sono le persone più quotate, possiedonostoffe e macchine da cucire, per cui, al mercato, hanno unsettore tutto per loro. Sono gli uomini che tagliano e cucionoa macchina e realizzano un vestito a vista, mentre le donnesiedono accovacciate e aspettano il vestito per la festa.

Il mercato è molto importante, soprattutto come mezzodi comunicazione; lì si apprendono le notizie dal mondo e

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dalla capitale e tutti, tor-nando nelle loro capanne,raccontano quello chehanno a loro volta udito.L’unico inconveniente,per me, quando andava-mo al mercato, era il set-tore delle spezie e dellegranaglie perché comin-ciavo a starnutire senzapotermi fermare e spessoero presa a compariredalla gente che mi cono-sceva dalla clinica edesclamava: Ulh! AkkimiDikkuba (l’infermiera èammalata). Era un diver-timento vederli preoc -cupati per me.

Ci chiamavano gliangeli della foresta, e

non potevamo deluderli, ci conoscevano tutti e quandoandavamo a Kibre Mengist, tutti salutavano al nostropassaggio.

Non ricordo di aver chiesto della roba per gli ammalatiche mi sia stata negata. La Croce Rossa etiopica aveva undeposito di farmaci e viveri per i poveri e soprattutto leriserve per lo stato di calamità. Una mattina decisi diandare con Elema dal Capo, per ri chiedere una barellaper gli ammalati. Il Capo gentilissimo, mi fece entrarenello store; Elema guardava meravigliato (poi capii, lìdentro non arrivava nessuno, a nessuno era concesso dimettere piede in quel grande magazzino). “Sister, midisse: quello che ti serve puoi prenderlo, non abbiamosoldi per pagare la vostra preziosa missione, ma quello

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Bambini sidamo sul prato.

che abbiamo è per voi, sappiamo che vi serve per la nostragente”. Rimasi meravigliata dinnanzi a tanta generosità.Caricammo la Toyota di fagioli, farina, olio, biscotti e solu-zioni glucosate per i bambini. Che benedizione!

Quel giorno fu come il giorno della manna piovuta dalcielo; la sensibilità di quell’uomo mi ha commosso e hasuscitato in me sentimenti di gratitudine verso il Signoreche, sempre puntuale, viene incontro alle necessità delSuo popolo. Che festa per i Guji tutte le volte che torna-vamo alla missione con la macchina piena di ogni ben diDio! La gente ormai conosceva il nostro lavoro e sapeva ladestinazione di quella roba, gli unici destinatari erano ipoveri e gli ammalati.

Un giorno Sceko Wako (una vecchietta cieca dallanascita) si ammalò e non volle uscire dalla sua capannaper recarsi alla clinica; venne a chiamarmi suo figlioNugusè così, con suor Marta, andammo a visitare la non-nina che abitava a poche centinaia di metri dalla nostramissione.

Aveva la febbre alta e delirava; la figlia aveva diagno-sticato febbre malarica e, in effetti, dalla descrizione del-l’accesso febbrile rispondeva alla malaria; per essere piùsicuri analizzammo il sangue in laboratorio e risultò posi-tiva.

In realtà non credevamo che Sceko Wako si sarebberipresa, poiché le sue condizioni generali erano moltopreoccupanti; la donna poteva pesare poco più di 25 chilo-grammi e la febbre alta la stava consumando, non si ali-mentava se non con qualche orcio di latte appena munto.Dopo aver iniziato la terapia antimalarica, suor Martaprese l’impegno di portare ogni giorno, nella capanna, unascodella di pasta. La donna inizialmente rifiutò, non cono-sceva quell’alimento e aveva inappetenza; con tantapazienza la suora riuscì a farla alimentare e piano pianosi riebbe.

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Una mattina, la nonnina venne da sola a bussare allaporta di casa, aveva in mano una gallina che donava allesuore come segno di ringraziamento per quello che aveva-mo fatto per lei.

Tante furono le circostanze in cui molti si presentava-no a ringraziare per qualche beneficio ricevuto; ogni voltaper me era un momento di commozione vedere la genero-sità dei parenti, la gratitudine degli umili contro la ric-chezza e l’avarizia dei potenti. Il cuore mi batteva fortequando quelle povere creature, segnate dalla povertà edalle malattie, avevano sentimenti di bene nei nostri con-fronti. Ma cosa cercavo io, misera creatura, posta in quel-la vigna a lavorare per i miei fratelli abbandonati? Avevola paura di non reggere qualche volta a tanto amore,tanta generosità da parte di chi non ha per sé e pensaagli altri. Tutto era per me motivo di riflessione e di con-versione.

Avevamo comprato una capretta e con tanta cura eattenzione Suor Marta si occupava di quella graziosa crea-tura. Ma avvenne che la piccola bestiola fu sacrificata persalvare la vita di una intera famiglia.

Durante la stagione delle piogge, tante persone vanno araccogliere funghi e purtroppo per quella famiglia alcunifunghi risultarono avvelenati, per cui ci ritrovammo din-nanzi ad una scena devastante: tre dei quattro componen-ti della famiglia arrivarono alla nostra missione cammi-nando carponi, con dolori atroci allo stomaco. Elema capìsubito il problema e dopo aver praticato del cortisone e unalavanda gastrica mi disse: “Sister, devi uccidere la capret-ta e prendere il fegato per salvare questa gente”.

Rimasi perplessa, ma i Guji sanno quali metodi e mezziadottare secondo le loro usanze e tradizioni; è certo che quel-la famiglia si è ripresa, Elema mi guardava con accento diconferma ed io, con la mia poca esperienza, rimasi stupita.Elema mi fece un cenno con la sua mano, indicandomi il

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cielo mi disse: «obo-letti Tiyia, “WakaBeka”» (sorella mia,il Signore sa).

Solo il Signore sa,ed io, per un mo -mento, ho avutodubbi, non ho confi-dato nella Sua gran -de potenza, mentreElema mi avevadato una grandelezione: perché do -vevo cercare la cau -sa e il mezzo di quel-la guarigione? lacosa più importanteera l’evento, e, diquesto, dovevo rin-graziare il Signore.

Questo episodiomi fece rifletteretanto, mi pose nell’atteggiamento di umiltà e servizio conuna convinzione più profonda; forse prima pretendevo dipoter operare prodigi con i mezzi che avevo a disposizione,ma non era quello lo scopo della mia presenza in quellaforesta: io ero solo lo strumento nelle mani di Dio, dovevoessere più pronta a cogliere la sua presenza anche nelle cir-costanze più difficili e porre in Lui tutta la fiducia. Chispera nel Signore non resta confuso! (Cfr Sl 22, 6).

Giorno dopo giorno, scoprii la presenza sempre più fortedi questo Dio misterioso, che opera meraviglie a chi si volgea Lui con tutto il cuore e con tutta l’anima.

La sua presenza mi faceva andare spe dita nel camminodella fede, della speranza e della carità; mi sentivo la don -

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Mercato della frutta nella cittadinadi Shashamanne.

na forte, pronta a combattere contro le in sidie del ma le,pur di portare tra la gente il segno del la sua bontà e mise-ricordia.

Mi convincevo sempre di più che la vita vissuta in Luiassume un colore diverso, an zi, non il colore diverso, ma tifa godere dei colori dell’arcobaleno che ha la potenza d’in-frangere il cie lo in tempesta.

Quan ta pace! Quan ta gioia! Quanto desiderio di bene!La cerva che anelava ai corsi d’acqua, ora è ar rivata

alle sorgenti, sta gustando le delizie di quell’acqua limpi-da che bonifica, alimenta, guarisce e fa crescere, fa cre-scere sempre di più nella conoscenza del Suo Amore.

Durante la stagione delle piogge, alcune donne delvillaggio vanno a raccogliere delle verdure per venderleal mercato. Tra queste, una era al nono mese di gravi-danza, ma come tutte le altre si portò al mercato a ven-dere la sua mercanzia. Diciotto chilometri a piedi,inzuppandosi nel terreno bagnato, attraverso i sentieri,per portare a casa qualcosa per sfamare i propri figli.Sambatè, questo il nome della donna, di appena sedicianni, arrivò al mercato, ma al ritorno si trovò pronta peril parto; aveva appena percorso una decina di chilometriquando le doglie cominciarono ad essere più frequenti.Alcune donne che si trovavano con lei, la adagiaronosotto una pianta e con i loro natalà (scialle etiopico) lacircondarono per creare una certa privacy.

Quel giorno, di sabato, Suor Marta ed io eravamo anda-te a fare rifornimento di nafta per il generatore e anche noici trovammo di ritorno, quando un ragazzino, a piedi, civenne incontro per strada, dicendo che c’era una donna trale piante nel sentiero che stava male. Suor Marta mi dissesubito: “è Sambatè che sta per partorire, ma non è necessa-rio che andiamo perché loro sono bravi e se la cavano dasoli”. Il ragazzino insisteva che aveva sentito dalle donneche c’era qualche problema. Lasciammo la macchina e pro-

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seguimmo a piedi fino alla foresta dove, all’interno, tro-vammo la donna dissanguata e il bambino morto (sicura-mente rottura d’utero, commentammo).

Subito, alcune donne intrecciarono delle canne con leliane, adagiarono la donna sulla barella e pian piano la con-dussero alla Toyota. Erano circa le ore 17.00 quando ciavventurammo per Ergalem (ospedale a 170 chilometridalla missione). C’era bisogno di sangue per l’intervento.“Eccomi” - dissi al medico che guardava storto, come a dire:ma tu, cosa hai da spartire con lei?

Non esitai e dissi di procedere al più presto perché ladonna stava per morire. Erano le 22.20, eravamo fuorilegge, fuori regole per i permessi consentiti dal governo, manon avevamo paura; eravamo lì per una giusta causa, dove-vamo salvare quella ragazza di sedici anni a costo dirischiare il carcere.

Sambatè mi guardava con occhi imploranti, non avevanemmeno la forza di respirare, era lì esanime, non volevaessere lasciata da sola, ma le regole dovevano essere rispet-tate, non potevamo stare con lei.

Dopo il prelievo di sangue mi fecero prendere un succodi frutta e mi congedarono. Che fare? Era tardi e attra-versare la foresta era rischioso. Pensammo di andare allamissione di Dongora, a 30 chilometri dall’ospedale, dovetrovammo ristoro e alloggio.

