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Luigi Capuana Novelle www.liberliber.it

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Luigi CapuanaNovelle

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http://www.e-text.it/QUESTO E-BOOK:

TITOLO: NovelleAUTORE: Capuana, LuigiTRADUTTORE:CURATORE:NOTE:

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

TRATTO DA: Novelle / Luigi Capuana a cura di Giusep-pe Sciortino ; illustrazioni di Orazio Pelligra. - Palermo [etc] : R. Sandron, stampa 1938. - 222 p. ; 23 cm.

CODICE ISBN: informazione non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 16 ottobre 2009

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

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ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:Paolo Alberti, [email protected]

REVISIONE:Catia Righi, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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LUIGI CAPUANA

NOVELLE

S O C I E TA A N O N I M AEDIZIONI REMO SANDRONLibreria del la Real CasaPA L E R M O - M I L A N O

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PUPPATTOLINA.

I.

Non era di legno, con la testa di porcellana e i capelli di seta; era di carne e di ossa e aveva nove anni. La sua mamma la chiamava così per vezzo, e perchè veramente quella bambina faceva per lei le funzioni di puppattola e nient'altro.

Bianca, con le guance paffutelle e rosee, con capelli biondissimi e grandi occhi azzurri, Lidia sembrava fatta a posta per servire da giocattolo a una mamma vanitosa e orgogliosa come la signora Bellotti.

Il babbo era troppo occupato in cento affari lucrosi da badare a quel che faceva sua moglie per viziare la fi-gliuola.

La vedeva a colezione, a desinare, nei momenti di pa-rata, vestita bizzarramente, addestrata a rispondere, a fare inchini, a distribuire baci, e se ne compiaceva anche lui.

– È un amore!– È un angiolo!– È un miracolo!Lidia se lo era sentito ripetere tante e tante volte dalle

signore amiche della mamma, che ormai era convinta di 5

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meritarsi quelle lodi, e assumeva perciò una gravità, un sussiego che dispiacevano tanto al cuginetto Poldo, del-la stessa età di lei, il quale l'avrebbe voluta allegra e chiassona tutte le volte che si trovavano assieme. Inve-ce, se Poldo la prendeva per mano e voleva trascinarla in giardino, Lidia si staccava bruscamente, rimproveran-dolo:

– Mi guasti i riccioli!... Villano! –O pure:– Bada! Mi sgualcisci il vestito! –O pure:– Mi strappi le trine! Come sei goffo! –Un giorno Poldo, indispettito, cominciò a canzonarla:– Hanno portato una scatola.– Che scatola?– Una scatolona tutta imbottita di raso azzurro.– Dov'è? Che c'è?– L'ha ordinata la zia.– Per chi?– Per riporvi te. Così non ti si guasteranno nè riccioli,

nè trine, nè nulla!Lidia ricorse, piagnucolando, dalla mamma:– Senti, mamma, che dice Poldo? Dice che hai fatto

fare una scatolona per ripormici!...– E tu, sciocca gli credi?– Non voglio essere canzonata!– Poldo! Poldo! – lo sgridava la sua mamma.

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– Ma se è vero! Vuole stare là, impalata!– Come una bambina per bene. Poldo! Poldo!Poldo fece una spallucciata: poi si accostò a Lidia:– Ebbene, andiamo dunque a passeggiare in giardi-

no? –E calcò un po' la voce su la parola passeggiare.Lidia si lasciò persuadere, dopo che la sua mamma e

la zia le dissero:– Va' va'!Ella camminava lentamente, facendosi vento col ven-

taglino, e parlava a Poldo quasi fosse un signore, non un bambino suo pari:

– Queste rose si chiamano: «Marechal Ney».– Ah! – faceva Poldo, grave con le mani dietro la

schiena.– Ora noi andiamo ai bagni, a Livorno. Mi divertirò

come l'anno passato. La mamma mi ha fatto fare un bel costumino.

– Ah! – ripete Poldo, mettendo un piede davanti al-l'altro quasi camminasse su le uova.

– L'anno scorso, colà tutti mi davano fiori, confetti, gelati...

– Ah! Ah!– C'era un signore che mi diceva: «Questa è la mia

moglina...». Quello che poi ha preso Lilla Maggi.– E ti ha lasciata?– Era per chiasso, come sei stupido! Elena Rosi non ti

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diceva l'altra volta: «Ecco il mio maritino?!».– Ma io le risposi: «No, sei brutta; non ti voglio».– Quel signore non era brutto... E voialtri dove anda-

te? –Poldo si rimise con le mani dietro la schiena, assunse

un'aria seria seria, e lentamente rispose:– Andiamo... nella mia villa, a Colsano!– Tua! Del tuo babbo.– Mia, me l'ha detto il babbo.– Tra' contadini! A Livorno, sono tutti signori e signo-

re...– Lei tra i signori e le signore... noi tra i contadini! –E avanti che Lidia si rimettesse dalla sorpresa di quel

lei strascinato con un grande inchino da Poldo, egli era scattato

– Ma fammi il piacere! Sei una mummia! Vuoi corre-re? No? –

Non aveva ancora finito, che in quattro salti era già in fondo al viale, arrampicato all'albero di magnolia.

– Ecco come si fa a Colsano! – le gridava di lassù. – Noi contadini corriamo, inseguiamo farfalle, chiappia-mo grilli pei prati, ranocchi negli stagni... o nidi su per gli alberi... Marmottina, monta quassù, se ti riesce!

– E Poldo? – le domandò la zia, vedendola rientrare sola in salotto.

– Si è arrampicato su la magnolia. Mi ha lasciato 8

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sola! –La mamma, per consolarla, l'abbracciò, la baciò, le

passò la mano sui capelli e, rivolta alla cognata, disse ri-dendo:

– Due cugini che non se la intendono! È strano.–Mi ha detto anche: marmottina! – aggiunse Lidia,

ma con una intonazione e un atteggiamento così sdegno-so, più da donna che da bambina, che la zia, aggrottando le sopracciglia, e fingendo maggiore sdegno:

– Oh! E tu che gli hai risposto?– Niente; io non sono maleducata!– Queste cose non si dicono – l'avvertì la mamma

sorridendo e non celando un po' di soddisfazione per la risposta. – Si pensano, e non si dicono.

– Ma le dico senza pensarci tanto!– Cara! – esclamò la zia, non nascondendo il vero si-

gnificato di questa esclamazione. E soggiunse: – Va', fammi il piacere di chiamare Poldo; dobbiamo andar via. –

Lidia si sciolse dalle braccia della mamma e con aria seccata suonò il campanello.

– Chiamate il signorino, Maria, – ordinò alla camerie-ra. – È in giardino, su la magnolia, o là accosto. –

E tornò dalla mamma.– La zia ti aveva detto di andare te – le disse la mam-

ma.– Se andavo a chiamarlo io, Poldo non veniva su, per

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farmi dispetto. –La mamma la baciò con tenerezza.–Tu la vizii questa bambina! – le sussurrò in un orec-

chio la cognata. –– È così seria! Ti sembra una bambina?– E questo è il male! – replicò la cognata.

II.

Sapendo di far piacere alla mamma, tutte le signore amiche di lei giocavano anch'esse alla bambola con quella bambina, che così diveniva di giorno in giorno più vanitosa e più arida di cuore.

Certe mattine di maggio, per consiglio del dottore, la signora Bellotti, verso le dieci andava al Pincio, e non mancava di condurre con sè la figlia. A quell'ora i viali erano affollati di signore e signorine e di bambini che giocavano al salto, al cerchio, alla palla, che si facevano scarrozzare dal minuscolo omnibus tirato da due asinel-li, ridendo, chiamandosi, riempendo della loro allegria tutta quella parte del giardino preferita pei frequenti se-dili e per l'ombra.

La signora Bellotti sedeva tra le sue amiche, con le quali si era anticipatamente intesa di trovarsi là; cavava fuori, come le altre, un lavorino di uncinetto dalla borsa, e fingeva di mettersi a lavorare, conversando, facendo anche un po' di maldicenza attorno a qualche signora o

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signorina assente, senza mai badare che Lidia stesse a udire, intanto che le signore e le signorine se la rapivano per baciarla, ammirarla, adularla:

– È un amore!– È un miracolo!Di tratto in tratto, la signora Bellotti si rivolgeva alla

figlia, in francese:– Allons, va jouer, ma chérie.– Merci, maman! Je m'amuse mieux ici.– O diglielo in italiano! – si lasciò scappare un giorno

una vecchia signora.– È per tenerla in esercizio – rispose la signora Bel-

lotti, piccata.– Ma gli esercizi che dovresti farle fare sarebbero

piuttosto quelli di correre, di scalmanarsi, di giocare con gli altri bambini. È vero che ti annoi, carina?

– No, signora.– Sfido! la tua mamma ti conduce qui vestita con tanti

fronzoli! Butta là quel cappellaccio, quell'ombrellino, quel ventaglio, cavati i guanti...

– Oh, nonna! – esclamò una signorina.– Io sono vecchia e posso dire quel che mi pare – ri-

spose.– Ma se è tanto carina, così savia, così tranquilla! –E siccome Lidia si mostrava già mortificata di sentirsi

trattare da bambina, le signore ripresero a rubarsela, a baciarsela, ad adularla:

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– È un amore!– È un angiolo!– È un miracolo!Da quel giorno, la signora Bellotti evitò di andare a

sedersi dove si trovava quella vecchia; la salutava appe-na.

E Lidia non la salutava affatto.La mamma aveva annunziato alle amiche che Lidia

avrebbe rappresentata la parte della principessa nella pantomima: La Bella addormentata nel bosco che si preparava, per scopo di beneficenza, nel teatrino di casa Malerba; e tutti facevano complimenti alla bambina, la interrogavano, le promettevano di andare ad applaudirla.

– Mi volevano dare la parte del paggetto. Ma io ho ri-sposto: «O la principessa, o niente».

– Brava!– La principessa dev'esser bionda, e Dora Ruffo, che

voleva avere quella parte lei, ha i capelli neri e corti.– Brava!Lidia si pavoneggiava quasi si sentisse proprio princi-

pessa.La vanità la dominava, la prendeva tutta. Studiava per

vanità, per vanità prendeva lezioni di pianoforte. Spesso la maestra che veniva a darle lezione in casa l'annoiava profondamente, gli esercizi musicali con quel vecchio maestro rigido e impaziente l'affaticavano, la stancava-no; ma l'orgoglio di suonare due o tre pezzi nelle serate

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della mamma o in casa di una signora amica le facevano sopportare ogni fastidio. E quando gli applausi compia-centissimi scoppiavano nel salotto, ella fremeva di pia-cere e ringraziava con contegno di provetta sonatrice.

Il babbo, intanto, aveva cominciato a notare un po' di pallidezza su la faccia della bambina, un'aria di stan-chezza e anche un principio di dimagrimento.

– Non ti pare? – aveva detto alla moglie.– Ma che ti metti in testa!– Se la mandassimo qualche mese in campagna, dalla

nonna che desidera di vederla da tanto tempo... da quasi due anni.

– Figurati! Lidia in campagna! Lidia che non può sof-frire i contadini! L'aria di mare...

– Non le ha giovato niente. Avesse fatto almeno dei bagni!

– Ma se ha terrore dell'acqua! Come me.– Già quest'andare ai bagni senza poi fare bagni...– Tu brontoli sempre.– Ho paura, ecco, che la bambina si ammali.– Tutt'a un tratto t'è venuta questa paura?– La signora Miali...– Ah quella vecchia insopportabile! L'altra volta al

Pincio si scandalizzava perchè io parlavo a Lidia in francese. Perchè lei non capiva...

– No, mi diceva: «Fate muovere quella bambina, è troppo savia per l'età sua».

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– Ma di che si mescola costei? La mamma sono io...– Parla a fin di bene la buona signora, e mi sembra

che non ragioni stortamente...– Bada ai tuoi affari; alla bambina bado io. –In verità anche lei si era accorta di quella pallidezza,

di quella stanchezza, di quel dimagrimento dei quali si impensieriva suo marito, ma non osava dar importanza a quei sintomi di screscenza, e si confortava così.

Un altro tenore di vita della bambina le sarebbe parso uno sconvolgimento. Non poter portarla attorno, nè pre-sentarla all'ammirazione di tutti, vestita sempre all'ulti-ma foggia, sempre in rappresentazione, quasi un'appen-dice dei suoi abiti, dei suoi gioielli, un finimento della sua elegantissima toeletta di mamma bella e corteggiata, oh! non vi si sapeva rassegnare. Giacchè le lodi alla bambina si tiravan sempre dietro lunsinghieri compli-menti per la mamma. E poi, di che si sarebbe occupata, se non avesse avuto da pensare a vestire, a spogliare, a addestrare quella sua graziosa puppattolina?

Ora specialmente che doveva fare da principessa nel-la pantomima in casa Malerba!

Prima di condurla alle prove, la incipriava, le dava fin un po' di rossetto alle gote, per scancellare certi cerchi sotto gli occhi che le erano comparsi ultimamente.

– Ti dipinge la tua mamma? – le aveva detto un gior-no Dora Ruffo.

Lidia le aveva voltato le spalle senza rispondere.14

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La signora Bellotti assisteva alle prove per farle poi ripetere in casa i gesti, le mosse, e farle provare la can-zonetta che Lidia doveva cantare allo svegliarsi. Questa canzonetta volevano farla cantare a una signorina dietro le scene; ma la signora Bellotti si era impegnata di farla apprendere alla bambina, ed erano stati quindici giorni di nuovo tormento per Lidia con quel suo vecchio mae-stro che diceva:

– Signora, la bambina non può; la voce non le arriva a certi acuti.

–Provi, provi, non si stanchi. –E dopo che il maestro era andato via, ricominciava

lei.– Quel maestro è uno stupido. Vieni qua, carina: dob-

biamo fargli vedere che è uno stupido. –E la bambina, invanita più della mamma, continuava

a sfiatarsi con lei, risoluta a spuntarla, come l'aveva spuntata su Dora Ruffo per la parte di principessa.

Nei due giorni che precedettero la rappresentazione, Lidia non potè dormire nè mangiare, eccitata, esaltata. E la sera dello spettacolo, stesa sul letto nell'alcova tutta avviluppata di rovi, di piante, di ragnateli, con attorno le damigelle, i paggi addormentati in piedi o su le seggio-le, la sua commozione fu tanta che il suo corpicino non resse più.

Quando il principe vittorioso si presentò e ruppe l'in-canto e le damigelle e i paggi si svegliarono stirando le

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braccia e sbadigliando, la principessa rimase immobile sul letto, e il principe, che si era spinto a scuoterla, in-dietreggiò impaurito vedendola pallida pallida come morticina, chiamandola a nome: – Lidia! Lidia! – invece di chiamarla principessa.

La cosa fece ridere l'affollato uditorio; parve una sba-dataggine della bella bambina vestita da principe... Ma quando si videro accorrere sul palcoscenico due signore che evidentemente non dovevano prender parte all'azio-ne, alle risa succedettero un allarme, una gran confusio-ne, un alzarsi, un interrogare, un affollarsi...

Lidia era svenuta. E fu calato il sipario.Poco dopo la signora Bellotti ricomparve nella sala.– Niente! Niente! La commozione...– Povera bambina! –E all'alzarsi del sipario. Lidia già in piedi, sorridente,

fu salutata da un subisso di applausi, e cantò la canzo-netta con una voce flebile ma intonata, e poi, nella gran sala del castello del Principe, dopo il matrimonio, seduta sul trono accanto allo sposo, ricevette gli omaggi e i doni dei vassalli.

La vanità e l'orgoglio le avevan permesso quello sfor-zo. Ma il giorno dopo aveva la febbre, e stette quasi un mese tra la vita e la morte. Quando si levò da letto non era quasi riconoscibile.

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III.

Questa volta il babbo si era fatto ascoltare. Aveva condotto la bambina in campagna dalla nonna, e perchè non fosse là sola sola, aveva menato anche Poldo il cu-ginetto, per tenerle compagnia.

Un mese dopo, chi l'avrebbe più riconosciuta?La pelle della faccia e delle mani le si era abbronzata

al sole peggio di quella del cugino.C'era, voluto un po' per slanciarla, ma poi aveva preso

l’aire; e ora quasi non c'era verso d'infrenarla. Toccava a Poldo di ammonirla.

– No, no; puoi farti male! Puoi cascare!Tornava a casa coi capelli arruffati, pieni di sterpoli,

di foglie secche, con le mani intrise di mota, con le gon-nine in brandelli. Faceva a pugni con le bambine della fittaiola, sfidava Poldo alla corsa.

Quando la signora Bellotti col marito venne a ripren-derla, si fermò spaventata alla vista della sua puppattola così tramutata.

– Oh, Dio mio! –Non osava di abbracciarla e di baciarla.Lidia portava, tenendoli per le gambe, due ranocchi,

chiappati nella mota del ruscello, e le braccia e le mani sporche stillavano acqua. Arrivava rossa in viso, scal-manata, ansante per la corsa.

– Oh mamma! Cara mamma! –17

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E la signora Bellotti dovette afferrarla per un braccio per impedire che le saltasse addosso e le insudiciasse la veste. La nonna rideva.

Tutt'a un tratto però il cuore della signora Bellotti fu profondamente commosso. Non badò a nulla. Non pen-sava più alla puppattola di una volta, lasciandosi branci-care da quelle mani bagnate, sporche di mota, e che non avevano buttato via la preda, i due ranocchi afferrati per le gambe. Era felice di vedere sua figlia sana, vigorosa, bambina di anni, di modi, di sentimenti quale doveva essere, quale avrebbe dovuto lasciarla essere prima.

E il marito, a tavola, mentre lei non finiva di notare il gran cambiamento della sua bambina, per punzecchiar-la, le disse:

– Se vuoi ad ogni costo una puppattola, te ne compre-rò una alta quanto Lidia; di quelle che dicono papà e mammà... –

Ma Lidia lo interruppe:– Sarà per me, babbo, sarà per me!

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CONSIDERAZIONI

La novella ha un valore morale squisitissimo, e dovrebbe anche essereattentamente letta dai grandi. I bambini non bisogna troppo

coccolarli: si rischia di deformare la loro natura e dicompromettere la loro salute, Inoltre: i bambini

debbono essere bambini e non è ad essiimpunemente concesso di assumere

atteggiamenti di grandi che,oltre a tutto, rendono

ridicoli

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L'OMINO DI MAMMA...

Durante le ore di scuola, la casa di Fifì Marini torna-va ad essere invasa dal triste silenzio che rendeva la ma-dre di lui un pietoso fantasma di dolore più che una creatura vivente.

Quando il ragazzo era in casa, ella si sforzava di na-scondere le sue pene, di mostrarsi ilare per non spegnere quell'inconsapevole vivacità che le rammentava il carat-tere del padre, come la fisonomia e il tono della voce e i gesti ne riproducevano la persona.

Le sarebbe quasi parso di contristare l'Anima santa del marito, morto di tifo due anni addietro, se il ragazzo, intelligentissimo, si fosse dovuto accorgere delle cre-scenti strettezze della famiglia.

Con le due figliuole ella non era così cautelosa. Esse si mostravano un po' savie e chiuse, e pareva intendesse-ro quel che si nascondeva sotto il mutismo, la pallida magrezza o sotto la intermittente serietà della mamma.

Come Fifì somigliava al padre, Melina la maggiore, aveva gli occhi azzurri di lei, la personcina slanciata; Diana i capelli biondi, ondulati.

Melina, di quattordici anni, già sapeva fare piccoli la-vori all'uncinetto che la mamma riuniva e disponeva in collaretti, in polsini, in minuscole sottocoppe. Ogni die-

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ci giorni veniva in casa loro la rivenditrice, donnona alta e grassa che, quando cominciava a raccontare i guai di casa sua, non finiva più, come se non si accorgesse che dai Marini, meno il marito ubbriacone e manesco, non ce ne fossero altrettanti e peggio!... Ma bisognava la-sciar dire, perchè soltanto per suo mezzo i lavori all'un-cinetto di Melina fruttavano qualche cosa, insieme con quelli di cucito che accumulava la mamma, miseramen-te pagati dal padrone di un Laboratorio di Biancheria.

Diana, a cinque anni, mentre la sorella e la mamma lavoravano, silenziose, si divertiva con la bambola in un canto della stanza; e, arrivata una cert'ora stava in orec-chio per sentire la scampanellata di Fifì che tornava dal-la scuola, e pareva fosse inseguito, così forte faceva squillare il campanello.

Infatti egli irrompeva nella stanza, dove la mamma e la sorella lavoravano, rosso in viso, col fiato ai denti per aver salito frettolosamente le scale. Gli pareva mill'anni di annunziare: – Otto... mamma per il còmpito! Sette in aritmetica!... Dieci in condotta!... Sei contenta, mamma? – E, buttata su una seggiola la cartella colma di libri e di quaderni, toglieva di mano a Melina il lavoro, dicendo-le:

– Devi distrarti anche tu!... E anche tu, mamma, che perdi gli occhi con la biancheria. –

E tutt'a un tratto la casa risonava di gridi, di risate, con grande gioia di Diana, verso cui Fifì era di una con-

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discendenza stragrande.Era sempre allegro Fifì, e per ciò di buon cuore.Un giorno, durante la lezione di aritmetica, accadde

questo: Nel primo banco, in mezzo, quello spilungone di Conradi con la testa sul collo di cicogna impediva di ve-dere la lavagna a Mirata che sedeva più indietro. Mirata corto, sornione aveva cavato di tasca un bel fico maturo, che doveva servirgli per la colezione, e nel momento in cui il Maestro voltava le spalle, lo scaraventava con for-za tra capo e collo a Conradi. S'intese il rumore e il gri-do del colpito e sùbito una sonora risata di tutta la clas-se. Conradi si rizzò in piedi, mostrando al Maestro il proiettile che gli si era schiacciato su la nuca.

Il Maestro aveva dovuto farsi forza per reprimere l'i-larità, vedendo il fico e il gesto dello spilungone. Poi, severamente, aveva domandato;

– Chi ha avuto l’impertinenza?.. Capisco che ha volu-to fare uno scherzo: ma certi scherzi sono da villani...

Gli scolari, tutti a capo chino, non osavano rifiatare.– Badino! – soggiunse il Maestro. – Se scopro chi è

stato l'autore di questa... sconcezza, senza ch'egli abbia il coraggio di palesarsi, lo sospenderò per quindici gior-ni e ai prossimi esami...

– Sono stato io, signor maestro!Fifì Marini si era rizzato in piedi improvvisamente, e

a testa alta, quasi con orgoglio, si era accusato della col-pa non commessa.

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– Va bene! – rispose il Maestro. – Terminata la lezio-ne saprai quel che ti aspetta.... Già lo sospettavo. Vergo-gnati!

Gli scolari si erano guardati negli occhi, stupìti del-l'atto di Marini, e non sapevano spiegarselo. Più di tutti, si vedeva, era stupito e mortificato Mirata.

Terminata la lezione, egli fè cenno col dito in alto al Maestro di voler parlare. Esitava, mantruciando un qua-derno:

– Non è vero... Marini! – Balbettò. – Sono stato io!.. E non voglio che egli sia punito per cagion mia.

– E tu... perchè dunque?... – domandava il Maestro a Fifì.

– Volevo risparmiargli un castigo. L'atto, signor Mae-stro, mi era piaciuto tanto, che avrei voluto farlo io se avessi avuto un fico in tasca!

Il Maestro non aveva potuto far a meno di ridere, in-sieme con tutti gli scolari, e finse di dimenticarsi che doveva punire qualcuno.

***

Quella mattina, Fifì messasi a tracolla la cartella di scuola, si era piantato su le gambette allargate davanti a la mamma, in attesa.

La mamma ebbe un sorriso strano, e pareva che si sforzasse a far sorridere anche gli occhi che avrebbero

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voluto piangere.– Figlio mio, non ho... soldi per la tua colezione!

Mangerai qualcosa di più al ritorno dalla scuola... Me ne dispiace tanto, per te!

– Ma io sono ricco, mamma! Io ne ho diciotto, e vo-glio darteli...

– Tu hai diciotto soldi?... Come mai, omino mio?– Guadagnàti, col sudore della mia fronte, come ho

appreso in un libro di lettura. Pensavo di comprare qual-cosa per te e per le sorelle, appena avrei compiuto la lira. Li ho in fondo alla cassetta del mio tavolino da stu-dio... Vado a prenderli. Sai? Ho fatto dei cómpiti per i miei compagni più ignoranti di me, e me li hanno pagati due, tre soldi l'uno. Anche quattro; quella bestia del fi-glio del cavalier Baratta...

Fifì corse in camera sua, e tornò facendo ballare i sol-di nel palmo di una mano.

– Contali!... Diciotto!– Povero Fifì! Povero il mio omino!– Ora che lo so, ogni sera, dopo fatto il mio cómpito,

ne preparo qualcun'altro, e la mattina dopo... E una volta il cómpito ceduto a Baratta ebbe nove punti e il mio set-te e mezzo! Quel mezzo non mi andò giù!

La signora Marini era così commossa dell'atto del fi-glio, che ci mancò poco non lo mandasse via senza soldi per la colezione.

Ma era destino che quel giorno Fifì tornasse a casa a 24

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stomaco vuoto.Passando davanti a una cartoleria, aveva visto espo-

sto, attaccato a uno spago, un fascicolo di giornale illu-strato col disegno, in grande, di un teatrino di marionet-te e parecchie marionette da ritagliare. Non ci aveva pensato due volte, e aveva speso, per comprare i due fa-scicoli, i quattro soldi della colezione.

In classe, era stato insolitamente distratto, con la gran tentazione di cavar fuori dalla cartella i due fascicoli e osservarli meglio. Ma appena fu fuori, annunziò a pa-recchi compagni:

– Faccio un teatrino da burattini. Vedrete che bellez-za! E che ridere!

E, sciorinando in faccia alle sorelle i disegni a colori, diè il clamoroso annunzio:

– Faccio un teatrino da burattini!Pareva ammattito dalla gioia.E, appena tornato a casa, invece di continuare a esal-

tarsi, era andato a chiudersi nella sua cameretta, aveva sgombrato il tavolino del calamaio, dei pochi libri e del-le carte che vi si trovavano, e vi aveva spiegato su i fa-scicoli. In uno di essi era lo sfondo della scena, e le quinte analoghe; nell'altro diversi burattini stampati da-vanti e dietro, e vesti di ricambio delle donne.

La signora Marini e Diana, che non sapevano spiegar-si quel silenzio, entrati in camera, lo trovarono intento a ritagliare i disegni e le figure dei personaggi.

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– Lascia stare i burattini – gli disse la mamma, – e ascoltami bene. Mi è stata fatta una proposta. C'è un vecchio, ricco, che presta danaro alla gente. Ha bisogno di una persona per tenergli in regola i conti. È morto, giorni fa, lo scrivano che lo serviva da anni.... Lui sa fare appena la sua firma. Ti pagherebbe, da prima, qua-ranta lire al mese, per provarti.... In questi momenti, sono una fortuna per noi.

– E la scuola? – la interruppe Fifì.– Stai per ottenere la licenza elementare... Io non po-

trei farti far proseguire negli studi. Bisogna che tu co-minci a lavorare. Lo so, non è bello; ma che possiamo farci? Anche tuo padre lavorava....

– Anche tu, mammina, lo vedo! Anche Melina, ora l'ho compreso... Lavorerò, come tu vuoi... Saprò fare quel che il ricco vecchio desidera? Conosco bene l'arit-metica delle elementari.... Ma basterà? Se quel vecchio si contenta.... quando dovrei cominciare?

Fifì pareva allegro; e intanto ripiegava i due fascicoli, col cuore serrato. Era inutile pensare al teatrino.

– Tieni! – disse a Diana. – Divértiti! Puoi anche strac-ciarli.... Non me ne importa più.... Dovrò andare io da quel vecchio? – soggiunse.

–Verrà lui a prendersi la risposta, assieme col signor Mirata che ti ha raccomandato. È il padre del tuo com-pagno di scuola....

– Ah! Di quello.... del fico!... Ppaff! Su la nuca di 26

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Conradi! Che risa, mamma! Se lo meritava lo spilungo-ne!

Fifì rideva, come se il fatto fosse accaduto quel gior-no; ma la mamma comprese che il riso non era schietto. Evidentemente al bravo figliuolo dispiaceva di lasciare la scuola; e glielo disse.

– Se volessi darti a intendere di no, mamma, ti direi una bugia. Studierò un po' da me. I Maestri ci hanno ri-petuto in molte occasioni che tanti grandi uomini si sono istruiti da loro stessi. Tenterò di diventare un grand'uomo anch'io! Intanto terrò i conti dello.... strozzi-no....

– Non ti scappi di bocca questa parolaccia!– Chi presta quattrini non si chiama così?– Non tutti....– Dovrò stare tutta la giornata da lui?– Certamente. Dice il signor Mirata che là è un gran

via vai, da mattina a sera; danari che escono, danari che entrano.... Per te, sarà anche un divertimento.

– Dovrebbe darcene anche a noi....– Oh, no, no, figlio mio. Meglio guadagnarseli col la-

voro che toglierli in prestito!.... E se poi non potessimo restituirli?... Oh, no, no!

– Se mi dèsse cento lire al mese, eh, mamma?–Si comincia dal poco – conclude la buona donna.

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– Ecco qua il vostro futuro contabile! – disse il signor Mirata, presentando Fifì al vecchio signor Drago, che pareva drago di nome e di fatto.

Con la gran zazzera di capelli grigi, l'ispida barba bianca e quel vestito color marrone molto trasandato, il vecchio aveva l'apparenza di un povero diavolo reso ar-cigno dalle sofferenze. Specialmente quando, per veder meglio, aggrottava le setolose sopracciglia, e stringeva le labbra sotto gli irti peli dei baffi. Peggio poi se parla-va guardando a quel modo.

– Non è troppo ragazzo? – disse.– Ha tredici anni, mi pare – rispose il signor Mirata,

rivolto alla Marini.– Li compirà nel maggio prossimo....– Gli anni non contano; il ragazzo è istruitino; è stato

sempre il primo nelle classi.– Sai, ragazzo mio? Si tratta di somme spesso impor-

tanti. Farei tutto da me, se fossi andato a scuola. Ma al-lora, quando ero bambino, non c'erano scuole come ora, e i parenti non si curavano.... Siete fortunati oggi!.... Preferisco prendere te, invece di un adulto ammaliziato che m'imbroglierebbe ogni cosa. I conti io li so fare me-glio di qualunque altro, con la testa; ma i miei affari sono troppi, e la memoria qualche volta non mi aiuta. Quello che è scritto non va via... Dunque, ci proveremo a vicenda.... Va bene?... Cara signora Marini.... più di

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quaranta lire al mese non mi conviene; non posso. C'è voluto il signor Mirata per farmi calare la testa. Quaran-ta lire sicure, al giorno d'oggi.... capisce.... Alla tua età – riprese parlando a Fifì – io non ne guadagnavo neppure la metà, e facevo il garzone presso un negoziante di tes-suti. Dunque, te l'ha detto l'orario il signor Mirata? Alle otto precise, la mattina; e poi dalle due alle sei, il dopo-pranzo. Certe volte starai delle ore senza far niente, se-condo.... Mancuso, il commesso che avevo prima – morto un mese fa – non andava a casa neppur per fare colazione. Mi si era affezionato.... Veda, signora Marini; io ho un nipote che avrebbe potuto farmi quel che face-va Mancuso, quel che dovrà farmi suo figlio, ma è così perverso, così vizioso! Si è sciupato tutto, e vorrebbe vi-vere alle mie spalle.... Per me è come se non esistesse; quando morrò, poichè non ho altri parenti.... Dunque, restiamo intesi....

Il Drago aveva parlato senza dar tempo agli altri di dire una parola, e sempre con tono burbero, quasi pro-nunziasse rimproveri; ed era andato via salutando appe-na la signora Marini e conducendo con se Fifì, come una preda.

Entrando in quella casa, il ragazzo provò un lieve senso di soffocazione dal tanfo che vi regnava.

L'anticamera era piena di povera gente, donne la più parte, alcune in piedi, altre sedute. Nella stanza appres-so, dietro un sudicio steccato con uno sportello, il vec-

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chio si sedè su una seggiola a bracciuoli, e fece sedere là accanto Fifì, davanti a una tavoletta sporgente dove sta-vano il calamaio, la penna, e la ciotola per il polverino.

– Ora ti do il quaderno in cui dovrai segnare.... Guar-da: com'è fatto qui.... Nome, cognome, la via e il nume-ro della casa.... e allato la somma, per mia memoria. Leggi le ultime parole.

Fifì stentava a decifrare la brutta calligrafia del mor-to.

– È scritto.... troppo in fretta – disse per scusarsi – e si legge male. Dice: Marianna Cimino, orecchini con per-line, peso grammi sette. Valore di stima, lire trenta; date lire quindici, per un mese....

–Bravo! – fece il vecchio. – Ora viene la Cimino: l'ho vista in anticamera. Mi porta il denaro, io le restituisco il pegno, e tu tirerai una croce qua, che significa scan-cellato.

Fifì doveva torcere da lato il collo per vedere la pove-ra donna che parlava col vecchio, pregandolo di accor-darle una piccola dilazione; aveva il pianto nella voce....

– Ma che! Ma che! Altri dieci giorni!... Vi abusate della mia bontà! – sbuffava il vecchio dimenandosi su la seggiola. – Voglio il mio danaro!...

– Ho soltanto quattro lire....– Per gl'interessi di quest'altri giorni?...– Metà per gli interessi, metà per la sorte....– Si? Sì?... Vi paiono troppe quattro lire?

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– Fate come volete, vossignoria!– Per dieci giorni soltanto! Non un giorno di più!...

Scrivi: Dilazionato fino al giorno ventuno settembre.– Devo anche notare: lire quattro? – domandò Fifì.– Non occorre.... Avanti, voi, Musarra. Che mi porta-

te? Quattro stracci?– Due lenzuoli quasi nuovi.– Meno male che dite quasi!Il vecchio si rizzò dalla seggiola, aperse i lenzuoli

contro la luce della finestra, li esaminò attentamente, li ripiegò e disse con sprezzo: – Cinque lire!... Eccone tre; per venti giorni.... Scrivi....

La donna non stendeva la mano per ritirare la moneta.– Non siete contenta?... Ecco la vostra roba.... Fate

posto alle altre persone. Non posso perder tempo con voi.

