E-book campione Liber Liber · CODICE ISBN E-BOOK: ... Retorica nell'opera italiana ... anzi...

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Giannotto Bastianelli Pietro Mascagni www.liberliber.it

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Giannotto Bastianelli

Pietro Mascagni

www.liberliber.it

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TITOLO: Pietro MascagniAUTORE: Bastianelli, GiannottoTRADUTTORE: CURATORE: NOTE: Realizzato in collaborazione con il ProjectGutenberg (http://www.gutenberg.net/) tramite Dis-tributed proofreaders (http://www.pgdp.net)

CODICE ISBN E-BOOK:

DIRITTI D'AUTORE: no

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TRATTO DA: Pietro Mascagni : con nota delle opere eritratto / Giannotto Bastianelli. - Napoli : R. Ric-ciardi, 1910. - 148 p., [1] c. di tav. : ritr. ; 20cm. - (Contemporanei d'Italia ; 3)

CODICE ISBN FONTE: non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 10 dicembre 20072a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 11 ottobre 2013

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Indice generale

L'OPERA IN ITALIA.....................................................7I.L'opera in Italia – Suo carattere popolaresco............................7II.Retorica nell'opera italiana......................................................11III.Ciò che simboleggia Pietro Mascagni nell'opera moderna ita-liana.........................................................................................15IV.Mascagni nella musica europea..............................................18

L'OPERA DI PIETRO MASCAGNI............................26I.Cavalleria rusticana.................................................................26II.L'Amico Fritz e i Rantzau.......................................................53III.Il Ratcliff.................................................................................58IV.Silvano, Zanetto e Poema leopardiano....................................69V.L'Iris........................................................................................75VI.Le Maschere e l'Amica............................................................88

RIPROVE E CONCLUSIONI......................................99L'ORCHESTRATORE............................................................99L'ARMONIZZATORE..........................................................110CONCLUSIONE...................................................................119

OPERE DI P. MASCAGNI........................................123INDICE.......................................................................125

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CONTEMPORANEI D'ITALIA

COLLEZIONE DIRETTA DA G. PREZZOLINI

GIANNOTTO BASTIANELLI

Pietro MascagniCON NOTA DELLE OPERE

NAPOLIRICCARDO RICCIARDI EDITORE

1910

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Ai miei fratelli Pietro e Paolo.

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L'OPERA IN ITALIA.

I.

L'opera in Italia – Suo carattere popolaresco.

Ogni paese ha la sua lingua musicale, le cui peculiari-tà di concezione e di costruzione si formarono a poco apoco e furon tramandate più o meno fedelmente dai mu-sicisti. Così, più o meno interrottamente ebbe ed ha tut-tora una lingua musicale originale la Francia, così l'ebbel'Italia e l'ha tuttora sebbene un poco modificata da verie propri barbarismi, di cui la sorgente è o la musicafrancese o, se non sempre direttamente, la musica tede-sca e, meglio, la musica wagneriana. E per linguaggiomusicale moderno dell'Italia intendo di necessità il lin-guaggio del melodramma, poichè da quando comparve-ro i grandi compositori di musica strumentale in Germa-nia, questo genere di musica in Italia divenne fatica diretori plagiari e pesanti. Abbiamo infatti noi dei quartet-tisti da mettere a paro con Haydn Mozart Beethoven?Può un sol quartetto del nostro accademico Bazzini so-stenere il confronto d'un qualunque quartetto dei classici

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tedeschi? E di tutti gli scrittori di musica per pianofortee di musica sinfonica non teatrale, chi è riuscito ancoraa dire agli Italiani una parola sua, a farci scordare l'in-stante tirannia di Beethoven di Schumann di Liszt diWagner? Non è, anzi, senza una ragione profonda ilcontegno indifferentissimo del pubblico italiano verso icosì detti scrittori di musica seria. Infatti il buon pubbli-co innocente e ignorante sente istintivamente che sottoquelle dotte polifonie ben imitate da chi ne seppe più edebbe cuore più nuovo e più sensibile, c'è un silenzio inu-tile, c'è il triste vuoto di colui che non ha forza fantasticatale da plasmare spontaneamente una nuova forma sin-fonica veramente latina.

Mancando dunque i grandi lirici personali, le grandiindividualità musicali che si esprimano ciascuna con unglorioso linguaggio che sembri assorbire e conteneretutto il vocabolario musicale d'un'epoca o di un popolo,in Italia risponde moltissimo al gusto popolare l'opera. Enon l'opera quale Wagner aveva concepita: altissima tra-gedia musicale, profonda di poesia e di pensiero; ma ilsemplice melodramma popolaresco, in cui il libretto, ge-neralmente, invece di essere un'intuizione poetica delmondo quale la Dannazione di Faust, o il Tristano eIsotta, non ha altro ufficio che prestare al compositoredei personaggi senza articolazioni, forniti di ottima golaper cantare. Sicchè, sieno pure tali personaggi vivi, in-dovinati, oppure astrazioni irreali, cadaveri ambulantiper sola virtù di retorica, ciò non importa. L'essenziale èdi situarli e d'aggrupparli in modo che essi possano can-

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tare molte melodie. Chè di queste sono gravidi i compo-sitori italiani, e di queste ghiotti gli ascoltatori italiani.

Tuttavia anche la melodia italiana ha subito delle tra-sformazioni sebbene esteriori. Non più l'accurata lascivacantilena della scuola napoletana; non più i gai gargariz-zi dell'opera buffa, fra i quali talora zampillava qualchelarga monodia d'una dolcezza impreveduta. Verdi l'agi-tatore di popolo, come Garibaldi fu creatore di eroi,sembrò avere scosso l'inerzia molle e l'allegra indiffe-renza in cui amava esser cullata e illusa l'animula italia-na. O meglio, era il popolo italiano che, risuscitato daisoffi primaverili del risorgimento, esigeva un'arte melo-dica nuova: la melodia della passione sfrenata e cieca,della passione che ricordasse la ribellione, che sapesseun po' di polvere e di sangue. Verdi fu la voce del nuovobisogno. I libretti si popolarono di situazioni drammati-che irte di spasimo e di ferocia. E alle tenui cantilene,agli affetti leziosi e di poco palpito, subentrarono modidi canto dalla tessitura più audace, dalla struttura ritmicapiù marcata e violenta, e forti effetti corali e strumentali,e finali «allegro furioso» atti ad ubbriacare i loggioniavidi di commozioni rapide e brutali.

Se non che anche l'arte Verdiana rimase nella sostan-za simile a quella dei predecessori; arte, cioè, sempreprimitiva nel contenuto sebbene spesso perfetta nellaforma, profondamente sensuale, di tinte accecanti, di unsentimentalismo un po' barocco, ma spesso franco e sin-cero; arte che, prossima forse ora al suo tramonto, non èdestinata del tutto all'oblio, ma è meritevole di esser

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frammentata da una critica spassionata e rigorosa in unaspecie di florilegio contenente le più belle ispirazionidei nostri ottocentisti, delle quali dobbiamo, e a ragione,esser gelosi, se non altro per non interrompere le piùpure tradizioni del nostro linguaggio musicale1.

Ora, Pietro Mascagni appunto è un continuatore deglioperisti popolari. Non ostante la preparazione più accu-rata, il possesso d'un'orchestra più ricca, più colorita epiù flessibile, egli rimane un melodista fresco, facile,talvolta futile, ma quasi sempre trascinante per la esube-rante ed ingenua passionalità. Egli, pur avendo una per-sonalità diversissima da quella di Rossini e di Verdi e,come Rossini e Verdi, impersonando la nuova mediocri-tà mentale della terza Italia, non è che un continuatorein linea retta di Verdi e di Rossini; prezioso, ammirevoleper questa sua bella italianità (che a dir vero non possie-de molto Puccini forse meno ingenuo, ma d'una senti-mentalità troppo infranciosata, sul tipo del buon Masse-net); colpevole, come quelli, di essere così al disottodella vasta cultura e della profonda coscienza dello spi-rito umano che hanno avuto i grandi d'ogni tempo.

1 Del resto certe selezioni si fanno talora senza aiuto della cri-tica, ma quasi per una spontanea critica insita negli esecutori. In-fatti dei molti melodrammi che in Italia sono stati composti dache la camerata del Conte de' Bardi ideò il genere dell'opera, checosa è rimasto, se non qualche aria, staccata, senza danno recipro-co, dall'opera a cui apparteneva, per esser cantata nei concerti?

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II.

Retorica nell'opera italiana.

Poichè se ogni arte è condizionata nella libertà delsuo contenuto, vi sono però artisti che nascono e si svi-luppano quasi al di sopra della mentalità comune, vio-lentando, se troppo angusti, i limiti della storia di cuisono figli, sebbene serbando profondamente conficcatele radici in quella storia stessa. L'operista italiano, inve-ce, ha, quasi sempre, una mentalità del tutto immersa,anzi sommersa, nel flutto della mediocrissima vita chelo circonda. Egli è così un'anima semplice, di quellasemplicità un poco artefatta delle anime popolari, chenon appena venga varcata da noi, ci desta un'antipatia ir-rimediabile. Certo nell'arte non vi è progresso, ma vi èprogresso nelle condizioni del suo contenuto. Ponendo ilcaso d'un uomo che da fanciullo abbia vissuto tra il po-polo e abbia sentito com'esso sente, e che, dopo, espe-rienze diverse portarono a conoscere una vita più alta,più ignuda di pregiudizi e di debolezze, non ci meravi-glierà che quest'uomo sorrida con commiserazione dellasua infanzia. Infatti non c'è cosa più erronea del credereche l'anima popolare sia la più genuina che vi possa es-sere. La sua forza di sentire potrà essere, ed è spesso,più violenta della nostra, ma l'esattezza delle impressio-ni, la elevatezza del gusto, la chiarezza del pensiero,cresce in ragione che ci innalziamo e ci allontaniamo

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dallo stato confuso e bolso della vita popolare2. Ognunodi noi se proprio da fanciullo non sia stato figlio del po-polo, può avere sperimentato, conoscendo qualche par-rucchiere o qualche tappezziere o penetrando nell'inti-mità d'una famiglia del popolo, tutto il misto di grotte-scamente falso e di ingenuamente vero, che contengonoi sentimenti del volgo e le loro estrinsecazioni. Ora saràil baleno d'un concetto larghissimo, che l'ingenuo buonsenso sfiora riempiendoci di stupore; ora sarà la vana ri-petizione male a proposito d'un trito sofisma che ci urtae ci disgusta; ora sarà una intuizione splendida, quattroo cinque parole, un'osservazione psicologica, un'intona-zione, un arabesco della voce d'uno che canta per i cam-pi, che ci infondono un vero e proprio brivido estetico;ora sarà la deformazione di non so quale orribile versod'uno dei tanti poetucoli italiani retorici e mentitori, perlo più a scopo di volgari sottintesi carnali, che ci faràvoltare nauseati da un'altra parte.

L'arte popolare o di chi anche a traverso studi relati-vamente superiori, si può pur sempre chiamar popolo,presenta queste bellezze e questo grottesco, questa cu-riosa mistura di pura semplicità e nitidezza nella visioneed espressione, e di tronfiezza ridicola. Così assistendo,per es., ad un'opera di Giuseppe Verdi, è per noi unacontinua oscillazione tra l'aere sereno della bellezza e il

2 Avverto una volta per tutte che il popolo di cui parlo qui nonè il popolo delle campagne e delle montagne, spesso puro e a suomodo profondo; ma parlo del popolo delle città e dei grossi bor-ghi, al quale si attagliano benissimo le mie osservazioni.

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tanfo opprimente della retorica Ma intendiamoci benesul carattere specialissimo di questa retorica. Essa ècome una retorica iniziale, una retorica delle condizioniin cui s'è formato il contenuto. Quando tutto l'ambientestorico in cui un artista si sviluppa, commette un errorecomune, è difficile che quell'artista, se non provvisto diun punto d'appoggio per giudicare, di richiami critici perverificare, possa eroicamente difendere il proprio conte-nuto da quella specie di morbo universale. Onde avvie-ne che si formano certi schemi di arte, in cui la visionedegli artisti vissuti nello stesso ambiente storico sembraavere un punctum caecum sempre allo stesso posto. Peresempio, v'è nell'opera italiana un luogo più comunedelle così dette arie della pazzia, scena della maledizio-ne, scena del riconoscimento, scena d'amore, scena del-la morte? Però, superata da noi la noia che c'infliggequesta costante retorica di situazioni, talvolta niente èpiù bello della melodia che il compositore trovò per talesituazione trita e ritrita. Al modo stesso, nella musica re-ligiosa di Bach, la condizione del contenuto essendoconvenzionalissima, le cantate del maestro di Eisenach,eccettuati alcuni recitativi ed alcuni cori, consistevanosempre in arie e in duetti in cui il vanerello amore ag-ghindato e incipriato e imparruccato dell'anima per ilsuo innamoratissimo padre, era espresso con semprenuova eleganza sincera dal compositore, che non sospet-tava affatto quanto fosse indecoroso per l'anima e perDio tenere quel contegno da Florindo e Rosaura. In que-sto caso, come nel caso delle situazioni melodrammati-

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che dell'opera italiana, noi non possiamo chiamare reto-rica la forma musicale (talvolta bellissima se staccatadal contesto col quale ha relazioni che noi non possiamosopportare); ma retorica, le condizioni in cui è sorta talemusica; la quale anche ai contemporanei parve bellissi-ma e fu da quelli medesimi ben distinta dalla musica ve-ramente retorica, cioè la vecchia intuizione, il vecchiomotivo, la volgare modulazione ripetuta ormai a sazietà.

E in che cosa, se non in questa sincerità e convenzio-nalità aventi ineluttabili ragioni storiche, va cercata laspiegazione di quel fatto che notava lo Hanslick, chenulla è più cedevole al tempo e alla moda (cioè alle mu-tevoli condizioni del superficiale sentimento popolare)delle forme della musica teatrale? I nostri nonni hannoinfatti pianto alle settecentesche smanie della Vestalecolpevole di Spontini, come i nostri bravi loggioni mo-derni palpitano e fremono all'eroismo da sartine e dacommessi viaggiatori della Bohème o si commuovonoall'apoteosi da giornale illustrato della mousmè Iris, cor-tigiana abortita per ignoranza. E, parimente, i nostri pa-dri vibrarono dinanzi alle victorughiane idealizzazionidel buffone di corte Rigoletto, come i loro rispettivi bi-snonni erano andati in solluchero alle graziette lascive eseducenti della Serva che non contenta del possesso car-nale d'un vecchio padrone di provincia, ne vuol sancitoil dominio con un bel matrimonio. Come si vede il feno-meno è vecchio e a forza di nonni e di bisnonni si po-trebbe senza fatica risalire, seguendone le traccie, aPlauto e chissà quanto più su.

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III.

Ciò che simboleggia Pietro Mascagni nell'opera

moderna italiana.

Pietro Mascagni, ho detto, è un discendente in linearetta degli operisti italiani. Al pari di loro, egli non mirache a destare i tumultuosi fremiti salienti dalle platee,ruinanti come uragano dai loggioni, con delle scene cheafferrino l'attenzione del pubblico alla prima audizione,con dei finali coronati di quelle folgori degli ottoni, sen-za delle quali il volgo non crede all'esistenza del mira-colo. Nelle sue opere scorrono, ondeggiano dal princi-pio alla fine, fiumane di melodia che inebriano le animedi ebbrezze facili e passeggere. Un motivo di Beethoveno di Wagner difficilmente diventerà possesso comune, ilcontenuto di cui è riempito essendo soltanto parzialmen-te accessibile al pubblico, il quale non ama le conquistefaticose. La profondità e la fedeltà dell'amore non sonmolto comuni tra le persone volgari e le opere dei clas-sici (ossia dei grandi) non trovano nel popolo la pazien-za vigile che esigono per esser comprese, la qual pazien-za di comprensione è già essa quasi una genialità, edu-cata a lungo e sviluppata con rigore di cultura.

Il canto in Mascagni è sottolineato da un'orchestrazio-ne, a cui la ricchezza coloristica dei timbri non toglie uncarattere di semplicità affatto contrario alla complessitàtematica delle grandi creazioni sinfoniche. Per i nostri

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vecchi le opere di Pietro Mascagni possono significareai loro cuori e cervelli conclusi nel loro ormai giovanilepassato, un intedescamento della musica. Ma questa èun'illusione. È vero bensì che anche l'opera mascagnanaha risentito del decadimento del bel canto, e del soprav-vento su questo dell'orchestra a commentatrice deldramma. Ma, nella realtà, la melodia, sia pur trasmigratadalle fresche gole umane nei numerosi strumenti dell'or-chestra, è rimasta la vecchia melodia italiana dalle for-me regolari, dai blandi ritornelli, dalla serena cadenzafinale coronata da una nota tenuta per far piacere allavoce dei cantanti e all'orecchio del pubblico, che ama icantanti un po' simili a lottatori di molta resistenza. E gliintermezzi mascagnani, i preludi, e i famosi commentiorchestrali alla fine o d'un'aria o di un duetto (commentiche sono poi stati imitati da tutti i mediocri compositorimoderni italiani, compresovi uno non mediocre, Loren-zo Perosi), che altro sono se non sempre, melodia, vec-chia melodia italiana, meglio vestita, più sonoramenteversata negli orecchi degli uditori, più argutamente or-ganizzata? E non se ne sentono infatti intuonar gli echiper le strade insieme coi motivi più amati di Rossini, diBellini, di Donizzetti, di Verdi? Oh! non temano i nostrivecchi! non sarà Mascagni che intedescherà l'opera ita-liana! Egli ha ereditato una delle nature più italiane (nelsenso popolare) che ci sieno mai state. Se i vecchi nonlo capiscono, è che alla retorica dei cori di guerrieri me-dioevali, di sacerdoti romani, di schiave orientali, etc.,etc., è succeduta una retorica più nuova, la retorica delle

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lavandaie giapponesi, dei ladroni scozzesi, dei contadinialpigiani, e più di tutto, la ormai non più recente retoricadell'enfasi strumentale «che dall'orchestra prorompe».Tutte cose che se non son consentanee ai gusti dei fedelidel Prati, di Victor Hugo e del Guerrazzi, non voglionoprecisamente dire che Pietro Mascagni non appaia nellasostanza italiano quanto Verdi agli italiani d'oggidì.

Certo profondamente diversa è la sua personalità daquelle dei maestri italiani della vecchia scuola. Al perio-do epico del risorgimento di cui fu interprete fedele ilromantico Verdi, è successo un periodo in cui l'Italiasembra ritornata per un lato quasi ai tempi di Rossini,per un altro ha acquistato una qualità dolorosa, che allo-ra non aveva, un dolore cioè di passione che fa soffrire,un rifiorimento più agitato della malinconia erotica deiPaisiello e dei Pergolese. E Mascagni è il cantore dellesensazioni fresche, della carne giovanile, della cieca sa-lute, del riso gaio della folla nei giorni di festa, e del do-lore della carne tradita per un'altra carne. Certo a lungoandare questo trionfo di carne, di riso, di allegria, di do-lore che non piange che per amore, per amore, per amo-re, è monocorde, è monotono, e stanca. Ma quali melo-die sane non spicciano fuori da questa vena limpidissi-ma! Che orgia di canto! che gaiezza rimbalzante di suo-ni, nitidi, tinnuli, sgargianti come i colori che si vedonoin una fiera! Certo, e in un senso è bene, si può essereostili all'autore della Monferrina dell'Amica. Ma anche ipiù ostili, coloro che più si sono allontanati da questaarte così angusta d'orizzonte, per essere stati bruciati da

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ben altri spiriti, profondi come abissi solcanti fino alleviscere l'umana natura, non possono fare a meno di ride-re a scrosci, di urlar di gioia e di dolore bestiale conquesto mago che al posto del cuore ci ha un nido, dondebalzano alate le più fresche canzoni d'un popolo.

IV.

Mascagni nella musica europea.

Forse in nessun tempo la tenuità d'un compositore ita-liano non profondo, ma sincero, non sapiente, ma astuto,fu più discussa, anzi talvolta neppure onorata della di-scussione – molti critici si arrestano dinanzi alla volga-rità di Mascagni e non osano progredire più in là – ,come oggi accade per Mascagni. E se ne comprende fa-cilmente il perchè. Ai tempi di Rossini, per es., nono-stante che il grandissimo e allora ignoto (o quasi) Bee-thoven impersonasse e superasse le grandi correnti lette-rarie e umane del romanticismo, l'Europa era solcata dalarghi soffi di leggerezza un po' scettica, e, sebbene l'o-pera buffa e l'opera seria avessero trovato dei composi-tori molto più eletti e, a loro modo, più profondi di Ros-sini (ad es.: Cherubini), fu però Rossini che con il fuocoindiavolato del suo brio di gaudente li superò tutti, velli-cando in modo insuperabile quella voglia matta di diver-tirsi, e creando un capolavoro magnifico d'opera comi-ca, il Barbiere di Siviglia, e un capolavoro altrettanto

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magnifico d'opera seria, il Guglielmo Tell. Se non cheerano dei capolavori sì, ma dei capolavori relativi allasuperficialità del tempo. Tempo nel quale pareva quasiche la vera grandezza fosse riserbata ai poeti e ai filoso-fi, i quali accettavano la piccolezza dell'opera musicale,dandole chissà quale interpretazione fantastica. CosìSchopenhauer, complessa natura di pensatore d'artista edi viveur, s'estasiava davanti alla volontà di vivere del ri-dente Rossini, al modo stesso che il suo figlio spiritualeNietzsche perdeva la testa davanti alla musica «dai pièleggeri come il vento» della Carmen, la quale per luisimboleggiava nientemeno, che l'astutissima flessibileadorabile musica mediterranea. E si sa quanto oro,quanto tepore, quanto profumo meridionale contenesseper il poeta del Riso questo vocabolo di «mediterraneo».

Comunque, era sempre la poesia (o la critica poetica:se più piace) che dava un'arbitraria grandezza alla musi-ca. La vera grandezza, ripeto, era riserbata soltanto aipoeti e ai filosofi.

Il grazioso e un po' affettato Mozart, il gaio adole-scente settecentesco, dal sorriso malizioso e dai languoriaffettuosi e delicati, aveva creato un'opera buffa imperi-tura, figlia e nipote dei gloriosi modelli italiani, e il cuitipo aveva incontrato le grazie di tutti i compositori ita-liani. Più che a tutti piacque a Rossini, che soleva chia-mar Mozart il «Dio della musica»; la quale opinioneperdura ancora nella coscienza di alcuni, tanto che, senon erro, in un manuale di musica moderno, ebbi a leg-gere con un certo stupore, come Mozart fosse il più gran

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genio che della musica sia mai esistito, un uomo cosìsbalorditivamente musicista che trasformava in musicatutto quello che toccava. Non so la paternità di questafrase, ma se la sapessi, domanderei a chi la disse per ilprimo, che cosa faceva Wagner di quello che toccava:forse dei tromboni? Ad ogni modo Mozart è un carofanciullo gaio e sereno, ma niente più di questo. Alcuni,tra i quali un grande conoscitore di musica, RomainRolland, vogliono trovare in lui una saggezza profonda.Ma io sarei più propenso a credere che, intessuta d'unapiù delicata e gentile sentimentalità tedesca, anche inMozart sia la consueta leggera retorica settecentesca delmite Metastasio, e di tutti i suoi fratelli letterati, amantidei grandi nomi eroici e degli intrecci da teatro di burat-tini.