Al mattino presto, prima di rientrare nella missione,passammo dall’ospedale per verificare le condizioni diSambatè. Il medico mi assicurò che tutto procedeva benee che le erano state trasfuse due unità di sangue. Unadelle donne che ci accompagnò rimase lì con lei (sempre aldi fuori dell’ospedale in una baracca per ospiti); conse-gnammo a lei del denaro per qualche bisogno e tornammoalla missione.

Dopo venti giorni, si presentò alla clinica Nugusè, ilmarito della ragazza, dicendo che sua moglie era tornata

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a casa e che mi aveva portato un regalo come segno digratitudine.

Nugusè portò per la comunità una gallina e cinquebanane “Sister - mi disse - hai salvato la vita a Sambatè,io sono disposto a custodirti per qualsiasi cosa ti possasuccedere, perché Dio ha visitato la sua gente e ha man-dato gli angeli, nella foresta, per salvarli dal maligno”(malattia e calamità). Un brivido percorse tutto il miocorpo. Quanta responsabilità! quante attese! Ma conquali mezzi? Affidai tutto alla Provvidenza per non delu-dere quella gente, ma in realtà avevo ancora tanta paurainsieme a tanto, tanto desiderio di bene! Avevo preso dimira la Provvidenza e, in certo qual modo, mi sentivoaiutata.

Un giorno, alla farmacia della missione, venne a man-care l’Isoniazide (il farmaco che associavamo con l’Etham-butolo per la cura della tubercolosi); avevamo chiesto alMedical Store di Addis Abeba, ma non avevamo trovatoniente. Di ritorno verso Awasa, ci venne in mente di anda-re a chiedere alla missione di Teticha il farmaco, maanche in quel caso, con scarso successo.

Tornammo a casa sconfitte: come affrontare il proble-ma dei centosessanta pazienti da curare? Stava per sca-dere il termine del trattamento mensile, cosa dovevamodare agli ammalati?

Cominciai a farmene una colpa perché non avevo prov-veduto per tempo al rifornimento di quei farmaci, ma, adire il vero, non avevo previsto l’esaurimento della scorta;avevamo dimenticato che parte delle nostre risorse li ave-vamo condivise con l’Ospedale di Shakiso. Intanto, nonpotevamo piangere sul latte versato, dovevamo escogitarequalcosa per avere quel farmaco.

La sera, durante il viaggio di ritorno, mi venne inmente di andare a Kibre Mengist e telefonare in Italia perchiedere in qualche ospedale.

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Il giorno dopo, di buon mattino, delegai Elema di anda-re ad aprire la clinica mentre sarei andata in città. Sor-presa! I telefoni pubblici non funzionano, manca la luce,intanto, prima di tornare a casa, passiamo dall’ufficiopostale. Incredibile, ma vero! Il ragazzo ci consegna laposta e insieme un biglietto con la missiva di andare a riti-rare dalla procura di Awasa i farmaci arrivati dalla Ger-mania.

Mio Dio quanto sei grande! Non posso crederci! (quan-do arrivavano i farmaci dalla Germania venivano distri-buiti in tutte le missioni ed erano una grande quantità,farmaci mirati secondo il tipo di patologia che si riscon-travano nelle missioni).

Arrivai a casa come un razzo e dissi a Suor Maria Rosache dovevamo andare, il mattino successivo, ad Awasa. Quel-la volta, mi ricordo, venne con noi don Franco; anch’egliaveva qualcosa da prendere dalla procura, per cui andammocon la sua macchina.

Certo che questo Signore mi spiazza continuamente!Mi annienta con la sua benevolenza, mi ricolma di beninel corpo e nello spirito.

La gioia di questa Sua presenza m’infonde coraggio, miaiuta a portare avanti con serenità il Suo progetto. La vitain Cristo è la vita nell’amore, la vita celebrata nella festa,la vita donata senza riserve, elevata a Dio come sacrificiodi soave odore.

Quanta dolcezza! Quanto coraggio! Con lui accanto èsempre primavera e, anche se i fiori spesso assumono icolori dei nostri giorni tumultuosi, Lui li rischiara semprecon la luce dei suoi colori: i colori dell’amore. Quando tuttoti sembra buio e brancoli nel deserto, Lui è al tuo fianco eguida i tuoi passi, e quando le intemperie abbattono il tuoanimo, è sempre Lui che ti ristora, come la rugiada almattino. Quando la solitudine ti assale, quando pensi chela tua vita è in pericolo, Egli è nascosto lì, nelle pieghe

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della tua anima e ti avvolge con la sua ombra, ti accarez-za con la sua dolce mano.

Piccolo angelo della foresta, dove sei? Bussano allaporta del tuo cuore, apri, c’è bisogno di te!

Il bisogno estremo di donazione mi faceva sentire la con-tinua presenza di Qualcuno che mi chiamava e avevo lasensazione chiara di dover andare a vedere, fuori dallaporta, questo qualcuno che m’interpellava per un serviziodi misericordia. Avevo una forte paura di perdere ilmomento propizio dell’incontro e annaspavo da tutte leparti per tenere la lampada accesa... “Temo che passi e nonLo veda!”.

La percezione di una sì grande Presenza mi portava adessere in continua ricerca della vera gioia; la sensazione piùforte era per me la gioia dell’Altro; negli occhi lucidi deimiei fratelli ho sempre ritrovato la gioia della purezza, lasemplicità del cuore non contaminato dalle brutture dellavita.

Il mondo che mi circondava all’interno della foresta eradiverso dal mondo in cui avevo vissuto fino ad oggi. Misentivo trapiantata di colpo in una realtà paradisiaca, nonera un sogno, non è stata fantasia, è stata la concretezzadella vita vissuta in un contesto di abbandono alla grazia,frutto di una piena coscienza dell’essere stata scelta perun progetto d’amore, un progetto evangelico che ha volutoripercorrere i sentieri della Fondatrice: “Figlie carissime,andate incontro al povero e soccorretelo nelle sue neces-sità, andate nei paesi lontani dove incontrerete ogni sortadi povertà e, lì, troverete il vostro Sposo Gesù” (M. R.Zangára).

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La vita insieme

Un giorno, Dukana, un ragazzino di nove anni, andòverso il fiume a passeggiare con il suo bestiame; si diver-tiva a guardare le Goreze (scimmie bianche e nere, noi lichiamavamo domenicane) mentre, all’improvviso, unadelle piccole scimmie fece un salto verso il ragazzo e glisottrasse la canna da zucchero che aveva preso con sécome pasto per tutta la giornata.

Dukana si mise a rincorrere la scimmia, ma con scarsosuccesso, quando la raggiunse sopra una pianta, cadde esi squarciò parte sinistra del torace.

Alcuni coetanei, subito, lo portarono alla clinica. Ilragazzino aveva paura del padre, non tanto per la feritaprocuratasi quanto per il bestiame che non poteva porta-re al pascolo. Mandammo a chiamare la mamma e la ras-sicurammo che bastavano pochi giorni perché tornasse acasa guarito. Il nostro discorso non piacque alla mammache a tutti i costi volle portare Dukana nella sua capanna,con la promessa che l’avrebbero trattenuto fino al nuovoappuntamento in clinica per togliere i punti di sutura(avevamo messo dei ganci con la pistola poiché era inda-ginoso suturare in quel piccolo scheletro).

Passarono dieci giorni, ma il ragazzo non si presentòalla clinica. I vicini di casa ci riferirono che Dukana eraandato oltre il fiume con suo padre per andare a trovare lo

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stregone che avrebbe tolto con una lancia i ganci dallaferita. La notizia mi fece paura, mandai Elema a cercareil ragazzo, ma la gente che abita oltre il fiume gli disse dinon avere visto nessun ragazzo. Cominciammo ad averedei dubbi, così, il giorno successivo, volli andare di perso-na a costatare cosa era successo a Dukana.

Era una bellissima giornata di sole, i fiori di camporicoprivano l’immenso verde a perdita d’occhio, ma io ebbiuna strana sensazione, mi sentivo male dentro e non riu-scivo a dare alcuna spiegazione a ciò che mi succedeva.

Era con me una ragazza, Sambatè, che conosceva lafamiglia di Dukana, mi guardò e mi disse: “Oboletti Tiyafula kety gurracia” (sorella mia, il tuo volto è nero!).

A dire il vero, ero molto preoccupata per il ragazzo,avevo un sospetto, quello di non trovarlo più.

Arrivati nella capanna, chiedemmo se c’era gente all’in-terno, ma nessuno ci diede voce. Sambatè mi fece cenno diguardare in fondo alla capanna, ma io non vidi niente,all’interno il buio era fitto, sentivo solo l’aria maleodoran-te, ma niente di più.

Entrammo nella capanna e il mio cuore cominciò a tre-mare: Dukana giaceva su una pelle di mucca, per terra,pieno di vermi bianchi. I genitori avevano abbandonato lacapanna pensando che il figlio era stato preso da undemonio che lo stava trasformando in un ammasso divermi.

Per prima cosa, tirammo fuori dalla capanna il ragaz-zo; aveva il volto sfigurato per la sofferenza atroce di quel-la ferita, diventata purulenta e maleodorante; era lì iner-me, non mangiava da tre giorni e aspettava sorella morteche lo liberasse da quella sventura.

Chiamammo alcuni del villaggio, i quali ci diedero unamano a preparare una barella e così trasportarono ilragazzo fino alla clinica.

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Dio esiste, io l’ho visto!Mi sentivo incapace di risollevare quella piccola crea-

tura dallo stato di sofferenza in cui versava, ma non dispe-rai, anzi, cercai con tutte le mie forze di incoraggiareElema che era sfiduciato circa la guarigione del ragazzo eci mettemmo all’opera.

Dukana rimase con noi circa venti giorni, non volevaritornare dai suoi che l’avevano abbandonato e ci chiese sepotevamo adottarlo noi e mandarlo a scuola.

Gli cercammo una famiglia assicurando la nostra rettaper il mantenimento del ragazzo.

Egli piangendo di commozione mi abbracciò e mi disse:“AYo Tiya, WaKa beka” (madre mia, il Signore sa quelloche deve fare!).

È vero, il Signore sa quello di cui hanno bisogno i suoifigli: “Coroni l’anno con i tuoi benefici, al tuo passaggiostilla l’abbondanza, stillano i pascoli del deserto e le colli-ne si cingono di esultanza. I prati si coprono di greggi, di

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Sul „gary‰ (carretto) con la Madre Generale Sr. Romilde Zauner.

frumento si ammantano le valli, tutto canta e grida digioia” (Sl 65,12-14).

Ripetere con il salmista queste note, significa farememoria di tutti i benefici, che Dio concede all’uomo, mal-grado la sua ingratitudine; per me, queste note, assumo-no un significato profondo, risultano la verità, la bellezzae lo splendore di tutto ciò che il Signore opera nella miaanima.