– Almeno, sei!– Niente ecco qua.... Avreste dovuto ringraziarmi.Fifì aveva il cuore profondamente commosso da quel-

la sfilata di povere creature che gli erano apparse a tra-verso lo sportellino, tutte, chi più chi meno, maltrattate dal vecchio, eccettuate tre o quattro che avevano potuto restituire il denaro avuto in prestito e ritirare i loro pe-gni.

A queste il vecchio aveva detto allegramente: – A ri-vederci. – Ma esse gli avevano voltate le spalle, borbot-tando – Speriamo di no.

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Fifì era tornato a casa un po' sbalordito.– Oh, mamma. Sentissi che puzzo!– Si capisce. Poco fa ho saputo che ha una vecchia

serva, che spazzerà una volta al mese. Gli fa anche da desinare....

– E quanta gente! Tutte povere donne.... Una gli ha portato in pegno due lenzuoli: le ha dato tre lire.... Non se le voleva prendere....

– Ah! Non credevo che egli facesse anche piccoli pre-stiti su pegni! – esclamò la signora Marini, mortificatis-sima.

E ogni mattina, sul punto che Fifì si preparava ad an-dare dal vecchio, ella era tentata di dirgli:

– Resta qui, figlio mio.Ma non voleva scoraggiarlo. Fu lui che, un giorno,

tornato a casa per la colazione, disse alla mamma:– Perdonami... ma io non andrò più da quello strozzi-

naccio. Mai più. Mai più.– Che ti ha fatto?... Che ti ha detto?...– A me, niente. Ma vedendo come tratta le persone

che ricorrono da lui, io mi sento strappare il cuore.... io soffro.... Mi viene di afferrarlo per la gola! Se non fossi ragazzo.... Oggi c'è stato un operaio che lo ha supplicato piangendo. Aveva la moglie moribonda.... Chiedeva venti lire.... Presentava una collana d'oro che lo stesso vecchio ha detto ne valeva trenta.... Si è rifiutato di dar-gliene venti. Anzi gliene ha offerto soltanto dodici.... di-

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cendogli: – Credete che io li rubi i quattrini? – E il po-veretto gli ha strappata di mano la collana, ed è andato via imprecando: – Vi possano diventare crusca nella cassa forte. – E quando mi disse: Domani vieni un po' più di buon'ora. – gli risposi con una spallucciata. Non voglio vederlo neppur da lontano.... Mi perdoni, mam-ma?

– Dio ci aiuterà, senza di lui.– E penso di aiutarmi anche da me.– Dovrebbe pagarti questi venti giorni....– Non voglio nulla da lui. Le sue lire ci porterebbero

sfortuna: sono maledette.– Hai ragione, omino mio.La mattina del giorno dopo, il vecchio mandò la sua

donna:– Dice il mio padrone: Com'è che il ragazzo non è ve-

nuto?– Non son venuto perchè non voglio più venire da lui.

Si provveda.... se trova! – rispose Fifì.E verso le dieci, col permesso della mamma, uscì.– In cerca di fortuna! – egli espresse audacemente.Non sapeva dove andare, nè a chi rivolgersi. Errava

per le vie principali, dov'erano bei negozi; guardava dentro; e vedendo dietro i banchi i commessi affaccen-dati a servire i clienti, pensava:

– Qui non hanno bisogno di me!E passava oltre.

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Più in là c'era un negozio di cappellaio, dove poi si vendevano tant'altre cose diverse: ombrellini, ventagli, borse, manicotti per signore.... Ma anche là i commessi dovevano essere al completo, se ce n'erano alcuni disoc-cupati, in attesa di avventori da servire.

All'ultimo si era fermato davanti le vetrine di un li-braio. Quanti bei libri in mostra, anche illustrati, come piacevano a lui! Di tratto in tratto, appariva dietro la ve-trina un commesso che si chinava e prendeva uno dei volumi in mostra, e poco dopo tornava a rimetterlo al posto, per ripigliarne un altro.

Ah! Quella sarebbe stata la occupazione adatta per lui! Maneggiare dei libri, sfogliarli, leggerne una pagina qua, una là, osservarne le belle figure, senza bisogno di comprare il libro.

Mentre stava a guardare, si affacciò su la porta del negozio un uomo alto, grasso, vestito di nero, senza cap-pello in testa.

– Forse il padrone della libreria – pensò Fifì – o il di-rettore....

Fifì, stesso non seppe poi dire come mai gli fosse ve-nuto l'ardimento di presentarglisi:

– Scusi.... Hanno bisogno di un giovane commesso?...– Curiosa.... Abbiamo dovuto cacciarne via, ieri, uno

infedele.... E dobbiamo sostituirlo. Entra; si tratta di te? Come ti chiami?

– Fifì Marini.34

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– Tuo padre?– È morto, da anni.– Chi ti conosce?– Meglio di tutti il mio Maestro di sesta, signor Dol-

ci....– Bene. È nostro cliente per i libri scolastici. Fàtti

presentare o raccomandare da lui.Fifì, prima di tornare a casa con una mezza buona no-

tizia, volle andare in cerca del suo caro Maestro, tanto buono con lui.

Lo trovò al solito caffè. E come gli ebbe esposto il motivo della sua venuta, il Maestro Dolci rispose:

– Ma subito! Andiamo.Quando Fifì rincasò, era già commesso della Libreria

Treller, a trenta lire al mese. –– Inutilmente, eh? – domandò la mamma.– Dovrò tornare... dallo strozzino.... Quaranta lire al

mese, sono una somma!– Come ti adatterai? – disse Melina.– Ci sarebbe stato da fare....– Che cosa, omino mio?– Il commesso in un negozio di tessuti; il commesso

in un negozio di cappelli, ombrelli, ventagli.... ma non mi hanno voluto – e scoppiò a ridere – perchè non ho ancora i baffi!

–No! – lo interruppe la mamma. – Tu hai una buona notizia da darmi, e mi tieni su la corda....

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– Scusa, mamma. È vero, mamma! Temevo che la bella notizia, detta, così, all'improvviso.... Sono accetta-to per commesso nella Libreria Treller, guadagnerò un po' meno di quaranta lire al mese....

E saltò al collo della mamma, che aveva gli occhi col-mi di lacrime dalla consolazione: abbracciò e baciò an-che le sorelle.

– Come mai, omino mio? Racconta! Racconta!E lui:– Si affacciò su la porta del negozio.... un uomo.... un

uomo alto e grosso, vestito di nero, senza cappello....E dovè ricominciare tre volte il racconto, tanto era

commosso!

CONSIDERAZIONI

Lo strozzinaggio è senza dubbio una piaga. Fifì, che ne sdegna ancheil contatto, merita la nostra ammirazione. Più dignitoso l'impiego

di commesso di libreria, che lo mette a contatto coilibri, cioè coi veicoli della letteratura, dell'arte e

della scienza.

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SCIMMIOTTO.

Chi gli aveva affibbiato quel nomignolo? Nessuno lo sapeva. Sembrava lo avessero proprio battezzato così; ed egli si era talmente abituato a non essere chiamato al-trimenti che, le rare volte che qualcuno si rivolgeva a chiamarlo col suo vero nome, non si voltava sùbito, non accorreva; dubitava non volessero un altro.

Era rimasto solo al mondo quando aveva appena cin-que anni. Babbo, mamma e una sorellina gli erano morti di coléra lo stesso giorno. Una povera donna lo aveva raccolto per carità: ma poi era morta anche lei; e il bam-bino si era messo a chiedere l'elemosina e a fare qualche piccolo servigio.

D'inverno, dormiva in uno stallatico, su un rialzo di muratura accanto alla mangiatoia delle bestie che rosic-chiavano la paglia e l'orzo e scalpitavano continuamen-te. Da principio, quantunque egli avesse gran sonno, quel rumore lo aveva tenuto sveglio tutta la nottata; poi non vi aveva badato più; anzi il monotono rosicchiare e lo scalpitare quasi cadenzato servivano a conciliargli meglio il sonno su quel po' di strame e sotto quello straccio di lana che avrebbe dovuto essere una coperta e non arrivava a coprirgli i piedi.

Là, però, coi fiati degli animali, col calore che si svol-37

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geva dal concime raccolto nella fossa laggiù, egli stava calduccio, e vi schiacciava bei lunghi sonni fino all'ora che il padrone dello stallatico non gli gridava:

– Scimmiotto! Eh! Scimmiotto! –Per compenso dell'alloggio doveva spazzare la stalla,

rammassare il concime e buttarlo nella fossa in fondo allo stanzone; nient'altro.

Faceva presto. I carrettieri, i passeggeri erano già quasi tutti partiti prima dell'alba. Rimanevano soltanto qualche mula e qualche cavalla legate alla mangiatoia, distanti l'una dall'altra.

Ci fossero stati anche parecchi animali, egli non avrebbe avuto paura di aggirarsi dietro a loro, di ficcarsi sotto la pancia di essi per passare da un punto all'altro e ripulir bene fin tra le loro gambe. Sembrava che quelle bestie non si curassero di lui, così piccino. Si lasciavano prendere per la coda, si lasciavano grattare i fianchi o accarezzare il ventre come pareva e piaceva a lui, e con-tinuavano a rosicchiare paglia e biada, senza avere mai la tentazione di tirargli un calcio e scaraventarlo al muro.

Terminato di spazzare, Scimmiotto correva a lavarsi nella pila che serviva da beveratoio per le bestie, si asciugava faccia e mani col primo straccio che gli capi-tava nella cucina della bettola unita allo stallatico e che apparteneva allo stesso padrone, stringeva meglio la cin-ghia di cuoio che gli reggeva i calzoni, e andava via sen-

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za nemmeno dire: «Vi saluto!».

***

Scimmiotto cominciava a mostrarsi ingegnosissimo per guadagnarsi da vivere. A otto anni, aveva vergogna di chiedere l'elemosina come un pitocco qualunque. Fa-ceva per ciò salti mortali e capriole, dopo che erano ve-nuti in paese i saltimbanchi con l'orso e con le scimmie e avevano guadagnato tanti quattrini.

Non li aveva lasciati un minuto in quei giorni, osser-vandoli a imitarli, in gara con gli altri ragazzi suoi pari, riuscendo quasi a primo colpo, come se fosse stato ad-destrato di nascosto. Ed ora che i saltimbanchi erano an-dati via, dava spettacolo lui davanti a le botteghe di mercerie, davanti ai negozi di tessuti, davanti alle far-macie, dove c'era sempre gente che avrebbe potuto rega-largli qualche soldo.

Si presentava zitto zitto e si fermava, con le mani die-tro la schiena, una gamba stesa avanti e l'altra dietro, aspettando che qualcuno gli dicesse:

– Che vuoi, Scimmiotto?– Faccio i salti mortali? Quattro, un soldo.– Vediamo! –E faceva quattro salti mortali e due capriole per giun-

ta.Quando aveva raccapezzato quattro soldi, si compra-

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va due soldi di pane e due soldi di cacio, o di fichi fre-schi, o di uva, o un soldo di pastinache e due arance, e faceva colazione sugli scalini della chiesa, in piazza, al sole, contento come una pasqua.

Qualche ora dopo, si rimetteva in giro. Dove vedeva gente si accostava. Le popolane che filavano lino davan-ti a le porte chiacchierando e canticchiando, al vederlo passare lo chiamavano:

– Ehi! Scimmiotto! Scimmiotto!– Che mi date? – rispondeva. – Quattro salti mortali

un soldo! E due capriole per giunta. –Un soldo da spendere esse non sempre lo avevano,

ma una fetta di pane, sì; dei fichi secchi, due mustaccio-li, mezzo piatto di fave allesse condite con olio e aceto rimaste la sera avanti, sì.

– Ti riempirai la pancia! –Scimmiotto non rifiutava niente. Faceva i quattro salti

mortali e le due capriole di giunta, e intascava la fetta di pane, i fichi secchi, i mostaccioli, e divorava le saporite fave allesse condite con olio e aceto. Un pranzo, per lui!

Così la sera tornava allo stallatico ben pasciuto e si metteva sùbito a dormire.

L'estate poi, abbandonava lo stallatico, dove avrebbe sentito troppo caldo la notte. Preferiva di dormire a l'aria aperta, su la nuda terra, facendosi capezzale di un brac-cio, con la giacchetta sdrucita buttata addosso. Aveva scelto un bel portico, dove non poteva andare a distur-

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barlo nessuno, e dove si trovava al riparo, caso piovesse. Ma per non perdere il suo rifugio nell'inverno, appena svegliatosi andava allo stallatico e ripuliva la stalla come quando vi dormiva.

***

I vestiti li chiedeva a questa o a quella signora carita-tevole. Stracciati o troppo grandi per lui, li indossava in-differentemente. Rimboccava i calzoni, incrociava le cinte, e non si curava se qualche buco lasciava passare l'aria a traverso. Rimboccava pure le maniche delle giacchette, e non gl'importava che il resto gli arrivasse fino a piedi. Era contento delle tasche larghe, dove pote-va ficcare ogni cosa, dacchè i salti mortali e le capriole gli fruttavano bene.

Era proprio buffo infagottato a quel modo spesso con un berretto o uno sfondato cappello di felpa su la testa che portava tosata, per non aver il fastidio di pettinarsi, nel caso avesse posseduto un pettine per farlo.

Poi un giorno si era accorto di avere una bella vocina, un orecchio molto intonato e una memoria portentosa. Udita cantare una volta una canzonetta, poteva ripeterla senza sbagliarne una nota. Sapeva già parecchie delle canzonette napoletane in voga.... Perchè non andare at-torno, cantandole fra un paio di salti mortali e l'altro? E provò.

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– Bravo, Scimmiotto!– Un'altra, Scimmiotto!– Ancora un'altra, Scimmiotto! –E non solamente la cantava con perfetta intonazione,

ma con brio, accompagnadole con gesti, con smorfie che facevano sbellicare dalle risa tutte le comari, e di-vertivano anche i signori del Circolo, e gli sfaccendati delle botteghe, dei negozi, delle farmacie.

– Quella di Carmenè, Scimmiotto!– Mastro Raffaele, Scimmiotto!– Bravo Scimmiotto! –

***

Nessuno gli diceva– Apprendi un mestiere, Scimmiotto! – Nessuno si

occupava di questo ragazzo, senza nè babbo nè mamma e senza parenti, che sembrava venuto su come un fungo un bel mattino, e che non sarebbe rimasto eternamente così.

Soltanto il cappellano delle monache gli aveva detto un giorno:

– Vuoi fare il sagrestano? –Scimmiotto era entrato una volta nel parlatorio, dove

c'era sempre qualcuno che parlava con qualche monaca.Un gran stanzone quel parlatorio, che sembrava una

chiesa, con grate dorate, con colonne e fregi dorati e pa-42

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vimento di pietra bianca intarsiati. Scimmiotto aveva pensato ai dolci delle monache e gli era venuta l'acquo-lina in bocca. Se avesse potuto fare quattro salti mortali là dentro, sotto gli occhi delle monache affollate dietro le grate!.... Chi sa quanti dolci gli avrebbero regalato!

Ed entrò senza chiedere il permesso a nessuno.Il parlatorio era deserto. Su quel pavimento così liscio

e pulito sarebbe stato una bellezza fare quattro salti mortali. E li fece, per proprio gusto, credendo di non es-sere visto da nessuno.

Udì uno strilletto dietro una grata. Poi, un parlottìo sommesso, risa represse. La fama dei salti mortali di Scimmiotto era arrivata tra le monache e le educande. Alcune di queste anzi si erano godute lo spettacolo di quei salti da una grata del campanile dove un giorno erano salite a suonare le campane per le quarant'ore. Scimmiotto faceva le sue prove tra un crocchio di conta-dini, nel piazzale davanti a la chiesa.

La presenza di Scimmiotto nel parlatorio mise sosso-pra il monastero; monache, educande, converse erano accorse alle grate appena la notizia si era sparsa pei cor-ridoi, per le celle, in cucina, dove parecchie di loro con-fezionavano biscotti e berlingozzi. Aspettavano ansiose, ridendo e pigiandosi l'una su l'altra, che Scimmiotto ri-cominciasse. Non osavano dirgli:

– Scimmiotto, fa' quattro salti mortali –.La Badessa lo chiamò:

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– Che vuoi, ragazzino? Che fai qui? –Scimmiotto non diede la solita risposta: «Quattro salti

mortali, un soldo!», ma si mise a fare sùbito salti mortali e capriole. E più le monache, le educande e le converse strillavano, ridevano, mandavano fuori grida di ammira-zione, più Scimmiotto si accalorava, con salti dietro sal-ti, capriole dietro capriole; e cessò di farne quando repli-cate grida di: – Basta! Basta! –scoppiarono da tutte le grate.

Da quel giorno in poi, non passò settimana che Scim-miotto non andasse a fare una visita alle monache.

Usciva dal parlatorio carico di dolci, di fette di pane e con qualche soldo in tasca. E quando al suo repertorio di salti mortali e capriole aggiunse le canzonette, il chiasso dietro le grate fu straordinario.

– Canta per fame, poverino! –Appunto, mentre Scimmiotto cantava Mastro Raffae-

le davanti ad una grata dove si trovava la Badessa, un giorno era entrato nel parlatorio il cappellano.

Dovette ridere anche lui, dargli un soldo anche lui.– Vuoi fare il sagrestano? –Scimmiotto non rispose nè sì nè no; si lasciò condurre

a casa dal prete che lo affidò alle mani di una sua sorella zitellona, perchè lo ripulisse, e gli cucisse il collare. Do-veva aiutare il vecchio sagrestano in certe piccole fac-cende, andare qua e là, per servizio della chiesa, covare la brace nell'incensiere, accendere le candele

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dell'altare... Ma fu un divertimento di due sole settima-ne.

***

Riprese il suo mestiere di prima.Per le botteghe, per le farmacie, pei vicoli dove le po-

polane facevano crocchio filando e chiacchierando, la riapparizione di Scimmiotto fu una festa! Era così diver-tente quello Scimmiotto!

Salti mortali, capriole e canzonette! Canzonette, ca-priole e salti mortali!

E tutti volevano raccontata la storia del collare.Ma ora Scimmiotto aveva due anni di più; quel che

era molto piaciuto in un bambino, non piaceva più tanto in un ragazzone. Molti, all'ultimo, dopo aver riso alle capriole e ai salti mortali, dopo di essersi divertiti ascol-tando le canzonette, gli dicevano:

– E quando sarai cresciuto che cosa farai? –Nessuno però gli suggeriva– Smetti, apprendi un mestiere!Nessuno gli diceva:– Ti prendo in bottega; farai il falegname, o il fabbro-

ferraio, o il calzolaio, – o pure: – Vieni in campagna a fare il contadino come noi! –

I più crudeli e i più maligni gli ripetevano, ridendo, quasi fosse cosa da riderci su:

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– Sei carne da galera!– Che faccio di male? – protestava Scimmiotto.E cominciò a pensare ai casi suoi.Una mattina si presentò da un calzolaio.– Voglio fare scarpe anche io!– Va' là, fannullone! Non sei buono a niente. –Perchè? Perchè faceva salti e capriole e cantava le

canzonette? E questa non era una prova che poteva fare qualche cosa meglio degli altri? Gli altri sapevano forse fare quel che sapeva lui?

Il povero ragazzo non se ne capacitava.Andò da un falegname:– Mi volete per garzone?– Va' là, fannullone! Non sei buono a niente!! –Quasi che si fossero dati la voce, tutti! Giacchè un

fabbroferraio, un massaio, un sarto gli ripeterono la stes-sa risposta. Sembrava si fossero proprio accordati di do-vergli rispondere così.

E una mattina uscì per la campagna, si mise la via fra le gambe e andò, andò avanti, senza sapere dove andas-se, o meglio, senza sapere se indovinasse la strada che avrebbe dovuto condurlo a un paesetto vicino, dove c'e-ra la festa del santo patrono.

Giacchè non poteva far altro che salti mortali e ca-priole e cantare canzonette, sarebbe andato attorno, di paese in paese, a continuare finchè ne avrebbe cavato di che riempirsi lo stomaco. Agli stracci era abituato. E,

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quel giorno, egli era proprio uno straccione, con la giac-chetta a brandelli che gli arrivava fino ai piedi e coi pan-taloni che avevano larghi buchi alle ginocchia e in altri punti.

Un carrettiere, che andava precisamente in quel pae-setto, lo prese sul carro per carità.

– Che vai facendo?– Vo pel mondo.– E non hai paura?– Di che? Non faccio male a nessuno! –

***

Passarono mesi e mesi, e di Scimmiotto non si seppe notizia. Qualcuno lo rammentava, domandando:

– Chi sa dove è andato? –Uno lo aveva visto qua, uno là, lontano, in paesi di-

versi.Passarono anni. In paese lo avevano dimenticato. Se

ne riparlò qualche giorno, una volta che il sindaco disse che gli erano state chieste informazioni intorno a un tale che diceva di essere chiamato col nomignolo di Scim-miotto e che non aveva saputo dire il suo vero nome.

E passarono altri anni, senza che si sapesse se Scim-miotto fosse vivo o morto; la gente aveva ben altro da fare che rammentarsi di lui!

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***

Una mattina, dalla carrozza postale che andava a prendere la posta alla lontana stazione ferroviaria e por-tava i rari passeggeri che venivano in quel paesetto ar-rampicato in cima a una collina, fu visto scendere un giovanotto ben vestito, che parlava con accento forestie-ro e chiedeva del sindaco.

– Lei non mi riconosce?– No; non credo di avervi mai veduto.– Sono Scimmiotto. –Il sindaco stentava a credergli.– E donde vieni?– Dalla Grecia. Faccio il cocchiere.– Bravo! E perchè sei tornato?– Per rivedere il mio paese. Quando se n'è lontani,

non si pensa ad altro.– E ora vuoi restarci?– Chi lo sa! Secondo. –Appena si sparse la voce del ritorno di Scimmiotto, –

lo chiamavano sempre così, e il primo a dar l'esempio era lui, perchè quel nomignolo gli rammentava gli anni spensierati della fanciullezza; – appena dunque si sparse la voce del ritorno di Scimmiotto, fu un affollarsi di gente, una pioggia di abbracci e di baci, di rallegramen-ti, una tempesta di domande:

– Sei sempre lo stesso?48

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– Lo stesso.– Ma non fai più salti mortali e capriole!– Faccio correre i cavalli della carrozza.– Ma non canti più canzonette!– Ora le canto per conto mio, in serpe, quando è leci-

to.– E come sei andato fino in Grecia?– Oh, è una storia lunga! –Ma nelle osterie, nelle botteghe, nelle case di amici

che lo invitavano – e facevano a gara – a mangiare un boccone con loro, Scimmiotto, dopo aver acceso la pipa, cominciava a raccontare.

Oh, ne aveva viste di tutti colori! E come raccontava bene e come faceva ridere! Quasi più di quando faceva i salti mortali e le capriole e cantava Carmenè e Mastro Raffaele.

E tutti volevano udirlo e anche riudirlo. In quei giorni egli non spendeva neppure un soldo pel tabacco da fu-mare: desinare, cene, scampagnate; e mentre si desina-va, e più dopo: «Racconta! Racconta!»

E Scimmiotto non se lo faceva dire due volte. Un giorno finalmente annunciò:

– Vado via! Qui mi fareste diventare vizioso, dando-mi da mangiare e da bere a ufo. Bisogna lavorare, biso-gna guadagnarselo il pane che si mangia. –

Pareva impossibile che fosse riuscito così assennato, così savio! Lo dicevano con piacere, anche quelli che gli

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avevan fatto la cattiva profezia:– Sei carne da galera! –Infine, che aveva fatto sin da bambino? Non si era

guadagnato il pane lavorando, come allora poteva lavo-rare, facendo salti mortali e capriole e cantando canzo-nette? E il Signore lo aveva aiutato.

– E tornerai un'altra volta?– Quando sarò vecchio. Voglio venire a morire qui,

dove sono morti mio padre e mia madre. –Ma prima di partire ebbe il pensiero di andare a salu-

tare le monache. E accorsero tutte in parlatorio, dietro le grate, come quando vi faceva i salti mortali e vi cantava le canzonette. Egli si rammentava il nome di tutte; di suor Maria Teresa, di suor Maria Giacinta, di suor Maria Maddalena, di suor Caterina, di suor Benedetta... Ah, quanti bei dolci gli avevano regalati, e quante belle fette di pane, e quanti bei soldi!...

Dolci gliene diedero in gran quantità anche ora.– Perchè vai via? Perchè non resti qui?– Debbo guadagnarmi il pane, mettere da parte qual-

che soldo per la vecchiaia. Ma tornerò; voglio venire a morir qui, dove sono morti mio padre e mia madre.

– Dio ti aiuti! La Madonna ti soccorra!Ma questa volta son passati molti e molti anni e di

Scimmiotto non si è saputo più nuova.

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CONSIDERAZIONI

Scimmiotto merita la nostra ammirazione, perchè da solo, senza l'aiutodegli uomini e contro l'ostinata persuasione dell'ambiente in cui

da bambino viveva, seppe risolvere il suo problema di vita,uniformandosi alle possibilità dell'età. Da piccolo,

infatti, fa i salti e canta per avere di chemangiare, da grande farà il

cocchiere e sarà unamicone buono.

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UN PICCOLO «FREGOLI».

Parlando del loro figliuolo, il babbo signor Marlani, vi soleva sempre aggiungere:

– Quel diavolino di Romolo!Invece, la mamma, quasi avesse scrupolo di adopera-

re questa parola, credeva di attenuarne il significato, di-cendo:

– Quel demonietto di Romolo!Diavolino o demonietto, egli era un ragazzo indoma-

bile, e teneva a rumore la casa da mattina a sera.La signora Marlani lo avrebbe mandato volentieri a

scuola. Ma, intorno a questo punto, le idee di suo marito erano opposte a quelle di lei.

Egli stimava non igienico costringere un bambino di sei anni a respirare per lunghe ore l'aria viziata della scuola, seduto immobile su la dura panca, mentre avreb-be voluto correre, gridare, stancarsi anche per rafforzar meglio e sviluppare gambe, braccia e polmoni.

Ed era uno dei pochissimi screzi della loro tranquilla vita coniugale. Avevano, però, la prudenza di non discu-tere di questo in presenza del ragazzo.

Del resto, Romolino – lo chiamavano anche così – era forte, sano, con folti capelli neri, carnagione bruna, e statura che lo faceva apparire di almeno otto anni; e ne

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aveva compiuti appena sei.La signora Marlani, parlandone con le sue amiche,

soleva dire, scherzando:– Non posso supporre che me l'abbiano cambiato a

balia, perchè l'ho allattato io; ma non somiglia affatto a suo padre nè a me.

– Oh! Al signor Marlani no, certamente! – risponde-vano le amiche.

Alludevano al carattere flemmatico di lui che non si scaldava per niente, neppur per mangiare le pietanze che gli si freddavano davanti.

Soleva dire:– È inutile aver fretta. Tutto arriva quando deve arri-

vare. Bisogna prender le cose per il loro verso.E applicando queste sentenze al figliuolo, soggiunge-

va:– Perchè vorremmo vederlo invecchiare prima del

tempo? Oggi fa il diavolo a quattro, ma domani si anno-ierà di quel che ora gli piace.... Dunque....

– Discorri bene tu, che stai quasi tutta la giornata fuo-ri di casa! Ma io, quando è sera, ho già il capo come un cestone!

Meno male che sua moglie aveva la precauzione di dire: quasi! Invece, egli si compiaceva dell'estrema vi-vacità del figliuolo, e talvolta arrivava fino a giocare bambinescamente con lui, contribuendo a metter sosso-pra le stanze, spostando seggiole, tavolinetti, libri, cu-

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scini di canapè o di poltrone, trascinando fin pel salotto granata e stracci di cucina.

– Per impedirgli di far peggio! – si scusava.La verità era che nessuno di loro due si sdegnava se-

riamente dei capricci del bambino, e che finivano spes-sissimo con riderne e incoraggiarlo a far peggio, se fos-se stato possibile.

C'era, poi, il Nonno, vecchietto pieno di acciacchi, venuto ad abitare in casa del figlio dopo la morte della moglie, che aveva pel nipotino più indulgenza di tutti.

Appena alzato da letto, il signor Italo andava a sedersi al suo solito posto, in sala da pranzo, per prendere il caf-fè e latte coi biscotti. Vi andava tossicchiando, lamen-tandosi un po' dei dolori reumatici a una gamba, e Ro-molo, che gli voleva bene, non mancava mai di accom-pagnarlo, domandandogli:

– Ebbene, Nonnino, come va oggi?... Brù! Brù! Brù! Ahi! Ahi! Ahi!...

Gli faceva il verso, senza irreverenza, senza malizia, tossicchiando, lamentandosi, con una mano al ginocchio addolorato, lievemente zoppicando. E lo imitava così bene che il vecchio, tossendo: Brù! Brù! Brù! e sospi-rando Ahi! Ahi! Ahi! per poco non pareva che facesse il verso al nipotino.

E che non se lo aveva a male lo dimostrava dandogli uno o due biscotti, che quegli fingeva di rifiutare:

– No, Nonnino: sono per te. Ho già avuto la mia par-54

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te!... Vedi? Mangiando, la tosse ti si calma e, mi sembra, anche il dolore.... Non dovresti mai smettere.

Povero vecchietto! Come non ridere a quell'uscita?Imitava anche il babbo, quando, terminato di desina-

re, si preparava la pipa di terra cotta, ripulendola con uno stecchino, soffiando nella cannuccia per provare se tirava bene, ripetendo immancabilmente, dopo di averla caricata e di aver mandato fuori la prima boccata di fumo:

– Ah! La pipa di terracotta, è la miglior pipa del mon-do!

– Dovrò fare così, babbo, quando imparerò a fumare? – domandava sornionamente Romolino.

E ne ripeteva tutti i gesti, dal ripulire una fantastica pipa con un fantastico stecchino, dal batterla sul palmo della mano per vuotarla completamente, dal soffiare nel-la non meno fantastica cannuccia mostrando impazienza se non tirava bene, fino al riempire di tabacco la pipa, accenderla e mandar, gonfiando le gote, una boccata ideale di fumo, e poi imitare perfettamente l'esclamazio-ne del babbo:

– Ah! La pipa di terracotta, è la miglior pipa del mon-do!

E non poteva tenersi dal riderne anche la mamma, che non amava molto l'odore – lei diceva il puzzo! – del ta-bacco.

Questa vivace facoltà di imitazione gli si andava svol-55

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gendo di più col crescer degli anni.C'erano giornate che passava come in rivista tutti gli

amici di casa; non ne dimenticava nessuno, comincian-do dal dottor Paladini col suo ruzzolare le parole e il continuo ripetere: – Già! Già! Vedo! Vedo! –; dal cava-liere Speduglia che si passava a ogni po' due dita tra col-lo e colletto quasi si sentisse strozzare; dal canonico Rugghi che brontolava, simili a scongiuri, rauchi: – Bah! Bah! Bah! – seguiti da annusate di tabacco, sparse a metà sul petto della zimarra poco pulita; fino alle si-gnore, le vecchie specialmente, come la Rigatti, che ve-niva, invitata o no, a desinare in casa Marlani a ogni pri-mo di mese. Le mancavano parecchi denti, e non poteva parlare spedito. Ciò nonostante, chiacchierava, chiac-chierava.

Romolino la rifaceva, che pareva di vederla oltre di sentirla:

– Non s'incomodi, cara amica!... Faccia come se io non ci fossi.... Ah, che buon odore dalla cucina!... No, no.... si segga prima lei... Bravo! Tu rimpetto a me! Che delizia queste lasagne!... Pasta di casa, si capisce!.... Grazie, cara amica!.... Non mi faccia mangiar troppo!.... Il dolce, sì!... Piace ai vecchi!... Ma anche a te che non sei vecchio... Ah, il caffè!... A casa, me lo preparo con le mie mani.

– E lasciala in pace, poverina! – lo sgridava la mam-ma. – Ti vuol bene....

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– E io? – rispondeva il birichino. – Tanto è vero che, quando non è qui, faccio di tutto per rammentarmela!

Il giorno che tornò la prima volta dalla scuola, entrò in casa gridando dalla gioia:

– Mamma! Babbo!... Figurati, mamma.... Il Maestro.... lungo lungo; pare una pertica! È magro, come se mangiasse una volta al mese!... Figurati, babbo!... Un vocione!... – Attenti!... Tu, Calandra, stai fermo!... – C'è uno che si chiama Calandra! – Attenti! – E batte sul tavolino con un regolo di legno. Dev'esser buono... A ogni po' ci chiama: – Figliuoli miei!... – Se avesse tanti figliuoli – siamo cinquanta, seduti fitti fitti nei banchi – che darebbe loro a mangiare?.... Quando tu andavi a scuola, Nonno, il tuo maestro era lungo così?

– Piuttosto corto, e un po' gobbo.– Che ridere, eh?– No; anzi lo rispettavamo di più. E quando morì, tut-

ta la scolaresca pianse. Ricordo che un giorno, mentre lui spiegava la lezione, avvenne una forte scossa di ter-remoto. Noi, spaventati, ci rizzammo in piedi, volevamo scappare. – Fermi! sedete! – egli gridò. – E, noi, tutti a sedere, fermi, come se la scossa non continuasse. E fu bene, perchè, proprio davanti all'uscio della scuola, ven-ne giù mezza volta, e avrebbe ammazzato parecchi di noi.

A dieci anni, si era fatto un ragazzino robusto, alto, sempre allegro, studioso, intelligentissimo; e voleva

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guadagnarsi la medaglia di quell'anno.Ma negli ultimi mesi, prima che cominciassero gli

esami, non gli sfuggì che qualcosa di nuovo e di triste avveniva in casa sua.

Il babbo assumeva, di giorno in giorno, un aspetto sempre più rannuvolato: la mamma, quantunque si sfor-zasse di parere tranquilla, mostrava nell'insolito pallore e in una specie di smarrimento degli occhi che un dolore segreto l'affliggeva. Babbo, mamma e Nonno restavano spesso a confabulare sottovoce, cambiando evidente-mente discorso se egli si avvicinava per ascoltare. E se gli passavano per il capo una bizzarria, un capriccio, l'i-dea di fare il verso a qualcuno, guardava la mamma, o il babbo e si sentiva morire lo scherzo sulle labbra.