Beethoven fu il primo che rialzò la musica all'altezzadella grande poesia; e potendo, anzi forse dovendo diredella grande arte, dico volentieri della poesia, pensandoa Goethe, del quale Beethoven fu l'unico fratello, da al-cuni creduto anche maggiore. Con Beethoven la musicapotè aspirare ai più alti destini. Anche Bach, Händel, Pa-lestrina, Orlando di Lasso, Monteverdi, etc., furonograndi; ma nessuno di loro è degno di esser messo tra ipiù alti spiriti intuitivi, la cui apparizione segna comeuna nuova tappa nel lungo cammino dell'umanità. Poi-chè con Beethoven per la prima volta la musica passadal valore di arte decorativa, di arte di abbellimento, di«inclita arte a raddolcir la vita», al valore di arte intima,quasi direi di arte di coscienza, rispecchiante tutto un

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momento storico dello spirito umano in tutti i suoimeandri, in tutte le sue contradizioni, in tutte le sueaspirazioni più significative. Beethoven è il primo musi-cista universale; la civiltà ellenica ebbe Fidia, la civiltàmedioevale ebbe Dante, la civiltà del rinascimento ebbeShakespeare, la civiltà modernissima, che è ancora lanostra, ha Beethoven. Con lui anche i musicisti sentiro-no con orgoglio che a loro non toccava più d'imbandirecon le briciole cadute dal banchetto dei grandi il loromodesto banchetto di servitori. Così si ebbe una nuovamusica di nuovi musicisti, nuovi d'anima d'arte di valorestorico; Wagner, Berlioz, Schumann, Chopin, con diver-sa fortuna e con diversa bontà d'intendimenti, furono iveri poeti dell'Europa nell'800. Come dice RomainRolland nella sua splendida prefazione ai Musiciensd'autrefois: «la lumiére (dell'arte) ne cesse pas de brûler;seulement elle se déplace, elle va d'un art à l'autre,comme d'un peuple à l'autre.» Dopo Goethe, grandissi-mi poeti dovemmo aspettar molto ad averne. Ma qualimusicisti non fiorirono, profondissimi poeti del lorotempo che è, in gran parte, sempre il nostro! La musicadivenne un linguaggio meravigliosamente eloquente,pieghevole, policromo, atto a rendere tutte le più mute-voli sfumature della psiche, la quale sembrava fino adallora ribelle alle forme troppo dure e incerte dell'armo-nia, simili quasi all'intirizzimento delle statue prefidia-che. Beethoven, sopratutti, poi Wagner Berlioz Schu-mann Chopin empirono la storia di opere d'arte in cui isuoni raggiunsero la potenza espressiva della lingua

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multisecolare della poesia. Soltanto forse nella Greciaarmoniosa, nel trecento eroico dell'Italia, s'incontra unperiodo d'arte da paragonare a questa immensa ricchez-za musicale dell'800.

Ma, ohimé, quell'immenso fremito d'armonia oggi siè spento. L'arte no, non si è spenta, chè è riapparsa peres., in Italia sotto le spoglie gloriose della poesia. Nes-suno forse infatti ha mai pensato a scoprire le infinitesomiglianze che i musicisti dell'800 collegano con i no-stri poeti del 900. L'arte di Riccardo Wagner e l'arte diGabriele d'Annunzio hanno delle relazioni che nessunos'è mai ancora proposto d'indagare. Ma la musica è mo-ribonda. A Riccardo I è succeduto Riccardo II, loStrauss, il musicista che nonostante il suo contenuto de-cadente, e il suo suo stile barocco, mostra per certa suarobustezza, di esser sempre d'una gloriosissima razza dimusicisti. A Berlioz, è succeduto (sebbene non spiritual-mente) il piccolo Debussy wagneriano a rovescio, chetenta d'imbastardire la grande musica francese obbeden-do a dei falsi canoni estetici (il discorso continuo, laguerra alla cadenza come simbolo della rotondità perfet-ta della forma musicale, il crepuscolo armonico, e final-mente l'impressionismo rubato alla pittura), e con deigusti letterarii ormai stantii (Mallarmé, Verlaine, Baude-laire, etc.).

Ora queste anime raffinatissime, malate di dilettanti-smo estetico e di un infecondo criticismo, se con i lorosforzi, impotenti ancora a generare una grande êra musi-cale, conservano accesa la lampada semispenta della

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grande musica e accumulano le faticose e talvolta ozioseesperienze che serviranno a far più possente il futurolinguaggio della musica3; esagerano però la posizione didispregio che verso la popolaresca opera italiana tenne-ro i loro grandi padri. Ma quanto più melanconica èquesta loro posizione di quella d'un Wagner verso, peres. un Giuseppe Verdi! Il popolo ha sempre tradito igrandi. Ma se oggi il pubblico diserta i teatri ove si ese-guisca Strauss o Debussy, per andare ad ascoltare L'A-mico Fritz o la Cavalleria Rusticana, la critica non puòdar assolutamente torto al pubblico.

Poichè, è vero, Riccardo Strauss e Claudio Debussy ei loro minori compagni, sopra il nostro Mascagni hannouna superiorità di cultura di pensiero di nobiltà d'aspira-zioni. Ma si può poi dire che essi cantino all'Europa uncontenuto nuovo e necessario? La nuova generazioneche vien su ora, o che deve necessariamente venir suora, non travolgerà essi pure nella sua ribellione controtutti i sofismi moralistici e tutte le falsificazioni del sen-timento dei Verlaine, dei Wilde, dei D'Annunzio? Chi èSalomè od Elettra se non una Basiliola e una Fedra piùche mai inferocite nella loro libidine monotona dal ma-cabro ritmo d'una musica di barbaro degenerato? E checosa significa la coppia bamboleggiante di Pelléas eMelisanda se non un tentativo della stanca anima euro-

3 Se gli increduli volessero per prova di ciò che affermo un'a-nalogia nella storia della musica, pensino alle costruzioni architet-tonico-contrappuntistiche dei sec. XIII e XIV, dalle cui aberrazio-ni armoniche doveva nascere la moderna armonia.

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pea a ritornare a una semplicità sublime che essa non sapiù concepire (avendone da tempo perduta la strada),che come una adolescenza di bambini tardivi? No; lamusica europea è in decadenza. I suoi rappresentantimaggiori si esauriscono in sforzi formali vuoti di conte-nuto, o pieni d'un sì ridicolo contenuto, che il buon po-polo sano e ribelle alle corruzioni senili delle così detteclassi superiori, quando non sia sbalordito dal fragore, odal terrore del silenzio, disapprova ed irride del suo me-glio.

E davanti allo Strauss e al Debussy il piccolo Masca-gni, a cui la musica scoppia nel cuore come una polla ir-ruente, a volte un po' torba, ma spesso tersa, pulita echiara, è quasi l'incarnazione, per chi sa leggere l'infini-to linguaggio della storia e trovarvi la rivelazione diquella storia metafisica su cui essa eternamente corre ericorre, d'una profonda verità estetica. È vero che è ilvalore del contenuto che fa grande l'arte; ma esso è sol-tanto relativo, e non fa che piccola o immensa l'operad'arte, insignificante o luminosa nei secoli la visionedell'artista. Ciò che fa davvero che l'arte sia arte, è laforma; senza di questa il contenuto (o il desiderio, ilpresentimento del contenuto) non raggiunge l'esistenzaestetica, ed è inutile che se ne parli come di arte. Cheimporta se Debussy è uno spirito più eletto più colto piùsottile più profondo di Pietro Mascagni? La sua forma èper ora uno sforzo, un atto volontario, non spontaneo delsuo spirito; mentre la musica di Mascagni spesso rag-giunge nel suo piccolo la perfezione; anzi, talvolta,

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come negli intermezzi della Cavalleria e dell'Amico Fri-tz, nella romanza dell'Iris, nella Monferrina dell'Amicasembra rievocare più cosciente e più profonda, la candi-da melanconia d'un Paisiello o d'un Pergolesi e quel lorogaio sorriso così calmo e così refrigerante.

Certo è triste dover rassegnarsi a cercare la musica;non la preparazione alla musica futura, ma la musicaveramente viva, nei piccoli. Ma meglio dei grandi chenon esistono i piccoli che esistono. Nè voglio dire che,tra i piccoli, Pietro Mascagni sia solo; voglio soltantodire che, dinanzi alla terribile crisi che fa agonizzare lagrande musica europea, l'Italia trova in Mascagni unpuro rappresentante della sua vecchia opera popolare-sca4.

4 Non è accennato in questo mio rapido quadro delle condizio-ni della musica europea disegnato a scopo di inquadrarvi Masca-gni, alla musica russa. Giacchè essa nella sua forma più genuina(cioè non nelle sue imitazioni italiane del 700 e tedesche dell'800)ha un cammino e uno spirito assolutamente diversi dallo spirito edal cammino della musica europea. Oserei quasi dire che essa èquasi una musica asiatica. Lo stesso Chopin non è fratello ai no-stri compositori.

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L'OPERA DI PIETRO MASCAGNI.

I.

Cavalleria rusticana.

Cavalleria rusticana, il bel dramma musicale in unatto, che il Mascagni scrisse tra i 25 e i 27 anni, e che fula sua prima opera rappresentata in pubblico, è forse,per ora, l'opera più completa che ci abbia dato il compo-sitore livornese. Non che nelle opere posteriori egli,come molti pensano, non abbia più dato alla nostra mu-sica dei brani di bellezza paragonabile a questa freschis-sima Cavalleria. Però, oltre al fatto che il maestro, dopoquest'opera curata in tutte le sue parti, ha pur egli ripre-so il vecchio andazzo dagli operisti italiani di abborrac-ciar spartiti ammassando alla rinfusa bellezze e sciatte-rie, lampi di genio e volgarità inaudite; a impedire alMascagni di ridarci un'altra opera interamente bella – sedalla condanna si eccettui in parte l'ispiratissima Iris –sta l'altro fatto che egli non ha saputo svolgere in sè al-cun germe fecondo di coltura. La qual cosa gli ha fattoaccettare, come musicabili, libretti o difettosi o affatto

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incompatibili con la sua natura musicale. Giacchè coltu-ra non vuol dire aver letto, sia pure con accesa passione,altissimi scrittori, come, ad es. aveva fatto indubbiamen-te Giuseppe Verdi. Che quest'ultimo non avesse capitoShakespeare – che pare egli avesse letto assai estesa-mente – ce lo dicono quelle cattive riduzioni melodram-matiche vittorughiane dei due capilavori shakespeariani:il Macbeth e l'Otello. Del quale Otello, musicalmentenon solo superiore al Macbeth, ma a quasi tutta l'operaverdiana, il Boito e il Verdi compierono una vera e pro-pria traduzione ad uso dei vanagloriosi cantanti del ba-rocco teatro melodrammatico; sicchè il disgraziato eroeorientale, nel testo inglese gentiluomo nobilissimo quals'addiceva essere a un figlio della razza più squisitamen-te signorile che esista, la razza moresca, diventa nell'o-pera verdiana un villano tenore che non sa esprimere lapropria ira che urlando come un ossesso. Non parlo poidi quello che diventa Iago, la creatura ambigua tortuosaoscura dell'immenso poeta del cinquecento.

Ora, a dire il vero, io non so la quantità e la qualitàdelle letture con le quali è supponibile abbia adornato ilproprio spirito il nostro Mascagni. So però con certezzache se esiste, la sua coltura è ben lontana dal raggiunge-re quel grado di ricchezza, armonia, solidità e signorili-tà, che permetteva al Wagner di emulare in questo i piùgrandi poeti e di permettersi il lusso di ricreare con tantosapore storico e con tanta precisione di particolari sceni-ci poetici e musicali l'ambiente della barocca e gentileNorimberga della metà del cinquecento. Se un nostro

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compositore tentasse di risuscitare, p. es., la Firenze del400 o la Roma del 600 o la Venezia del 700, chissà aquali orribili gare di cattivo gusto e d'incredibile igno-ranza ci toccherebbe ad assistere!

Comunque, il caso offrì al Mascagni un ottimo libret-to nella Cavalleria Rusticana dei sigg. Targioni Tozzettie Menasci, breve poema drammatico tolto dalla omoni-ma notissima novella di Giovanni Verga. Io non preten-do dire che l'aggiunta del fallo di Santa (Santuzza nel li-bretto) col fidanzato Turiddu e la trasformazione dei«vicini» in un coro assai melodrammaticamente risibile,abbiano abbellito la primitiva concezione del Verga.Questo nostro grande novelliere-poeta, non accennandoad alcun fallo di Santuzza accresce, a parer mio, la natu-ralezza del suo racconto, naturalezza così imprevedutanella nostra quasi sempre inverosimile novellistica, peraltre ragioni che la possibilità dell'azione, pregevole.Certo però, questo fallo di Santuzza se sciupa un po' lasemplicità della concezione drammatica, porse al Ma-scagni, acuendo la ferocia dell'azione fulminea, una ra-gione di più per impiegare le tinte più calde della suaviolenta tavolozza musicale. È vero altresì che rimpro-verare ai librettisti di aver falsata la concezione verghia-na, è dimenticarsi che la Cavalleria di Mascagni non haormai più alcun legame estetico con la Cavalleria delVerga, trattandosi di due intuizioni diverse.

Il Mascagni trovò dunque nel disegno offertogli daidue librettisti, tutti gli stimoli necessari per esplicare lasua personalità. Difficilmente nella storia delle arti tro-

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viamo un fatto simile. Il Mascagni delle opere successi-ve non ha aggiunto nulla di veramente nuovo al mondoespresso nella Cavalleria, se se ne eccettua il rinnova-mento puramente tecnico dell'Iris, che può essere ancheuna presa di possesso più chiara e più audace della pro-pria personalità. E non perchè egli dopo non si sia piùsvolto, come troppo leggermente si dice; sibbene perchèuna fortunatissima concordanza di fattori storici ed este-tici condussero il Mascagni a raggiungere nella Cavalle-ria, che è come una prefazione fremente di entusiasmo edi fede a tutta l'opera futura, l'intera sua capacità. Chè seegli in essa si fosse esaurito, com'è opinione di molti,non avrebbe potuto empire le opere posteriori di bellez-ze che, se per una parte riescono vane, non essendo natea formare un organismo compatto, per un'altra attestanoche la fantasia di quest'uomo non s'è spenta, ma aspettasolo di non essere contrariata da soggetti che le sonoalieni e indifferenti per espandersi nell'armonia d'un ca-polavoro.

Analizziamo dunque questa bella e fresca prefazione.La Cavalleria, a differenza delle opere successive del

Mascagni nelle quali viene usato, almeno nell'intenzio-ne, un sistema analogo a quello wagneriano della melo-dia continua; – dico analogo, giacchè, se il discorso mu-sicale del Mascagni è, come dicono oggi, continuo, lasua concezione è per sua intima natura, opposta alla vo-lubile fluenza del polifonismo wagneriano – è divisa intanti pezzi staccati secondo l'antico sistema prewagne-riano. E questo sistema dei pezzi formanti un tutto da

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loro stessi, è un vero peccato sia poi stato abbandonatodal Mascagni. Il genio latino, generalmente, non ha po-tente in sè, come il tedesco, il senso dello svolgimentoininterrotto della Storia, del divenire inarrestabile e irri-vertibile delle cose. Egli ha ereditato dal mondo ellenicola classica oggettività, il bisogno del ciclo simmetricodella strofe, invece della prosa flessibile e asimmetrica.Così al posto degli interminabili svolgimenti aritmici esimili al pesante e indeterminato flusso della materia,così cari a Riccardo Wagner e ai seguaci RiccardoStrauss e Claudio Debussy5, egli ama le brevi forme ni-tide, i contenuti ben serrati dai solidi argini del ritmo.Così le cadenze che chiudono ogni pezzo mascagnano,sieno pure abilmente mascherate e dissimulate, genera-no in noi il senso della perfezione, poichè quei motivi equelle melodie, che si avvolgono e si svolgono in perio-di regolari come strofi della lirica greca o degli inni sil-labici del canto gregoriano, non son fatte per essere con-torte e concatenate secondo i dogmi, a loro estranei, delsistema wagneriano o dei sistemi da quello nati. Laguerra alle cadenze che oggi infierisce nella musica, èerrata per Mascagni e starei per dire per la musica italia-

5 Sebbene il recitativo debussysta non sia più maestoso comequello wagneriano, nè di Wagner il presente dittatore della musicafrancese accetti il sistema polifonico, Debussy è forse più wagne-riano dello stesso Strauss. Il perchè della mia affermazione nonpotrei dire in due parole. Su ciò vedi, nel giornale La Voce di Fi-renze, i miei tre articoli: Claude Debussy, Impressionismo musi-cale, Ciò che ci può insegnar Beethoven.

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na; sarebbe come fare in nome del verso aritmico deiverslibristes una guerra alla rima nella nostra poesia ri-masta tuttavia a strofa ritmicamente obbligata. E il Ma-scagni laddove tenta di obbedire ai canoni del discorsolibero o simile alla prosa del romanzo e della commediain prosa, non ha fatto che generare un malinteso pura-mente grafico, malinteso che si dissipa all'audizione, sepure l'intento non sia stato davvero raggiunto a scapitodella musica stessa.

L'opera è preceduta da un preludio di carattere più li-rico che descrittivo sebbene d'una certa descrittività. Aun breve episodio religioso che ci avverte di essere in ungiorno festivo (la Pasqua), tracciando così un poco lacornice del quadro passionale che a poco a poco ci ve-dremo svolgere dinanzi, segue un motivo che potrebbechiamarsi: il pianto di Santuzza; chè, infatti, esso e gliincisi che lo seguono, son tratti dal duetto tra Santuzza eTuriddu. A questo episodio, che subito c'immerge inquell'atmosfera di calda sensualità disperata, caratteristi-ca vibrante dell'anima del Mascagni, succede una caden-za delle arpe preludiante alla Siciliana – una canzonecantata a sipario calato da Turiddu sotto le finestre diLola. Ecco così che i personaggi sono già evocati tutti equasi lineati dal preludio. La Siciliana è una melodiabellissima, serena sebbene languida di passione. È comeuna stasi intima e profonda nel terribile dramma che hagià cominciato a scatenarsi. Non è detto se sia una mat-tinata o una serenata; ma noi sentiamo in essa quella in-definibile aspirazione quasi a superare i limiti dei corpi

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e gli argini delle azioni, che trema nelle popolari canzo-ni d'amore, cantate nei due crepuscoli, in alcune nostreprovincie, a cui la civiltà s'è appena avvicinata. Non sose la musica della Siciliana sia originale oppur ripresada un vero e proprio motivo popolare. Il fatto è che Ma-scagni ha qui avuto una stupenda intuizione del senti-mento che doveva avere una canzone popolare.

Ma improvvisamente l'incanto vien spezzato daldramma feroce che prorompe di nuovo e con maggiorfoga. Il fascino lascivo della canzone vien come affoga-to nell'onda furiosa dell'orchestra, dove nuovi impeti dipassione balzano alternati da murmuri sordi come dicollera e da echi lontani di melodie umili come di pre-ghiera. Finchè comincia a svolgersi maestoso e dolorosoil motivo esprimente l'urto tragico tra l'amor vano diSanta per Turiddu e la noncuranza satura di rimorsi diquest'ultimo, motivo a cui, dopo un fortissimo spasi-mante, s'attacca il pianto di Santuzza, così pieno di di-sperazione rassegnata. E il preludio si chiude con unalunga cadenza sacra che riprende e compie la cornicesacra con cui esso si era aperto.

A proposito della descrittività di questo preludio mi sipotrebbe obbiettare che il significato che io dò ad essopuò anche dipendere da una retroproiezione del signifi-cato del dramma su di esso. In altre parole: se questopreludio fosse eseguito separatamente, esso non potreb-be parlarci di Santuzza e del suo dolore. Ma la questio-ne è che questo preludio non dev'essere eseguito separa-tamente, per la semplice ragione che esso è stato conce-

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pito insiem col dramma. Nè, parimente, è vero che tuttele parti d'un'opera debbano, se staccate da essa, dirci daloro sole a qual causa, per dir così, sono votate. Se laCappella Sistina fosse per ipotesi scancellata dal tempodi sul muro dov'è dipinta e dalla memoria umana, coluiche ne venisse a scoprire un frammento, ad es: una delleSibille, si troverebbe, credo, ben'imbrogliato a ricostrui-re il tutto, risalendo ad esso da quella parte frammenta-ria. Lo stesso si dica di uno dei frammenti scampati alnaufragio del teatro greco. Una frase, un motivo, una fi-gura prendono il loro significato dal testo al quale sonoconcreate. È il tutto che dà il valore delle parti, o, me-glio, è l'intuizione, per dir così, centrale, che s'è espantaarmoniosamente nelle più estreme ramificazioni del tut-to. Le parole, le frasi, i periodi; le note, gli accordi, imotivi, gli svolgimenti, etc. etc., non sono che forme dellinguaggio, il quale è composto di simboli vuoti e, perdir così, non solo empibili di sempre mutevole contenu-to, ma trasportabili in quella di tutte le posizioni rispettoal tutto, che possa contribuire maggiormente a raggiun-gere l'intuizione madre, a esprimerne la vita, almeno ap-prossimativamente. L'essere scettici riguardo alla de-scrittività della musica, o meglio al suo valore determi-nativo, è essere scettici del potere rappresentativo dellinguaggio umano; e se tale scetticismo spesso non haluogo di esercitarsi sul linguaggio parlato, ciò dipendedalla lunga abitudine, che ha soffocato lo stupore delmiracolo.

Il sipario si alza davanti alla piazzetta d'un paese in

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festa. È mattina. Le campane suonano e dal loro ritmovien generato, con un'intuizione geniale, il motivo gaioe esuberante di trilli di colore e di squilli di luce, che de-scrive la pasqua. Son frasi gaie, lanciate con un brio ros-siniano di danza, alle quali si unisce a poco a poco ildoppio coro, quello femminile cantante una fresca e de-licata melodia primaverile, quello maschile, rude, un po'sgarbato nella sua allegria contadinesca. La scena è in-dovinatissima. Potrà forse sembrare triviale a certi criti-ci di palato ipersensibile, ma chi conosce bene le pasquegioconde delle nostre città italiane col loro bel sole d'a-prile, con quel brulichio d'abiti femminili dai colori ac-cesi che formano colle luci e con le ombre accordi poli-cromi sempre cangianti; chi ha provato quel senso tuttocaratteristico di allegria spensierata e di facile felicitàche effondono lo scampanio incessante e il clamore del-la folla, diverso, non so perchè, da quello delle altre do-meniche, riconoscerà che Pietro Mascagni ha mirabil-mente rappresentato in questa scena introduttiva il mat-tino della pasqua popolare italiana.

E il dramma comincia.Un motivo tortuoso e cupo, il motivo della gelosia di

Santa, apre il recitativo di questa con mamma Lucia.Fermiamoci un istante su questo tipo di recitativo. Essonon è il vecchio recitativo monotono dell'opera buffa, oil recitativo eroico e starei per dire marmoreo delle ope-re wagneriane della prima e seconda maniera. Neppur siriattacca al melanconico e sentimentale recitativo del500-600. Deriva, se mai, dal recitativo bizettiano (da

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quello per es., dell'ultima scena della Carmen, chè i verirecitativi secchi di quest'opera non furono scritti dal Bi-zet, come ognun sa, ma dal suo amico Guiraud), recitati-vo drammatico, duttile, pieghevole a esprimere con na-turalezza i più diversi sentimenti. Ma, in realtà, è unaspecie di recitativo nuovo, anzi più un canto libero ognitanto solcato da esclamazioni liriche dell'orchestra, cheun vero e proprio recitativo. In opere posteriori il Ma-scagni ha pur troppo tentato di abbandonare questo suobel tipo di recitativo per riprendere anch'egli il recitativosvenevole e civettuolo della scuola massenettiana. Manon avendo il Mascagni le pessime doti di leggerezzamelliflua che ci vogliono per parlar musicalmente contale leziosaggine melensa, ne è venuto fuori un linguag-gio ibrido, che non contenta nessuno con la sua goffagi-ne provinciale, che vuol sembrare disinvoltura da viveur.

La canzone di Alfio, che segue l'incontro delle duedonne, è uno dei pezzi più scadenti dell'opera. In essoappare, la prima volta in Mascagni, il vizio dell'enfaticaeloquenza inutile, vizio inoculato nella musica modernadal dittatore a vita di essa musica: Riccardo Wagner. Lospunto della canzone, un triviale motivuccio da operetta,è scelto arbitrariamente dall'autore a reggere un grandio-so edificio corale e strumentale di nessun valore musica-le, salvo che musica non diventi sinonimo di fragore.L'origine di questo vizio va ricercata, come ho detto,nello smodato fervore con cui finora è stato studiato ilsistema d'orchestrazione wagneriano. Il Wagner, scopri-tore di meravigliosi e impreveduti impasti strumentali,

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lasciò pur troppo una specie di ricetta, usando la quale imusicisti sono pressochè sicuri di ottenere un freneticoapplauso. Comunque questo pezzo, che sembra descrivail fragore di rotolanti carri guerreschi e non l'umile trep-pichio dei poveri barrocci siciliani, ha pur nel disegnoerrato qualcosa di fresco e di giovanile che fa pensare acerti selvaggi e un po' triviali ritmi tschaikowskyani.Quasi a fare il pendant a questo coro segue l'inno popo-lare della resurrezione. Anche questo pezzo è condottocon un po' di tronfiezza ed esagerazione. Ma la sponta-neità della melodia, l'impeto delle modulazioni, alcunieffetti irresistibili di sonorità, vibranti quasi d'un empitodi gioventù e di passione, finiscono per far perdonare ilfragore, pur questa volta sproporzionato a un'azione cheesigerebbe maggior semplicità e forse un tono tra l'agre-ste e il pastorale; insomma un canto più umile e menomeyerbeeriano nella condotta.