Non a caso, i momenti vissuti nella preghiera, in riva alfiume, assumevano il sapore di una dolce realtà che scon-finava in tutta la mia vita. I salmi ripetevano la mia sto-ria, i miei stati d’animo, l’esperienza profonda nella casadel Signore, la prospettiva del futuro in viaggio con Lui. E,non a caso, la presenza della mia Fondatrice era semprecostante nell’esercizio della misericordia. Mi sentivo comeavvolta e protetta dalla sua mano esperiente in fatto diamore e misericordia. Cosa cercavo di più? Avevo appaga-to quella sete inestinguibile che mi ha condotto fino adoggi in pascoli ubertosi?

“Chi ha sete venga a me e beva, dice il Signore” (Ap22,17). E allora il mio desiderio di Lui, sempre vivo nellamia anima, mi portava alla ricerca di fonti dove potevoabbeverare la mia sete, il mio desiderio di conoscenzasempre più profonda del Suo amore per me.

Trascorrevano i giorni all’insegna del bene da operareper quella povera gente. Spesso, abbiamo potuto speri-mentare quanto amore ci è stato restituito, quanta grati-tudine per un servizio reso al fratello sofferente o biso-gnoso. Tutto è grazia!

Mi mettevo in discussione quando alla fine della miagiornata lavorativa mi sentivo piena, appagata, felice,anche se iniziava la salita al calvario, una salita per cosìdire data dal fastidio che provavo nel mio corpo in compa-gnia delle pulci; sì, le pulci sono stati i miei amici più fede-li, per cui il ritorno a casa era un percorrere il sentiero d’in-

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sidie. Fino a quando ero impegnata con la gente non avevonemmeno il tempo di soddisfare il prurito che avevo in tuttele parti del corpo; sapevo che erano quelle povere bestiolinee andavo avanti ignorandole, ma quando dovevo andare ascuotere la polvere dai sandali cominciava l’avventura.

Un giorno, venne a visitarci una suora comboniana e,tra le altre storie e lo scambio di esperienze di lavoro, lasorella lamentò il problema delle pulci penetranti; leilavorava nella missione di Dongora, dove il suolo è piùpolveroso e pieno di pulci, grandi quanto una punta dispillo, invisibili a occhio nudo; Suor Raffella raccontò diun bambino che aveva un piede in putrefazione proprio acausa di una pulce penetrante.

La mamma del bambino aveva tentato, con un’ago, ditogliere la pulce ma non vi riuscì. L’ospite cominciò adeporre le uova formando così una grande sacca biancapiena di piccole uova da scovare. In pratica, tutto il tal-lone del bambino era divenuto un’allevamento di pulcipenetranti; il bambino fu ricoverato alla clinica e dopoparecchi giorni cominciò a camminare.

I Guji non sanno che non esistono le medicine pertogliere le pulci; l’unica medicina da adottare è quelladella pulizia e l’igiene della casa e della persona; ma cosafare se quella povera gente non ha nemmeno le scarpe perproteggersi dalla polvere?

Anch’io raccontai qualche episodio analogo, ma questavolta toccò a me: la sorpresa di una pulce al dito pollicedella mano sinistra. Mi svegliai, una mattina, con tantoprurito al dito, ma, a dire il vero, non mi sembrò si trat-tasse di una pulce; pensai ad una puntura di zanzara, cer-cai di non dare molto credito a questo prurito e bruciore,ma non fu così, la gentile ospite aveva depositato le sueuova e mi faceva simulare un giradito. Dopo alcuni giornidecisi di chiamare una ragazza molto brava nell’estrazio-ne delle pulci penetranti, Azeb. Facendosi una risata

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quando le dissi che avevo preso un moyale, mi chiese: puredagli stranieri vanno le pulci?

La ragazza fu molto brava, estrasse dal dito una saccabianca piena di uova, ma ben presto la voragine creatasinel dito guarì e dimenticai quel piccolo incidente di per-corso.

Spesso mi veniva in mente di andare a trovare, almenouna volta al mese, una donna anziana che soffriva di epi-lessia e che, tante volte, era stata vittima di infezioni cau-sate dalle pulci penetranti. Dukko è una donna cieca,avanti negli anni ed abbandonata, vive da sola in unacapanna dei monti Uraga. L’avevamo incontrata duranteun’escursione in un villaggio, mentre stavamo esplorandole zone accessibili per dare la medicina agli ammalati.Quel giorno ci presentarono l’anziana in questione e, adire il vero, avevamo pensato di portarla con noi alla mis-sione; la donna fu irremovibile, ci disse che il Signore perlei aveva stabilito così e che non poteva andare contro laSua volontà: così mi ha insegnato il catechista, ripeteva, eio non voglio disobbedire a Dio.

Molti sono i pensieri che fanno ressa nella mente,quando si tratta di ascoltare testimonianze di personepagane (fino all’età di circa settant’anni) e che, ad un trat-to, si lasciano affascinare dalle parole del Vangelo pro-nunziate da un catechista locale.

Mi sentivo tanto piccola di fronte ad una fede così gran-de e, ricordo, entravo quasi in crisi pensando tutte quellevolte in cui la mia fede ha vacillato e quante volte mi sonolasciata prendere dallo scoraggiamento di fronte a deter-minate situazioni.

Rimane scolpito nel mio cuore uno dei tanti momentiforti della mia vita: la morte atroce di don Franco Ricci.Non sapevo chi invocare e cominciai a dubitare anche

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della presenza di Dio in mezzo a noi. Sono stati momentiterribili, momenti di solitudine, di sconforto e di paura. Sì,ci siamo sentite subito orfane di un padre che si prodiga-va ad annunciare l’avvento del Regno e che ha speso tuttele sue energie per la causa di quella povera gente.

Don Franco, un sacerdote diocesano della comunità“Fidei Donum” di Bari, era un grande missionario e il suoesempio mi è stato di aiuto, anche quando l’ho visto sullettino morto, dinanzi ai medici del centro sanitario cheaspettavano me per l’autopsia.

Un errore, uno scambio di persona? Non si capiscecome sono andate le cose, ma, di fatto, è stato ucciso sullabreccia, mentre andava a riparare una cappella sui monti,distrutta dalle grandi piogge.

Quel mattino don Franco, prima di partire per gliUraga, passò dalla clinica per salutarmi e mi accorsi chealla guida della toyota c’era un ragazzo etiope; la cosa mistupì, perché don Franco non era solito lasciare guidarealtri. Ma quella mattina mi disse: “Suor Gabriella, oggimi riposo - e quel giorno per lui fu il riposo eterno -, lascioguidare lui così schiaccio un pisolino”. Con lui partìanche Unza, un carpentiere mussulmano e un altroragazzo. Lungo il cammino, due dei quattro trovarono lamorte, mentre gli altri due, fingendo di essere morti, sisono salvati.

Erano circa le ore sedici, quando sentimmo il rumore diuna macchina che si avvicinava alla missione, subito cichiedemmo chi venisse a visitarci; da premettere chequando arrivava qualcuno alla missione, per noi era sem-pre una festa. Quel pomeriggio fu la celebrazione dellafesta. Don Franco entrava a far parte della candida schie-ra dei martiri, martire della fede, martire della carità.

Il ragazzo che si presentò alla missione ebbe il tristecompito di darci la notizia della morte del padre Franco edel carpentiere Unza. Mi disse che qualcuno di noi doveva

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andare a Kibre Mengist, a prelevare i corpi dei due morti,ma non capimmo di che cosa stesse parlando; subito pen-sammo ad un incidente con la macchina, ma non poteva-mo mai immaginare ad una sparatoria di ribelli che atten-devano, all’interno di una foresta, il passaggio di una mac-china con a bordo alcune persone.

Solo il Signore sa la verità di come sono andati i fatti.Per noi rimane un mistero, spiegabile solo alla luce dellafede. Non riuscivo a capire, mi venivano in mente tantipensieri, ora di bene, ora di male, continuare a lavorareper questa gente o per chi?

In un baleno, fu subito chiaro il messaggio che mivenne dall’alto, mi pare sia un passo della lettera di SanPietro apostolo: “Non rendete male per male, ingiuria peringiuria, ma, al contrario rispondete benedicendo; poichéa questo siete stati chiamati per avere in eredità la bene-dizione” (1Pt 3,9-10). A questo siamo stati chiamati: non èfacile avere sentimenti di pace, dinnanzi a due corpi senzavita, di fronte a tanta cattiveria e ingiustizia; ma, ancorauna volta, sperimentavo la dolcezza della Sua presenzache mi colmava di ogni benedizione.

Non riuscii a comunicare con le autorità locali, quellaspecie di ufficio delle comunicazioni non riuscì a darmi lalinea con Addis Abeba e nemmeno con Awasa; tramiteradio, ci mettemmo in comunicazione con il centralinodella capitale, e da lì la chiamata per l’Italia. Mi misi incontatto con la Madre Generale e, singhiozzando, cercaidi raccontare, in sintesi, ciò che era accaduto nella nostramissione. La madre riuscì a bloccare il Vescovo del vica-riato di Awasa, in partenza per l’Italia, invitandolo adandare alla missione per rendersi conto dell’accaduto.

Suor Maria Rosa aspettava alla missione, Suor DeliaPalazzolo si trovava a Killenzo per sostituire una sorellacomboniana in clinica, insomma ci trovammo di colpo dasole ad affrontare una situazione più grande di noi.

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Ritornai a casa con i due corpi senza vita, con me c’erail catechista Jacob; insieme, ci ritrovammo nella foresta apercorrere quel sentiero nella paura e nell’angoscia didover portare a casa il missionario ucciso insieme al suovalido collaboratore, esperto nella costruzione di capanne.

Appena arrivati, quasi vicino alla missione, comin-ciammo a sentire le urla della gente e il pianto di SuorMaria Rosa che cercava di consolare chi aveva perduto ilpadre della fede, il grande missionario che amava la suagente, e che aveva lasciato come testamento la sua testi-monianza d’amore per quella tribù e il suo esempio didisponibilità verso tutti.

La gente vegliò tutta la notte don Franco, mentre altrisi sedettero sulla nuda terra e cominciarono a raccontarsila missione svolta dal padre tra i pagani, e quante capan-ne aveva fatto costruire alle famiglie più povere.

Dopo la celebrazione solenne dei funerali, ad Awasa,dove fu seppellito (don Franco aveva detto che se fossemorto in Etiopia, lì voleva rimanere anche da morto),ritornammo alla realtà della foresta.