Aveva domandato alla mamma:– Che hai? Ti senti male?– No, figlio mio! È la stagione. Fa troppo caldo.Gli parve inutile interrogare il babbo. Si rivolse al

Nonno, quasi scherzando:– Nonno, è male dir bugie, è vero?– Malissimo.– Allora, tu devi dirmi la verità. Che hanno il babbo e

la mamma? Mi paiono così afflitti...!– Tanto, – rispose 'il Nonno, dopo un momento di esi-

tanza – prima o dopo, dovrai saperlo. Disgrazie! Cose che accadono nella vita. Affari andati a male.... Una ro-vina inevitabile, per la buona fede di tuo padre, per la

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imprevidenza mia. Tuo padre e tua madre non si preoc-cupano del presente, ma dell'avvenire.... Del tuo avveni-re.

– Ma che cosa è accaduto?– Bambino mio, è inutile spiegartelo.... Potrà darsi

che dovremo abbandonare questa casa. Bisognerà lavo-rare per vivere. Tuo padre, fortunatamente, ha trovato un piccolo impiego.... Non dubitare: non moriremo di fame!

E il buon vecchio tentava di mostrarsi ilare.– Lavorerò anch'io! – disse Romolo. – Che potrò fare,

nonno?– Andare a scuola, per ora, prender la licenza, e poi....

Ma, intanto, zitto! Non dovresti far capire alla mamma che già sai; e neppure al babbo.

– Sì, Nonno!Ma, tutt'a un tratto, corse di là, gettò le braccia al col-

lo della mamma, baciandola furiosamente, balbettando – Mamma!... Mammina! – accarezzandole i capelli e le gote. – Mamma!... Mammina! – E la mamma, stupìta non sapeva che rispondergli, stringendoselo al petto.

***

Ora, se diceva o faceva qualche piccola monelleria, era proprio uno sforzo della volontà. Non voleva afflig-gere la mamma, il babbo e il Nonno col mostrarsi seria

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persona anche lui; e se arrivava qualche volta a farli sor-ridere, n'era lieto e orgoglioso come di una buon'azione.

Evidentemente gli affari del babbo peggioravano. Se ne accorgeva da tante privazioni che i suoi genitori s'im-ponevano. Non più caffè dopo desinare col pretesto che quella bevanda alterava i nervi.

– E al Nonno non li altera?– Il Nonno, ormai, vi e così abituato, che non può più

farne a meno.Il babbo soleva deliziarsi con due magnifiche pipate a

colazione e a desinare, oltre di quella durante la giorna-ta; e ora si limitava a una fumatina sola, dopo di aver desinato.

– Babbo, come mai fumi così poco?– Ho letto in un giornale che la nicotina nuoce alla vi-

sta e alla gola, e anche all'intelligenza....– Ma, in tanti anni....– Appunto.... Il vizio mi impediva di badarci.– Il Maestro diceva ieri l'altro: – Quel che piace, per

solito, non fa male. Non bisogna abusarne....– Il lungo uso è un abuso.Romolo non insisteva, ma sentiva una gran pena di

quella nuova privazione del padre. E pensava:– Appena guadagnerò dei soldi col mio lavoro, dovrò

comprare tanti chili di caffè e di zucchero per la mamma e per il Nonno, e bei pacchetti di tabacco da pipa per il babbo che dovrà sfogarsi a fumare!

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Notava altre privazioni a colezione e a desinare; pie-tanze diminuite, frutta strettamente calcolata; ma finge-va di non accorgersene, per non mortificare la mamma e il babbo. Notava che il povero Nonno andava giù, anda-va giù, di settimana in settimana, assumendo un'aria stordita, di sonnolenza, smarrendosi nel discorso, ri-prendendosi.

– Dicevo.... Che cosa dicevo?... Ah!E poco dopo, daccapo:– Che cosa dicevo?... Ah!... Dicevo....E qualche volta finiva con addormentarsi, per pochi

minuti, destandosi tutt'a un tratto:– Stavo per addormentarmi... Eh? Eh?Allora Romolo tentava di tenerlo sveglio.– Nonno, vuoi che ti legga una fiaba?– Ah!... Ne sapevo tante e bellissime io!... Ricordi? Te

ne ho raccontate parecchie quando eri fanciullino....Romolo si metteva a leggere ad alta voce; ma da lì a

poco, il Nonno abbassava il mento sul petto e anche co-minciava a russare.

– Cattivi sintomi! – diceva il signor Marlani.– Cattivi sintomi! – ripeteva la moglie, impensierita

quanto lui.Infatti, un sabato, tornando da scuola, Romolo fu spa-

ventato di trovar la casa piena di vicini che parlavano confusamente, donne la più parte.

Mastro Onofrio, il calzolaio di faccia, gli andò incon-61

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tro dicendogli, credendo di rassicurarlo:– Non è nulla!... Paralisi.... Un colpo!... Ecco qua il

dottore.... Torno in bottega.... Se occorre, mi mandino a chiamare.

Il Nonno era disteso sul letto, con gli occhi sbarrati, fissi, con la bocca un po' contorta e un mugolìo nella voce invece di parole.

– Nonno!... Nonno!... Non è morto, è vero, dottore?– Non è morto, no; anzi accenna a migliorare.La paralisi avea colpito maggiormente il lato sinistro,

e lo stato del povero vecchio accennava, come aveva detto il dottore, a migliorare.

Lo vestivano, lo mettevano a sedere su una poltrona, lo lavavano, lo pettinavano, lo imboccavano; e quando Romolo era in casa, e nelle giornate di vacanza, special-mente, gli teneva compagnia, lo serviva come un infer-miere, gli parlava per distrarlo, giacchè vedeva che capi-va, quantunque non potesse spiegare una parola e mo-strasse di spazientirsene.

In certi giorni Romolo provava l'illusione che il Non-no volesse divertirsi a rifar lui quand'era bambino. Pare-va che avesse intenzione di dire una cosa allegra e la ri-petesse, la ripetesse: ma, infine, accorgendosi di non riu-scire, si metteva a singhiozzare, a piangere: Ihi! Ihi!... E il modo era così buffo, da sembrare che non piangesse, ma canzonasse qualcuno.

Romolo due volte era caduto in inganno. Credendo di 62

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fargli piacere, si era messo a imitarlo, ma poi avea do-vuto avvedersi, da certi sguardi del malato, che aveva preso un abbaglio, e gliene chiedeva scusa.

– Bravo! Così, Nonno!... Sorridi.... Il dottore dice che guarirai presto!...

Non era vero; ma Romolo pensava che era bene dir quella bugia. Poteva provocare uno sforzo nel malato....

Tanto più ch'egli mangiava avidamente; pareva non arrivasse a saziarsi mai.

La mamma, di tratto in tratto, veniva nella camera del suocero per dire a Romolo:

– Va' in terrazza, a prender un po' d'aria.Le pareva che il ragazzo dovesse soffrire in compa-

gnia del paralitico.Tre settimane dopo, Romolo salì gli scalini a due a

due, diede una gran strappata al campanello ed entrò in casa come un furioso colpo di vento. Sventolava la pa-gella della ottenuta licenza, e annunziava:

– Mamma, babbo!... La medaglia anche!... D'argento! E correva nella carriera del Nonno, strillando:

– Nonno! Nonno! La medaglia d'argento! Hai capito Nonno?

E tornò dalla mamma.– Ora che ho la licenza, sai? posso impiegarmi facil-

mente.... Il babbo conosce tante persone.... Ne ho parla-to al dottor Paladini.... – Già! Già.... Vedo! Vedo!... Una farmacia ti piacerebbe? – E il cavaliere Speduglia? per

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niente, e si passerà due dita tra collo e colletto anche per me. (Romolo fece l'atto).

Il meglio però, sarà far da sè.... Non ti pare, mamma? Andare da questo, da quel negoziante... Così mi vedono di persona.... E piangi per questo? Anzi dovresti ralle-grarti!.... Quando porterò a casa trenta.... cinquanta.... cento lire al mese.... Corro troppo?

In quel punto entrava il signor Marlani:– Che ha il piccolo Fregoli?Gli dava spesso questo soprannome.– Che ha? Signor babbo, ha già la licenza! Avrà poi,

la medaglia di argento.... E sarà il caso di trovare un po-sticino.... come te! Ecco quel che ha!

– Giusto.... ho avuto una promessa, ma....– In una Farmacia?– Che vuol dire?– Me l'ha offerto il dottor Paladini.... Già! Già! Vedo!

Dovrei pestar ràdiche, suppongo....– Ah!... La licenza!... La medaglia!... E non abbiamo

come festeggiarti, figlio mio!– Come?... La mamma berrà.... una cosa che non beve

da un pezzo, una bella tazza di caffè! Tu farai una pipa-tona.... ma di quelle! E Romolo starà a guardarli beato e contento!...

Così parlando, egli si accorse di un accenno interro-gativo fatto dalla mamma con lo sguardo, e dalla triste risposta data dal babbo con un lieve segno di negazione.

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– Come faremo? – domandò allora la moglie, non sa-pendo più contenersi.

– Bisognerà pregare il canonico Rugghi; sono stato da lui, ma non era in casa, ho atteso una buona mezz'ora, pregando di calmare la bestia feroce del nipote.

– Scrivigli! Andrà Romolo.... Non perder tempo.... Oh, Dio! Ci mancava anche questo!

– Se non è ancora tornato, attendilo, – raccomandò il signor Marlani al figliuolo nel consegnargli la lettera.

E quando Romolo fu andato via, il signor Marlani si lasciò cadere, scoraggiatissimo, su di una seggiola, esclamando pure lui:

– Ci mancava anche questo!

***

Un'ora di ansiosissima attesa!Finalmente Romolo portò la risposta del canonico

Rugghi, confortantissima. Cominciava: Quel bestione di mio nipote – e finiva: Lasciate fare a me!

Marito e moglie respirarono. Respirò anche il ragaz-zo, che, al suo solito, li fece ridere rifacendo i gesti e le parole del canonico:

– Bah! Bah!... – e una gran presa di tabacco – Bah! Bah!... Mio nipote.... bestia è nato.... e bestia morrà! Po-vero signor Marlani!... Non occorrerebbe di scrivergli. Bah! Bah! – e un'altra presa di tabacco; (pareva di ve-

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derlo!) Tu sei intelligente, e sapresti riferire la risposta.... Ma è meglio scrivere.... Bah! Bah! –– E l'ha scritta quasi abbaiando. L'ho ringraziato.... Per poco non risposi: – Grazie! Bah! Bah!

E corse dal Nonno. Era appisolato. Vedendolo immo-bile, con gli occhi chiusi e la testa rovesciata su la spal-liera della poltrona, Romolo ebbe paura. Si accostò in punta di piedi, trattenendo il fiato, col cuore che gli bal-zava forte. Sentendolo respirare regolarmente, si sedette nella seggiola accanto e attese che si svegliasse. Lo co-vava con gli occhi, rispettosamente. Quel corpo inerte del buon vecchio, che gli aveva voluto tanto bene, gl'i-spirava profonda pietà. Pensava alle parole che il dottor Paladini si era lasciato sfuggir di bocca:

– Una disgrazia può accadere da un momento all'al-tro!

Per questo Romolo aveva avuto paura, vedendolo con gli occhi chiusi e la testa rovesciata indietro.

E nell'attesa, pensava:– Domani mi metterò in giro per trovarmi un posto.

Dal Farmacista non voglio andare; in un gran negozio di stoffe, o in quello di terraglie e di cristallami che ha le splendide vetrine, davanti a cui si ferma tanta gente. O nella Libreria Treves.... Ah, come starei là, con migliaia di volumi sottomano!... O nella Succursale Sandron, che si trova più in là.... Nonno! O caro Nonno!

Il paralitico aveva aperto gli occhi, e mugolava allun-66

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gando le labbra in atto di chi vorrebbe bere.– Hai sete? Ecco!E gli presentava il bicchiere con un cannellino perchè

potesse dissetarsi comodamente.– Nonno... sarò commesso in una Libreria.... Sei con-

tento?... Sì? ... E potrò comprarti i cioccolattini che ti piacciono tanto.... Ora? No; domani.

Lo intendeva senza che il vecchio parlasse; bastava che lo guardasse negli occhi dove pareva gli si fosse raccolta ogni virtù della parola; tanto che la mamma lo chiamava in aiuto quando non riusciva a interpretare i mugolii del colpito.

La mattina dopo, Romolo accompagnò il padre all'Uf-ficio municipale, dove aveva ottenuto un impiego prov-visorio, e, all'insaputa di lui e della mamma, voleva mettersi alla ricerca di un posto di commesso in qualche negozio.

Era uscito di casa con l'animo deliberato di non tor-narvi prima di aver ottenuto qualcosa, una promessa, una speranza almeno, e portare alla mamma la lieta noti-zia.

Ma davanti alle grandi botteghe si arrestava, rimane-va ad ammirare le belle cose esposte nelle vetrine: stof-fe, terraglie, cristallami, libri.... e poi passava oltre. Lo avrebbero preso, gli pareva, per uno straccione, che non avesse genitori, altri parenti che si occupassero di lui, e avea vergogna di presentarsi.

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Aveva esitato più a lungo davanti alle vetrine della Libreria Treves, della Succursale Sandron. Come si sa-rebbe trovato bene tra quelle migliaia di volumi grossi e piccoli, con eleganti copertine illustrate, alcuni anche ri-legati, che i commessi maneggiavano per presentarli ai compratori, e potevano sfogliare e leggere, se ne aveva-no voglia!

E lo disse al padre, a desinare. Il signor Marlani era tornato allegro dall'Ufficio.

– Caro Romolo – egli disse – abbiamo finalmente qualcosa di meglio, di meno umiliante. Non dipendere-mo da nessuno. Tra un mese, potremo aprire una bella Tabaccheria, ho avuto notizia, poco fa, della concessio-ne ottenuta.... Ti prendo per commesso! – soggiunse ri-dendo.

– E tu potrai fumare quanto tabacco ti parrà e piacerà? – domandò Romolo, battendo le mani. – Oh, come sono contento!... Anche la mamma starà al banco?

– La mamma resterà in casa, da quella signora che è....

– Non mi parrebbe di degradarmi, se mai – soggiunse la signora Marlani. – Ci sono state Altezze Reali che si sono adattate a far le modiste!

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CONSIDERAZIONI

Saranno motivi un po' di maniera – come del resto buona parte deimotivi di cui si compone la letteratura infantile –, ma vivificati

dall'appassionato empito dello scrittore il cui interessemorale ottimamente si amalgama con la vivace

dipintura dei personaggi e dei loro statid'animo non scevri di un intimo

travaglio.

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PRIME ARMI.

Sapendo che Nino Capra si stizzava facilmente a ogni soprannome che gli veniva appioppato, i suoi compagni di scuola si divertivano a trovargliene sempre dei nuovi.

Dapprima, quel burlone di Montemagno, che una ne faceva e un'altra già ne pensava, lo avea chiamato Nir-tuzzu – in dialetto siciliano vuol dire anche sgricciolo – inventando pure la canzonetta:

Ninu, Ninuzzu, – pigghia ppi l'accurzu (scorciatoia).Ninu, Ninuzzzu, – pigghia ppi lu pinninu (pendio).– Te li do io l'accurzu e il pinninu!Allora Montemagno, quasi a rincarare la dose:– Guarda badduzza che si ribella!Badduzza – pallottola – era un altro soprannome che

Nino Capra non poteva soffrire, quantunque fosse dav-vero corto e pienotto, e badduzza non costituisce preci-samente un'offesa.

Al primo pugno ricevuto in viso, Montemagno rispo-se con una scarica dei suoi. Alto, ossuto, ai pugni ag-giunse parecchi calci, facendo ruzzolare Nino per terra. E siccome il giorno avanti era piovuto, egli dovette pre-sentarsi a casa col vestito tutto imbrattato di mota. Disse una bugietta:

– Sono sdrucciolato e son cascato.70

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Non fu creduto, però il giorno che suo padre se lo vide riportare a casa col naso pesto, insanguinato per una ferita nella fronte, ridotto quasi irriconoscibile:

– Ben ti stia! Vuoi fare il prepotente? È la lezione che meriti!

Nino stette zitto. Non volle far sapere a suo padre che si era azzuffato per difenderlo. Finchè si trattava di sè poteva chiudere un orecchio e anche tutt'e due... È vero che, invece, li teneva sempre aperti, ma, infine, non vo-leva dire. Se non avea finto di non sentire finora, poteva farlo da ora in poi. Ma quando si trattava di suo padre! No! No! Non dovevano chiamarlo: il figlio del Lupuma-naru!... Non era lupo mannaro suo padre!

Egli aveva in mente il lupo mannaro di certe fiabe che il maestro faceva leggere in classe e non riusciva a per-suadersi perchè la gente chiamasse così suo padre, che era un bell'uomo e il primo sarto del paese.

Avrebbe voluto domandarlo alla mamma.... Ma se essa non sapeva che il padre veniva chiamato a quel modo? Sarebbe stato un gran dolore per lei, specialmen-te ora che usciva appena da una grave malattia.

Il Maestro, però, due giorni dopo, vedendolo con la fronte fasciata, gli aveva domandato:

– Come ti sei ferito, Capra?– Sono stato io, signor Maestro – disse Montemagno.– E te ne vanti?– No, signor Maestro. Io scherzavo; lui si è imperma-

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lito....– Impermalito di che?– Disse che mio padre....E Nino Capra fu interrotto da uno scoppio di pianto.Il Maestro spiegò di che si trattava:– Ci sono dei disgraziati che a ogni far di luna pati-

scono un assalto di nervi. Urlano, fanno schiuma dalla bocca, sentono gran bisogno di aria aperta, e corrono per le vie, di notte, mettono paura agli sciocchi. Li chia-mano lupi mannari.... come nelle fiabe. E gli ignoranti credono che questi disgraziati si trasformino proprio in quei mostri creati dalla fantasia popolare. Spesso tutto si riduce a una malignità e a niente altro. In ogni caso, bi-sogna aver compassione di tali poveri malati.

– Mio padre non è malato!! – protestò Nino.– Bravo! – soggiunse il maestro. – Questa risposta ti

fa onore: e i tuoi compagni mostrano di essere cattivi, ineducati per lo meno. Tu, Montemagno, che sei più grande di tutti e sei molto indietro perchè, ormai, hai preso l'abitudine di rifare due volte la stessa classe, tu, Montemagno, dovresti dare agli altri l'esempio....

– Sì, signor Maestro – lo interruppe il ragazzo.E, infatti, da quel giorno in poi Nino Capra e Monte-

magno furono i migliori amici del mondo.Nino avrebbe volentieri esercitato il mestiere del pa-

dre. Gli sembrava anche divertente quel prender le mi-sure addosso ai clienti, segnarle su la stoffa, e poi impu-

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gnare la grossa forbice, tagliare le diverse parti del ve-stito, imbastirle e darle a cucire ai giovani di bottega, che venivano chiamati – gli sembrava cosa buffa – gio-vani anche quando erano innanzi con l'età. Come quel don Carmine che non poteva dare un punto senza can-ticchiare sottovoce, e per ciò gli altri spesso lo sgridava-no:

– Ma state un po' zitto, Malulamentu!Nino, nei giorni di vacanza, passava qualche mezz'ora

nel negozio paterno, e il suo spasso era appunto don Carmine Malulamentu, che soleva raccontare storielle divertentissime, di casi accaduti a lui quando lavorava presso un altro sarto. E allora bisognava dirgli, per di-versa ragione:

– Ma state zitto!Cominciando, non la finiva più.Un giorno che il Maestro aveva detto agli scolari: –

Per còmpito, fatemi un raccontino di vostra invenzione, – Nino ebbe l'idea di quasi trascrivere una delle storielle di don Carmine; e lo fece così bene che il Maestro, inso-spettito, gli domandò:

– L'hai copiato da qualche libro?– No, signor Maestro: l'ho sentita raccontare da don

Carmine, nel negozio di mio padre.Quel raccontino era riuscito una meraviglia di sempli-

cità e di ingenuità. Il Maestro ne fu così contento, che, incontrato il padre di Nino, lo fermò per rallegrarsi con

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lui.– Il ragazzo è pieno d'ingegno e di buon volere.– Ne faremo un avvocato, con la grazia di Dio, – ri-

spose don Cola Capra.– Lascerete a lui la scelta della professione.– Io son pronto a fare tutti i sacrifizi possibili per dar-

gli il mezzo di studiare; ma, capisce, spesse volte i gio-vani non intendono le necessità della vita. Non sono ric-co....

Per Nino lo studio era un gran piacere.Sua madre, che non sapeva leggere, lo guardava con

ammirazione quando lo vedeva seduto a tavolino, con i gomiti appoggiativi su, la testa tra le mani, e gli occhi fissi nel libro aperto là davanti. E se Nino scriveva e si fermava con la punta del portapenne tra le labbra, e lo sguardo quasi smarrito dietro qualcosa che pareva vo-lasse lontano, oltre l'ammirazione ella provava un senso di pena, perchè le sembrava che il suo figliuolo soffris-se.

Non osava d'interromperlo, di domandargli che cosa inseguisse con la mente, così superiore di sè ella lo giu-dicava. E ogni volta che Nino, per distrarsi, le diceva anche ora, come quand'era bambino di quattro, di cinque anni – Mamma, raccontami una bella fiaba, – ella si me-ravigliava della richiesta. Era però grande sodisfazione per lei vederselo seduto di faccia, savio, intento, proprio come allora quando una, due fiabe erano il solo mezzo

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di farlo star cheto.– Grazie, mamma! – egli diceva. – Ma sai che le tue

fiabe sono più belle di quelle che ci fa leggere il Mae-stro? Te le ha raccontate la nonna, è vero?

Gli sembravano più belle anche pel modo con cui ve-nivano dette. Si vedeva che i personaggi, gli avvenimen-ti delle fiabe rappresentavano, per lei, una realtà; e per ciò ella prendeva gli atteggiamenti, le inflessioni di voce con cui avrebbero dovuto parlare i Re, i Reucci, la Regi-notta, gli Orchi, le Mammedraghe. E anche ora, come quand'era piccino, agli urli: Ahù! Ahù! dell'Orco che in-seguiva un disgraziato o che tornava a casa dalla caccia, anche ora egli si sentiva correre i brividi per la schiena; e la fiaba diventava mirabile realtà pure per lui.

Qualche volta, però, egli invertiva le parti. Nei giorni di vacanza, vedendo la mamma seduta presso la finestra con accanto un monte di biancheria da rammendare, le diceva ridendo:

– Mamma, vuoi sentire una fiaba, di quelle che leg-giamo a scuola?

E Nino godeva di veder passare su quel viso buono, avvizzito più dalle malattie che dagli anni, tutte le im-pressioni degli avvenimenti straordinari raccontati dal-l'autore; specialmente quando il Reuccio o la Reginotta si trovavano in qualche grave pericolo, e la rammenda-trice interrompeva il lavoro, e pendeva dalle labbra del figliuolo fino al punto in cui la Reginotta o il Reuccio

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non erano scampati dalla disgrazia che li minacciava.

***

Un giorno, tornando dalla scuola, Nino fu stupito di vedere molta gente affollata davanti al negozio del pa-dre, e fece una corsa per arrivare più presto.

Aveva sùbito sospettato che fosse accaduta qualche disgrazia. Invece, tutte quelle persone del vicinato, don-ne la più parte, quando gli fecero largo per lasciarlo pas-sare, avevano visi lieti e ciarlavano allegramente.

Si trovò tra le braccia del padre, se lo strinse affettuo-samente al cuore e lo baciò più volte, ripetendo:

– Figlio mio! Figlio mio!Era là – cosa insolita – pure sua madre, che lo abbrac-

ciò anch'essa, ripetendo: – Figlio mio! Figlio mio!E siccome Nino la guardava negli occhi, ella si affret-

tò a dirgli:– Siamo diventati ricchi.... Un'eredità!Egli aveva provato una specie di stordimento e non

aveva domandato nessuna spiegazione. Gli pareva che fosse accaduto in casa qualcosa che somigliava a certi miracolosi avvenimenti delle fiabe.

Poi suo padre gli parlò dello zio, fratello di lui, andato in Russia, maestro di musica. Non aveva più dato noti-zie di sè, e don Cola, se non lo aveva pianto per morto, non si era presa gran premura di informarsi di che n'era

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avvenuto. Soltanto una volta aveva fatto scrivere dal Sindaco, non ricordava più a chi, all'Imperatore gli pare-va, o al suo Ministro, e non aveva ricevuto nessuna ri-sposta... E ora, dopo tanti anni, ecco, gli arrivava la noti-zia: Vostro fratello è morto, e vi ha lasciato, per testa-mento, tutto il suo!

Per qualche tempo, Nino si accorse del mutamento avvenuto nella sua famiglia. Poi suo padre smise il ne-gozio di sarto, comprò la bella casa nuova dei Raccuglia che non sapevano come dividersela, e acquistò anche la loro proprietà di Serralonga col giardino di aranci e li-moni, vigneto e frutteto.

Non perciò don Cola mise superbia.Tutto il suo orgoglio consisteva nel figliuolo che

quell'anno si era meritato la medaglia di primo grado e bei libri illustrati in premio.

Nella casa nuova, Nino aveva scelto una stanza con due finestre, una a levante e l'altra a mezzogiorno, so-leggiata, con ampia vista su la campagna.

Si sentiva un po' spostato, però, tra tutti quei mobili nuovi, lucenti, da signorino, e quasi rimpiangeva la ca-meretta dove aveva passato la sua fanciullezza, e da cui vedeva soltanto certe misere casupole, e la cima di un albero di albicocco che spuntava dietro il muro di un orto. Ma erano rimpianti fugaci.

E quando si riscoteva tutt'a un tratto, si rimproverava di sciupare così un tempo che avrebbe dovuto consacra-

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re allo studio.Non se ne pentiva, però, allorchè alla lettura di una

pagina, d'una poesia riportata in un libro di scuola, si ac-corgeva che quell'estasi, quel sogno a occhi aperti da-vanti allo spettacolo della campagna gli facevano inten-dere meglio di prima quella pagina, quella poesia, che ora gli sembravano più significative e più belle.

La prima volta che il padre lo condusse a Serralonga, Nino parve impazzito. Andava di qua, correva di là, sal-tava, gridava, quasi gli sembrasse che quello soltanto era il vero modo di prenderne possesso.

E mentre il suo babbo s'intratteneva col mezzadro, dando ordini, chiedendo spiegazioni, la mamma, per fre-nare quegli impeti di gioia, gli disse:

– Dammi il braccio.E Nino diventò sùbito savio, e seguì, senza impazien-

za, i lenti passi della mamma, pei viali del giardino di agrumi, dando indicazioni:

– Vedi, mamma? Questa è una pianta di arancio inne-stata di recente. Vorrò imparare a innestare; il figlio maggiore del mezzadro mi ha promesso di insegnarmi.

– Ma tu non dovrai fare il contadino. Sarai avvocato, medico, chirurgo....

– Oh, no, chirurgo! Le piaghe mi dànno ribrezzo.... Guarda com'è alta questa pianta di limone! Dice il figlio del mezzadro che essa è la più vecchia di tutte quelle del giardino.... Questi qui sono limoncelli; quelli là, manda-

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rini. Laggiù c'è anche un fico coi rami bianchi, contorti.... Si trova per caso in mezzo agli aranci.

E gli sembrava che la sua mamma non ammirasse tut-to a bastanza.

Nelle ore che passava in casa e specialmente nei gior-ni di vacanza, Nino aveva potuto notare da qualche tem-po in qua, una affluenza di povera gente, specie di quel-le persone che hanno il pudore della loro miseria. Chie-devano di sua madre, s'intrattenevano a bassa voce con lei, e nell'andar via si diffondevano in ringraziamenti, in esclamazioni:

– Cento anni di vita! Soltanto il Signore potrà render-glielo!

Un giorno seppe che suo padre aveva fatto la dote di seicento lire a un'orfana sua lontanissima parente. La ra-gazza aveva potuto così sposare un buon operaio e met-ter su una botteguccia di mercerie.

Marito e moglie erano venuti a ringraziarlo, e Nino potè assistere a una commovente scena, quando quei due volevano baciar le mani del loro benefattore, e don Cola se ne schermiva vivacemente, mettendosi le mani dietro la schiena e poi nelle tasche dei calzoni, quasi quei due tentassero di usargli una violenza.

Nino avrebbe voluto fare un po' di bene anche lui al-l'insaputa dei genitori. E, ora, andando a scuola, si met-teva in tasca parecchi soldi, di quelli che ricavava in re-galo dalla mamma e dal babbo in diverse occasioni.

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Pensava:– Il primo povero che càpita gli faccio l'elemosina.Ma quando ne incontrava uno, aveva quasi vergogna

di accostarlo e dirgli: – Ecco qui! – E, naturalmente, a un ragazzo nessuno stendeva la mano.

Più volte, andando per le vie, si era imbattuto in un vecchio che trascinava le gambe. Doveva essere stato un bell'uomo, si vedeva dall'aspetto reso venerando dalla lunga barba bianca. Vestito miseramente, si avvicinava alle persone cavandosi il berretto, senza importunarle con lamentevoli richieste; e se non riceveva niente, si al-lontanava salutando rispettosamente, trascinando le gambe.

I ragazzi lo burlavano, gridandogli dietro:– Guarda come corre! Guarda come corre!E siccome egli si rivoltava, minacciandoli col basto-

ne, quelli urlavano più forte.– Guarda come corre! Guarda come corre!!Una mattina, Nino Capra e Montemagno, indignati,

avevano rincorso e disperso la turba di ragazzacci che molestavano il vecchio, e Nino aveva fatto proprio uno sforzo per vincere il ritegno di dargli i quattro soldi che si trovava in tasca. Gli pareva di umiliarlo, di mortifi-carlo facendo lui, ragazzo, l'elemosina a una persona che poteva essergli nonno.

Dopo quella mattina però, la prima volta che lo in-contrò, gli stese la mano con pochi soldi, senza attende-

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re che il vecchio passasse oltre.– Sentite – gli disse – se mi dite dove state di casa,

verrò a portarvi o vi manderò qualche altro soccorso.

***

Nino si sentì stringere il cuore da grande pietà, quan-do mise il piede nel bugigattolo affumicato, a pian terre-no, dove il vecchio abitava. Due seggiole impagliate, un rozzo tavolino e un misero giaciglio ne formavano tutto la mobilia.

Il vecchio lo guardava stupito; pareva che non credes-se ai suoi occhi, vedendo là quel buon ragazzo che, timi-damente gli aveva detto: – Sono delle mie strenne – quasi per scusarsi di non potergli dare più di quelle venti lire in argento e in monetine di nichel messegli in mano.

E Nino non tanto era contento di aver fatto quell'ope-ra di carità quanto dell'aver potuto farla di nascosto di tutti.

In certi momenti però provava una specie di rimorso per non aver dato conto, specialmente alla mamma, del-le lire portate a quel vecchio. E per ciò, un giorno, volle interrogarla:

– Il danaro che regalate tu e il babbo è mio, è vero: Posso farne quel che voglio....

– Purchè tu non lo adoperi male.– E non debbo chiedere permessi a te nè a lui, è vero?

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– Purchè tu non lo adoperi male! – replicò la mamma.E sorrise in maniera da far capire che sospettava del

cattivo uso ch'egli avrebbe voluto farne.Nino fu sul punto di rivelarle in che modo se ne era

servito; ma gli parve che stesse per vantarsi di una pic-cola buon'azione, e rispose soltanto:

– Non dubitare; lo adopererò bene.Fece la stessa domanda al padre, il giorno che questi,

combinata la vendita degli agrumi e ricevuta dal com-pratore una forte caparra, gli diede una moneta di oro da cento lire.

– Ma i quattrini che mi dài sono proprio miei, è vero? E posso farne quel che voglio?

– Tutto, – rispose don Cola, – fuorchè buttarli dalla fi-nestra.

Quel giorno, a desinare, egli spiegava alla moglie l'af-fare concluso con l'agrumaio. Era molto contento, man-giava con appetito. Verso la fine, disse:

– Questa rimanenza di maccheroni e di stufato man-diamolo alla famiglia del ciabattino del vicolo qui ac-canto.

– Con una bottiglia di vino – soggiunse sua moglie. – Sarà una festa, poveretti!

– C'è un vecchio....Nino s'interruppe quasi per scoprire anticipatamente

con gli occhi l'intenzione dei genitori. Il momento gli sembrava favorevolissimo per la raccomandazione che

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voleva fare.– C'è un vecchio che va chiedendo la elemosina e può

camminare a stento perchè ha male alle gambe. È solo; abita in una specie di grotta.

– Come lo sai?– Lo so, papà. L'ho visto.... una volta, passando di là.

Ecco, tu dovresti aiutarlo. Ho pensato: se il babbo lo prendesse per guardiano della vigna.... Dice che ci vuole un guardiano....

– Guardiano della vigna, uno che ha male alle gambe! – esclamò don Cola ridendo benevolmente.

– Non deve guardare con le gambe, papà!– Sarà un'opera di carità – disse la mamma intenerita

dalla proposta del figliuolo.– Lo conosco, – riprese don Cola. – Un vecchio con

la barba bianca, che chiede l'elemosina senza importu-nare la gente.... Guardiano della vigna! E sia, poichè ti fa piacere. È un'elemosina come un'altra!

A Nino parve troppo facile quella sua vittoria di pic-colo protettore, per ciò rispose quasi freddamente:

– Grazie papà! Grazie mamma!

***

Il vecchio era da un mese a Serralonga quando don Cola condusse colà la famiglia per la villeggiatura. Nino aveva saputo che quello si chiamava mastro Santi Cauri-

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no, cordaio. Di disgrazia in disgrazia, si era ridotto a chiedere l'elemosina. Soleva dire:

– Non sono stato cordaio per niente. Con l'andare in-dietro indietro nel filare la canapa delle corde, sono arri-vato al punto.... in cui mi vedete!

Nino lo trovò rifatto; col vestito smesso regalatogli da don Cola, sembrava un altro. Era anche di umore gaio; nessuno lo avrebbe sospettato, incontrandolo per le vie. Nino, poi, non rinveniva dalla sorpresa, sentendolo par-lare per sentenze, spesso in versi.