Ma ecco due scene in cui il Mascagni può abbando-narsi tutto al suo frenetico lirismo erotico. Il raccontoche Santuzza fa del tradimento di Turiddu, e il duetto traquesti e Santuzza, interrotto per un istante da una breveentrata di Lola, un po' curiosa a dire il vero. Giacchèdonne che vadano alla messa per una piazza pubblicacantando a squarciagola stornelli d'amore, sono, anchesul teatro melodrammatico, e con buona pace dei libret-tisti, inverosimili. Infatti i librettisti italiani sembrano unpo' troppo convinti che l'arte, sia lirica, sia drammatica,è immagine, sì del reale, ma del reale trasformazionefantastica. In fondo in fondo, sotto la libertà dell'arte, si

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trova – la schiavitù della scena. E questo mi si concedache è alquanto ridicolo trattandosi specialmente di undramma... veristico. O la bella e schietta verisimiglianzadella novella del Verga! Ad ogni modo queste due scenesono tra le parti più belle dell'opera; onde occupiamocisopratutto del carattere personalissimo di questa musica.Ho già detto altrove che il Mascagni sente più di ognialtro sentimento l'amor sensuale e un po' brutale del po-polo; questi due pezzi ne sono una conferma lampante.Il primo di essi, la romanza di Santuzza, narra il doloredella giovinetta tradita, il ribrezzo della sua carne mar-toriata dalle immagini del desiderio e della gelosia, sem-pre rinascenti come un incubo infaticabile. La musica sicolora mirabilmente delle immagini poetiche espressedalle parole, anzi sembra essere di queste immagini nar-rative-verbali quella confusa frangia di nuove immaginie sentimenti che suole circondare come un alone sfuma-to e inafferrabile l'immagine centrale di una poesia. Giàl'introduzione orchestrale simile alle iniziali miniate,con cui, nei libri antichi, si preludiava pittoricamentealla narrazione di poi scritta, ci fa entrare nella pienezzadella situazione. Il pudore e lo spasimo carnale, che im-pediscono alla giovinetta di parlare; la rassegnazione aldestino, sotto la quale però cova l'odio mortale alla don-na che ha sedotto Turiddu, per invidia a lei, Santuzza,non per vero amore a Turiddu; tutte queste fluttuazionidi passioni tra di loro intrecciate e contrastanti, e di cuila potenza sta per prorompere nella povera fanciulla conun'intensità tutta propria dell'anime popolari più istinti-

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ve che riflessive; sono bene espresse in quei due versi dimelodia6 dolorosa, coronati da uno scoppio passionale econclusi dall'abbattimento d'una cadenza rallentante. Lamelodia del racconto quindi segue e sottolinea con per-fetta evidenza sentimentale, non visiva, come fa, per es.,Wagner, gli episodi dell'agitata narrazione della popola-na. Di questi episodi belli in particolar modo sono equello in cui vien narrato il nuovo ravvicinamento diTuriddu e Lola, e quello in cui si confessa l'atroce veritàcon tutta la confusione della vergogna e la rivolta dell'a-more tradito:

priva dell'onor mio rimango!

La melodia di queste parole sembra sgorgare lenta edesolata dal tumulto incalzante di poc'anzi. È uno diquei rari momenti di melodia assoluta, che corrisponde,nell'arte, a quello che, nella vita, è lo sfogo del pianto.E, infatti, come nella vita una tensione troppo forte etroppo lunga dei nostri nervi nella sofferenza, ci condur-rebbe a qualche disequilibrio irrimediabile, onde il risol-vimento della crisi nel pianto ci procura un benesseredoloroso sì ma consolatore; così, in arte, il modo stilisti-co che corrisponde al momento del pianto o di un qua-lunque sfogo in generale, ha come un potere refrigerantee sollevatore. Si ricordi nel Coriolano di Beethoven,

6 Sono obbligato, in mancanza d'un linguaggio più preciso, achiedere in prestito i vocaboli alla metrica della poesia, del restonon certo estranea alla metrica della musica, ancora anonima.

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dopo il furioso battito del ritmo affannoso che apre ilpezzo, lo sgorgo discendente della sublime melodiacantabile, e si ricordi ancora nell'ode a Napoleone Eu-genio di Giosuè Carducci, il refrigerio indimenticabileche dà, dopo tanto cupo rombo di gloria fatale, l'evoca-zione della solitaria «casa d'Aiaccio – cui verdi e grandile quercie ombreggiano – e i poggi coronan sereni – edavanti le risuona il mare!».

Un episodio religioso, lo stesso con cui comincia l'o-pera, cioè il motivo pasquale, termina la bellissima ro-manza.

Il duetto che la segue è di pari bellezza. Il dialogo,condotto sopra il recitativo mascagnano del quale ho giàrilevato l'originalità, è, a parer mio, perfetto. Le due per-sone del popolo, che vi son dipinte in un momento cosìtragico della loro vita, son rese all'evidenza in tutte lepieghe vorticose delle loro ingenue passioni. A una ese-cuzione, per aver un'idea della verità popolare di questoduetto, se ne osservi il riflesso sui volti degli uditori del-le platee e dei loggioni. È un continuo cangiamento delgiuoco delle fisonomie, che al fremito doloroso d'un ac-cordo si abbuiano, si rischiarano a una dolcezza melodi-ca, s'increspano con i suoni aspri di un'ironia di Santuz-za. Giacchè la potenza ingenua d'espressione di questamusica è inesauribile, e, sotto quest'aspetto, il breve ter-zetto a recitativo tra Santuzza Turiddu e Lola, è un pic-colo gioiello. Le movenze vivacissime del dialogo, ifuggevoli incisi orchestrali, la naturalezza degli enjam-bements dell'una parte sull'altra, ci fanno quasi credere

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di esser in mezzo alla via d'un sobborgo popolare, dovealcune querule comari, coi pugni sui fianchi, si bisticci-no fortemente, non risparmiando d'offendersi sia purcon l'inflessione della voce, e riconducendo così il lin-guaggio a una vera e propria musica, a quella lirica vi-vezza d'espressione, la quale il nostro sfiorito linguaggiodi uomini beneducati e beneammaestrati ha da gran tem-po perduto.

Lola partita, il duetto riprende con maggior furore. Lavena lirica del Mascagni si riapre, versa torrenti di me-lodia. Sono in particolare belle la melodia sulle parole:no, no, Turiddu, rimani ancora, e quella: la tua Santuz-za piange e t'implora, ambedue già fatte udire nel prelu-dio. Le diverse sfumature del dolore di Santuzza e delrimorso orgoglioso di Turiddu, vi sono espresse comemeglio non si poteva. Caratteristici sono i furori (è lavera parola) melodici, allorchè le voci salgono a una al-tezza disperata, vibrando in un fortissimo passionale ditutta la massa orchestrale. Questi abbandoni frenetici alfortissimo furono da me già osservati, a proposito dellapreghiera, come una delle principali caratteristiche del-l'esuberante e prepotente natura musicale del Mascagni.Naturalmente nessuna attitudine, come questa, alla reto-rica può esser pericolosa e trascinare nel vuoto e nelvolgare; però la freschezza giovanile con cui il Masca-gni compose la Cavalleria, difende assai questo spartitodal pericolo suddetto. Il duetto, dopo aver percorse di-verse fasi tutte interessanti, s'arresta ad un tratto su di untremolo dei bassi, al quale si mischiano soffocate ed iro-

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se le offese supreme dei due fidanzati. Momento indovi-nato, in cui il canto e la parola, insomma l'intuizione delproprio stato di anima, cessa per dar luogo al suono rau-co e quasi bestiale dell'ira cieca. L'ira infatti, al suoestremo furore, estingue ogni rappresentazione lucida;l'uomo non vede più che in confuso; il turbine della pas-sione scatenata lo disumana, lo fa tornare natura, senti-mento incosciente.

E questo è bene espresso dal Mascagni con i tremulisordi, colla precipitosa e starei per dire verdiana scalacromatica saliente, quasi a condurre alle labbra di San-tuzza la maledizione folle: a te la mala pasqua, spergiu-ro! E l'orchestra commenta, intonando a tutta forza ilmotivo della gelosia di Santa.

Anche questa dei commenti orchestrali alla fine d'unpezzo è caratteristica mascagnana. Alla fine del duo del-l'Amico Fritz (soprano e tenore atto III); alla fine dell'ul-tima scena del I atto dell'Iris, alla fine del duello tra Rat-cliff e Douglas nel III atto del Guglielmo Ratcliff e inmolte altre parti dell'opera mascagnana, si trovanoesempi di questi commenti orchestrali, i quali hannoavuta eccessiva fortuna nella giovane scuola italiana e inmodo speciale sono stati ripresi con grande eleganza dalmaestro Perosi.

Il duetto che segue, e cioè, il duetto tra Santuzza e Al-fio, è infinitamente inferiore al duetto precedente. C'è inesso una fiacchezza fantastica invano celata dai tentativinumerosi d'abbandono a una melodia che non vuoleespandersi. La composizione, anche negli artisti più leg-

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geri e più spontanei, è pur sempre qualcosa di troppo sa-cro, perchè la si possa comandare a piacere. La fretta delpreparare l'opera per il concorso, l'impazienza irriveren-te (e tutta italiana, pur troppo) davanti al mistero dellacreazione, irriverente impazienza propria a molti nostrialtri musicisti, ad es: al Rossini; e altre simili ragionid'indole pratica hanno impedito al Mascagni di attende-re il momento propizio per risolvere il problema esteticodi questo duetto con l'unica risoluzione che gli spettava,o per migliorarne la risoluzione già sbagliata. Cosìcom'è, è un pezzo ben meschino, vuoto, tirato via, conuna velleità di ritorno all'antico modo di cadenzare unpezzo con qualche retorica cadenza o nota di bravura.

Possiamo anzi fin da ora notare, e così avremo indica-ti i principali difetti dell'arte mascagnana, che il nostroautore, se ha in comune con gli artisti molto spontaneied ingenui alcuni pregi indiscutibili, ne ha anche in co-mune i difetti correlativi. Se, per es., è nel Mascagnipregio gettar giù musica bella (sebben piccola nel suocontenuto) a larghi fiotti, come una fontana sempre pie-na, senza l'ansia creatrice e il combattimento eroico conla materia sorda e riluttante alla bellezza della forma,procedimenti propri a un Michelangiolo e a un Beetho-ven; talvolta questa sua facilità quasi direi incosciente,tanto è ingenua, diviene il suo peggior difetto. Chè l'ac-cogliere senza un'insaziabile riflessione tutto ciò che na-sce nella sua fantasia, lo porta spesso a accumulare erbemarcite in luogo di fiori freschissimi. Nel resto dell'ope-ra del Mascagni infatti, e lo vedremo a suo luogo, vi

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sono non più pezzi soli e brevi, ma interi spartiti, in cuila mancanza d'una vagliatura rigorosa e dignitosa ha fat-to sì che il maestro scambiasse per arie espressive, sem-plici accozzi mnemonici ed insignificanti di quegli echidi composizioni o proprie o altrui, che formano il sup-plizio di tutti i musicisti più riflessi. Giacchè anche nellamusica accade ciò che il Bergson e altri notavano acca-dere nel linguaggio poetico. I poeti, i veri poeti, creanoparole sempre nuove, perchè intuiscono sempre situa-zioni della realtà continuamente diverse; ma la vita co-mune, la vita, come direbbe lo Shelley, meccanica, nonavendo creatività bastante a produrre nuove esperienze,ripete, con esperienze stereotipate, parole vecchie, dacui è stata spremuta tutta la freschezza del succo. I nuo-vi musicisti, parimente, creano formule tonali nuove; iretori si affrettano a ripeterle, a ripeterle fino a che ilpubblico d'orecchi duri non se ne stufi e protesti fi-schiando. E per retori intendo anche coloro che, puravendo creato della musica nuova, cioè avendo creatodelle formule nuove per problemi estetici irripetibili,tentano di applicarle a problemi estetici nuovi, divenen-do così autoretori. Il Mascagni è uno di questi. Egli nel-la creazione ha una facilità estrema, che ricorda, sottoquesto aspetto, la facilità, quasi sorella dell'improvvisa-zione, di Victor Hugo. E come questi, egli ha sopra disè, simile a una condanna, la minaccia dell'autoretorica,che pare quasi vendicare gli artisti incontentabili, comeil Beethoven, di questa specie d'ingiustizia della natura.Per questo aspetto è pieno di significato la mesta invidia

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che Beethoven provava, vedendosi abbandonato dal leg-gero e vano pubblico viennese per il gaio e spensieratoRossini.

L'intermezzo che divide l'opera in due parti disegualiè composto d'una specie di brevi strofi preludianti, e diuna larga melodia ormai, e giustamente, famosa. Le duestrofi sono di stile religioso, ma di una religiosità caldae sensuale che ci ricorda certe frasi della musica religio-sa del Pergolese. Vi piange infatti la stessa melodiosamalinconia erotica del buon settecento napoletano, equeste due eleganti strofi, per essere religiose non cessa-no d'avere un aggraziato movimento di menuetto leggia-dro. È curiosa anzi l'osservazione che oggi si potrebbefare a tanta musica moderna da Wagner in giù: la confu-sione di tutti gli stili, o per meglio dire, l'uso profano dicerte formule stilistiche in altri tempi adoprate con in-tenzione religiosa, o, viceversa, l'uso oggi religioso diformule in tempo lontanissimo profane. La musica reli-giosa del 700 ripresa dagli autori moderni, assume unasignificazione per lo più erotica. È una profanazione, nelcattivo senso della parola? o è il tardivo atto di giustizia,per cui vien svelato che quelle formulette erano moltopiù terrene che celestiali?

La larga melodia dei violini che forma la seconda par-te dell'intermezzo, accompagnata internamente dall'or-gano, dimostra una volta di più la verità di quanto hodetto nell'introduzione, che la melodia mascagnana peressere esulata dalle gole umane nei meccanismi deglistrumenti orchestrali, è pur sempre rimasta la vecchia

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melodia italiana, ultracantabile. E della vecchia melodiaitaliana ha tutto il fascino sensuale questa magnifica me-lodia d'una calda religiosità quasi erotica. Religiositàerotica, ho detto. Infatti qui non starò a dimostrare diffu-samente come il sentimento religioso del Mascagni noncessi d'esser religioso per essere sensuale. Al sentimentoreligioso, come a tutti i sentimenti, non possiamo darforme determinate ed esclusive, giacchè le sue concre-tizzazioni è naturale che si colorino delle infinite diffe-renze che distinguono tra di loro le personalità artisti-che. Così la religiosità d'un Michelangiolo è eroica,quella d'un Wagner mistica, quella ancora di un Pergole-se sensuale quanto quella del Mascagni. E nella Bibbialo stesso Dio del mito ebraico è come modificato dalladiversità dei caratteri dei profeti che lo cantano.

Ma la messa è terminata. Le campane squillano dinuovo «con onde e volate di suoni». La scena si riempiedi popolo, che canta nella gran luce del mattino inoltra-to, un coro allegro e leggero. Non ripeterò la difesa allabanalità squillante e argentina di questa scena popolare.Nè difenderò la gaiezza sprizzante e saltellante del brin-disi. Giacchè chi non sente la bellezza di questa scena edi questo brindisi, non ha mai bevuto e ammirato sottole pergole appena verzicanti dai tralci che rimettono, incerte graziose trattorie di campagna, il luccicore rossodel vino coronato di spuma rosea, al sole di primavera.In fondo in fondo i critici dovrebbero avere una possibi-lità quasi infinita di esperienze, che dovrebbero risorge-re alla voce suggeritrice e rievocatrice dell'arte. Ma que-

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sta possibilità è troppo rara, perchè noi ci rassegnamo asentire malmenare della musica anche bella, da criticitroppo limitati e accecati da pregiudizi micidiali.

Alla interruzione dell'intermezzo e della bella scenapopolare, succede più tragica e più feroce l'ultima ripre-sa del dramma. E il finale è perfetto in tutte le sue parti.Dalla sfida di Alfio al discorso sconclusionato di Turid-du, che sente in sè sorgere prepotente il rimorso per ilmale che ha fatto a Santuzza; dall'addio di Turiddu allamadre, d'una dolcezza che strazia, al murmure lontanodel popolo che annuncia tumultuosamente l'uccisione diTuriddu; è un seguito di episodi che fanno uguagliare aquesto finale la bellezza della romanza e del duetto diSanta e di Turiddu. Ma di tutti questi episodi, l'addio diTuriddu alla madre è forse tale da superare la bellezzanon solo del resto del finale, ma ancora di tutta l'opera.Dopo la sfida di Alfio, la scena è rimasta vuota. Alla ga-iezza e al clamore è successo un silenzio impicciato equasi doloroso, quel senso di tristezza che generano lescenate popolari in mezzo a una bella festa. Tutti sonopartiti lasciando Turiddu solo nella gran piazza piena disole. È un momento d'ineffabile malinconia. Turiddunon sa come baciare, forse per l'ultima volta, la madre.E un breve intermezzo di violini tremolanti nel grandesilenzio, s'espande rinforzando scendendo salendo dimi-nuendo, come fa il vento, e come fanno i sentimentiumani fluttuando per i lor ciechi e irremeabili labirinti.Finchè Turiddu trova la scusa: ha bevuto troppo, ha bi-sogno di un poco d'aria libera; e fingendosi ubbriaco

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chiede alla madre la benedizione «come quel giorno chepartì soldato». Questa frase è un nulla: eppure è un'evo-cazione sublime. Bisogna infatti sapere che cosa signifi-chi per gli abitanti dei paesetti sperduti e lontani daigrandi centri la leva militare, quella ineluttabile chiama-ta che strappa alle madri e ai padri i figli per portarli, là,nelle contrade ignorate o sognate come piene di terribilipericoli, donde spesso non tornano più; bisogna intende-re tutta la delicatezza di quell'immagine infinitamentetriste. E nella musica c'è tanta semplicità, tanta giustezzadi malinconia affettuosa, che volentieri noi porremmoquesta scena tra le più grandi d'ogni teatro. Ma alla pietàfiliale s'accoppia in Turiddu la compassione per Santuz-za: ed egli prorompe allora in una spasimante frase:«Voi dovrete fare da madre a Santa!» La povera madres'angustia; domanda il perchè di tali strane parole e delpiù strano tono. E tuttavia la musica non ha un momentodi debolezza: è sempre d'una verità purissima, cristalli-na. Nessun ricordo di maniera intralcia nello spirito delmusicista lo svolgersi della visione del dramma, sentitofino a farlo balzare ai nostri occhi e al nostro cuorecome un momento di vera vita vissuta. Questa musica èperfetta creazione, e le parole e la situazione per esserrivissute intere nello spirito del Mascagni, sembrano es-ser create contemporaneamente colla musica. Anzi ioposso sostituire all'empirico forse, una sicurezza assolu-ta. Giacchè in iscene come queste, anche i compositoriche non creano nel tempo storico il libretto da loro stes-si, ma lo chiedono ad altri, sono simili a coloro che,

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come Wagner, furono autori del libretto della musica.Infatti tanto gli uni che gli altri, creando l'opera musica-le, dovettero rifondere in una nuova intuizione totale,l'antica intuizione poetica. Onde, che questa appartenes-se ad un altro o a quell'altro particolar sè stesso, che è ilsè del passato, ciò non conta, se tutte e due le intuizioni,e la propria e l'altrui, debbono essere rintuite e come ri-fuse in una sola dal compositore.

Riepilogando, la Cavalleria Rusticana è opera non digrande portata, ma schietta e piena di vita e di difettisimpatici da un capo all'altro. È un'opera giovane ed en-tusiastica; è un'opera plebea, certo inadeguata a rappre-sentare nella storia un vero e proprio momento spiritualedell'Italia. Piuttosto essa si riallaccia bene con quell'or-dine di opere italiane e straniere, create, com'ebbe a direuno degli interpreti più profondi dello spirito moderno,da coloro che, preclusi ai grandi orizzonti del pensierodall'opaca muraglia del positivismo e del naturalismo,peccarono contro il pensiero. Se non che la posizionedel Mascagni nel verismo e nel naturalismo è assai piùcomplessa di quella di uno Zola e di Verga e merita diessere commentata ed esplicata, tanto più che da taleanalisi potremo togliere i criteri onde dare un definitivogiudizio su quest'opera; un giudizio, cioè, che non an-nullando come, ripeto, troppi critici fanno, le sue indi-scutibili bellezze, limiti la sfera in cui queste bellezzenacquero e vivono.

La Cavalleria si ricollega indubbiamente col grandemovimento europeo del verismo. Senza entrare nella

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questione, per me ovvia, della possibilità del verismonella musica, noterò subito come la Cavalleria sia operadel verismo più per virtù del libretto, che per bisognodella natura del musicista. È in questo che consiste laspeciale posizione del Mascagni rispetto al verismo. Lamusica è stata finora, riguardo ai grandi movimenti del-la coltura europea e alle grandi correnti dell'arte, comeun'arte di rifiuto. Le aspirazioni d'una nuova scuola allo-ra solo penetrano nel mondo cinese dei musicisti, cheabbiano compiuta la loro totale evoluzione e che questaevoluzione abbia già generato la sua rispettiva controri-voluzione. L'Italia aveva avuto già la violenta e fecondareazione letteraria al verismo zoliano e verghiano nellopseudo-idealismo d'annunziano, pseudo in quanto attua-to più come intenzione che come cosciente rivolta al po-sitivismo; quando la reazione dei musicisti al melo-dramma victorughiano-verdiano si modellava tardiva-mente sopra la reazione che all'arte victorughiano-ro-mantica già compivano in Francia i naturalisti, generan-do un'arte che doveva empire di nuovo sangue, benchè apreferenza plebeo, le vene flaccide della Musa Europea.La Cavalleria resulta dunque, rispetto agli ideali chel'hanno o sembra l'abbiano ispirata, un'opera in ritardo, eperciò, anche sotto quest'aspetto, inferiore alla storia,allo spirito che si svolge con continuo processo di auto-creazione nel tempo; essa è un'estrema produzione delverismo, come il Mefistofele è una postrema produzionedel romanticismo; sebbene nella Cavalleria noi potrem-mo trovare un verismo infinitamente meno rigoroso di

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quello dei naturalisti, che non ammettevano l'opera d'ar-te che come un documento scientifico-fotografico dellavita umana. E non per il fatto che il Mascagni si sia resopiena coscienza dell'errore estetico del verismo; sibbeneperchè il verismo mascagnano è un verismo da musici-sti, un verismo (non voglio fare un calembour) a orec-chio, da permettere perfino delle infiltrazioni wagneria-ne. Ora questa mia nota sul verismo della Cavalleria,non sarebbe che oziosa e meramente meccanica, se pro-prio questo carattere veristico non facesse assumere aquest'opera il valore, rispetto alla circoscritta operisticaitaliana, d'un sintomo di rinnovamento innegabilmentenecessario, e, rispetto alla grande arte motivata dalle piùalte necessità della storia umana, non le facesse assume-re, contemporaneamente, il valore d'un'opera inutile per-chè in ritardo7. Ciò che ho detto sulla manchevole coltu-ra del Mascagni, ha qui una nuova riprova. Sembra qua-si che l'arte degli artisti come questo nostro, si contengaverso la grande arte degli artisti come Goethe e Beetho-ven, e Berlioz e Wagner, al modo stesso che l'immobilefondo del mare verso gli alti strati delle acque percorseda correnti e agitate da tempeste. Il movimento delleonde giunge, se vi giunge, in basso, quando già su inalto un nuovo movimento s'è manifestato. L'ambientemusicale assolutamente sterile di nuove idee, nate dalcontatto diretto della vita libera e aereata dai vasti venti

7 Lo stesso si potrebbe dire, mutatis mutandis, del Mefistofeledi Arrigo Boito.

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della coltura, si pasce quasi delle briciole che lascia ca-dere il sereno banchetto dei grandi spiriti. Da questaspecie di vecchiaia precoce, di morte quasi direi neces-saria e congenita alla nascita dell'opera, viene spiegato ilsenso di vuoto che cova sotto la Cavalleria. Certo la fre-schezza dello spirito del Mascagni c'incanta, e se noigiungiamo ad astrarre l'opera dal momento storico in cuisiamo immersi, e ad assorbirci tutti nell'angusto cerchiodella vita dello spirito italiano, quasi ci sentiamo spinti aproclamare la Cavalleria un capolavoro. Ma anche am-mettendo, come io fo di buon grado, la fresca spontanei-tà di quest'opera contrastante con le bolse produzioni delfalsissimo teatro melodrammatico italiano – un teatroche ci ha dato talora per buone delle putrefazioni ro-mantico-sentimentalistiche della forza d'una Giocondadel Ponchielli – il nostro spirito, se aperto a tutti i ventiche agitano la storia contemporanea e alle voci dei suoiproblemi spirituali, trova presto in quella freschezza labarriera della puerilità e dell'incoscienza, e in quellaspontaneità – il limite cieco della futilità. Non siamo di-nanzi a una di quelle opere che c'inquietano e ci fecon-dano, se non altro di contraddizioni, come qualche librodi Zola un tempo, e come il Pelléas di Debussy, oggi.Non sentiamo nella Cavalleria un bisogno ineluttabil-mente nuovo, che prenda coscienza piena di sè e, cometale, abbia il diritto di esser chiamato una nuova cono-scenza artistica, una vera nuova opera d'arte. La Caval-leria, se, ripeto, siamo pienamente coscienti del nostrospirito, ci fa l'effetto che fanno tutti i ritardi e le rifiori-

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ture fuori stagione nella storia. Stucca presto, anzi gene-ra presto, invece di uno stato estetico nuovo, un sorrisooblioso. Oblioso, perchè ci dimentichiamo che è statascritta, tosto che il grande sole della vera coltura ade-guata alla pienezza cosciente dello spirito, ci ravvolgescaldandoci e illuminandoci del suo immenso splendoremeridiano.

