DUODENOCEFALOPANCREASECTOMIA PER NEOPLASIA … · duodenocefalopancreasectomie robotiche dimostra...

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UNIVERSITÀ DI PISA Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia Tesi di Laurea DUODENOCEFALOPANCREASECTOMIA PER NEOPLASIA MALIGNA: CONFRONTO TRA TECNICA OPEN E LAPAROSCOPICA ROBOT-ASSISTITA RELATORE: Chiar.mo Prof. Ugo Boggi CANDIDATO: Cristina Carpenito ANNO ACCADEMICO 2015/2016

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

DUODENOCEFALOPANCREASECTOMIA PER NEOPLASIA

MALIGNA: CONFRONTO TRA TECNICA OPEN E

LAPAROSCOPICA ROBOT-ASSISTITA

RELATORE:

Chiar.mo Prof. Ugo Boggi

CANDIDATO:

Cristina Carpenito

ANNO ACCADEMICO 2015/2016

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INDICE

Pagina

ABSTRACT 3

CAPITOLO 1 - INTRODUZIONE 6

1.1 Chirurgia pancreatica open 6

1.2 Chirurgia pancreatica laparoscopica 12

1.3 Chirurgia pancreatica robotica 18

1.4 Patologia neoplastica del pancreas esocrino 21

1.5 Patologia neoplastica del pancreas endocrino 44

1.6 Sistema robotico da Vinci 52

1.7 Modalità di esecuzione robotica della procedura 54

1.8 Modalità di esecuzione open della procedura 56

1.9 Resezioni vascolari 59

CAPITOLO 2 - MATERIALI E METODI 63

2.1 Selezione dei pazienti 63

2.2 Analisi statistica 64

2.3 Casistica 64

CAPITOLO 3 - RISULTATI 71

3.1 Risultati istologici 71

3.2 Risultati intra-operatori 72

3.3 Risultati peri-operatori 75

3.4 Follow-up a lungo termine e sopravvivenza 80

CAPITOLO 4 - DISCUSSIONE E CONCLUSIONI 84

CAPITOLO 5 - BIBLIOGRAFIA 90

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ABSTRACT

INTRODUZIONE: La chirurgia pancreatica, ed in particolare la

duodenocefalopancreasectomia (DCP), rappresenta ancora oggi una sfida in termini di

complessità nell’ambito della chirurgia addominale. Negli ultimi decenni, l’avvento dei sistemi

robotici ha consentito di apportare grossi vantaggi alla tecnica laparoscopica tradizionale, con la

possibilità di applicare la tecnica mininvasiva robot-assistita alle resezioni pancreatiche.

SCOPO: Scopo dello studio è analizzare e confrontare i risultati di una serie di

duodenocefalopancresectomie eseguite, con tecnica tradizionale open e con tecnica

laparoscopica robot-assistita, presso la U.O. Chirurgia Generale e dei Trapianti dell’Azienda

Ospedaliero-Universitaria Pisana (AOUP) dal Febbraio 2007 al Febbraio 2016. L'analisi dei dati

relativi ai due gruppi - selezionati ed omogenei - di pazienti è volta a valutare la fattibilità e la

sicurezza della metodica robotica applicata alla chirurgia pancreatica, per poter considerare

quest'ultima come una valida alternativa all'approccio chirurgico tradizionale.

MATERIALI E METODI: La popolazione generale è stata selezionata in modo da escludere

dallo studio i pazienti sottoposti a resezione vascolare e i pazienti con diagnosi istologica di

patologia pancreatica benigna o a basso grado di malignità. Il campione estrapolato è stato quindi

suddiviso in due gruppi: gruppo A, comprendente 122 pazienti sottoposti a DCP con approccio

open, e gruppo B, comprendente 52 pazienti operati con il sistema robotico da Vinci; i due gruppi

sono omogenei per età, BMI, ASA, comorbilità e pregressa chirurgia addominale.

Era già stato sottoposto a un intervento di chirurgia addominale il 54,1% (n=66) dei pazienti del

gruppo A e il 53,8% (n=28) dei pazienti del gruppo B: questo dato non ha determinato in nessuno

di essi la necessità di conversione dell’intervento da robotico ad open.

Il 91,8% (n=112) dei pazienti del gruppo A e il 76,9% (n=40) dei pazienti del gruppo B è risultato

sintomatico al momento della diagnosi, mentre nel restante 8,2% (n=10) dei pazienti -

asintomatici - del gruppo A e 23,1% (n=12) del gruppo B la diagnosi veniva posta mediante

indagini di diagnostica per immagini eseguite per altre motivazioni (generalmente il follow-up di

altre patologie) o esami ematochimici di routine alterati.

L’81,7% delle DCP del gruppo A e l’86,5% delle DCP del gruppo B è stato eseguito con

conservazione del piloro secondo Longmire-Traverso, mentre il 18,3% delle DCP del gruppo A e il

13,5% delle DCP del gruppo B secondo Whipple. In 25 (20,8%) interventi open e in 2 (3,8%)

interventi robotici è stata effettuata una procedura chirurgica aggiuntiva.

All’esame istologico sono risultati nel gruppo A: 50 adenocarcinomi duttali, 30 adenocarcinomi

della papilla, 13 adenocarcinomi del coledoco, 6 adenocarcinomi del duodeno, 18 IPMN

cancerizzati, 2 adenocarcinomi squamosi, 2 carcinomi acinari, 1 carcinoma indifferenziato; nel

gruppo B: 26 adenocarcinomi duttali, 11 adenocarcinomi della papilla, 8 adenocarcinomi del

coledoco, 1 adenocarcinoma del duodeno, 4 IPMN cancerizzati, 1 adenocarcinoma squamoso, 1

carcinoma acinare.

I risultati sono stati analizzati distinguendo 3 periodi consecutivi della casistica (I da Giugno 2008 a

Dicembre 2010, II da Gennaio 2011 a Giugno 2013, III da Luglio 2013 a Febbraio 2016) per

valutare gli effetti della curva di apprendimento.

RISULTATI: Nella casistica delle DCP open (gruppo A) sono stati asportati in media 43±15,1

linfonodi (range 6-78), con LNR media di 0.11, mentre in quelle robot-assistite (gruppo B) sono

stati asportati in media 41,6±13,3 linfonodi (range 15-83), con LNR media di 0.10.

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I margini di resezione sono risultati positivi (R1) nel 14,3% (n=17) delle DCP open e nel 15,4%

(n=8) delle DCP robot-assistite.

La percentuale di conversione nelle DCP robot-assistite è stata nulla.

La durata media dell'intervento open è risultata di 420,5±99,1 (215-720) minuti, mentre quella

dell'intervento robot-assistito di 524,2±83,8 (330-780) minuti, e si è ridotta significativamente nel

tempo; è stato rilevato un aumento statisticamente significativo della durata dell’intervento

robot-assistito in relazione alla presenza di procedure chirurgiche associate rispetto all’intervento

robot-assistito senza chirurgia associata.

In 41 (35,7%) pazienti del gruppo A e in 1 (2,0%) paziente del gruppo B è stato necessario eseguire

trasfusioni intra-operatorie di emazie concentrate.

La mortalità peri-operatoria è risultata essere del 5,7% (n=7) nel gruppo A e del 3,8% (n=2) nel

gruppo B.

In 85 (69,7%) pazienti del gruppo A sono state riportate una o più complicanze nel decorso

postoperatorio. Le più frequenti sono state: il ritardato svuotamento gastrico (n=40), le raccolte

addominali (n=38), la fistola pancreatica (n=30) e le complicanze respiratorie (n=26).

In 40 (76,9%) pazienti del gruppo B sono state riportate una o più complicanze nel decorso

postoperatorio. Le più frequenti sono state: il ritardato svuotamento gastrico (n=30), le raccolte

addominali (n=21), la fistola pancreatica (n=17) e le complicanze respiratorie (n=10). L’incidenza di

fistola pancreatica si è ridotta nel tempo (I 44,4%, II 38,9%, III 24,0%).

La degenza ospedaliera media dei pazienti del gruppo A è stata di 26,7±26,5 (5-184) giorni,

mentre nel gruppo B di 22,8±13,9 (6-86) giorni.

Durante il ricovero, in 51 (42,9%) pazienti del gruppo A è stato necessario eseguire trasfusioni

post-operatorie, così come in 20 (39,2%) pazienti del gruppo B.

Sono stati presi in considerazione, all’interno dei due gruppi, i sottogruppi dei pazienti itterici

drenati e degli itterici non drenati: nel gruppo open la degenza post-operatoria dei pazienti itterici

drenati è inferiore rispetto a quella dei pazienti itterici non drenati (23,6±16,3 giorni vs 28,7±32,1

giorni), mentre nel gruppo robotico la degenza post-operatoria dei pazienti itterici drenati è

superiore rispetto a quella dei non drenati (27,1±20,1 giorni vs 18,5±8,5 giorni); nel gruppo open è

emersa una differenza tra l’incidenza di complicanze infettive nei pazienti itterici drenati e nei

pazienti itterici non drenati (27,5% vs 15,9% rispettivamente), così come nel gruppo robotico

(28,6% vs 12,5% rispettivamente); nel gruppo open la percentuale di pazienti itterici drenati

trasfusi è più alta rispetto a quella degli itterici non drenati (55,0% vs 44,2% rispettivamente),

mentre nel gruppo robotico una minor percentuale di pazienti itterici drenati ha necessitato di

trasfusioni rispetto agli itterici non drenati (35,7% vs 50,0%).

L’analisi del follow-up a lungo termine prende in considerazione 88 pazienti del gruppo A e 48 del

gruppo B: il tempo di follow-up medio è di 24,1±19,8 mesi, con una mediana di 18,6 mesi di

follow-up, per il gruppo open, mentre quello del gruppo robotico è stato di 25,4±20,2 mesi, con

una mediana di 18,7 mesi di follow-up. E’ stato possibile somministrare il trattamento adiuvante

al 53,7% dei pazienti del gruppo open, con un’attesa mediana dall’intervento per l’inizio del primo

ciclo di chemioterapia di 68 giorni, e al 70,8% dei pazienti del gruppo robotico, con un’attesa

mediana di 70 giorni. Il trattamento radioterapico adiuvante è stato somministrato in associazione

alla chemioterapia a 7 pazienti (8,0%) del gruppo open e a 6 pazienti (12,5%) del gruppo robotico.

Nel corso del follow-up, 39 pazienti su 88 del gruppo open sono deceduti (44,3%), con una

mediana di follow-up per i pazienti deceduti di 18,8 mesi; il 37,2% (n=32) dei pazienti di tale

gruppo è deceduto per recidiva di malattia, con una mediana di follow-up di 18,8 mesi.

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Nel gruppo robotico, nel corso del follow-up 15 pazienti su 48 sono deceduti (31,3%), con una

mediana di follow-up per i pazienti deceduti di 18,7 mesi; il 27,1% (n=13) dei pazienti di tale

gruppo è deceduto per recidiva neoplastica, con una mediana di follow-up di 20,5 mesi.

Degli 88 pazienti del gruppo open, 51 (58,0%) hanno presentato ripresa di malattia, con una

mediana di 9,7 mesi per la comparsa della recidiva, mentre dei 48 pazienti del gruppo robotico 21

(43,8%) hanno presentato ripresa di malattia, con una mediana di 9,8 mesi per la comparsa della

recidiva. La mediana di sopravvivenza attuariale dell’intero gruppo open è di 30,8 mesi, con una

DFS di 11,5 mesi, mentre la mediana di sopravvivenza attuariale dell’intero gruppo robotico è di

41,2 mesi, con una DFS di 20 mesi.

CONCLUSIONI: La chirurgia robotica permette di combinare i vantaggi della chirurgia mini-

invasiva con la migliore performance delle procedure laparoscopiche. Questa ampia serie di

duodenocefalopancreasectomie robotiche dimostra come la chirurgia laparoscopica robot-

assisitita applicata al trattamento della patologia maligna sia fattibile, ripetibile e sicura, con tassi

di mortalità e morbilità comparabili a quelli della chirurgia tradizionale open. Dallo studio emerge

anche come la scelta dell’approccio mininvasivo possa influire sulla somministrazione del

trattamento chemioterapico adiuvante e conseguentemente sui tassi di recidiva, condizionando in

ultimo la sopravvivenza libera da malattia.

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CAPITOLO 1 - INTRODUZIONE

1.1 Chirurgia pancreatica open

La teoria secondo cui la funzione del pancreas fosse quella di cuscinetto protettivo per lo stomaco

(la cosiddetta “cushion theory”), proposta da Galeno nel II secolo d.C. e ripresa da Vesalio e

Falloppio (sebbene quest’ultimo considerasse il pancreas piuttosto il cuscinetto protettivo delle

vene che dal fegato si dirigevano verso la milza) nel XVI secolo1, rimase incontestata fino al XVII

secolo, e solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo, grazie al progressivo miglioramento

nella diagnostica e al parallelo avanzamento della tecnica chirurgica, vennero effettuati i primi

interventi su di esso.

Per lungo tempo il pancreas è rimasto dunque un organo misterioso e poco conosciuto, fuori dalla

portata della chirurgia per la sua posizione anatomica; inoltre la diagnosi di patologia pancreatica

era solitamente affidata all’intuizione o, spesso, avveniva post-mortem.

La storia della chirurgia pancreatica è recente ed è compresa in due periodi: il primo nella seconda

metà del XIX secolo, quando la chirurgia maggiore divenne possibile grazie all’introduzione di

anestesia, controllo delle infezioni, microscopia e radiologia; il secondo, all’inizio del XX secolo, è il

periodo in cui furono ottenuti i primi risultati, grazie a Whipple e ad altri pionieri della chirurgia.

Le prime resezioni pancreatiche furono quelle distali: tecnicamente più semplici, senza resezioni

viscerali associate né complicanze correlate all’ittero ostruttivo (il sanguinamento nel paziente

itterico era a quei tempi una complicanza fatale per le poche conoscenze dell’epoca circa i

meccanismi della coagulazione).

Trendelenburg nel 1882 eseguì la prima splenopancreasectomia distale, ma il paziente

morì poche settimane dopo la dimissione2;

Billroth nel 1884 effettuò il medesimo intervento con buon outcome; eseguì in tutto due

resezioni pancreatiche durante interventi di carcinoma gastrico, ma sempre limitate alla

regione del corpo-coda;

Mayo nel 1885 rimosse una cisti che sostituiva completamente il corpo del pancreas, in

quella che può essere considerata la prima resezione centrale della storia;

Ruggi nel 1889 eseguì l’enucleazione di un adenocarcinoma della testa.

Gli sviluppi nelle tecniche di resezione condussero ai primi interventi resettivi dei tumori della

testa del pancreas:

Codivilla nel 1898 eseguì, in una paziente con carcinoma pancreatico, una

duodenocefalopancreasectomia (invece della classica enucleazione) che comprendeva la

resezione dello stomaco distale col piloro e del duodeno prossimale in blocco con la

porzione cefalica del pancreas, ristabilendo la continuità alimentare tramite una

gastrodigiunostomia su ansa ad Y secondo Roux (descritta da quest’ultimo giusto un anno

prima), con chiusura del moncone duodenale, colecistodigiunostomia e legatura del dotto

biliare principale; il moncone pancreatico fu probabilmente suturato e lasciato in situ, ma

tale sutura effettuata con i materiali dell’epoca era ad alto rischio di fistolizzazione; la

paziente morì in 24esima giornata in stato cachettico a seguito di steatorrea post-

operatoria3;

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Halsted nel 1899 eseguì la prima ampullectomia transduodenale con ricostruzione della

continuità del dotto biliare comune e del Wirsung direttamente in duodeno, dovendo

però rioperare il paziente dopo 3 mesi in seguito a stenosi dell’anastomosi tra dotto

biliare e duodeno;

Franke nel 1900 eseguì la prima pancreasectomia totale;

Kausch nel 1909 eseguì una duodenocefalopancreasectomia in due tempi (per

minimizzare il rischio operatorio) su un paziente con tumore ampollare, adottando la

manovra di Kocher (di mobilizzazione del duodeno per accedere alla testa del pancreas): il

primo tempo consisteva in una colecistodigiunostomia per ripristinare il deflusso biliare, e

dopo nove settimane rioperò il paziente eseguendo la duodenocefalopancreasectomia,

chiudendo la via biliare distale e eseguendo una gastrodigiunostomia; il pancreas venne

quindi invaginato nel digiuno e così preservato; il paziente sopravvisse diversi mesi prima

di morire di colangite4.

Hirschel nel 1914 eseguì una duodenocefalopancreasectomia per un tumore ampollare,

ricostruendo il dotto biliare tramite interposizione di un tubo di gomma; il paziente

sopravvisse per un anno;

Tenani nel 1918 eseguì una duodenocefalopancreasectomia in due tempi, facendo uso

per la prima volta di trasfusioni in chirurgia pancreatica e di terapia sostitutiva orale con

estratti di pancreas animale;

Banting e Best scoprirono l’insulina5 nel 1922 e nel 1929 Dam scoprì la vitamina K, la cui

struttura molecolare fu determinata dieci anni più tardi da Doisy, entrando nell’uso

clinico.

Whipple, nel 1934, eseguì la sua prima duodenocefalopancreasectomia su una paziente

con ittero colestatico da tumore ampollare6: dapprima furono eseguite una

coledocoduodenostomia (per ridurre l’ittero) e una colecistostomia, e dopo alcune

settimane la paziente fu sottoposta a chirurgia resettiva con escissione di testa del

pancreas e C duodenale, mentre il pancreas residuo fu anastomizzato con filo da sutura al

digiuno, ma la paziente morì dopo 30 ore per una massiva deiscenza dell’anastomosi

pancreatico-digiunale; il secondo paziente di Whipple subì un intervento in tre stadi: il

moncone pancreatico fu lasciato senza anastomosi, e il paziente sopravvisse per otto mesi

prima di morire di colangite; la terza e più valida resezione fu eseguita nel 19356 (figura

1.1): il primo tempo consistette in una gastrodigiunostomia (per ristabilire la continuità

alimentare) e in una colecistogastrostomia (per ridurre l’ittero), con inversione e chiusura

del dotto biliare distale, seguita poi dalla resezione di pancreas e duodeno in blocco con

sutura a sopraggitto in filo di seta della trancia pancreatica, dopo un mese il paziente fu

rioperato per ascesso e fistola pancreatica, sopravvivendo per 25 mesi prima di morire

per metastasi epatiche7; nel 1940 Whipple eseguì la prima

duodenocefalopancreasectomia in unico tempo in blocco6 (testa del pancreas e delle

strutture bilio-digestive attigue, cioè antro gastrico, C duodenale, prima ansa digiunale e

porzione distale del coledoco) su un paziente non itterico con glucagonoma della testa del

pancreas, che sopravvisse 9 anni (figura 1.3); nel 1945 Whipple pubblicò i suoi risultati:

aveva eseguito 19 resezioni in singolo tempo con tasso di mortalità del 31% e 8 resezioni

in due tempi con tasso di mortalità del 38%, concludendo quindi che la procedura a un

tempo fosse più sicura per il paziente e raccomandando la pancreaticodigiunostomia

eseguita con filo in seta8.

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Figura 1.1 - Duodenocefalopancreasectomia in due tempi (Whipple, 1935)7: (A) legatura del dotto

biliare comune, colecistogastrostomia e gastrodigiunostomia; (B) duodenectomia parziale (II e III

porzione), resezione della testa del pancreas con incisione a V, sutura del dotto principale, sutura

del difetto a V nel pancreas residuo.

Figura 1.2 - Duodenocefalopancreasectomia modificata (Whipple, 1938)9: (A) legatura del dotto

biliare comune seguita da una colecistodigiunostomia (in seguito coledocodigiunostomia) su ansa

a Y secondo Roux; (B) gastrodigiunostomia con duodenectomia parziale, resezione della testa del

pancreas e sutura del dotto principale (come nella procedura originale).

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Figura 1.3 - La prima duodenocefalopancreasectomia in unico tempo (Whipple, 1945)10: (A)

gastrectomia parziale, duodenectomia totale, resezione della testa del pancreas, legatura e

sezione del dotto biliare comune; (B) ricostruzione con gastrodigiunostomia antecolica e

coledocodigiunostomia; la pancreaticodigiunostomia venne aggiunta nel 1942.

Per quanto riguarda l’anastomosi bilio-digestiva, inizialmente Whipple fu un sostenitore della

colecistogastrostomia, ma presto si convertì alla colecistodigiunostomia, la quale a sua volta fu

abbandonata a partire dal 1950 (per l’eccessiva frequenza di colangiti e stenosi dell’anastomosi)

in favore della epaticodigiunostomia.

Ma il vero problema era rappresentato dal moncone pancreatico: la legatura e l’affondamento del

moncone pancreatico furono abbandonati in favore dell’anastomosi col digiuno, e nel 1948

Cattell introdusse la Wirsung-digiunostomia usando poi un drenaggio trans-anastomotico a

protezione dell’anastomosi e per evitare stenosi. La fistola pancreatica post-operatoria restò

comunque - anche in tempi più moderni - causa di mortalità e morbidità: nel 1993 Johnson

condusse una meta-analisi su un totale di 1828 duodenocefalopancreasectomie, che dimostrò

un’incidenza di fistola del 13,6% e un tasso di mortalità nel gruppo della fistola del 12,5%8;

l’anastomosi con invaginazione del moncone pancreatico fu più volte riproposta (nel 1951 da

Brinkley e nel 1992 da Nakagawa), e nel 1978 riprese piede l’idea di occludere il dotto

pancreatico stavolta con una soluzione aminoacidica adesiva (Ethibloc), ma l’incidenza di fistola

non decrebbe8.

L’ultimo problema da risolvere era rappresentato dall’anastomosi gastrodigiunale: nei primi

interventi lo stomaco veniva chiuso a livello del piloro e la continuità gastroenterica era

ripristinata grazie a una gastrodigiunostomia praticata sulla parete posteriore dello stomaco;

Warren propose poi la gastroresezione per ridurre l’incidenza di ulcera anastomotica, divenendo

parte della procedura standard; ciò nonostante, l’evidenza dimostrò che l’incidenza di ulcera

anastomotica era stata sovrastimata, quindi si tornò alla preservazione del piloro con Longmire e

Traverso (figura 1.4) nel 197811: l’incidenza di ulcera anastomotica era bassa e la funzione

digestiva significativamente migliorata (a parità di outcome a lungo termine, si assiste alla

riduzione dei tempi operatori e alla diminuzione del sanguinamento intra-operatorio rispetto alla

resezione classica12), sebbene talvolta tale procedura creasse problemi di svuotamento gastrico.