***

Una di quelle mattine in cui Nino si divertiva a corre-re e a saltare, al suo solito, lungo lo stradale davanti al cancello della villa, vide avanzarsi da una scorciatoia un uomo con gran cappello di paglia in testa, e dietro le spalle, trattenuto da corregge infilate alle braccia, uno zaino che appariva colmo di oggetti come quello dei soldati.

Nino si era fermato a guardarlo con curiosità.– Scusa, ragazzo: c'è il padrone della villa? – doman-

dò quel signore.– È mio padre, venga; lo chiamo, laggiù.Fu così che quella sera Nino ebbe per ascoltatore – e

non se lo attendeva – il pittore toscano, paesista, che aveva chiesto al signor Capra il permesso di fare alcuni

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schizzi del giardino di agrumi, ed era rimasto ospite di lui fino al giorno dopo.

Nino lo aveva lasciato in casa, a discorrere con suo padre, e non si era accorto che tutt'e due, poco dopo lo avevano raggiunto per accostarsi al gruppo dei contadini intenti ad ascoltare le ultime parole della fiaba narrata dal vecchio. Nino si avvide del padre e dell'ospite quan-do era già inoltrato nel raccontare la sua.

Arrossì, esitò un momento. Il pittore, con un gesto della mano, gli fe' cenno:

– Prosegui! Avanti!E per Nino quel gesto fu come un colpo di sprone.Mai nelle sere precedenti aveva raccontato così bene.

E intanto che la fiaba si svolgeva dalle sue labbra una specie di ebbrezza lo esaltava. Per riguardo del suo udi-torio, egli parlava il dialetto siciliano. Le più schiette, le più vive parole scoppiavano nei dialoghi, drammatizzati dall'accento della voce che rivelava subito il personag-gio senza bisogno di aggiungere altro.

E, nella foga della narrazione, la fiaba presa a ripetere si trasformava, si ampliava, con bei particolari, si arruf-fava, si distrigava; e quando sembrava che il Reuccio o la Reginotta fossero ormai vicini a un felicissimo scio-glimento, sopravveniva qualcosa che frapponeva un nuovo, più terribile ostacolo. Nino leggeva negli occhi de' suoi ascoltatori l'ansiosa domanda: – Come gli finirà al povero Reuccio?

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E godeva di tenerli su la corda, contento che mai, mai mastro Santi era arrivato fino a questo trionfo, fino al trionfo degli: oh! di sollievo che scoppiarono da quei petti di fanciulli grandi, quali erano i contadini suoi ascoltatori, quando la fiaba terminò con le nozze del Reuccio e della Reginotta.

– Bravo! Bravo davvero! – esclamò il pittore. – Non credevo che in certi momenti si potesse ridiventare bam-bini.... E l'ho provato! Questa fiaba mi sembra di averla letta, ma tu l'hai ridotta quasi diversa. Ed ho capito che tutto quel che hai aggiunto è roba della tua fantasia, im-provvisata lì per lì; è vero? Bravo! Non c'è da arrossire. Anzi! Anzi!... Mi rallegro con lei – soggiunse rivolgen-dosi al signor Capra. – Suo figlio ha il germe del gran dono dell'immaginazione creatrice. Studiando, potrà riu-scire un grande artista.... Gliel'auguro di tutto cuore!

– Riuscirà!... Non dubiti! Riuscirà!Era mastro Santi che parlava, con le lacrime nella

gola.Quella notte Nino, dalla commozione non arrivava a

chiudere occhio. Egli era più maravigliato del pittore, pensando a quel che doveva essergli accaduto, quasi uno spiraglio di luce gli si fosse aperto nel cervello nei mo-menti in cui raccontava.

E appena potè addormentarsi, fu per tutta la nottata, un affollarsi, nel sogno, dei vani personaggi della fiaba: Re, Reucci, Reginotte, Fate, Maghi, Orchi, Mammedra-

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ghe.... Ed egli si vedeva mescolato con essi, li consiglia-va, li aiutava, li difendeva, prendeva vivissima parte alla loro gioia, ai loro dolori, lontano dalla sua mamma, da suo padre che, nel sogno, gli erano proprio spariti dalla memoria.

Tre settimane dopo, Nino, che avea terminato le com-plementari e non avea altre scuole da frequentare nel suo paesetto, entrava in un collegio, per gli studi ginna-siali nella città vicina.

Fu un gran dolore per lui distaccarsi dal genitori. E nei primi mesi, soltanto alla sfuggita gli era tornato alla mente il luminoso mondo delle fiabe.

Non potendo più raccontarle a nessuno, se le raccon-tava nascostamente da sè, scrivendone di tanto in tanto una di sua invenzione. Ma, scrivendole, si accorgeva delle grandi difficoltà da superare, e si scoraggiava.... Ricordava le belle parole del pittore in quella sera.

Il sole, tramontato, dorava ancora le cime delle mon-tagne lontane; dal giardino di aranci e dalla campagna attorno si spandeva un sottile profumo che esilarava lo spirito.... E ricordando quel giorno, quell'ora e l'augurio – Suo figlio ha il gran dono dell'immaginazione creatri-ce. Studiando, potrà riuscire! – Nino si sentiva conforta-re l'animo, e tornava a ritentare....

Qualche volta provava l'impressione di avere scritto una bella fiaba, più bella di quelle che cercava nei libri, nei giornali per fanciulli; e allora sorrideva sodisfatto di

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sè, proprio come gli accadeva quando il suo professore d'italiano gli segnava bei dieci nei cómpiti.

Ora era orgoglioso di quella sua facoltà. Conservava gelosamente i fascicoletti dei manoscritti, non li mostra-va neppure ai compagni.

Nella sua mente baluginava, di tratto in tratto, l'idea di fare un'improvvisata a tutti, proprio come usano di solito i grandi scrittori, quando affermano di non avere in preparazione nessun nuovo lavoro, e ne hanno già pronti uno, due....

Pubblicare un volumetto di fiabe, e poi un altro e un altro ancora, diventare un grande scrittore.... e non sola-mente per fanciulli!

Questo era il sogno di Nino Capra.Infatti....

CONSIDERAZIONI

La novella pone e sviluppa il primo periodo di vita di uno scrittore in erba:i particolari, anche se sembrano sovrabbondanti, sono tutti atti ad

ambientare l'avvenimento e a dargli un sapore di garbatanaturalezza. C’è, reso evidente da quell'infatti che

conclude la novella, un tono certamenteautobiografico.

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IL «DIARIO» DI CESARE.

Appena alzatosi da letto, Cesare Galdi correva nello studio del padre per domandare ansiosamente:

– Ha scritto lo zio?Il Professore Galdi era mattiniero; e prima di andare

alla Clinica dell'Ospedale, soleva passare un'oretta a rin-frescarsi la mente – diceva – con la lettura di qualche classico italiano o latino, per non imbestialirsi – aggiun-geva – con le piaghe, le suture, le amputazioni e simili bellezze!

E, quasi ogni volta, rispondeva al figliuolo:– Ma che ti figuri? Lo zio ha ben altro da fare come

Corrispondente di guerra. Quando ha tempo di scriver-ci, ci regala appena una paginetta mezza illegibile, tanto è stata buttata giù frettolosamente! Io mi maraviglio che possa mandare due lunghe lettere la settimana al Cor-riere. Sono importantissime. Farà bene a riunirle in vo-lume, come quelle sue dalla Libia.

Ah, le corrispondenze dello zio! Erano la grande invi-dia di Cesare Galdi.

Il Professore tornava a casa con un gran fascio di giornali, ed egli se li divorava tutti, leggendo a preferen-za le lettere Dal teatro della Guerra del fratello di suo padre, da lui giudicate più interessanti di quelle degli al-

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tri giornalisti.– Par di essere nelle trincee, è vero babbo? – egli si

estasiava durante la colezione o il desinare. – Par di sen-tire le scariche delle mitragliatrici; par di vedere gli as-salti alla baionetta, è vero babbo?

E il giovinetto si maravigliava di non leggere che qualche corrispondente fosse stato ferito o ucciso in uno scontro. Da parecchie settimane, prima di entrare in classe, egli ragionava di guerra coi compagni.

– Dovresti andare a combattere anche tu!– Se avessi più di quindici anni! – rispondeva. – Ma

almeno io m'interesso dei grandi fatti. Non sono un'ani-ma morta, come voialtri!

– Io ho un cugino, tenente di Artiglieria.– Io ho un fratello caporale, nel 6° Fanteria!– Ma non sono in Francia, come mio zio che assiste

ogni giorno ai combattimenti e ne scrive nel giornale!– Mio padre dice che tutte le corrispondenze dei gior-

nali sono bugie....Cesare afferrò pel petto del vestito il compagno che

gli stava allato, e rispose:– Tuo padre non parlerebbe così se conoscesse mio

zio! Sai chi è Lorenzo Galdi? E l'autore del volume: L'I-talia in Libia. Lo han citato fin nella Camera dei Depu-tati....

– Citato.... in che senso?– Con onore, come autorità.... Che ti pare?

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E, all'uscita dalla Scuola, Cesare riprendeva a discor-rere della guerra, dei francesi, degli inglesi, dei tedeschi e anche un po' dei russi.... Ma questi erano lontani e lo interessavano meno.... E, poi, in Russia non c'era suo zio.

Parecchi compagni facevano circolo intorno a lui, ascoltando attenti, domandando qualche spiegazione; al-tri gli passavano accanto, gridandogli ironicamente: – Addio, Capitano! Addio. Generale! – E Cesare rispon-deva, senza scomporsi: – Addio, cretini!

Gli pareva impossibile che i ragazzi della Prima Gin-nasiale non s'interessassero molto della terribile guerra che sconvolgeva il mondo intero.

Egli avrebbe potuto recitare a memoria lunghi brani delle Corrispondenze di suo zio, tante volte le aveva ri-lette. Ma da qualche tempo in qua fantasticava certe corrispondenze di sua invenzione, che ancora non sape-va decidersi di dare alla carta, quantunque avesse già preparato alcuni quaderni, col titolo «Il Diario di Cesa-re» scritto in rosso fiammante.

Aveva la testa piena di notizie di ogni sorta! Avrebbe voluto mescolarle, fonderle, mettendosi nella situazione di tutti quei giornalisti che pareva si esponessero al peri-colo di ricevere una palla nemica in fronte.

– Dunque – concludeva – posso fingere di fare il cor-rispondente anch'io, e sarebbe bella se potessi far stam-pare le mie corrispondenze in qualche giornale!

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Pensava alla stampa di esse prima di averne scritto una sola riga! Ma in quei giorni doveva occuparsi di una materia in cui si sentiva deficiente. Non vedeva l'ora di esser libero per dedicarsi interamente al suo «Diario», che, ogni giorno più, gli scaldava la testa.

Finalmente potè occuparsi dell'esecuzione del Diario.Lo aveva rimuginato. Gli pareva che avrebbe dovuto

faticar poco; trascriverlo invece che crearlo; ma si ac-corse che la cosa non era così facile, come se la era im-maginata.

Restò più di mezz'ora col quaderno davanti e la penna in mano; poi ricordò la prima Corrispondenza dello zio, dopo il suo arrivo in Francia, e gli parve che era giusto di cominciare in quel modo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Sono a Parigi per poche ore. Faccio colezione in un

Caffè, in attesa che mi si firmino le carte, necessarie.«Nel Caffè, poca gente. Dico al cameriere che mi ser-

ve: – Eh?... Scarsi avventori! – Sono tutti alla guerra. – Gli dico: – E voi non siete stato chiamato sotto le armi? – Mi ha risposto:

– E qui chi servirebbe le colezioni, i desinari a coloro che sono rimasti?

«Ha ragione.«Colezione eccellente, sì, ma salata, salatissima, in-

tendo dire per il conto.«Ho pagato, ho acceso l'ultimo sigaro italiano che mi

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rimaneva e sono andato a ritirare le carte.«Quante noie! Domande su domande:«– E voi siete proprio giornalista?«– E vorreste andare proprio fino alle trincee?«– Fin dove si può.«– Badate: certe cose non si possono scrivere, per non

fornire indicazioni al nemico.«– So il mio dovere. Non è la prima volta che faccio

il corrispondente.«Finalmente, posso montare in treno.«Con la scusa della guerra, i treni vanno come le lu-

mache. I vagoni di terza classe sono pieni di truppa. Io viaggio in prima....»

Cesare si fermò, portò alla bocca l'estrema punta del portapenne, e cominciò, inconsapevolmente, a masticar-la. Intanto rileggeva: «Sono a Parigi...» Approvò, crol-lando il capo, quel che aveva scritto, e riprese:

«In mezzo a ufficiali, alti e bassi, cioè di ogni grado. C'erano anche due generali, uno grasso e baffuto, ritinto – si vedeva; – l'altro, magro, lungo, che non diceva una parola, e mi guardava con certi occhi....

Per chi mi ha preso? E io gli ho detto: – Sono italia-no, giornalista. Ho le carte in regola.

«– Si accompagna con noi? Vedrà come gliele sonia-mo ai tedeschi! E l'Italia perchè non viene a fare la guer-ra? Ha paura?...» Risposi: – L'Italia non ha paura di nes-suno! – Il Generale magro e lungo stette zitto. L'altro, il

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grasso e baffuto, intervenne: «Noi francesi vogliamo bene all'Italia; l'abbiamo fatta noi a.... a....» Non si ricor-dava dove. Risposi: – l'Italia si è fatta da sè, con Vittorio Emanuele e Garibaldi.... – cominciavo a sentirmi secca-to; e se avessero continuato su lo stesso tono, Generali e buoni com'erano.... Ma ebbero prudenza; e si misero a discorrere tra loro.

«Io ripresi a fumare l'ultimo sigaro italiano che mi era rimasto».

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sì, c'era l'intonazione delle Corrispondenze dello zio,

e certa spavalderia, che lo aveva impressionato in alcuni articoli di «Rastignac,» dove molte cose gli rimanevano oscure e per ciò gli piacevano di più.

Per quella mattina non scrisse altro. Riprese la penna prima di andare a letto.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Scrivo dalla camera di un alberguccio in questo vil-

laggio di Ipres, a pochi chilometri dal Quartier generale. Ho percorso in quindici ore parecchie centinaia di chilo-metri in un territorio che presenta tutte le desolazioni della guerra. Case di campagna rase al suolo; ville si-gnorili mezze bruciate, con le imposte sconquassate, bo-schi ridotti una fitta di tronchi spezzati dalle cannonate; ponti fatti saltare in aria per arrestare le marce del nemi-co. Si passava dal verde dei prati al bianco della neve alta così, più di un metro. Ma quel che maggiormente

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impressionava era il silenzio che incombeva da per tut-to. Fin gli uccelli sono scomparsi!

«Gli uccellacci che volano sono soltanto gli aeropla-ni, che buttano bombe. Ne ho visto uno, in alto, quasi tra le nuvole che coprivano il cielo. Chi sa dove andava? Tutti i viaggiatori erano affacciati agli sportelli, a guar-dare se mai si avvicinasse, e buttasse bombe su i vagoni. I soldati dei vagoni di terza classe gli mandavano impre-cazioni, lo fischiavano, come se quelli dell'aeroplano potessero sentirli di lassù, dalle nuvole.

«Domani, finalmente, conoscerò le famose trincee». . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E, appena levatosi da letto, riprese il lavoro. Per poco

non gli pareva che fosse un Corrispondente di guerra sul serio, e che non compisse il suo incarico rimpasticcian-do alla meglio corrispondenze e notizie, delle quali si era rimpinzata la memoria leggendo i giornali che porta-va a casa suo padre.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Sono arrivato che appena albeggiava. Il cielo era co-

perto di nuvole nere. Pioverà peggio che non abbia pio-vuto in tutta la nottata. Per fortuna, ho avuto la buona idea di comprarmi un paio di stivali alti fino a mezza gamba, che non temono l'umidità. Si cammina sprofon-dando nella mota.

«Curiosa! I tedeschi del Kaiser hanno scavato le trin-cee. I francesi hanno scavato le trincee. Gli inglesi han-

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no scavato le trincee, e vi si nascondono, immersi nel fango, attenti a guardare se uno rizza il capo e a tirargli. Si sentono spari dietro spari. E così passa il tempo. Do-mandiamo ai capi: – Che è stato? – Niente. Abbiamo preso una trincea; ammazzato parecchi nemici, fatto centinaia di prigionieri.... – Posso scriverlo? – Certa-mente. – Come se si fossero messi di accordo francesi, tedeschi, inglesi: Abbiamo preso una trincea, ammazza-to parecchi uomini, fatto centinaia di prigionieri....

«Ma ogni bel gioco dura poco.«L'azione di ieri è stata tremenda; una vera carnefici-

na. Non si distinguevano più nemici da nemici. Cataste di morti; di feriti....»

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cesare s'interruppe. Avrebbe voluto descrivere la mi-

schia, e dare nomi di Generali, di Comandanti, ma in quel momento non ne ricordava nessuno. Si rammenta-va quello di un Generale russo; la battaglia, però, era ac-caduta in terra francese.... Che c'entrava un Generale russo? Avrebbe fatto ridere. Improvvisamente, si ricor-dò: Joffre!... Intinse la penna e continuò:

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Ma la vittoria è stata dei francesi!«Ho visto il generale Joffre che scendeva, a cavallo,

dalla collina d'onde aveva diretto l'azione. Gli ho gridato levandomi il berretto: – Viva la Francia!

«– Voi siete italiano – mi ha detto in francese. – Viva 96

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pure l'Italia.... che tarda, però, a venire con noi! – Verrà soggiunsi io – se sarà il caso! – Che ne sapevo se sareb-be andata o non andata? Non volevo compromettere il mio paese. Mi ripresi tutt'à un tratto: – Sono già venuti i garibaldini signor Generale!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Tempo indiavolato! Vento, neve, pioggia come Dio

li manda. La neve si accumula sui vagoni in modo da rallentare la corsa del treno. In certe stazioni diecine di operai devono sbarazzare con le pale il tetto dei carroz-zoni, perchè il treno non sia arrestato dal gran peso della neve. – Questa è nuova! – si applaudì Cesare. – Non l'ho letta in nessuna corrispondenza giornalistica.

«Io ho trovato un mezzo ingegnoso per fare un buco nel ghiaccio. Ho acceso un sigaro e mi son messo a fu-mare appoggiandone la punta sul vetro.... E quasi sùbito si è formato come un occhio. Un francese, un bel vec-chio, signorilmente vestito, disse: – Ah questi italiani! Sono famosi per certe trovate! – Il treno si era fermato. L'accampamento dei garibaldini era a cento passi, rosso come un prato di papaveri.

«Mi venne incontro un ufficiale:– Chi siete? Che cercate?– Corrispondente....– Ah! Italiano? Allora.... Avanti! Noi non vogliamo

saperne dei giornalisti che scrivono tante falsità. Figura-tevi! Quelli tedeschi non vogliono credere che due figli

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di Ricciotti Garibaldi sono morti per la Francia.... – S'in-terruppe pensando: – Anche lo zio ce l'ha con i giornali-sti.

«Sentendo il mio nome, molti mi son venuti attorno, scambiandomi per mio zio Lorenzo Galdi. Dapprima io avevo lasciato correre; l'equivoco poteva giovarmi, mi pareva. Ma quando intesi gridare: – Dov'è? Dov'è il mio amico? – dissi sùbito: – Sono suo nipote. – Come se fos-si stato mio zio! Mi accolse a braccia aperte, cioè con un braccio aperto, perchè il destro lo aveva appeso al collo con un fazzoletto. – Un piccolo scherzo dei tedeschi! – mi disse. – Ma noi gliene abbiamo fatti parecchi, e di quelli che non si dimenticano facilmente.

«Ho visto Beppino Garibaldi. Bel giovane! Mi ha stretto la mano; così forte che quasi mi ha fatto male. Forse per farmene ricordare.

«E, tutt'a un tratto, fucilate dalle trincee nemiche. E un accorrere, come a un ballo, di quegli uomini che poco fa pareva fossero là per spasso, per una scampa-gnata....

«Mi veniva l'impeto di afferrare un fucile anch'io e buttarmi nella mischia. Ma, in caso di disgrazia, chi avrebbe scritto le Corrispondenze?

«Aiutai gli uomini che portavano fuori di combatti-mento i feriti. Alcuni di essi potevano reggersi zoppi-cando, su le gambe; altri erano svenuti, colpiti mortal-mente; qualcuno spirava per via, tra le nostre braccia,

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ma, da lì a tre ore, la trincea nemica era nostra, e l'Inno di Garibaldi risonava per la pianura, vero Inno di vitto-ria, cantato anche dai feriti.

«Io non dimenticherò mai queste ore. I garibaldini, comandati da colui che porta il nome dell'immortale suo Nonno, si sono coperti di gloria, come i loro precursori a Digione.

«Ho cantato, in coro anch'io:

«Si scopron le tombe, si levano i morti....!». . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Una sera a tavola, suo padre gli annunziò:– Tra otto, dieci giorni, tuo zio sarà qui. È un po' ma-

lato, scrive; ma temo che lo sia più di un po'. In ogni modo, riposerà, e potrà pubblicare il primo volume delle sue Corrispondenze intorno alla guerra attuale.

Fu un colpo per Cesare Galdi. Pensava che il suo «Diario» non poteva formare neppure mezzo volume; altrimenti avrebbe pregato lo zio:

– Zio.... zio! Fa' stampare anche questo, come le tue Corrispondenze!

Lo zio – n'era sicuro – non gli avrebbe detto di no.Ma aveva, per lo meno, otto giorni di tempo. E in otto

giorni!...E quella notte non andò a letto, deciso di scrivere un

bel mucchio di pagine. Infatti....99

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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Avrei voluto rimanere coi miei cari garibaldini anco-

ra un pezzo; ma il mio dovere mi chiama altrove.«Dovrò imbarcarmi e andare ad assistere alla presa

dei Dardanelli. Il capitano mi ha detto:«– Sappiate però che corriamo pericolo di saltare per

aria per qualche mina. Provvedetevi almeno di un salva-gente.

«E sono andato a comprarmene uno.«Scrivo dalla sala da pranzo del piroscafo.«È una magnifica giornata. Il mare è tranquillo; e si

viaggerebbe serenamente, senza il pensiero che, da un momento all'altro, potremmo trovarci in fondo al mare, tra i pescicani che si divertirebbero a divorarci. Il piro-scafo fila che è un piacere.

«Io sono il solo passaggero. Il capitano mi ha invitato ad andar su, con lui, sul ponte di comando, per godere lo spettacolo del mare. Acqua, acqua, acqua ed acqua! Li-scia come una tavola! A me il mare piace quand'è agita-to, con le ondate spumanti, se non coi cavalloni della tempesta.... E il Capitano, mi ha detto:

– Avremo un po' di cattivo tempo.«Mi era parso che lo dicesse per ischerzo. Ma una

mezz'ora dopo il piroscafo ballava, e io dovetti scendere giù per non essere inzuppato dagli spruzzi di acqua che arrivavano fin lassù. Si balla tuttora....

«Io scrivo, o, piuttosto, tento di scrivere e faccio certi 100

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scarabocchi, come quand'ero alla terza elementare. Ap-punto, questi sono i piaceri dei Corrispondenti! E, scri-vendo, penso:

«Salteremo per aria? Non salteremo?«Veramente mi dispiacerebbe non assistere alla Presa

dei Dardanelli; e, per cautela, ho infilato, il mio salva-gente. È un po' impaccioso....

«Il cattivo tempo aumenta. Saltabecchiamo come se il piroscafo fosse un guscio di noce. Devo smettere di scri-vere.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cesare si rammentava di un suo viaggetto per mare e

della gran paura e di.... altro che aveva avuti; ma, da Corrispondente voleva mostrarsi coraggioso. Si era pen-tito della cautela di aver indossato il salvagente.... nel «Diario» pensò, ridendo; perchè lui lo aveva inteso no-minare, ma non ne aveva mai veduto uno.

Si era messo a tavolino per scrivere fino all'alba.... e all'alba si trovò con le braccia in croce sul piano del ta-volino, e la testa su le braccia, comodamente. Aveva scritto appena due paginette, e le righe erano proprio scarabocchiate, quasi illeggibili.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Professore Galdi, che era vedovo da sei anni, aveva

una vecchia governante svizzera. Gli dirigeva la casa e faceva un po' da mamma a Cesare. Ella si maravigliava di vederlo ogni giorno chiuso per lunghe ore nel suo stu-

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dio, cosa insolita per lui.E qualche volta entrava là e lo aveva sorpreso sempre

intento a scrivere.– Che fai, mon enfant?" – Lo chiamava così.– Niente.... correggo e ricopio certi vecchi còmpiti.– Scendi in giardino, mon enfant.– Più tardi, mère!Lo aveva abituato a rispondere così.Cesare passava parecchie ore là, non tanto a scrivere,

quanto a rileggersi più volte, ad alta voce, e ad ammirar-si, quasi quelle corrispondenze non fossero invenzione sue, ma proprio scrittura di un Corrispondente di guer-ra... che avrebbe potuto essere lui, se invece di avere quindici anni, ne avesse avuti almeno venticinque.

E invidiava quella giovane ciclista belga, di cui aveva letto nei giornali che si era battuta come un uomo; e quel bambino, ciclista belga anche lui, che i suoi com-pagni maturi avevano onorato con una decorazione in-ventata da loro, ma non meno degna di esser rispettata quanto le decorazioni ufficiali.

Lo zio, naturalmente, si sarebbe riposato qualche giorno e poi sarebbe ripartito. E se lui lo pregasse:

– Zio, conducimi con te! Voglio fare il corrispondente anch'io!

Probabilmente lo zio, gli risponderebbe:–Ma tu non sei ancora buono pel difficile mestiere....– E allora lui gli darebbe a leggere il suo «Diario», e

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lo zio gli direbbe:– Bravo! Vieni!Per ciò si affrettava a trovarsi all'imboccatura dei

Dardanelli.... nel «Diario» s'intende.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Grande, indimenticabile spettacolo! Terra di qua,

terra di là, con fortezze armate di cannoni, e il mare che imbocca in quel vasto canale, quasi volesse versarsi dal-l'altra parte come in un imbuto».

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Non l'ho visto, ma su la carta dello stretto riportata

dai giornali sembra così. Infine – si confortò Cesare – quanti lettori potrebbero dirmi: Non è così!?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Sono stato ricevuto su la corazzata «Patria», per la

mia qualità di Corrispondente di giornali.No, non riusciva ad andare avanti; la notizia dell'arri-

vo dello zio lo aveva – chi sa perchè? – scombussolato. Doveva fargli leggere il «Diario» sùbito, o prima che ri-partisse?... O era meglio non farglielo leggere affatto?

Lo zio, uomo serio, coltissimo, non poteva soffrire – cosa strana! – i giornalisti. E se qualche volta Cesare gli aveva detto: – Vorrò scrivere anch'io sui giornali! – lo zio lo aveva ammonito: – Ci sono tante altre buone cose da fare in questo mondo! –

Cesare non sapeva spiegarsi perchè, intanto, egli fa-cesse il corrispondente.... di guerra, che era la parte più

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difficile del giornalista; e pensava al motto che veniva spesso ripetuto dal suo Professore : – Nessuno è conten-to della sua sorte!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Non gli pareva vero! Lo zio Lorenzo era là, a tavola,

seduto di faccia al fratello Professore, che non finiva d'interrogarlo, con grandissima curiosità, intorno a certi punti rimasti oscuri nelle sue Corrispondenze.

– Capisci – rispondeva il signor Lorenzo – c'era la censura militare, rigidissima. E, anche se non ci fosse stata, noi Corrispondenti non dovevamo fare le spie, ri-velando mosse al nemico.... che non avrebbe potuto co-noscerle altrimenti.

Cesare non seppe contenersi.– Zio, ho scritto Corrispondenze come te.... Un «Dia-

rio». Te lo darò per leggerlo.... E, se ti piace,.... dovresti farmelo stampare.... e.... compensare!

– Nientemeno! – esclamò il Professore con una di quelle sue belle risate che facevano tanto piacere. – E non me n'hai detto mai niente! Ah! Ah! Voglio leggerlo anch'io.... Ma come hai fatto? Hai copiato?

– Non ho copiato.... Vedrai zio!E, terminato di desinare, Cesare andò a prendere il

manoscritto, già copiato accuratamente. Lo presentò allo zio con una cert'aria vanerella che lo commosse, invece di predisporlo male.

Quella nottata, Cesare non chiuse occhio.104

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Gli pareva di vedere lo zio, ora in piedi, ora a letto col manoscritto del «Diario» in mano, ma non sapeva indo-vinar niente dell'impressione che il lavoro gli faceva. Gli pareva mill'anni che si facesse giorno, e che lo zio suonasse il campanello per il caffè. Sarebbe corso anche lui insieme con la cameriera....

Rimase deluso. Lo zio aveva rimesso a quella mattina la lettura del manoscritto!

Ma fu maggiormente deluso quando, sul punto di se-dersi a tavola, gli disse:

– Bravo! Bravo, Cesare! Come buffa caricatura di certe Corrispondenze dal teatro della Guerra.... quel «Diario» tenuto conto della tua età, è, in molti punti, ben riuscito!

Come caricatura.... di certe corrispondenze di guerra! Proprio così aveva detto lo zio, accompagnando le paro-le con quel suo sorrisetto irritante di uomo che sa quel che dice e vuol burlarsi, senz'averne l'aria, di chi lo ascolta.

Cesare aveva un groppo di singhiozzi nella gola, e non gli rispose. Più tardi, però, capì che quelle parole dello zio: Come buffa caricatura... erano state quasi una bella lode. E questa lo consolò della mancata pubblica-zione e dei compensi che non erano venuti!

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CONSIDERAZIONI

Due motivi, egualmente sinceri e ricchi d'interesse, hanno in questo raccontoil loro vivace svolgimento: l'entusiasmo ingenuo di Cesare per le

corrispondenze di guerra, la caricatura di quei giornalisti chescrissero senza aver tanto visto e mettendo un po' troppo inmostra se stessi. Dalla fusione, artisticamente interessante,

di questi due motivi nasce il tono sottilmente ironicodella narrazione.

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RICORDI D'INFANZIA.(1848–1849)

Un giorno il babbo mi condusse vestito da festa in casa del parroco cavalier Morgana, cavalier gerosolimi-tano.

Il salone rigurgitava di gente che parlava animatissi-ma; tutti avevano una coccarda tricolore al petto; ne fu appuntata con uno spillo una anche a me. In un canto, appoggiata al muro, una bandiera tricolore con un gran nastro a frange di argento attirava gli sguardi e l'ammi-razione di tutti. Poco dopo arrivò la banda musicale; una specie di processione s'istradò, in coda alla quale il ca-valiere – come lo chiamavano – portava in ispalla la bandiera fra le grida di: Viva Pio IX! Viva la Costituzio-ne! Abbasso i Borboni!....

Così assistetti al primo fatto politico, senza capire che significassero e la coccarda e la bandiera e le grida fre-netiche, e il Te Deum cantato solennemente nella bella chiesa di S. Agrippina. Sentivo dire che si era fatta la ri-voluzione, e che Pio IX era il Papa.

Qualche mese dopo capii che rivoluzione per noi fan-ciulli voleva dire: libertà di fare a sassate.... Ci eravamo divisi in tre partiti, distinti col nome dei tre quartieri del-la città; i due partiti di San Pietro e di S. Agrippina era-

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no spesso alleati contro quello di S. Maria, che possede-va nel suo territorio una fortezza, le rovine della torre maestra dell'antico castello greco. Occuparla i primi, e prenderla di assalto; ecco le nostre imprese giornaliere appena usciti di scuola....

Quelli di S. Maria figuravano i regi, cioè i borbonici.Ci eravamo costruiti fucili, cartucce ripiene di gesso

ben calcato, giberne di cartone, sciabole di legno. Per fabbricare un fucile si sceglieva una canna grossa e si tagliava della lunghezza di un metro; nient'altro. Nel momento della battaglia, s'introduceva dentro la cartuc-cia che andava giù per il proprio peso e che lanciata vio-lentemente con tutte e due le mani era capace di produr-re contusioni e ferite.

La mia casa segnava il limite tra i due quartieri di S. Pietro e di S. Maria, ma io avevo scelto il partito dei miei compagni di chiasso; il piano di S. Pietro era infatti il luogo di convegno di gran parte della scolaresca, pei giuochi d'ogni sorta. A nove anni, poco ardito e intra-prendente, non avevo nessun grado nella milizia; qual-che volta facevo da alfiere, ma nelle parate soltanto: for-se perchè sapendo tingere in rosso e in verde le bandiere di carta pareva giusto che almeno avessi l'onore di por-tarne una.

Un giorno ci venne il capriccio di rappresentare a modo nostro la scena della Costituzione. Rizzammo un trono di seggiole sovrapposte a seggiole fatteci prestare

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dalle donnaccole del vicinato; uno scolare – il più grul-lo, e che era, quantunque maggiore di età di tutti noi il nostro zimbello, – doveva fare da Re Bomba e ricevere gli ambasciatori che sarebbero andati a chiedergli la Co-stituzione. Nessuno di noi sapeva precisamente che cosa fosse la Costituzione, ma questo non voleva dir niente.

Re Bomba, seduto in cima a quel trono, a ogni richie-sta degli ambasciatori rispondeva un: – No! – nasale, che il popolo poco distante (cioè noi ragazzi) accoglieva con urli e fischiate. Gli ambasciatori andavano e veniva-no inutilmente; Re Bomba, più duro che mai, all'ultimo ne ordinò l'arresto e la fucilazione.

Era stato convenuto così; ma era stato anche conve-nuto – e questo lui non lo sapeva – che il popolo sarebbe insorto e lo avrebbe buttato giù dal trono. Il trono era pochissimo solido; bastò un urto perchè re e seggiole capitombolassero con fracasso; e mentre Re Bomba si tastava tutto, piagnucolando, noi ci vendicavamo del ri-fiuto della Costituzione buttandogli addosso manate di terra, bucce, sassi, dandogli pugni e spintoni, finchè non gli parve più prudente darsela a gambe.