Così, tutto sommato e tenendo conto del valore dimusicista popolare che ha il Mascagni, il vero senso chela Cavalleria ha nella storia generale dell'arte e quindidello spirito umano, non è che quello d'indicare un rin-novamento popolare della linfa musicale nell'antichissi-mo tronco dell'arte italiana. E anche questo suo valorepopolare non è da disprezzarsi. Giacchè si ricordi beneche il popolo è pur sempre il serbatoio delle forze vived'una nazione, e che coloro i quali sembrano aver supe-rato lo stato confuso e retorico della vita spirituale delpopolo, in fondo in fondo non hanno fatto altro che dareuna forma umana a ciò che dall'anima popolare venivasu come confuso gurgite di sentimenti. Ond'è che unvero grande musicista futuro non potrà dimenticarsi del-l'opera di Pietro Mascagni, come non potrà dimenticarsi,pur riallacciandosi alla grande tradizione del 500-600, diquelle di Verdi di Bellini e degli altri nostri compositoripopolari. Riprendo qui una tesi che accennai nella primaparte di questo studio. Il linguaggio musicale italiano ècontinuato da quei sebben piccoli musicisti che, sotto al-tro aspetto, giustamente noi reputiamo come imbastardi-tori della grande arte italiana. Ma chi vorrà cantare ita-

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lianamente dovrà avere le vecchie arie popolari in cuo-re. Che certo queste meno differiscono dalle antichissi-me nenie dei pastori preromani, di quello che da essenon differiscano, e comicamente, le musiche inutili de-gli intedescati e dei futuri d'Indysti e Debussysti.

II.

L'Amico Fritz e i Rantzau.

Che il buon Mascagni non fosse un verista pienamen-te iniziato nei dogmi della scuola naturalistica, ce lo di-mostrano le due opere, che subito seguirono la Cavalle-ria. La prima di esse, l'Amico Fritz, sebben musicalmen-te possa rappresentare come la continuazione del giova-nile furore melodico della Cavalleria, non ne rappresen-ta certo una continuazione dei presunti ideali veristici.Non starò a ripetere che quel verismo era dato alla Ca-valleria dal caso puro e semplice; chè infatti il soggettodel Fritz ne è una conferma lampante, nulla essendo dipiù d'una di quelle farse un po' comiche un po' senti-mentali, quali il Donizzetti specialmente ci diede nelsuo delizioso Elisir d'amore e nel suo Don Pasquale,etc. Certo molto di nuovo e di diverso dal contenuto diquelle farse e delle affini c'è nel Fritz; chè elementi in-dubitatamente nuovi sono nella vita anche popolare del-la terza Italia. Un senso più immediato e appassionatodella natura, una più profonda, a modo suo, intimità psi-

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cologica dei personaggi, e quella certa strana tristezzaerotica, che se per un lato richiama alla memoria l'eroti-smo melanconico del settecento, per un altro è cosa tuttamoderna e che, a ben guardare, si ricollega con quellostato ambiguo che fu chiamato – dai letterati, oh! nondai musicisti – neoromanticismo. Ma nella sostanza ildrammetto del Fritz è ben diverso nel suo significatoumano dalla tragedia della Cavalleria. Col Fritz il Ma-scagni è tornato, per non abbandonarli più, ai vecchimannequins del teatro melodrammatico italiano. Questipersonaggi non son mai come quelli della Cavalleria.Tra Suzel e Santuzza c'è lo stesso abisso che tra la verapoesia e la graziosa invenzione del romanzo ameno.

Musicalmente, ripeto, il Fritz è una continuazionedell'esplosività melodica della giovinezza musicale delMascagni. Come noi vedremo a poco a poco, la scopertadella propria forma musicale dal Mascagni raggiuntanella Cavalleria, lo influenzò per il lungo periodo cheva dalla Cavalleria all'Iris, nel quale spartito egli rag-giunge la scoperta di un mondo di nuove formule stili-stiche, quasi direi di un nuovo vocabolario personale,scoperta pur troppo resa vana, come è già dimostrato inaltra parte, dal non essere generata di pari passo con lascoperta d'un nuovo contenuto maggiormente significa-tivo. Pure tra il Fritz e le opere al Fritz posteriori, cioè iRantzau, il Poema leopardiano e il Silvano (eccettuo ilRatcliff e lo Zanetto come opere, in cui il maestro ha po-tuto risentire con calore di vita l'espressione di quelleformule già sfruttate) corre un immenso divario: chè, ri-

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spetto alla pienezza espressiva della Cavalleria, quelletre opere sono autoretorica nata dalla Cavalleria, mentreil Fritz è, come ho già detto, una continuazione dellaCavalleria. Quindi, a parte la sciatteria di alcune sueparti, nel Fritz troviamo ancora delle cose incantevoliper freschezza e schiettezza. Il preludietto, l'aria di Su-zel nel 1º atto, quasi tutto il 2º atto, la magnifica roman-za «all'amore» di Fritz nel terzo atto e, pure nel terzo, ilduo di Fritz con Suzel, meraviglioso per passione e for-za drammatica, son tutti pezzi degni di stare accanto allepiù belle ispirazioni della Cavalleria. Ma il pezzo chesupera e abbuia tutta l'opera e che è tra le cose miglioridel Mascagni, sebbene inutile rispetto all'opera in cui lotroviamo, è l'intermezzo. Consistente come quello dellaCavalleria in una larga aria per violini incastonata traaccordi preludianti e accordi concludenti orchestrali,questo intermezzo esprime, quanto difficilmente la mu-sica del Mascagni ha poi saputo ancora esprimerlo, lacalda natura sensuale dell'autore. A quei critici a cui nonpiaccia e che non sentano in esso che un volgare rad-doppio di violini, io non so fare altro che consigliare diessere inesauribili nelle loro esperienze di vita e d'arte, edi pensare che anche questa sensualità espansiva e sana,in cui par sentire «gorgogliar rosse le scaturigini dellavita», è cosa troppo italiana, troppo popolare, troppogiovane, perchè si possa spiegare... a chi non l'ha prova-ta nè sospettata, e a chi non ha dell'Italia che una conce-zione retorico-nietzschiana. Ma chi ha conosciuto lasemplicità della vita italiana lungo i litorali luminosi,

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nelle campagne armoniose di venti leggeri e di squilli dimerli; chi ha penetrato il fascino carnale dei dialetti dicerte sue città meridionali, dialetti che nelle loro moven-ze sembrano musica di Mascagni o di Bellini; chi dell'I-talia sa tutto questo e ha intravisto (sorridendo dell'avvi-cinamento mostruoso) quanta parentela corra tra la piùfresca e schietta poesia di un Gabriele D'Annunzio(Canto novo, III libro delle Laudi) e le dolci liriche diun Salvatore di Giacomo, e ha sospettato che le loro pa-role vivide di meridionalità sono intagliate nella stessamateria psichica di questi buoni musicisti italiani, chesembrano averci al posto dell'anima... della bella carnegiovane e robusta; converrà con me che quest'intermez-zo è vero, è bello, è italiano, e che anch'esso va messotra quelle arie popolari, che il sereno grande composito-re futuro dell'Italia dovrà avere nel cuore insieme conqualche altra cosa ancora degl'italiani, oggi purtroppodimenticata: il Pensiero. Ma già, di coloro che questointermezzo non comprenderebbero e irriderebbero,quanti hanno compreso le divine ariette di Pergolese, diMarcello, di Carissimi, di Vivaldi, di Arcangelo del Leu-to etc. etc? quanti le hanno godute pienamente e non atraverso ridicole retoriche da salotto?

I Rantzau, invece, sono una delle opere peggiori delMascagni; in esse trionfa quel modo compositivo o me-glio costruttivo, che ho già chiamato autoretorica. Certo,non siamo ancora caduti nella ributtante sciatteria delSilvano, nè nello sforzo tronfio e inconcludente dell'A-mica. Il maestro ha in quest'opera ancora tanta dignità in

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sè da non abbandonarsi a un'inerzia indifferente o a ri-correre a degli inganni ignobili di barocca sapienza or-chestrale e drammatica. Ma, sebbene questa retorica siainnocente e quasi fanciullesca, cominciamo però a senti-re nell'ingegno del maestro il serio bisogno di un rinno-vamento di stile e di contenuto; aggiungasi il soggettoben agro per un musicista monocorde come il Mascagni.Chè, invece dell'amore, ha in questo dramma il soprav-vento l'odio; e il Mascagni, pur riuscendo fino ad uncerto segno a far prevalere una tenue ispirazione eroticainfinitamente più debole di quelle già avute nella Caval-leria e nell'Amico Fritz, non ha saputo che retoricamen-te creare il contrasto, l'atmosfera nemica a questo amo-re, l'odio. Ed è naturale; chè se il Mascagni può cantarel'odio erotico, l'odio della gelosia carnale, non sapràmai, perchè troppo complesso ed estraneo alla sua natu-ra, cantare l'odio per cupidigia, l'odio nato fra due fratel-li per colpa del danaro. Anche nella scena tra Alfio eSantuzza, chissà che ad otturare la ben facile vena ma-scagnana non abbiano contribuito ancora la situazione eil carattere di Alfio, che al Mascagni dev'essere apparsase non incomprensibile, certo indifferente, non trattan-dosi in Alfio d'una rivolta al tradimento puramente eroti-co, sibbene della rivolta molto più fredda e austera, la ri-volta al disonore. E anche da questa via ecco che noitorniamo al semplice centro del carattere mascagnano, aquesta specie di sensualità di primitivo e di meridionaledi quest'uomo che non capisce di tutti i sentimenti uma-ni che quello più popolare di tutti, l'amore. E che altro di

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più, in fondo in fondo, hanno sentito i maggiori a luiAriosto e D'Annunzio e gli spiriti affini?

III.

Il Ratcliff.

È la quarta opera del Mascagni. Apparsa tre annidopo i Rantzau, era attesa come un'affermazione più im-portante e più nuova dell'ingegno del Mascagni. Ma l'o-pera, sebbene nella scelta del soggetto sembrasse accen-nare a un rinnovamento del contenuto mascagnano, nonsegna che un aspetto un po' diverso del contenuto giànoto. Si aggiunga che, se quest'opera è infinitamente piùsignificativa dei Rantzau, un fraintendimento della pro-pria ispirazione da parte del maestro, ha fatto sì che l'o-pera al teatro appaia moltissimo meno bella e importan-te di quello che non sia nella realtà.

Il libretto, come ognun sa, non è che la traduzione di-scretamente sciatta che Andrea Maffei fece della trage-dia romantica di Enrico Heine. Per quel che riguarda ilpoema heiniano, non è da dubitare che invece di una tra-gedia voluta bella e riuscita ridicola, si tratta di unoscherzo di buonissimo gusto. In un paese dove comenella Germania, il maggior tragico, lo Schiller, per imi-tare Shakespeare e i tragici greci produceva tragedie af-fatto indegne di stare allato ai sublimi modelli inglesi egreci, se non altro che per il fatto stesso che avevano bi-

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sogno di modelli per essere intese a dovere; niente distrano se l'inflessibile critico del cattivo gusto e dell'in-genuità tedesca abbia voluto contraffare ironicamentequel tipo d'arte con una tragedia in cui tutto l'arsenaledei luoghi comuni del teatro tedesco – luoghi comuniche si sono infiltrati discretamente anche nell'operawagneriana – venisse a bella posta adoprato con manoumoristicamente prodiga. Del resto anche senza ricorre-re all'ipotesi d'una cosciente satira dei falsi tragici tede-schi, chiunque abbia dimestichezza con lo spirito diHeine e con gli spiriti affini e fraterni, sa benissimocome certi loro stati d'anima, anche senza potersi chia-mare umoristici, confinano con l'umorismo. C'era quasiin essi un'impotenza artistica – impotenza se noi tenia-mo fissa la mente alle più sublimi forme dell'arte – eun'amarezza ironica sempre pronta a zampillare, che fa-cea lor volgere in un ridicolo doloroso anche ciò che puravessero intrapreso come qualcosa di serio. Del qualestato d'anima angoscioso e pure accettato con serenità,non era esente, a me così pare, neppur lo stesso massi-mo Goethe.

Ma, com'ebbi già a dire altrove, Pietro Mascagni conla sua solita beata ingenuità ignorante poco si è occupa-to d'indagare il significato tortuoso e duplice del poemadi Heine. Ha creduto così, alla buona, alle tirate umani-tarie del socialistoide Ratcliff, s'è entusiasmato romanti-camente alle apparizioni spettrali nelle foreste scozzesialla Walter Scott, ha animato musicalmente l'inanimatocontrasto erotico del protagonista; e ha creato, in mezzo

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alle brutture d'un'opera enfatica e volgare, una specie dinucleo musicale, d'un romanticismo schietto e simpati-co, affine, sebben più grossolano, a quello di certe balla-te di Chopin, di certi poemetti vittorughiani e di alcuneconcezioni wagneriane della prima maniera.

Ho detto: una specie di nucleo, e avrei dovuto direaddirittura un poema o una suite lirico-sinfonica. Giac-chè se il Mascagni ha creduto di creare un'opera, a suainsaputa, credo, egli ha creato in mezzo alle costruzioniinutili di quattro atti che non riescono a star bene insie-me, un centro vivo, un nucleo musicale a sé, che è quel-lo che regge in piedi l'opera dinanzi al pubblico e cheimpedisce allo stesso di fischiare quest'opera, realmente,come opera, sbagliata. Ora l'ufficio della critica nondeve esser sol quello di dimostrare l'inesistenza esteticadi quella tale opera, in cui le parti belle non formino unorganismo con tutto il resto dell'opera, ma da questo sidistacchino come frammenti compiuti d'un edificio in-compiuto. Vi sono casi, e il Ratcliff mascagnano è unodi questi, nei quali il compositore ha realmente vistoqualcosa di vivo nel soggetto preso a trattare, ma è stato,per dir così, insofferente della forma impostagli dal li-bretto e ha composto qualcosa di formalmente diversodalla ineffettuata attuazione dello schema dato dal li-bretto, anzi ha creato un organismo del tutto indipen-dente da questo schema. Chiunque infatti ascolti il Rat-cliff a teatro, si accorgerà con meraviglia come da tuttoil mare plumbeo dello spartito emergano e s'imprimanoindelebili nella memoria alcuni pezzi, mentre di tutto il

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resto dell'opera non rimane in mente che una fluttuazio-ne informe di recitativi e di fragori orchestrali. La ragio-ne di ciò sta proprio in questo: che il vero Ratcliff diMascagni consiste soltanto di quei pochi pezzi, è tutto inquei pochi pezzi. Sono essi, cioè, che ci danno l'immagi-ne schiettamente romantica e per nulla umoristica che diquesta strana storia s'è formato il maestro; sono essi chehanno diritto di chiamarsi una delle più ispirate cose delMascagni; sono essi finalmente che la critica deveestrarre dall'inutile materia sonora in cui sono immersi esperduti, onde render loro la giusta fisonomia.

Non sarà male, per spiegarmi meglio, illustrare l'e-sempio già citato del Vascello Fantasma. Chi conoscedavvero quest'opera (ossia chi l'ha ripensata criticamen-te) non stenterà molto a convenire con me esser l'ouver-ture dell'opera e la ballata di Senta due pezzi bastantida soli a esprimere tutta la leggenda bellissima del ma-ledetto navigatore condannato in eterno a scorrere i maridel nord sul vascello misterioso. Infatti le numerose eprolisse scene, che s'aggruppano intorno a quel nucleomusicale, non sono che un'aggiunta inutile, una spiega-zione che nulla dice di più di quel che già dissero colsuo prodigioso impeto sinfonico l'ouverture e col suofuoco sentimentale la ballata. La stessa cosa sarebbe av-venuto se da una Ballata di Chopin e servendosi di essaaltri avesse svolto drammaticamente ciò che in essa ègià stato svolto a sufficienza liricamente.

Ora lo stesso divario che corre tra l'ouverture e laballata di Senta e il resto del Vascello Fantasma, corre

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pure tra i pezzi lirici del Ratcliff – i quali tra poco ana-lizzeremo – e le scene che intorno ad essi s'aggruppano.La leggenda dei romanzeschi amori d'Eduardo Ratcliff edella Bella Elisa, ripetuti, quasi per legge d'atavismo,dai rispettivi figli Guglielmo e Maria, come può esserpoesia di per sè stessa, cioè all'infuori della versioneumoristica ricamatavi sopra dallo Heine, così può servi-re, ed ha servito, al Mascagni, di soggetto a un poema li-rico-sinfonico da porsi accanto a quei leggendari poemiche sono l'ouverture e la ballata del Vascello Fantasma,le ballate di Chopin, e per passare dalla musica alla poe-sia, il Mazeppa di Victor Hugo, la Lénore di Burger etc.etc.

Il primo di questi pezzi lirici è il lungo preludio concui si apre l'opera. Esso è una specie di ballata romanti-ca ispirata all'antefatto della tragedia d'amore di poisvolta. Immaginiamoci una sfrenata fantasia d'amore digelosia e di fatalità tragica, fantasia che sarà poi deter-minata verbalmente sulla fine del poema: per ora non sene intende che il tono tragico e fantastico (adopro qui laparola fantasia nella sua accezione volgare di sopranna-turale, irreale). Come tutte le ballate romantiche, questopreludio, interrotto dalla canzone fatale: «perchè rossadi sangue è la tua spada Eduardo?», canzone che nelpoema ha il potere misterioso e ineluttabile che avevanella tragedia greca l'oracolo, presenta i procedimentiormai classici dell'arte romantica: i ritornelli, le ripeti-zioni etc. etc. E certo questi procedimenti sono venutispontaneamente al Mascagni, che non è da credere ch'e-

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gli abbia una profonda conoscenza del folklore romanti-co e del romanticismo folkloristico.

Le scene che seguono il preludio, cioè il fidanzamen-to di Maria con Douglas, la descrizione che questi fadella vita londinese, il racconto, sempre dello stesso, delviaggio per la Scozia infestata dai masnadieri, sono einutili nel dramma (naturalmente nel dramma preso sulserio; satiricamente sono allo Heine riuscite bellissime)e false musicalmente. Anzi non è qui senza ragione laautoretorica mascagnana; chè, dato lo sfondo leggenda-rio del dramma, troppo grande è il salto dal carattereeroico di questa leggenda, e la realtà semiseria d'unbuon fidanzamento che, a dir vero, d'eroico non ha che icostumi scozzesi dei personaggi. Per trovare una conti-nuazione della leggenda lirica, occorre saltare a pie' paritutti questi episodi inutili e leggere l'altra bella ballatache descrive, alla fine dell'atto, le uccisioni dei due fi-danzati di Maria, tragico frutto della decisione irrevoca-bile che Guglielmo Ratcliff ha preso, di uccidere tutti ifidanzati della sua cara. Le parole heiniane sono qui piùcomiche che terribili. Un musicista che ne avesse pene-trato l'intenzione satirica, avrebbe certo scritto per esseuna finissima musica carica d'ironia. Ma il Mascagni,come sempre, non ha saputo che risentire senza doppisensi una tragica vendetta d'amore e ha scritta una gra-ziosa ballata in due vere e proprie parti o strofe ritornel-late e tutte piene di quei richiami ed echi suggestivi, chesono come la musica della poesia romantica. Così allamelodia scorrevole narrativa, che descrive l'innamora-

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mento di Ratcliff per Maria, succede, bene intonata, ladescrizione della ricerca dello sposo mancante alla ceri-monia nuziale. Ed è bello il glaciale fluttuar dell'orche-stra sottolineante la scoperta del cadavere nella foresta a'piedi del Negro Sasso. Ed è pur bene intonato alla leg-genda lo scoppio di fanfara eroica che alla fine della pri-ma strofa echeggia all'offerta che del teschio del fidan-zato fa Ratcliff a Maria. La seconda strofa della ballata,saggiamente abbreviata, ripete e nel fatto e nella musicale parti episodiche della prima. Certo non dico trattarsiqui d'una splendida ballata come quella di Senta o comeuna delle sublimi ballate di Chopin. Ma questa ballatamascagnana non sembrerà affatto brutta se se ne penetriil tono tutto popolaresco e l'ingenua spontaneità.

È facile trovare nel 2° atto, liberandolo dalle banalitàpoco spiritose dei briganti e dell'oste, banalità che ci ri-cordano, con minor schiettezza d'ispirazione, le scenezingaresche del Trovatore verdiano, e sfrondando la par-te di Ratcliff dalle poco concrete effusioni socialistiche,il momento musicale che, continua il poema sui generis,in cui dico consistere il vero Ratcliff del Mascagni. È ilracconto che, intrecciato di fantasticherie soprannatura-li, Ratcliff fa del suo amore disperato per Maria. Questopezzo, di gran lunga superiore alla ballata del 1° atto,comincia dalle parole «un lunatico eroe non mi devisuppor», e termina laddove ritorna in ballo la scioccafantasmagoria dei masnadieri scozzesi (sottintendi, bellanello Heine). In questo lungo racconto s'incontrano bel-lezze tali da porre questo brano di musica accanto alla

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Cavalleria e all'Amico Fritz. Certo il significato del te-sto poetico – una morbosa passione inoculata atavistica-mente nel sangue del protagonista – vien sopraffatto equasi tramutato dalla sana vena erotica del Mascagni.Sicchè, lentamente, la mania dell'eroe romanzesco siconverte nella solita rubiconda sensualità popolana delMascagni. Il bellissimo motivo sulle parole: «quandofanciullo ancora» esprime, sì, qualcosa di misterioso,ma non è il cupo mistero soprannaturale del testo. Sib-bene è il dolcissimo mistero dell'amore e del piacerecarnale, che annega lo spirito e che, se gli impedisce didiscernere nitidamente lo stato sentimentale in cui si tro-va, pur non lo acceca tanto da non concedergli una se-mivisione calda e quasi direi, se non fosse un controsen-so, materiale. Del resto sappiam forse noi in certi nostristati d'anima distinguere con precisione i gradi della in-sensibile scala per cui l'impressione sensuale si convertelentamente e per passaggi impreveduti, in intuizione, inpercezione, in spiritualità insomma? Di tutti gli statisentimentali ambigui e confusi, lo stato amoroso è il piùcrepuscolare. Lo spirito si contenta d'una penombra qua-si incosciente, dileguata la quale, dileguerebbe anche lapassione. È questa penombra il mistero dell'amore, equesto mistero si sente indefinibile e soave in tutto que-sto bellissimo racconto d'amore. Così ancora una voltatrionfa nell'arte mascagnana, si tratti d'un soggetto veri-stico o romantico, l'amore, il solito amore sensuale,sano, fresco, senza complicazioni psicologiche: e la mu-sica di questo pezzo è piena di baci, di rose, di luminose

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visioni di giardini verdi e solivi, di tutta quella naturaserena e prettamente italiana che riempie della sua granpace refrigerante la Cavalleria e l'Amico Fritz. Anchegli scoppi d'odio e i propositi di vendetta di Guglielmo,tentando di colorirsi delle reboanti esclamazioni roman-tiche, dove non suonano a vuoto, parlano dello stessostrazio carnale, dello stesso ribrezzo della gelosia carna-le, che già ispirò la melodiosa Cavalleria Rusticana.