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Difficoltà e paure

Una mattina sentimmo il rumore di un camion che sidirigeva verso la missione. Elema, preso dalla paura,disse che erano arrivati i ribelli per interrogare i farengi(noi stranieri) circa l’accaduto e quali fossero le nostreintenzioni nei confronti del governo etiopico.

Intanto era lì con noi un padre messicano comboniano,venuto a sostituire temporaneamente padre Franco, (siaspettava, infatti, un sacerdote “Fidei Donum” da Bari).Ci riunirono in una baracca puntandoci i fucili e, con tonoautoritario, ci chiesero quali decisioni avevamo preso, inmerito all’uccisione del padre. Suor Maria Rosa mi fececenno di stare zitta e di dare la parola a padre Stefano, ilquale, con molta serenità disse che stavamo pensandoalla sostituzione del padre e che la missione sarebbeandata avanti nel suo lavoro. Dobbiamo tenere in grandeconsiderazione il tempo difficile che stava attraversandol’Etiopia, dopo la fuga del Presidente Menghistù Haile-mariam; quindi, un popolo senza governo, un governo ditransizione, dove i ribelli penetravano soprattutto nellemissioni per fare razzie.

Uno di loro si rivolse a Suor Maria Rosa chiedendo ilsuo pensiero e se nella mente avevamo programmato dicomunicare alle autorità italiane l’accaduto. Mi permisi diparlare io al suo posto, e con molta fermezza dissi: “conti-

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nueremo ad amarvi, forse più di prima, e vi abbiamodimostrato con i fatti che siamo disposti a morire pur disalvare un solo bambino della vostra gente”. Si guardaro-no attoniti, ci ringraziarono e ripresero la strada di ritorno.

Noi ci siamo guardati in silenzio e ci siamo abbracciatia lungo; fu per tutti un momento di grande commozione,ci sentivamo forti, forti della Sua presenza che avevamosperimentato, toccato con mano: il Signore è fedele, pro-tegge il suo servo.

“Le grandi acque non possono spegnere l’amore, né ifiumi travolgerlo; forte come la morte è l’amore” (Ct 8,7.6).Sì, come è grande il mio amore per te, Signore! “Tu midoni la forza di un bufalo, mi cospargi di olio splendente”!(Sl 92,11).

Quell’episodio mi ha fatto riflettere tanto, mi ha dato lacertezza di non essere stata mai sola nell’affrontare situa-zioni più grandi delle mie forze, tutto prendeva corpo den-tro di me, la mia anima acquistava spessore, lo spessoredell’amore, della certezza di questa Presenza nella miavita.

Volevo gridare forte i benefici che il Signore compivanella mia povera anima, ma avevo paura che altri noncogliessero la bellezza del significato profondo che riusci-vo a dare alla mia vita. Suor Maria Rosa era l’unica che,nel silenzio, assecondava la mia gioia di vivere profonda-mente la mia vita in Cristo, nella concretezza della dedi-zione totale agli ultimi.

Lei era sempre gioiosa, sempre pronta ad affrontaretutto con fortezza d’animo e con grande tenacia, pur diraggiungere l’obiettivo, forte di carattere ma tenera comeuna madre che non si riserva nulla, pur di non far perirei suoi figli. Ho un grande ricordo di questa donna forte, unricordo nel cuore di tanto amore dato per la causa delRegno e tanta tenacia di voler tornare tra la sua gente,nonostante fosse arrivata all’ultima spiaggia.

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Lode alla donna forte! Da additare come esempio perchi intraprende il cammino di missionario ad gentes.

Dopo la dipartita di don Franco la vita riprese il suoritmo; qualche difficoltà nel campo dell’evangelizzazionesorse quando venne il nuovo sacerdote da Bari. Certa-mente, tutto da ricominciare e, anche in questo campo,non ci tirammo indietro nel dare una mano al nuovo mis-sionario. Il catechista Jacob fu molto disponibile, sopra-tutto ad insegnare la lingua locale e a spiegare gli usi ecostumi della gente del luogo.

Tante persone, in clinica, mi chiedevano notizie di“Abba gudda” (il Padre Grande di statura e spessore),soprattutto la gente che arrivava dai monti Uraga dovedon Franco aveva catechizzato e battezzato tanta gente.La testimonianza data dai missionari è un modo per ren-dere attuale il vangelo predicato, e anche loro sono ingrado di mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti. IlGuji si accorge se un missionario è un uomo mandato daDio, oppure è soltanto un dispensatore di dottrine. I nostrimissionari sono gli angeli della foresta, inviati a noi, daquel Dio grande e buono che nessuno conosce. La genteaveva sempre sulle labbra questa espressione.

Dinanzi a tanta fiducia nei nostri confronti, mi senti-vo tanto responsabile, chiedevo sempre ad Elema, ormaidiventato mio confidente, quali fossero le aspettativedella gente, cosa potevamo fare per loro, soprattutto permigliorare la loro condizione economica. Elema non midiede subito una risposta, ma aspettò il momento oppor-tuno per esprimere ciò che da tanto tempo avrebbe volu-to dirmi.

Un giorno, alla fine del nostro lavoro in clinica mi disseche voleva parlarmi, era un mistero quello che dovevadirmi. Io non capii, ma si trattava di un segreto, non dove-vo parlarne con nessuno. Il ragazzo voleva studiare e con-

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seguire il titolo di studio per diventare infermiere profes-sionale; occorreva la dodicesima classe ed Elema avevaconseguito la licenza media. Mi disse che era disposto afare sacrifici pur di raggiungere l’obiettivo: quello di poteraiutare con più competenza la sua gente, quindi aprire luiuna clinica a Giallaù (zona sperduta tra le montagne) eformarsi una famiglia. Desiderio nobile e legittimo quellodi Elema, ma come realizzare tutto questo?

Il ragazzo prometteva bene e bisognava sponsorizzarequesta opportunità.

Elema, ogni giorno, dopo il lavoro in clinica andava allascuola serale, a Kibre Mengist; con o senza la pioggia, apiedi, tornava a casa di notte, ma al mattino era puntua-le al lavoro. Dopo aver conseguito il titolo di scuola mediasuperiore, raggiunse anche la preparazione per il concor-so alla scuola infermieristica di Awasa. AccudimmoElema come un fratello e la sua perseveranza fu premia-

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La Madre Generale in visita al villaggio nella missione di Miqe.

ta.Oggi Elema gestisce una clinica, è sposato ed ha tre

figli. Abbiamo messo in pratica un detto di Daniele Com-boni: “salvare l’Africa con l’Africa”. Elema è diventatol’angelo della palude per quella povera gente sperdutanelle montagne Uraga.

Il messaggio si faceva concreto, dovevamo creare oppor-tunità di lavoro per il futuro dei giovani di Soddu Abala.

Una sera andai in cappella con la mente occupata damille pensieri, non riuscivo a concentrarmi, il pensiero diquei giovani mi assillava e pregai tanto perché mi libe-rassi dalla tentazione di andare oltre il limite delle nostrepossibilità economiche e anche istituzionali. Mi sentivoimpotente dinanzi a tanta urgenza! Non avevo alcunavoglia di sotterrare quel pensiero. Una luce mi fece intui-re che si potevano aiutare alcuni ragazzi mandandoli allascuola agraria e quindi affidare loro un appezzamento diterreno per la coltivazione di ortaggi da portare al mer-cato per la vendita; creare, in pratica, una piccola coope-rativa, investendo del denaro che loro stessi avrebberorestituito con i primi proventi.

Parlai di questo progetto a don Leonardo e mi disseche dovevamo aspettare tempi migliori; parlai con ilVescovo di Awasa perchè potesse darci una mano all’ini-zio dell’opera, ma anche in quel caso, bisognava attende-re qualche tempo; d’altra parte, diceva il Vescovo, lanostra era una missione giovane e non potevamo precor-rere i tempi di maturazione dei progetti.

Non capivo che il Signore mi dava delle lezioni diumiltà; non mi accorgevo che il Signore aveva progettiben diversi dai miei. Non riuscivo a cogliere il suo mes-saggio, ero occupata in altre cose, non c’era spazio dentrodi me per l’ascolto.

Mi ritrovai da sola, cosa succedeva? Dov’era la luce chesplendeva sempre sul mio volto? Momenti di sconforto mi

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stringevano come funi, ero presa come nei lacci di coloroche tramano per farmi cadere e ho invocato il nome delSignore: ti prego, Signore, salvami! (Cfr Sl 116, 3-4).

Andai a dormire, ero esausta, come se avessi zappatotutto il giorno senza sosta. Durante la notte sentii il rumo-re della pioggia che batteva sul tetto di lamiera, mi sem-brò di udire il lamento della iena che cercava riparo dallatempesta che infuriava nella notte; sembrava il pianto dibambini affamati, indifesi che cercavano riparo. Anch’iomi sentii solidale con quella creatura e cercavo di confor-tarmi come volessi accarezzare tutti i bambini del villag-gio, li pensavo tutti sdraiati sulla pelle di animali, al calo-re vicino al fuoco, e pensavo di coprirli con il manto dell’a-more; in quella notte gelida, sentivo proprio il bisogno dicolmare la sete.

Ad un tratto, sentii un forte urlo: la faina aveva stroz-zato il vitellino che avevamo regalato a suor Marta per laprofessione. Insomma, tutto quella notte, era contro il miostato d’animo.

O Dio, Tu sei il mio Dio, non lasciarmi vacillare nelbuio!

Il mattino seguente, mi recai in cappella per la Messa,ebbi la strana sensazione di essere stata, per tanto tempo,schiacciata da un enorme macigno e mi sentivo fiacca.

Ricordo che Suor Delia mi chiese se la notte avevovegliato anziché dormire; la sua sollecitazione mi fecerientrare in me stessa, e con tutte le mie forze cercai dipartecipare attivamente alla celebrazione delle lodi mat-tutine.

Al primo versetto del Benedictus: “Benedetto il SignoreDio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo...”(Lc 1,68) mi svegliai dal torpore che mi aveva fatto viveremomenti di buio. Tutto cominciò a tornare come prima, laCelebrazione Eucaristica, quella mattina, ebbe un saporeparticolare, riempì tutto il mio essere di grazia, gioia e

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benedizione.Cominciai a rendermi conto che non potevo realizzare i

progetti di bene senza consultare l’Autore stesso del pro-getto. Il Signore ha i suoi tempi, i suoi pensieri non sono inostri pensieri, anche se spesso, riteniamo opera Sua l’o-pera dell’uomo realizzata secondo il desiderio umano.Avevo ricevuto una grande lezione!