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Figura 1.4 - DCP “pylorus-preserving” di Traverso-Longmire (a sx) e classica (a dx)13:

pancreaticodigiunostomia termino-laterale (1), epaticodigiunostomia termino-laterale (2) e

duodeno- o gastrodigiunostomia termino-laterale (3)

Anche l’ordine in cui eseguire le varie anastomosi è stato oggetto di dibattito: oggi si attribuisce

un vantaggio teorico alla ricostruzione in primis delle anastomosi pancreatica e biliare, al fine di

minimizzare l’acidità nell’ansa digiunale contenente le anastomosi biliopancreatiche.

Negli anni ’60-70 alcuni autori suggerirono, in considerazione dell’elevata mortalità post-

operatoria (10-44% in tutti gli articoli pubblicati negli anni ‘60-7014, 10-19% in quelli con numero

di pazienti superiore a 100) e della sopravvivenza a 5 anni inferiore al 5%, l’abbandono della

procedura a favore del by-pass palliativo (anche in caso di tumori resecabili), data l’assenza di una

significativa differenza nell’outcome15. Solo negli anni ’80, grazie ad un’importante riduzione della

mortalità post-operatoria (<10%) (tabella 1.1 e figura 1.5) associata alla maggiore sopravvivenza e

alla migliore qualità di vita del paziente, si ricominciò a preferire la chirurgia resettiva, peraltro

unica procedura potenzialmente curativa16 nel caso del carcinoma pancreatico.

Negli anni ’70-80 la pancreasectomia totale conobbe un periodo di popolarità, in virtù

dell’assenza di anastomosi pancreatica unitamente alla convinzione che il cancro pancreatico

fosse multicentrico nel 30% dei casi17-19: in quel periodo il tasso di pancreasectomie totali eseguite

superava il 40%20, ma presto venne dimostrato che l’adenocarcinoma duttale è solo raramente

multicentrico21,22, e che la pancreasectomia totale - nonostante il rischio di fistola pancreatica sia

nullo per definizione - non aumenta la sopravvivenza libera da malattia23 e non riduce la mortalità

post-operatoria24, ma anzi determina un peggioramento della qualità di vita a causa

dell’insorgenza di diabete mellito e problemi nutrizionali25. Attualmente, la pancreasectomia

totale rappresenta il 6% di tutte le resezioni pancreatiche26, e trova indicazione nei casi di

coinvolgimento neoplastico della maggior parte o di tutta la ghiandola27, di infiltrazione

documentata del margine di resezione pancreatico in corso di DCP28, o di tumori localmente

avanzati che richiedano resezione e ricostruzione arteriosa29: molti di questi pazienti non sono

candidabili alla procedura laparoscopica; vi sono però anche pazienti che possono essere

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opportunamente operati in laparoscopia, come quelli con tumori endocrini multifocali27,30,31,

tumori metastatici32, IPMN diffuso31, e lesioni premaligne in presenza di storia familiare positiva

per tumore pancreatico27. Recentemente, la pancreasectomia totale seguita da autotrapianto di

insule pancreatiche è stata proposta non solo per pazienti con pancreatite cronica e dolore

refrattario33, ma anche per pazienti con ghiandola soffice e dotto pancreatico sottile come

alternativa a una pancreatico-digiunostomia ad alto rischio di fistolizzazione34.

Tabella 1.1 - Mortalità e morbilità DCP in rapporto all’epoca dell’intervento (solo pubblicazioni

con n casi >100) - modificata da Strasberg35

Autore Anno di pubblicazione

Anno mediano

della serie

Numero di

pazienti

Mortalità Complicanze

Fistola pancreatica

Fistola biliare

Monge36 1964 1951 239 19 (si) 13 5 Warren37 1973 1957 348 16 (si) 8 7 Smith38 1973 1959 224 7 (sc) 8 Herter39 1982 1959 102 15 (si) 9 4 Nakase40 1977 1962 822 21 (mi) 14 4 Warren37 1973 1966 139 10 (si) 7 21 Yeo41 1995 1982 201 5 (si) Andersen42 1994 1983 117 8 (si) 16 5 Tsao43 1994 1986 101 2 (si) 15 5 Nitecki44 1995 1986 186 3 (si) Geer45 1993 1987 146 5 (si) 2 2 Trede46 1990 1987 118 0 (sc) 8 3 Swope47 1994 1989 299 8 (mi) Cameron48 1993 1989 145 0 (si) 19 6 Gordon49 1995 1990 271 2 (si) Fernandez- del Castillo50

1995 1992 142 0 (sc) 7 4

(si) = singolo istituto, (mi) = multipli istituti, (sc) = singolo chirurgo

Figura 1.5 - Mortalità DCP in rapporto all’epoca dell’intervento

0

5

10

15

20

25

1951 1957 1959 1959 1962 1966 1982 1983 1986 1986 1987 1987 1989 1989 1990 1992

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12

L’ultimo capitolo in ordine cronologico è stato associare a queste tecniche chirurgiche di base le

eventuali resezioni vascolari, soprattutto a carico dell’asse venoso mesenterico-portale (fino a

dieci anni fa il suo coinvolgimento veniva considerato indice di non operabilità): la prima

resezione della vena mesenterica superiore in corso di resezione pancreatica fu eseguita da

Moore nel 1951; nei successivi vent’anni sono state descritte tecniche di ricostruzione vascolare

alternative, con la resezione venosa seguita da ricostruzione per sutura diretta (se la lunghezza

del tratto di vena resecato è limitata; in questo caso l’anastomosi viene facilitata mediante la

legatura della vena splenica e la mobilizzazione completa dell’intestino) o con graft vascolari (se

invece il tratto di vaso resecato è troppo lungo) autologhi (in genere la vena giugulare interna -

avendo lunghezza sufficiente e calibro simile a quello dell’asse mesenterico-portale - altrimenti a

seconda dei casi si possono utilizzare la vena splenica, la vena iliaca, la vena femorale o la vena

renale sinistra) o eterologhi (un vaso da donatore cadavere da preferire all’uso di materiale

protesico); oggi si esegue una resezione in blocco dell’asse vascolare coinvolto secondo una

tecnica definita “no touch”, la quale prevede che il chirurgo non si addentri durante l’asportazione

della neoplasia in piani iuxta- o intratumorali, ma che alla fine della fase di dissezione il tumore sia

connesso al paziente solo tramite il segmento vascolare da resecare, in questo modo inoltre viene

rimossa insieme al tumore la maggior parte dei linfonodi e del tessuto linfo-adiposo circostante.

La chirurgia open tradizionale, sin dal primo intervento eseguito da Whipple nel 1935, ha sempre

rappresentato il gold standard degli interventi resettivi e ricostruttivi pancreatici. L'intervento

laparotomico è stato, a lungo, il solo in grado di poter intervenire su un organo situato cosi

profondamente e che assume rapporti cosi delicati con le strutture circostanti.

1.2 Chirurgia pancreatica laparoscopica

La prima laparoscopia documentata fu quella eseguita nel 1901 da Dimitri Oskarovich Ott51, un

ginecologo russo, che definì la procedura “ventroscopia”; nel 1903 pubblicò il suo resoconto di

600 operazioni eseguite per via transvaginale. Nel 1902 Georg Kelling51, un pioniere nel campo

delle esofago- e gastroscopie insieme a von Mikulicz, esaminò la cavità peritoneale di un cane

utilizzando un cistoscopio di Nitze; contemporaneamente, ideò la cosiddetta lufttamponade,

riuscendo ad arrestare un sanguinamento gastrointestinale all’interno della cavità addominale

insufflando aria a 50 mmHg nell’addome dell’animale; nel 1910 aveva già eseguito numerose

laparoscopie diagnostiche nell’uomo, e coniò il termine “celioscopia” a indicare il metodo con cui

indurre in maniera sicura uno pneumoperitoneo. Nel 1910 Hans Christen Jacobaeus51, un

internista svedese, eseguì diverse toraco- e laparoscopie, grazie alle quali formulò diagnosi di

cirrosi, peritonite tubercolare e tumori metastatici, e intravide il potenziale di toracoscopia e

cauterizzazione nel trattamento delle aderenze pleuriche in corso di TBC polmonare. Un anno più

tardi Bertram Moses Bernheim51 descrisse le sue prime esperienze con la laparoscopia

(procedura da lui chiamata “organoscopia”) e sviluppò un suo organoscopio (che però utilizzò con

successo solo in animali da laboratorio, non riuscendo a trovare pazienti adeguati in cui valutarne

l’efficacia), nel tentativo di superare le restrizioni date dall’angolo di visione di 90° imposto

dall’uso di un cistoscopio come strumento laparoscopico.

La laparotomia, nonostante fosse una procedura pericolosa, rimase a lungo uno strumento

diagnostico molto diffuso, pertanto vi era scarso impulso in ambito chirurgico allo sviluppo di una

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metodica alternativa; così, a dispetto delle potenzialità in campo clinico, la laparoscopia non

conobbe un’ampia diffusione nella comunità medica, come dimostrato dal fatto che il design degli

strumenti laparoscopici rimase sostanzialmente invariato per i decenni a venire, fino al 1934,

anno in cui John C. Ruddock51 introdusse il suo “peritoneoscopio” (un cistoscopio modificato per

facilitare la visione della cavità peritoneale e dotato di un trocar che consentisse l’inserimento di

strumenti bioptici) e l’anestesia per facilitare la procedura; un altro grande passo avanti nello

sviluppo della tecnologia laparoscopica si ebbe nel 1938 con il chirurgo ungherese Janos Veress51

che diede il suo nome all’ago da lui disegnato per prevenire il danno dei visceri addominali

durante l’induzione dello pneumoperitoneo: è costituito da una cannula esterna dotata di punta

tagliente a becco di flauto e da una cannula interna retrattile con estremità smussa, quando lo

strumento attraversa la parete addominale la punta smussa si retrae facendo sì che il margine

tagliente si confronti con i tessuti da attraversare, e solo dopo aver raggiunto il peritoneo il

meccanismo a molla spinge l’estremità smussa oltre la punta della cannula esterna proteggendo

gli organi interni da eventuali insulti. Bisognerà attendere il 1983 per la prima appendicectomia

laparoscopica eseguita dal ginecologo Kurt Semm51, e due anni più tardi la prima colecistectomia

laparoscopica di Erich Muhe51 eseguita inducendo lo pneumoperitoneo con ago di Veress e

introducendo il laparoscopio a livello della cicatrice ombelicale.

La tecnica laparoscopica fu applicata allo studio del pancreas solo a partire dagli anni ’60-70,

quando uscirono i primi articoli che descrivevano un approccio sopragastrico alla ghiandola. Nel

1978, Sir Alfred Cuschieri introdusse la laparoscopia nelle procedure diagnostiche e stadiative

delle patologie pancreatiche (grazie anche alla possibilità di associarvi lo studio ultrasonografico

ed istologico nella caratterizzazione delle lesioni), definendola sicura e realizzabile, ma anche uno

strumento diagnostico ad alto rendimento nello studio del patologie pancreatiche52.

I primi interventi di chirurgia mini-invasiva sul pancreas furono effettuati all’inizio degli anni ’90,

inizialmente solo a scopo palliativo nei tumori in stadio avanzato giudicati non resecabili a seguito

della laparoscopia stadiativa: in questo modo poteva essere evitata la conversione open

dell’intervento, così da ottenere recuperi più rapidi con riduzione della durata

dell’ospedalizzazione post-chirurgica53.

Nel 1994 Gagner e Pomp eseguirono la prima DCP laparoscopica con conservazione del piloro54,

seguita due anni dopo dalle pancreasectomie distali laparoscopiche ad opera di Cuschieri55,

Sussman56 e Gagner57.

Attualmente, sono quattro le tecniche impiegate per eseguire una DCP laparoscopica: pure

laparoscopy (adottata nel 51,7% dei casi; sia la resezione che la ricostruzione sono eseguite in

laparoscopia), hand-assisted laparoscopy (0,6%; è presente un’incisione sottocostale destra o nel

quadrante inferiore destro per la mano del chirurgo, al fine di facilitare dissezioni complesse

attorno ai grossi vasi), laparoscopic-assisted surgery (16,2%; la resezione viene effettuata

laparoscopicamente, mentre la ricostruzione digestiva sotto visione diretta attraverso una piccola

incisione laparotomica), e robotic-assisted laparoscopy (in cui viene impiegato il sistema da Vinci

per eseguire l’intera operazione o solo per la dissezione del processo uncinato/margine posteriore

e per la ricostruzione digestiva); se da un lato queste tecniche “ibride” consentono di ovviare alla

complessità di una procedura totalmente laparoscopica, dall’altro rischiano di ridurre i potenziali

benefici di un approccio totalmente laparoscopico e di limitare la capacità di valutarne feasibility e

outcome58.

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14

Nella tecnica “pure laparoscopy” il paziente è supino in posizione di anti-Trendelenburg, e

vengono utilizzati 5 o 6 trocars: il dissettore a ultrasuoni è lo strumento più utilizzato per ottenere

un effetto di coagulazione/dissezione in quasi totale assenza di fumo (ad esempio nella resezione

del collo pancreatico), mentre le clips o la legatura vengono riservate alla chiusura dell’arteria

gastroduodenale; il pezzo operatorio viene estratto attraverso un’incisione ombelicale o

periombelicale, e i drenaggi vengono lasciati in prossimità dell’anastomosi pancreatico-digiunale

(confezionata con una sutura a punti staccati)59.

In realtà le DCP laparoscopiche, per le difficoltà tecniche legate alla localizzazione

retroperitoneale della testa del pancreas attorno alle maggiori strutture vascolari e alla complessa

fase ricostruttiva, e inizialmente anche per la dubbia radicalità oncologica nei pazienti con

patologia maligna60 (in realtà, basandosi sul numero di linfonodi estratti e sulla percentuale di

negatività dei margini di resezione, i risultati sono comparabili a quelli della metodica open61), non

hanno ricevuto la stessa accoglienza delle pancreasectomie distali con approccio mini-invasivo:

Palanivelu, che presenta la casistica più ampia, ritiene la DCP un intervento di possibile

competenza laparoscopica, anche se raccomandata esclusivamente per un’unità operativa con

avanzata esperienza sia in chirurgia mininvasiva che open62, infatti sia la durata dell’intervento

che il tasso di complicanze si riducono nettamente in chirurghi con elevata esperienza

laparoscopica58 e diminuiscono progressivamente durante la curva d’apprendimento61 (figure 1.6

e 1.7).

Nonostante i potenziali vantaggi derivanti da un approccio minimamente invasivo - riduzione del

dolore post-operatorio, delle complicanze della ferita chirurgica sia precoci (infezione o deiscenza

del sito chirurgico) che tardive (laparocele), e della durata della degenza ospedaliera - rimane il

problema delle due principali complicanze della resezione pancreatica, ovvero la fistola

pancreatica e il ritardato svuotamento gastrico: i dati di uno studio retrospettivo di Kendrick et al.

suggeriscono che, già nella parte iniziale della curva di apprendimento per la TLPD (total

laparoscopic pancreaticoduodenectomy), i tassi di incidenza di tali complicanze chirurgiche sono

comparabili a quelli osservati per la procedura open; inoltre, in un’ottica di sempre maggior

attenzione alla quality of life di questi pazienti, la possibilità di eseguire una procedura mini-

invasiva che consenta una più rapida guarigione del paziente - affinché possa tornare alle sue

normali abitudini di vita (nel caso di una patologia benigna) o cominciare la terapia adiuvante (nel

caso di una patologia maligna) - è fortemente auspicabile58.

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15

Figura 1.6 - Durata media intervento vs. numero di casi per ogni studio (modificata da Gumbs61)

Figura 1.7 - Durata ospedalizzazione vs. numero di casi per ogni studio (modificata da Gumbs61)

0

100

200

300

400

500

600

700

800

0 10 20 30 40 50 60 70 80

0

5

10

15

20

25

30

35

40

0 10 20 30 40 50 60 70 80

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Tabella 1.2 - Revisione della letteratura sulle DCP laparoscopiche fino al 2010 (modificata da Gumbs61)

Autore Numero di

pazienti

ORT medio

(min)

DO media

(giorni)

Mortalit

à (casi)

Perdite ematiche

stimate (mL)

Cuschieri63 2 - - - -

Uyama64 1 373 28 0 560

Gagner65 10 510 22 0 -

Masson66 1 480 12 0 -

Vibert67 1 450 32 0 600

Ammori68 1 660 9 0 -

Kimura69 1 580 - 0 550

Staudacher70 7 416 12 0 325

Dulucq71 11 268 14 1 83

Dulucq60 25 287 16 1 107

Zheng72 1 390 30 0 50

Lu73 5 528 - 1 770

Menon74 1 750 - 0 -

Tang75 6 263 37 0 185

Gumbs76 1 - - 0 -

Gumbs77 35 360 - - 300

Gumbs78 3 274 20 0 143

Pugliese79 19 461 19 0 180

Sa Cunha80 1 - - 0 -

Cho81 1 450 14 0 200

Jarufe82 3 330 16 0 -

Casadei31 1 485 14 0 -

Palanivelu62 75 357 8 1 74

Narula83 8 420 10 0 -

Kendrick58 65 368 7 1 240

ORT = operating room time, DO = durata ospedalizzazione

Sharpe et al., in uno studio retrospettivo condotto tra il 2010 e il 2011 sulla casistica del National

Cancer Data Base, avvalendosi dell’analisi multivariata hanno valutato le differenze tra pazienti

con adenocarcinoma duttale cefalopancreatico sottoposti a DCP con approccio open e

laparoscopico: il 91% dei pazienti è stato operato con tecnica open, il 9% con tecnica

laparoscopica. Non c’erano differenze statistiche tra le due coorti di pazienti in relazione a età,

razza, punteggio di Charlson, dimensioni del tumore, grado, stadio e terapia neoadiuvante. I

pazienti operati con tecnica laparoscopica hanno avuto una degenza più breve (10±8 giorni vs

12±9.7 giorni; p<0.0001) e un minor tasso di riammissioni non programmate (5% vs 9%; p=0.027)

rispetto ai pazienti operati con tecnica open. Il modello di regressione multivariata ha identificato

come predittivi di mortalità peri-operatoria l’età (odds ratio [OR]=1.05; p<0.0001), i margini di

resezione positivi (OR=1.45; p=0.030) e la tecnica laparoscopica (OR=1.89; p=0.009), i quali si

associano a una più elevata mortalità a 30 giorni; gli ospedali ad alto volume presentano un minor

tasso di mortalità a 30 giorni (OR=0.98; p<0.0001), e in particolare gli ospedali che eseguono ≥ 10

DCP laparoscopiche in un periodo di 2 anni hanno un tasso di mortalità a 30 giorni per l’approccio

laparoscopico equivalente a quello dell’approccio open (0.0% vs 0.7%; p=1.00). In conclusione, la

DCP laparoscopica è equivalente alla DCP open in termini di durata dell’ospedalizzazione,

radicalità della resezione, numero di linfonodi asportati e tasso di riammissione ospedaliera; c’è

un tasso di mortalità a 30 giorni più elevato per la procedura laparoscopica, soprattutto in

ospedali a basso volume (<10 DCP laparoscopiche in un periodo di 2 anni), tuttavia - essendo

legato alla curva di apprendimento - è suscettibile di riduzione84.

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17

Croome et al., in uno studio pubblicato nel 2014, non si sono limitati a confrontare approccio

open e minimamente invasivo in termini di feasibility e safety, ma ne hanno valutato anche lo

specifico outcome oncologico, concludendo che i pazienti con diagnosi istologica di

adenocarcinoma duttale sottoposti a TLPD (total laparoscopic pancreaticoduodenectomy) iniziano

prima la chemioterapia rispetto a quelli sottoposti a OPD (open pancreaticoduodenectomy), e

questo minor ritardo nell’iniziare la terapia adiuvante potrebbe spiegare la maggior sopravvivenza

in assenza di progressione osservata in tali pazienti85.

Per quanto riguarda invece le pancreasectomie distali, queste ben si prestano alla tecnica

laparoscopica, essendo resezioni che, in quanto prive di tempo ricostruttivo, non necessitano di

anastomosi e quindi tecnicamente di più semplice esecuzione, per le quali esiste la possibilità di

conservare la milza - quando oncologicamente appropriato - minimizzando la morbilità post-

operatoria (soprattutto in termini di complicanze infettive) e riducendo i tempi di

ospedalizzazione86. A tal proposito, Jayaraman et al. hanno pubblicato una review di tutte le

pancreasectomie distali eseguite tra il gennaio 2003 e il dicembre 2009 presso il Memorial Sloan-

Kettering Cancer Center di New York: delle 343 pancreasectomie distali, il 31% è stato eseguito

con tecnica laparoscopica e il 69% con tecnica open; il tasso di conversione è stato del 30%. I

pazienti operati con approccio laparoscopico erano più giovani (mediana 60 vs 64 anni, p<0,0001)

e hanno avuto minori perdite ematiche (mediana 150 vs 350 mL, p<0,0001), tempi operatori più

lunghi (mediana 163 vs 194 min, p<0,0001), minor degenza ospedaliera (mediana 5 vs 7 giorni,

p<0,0001) e un minor tasso di complicanze postoperatorie (27% vs 40%, p=0,03) rispetto ai

pazienti operati con approccio open. Il tasso di complicanze di grado 3 o superiore (20% vs 20%,

p=NS) e di fistola pancreatica (15% vs 13%, p=NS) era simile tra i due gruppi. I pazienti che hanno

subito conversione a open avevano un BMI maggiore rispetto ai pazienti non convertiti (28 vs 25,

p=0,035), e i pazienti convertiti sono andati incontro a un maggior tasso di complicanze di grado 3

o superiore (36% vs 20%, p=0,008) e di fistola pancreatica (27% vs 13%, p=0,03) rispetto ai

pazienti operati con approccio open. In conclusione, i pazienti sottoposti a pancreasectomia

distale laparoscopica vanno incontro a minori perdite ematiche e a una minore degenza

ospedaliera rispetto ai pazienti sottoposti all’intervento open, ma una accurata selezione dei

pazienti è fondamentale, in quanto la conversione a open comporta maggiori tassi di complicanze

e di fistola pancreatica87.