E ancor più bello e pieno di questo sensual misteroerotico è l'intermezzo orchestrale, che ci dà, abbattuta laselva vana di retorici monologhi che lo circonda frago-rosamente, il terzo atto. Nel testo dovrebbe significareuna visione che Guglielmo ha al Negro Sasso nel vastoorrore della selva sconvolta dalla tempesta, ferito per laprima volta dal terzo fidanzato di Maria. In realtà è ungrande sogno d'amore: un sogno stanco e doloroso comela contemplazione d'un destino che, immutabile, contra-sti un amore profondo. Dei tre intermezzi mascagnani,in Italia giustamente amatissimi, questo intermezzo è ilpiù profondo. Qualunque sia il suo significato precisonel dramma, esso è un altro di quei rari momenti di me-lodia assoluta in cui sembra concretarsi l'essenza stessadell'anima d'un compositore. Non siamo qui dinanzi alcanto d'amore aspro e selvaggio della zingaresca cheforma l'intermezzo del Fritz, né dinanzi alla preghieraamorosamente singhiozzante dell'intermezzo della Ca-valleria. Questo pezzo più lirico di tutti perchè più libe-ro degli altri da qualunque contingenzialità del dramma,sembra metterci in comunicazione immediata con la

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personalità mascagnana. Ed è da questo intermezzo spe-cialmente che io ho tratto le linee principali di codestapersonalità, ed è in esso precipuamente che io ho notatoil ritorno dell'anima italiana popolare alla malinconiaerotica settecentesca. Infatti se il titolo (il sogno di Rat-cliff) ci avverte dell'ufficio starei per dire simbolico, chenella mente del compositore ha preso questo divin so-gno d'amore, nulla ci vieta di oltrepassare il simbolo e dicogliere in questo canto tutto crepuscolare, soffuso divoluttà armoniosa, la più intima essenza della personali-tà del compositore. Onde questa melodia semplicissima,sebbene saviamente orchestrata, si ricollega con le piùschiette manifestazioni della nostra pittura e della nostrapoesia.

Il preludietto del 4° atto è un pezzetto di musica disquisita leggiadria. Continua il poema descrivendo la fe-sta nuziale. C'è in esso quello strano senso che infondela musica d'una festa lontana. L'a solo del flauto è tuttoquel che di più elegante possa produrre la fantasia delMascagni. Nell'esecuzione dei pezzi staccati che io con-siglio, questo pezzo interromperebbe graziosamente iltono grave dell'intermezzo e del racconto. Nè stonereb-be, giacchè il carattere fresco, ma pur sempre misteriosodi questa musica di danza, si ricollegherebbe bene con ilcarattere misterioso della leggenda ratcliffiana.

Però, a dire che dopo questo preludietto, la suite dicui è dimostrata l'esistenza, sia proseguita nel quart'atto,sarebbe farsi troppo schiavi d'una teoria a danno dellarealtà. La suite si rompe, per verità, e il cattivo melo-

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dramma spegne nel compositore qualunque spunto disincerità. Il quart'atto del Ratcliff, se se n'eccettua la ri-petizione del primo preludio a cui è adattata l'esplicazio-ne verbale dell'antefatto a tutto il dramma, è ammorbatodalla solita autoretorica così comune nel Mascagni. An-che il duetto tra Guglielmo e Maria è sforzato, inconclu-dente, anzi addirittura assorbito in altra e ben più bellaconcezione mascagnana, di cui non è un'eco, sibbene unprimo abbozzo, come, a quel che ho sentito dire, è avve-nuto di altri pezzi dell'opera; il duetto, cioè, tra Turiddue Santuzza. Dunque, mi potrebbe obbiettare qualchemalizioso, tutta la vostra teoria sul Ratcliff non divieneforse oziosa, se la suite o poema, che voi dite essere ilnucleo di quest'opera, non è neppur compiuto? Nienteaffatto. La critica, intorno a questo spartito, che molticredono il capolavoro del maestro, non può far altro chedimostrare qual sia la sua vera vita, anche ad onta chetale suo modo di vita appaia qua e là interrotto da lacu-ne, le quali spetterebbe al Mascagni, reso cosciente delsuo lavoro, di riempire – dato e ammesso che gli artistifossero così malleabili, da lasciarsi consigliare dalla cri-tica – cosa che non fanno quasi mai e che, se ci pensibene, è forse impossibile che riescano a fare.

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IV.

Silvano, Zanetto e Poema leopardiano.

Il romanticismo del Ratcliff dopo il crudo verismodella Cavalleria e lo pseudoverismo del Fritz e dei Ran-tzau, può assumere il valore d'una prova luminosa dellaleggerezza artistica del Mascagni, prova che non vieneinfirmata dal fatto che il Ratcliff fu concepito avanti laCavalleria, giacchè, ritornandoci sopra, il maestro neriaffermava il contenuto, un contenuto ad ogni modo disignificato infinitamente minore a quello della Cavalle-ria. Ciò che forma, si può dire, la personalità d'unoSchumann e d'uno Chopin, per non citare sempre i mas-simi, è l'unità e la continuità di svolgimento del lorocontenuto, il quale, in costoro, sembra svilupparsi comela vita d'un organismo lentamente e ininterrottamentecrescente su sè stesso. Lo concepite un Wagner chedopo aver creata la tetralogia scriva una Carmen? È as-surdo e ridicolo insieme; chè creare non è solo averedelle lucide intuizioni, ma queste spontaneamente orga-nare per via di assimilazioni ed eliminazioni, in un tuttoassolutamente originale. In altre parole un compositoredeve avere coscienza delle proprie forze e seguire la li-nea unica e diritta delle sue aspirazioni. Ora questa co-scienza delle proprie forze o aspirazioni, o com'altro vo-gliasi chiamare il mondo d'un artista, è affatto embriona-le nel Mascagni. Come i nostri ultimi operisti – Rossini,

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Donizzetti, Mercadante, Bellini, Verdi – anch'egli nonsente ambizione superiore a quella di espandere fiotti dicolori su qualunque disegno gli venga presentato. Que-sta minima ambizione raffaelliana – mi si perdoni, ma ioscrivo quest'aggettivo contrapponendolo mentalmente amichelangiolesca – era quella per cui si tributavanomaggiori lodi, per es., al Rossini; ma, se in un certo sen-so è vero che sopra innumeri soggetti il Rossini e il Ma-scagni trovan sempre qualcosa da dire, bisogna però ve-dere se questo qualcosa è detto ad hoc, o non è piuttostoun'improvvisazione simile, in parte, a un sonetto a rimeobbligate.

Ora al punto in cui siam giunti del nostro studio, ci èlecito stabilire, contemplando la serie dei soggetti, giànoti a noi, che hanno fornito al Mascagni l'occasione dicantare il più possibile, sotto un nuovo aspetto il limitedell'ingegno mascagnano. Noi non possiamo in fondo infondo creder molto al romanticismo mascagnano per lestesse ragioni, anzi accresciute, per le quali abbiamo du-bitato del verismo mascagnano. A una sola condizionenoi vi potremmo credere, se l'abbandono del verismoper il suo mortale nemico il romanticismo, fosse statocausato da un pieno riconoscimento delle manchevolez-ze del verismo rispetto ai bisogni spirituali del Masca-gni. Ma, in realtà, questa crisi potente e violenta nelmaestro non è affatto avvenuta. Come già dimostrai l'in-differenza e forse l'incoscienza assoluta dello spirito delmaestro verso il valore veristico della Cavalleria, cosìnon ci vorrebbe molto a dimostrare una non meno inco-

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sciente indifferenza dell'interpretazione romantica dellavita contenuta nella leggenda ratcliffiana. Siamo nelpaese dove si canta senza sapere il perchè, diceva, cre-do, uno straniero a tempo della feconda polemica traGluckisti e Piccinnisti. E anche oggi Mascagni in linearetta italianamente discendente del Piccinni, non fa nulladi più che cantare senza sapere il perchè.

Continuiamo la nostra analisi.La 1a rappresentazione del Silvano segue appena d'un

mese quella del Ratcliff e questa nova opera di propor-zioni più piccole dovrebb'essere un dramma marinare-sco. Ma in realtà il mare in quest'opera, che è la piùbrutta delle opere del Mascagni, non è che un ridicolomare di cartapesta, quale in certi teatri da burattini vienrappresentato con strisce di cartone dipinte e rumorosa-mente agitate con delle corde. Nè il dramma a cui servedi sfondo questo ridicolo oceano impagliato, ha il ben-chè minimo pregio drammatico. Si tratta d'un sanguino-lento fattaccio recitato da fantocci senza nessuna intimi-tà e ragion d'essere. La musica poi è un tale accozzo difrasucce o volgari o addirittura insignificanti, da nonmeritare quasi il conto d'esser analizzata. Il mare chepur è stato il benigno custode dell'adolescenza del mae-stro e a cui pur questi deve tanta salute di sangue e d'i-spirazione, non gli ha dettato nessuna immagine viva.Come nel libretto il mare è un incolore luogo comune,così nella fusione del libretto e della musica esso rimaneuna vecchissima immagine ritmica e sonora, qualeavrebbe potuto avere, sebben più fine, uno dei nostri

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buoni vecchi operisti sordi e ciechi a qualunque voce edaspetto della natura. Neppure nel coro marinaresco del2° atto, dove il maestro avrebbe potuto almeno darciqualche accento impregnato di sale come le tamerici sal-se della spiaggia dell'Antignano, egli sa ritenersi dal ca-dere in una fraseologia da borghese canzonetta napoleta-na. «Cantate la più bella marinaresca» esclama il coro;ma, ahimè, le note sembrano intendere proprio il contra-rio.

Ma quello che dà più malessere in quest'opera insi-gnificante, ne è la vecchiezza delle modulazioni, l'insi-pidezza dell'armonia. C'è la falsa eloquenza dell'agileimprovvisator di preludi pianistici per mettere in tonoun coretto d'educande. Si osservino poi i recitativi. Essinon sono come nella Cavalleria e nel Fritz quasi la for-ma musicale che sorgendo ed espandendosi investe ebeve le parole, assimilandosele. Essi son fatti come mu-sicando pezzetto per pezzetto, parola per parola il libret-to, onde resultano sconclusionati ed incerti. Gli spuntimelodici poi riescono odiosi per la ricerca quasi a tento-ni della frase che non vuol venire. L'autoretorica vitrionfa: son come frammenti di intuizioni precedenti le-gati alla meglio. Se mai il Silvano può avere un valore,sarà quello di aver dimostrato al Mascagni tutto il suodovere di rinnovarsi. Ormai le belle formule melodichedella Cavalleria, gli universali fantastici del suo stilegiovanile, non gli dicono più nulla, sono strizzati fino adaver versato tutto il loro succo. Bisogna ch'egli cessi distrascicare dietro a sè i cadaveri d'una fraseologia che

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un giorno fu viva; bisogna che immergendosi in un si-lenzio fecondo, ritrovi nel suo segreto la sua limpidavena, che non s'è seccata, ma solo, non coltivata gelosa-mente, s'è perduta nel suolo.

Al soggetto sconciamente realistico del Silvano, se-gue con un nuovo sbalzo, un soggetto di squisita poesia:Zanetto o «Le passant» di F. Coppée. La dolce e intimascena che ne forma il contenuto a dir vero non era moltoconsona alla natura esteriore del Mascagni. Occorrevaprima di tutto un librettista che non sbertucciasse il deli-zioso episodio con versi che non significano nulla –Cuore, c'è il dolore, tra il profumo e lo splendore – , e insecondo luogo occorreva un musicista di arte molto piùevoluta e sinuosa di quello che non sia l'ingenuo e rozzolinguaggio mascagnano. Certo, se confrontiamo lo Za-netto al Silvano, ci accorgiamo subito che il fascino sen-timentale del soggetto ha suscitato qualche fantasmavero nella inerte immaginazione del maestro. Il prelu-dio, sebbene così poco intonato alla signorilità umoristi-ca che dovrebbe avere un madrigale sussurrato in lonta-nanza – siamo nel Rinascimento, a Firenze – ; la canzo-ne di Zanetto sebbene così poco elegantemente trovado-rica; l'appassionata e bell'aria «non andar da Silvia»,sebbene anch'essa troppo plebea per sgorgare dall'animad'una grande cortigiana fiorentina; sono brani di musicache invano si cercherebbe nel Silvano. Ma nel comples-so l'opera è viziosa; il recitativo ne è povero, convenzio-nale, spesso pesante. Si aggiunga, a momenti, un canta-bile indegno della penna d'uno scrittorucolo di romanze

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a base di sentimentalità da Scena illustrata. So che loZanetto ha esercitato un certo fascino sugli studenti in-tellettuali del tempo. Ma credo che essi, se non eran deibabbei, fossero più vellicati nella loro sentimentalitàdall'idea del soggetto, che dall'attuazione mascagnana diquest'idea. La verità è che quest'idea non fu saputa in-carnare. Convengo però che tra i libretti mascagnani loZanetto è l'unico che, accanto alla Cavalleria e a partedel Ratcliff, può significare qualcosa di poetico.

Mi resterebbe, avanti di passare all'Iris, di parlare delPoema leopardiano. Ma io chiedo venia ai lettori se perrispetto alla innocente gioventù della fresca melodiamascagnana, e per rispetto alla dignità della mia critica,io getto un velo pietoso su questo fallo di gioventù delMascagni. Ho già troppo robustamente lineato il profilodi quest'arte, perchè ne debba ancora dimostrare l'indif-ferenza adolescentesca davanti alle altezze più pure epiù formidabili dello spirito umano. Mascagni e Leopar-di sono due spiriti che, avvicinati, fanno provare la ver-tigine; appartengono quasi a due mondi diversi. Credoche sarebbe un giochetto puerile dimostrare una cosa acui tutti credono: che Mascagni non può capire nè quin-di cantare Giacomo Leopardi. È possibile che RiccardoStrauss decadente fin nella midolla delle ossa, senta tut-to il decadentismo raffinato ed astuto che già s'annidanel nietzschiano «Also sprach Zarathustra». Ma è im-possibile che un fanciullo, un monello livornese possacomprendere il pensiero di Leopardi. Tutt'al più farà,come ha fatto Mascagni, un compito diligente sul tipo di

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quelli dal tema: ditemi che sentimenti vi suggerisce latomba di Torquato Tasso, o qualche altra tomba o desti-no umano di cui si sia impadronita senza remissione laretorica scolastica.

V.

L'Iris.

Riccardo Wagner a proposito dell'opera italianizzantedel Meyerbeer ci lasciò una deliziosa satira di tal sortadi melodramma commerciale, nel quale gli spettacolinaturali, i costumi esotici dei cori e dei personaggi, nonstanno al dramma, come accidentalità necessarie; sibbe-ne il dramma, l'azione intima dei personaggi, sta comecanevaccio indifferentemente prescelto a motivare quel-le esteriorità che diventano di massima importanza. Per-chè Meyerbeer a un certo punto del Profeta fa sorgere ilsole? non perchè ciò sia necessario al dramma, ma per-chè fa più effetto. Perchè il Metastasio a volte mettevain Cina un'azione melodrammatica assolutamente antici-nese? Perchè vestiti alla cinese era sicuro che i perso-naggi avrebbero fatto il doppio dell'effetto. Accade lostesso per l'Iris? Ahimè! io non saprei negarlo; chè an-che in questo io scorgo la filiazione diretta degli spartitimascagnani dal passato più o meno prossimo del melo-dramma italiano e italianizzante. Vestire da mousmè ledonne del coro e la protagonista; mettere per sfondo un

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paesaggio esotico di discutibile autenticità; chiamareYoshiwara la vecchia europea maison de plaisir; insom-ma giapponesizzare tutto, dai capelli ai piedi dei perso-naggi e dalla cime dei monti alle bassure d'una fognaformicolante di cenciaiuoli che la scrutano con dellelampadine di... carta del Giappone; è certo una ricetta si-cura per titillare la fantasia e gli occhi del pubblico, nonche la vena del maestro. Infatti al Mascagni nessunaopera è venuta meglio orchestrata di questa, se per or-chestrazione s'intenda l'agile saettìo impreveduto dellabizzarria. Per ogni scena di quest'Iris tremola come unmultivolo troll di astuta follìa. I colori orchestrali s'im-pastano con delicati e quasi direi fulminei contrasti; eora scivolano glaciali e striati come pelle di serpi, e oraondeggiano come nebbie leggermente iridate. Ogni tan-to un'argentinità squillante e melodiosa scande il ritmo –ad altra parte l'esame dell'istrumentazione mascagnana,la quale possiam dire fin d'ora arricchita di tutti i mo-dernismi più audaci della tecnica strumentale d'oltralpe– ; a volte piene sonorità orchestrali e corali prorompo-no e allargano i loro flutti pesanti, ma equilibrati. L'im-maginazione del Mascagni è stata insomma meraviglio-samente eccitata anzi sopreccitata dalla poesia nipponi-ca, che l'Illica ha versato con mani prodighe, se non sa-pienti, nel suo libretto.

Ma un libretto in stile floreale – giapponese – d'an-nunziano, e uno sfoggio sia pur delizioso d'una ricchis-sima gamma orchestrale, non bastano a fare un'opera damettere accanto alla Cavalleria rusticana. Tutt'al più te-

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stimonieranno d'un vero innamoramento del composito-re per il soggetto che ha preso a trattare, ma non varran-no a elevare l'Iris all'altezza di opera certificante unapresa di possesso più audace e profonda della personali-tà dell'autore della Cavalleria. La ragion vera per cui l'I-ris se non intera e perfetta come la Cavalleria, è pursempre l'unica opera degna d'esser detta sorella di quel-la, è che per l'Iris noi potremmo ripeter la stessa escla-mazione d'Osaka sulla giovinetta dormente: «non èmousmè leziosa di città – ordigno fatto per la voluttà –qui c'è l'anima!» Sì, ad onta del nipponismo teatrale, adonta dei molti difetti, dei quali maggior di tutti lo pseu-do-simbolismo, in quest'opera c'è l'anima. L'ingenuitàdella innocentissima giovinetta sul cui corpo piccolo eperfetto passano vani i lubrìci tentacoli del piacere infe-condo, si è fusa con la divina ingenuità della melodiamascagnana. Il 2° atto, che è il migliore di tutta l'opera,va posto accanto alla Cavalleria. Non credo affatto cheil maestro sia stato pienamente cosciente della bellissi-ma cosa che componeva, altrimenti avrebbe rigettatocome spurio il simbolismo nipponico – solare che gua-sta e isterilisce la significazione umana di questo se-cond'atto. Ma come per la Cavalleria una «fortunataconcordanza di fattori storici ed estetici» condussero ilMascagni a creare un capolavoro quasi senza ch'egli sene accorgesse, e cioè senza obbedire a quelle profondeaspirazioni che formano la vita intima ed austera deigrandi genî, così in questo second'atto la purezza dell'a-dolescenza d'Iris e della spensierata adolescenza della

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fantasia mascagnana si sono incontrate per caso e ne èrisultato un capolavoro, così, per caso, come due adole-scenti s'incontrano e si baciano senza sapere perchè. Ca-polavoro naturalmente, che come già ebbi a concludereper la Cavalleria, per questa mancanza d'una severa co-scienza artistica, si rivela a uno sguardo più profondo evasto come – un semicapolavoro.

Ho detto che il simbolismo è tra i peggiori difetti del-l'opera. In realtà il simbolismo in arte, non esiste. Essonon è che una specie di astrazione che noi fabbrichiamoper impossessarci alla meglio d'un fatto che spesso si ri-pete o sembra ripetersi alla nostra analisi intellettualisti-ca, nella grande arte: l'incarnazione artistica, cioè, d'unpensiero, di per sè stesso – e cioè se estratto dall'operad'arte e ricreato logicamente – ripetibile in modi espres-sivi innumerevoli. Simbolica si può intellettualistica-mente chiamare l'arte del 2° Faust o della tetralogiawagneriana. Ma se noi paragoniamo il simbolismo del-l'Iris al simbolismo delle sunnominate opere (prego ilettori di non riderne troppo) ci accorgiamo presto chel'Illica e per conseguenza il Mascagni ha adoprato taleconcetto intellettualistico come concreto, ed ha applica-to il simbolismo al suo dramma volontariamente, ester-namente, più per seguire volente una moda, che per ob-bedire, al di qua da qualunque regola e metodo, a un bi-sogno del proprio spirito. Perchè infatti, in fondo in fon-do, sotto al velame dei versi e degli accordi strani, qualprofondo pensiero troviamo espresso dal simbolo? Cheil sole è il maestro delle opere e delle passioni umane, e

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che se l'egoismo degli uomini spinse alla rovina mate-riale (non mi pare morale, il che sarebbe stato ben peg-gio) la piccioletta Iris, la Natura (con l'N grande) cor-rompendone il cadavere sotto l'azione vivificante delsole genera da tale corruzione una nuova vita, cioè fiorie fiori e fiori. Dio mio! valeva proprio la pena di scomo-dare l'olimpico simbolismo per dimostrare che anche ilcorpo d'Iris diviene dopo tante vicissitudini dolorose delconcime chimico? Giacchè, come ognun vede, nel sim-bolismo dell'Iris è lo stesso male di tanto simbolismod'annunziano (potrei dir moderno, e anche maeterlinkia-no, se non mi premesse dimostrarne l'esistenza italiana);far cascare dall'alto una verità vecchia, e cioè, una veritàsuperata, come quelle del positivismo, che s'annidano eecheggiano in tanta arte moderna, nuova come senti-mento, vecchia come credenza.

Così anche il simbolismo dell'Iris va messo accantoal suo nipponismo letterario. Esso non ha un valore mol-to diverso dalle vesti cinesi dei personaggi melodram-matici metastasiani. Ho detto che è un simbolismo dimoda. E sotto quest'aspetto noi potremmo notare che ilMascagni segue la scuola italiana e l'orma del Verdi, cheemerse in ciò, nel seguire – come molti critici hannodetto quasi una lode enorme – il volubile e mutevole gu-sto del pubblico; sebbene ciò, per giustizia, sia vero enon sia vero.

Ma come non credemmo al verismo e al romantici-smo, così neppur crediamo al simbolismo mascagnano.Infatti la composizione, di poco distante dell'Iris, delle

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Maschere e dell'Amica, ci conferma pienamente nellanostra opinione. Nè starò a ripetere quel che dissi per laCavalleria: che, cioè, anche questo simbolismo è unodei tanti tardivi contraccolpi, che i movimenti dellagrande vita artistica europea generano nei sostrati ciechidella vita cinese del mondo musicale. Si potrebbe osser-vare anche qui che al momento in cui l'ingegno del Ma-scagni, pronubo l'Illica, si sposava al vuoto simbolismopromulgato in Italia dal D'Annunzio, già nella stessa Ita-lia era nata l'alba del giorno, che da quel simbolismo in-sincero, oltre che errato esteticamente, ci doveva redi-mere. Chè già dei giovani e forti critici attingevano dalpensiero di un nuovo filosofo di pura tradizione italiano-alemanna, la piena coscienza dell'errore simbolistico edel falso pensiero che tale errore sceglieva per tramite dimanifestazione. Ma figuriamoci se questo stato di coselo poteva neppur sospettare – un musicista!