Quella mattina, nella clinica, c’erano pochi ammalati;del resto durante la stagione delle piogge è più faticoso rag-giungere il nostro ambulatorio all’interno della foresta. ConSambatè pensammo di andare a trovare il vecchio Bunna,un lebbroso che non riusciva a venire alla missione perchémolto malato. Portammo con noi l’occorrente per la medi-cazione e un paio di scarpe per il nostro caro amico.

Dopo aver indossato un paio di stivali di gomma, ci inol-trammo lungo il sentiero che porta alla capanna del vec-chietto; dopo circa due ore di cammino, arrivammo inzup-pate di cicca (fango). Bunna non ci aspettava, era fuori al

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Il grande mercato di Kibre Mengist.

sole, sistemava una vecchia scure. Non credette ai suoiocchi, rimase stupito per la nostra presenza e, subito,chiamò la moglie perché ci facesse entrare nella capanna.

Per prima cosa, la donna prese una ciotola d’acqua e cifece lavare le mani, poi cominciò la cerimonia dell’acco-glienza. Il vecchietto chiamò un ragazzo perché andasse araccogliere alcune foglie di banano per metterle su unapanca rudimentale, poi gettò sul fuoco acceso al centro dellacapanna, alcuni grani d’incenso e così in seguito la grandepreparazione del caffè. Non potevamo medicare il nostrocaro amico se prima non celebravamo tutto il rito del caffè.

Tra un racconto e l’altro, ci recammo fuori dalla capan-na per medicare Bunna, ma la nostra sorpresa fu grandequando l’uomo ci mostrò le sue estremità guarite; sì,aveva i monconi ma era guarito dalla lebbra.

Ritornammo a casa attraversando il fiume, e con tantibambini che ci precedevano facendoci da staffetta.

Eravamo felici, non avevo parole per ringraziare ilSignore di tanti benefici, mi sentivo tanto amata, sì, di unamore infinito, di un amore senza confini.

“Canterò senza fine le meraviglie del Signore”! (Cfr Sl89,2).

Attraversammo il fiume raccontando lo stupore dellacreazione e commentando la bontà e tenerezza del grandecreatore. Sambatè ascoltava con attenzione e ripeteva ditanto in tanto qualche frase che non riusciva a compren-dere. Certamente, avevo qualche difficoltà ad esprimerein lingua guji un pensiero profondo e cercavo in tutti imodi le parole più analoghe al significato del mio pensie-ro. D’altra parte, forse il mio interlocutore non conoscevai sentimenti che pregnavano la mia anima di stupore nelcontemplare l’amore del Signore.

Mi ripetevo, lungo il cammino, ad alta voce, un pensie-ro: “Essere in Te, o Dio per sempre, e con Te amare gli

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ultimi miei fratelli”. Questo fu il filo conduttore che miportò a vivere la mia vita in Cristo, alla luce del Vangeloche prendeva sempre più forma nel mio essere. Un amoresenza confini, ovunque e per sempre.

Il pensiero della mia vita in Cristo a servizio degli ultimiebbe una grande eco nella mia preparazione ai voti perpetui.

Era l’anno millenovecentottantanove, quando la MadreGenerale Suor Romilde Zauner, mi chiese di rientrare inItalia per iniziare un corso di studi per Caposala; nel con-tempo, mi diceva la Madre, avrai modo di prepararti allaprofessione perpetua.

Trovammo qualche difficoltà da parte del Vescovo diAwasa, il quale si mostrò poco sensibile a questa proposta,a motivo del lavoro della clinica da affidare ad altre infer-miere. Superate queste piccole difficoltà, mi preparai psi-cologicamente ad affrontare il viaggio e la permanenza dicirca un anno in Italia.

Non nascondo i sentimenti di angoscia vissuti negliultimi tempi, non riuscivo a pensare di lasciare per unlungo tempo la missione di Soddu Abala.

Chissà perché, ma ebbi la sensazione che quei giornitrascorressero in fretta, come se spinta da qualcosa che midiceva: è ora, devi andare! Sicuramente un fatto emozio-nale e puramente affettivo, non volevo lasciare le sorelle ela mia gente.

Erano trascorsi cinquanta giorni dalla Pasqua e, comedi consueto, dovevamo preparare la veglia di Pentecoste;con noi c’erano quattro ragazze aspiranti, le quali si mise-ro d’accordo per prepararla all’aperto e far parteciparetutti i cristiani del villaggio.

Quando tutto fu predisposto per la preghiera, ebbi ladolce sensazione che avrei dovuto ricevere quella notte unregalo.

Preparammo un grande fuoco e sedemmo tutti all’in-

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torno. Durante la lettura del brano degli Atti degli Apo-stoli, un evento straordinario ci fece gustare la bellezzadella presenza di Cristo in mezzo a noi: una pioggia leg-gera sfiorò i nostri corpi, una sensazione recepita dallamaggior parte dei presenti; ci sentimmo baciati dall’amo-re di Cristo che, ancora una volta, dava segno tangibile delSuo amore per noi.

Quella notte fu la notte dello Spirito, ebbi la percezionedi poter toccare le stelle del cielo e scoprire da dove veni-va quella rugiada che penetrava dolcemente nella miaanima.

Il Signore voleva consolarmi; avevo chiesto, al mattino,di farmi conoscere il Suo amore e d’insegnarmi la via daseguire. Egli ancora una volta mi additò la via dell’amore,un amore senza confini; per cui, anche se il mio rientro inItalia fosse stato definitivo, avrei vissuto la mia vita inCristo, ovunque... Mi ritrovai, subito, a meditare le paro-le di San Paolo: chi ci separerà dall’amore di Cristo? Latribolazione, il pericolo, la spada...? Nessuno mai potràsepararci dall’amore di Cristo (Cfr Rm 8,35-39).

La certezza della mia scelta di vita prendeva semprepiù forma, la forma dell’adesione perfetta alla Sua volontàe, anche se spesso mi sentivo privata della mie facoltàintellettive, per aderire ad un progetto meramenteumano, riuscii a disporre tutto sul piano del Suo progetto,orientando tutte le mie energie per il bene altrui.

Mancavano circa tre mesi dalla partenza per l’Italia;cercai con tutte le mie forze di spendere il tempo a servi-zio della comunità secondo i bisogni di ciascuno, la pace,la gioia di vivere albergavano nella mia anima. Cercai disfruttare al massimo ogni attimo della mia vita come unbene prezioso che il Signore mi metteva a disposizione,ancora per poco tempo.

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Il vino della grazia

Ricordo, una mattina, per raggiungere in fretta l’am-bulatorio, dimenticai d’indossare il camice bianco. Oddo, ilragazzo che ci aiutava in clinica, mi disse: “Sister, checosa festeggi? Perchè hai messo l’abito della festa?”. Subi-to di rimando, senza riflettere, ho detto che la festa era ilmio lavoro, il lavoro con gli ammalati e con tutti quelli checi circondavano.

Quella mattina ero molto euforica, come se avessi bevu-to vino; sì, in effetti avevo bevuto il vino della grazia, misentivo bene e volevo partecipare a tutti la mia gioia divivere.

Quanto sei grande e buono, Signore, con le tue creatu-re! Mi fai vivere all’ombra delle tue ali, mi copri con le tuepenne! (Cfr Sl 91,4).

Mi venne un pensiero che volli approfondire durante lamia permanenza in Italia. La madre Zangára, nella Rego-la di spirito ci parla di un amore da attribuire all’unicovero autore dell’amore, una carità perfetta che parte dal-l’amore puro che è Dio, l’amore per se stessi, l’amore per ilprossimo. Questa trilogia risulta essere la perfetta carità,quindi ritorna all’autore dell’amore puro come sacrificio disoave odore.

Quanti insegnamenti, quanto esempio mi dà questa

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donna, insignita di cari-smi straordinari!

Spesso, mi fermai suqueste sollecitazioni, nonnascondo la paura diveder vanificata la no -stra opera con gli ultimi,se questa non fosse stataaccompagnata dall’inten -zione per la quale erastata compiuta. Ma garila gioia di aver salvatoqualche creatura, miavrebbe fatto diventaresuperba, orgogliosa; no,f o n d a m e n t a l m e n t e ,tutto per me è stato donodi grazia da attribuirealla presenza del Signo-re nella mia vita, consa-pevolezza di un donoricevuto da Dio, dono di una chiamata all’amore, do no diuna chiamata ben precisa: Va’, annunzia l’amore di Dio!Va’, dona la vita!

Una mattina, con Suor Delia, andammo ad Awasa, alMedical Store, per comprare le medicine, attraversandotutta la parte sud del Sidamo. Suor Delia iniziò la pre-ghiera del Rosario, quando, sulla strada, fummo fermatida tre ribelli armati di mitra (era ancora il tempo in cuic’era il governo di transizione e i ribelli facevano razzia ditutto). Suor Delia mi disse: non ti fermare, corri! Mi fer-mai, aprii la portiera e scesi per salutare colui che miaveva puntato il mitra; quell’uomo mi guardò stupito; glichiesi se avevano bisogno di qualcosa e, con un gesto di

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Ragazzo porta al mercato il fruttodel suo lavoro: una cesta di canne.

sconfitta, mi dissero di andare.Suor Delia tremava per la paura e mi disse: ho pregato

le anime del purgatorio e ci hanno liberato dalle mani deiribelli. Arrivammo la sera ad Awasa stanche, soprattuttoper la tensione accumulata, dopo aver fatto una docciapreferimmo andare a dormire.

Al mattino, di buon’ora, subito dopo colazione, andam-mo per l’acquisto dei farmaci e, dopo qualche altro approv-vigionamento, ripartimmo per Soddu Abala.

Il ritorno fu meno pauroso, con noi c’era Fratel Vik cheandava a Teticha e quindi non avremmo fatto in tampo atornare a casa.

Quella notte fu interminabile, sentire la iena ridens midava la sensazione di udire il pianto di neonati, il gufocon il suo verso... insomma, quella notte rispecchiava ilmio stato d’animo; avevo accumulato tensioni e non riu-scivo a dormire. Suor Delia aveva dormito, era stanca ed

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Cappella della comunità di Addis Abeba.

era caduta nel letto comeun sacco.

Teticha è una delleprime missioni apertedai padri comboniani; daquelle parti si lavora ilbambù e gli esperti diquesti lavori sono i bam-bini. Anche noi quellamattina comprammoqualcosa per la clinica.