Tabella 1.3 - Confronto metodica laparoscopica vs. open per le pancreasectomie distali

Comorbilità Laparoscopia Open

mortalità (%) 0,488 0-189,90

morbilità (%) 24,788 27-5767,91,92

complicanze più frequenti fistola pancreatica,

raccolte addominali

fistola pancreatica,

raccolte addominali

durata dell’intervento (min) 221,588 23067

conservazione della milza (%)

Fatt

50,188 2386,93-96

perdita di sangue intraoperatoria (mL) 35788 58867

durata dell’ospedalizzazione (giorni)

7,788 13-2193

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18

1.3 Chirurgia pancreatica robotica

Le limitazioni tecniche della laparoscopia (la mancanza di feedback tattile, di coordinazione

occhio-mano, di agilità nei movimenti; la visione bidimensionale; la necessità di muovere gli

strumenti in maniera non intuitiva nella direzione opposta rispetto al target di interesse, il

cosiddetto effetto fulcro; gli scarsi gradi di libertà dei movimenti consentiti dalla strumentazione;

un’amplificazione del tremore fisiologico trasmesso lungo gli strumenti) ne hanno limitato

l’applicazione nell’ambito delle DCP, soprattutto a causa del rischio di emorragia e della necessità

di ricostruzioni complesse; una possibile soluzione a tali difficoltà tecniche può venire dallo

sviluppo delle tecnologie robotiche e computer-assisted.

La storia della chirurgia robotica inizia con Puma 560, un device con dati preprogrammati o

generati tramite algoritmi dal computer (senza input diretti real time dall’operatore) utilizzato nel

1985 da Kwoh per eseguire con maggior precisione biopsie in ambito neurochirurgico; tre anni

dopo Davies eseguì con Puma 560 una TURP, aprendo la strada allo sviluppo di un robot ad essa

dedicato (PROBOT); contemporaneamente, la Integrated Surgical Supplies Ltd. di Sacramento, CA,

sviluppò ROBODOC, il primo robot chirurgico ad essere approvato dalla FDA, dedicato alla

chirurgia d’anca97.

Un grosso impulso allo sviluppo della

tecnologia robotica in ambito

chirurgico venne dal Dipartimento

della Difesa degli Stati Uniti, il quale

puntava allo sviluppo della

telerobotica per evitare la morte per

emorragia dei soldati feriti sul campo

di battaglia durante il loro

trasferimento presso il più vicino

ospedale militare: a tale scopo nei

primi anni ’90 finanziò lo Stanford

Research Institute (SRI) affinchè sviluppasse un sistema master/slave composto da una consolle (il

master) che mostrava l’immagine video del paziente e trasferiva i movimenti manuali del chirurgo

ai due bracci del robot (lo slave), il quale poteva trovarsi anche a grande distanza98.

Fu grazie a questo prototipo che nel 1994 furono introdotti il da Vinci Surgical System (Intuitive

Surgical Inc.) (figura 1.8), l’unico sistema robotico chirurgico autorizzato dalla FDA all’impiego in

chirurgia generale, e lo Zeus Robotic Surgical System (Computer Motion), anche se attualmente

sono in fase di sviluppo nuovi prototipi come l’Amadeus Robotic Surgical System (Titan Medical

Inc.) (figura 1.9) che

presenta una migliorata

articolazione dei bracci, un

potenziato sistema visivo e

l’introduzione del feedback

tattile.

L’utilizzo di questi sistemi

robotici presenta una serie

di vantaggi evidenti,

soprattutto nei confronti

Figura 1.8 (http://www.jupitermed.com/da-vinci-robotic)

Figura 1.9 (http://surgrob.blogspot.it/2011_12_01_archive.html)

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della laparoscopia tradizionale, ma anche nei confronti della chirurgia open; tuttavia sono

osservabili anche una serie di svantaggi, che impediscono, nell’attesa di studi randomizzati a

lungo termine di confronto, di decretare una superiorità dell’una sull’altra metodica97 (tabelle 1.4

e 1.5).

Tabella 1.4 - Confronto chirurgia laparoscopica tradizionale vs. robot-assistita (modificata da

Lanfranco97)

Chirurgia laparoscopica tradizionale Chirurgia laparoscopica robot-assistita

Vantaggi tecnologia ben sviluppata visualizzazione 3D affidabile ed ubiquitaria manualità migliorata efficacia riconosciuta 7 gradi di libertà (EndoWrist) eliminazione dell’effetto fulcro eliminazione del fisiologico tremore possibilità di eseguire i movimenti

in scala

microanastomosi possibili telechirurgia posizione ergonomica Svantaggi

diminuzione nella sensazione tattile assenza della sensazione tattile assenza della visualizzazione 3D costi di partenza e di gestione

elevati manualità compromessa può richiedere personale extra gradi di movimento limitati tecnologia nuova effetto fulcro presente benefici non ancora dimostrati amplificazione del fisiologico

tremore

Tabella 1.5 - Descrizione vantaggi e svantaggi chirurgia open vs. laparoscopica robot-assistita

(modificata da Lanfranco97)

Vantaggi in open Limitazioni in open Vantaggi robot Limitazioni robot

coordinazione mani-occhi elevata

abilità manuale

adattabilità

capacità di integrare tante informazioni sensoriali diverse

feedback tattile

capacità di utilizzare informazioni qualitative

facile da insegnare

limitata abilità al di fuori della normale scala di dimensioni

incline al tremore e alla fatica

limitata accuratezza geometrica

minore sterilità

suscettibilità ad infezioni

buona accuratezza geometrica

elevata stabilità

instancabile

possibilità di eseguire movimenti in scala

maggiore sterilità

resistente ad infezioni

incapace di utilizzare informazioni qualitative

assenza di feedback tattile

molto costoso

necessari più studi

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20

I principali vantaggi offerti dal robot da Vinci sono la cosiddetta scaling function, che consente di

adattare le proporzioni della visione magnificata e dei movimenti delle mani del chirurgo e degli

strumenti in scala 2:1, 3:1 o 5:1, e la filtering function, che elimina il tremore fisiologico

dell’operatore; grazie a queste funzioni il da Vinci permette di eseguire l’anastomosi mucosa tra

dotto pancreatico e digiuno, la quale richiede fini movimenti dell’ago da sutura, consentiti dai 7

gradi di libertà di movimento dei bracci robotici e dalla visione magnificata in 3D ad alta

definizione99.

Una recente meta-analisi ha confrontato l’approccio open e quello robotico, dimostrando per

quest’ultimo una riduzione del rischio assoluto di complicanze del 12%100: Zhang et al. hanno

condotto una meta-analisi su sette studi in letteratura - nessuno dei quali randomizzato - che

rispettassero i criteri di selezione, per un totale di 137 (40%) pancreasectomie robotiche e 203

(60%) pancreasectomie open; il tasso globale di complicanze era significativamente minore nel

gruppo robotico (risk difference [RD] =-0.12, 95% intervallo di confidenza [CI] da -0.22 a -0.01,

p=0.03], così come il tasso di reintervento (RD=-0.12; CI da -0.2 a -0.03, p=0.006) e la positività dei

margini (RD=-0.18; 95% CI da -0.3 a -0.06, p=0.003), mentre non vi era nessuna differenza

significativa per quanto riguarda l’incidenza di fistola pancreatica post-operatoria e la mortalità, il

tasso di conversione mediano era del 10% (range 0-12 %); i risultati di questa meta-analisi

suggeriscono che la pancreasectomia robotica è pari - se non superiore - in termini di sicurezza ed

efficacia alla chirurgia open per pazienti con patologia pancreatica benigna o maligna, nonostante

l’evidenza sia limitata e siano necessari ulteriori studi clinici controllati randomizzati.

Bisogna però fare attenzione a non incorrere in un bias di selezione che favorisca l’approccio

robotico: il chirurgo infatti, almeno all’inizio della propria esperienza con l’approccio robotico,

avrà la tendenza a riservare a quest’ultimo i casi oncologicamente più favorevoli di tumori piccoli

e peri-ampollari, relegando alla chirurgia open i casi più complessi.

Una review sistematica della letteratura di Nigri et al., condotta in base al modello random-

effects, ha riportato un maggior numero di linfonodi asportati per l’approccio mini-invasivo101:

tale meta-analisi includeva 8 studi per un totale di 204 pazienti sottoposti a DCP minimamente

invasiva e 419 pazienti sottoposti alla procedura open; i due gruppi di pazienti erano simili per

età, sesso e diagnosi istologica, ma diversi per dimensioni del tumore, tasso di conservazione del

piloro e tipo di anastomosi pancreatica; non c’erano differenze statisticamente significative tra le

due procedure per quanto riguarda lo sviluppo di ritardato svuotamento gastrico (DGE), fistola

pancreatica, infezione della ferita e i tassi di reintervento e mortalità complessiva; la procedura

minimamente invasiva ha mostrato minori tassi di complicanze post-operatorie, minori perdite

ematiche intra-operatorie, minore degenza ospedaliera, minor necessità di trasfusioni, un

maggior numero di linfonodi asportati e migliorati tassi di margini negativi, sebbene associata a

tempi operatori più lunghi rispetto alla procedura open; in conclusione, la DCP minimamente

invasiva è feasible e safe in pazienti selezionati operati in centri con alta esperienza.

Un’altra recente meta-analisi di Chen et al. basata su sei studi pubblicati in letteratura tra il

giugno 2009 e il giugno 2012 ha dimostrato una maggiore percentuale di resezioni R0 e maggiori

tassi di conservazione della milza nel gruppo robotico rispetto alla procedura open o

laparoscopica102, oltre a minori perdite ematiche (grazie soprattutto alla possibilità di maneggiare

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delicatamente il processo uncinato garantita dal sistema robotico, col quale è infatti possibile

manipolare con chiarezza e precisione i vasi venosi che dalla testa del pancreas aggettano nella

vena mesenterica superiore, prima di occuparsi del processo uncinato, prevenendo quelle grosse

perdite ematiche che invece avvengono spesso durante la procedura open)103 e minor durata

dell’ospedalizzazione rispetto alla procedura open; di nuovo bisogna prestare attenzione al bias di

selezione, in quanto il chirurgo avrà la tendenza a optare per l’approccio open in pazienti con

tumori più ampi e localmente avanzati, riservando quello robotico a neoplasie più piccole e/o

peri-ampollari più favorevoli dal punto di vista oncologico104.

In conclusione, l’approccio mini-invasivo robot-assistito alla DCP sembrerebbe comportare una

riduzione delle perdite ematiche inta-operatorie e della degenza ospedaliera, risultando almeno

equivalente alla procedura open in termini di outcome oncologico a breve termine, morbidità e

mortalità (tabella 1.6); in ogni caso, bisogna interpretare con cautela questi dati retrospettivi,

prestando attenzione alla reale possibilità di un bias di selezione in favore dei pazienti sottoposti a

DCP robotica104.

Tabella 1.6 - Outcome della DCP robot-assistita104

Autore N ORT EBL LOS R0 LN Convers. Fistola Morbidità Mortalità

Giulianotti105

105 443 344 - 91% 19 13% 18% 23% I&II 27% III&IV

30d—3% 90d—4%

Buchs106

41 431.5 389 12.7 - - 4.8% 19.5% (4A/3B/

1C)

39% 2.4%

Narula83

5 420 - 9.6 - 16 37.5% 0% - 0%

Zhou107

8 718 153 16.4 100% - 0% 25% - 0%

Zeh108

50 568 350 10 89% 18 16% 20% (5A/2B/

4C)

26% I&II 30% III&IV

2%

Chalikonda109

30 476 485 9.79 100% 13.2 10% 6.6% 30% 3%

Lai110

20 481.5 247 13.7 73.3% 10 5% 35% 50% 0%

Zureikat111

132 527 - 10 - - 8% 17% (12A/5B

/5C)

41% I&II 22% III&IV

30d—2% 90d—5%

N = numero di pazienti, ORT = operating room time, EBL = estimated blood loss, LOS = lenght of

stay, R0 = margini di resezione negativi, LN = linfonodi asportati, Convers. = tasso di conversione a

open; fistola pancreatica classificata secondo ISGPF, morbidità classificata secondo Clavien-Dindo

1.4 Patologia neoplastica del pancreas esocrino

Grazie ai passi da gigante compiuti negli ultimi decenni in campo diagnostico e terapeutico, oggi il

carcinoma pancreatico non viene più considerato un male incurabile in un’ottica di nichilismo

terapeutico, come avveniva fino a pochi anni fa.

La biologia molecolare ha svelato le principali alterazioni genetiche alla base della predisposizione

al carcinoma pancreatico e dell’evoluzione maligna delle lesioni preneoplastiche; le attuali

tecniche di imaging consentono di rilevare i segni diretti ma anche indiretti di carcinoma

pancreatico, come la dilatazione del dotto di Wirsung a monte della lesione neoplastica, l’atrofia

del parenchima pancreatico collaterale o l’aumento dimensionale di porzioni della ghiandola

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pancreatica, nonché di valutare il rapporto della lesione con i vasi arteriosi e venosi

peripancreatici (informazione importante nella scelta del trattamento), e addirittura di

evidenziare alcune lesioni precancerose - come le neoplasie intraduttali papillari mucinose (IPMN)

e i cistoadenomi mucinosi - offrendo dunque l’opportunità di prevenire lo sviluppo di carcinoma

pancreatico; nell’ambito dell’oncologia medica la Gemcitabina ha soppiantato il classico 5-

Fluorouracile nel trattamento del carcinoma pancreatico, divenendo il nuovo gold standard

perché meglio tollerata, sia da sola che in associazione ad altri chemioterapici; le nuove

apparecchiature per la radioterapia, più potenti e sofisticate, hanno consentito il raggiungimento

di nuovi livelli di efficacia e tollerabilità sia nel trattamento adiuvante che neoadiuvante della

patologia neoplastica pancreatica; infine la chirurgia, sebbene solo il 20% dei pazienti con

carcinoma pancreatico sia resecabile al momento della diagnosi, ha conosciuto una notevole

standardizzazione delle procedure, includendo le resezioni vascolari venose tra gli standard

terapeutici ma respingendo l’eccessiva estensione della resezione proposta dai chirurghi

giapponesi negli anni ’80-90, consentendo una riduzione della mortalità operatoria dal 15-20% (a

fine anni ’80) al 2-5% nei Centri con grande esperienza.

Il trattamento della patologia neoplastica pancreatica deve quindi avvalersi di una collaborazione

interdisciplinare, come avviene nei Centri d’eccellenza ad alto volume, per poter garantire al

paziente un significativo aumento della sopravvivenza e - non da ultimo - una miglior qualità di

vita.

Ancora oggi, il tasso di incidenza e di mortalità per il carcinoma pancreatico si avvicinano fin quasi

a coincidere, questo perché, nonostante la chirurgia sia in grado di garantire una sopravvivenza a

5 anni del 20%, solo il 20% dei pazienti è resecabile al momento della diagnosi. I tassi di incidenza

e di mortalità sono fortemente correlati con l’età, e in Occidente l’età media alla diagnosi è di

circa 70 anni; la frequenza di tale neoplasia risulta essere superiore nei neri rispetto ai caucasici

mentre è minima negli asiatici, probabilmente a causa di differenze genetiche nei processi di

detossificazione delle sostanze cancerogene contenute nel fumo di sigaretta; la maggior

prevalenza nel sesso maschile potrebbe invece essere spiegata dall’abitudine al fumo, con minima

o nessuna correlazione a fattori ormonali legati al sesso; la frequenza di questa neoplasia è

destinata ad aumentare in relazione al progressivo invecchiamento della popolazione per

l’aumentata durata della vita.

I principali fattori di rischio associati allo sviluppo del carcinoma pancreatico sono:

- fumo: sebbene l’associazione tra fumo e cancro del pancreas, dimostrata da quasi tutti gli

studi pubblicati a partire dal 1966112, non sia forte come per il cancro del polmone, il fumo

di sigaretta aumenta del 70-100% il rischio di cancro pancreatico; essendo un fattore di

rischio modificabile, con la cessazione dell’abitudine al fumo il rischio diminuisce

gradualmente fin quasi a ritornare ai livelli di base dopo almeno dieci anni113. Sulla base

della frequenza dell’abitudine al fumo nella popolazione, il rischio di carcinoma

pancreatico attribuibile ad esso è stimabile intorno al 25%;

- alcool: la maggior parte degli studi non ha evidenziato una relazione tra alcool e tumore

pancreatico o solo una lieve associazione, probabilmente dovuta a fattori di

confondimento legati al fumo114,115; una recente analisi basata su 14 studi ha evidenziato

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una bassa associazione tra alcool e tumore ma solo per i forti consumatori di sesso

femminile116;

- alimentazione e obesità: risulta complesso definire l’associazione tra alimentazione e

cancro a causa di problemi metodologici nella raccolta e valutazione delle informazioni

sulle abitudini alimentari; spesso si attribuisce alle diverse abitudini alimentari parte delle

differenze di frequenza di tale patologia tra i diversi Paesi; diversi studi suggeriscono che

monitorando il consumo calorico e l’obesità si possa prevedere l’insorgenza del tumore

pancreatico117-120, per il legame esistente tra obesità e stato pro-infiammatorio

dell’organismo121, pertanto l’obesità si configura come un importante fattore di rischio

modificabile; due recenti studi sistematici e meta-analisi di studi osservazionali prospettici

hanno correlato l’aumento del body mass index ad un aumento del rischio di carcinoma

pancreatico122,123, correlazione che tra l’altro sembra essere lievemente maggiore nel

sesso femminile124,125;

- diabete: studi caso-controllo e prospettici hanno dimostrato un aumentato rischio di

tumore pancreatico nei pazienti affetti da diabete mellito di tipo II126,127; in pazienti affetti

da diabete da più di dieci anni il rischio di tumore pancreatico aumenta del 50%, come

dimostrato da una meta-analisi128, ed è stato anche visto che la metformina, un

antidiabetico orale, sembrerebbe associarsi a una diminuzione del rischio di insorgenza

del tumore pancreatico129. Bisogna tener presente però che l’improvvisa insorgenza di

diabete può rappresentare un sintomo precoce di tumore del pancreas130;

- pancreatite cronica: un ampio studio retrospettivo ha riscontrato un rischio 13,3 volte

maggiore di tumore pancreatico in pazienti con pancreatite cronica, esclusi quelli con

malattia diagnosticata entro i 4 anni precedenti l’insorgenza di tumore; tali risultati sono

stati poi confermati da numerosi altri studi131-133; ciononostante, essendo la pancreatite

cronica una patologia rara ed essendo la frequenza cumulativa di tumore pancreatico a 20

anni dalla diagnosi di pancreatite cronica solo del 5%, quest’ultima rappresenta solo una

causa minore di cancro pancreatico. Tuttavia, in soggetti affetti da una rara forma

ereditaria autosomica dominante di pancreatite, il rischio di insorgenza di tumore è 50

volte maggiore e il rischio nell’arco della vita è del 40-55%134-136;

- gruppi sanguigni: un ampio studio prospettico, in accordo con diversi studi minori

precedenti, ha osservato una correlazione tra gruppo sanguigno e tumore del pancreas;

avere un gruppo di tipo non-0 sarebbe responsabile del 17% dei tumori pancreatici137, ma

il meccanismo non è ancora noto;

- infezioni: alcuni episodi di pancreatite acuta possono essere causati da infezioni virali

(parotite) o batteriche (Salmonella enterica e typhi), pertanto un certo numero di tumori

del pancreas potrebbe essere conseguente a tali infezioni; inoltre due studi hanno rilevato

un’associazione con le infezioni da virus dell’epatite C e soprattutto B138,139; i risultati sulla

possibile associazione tra infezione da Helicobacter pylori e tumore pancreatico sono

invece contraddittori140-142;

- suscettibilità genetica: la suscettibilità al cancro pancreatico sporadico può essere

parzialmente attribuita a polimorfismi di geni codificanti per enzimi adibiti al metabolismo

di tabacco e alimenti o coinvolti nella riparazione del DNA, ma esistono anche varie

sindromi tumorali familiare dovute a mutazioni ereditarie di geni specifici143 (tabella 1.7)

che si associano a un aumentato rischio di cancro pancreatico ad insorgenza precoce,

soprattutto se associate al fumo144.

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Tabella 1.7 (copyright ISS - Basi Scientifiche per Linee Guida)

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Tabella 1.8 (copyright ISS - Basi Scientifiche per Linee Guida)

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La differenziazione di linea delle neoplasie pancreatiche - duttale, acinare, endocrina - ne predice

caratteristiche biologiche e comportamento clinico145: la prevalenza del carcinoma duttale è del

90% contro l’1% di prevalenza del carcinoma acinare, a dispetto della percentuale di cellule

acinari (80%) e duttali (5-10%) presenti nel pancreas normale, discrepanza che potrebbe essere

spiegata da una recente ipotesi secondo cui entrambi i tipi cellulari avrebbero una comune

derivazione da cellule staminali che si localizzerebbero nello scomparto “duttale”146-149.