L'Iris, dunque, si apre simbolisticamente con un fra-goroso inno al Sole. Esso è ispirato e retorico al tempostesso. Retorico già ho detto perchè; ispirato, perchè no-nostante la odiosa teatralità wagneriana del tema del-l'aurora e del finale mefistofeliano, il motivo dei primialbori, e quindi il corale del sole è pieno di movimento edi fuoco. Mascagni, giunto alla virilità, ha ritrovatol'empito sano della sua bella melodia, di quella melodiachiara, docile, calda come il sole. E infatti qualcosa delsole, e non del freddo sole simbolico, ma del nostro belsole tirreno che imbionda le nostre larghe città ondeg-

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gianti di bandiere sulle spiagge, nel mare, nelle pianureverdi, nelle pieghe delle montagne boschive, è in questoampio canto melodioso e ben ritmato.

Cessati gli ultimi fragori orchestrali una timida melo-dia c'introduce nel minuscolo giardinetto d'Iris. È unaserena mattina... giapponese? – no, italiana. I fiori devo-no avere un profumo così sano da mettere appetito. La-sciamo che Iris giovinetta folleggi con la sua bambola;facendo ciò, ella è leziosa come il nipponismo illichia-no. Ecco Osaka e Kyoto che fanno un delizioso duetti-no. Osaka canta le lodi della propria voce in versi bour-souflés e con una adorabile melodia scapigliata. Ma lasorpresa più affascinante è l'entrata delle mousmè – la-vandaie. Oh! l'incantevole freschezza di questo coretto,a cui s'unisce la gaia voce mattutina di Iris che annaffia isuoi fiori e la monotona voce del cieco che prega! Vera-mente questa musica semplice, senza le smanie impres-sionistico – descrittive dello Strauss e del Debussy, ètutta, per virtù di miracolo, sapida di geranio e di cedri-na bagnati, di borracina mèzza; una gioia agreste sispande per le sue modulazioni leggere, ed essa è frescae scorrevole come le innumerevoli stille d'acqua chespillano dall'annaffiatoio d'Iris. L'errore della musica de-scrittiva in generale sta in ciò che in essa si tenta di co-gliere volontariamente e quindi arbitrariamente alcuneimpressioni, la cui vera vita musicale non potrebbe esse-re altra che una sintesi spontanea di esse e, cioè, unavera trasformazione spirituale della sensazione materia-le. Peccato che sulla fine del pezzo il tumido simboli-

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smo dell'inno al sole rispunti guastando con la sua vol-gare convenzionalità tanta freschezza e semplicità!

Un suono curioso annuncia su di un ritmo saltellantela venuta del teatrino. Questa nuova scena, a dire il verosempre sprizzante di trovate fantasiose, non è bellacome la precedente. Vi sono anzi episodi triviali, comequello del dialogo del padre e della figlia da commediae dell'ascensione al nirvana di costei: si trova in ispecienell'episodio del nirvana un wagnerismo di secondamano che non significa nulla. È al contrario bellissimala romanza di Ior. Il Mascagni della popolare Sicilianadella Cavalleria in essa risuscita con nostra grande gio-ia. La danza delle guechas è forse musica troppo daoperetta, tanto più che quel ritmo di valse è assai poco...giapponese. La scena finale dell'atto riesce simpatica percerte movenze melodiche schiette e persuasive, ma nelcomplesso è sforzata e pesante. Il Mascagni non senteprofondamente, come avemmo già a notare, altri affettiche l'amore, e d'altronde le smanie del cieco per l'abban-dono della figlia non hanno neppur nel libretto una chia-ra e intima motivazione, onde, al postutto, cieco e mer-ciaioli pietosi convincono al riso più che alle lacrime. Seal posto del padre si fosse trovato un rivale, un fidanzatodi Iris, noi forse avremmo potuto contare una bellezza dipiù nel teatro mascagnano. Amore, amore! il Mascagninon chiede di più per divenire eloquente e vero artista.

È perciò che il 2° atto gli è riuscito migliore degli al-tri. Non siamo qui, è vero, davanti a una tragedia d'amorplebeo, come per la Cavalleria; ma l'intimità dei due

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drammi è la stessa: la carne, il piacere sensuale. Se nonche l'amore sensuale non è qui frenetico e feroce comenella Cavalleria. Esso s'è raffinato e, pur rimanendosano, è divenuto quasi direi meno bestiale. A questa sen-sualità consueta, quali che sieno le sue modificazioni, inMascagni, sembrerebbe contrastare l'innocenza di Iris;ma, immersa nell'aria di voluttà carnale che spira la seradell'Yoshiwara, anche quest'innocenza diventa una spe-cie di ingenuo eccitante alla sensualità. Buon per noiche sia il Mascagni a cantarci questo contrasto tra gli al-lettamenti egoistici d'un viveur annoiato e la pura igno-ranza d'un'adolescente; chè se fosse stato invece unoStrauss, chi sa a quali ributtanti pervertimenti sadici citoccava assistere.

Ma la musica mascagnana di tutto difetterà fuorchè disalute. La melodia che mugolano le guechas nella pe-nombra calda che circonda Iris dormente, è incantevoleper il buon aroma meridionale sano ed asciutto che con-tiene. È una nenia blanda, che fa sognare a non so qualiombre di giardini sonnolenti nelle canicole mediterra-nee. Come pure niente di sadico ha la melodia che sotto-linea lo sguardo di voluttuoso desiderio con cui il legge-ro amore di Osaka fascia il sonno giovanile di Iris sottoil velo versicolore. E quali belle melodie espansive nonsgorgano dalle labbra di Osaka ridivenuto, per un mo-mento, veramente giovane dinanzi a tanta grazia d'ado-lescenza! Ma ben altro occhio e ben altro cuore ci vor-rebbe per capire Iris; non un Osaka, il quale sospetta sìche in Iris ci sia un'anima, ma non arriva a misurare

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quanto bella e ingenua sia quest'anima, troppo avendoloda essa distanziato la continua infecondità del piacere.O forse piuttosto per capire la divina bontà di Iris ci vor-rebbe la candida penetrazione d'un buon adolescenteplebeo, che venisse a parlar con lei di soppiatto, dietro ilgiardinetto minuscolo, quando fosse giunto il tempo del-l'amore e per l'uno e per l'altra. Ma per Iris il tempo d'a-mare non è giunto ancora. Sforzarla all'amore è una viltàdi quelle, a cui la natura pone più che può le sue sacrebarriere insormontabili. Iris così non capisce ciò cheOsaka vuole, e risponde al giovane seduttore infantil-mente, chiamandolo «figlio del Sole»; infantilmente sispaventa nella sua religiosità al nome che Osaka impu-dente si dà come un magnifico titolo: il piacere. Neppu-re capisce ciò che Osaka vuol da lei quando questi la ba-cia con lento allettamento. Anzi – e forse un presenti-mento confuso ha commosso le sue viscere di bambina– prova terrore del bacio e scoppia in pianto. E qui tuttal'aridità di Osaka e il suo leggero egoistico amore si pa-lesano. Egli non vuol ritrosie neppure da parte di unagiovinetta bella come Iris, e accetta infuriato il turpeproposito del tristo mezzano Kyoto di esporre la fanciul-la al pubblico come una cortigiana.

La musica di tutte queste scene sembra a me moltobella. Se se ne tolgano certe leziosaggini massenettianenella parte di Iris, è tutto un seguito di frasi ispirate lim-pide trascinanti, ben corrispondenti al flusso della situa-zione. Perfetta è poi, dopo il grido di Osaka: «sono ilpiacere» (di cui va ammirata la tortuosa successione

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delle due tredicesime maggiore e minore), l'ondulazio-ne, come di un respiro ansante per paura, che forma ilritmo dell'aria della piovra. Forse questa improvvisa co-scienza di Iris, sia pur suscitata dal ricordo d'un insegna-mento religioso e superstizioso, del piacere, è un pocoesagerata. Ma musicalmente poche volte il Mascagni eragiunto a tanto tragica profondità.

Bellissima è poi tutta la fine dell'atto. I recitativi ele-ganti di Kyoto, impregnati d'un comico umorismo; lesue lubriche preparazioni; la dolce purità di Iris che can-ta con in braccio il fantoccio di Ior, la stessa romanza diIor nell'atto primo; i rumori strani della città oziante nelcrepuscolo; l'urlo d'ammirazione prorompente nella gen-te «dotta e ghiotta d'ogni cosa vaga e rara» alla vista deldivin corpo seminudo di Iris, il fior di giaggiolo monta-nino che accende le cupidigie degli stanchi cittadinispargendo sopra di essi un fascino di acerbità casta;Osaka che alla vista dello spettacolo turpe non prova ri-morso morale, bensì un volgare rimorso carnale; e final-mente l'arrivo del cieco, che invece di essere la risolu-zione della terribile ansia di Iris, ne corona l'orrore conla maledizione infamante; e la piccola Iris, che ignara ditutto ciò che ha veduto come in un sogno pieno d'incubie di dolcezze misteriose, non resiste alla maledizionepaterna e s'uccide precipitandosi in un grande abisso«ove in fogna si sfoga la gran città», forse improvvisa-mente balenando alla sua breve coscienza l'infamia incui è stata trascinata – è tutta una serie di rappresenta-zioni vive, rapide, colorite, in cui il Mascagni raggiunge

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di nuovo, come nella Cavalleria, la sua potenzialità diingegno drammatico per eccellenza. E un fortissimo or-chestrale, procedimento classico ormai dell'arte operisti-ca Mascagnana, distende e quindi scioglie l'ansia dellescene dolorose a cui abbiamo assistito.

Ma, ahimè!, il dramma umano si disfà nell'onda torpi-da ed ambigua del simbolismo. Il 3° atto non è più poe-sia; è giuoco, giuoco vuoto dell'immaginazione sopra losterile sfoggio dei simboli vacui. Certo, se togliamo ilpreludio, spenta melodia inutilmente sorretta dalle risor-se d'una strumentazione suggestiva nella sua acida stra-nezza, la scena dei cenciaioli e dell'a solo di Iris ha leg-giadrie di forma e delicatezze di malinconie. Special-mente mi pare notevole per il suo schietto umorismo,contrastante, a dire il vero, con il solito carattere di fra-dicia poesia che hanno i simboli dell'Illica, la scena deicenciaioli intercalata da quella deliziosa canzone allaluna, ove il Mascagni fa suoi e purifica certi raffinatiprocedimenti tonali dell'armonia dei decadenti moderni.E l'opera si chiude, mefistofelianamente, con la ripeti-zione dell'Inno al sole.

Non dunque la compiutezza della Cavalleria, sebbe-ne, rispetto alle altre opere del Mascagni, l'Iris, anchenelle parti errate, sia da porsi accanto alla Cavalleria piùdel Ratcliff e dell'Amico Fritz; nè uno di quei raggiungi-menti e possessi coscienti del proprio contenuto che fac-ciano creare a un artista il capolavoro. Dalla Cavalleriaall'Iris non è processo di crisi. La leggerezza degli inten-

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dimenti artistici ha semplicemente portato il Mascagni aridarci con l'Iris un'opera più ispirata delle altre, ma nonil capolavoro. Se non che mi si permetta che, giunto qui,io dica qual sia il valore che può avere per un ingegnodella forza di quello mascagnano, il così detto capola-voro, l'espressione piena di se stesso. In realtà, relativa-mente alla potenzialità dell'arte del Mascagni, il capola-voro da lui non può nascere. Il musicista, nel senso cheil Mascagni attua l'opera, come del resto l'attuarono isuoi fratelli maggiori e minori della tradizione italiana,non è da più, in fondo, di un affreschista-operaio. Ch'e-gli abbia una personalità, nessuno anche all'affreschistavorrebbe negarlo, chè se mancasse di ciò come potrebbeavvenire che gli uomini lo chiamassero a preferenza dialtri a istoriare vagamente i templi del loro gaudio e del-la loro obliosa gioia? La questione è che quella perso-nalità non è autonoma, libera, piena di un mondo auste-ro e necessario, che il compositore debba dire ai suoi si-mili; sibbene, ciò che distingue quella personalità daun'altra qualsiasi, non è poi molto diverso da ciò che di-stingue un paesaggio da un altro; un paesaggio bello ebrutalmente incosciente, cui alcuni uomini per ragioni diesperienze particolari amano e altri per altre esperienzedispregiano. Ond'è che il capolavoro di Mascagni se po-trà superare in piacevolezza e freschezza la Cavalleria el'Iris, non ne potrà mai superare il carattere di casualitàe quindi d'inutilità che ho già dimostrato in esse. «Siamonel paese dove si canta senza sapere il perchè». E dove,aggiungerei io, ogni compositore colora tale tradiziona-

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lità di melodia, di colori personali diversi sì, ma dovenessuno dei compositori supera la tradizionalità ciecacreando una forma nuova e piena di significati veramen-te storici. In fondo in fondo, sotto la profluvie delle me-lodie troviamo il vecchio motivo di tanta arte: divertireo adornare, non esprimere una conoscenza conquistatacol sangue. O se mai questa conoscenza vi sia, e di ne-cessità vi dev'essere, sia pure con un valore trascurabile,giacchè personalità in arte è autoconoscenza; tale cono-scenza personale non è rivolta ad altro – che a divertirela gente.

VI.

Le Maschere e l'Amica.

Le Maschere dovevano essere nell'intenzione del li-brettista e del musicista una esumazione dei personaggidell'antica commedia d'arte. Esumazione piena di signi-ficati poetici e musicali. Da parte del librettista era comeuna proposta di abbandonare «i nuovi e strani eroi» pertornare alla semplice e buona ingenuità della mascherasettecentesca. Da parte del musicista era, oltre al far suoil proposito del librettista, abbandonarsi a tutta la suaspontanea italianità tornando alle forme classiche dell'o-pera buffa.

Il proponimento poteva anche esser bello; sebbene siasaggio notare che tutti questi ritorni all'antico sono peri-

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colosissimi: giacchè, pur tralasciando il fatto che è mol-to dubbio un accordo intero tra il desiderio d'un artista(che, al modo che l'intende il Mascagni, è, in fondo infondo, un servo del pubblico) di tornare al passato e l'a-nima del pubblico estranea ormai a questo passato; oc-corre per infondere una vita novella nei cadaveri chel'arte nel suo cammino infrenabile lascia dietro di sè,una ragione profonda nell'artista stesso che si accinge atale resurrezione. Occorre che l'artista si trovi in un'op-posizione violenta con i sentimenti e le convinzioni del-l'ambiente che lo circonda; occorre che l'artista si sentapiù contemporaneo dei morti che dei vivi; occorre in-somma che egli sia dotato di un senso storico squisito.Con questo non voglio dire che da fraintendimenti stori-ci non sien nate opere insigni, ma bisogna vedere diquanto le condizioni dell'ambiente favorivano l'errore diricostruzione.

Ora, oggi non siam più nel 400 in cui si potessero ve-stire nei quadri personaggi orientali con abiti occidenta-li. Oggi che un musicista come Wagner ci ha mostratoquanto bene anche con la musica potesse esser rievoca-to, con squisita precisione di senso storico, un tempoestraneo e lontano al Wagner e ai suoi contemporanei –in realtà, s'incolpa i musicisti moderni di wagnerismo;ma quanti hanno osato seguire le orme wagneriane nellasua mirabile coscienziosità di erudito! In altre parole: inun tempo, qual'è il nostro, in cui ogni uomo veramentecolto è cittadino non solo di tutto il mondo, ma di tuttala storia a memoria d'uomo conosciuta; per una rievoca-

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zione settecentesca, quali dovrebbero esser le Mascheresi esige ben altra preparazione lenta e paziente che quel-la che ha servito alla composizione delle Maschere8. In-fatti, possiamo affermare che tanto il librettista quanto ilcompositore hanno avuto un'idea che, come tutte le ideedi questo mondo, potrebbe essere stata buona; ma l'han-no attuata servendosi di reminiscenze raffazzonate allameglio qua e là, così come venivano alla memoria. Sitratta insomma d'una resurrezione delle gaie e graziosemaschere italiane fatta a orecchio, dilettantescamente:anzi in alcuni punti suggerisce l'immagine che i dilettan-ti, i quali composero quest'opera buffa voluminosissima,non fossero altri che degli studenti o dei collegiali che,rubacchiando qua e là versi e motivi, avessero formatoun buffonesco pasticcio per qualche rappresentazione dibeneficenza nel teatrino del collegio o in qualche teatroceduto gentilmente per l'occasione.

La questione è che Pietro Mascagni ha, come ormaideve apparir chiaro da quanto è scritto fin qui, un'italia-nità affatto spontanea. Egli non ci può dare un'opera direazione ai nuovi e strani eroi immigrati dall'estero nel-l'arte italiana, in quanto che anche di fronte a questi

8 Per preparazione lenta e paziente non intendo soltanto lafredda ricerca di biblioteca; intendo, e più, quella larghezza di co-noscenze, quella disposizione psicologica a comprendere il passa-to che ha fatto creare a Ettore Berlioz quel suo meraviglioso Ben-venuto Cellini, la cui bellezza, sono convinto, sarebbe rapidamen-te gustata in Italia, di cui sì giusto riflesso si espande in quellabellissima opera obliata, o meglio, mai conosciuta.

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nuovi e strani eroi – Iris, Amica, Ratcliff etc. – egli è ri-masto indifferente, anzi assolutamente italiano; sicchèessi, i nuovi e strani eroi, metamorfosati dalla sua musi-ca, acquistarono in grazia del Mascagni stesso pieno,sebben discutibile, diritto di cittadinanza italiana. Percorreggere un difetto bisogna, anzitutto, averne intera elucida coscienza. E il Mascagni ha tanta poca coscienzadella initalianità di certi suoi personaggi, che, ripeto,aveva fatto come Verdi, aveva chiamato quasi tutti i suoieroi dall'estero, se non addirittura dall'Estremo Oriente.

A Giosue Carducci, per ridestare la morta poesia ita-liana non malata a dir vero di troppo amore per la gran-de poesia d'oltr'alpe, ma se mai distrutta da una specie divizio solitario per furor di se stessa, era bisognata un'in-tera vita di dignitoso dolore, onde finalmente riacquistarpiena coscienza e dell'errore dell'ambiente letterario incui egli viveva, e dei mezzi necessari alla sua nuovagrand'arte italica. Dai Juvenilia alle ultime odi è tuttauna serie ascensionale di tentativi più o meno felici chel'Omero dell'Italia risorta dovette fare per svincolarsidalla retorica e salire alla gran luce paterna di Virgilio edi Dante. Finchè nelle Odi barbare, nel cui titolo appareil solito dignitoso dubbio di non esser riuscito a ricon-quistare la pura italianità per tanti anni cercata, ecco cheGiosuè Carducci, trasfigurato come un profeta, può in-tonare sicuro il nuovo Carme secolare, l'ode Nell'annua-le della fondazione di Roma.

Ora qual'ansia di ritornare alle più schiette sorgiveitaliane, all'italianità non melodrammatica, vana e retori-

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ca, come la letteratura da cui il Carducci seppe liberarsiintegrandola nel suo immenso mondo poetico-storico,ma sacra come la pace bronzea dei grandi miti romani,nobilita l'opera del Mascagni? Egli nè ebbe fin dall'ini-zio del suo cammino, nè ritrovò cammin facendo, l'idea-le d'un arte austeramente italiana, per cui dovesse com-battere le forme ibride, ed aspirasse al ritorno d'unagrandezza italica nella musica forse mai come nella poe-sia e nelle arti plastiche esistita, ma soltanto per un mo-mento desiderata e cercata. Eppure la italianità del Ma-scagni io stesso mi sono adoprato a dimostrare, nonchèa cercare di rendere più tersa e più ammirevole. Ma nelrisolvimento di questa apparente contradizione io trovouna conferma della natura popolaresca del Mascagni.Italiano è egli, anzi italiano più d'ogni altro compositorenostrano in questo momento. Ma la sua è italianità irri-flessa, incosciente, e quindi incapace per la sua inco-scienza stessa di trarre dall'ambiente l'urto necessarioonde trovare sicuramente le grandi vie che riconduconoalle culle della nostra razza e al genio che ad esse pre-siede.

Così al Mascagni era impossibile ridestare quella co-scienza profonda dell'italianità che intraluce nelle formi-dabili creazioni di Dante, di Virgilio, di Carducci. Cosìle Maschere, opera inutilissima, sarebbe indegna ancorad'un'analisi, non potendo la critica abbassarsi alla consi-derazione d'un'opera in cui si sfiorano irriverentemente iproblemi più sacri dell'arte italiana, e quindi della vitadella nostra nazione, se quest'irriverenza stessa in fondo

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in fondo non fosse affatto irritante, ma ingenua e adora-bile come certe inconsideratezze degli animi molto gio-vani, e se in quest'operetta da collegiale non ci fosseroalcuni gioielli d'una purezza assolutamente italiana. Hogià detto, e non è male ripetere, che è pur troppo caratte-ristico del melodramma italiano ottocentesco il non cu-rare affatto l'insieme dell'opera, ma le singole parti, anzisoltanto alcune delle singole parti, e ho già detto comenelle opere più sbagliate e incoerenti del Verdi del Belli-ni del Donizzetti del Rossini del Mercadante la criticadeve fare una scelta rigorosa ma non implacabile deipezzi che, estranei all'insieme, continuano, quasi con unegoismo indifferente, la tradizione del linguaggio musi-cale italiano. Questa scelta va pur fatta nelle Maschere,e noi siamo qui per salvare onestamente dalla condannadello spartito la sinfonia il duetto d'amore e le due danzedel 2° atto, ben esigua quantità date le proporzioni gi-gantesche della partitura, ma di tal qualità, che sarebbeingiustizia estetica trascurare.

Chè, a dir vero, se il Mascagni avesse continuata l'o-pera con lo stesso tono con cui l'aveva incominciata nel-la sinfonia, le Maschere sarebbero riuscite una cosa as-sai bella. Questa sinfonia infatti vuol riprendere e ri-prende lo stile delle sinfonie rossiniane o mozartiane, ocome più piaccia denominarle. Cosa in fondo non diffi-cile a un musicista che molto ami la nostra musica anti-ca. Però quello che dà una grazia simpatica a questa leg-giadra sinfonia, è che i temi i contrappunti che servonoa colmare il vecchio schema della sinfonia da opera buf-

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fa, son tutti profondamente mascagnani.Così è delizioso il modo con cui alla pomposità del

cominciamento rossiniano succedono gli episodi melo-dici e contrappuntistici di contenuto affatto moderno.Bella particolarmente riesce nell'episodio a ottavi ribat-tuti – more rossiniano – l'armonia acidulamente moder-na con cui il disegno s'inalza e s'abbassa. E dolcissimo èil cantabile che intercala per tre volte, una delle qualimelanconicamente in minore, gli scherzosi movimenti acrome. Che però questa sinfonia fosse purtroppo più fat-ta per un gioco piacevole e ben riuscito, che per unaprofonda intenzione di ripristinare le forme classiche se-condo un raffinato metodo il quale avrebbe dovuto delpari essere applicato a tutta l'opera, lo dimostra il fattoche il maestro non ha saputo andar più oltre della sinfo-nia, il resto dell'opera non essendo moderato dalla gra-zia dei modelli che hanno ispirato la sinfonia.

Sono pure intonatissime le due danze: la pavana e lafurlana. La prima è un lento movimento di gavotta a cuia suo tempo si sposano settecentescamente due senti-mentali strofe del tenore. La grazia del ritmo, la delica-tezza della melodia, la semplicità dei mezzi, fanno diquesta danza un altro gioiello che il Mascagni ha donatoalla nostra musica. Quest'arte della danza non barocca,non pervertita da intenzioni letterario-decadenti, maschietta e fresca, è un segreto della musica italiana efrancese e andrebbe conservato con gelosia. Il Mascagniha per la danza semplice, amabile, senza sottintesi sadicio artifizi volgari, una vera disposizione. Si ricordi il leg-

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giadrissimo preludio del 4° atto del Ratcliff descriventela danza nuziale: si ricordi la danza delle guechas sebbe-ne infinitamente inferiori alla danza nuziale del Ratcliff;e si ricordi più di tutto la meravigliosa monferrina del-l'Amica, in cui sembra aleggiare lo spirito ingenuo edelegante di Mozart.