Rientrammo a casaper l’ora di pranzo, iltempo di togliere la robadalla macchina, quandosi presentò un ragazzocon una gamba ferita.

Ci risiamo, pensai(durante il tempo dellamietitura, molti si procu-rano ferite da taglio e,certe volte, sono casi gravi). Scesi subito in ambulatorio emandai a chiamare Oddo perché mi aiutasse; venne conme anche Suor Marta, la quale, a vedere come era legataquella gamba, capì subito che non si trattava di una sem-plice ferita, ma, ahimè! l’uomo aveva l’arteria della gambatranciata; nonostante i tentativi di sutura, non riuscii adunire i due tratti dell’arteria. Con suor Marta, andammosubito a Kibre Mengist, il centro sanitario.

L’uomo era dissanguato, pallido e gelido, il medico delcentro mi disse che ancora qualche istante e sarebbemorto per emorragia. Lasciammo quell’uomo in brutteacque.

Ritornammo il mattino successivo, per visitare il nostropaziente, gli avevano trasfuso due unità di sangue; appe-

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Un bambino presenta la sua mercanzia:vende due uova alla suora della missio-ne di Soddu Abala.

na ci ha viste ha accennato un sorriso, poi, l’infermiere cidisse che la notte aveva delirato e cercava la sister che gliaveva salvato la vita.

Quante grazie il Signore ci concede, quanta bontà emisericordia ha verso di noi misere creature!

La creatura è il risultato dell’amore ineffabile di Dio!Quante volte mi venne in mente il desiderio di collabora-re con i medici del Centro; avrei voluto chiedere aiuti inmedicine e materiale sanitario. L’esperienza che avevofatto durante l’intervento di sutura, in quella clinica privadi tutto, mi aveva messo in discussione; non avevano nem-meno una pinza per clampare l’arteria, e così ritornammoa Soddu Abala per prendere il necessario.

Quel pomeriggio, ritornammo per comprare della stof-fa; Suor Maria Rosa aveva in mente di far realizzare, alledonne della scuola, delle gonne, e così andammo presso lacorporazione per trovarla a meno prezzo.

Trovammo anche della stoffa per fare degli scamiciatialle “Figlie di Maria”.

Suor Maria Rosa aveva costituito un gruppo di ragazzeche puntualmente arrivavano alla missione per ascoltarela Parola di Dio e, nel contempo, imparare alcune nozionid’igiene. Le ragazze erano molto contente, anzi, ammira-vano il lavoro che la suora era riuscita a svolgere con loro;alcune divennero brave madri di famiglia dopo aver segui-to anche i corsi di formazione e altre divennero imprendi-trici. Impararono il taglio e cucito e andarono al centro pervendere la loro mercanzia.

Suor Maria Rosa aiutò molto queste ragazze, prestan-do anche del denaro per aprire delle piccole baracche perla vendita dei capi realizzati.

Ero molto contenta, vedevo fiorire nella steppa cipressi!Nei luoghi aspri, gemme di speranza e, talvolta, rimanevo

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incantata a vedere i ragazzi che andavano al mercato, feli-ci di poter presentare i frutti del loro lavoro, proprio incittà.

Nessuno credeva che i ragazzi da soli erano riusciti ascoprire le ricchezze della loro terra vergine, e così, trauna sfida e l’altra, riuscirono a portare i capi del governoalla missione, i quali stimarono il lavoro dei missionaricome le macchine che lavorano l’oro delle miniere, una ric-chezza indicibile, ma, ancora di più, il miracolo del lavorodell’uomo che realizza la sua vita per il bene del prossimo.

La gioia più grande era quella di vedere i giovani desi-derosi di andare avanti, sacrificando molte volte la dome-nica pur di racimolare qualche centesimo per andare ascuola.

L’interesse cresceva e il desiderio di far parte dellasocietà era il pensiero di tutti quelli che avevano speri-mentato il bene e a tutti i costi volevano perseguirlo.

Ero felice, sentivo una sorta di serenità interiore che mirendeva ancora più tenace nel desiderare il bene, il beneper i miei fratelli più piccoli.

Il tempo scorreva in fretta e dovevo prepararmi per lapartenza; avevo una certa ansia nel cuore, qualche inter-rogativo, qualche presentimento..., ma non volevo precor-rere i tempi. Con tutte le mie forze dovevo vivere il tempodi grazia che il Signore mi dava come un tempo che nonsarebbe mai più tornato.

La missione era diventata l’Eden per i nostri visitatorichi veniva a trovarci, chiedeva ospitalità per un corso diesercizi, altri per ritiri, altri per un tempo di relax, insom-ma, chi veniva alla missione sperduta nella foresta rima-neva stupito.

Una volontaria laica venne a trascorrere un tempo diriposo alla missione (lavorava come volontaria di un proget-to a Killenzo); stette con noi circa un mese, al suo rientro inItalia entrò a far parte delle suore missionarie della carità.

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Anch’io rientrai in Italia e cercai di prepararmi adaffrontare, ancora una volta, il mondo dello studio. Unacosa era ben chiara nella mia mente: dovevo portare a ter-mine la missione affidatami e, nel contempo, ritemprare ilcorpo e lo spirito per annunziare a tutti la gioia della miaconsacrazione perpetua.

Erano trascorsi sei anni dalla professione tempora-nea; distinzione, questa, valida per il codice di DirittoCanonico, per le Costituzioni, ma per me che avevo ade-rito per sempre alla Sua chiamata, risultò essere scon-tata.

Mi ero predisposta ad affrontare il nuovo distacco dallamissione con serenità; la partenza era vicina, quindi,dovevo sistemare ogni cosa per lasciare il programma airagazzi della clinica e a Suor Delia che doveva prendere inmano ogni responsabilità.

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Bambini guraghe (prima elementare) nella missione di Woliso.

Giunse il momento in cui tutto il mio essere fu protesoverso nuovi orizzonti; il desiderio di far tesoro del tempo cheavrei avuto a disposizione fu grande. Non volevo sciuparequel tesoro che il Signore stava mettendo a servizio dellamia vita.

Mi congedai dalla mia gente per andare in Addis Abebadove avrei dovuto chiedere alcuni permessi al governoprima di prenotare il volo per l’Italia.

Partii con Suor Maria Rosa ed una postulante. Quelgiorno il viaggio mi sembrò molto breve, volevo riempiretutta la mia mente e la mia anima delle bellezze del creato.Strano, quel giorno diedi a suor Maria Rosa la guida dellamacchina, proprio perché volevo godere dello straordinariosplendore del paesaggio africano; mi sembrava di sognarein una realtà così intensa di emozioni e di purezza!

Qualche foto per documentare questo viaggio e alcunesoste per rifocillare le membra assolate e subito (si fa perdire, erano passate circa undici ore dalla partenza), arri-vammo nella capitale.

Fummo ospiti delle suore comboniane di Addis Abeba;passarono tre giorni dal nostro arrivo e giunse, quindi, ilmomento in cui dovetti lasciare l’Etiopia, questa volta perun lungo tempo.

Sentivo dentro una certa emozione, qualcosa mi trema-va all’interno, non so descrivere in maniera dettagliata lasensazione che ho provato quando ci fermammo ad unsemaforo: un ragazzino aveva costruito con le sue maniuna specie di chitarra (chirara) e, tutto contento, suonavamotivi tradizionali ad ogni passante che faceva sosta aquel semaforo.

Il ragazzo si guadagnava qualche centesimo per vivere,lo faceva cantando, con gli occhi pieni di pianto malinco-nico e nello stesso tempo gioioso; prestai orecchio alleparole che musicava con la sua chitarra. Mi sembrò dicogliere queste note: vai lontano, figlia della nostra terra,

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perché anche noi popolo di amara, partiamo con te; torne-rai al tempo del caffè, e i fiori profumeranno di odoreintenso perché il popolo ha ritrovato il suo pane. Vai conla pace nel cuore, figlia del sole!

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„Vinca‰, un fiore di primavera.

Una responsabilità cresciuta

Il mio rientro in Italia segnò una nuova tappa nella miavita; l’esperienza forte di una piena consapevolezza del -l’Amore mi rese forte, pronta ad affrontare con gioia ognievento.

Intanto, avevamo avviato le pratiche per la frequenzaal corso di specializzazione all’Ospedale Civico di Paler-mo.

La mia consorella, Suor Maria Concetta Sena, era,anche lei, a Palermo per iniziare con me lo stesso corso distudi.

Insieme abbiamo iniziato il noviziato, insieme ci ritro-viamo ad iniziare un cammino che ci porterà alla profes-sione dei voti perpetui.

La comunità di Palermo ci accolse con gioia e disponi-bilità, tutto era in funzione di un evento che prendeva inmaniera forte l’Istituto e ciascuna delle sorelle in partico-lare.

Il rapporto che si venne ad instaurare con i giovanidella scuola, con i docenti e con la carissima direttrice,Suor Susanna Scarraggi, fu un rapporto di amicizia gioio-sa e di condivisione comunitaria che mi portò ad identifi-care la piccola comunità scolastica alla comunità dei primidiscepoli.

Il profitto scolastico, spirituale e comunitario, mi

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indusse a vivere la mia preparazione alla professione per-petua come la sposa che si prepara al giorno delle nozze,ancora una volta, per giurare fedeltà all’Amore vissuto,amato e testimoniato.

Il mio progetto era ben preciso: aderire con tutte le mieforze alla volontà di Dio; solo in questa dimensione didisponibilità mi sentii libera, libera di amare e servireColui che, fin dal grembo materno, mi ha chiamata e desti-nata ad essere la testimone dell’amore che si fa misericor-dia e trova la piena realizzazione a servizio degli ultimi.

La gioia di poter raccontare a tutti le esperienze vissu-te in Etiopia, mi diede modo di raggiungere le alte vettedella sorgente, quella sorgente che fin dalle origini dellamia nascita all’Amore, fu sempre l’acqua pura che ha sod-disfatto la mia sete.

Che dolcezza! Quanta tenerezza il Signore ha manife-stato all’umile sua serva!

E, di tanto in tanto, mi immedesimavo nello spiritodella Fondatrice, volevo conoscerla e scoprire in lei laprofondità di quell’amore che la spinse ad essere martiredel suo Signore, martire dell’amore, perché testimonedella bontà e misericordia di Dio.

Venne il tempo in cui ci preparammo, con Suor MariaConcetta, a vivere con intensità gli esercizi spirituali.

Chiedemmo il permesso di allontanarci dalla scuola,trovammo tanta comprensione e soprattutto piena parte-cipazione, da parte di tutti, all’evento della professione.