Anche la rivoluzione vera diventava sanguinosa! Un fratello della Mamma Nenè era stato ammazzato a tradi-mento con una fucilata, e si temevano rappresaglie e vendette. Il mio babbo e i miei zii rincasavano all'avem-maria, e facevano mettere spranghe e catenacci alle por-te. Un giorno, uscendo di scuola, avevo assistito a un

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tentativo d'assassinio contro il cavalier Morgana. Alla vista dell'assassino che, sbraitando, puntava il fucile tra il fuggi fuggi della gente, avevo badato soltanto a turar-mi gli orecchi per paura della botta; ma l'arma fece ci-lecca, e quel furibondo venne arrestato. Arrivai a casa pallido, atterrito, incapace di raccontare quel che avevo visto, e la mamma la mattina dopo mi fece prendere la corallina.

Poi, una sera, dai visi sconvolti, dalle parole dette sot-tovoce, dalla fretta con cui la mamma volle mettermi a letto, compresi che accadeva qualcosa di grave. Mentre la mamma mi spogliava, si udirono scoppi che mi par-vero di mortaretti; la mamma, con le lacrime agli occhi, balbettava: – Oh, Vergine Santa! – Gli scoppi incalzava-no, vicinissimi, e per la via era un gridare confuso, un accorrere. Io domandavo:

– Mamma, che è mai?– Niente: mortaretti per la festa di Santa Agrippina.

Addormèntati.La mattina dopo appresi dai miei compagni che certe

cattive persone avevano tentato una rivolta contro i cap-pelli, cioè, contro i signori, contro i ricchi, e che la «Guardia Nazionale» aveva ucciso uno dei caporioni e feritone mortalmente un altro: gli scoppi uditi la sera precedente erano state le fucilate. E quei ragazzi mi con-dussero a vedere l'ucciso, uomo alto, bruno, dalla folta barba nera, steso su un cataletto in un angolo della chie-

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sa di S. Pietro. Il cadavere insanguinato era coperto con una coltre di seta gialla, ma tutti lo scoprivano per os-servarlo, e nessuno impediva l'orrido spettacolo.

Per qualche tempo non osammo più attardarci, come prima, nel piano di S. Pietro, dov'era accaduto l'eccidio.

Intanto, frequentavo la scuola.Le Scuole Comunali erano tre, denominate: Gram-

matica, Umanità, e Rettorica. Quella di Grammatica conteneva parecchie classi, dall'abbiccì al Limen del Porretti. Io già sapevo leggere correttamente, e studiavo anche calligrafia presso un maestro particolare. Ho fatto per molti anni di seguito un'infinità di aste grosse, scem-pie, chiaroscurate e poi alfabeti latini, gotici, inglesi; ma con poco buon risultato. La mia attuale scrittura dimo-stra che non son nato col bernoccolo del calligrafo.

In iscuola, mentre i più grandicelli traducevano dal latino in italiano, io e un compagno di panca, ci occupa-vamo a imprigionare mosche in una buchetta della pare-te turata con un pezzo di carta. Che stragi in primavera e in estate!.... I libri latini recavano allora la traduzione a fronte. Lo scolare con una mano reggeva il volume e con l'altra facendo le corna, teneva dietro alle parole del testo e della traduzione. Sentendo parlare di Cornelio, io credevo che il libro si chiamasse così appunto perchè gli facevano le corna sopra!

Prima delle lezioni, nel vasto atrio dell'ex Collegio gesuitico dov'erano le Scuole, nell'attesa dei maestri, ci

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abbandonavamo d'inverno alla ferraiolata, di estate alla librìata.

Nell'aprile e nel maggio, la scolaresca diventava il terrore dei fittaiuoli dei dintorni. Terminate le lezioni, ci davamo la posta nel famoso piano di S. Pietro, e là si or-ganizzavano certe spedizioni dalle quali appariva evi-dente come non ci fosse stata inculcata nessuna nozione del mio e del tuo! Infatti, quelle spedizioni le chiamava-mo ingenuamente: andare a rubare minnulicchi, man-dorle tenere, càtere come le chiamano a Firenze, o albi-cocche acerbe.

Giunti sul posto dove supponevamo con qualche pro-babilità che mancasse la custodia, i più svelti si arrampi-cavano all'albero, scotevano i rami, e gli altri raccoglie-vano i frutti caduti. Spesso i contadini ci rincorrevano, e allora era una fuga precipitosa, uno sbandamento disor-dinato. Qualche ferraiolo, qualche berretto abbandonati sul luogo servivano poi da prove di accusa presso i no-stri parenti, che c'insegnavano a scappellotti il rispetto dovuto alla proprietà altrui. Confesso però che gli scap-pellotti non ci impedirono mai di ricominciare. Le càte-re, le albicoccoline acerbe, le suggestioni dei cattivi compagni erano tentazioni irresistibili.

Verso la fine dell'anno scolastico, compariva la Com-missione, quattro o cinque signori che ci facevano dare in fretta e furia una specie di esame, e distribuivano im-magini sacre, più o meno grandi, più o meno colorate, a

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coloro giudicati degni di premio. Io non ne ebbi mai uno; a noi piccini la commissione incuteva quasi terrore forse perchè non la vedevamo mai durante l'anno.

Meno male che tutte le domeniche avevamo ora lo spettacolo degli esercizi della Guardia Nazionale! Erano tornati da Napoli due fratelli, soldati in un reggimento di volontari siciliani, sciolto dalla rivoluzione, e facevano da istruttori. Noi assistevamo a bocca aperta ai: Dietr! Front! Marche! Un, du'! Un, du'! – del battaglione parte in uniforme, parte no, e che poi andava militarmente ad ascoltare la Messa cantata.

Ci schieravamo in fila alla testa del battaglione e mar-ciavamo certamente assai meglio di quei militi.

Poi giunsero le prime cattive notizie; Messina asse-diata, bombardata, presa dai borbonici che già marcia-vano sopra Catania.

Era il giorno di Pasqua; lo rammento benissimo, come fosse ora. Mi avevano condotto su la terrazza del «Casino di Convegno», insieme coi fratellini, con le so-relline e con altri fanciulli, e tutti tenevamo in mano l'a-gnello pasquale di pasta dolce da far benedire dal Cristo risorto.

Quel giorno si fa in Mineo la festa dell'Inchinata, specie di rappresentazione sacra in cui sono attori le sta-tue della Madonna e del Cristo risorto.

Appena spuntato il sole, la gente si affolla nella Piaz-za Buglio e attende le statue e la processione. Avvilup-

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pata da un manto nero di seta, appuntato con spilli, la Madonna arriva la prima, preceduta da una confraternita in sacchi bianchi e mantelli di seta a colore, e vien rico-verata in una chiesa vicina. Uno dei confratelli porta un'asta in cima alla quale è adattata in bilico una campa-nellina ch'egli fa suonare a brevi rintocchi, tirando un nastro incessantemente.

Da lì a poco, ecco il Cristo con un braccio levato trionfalmente in alto, lo stendardo di broccato a lamine d'oro nel pugno sinistro, una gran raggiera di carta dora-ta dietro, e ai lati, da piè, manipoli di fave novelle, pri-mizie dell'annata, e che vien condotto per pochi minuti nella Piazzetta dei Vespri.

Intanto quegli che suona la campanellina, seguìto dai confratelli, va e viene con passi affrettati, tra la folla che gli fa largo, suonando a brevi rintocchi, incessantemen-te, quasi chiedesse alla gente notizie del Cristo risorto per recarle alla madre. Infatti dicono che lui o la campa-na simboleggi S. Giovanni, il discepolo prediletto. Ma non appena il Cristo viene ricondotto in Piazza Buglio, colui va a portare la lieta novella, e sùbito dopo arriva la Madonna, ancora avviluppata dal manto nero; a un trat-to il manto casca giù, e tra lo strepito dei mortaretti, del-la banda musicale, e le grida di: – Viva la misericordia di Dio! – il Cristo si muove incontro, e le statue sono spinte tre volte avanti e indietro e fatte inchinare, in se-gno di saluto; poi restano per qualche istante l'una di

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fronte all'altra.Il momento dell'Inchinata è climatetico per gli agnelli

pasquali dei bambini che li tengono levati in alto perchè siano benedetti.

Ma nell'anno 1849, il Cristo e la Madonna non com-parvero. Vidi, a un tratto, formarsi dei capannelli di gen-te pallida, gesticolante; guardie nazionali, ufficiali e sol-dati, abbandonare i ranghi e disperdersi; nessuno badava a insidiare i nostri agnelli pasquali, anzi nessuno si oc-cupava di noi che udivamo ripetere desolatamente d'at-torno: – Catania presa, arsa!

Uno levò via la bandiera tricolore rizzata su un pila-stro della terrazza del «Casino di convegno», e imme-diatamente il babbo e lo zio Antonio mi condussero a casa.

La rivoluzione era terminata? Così parve. Ma mi ri-mase nell'orecchio un nome non mai udito pronunziare: Satriano; qualcosa di tristo e di pauroso.

Due giorni dopo, all'uscita di scuola, alcuni signori prendevano in mano grandi fogli di carta esposti su un tavolino; insieme con gli altri dovetti scarabbocchiare il mio nome anche io. Poi seppi che ci avevano fatto fir-mare un indirizzo di sottomissione e di fedeltà a re Fer-dinando II, e per qualche tempo odiai ferocemente chi mi aveva indotto a quell'atto. Fu questo il mio primo in-definito sentimento di patriottismo!...

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CONSIDERAZIONI

Con semplicità, e senza sospetto di artifici, lo scrittore narra gli episodisalienti d'un periodo della sua infanzia. Periodo quanto mai tumultuoso:la nostra Patria, uscita dal letargo, tende a diventare libera e unita.

Donde moti, repressioni, di nuovo moti; episodi, questi, dellagrande rivoluzione risorgimentale che si va compiendo fino

alla meta ultima che sarà finalmente raggiunta. –Non si tratta, come vedete, di una novella; manon vi dispiacerà trovarle qui, queste pagine

evocatrici del tempo della fanciullezzain cui tutto ha un sapore stranamente

fantastico.

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IL DOTTOR FICICCHIA.

A Ramacca, parlando del Dottor Ficicchia, i contadini solevano dire: – Almeno ci ammazza gratis!

E non era vero.Si faceva pagare forse più degli altri medici, in tutte

le maniere possibili, se non con denaro sonante.Appena entrato in una di quelle luride casette dove

l'asino, il maiale e le galline contendevano il poco spa-zio alla famiglia umana, mescolando esalazioni d'ogni sorta che appestavano l'aria, egli cavava fuori il taccuino e vi notava il nome, il cognome, il mestiere dell'amma-lato e il nome della moglie e dei figli, quasi dovesse riempire una scheda da censimento, e soltanto dopo aver terminato quest'operazione preliminare, sedeva, tastava il polso, osservava la lingua, chiedeva informazioni. Scritta la ricetta, le rare volte che ne scriveva una, scrol-lava il capo e aggiungeva invariabilmente:

– La cosa è grave; ma rimedieremo!Talvolta rimediava come i suoi colleghi, spacciando

l'ammalato; spesso però lo guariva, o meglio, lo lasciava guarire, ordinando un po' d'acqua bollita con lo zucche-ro e qualche purgante. Questa parsimonia di medicine i contadini la interpretavano a modo loro:

– Il Dott. Ficicchia non è d'intesa col farmacista.117

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Infatti questi, che non poteva perdonargli il disdegno pe' suoi intrugli, se ne vendicava chiamandolo: Asino laureato. E vedendolo andare attorno per le visite sul bell'asino di Pantelleria che trottava al pari di un caval-lo, gli rideva dietro le spalle, e insinuava che sarebbe stato lo stesso se, invece di andare in persona dagli am-malati, avesse mandato la propria cavalcatura che sape-va di medicina quanto lui e forse anche più di lui.

I contadini, al contrario, portavano il dottore in palma di mano, e si sarebbero fatti squartare per rendergli un servizio. Egli lo sapeva e con questo si consolava di tut-te le malignità del farmacista e del collega dottor La Bella che curava i massai grassi e l'aristocrazia, cioè: il Barone, nei pochi mesi che veniva a passare in paese, e il suo amministratore, che faceva il barone tutto l'anno ed era il vero padrone di Ramacca.

Il dottor Ficicchia non serviva solamente da medico pe' suoi clienti, ma da consultore legale, da avvocato, da uomo di affari, e qualche volta anche da combinatore di matrimoni.

Di estate, la mattina, il vasto cortile della sua casa era pieno di gente; ed egli scendeva giù in berretto e pianel-le, con la pipa di terracotta tra i denti, e dava consulti alla lesta, serio, impettito, con un'aria da oracolo che sbalordiva i contadini e li faceva andar via contenti come pasque, già mezzi guariti per la gran fiducia che le insignificanti ordinazioni ispiravano.

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Il cortile era ingombro di massi che dovevano servire per la fabbrica della sua casa, e intanto servivano da se-dili. Lo stesso dottore sedeva su questo o su quel lastro-ne, accavalciando le gambe e dondolandole, secondo i casi più o meno gravi, mandando fuori frequenti boccate di fumo sputacchiando tra un'ordinazione e l'altra, acca-rezzando i bambini, ammonendo le mamme se avevano trascurato i suoi consigli, strizzando un foruncolo, medi-cando una piaga con certo impiastro di propria invenzio-ne che costava quattro soldi, ma da pagarsi in contanti, perchè gli ingredienti bisognava comprarli e venivano da lontano. – Il farmacista per quell'impiastro non si sa-rebbe contentato neppure d'una lira.... e chi sa che pa-sticcio avrebbe fatto! – Le povere donnicciole che non avevano nemeno quei quattro soldi, portavano due uova fresche. Il dottore se li metteva in tasca rassegnato. Me-glio di niente!

Sbrigate le consultazioni mediche, cominciava quelle intorno agli affari.

– Per la querela? Verrò io stesso dal pretore.– Per la citazione del Giudice conciliatore?Faremo rimandare l'udienza.– Per l'atto di vendita presso il notaio? Darò un'oc-

chiata io alla scrittura. Fìdati era un buon uomo: Non-ti-fidare era meglio. Spesso, con certi notai, uno si trova venduto come Gesù Cristo per trenta denari.

– Per quel matrimonio? Bisogna rimediare, dando alla 119

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ragazza la casetta. Il torto è vostro, compare.Qualche volta dava anche torto ai clienti, ma poi face-

va in modo che avessero sempre ragione. E il cliente spalancava tanto d'occhi apprendendo che la faccenda era aggiustata proprio come pretendeva lui. Ah, la sa lunga il nostro dottore.

La sapeva lunga davvero. Voleva un servizio e pareva chiedesse un favore. Ne' suoi viaggi a Caltagirone e a Piazza Armerina non spendeva un centesimo; il mulo di questo o di quel cliente lo portava e riportava comoda-mente, senza che egli si disturbasse, nè per la biada, nè per lo stallatico. Il cliente lo seguiva a piedi, stimolando il passo della bestia con una verghettina e con gli arri! arri! che le facevano rizzar gli orecchi e levare più leste le gambe. Intanto il dottore lo svagava così bene col rac-conto delle proprie e delle altrui faccende, che il povero pedone non si accorgeva della stanchezza e del sudore, e gli restava grato di quelle confidenze e del prestito del mulo, quasi bestia e padrone ricevessero onore, portan-do e riportando così brava persona.

E nei giorni della vendemmia? Nel cortile e davanti al portone, file d'animali carichi di otri col mosto; e tutti quei contadini affaccendati a scaricarli erano clienti, ai quali il dottore aveva detto sornionamente: a uno a uno.

– Domani, se, non hai nulla da fare, potresti andare a prendermi un carico di mosto a Trizzitello? Viaggio di poche ore.

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Il contadino, anche avendo da fare, non voleva dispia-cersi il dottore, che gli aveva curato gratis la moglie o il figliuolo spendendovi una buona dozzina di visite.

Così il dottor Ficicchia era servito meglio del barone che doveva pagare le giornate ai contadini nella ven-demmia, nella mietitura, nella trebbiatura, al tempo del-la rimonda degli ulivi per riempire di legna la legnaia.

Il manovale gli acconciava i tetti, gli faceva ogni sor-ta di riparazioni nella vecchia casa; andava a rizzargli anche i muriccioli in campagna, quando occorreva. Le donne gli filavano il lino e la stoppa per la tela della sua signora, che dava consulti anche lei, quando il dottore non era in casa. E perciò anche la signora aveva cento braccia da aiutarla a crivellare il grano: a dare, un po' per uno, quattro colpi al telaio nelle giornate d'inverno; a fare il bucato nel cortile con la gran caldaia di rame posta fra i massi, che aspettavano, alla pioggia e al sole, il giorno di essere intagliati pei terrazzini e per le fine-stre del palazzo da fabbricare, com'ella si compiaceva di dire con grandiosità che imponeva rispetto.

Quei massi di pietra calcarea, quei mucchi di sassi bene allineati torno torno al cortile, rappresentavano al-trettante giornate di trasporti a schiena di mulo, con cui i clienti avevano pagato le visite il doppio di quel che va-levano!

Ogni volta che il dottore incontrava per una via o in piazza qualche cliente disoccupato, gli si accostava sor-

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ridendo, gli domandava notizie della famiglia, gli accen-nava dalla lontana la cura fatta a' suoi o a lui pochi mesi addietro, e mostrava di compiacersi grandemente che non c'era poi stata la ricaduta per cui era stato in pensie-ro. Il contadino ringraziava di tanta premura, si sentiva intenerito, e il dottore, di punto in bianco, gli scaraven-tava in viso il solito:

– Non hai niente da fare? Fammi un piacere....Pareva una cosa venutagli in mente lì per lì: invece,

prima di uscir di casa egli aveva consultato il famoso taccuino e stabilito anticipatamente chi richiedere di quel piacere, che spesso si riduceva a una, due giornate di lavoro, per le quali gli sarebbe toccato di spendere una diecina di lire.

Che importava? Non pagavano in contanti; questo pei contadini equivaleva a non pagare nulla. E ripetevano in buona coscienza:

– Almeno ci ammazza gratis!La reputazione del dottor Ficicchia fu un po' scossa

durante il colera del sessantasei. Arrivavano brutte noti-zie da Palermo, da Catania, da Messina: la gente moriva come mosche. Si sapeva di certa scienza che la macchi-na per buttare il veleno era già arrivata al Pretore e al Maresciallo dei carabinieri. Solamente il Parroco non s'era ancor messo d'accordo col Maresciallo, col Pretore e col dottor La Bella intorno al numero delle morti che dovevano accadere in Ramacca. Si sapeva, anche di cer-

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ta scienza, che il dottor Ficicchia aveva risposto al pre-tore: – Avvelenate me, se volete! Io non ci metto le mani nell'assassinare la povera gente!

E così non se ne faceva nulla. La macchina, dicevano, rimaneva incassata tuttavia in Pretura o nella caserma dei carabinieri, non si sapeva precisamente dove, era certo però che un giorno o l'altro la cosa doveva accade-re, per ordine del governo, per scemare la troppa popo-lazione. E Garibaldi intanto aveva assicurato che non ci sarebbe stato colera dopo la rivoluzione! Che poteva farci il povero Garibaldi? Vittorio Emanuele voleva così perchè gli altri governi gli forzavano la mano. Anche il Papa faceva buttare il colera ne' suoi Stati, ed era mini-stro di Dio!

Il cerchio dei paesi infestati si stringeva attorno a Ra-macca. La povera gente si rassegnava alla fatalità del male, pur cercando di prendere tutte le precauzioni, tap-pando usci e finestre, chiudendosi in casa all'avemaria, non uscendo prima che il sole fosse alto e avesse disper-so il veleno.

– Dottore, voi non ci abbandonerete! – si raccoman-davano sottovoce.

Il dottore, per non compromettersi, rispondeva con una stretta di spalle; a quattr'occhi messo tra l'uscio e il muro, si lasciava anche scappare di bocca:

– Fossi medico io solo qui!Lo diceva senza malignità, forse; ma i contadini si

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sussurravano da un orecchio all'altro quelle parole, e guardavano in cagnesco il dottor La Bella che si presta-va a dar la mano al Pretore, al Maresciallo, al Parroco, quantunque confortati dal pensiero che il dottor Ficic-chia non li avrebbe abbandonati.

Una mattina però furono atterriti, apprendendo che il dottore e la sua signora erano partiti alla chetichella per Trizzitello, e avevano messo tanto di catenaccio alla porta di casa.

Non c'era più dubbio: quello era il segnale che il do-mani la macchina del veleno avrebbe cominciato a fun-zionare. Le Autorità s'erano già messe d'accordo: un centinaio di morti, nè uno di più, nè uno di meno! Il Par-roco, pover'uomo, aveva fatto quel che aveva potuto. Si riferivano le parole della discussione, quasi Pretore, Par-roco e Maresciallo avessero discusso in piazza alla pre-senza di tutti. Il più accanito era stato il Pretore, che avrebbe voluto almeno almeno duecento morti, scellera-to! per ingraziarsi il governo e ottenere una promozione. Al dottore La Bella venivano pagate dieci lire per mor-to. Almeno il dottor Ficicchia era scappato in campa-gna! Se n'era lavate le mani.

Per fortuna del dottor Ficicchia, e più del La Bella che passò dei brutti quarti d'ora, a Ramacca non avven-ne neppure un solo caso di colera. E quando il dottore tornò in paese, dopo un paio di mesi di assenza, a coloro che gli rimproveravano la sua scappata, rispondeva con

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un sorrisetto malizioso, scrollando la testa, o brontolan-do fra' denti:

– Se non me ne fossi andato!E da lì a poco i contadini si ripeterono sotto voce:– Se non se ne fosse andato lui!Si era saputo, di certa scienza, al solito, che all'ultimo

il dottor La Bella non aveva voluto assumere da solo la responsabilità dell'eccidio, e per questo Ramacca non aveva avuto colera. Il dottor Ficicchia, scappando, ave-va salvato il paese!

Curando gratis a questo modo, il bravo dottore si fab-bricò il palazzo, come diceva la sua signora, e allargò i limiti del fondo di Trizzitello, che divenne una tenuta. All'ultimo, fino il dottor La Bella dovette riconoscere che il suo avversario era più furbo di lui, e per far bene i propri interessi, sposò una figliuola del collega, quan-tunque brutta e cieca di un'occhio, e andò ad abitare nel palazzo insieme col suocero.

Da quel giorno in poi però il dottor Ficicchia mutò re-gistro nella sua condotta verso i contadini. Tutti i casi di malattia erano gravi. Non si fidava di sè stesso; suo ge-nero ne sapeva più di lui e lo mandava in vece sua. E col dottor La Bella non si canzonava; bisognava pagare, o le citazioni piovevano da tutte le parti quando i contadini non saldavano il conto delle visite. E se i clienti ricorre-vano al suocero perchè si intromettesse, questi risponde-va secco secco:

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– Io non c'entro.Solamente quando egli era convinto che non ci era

proprio da cavare neppure un soldo dalle tasche d'un po-vero diavolo, riprendeva il metodo antico, e pareva con-cedesse una grazia, facendosi ricompensare il doppio col solito modo.

Così c'era sempre qualcuno a Ramacca che, parlando del dottor Ficicchia, poteva ripetere come prima:

– Almeno costui ci ammazza gratis!

CONSIDERAZIONI

Leggendo questa novella, avrete avvertito di trovarvi davanti a uncomponimento di eccezionale valore letterario. Nulla è qui che

guasti: nessuna situazione comune, nessuna notazione dimaniera, nessuna immagine incoerente. Una felicità

espressiva si accoppia a una vivacità narrativa,tanto che il tipo del dottor Ficicchia passaa far parte delle nostre conoscenze come

persona tuttavia viva, sempre viva,perchè creazione autentica

d'una fantasia fervida.

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FRATELLO E SORELLA.

Ogni volta che don Stellario Blanco chiamava il fale-gname di casa, per rabberciare gli scuri d'una finestra, o per inchiodare un pezzo di tavola fradicia a un uscio che non si reggeva più, mastro Croce indugiandosi per quei stanzoni mezzi affumicati, con le volte ingombre di ra-gnateli, fra tutti quegli oggetti polverosi, buttati là alla rinfusa, che mandavano un tanfo di cose vecchie in fer-mentazione, si sentiva prendere da un soffoco alla gola e da nausee irresistibili.

– Volete economizzare anche l'aria che non costa niente! – egli esclamava, rivolto al compare don Stella-rio. – Che ne farete dei quattrini messi in serbo da cin-quant'anni? Non potete portarli via, nell'altro mondo!

Don Stellario rideva alle barzellette del compare, chiamato anche Noce-di-collo; ma donna Salvatrice, spettinata, e con quei cenci stinti addosso che la faceva-no sembrare una mendicante, gli dava su la voce:

– Che quattrini andate fantasticando, mastro Croce benedetto! Volete attirar qui i ladri con le vostre stram-berie?

– Pei ladri ci sono quegli arnesi là... – soggiungeva don Stellario.

Infatti agli angoli d'ogni stanza si vedevano due vec-127

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chi fucili carichi da anni, coperti di polvere anch'essi e arrugginiti; e quella bravata faceva sorridere mastro Croce che conosceva bene il compare.

***

Tutte le sere, dopo l'Avemmaria, don Stellario si bar-ricava in casa, come se da un momento all'altro si atten-desse un assalto. E nella nottata, ora che la vecchiaia gli dava sonni brevi, interrotti, si alzava da letto due o tre volte, e faceva un giro per la casa, mezzo vestito, col lume in una mano e una pistola nell'altra, seguìto da donna Salvatrice, che saltava giù dal suo canile, buttan-dosi su le spalle una tarlata mantellina di panno, appena sentiva da la sua camera lo strascinìo delle ciabatte del fratello.

– Che è stato?– Niente. Torna a letto. Darò io un'occhiata....Donna Salvatrice, senza badargli, gli andava dietro,

raggrinzita nella mantellina, seguendolo di stanza in stanza, girando attorno gli occhi sbarrati dalla paura dei ladri, raccogliendo nel passaggio un oggetto caduto in terra, spingendo più in là un sacco pieno di cose inservi-bili, o una sedia che non stava ritta su i tre piedi rimasti-le.

– Lascia andare; non far rumore – gli raccomandava don Stellario.

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Poi scendevano in cantina tra le lunghe file di coppi pieni d'olio d'oliva, con la morte in centro, come si chia-ma il coppo sepolto dentro il suolo, a fior di terra, pel caso che qualcuno di essi crepando, spandesse l'olio. Sul pavimento, fatto a posta saldo e liscio, si camminava a fatica e con pericolo di scivolare e rompersi l'osso del collo.

Giravano attorno sospettosamente, temendo sempre di scoprire qualche cattivo soggetto nascosto in un an-golo, dietro un coppo, per poi aprire la porta ai compa-gni e farli salire su ad assassinare nel letto i padroni e svaligiare la casa.

Di tanto in tanto, un topo, grosso come un gatto, sguizzava lungo i muri, sparendo dentro qualcuno dei buchi delle rozze pareti umidicce, o saltava via su pei coperchi di legno dei coppi, inseguito dal lume della candela che don Stellario levava in alto, per vedere.

Erano così abituati tutte e due a quelle fughe di topi, quasi di animali domestici, che non se ne curavano. E passavano nelle dispense delle botti, pregna di esalazio-ni di vino che davano il capogiro. Si ficcavano tra i fusti e il muro, guardando in basso e in alto, portando via ra-gnateli coi gomiti e con la testa; fermandosi dinanzi ai caratelli prediletti, dov'era il vino vecchio che si vende-va più caro: tastando i cocchiumi, dando un'occhiata alla stoppa che stipava la fecciaia per accertarsi che non ne gemesse stilla di liquido; sarebbe stato peccato mortale.

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Poi, contenti e sodisfatti, risalivano per visitare la cu-cina, le soffitte, ogni angolo dei ripostigli, minutamente, come avevano già visitato la stalla, il pollaio e il magaz-zino del grano.

– Niente! Niente! – diceva don Stellario.– Per grazia della Madonna della Stella! – rispondeva

donna Salvatrice. – Fammi lume, e chiudi l'uscio.Così evitava di accendere la candela in camera per ri-

trovare il giaciglio ch'ella aveva faccia di chiamar letto; e don Stellario, tossendo, tornava a ficcarsi anche lui sotto le coperte del suo, che faceva il paio con quello della sorella.

Ogni notte così.

***

All'alba però, donna Salvatrice era in piedi e chiama-va comare Stella, che abitava dirimpetto, perchè venisse a darle una mano nelle faccende di casa. C'era sempre qualcosa da fare: mondare il grano da consegnare al mu-gnaio; impastare e infornare il pane; vagliare il frumento e metterlo nei cannicci.

– Qui non si perde niente! – diceva comare Stella, piena d'ammirazione.

La poveretta lavorava come un facchino tutta la gior-nata, pel tozzo di pane duro e la manciata di fave che donna Salvatrice le regalava ogni sera, all'Avemmaria,

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prima di chiuderle il portone alle spalle. E spesso don Stellario brontolava contro la sorella che, secondo lui, allargava troppo la mano.

– Non basta mezza pagnotta?Nei giorni in cui non andava in campagna a cavallo

della sua vecchia asina spelata, don Stellario non man-cava mai di ascoltare la santa Messa, quella del Rosario, sua particolare devozione. E andando alla chiesa, non mancava mai di dare una capatina nella bottega di com-pare Noce-di-collo. Si trovava appunto nella stessa via, alla cantonata della piazzetta di S. Maria della Stella, parrocchia di don Stellario; per questo gli avevano mes-so quel nome al fonte battesimale.

Don Stellario, aspettando il segnale della campana, si divertiva a osservare il compare intento al lavoro, in ma-niche di camicia e con gli occhiali a capestro sul naso adunco.

– Buon giorno, compare.– Benedicite, signor compare.Una mattina egli trovò mastro Noce-di-collo fuori

della grazia di Dio. Sbraitava sull'uscio della bottega, fra un gruppo di comari e di contadini, che ridevano davanti a una cassa di morto messa quasi a traverso la soglia.

– Che me ne farò?– State zitto, non bestemmiate! – gli diceva una vec-

chia, segnandosi.– Levatevi tutti di torno! O ve la sbatacchio su la te-

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sta....E visto accostare don Stellario, si rivolse a lui:– Ecco le belle azioni di voialtri galantuomini!Cosa non mai vista una cassa da morto nella bottega

di mastro Croce! Ma la notte avanti erano andati a sve-gliarlo per commissione di quel ladro di don Pietro Ni-gido Ciuco-vestito (bene appiccicato il soprannome!). Gli moriva il figliuolo: – Presto, una cassa! – E aveva lavorato tutta la nottata, sciupando quattro tavole, da cinque bolli, che erano una bellezza....

– Ebbene?– Ebbene, ora il malato sta meglio, e Ciuco-vestito ri-

sponde che più non sa che farsene del tabbùtu. – Vende-telo a un altro, mastro–Croce. – A chi debbo venderlo?... Lo farò citare dal Pretore, ricorrerò in Tribunale, se non mi fanno giustizia. Quattro tavole da cinque bolli!... E una nottata di lavoro!

– O che non morrà più nessuno? – rispose don Stella-rio, ridendo.

– Chi volete che lo prenda? È fatto su misura. Ladro! Ladro! – tornava a sbraitare mastro Croce.

E dava calci alla cassa che risonava cupamente.– Non la sfasciate, intanto... – soggiunse don Stella-

rio.Il falegname, continuando a dare calci per traverso,

l'aveva già fatta ruzzolare dentro la bottega.– Solida! – osservò don Stellario. – E col coperchio

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da baule.– L'ha voluta così, per farmi lavorare di più. Ladro!

Ladro!... Commetterò un eccesso; ci chiuderò dentro lui, Ciuco-vestito com'è!

– Non urlate. Può darsi che ve la paghi.– Mi ha detto: – Vendetela a un altro! – A chi debbo

venderla?... E poi, lo sapete meglio di me, questi son la-vori che si pagano a merito. Ladro d'un Ciuco-vestito!

– Chetatevi, compare, chetatevi. Parlerò io con don Pietro. Su, venite a sentire la santa Messa insieme con me.

Giusto, era quello il momento d'andare a sentire la santa Messa!

***

D'allora in poi, tutte le volte che don Stellario dava una capatina da mastro Croce, spingeva gli occhi in alto, verso la catasta del legname, dove era stata buttata la cassa da morto.

–Sempre là quel tabbùtu?Gli frullava pel capo un'idea.– Se la comprassi io quella cassa? Sarebbe un bel ri-

sparmio.Ma non ne diceva nulla a mastro Noce-di-collo, per

lasciar passare del tempo, e farlo convinto che gli con-veniva disfarsene anche a metà del costo. Tanto, non la

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voleva nessuno.E decise la mattina in cui trovò mastro Noce-di-collo

che bestemmiava peggio d'un turco:–Accadono tutte a me! C'era una bella occasione di

dar via quel tabbùtu del diavolo, ed è riuscito troppo stretto pel pancione del notaio Tirella!

– Andiamo – disse don Stellario. – Se sarete ragione-vole, lo prenderò io.

– Voi? che ve ne fate?– Dieci lire!Il falegname gli diè un'occhiataccia.– Dieci lire. Lo faccio soltanto per voi; non siamo

compari per nulla... – soggiunse l'altro ridendo.Mastro Croce mugolava bestemmie:– C'è il San Giovanni di mezzo!... se no, ve la darei io

la giusta risposta, compare!– Quindici; e facciamola finita.– Neppure il costo delle tavole? Quattro tavole di

abete, da cinque bolli; volete sentirlo?– Quindici e una bottiglia di vino. Lo porterete a casa

domani mattina. È per rendervi un servizio....Mastro Croce tenne duro.Due giorni dopo, don Stellario tornò all'assalto.– Siete ancora ostinato? Quindici lire e una bottiglia

di vino.– Gli do fuoco piuttosto!Anche questa volta il povero mastro Croce tenne

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duro; ma l'altro non si diè per vinto. E la spuntò il gior-no che il falegname non sapeva dove dare il capo per pagare la pigione della bottega.

– Venti lire, compare, – gli disse in tono di preghiera. – Le tavole mi costano di più.

– Quindici.– Levate via il vino?– E una bottiglia di vino, poichè mi scappò detto.A quel prezzo il tabbùtu era proprio regalato.All'alba del giorno appresso don Stellario, che si era

levato di buon'ora, andò lui stesso ad aprire il portone, sentendo picchiare il compare venuto con la cassa da morto.

– Portatela su, nel camerone.Donna Salvatrice strabiliò e si fece più volte il segno

della croce, vedendo entrare in casa quell'arnese di cui suo fratello le aveva parlato più volte, senza mai comu-nicarle l'intenzione che aveva.