La classificazione istologica della WHO dei tumori del pancreas esocrino li distingue in neoplasie a

comportamento biologico benigno, ad incerto potenziale di malignità e maligno:

- tumori epiteliali

o benigni

cistoadenoma sieroso

cistoadenoma mucinoso

adenoma intraduttale papillare mucinoso

teratoma maturo

o borderline (a incerto potenziale di malignità)

neoplasia cistica mucinosa con displasia moderata

neoplasia intraduttale papillare mucinosa con displasia moderata

tumore solido pseudo papillare

o maligni

adenocarcinoma duttale

carcinoma mucinoso non cistico

carcinoma adenosquamoso

carcinoma indifferenziato

carcinoma indifferenziato a cellule giganti di tipo simil-

osteoclastico

carcinoma a cellule chiare

carcinoma a cellule mucosecernenti ad anello con castone

carcinoma misto duttale-endocrino

carcinoma "midollare"

cistoadenocarcinoma sieroso

cistoadenocarcinoma mucinoso

non invasivo

invasivo

carcinoma intraduttale papillare mucinoso

non invasivo

invasivo (carcinoma papillare mucinoso)

carcinoma a cellule acinari

cistoadenocarcinoma a cellule acinari

carcinoma misto acinare-endocrino

pancreatoblastoma

carcinoma solido pseudo papillare

- tumori non epiteliali

- tumori secondari

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Per quanto riguarda il carcinoma duttale, che rappresenta il 90% dei tumori epiteliali maligni del

pancreas, esso si presenta nei 2/3 dei casi a livello cefalopancreatico dove raggiunge dimensioni

inferiori (2-3 cm) rispetto alla più rara localizzazione a livello del corpo-coda (5-7 cm); esso si

presenta macroscopicamente come una massa solida, biancastra, di consistenza duro-lignea e a

margini infiltrativi, talvolta con aree di regressione necrotico-emorragica, che si caratterizza per

una intensa reazione desmoplastica (responsabile della consistenza lignea e della riduzione del

letto vascolare, che differenzia radiologicamente il carcinoma dal tessuto ghiandolare normale). Il

carcinoma della testa ha la tendenza a determinare stenosi del coledoco terminale e del dotto di

Wirsung, potendo infine estendersi alla papilla del Vater infiltrando il duodeno; il carcinoma del

corpo-coda invece tende a invadere il retroperitoneo, lo stomaco, il colon, l’omento, la milza e i

surreni. Il grading citoarchitettonico prevede tre gradi: G1 se sono presenti strutture tubulari ben

differenziate, G2 se la differenziazione in strutture tubulari è solo moderata, G3 se le strutture

ghiandolari sono scarsamente differenziate. Dal punto di vista immunoistochimico, la cellula

neoplastica ricalca il fenotipo della cellula duttale, presentando positività per CEA, CA19-9, alcune

citocheratine (7, 8, 18, 19, raramente 20) e per le apomucine MUC1 e MUC5AC (segno di

transdifferenziazione gastrica)150,151. Le anomalie molecolari caratteristiche del carcinoma duttale

pancreatico comprendono la mutazione attivante del proto-oncogene K-ras (già presente nel 30%

delle modificazioni iperplastiche) e l’inattivazione degli oncosoppressori p16/INK4a (nella gran

parte dei casi), p53 e DCP4/SMAD4 (in circa la metà dei casi)152. L’adenocarcinoma duttale classico

presenta delle varianti istologiche, rappresentate da:

- carcinoma mucinoso non cistico, caratterizzato da una componente papillare mucinosa

intraduttale (IPMN) più o meno evidente e da una massiccia produzione di muco153;

- carcinoma adenosquamoso, che come suggerisce il nome presenta aspetti misti di

adenocarcinoma e carcinoma squamoso, dal comportamento clinico estremamente

aggressivo;

- carcinoma indifferenziato, senza una distinta differenziazione verso strutture riconoscibili;

- carcinoma indifferenziato a cellule giganti di tipo simil-osteoclastico, con una componente

epiteliale rappresentata da elementi mononucleati e una componente reattiva di cellule

giganti simil-osteoclasti154;

- carcinoma a cellule chiare, così dette per l’aspetto chiaro del loro citoplasma ricco di

glicogeno, talvolta associato a una componente intraduttale155;

- carcinoma a cellule mucosecernenti ad anello con castone, in diagnosi differenziale col

carcinoma gastrico o mammario;

- carcinoma misto duttale-endocrino, con una componente endocrina >30% commista alla

componente ghiandolare neoplastica;

- carcinoma “midollare”, scarsamente differenziato, con crescita espansiva e spiccato

infiltrato infiammatorio peritumorale; per questo istotipo tumorale è stata dimostrata

una predisposizione familiare (ad esempio nell’ambito di una HNPCC), e si caratterizza per

le frequenti mutazioni di BRAF e instabilità dei microsatelliti (MSH-2 and MLH-1), con

prognosi migliore anche in virtù di un peculiare profilo di chemiosensibilità156.

Attualmente conosciamo tre distinti precursori del carcinoma invasivo, la cui individuazione può

consentire la diagnosi in fase pre-invasiva con possibilità di attuare una terapia curativa:

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- PanIN (neoplasia pancreatica intraepiteliale): reperto microscopico di neoplasia epiteliale

dei dotti di piccole dimensioni (di diametro <0,5 cm), caratterizzata da epitelio colonnare

mucosecernente con diversi gradi di atipia citologica e di alterazioni architetturali157; dei

tre tipi di PanIN (1A e 1B, 2 e 3, in base al grado di atipia e alla presenza di mitosi),

attualmente solo le lesioni di tipo PanIN-3 vengono riportate nel referto

anatomopatologico poiché associate alla presenza di carcinoma invasivo nel 30-50% dei

casi, svolgendo quindi l’importante ruolo di indicatori di progressione verso il carcinoma

invasivo; il significato neoplastico delle PanIN trova riscontro nel fatto che la maggior

parte delle anomalie molecolari del carcinoma invasivo siano presenti in questo tipo di

lesioni, con una frequenza che riflette i diversi gradi di atipia, e che frequentemente le

PanIN vengano riscontrate nel parenchima pancreatico adiacente un carcinoma

infiltrante. Esiste una precisa sequenza PanIN-carcinoma invasivo basata sull’accumulo di

mutazioni multiple: l’accorciamento dei telomeri e le mutazioni attivanti di K-ras

avvengono precocemente nel passaggio da dotti normali a PanIN-1A e -1B, seguiti

dall’inattivazione dell’oncosoppressore CDKN2A (codificante per p16) nelle lesioni di

grado intermedio (PanIN-2), fino alla inattivazione tardiva degli oncosoppressori p53,

SMAD4 e BRCA2 nelle lesioni PanIN-3 (figura 1.10);

Figura 1.10158

- IPMN (neoplasia intraduttale papillare mucinosa): lesione macroscopicamente e

radiologicamente visibile che si sviluppa nel dotto principale o nei dotti di secondo

ordine157; attualmente le IPMN, misconosciute per lungo tempo sin dalla loro prima

descrizione negli anni ’80, rappresentano il 20-30% di tutte le neoplasie pancreatiche

resecate: hanno una modesta prevalenza nel sesso maschile e un’età media di

presentazione di circa 65 anni. Le IPMN vengono classificate in tre sottotipi in base

all’imaging (figura 1.11):

o main-duct (75%), con coinvolgimento del dotto di Wirsung che presenta una

dilatazione diffusa (B) o segmentale (C) contenente muco ≥1 cm; spesso

interessano la testa del pancreas e si accompagnano a protrusione della papilla

nel lume duodenale con copiosa secrezione di mucina;

o branch-duct, con coinvolgimento esclusivo dei dotti di secondo ordine (A),

presentandosi come cisti mucinosa comunicante col dotto pancreatico principale

senza dilatazione dello stesso; interessano pazienti più giovani e si localizzano

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prevalentemente a livello del processo uncinato sebbene possano interessare

anche la coda pancreatica;

o mixed, con coinvolgimento del dotto principale e dei dotti di secondo ordine (D).

Istologicamente le cellule

producenti mucina possono essere

iperplastiche o displastiche: in base

al grado di displasia l’IPMN si

distingue poi in adenoma (displasia

lieve), borderline (displasia media)

o carcinoma (displasia grave). Le

IPMN si differenziano dal

carcinoma duttale per la ridotta

frequenza di mutazioni a carico di

K-ras, p53 e p16, per la conservata

espressione di DPC4 (la cui

espressione nei carcinomi duttali

correla con una prognosi migliore,

pertanto è possibile ipotizzare che

anche la buona prognosi di queste

neoplasie sia, almeno in parte,

riconducibile alla mantenuta

espressione di DPC4) e per

l’inattivazione in 1/3 dei pazienti

del gene STK11-LKB1159.

- MCN (neoplasia mucinosa cistica): lesione macroscopicamente e radiologicamente

visibile, prevalentemente localizzata a livello della coda pancreatica, con spiccata

prevalenza nel sesso femminile; si presenta come neoformazione rotondeggiante uni- o

multiloculata dotata di pseudocapsula e non connessa ai dotti pancreatici, di diametro

medio 12 cm; la superficie interna di tali cisti si presenta liscia nelle forme benigne,

mentre presenta protrusioni papillari o aree solide nel caso del cistoadenocarcinoma.

Microscopicamente, un epitelio colonnare mucosecernente - che spesso presenta

metaplasia di tipo foveolare gastrico, pilorico o intestinale - poggia su uno stroma di tipo

ovarico. In base al grado di displasia, le MCN vengono distinte in adenomi (atipia lieve),

forme borderline (atipia moderata) e adenocarcinomi non invasivi (atipia severa), mentre

le MCN invasive sono simili all’adenocarcinoma duttale pancreatico; un fattore

prognostico importante è rappresentato dalla profondità dell’infiltrazione neoplastica:

fintanto che la capsula tumorale non risulta infiltrata, la prognosi si mantiene buona160.

Una accurata diagnosi differenziale pre-operatoria è fondamentale, in quanto le MCN

necessitano di resezione radicale, diversamente da formazioni cistiche di origine

Figura 1.11 (copyright Chirurgia del Pancreas Verona)

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infiammatoria, cisti da ritenzione e dalla variante macrocistica del cistoadenoma sieroso

(per le quali non c’è indicazione chirurgica). Le MCN non invasive sono

immunoistochimicamente positive per MUC5AC e DPC4 e negative per MUC1, le MCN

invasive al contrario sono negative per DPC4 e positive per MUC1. Le modificazioni

molecolari precoci includono mutazioni di K-ras, mentre quelle tardive mutazioni di

oncosoppressori quali p53, p16 e DPC4; inoltre, la componente epiteliale sovraesprime

114 geni rispetto all’epi telio normale, e lo stroma di tipo ovarico sovraesprime geni

implicati nel metabolismo degli estrogeni161.

A differenza del carcinoma duttale, il carcinoma a cellule acinose rappresenta solo l’1% delle

neoplasie del pancreas esocrino: è una neoplasia rara che prevale nel sesso maschile e in età

avanzata, di aspetto solido (più raramente ci si trova davanti a varianti cistiche rappresentate da

cistoadenomi e cistoadenocarcinomi a cellule acinose), microscopicamente caratterizzata da

cellule con abbondante citoplasma e nucleo rotondeggiante con evidente nucleolo,

immunoistochimicamente positive per la tripsina (mentre possono risultare negative per amilasi e

lipasi); può esservi una componente cellulare a differenziazione endocrina che, qualora superiore

al 30%, farebbe classificare il carcinoma come misto acinoso-endocrino162,163. Le principali

modificazioni molecolari sono rappresentate dalla perdita di 4q e 16q e, nel 25% dei casi, da

anomalie a carico di APC/β-catenina164.

Il pancreatoblastoma è il più frequente tumore pancreatico infantile, con due picchi intorno ai 3-5

anni e ai 25-30 anni165, mentre è raro in età adulta e avanzata; si presenta come una lesione di

dimensioni considerevoli (anche fino a 20 cm), ben circoscritta o a margini sfumati infiltrativi,

costituita da una componente acinare e dai caratteristici corpuscoli squamoidi (composti da

cellule a nucleo chiaro ricco di biotina), sebbene più raramente possano esservi anche

componenti epiteliali meno differenziate associate ad elementi mesenchimali con differenziazione

condroide od ossea. Questa neoplasia presenta anomalie molecolari di APC/β-catenina e

delezione 11p, mentre sono assenti le mutazioni di K-ras e p53 ed è rara la perdita di DPC4166-168.

Le neoplasie sierose cistiche rappresentano l’1-2% dei tumori del pancreas esocrino e il 30-40% di

quelli cistici pancreatici, sono quasi esclusivamente benigne e di grandi dimensioni, con

prevalenza in donne di 60-70 anni; possono essere tumori sporadici o presentarsi nell’ambito

della sindrome di Von Hippel-Lindau169,170. Dal punto di vista clinico-patologico si distinguono:

- cistoadenoma sieroso microcistico (60-70%), soprattutto a livello della coda pancreatica,

ben circoscritto e con tipico aspetto a spugna (anche radiologicamente) dovuto alla

cicatrice centrale e a innumerevoli piccole cisti (da 1 mm a 1-2 cm);

- cistoadenoma sieroso macrocistico (30%), soprattutto a livello della testa del pancreas,

con poche ma più grosse cisti (2-20 cm) e assenza di cicatrice centrale stellata; spesso

viene resecato chirurgicamente sebbene non ve ne sia l’indicazione, perché la diagnosi

differenziale pre-operatoria con le neoplasie mucinose cistiche non è quasi mai possibile;

- cistoadenoma sieroso solido, raro, costituito da innumerevoli piccolissime cisti che

conferiscono un aspetto solido; la diagnosi differenziale pre-operatoria con una neoplasia

endocrina risulta estremamente difficoltosa;

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- cistoadenocarcinoma sieroso, che si differenzia dalla forma benigna per la sua crescita

infiltrativa e per l’invasione di organi contigui (stomaco, fegato, milza) e vasi, nonché per

le metastasi linfonodali ed epatiche;

- neoplasie cistiche sierose associate a sindrome di Von Hippel-Lindau: sono presenti nel 60-

80% dei pazienti senza predilezione di sesso, sono multifocali - potendo coinvolgere

l’intera ghiandola - e spesso si associano a cisti multiple di altri organi (fegato, polmone,

rene, milza, epididimo).

Le neoplasie sierose cistiche presentano positività immunoistochimica per le citocheratine (7, 8,

18, 19) e per EMA, e negatività per CEA e vimentina; può esserci focale positività per MUC1,

mentre MUC2 e MUC5AC sono sempre negative. Dal punto di vista molecolare, il 40% delle

neoplasie sporadiche presenta LOH (perdita di eterozigosità) al 3p (dove è localizzato il gene VHL),

mutazione (22%) o delezione (50%) del 10q170; assenti invece le mutazioni di K-ras e degli

oncosoppressori p16, p53 e DPC4.

Infine, il tumore solido pseudopapillare rappresenta l’1-2% dei tumori del pancreas esocrino: si

presenta come una massa rotondeggiante di 2-20 cm, ben circoscritta e a bassa malignità, con

spiccata predilezione per le giovani donne; il tumore si compone di aree solide, cistiche (per

effetto di fenomeni emorragici e necrotico-regressivi) e pseudopapillari, le mitosi sono assenti e

l’attività proliferativa estremamente bassa. La neoplasia presenta, dal punto di vista

immunoistochimico, positività nucleare per la β-catenina, positività costante per vimentina e NSE,

mentre citocheratine e cromogranina sono negative; la positività per i recettori del progesterone

e la predilezione per il sesso femminile fanno supporre un ruolo di questo ormone nella

patogenesi del tumore171. Dal punto di vista molecolare, in più del 90% dei casi si riscontra

mutazione della β-catenina, mentre sono assenti le classiche mutazioni di K-ras, p16, p53 e DPC4,

caratteristiche del carcinoma duttale.

Una accurata valutazione dei margini di resezione è cruciale per una corretta stadiazione della

neoplasia: il mancato riconoscimento di neoplasia residua in corrispondenza dei margini di

resezione dipende dalla modalità di campionamento del pezzo operatorio, e potrebbe spiegare

l’alta percentuale di recidive riportata in letteratura. I margini di resezione sono la trancia di

resezione della via biliare principale, la trancia di resezione del pancreas, la trancia di resezione

duodenale prossimale (in caso di duodenocefalopancreasectomia con conservazione del piloro), e

il margine di resezione retroperitoneale. La trancia della via biliare principale e del pancreas

vengono esaminate in sede intra-operatoria su sezioni al criostato, in modo che l’eventuale

positività suggerisca l’ampliamento del margine di exeresi. Il margine di resezione

retroperitoneale è fondamentale per la stadiazione patologica, in quanto sede elettiva di

diffusione del carcinoma duttale, e viene definito come il tessuto adiposo peripancreatico

localizzato posteriormente e lateralmente all’arteria mesenterica superiore, identificabile sul

pezzo operatorio in corrispondenza di una ristretta area a maggior asse longitudinale in

corrispondenza della quale la superficie posteriore della testa pancreatica appare cruentata

chirurgicamente172; la sua superficie viene colorata con inchiostro di china prima della fissazione

del pezzo operatorio in formalina - a causa della difficoltà di identificarlo su sezioni istologiche - e

successivamente campionato in toto mediante prelievi seriati perpendicolari all’asse principale

del margine stesso.

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Nonostante i progressi in campo diagnostico e terapeutico avvenuti negli ultimi decenni, il tasso di

incidenza annuale dei tumori del pancreas esocrino coincide quasi con quello di mortalità, in

quanto nella maggior parte dei casi la diagnosi è tardiva, quando è già presente invasione loco-

regionale o malattia metastatica. Ciò è in gran parte dovuto all’aspecificità dei sintomi e segni

clinici nelle prime fasi di malattia e alla mancanza di programmi di screening su popolazioni ad

alto rischio, e al fatto che il dolore addominale e l’ittero, sintomi principali dei tumori del pancreas

esocrino (tabella 1.9), fanno la loro comparsa quasi sempre in una fase in cui il tumore è già in uno

stadio avanzato; solo i rari tumori della papilla di Vater costituiscono un’eccezione a quanto sopra,

poiché esercitando effetto massa sulla via biliare principale causano precocemente ittero

clinicamente manifesto.

Abitualmente, i pazienti giungono all’osservazione per la comparsa di ittero ingravescente, il quale

è presente in più dell’80% dei tumori cefalopancreatici, e solo raramente è complicato nelle sue

fasi iniziali da colangite e prurito; con il progredire della stasi biliare poi aumenta l’incidenza sia

della colangite sia del prurito. Una parte di questi pazienti, se interrogati con attenzione, riferisce

sintomi vaghi nelle settimane o mesi precedenti l’insorgenza di ittero: "fastidio" addominale

difficilmente localizzabile, senso di sazietà precoce, anoressia, facile affaticamento173; purtroppo

quasi sempre questi sintomi aspecifici sono sottostimati sia dal clinico che dal paziente o attribuiti

ad altri più comuni disordini gastrointestinali. L’ittero va indagato rapidamente poiché nelle fasi

iniziali della sua comparsa il 50% dei pazienti ha ancora una lesione pancreatica resecabile174,175;

nei tumori del corpo-coda, invece, l’ittero è presente in meno del 10% dei pazienti, ed è

espressione di malattia metastatica epatica. L’ittero solitamente si associa a dolore addominale,

ma nelle prime fasi di malattia può essere presente anche ittero senza dolore e con colecisti

palpabile (segno di Courvoisier-Terrier) per ostruzione al deflusso di bile.

Il dolore addominale è un altro sintomo cardine dell’adenocarcinoma del pancreas, dovuto a

diretta invasione o compressione del plesso celiaco e a ostruzione dei dotti pancreatici;

solitamente è già presente da 2-3 mesi nel momento in cui il paziente si reca dal medico, e viene

descritto come un dolore profondo epi-mesogastrico e/o dorsale, a sbarra, esacerbato dalla

posizione supina e lenito da quella seduta, non responsivo ai comuni analgesici, progressivamente

ingravescente, e in qualche caso può essere esacerbato dal pasto. Bisogna dunque valutare

attentamente un paziente di età avanzata che presenti dolore addominale di tipo pancreatico,

associato a elevazione dei valori sierici di amilasi e/o lipasi, soprattutto in assenza di fattori

Tabella 1.9 (copyright ISS - Basi Scientifiche per Linee Guida)

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eziologici di pancreatite acuta (alcolismo, dislipidemie, litiasi biliare); altro quadro clinico che deve

far insospettire è quello di un paziente con storia di pancreatite cronica da tempo asintomatica

che presenti ricomparsa di dolore addominale: solitamente, infatti, la sintomatologia dolorosa

caratterizza le prime fasi del decorso di una pancreatite cronica, per poi tendere alla riduzione

fino alla scomparsa; si è visto inoltre che la pancreatite cronica predispone all’insorgenza

dell’adenocarcinoma pancreatico con un rapporto diretto con la durata della pancreatite173, e ne è

una prova il fatto che pazienti affetti da pancreatite cronca ereditaria - rara condizione

determinata dalla mutazione dei geni del tripsinogeno cationico (PRSS1) e anionico (PRSS2),

dell’inibitore della serina proteasi Kazal di tipo 1 (SPINK1) e del regolatore della conduttanza

transmembrana della fibrosi cistica (CFTR) - presentino un rischio nettamente superiore rispetto

alla popolazione generale di sviluppare un tumore del pancreas esocrino intorno alla sesta-

settima decade di vita134-136.

Il calo ponderale è presente in quasi la totalità dei pazienti al momento della diagnosi,

mediamente vengono persi 5-7 Kg in 6-10 settimane; rispetto ad altre neoplasie, i tumori del

pancreas esocrino hanno la più alta incidenza di cachessia: alla base vi sono la perdita di appetito

secondaria al dolore addominale, la restrizione dell’apporto alimentare per stenosi duodenale o

ritardato svuotamento gastrico, e il malassorbimento da insufficienza del pancreas esocrino; la

massa tumorale è anche responsabile della liberazione in circolo di citochine ad attività

cachettizzante, che determinano aumento di proteolisi e lipolisi, riduzione della sintesi di proteine

muscolari e aumento della spesa energetica a riposo176.

Al momento della diagnosi circa la metà dei pazienti presenta nausea e/o vomito, soprattutto in

presenza di metastasi epatiche, nonché turbe dell’alvo (più frequentemente diarrea, e talvolta

steatorrea transitoria da occlusione dei dotti pancreatici).

Fino al 33% dei pazienti con tumore del pancreas esocrino può presentare diabete: ci si deve

insospettire dinanzi a un diabete di improvvisa insorgenza in un paziente di 60-70 anni senza

familiarità né altre condizioni frequentemente associate al diabete (obesità, sedentarietà,

dislipidemia…), o dinanzi a un diabetico che abbia inspiegabile difficoltà nel controllo metabolico,

soprattutto se in associazione a calo ponderale e riduzione dell’appetito.

Infine, il 2-4% dei pazienti presenta la cosiddetta sindrome di Trousseau o tromboflebite

recidivante migrante, anche come sintomatologia di esordio, soprattutto nei tumori del corpo-

coda, ma non è specifica perché può essere presente anche in adenocarcinomi di altri organi.