Suor Susanna diede l’incarico agli allievi di preparare icanti e così fu anche un modo per testimoniare la bellezzadella vocazione alla vita religiosa lì, nella scuola, dovecentinaia di giovani si preparavano a svolgere la profes-sione infermieristica con gli ammalati.

Una gioia indicibile pervase la mia anima; era arrivatoil tempo in cui dovevo fare i conti a ritroso: mancava poco

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al mio rientro in Etiopia, e la tappa della professione per-petua era per me la vigilia della partenza. Il desiderio diriabbracciare l’Africa mi faceva stare bene con me stessae con gli altri.

A chi incontravo dovevo dare ragione della gioia che erain me, non potevo tacere, non potevo tenere per me tuttaquella grazia che il Signore mi elargiva, sentivo una certafrenesia di amore che mi si spezzava il cuore. In alcunimomenti forti ebbi la sensazione di morire, morire digioia; ero pronta a qualsiasi evento.

Il 24 marzo del 1984 avevo emesso i miei voti temporanei;il 24 marzo del 1990 mi accingevo a confermare giuridica-mente la mia adesione totale e, per sempre, all’Amore che miaveva chiamata ad essere sua testimone della misericordia.

Cristo crocifisso, Lui, l’autore dell’amore, mi diede lacertezza della sua identificazione con gli ultimi. Gli ultimida privilegiare, gli ultimi da amare, gli ultimi da rilegge-re attraverso il volto di Cristo fratelli da abbracciare nellaloro solitudine, nella loro malattia, nella loro incertezza,nella loro emarginazione.

La strada è segnata, il progetto è chiaro, i destinataridella misericordia sono sempre con noi.

La Chiesa accolse i miei voti per le mani della MadreGenerale, Suor Romilde Zauner, nella Parrocchia delSacro Cuore alla Noce, la parrocchia che diede i natali allamia formazione cristiana e religiosa.

Il ritorno agli studi mi permise di raccontare a tutti lagioia della mia consacrazione e il grande desiderio di por-tare a tutti l’annunzio dell’amore che si concretizza nelquotidiano, attraverso gli eventi e le circostanze che laProvvidenza prepara per ciascuno di noi.

Gli esami di stato furono la tappa ultima di questotempo di grazia che il Signore aveva preparato per me.

L’esito felice di questo tempo mi inserì in un contesto dinuova preparazione per il rientro in Etiopia; dovevo pre-

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pararmi a incontrare Cristo, in una dimensione nuova.Va’ ad incontrare Cristo sorella mia!Questo il pensiero che scrisse una mia consorella in un

biglietto, prima che io partissi per l’Etiopia. Sì, ero prontaad incontrare il Cristo dalla pelle bruciata dal sole, il Cri-sto della terra senza confini, il fratello da amare, il miocompagno di viaggio nell’avventura dell’Amore.

Il mio rientro in Etiopia fu un trionfo; il tempo del cantoera tornato, i fiori del caffè erano sbocciati e il loro profumoriempiva la terra. L’ansia del rientro nella foresta mi davagioia, coglievo nell’aria una sensazione bellissima, come sequalcuno mi trasportasse, per incanto, nella terra promessa.

Sentivo il fruscio delle piante che accoglievano festosegli uccelli con i loro nidi, la foresta mi sembrava più bellache mai. Il desiderio di rivedere la mia gente era grande.

Arrivammo al tramonto, nel momento in cui tutta lagente si ritirava nelle capanne pri ma del calar della notte.

Ero contenta, il mattino successivo avrei rivisto tutti inostri vicini, quindi ero serena di poter scrollare la stan-chezza prima dell’incontro.

Non fu così; tutti sapevano del mio rientro e che sarem-mo arrivati verso sera, per cui, quando sentirono il rumo-re della macchina, sbucarono fuori come le formiche, can-tando e danzando di gioia. Alcuni avevano, i bastoni, tipi-ci della danza di capo d’anno, altri avevano, tra le mani, ifrutti della terra per offrirli a noi che venivamo da unlungo viaggio.

Quella sera andammo a letto molto tardi; non riuscivoa prendere sonno e, allora, cominciai a pensare al grandedono che il Signore mi aveva fatto nel tempo in cui sog-giornai in Italia. Ogni cosa aveva un tono e un significa-to particolare, ma la cosa più importante era la gioia inte-riore che mi faceva tremare di stupore: lo stupore di unamore per la creatura, lo stupore di una bellezza che si

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dona alla fragilità del corpo e dell’anima; mi sentivotanto, tanto piccola da non poter contenere la grandezzadel Suo amore.

Eppure, ero lì dove Lui mi aveva inviata a portare illieto annunzio agli ultimi miei fratelli, proprio comeavevo scritto nell’immagine ricordo della mia professio-ne: “Essere in Te, o Dio, per sempre e con Te, per gli ulti-mi, miei fratelli”.

La certezza della Sua presenza nella mia vita è il miorespiro, non cesserò mai di esaltare la grandezza del SuoNome e manifestare a tutti la bellezza del Suo Amore.

Non so come, ma mi addormentai, dovetti cedere allastanchezza.

Il mattino seguente, mi ritrovai pronta per iniziare illavoro con gli ammalati. Subito dopo la Messa, appenausciti dalla cappella, una schiera di persone era lì, distesasull’erba bagnata di rugiada; erano tranquilli ad aspetta-re che si aprisse la clinica: cominciava l’avventura!

Ricordo il vecchio Bunna che, tutto felice, quella matti-na aveva raccolto un casco di banane per portarle in donoalla sister, che non vedeva da tanto tempo. Grazioso, gliera cresciuta la barba e aveva detto ai vicini che non l’a-vrebbe rasata fino al mio ritorno; per cui, Elema, appena lovide, gli disse di mantenere la promessa e che avrebbevoluto vederlo la sera prima dell’Ave Maria. Bunna nonaspettò il suono della campana, si presentò in cappella co -me un ometto elegante e si dispose a pregare con la comu-nità parrocchiale.

La tenerezza della gente nei confronti di noi missiona-ri supera ogni limite, un popolo fedele che riconosce nellostraniero il bene che ha ricevuto come dono mandato dal-l’alto.

I Guji non si pongono il problema della diversità dellereligioni, riconoscono la grandezza e il potere di una entitàche non sta in mezzo agli uomini, ma che ha dimora lassù

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nei cieli.Una sera di primave-

ra, un ragazzo venne abussare alla porta di ca -sa, chiedendo un po’ di fa -rina per preparare delleschiacciate di pane allamamma, che aveva appe-na partorito.

Il marito della donna sitrovava in guerra e quindinon avevano nemmenouna presa di farina persfamarsi. Nugusè, il ra -gazzo, mi guardò sorpreso,quando presi un sacchettodi faffa e gli dissi che avreivisitato la sua mamma equindi sarei andata conlui. Mentre camminava-mo a tentoni per raggiun-

gere la capanna, il ragazzo mi invitò ad alzare lo sguardoindicandomi il cielo stellato; si poteva toccare, una bellezzaindicibile, gli dissi che i suoi occhi brillavano, nella notte,come le stelle; ma Nugusè, non voleva indicarmi le stelle; eglisosteneva che in quel momento Dio era contento perché unanuova creatura era venuta nel mondo e che Dio aveva man-dato gli stranieri a salvare la sua gente dalla fame e dallamalattia.

Pregammo insieme ringraziando il Signore per tutti isuoi benefici e giungemmo nella capanna dove lamamma era adagiata su una pelle di capra insieme allasua creatura.

Il cielo stellato, la capanna, il fuoco acceso, l’odore delfieno, insomma, tutto era come a Betlemme, nella notte

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Mamma gugi, orgogliosa,presenta il suo bambino.

della salvezza. Il mio cuore batteva forte, provai una certaemozione che non riuscii a contenere: piansi di gioia, didolore e, nel contempo, di angoscia.

Molti pensieri affollavano la mia mente: perché tantapovertà? Contro lo spreco delle nostre case, perché tantaprivazione, mentre noi abbiamo il superfluo? Io mi ponevoquesti interrogativi, ma i Guji no, loro sono persone sem-plici che si contentano di poco e che riescono a valorizzareogni piccola cosa, apprezzare anche il più piccolo filo d’er-ba, per costruire ceste; insomma dalla natura ricavano lamateria necessaria ai loro bisogni.

Ricordo le prime volte, quando alla lezione d’igiene, lemamme pulivano i loro bambini, dopo i bisogni fisiologici,con le foglie di una pianta; inizialmente mi fece senso, per-ché pensavo che la pelle del bambino si sarebbe rovinata,ma quando toccai quelle foglie, mi accorsi che erano mor-bide come il velluto. Le stesse foglie venivano utilizzateper tamponare le ferite.

Quante cose stavo imparando! E quante ancora ebbimodo d’imparare a contatto con la gente.

Mi sentivo privilegiata, il Signore mi aveva scelto perun servizio che mi faceva sperimentare, attimo per atti-mo, la bellezza dell’uomo, la creatura per eccellenza cheDio abbia potuto creare. Non ricordo momenti in cui misentii fuori posto, era come se fossi vissuta sempre in quelcontesto africano.

Il tempo trascorreva in fretta e venne il momento in cuidovemmo aprire una casa in Addis Abeba per avere unpunto di riferimento nella capitale. Inizialmente non ave-vamo un progetto ben preciso, ma durante il percorso ope-rativo per le pratiche di acquisto della casa, ci invitaronoad aprire una clinica vicino al circolo degli italiani. La pro-posta non fu ben accolta da me che dovevo lasciare la fore-sta per andare a lavorare in città.

Parlammo con i nostri superiori in Italia. Venne deci-

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so di trasferire energie e carità, ma la mia povera mentevolò subito nella foresta dove lasciavo i miei poveriammalati.

Era il progetto di Dio, anche se personalmente non con-dividevo appieno la decisione di lasciare la missione diSoddu Abala.

I padri cappuccini di Addis Abeba avevano avanzato lanecessità di curare i nostri connazionali, anziani e soli,per cui loro ritenevano oculata la scelta di aprire una cli-nica in Addis Abeba.

Andammo più volte con Suor Maria Rosa a vedere ilposto dove doveva nascere l’ambulatorio, e così, giunse ilmomento in cui dovetti dire il mio Fiat!