– Che volete farne? Madonna della Stella!– Zitta; è un bell'affare! – le sussurrò all'orecchio il

fratello. – Quindici lire e una bottiglia di vino.... Bada, di quello guasto – soggiunse, abbassando ancora la voce.

– Ah, compare! Mi levate di tasca per lo meno dieci lire! – disse Mastro Noce-di-collo, prendendo denaro e bottiglia. – Il vino lo berrò alla vostra salute.

A desinare, quando si provò a gustarlo, mastro Croce 135

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fece le boccacce al forte sapore d'aceto:– Accidenti, compare ladro! – esclamò, versando il

resto per terra.

***

– Che ne faremo? – ripeteva donna Salvatrice nei pri-mi giorni, imbronciata contro il fratello perchè aveva fatto portare in casa quel malaugurio.

– Servirà, fra cent'anni, per me o per te.Don Stellario glielo diceva tranquillamente, rifletten-

do, senza malizia, che sua sorella aveva cinque anni più di lui. Gli pareva naturale che, nata prima, dovesse an-che morire prima. E per confortarla. Aggiungeva:

– Intanto, è una cassa come un'altra; può servire a qualunque uso.

La verità era che a nessuno dei due, benchè oltre la sessantina, passava pel capo che un giorno dovessero andarsene al camposanto, e lasciare la cantina con l'olio, la dispensa con le botti di vino, il magazzino coi cannic-ci ricolmi di grano e il morto sotterrato dietro la botte di San Francesco. Avevano salute di ferro, non erano mai stati gravemente malati; e si sentivano così attaccati a tutta quella roba ammassata in casa a prezzo di tante pri-vazioni e di tanti stenti, da non pensare che, finalmente, una volta avrebbero dovuto distaccarsene, e lasciare per forza ogni cosa a quei due parenti lontani che ora essi

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non volevano neppure sentir nominare.– È una cassa come un'altra; vuoi capirlo?Parve anche a donna Salvatrice una buona ragione.

Così, un giorno, non sapendo dove riporre le frutta sec-che portate dai mezzadri, ella disse:

– Le riporremo là.Mastro Noce-di-collo, che non poteva perdonargli la

bottiglia di vino inacetito e aveva la celia brutale, quan-do il compare andava alla Messa del Rosario, e si fer-mava per salutarlo, dopo il solito: Benedicite, signor compare, – gli ricantava sempre la canzone:

– Ce n'avete ancora di quel famoso moscadello?E vedendolo ridere, aggiungeva sùbito:– Avete fatto come i giudici con Gesù Cristo, dando-

mi il fiele delle quindici lire e l'aceto per giunta. Ma non c'è Dio lassù, se non vi riporrò io, con queste mie pro-prie mani, dentro quel tabbùtu rubato!

Da principio, don Stellario si divertiva alle cattive pa-role del compare; non era una femminuccia da credere al malaugurio; e poi, poverino, bisognava lasciarlo sfo-gare. Si riprendeva forse la cassa, parlando così? E gli rispondeva:

– Eh, via, compare! Acqua passata non macina più!Ora però che sentiva anche lui, ogni notte, un brividi-

no alla schiena vedendo la cassa stesa nel camerone, col coperchio socchiuso, quasi non fosse ripiena di frutta secche ma attendesse dentro qualcuno, don Stellario ri-

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deva agro; e una mattina, appena il compare ricominciò la trista celia, egli lo interruppe:

– Volete finirla, compare Noce-di-collo? Dovreste anzi ringraziarmi!

E da quel giorno in poi non mise più piede nella bot-tega del falegname.

***

Non gli valse a niente. Egli andava notando un po' di debolezza alle gambe nel montare le scale di casa, un po' di affanno ai polmoni quando giungeva all'ultimo pianerottolo, quasi gli scalini si fossero raddoppiati. Ep-pure da più di sessant'anni egli li aveva fatti una diecina di volte al giorno, fino a una settimana addietro, senza ombra di fatica.

– Che significa? E la mattina, perchè mi levo con una specie di confusione nella mente e sto con quell'acca-pacciatura fino a tardi?

Alzava le spalle, non voleva pensarci; intanto guarda-va con un po' d'invidia la sorella che pareva fatta di ac-ciaio, e si levava sempre prima dell'alba, e non stava un minuto con le mani in mano, e andava su e giù – in can-tina, nella dispensa, nel magazzino del grano – senza mai riposarsi, quasi non le pesassero addosso cinque anni più che a lui.

No, non voleva pensarci!138

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E poichè da un pezzo non andava in campagna, una mattina, anche per svagarsi, mise all'asina la vecchia sella sdrucita, con le staffe e il posolino che si reggeva-no a furia di spago, e partì per la Balata, quantunque il cielo minacciasse di piovere e la sorella gli avvertisse:

– Non andate, con questo tempaccio!A mezza strada, cominciò a piovigginare. Poi, lampi,

tuoni... e le cataratte del cielo si apersero!Don Stellario cercava di ripararsi alla meglio, con

quel ferraiuolo stravecchio e rapato che assorbiva l'ac-qua senza perderne nemmeno una goccia; e spiava torno torno la campagna, per iscoprire una casupola dove ri-pararsi, pentito di non aver dato retta alla sorella e d'es-sersi avventurato così alla sbadata.

– Sarà meglio tornare indietro. Con questa lumaca, arriverei morto alla Balata!

Appena giunto a casa, dovette mettersi a letto; e non valsero a riscaldarlo nè il bicchiere di vino bevuto, nè la scottatura di tiglio preparatagli dalla sorella, che non cessava di ripetergli:

– Per non darmi retta!– Che concludi ora col brontolare? – rispose all'ulti-

mo don Stellario, seccato.Si vedeva passare e ripassare davanti agli occhi la

cassa da morto, e dentro gli orecchi gli zufolavano le male parole di mastro Noce-di-collo:

– Dovrò mettervi io, con queste mie proprie mani, 139

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dentro il tabbùtu rubato!E batteva i denti, non per la febbre soltanto.

***

Donna Salvatrice, vedendo da due giorni che suo fra-tello peggiorava e che le scottature non gli giovavano, una mattina cominciò a domandarsi se non era opportu-no, anche per gli occhi della gente, chiamare un dottore.

– Non servirà, forse, e sarà una spesa!... Ma per sa-permi regolare... – esclamò tristemente, pensando che sarebbe rimasta sola, nel caso d'una disgrazia del povero fratello.

– Come ti senti? Debbo mandare pel medico?– Sei matta? – strillò don Stellario, sbarrando tanto

d'occhi, quasi avesse sentito dirsi: – È finita per te!E con uno sforzo si rizzò sul letto; ma la tosse lo co-

strinse a buttarsi giù. Era estenuato, aveva un febbrone da cavallo; pure non voleva nè medici, nè medicine.

– Infreddatura; non si tratta d'altro. Le scottature di ti-glio bastano. Sprecar quattrini pel dottore e il farmaci-sta? Impostori! Intrugli! Intrugli! Impostori! Senti? Han-no picchiato, vogliono forse del vino.

Di tratto in tratto giungevano gli avventori consueti, e donna Salvatrice accorreva; e tornando presso il letto del malato, vi portava l'odore del vino mesciuto allora allora:

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– Quattro soldi. Era comare Pina la mineòla. Oggi se n'è venduto sette lire sole, di quello della botte della Madonna.

– Ne rimangono ancora sei salme! Cola Nasca non si è fatto più vedere?

– Te l'ho detto: vuol pagarlo a sei lire il barile. Il prez-zo è calato, pretende.

– A dieci lire! Non lasciarti infinocchiare.– Tu bada a guarire, e la Madonna t'aiuti! – ripeteva

donna Salvatrice, tutte le volte ch'egli entrava a ragiona-re di affari.

Di giorno in giorno, intanto, ella perdeva fede nella guarigione augurata al malato; e l'osservava da piè del letto, scuotendo tristemente il capo quando don Stellario non poteva vederla.

– Insomma, dovrà morire senza medico e senza con-fessore? – le disse un giorno comare Stella, tirandola da parte.

– Non vuole! Non vuole!– Almeno il confessore! – soggiunse comare Stella.

***

Vedendo entrare il prete in camera col pretesto d'una visita, il malato si perdette d'animo tutt'a un tratto.

– Don Stellario, son venuto qui per caso, per assag-giare una partita di vino; saputo che state a letto.... Cosa

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da niente. Coraggio!– È inutile cercar d'ingannarmi – biascicò il malato,

con flebilissima voce. Poi rivolto alla sorella, mormorò:– Tu pensa a sbarazzare la cassa....Fissava il prete paurosamente:– Ditemi la verità: Non c'è più speranza per me?– Le cose di Dio, se voi le volete, sono vera medici-

na!... Non siamo agli estremi, no; non c'è pericolo per ora: ma....

– Capisco, capisco!E parve rassegnarsi.Appena il prete avvertì donna Salvatrice che egli sa-

rebbe tornato poco dopo col viatico e l'estrema unzione, per la camera del malato fu un gran tramenìo. Le due donne volevano dare un po' d'assetto a quel canile, spaz-zare, spolverare per ricevere degnamente Gesù Sacra-mentato.

– Salvatrice! – chiamò il malato.Ella gli si accostò al viso, per risparmiargli di affati-

carsi alzando la voce:– La cassa... non occorre farla ricoprire di stoffa...

Spesa perduta! È bella anche così.... Hai capito?– Che cassa e non cassa! Tu starai bene. Ho fatto ac-

cendere una torcia alla Madonna della Stella che ti farà il miracolo!

Non era vero; ma la pietosa bugia fu di buon augurio.

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***

Allorchè don Stellario si sentì, come diceva, proprio ritornato dall'altro mondo e mise i piedi a terra, la prima cosa di cui parlò alla sorella fu appunto della torcia.

– Si è consumata tutta?E sentito come la cosa era andata, se ne rallegrò assai.– Se ero destinato a morire, sarei morto lo stesso!Il giorno in cui potè uscir di camera volle vedere in-

nanzi tutto il tabbùtu che si trovava appunto a bocca spalancata, come lo aveva lasciato donna Salvatrice nel-la fretta di sgombrarlo.

Don Stellario gli fece tanto di corna, e disse:– Ora ci rimetteremo i fichi, le prugna, ogni cosa!

CONSIDERAZIONI

Dalla rappresentazione dell'attaccamento alle cose concrete della vita, inun clima di interessi materiali, si passa a farvi vivere, conossessione, l'incubo creato dall'acquisto di una cassa dimorto, fatto per la solita preoccupazione del risparmio.

Tutto, qui, ha un sapore riservato e furbesco, cherende indimenticabile la narrazione.

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I MAJORI.

Bastava che lo vedessero apparire dalla cantonata del-la Mercede, con quella tuba rossiccia, alta due palmi, a tesa stretta, col soprabito dalle falde lunghe fino ai piedi e ondeggianti al vento. Ragazzi, adulti, tutti gli sfaccen-dati di Piazza Buglio, fino i soci del Casino dei Civili cominciavano a fare, da ogni lato, il canto della quaglia : – Quacquarà! Quacquarà! – perchè sapevano che Don Mario Majori ci si arrabbiava.

Alle prime avvisaglie, guardando attorno, palleggian-do la grossa mazza di sorbo, scotendo minacciosamente il capo, egli faceva due passi in avanti e si fermava, fis-sando le persone per scoprire qualcuno degli imperti-nenti che gli perdevano il rispetto, a lui, figlio e nipote di Mastri Notai, a lui che valeva cento volte più di tutti quei signori incivili del Casino... Ma era inutile. Da de-stra, da sinistra, con la voce e col fischio: – Quacquarà! Quacquarà!

– Non vi adirate! Lasciateli dire.– Se non ne ammazzo qualcuno, non si chetano!– Volete andare in galera per niente?– Loro... ci mando in galera!Diventava rosso come un tacchino, smaniando e ge-

sticolando, con la schiuma alle labbra.144

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– Se voi non v'arrabbiaste così, starebbero zitti.– Vigliacchi!... Perchè non mi vengono di fronte?– Quacquarà!...– Ah!... Tu, figlio di cane!Quella volta, se non lo trattenevano in tempo dicen-

dogli: – Vorreste prendervela con un bambino? – avreb-be rotta la testa al ragazzo del barbiere, che arditamente gli si era accostato per gridargli sotto il naso: – Quac-quarà! – E ce ne volle prima che don Mario si lasciasse trascinare nella farmacia Montemagno, piena di gente che rideva.

Allora Tano, il giovane del farmacista, fattosi innanzi serio serio, gli disse:

– Che v'importa se vi dicono: – Quacquarà? – Sare-ste, per caso, una quaglia?

Don Mario gli rispose con un'occhiataccia.– Infine, non vi chiamano ladro...– Sono galantuomo e figlio di galantuomo!– O dunque? Che significa: – Quacquarà – Niente. E

Quacquarà sia!Il farmacista e le altre persone si contorcevano dalle

risa per la serietà di Tano che, con la scusa di fare la predica a Don Mario, gli ripeteva: – Quacquarà! Quac-quarà! – in faccia, senza che quegli si accorgesse della malizia.

– Io, vedete, a chi mi gridasse dietro: – Quacquarà! – gli darei un soldo ogni volta... – Quacquarà! Quacquarà!

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Quacquarà! – Sgolatevi pure!– E intanto, tu me lo ripeti sul muso! – urlò all'ultimo

don Mario, levando la mazza.Ma si mise in mezzo lo speziale, che temeva pei vetri

delle scansìe; e prèsolo sotto il braccio, lo trasse fuori dalla farmacia, rabbonendolo, dandogli ragione:

– Svoltate da qui, non vi vedrà nessuno.– Debbo nascondermi?... Per far piacere ai grulli?...

Sono galantuomo e figlio di galantuomo!

***

Vero, verissimo! I Majori erano sempre stati brave persone, Mastri Notai di padre in figlio, fino al 1819, quando era uscito dall'inferno quel gastigo di Dio chia-mato Codice napoleonico, per la disperazione del notaio Majori, padre di don Mario, che non potè capirci mai niente, e dovette smettere l'ufficio.

– Come: Non più formule latine?... E gli atti intestati in nome del Re?... Che c'entra Sua Maestà nelle contrat-tazioni private?

E volle lavarsene le mani, per isgravio di coscienza. Così lo stoppaccio del gran calamaio di rame s'era inari-dito, e le penne d'oca si erano sgangherate, e nella sua casa non ci fu più quel via vai di prima, quando tutti ac-correvano da lui, che era l'onestà in persona e non met-teva mai su la carta nè una parola di più, nè una parola

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di meno di quel che volevano le parti interessate.E così don Mario, che fin allora aveva fatto da scriva-

no nello studio paterno e sapeva a memoria tutte le for-mule latine senza intenderne sillaba, s'era trovato disoc-cupato insieme col fratello don Ignazio, che valeva poco più di lui: Morto di crepacuore il padre – per quel Codi-ce scomunicato senza formule latine, e che voleva inte-stati gli atti in nome del Re! – i due fratelli vivacchiaro-no di quel poco da essi ereditato, ma altèri della loro onesta povertà: ma rigidamente fedeli al passato anche nel vestire; giacchè continuarono per un pezzo a indos-sare gli abiti vecchi, tenuti con gran cura, senza badare che non fossero più di moda e li rendessero ridicoli.

Don Ignazio, però, non l'aveva durata a lungo. E quando il suo cappello di castoro gli parve proprio in-servibile e il suo soprabito troppo sdrucito, comprò, per pochi tarì, da don Saverio il rivenditore, una tuba usata, e poi un vestito, usato anch'esso, ma che aveva migliore apparenza del vecchio soprabito. Don Mario invece ten-ne duro. E per ciò andava attorno con quella tuba rossic-cia, alta due palmi, a tese strette, e portava indosso quel gran soprabito alla foggia di mezzo secolo addietro, lun-go fino ai piedi, spelato e rattoppato, senza però una macchia. Non voleva derogare dal passato, lui figlio e nipote di Mastri Notai! Quella tuba e quel soprabito gli parevano quasi un'insegna di nobiltà, e non li avrebbe smessi a qualunque costo.

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Poi erano sopravvenuti tempi duri; le cattive annate, il torcicollo epidemico del '37, il colèra, la rivoluzione del '48; e i due fratelli avevano passato brutte giornate e peggiori nottate, almanaccando sul modo di procurarsi un bicchiere di vino e un po' d'olio per la minestra.

– Domani andrò dal tale! – diceva Don Mario. – In-tanto spazziamo la casa.

Facevano tutto da loro. E mentre don Ignazio tagliuz-zava la cipolla da condire in insalata per la cena, don Mario, con indosso la veste da camera di suo padre, tut-ta stinta e rammendata, si metteva a spazzare le stanze come una serva, attentamente. Levava la polvere dai ta-volini sciancati, dai vecchi seggioloni a bracciuoli e col cuoio sbrandellato nelle spalliere; e, radunate in una ce-sta le immondizie, apriva cautamente la porta per accer-tarsi se mai non vi fosse fuori qualche vicino o qualche passante. Ma, di solito, usciva a tarda notte per deporre le immondizie dietro il muro d'una casa in rovina, ridot-ta a letamaio dal vicinato.

Nella via, raccoglieva sassi, torsoli di cavolo, bucce di arance e di poponi, per ripulirla, visto che nessuno vi badava, e tutti anzi facevano il comodo loro, senza pun-to curarsi della nettezza. La nettezza!... Era la sua fissa-zione, in casa e fuori. E spesso don Ignazio, vedendolo tardare, era costretto a richiamarlo:

– Sei lo spazzino pubblico, tu?– La pulizia l'ha ordinata Domeneddio! – rispondeva

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don Mario.E lavatesi le mani, si metteva a mangiare quella ma-

gra cena di cipolla in insalata e pane, quasi fosse stato un piatto prelibato da leccarsene le dita.

– Questo è l'olio di donna Rosa, e non ce n'è più! – disse una volta don Ignazio, fra un boccone e l'altro.

– Domani andrò dal Cavaliere...– Suo padre era contadino!– Suo nonno andava a giornata...– Ora è ricco sfondato!...– Suo nonno diventò fattore del principe e... sfido,

s'arricchì.– Andiamo a letto; il lume si spegne.Dovevano economizzare fino il lume. Dai letti, al

buio, continuavano, però, la conversazione interrotta, saltando di palo in frasca:

– Hai visto la banda con la uniforme nuova?– Sì... Massaro Cola ha raccolto quest'anno cento sal-

me di grano.– Chi sa se è vero?... Buon pro' gli faccia!– Domani andrò dal Cavaliere, per l'olio.– Non abbiamo più vino...– Andrò anche pel vino. Paternostro...– Avemmaria...E si addormentavano.

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La mattina, spazzolato ben bene il vestito frusto, rat-toppato, e la tuba rossiccia, don Mario si vestiva in fret-ta e cominciava la giornata con andare alla Messa del-l'Immacolata, a San Francesco. Là cantava le strofette dello Stellario tra i confratelli della Congregazione, bat-tendo forte con un piede sul pavimento quando tutti gri-davano: – A dispetto di Lucifero infernale, viva Maria Immacolata! – Intanto don Mario spesso non sapeva fre-narsi dal dire a questo o a quell'altro che gli stava accan-to, che gl'immacolatisti, come chiamavano quei confrati, erano quasi tutti chi ladro, chi intrigante, chi usuraio.

– Canzonano la Madonna e Domeneddio!– Badate ai fatti vostri!– Voi siete più ladro di loro, se li difendete.– E voi, bestione.Gli dicevano sempre così: – Bestione! – tutte le volte

che gli scappava detta una verità, compatendolo perchè era ingenuo e non parlava per malizia. Don Mario non replicava, ma non mutava parere:

– Sono quasi tutti chi ladro, chi intrigante, chi usura-io!

E stringeva al petto, sotto il soprabito, la bottiglia con cui doveva andare a chiedere un po' d'olio o un po' di vino alle persone caritatevoli, dopo ascoltata la Santa Messa.

Si presentava umile e cerimonioso:150

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– È in casa il signor Cavaliere?– No; c'è la signora.Ormai le persone di servizio sapevano che cosa signi-

ficasse una visita di don Mario, e lo lasciavano nell'anti-camera ad aspettare, o gli dicevano, senz'altro:

– Datemi la bottiglia, don Mario.Non era raro il caso che, mentre di là gli riempivano

la bottiglia, egli non stesse più alle mosse vedendo la sciatteria della stanza. Montava su una seggiola per le-var via, con la punta della mazza, i ragnateli della volta, e se trovava a portata di mano una granata, uno straccio – che poteva farci? Non sapeva resistere! – si metteva a spazzare il pavimento, a spolverare un quadro, a raccat-tare i pezzettini di carta o di stoffa sparsi per terra.

– Che fate, don Mario?– La pulizia l'ha ordinata Domeneddio!... Ringraziate

la signora!Donna Rosa, però, che si divertiva a discorrere con

lui, lo faceva entrare ogni volta in salotto e lo invitava a sedersi.

– Che c'è di nuovo, caro don Mario? Come state?– Bene, con la grazia di Dio. Voscenza come sta?– Come le vecchie, caro don Mario!– Vecchio è chi muore. Voscenza è così caritatevole,

che il Signore deve farla campare cent'anni....Donna Rosa tirava a lungo il discorso, quasi non

avesse capito lo scopo della visita; e don Mario si calca-151

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va sotto il soprabito la bottiglia vuota, aspettando l'occa-sione di presentare la richiesta senza parere importuno. Di tratto in tratto, si levava da sedere:

– Scusi, voscenza...E dava una spolverata a un tavolino.– Scusi, voscenza.E si chinava per raccattare un filo di lana o di refe e

buttarlo fuori del terrazzino aperto. Pareva che quella polvere, o quel po' di refe o di lana gli avessero dato il mal di stomaco, tanto egli s'era dimenato su la seggiola dopo che li aveva veduti.

– Lasciate andare, don Mario...– La pulizia l'ha ordinata Domeneddio!... Ero

venuto....– Vostro fratello è contento del suo impiego? – lo in-

terruppe un giorno, donna Rosa.– Contentissimo.– Dovreste farvi nominare Regio Pesatore anche voi.

Manca tuttavia quello del mulino degli Archi.– E l'addizione, signora? E l'addizione?... Ignazio sa

farla!Alzò gli occhi al cielo, sospirando per quella che gli

sembrava proprio un'operazione da calcolo sublime.– Povero Ignazio! Torna così stracco dal mulino! Si

figuri: quattro miglia di salita, a piedi! Ero venuto per questo....

E mostrò la bottiglia.152

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– Volentieri!Chi poteva dirgli di no al buon don Mario?Quando, però, gli accennavano alla maledetta addi-

zione, neppure il regalo di una bottiglia di vino riusciva a metterlo di buon umore. S'era provato tante volte a fare un'addizione! Il guaio per lui erano le decine.

– Nove più uno, dieci... Va bene. Ma: Lascio zero, e riporto uno!... – Perchè riportare uno, se sono dieci?

Non c'era stato verso che gli entrasse in testa! Eppure non era uno stupido. Bisognava sentirgli leggere le vec-chie scritture notarili, con tutte quelle strane abbrevia-zioni latine che i nuovi notai e gli avvocati non sapeva-no decifrare. È vero che li recitava come un pappagallo, senza capirne nulla; ma, intanto, guadagnava due tarì ogni volta, quando lo richiedevano di questo servigio; e ci entravano un paio di litri di vino e mezzo chilo di car-ne di agnello! Pasqua addirittura, quantunque ora, con l'impiego di don Ignazio, i due fratelli più non stentasse-ro come prima.

***

Sarebbero stati, anzi felici, senza quel: – Quacquarà – che faceva arrabbiare don Mario. Donde l'avevano cava-to?

Ormai, egli non poteva dare un passo fuori di casa, che non se lo sentisse gridare o zufolare da qualche im-

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pertinente ineducato.– Farò uno sproposito, un giorno o l'altro!E una mattina andò a ricorrere dal regio Giudice, che

allora aveva in mano anche la Polizia. Fino il Giudice rideva!

– Vi dicono: – Quacquarà? – E voi lasciateli dire!– Li accuso davanti alla vostra giustizia! – urlò don

Mario.– Ma chi accusate?– Tutti!– Troppi! Non si può arrestare l'intera popolazione.– Piuttosto – riprese il Giudice – smettete di portare

cotesto cappello e cotesto soprabito; vedrete che allora non vi diranno più nulla.

– Poichè un galantuomo non può ottenere giustizia! –brontolò don Mario.

E andò via dignitosamente, risoluto di farsi giustizia con le proprie mani.

Male gliene incolse, però, la prima volta che lasciò correre un ceffone a Sputa-cristiani, così chiamato per-chè parlando sputava tutti!

Sputa-cristiani quel giorno, non aveva colpa; montò, sulle furie e rispose con parecchi schiaffi sonori. Il po-vero don Mario, che non se l'aspettava, rimase interdet-to:

– Come?... Per un ceffone, me ne dà sei, sette?Non rinveniva dallo stupore.

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Per disgrazia, nella colluttazione, Sputa-cristiani gli aveva anche strappato mezzo il vecchio soprabito che si reggeva a stento.

Il Giudice tenne in arresto un paio d'ore colui che aveva ecceduto, e aprì una colletta in Casino per un ve-stito nuovo e una tuba da regalare a don Mario. Ma egli non volle lasciarsi mai prendere le misure dal sarto; e il giorno che gli portarono in casa il vestito, tagliato e cu-cito a occhio e croce, insieme con una tuba nuova, rin-graziò con garbo e rimandò indietro ogni cosa.

– Sei stato uno sciocco! – gli disse il fratello, che, tor-nando dal mulino, lo aveva trovato intento a rammendar il soprabito. – Con questo è impossibile andar fuori.

– Starò in casa! – rispose alteramente.Passava il tempo su la soglia della porta, discorrendo

con le vicine, o aggirandosi per le molte stanze vuote della casa crollante. Da anni e anni non vi erano state fatte riparazioni di sorta alcuna. Le imposte si reggeva-no appena sui gangheri, due solai erano sprofondati e bi-sognava passare sui tavolini, posti in guisa di ponticelli, per andare da una stanza all'altra, dove i tetti versavano acqua da tutti i punti, quando pioveva.

– Vendete metà della casa! – gli diceva qualche vici-no. – È troppo vasta per le due mosche che siete.

La sera, a cena, ragionando di questo, don Mario e don Ignazio si erano trovati in un bell'imbroglio.

– Vendete! È presto detto. Che vendere?... Lo antico 155

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studio notarile?– Oh! – esclamò don Mario indignato.È vero che i grossi volumi, rilegati in pelle scura, non

si trovavano più negli scaffali attorno: li aveva presi il Governo, quasi fossero stati roba sua, e non dei Mastri Notai stipulatori di tutti quegli atti! Ma che importava? Gli scaffali, tarlati e sfasciati, ridotti a ripostiglio di piat-ti, di tegami, di utensili d'ogni specie, restavano, ai loro occhi, testimoni quasi viventi dell'antico splendore. I due fratelli si erano guardati in viso:

– È possibile?... Vendete! Che vendere? La camera della Nonna?

Camera misteriosa, chiusa da cinquant'anni, di cui s'e-ra fin perduta la chiave della porta. Vi era morta la mo-glie del Nonno, una santa; quegli aveva ordinato che, in segno di perpetuo lutto, la stanza rimanesse chiusa per sempre; e così era stato fatto. Ogni notte, i topi facevano là dentro balli indiavolati... Che importava? Un mastro notaio Majori aveva voluto che nessuno l'aprisse, e nes-suno l'aveva più aperta.

– Vendete!... Che vendere? La stanza dei ritratti?Stava schierata alle pareti mezza dozzina di tele in-

corniciate, annerite dagli anni e dal fumo, dalle quali scappavano fuori qua la testa maschia e severa di don Gaspare Majori, del 1592, rosso di capelli, in gran toga scura e con un rotolo di carte in una mano; là gli occhi grigi, i baffi bianchi e il pizzo di don Carlo, del 1620;

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accanto, la parrucca e il viso tondo, raso, di don Paolo, del 1687. Più in là, la testa scarna e allungata di don An-tonio, incastrata nel bavero enorme, con il collo fasciato da un cravattone bianco e i ciondoli pendenti fuori delle due tasche del vistoso panciotto, del 1805; don Mario sapeva a memoria vita, morte e miracoli d'ognuno, e don Ignazio pure.

– Dobbiamo scacciarli di casa noi?– Oh! Non è possibile!E preferivano di lasciar crollare ogni cosa; quasi stu-

dio notarile, camera della Nonna, stanza dei ritratti for-massero parte integrale del corpo; quasi, col vendere an-che un solo palmo di quella casa, essi cessassero d'esse-re di quei Majori, Mastri Notai da parecchi secoli, di pa-dre in figlio! Tutti erano vissuti là, avevano tabellionato là; di generazione in generazione, fino al padre loro, don Antonio Majori....

– È mai possibile? – ripeterono insieme i due fratelli.E andarono a letto, e spensero il lume.– Tanto, ne abbiamo per poco! Siamo vecchi, Mario...– Tu hai due anni più di me.–.... Domani verrà notar Patrizio, per farsi leggere una

scrittura antica.– Così, compreremo mezzo chilo di carne.– Saverio il macellaio truffa nel peso. Aprirò tanto

d'occhi.–.... Ho prestato il mattarello a comare Nina.

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–.... Il vino lo prenderò da Scatà, di quello di Vitto-ria.... Paternostro!

–.... Avemmaria....E si addormentavano.

***

– Siamo già vecchi! Ignazio ha ragione – rifletteva don Mario. Intanto, si domandava:

– Chi dei due morrà il primo?Rimaneva triste, scoraggiato.– Io sono il minore. Dopo, erediteranno la casa i pa-

renti lontani, se la spartiranno, la venderanno!... Che ce n'importerà, Ignazio ed io non saremo più qui. I veri Majori siamo noi. Morti noi, morto il mondo!

Pure, continuava a spazzare quella rovina con lo stes-so amore, con la stessa accuratezza d'una volta; levando via i ragnateli dalle mura e dagli angoli; spolverando i pochi mobili tarlati e sfasciati; piantando un chiodo in una spalliera di seggiolone, in un piede di tavolino; in-collando un foglio di carta oleata a una finestra dove mancava un vetro; portando fuori, al solito, a tarda not-te, le immondezze.

Anzi, ora, accadendogli d'addormentarsi anche di giorno, per la solitudine e l'inerzia, passava fuori le not-tate, spazzando il vicolo per lungo e per largo, contento di sentire la maraviglia del vicinato la mattina dopo:

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– È passato l'angelo questa notte pel vicolo.... È vero, don Mario?

Egli sorrideva e non rispondeva, rassegnato alla vo-lontaria prigionia, poichè non poteva più indossare il vecchio soprabito e la vecchia tuba, sempre là, spolvera-ti e senza una frittellina, sebbene inservibili.

Un giorno, però, don Mario perdette a un tratto la pace.

Affacciatosi a un abbaino sopra la stanza dei ritratti, aveva guardato laggiù, in fondo alla strada, la bella casa del Reina, dal portone stranamente intagliato, dalle mensole dei terrazzini a foggia di mostri contorti.

– Bel palazzo, anzi Reggia! – diceva don Mario, che non ne aveva mai visto uno più bello. – Intanto, il pro-prietario come non s'accorge dei ciuffi di paretaria cre-sciuti fra gl'intagli sull'arco del portone, e che deturpano l'edificio?

La sera, appena don Ignazio, stanco e trafelato, arrivò dal mulino:

– Senti, – gli disse don Mario; – dovresti andare dal signor Reina. Lascia crescere tra gl'intagli del portone, sotto il terrazzino di centro, certe erbacce!... Fanno stiz-za a vederle!

– Ebbene?– Dovresti avvertirlo, almeno quando lo incontri.– Lo avvertirò.Don Ignazio, rifinito dalla via fatta a piedi, aveva ben

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altro pel capo; voleva cenare e andarsene a letto.Ma d'allora in poi non ebbe più requie neppur lui.

Ogni sera, all'arrivo dal mulino, non finiva di deporre in un canto il bastone, che don Mario non gli domandasse:

– Hai parlato al signor Reina?– No.– Va' a dirglielo ora stesso. Peccato! Quelle erbacce

guastano l'architettura!...Se le sentiva come un bruscolo negli occhi; non sape-

va persuadersi in che maniera il signor Reina potesse sopportare quello sconcio. E si affacciava più volte ogni giorno all'abbaino, montando su una scala a piuoli, ap-poggiata al muro, con pericolo di fiaccarsi il collo, se per caso fosse cascato. Quelle erbacce, Signore! erano sempre là; crescevano a ciuffi che tremolavano al ven-to.... Se fossero stati dolori allo stomaco, forse egli non ne avrebbe sofferto altrettanto!

– Gliel'hai detto al signor Reina?– Sì.– Che ti ha risposto?– Una parolaccia!Quella notte don Mario non potè chiudere occhio.E appena s'accorse che il fratello russava, riacceso il

lume, tornò a vestirsi, prese in collo la scala a piuoli, che gli storpiava la spalla, e s'avviò verso la casa del Reina, rasentando il muro dalla parte dell'ombra per evi-tare il lume di luna, come ladro che vada a dare la scala-

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ta.Per ladro, infatti, lo presero le guardie di ronda, trovà-

tolo arrampicato lassù, in cima al portone, affannato a strappare le erbacce parassite, a dispetto del proprietario che non se ne curava.

– Che fate costì?– Strappo quest'erbe.– Scendete giù, birbante!– Lasciatemi finire; sono un Majori....– Giù, vi dico!E alla brusca intimazione, il povero don Mario dovet-

te scendere, tremando, lasciando parecchi ciuffi di pare-taria, che avrebbero continuato a deturpare la bella ar-chitettura.

– C'è mancato poco non mi conducessero in carcere!... Per aver voluto fare un po' di bene! – disse al fratello, emettendo un gran respiro.

Ma fu tanto lo spavento preso che morì, povero Quac-quarà, da lì a tre mesi, con l'incubo di quelle erbacce sul cuore.

CONSIDERAZIONI

Siamo in un ambiente nel quale il trapasso da un'epoca all'altraè già avvenuto: solo due fratelli, in età già avanzata, si tengonodisperatamente attaccati al passato. Ciò genera situazioni che

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faranno sorridere, ma non ridere; perchè in fondo c'è ildramma che non può essere taciuto e di cui i lettori

si rendono chiaro conto. La fedeltà al passatocrea due maniaci, che però non vengono

immiseriti nella macchietta,ma intimamente intesi

dallo scrittore, chesa farli anchecomprendere.