Il CA19-9 è un antigene glicoproteico prodotto dalle cellule duttali pancreatiche e biliari e dagli

epiteli gastrico, colico, endometriale e salivare: normalmente è presente nel sangue in quantità

minime, ma in corso di neoplasia i suoi livelli sierici si innalzano, costituendo così il marker di

riferimento per il carcinoma pancreatico177; viene utilizzato per la diagnosi e il follow-up post-

chirurgico (ma non per lo screening) nella valutazione dell’eventuale recidiva di malattia e della

risposta alla terapia177, in combinazione con le indagini strumentali. Il CA19-9 ha una sensibilità

del 79% e una specificità dell’82%: si possono avere falsi positivi in caso di ittero benigno178

utilizzando il classico cut-off di 37 U/mL, ma aumentando il cut-off a 100 U/mL la specificità sale al

97% o al 100% per cut-off >1000 U/mL. Inoltre, la sensibilità della determinazione del CA19-9

migliora per neoplasie in stadio avanzato, mentre diminuisce significativamente per neoplasie <3

cm di diametro, il che spiega la mancata applicabilità di tale marker per lo screening di

popolazione179. Elevati livelli sierici pre-operatori del CA19-9, correlando con malattia in stadio

avanzato, possono essere considerati come una variabile indipendente predittiva per la non

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resecabilità del tumore; analogamente, la persistenza di livelli elevati di CA19-9 post-operatori

sono considerati indicativi di persistenza di malattia e di elevato rischio di ricorrenza, mentre una

riduzione dei livelli di CA19-9 post-operatori o un loro valore <200 U/mL sono forti predittori

indipendenti di sopravvivenza180. Prognosticamente significativa risulta essere anche la CA19-9

velocity, ovvero la variazione delle concentrazioni sieriche del marker in un determinato intervallo

di tempo: tale variabile sembra in grado di predire non solo la sopravvivenza post-operatoria181,182

ma anche la risposta al trattamento chemioterapico adiuvante183; attualmente il calo percentuale

del CA19-9 può essere considerato un valido endpoint nella valutazione della sopravvivenza, ma

sono necessari ulteriori studi clinici controllati al fine di stabilire i cut-off e l’intervallo di tempo

che deve intercorrere fra le determinazioni successive.

Per quanto riguarda l’imaging della patologia neoplastica del pancreas, oggi disponiamo di

numerose tecniche che consentono di fare diagnosi, di definirne la resecabilità chirurgica, e di

valutarne la risposta al trattamento neoadiuvante o adiuvante:

- ecografia: spesso rappresenta il primo approccio al paziente con dolore addominale,

dispepsia o ittero184,185, ma la sua accuratezza diagnostica dipende dalla conformazione

del paziente - risultando difficoltosa in pazienti di corporatura robusta o con abbondante

meteorismo - e dall’esperienza dell’operatore; il color-doppler consente la valutazione

delle strutture vascolari arteriose e venose a fini stadiativi, e tale metodica è anche

utilizzata a scopo interventistico, ad esempio per eseguire biopsie pancreatiche nel

paziente inoperabile; l’utilizzo del mezzo di contrasto sonografico, valutando

selettivamente le strutture vascolari, consente di caratterizzare la neoangiogenesi.

L’adenocarcinoma duttale si presenta come una massa solida ipoecogena a contorni

irregolari, con vascolarizzazione ridotta rispetto al parenchima normale per la marcata

reazione desmoplastica e per le componenti fibrosa e necrotica intratumorali (il grado di

differenziazione dell’adenocarcinoma ne influenza la densità microvascolare, tanto

minore quanto più alta è la malignità)186; sempre il mezzo di contrasto consente la

valutazione di eventuali metastasi epatiche, ostruzione e dilatazione delle vie biliari intra-

ed extra-epatiche; l’ecografia infine consente di riconoscere eventuali falde di versamento

addominale anche di modesta entità, mentre le informazioni sullo stato linfonodale sono

insufficienti per una accurata stadiazione. L’ecografia permette di individuare neoplasie

cistiche anche <2 cm a livello di testa e corpo pancreatico: la variante microcistica del

cistoadenoma sieroso si presenta come una massa iperecogena a causa dei numerosi setti

che determinano interfacce multiple, mentre per le varianti macrocistica e oligocistica la

diagnosi differenziale risulta essere più difficoltosa; la variante multiloculare del

cistoadenoma mucinoso presenta un quadro ecografico tipico (massa anecogena

sferoidale, sepimentata, a contorni netti), mentre la variante uniloculare presenta

problemi di diagnosi differenziale con altre lesioni cistiche e con le pseudocisti (in

quest’ultimo caso la diagnosi è supportata dall’anamnesi o dalla presenza di materiale

necrotico sul versante declive delle lesioni), e una diagnosi accurata è fondamentale in

quanto il loro trattamento è chirurgico per l’elevata propensione alla trasformazione

maligna; le IPMN sono più facilmente riconoscibili se centrali, in quanto determinano

dilatazione del dotto pancreatico principale, eventuali noduli parietali e

ipervascolarizzazione con l’iniezione di mezzo di contrasto187,188.

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- TC: grazie alla sua elevata risoluzione spaziale, consente di definire e stadiare le lesioni

neoplastiche, meglio valutabili nella “fase pancreatica” a 30-50 secondi dall’inizio

dell’iniezione di mezzo di contrasto endovena; le immagini volumetriche con collimazioni

sottili (0,625-1,25 mm) consentono anche la visualizzazione delle strutture vascolari e

degli organi circostanti eventualmente infiltrati. L’adenocarcinoma duttale si presenta

principalmente come deformazione del profilo pancreatico, non ben delineata prima

dell’iniezione di mezzo di contrasto, mentre in fase pancreatica l’adenocarcinoma appare

ipodenso e a contorni sfumati, quasi sempre privo di calcificazioni189; studi perfusionali

con la TC multistrato hanno dimostrato che la vascolarizzazione risulta tanto più ridotta

quanto maggiore è la malignità della lesione; se il tumore è di ridotte dimensioni risulta

circondato da parenchima normale e determina dilatazione del dotto di Wirsung con

atrofia del parenchima a monte, e se localizzato a livello cefalopancreatico anche

ostruzione della via biliare principale (le ricostruzioni in fase portale dimostrano con

precisione il livello dell’ostruzione190), mentre nelle lesioni più voluminose il tessuto

adiposo retropancreatico appare sfumato e striato per infiltrazione e caratteristica

desmoplasia; in fase portale la TC consente l’individuazione di eventuali lesioni

metastatiche a livello epatico, visibili come aree ipodense a contorni sfumati, che

determinano la non resecabilità della neoplasia (M1)190; in previsione di un intervento

chirurgico, lo studio del coinvolgimento delle strutture venose è fondamentale e si basa

sul riconoscimento dell’infiltrazione parietale: la probabilità di resecare la lesione è del

97-100% qualora i piani adiposi siano conservati, si riduce al 60% nei casi in cui

l’infiltrazione sia compresa tra i 90° ed i 180°, scende al 20% se l’infiltrazione supera i

180°, e infine quando l’infiltrazione supera i 270° il tumore non è resecabile191; tre segni

molto utili per valutare l’infiltrazione venosa sono il teardrop sign (o deformazione "a

goccia" della struttura venosa), la dilatazione delle vene pancreaticoduodenali nei casi

d’infiltrazione della vena mesenterica, e la presenza di circoli venosi collaterali da

ipertensione portale distrettuale dovuta a ostruzione della vena splenica. Per quanto

riguarda le neoplasie cistiche, il cistoadenoma sieroso microcistico si presenta di aspetto

lobulato e densità ridotta, nel 20% dei casi presenta calcificazioni al centro della massa

che conferiscono un aspetto stellato da cicatrice centrale192, dopo iniezione di mezzo di

contrasto poi appare iperdenso a causa delle sepimentazioni fibrose che - quando

particolarmente dense - determinano il tipico aspetto a nido d’ape; i tumori cistici

mucinosi risultano poco definiti prima dell’iniezione di mezzo di contrasto, per poi

apparire ipodensi in “fase pancreatica” con sepimenti o piccole cisti intramurali e orletto

capsulare più denso, nel 20% dei casi presentano calcificazioni curvilinee periferiche

(sospette per malignità); nelle ricostruzioni multiplanari e curvilinee è possibile

dimostrare la comunicazione tra le IPMN e dotto pancreatico, il quale in fase portale

risulta diffusamente dilatato e con difetti parietali determinati sia da muco che da lesioni

papillari, nonché la patognomica protrusione della papilla nel lume duodenale193, mentre

sono assenti le calcificazioni e le stenosi (più tipiche della flogosi cronica)194. Alla TC, la

neoplasia solida pseudopapillare appare capsulata e voluminosa, con versante solido

prevalentemente periferico mentre l’area centrale può presentarsi emorragica e

iperdensa dopo l’iniezione di mezzo di contrasto, e raramente calcificazioni periferiche

curvilinee o centrali amorfe.

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- RM: vengono utilizzate soprattutto le sequenze T1 pesate dopo iniezione di mezzo di

contrasto paramagnetico per via endovenosa (anche epatospecifico, per poter valutare in

fase tardiva le eventuali metastasi epatiche e l’albero biliare, nel quale vengono escreti

per il 5-20%: si tratta di un mezzo di contrasto a base di manganese e ferro con tropismo

epatocellulare e per le cellule di Kupffer) e con saturazione del segnale del tessuto

adiposo (Fat SAT), ed è anche possibile valutare in maniera precisa le strutture duttali

biliari e pancreatiche (MRCP, magnetic resonance cholangio-pancreatography).

L’adenocarcinoma duttale risulta tipicamente ipointenso in T1 (sia con Fat SAT che dopo

iniezione di mezzo di contrasto, con maggior cospicuità in fase pancreatica) a causa della

desmoplasia e necrosi che lo caratterizzano195, la tecnica MRCP mostra il patognomico

segno del “doppio dotto” (indica una dilatazione simultanea della via biliare e del dotto

pancreatico)196; per evidenziare le strutture vascolari - e quindi l’estensione e resecabilità

della neoplasia - si ricorre ad acquisizioni in apnea con sequenze T1 pesate e con Fat SAT

dopo iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico, per poi procedere a ricostruzioni

utilizzando gli algoritmi MIP (maximum intensity projection), MPR (multi planar

reformation) e VR (volume rendering); per quanto riguarda lo stato linfonodale, nelle

sequenze T2 pesate con Fat SAT i linfonodi metastatici appaiono iperintensi e di

dimensioni superiori al centimetro196; le eventuali metastasi epatiche risulteranno

ipointense in T1 e lievemente iperintense in T2, con un lieve enhancement peritumorale

in fase arteriosa nell’acquisizione angiografica, mentre col mezzo di contrasto

epatospecifico le lesioni metastatiche avranno maggior cospicuità rispetto al parenchima

normale; con le tecniche di perfusione si dimostra una minor vascolarizzazione nelle

neoplasie più indifferenziate. La variante microcistica del cistoadenoma sieroso appare

ipointensa in T1 (con eventuale iperintensità in presenza di segni di emorragia) e

iperintensa in T2, con aspetto ad alveare molto evidente nelle immagini MRCP197, mentre

la componente fibrosa e le eventuali calcificazioni risultano ipointense in tutte le

sequenze198, e dopo iniezione del mezzo di contrasto paramagnetico si accentua

l’intensità di segnale dei setti fibrosi e della cicatrice centrale; le varianti macro- e

oligocistica del cistoadenoma sieroso presentano cisti più voluminose (2-8 cm), ma

l’assenza della cicatrice centrale e dei setti fibrosi complica la diagnosi differenziale,

soprattutto se la cisti è unica196; i cistoadenomi mucinosi, in virtù del loro contenuto fluido

proteico, appaiono iperintensi in T2 e di intensità variabile in T1 e Fat SAT, con

calcificazioni ipointense in tutte le sequenze e componente cistica valutabile nelle

sequenze MRCP, mentre il mezzo di contrasto paramagnetico ne dimostra l’orletto

iperintenso e le eventuali sedimentazioni; le IPMN presentano, nelle immagini MRCP

ottenute con trigger respiratorio e ricostruzioni 3D, dilatazione del dotto pancreatico

principale o delle sue ramificazioni in assenza di stenosi, segno della papilla protrudente

come nelle immagini TC, materiale mucinoso e eventuali noduli murali intraduttali (se si

intensificano col mezzo di contrasto paramagnetico presentano prognosi sfavorevole).

Delle neoplasie solide pseudopapillari la RM è in grado di valutare sia la componente

cistica che quella solida, nonché i rapporti con le circostanti strutture vascolari.

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- PET: nel caso di sospetta o accertata lesione pancreatica, dopo le tecniche di diagnostica

convenzionale si può ricorrere alla medicina nucleare, la quale attraverso l’uso di 18F-FDG

evidenzia l’aumento della glicolisi anaerobica nell’adenocarcinoma pancreatico199, ed

esiste una correlazione diretta tra accumulo di FDG e proliferazione cellulare (espressa

come Ki-67)200 e una correlazione inversa tra accumulo di FDG e sopravvivenza (un valore

di SUV molto elevato è indicativo di prognosi sfavorevole)201,202; tuttavia, valori di glicemia

>130 mg/dl (come può verificarsi nel paziente con tumore pancreatico) riducono

significativamente la sensibilità dell’esame203, e inoltre l’adenocarcinoma pancreatico può

presentare un accumulo di FDG più lento rispetto ad altre neoplasie, per cui la scansione

PET deve iniziare almeno dopo 90 minuti dalla somministrazione del radiofarmaco;

attualmente le apparecchiature ibride PET/TC forniscono non solo informazioni di tipo

funzionale (per lo studio di tutti i possibili siti di malattia), ma anche di tipo anatomico

(necessario in vista della terapia chirurgica)204. La potenzialità della PET con FDG nello

stabilire una diagnosi differenziale tra patologia pancreatica benigna e maligna è limitata

dalla possibilità di falsi positivi in presenza di fatti infiammatori, in quanto il radiofarmaco

ha la tendenza ad accumularsi significativamente in caso di flogosi soprattutto acuta (che,

se determinata dalla neoplasia, può essere d’aiuto nel localizzare lesioni di piccole

dimensioni) nei granulociti attivati, e inoltre nessuna neoplasia presenta uno specifico

accumulo di FDG (lo stesso adenocarcinoma del pancreas può avere comportamenti

estremamente variabili); le pancreatiti acute possono quindi dare una falsa positività,

come riportato in una recente linea guida all’uso della PET/TC della Società Americana di

Medicina Nucleare e dell’American College di Radiologia205. Per migliorare la capacità

discriminatoria di tale metodica ai fini di una diagnosi differenziale tra neoplasia benigna

e maligna, è possibile affiancare alla valutazione visiva una tecnica semi-quantitativa

come il calcolo del SUV (standardized uptake value): secondo un lavoro del ’99, un cut-off

di 3 sarebbe sufficiente a discriminare le lesioni benigne da quelle maligne, con sensibilità

e specificità addirittura superiori alla TC206; lavori più recenti dimostrano che nel paziente

con sospetta IPMN un SUV >2.5 è altamente indicativo di tumore non benigno207.

Impiegando strumentazione ibrida PET/TC, la sensibilità e la specificità nella diagnosi di

cancro aumentano rispettivamente all’89% e all’88%, come dimostrato in un recente

lavoro208; la PET comunque, a prescindere dalla fusione con la metodica TC, è in grado di

valutare non solo la malattia locale ma anche quella metastatica, consentendo di evitare

la chirurgia e indirizzando il paziente a trattamenti alternativi: uno studio ha confrontato

la valutazione delle metastasi epatiche con la PET e con la RM, e ne è emerso che la

sensibilità della RM (96.6%) non è significativamente diversa da quella della PET (93.3%),

nonché che quest’ultima ha il valore aggiunto di poter dare informazioni anche sulla

presenza di metastasi a distanza209; il principale limite della PET, in quanto metodica non

invasiva, è la possibile negatività per le micrometastasi linfonodali. Nel paziente con

sospetta ripresa di malattia clinica o biochimica, la PET con FDG è l’indagine di scelta per

lo studio della recidiva locale e per la ristadiazione, ma per l’adenocarcinoma del pancreas

le possibilità terapeutiche sono molto limitate. Un lavoro recente dimostra un significativo

anticipo della diagnosi di recidiva dopo chirurgia resettiva in 28 su 63 pazienti in cui la TC

risultava ancora negativa o non diagnostica210; un altro studio, che mette a confronto la

PET con TC e RM, evidenzia la sua superiorità nel localizzare la recidiva sia locale sia extra-

addominale211.

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Immagini PET/TC in

fusione con TC con

contrasto: recidiva

locale e metastasi

epatica non evidente

alla TC diagnostica.

Immagini PET/TC:

neoplasia della testa

pancreatica con

metastasi epatica e

linfonodali.

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- EUS: trova applicazione nella diagnosi e nella stadiazione delle neoplasie pancreatiche per

la possibilità di ottenere immagini ecografiche ad alta definizione (grazie all’utilizzo di

ecoendoscopi radiali, che hanno un’elevata sensibilità nella diagnosi di lesioni anche <2

cm212) e prelievi di tessuto attraverso la FNA (fine needle aspiration, con ecoendoscopi

lineari); la prima indagine viene condotta con l’ecoendoscopio radiale, che una volta

raggiunta la seconda porzione duodenale permette di valutare la papilla, il pancreas, le vie

biliari extraepatiche e le strutture vascolari peripancreatiche (attraverso scansioni

transgastriche); se nel corso della prima esplorazione si identifica una lesione di dubbia

interpretazione o di sospetta natura maligna, si passa all’ecoendoscopio lineare per la

stadiazione, l’esecuzione di FNA e - nel caso di inoperabilità e dolore - l’alcolizzazione del

plesso celiaco. Harewood e Wiersema213 hanno dimostrato che l’EUS-FNA dei linfonodi

non-peritumorali (il cui coinvolgimento, se confermato dalla FNA, controindica la

chirurgia) è la procedura meno costosa nella stadiazione preoperatoria

dell’adenocarcinoma della testa del pancreas non metastatico, se comparata con la FNA

TC-guidata o con la chirurgia; inoltre, sottolineano l’importanza dell’ecoendoscopia

nell’ulteriore valutazione dei pazienti che la TC spirale ha definito potenzialmente

resecabili, per identificare i linfonodi metastatici non-peritumorali, che rappresentano un

criterio di inoperabilità; gli stessi autori in un altro studio214 hanno dimostrato che l’EUS

ha una sensibilità maggiore rispetto alla TC nell’identificare la massa neoplastica (99% vs

57%), con una sensibilità del 94% per le neoplasie maligne e del 71% per quelle benigne,

ed è una procedura sicura dal momento che il tasso di complicanze si aggira intorno allo

0,5% (un caso di pancreatite moderata). Uno studio multicentrico retrospettivo215 ha però

confutato l’infallibilità dell’EUS, che non è stata in grado di identificare 20 neoplasie

pancreatiche nonostante fosse eseguita da 9 ecoendoscopisti esperti: esistono infatti

fattori di disturbo per la diagnosi che alterano l’ecostruttura ghiandolare, e sono la

pancreatite cronica, il carcinoma diffusamente infiltrante, il pancreas divisum e un

episodio recente di pancreatite acuta. L’EUS risulta molto accurata anche nello studio

delle neoplasie periampollari, che hanno una buona prognosi se diagnosticate

precocemente, potendo quindi modificare l’esito della terapia in questi pazienti216. Infine,

l’EUS ben si presta anche alla diagnosi differenziale delle lesioni cistiche pancreatiche,

sebbene i soli criteri morfologici non consentano di definirne accuratamente la natura

benigna o maligna a causa della non specificità e della scarsa concordanza fra operatori

diversi217.

Esame con ecoendoscopio lineare.

Nel corpo del pancreas si osserva una

neoformazione rotondeggiante, di

circa 35x30 mm, capsulata, con

aspetto ad alveare per la presenza di

molteplici cisti separate da setti.

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- ERCP: la colangiopancreatografia retrograda endoscopica, attraverso l’opacizzazione

diretta per via transpapillare del dotto di Wirsung e della via biliare principale, consente di

evidenziare stenosi dovute a neoplasia pancreatica, ma anche a neoplasia primitiva dei

dotti biliari, pancreatite cronica, pseudocisti pancreatiche o linfoadenomegalie peribiliari

di possibile natura neoplastica; la stenosi della VBP si presenta come una brusca

interruzione alla progressione del mezzo di contrasto immediatamente a monte della

papilla, determinando dilatazione della via biliare a monte e talvolta distensione marcata

della colecisti, frequentemente accompagnata da una concomitante stenosi del dotto di

Wirsung a livello cefalo pancreatico (segno del “doppio dotto”)218; tuttavia l’ERCP può

risultare di difficile o impossibile esecuzione nel caso di malattia avanzata che infiltri la

seconda porzione duodenale stenosandone il lume. Oggi l’ERCP, per la sua invasività

gravata da complicanze specifiche e per lo sviluppo di altre tecniche di imaging non

invasive, è stata soppiantata dal punto di vista diagnostico da TC e RM (quest’ultima, con

le sequenze colangiopancreatografiche, consente di ottenere immagini sovrapponibili a

quelle endoscopiche ma in modo non invasivo), conservando tuttavia un ruolo

diagnostico qualora occorra una conferma istologica prima di intraprendere una terapia

neoadiuvante o chirurgica: il campione può essere ottenuto mediante biopsie o brushing

delle vie biliari (quest’ultima è la metodica più utilizzata per la tipizzazione citologica delle

stenosi biliari o pancreatiche, sebbene la sua sensibilità per la diagnosi di neoplasia sia

molto bassa e comunque più alta per il colangiocarcinoma che non per le neoplasie

pancreatiche), o mediante citologia su bile, succo pancreatico (la presenza di muco nel

succo pancreatico è altamente suggestiva di IPMN) e materiale depositato sulle

endoprotesi; il campionamento citologico o istologico mediante ERCP è giustificato in

pazienti con sintomi da ostruzione biliare che possano essere alleviati dal drenaggio

biliare, mentre in pazienti asintomatici dovrebbe essere preferita l’EUS-FNA. Oltre ad

essere una procedura diagnostica, l’ERCP è soprattutto una procedura terapeutica, in

quanto consente l’inserimento di endoprotesi plastiche o metalliche nei pazienti con

neoplasia cefalopancreatica, frequentemente responsabile di ittero ostruttivo219, e

l’esecuzione di papillotomia.

ERCP in un paziente con carcinoma del pancreas avanzato. Brusca interruzione

alla progressione del mezzo di contrasto nel 1/3 inferiore della VBP (#) e nel tratto

cefalico del dotto di Wirsung (*): segno del “doppio dotto”.

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Figura 1.12

1.5 Patologia neoplastica del pancreas endocrino

I tumori neuroendocrini (NETs) rappresentano un insieme eterogeneo di neoplasie ad origine dal

sistema neuroendocrino diffuso (potendo quindi insorgere in qualsiasi distretto corporeo,

sebbene nei 2/3 dei casi si localizzino nel tratto GEP, gastro-entero-pancreatico) aventi un

comportamento biologico variabile, la cui frequenza è aumentata negli ultimi trent’anni (da 1 a 5

nuovi casi/100.000 abitanti/anno negli USA, secondo i registri SEER), non solo grazie al

miglioramento delle tecniche diagnostiche ma anche per un reale incremento della loro incidenza.