La furlana è un gaio movimento di tarantella più co-mune e meno eletta nel suo svolgimento, ma pur semprepreziosa per l'italianissimo brio che la ritma.

Mi resta a parlare del duetto, sebbene di questa operainteramente fallita bisognerebbe notare ancora il dolcis-simo cantabile di Rosaura e Florindo nel pezzo concer-tato che chiude il 1° atto.

Ma questo cantabile è una vera gemma sciupata dalcontorno volgare e insipiente che la avviluppa quasi in-districabilmente.

Nè la prima parte del duetto in questione è molto aldisopra di questo pezzo concertato, e non ne avrei certoparlato se la melodia che ne forma la 2a parte: – Colmadi fiori incanti – è il mondo, eterna patria – e il prato an-cora talamo – è di liberi amanti – non fosse un brano dimusica dove il Mascagni raggiunge forse la più puraespressione del suo sentimento predominante se non ad-dirittura l'unico: l'amore. Ho già detto che in Mascagnic'è quasi una estrema fioritura dell'erotismo sensuale emelanconico del 700. Questo rifiorimento, che per esse-re spontaneo, non ha a che vedere con la resurrezione ri-flessa della maschera italiana – resurrezione, come giàosservammo, negata alla troppa ingenuità mascagnana –

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trova in questa melodia una espressione insuperabile.Una certa dignità di linea di ritmo di armonizzazione,una specie di puerilità leziosa che ci rende adorabili Flo-rindo e Rosaura, i canori amanti rosei e paffuti che sisbaciucchiano come due colombi, avvicinano questa delMascagni alle più dolci arie del 600 e dell'800. Forse alMascagni non sarà concesso più di cantare con tanta vo-luttuosa castigatezza di modulazioni di melismi e di rit-mo.

Con la castigatezza di questo duetto e con la sempli-cità scherzevole delle danze e della sinfonia contrastanoviolentemente le pesanti polifonie orchestrali e gli esa-gerati strillanti recitativi dell'Amica. Quest'opera era sta-ta attesa rispetto all'Iris, come il Ratcliff rispetto allaCavalleria e, cioè, come qualcosa di definitivo, di affer-mativo, nell'opera del Mascagni, che tutti, anche i criticipiù facili e proclivi alle lodi senza senso comune, senti-vano mancare, quasi direi, d'equilibrio estetico. Ma infi-nitamente inferiore al Ratcliff, l'Amica non aggiungenulla alle cose già dette dal Mascagni, se non se ne ec-cettui lo sforzo di dirle più forte e più pomposamente.Giacchè l'autoretorica dell'Amica differisce dall'autore-torica del Silvano, per esser questa quasi direi un'autore-torica accettata ingenuamente, quella una autoretorica,mi si perdoni il bisticcio, doppia e cioè voluta nasconde-re con lo sfoggio della bravura tecnica. Gli spunti melo-dici dell'Amica sono infatti, come quelli del Silvano, tut-to quel che di trito di vecchio di stanco poteva produrrela fantasia del Mascagni in un momento di aridità. Ma a

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questa specie di retorica iniziale s'aggiunge una secondaretorica nello svolgimento di essi spunti.

Si prenda, ad esempio, nel 2° atto tutto lo squarcio fi-nale dell'opera – l'a solo d'Amica e la sua morte. L'or-chestra rugge una frase di nessun valore. Onde di suonisi modellano su linee d'architettura sonora di nessunanovità. Ma quale sfoggio di colori pesanti, wagneriani!Un cromatismo insopportabile, un'esasperazione conti-nua dei sentimenti, in fondo anch'essi di nessun valoredrammatico, dei personaggi, rendono il continuo am-massarsi delle parti strumentali ridicolo più che brutto.E il ridicolo raggiunge il colmo, quando Amica, checome tutte le ragazze, sian pure alpigiane, non peseràpiù, se ben portante, di 90 chili, precipita giù dalla roc-cia nel torrente con tal fragore di schlaginstrumente, dafar credere che ruzzoli giù per la montagna non una gio-vinetta ma un battaglione intero d'artiglieria e, se piùsembri opportuno essendo la scena sulle Alpi, l'armataricca di cariaggi e d'elefanti, d'Annibal dirò.

Nell'Amica noi non riconosciamo più Mascagni. Lasua cara e fresca sentimentalità s'è convertita in quellaforma di teatral volgarità di sentimento che, come osser-vai nella prima parte di questo lavoro, forma la deliziadella vita intellettuale della plebe e dei piccoli borghesi.Diciamo francamente che nessuna cosa al mondo, sottoquesto aspetto, meritava l'onore di essere spedita all'e-sposizione del cattivo gusto come l'aria: più presso alciel – più lontan dalla terra, aria che fa fremere di ribel-lione alle mamme e ai babbi i buoni fidanzati al cui so-

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spirato matrimonio l'accorgimento pratico dei parentioppone la magrezza dello stipendio guadagnato alle vieferrate.

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RIPROVE E CONCLUSIONI.

L'ORCHESTRATORE.

Non è ancor stata fatta, se non parzialmente e con in-tenti per lo più erronei, una storia dell'orchestrazionedalle origini alla presente fortuna, che, nel concepimen-to della musica europea, ha l'uso dei multipli colori stru-mentali. Ed essa potrebbe farsi, e sarebbe utile, ad unsol patto: di non fare un'astratta storia naturalistica dellevarie tecniche orchestrali quali sembrano essersi svoltenel tempo; sibbene tenendo dinanzi alla coscienza, chesvellere l'atto dell'orchestrare dall'interezza dell'attocreativo torna a mutilare intellettualisticamente l'unitàtotale dell'atto creativo; onde unica storia dell'orchestra-zione potrebbe esser quella, in cui proiettassimo conti-nuamente sulla serie degli elementi astratti da noi am-massati in ordine cronologico le luci delle individualitàor massime or grandi or mediocri. Per spiegarmi megliociterò la possibile storia della versificazione italiana,storia nella quale andrebbe dimostrato – come nel 200-300 il verso italiano ebbe agilità acerba e spontanea per-fezione non più di poi raggiunte, essendo allora imme-

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diata e primitiva davanti alla natura l'anima dei poetigrandi e dei popolari – come col Petrarca e col Boccac-cio incominciano i preludi dell'umanismo e i sintomidello sfiorire del giovanissimo verso italiano mancandonei poeti al Petrarca posteriori «l'insuperabile pregio deipoeti primitivi che deriva dall'aver essi fortemente senti-to e trasmesso ne' versi l'effetto prodotto nella lor fanta-sia dallo spettacolo della natura», ed accadendo, al con-trario, che quei poeti postpetrarcheschi (eccettuato, asuo modo, l'Ariosto), «pigliarono per modello non la na-tura, sibbene i primitivi esemplari, sui quali le osserva-zioni dei filosofi stabilirono certe regole, e gli artefici siobbligarono di seguirle. Così la Poesia, che non è se nonuna facoltà naturale, si ridusse ad un'arte». E in tale sto-ria della versificazione avremmo le riprove – che l'Ario-sto fu l'unico che avesse avuto una musicalità di versooriginale, sebbene ormai ben lontana dalla freschezzadel verso trecentesco, predominando anche in lui «l'imi-tazione dell'imitazione» – e che la retorica trionfò nellamassima parte dei nostri poeti «che fiorivano senza frut-to; si confondevano coi mediocri; scrivevano gli uni pergli altri e non per l'Italia». Finchè preceduta dai solitari(Leopardi) e dai profeti (Foscolo) non nacque l'arte delCarducci e l'arte in gran parte nuova e schietta dei pre-senti poeti: nei quali a riprova della rinascita della poe-sia italiana sta l'originalità assoluta del verso non baroc-co, non stantio, ma vibrante di nuova spontanea armo-nia. La stessa storia andrebbe fatta per l'orchestrazionein termini infinitamente più vasti; chè se la musica ha

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consuetudini e tradizionalità d'espressione in ogni paese,come la poesia, onde si formano singolarità di linguag-gio etnico, riconoscibili dagli esperti a colpo sicuro;essa è però, a differenza della poesia, di sua natura piùuniversale, per lo che non potrebbesi fare una storia del-l'orchestrazione italiana al modo stesso che la si puòfare della versificazione italiana. Senza far qui una trac-cia storica dell'orchestrazione (nella quale dovrebberientrare di necessità la quasi incalcolabile produzionedell'arte corale, nonchè la strumentale dei singoli stru-menti che precedette separò accompagnò lo sviluppodella moderna sinfonistica), osserverò come, al puntocui oggi siamo giunti, l'orchestrazione derivi in ognipaese dalle massime correnti orchestrali tedesche del700-800. Una lunga epoca di preparazione punteggiataper così dire dalle magnifiche conclusioni di Haydn e diMozart, mette foce nella perfetta arte sinfonica beetho-veniana. Beethoven, come psicologicamente rappresentauno dei momenti massimi dell'umanità, il grande ricorsostorico del romanticismo, considerato dal punto di vistadell'orchestrazione, quivi pur rappresenta uno dei culmi-ni della musica. È opinione, più risibile che volgare,oggi, in cui tanto si fraintende il valore estetico dell'im-menso spirito beethoveniano, di tanto l'umanità presenteè lontana da quell'austera forza di sentimento e di pen-siero; è opinione, dico, che Wagner superasse tutto ilpassato nell'arte dell'istrumentare e che oggi anzi accen-ni a superar Wagner istesso il decadente Riccardo II. Enon si comprende come, rispetto alla perfezione di Bee-

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thoven, si commetta lo stesso errore grossolano che se siaffermasse il Petrarca il Tasso l'Ariosto superar nell'artedel verso la perfezione naturale di Dante. Poichè, inrealtà, a chi conscio dei valori morali d'un'epoca non silasci abbagliare dalle funambolesche bravure tecnichedegli artisti, che in tale valutazione critica riescono mi-nori o addirittura distrutti, la sinfonistica dei postbeetho-veniani non può non apparire quale una continua deca-denza formale, per essere appunto generata da una sem-pre crescente degenerazione e corruzione del perfettocontenuto romantico che, a parer mio, raggiunse nell'o-pera beethoveniana la sua plenitudine espressiva. Orquesta degenerazione di contenuto, è anche, sotto uncerto aspetto, discendenza formale e in questa discen-denza e derivazione noi possiamo cogliere diverse cor-renti, le quali più o meno si ricollegano all'orchestricabeethoveniana. Sembra quasi l'arte strumentale di Bee-thoven come un frutto che giunto a maturità s'apra la-sciando irraggiare intorno a sé la fecondità innumerevo-le del seme. La principale corrente che nacque dallanona sinfonia dalla Missa solemnis dalla 5a dalla 3a dalleultime sonate dagli ultimi quartetti e dal resto dellecomposizioni beethoveniane, è la corrente wagneriana.Potente e violento artista, Wagner trasformò più di tutti icomponenti la famiglia dei postbeethoveniani, il patri-monio lasciato dal padre. Ma come non era nel contenu-to di Wagner la perfetta ragion storica d'essere e di in-carnarsi nella forma più sana, che era invece in Beetho-

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ven, Wagner invece superò tutti nell'opera di corruzio-ne9. Al modo stesso che egli non seppe dire agli uominila serena parola d'un dolore moralmente sublime, mameglio non seppe fare che spingere gli agitati romanticifratelli che lo circondavano all'apostolico rifugio d'unmisticismo in piena contradizione con le aspirazioni piùpure dello spirito che anima la pienezza della storia mo-derna; egli neppur potè trattenersi dal cadere nell'errorein cui precipitano tutti coloro, che lavorano su di uncontenuto contradittorio: l'esagerazione, la tronfiezza, la«furibonda enfase sonora». Onde oggi la molta anzi or-

9 Questo mio giudizio storico-morale su Wagner non va asso-lutamente confuso col giudizio che Francesco de Sanctis pronun-ciò su Wagner come «corruttore della musica». Il de Sanctis (econ lui, per altre vie, lo Hanslick [Nell'originale " Hanslik". Notaper l'edizione elettronica Manuzio]) intendeva la musica in astrat-to, io intendo invece la musica postbeethoveniana. I due criticisuccitati non seppero porre sulle sue vere basi il problema esteti-co dell'opera, con rigidità troppo intellettualistica scavando unsolco incolmabile tra la musica e la poesia. In realtà, per ora,quella forma espressiva che è l'opera non è stata attuata così pie-namente[Nell'originale "pienameute". [Nota per l'edizione elettro-nica Manuzio] come da Riccardo Wagner, che non ha unito, cometroppo comunemente si crede e si dice, due arti viventi a sè, sib-bene ha espresso la sua intuizione centrale in un linguaggio cheper riprodurla non frammentariamente ed ambiguamente, ha biso-gno di suoni articolati, di suoni armonizzati e di gesti. Dire cheWagner ha riuniti (e non potrebbe trattarsi che di una sovrapposi-zione e quindi spesso di un duplicato) e il linguaggio poetico e illinguaggio musicale, è fare lo stesso errore che dire Eschilo averriunito la poesia e la mimica (la danza).

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mai incalcolabile oziosità e falsità dei ripieghi e dei far-machi con cui tenta medicarsi l'anima moderna dalla«corrottissima decrepitezza della civiltà», trova nelwagnerismo il sistema migliore d'orchestrazione che cisia10. E Riccardo Strauss non prova fatica a immergerenelle forme mistiche del politemismo wagneriano il sa-dico contenuto d'una Salomè e d'una Ellettra; nè Clau-dio Debussy a immergere in quelle forme, modificate dauno spasmodico e impotente bisogno d'originalità, la«fatuità» del misticismo maeterlinckiano. Ma la frantu-mazione della tecnica beethoveniana, accanto alla cor-rente wagneriana, produsse, minore e men facile ad es-sere seguita, anche perchè più sincera e meno consonaal gusto di frenetica violenza che impera nell'arte mo-derna, un'altra corrente: la corrente schumanniana. Nonmeno ricca di elementi di degenerazione e di decadenza,l'arte dello Schumann dalla severa virilità beethovenianasi allontana non allo stesso modo con cui vi si allontanal'arte wagneriana. Se questa trova lo specifico per laguarigione a un'ansia da nevrastenici nel misticismo,quella trova non uno specifico, sibbene, e più natural-mente, un'accettazione ironica sentimentale di tale ansianell'umorismo. Il movente è lo stesso: l'insofferenza d'u-na vita resa insopportabile da una mancanza di vera mo-ralità che ne razionalizzi eroicamente le feroci contor-sioni contradittorie. Ma Wagner ci insegna misticamente

10 E non solo d'orchestrazione. Il wagnerismo ha invaso la pit-tura, la poesia, la scultura, nonchè l'architettura.

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che bisogna dissolversi nella contemplazione del miste-ro, lo Schumann, in fondo in fondo, si comporta dinanzialla «corrottissima decrepitezza» della sua povera vitacome, certo con maggiore ingegno, Heine. In che si di-stinguono queste due correnti tecniche dell'orchestrica emoderna? Non mi è in animo sprecare spazio e tempoper un'analisi che riuscirebbe poi incompleta, occorren-do a tale genere di ricerche e di confronti volumi interi epreparazioni laboriose. Mi limiterò a suggerire a chi nonabbia mai pensato un simile confronto, come la tecnicawagneriana differisca dalla tecnica schumanniana nel-l'essere – la prima frutto d'un rigido complicato sistemae quindi nel resultato poco elastica e monotona; – la se-conda molto più libera snella e leggiera. Nella primaagiscono come personaggi, o meglio come simboli glistrumenti; nella seconda gli strumenti non hanno valoresolitario nè tanto meno simbolico, ma sono, per dir così,senza individualità contribuendo quasi con ufficio dicoro a sottolineare a colorire a registrare come i timbrid'un organo lo svolgimento delle idee. Quella di Schu-mann sembra apparentemente un'orchestrazione piùastratta e quella di Wagner più concreta, ma in realtà leparti vanno invertite. Wagner, laddove l'ispirazione nonlo trascini e non gli gonfi – non so dir meglio – le formeche come vuoti canali egli scava fabbricandole sempresullo stesso schema, è un raziocinatore, un critico filolo-go che ha imposte alla musica drammatica le regole sco-perte da' glottologi nell'organismo delle lingue. LoSchumann è invece più immediato più intimo più casto.

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Wagner, ripeto, ha violentata, innestandovi anche la tra-dizione bachiana, la nitida orchestrazione beethovenia-na. Lo Schumann è rimasto più vicino e più fedele altipo puro di quell'orchestrazione. Si confrontino infattile partiture d'una sinfonia di Beethoven e di Schumanncon quelle degli atti d'uno spartito wagneriano dalRheingold in giù: si vedrà chiaramente che ciò che diffe-renzia Beethoven da Wagner differenzia quasi allo stes-so modo11 Schumann da Wagner. Una conferma storicadella maggior purezza di tradizioni orchestrali nelloSchumann piuttosto che in Wagner la troviamo nel bee-thovenismo per lo più retorico, ma significantissimo alcaso nostro, dell'epigono di Beethoven e anche di Schu-mann, il Brahms. Come molti compositori moderni, ec-cettuato lo Strauss despoticamente dominato da Wagner– Claude Debussy, natura più latinamente armoniosa, ri-sente l'influenza e wagneriana e schumanniana, questaquasi come reattivo a quella – Pietro Mascagni portanella sua tecnica sinfonica le traccie della nova rivolu-zionaria tradizione wagneriana e della più classica tradi-zione schumanniana-beethoveniana12. Nonostante che

11 Dicendo così potrebbe saltare in mente a qualche fanaticoquanto cieco wagneriano che sta appunto in questo allo stessomodo l'inferiorità di Schumann a Wagner rispetto a Beethoven.Ma ciò vorrebbe dire che il fanatico wagneriano non avrebbe maicompresa l'originalità indiscutibile di Schumann per nulla inferio-re a quella di Wagner. Onde l'obbiezione non meriterebbe d'esserdiscussa.

12 L'influenza dello Schumann nell'orchestrazione moderna

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pur su di lui Wagner estenda la sua «cappa di piombo»,come è stato giustamente detto, del Wagner egli potevaassimilare timbri, impasti, e ricette d'effetti, ma non po-teva per sua natura italianissima, prender ciò che formal'essenza del wagnerismo, il sistema glottologico deileitmotive. Onde, come già dicemmo per il simbolismo,per il romanticismo, per il verismo del Mascagni, ancheil suo stilistico wagnerismo è «a orecchio» e spesso siriduce una verniciatura che potrebbe esser scrostata sen-za danno di sulla musica, laddove certo non ne abbia in-taccata la vita stessa, riducendola a mero sforzo retorico,come accade per l'Amica. Al contrario era facilissimo alMascagni rivivere la tradizione classica – d'una orche-strazione cioè di chiara e semplice struttura – tramanda-ta attraverso Haydn Mozart Beethoven Schumann Ber-lioz Brahms fino al recente Giuseppe Verdi. E infattinon è il Mascagni un figlio somigliantissimo del nostrobuon Verdi che nell'Otello e nel Falstaff raggiunge lastessa squisita parsimonia e modernità di mezzi estraneial sistema wagneriano, che si ammira nell'istrumenta-zione delicatissima dello Schumann? E non è alla findelle fini, questo tipo classico d'orchestrazione estraneoal tipo wagneriano, di origine, se non di perfezionamen-to, latina? La perspicua chiarezza dell'orchestrica bee-thoveniana non si avvicina più alla limpidità mediterra-

non va tanto derivata dalle vere e proprie opere sinfoniche, sibbe-ne, e moltissimo, anche nella sinfonicissima musica per pianofor-te.

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nea13, che al goticismo misterioso dell'arte nordica? Edecco che anche sotto il punto di vista della orchestrazio-ne, veniamo ad avere una conferma di quanto dicemmosulla italianità incosciente di Pietro Mascagni. Italiana-mente egli orchestra le sue fresche danze e i preludi egli intermezzi (perfetta è la strumentazione della Mon-ferrina nell'Amica, della Sinfonia delle Maschere etc.);italianamente egli colora la base su cui si svolge il fre-gio nitidissimo della sua bella melodia italiana; ma lasua coscienza critica – e meglio sarebbe dire estetica,che gli artisti non hanno coscienza critica che a un gradoquasi direi pragmatistico – non è mai giunta a rappre-sentarsi con chiarezza i cammini che si dovevano segui-re per creare, se non di più, almeno un'opera come l'O-tello del Verdi. Il Mascagni così non ha saputo espunge-re dalla sua orchestrica la retorica wagneriana, inconci-liabile nemica alla semplicità virgiliana della nostra piùgrande arte. Non ha saputo riattaccarsi con vigore all'u-nica tradizione a cui spetti il diritto di generare la tecni-

13 È bene, ad evitar malintesi, osservare come il Mascagni perla sua inferiore italianità, anzi bassa meridionalità, di quanto èlontano dal pensiero wagneriano, di tanto, e forse più, è lontanodall'altezza solitaria del pensoso dolore beethoveniano. Il Masca-gni si trova sulla direzione orchestrale classica, che mette capo aBeethoven, senza aver coscienza di questa sublime vicinanza.Così la perfetta armonia della concezione beethoveniana sta all'e-quilibrio mascagnano, sebbene questo inquinato da elementi rovi-nosi, come la perfetta latina simmetria della Commedia dantesca,sta alla classica stabilità dell'Orlando Furioso. Con la differenza –che il Mascagni non è davvero l'Ariosto.

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ca strumentale della nostra musica – la tradizione bee-thoveniana-schumanniana. C'è in lui spontaneo questobisogno14, ma è un bisogno spesso non compreso, quindimal soddisfatto, anzi addirittura calpestato per gettarsiin una polifonia tronfia e vana, mancando in essa la suaragion prima, un pensiero o se non altro una pensosità,un pensiero latente. Le ramificazioni aggrovigliate dellosviluppo tematico nel Tristano e Isotta sono, per dircosì, tutte intrecciate alla trama complessissima d'unpensiero che ne vivifica l'astruso labirinto. Ma se i temidel sole e dell'aurora si ripercuotono com'echi sordi perla partitura dell'Iris, nessuno dubiterà che quelle ripeti-zioni wagneriane non sieno un artificio esteriore, tutt'alpiù pittorico-descrittivo. Mentre quando il Mascagnisvolge una fresca melodia, quasi con le semplici arti in-nocenti di un Mozart – non c'inganni l'accresciuta tavo-lozza orchestrale, che il Mascagni ha riempito di colorifisicamente più abbaglianti di quelli mozartiani – allorasolo noi sentiamo che la sua tecnica orchestrale raggiun-ge la sua giusta misura15.

14 Esempî lampanti di derivazione schumanniana troviamo inmolte parti dell'opera mascagnana, e non solo nel tecnicismo, mapur nel contenuto. Si ricordi il movimento della descrizione divita londinese nel 1° atto del Ratcliff, così somigliante al n. 13delle Davidsbündlertänze.

15 Nascerebbe in me, discorrendo questi argomenti, di specifi-care come la pura tradizione, sulla cui via si trovano Haydn Mo-zart Beethoven Berlioz Schumann, debba da noi altri italiani esserripresa e non come servile infeconda imitazione. Ma questo libroè uno studio critico, non una raccolta di programmi. Certo che

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L'ARMONIZZATORE.