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NEL BOSCO DELLE STREGHE.

– Ritorna?– Sì.– Per sempre?– Chi lo sa?– È matto, scusate. Venire a seppellirsi qui!– Vi è nato.– Suo padre lo portò via a dieci anni. Che amore può

avere al paese?– Ma, poichè ritorna....– Per questo, scusate, ho detto che è matto. All'im-

provviso si sente afferrare dalla smania....– Da nessuna smania. Tranquillamente arriva, e più

tranquillamente potrà ripartire.Don Matteo Domelli era molto seccato di esser co-

stretto a rispondere alle continue interrogazioni intorno a suo nipote che doveva giungere dall'America. Tutti, amici, conoscenti, sfaccendati volevano sapere: – È dunque vero? – Come mai? – Pare che abbia fatto fortu-na. – Per poco o per sempre? – Eh! La terra nativa! – Donde viene? Da Nuova York? Da San Paolo? Da Bue-nos Aires? Che dirà di questo mondezzaio? Scapperà dopo due giorni!

Non la finivano! E se Don Matteo faceva una spalluc-163

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ciata e rispondeva appena o non rispondeva affatto, ma-lignavano:

– Non è contento che gli piombi in casa il nipote!– Perchè è uno solo. Dovrebbero essere tre!...Alludevano alle tre figlie nubili del Domelli che se-

condo le male lingue, minacciavano di spighirgli in casa.

Invece egli non vedeva l'ora che il nipote arrivasse.– Sarà già partito, è vero, babbo?– Ha scritto che avrebbe telegrafato da Genova.– Tu dici che non lo riconosceresti, babbo; ma dai ri-

tratti....– Ritratti di parecchi anni addietro.– Dev'essere di umore allegro....Questo si vedeva dalle lettere che con molta regolari-

tà scriveva da un anno alle cugine, a turno, per non de-stare invidie.

– Lettere strambe! – esclamava Maria, la maggiore – Senza capo nè coda.

– Sembra però, leggendole, di udirne la voce – sog-giungeva Cristina.

Sara non diceva niente. E quando Maria e Cristina si divertivano quasi a declamare le lettere del cugino e a commentarle ridendo, ella sentiva dispetto di quella spe-cie d'irriverenza verso l'assente. L'arrivo di una di queste missive era un avvenimento nella famiglia. Per due, tre giorni non si parlava d'altro. Cristina e Maria le comuni-

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cavano alle amiche, anche per darsi l'aria che riceveva-no lettere dall'America. Sara, dopo che le sorelle e il babbo avevano lette quelle indirizzate a lei, le faceva sparire in fondo a una cassetta del canterano in camera sua. Le ispiravano un sentimento ch'ella stessa non sa-peva se fosse di compassione o di pietà.

Sotto quegli scatti di allegria, di buon umore, di gen-tile malizia, coi quali il cugino Alberto infiorava i larghi fogli azzurrognoli, abbandonandosi, a intervalli, allo sfogo epistolare, Sara intuiva una tristezza, un senso di nostalgia che la vivace prodigalità dei motti, delle biz-zarrie, dei capricci non riusciva a celare.

E la inattesa risoluzione del ritorno, dopo tanti anni di assenza, la confermava in questa convinzione. Pensava:

– Chi sa che delusioni ha provate!In quel mese, il cugino aveva rotto la regolarità del

turno nella corrispondenza con le tre sorelle.A Maria scriveva:«Finalmente, cara cugina, potrete dire: Ah! È questo

il bel cesto?... Che volete? Non posso rimpastarmi per rendermi più aggradevole. Mi sono americanizzato, mio malgrado. Quando l'ascensore mi fa salire rapidamente, al quindicesimo piano, nel mio modestissimo apparta-mentino, io penso all'impressione che mi farà il salire, a piedi, i venti, trenta scalini di casa vostra. Mi parrà di abitare sottoterra. Al quindicesimo piano! Cioè, una dozzina di volte più in su del campanile della vostra

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Matrice. Fra le nuvole! (Quasi la mia testa non ci fosse abbastanza!) Affacciandomi alla finestra e guardando giù nella via, che cosa buffa quelle pulci che sembra si rincorrano! E sono uomini, signore, signorine!

«Ebbene, abitando così alto, al terzo se non al settimo cielo – ce ne sarà qualche altro, credo: chi li ha scanda-gliati e contati? – io non sono ancora diventato un ange-lo, non mi son visto crescere le ali.... Ma non parliamo di cosa da crescere alle spalle, perchè, cara cugina, ve-drete che le ali possono accennare a spuntare e poi si ar-restano, si atrofizzano... Vuol dire che per trasformarsi in angelo non giova neppure elevarsi fino al terzo cielo! Non è giovato, infatti, alle mie coinquiline del piano di sopra, il sedicesimo: due americane, ossute, stridule, con certi denti – qualcuno legato in oro – e che voleva-no insegnato l'italiano da me... come se l'italiano fosse roba da esser masticato da quelle bocche!

E a Cristina scriveva:«.... E ora mi caverò la curiosità che mi son riserbata

di appagare coi miei occhi. Siete bruna? Siete bionda? Autentica, certamente. Le tinture, spero, non sono arri-vate fino a costì. Maria, lo ricordo, ha capelli nerissimi, a meno che.... Ma no; è assurdo pensare che le sia venu-to in testa di mutarli di colore. Voi, allora a tre anni, era-vate quasi bionda, ma ora, invecchiando.... Qui si dice pane al pane, e vino al vino... quando non c'è interesse di dire il contrario. Ed io ho scritto la parolaccia: invec-

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chiando, sicuro che essa vi farà sorridere; a vent'anni si è appena giovani.

«Il colore dei miei?... Era... Me ne rimangono così pochi in testa, che da un pezzo non ho voluto accertarmi di che colore siano diventati. E poi, la calvizie è in gran-de onore. Significa: cervello caldo, attivo. Quasi tutti gli americani son calvi. Preparatevi, dunque, a un disingan-no, se i miei ventisette anni vi han fatto credere... pren-do le mie precauzioni, per evitarvi intorno alla mia per-sona quante dispiacevoli sorprese è possibile. Aggiungo: niente barba, come i servitori di grandi famiglie. – Costì non ce ne sono. – Come i nostri contadini di una volta, se non son cambiati. Qui, anni fa, era di moda un ciuf-fetto di peli al mento, alla Lincoln; ma ormai, quel Pre-sidente è dimenticato; e l'attuale non è riuscito ad im-porre i suoi baffi.... Divago, cara cugina. E vorrei dirvi tante cose!... Sarà meglio dirvele a voce, tra poche setti-mane».

E a Sara scriveva:«.... Quando penso che non eravate nata l'anno ch'io

lasciai Merenzòla, e che ora avete diciassette anni, mi par di essere un Matusalemme di fronte a voi. Se vi di-cessi che voi siete la maggiore curiosità del mio viaggio, non scriverei un'esagerazione. Lo zio lo ricordo benissi-mo; Maria la riveggo con le vesti corte di quando face-vamo il chiasso nell'orto e spesso ci bisticciavamo; Cri-stina era una naccherina vispa, permalosa, a tre anni.

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Voi... non vi eravate ancora degnata di venire in questo mondo, e perciò non riesco a figurarmi, in nessun modo, la vostra persona. Ma, dunque, Merenzola è così segre-gata dalla vita civile da non essere stata mai visitata da un fotografo ambulante? Meglio così, dico ora.

Che dolce rifugio mi parrà! Che pace vi godrò! Voi non sapete affatto immaginare il fracasso di queste in-fernali città, che ci stordisce notte e giorno! Credo che dovrò rieducare i miei sensi a percepire il silenzio, il beato silenzio della casa, della campagna!

E se mi vedrete rimanere muto, mezzo stordito, non ve ne maravigliate, piccola cugina. Starò ad ascoltar Maria che, mi figuro, deve chiaccherare volentieri, e Cristina, la quale, anche a tre anni aveva una linguetta!... E voi, che, spero, non sarete ritrosa di parla-re come siete avara di scrivere. L'ho notato: le vostre lettere non vanno mai più in là delle due paginette! Ma sono carine, deliziose.... Preparatevi dunque a scioglier-vi bene lo scilinguagnolo. Mi piace tanto star ad ascolta-re!....».

Il signor Domelli – cosa eccezionale in quel grosso villaggio di Merenzòla – aveva fatto educare le figlie nel collegio di Sant'Anna di una città vicina; ma dopo la morte della moglie, le aveva ritirate in casa. La loro istruzione era rimasta a mezzo, nè esse avean sentito bi-sogno di continuarla da loro. Leggiucchiavano, di quan-do in quando, i romanzi ricevuti in prestito da una delle

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maestre elementari; spesso, però, meno Sara, preferiva-no di sentirseli raccontare da una sentimentale amica, invitata a desinare in casa Domelli tre volte al mese.

Maria e Cristina si davano l'aria di signorine tra le ra-gazze della loro età che non erano state in nessun colle-gio, tentavano di distinguersene anche nei vestiti; ma non erano arrivate al punto di smettere lo scialle e porta-re il cappello. In questo avevano trovato ostile la volon-tà del padre, uomo un po' all'antica e che voleva fare – come diceva – il passo secondo la gamba.

– Sareste ridicole, tra le vostre pari.Ora contavano sull'arrivo del cugino, il quale si sareb-

be maravigliato di ritrovar tutto immutato in Merenzòla.– Uno che vien dall'America! Forse non sa neppure

che al mondo esistano ancora gli scialli!– E il babbo dovrà piegare la testa!Intanto Maria e Cristina si vuotavano il cervello per

indovinare la ragione dell'improvviso ritorno del cugino.– Che ne dici tu, babbo?– Ma, tra giorni, potrete domandarlo a lui.– Sarà sincero?– La curiosità è passata. Per me, potrà arrivare, dimo-

rar qui, a suo piacere, ripartire, e non gli domanderò niente dei fatti suoi. Mi basterà di aver riveduto il figlio del mio povero fratello, che, forse, sarebbe vivo ancora, se non fosse andato a farsi ammazzare dalla febbre gial-la colà. Non ne ho saputo niente da tanti anni; credevo

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morto anche lui.La curiosità delle ragazze si accrebbe dal giorno che

la posta recò un fascio di giornali e due pacchi di libri indirizzati al signor Matthew Storm, presso il signor Matteo Domelli, Merenzòla.

– Chi è costui, babbo?– Qualche amico di Alberto, suppongo.– Verrà in casa nostra, babbo?– Come se a Merenzòla esistesse un albergo! Faremo

un po' di posto anche a lui.Erano lontane dall'immaginare che quello fosse lo

pseudonimo letterario del cugino, e che i cinque volumi ben rilegati, con in testa dei frontespizi il nome di Mat-thew Storm, rappresentavano la sua produzione di que-gli ultimi anni, quando egli era riuscito a farsi la bella fama di piacevolissimo narratore di Storielle – Littles storys – piene di brio, di fantasia, di umore esotici, da non tradir affatto l'origine italiana dello scrittore.

Da qualche tempo in qua, un'intima crisi era accaduta nell'animo di Alberto Domelli. Non poteva dirsi stan-chezza; piuttosto aspirazione a qualcosa di meno mate-riale di tutto quel che lo circondava. E da questo senti-mento, vivissimo e insoddisfatto, provenivano le briose littles storys dove la immaginazione prendeva il soprav-vento su la realtà, non con lo scopo di alterarla, ma di smascherarla, perchè niente egli giudicava più falso e più ipocrita di quella realtà tra cui le vicende della vita

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lo avevano condotto ad aggirarsi quasi sperduto.Ammirava assai gli uomini americani; le donne – al-

meno le molte che aveva potuto conoscere da vicino, le altre che si era ingegnato di studiare a una certa distanza – le donne americane gli erano divenute odiose, insop-portabili. E per ciò, da due anni, si era sentito spinto verso le cugine sodisfacendo con quelle lettere a un bi-sogno di arte, e a uno sfogo di sentimenti.

Giacchè, con pochissime modificazioni, le Lettere alle Cugine, attribuite a uno dei personaggi delle sue storielle, erano state prima pubblicate in rassegne illu-strate, ottenendo un gran successo, e poi raccolte in vo-lume.

Maria e Cristina, pensando a uno dei tanti scherzi del cugino, avevano ceduto alla curiosità di disfare i pacchi dei libri, ed erano rimaste deluse.

– Sono scritti in lingua turca! – aveva detto, scherzan-do, Don Matteo, che, come le figliuole, non sapeva una parola d'inglese.

Soltanto Sara aveva provato il desiderio di sfogliare uno dei volumi, precisamente il quarto, ed era rimasta commossa di vedere in capo di quelle lettere i nomi di Mary, di Christina e di Sarah facilmente riconoscibili. My little Sarah! Quante volte c'era? Cinquanta volte; le aveva contate. E tenne per sè la scoperta, quasi un dolce segreto, anzi, un dolce mistero, di cui avrebbe chiesto spiegazione al cugino appena arrivato. Che significava

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quel little? E perchè ai nomi di Mary e di Christina era premesso invece My dear?

Ed ecco, finalmente, una sera il promesso telegramma da Genova:

– Arriverò domani.Quantunque da una settimana la casa fosse preparata

a riceverlo, insieme col creduto suo amico Storm, pel quale era stata preparata alla meglio una camera, il tele-gramma produsse un po' di tramestìo. Don Matteo aveva raccomandato alle figlie:

– Molta pulizia! Molta pulizia!E la casa era stata ridotta uno specchio, per quel che

permetteva un'abitazione di Merenzòla. Don Matteo si era occupato specialmente a far ripulire quella specie di giardinetto, o di orto, che la circondava.

Il ritorno del figlio di Domelli, come lo chiamavano i merenzolesi, era un grande avvenimento. Infatti, una folla di curiosi, donne, ragazzi, ne attese l'arrivo all'en-trata del viale alberato che precedeva le prime case.

Don Matteo e Maria gli erano andati incontro con quella carcassa postale, la quale assumeva superbamen-te il nome di vettura - corriera, smentito dai due ronzini che la trascinavano giù, da Merenzòla alla stazione fer-roviaria, e da questa su, su per i cinque chilometri di stradale, con il sacco della posta e qualche raro passeg-gero.

Attendevano da un'ora l'arrivo del treno.172

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Per farsi riconoscere Alberto, dal finestrino, prima che il convoglio si fosse fermato, chiamò: «Zio! zio!», salutando con gesti affettuosi anche la cugina.

Egli si accorse della penosa sorpresa provata da quei due dopo che era sceso dal vagone.

Abbracciato e baciato lo zio, aveva preso per le mani Maria e l'aveva baciata, dicendo allegramente:

– In America non si può baciare più; ma qui, faccio all'antica, che è la più gentile usanza... Ah! sono il solo viaggiatore che viene a Merenzòla? – soggiunse appena il treno ripartì. – Tanto meglio!... il mio bagaglio? Que-ste due valigie. I bauli arriveranno domani.

Si vedeva; aveva qualcosa da dire, ed esitava, sorri-dendo. Ma, appena montati in carrozza, parlò:

– Sai, zio? Io l'ho già scritto alla cugina: ma forse non mi sono spiegato chiaro. Mi trovate, inattesamente, un gobbetto porta-fortuna, è vero?

– Come mai? Tu eri diritto come un fuso! – lo inter-ruppe don Matteo.

– Una trave, che poteva ammazzarmi, mi produsse tale lesione alla spalla sinistra da ridurmi come mi vede-te. Non ho voluto sottopormi a un'operazione chirurgi-ca...

Padre e figlia non risposero niente; e don Matteo per sviare il discorso, domandò sovvenendosi:

– E il tuo amico Storm? Sono arrivati libri e giornali diretti a lui.

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– Oh! quel matto! – rispose seriamente. – È rimasto a mezza strada; ma verrà; me l'ha promesso.

E riprese:– Cara cugina, voi e le vostre sorelle non avete so-

spettato niente quando, nell'ultima mia lettera, vi scrive-vo «Non parliamo di cose da crescere alle spalle. Vedre-te che le ali possono accennare a spuntare e poi arrestar-si, atrofizzarsi!» Proprio niente? Che diranno Cristina e Sara? E che diranno soprattutto, le pettegoline di Me-renzòla? Non m'importa di esse...

La carrozza montava lentamente.– Io – continuò – son venuto per lo zio, che mi sem-

bra più giovanotto di me, e ne sono lietissimo; e son ve-nuto anche per le care cugine... Sapete che vi siete fatta assai più bella di quanto immaginavo? Oh, come s'in-vecchia sollecitamente in America! Voi... Permetti, zio, che riprenda con la cugina il tu di quando fecevamo il chiasso nell'orto? E voi, cugina?... Grazie! Il voi comin-ciava a impacciarmi nelle lettere... Come rimarranno Cristina e Sara sentendosi dare inaspettatamente del tu!

Anche con quella protuberanza alla spalla sinistra, Al-berto era un bel giovane; Maria lo pensava. Ma, stando silenziosa, un po' perchè intimidita della presenza del nuovo arrivato, un po' perchè dispiacente di averlo tro-vato col brutto difetto che lo rendeva ridicolo, riusciva a stento a nascondere la delusione di quel momento. Sen-tiva ricadere sopra di sè, su le sorelle, su la sua famiglia,

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insomma, tutte le feroci malignità delle ragazze meren-zòlesi, che non si lascerebbero sfuggire l'occasione di ri-dere alle loro spalle, quasi la disgrazia del cugino le ri-guardasse in qualche modo.

La carrozza montava ancora più lenta; pareva che le due rozze sonnecchiassero nel trascinarla. Don Matteo si scusava.

– Ma, anzi! Ma, anzi! – diceva Alberto. – È una sen-sazione nuova per me. Voialtri non potete apprezzarla. Passare dalle corse a rotta di collo – e spesso ci si rompe il collo davvero! – a questa specie di dondolìo, di culla-mento che fa sentire un po' l'ansia dell'arrivo... Ah, che delizia!

– Voi, caro cugino...– Tu, se non ti dispiace...– Già... Bisogna abituarsi. Tu parli così per non mor-

tificarci. Ci trovi ancora mezzi selvaggi... Non è colpa nostra. Vedi dove la cattiva sorte ci ha fatto nascere?

Si scorgevano, in alto, quasi affacciate su la roccia, le prime case di Merenzòla, sospese tra cielo e terra, info-cate dal sole in tramonto.

– Invidiabile! – esclamò Alberto Domelli.

***

Si lasciava vivere, da dieci giorni, come un ragazzo in vacanza, come un ragazzo viziato dalla eccessiva tolle-

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ranza dei parenti. Dormiva otto ore filate, ed era in piedi all'alba. Andare a letto senza sentirsi stordito da rappre-sentazioni teatrali, da concerti, da conversazioni al club o nei caffè, da ricevimenti; svegliarsi senza nessun sen-so di stanchezza, con la soddisfazione di un dolce be-nessere, con nessuna preoccupazione di qualcosa da at-tendere, o da temere; rifarsi, insomma, mezzo selvaggio, come aveva detto la cugina Maria... Da dieci giorni gli sembrava che non ci potesse essere maggior felicità al mondo; e voleva godersela intera.

Usciva poco di casa. Il villaggio egli lo aveva percor-so per lungo e per largo nei primi giorni. Non c'erano ra-rità, nè monumenti da ammirare; poteva forse dirsi un monumento preistorico da un capo all'altro. Poi lo ave-vano interessato gli abitanti. I pezzi grossi, il parroco, il farmacista, il medico condotto, il pretore erano venuti ad ossequiarlo quasi per curiosità, non per altro; infatti non erano più tornati, con gran sodisfazione di lui, a im-portunarlo di domande.

Ora voleva assaporare le pure, ineffabili gioie della famiglia – diceva un po' maliziosamente – e studiava le cugine che non stavano più in soggezione davanti a lui, da che si erano adattate al tu, e a certi suoi modi di par-lare e di fare. Da principio, però rimanevano un po' stu-pite, non comprendevano bene se il cugino parlasse se-riamente o volesse ridere di loro.

– Avresti dovuto condurre qui un'americana!176

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– Non ci sono americane!Maria e Cristina si erano guardate negli occhi a que-

sta inattesa risposta. Alberto, nell'orto, con una spolveri-na di tela grezza, sdraiato su l'erba, appoggiando le spal-le al tronco di un olivo, fumava tranquillamente.

– Sì, non ci sono americane – ripetè, accorgendosi dello stupore delle cugine. – C'erano una volta, e spesso belle; ma oggi se ne trova rarissimamente qualche esem-plare. Si è venuto creando un sesso intermedio tra ma-schio e femmina, che ha l'esteriore della donna e i carat-teri dell'uomo. Sesso ibrido, il quale si figura di raggiun-gere con lo sviluppo del corpo, a furia di esercizi di for-za, un'importanza, un dominio, una supremazia che la donna otteneva, una volta, naturalmente, con la bellez-za, con la grazia, con la bontà, con la passione anche... Cose tutte che ora non esistono più in America. Un im-peto di furore, di demenza, reso possibile soltanto dalla supina rassegnazione degli uomini... Ecco perchè non ce ne sono più!

Cristina, malignetta quanto Maria, scoppiò a ridere, e disse:

– Che ti hanno dunque fatto di male le americane, da giudicarle così?

– A me? Niente. Mi duole che le italiane appena arri-vate là, diventino peggio di esse. È un orrore!

– E tu sei scappato via per non vederle? Povere ame-ricane!

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Povere, no, perchè hanno molti quattrini, anche milio-ni; ma io le compiango, in certi momenti. I quattrini le hanno guastate. Bisognerebbe ridurle alla miseria...

– Andiamo, via! – fece Cristina. – Oggi Alberto è nel suo brutto quarto d'ora.

– Vieni tu, my little Sarah, – egli disse vedendo appa-rire di fondo al pergolato la cugina minore. – Le tue so-relle forse mi credono mezzo matto...

– A proposito – rispose Sara, con un esitante sorriso su le labbra. – Dovreste spiegarmi... – e a un gesto di protesta di Alberto, soggiunse, interrompendosi: – No, io non posso abituarmi al tu: mi sembra di non poter es-sere sincera.

– Quando è così!... – fece Alberto, prendendole una mano, e trattenendola tra le sue.

– Dovreste spiegarmi un mistero... mistero per la mia ignoranza. Ho trovato in uno dei volumi del signor Storm...

– Ah! Ho capito! Hai trovato il tuo nome e quelli del-le tue sorelle in testa alle lettere che compongono il li-bro. È questo il mistero?

– Sì.– Ebbene, il mio amico Storm mi chiese un giorno tre

nomi di donne, appunto di tre cugine... Ed io mi divertii a dargli i vostri; ecco spiegato tutto.

– Ma perchè avanti il mio nome ha scritto sempre lit-tle? Che significa?

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– Significa... quasi una carezza: Mia piccola Sara!– E ai nomi di Maria e di Cristina perchè ha premesso

invece...– My Dear!...– No... Si pronuncia così; significa semplicemente:

Mia cara...– E che cosa ci scrive?– Cioè, vi fa scrivere da un cugino lontano? Ma è un

romanzo...– Peccato che non possiamo leggerlo!– I romanzi è meglio farli...– Come?– Senza aver l'idea di voler farli.– Ecco le vostre solite stramberie!– Chi sa che tu già non ne abbia uno per la testa...– Io?– Ti trovo così diversa dalle tue sorelle!– E... il romanzo come termina?– Oh! Quel bizzarro di Storm non ha voluto farlo fini-

re. Quante cose, in questo mondo, non finiscono come dovrebbero finire!

– È vero!– Come lo sai, piccola... my little Sarah?– Vi divertite a imbrogliarmi? Certe cose si sanno...

perchè si sanno.– Se questa risposta l'avesse udita l'amico Storm, l'a-

vrebbe già messa in qualche sua storiella.179

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– Non fa altro?... E voi, cugino, perchè non scrivete romanzi anche voi?

– Davvero! Me lo domando: perchè non ne scrivo an-ch'io?

– Mi canzonate? E intanto... mi avete fatto dimentica-re ch'ero venuta per dirvi: Volete fare colazione?

– Sùbito.E siccome teneva ancora la cugina per una mano fin-

se di voler sostenersi ad essa, e balzò in piedi.Don Matteo, era felice che il nipote si fosse già adat-

tato alla vita sonnolenta di Merenzòla. Vinto il naturale ritegno di sembrare curioso dei fatti altrui, approfittò di quella serata piovosa, nebbiosa a intervalli, uggiosissi-ma (che costringeva anche lui a rimaner confinato in casa), per fare ad Alberto alcune domande mal frenate sulla punta della lingua da una settimana.

Colse il pretesto che da due giorni il nipote si chiude-va nella sua camera, e dalle sette di mattina alle dodici rimaneva a scrivere per riprendere dalle quattro alle otto di sera.

– Hai ragione – gli disse. – Noi ti abbiamo fatto tra-scurar troppo i tuoi amici di là. Non dir male di Meren-zòla, se è vero che ti senti quasi rinato...

– Se è vero? Ma lo vedi da te, zio. Son diventato un gran poltrone.

– Là, avevi molto da fare?– Non stavo in ozio.

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– Qui, nipote mio, anche volendo...– Voglio muovermi un po'. Domani, se farà bel tem-

po, andrò al Bosco delle Streghe. Verrete anche voialtre? Comprendo: avete paura. Ma di giorno le Streghe non si fanno vedere...

– E neppure di notte – affermò Don Matteo.– In certe notti, in certi mesi, sì, a quel che dicono... È

un ricordo di quando ero bambino. Raccontava il babbo di averle incontrate lui in persona. Tre bruttissime vec-chie, che gli diedero...

– La famose arance... marcite dentro!... Sì, sì. Tuo pa-dre però – tu non puoi sospettare che io voglia discredi-tare mio fratello – tuo padre era un po' fantastico, vede-va quel che non era... Se si metteva in testa una cosa, a furia di ripeterla, finiva col crederla vera anche lui. Le famose arance marcite non le ha mai viste nessuno: ma quando egli ne parlava...

– Ebbene, zio... io, credo alle Streghe, e voglio tenta-re di incontrarle! Ne ho discorso con una specie di... Mago americano... che ha messo insieme parecchi mi-lioni dicendo la sorte alla gente. Mi ha consigliato: – Vada! Può darsi che riesca.

– In che cosa?Don Matteo lo fissava tra incredulo e stupìto. Le cu-

gine, che avevano riso sentendo ricordare le arance mar-cite, erano diventate serie. A Merenzòla se ne parlava spesso come di fatto realmente accaduto. E quando un

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affare, un matrimonio anche, per imprevedibili ragioni andavano a male, ormai si ripeteva: Come le arance del-le Streghe! Qualcuno diceva: Come le arance marcite di Titta Domelli! Erano rimaste proverbiali.

– Riuscire in che cosa? – insistè Don Matteo.– Il difficile è trovare un compagno – soggiunse Al-

berto. – Credo però che qualche povero diavolo sarà tentato di affrontare la dubbia probabilità... Non dovresti occupartene tu, zio; la buona offerta dev'essere sponta-nea. Se arrivasse qui l'amico Storm, sarebbe capacissi-mo, per affetto, per spavalderia, di profferirsi: – Ti ac-compagno io. – Non è americano per nulla. Ma si è sperduto per strada. Forse arriverà quando non sarei più in tempo; giacchè si tratta di circostanze favorevoli che si combinano raramente.

– Scusa – fece lo zio – ti confesso che non capisco... Mi sembra impossibile che tu creda alle Streghe! Che vorresti da esse? Altre arance marcite come quelle di tuo padre?

Maria e Cristina si misero a ridere.– Caso mai – disse Cristina – il cugino le vorrebbe

d'oro. Ho sentito dire che un pecoraio...– Non mi dispiacerebbero; ma io pretendo qualcosa di

meno. Pare che quella data notte, le Streghe vadano at-torno per far del bene; basta saper propiziarsele.

Alberto in quel momento si sentiva tramutato in Ma-thew Storm, il brioso e fantastico raccontatone delle sto-

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rielle tanto gustate in America. Preparava una storiella in azione; l'avrebbe scritta dopo. E si divertiva a procu-rare quella viva curiosità con cui afferrava i lettori sin dalle prime righe delle sue brevi narrazioni che non an-davano più in là di mezza dozzina di pagine.

– Care cugine – riprese – io posseggo una bacchettina fatata non più lunga nè più grossa di un manichino di penna: batto, e sgorgano dollari; ma in Europa, in Italia specialmente, la sua virtù è paralizzata...

– Oh, cugino! Le Streghe... la bacchettina fatata!... Questa sera sei in vena di sballarle grosse!

Maria e Cristina si sentivano burlate. Sara stava zitta.– È il cattivo tempo – soggiunse Don Matteo. Povero

Alberto... Non sa come svagarsi.– Parlo seriamente, zio!– E seriamente a Merenzòla si dicono e si odono tante

sciocchezze intorno a te da superare le tue... fiabe. Tu sei scappato dall'America perchè hai ammazzato il mari-to di una ricca signora... E sei venuto a nasconderti qui dove la polizia non saprà scovrirti! Tu hai fatto un gros-so fallimento... doloso, s'intende, e vuoi goderti qui i quattrini rubati agli azionisti di una Banca, o di un'Im-presa di appalti; perchè in America, affermano, quando uno scappa per fallimento... chi si è visto si è visto! Tu avresti voluto prender moglie, ma...

– … la mia gobba, s'intende!– Ah, lo sai dunque?

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– Lo immagino...– Dopo la disgrazia della gobba, la tua fidanzata non

volle più saperne di te, e tu sei venuto a Merenzòla per consolarti, per dimenticare...

– Qui i miei compaesani si sono un po' accostati alla verità... un pochino!... Infatti, zio, son venuto per disfar-mi di questa gobba che fa ridere la gente alle mie spalle.

– In che modo? – domandò Don Matteo.– Ma, babbo... Pare impossibile! – lo rimproverò Cri-

stina, udendo quella domanda. – Se la farà levar via col rasoio da mastro Lello il barbiere!

– Che ne dice la my little Sarah?Alla domanda del cugino, Sara parve rinvenire tutt'a

un tratto, da una delle sue solite assenze quando gli altri conversavano – suo padre le chiamava così – e rispose, fuori tono:

– Sciocchezze! Se si dovesse dar retta a tutti!... Meno male che spiove.

– Chi sa dove mia sorella aveva la testa! – esclamò Maria.

Era quel che la rendeva deliziosa per la sincerità qua-si ingenua dei suoi atti e delle sue parole. Alberto la stu-diava senza averne l'aria. Gli erano bastati pochi giorni per conoscere la vanitosa leggerezza di Maria, la causti-ca e forse invidiosa malignità di Cristina. Dovevano aver provato tutte e due una grande delusione con l'arri-vo del cugino... gobbo; che non mostrava, inoltre, nes-

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suna particolare attenzione per esse, e preferiva di scherzare con Sara, come con una ragazzina. Che era venuto a fare? Proprio per le Streghe e per la gobba? Questo mistero le irritava.

Specialmente ora che Alberto passava le giornate in camera a scrivere e a spedire grosse buste raccomanda-te, le quali costavano parecchie lire.

E le amiche, giovani e vecchie, che venivano a visi-tarle, erano più curiose e più pettegole di loro intorno al mistero del cugino. Nessuno riusciva a capire, a Meren-zòla, quest'esilio volontario di un giovane, di un bel gio-vane ricco (non voleva dir niente se gobbo), che dall'A-merica, dov'è il paradiso dei godimenti di ogni sorta, era venuto a ridursi lassù, quasi fuori del mondo. Così, per le indiscrezioni delle due sorelle, si era appresa la storia delle Streghe e della gobba che il figlio di Titta Domelli voleva farsi segare da loro. Se non che...

La vera tromba di banditore era stato il farmacista. Appena saputa la notizia da una vecchia sorella, l'aveva comunicata a destra e a manca. Qualcuno gli domanda-va:

– Può darsi, farmacista?– Tutto può darsi. Ricordo, anzi, di aver letto in un li-

bro che la gobba tolta a uno le Streghe devono appicci-carla a un altro: e per ciò il figlio di Titta Domelli cerca una persona... Pagherebbe una buona somma!

– L'ha lui... il fagotto? E se lo tenga!185

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Un povero diavolo, tentato dal guadagno del premio, s'era presentato a Don Matteo.

– Se fosse vero... io sarei pronto.– Chi ve l'ha detto?– Il farmacista.– Non ha altro da fare? Impasti pillole!E Don Matteo a tavola raccontava, tra scherzoso e

seccato, la profferta di quel povero diavolo che, pur di guadagnare un bel premio, si adattava a buscarsi la gob-ba.

– Quell'imbecille del farmacista ha pieno Merenzòla del fatto che le Streghe la tolgono a uno per appiccicarla ad un altro... E ci crede lui il primo, l'imbecille!

– Se Storm arrivasse! – esclamò Alberto, con grande serietà.

Dopo desinare era sceso nell'orto e fumava un avana. Trovò Sara occupata a ripulire alcune pianticine presso il muro di cinta.

– Mani caritatevoli! – esclamò. – Lo sai, cugina, che le piante hanno occhi, e forse orecchi, e forse anche un linguaggio? Ti riconoscono, ti ringraziano...

– E io non sento nulla! – rispose Sara, sorridendo dol-cemente.

– Da oggi in poi lo indovinerai.– Se si fosse certi di indovinare!... Cugino, – soggiun-

se dopo un istante di esitazione – non ho voluto doman-darvelo davanti agli altri per timore di sentirmi burlare...

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È proprio vero che le Streghe...?– Verissimo!– E che occorre una persona che si offerisca sponta-

neamente di accompagnarvi?– Verissimo, pur troppo!– Io... potrei?– Tu, my little Sarah! E non hai paura?...– Che m'importerebbe? Purchè voi...Alberto si sentì affluire violentemente il sangue al

cuore. Si era già accorto di qualcosa che si agitava in fondo al suo animo in maniera oscura, involuta; ma in quel momento gli parve che una gran luce si facesse dentro di lui... Oh, come l'amava! Come l'amava la sua little Sarah!