Tuttavia, l’incidenza clinica è sottostimata rispetto a quella autoptica: questa discrepanza trova

spiegazione in parte in un problema di diagnosi differenziale con affezioni di altra natura, in parte

nel fatto che la maggior parte dei NETs sono asintomatici perché non funzionanti, e in parte nel

fatto che anche nei casi sindromici (il 20% dei NETs è responsabile della produzione e del

riversamento in circolo di sostanze ormonali capaci di evocare segni e sintomi) l’eterogeneità dei

disturbi non fa pensare immediatamente a una neuroendocrinopatia. I principali fattori

prognostici per i NETs sono: la sede del tumore primitivo (i NETs pancreatici hanno prognosi

peggiore rispetto a quelli intestinali), lo stadio secondo il TNM (tabella 1.11), la classificazione

istopatologica della WHO (basata su dimensioni, numero di mitosi e Ki-67; quest’ultimo

parametro rappresenta il principale fattore prognostico, in quanto correla con la sopravvivenza

globale, con la progressione di malattia nei pazienti con NET pancreatico avanzato220,221 e con la

recidiva nei pazienti sottoposti a chirurgia curativa per NET pancreatico222), l’espressione dei

recettori per la somatostatina (quando espressi, il comportamento clinico è più favorevole), la

velocità di evoluzione del tumore, l’età del paziente.

I tumori neuroendocrini del pancreas hanno un’incidenza di 1/1.000.000/anno e colpiscono

prevalentemente il sesso femminile nella terza-quarta decade di vita, rappresentando il 2% di

tutte le neoplasie pancreatiche. I NETs non funzionanti rappresentano il 15% di tutte le neoplasie

neuroendocrine pancreatiche, si localizzano soprattutto a livello cefalopancreatico, alla diagnosi

hanno dimensioni >2 cm (non essendo associati a una sindrome clinica riconoscibile, ma solo

all’effetto massa sulle strutture circostanti) e più della metà ha già metastatizzato al fegato e ai

linfonodi. Dei NETs pancreatici funzionanti, gli insulinomi rappresentano il 70%, colpiscono

soprattutto il sesso femminile (M:F=4:6) fra i 40 e i 60 anni di età, nel 10% dei casi sono presenti

tumori multipli in un quadro di MEN1 di cui

l’insulinoma può essere parte, e la risultante

alterazione del metabolismo glucidico (la

classica triade di Whipple: sintomi da

ipoglicemia, glucosio plasmatico <40 mg/dL,

pronta remissione con l’assunzione di

zuccheri) rende conto della loro diagnosi

precoce; i gastrinomi rappresentano il 20%

dei NETs pancreatici, con incidenza massima

intorno ai 40 anni, e si localizzano

prevalentemente alla testa del pancreas (in

particolare, l’80% dei gastrinomi si trova

all’interno del cosiddetto triangolo di Passaro

e Stabile, vedi figura 1.12), presentandosi nel

70% dei casi con segni di patologia peptica

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gastroduodenale e nel 50% dei casi con diarrea acquosa o steatorrea (spesso l’unico sintomo)

nell’ambito della cosiddetta sindrome di Zollinger-Ellison, e il 25-50% di questi pazienti risulta

affetto da MEN1; i VIPomi colpiscono più frequentemente le donne (70%) e rappresentano il 2-8%

dei NETs pancreatici, determinano la cosiddetta sindrome di Verner-Morrison (diarrea acquosa,

ipokaliemia, acloridria) e sono localizzati prevalentemente a livello della coda pancreatica; i

glucagonomi rappresentano il 5% dei NETs pancreatici e l’8% dei tumori funzionanti, con picco di

incidenza nella quarta-quinta decade di vita prevalentemente nel sesso femminile, la quasi

totalità di essi è localizzata a livello della coda del pancreas, e si presentano con eritema

necrolitico migrante, iperglicemia, anemia normocitica, glossite e cheilite; i somatostatinomi sono

i NETs pancreatici più rari, la quasi totalità di essi origina a livello cefalopancreatico presso la

papilla del Vater, e determinano colelitiasi, diarrea e steatorrea, iperglicemia e anemia

normocitica.

La classificazione dei NET-GEP (WHO 2000) comprende due categorie maggiori, i NET ben

differenziati e i NET scarsamente differenziati: i tumori neuroendocrini ben differenziati

(tradizionalmente definiti carcinoidi) e i carcinomi neuroendocrini ben differenziati (carcinoidi

maligni, in presenza di una documentata aggressività clinica) appartengono alla prima categoria, il

carcinoma neuroendocrino scarsamente differenziato a piccole cellule alla seconda, e oltre a

queste due categorie esistono le neoplasie miste endocrino-esocrine (MANEC), caratterizzate dalla

simultanea presenza di due componenti, una esocrina ed una endocrina.

Un NET ben differenziato presenta architettura organoide (insulare o trabecolare),

monomorfismo cellulare, assenza di rilevanti atipie citologiche e basso indice mitotico, e i

marcatori citosolici, granulari e microvescicolari sono tutti intensamente e diffusamente espressi;

il carcinoma neuroendocrino scarsamente differenziato del tratto GEP ha invece un aspetto

prevalentemente solido, spesso con ampie zone di necrosi, alto grado di atipia citologica ed indici

mitotico e proliferativo elevati, e i marcatori citosolici (come l’NSE), quelli microvescicolari (come

la sinaptofisina) o di membrana (come l’NCAM-CD56) sono ben espressi, mentre i marcatori

granulari generici (come le cromogranine e gli ormoni specifici delle cellule APUD) sono assenti o

solo focalmente espressi223.

I criteri istopatologici tradizionali da soli, però, sono di scarso valore prognostico per i NET ben

differenziati, pertanto in questi ultimi anni sono stati presi in considerazione altri parametri:

- dimensioni del tumore (i tumori più voluminosi sono più aggressivi)224;

- invasione profonda, oltre la sottomucosa, della parete (stomaco, intestino)225 o invasione

di organi vicini (pancreas, appendice);

- architettura prevalentemente solida;

- presenza di estese aree di necrosi226;

- atipia cellulare con ridotto rapporto nucleo-citoplasmatico, distribuzione irregolare della

cromatina ed evidenza dei nucleoli;

- numero di mitosi per 10 campi ad alto ingrandimento (High Power Field - HPF) o per 2

mm2 > 2224-227;

- numero di nuclei Ki-67 positivi > 2% o > 150 per 10 HPF224,225,228;

- evidenza di angio- o neuroinvasione224,225;

- sdifferenzazione cellulare, con perdita o scarsa espressione di cromogranine e ormoni;

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- iperespressione nucleare di p53224,225;

- aneuploidia cellulare229,230.

I NET pancreatici sono perlopiù costituiti dalle cellule normalmente presenti nelle isole

pancreatiche (cellule α, β, δ, PP e ε), ma possono anche contenere cellule secernenti ormoni

ectopici (gastrina, VIP, GHRH, ACTH e calcitonina): queste cellule, nel caso dei tumori endocrini

ben differenziati, possiedono scarse atipie citologiche e abbondanti granuli secretori, e sono

disposte in trabecole, lobuli o aggregati solidi; nel caso dei carcinomi endocrini ben differenziati le

cellule presentano invece un’atipia citologica moderata, con nuclei ipercromatici e nucleoli ben

evidenti, mentre nei carcinomi endocrini scarsamente differenziati si presentano marcatamente

atipiche, con accumulo di p53 nel nucleo e angioinvasione.

In genere, i tumori confinati al pancreas, di diametro < 2 cm, senza segni di angioinvasione, con

numero di mitosi ≤ 2 x 10 HPF o 2 mm2 e Ki-67 ≤ 2% hanno un comportamento benigno; i tumori

con angioinvasione o numero di mitosi > 2 o Ki-67 > 2% sono a comportamento biologico incerto,

con aumentato rischio di comportamento maligno; i carcinomi endocrini ben differenziati

presentano mitosi tra 2 e 10 x 10 HPF, Ki-67 tra il 2% e il 10% ed è presente angio- e/o neuro

invasione, mentre quelli scarsamente differenziati presentano un indice mitotico > 10 x 10 HPF o 2

mm2, Ki-67 > 10%, segni di invasione locale e/o evidenza di metastasi loco-regionali o a distanza, e

hanno solitamente diametro attorno a 5-6 cm (Tabella 1.10).

Mentre la maggior parte degli insulinomi è benigna, gli altri tumori funzionanti sono perlopiù

maligni o a prognosi incerta.

La maggior parte dei NET-GEP si presenta in maniera sporadica, tuttavia circa il 5-10% di essi -

soprattutto se di origine pancreatica o dell’intestino prossimale - si manifestano nell’ambito di

complesse sindromi endocrine neoplastiche a trasmissione ereditaria, come la neoplasia

endocrina multipla di tipo 1 (MEN1), la sindrome di Von Hippel-Lindau (VHL), la neurofibromatosi

di tipo 1 (NF1) e la sclerosi tuberosa (TSC)231. Questo aspetto si ripercuote significativamente sulla

storia naturale della neoplasia, in quanto, mentre la diagnosi di NET-GEP sporadico viene

generalmente formulata verso la sesta decade di vita, la diagnosi di NET-GEP associato a sindromi

di predisposizione genetica avviene con un anticipo di circa tre decadi, talora in età

adolescenziale. Ma numerose alterazioni molecolari sono state riscontrate anche nei NET

sporadici, e si è visto che alcuni pattern molecolari sono associati a comportamento clinico più

aggressivo, metastatizzazione e prognosi infausta: ad esempio, i NET a grandi cellule poco

differenziati con un rapporto Bcl2/Bax > 1 mostrano una sopravvivenza a 5 anni del 12%, mentre

tumori dello stesso istotipo ma con un rapporto < 1 hanno una buona prognosi; inoltre, la perdita

dell’espressione di p16 si associa ad una malattia avanzata, e ciò è vero soprattutto per i tumori

che presentano un indice proliferativo più alto232.

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Tabella 1.10 (copyright ISS - Basi Scientifiche per Linee Guida)

Tabella 1.11 (copyright ISS - Basi Scientifiche per Linee Guida)

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Dal punto di vista clinico, le sindromi endocrine funzionali sono state descritte solo in

associazione ai NET-GEP ben differenziati, che rappresentano la maggior parte dei reperti

anatomo-patologici, in quanto dovute ad abnorme secrezione di una (monomorfa) o più

(polimorfa) molecole biologicamente attive, prodotte da un singolo citotipo o da linee cellulari

diverse che possono coesistere all’interno di uno stesso tumore; tuttavia, non sempre

l’iperincrezione ormonale neoplastica (tabella 1.12) determina una sindrome clinicamente

evidente, in quanto l’ormone prodotto può essere a bassa concentrazione, o avere scarsa attività

biologica, o ancora possono mancare i suoi recettori specifici, rendendo difficile la diagnosi

precoce o comunque ritardandola.

Tabella 1.12 (copyright ISS - Basi Scientifiche per Linee Guida)

La sindrome da carcinoide è una sindrome paraneoplastica dovuta a ipersecrezione di

serotonina da parte delle cellule enterocromaffini o enterochromaffin-like (ECL)

dell’apparato digerente, rappresenta circa il 40% delle forme funzionanti, e classicamente

si presenta con flushing cutaneo (spontaneo o indotto da stress psico-fisico, infezioni,

farmaci) e diarrea (di tipo secretorio, che non si modifica col digiuno, determinante

alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico), ma solo per NET che abbiano dato metastasi

epatiche (in quanto il loro drenaggio venoso avviene direttamente nel circolo sistemico,

bypassando la clearance epatica); inoltre, il 40-50% di questi pazienti presenta

cardiomiopatia da carcinoide, dovuta a fibrosi dell’endocardio delle sezioni destre del

cuore (perché le sostanze che inducono fibrosi attraverso l’up-regulation del TGF-β

vengono drenate nella cava inferiore e quindi nelle sezioni cardiache destre, venendo poi

inattivate durante il passaggio nel circolo polmonare), che si manifesta clinicamente con

insufficienza tricuspidale.

La sindrome di Zollinger-Ellison è presente nel 18% dei NET-GEP funzionanti, e il 90% dei

gastrinomi che si presentano clinicamente con questa sindrome si localizza nel triangolo

di Passaro-Stabile (in particolare a livello di II-III porzione duodenale e testa del pancreas);

è dovuta a ipersecrezione di gastrina, e si presenta con ulcere gastroduodenali (a causa

dell’ipersecrezione di acido cloridrico da parte delle cellule ossintiche dello stomaco,

conseguente all’ipersecrezione di gastrina), diarrea (di tipo secretorio e associata a

steatorrea; in virtù della sua eziopatogenesi si giova della terapia con inibitori di pompa

protonica) e dolori addominali.

La sindrome ipoglicemica da ipersecrezione di insulina è presente nel 33% dei NET-GEP

funzionanti ad origine dalle cellule β delle isole pancreatiche; l’ipersecrezione autonoma

di insulina che caratterizza gli insulinomi è responsabile della classica triade di Whipple:

crisi ipoglicemiche a digiuno, glicemia <40 mg/dL durante le crisi, e regressione della

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sintomatologia (neuroglicopenica e da attivazione adrenergica) dopo assunzione di

zuccheri.

La sindrome di Becker è manifestazione clinica dei glucagonomi (ad origine dalle cellule α

pancreatiche) e si presenta con il patognomico eritema necrolitico migrante (inizialmente

a carico della cute periorale e inguinale, poi diffuso alla cute di perineo, glutei e arti), con

sintomi riferibili all’iperglicemia (intolleranza glucidica o diabete franco refrattario alla

terapia insulinica) e con sintomi aspecifici (anemia, diarrea, cheilite angolare, glossite e

stomatite); nel 25% dei casi può altresì presentarsi con trombosi venosa profonda,

causata da una proteina tumorale simile a un fattore della coagulazione.

La sindrome da ipersecrezione di somatostatina determina inibizione delle secrezioni

endocrine ed esocrine del pancreas (determinando quindi l’insorgenza di diabete mellito

e di steatorrea) nonché della motilità del tubo digerente (causando diarrea e colelitiasi).

Infine, la sindrome di Verner-Morrison è conseguenza dell’ipersecrezione di VIP, e causa

diarrea acquosa (di tipo secretorio, che non si modifica col digiuno, e che può arrivare

anche fino a 20 litri/die), ipopotassiemia e acidosi metabolica (complicanze della diarrea

profusa, talvolta letali); per la sua azione glucagone-simile, talvolta il VIP può determinare

anche alterazioni del metabolismo glucidico.

I NET-GEP pancreatici non funzionanti, percentualmente più numerosi233, non si associano a

sindrome clinica perché non secernenti o, più spesso, perché producono e immettono in circolo

ormoni non biologicamente attivi; essendo quindi difficoltosa la diagnosi precoce, essi vengono

riscontrati occasionalmente durante indagini strumentali eseguite per altri motivi o quando già

metastatici e di dimensioni considerevoli. La sintomatologia da essi evocata comprende dolori

addominali, perdita di peso, anoressia e nausea.

I markers tumorali dosabili in laboratorio per lo studio dei NET-GEP si possono classificare in

generici (come l’enolasi neurone-specifica o NSE, la cromogranina A o CgA, l’antigene

carcinoembrionale o CEA, le subunità α e β della gonadotropina corionica umana o HCG,

l’alfafetoproteina o AFP, la proteina S100) e specifici (sostanze ad attività ormonale prodotte da

alcuni NETs: la serotonina plasmatica e il suo metabolita urinario acido 5-idrossi-indolacetico per il

carcinoide, la gastrinemia a digiuno per il gastrinoma, il rapporto tra insulina plasmatica e glicemia

per l’insulinoma, il peptide intestinale vasoattivo plasmatico per il VIPoma, la glucagonemia per il

glucagonoma, l’ormone polipeptidico pancreatico plasmatico per il PPoma, la somatostatina

circolante - soprattutto dopo stimolo con pentagastrina, calcio o secretina - per il

somatostatinoma).

La diagnostica per immagini ha un ruolo nella diagnosi, stadiazione e follow-up delle neoplasie

neuroendocrine pancreatiche, e può avvalersi di tecniche di imaging anatomiche ma anche

funzionali, quali:

- ecografia: le lesioni endocrine si presentano ipoecogene e a contorni netti rispetto al

parenchima pancreatico circostante; le neoplasie non funzionanti di grosse dimensioni

possono presentare aree iperecogene dovute a calcificazioni234, e un quadro color

Doppler tanto più ipovascolare quanto più maligne e con elevato indice mitotico235; le

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eventuali metastasi epatiche - che spesso rivelano la lesione primitiva pancreatica -

presentano lo stesso quadro vascolare della primitività;

- TC: la sensibilità della metodica è compresa tra il 71% e l’82% se il macchinario è dotato di

multidetettore, ed è ormai consolidato l’uso della tecnica bifasica (si acquisiscono due

sequenze, una in fase arteriosa e una in fase portale); l’insulinoma si presenta isodenso

nelle immagini basali e molto iperdenso in fase arteriosa per la spiccata neoangiogenesi, e

talvolta può determinare involuzione adiposa del parenchima collaterale; il gastrinoma è

poco riconoscibile prima dell’iniezione di MDC, mentre in fase arteriosa e portale ha

comportamento variabile, presentando comunque in fase tardiva il tipico orletto

iperdenso; il glucagonoma appare ipervascolare in fase arteriosa; il VIPoma e il

somatostatinoma presentano comportamento molto variabile all’imaging; i NETs non

funzionanti possono presentarsi indifferentemente ipo- o ipervascolarizzati;

- RM: è la metodica più sensibile per NETs <2 cm; questi si presentano ipointensi nelle

immagini T1 pesate e lievemente iperintensi nelle T2 pesate, mentre dopo iniezione di

gadolinio e sottrazione del segnale del tessuto adiposo risultano iperintensi nelle

immagini T1 pesate; l’iperintensità in fase arteriosa è tipica degli insulinomi, di alcuni

gastrinomi e dei glucagonomi; i NETs non funzionanti presentano comportamento molto

variabile: dopo iniezione di MDC possono apparire iper- o ipointensi in relazione alla

neoangiogenesi; le eventuali metastasi epatiche presentano caratteristiche di segnale

simili a quelle della lesione primitiva;

- EUS: tale metodica presenta elevata sensibilità e specificità nella diagnosi di NET

pancreatico-duodenale, localizzandolo correttamente nel 57-89% dei casi; portando la

sonda ad alta frequenza in prossimità della ghiandola, attraverso scansioni dal duodeno

(per la testa del pancreas) e dallo stomaco (per il corpo-coda), è possibile ottenere

immagini ad alta risoluzione del parenchima e dei dotti pancreatici, potendo cogliere

lesioni anche di 2-3 mm di diametro236,237; i NETs pancreatici presentano pattern

omogeneamente ipoecogeno (solo raramente disomogeneo per la presenza di aree

cistiche o calcifiche) e margini netti, talora con orletto ipoecogeno. Attualmente, per una

corretta localizzazione degli insulinomi pancreatici si può ricorrere a una combinazione di

TC spirale multidetettore e di EUS238,239, mentre resta problematica la localizzazione

preoperatoria dei gastrinomi, perché questi sono extrapancreatici fino al 50% dei casi, e

anche nel caso di localizzazione pancreatica questa non è esclusiva della testa (a livello del

cosiddetto triangolo del gastrinoma)240. Anche grazie alla possibilità di eseguire FNA, l’EUS

rimane in alcuni casi l’unica indagine che consenta diagnosi definitiva di insulinoma

pancreatico, e in pazienti asintomatici con MEN1 - i quali presentano tumori più piccoli e

spesso multipli - permette di diagnosticare e seguire nel tempo NETs subcentimetrici241-

243;

- Octreoscan: si tratta di una scintigrafia che utilizza un analogo radiomarcato della

somatostatina, l’111In-DTPA-octreotide, i cui recettori SSR-2 e -5 sono quelli maggiormente

espressi dai NET-GEP; la sensibilità di tale metodica è prossima al 100% per gastrinomi,

carcinoidi e NET ad origine pancreatica, riducendosi però al 70% per gli insulinomi (per la

loro minor espressione di SSR). Oltre all’indubbio vantaggio di essere una tecnica di

imaging total-body, l’Octreoscan consente anche una valutazione prognostica in base

all’espressione recettoriale e una selezione dei pazienti che possono beneficiare di un

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trattamento con analoghi della SS, oltre a evitare interventi chirurgici inutili in pazienti

con metastasi non visibili alle metodiche di imaging tradizionali244;

- PET: dei vari radiofarmaci proposti, differenti per affinità recettoriale245, il 68Ga-DOTA-NOC

si è dimostrato il migliore, e presenta biodistribuzione analoga a quella dell’111In-DTPA-

octreotide. Attualmente, il maggior costo e la minor disponibilità della PET la rendono di

seconda linea rispetto all’Octreoscan, tuttavia uno studio del 2007 condotto su 84

pazienti affetti da tumore neuroendocrino (non solo GEP) che ha confrontato le

metodiche di imaging più usate nello studio di tali tumori (TC, Octreoscan, PET) ha

decretato la superiorità in termini di sensibilità e specificità della PET, non solo

nell’evidenziare le lesioni primitive ma anche i secondarismi246.

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1.6 Sistema robotico da Vinci

Il sistema robotico da Vinci Si consta di tre

componenti fondamentali (figura 1.13):

una consolle, cioè la postazione di

controllo (posizionata esternamente al

campo sterile) dalla quale il chirurgo

opera attraverso i due master controllers

e la pedaliera per manovrare l’endoscopio

3D e gli strumenti EndoWrist della torre;

la risoluzione 1080i HD consente una più

precisa visualizzazione del target

anatomico, e il visore stereoscopico permette una visione 3D real-time grazie ai due canali

ottici indipendenti che trasmettono a ciascun occhio separatamente l’immagine

proveniente da due endoscopi da 5 mm contenuti all’interno di uno stesso stereo-

endoscopio; il visore stereoscopico mostra anche icone e messaggi sullo stato di sistema,

informando il chirurgo di eventuali cambiamenti o errori. La collocazione reciproca dei

master controllers rispetto al sistema binoculare consente di mantenere l’allineamento

occhi-mani come in chirurgia open, pur utilizzando una procedura minimamente invasiva.