Se nel disegno del precedente capitolo sostituissimoal vocabolo orchestrazione il vocabolo armonizzazione,fatte le debite modificazioni noi verremmo ad avere ilcapitolo che ora debbo scrivere. Infatti, dato che nellaconsiderazione astratta degli elementi tecnici d'un'arte,in fondo in fondo, ciò che noi contempliamo, è il valoreestetico, la personalità, il contenuto lirico, etc – di unautore o della serie degli autori; studiando l'armonizza-zione p. es. di Mozart, anche il più arido didatta d'armo-nia non saprebbe scinderla dal valore espressivo cheessa ha nella sua concreta coesistenza estetica con ilcontenuto. Onde ciò che dissi intorno ad una possibile eper ora mancante storia della orchestrazione, potrebberipetersi per una altrettanto possibile che mancante sto-ria dell'armonia. Non che storie di tale mezzo tecnicodell'espressione musicale – chiamato, assai ingiustamen-

servirà a illuminare anche lo svolgimento delle mie tesi critichesul Mascagni il dire che, allontanandoci da Wagner, il nostro rav-vicinamento a Beethoven dovrebb'essere, per dir così, bene auspi-cato da una riverente preghiera al genio tutelare di Monteverdi.Ma tutto sta che – per uscire d'immagini – il preteso ritorno aMonteverdi e ai fraterni musicisti del 500-600-700 non sia... wag-nerizzamento delle loro forme e contenuti – come, a un dipresso,per Rameau e Monteverdi, accade nel movimento francese mo-derno, col quale noi coincidiamo per quel che riguarda il deside-rio di reazione al wagnerismo, non per quel che riguarda l'attua-zione di tale bisogno rivoluzionario.

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te scienza, e confusa così con l'acustica colla quale nonha pur minimamente a che fare – non manchino. Anchela musica ha i suoi glottologi. Ma essi – gli armonisti –sono più vicini ai catalogatori di voci per vocabolari,che a veri e propri glottologi consci che la trasformazio-ne del segno non va staccata dalla trasformazione delcontenuto.

Come la tecnica strumentale, la tecnica armonica hadunque una storia, che a rigore dovrebbe prendere i suoiinizi... dal canto del celeberrimo primo abitatore del pa-radiso terrestre, ammesso ch'egli cantasse. Ma noi ci ri-faremo dai tempi molto più vicini e osserveremo come,facendo per comodo nostro incominciare il cromatismo,e cioè quell'astratta direzione armonica che oggi sembrapredominare – predominio che potrebbesi distruggere,distruggendo la convenzionalità dell'astrazione – dalMonteverdi e dal Frescobaldi; questo cromatismo è oggigiunto al suo massimo sviluppo, anzi alla sua corruzio-ne. Infatti il cromatismo passato attraverso quei puntid'arrivo che sono le opere di un Bach di un Haydn e diun Mozart giunse al suo più perfetto equilibrio col suopresunto nemico il diatonismo16 in Beethoven. Al solito

16 Cromatismo e diatonismo sono, a chi non sappia di musica,qualcosa come una rete a maglie più larghe – il diatonismo – euna rete a maglie più strette – il cromatismo, delle quali reti nonsolo la larghezza totale è la stessa – scala da do a do – ma anchela larghezza delle maglie maggiori è equivalente a un certo nume-ro delle minori – do-re = do, re bemolle, re naturale. Per uscir dimetafora chi potrebbe distinguere rigidamente ciò che differenzia

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dopo Beethoven noi troviamo il consueto fenomeno difrantumazione in generale e di biforcazione in particola-re: e Riccardo Wagner crea una scuola armonica a sèdella quale oggi sono seguaci volente lo Strauss, nolen-te, ma impotente a una ribellione non ispirata agli stessiprincipi che reggono l'odiato dispotismo, il Debussy; elo Schumann crea un'altra scuola armonica infinitamen-te più prossima all'armonia beethoveniana. A questascuola si avvicinano, incoscienti e per la forza stessadelle cose, gli italiani, nonchè molti francesi.

Tra i contemporanei Pietro Mascagni come armoniz-zatore appare quasi un diatonico. Infatti a differenza diStrauss e di Debussy – io cito sempre questi due compo-sitori quali i più significativi della presente epoca di de-cadenza musicale – i quali hanno spinto il cromatismo,l'uno fino all'assurdo, l'altro alla perdita quasi completa(completa non è possibile umanamente) del senso tona-le; unica grande radice dell'armonia come intuizioneestetica contrapposta all'anarchico trastullarsi infecondocon i mezzi tecnici d'un'arte, divertimento prediletto de-

l'uso della scala cromatica in Beethoven e in Wagner, se non unpiù o un meno che si rivela a un'indagine più accurata, assoluta-mente scolastico? E in fondo in fondo il famoso diatonismo peresser tutto imbastito di necessità sulla scala cromatica, non finisceper esser assorbito nel cromatismo? E ciò che sembra rimanernedel tutto fuori, non finisce per rivelarsi [Nell'originale"ririvelarsi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio] come odifferenza di gusto di tutta un'epoca – e quindi diversità di conte-nuto storico-sentimentale – o, addirittura, come retorica?

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gli alessandrini e di tutti i decadenti in generale; il Ma-scagni è ancora a quello stato di equilibrio quasi perfettodel cromatismo e del diatonismo, il quale equilibrio infondo non significa altro che una nitidezza, dirò così,omerica dell'intuizione musicale. Occorre però, comegià abbiam fatto per la orchestrazione, distinguere nel-l'armonizzazione mascagnana una traccia d'elementispuri derivati in essa dall'eterna dominazione wagneria-na; traccia che la sua già largamente dimostrata inco-scienza estetica o critica, come la si voglia dire, ha im-pedito di eliminare dal suo bel limpido linguaggio italia-no che sarebbe da tale purificazione risultato più terso econsono al contenuto.

Infatti, per prendere un esempio, chiunque paragonil'armonia della Monferrina dell'Amica; armonia nellasua chiarezza adamantina non inferiore al nitidissimoconfluire di attrazioni tonali attraverso spontanee rettili-nee divergenze di accordi diatonici e di non meno spon-tanee leggiadrissime curve di cromatismi sottili e squisi-tamente condotti – proprietà eccellente dello stile armo-nico mozartiano; all'armonia tronfia pesante e confusadell'intermezzo sinfonico che divide il primo atto dal se-condo nella stessa opera, vedrà a sufficienza quanto siaaliena la vera natura musicale del Mascagni dall'obliquocromatismo moderno. A parte l'esagerazione wagnerianadel commento sproporzionato all'azione; armonicamentetale intermezzo, con le sue goffe e banali successioni diterze maggiori e quinte aumentate, e l'ansante incalzaredi faticose polifonie, che invano tentano placarsi in

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qualche episodio di enfatico misticismo armonico, nonsembra neppur scritto dall'autore dell'intermezzo dellaCavalleria del Fritz del Ratcliff e delle danze nelle Ma-schere e della massima parte dell'Iris, l'opera che anchesotto questo aspetto resta al disopra di tutto ciò che fino-ra ha scritto Mascagni. Infatti ciò che armonicamenteera in germe nella Cavalleria e nell'Amico Fritz17 di ori-ginalmente continuante alcune delle più schiette tradi-zioni della semplicità e chiarezza armonica italiana, nel-l'Iris prende una forma definitiva e, a suo modo, possen-te. Certo l'armonizzazione totale dell'Iris è inquinata dalwagnerismo degli episodi dei fiori, dell'aurora, del solenell'inno al sole e quindi di gran parte dell'ultim'atto,sebbene il wagnerismo dell'Iris sia infinitamente piùsimpatico di quello dell'Amica, penetrando in esso quasiil calore della fantasia alacre che riscalda giocondamen-te tutto lo spartito. Ma l'armonia dell'episodio delle la-vandare, del teatrino, di quasi tutto il second'atto in cuirifulge la squisitezza armonica dell'aria della piovra e,nell'ultim'atto, del brano dei cenciaioli, è preziosa quan-to la italianamente elegante armonia dell'Otello verdia-no, alla quale si ricollegano le correnti non wagnerianederivate da Beethoven, che anche armonicamente è,come dissi già, più mediterraneo che nordico e in parti-colare, la corrente schumanniana, lo Schumann essendocerto uno degli armonizzatori più sapienti e eleganti che

17 L'Amico Fritz si collega anche – ed è ciò altra conferma allasua essenza armonica – alla musica popolare slava.

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abbia mai avuto la musica.Ma per un altro aspetto l'armonia dell'Iris è importan-

te. Ho già detto che nel Mascagni – e dovrei dire: nellaparte vitale dell'opera mascagnana – trionfa un latinoequilibrio tra il diatonismo e il cromatismo. Se non chese il cromatismo per sua natura è, per così dire, immuta-bile, non potendo mai modificarsi la scala cromatica, es-sendo ormai quasi direi impietrita nella tastiera deglistrumenti, il diatonismo può continuamente cangiare,potendosi a piacere – certo non ad arbitrio – mutare nel-la serie cromatica dei semitoni la posizione dei toni for-manti una scala diatonica. Così se le vecchie scale diato-niche erano: do, re, mi, fa, sol, la, si, e do, re, mi b, fa,sol, la b, si, è naturale che, le scale diatoniche oggi incui l'orecchio è stato reso più sottile ed acuto dal croma-tismo, si moltiplichino in un modo prima insospettato.In altre parole dal caotico oceano del cromatismo frene-tico della musica modernissima, sta per emergere unnuovo diatonismo, non limitato a due scale solamente,come avvenne da Bach a Wagner, ma aperto a innume-revoli novissime combinazioni. Il senso tonale trasfor-mato se non perfezionato dovrà condurre di nuovo lamusica a un ordine, complesso sì, ma limpido e benequilibrato, contro al quale sembrano adoprarsi pazze-scamente le oziose ricerche armoniche di tanta musicamodernissima. Se la vecchia determinazione «melodia»può ancora avere un significato, non contrapposto insul-samente ad armonia, ma da questa rampollante, è preci-samente in relazione col nuovo diatonismo, come del re-

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sto anche prima era in relazione con l'antico diatonismo;e cioè melodia vorrà dire linea sonora passante per i toni(meglio i gradi) dei nuovi modi diatonici emergenti daldisfacimento del cromatismo post-wagneriano.

Ora nel Mascagni il diatonismo della Cavalleria, delFritz e del Ratcliff appartiene al vecchio tipo bachiano-wagneriano, mentre il diatonismo dell'Iris, nella massi-ma parte almeno, appartiene al novissimo o se non altrolo presente, lo preannunzia (3° atto dell'Iris; canzone delcenciaiuolo e qua e là per tutta l'opera). Certo in Masca-gni neppur di questo bisogno è coscienza esplicita, ma,al solito, quasi direi un sospetto, un desiderio confuso.Ma questo fatto è veramente – a chi lo sappia scoprire einterpretare – una delle maggiori riprove dell'italianitàsebbene bastarda, del Mascagni. Che sempre è statoquesto vecchio nostro genio latino che ha precorso tutti,se non nella risoluzione piena, almeno nell'ingenua im-postatura dei più difficili problemi estetici (e non esteti-ci!). Non ostante la mancanza perpetua di libertà, checome una triste ombra ancora del passato si proietta sulpopolo italiano, è sempre questo da cui partono i balenidelle nuove aurore nell'ansietà delle tenebre invadenti. Ilnuovo diatonismo18, l'ordine nel caos cromatico, la salda

18 In questo modo, e cioè col vecchio diatonismo, il ritorno alquale è il più antipatico anacronismo linguistico di cui si sia ser-vita la retorica umana per rattristare i veri artisti, si spiega la ri-bellione alla melodia da parte delle scuole musicali più avanzated'oggidì. In un certo senso, sotto il punto di vista armonico, ognimelodia dev'essere la scoperta d'una nuova combinazione tonale,

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base dell'intuizione musicale, il rinnovamento del sensotonale, è forse uno dei problemi dalla cui risoluzionemaggiormente dipendono le sorti della musica europea.Chè, in verità, troppo sterili ed oziosi sono i tentativi de-gli impressionisti musicali francesi, i quali oltre al par-tirsi da un errore estetico; oltre al non superare affatto ilwagnerismo delle cui formule descrittive l'impressioni-smo è l'estrema emanazione; oltre al trasformare in mu-sica il contenuto morale della poesia e della pittura deicosì detti decadenti, e quindi al non rinnovare affatto ilcontenuto storico della loro arte, secondo quella perpe-tua legge per cui i musicisti si contentano sempre dei re-sti del banchetto già consumato dai despoti della culturaeuropea – qui in Italia abbiamo il d'Annunzio, che co-mincia tardivamente a riempire di sè anche la musica – ;non raggiungono miglior risultato e più concreto deldare per intuizione artistica ciò che non è che inconclu-dente trastullo di combinazioni armoniche, a cui venga

al modo stesso che ogni nuova intuizione poetica sarà di necessitàla creazione d'una formula grammaticale nuova e impreveduta.Niente è più inutile d'un motivo di Meyerbeer, niente più inutiledel sonetto d'un prete di provincia imitatore dei classici; sebbenein Meyerbeer ci sia una scaltrezza d'arrivista che nel prete provin-ciale difetta, il paragone è calzantissimo. Certo la nausea dellamelodia che concede comoda al vulgo i flosci fianchi può degene-rare in libidine impotente di novità; ma se i limiti della melodicitàondeggiano tra le melodie d'un Petrella e La Mer di Claudio De-bussy, ossia tra l'affermazione vuota e la negazione vuota, non hada inferirne che non sia possibile anche criticamente dire qualidovranno essere le forme concrete e sincere della melodia.]

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imposto arbitrariamente un significato descrittivo. Ondenon è senza un certo orgoglio sereno che io proclamoapparire in Mascagni i segni d'una rinascita, il presenti-mento d'una nuova melodicità latina e, cioè, di un nuovodiatonismo. Se non che questo pregio, che una volta dipiù si può e si deve concedere agli Italiani, e cioè quellodi precorrere per certa nazionale spontaneità del nostrogenio, deve appunto procurarci un orgoglio sereno, nonfanatico e cieco: infatti io ripeterò le parole del Foscolo:«o Italiani! qual popolo più di noi può lodarsi dei bene-fizi della natura? ma chi più di noi (nè dissimulerò ciòche sembrami vero, quando l'occasione mi comanda dipalesarlo) chi più di noi trascura e profonde quei benefi-zi? A che vi querelate se i germi dell'italiano sapere sonocoltivati dagli stranieri che ve li usurpano?». E, a termi-nare, citerò le parole d'un altro grande italiano, Bertran-do Spaventa, le quali, per essere scritte sulle condizionid'un'attività che gl'italiani ebbero in comune con i tede-schi – la filosofia – ; le sorti della filosofia italiana e del-la tedesca essendo intrecciate in modo analogo alle sortidella musica italiana e della tedesca; possono esser cita-te tanto per la filosofia che per la musica. «Che se noi,egli scrive, vogliamo ancora e possiamo avere un privi-legio, questo è quello di precorrere ed effettuare un piùlargo indirizzo... Ma ciò a un patto; e questo è di non ri-gettare tutto quel che si è fatto da un gran pezzo fuorid'Italia o meglio che in Italia, ma studiarlo, comprender-lo, appropriarcelo; e solo così, entrati in più largo oriz-zonte, conosciuto meglio noi medesimi e ritemprata la

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nostra vita nella perpetua corrente della vita universale,fare un gran passo innanzi non nel vuoto, ma con la pie-na coscienza delle nostre forze, del nostro còmpito, delcòmpito comune». Parole che fanno fremere come unasinfonia di Beethoven.

CONCLUSIONE.

Chi m'ha potuto seguire fin qui – e dico così, giacchèspiriti altissimi a comprendere il valore della mia di-scussione dal punto di vista teorico si trovano per certoora tra i così detti critici letterari, ma, almeno qui in Ita-lia detti spiriti sono, ohimè, quasi sempre sprovvisti disia pur rudimentale educazione del gusto musicale; e,per converso, gli spiriti educati alla musica non sono,ohimè, capaci di comprendere una seria argomentazionecritica; chi, dunque, ha potuto seguirmi fin qui, avrà no-tato come la mia affermazione dell'arte mascagnana èper così dire tutta intessuta di negazioni. E realmente, ri-peto per riepilogare i punti principali del mio studio, ilMascagni rispetto ai grandi musicisti del passato appareun ben piccolo compositore d'opere popolaresche. Masta appunto in questa sua ingenuità di popolo la ragioneestetica per cui io lo difendo e lo oso contrapporre amusicisti di contenuto più dignitoso – in apparenza – delsuo. Io so già lo scandalo che sto per suscitare con l'au-dacia della mia tesi a doppio taglio; all'estero essa parrà

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un sacrilegio; in Italia una bestemmia, se non addiritturaun'offesa al popolo italiano, dimostrando piccolo nonsolo il contenuto dell'opera mascagnana, ma ancora ilcontenuto dell'opera tutta ottocentesca italiana. Insom-ma il mio povero libro non piacerà nè a Dio, nè al dia-volo. E s'aggiunga, ribatto ancora, l'impossibilità che lamaggior parte dei miei lettori ha di comprendermi inte-ramente, i colti non essendo severamente musicisti, imusicisti non essendo severamente colti.

Che devo farci? Scrivere un altro libro sopra Debussye Strauss, con il qual libro certo completerei ed esaurireila mia critica sopra la musica contemporanea? Ciò potròanche farlo. Per ora basti a quei pochissimi che m'abbia-no letto con «eros», il vedere in iscorcio quello che po-trebbe essere l'ossatura del libro futuro, di cui, in fondo,questo sul Mascagni non sarebbe che un libro comple-mentare».

L'arte modernissima a cominciare dal Wagner per fi-nire al d'Annunzio ha in sè un elemento estra estetico,che io chiamerei una specie di stimolo alla vita, o unaspecie di nepente per dimenticarla. Tale arte è general-mente fatta da e per uomini deboli, stanchi, irrimedia-bilmente sciupati. I loro spiriti invece di volere dall'arti-sta una visione e una contemplazione, esigono quasiun'eccitazione, un'ubbriacatura, sia pure d'indole assolu-tamente cerebrale.

Gli artisti che soddisfano questa innumerevole fami-glia di debilitati – si pensi ai pubblici decadenti dei mas-simi teatri europei – si possono così dividere in due

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grandi categorie: spiriti idillici – un pò nel senso de-sanctissiano19 – che vanno cercando una gocciolina difreschezza e d'ingenuità analoga alla pastoralità del se-cento, e colorando tale nostalgica freschezza della loromelanconia spesso ironica, ad es: tra gli italiani, GuidoGozzano, tra gli stranieri, Claude Debussy. Oppure, spi-riti dionisiaci – un pò nel senso nietzschano – che cerca-no nascondere la rovina su cui danzano al ritmo dellaloro povera follia con un rabbioso furore di baccanale.Esemplare di questa seconda categoria può prendersi laparte falsa dell'opera d'annunziana e tutta l'opera delloStrauss. Ecco perchè al sereno spettatore moderno deifenomeni estetici europei balenano spesso i più meravi-gliosi errori contradittori di giudizio che si possano so-gnare. C'è chi vede in Debussy un prodigioso rifiori-mento d'ingenuità e di semplicità intima, e non s'accor-ge, malato del male comune, quanto suoni falsa e spa-smodica tale presunta freschezza e semplicità. Altri in-vece scorgerà in Debussy un sorriso ambiguo di femmi-na logorata dal vizio, e pronuncia a suo modo un giudi-zio giustissimo. Di Riccardo Strauss c'è chi giura trattar-si di una vitalità superba, multiforme, superiore anchealla irruente vitalità wagneriana – anche questo giudizioè parzialmente vero. Ma ci sarà altri che invece troverànello Strauss un ammasso vuoto e frigido sebbene assor-dante di polifonie confuse di armonie pazzesche.

La ragione di questa parallela duplicità di giudizii sta

19 V. lo studio sul Leopardi e sul Petrarca.

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nel fatto che ho sopradetto. L'arte di costoro è più un ec-citante o un calmante che una vera contemplazione osintesi estetica delle proprie emozioni, anzi, come tuttigli stimolanti è composta per lo più ad artificio, è l'inna-turalezza di ciò che serve a continuare e a intensificareuno stato patologico.

Non rechi quindi troppo stupore a quei pochi che sa-ranno in grado di capirmi senza bigottismi e senza di-spregi fuor di luogo, se io oso parlare di un Pietro Ma-scagni e più, di studiarlo con amore, rilevandone inmezzo alle difettosità, alle sciatterie e alle contamina-zioni estranee, i brani di buona e bella naturalezza evera ingenuità. Se nelle opere dei reputati maggiori c'èoggi meno che la vita, nel nostro buon Mascagni, c'è ve-ramente della vita quell'inimitabile baleno, quel divinorisopianto che ci trasporta nelle opere di un Mozart e diun Beethoven. È una vita rudimentale, popolarescacome dirsi, una vita che ci auguriamo sia presto superataed obliata per ben altri canti altrettanto schietti e sincerima profondi e pesanti di vera altissima conoscenza uma-na. Ma mi sia permesso affermare, ad onta dell'apparen-za paradossale di ciò che affermo, che, presentemente,chi sia davvero puro, e non per moda nauseato dalle ma-laticcie raffinatezze di Debussy e dagli spasimi sadisticidi Riccardo Strauss; se non si rassegni tristemente achiudersi nel passato, ma voglia godere d'un poco di vitasempre viva, sia pure inferiormente italiana; non abbiaaltro scampo che dissetarsi alla vena zampillante d'unabella melodia di Pietro Mascagni.

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OPERE DI P. MASCAGNI.

CAVALLERIA RUSTICANA melodramma in un atto di G.Targioni-Tozzetti e G. Menasci (ediz. Sonzogno).

Roma. Teatro Costanzi. 17 Maggio 1890.

L'AMICO FRITZ commedia lirica in tre atti di P. Suar-don (ediz. Sonzogno).

Roma. Teatro Costanzi. 31 ottobre 1891.

I RANTZAU opera in quattro atti di G. Targioni-Tozzet-ti e G. Menasci (ediz. Sonzogno).

Firenze. Teatro della Pergola. 11 novembre 1892.

GUGLIELMO RATCLIFF tragedia in quattro atti di EnricoHeine, traduzione di A. Maffei (ediz. Sonzogno).

Milano. Teatro alla Scala. 16 febbraio 1895.

SILVANO dramma marinaresco in un atto di G. Targio-ni-Tozzetti. (ediz. Sonzogno).

Milano. Teatro alla Scala. 25 Marzo 1895.

ZANETTO (Le Passant di F. Coppée) riduzione di G.Targioni-Tozzetti e G. Menasci (1 atto) (ediz. Sonzo-gno).

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Pesaro. Liceo Rossini. 2 Marzo 1896.

A GIACOMO LEOPARDI poema musicale per orchestra evoce di soprano, composto in occasione delle feste per ilprimo centenario dalla nascita del Poeta. Eseguito la pri-ma volta in Recanati il 29 Giugno 1908 nel teatro Per-siani dall'Orchestra del Liceo Musicale Rossini di Pesa-ro (ediz. Ricordi).

IRIS libretto di Luigi Illica (3 atti) (ediz. Ricordi).Roma. Teatro Costanzi. 7 Ottobre 1898.

LE MASCHERE commedia lirica e giocosa in un prolo-go e tre atti, soggetto di Luigi Illica (ediz. Sonzogno).

Roma. Teatro Costanzi – Milano. Teatro alla Scala –Torino. Teatro Regio – Genova. Teatro Carlo Felice –Venezia. Teatro la Fenice – Verona. Teatro Comunale.17 Gennaio 1901.

AMICA dramma lirico in due atti di Paolo Bérel (ver-sione ritmica di Giovanni Targioni-Tozzetti) (ediz.Choudens).

Montecarlo. 17 Marzo 1905.Roma. Teatro Costanzi. 13 Maggio 1905.

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Page 125: E-book campione Liber Liber · CODICE ISBN E-BOOK: ... Retorica nell'opera italiana ... anzi sommersa, nel flutto della mediocrissima vita che lo circonda.

INDICE.

L'OPERA IN ITALIA.

L'OPERA IN ITALIA – SUO CARATTERE POPOLARESCORETORICA NELL'OPERA ITALIANACIÒ CHE SIMBOLEGGIA PIETRO MASCAGNI NELL'OPE-

RA MODERNA ITALIANAMASCAGNI NELLA MUSICA EUROPEA

L'OPERA DI MASCAGNI.

CAVALLERIA RUSTICANAL'AMICO FRITZ E I RANTZAUIL RATCLIFFSILVANO, ZANETTO E POEMA LEOPARDIANOL'IRISLE MASCHERE E L'AMICA

RIPROVE E CONCLUSIONI.

L'ORCHESTRATOREL'ARMONIZZATORECONCLUSIONE

OPERE DI P. MASCAGNI.

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