Si contenne. Avrebbe voluto prenderla per le mani, stringerla al petto, gridarle: – Non ho bisogno di altra prova! – Ma neppure in quel momento seppe dimentica-re di essere Mathew Storm, l'inesauribile autore di Let-tere alle cugine, di Il nido delle rondini, di Rose sfiorite, di Brancolando, di Sogni non sogni... I cinque volumi che formavano il suo glorioso segreto di artista.

Si contenne, e, con voce turbata suo malgrado, disse:– E tuo padre che penserà?– Dovrà dire che avrò fatto un'opera buona.– Allora, senti...E presero gli accordi.

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***

Quasi una fuga di innamorati!La serata era splendida. Il plenilunio inondava Me-

renzòla e le campagne, e, a sinistra, il nereggiante Bo-sco delle Streghe.

Uscirono dalla porticina dell'orto, dopo che tutti, nella casa e nel vicinato, erano andati a dormire.

Sara, dalla commozione, aveva dovuto appoggiarsi al braccio di Alberto. Si sentiva tremare le gambe; un nodo le stringeva la gola. Così, muti, affrettando il passo lun-go la strada sassosa, erano arrivati all'entrata del bosco.

Sotto le dense fronde degli alberi faceva quasi buio. Anche Alberto si sentiva sopraffatto da commozione profonda. Avea preso Sara per mano, e la guidava a tra-verso gli intrighi dei polloni cresciuti a piè dei tronchi e che in certi punti formavano siepe.

Gran silenzio. Di quando in quando un lieve stormire di fronde, un grido di uccello notturno; e poi gran silen-zio di nuovo.

– Hai paura?– No.– Sei stanca?– Un pochino...La fece sedere sul grosso tronco di albero steso per

terra.– Vengono?... – balbettò Sara.

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– Non verrano; non verranno! – rispose Alberto con lieve tremito nella voce. – Le Streghe hanno terrore del-le Fate; e qui c'è la più bella, la più buona, la più pietosa Fata del mondo: tu, mia piccola Sara! Avrei dovuto ri-sparmiarti questa prova; ma chi vuol bene è egoista; non sa privarsi della grandissima gioia di accertarsi di essere egualmente voluto bene... Noi abbiamo incredibili in-consapevoli previsioni che nessuno sa spiegare. Là, in mezzo all'orrendo frastuono della vita americana, io ero, di tanto in tanto, afferrato da violento desiderio, quasi sentissi una voce che mi richiamava qui... Mi ero figura-to che soltanto la stanchezza di quella vita turbinosa, per contrasto, mi spingesse verso il villaggio nativo, tra pa-renti che conoscevo appena, vicino a te che non cono-scevo affatto. No!... Un'invincibile smania di essere amato senza secondi fini, non ostante un difetto che ren-de ridicolo, mi ha fatto venire qui dove immaginavo – e non mi sono ingannato! – di trovare il cuor sincero, ca-pace di un grandissimo sacrificio. Fino a ieri, però, m'e-ro creduto una specie di romanziere, di artista, che auda-cemente avesse tentato di foggiare la realtà a modo suo e non fosse riuscito. Tu eri ancora enimma per me; io, forse, un'incognita per te. Ma, è bastato un sublime mot-to perchè il mistero dei nostri cuori si rivelasse. My little Sarah... Non ti chiamerò più altrimenti!

Si udì un lieve rumore. Sarà trasalì.– Eccole!

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– Rassicùrati, non verranno... perchè ci sei tu. Dimmi, dimmi intanto: Quel che forse ti è sembrato un profondo sentimento di carità non è qualcosa di meglio, di più ar-dente? Guarda bene nel tuo cuore. Non vorrei che un giorno tu dicessi: Mi ero ingannata!

Si udì di nuovo quel lieve rumore.Sara si rizzò in piedi, girando attorno gli occhi spa-

ventati.– Non verranno più! – riprese Alberto. – Come non ti

accorgi che il prodigio sta per compirsi? Guarda bene nel tuo cuore. Vuoi tu essere l'adorata compagna della mia vita? Vuoi tu, mia piccola Sara?

Per tutta risposta, ella si abbandonò sul petto del gio-vane.

Allora si udì un fruscio di qualcosa che sfuggiva rapi-damente. Egli che non aveva ancora osato di baciare la cugina, le prese una mano, le sollevò il braccio fino alla spalla sinistra di lui, forzandola a toccare.

La gobba era sparita...Incredula, Sara volle accertarsene ripetutamente.E ripeteva– Come è avvenuto? Possibile? Come... Quanto sono

felice! Oh! Alberto!...– Affrettiamoci a tornare – egli disse con risoluzione

improvvisa. Pareva folle di gioia.Erano le due dopo la mezzanotte. La luna piena cala-

va lenta dietro le montagne. Merenzòla era tuttavia inar-190

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gentata dal gran chiarore.Camminavano lestamente, presi per mano come due

ragazzi. Sara stentava a credere ai suoi occhi: la gobba era sparita! Dunque, aveva prodotto davvero lei quel portento? Le pareva un miracolo.

Com'era bello il suo Alberto!Diceva così, tra sè e sè, ammirando la persona svelta,

diritta, che in certi punti la precedeva.Intanto il novelliere pensava alla chiusa di quella sua

little story in azione.– Doveva svelare il trucco, o lasciare intorno all'avve-

nimento la incerta nebbia di meraviglioso, di fantastico che tanto sarebbe piaciuta ai lettori?

E neppur Sara allora seppe niente. Tutta Merenzòla accorse la mattina dopo ad ammirare il prodigio. Non ne parlarono i giornali, perchè nel villaggio nessuno aveva la vanità, nè la possibilità di fare il corrispondente.

Soltanto un anno dopo, quando Sara ebbe imparato bene l'inglese, leggendo tra le storielle di Mathew Storm quella del Bosco delle Streghe, apprese che la gobba di suo marito era stato un trucco bizzarro, un audace tenta-tivo, una fantasiosa americanata; e fu lieta di sapere che Alberto conservava come cara reliquia la gibbosità arti-ficiale a cui egli doveva la gioia di un amore senza pari e di un'offerta inconsapevolmente sublime.

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CONSIDERAZIONI

Un intreccio lieve, caratterizzato da delicate sfumature, viene svolto conun esemplare equilibrio tra la realtà e il fiabesco. La novella, appunto

per questo, va considerata come una delle più riuscite tra lemolte scritte dall'Autore. Ha, inoltre, un sostrato moraleche viene perseguito con lineare sicurezza e senza cheesso sovraccarichi i tenui e cari motivi fantastici che,

anche se non nuovi, sono rielaborati da unasensibilità notevolmente originale.

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IL CERCATORE DEL CONVENTO.

Nessuno più lo chiamava col suo nome di frate, dopo che padre Isaia, il guardiano, vedendolo tornare al Con-vento con le bisacce di tela bianca così ricolme da reg-gerle a stento, aveva esclamato, sorridendo:

– Ecco Fra Formica!Il soprannome era meritato.Da che fra Giuseppe era stato destinato a fare il cerca-

tore, la cantina, la dispensa, il magazzino del Convento rigurgitavano di ogni grazia di Dio.

Gli altri frati e la gente finirono col chiamarlo a dirit-tura Fra Formica, ed egli ne godeva in gloria del Serafi-co San Francesco.

Per le vie i ragazzi gli correvano incontro gridando:– Fra Formica, la polizzina!Ed egli dava ai ragazzi, la striscetta di carta coi ver-

setti per la Madonna, stampati. Bisognava dire un'avem-maria, avvoltolare la cartina e inghiottirla, perchè la Ma-donna li santificasse. Agli adulti invece dava una bella presa di quel suo tabacco che avrebbe risuscitato un morto; alle comari una figurina della Madonna, o di Santa Veronica Giuliani.

Alle signore poi recava in regalo, di tanto in tanto, un piattino di ulive bianche, condite in insalata e con erbe

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odorose, da far venire l'acquolina in bocca. E aveva per tutti un sorriso, una buona parola, un consiglio, una pro-messa di raccomandarli a Dio, alla Madonna dei Malati perchè li risanasse sùbito.

Vedendolo arrivare al Convento, rosso in viso, col su-dore che gli gocciolava dalla fronte, pel peso delle bi-sacce portate in spalla, Fra Felice che badava alla cucina e al refettorio – e badava anche a papparsi i migliori bocconi e a bersi il miglior vino! – dava ad intendere al Guardiano che i migliori bocconi e il miglior vino li ser-bava sempre per Fra Formica.

– Se li merita, poveretto! Bisogna star sempre in forze pel suo ufficio di cercatore, e avere gambe di ferro per salire e scendere le ripide vie e le viuzze dei tre quartieri della città, o per fare a piedi la strada quando riconduce alla campagna la mula così carica che cavalcarla sareb-be crudeltà, quantunque mula con schiena d'acciaio!

***

Certamente Fra Formica non si lasciava patire, nè aveva bisogno di Fra Felice, o di altri; il padrone d'ogni cosa era lui.

Poteva avere in mano quante volte voleva le chiavi della cantina e della dispensa, dov'erano allineati i coppi d'olio, e le botti del vino; o pure la chiave del magazzino dov'erano ammucchiate in un canto forme di cacio e di

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ricotta salata, e da un cerchio di botte, appeso alla volta, ciondolavano salami e prosciutti di maiale, grosse pere di caciocavallo, e poponi nelle reticelle.

I frati però capirono presto che con quella buona pa-sta di Padre Isaia, il vero guardiano era proprio Fra For-mica, il quale disponeva di ogni cosa, a cominciare dal pranzo giornaliero, giù giù, fino alle spese per le feste della Madonna dei Malati, di Santa Veronica Giuliani e di San Vito.

A loro toccava soltanto levarsi a mezzanotte, a mattu-tino, dir Messa, predicar novene, confessare, assistere i moribondi, e accompagnare i morti senza nessun merito, quasi questi servigi non fruttassero poi le elemosine che Fra Formica andava raccogliendo! E quando videro, al-l'ultimo, che il padre guardiano lo aveva dispensato an-che dall'obbligo del coro a mezzanotte, perchè si trovas-se fresco di forze la mattina per le fatiche della cerca; e si accorsero di tante altre cosettine, dapprima, comincia-rono a brontolare a quattr'occhi col guardiano che li ascoltava lisciandosi la barba lunga due palmi, a testa bassa, senza rispondere sillaba. Poi fecero giungere al Provinciale ricorsi anonimi, dove si diceva omnia male-dicta di Fra Formica e del guardiano che, per dabbenag-gine, gli teneva il sacco.

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CONSIDERAZIONI

Senza dubbio interessante è la figura sorniona di Fra Formica; ma doveteanche notare la vivace presentazione d'un ambiente che vive la

sua chiusa vita, tanto da ingigantire le cose piccole e crearedal nulla casi gravi. L'attaccamento alle cose della

terra, e specialmente il vizio della gola,sono qui oggetto di un garbato

umorismo.

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L'AVVENTURA DEL DOTTORE.

Le vie della sua cittaduzza, ripide o mal selciate, non avrebbero consentito al dottor Lambertini l'uso della carrozza, anche quando i molti clienti gli avessero per-messo questo lusso. Il muletto di cui si serviva di estate per le visite, dopo la pratica di parecchi anni, conosceva le case dei clienti meglio dello stesso padrone, e il dot-tore, smontando era sicuro di poter lasciarlo davanti a le porte con la briglia sul collo e le staffe penzoloni; non si sarebbe mosso, nè avrebbe mai avuto il capriccio di but-tarsi per terra, farsi una bella stropicciatina e rovinare sellino ed arnesi.

Vispo e forte, trottava allegramente, tenendo alta la testa, inarcando il collo come un cavallo di razza; alla porta del cliente però si arrestava piantandosi su le quat-tro zampe cacciandosi di tanto in tanto le mosche con la coda tagliata a spazzola e con rapidi movimenti della te-sta. E se qualche ragazzo gli veniva attorno per palpargli la pancia, per lisciargli il groppone, per grattargli la fronte, o anche per stuzzicarlo e dargli noia, lo lasciava fare, da muletto prudente e dottorale, che non voleva procurare impicci al padrone con un calcio mal dato.

Solamente, quando questi indugiava troppo in qual-che visita, intonava un raglio un po' stonatino, quasi in-

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tendesse dirgli: – Ehi dottore? – E il dottore gli dava sù-bito retta. Egli chiaccherava volentieri, nei giorni che non aveva troppa gente da visitare, osservato il malato e scritta la ricetta, appiccicava il discorso con lui o con i suoi parenti, secondo l'occasione, e dimenticava facil-mente la povera bestia che s'annoiava giù, nella via.

Al raglio, il dottore scattava dalla seggiola, nè c'era più verso di trattenerlo. Se il muletto ragliava, voleva dire ch'egli l'aveva fatta proprio lunga; e scappava. N'era nata la leggenda che dottore e muletto fossero d'intesa, cioè che il dottore avesse addestrato l'animale a dargli l'avviso, quando egli cedeva alle lusinghe della chiac-chiera allegra. Non era vero. Quel raglio, bisogna esser giusti, era stato una trovata del muletto, di cui il dottore profittava e di cui era gratissimo alla bestia intelligente. Egli anzi soleva raccontare una strana storiella intorno a quel raglio, ma forse soleva adulare un pochino il suo bravo compagno di visite.

Raccontava, dunque, che, le prime volte, aveva ri-compensato quei ragli con qualche manata di fieno e di biada più dell'ordinario, specialmente allorchè essi era-no stati davvero opportuni per rammentargli una visita che non si doveva trascurare. Dopo due tre volte però, quel diavolo di muletto, comprese la vera ragione del soprappiù di fieno e di biada fattogli somministrare dal dottore, pensò di abusarne, i suoi ragli diventarono fre-quentissimi, si fecero sentire a proposito ed a sproposi-

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to; e il dottore ingenuamente confessava che a capire questa malizia egli ci aveva messo assai più che non il muletto a capire le intenzioni di lui. Ne rise; e per non farsi canzonare da una bestia, sospese quella specie di mancia.

Anche questa volta il muletto comprese sùbito; e da allora in poi i suoi ragli si fecero udire soltanto quando erano proprio necessari.

Ho detto che, al raglio, il dottore Lambertini scattava dalla seggiola e non c'era più verso di trattenerlo. Ma un giorno, un brutto giorno, il muletto dovette essere mara-vigliato di vedere rimaner vani i suoi replicati appelli, uno più forte dell'altro, uno più stonato dell'altro. Non già che il suo raglio fosse corto o roco, no; difettava, nelle note profonde e nelle acute, di quella pastosità, di quell'ampiezza, di quelle gradazioni meravigliose che rendono veramente insuperabile il raglio asinino. C'era-no, insomma, discontinuità nella emissione, asprezze nei passaggi: l'ibridismo vi si manifestava con netta ca-ratteristica.

Quel giorno dunque, come dicevo, i ragli appellanti del muletto rimasero vani. Dopo un par d'ore di ango-sciosa aspettativa, vistosi prendere per le redini da una persona sconosciuta, ricalcitrò, s'impennò, fece un po' il testardo da quel muletto che era; si buscò calci alla pan-cia, nerbate, strappate di cavezza che gl'insanguinarono il muso; e sparato un paio di calci, capito la inutilità del-

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la resistenza, s'era lasciato ricondurre alla stalla, e si era messo filosoficamente a mangiare la biada, senza stillar-si il cervello intorno all'insolito caso che doveva esser capitato al padrone.

Infatti il caso era stato insolito davvero.Convien premettere che in quel tempo, da due mesi,

gli abitanti della cittaduzza nativa del dottor Lambertini erano agitati da grandissima curiosità.

Una palazzina, disabitata da più di mezzo secolo, ave-va ricevuto inaspettatamente tre ospiti, un signore e una signora accompagnati da un servo; e nessuno, neppure i più braconi del paese, coloro che si sarebbero messi vo-lentieri allo sbaraglio per sapere i fatti altrui, avean po-tuto penetrare il mistero di quella coppia che se ne stava tutta la giornata tappata in casa, che si affacciava ai ter-razzini a sera tarda e quando non c'era lume di luna, e che s'avventurava per le vie più remote, o per la campa-gna, soltanto di notte, a braccetto, parlando sottovoce, quasi avesse qualche gran delitto da nascondere...

La gente era maravigliata, soprattutto, del mutismo della polizia, che pareva di non avvedersi di niente, o di non volersi occupare, per chi sa quali profonde ragioni, di quella stranissima apparizione.

Il giudice, come dire oggi il Pretore, nelle cui mani stavano allora in Sicilia anche i pieni poteri di polizia, interrogato destramente, aveva risposto con un'alzata di spalle assai significativa. Così fu tenuto per accertato

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che si trattava d'un relegato politico; la signora era sua moglie. Giovane? Bella? Fu messo in chiaro anche que-sto: giovanissima e bellissima. E un gran senso di com-passione invase tutti i cuori a beneficio della coppia in-felice; e i braconi divennero più riguardosi, per non compromettersi, per non aver che fare con la polizia borbonica che non usava riguardi a nessuno.

Il servo, sulle prime era stato assediato di domande, poi avea dovuto stentare non poco per resistere a tutti i tranelli tèsigli dagli sfaccendati a fine di cavargli il se-greto di bocca. E, finalmente, fu lasciato in pace, anzi evitato. Lo stesso dottor Lambertini, che era stato tra i più curiosi e più insistenti, e che parecchie volte interro-gato, con diversi pretesti, intorno alla spesa giornaliera, quando lo avea visto aggirarsi pel mercato – il dottore fidava in una sua idea: Dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei – fin il dottore si era rassegnato a rimanere al buio, quantunque ogni volta che passava, davanti al por-tone della palazzina, non mancasse mai di squadrarne la facciata e l'atrio, quasi avesse voluto penetrare con gli sguardi lo spessore delle mura del vecchio edificio, e os-servare in che modo occupassero il loro tempo quei due personaggi piovuti là non si sapeva nè perchè, nè da dove.

Figuratevi, dunque, la sua immensa sodisfazione la mattina ch'egli vide arrivarsi in casa quel servo tante volte inutilmente tentato, il quale veniva in nome del pa-

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drone per pregarlo di una visita d'urgenza, di grandissi-ma urgenza.

Il dottor Lambertini, senza giacca, con le maniche della camicia rimboccate sino ai gomiti, il petto aperto, la cintura rilasciata attorno al bel pancione rotondo, se-duto nel terrazzino dello studio, all'ombra d'una tenda, con le gambe allargate e i piedi nuotanti nelle pianelle, si faceva vento beatamente.

– Il signore è ammalato? – si affrettò a domandare.– Non lo so.– O la signora?– Non lo so. Il padrone mi ha detto: conducilo con te,

sùbito sùbito.– Eccomi; il tempo di vestirmi e di far sellare il mu-

letto.– Lo sello io, se lei vuole.Mai il dottor Lambertini s'era vestito con tanta fretta;

mai il muletto era stato spronato con tanta sollecitudine; mai il dottore era sceso di sella più sveltamente, nè più lestamente aveva mai salito le scale d'un cliente in peri-colo di vita. Pareva ringiovanito, pareva che l'adipe non gli pesasse più, e che la mole del pancione non gli pre-messe più sui polmoni ad accorciargli il fiato.

S'era trovato faccia a faccia con un bel giovane alto, dalla tinta olivastra, con barba e capelli neri, che gli ste-se le mani balbettando qualcosa d'incomprensibile e lo trascinò attraverso una fila di stanze buie, balbettando

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allo stesso modo interrottamente, quasi singhiozzante....Al dottore pareva di sognare. Nella rapida traversata

di quegli stanzoni antichi, in penombra, che mandavano forte odore di rinchiuso, aveva potuto appena intravede-re gli scarsi mobili, i quadri polverosi alle pareti, i gran-di specchi appannati, dalle cornici dorate, tutte frastagli e cartocci.

Poi in quella camera con le imposte ermeticamente chiuse, illuminata quasi fosse stata notte, il letto in un canto tra ampie cortine e quel corpo di donna stesovi su, rigido, gli avevano intorbidita così violentemente la in-telligenza, che per qualche secondo rimase là, spalan-cando gli occhi smarriti, senza poter pronunziare una sillaba.

– Salvatela, dottore!... Salvatela!...Ora udiva distintamente queste parole dello scono-

sciuto, e avrebbe voluto rispondergli, interrogarlo; ma la lingua inaridita gli si era appicciata al palato, e le gambe gli tremavano sotto, intanto che si passava una mano su la fronte e su le tempie per schiarirsi la mente. Si lasciò cadere sopra la seggiola a piè del letto, e stese macchi-nalmente il braccio per tastare il polso dell'ammalata. Questo atto abituale bastò a richiamarlo sùbito all'eser-cizio della sua professione, a rimetterlo pienamente in calma, quantunque provasse tuttavia grande stupore alla presenza di quello sconosciuto delirante d'angoscia e che non riusciva a dirgli altro all'infuori di:

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– Salvatela dottore!... Salvatela!...– Non abbia paura. È cosa da niente.Gli parve opportuno confortarlo così, quantunque

ignorasse la natura del male che stendeva là, come mor-ta, la bella signora.

Il polso era fievolissimo, la temperatura del corpo molto bassa. Una straordinaria tensione dei muscoli lo rendeva immobile, allungato. I denti serrati, le labbra contorte, gli occhi spalancati senza sguardo, il pallore cadaverico davano a tutta la persona un'espressione ter-ribile.

– Scusi – disse finalmente il dottore; – che le è acca-duto?

Colui guardava ansiosamente ora la donna ora il dot-tore, torcendosi le mani, agitando le labbra a una rispo-sta che non poteva venir fuori.

– La signora era sofferente da un pezzo? – riprese il dottore.

– No, al contrario! – balbettò lo sconosciuto. – È stato tutt'a un tratto... per una cattiva notizia – soggiunse con qualche sforzo.

– Capisco: crisi nervosa.– Salvatela dottore!Questi, che s'era completamente rimesso dall'improv-

viso sbalordimento e intendeva trar profitto dell'occasio-ne per penetrare il mistero di quei due, avventurò qual-che domanda. Pareva che colui non si raccapezzasse o

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non intendesse.Allora il dottore si decise a scrivere un paio di ricette.– Mandi sùbito qualcuno; attenderò.E si metteva a strofinare ora l'una ora l'altra mano

della signora per richiamarvi il calore.– Va bene – esclamò, vedendo che le vesti e il busto

erano slacciati. E chinò l'orecchio sul petto della malata, per ascoltare il cuore. – Ritmo lento, quasi impercettibi-le!... – Forse gli ultimi guizzi d'una vitalità prossima a mancare?

Parve che lo sconosciuto gli avesse letto questa inter-rogazione negli occhi, con impeto così disperato gli si buttò ai piedi, con le mani cacciate convulsamente fra i capelli irti:

– Oh Dio!... Dottore, salvatela!... La vita di lei e la mia sono nelle vostre mani!... Salvateci!

Il povero dottore era commosso; ma, purtroppo, non vedeva chiaro in quella crisi nervosa, che poteva mutar-si da un momento all'altro in letale catastrofe. E il suo imbarazzo aumentò quando scorse che il male resisteva ostinatamente ai rimedi portati con sollecitudine dal ser-vo. Il polso rimaneva ancora fievole; la temperatura bas-sissima; la rigidezza di tutto il corpo allo stesso grado. Invano egli introduceva fra i denti serrati della malata la punta del cucchiaio per farle inghiottire qualche goccia della pozione rianimante; invano le metteva sotto il naso la boccetta dell'etere; invano le bagnava la fronte e le

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tempie con acqua fresca mista ad aceto. Sudava freddo anche lui, tornava a smarrirsi, e accennava a quel dispe-rato di star zitto, di frenarsi. Tentava intanto di richia-marsi alla mente qualcosa che gli era balenato appena messo il piede in quella stanza e che gli era subito sfug-gito...

– Ah, ecco!... Aria! Aria!...Lo sconosciuto esitò un istante, quasi avesse paura

dell'aria e della luce; poi spinse indietro il dottore che s'accingeva ad aprire l'imposta e la spalancò egli stesso.

– Salvatela!... Salvatela! – tornò a balbettare.All'altro non era sfuggito, intanto, il gesto di diffiden-

za con cui gli era stato impedito di aprire le imposte.A questo punto salì dall'atrio il raglio del muletto; e al

dottore sembrò un avvertimento di persona amica che voleva metterlo in guardia contro un pericolo imminen-te. Scattò, per abitudine, dalla seggiola e diede schiari-menti, su quel che occorreva fare: Insistere, insistere con quei rimedi.

– Tornerò verso sera, – aggiunse, affettando la tran-quillità che non aveva.

– Oh, no! Voi non uscirete di qui, dottore, prima ch'ella sia salva. Oh no, no!

Il tono della voce, l'espressione degli occhi, il gesto erano poco rassicuranti.

– Ma io, caro signore, ho altri malati – egli disse qua-si supplichevole...

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– Muoiano! Perisca il mondo intero, se costei!...Non finì la frase; cominciò a piangere, ripetendo –

Muoiano, muoiano!... Perisca il mondo intero!...Il dottore si sentì ricacciare bruscamente su la seggio-

la.Poi vide lo sconosciuto chinarsi amorosamente verso

il volto pallido della signora, e chiamando: Dora! Dora! Dora! – e voltarsi angosciato verso di lui:

– Non mi ode!... Salvatela, Salvatela!... Ditemi che la salverete! Ah, dottore!...

Pareva impazzito.Il muletto tornò a ragliare, prolungatamente, insisten-

temente. Questa volta il suo raglio avea l'evidentissima intonazione del rimprovero.

Il padrone se n'era dunque scordato?E con l'abitudine della familiarità tra padrone e mu-

letto, il dottore gli rispondeva, nel suo interno, quasi l'a-nimale potesse udirlo:

– Che vuoi che faccia, caro mio? Sono nelle mani d'un pazzo!

I suoi sguardi intanto erano fissati sulla donna che ri-maneva immobile, smorta, con gli occhi aperti, vitrei, le membra tese e irrigidite dall'assalto nervoso. La crisi durava da più ore e pareva volesse prolungarsi indefini-tivamente e finire molto male...

– Per tutti! – rifletteva con profonda angoscia il dotto-re, che non sapeva più a qual santo voltarsi per far inten-

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dere un po' di ragione a quel furibondo, che si agitava, piangeva, supplicava, invocava Dio e i santi, qualche volta anche il diavolo, con deplorabile confusione; che lo spingeva poco garbatamente su la seggiola a ogni ten-tativo di alzarsi per scappar via...

– Ma scusi – gli diceva dolcemente; – lei pretende un miracolo;... Bisogna che la crisi faccia il suo corso. Se ne persuada; non c'è pericolo. Nervi! Le donne, si sa... La scienza è impotente. Se poi lei volesse un consulto... Certamente, un consulto sarebbe opportuno, anche per mio sgravio di coscienza; quattro occhi veggono meglio di due.

Questa del consulto gli era parsa una bellissima idea; e vi picchiava e ripicchiava su, abbozzando un sorriso, scuotendo il capo in segno di grande approvazione, mo-dulando la voce in toni insinuanti, persuasivi. Era come dire al muro.

– Salvatela!... Salvatela! – ripeteva quel trambasciato, smaniando più di prima.

Il muletto tornò a ragliare:– Ahaa! Ahaa! Ihii! Ihii! Ahaa! Ahaa!...Non la finiva più; pareva che stesse per perdere la pa-

zienza anch'esso.Ora che le imposte erano aperte, la sua voce montava

fin lassù chiara, sonora; riempiva la camera.– Scusi...! C'è quel povero animale! – disse il dottore

pietosamente.208

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Quegli, che aveva udito il raglio, si scosse, chiamò il servo, diede ordini che il dottore non capì e poi venne a piantarglisi davanti, col viso contratto, con gli occhi che gli lucevano di pianto...

– Non m'ingannate, dottore! Non m'ingannate per pie-tà!... Vivrà:... Vivrà?... Guardi : se Dora...

E si precipitò verso un mobile, aprì rapidamente un cassetto e ne trasse un paio di pistole della canne lucen-ti, che brandì mostrandole; poi fece atto di farsi saltare le cervella.

Se non che il gesto fu così imbrogliato, che il dottore capì anche: ma prima farò saltare le cervella pure di lei!...

Allibì, si sentì svenire. L'atto di contrizione articulo mortis gli salì alle labbra per istinto. E i suoi occhi si volsero, già mezzi appannati dal terrore, verso la donna giacente...

– Oh Dio! Oh Dio!... È finita! – pensò il dottore, ve-dendo quell'aspetto che pareva decomporsi nel supremo sfacelo della morte.

Un brivido diaccio gli guizzò per le vene da capo a piedi; e chiuse gli occhi per non vedere le maledette pi-stole dalle canne luccicanti, che quel pazzo furioso tene-va sempre impugnate, attendendo. A un tratto, non vide nè sentì più nulla.

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Quanto tempo fosse rimasto morto egli non seppe mai dirlo; forse pochi istanti, forse qualche minuto... Un se-colo! – egli credette, rinvenendo, atterrito di sentirsi scuotere e chiamare ad alta voce:

– Dottore! Dottore!Quella voce però era tremante, sì, ma di gioia: come

erano convulse anche di festosa impazienza le mani che lo scuotevano...

Spalancò gli occhi, che gli si riempirono di lacrime, mentre il cuore gli balzava violentemente nel petto, e il sangue gli tumultava violentemente nelle vene, così cal-do ed impetuoso da fargli male.

La bella signora, seduta sul letto, sorretta dai guancia-li, con gesto di persona non ancora desta dal sonno, si passava le mani sui capelli, sorrideva dolcemente, e con languida voce diceva al giovane che stava ginocchioni davanti a la sponda del letto:

– Sentivo, vedevo tutto, e non potevo fare il minimo movimento! Lo spavento di questo signore...

– È il dottore! – la interruppe colui, stendendo una mano riconoscente al pover'uomo, che non osava ancora credere a sè stesso.

– Il suo spavento, la sua terribile minaccia... Feci uno sforzo... e, improvvisamente, mi sentii slegare. Quanto ho sofferto!

– Oh, bene, benissimo. Me ne rallegro. Tanto meglio. 210

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Benissimo!...Il dottore si era levato in piedi, e si tastava per persua-

dersi che non sognasse o delirasse, ripetendo: – Tanto meglio... benissimo! – con un gran desiderio di scappar via, prima che sopravvenisse qualche altro malaugurato incidente.

– Perdonate, dottore. Ero pazzo! – gli ripeteva lo sco-nosciuto. – grazie, grazie!

– Grazie di che?... Non ho fatto niente.E cercava di svincolarsi dell'abbraccio di colui, che

ora pareva ammattito in modo opposto, dalla troppa gio-ia.

– Bravo! Tanto meglio!... A rivederli... La signora si sente bene, è vero! È passata ogni cosa?

Pareva che anche la bella signora ridesse garbatamen-te della gran paura di lui.

– Quel povero animale! – riprese il dottore, come cer-cando un pretesto – Bisogna che io vada via.... I miei malati...

– Ah! il muletto! esclamò il giovane, ricordandosi.– I miei malati – ripetè il dottore.Ma ce ne volle, prima che lo lasciassero partire. Do-

vette quasi lottare per farli persuasi che non avrebbe mai accettato un compenso.

– Questo ricordo, almeno! Insistette, mostrando uno spillo elegantissimo, tolto dalla propria cravatta, e che volle appuntargli alla cravatta con le sue stesse mani, tra

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le più calde proteste di immensa riconoscenza, di eterna gratitudine...

– Noi partiremo domani l'altro, ma non dimentichere-mo mai il nostro salvatore, mai, mai!

Sull'uscio lo fermò:– Dottore, la prego, non dica niente a nessuno di

quanto ha veduto.– Si figuri! Anche pel segreto professionale!E, più che scendere, ruzzolò le scale.Nella via trovò ancora la gente, che la lotta del mulet-

to col servitore aveva radunata. Gli raccontarono l'acca-duto.

– Povero muletto!Il dottore, prima di entrare in casa, volle visitarlo nel-

la stalla. Gli si accostò, lo accarezzò, lo palpò; ma l'ani-male, mostrando di tenergli il broncio, non si voltò nep-pure, e continuò a masticar paglia, come se il padron non parlasse con lui.

Muletto vendicativo! Da quel giorno in poi non ragliò più mai.

Il dottor Lambertini, vecchissimo, ricordava spesso con piacere le prodezze del muletto, suo compagno di visite, e ripeteva sorridendo: – È morto da un pezzo, po-vero muletto! L'ho rimpianto come... come...

E si vergognava di dire che lo aveva rimpianto come un amico, come un figlio.

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CONSIDERAZIONI

L'uomo bonario col quale viene ritratta la figura del dottore e dell'asinello«suo compagno di visite» trova un contrappeso nel dramma buio di una coppia, che appare e dispare senza nulla aver fatto trapelare di sè.

La novella, complessivamente interessante, ha un difetto nellaimpossibilità, davanti alla quale si trova lo scrittore,

di farci intendere il muto dramma dei duepersonaggi misteriosi.

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NOTA.

Trovandosi la Casa Editrice Remo Sandron proprietaria di una ventina tra volumi e volumetti di novelle di Luigi Capuana, cioè di quanto di meglio lo scrittore siciliano produsse nella no-vellistica, ci è stato possibile scegliere alcuni tra i più significati-vi componimenti, coordinarli, alcuni in qualche punto per ragio-ni varie tagliarli, commentarli e presentarli perchè gl'insegnanti di scuole medie inferiori possano adottarli in base ai programmi che prescrivono «un'opera di scrittore italiano del sec. XIX o XX».

Tra i molti libri del genere, tutti buoni e parecchi ottimi, le no-velle di Capuana dovrebbero formare un libro ottimo.

Almeno tale ci auguriamo che troveranno questa raccolta gl'insegnanti che dovranno giudicarla e adottarla, e gli alunni che saranno chiamati a leggerla.

Ringraziamo, inoltre, Adelaide Bernardini, che fu compagna dello Scrittore, per la revisione che ha voluto fare di questa rac-colta; revisione amorosa che testimonia del suo nobile e devoto attaccamento alla memoria e all'opera di Capuana.

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INDICE.

PuppattolinaL'omino di mammaScimmiottoUn piccolo «Fregoli»Prime armiIl «Diario» di CesareRicordi d'infanzia (1848-1849)Il Dottor FicicchiaFratello e sorellaI MajoriNel bosco delle stregheIl cercatore del ConventoL'avventura del dottore

Nota

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