Il chirurgo si siede su uno sgabello e appoggia gli avambracci sulla consolle, ma il trigger

per l’attivazione del sistema è l’avvicinamento al dispositivo di osservazione binoculare,

grazie a un raggio a infrarossi che oltre ad attivare la torre può anche disattivarla se il

chirurgo rimuove gli occhi dal dispositivo di visione, al fine di prevenire movimenti dei

bracci non intenzionali. Il chirurgo inserisce poi le dita all’interno dei due master

controllers, simili a joystick da muovere nello spazio d’azione della consolle, che

trasformano il segnale meccanico in elettrico trasmettendolo ai bracci meccanici: il

touchscreen consente di stabilire la scala dei movimenti tra quelli delle mani nel campo

operatorio vitruale e quelli degli strumenti nel paziente, scegliendo tra una scala 1:1, 3:1 o

5:1 (quanto più il movimento dovrà essere preciso, tanto più il rapporto da impostare sarà

elevato) anche più volte durante uno stesso intervento in relazione al tipo di manovre da

eseguire. Il computer inoltre è in grado di filtrare il fisiologico tremore delle mani del

chirurgo, in modo che non si traduca in analoghi movimenti degli strumenti robotici. Per

migliorare la sua posizione all’interno dell’area di lavoro o per evitare collisioni tra i

master controllers, il chirurgo può usare il pedale clutch che consente di sganciare il

movimento dei master controllers da quello degli strumenti robotici, ma esiste anche un

pulsante finger clutch su ciascun master controller per poterli riposizionare

singolarmente. Il poggia-braccia è stato dotato di un touchscreen - visibile senza

rimuovere gli occhi dal visore - che consente di collocare il dispositivo di visione

binoculare a un’altezza confortevole, di impostare la scala dei movimenti, di controllare le

impostazioni video e audio e l’accensione o lo spegnimento del sistema, di gestire

consolle accessorie e la modalità di visione a più immagini (visualizzazione TilePro, che

mostra l’immagine 3D del campo operatorio insieme ad altre due immagini nel terzo

inferiore dello schermo, possibile premendo una volta sola il pedale in basso a sinistra che

attiva i canali video di ingressi ausiliari): tali impostazioni di lavoro possono essere

Figura 1.13

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memorizzate in un profilo utente esclusivo che l’operatore può richiamare ad ogni utilizzo

del sistema. Alla base della consolle troviamo: due file di pedali a destra, una per il taglio e

una per il coagulo di ciascun braccio, per controllare le diverse modalità di erogazione

dell’energia; una fila di pedali a sinistra, di cui quello in alto blocca gli strumenti

nell’ultima posizione acquisita così da poter riposizionare i master controllers, mentre

tenendo premuto quello in basso si svincolano i master controllers dal controllo degli

strumenti passando a controllare l’endoscopio; un pedale laterale sinistro, per shiftare al

controllo del terzo braccio e viceversa.

una torre, che sorregge e manovra ottica e strumenti chirurgici attraverso i suoi quattro

bracci articolabili che seguono i comandi imposti dal chirurgo attraverso la consolle;

rispetto alla metodica mini-invasiva tradizionale, gli strumenti chirurgici presentano

un’articolazione interna, detta EndoWrist, che li dota di ben sette gradi di libertà di

movimento e 90° di angolazione, per un range di movimento addirittura superiore a

quello della mano umana; il sistema è inoltre in grado di rendere i movimenti della mano

più precisi, fluidi e senza scatti, eliminando il fisiologico tremore. La tecnologia a centro

remoto (il punto fisso nello spazio attorno al quale si muovono i bracci articolabili) di cui il

sistema da Vinci fa uso consente di manipolare strumenti ed endoscopi all’interno del sito

chirurgico minimizzando la forza esercitata sulla parete addominale del paziente: ciascun

braccio si compone di due parti, una snodata, la cui posizione viene impostata all’inizio

dell’intervento, e una motorizzata, comandata dalla consolle di comando attraverso cavi

in fibra ottica; inoltre, ciascun braccio è dotato di due pulsanti: un pulsante port clutch

per i movimenti grossolani del braccio, e un pulsante camera/instrument clutch per

regolare la traiettoria finale del braccio durante il docking e per inserire e rimuovere gli

strumenti o l’endoscopio, in quanto se non si azionasse il clutch il braccio opporrebbe

resistenza al movimento tornando nella posizione originaria. Dei bracci, due - i principali -

rappresentano le mani del chirurgo, e uno - di ausilio - esegue eventuali manovre

complementari, e tutti dispongono di accessori sterili da posizionare durante il draping (la

procedura di copertura sterile) affinchè i bracci possano avere un adeguato range di

movimento (non ostacolato da una copertura sterile troppo stretta); in corrispondenza

del pulsante instrument/camera clutch è presente una luce LED che illuminandosi di

azzurro, verde o giallo comunica lo stato del braccio. Per quanto riguarda il braccio della

telecamera, questo è dotato di un trocar mount, ovvero di un supporto di ancoraggio al

trocar, che va allineato con il centro della colonna del patient cart in modo che

estendendo il braccio-camera ci siano 50 cm a separarne il retro dal carrello: tale distanza

ottimale, che consente un range di movimento dei bracci evitandone al tempo stesso

collisioni, è detta sweet spot. Dopo aver posizionato i trocars in laparoscopia (figura 2.3) e

aver posto il tavolo operatorio in leggero anti-Trendelemburg (figura 2.2), si procede al

docking: il braccio-camera viene connesso per primo bloccando il trocar mount al trocar,

poi vengono posizionati i bracci degli strumenti attaccandoli ai trocar mediante uno scatto

dei dispositivi montati su ciascun braccio, controllando infine che vi sia la giusta distanza

di ogni braccio e che nessun braccio eserciti pressione sul paziente; l’endoscopio viene

prima inserito nel trocar e bloccato all’interno del trocar mount, e poi viene fatto

avanzare nel campo operatorio usando il pulsante camera clutch; gli strumenti EndoWrist

vengono tutti posizionati sotto visione laparoscopica, inserendoli nel trocar all’interno di

un adattatore e facendoli poi avanzare nel campo operatorio premendo il pulsante

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instrument clutch; per poter rimuovere lo strumento, il chirurgo deve riallinearne il wrist

per consentire all’assistente di estrarlo dopo aver premuto la leva di rilascio: col “cambio

strumento guidato” di cui dispone il da Vinci, il nuovo strumento inserito viene

posizionato 1 mm meno profondamente rispetto alla posizione del precedente strumento

rimosso, come misura di sicurezza.

un carrello, contenente la tecnologia ausiliaria (monitor, insufflatore di CO2, doppia

sorgente di luce ad alta intensità, unità videocamera e strumenti elettromedicali)

necessaria al funzionamento del sistema e all’esecuzione dell’intervento.

1.7 Modalità di esecuzione robotica della procedura

Il paziente, in decubito supino, è posto in posizione di leggero anti-Trendelemburg su un tavolo

operatorio con sezione delle gambe divisa (figura 1.14). Indotto lo pneumoperitoneo mediante

infissione di ago di Veress (collegato ad uno strumento in grado di insufflare gas con flusso e

pressione regolabili dall´esterno) in regione sottombelicale, viene introdotto in sede

paraombelicale destra un trocar da 12 mm per l’ottica. Quindi, sotto visione, sono introdotti altri

4 trocar operativi: tre da 7 mm per gli strumenti robotici (in sede sottocostale sinistra, destra e al

fianco sinistro) e l’ultimo accessorio (in sede sottombelicale), disposti come in figura 1.15.

L’intervento inizia con l’esplorazione della cavità addominale, in modo da evidenziare eventuale

patologia occasionale o carcinosi peritoneale, per poi procedere con le seguenti fasi:

sezione del legamento gastrocolico ed apertura della retrocavità degli epiploon;

mobilizzazione del colon di destra, kocherizzazione del duodeno e sezione del legamento

di Treitz con retrazione dell'angolo duodenodigiunale;

linfoadenectomia lungo il legamento epatoduodenale (stazioni 12a-c), lungo l'arteria

epatica (8a e 8p) fino al tripode celiaco (9) e lungo il lato destro dell'arteria mesenterica

superiore (14a-d);

isolamento dell’arteria epatica comune; isolamento della vena porta sottoepatica e della

vena mesenterica superiore, sotto il corpo del pancreas, attraverso la creazione di un

tunnel retropancreatico;

isolamento del duodeno appena sotto il piloro e sua sezione con EndoGIA da 45 mm;

dopo la completa mobilizzazione del pancreas, sezione della ghiandola a livello del collo,

utilizzando il bisturi ad ultrasuoni;

sezione del digiuno a livello della prima ansa mediante EndoGIA da 45 mm e

duodenocefalopancreasectomia con conservazione del piloro;

la fase ricostruttiva (secondo Child) prevede (figura 1.16)247: anastomosi pancreatico-

digiunale termino-laterale in duplice strato con punti staccati di lino; anastomosi epatico-

digiunale (7-10 cm distalmente alla pancreaticodigiunostomia) termino-laterale in doppio

strato in PDS 6-0, e anastomosi duodeno- o gastro-digiunale (10-15 cm a valle rispetto alla

epaticodigiunostomia) in duplice strato sulla medesima ansa a decorso retromesenterico;

laparotomia sovrapubica tipo Pfannenstiel ed estrazione del pezzo operatorio all'interno

di una endobag;

al termine della procedura, dopo il risultato dell’esame istologico estemporaneo,

posizionamento di due drenaggi di Redon in sede sottoepatica destra (nella tasca di

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Figura 1.16: ilo epatico dopo la fase demolitiva e prima della fase ricostruttiva: è possibile

apprezzare la vena porta scheletrizzata (freccia bianca), l’ansa digiunale (freccia blu) pronta per

l’anastomosi col moncone pancreatico (freccia rossa) e la via biliare (freccia gialla).

Morrison) e due in sede peripancreatica, e sutura dell’incisione di servizio e degli accessi

laparoscopici.

Figura 1.14 Figura 1.15: in blu i trocars da 7 mm, in verde il

trocar da 12 mm per l’ottica, in rosso il trocar

accessorio da 7 mm

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1.8 Modalità di esecuzione open della procedura

Incisione sottocostale bilaterale di Chevron (figura 1.17), esplorazione della cavità addominale alla

ricerca di metastasi epatiche e peritoneali; manovra di Kocher (mobilizzazione mediale di C

duodenale e testa del pancreas dopo aver inciso il peritoneo posteriore subito a lato del duodeno,

per esporre la vena cava inferiore) (figura 1.18)248 e manovra di Cattell-Braasch (manovra di

Kocher allargata che consente un’esposizione più ampia del peritoneo, attraverso un’incisione del

peritoneo posteriore in direzione caudale seguendo la linea bianca di Toldt lateralmente al colon

destro; mobilizzando medialmente il colon destro si ha accesso a tutta la vena cava inferiore

sottoepatica); la dissezione comincia dal margine libero della retrocavità degli epiploon,

identificando dotto biliare comune, arteria epatica destra e vena porta, e valutando i rapporti

della neoplasia con l’arteria mesenterica superiore per definirne la resecabilità; preparare la vena

mesenterica superiore fino a definire il suo passaggio sotto il pancreas nel suo margine inferiore,

ed eseguire la tunnelizzazione del pancreas, che viene sollevato su fettuccia (questo passaggio ci

permette di visualizzare la vena porta e di preparare in seguito il margine superiore del pancreas);

rimozione della colecisti con la via biliare principale sezionandola al di sopra dell’imbocco del

dotto cistico; identificare l’arteria epatica propria e prepararla in direzione dell’arteria epatica

comune per identificare con certezza l’arteria gastroduodenale prima di sezionarla; si esegue la

sezione del pancreas al davanti del tronco mesenterico-portale, in blocco con la resezione del

duodeno e dello stomaco distale (dopo aver effettuato la dissezione del legamento

epatoduodenale e aver liberato la piccola e grande curvatura gastrica, nella DCP classica secondo

Whipple; nella DCP con conservazione del piloro secondo Traverso-Longmire invece bisogna

preservare tutto lo stomaco e 2 cm del duodeno prossimale con relativa vascolarizzazione); a

questo punto si passa alla fase ricostruttiva: per quanto riguarda il moncone pancreatico le due

anastomosi più utilizzate sono la pancreatico-digiunostomia (eseguita invaginando il pancreas

resecato nel digiuno, oppure con tecnica dutto-mucosa con anastomosi diretta del dotto

pancreatico alla mucosa del digiuno) e la pancreatico-gastrostomia (anastomosi tra moncone

pancreatico e stomaco) suturando in termino-laterale, a seguire si effettuano l'epatico-

digiunostomia e la gastro-digiunostomia (nella DCP secondo Whipple)/duodeno-digiunostomia

(nella DCP secondo Traverso-Longmire).

Figura 1.17 (copyright CCF 2003) Figura 1.18

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Le principali complicanze di tale intervento sono di ordine chirurgico o medico, e graduabili

secondo la classificazione di Clavien-Dindo (figura 1.19):

fistola pancreatica (POPF), secondo la classificazione ISGPF (International Study Group on

Pancreatic Fistula)249

o di grado A o “fistola transitoria”: necessita solo di un lieve aggiustamento della

normale gestione post-operatoria, ma non c’è indicazione all’uso di somatostatina

o antibiotici nè alla nutrizione parenterale; la TC non mostra raccolta fluida

peripancreatica; non determina prolungamento dei tempi di ospedalizzazione,

viene trattata rimuovendo i drenaggi in modo più lento e cauto del normale;

o di grado B: richiede l’impostazione di nutrizione parenterale totale o enterale e

mantenimento in sede dei drenaggi peripancreatici; alla TC si apprezzano raccolte

che necessitano del riposizionamento dei drenaggi stessi; se si associano febbre,

leucocitosi e/o dolore addominale è necessaria una terapia antibiotica oltre

all’uso di analoghi della somatostatina; i tempi di ricovero si prolungano o si

rende necessario un nuovo ricovero, e spesso questi pazienti vengono dimessi

con i drenaggi ancora in sede e mantenuti sotto stretta osservazione

o di grado C: a fronte di un quadro clinico instabile vengono istituiti protocolli di

nutrizione parenterale totale o enterale, associati all’uso di somatostatina o

analoghi e antibiotici endovena, spesso in regime di ricovero presso un’unità di

terapia intensiva; il paziente necessita di lunghi tempi di ricovero

DGE (delayed gastric emptying), secondo la classificazione ISGPF250

o di grado A: se il SNG (sondino naso-gastrico) viene lasciato in sede fino alla IV-VII

GPO (giornata post-operatoria) o viene reinserito dopo la III GPO a causa di

nausea e vomito in seguito alla rimozione, o se il paziente riprende ad alimentarsi

per os con dieta solida in VIII-XIV GPO

o di grado B: se il SNG viene lasciato in sede fino alla VIII-XIV GPO o viene reinserito

dopo la VII GPO, o se il paziente riprende ad alimentarsi per os con dieta solida in

XV-XXI GPO; vi è indicazione all’uso di procinetici e al supporto nutrizionale

(enterale o parenterale) per le prime 3 settimane post-operatorie

o di grado C: se il SNG non può essere rimosso o viene reinserito dopo la XIV GPO, o

se il paziente non è in grado di riprendere l’alimentazione per os entro la XXI GPO;

è necessario un prolungato supporto nutrizionale (>3 settimane dopo

l’intervento), e l’inizio della terapia adiuvante è posticipato

raccolte intraddominali

emorragia

infezione di ferita

complicanze metaboliche (diabete, insufficienza pancreatica esocrina)

complicanze rare:

o fistola biliare, duodenale, gastrica

o insufficienza cardiaca, polmonare, epatica, renale

o pancreatite

o ulcera anastomotica

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Figura 1.19 (copyright ISS - Basi Scientifiche per Linee Guida)

La DCP trova indicazione nei casi di adenocarcinoma duttale pancreatico (NCCN guidelines,

tabella 1.13), pancreatite cronica, tumori neuroendocrini del pancreas, tumori cistici del pancreas

(tra cui l’IPMN), tumore della via biliare (coledoco distale), tumore dell’ampolla del Vater, tumori

del duodeno, trauma pancreatico (di grado IV secondo la classificazione AAST).

Tabella 1.13 - Criteri di resecabilità dell’adenocarcinoma della testa del pancreas

Resectable Borderline resectable Unresectable

assenza di metastasi a distanza

assenza di metastasi a distanza

metastasi a distanza

chiaro clivaggio del tessuto adiposo intorno a tronco celiaco e arteria mesenterica superiore

coinvolgimento del tronco mesenterico-portale con possibilità di ricostruzione

encasement dell’arteria mesenterica superiore > 180°, qualsiasi abutment del tronco celiaco

nessun coinvolgimento (contatto, distorsione, trombosi neoplastica, deformazione) del tronco mesenterico-portale

abutment dell’arteria mesenterica superiore <180°

occlusione del tronco mesenterico-portale non ricostruibile

abutment/encasement dell’arteria epatica con possibilità di ricostruzione

invasione/encasement dell’aorta

occlusione della vena mesenterica superiore per un breve tratto e con possibilità di ricostruzione

metastasi linfonodali al di là del campo di resezione

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1.9 Resezioni vascolari

Il carcinoma del pancreas, al momento della diagnosi, è una malattia sistemica nel 98% dei casi251;

tuttavia, in assenza di metastasi a distanza macroscopicamente visibili, la resezione chirurgica

rappresenta, ad oggi, lo standard terapeutico252. Una delle controindicazioni alla resezione

chirurgica è il cosiddetto carcinoma del pancreas "localmente avanzato", sebbene non ne esista

una definizione vera e propria in letteratura: tuttavia, nel gruppo dei pazienti con carcinoma del

pancreas “localmente avanzato”, sono considerati candidabili a chirurgia resettiva coloro i quali

presentano tumore che invade gli organi adiacenti o associato a metastasi linfonodali252, al

contrario di coloro i quali presentano coinvolgimento dei vasi peripancreatici maggiori,

tradizionalmente considerato una controindicazione all’intervento resettivo253. Ad oggi, le

resezioni dell’asse venoso mesenterico-portale per carcinomi del pancreas che hanno un contatto

od un’infiltrazione dello stesso non sono più considerate, dalla maggior parte dei chirurghi, una

controindicazione ad una chirurgia radicale: nel 2008, infatti, nella Consensus Conference della

AHPBA (American Hepato-Pancreatico-Biliary Association), le resezioni venose sono state definite

come uno standard terapeutico, mentre fino a una decina d’anni fa avrebbero rappresentato un

criterio di inoperabilità; nel dettaglio, il panel di esperti si è pronunciato su quattro punti

fondamentali formulando altrettanti consensus statements254:

- linfadenectomia: basandosi su quattro studi clinici controllati randomizzati e prospettici

per un totale di 424 pazienti, si è visto che la linfadenectomia estesa non conferisce un

vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto a quella standard, e anzi può associarsi a

una compromissione della qualità di vita soprattutto nell’immediato periodo post-

operatorio; è necessaria una collaborazione tra il chirurgo e l’anatomopatologo per

assicurare un numero sufficiente di linfonodi da analizzare per ottimizzare lo staging della

neoplasia;

- resezione vascolare: la DCP associata a resezione e ricostruzione venosa è lo standard di

trattamento dell’adenocarcinoma della testa del pancreas con coinvolgimento locale della

vena porta/vena mesenterica superiore, a patto che non vi sia coinvolgimento dell’arteria

mesenterica superiore o dell’arteria epatica e che sia ragionevole aspettarsi una resezione

R0/R1;

- margini di resezione: il raggiungimento di margini R0 è il principale obiettivo della DCP per

il suo impatto sulla sopravvivenza, e il margine di resezione dell’arteria mesenterica

superiore è il più importante determinante di tale outcome; l’impatto di un margine di

resezione microscopicamente positivo (R1) sull’outcome clinico è incerto, ma una terapia

adiuvante multimodale può recuperare tale margine R1 portando la sopravvivenza ai

livelli di un margine R0;

- chirurgia palliativa: nonostante l’obiettivo del trattamento chirurgico del carcinoma

pancreatico sia l’ottenimento di una resezione R0, tale obiettivo non viene raggiunto in un

30% dei pazienti sottoposti alla procedura, anche nei centri maggiori; quindi un approccio

aggressivo da parte di un chirurgo esperto risulta appropriato in vista dell’ottenimento di

una resezione R0, tenendo presente però che alcune resezioni risulteranno comunque

essere R1 o addirittura R2; alcuni studi dimostrano che una resezione con margini positivi,

nel caso di un tumore cefalopancreatico giudicato unresectable all’atto della laparotomia

perché localmente invasivo (ma in assenza di malattia metastatica), possa comunque

conferire un vantaggio in termini di sopravvivenza e di qualità di vita rispetto al bypass

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biliare e/o gastrico, senza incrementare morbidità o mortalità peri-operatoria; la

resezione palliativa non trova un ruolo invece nel tumore pancreatico metastatico o che

appaia localmente avanzato già in fase pre-operatoria.

La prima resezione e ricostruzione della vena mesenterica superiore fu eseguita da Moore nel

1951255, e a seguire furono descritte diverse tecniche di ricostruzione della vena mesenterica

superiore e/o della vena porta, fino ad arrivare a Symbas, il quale concluse che i graft venosi

autologhi rimanessero pervi più a lungo rispetto a quelli in materiale sintetico256.

Nel 1973 Fortner introdusse il concetto di “pancreasectomia regionale” a indicare la resezione

sistematica delle strutture vascolari peripancreatiche insieme ad un’ampia resezione dei tessuti

molli, compresa una linfadenectomia estesa257: l’intervento di Fortner di tipo I comprendeva una

pancreasectomia totale associata alla resezione di un segmento di vena porta, dei vasi colici medi

con un tratto di mesocolon trasverso, dei linfonodi regionali, la gastrectomia subtotale, la

splenectomia e la scheletrizzazione di vena porta, arteria epatica, tripode e arteria mesenterica

superiore, mentre il tipo II aggiungeva la resezione dell’asse celiaco, dell’arteria epatica e/o

dell’arteria mesenterica superiore; tale procedura prese piede soprattutto in Giappone, dove la

resezione in blocco di pancreas e strutture circostanti era giustificata dalla volontà di prolungare

la sopravvivenza del paziente258, ma contrariamente a quanto ritenuto da Fortner e altri non è

stato dimostrato un beneficio in termini di sopravvivenza259.