Non so perché, ma ebbi la strana sensazione che l’ope-ra nascente non avrebbe avuto un futuro felice, affidaitutto nelle mani di Dio e cominciai a dare ad ogni cosa ilsuo giusto nome. I destinatari della misericordia eranonostri fratelli, circa centotrenta, da assistere nelle variepatologie, ma soprattutto da aiutare nella loro solitudine.Erano anziani italiani e meticci che portavano sulle lorospalle la sofferenza della guerra, l’abbandono del coniugeo la morte dello stesso; non avevano alcuna intenzione dirientrare in Italia, solo desideravano una parola di confor-to e l’assistenza al passaggio nella casa del Padre.

Con Suor Maria Rosa rientrammo a Soddu Abala ecominciai a fare ordine dentro di me. Ebbi momenti dipanico, di sconforto, ero molto legata a quella gente, madovevo proseguire a piene mani la semina dell’amore,quell’Amore per il quale oggi mi ritrovo a raccontare lemeraviglie e lo stupore di una vita donata al servizio deifratelli.

Concordammo con i padri cappuccini la data dell’inau-gurazione della clinica San Raffaele, e così ci prodigammoper l’arredo, i farmaci, il tecnico di laboratorio e il medico

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che tre volte a settimana visitava gli ammalati.Non è stato semplice lasciare Soddu Abala, la missione

dove ho potuto sperimentare la grandezza di Dio, l’amoreper le creature e la consapevolezza del Suo progetto nellamia vita. La foresta mi ha insegnato molte cose: mi hareso forte, ha maturato la mia persona, ha reso saldi i mieipassi.

Il congedo dalla gente fu come un funerale; non avreiimmaginato tanta partecipazione al saluto nella Messa diringraziamento; non so quanto burro ho potuto raccoglie-re quel giorno, sul vestito, ma a dire il vero, ero presa dauna forte emozione che non sentii l’odore acre del burrorancido che i guji mettono nei capelli.

Fui avvolta come in un manto di lacrime. Non dimenti-cherò mai Sambatè, una ragazzina che venne a salutarmiportandomi in regalo una foglia piena di more selvatiche;mi disse: non ho niente da darti, ma so che ti piacciono gliangiorri (così si chiamano le more) e li ho raccolti per te.Quanta emozione! Quanta gratitudine!

Un amore senza confini, certamente, anche se la mis-sione di Soddu Abala mi allettava, non potevo rimanere,dovevo andare là dove c’erano delle solitudini da colmare,dove c’era una maggiore richiesta di amore.

Passarono alcuni mesi e il viaggio in Addis Abeba fudefinitivo. Arrivai nella capitale con una suora etiope edue aspiranti; le suore francescane missionarie, nostrevicine di casa, ci aiutarono a sistemare la nuova dimora eanche la clinica San Raffaele.

Alcuni giorni prima dell’inaugurazione, padre Rober-to, cappuccino, mi presentò il Dottor Ghisaw, un medicoetiope in pensione; con lui si instaurò un buon rapportoe portammo avanti, per un periodo di tempo, il lavoro inclinica.

Non posso mettere a tacere i sentimenti che facevano

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ressa nel mio cuore, nel tempo in cui cercai di vedere tuttosotto l’azione dello Spirito che dirigeva i miei passi versonuovi orizzonti.

Avevo un grande desiderio di bene, non mi bastava illavoro in ambulatorio, erano tanti i fratelli che attendeva-no un gesto di misericordia, ed io sentivo che stavo per-dendo tempo aspettando i pazienti italiani che, di tanto intanto, venivano alla clinica. Ne parlai con padre Roberto egli dissi che desideravo andare presso le famiglie per por-tare sostegno psicologico e spirituale. Il mio desiderio eragrande, dovevo soddisfare in qualche modo la sete di beneche era insita nella mia natura umana, e che veniva ali-mentata dalla triste realtà della città.

Cominciai a visitare gli anziani soli, ma nel contempoebbi modo di sperimentare la miseria e la povertà in cuiversava la gente di Addis Abeba.

La ricchezza della classe elevata era la misura dell’in-giustizia nei confronti di chi non ha voce. Le tendopoli diplastica e cartone sono attualmente le case dei senza tetto,i relitti di guerra e gli esiti della poliomielite sono le perledi Addis Abeba. Su quelle perle si posò la mia attenzione:erano quelli i nuovi destinatari di misericordia, ed io misentivo chiamata, in prima linea, a dare voce a chi non havoce.

Cominciammo a chiedere i permessi al governo, percostruire una scuola materna all’interno del nostro com-pound e riuscimmo a realizzare due aule per centoventibambini poveri. Mi sentivo incapace di portare avanti unprogetto di grandi dimensioni, ma capii che la dimensionedoveva essere quella della totale disponibilità e dell’amo-re verso chi stende la mano per chiedere aiuto.

Passarono i giorni e la nostra presenza nella capitalecominciò a prendere consistenza, ma la cosa più impor-tante era la presenza dei nostri fratelli; mi sentivo a mioagio, il Signore mi faceva sperimentare la continuità del

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progetto di Dio sulla creatura.Un giorno, venne a trovarci in ambulatorio padre

Roberto con un uomo ammalato. Mi disse: “Suor Gabriellavedi cosa puoi fare; ha avuto un incidente e gli hanno dettoche dovrà subire un intervento, ha bisogno di soldi per ilricovero”.

Presentai il caso ai responsabili del circolo italiano ecosì cominciammo le pratiche per il ricovero. Damisèrimase senza la gamba sinistra e cominciò la via crucische durò quasi dieci anni. Oggi Damisè, grazie alla gene-rosità dei benefattori, cammina e sta costruendo una pic-cola baracca per guadagnarsi da vivere.

Durante la mia permanenza in Addis Abeba, speri-mentai la bontà e misericordia di Dio, che si manifestaattraverso gli eventi più svariati. Le difficoltà di ottenerepermessi di lavoro erano enormi, le pretese dei capi delquartiere superavano le nostre possibilità di aiuto, ma laProvvidenza arrivò sempre puntuale e mi lasciò stupitadinanzi alla concretezza dello straordinario.

Un giorno, venne il capo quartiere a chiedere aiuto; inpratica la moglie era affetta da un cancro, doveva andarein ospedale e non aveva dove lasciare i due figli. Mi stupiicome un musulmano veniva a bussare alla nostra porta e,tra l’altro, era uno di quei capi che avevano creato proble-mi per la costruzione della nostra scuola materna. Tutto èpossibile a Dio! Dio esiste! Io l’ho visto!!!

Lo guardai, ci guardammo a lungo e lui, con le lacrimeagli occhi, mi disse: “Sister, forse non mi crederai, ma nonvengo perché in questo momento ho bisogno di aiuto, maperché sono rimasto edificato dalla vostra disponibilità eda come amate la gente. Voi non avete mai considerato lareligione o il credo delle persone che si sono presentate avoi, avete visto l’uomo, l’essere bisognoso di attenzioni,chiunque esso sia. Oggi porto a te i miei figli perché tupossa introdurli nella vostra religione, ma soprattutto

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perché tu possa insegnare loro ad amare”.Un fremito mi percorse tutte le membra, non riuscii a

proferire parola, mi sentivo impacciata, e l’uomo riprese:“Sister, questa è la tua missione”!

Questa è la mia missione, quella di amare di un amoreinfinito, senza confini.

“Andate nelle terre lontane e manifestate a tutti labontà di Dio” (Madre M.R. Zangára).

Hai ragione, carissima Madre, la vita di consacrazioneè donazione totale a Cristo crocifisso, la stessa vita spesaper i fratelli che incontri ogni giorno nel quotidiano, nonimporta dove, come e quando, l’importante è amare.

L’importante è seminare a piene mani tutto ciò che hai,l’importante è capire che il Signore ti ha scelta per un pro-getto d’amore, qualunque esso sia, non ha un nome ha unobiettivo ben preciso.

E trascorsero mesi e anni; il mio cuore era colmo digioia, la gioia della donazione agli altri, la gioia di appar-tenere a Cristo, la gioia di essere in Lui per sempre.

Un nuovo progetto stava nascendo nella comunità dicasa generalizia a Palermo e la Superiora Generale pensòdi richiamarmi dall’Etiopia per coadiuvare l’iniziativa:costituire una comunità di laici associati che si chiameràMovimento Ecclesiale Zangariano.

Tremai solo al pensiero di lasciare questi fratelli biso-gnosi e di iniziare un nuovo cammino in Italia; ma ilSignore ha i suoi tempi, i suoi progetti, noi siamo solostrumenti dell’amore da destinare ai fratelli.

Questa volta lasciavo l’Etiopia, ma sarei ritornata ognianno con la Madre Generale.

Concentrai tutte le mie forze per accogliere la nuovaproposta e così tornai in Italia. Ricordo la fatica inizialeper immettermi in un nuovo contesto, e ricordo la gioia dipoter testimoniare la bellezza della chiamata a tante gio-

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vani affidatemi per la formazione iniziale. Quella volta sentii forte il peso del servizio da rendere

alle giovani in discernimento, mi sentivo tanto incapace ditrasmettere tutto ciò che passava nella mia mente e nelmio cuore. Avrei voluto dare il meglio di me stessa, farsentire la gioia di una vita donata per amore.

Non so se sono riuscita, ho cercato con tutte le mie forzedi trasmettere la gioia della mia consacrazione, affidandotutto nelle mani della Provvidenza.

Oggi mi ritrovo nella comunità di Borgetto, dove ripo-sano le spoglie della Madre Fondatrice e dove cerco diincarnarne lo spirito, nonostante le mie debolezze e le mieimperfezioni. Una cosa è certa, credo fermamente alla miavocazione, credo fermamente alla gioia di appartenere aCristo, credo nella santità di questa donna straordinariadotata di grandi carismi, la Serva di Dio Madre MariaRosa Zangàra.

Vivo la sua presenza e sento che guida i passi di ognu-na di noi, Figlie della Misericordia e della Croce, “manda-te sulla terra a rappresentare la bontà di Dio”.

È il mistero, ed è la responsabilità per cui ci siamo.

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INDICE

5 Presentazione di Nino Barraco

11 Storia di un inizio

15 Una svolta decisiva

24 Un rientro provvidenziale

39 Il mercato e la carità

49 La vita insieme

58 Difficoltà e paure

68 Il vino della grazia

77 Una responsabilità cresciuta

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Perché e dove siamoraccogliere oggi tutte le povertà della storia

riempire con il sangue di Cristo la terraconsolare tutte le miserie spirituali e materiali

ITALIA

• Roma• Grottaferrata• Napoli• Sicilia

ROMANIA

• Burujenesti

ETHIOPIA

• Addis Abeba• Miqe• Woliso

MESSICO

• Tultepec• Jerecuaro

Finito di stampare nella Pentecoste del 2010