Le pancreasectomie con resezione vascolare vengono spesso considerate interventi ad elevato

rischio peri-operatorio e di scarso significato oncologico, ma in realtà da un’analisi dei risultati

riportati in letteratura queste obiezioni non paiono oggi confermate: possiamo, infatti, osservare

come in Centri ad alto volume di chirurgia pancreatica e con esperienza in pancreasectomie con

resezione vascolare sia la morbilità che la mortalità risultino contenute e non dissimili da quelle

della chirurgia pancreatica tradizionale (tabella 1.14), ma bisogna tenere in considerazione alcuni

punti importanti: il rischio peri-operatorio delle pancreasectomie associate a resezione vascolare

(spesso considerato proibitivo), l’intento delle resezioni vascolari (radicale o palliativo), i risultati a

lungo termine, su chi e quando eseguire le resezioni vascolari.

Tabella 1.14 - Morbilità e mortalità delle pancreasectomie associate a resezione vascolare

Autore Anno N Mortalità (%) Morbilità (%)

Boggi260 2009 110 3 33

Yekebas261 2008 136 3.7 40.3

Fukuda262 2007 37 2.7 32.4

Riediger263 2006 53 3.8 23

Tseng253 2004 141 2 21

Poon264 2004 12 0 41.7

Capussotti265 2003 22 0 33.3

Sasson266 2002 37 2.7 35

Leach267 1998 31 0 30

Totale 579 1.9 32.2

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Per quanto riguarda le resezioni vascolari in un contesto di carcinoma del pancreas borderline

resectable (tabella 1.13), queste possono essere “di necessità” qualora ci si trovi di fronte a una

impossibilità tecnica di asportare il tumore senza resecare un segmento vascolare (in questo caso

la resezione è solitamente minimale e non con intento radicale), oppure “di principio” se

pianificata sulla base degli esami pre-operatori e avente come unico intento quello di ottenere

una radicalità locale (infatti, pur trattandosi di una malattia sistemica, con una resezione R0 si

riesce a limitare mortalità e morbilità268); quindi, la resezione vascolare (eseguita con tecnica no

touch) viene eseguita non solo quando ci siano chiari segni di infiltrazione vascolare, ma anche per

tumori che alla TC pre-operatoria presentino contatto col vaso (il tumore non necessariamente

invade il vaso, ma la resezione vascolare ha lo scopo di garantire il raggiungimento dell’R0)269.

Un lavoro recentemente pubblicato da Boggi et al.260 dimostra come la pancreasectomia con

resezione di un singolo vaso (venoso o arterioso) consenta una mediana di sopravvivenza simile a

quella delle pancreasectomie convenzionali (15 mesi) e come, comunque, vi sia un vantaggio

significativo di sopravvivenza se si paragona questo gruppo di pazienti ad un gruppo di soggetti di

pari stadio sottoposti a terapia palliativa per cancro del pancreas localmente avanzato; al

contrario, soggetti sottoposti a resezioni artero-venose di segmenti vascolari multipli hanno una

mediana di sopravvivenza di 8 mesi (non troppo dissimile dai pazienti sottoposti a trattamenti

palliativi). Nel dettaglio, 110 pazienti sottoposti a DCP con resezione e ricostruzione dei vasi peri-

pancreatici sono stati comparati retrospettivamente a 62 pazienti senza metastasi a distanza

sottoposti a palliazione e a 197 pazienti sottoposti a DCP convenzionale; morbidità e mortalità

post-operatoria sono risultate simili nei tre gruppi, mentre la sopravvivenza mediana dei pazienti

sottoposti a resezione vascolare (15 mesi) è maggiore rispetto ai pazienti sottoposti a palliazione

(6 mesi; p<0.0001) e simile a quella dei pazienti sottoposti a DCP convenzionale (18 mesi); i

pazienti sottoposti a resezione venosa isolata (n=84) hanno l’outcome migliore (sopravvivenza

mediana di 15 mesi; p<0.0001 vs pazienti sottoposti a palliazione), mentre quelli sottoposti a

multiple resezioni vascolari (n=14) l’outcome peggiore (8 mesi); l’infiltrazione dei vasi peri-

pancreatici, istologicamente dimostrata in 64 pazienti (65%), è associata a ridotta sopravvivenza

(11 mesi; p<0.001) solo se l’intima risulta infiltrata (26%); l’analisi multivariata ha dimostrato che il

non aver eseguito terapia adiuvante, l’invasione dell’intima e un’istologia scarsamente

differenziata sono associate a un maggiore mortalità; in conclusione, la DCP associata a resezione

e ricostruzione vascolare in pazienti selezionati è sicura quanto la palliazione o la DCP

convenzionale, e associata a maggior sopravvivenza se paragonata alla sola palliazione.

Analogamente, Abramson et al.270 hanno concluso che in pazienti con cancro del pancreas

sottoposti a pancreasectomia le resezioni venose sembrerebbero offrire un vantaggio in termini di

sopravvivenza rispetto alla chemioterapia palliativa ogni qualvolta si riesca a contenere la

mortalità peri-operatoria al di sotto del 31% e la percentuale di pazienti con residuo di malattia

(sia R1 sia R2) al di sotto del 77%. Scoraggianti, invece, i risultati delle resezioni di più segmenti

vascolari (arteriosi e venosi) eseguite per cancri del pancreas "realmente" localmente avanzati,

con sopravvivenze simili a quelle dei pazienti trattati con la sola terapia palliativa260.

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Figura 1.20

Per quanto riguarda la resezione

venosa, ne esistono di cinque tipi

(figura 1.20)249: resezione tangenziale

della confluenza mesenterico-portale

riparata usando un patch di vena

grande safena (V1), resezione della

confluenza con legatura della vena

splenica seguita da anastomosi

primaria termino-terminale se i

monconi possono essere riavvicinati

senza sviluppare eccessiva tensione

(V2) o in caso contrario attraverso

interposizione di graft autologo di

giugulare interna (V3), resezione

limitata alla vena mesenterica

superiore senza necessità di legatura

della vena splenica seguita da

anastomosi primaria termino-

terminale (V4) o attraverso

interposizione di graft autologo (V5).

In conclusione, le pancreasectomie associate a resezione vascolare in pazienti con

adenocarcinoma duttale del pancreas, se eseguite in Centri ad alto volume, sono interventi sicuri

e con un tasso di complicanze sovrapponibile a quello delle pancreasectomie convenzionali: la

resezione venosa isolata rappresenta oggi lo standard di trattamento di tumori infiltranti l’asse

venoso, con sopravvivenze paragonabili a quelle delle pancreasectomie senza resezione

vascolare; al contrario, la resezione combinata artero-venosa sembra avere implicazioni

prognostiche negative, pertanto dovrà essere rivalutata come parte di un eventuale trattamento

multimodale.

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CAPITOLO 2 - MATERIALI E METODI

2.1 Selezione dei pazienti

Lo studio, di tipo retrospettivo-prospettico, si basa sui dati precedentemente raccolti in un

database elettronico (Microsoft Excel) e su ulteriori dati prospettici inseriti nel corso dello studio,

relativi ai pazienti sottoposti dal Febbraio 2007 al Febbraio 2016 a

duodenocefalopancreasectomia (DCP) con tecnica mini-invasiva robot-assistita o con tecnica

tradizionale open presso la U.O. Chirurgia Generale e dei Trapianti dell’AOUP.

I dati analizzati includono: età, genere, BMI, familiarità, fattori di rischio, comorbilità, pregressi

interventi chirurgici, sintomatologia, tempo tra diagnosi e ricovero, esami strumentali ed esami

ematochimici pre-operatori, tipologia di intervento, durata dell’intervento, dati relativi al decorso

post-operatorio, dati relativi alla diagnosi istologica e al follow-up a breve e a lungo termine.

La popolazione generale da cui abbiamo estratto il nostro campione è costituita da 306 pazienti

sottoposti a chirurgia open e 106 a chirurgia mini-invasiva robot-assistita.

I pazienti sottoposti a intervento open (74,3%; n=306) hanno un’età media di 66,7±12,1 (range

14-89) anni e sono per il 55,2% (n=169) maschi, con un BMI medio di 24,9±3,6 (range 14,2-34,8);

l’82,1% delle DCP open è stato eseguito con conservazione del piloro secondo Longmire-Traverso,

mentre il restante 17,9% secondo Whipple.

I pazienti sottoposti a intervento laparoscopico robot-assistito (25,7%; n=106), invece, hanno

un’età media di 60,0±13,9 (range 25-84) anni e sono per il 57,5% (n=61) femmine, con un BMI

medio di 24,0±3,6 (range 18,1-34,0); il 91,3% delle DCP mini-invasive è stato eseguito secondo

Longmire-Traverso, mentre il restante 8,7% secondo Whipple.

Il nostro campione è stato estratto dalla popolazione generale sopra descritta applicando dei

criteri di selezione per rendere il più possibile omogenei i due gruppi da confrontare (open vs

robotico):

- sono stati esclusi dallo studio pazienti con diagnosi istologica di patologia pancreatica

benigna o a bassa malignità, sia perché questa merita un trattamento differente da quello

della patologia maligna in termini di radicalità e di linfadenectomia, sia perché lo studio

ha voluto soffermarsi sull’analisi della sopravvivenza a lungo termine e della

sopravvivenza libera da malattia (DFS, disease-free survival), la quale ha senso

relativamente alla patologia maligna;

- sono stati esclusi dallo studio i pazienti sottoposti a resezioni vascolari, poiché il 92,3%

(n=108) di queste è stato eseguito con approccio open e solo il 7,7% (n=9) con approccio

laparoscopico robot-assistito; trattandosi di una procedura chirurgica complessa,

sbilanciata all’interno di uno dei due gruppi, abbiamo deciso di escludere i pazienti

sottoposti a tale procedura.

Il campione estrapolato è stato quindi suddiviso in due gruppi: gruppo A, comprendente 122

pazienti sottoposti a DCP con approccio open, e gruppo B, comprendente 52 pazienti operati con

il sistema robotico da Vinci.

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64

2.2 Analisi statistica

Per effettuare l’analisi statistica dei dati in studio, è stato usato il test T di Student per campioni

indipendenti per confrontare le variabili quantitative con distribuzione normale, mentre per

variabili quantitative con distribuzione non gaussiana è stato usato il test non parametrico di

Mann-Whitney, utilizzando un livello di significatività p<0.05 per entrambi.

Per le variabili qualitative invece sono stati usati l’Odds ratio e il test chi-quadrato di Fisher,

sempre adottando un livello di significatività p<0.05.

Per l’analisi della sopravvivenza è stato usato il metodo di Kaplan-Meier.

La descrizione delle singole variabili è stata espressa sia in termini di media e deviazione standard,

sia come mediana e range.

2.3 - Casistica

I pazienti del gruppo A hanno un’età media di 68 (range 34-88) anni e sono per il 58,2% (n=71)

maschi. I pazienti del gruppo B hanno un’età media di 65,4 (range 42-83) anni e sono per il 61,5%

(n=32) maschi (tabella 2.1).

I pazienti dei due gruppi sono risultati essere omogenei per età e BMI, in assenza di una differenza

statisticamente significativa, rispettivamente con p=0.10 e p=0.82.

Per quanto riguarda la classificazione ASA, i due gruppi sono omogenei per percentuale di pazienti

di classe ASA I (p=0.21), ASA II-III (p=0.18) e ASA IV (p=0.13).

Tabella 2.1 - Caratteristiche della popolazione del gruppo A e del gruppo B

Presentano, come comorbilità, le patologie elencate in tabella 2.2: i due gruppi in studio risultano

essere omogenei per le comorbilità presentate.

Open Robot p

Numero di pazienti 122 52 Sesso 0.68 Maschi 71 (58,2%) 32 (61,5%) Femmine 51 (41,8%) 20 (38,5%) Età media (range) 68±11 (70; 34-88) 65,4±9,6 (65; 42-83) 0.10 BMI (range) 25±3,6 (25; 14,2-34,9) 24,7±3,4 (25; 19,5-34) 0.82 ASA I 0 1 0.21 II-III 111 46 0.18 IV 10 0 0.13

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65

Tabella 2.2 - Comorbilità presenti nella popolazione del gruppo A e del gruppo B

Comorbilità Open Robot p

Malattia cardiovascolare 83 (68,0%) 30 (57,7%) 0.19 BPCO 12 (9,8%) 4 (7,7%) 0.66 Diabete mellito 25 (20,5%) 8 (15,4%) 0.43 Pancreatopatia cronica 4 (3,3%) - 0.36 Pregressa pancreatite acuta 7 (5,8%) 2 (3,8%) 0.59 Epatopatia cronica 8 (6,6%) 2 (3,8%) 0.49 Patologia tiroidea 8 (6,6%) 5 (9,6%) 0.49 Dislipidemia 17 (13,9%) 5 (9,6%) 0.44 IPB 11 (9,0%) 8 (15,4%) 0.22 Diverticolosi del sigma-colon 6 (4,9%) 2 (3,8%) 0.76 Pregressa neoplasia (maligna) in altra sede 17 (13,9%) 9 (17,3%) 0.57 IRC 5 (4,1%) 2 (3,8%) 0.94

Era già stato sottoposto a un intervento di chirurgia addominale il 54,1% (n=66) dei pazienti del

gruppo A e il 53,8% (n=28) dei pazienti del gruppo B (tabella 2.3): questo dato non ha determinato

in nessuno di essi la necessità di conversione dell’intervento da robotico ad open.

Tabella 2.3 - Interventi chirurgici nell’anamnesi patologica remota dei pazienti del gruppo A e B

Open Robot p

Pregressa chirurgia addominale 66 (54,1%) 28 (53,8%) 0.98 Appendicectomia Laparotomica 23 (18,9%) 8 (15,4%) Laparoscopica - - Colecistectomia Laparotomica 22 (18,0%) 3 (5,8%) Laparoscopica 7 (5,7%) 8 (15,4%) Ernioplastica 15 (12,3%) 4 (7,7%) Parto cesareo 3 (2,5%) 3 (5,8%) Trapianto Epatico 1 (0,8%) - Renale 3 (2,5%) - Prostatectomia radicale 2 (1,6%) 1 (1,9%) Isterectomia 2 (1,6%) - Annessiectomia - 1 (1,9%) Isteroannessiectomia 4 (3,3%) 2 (3,8%) Gastroresezione 3 (2,5%) - Gastrectomia 1 (0,8%) - Resezione intestinale 8 (6,6%) - Nefrectomia 2 (1,6%) - Surrenectomia - 1 (1,9%) Plastica di prolasso Uterino 2 (1,6%) - Vescicale 1 (0,8%) 1 (1,9%) Gastroenteroanastomosi (GEA) 1 (0,8%) - Epaticodigiunostomia (EDS) 4 (3,3%) - Pielolitotomia 1 (0,8%) - Nefrolitotomia - 1 (1,9%)

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66

Le caratteristiche cliniche dei pazienti dei due gruppi sono riportate in tabella 2.4 e in figura 2.1: il

91,8% (n=112) dei pazienti del gruppo open è risultato sintomatico al momento della diagnosi,

mentre nel restante 8,2% (n=10) dei pazienti - asintomatici - la diagnosi veniva posta mediante

indagini di diagnostica per immagini eseguite per altre motivazioni (generalmente il follow-up di

altre patologie) o esami ematochimici di routine alterati. Il 76,9% (n=40) dei pazienti del gruppo

robotico è risultato sintomatico al momento della diagnosi, mentre nel restante 23,1% (n=12) dei

pazienti - asintomatici - la diagnosi veniva posta mediante indagini di diagnostica per immagini

eseguite per altre motivazioni (generalmente il follow-up di altre patologie) o esami ematochimici

di routine alterati.

Tabella 2.4 - Pazienti sintomatici al momento della diagnosi nel gruppo A e nel gruppo B

Open Robot p Sintomatici 112 (91,8%) 40 (76,9%) 0.01 ittero 84 (68,9%) 30 (57,7%) 0.16 dolore 49 (40,2%) 22 (42,3%) 0.79 disturbo di transito 17 (13,9%) 3 (5,8%) 0.13 perdita di peso 26 (21,3%) 7 (13,5%) 0.23

Figura 2.1 - Pazienti sintomatici al momento della diagnosi nel gruppo A e nel gruppo B

Per quanto concerne il tempo intercorso tra diagnosi e ricovero, la mediana per la popolazione del

gruppo A è risultata di 23 giorni, con un range interquartile di 11,5-43 giorni, mentre la mediana

per la popolazione del gruppo B è risultata di 30 giorni, con un range interquartile di 17-53,25

giorni.

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

Sintomatici Ittero Dolore Disturbo di transito

Perdita di peso

Open

Robot

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67

Tutti i pazienti della popolazione sono stati sottoposti ad una serie di esami di imaging durante il

percorso diagnostico: in particolare, il 96,7% dei pazienti del gruppo A ha eseguito una TC addome

e l’89,3% di essi un’ecografia dell’addome, mentre nel gruppo B il 100% dei pazienti ha eseguito

una TC addome, l’80,8% un’ecografia dell’addome, e la metà di essi anche una Colangio-Wirsung

RM (tabella 2.5).

Tabella 2.5 - Esami di imaging effettuati durante l’iter diagnostico dai pazienti del gruppo A e B

Open Robot TC addome 118 (96,7%) 52 (100%) Colangio-Wirsung RM 38 (31,1%) 26 (50,0%) Eco addome 109 (89,3%) 42 (80,8%) Ecoendoscopia 8 (6,6%) 3 (5,8%) PET 2 (1,6%) 2 (3,8%) Octreoscan 1 (0,8%) 1 (1,9%)

In 41 casi (33,6%) del gruppo A è stata eseguita anche una biopsia preoperatoria in corso di ERCP

(n=20), EGDS (n=15), EUS (n=5) o ecografia addominale (n=1), per lo studio soprattutto di lesione

periampollare. Anche in 16 casi (30,8%) del gruppo B è stata eseguita anche una biopsia

preoperatoria in corso di ERCP (n=10), EGDS (n=5) e EUS (n=1).

Degli 84 pazienti itterici del gruppo A, il 47,6% (n=40) è stato drenato preoperatoriamente: il 55%

(n=22) di questi con posizionamento di endoprotesi biliare, il 42,5% (n=17) con drenaggio biliare

esterno, e il 2,5% (n=1) con entrambi. Dei 30 pazienti itterici del gruppo B, invece, il 46,7% (n=14)

è stato drenato preoperatoriamente: il 71,4% (n=10) di questi con posizionamento di endoprotesi

biliare e il 28,6% (n=4) con drenaggio biliare esterno (tabella 2.6).

Tabella 2.6 - Pazienti itterici drenati preoperatoriamente nel gruppo A e nel gruppo B

Open Robot p Itterici 84 (68,9%) 30 (57,7%) 0.16 drenati 40 (47,6% degli itterici) 14 (46,7% degli itterici) 0.93 DBE 17 (42,5%) 4 (28,6%) protesi biliare 22 (55%) 10 (71,4%) DBE e protesi biliare 1 (2,5%) -

DBE=drenaggio biliare esterno

Per quanto riguarda gli esami ematochimici preoperatori, i valori dei markers neoplastici della

popolazione in studio sono riportati in tabella 2.7.

Tabella 2.7 - Valori dei markers neoplastici preoperatori del gruppo A e del gruppo B

Ca19.9 (v.n. 37 U/mL) CEA (v.n. 5 ng/mL)

Open Robot p Open Robot p Pazienti con valori superiori a quelli normali

57 (68,7%) 23 (53,5%)

0.10 10 (16,9%)

8 (19,0%)

0.79

Mediana 107,4 44,5 0.11 3 2,2 0.84 Range 0,6-

12000,0 0,6-

2187,0 0,2-84,7 0,4-65,5

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Non vi è una differenza statisticamente significativa tra il numero di pazienti con valori superiori

alla norma di Ca19.9 (p=0.10) e CEA (p=0.79) nei due gruppi, così come non vi è differenza

statisticamente significativa tra i valori mediani di Ca19.9 (p=0.11) e CEA (p=0.84) nei due gruppi.

Delle DCP open (gruppo A), l’81,7% (n=98) è stato eseguito con conservazione del piloro secondo

Longmire-Traverso, mentre il 18,3% (n=22) secondo Whipple; il moncone pancreatico è stato

trattato attraverso una pancreaticodigiunostomia (PD) nel 94,2% (n=113) dei casi, attraverso una

Wirsung-stomia con catetere di Bracci nel 4,2% (n=5) dei casi e attraverso una

pancreaticogastrostomia (PG) nel restante 1,6% (n=2) dei casi. In 25 (20,8%) interventi open è

stata effettuata una procedura chirurgica aggiuntiva: 6 asportazioni di lesione epatica, 4 biopsie

epatiche, 4 gastrectomie subtotali, 4 resezioni intestinali, 2 resezioni della via biliare extraepatica,

1 resezione epatica, 1 rivascolarizzazione epatica, 1 appendicectomia, 1 nefrectomia, 1

annessiectomia, 1 asportazione della radice del mesentere, 1 asportazione di cisti della radice del

mesentere, 1 asportazione di amartoma del letto della colecisti, 1 plastica di parete per laparocele

mediano, 1 asportazione di neoformazioni cutanee. In 106 (93%) interventi open è stata utilizzata

come ansa trasposta quella diretta, e solamente in 8 (7%) interventi è stata utilizzata la tecnica

secondo Roux per ripristinare la continuità intestinale.

Delle DCP robotiche (gruppo B) invece l’86,5% (n=45) è stato eseguito con conservazione del

piloro secondo Longmire-Traverso, mentre il 13,5% (n=7) secondo Whipple; il moncone

pancreatico è stato trattato attraverso una pancreaticodigiunostomia (PD) in tutti i casi. In 2

(3,8%) interventi robotici è stata effettuata una procedura chirurgica aggiuntiva: 1 biopsia epatica

e 1 surrenectomia. In tutti gli interventi robotici è stata utilizzata come ansa trasposta quella

diretta per ripristinare la continuità intestinale.

I risultati dell'esame istologico sul pezzo operatorio, distinti per gruppo (A e B), sono riportati in

tabella 2.8 e 2.9.

Tabella 2.8 - Risultati istologici

Istotipo Open Robot

Adenocarcinoma duttale 50 (41,0%) 26 (50%)

Adenocarcinoma papilla 30 (24,6%) 11 (21,2%)

Adenocarcinoma coledoco 13 (10,7%) 8 (15,4%)

Adenocarcinoma duodeno 6 (4,9%) 1 (1,9%)

IPMN cancerizzato 18 (14,8%) 4 (7,7%)

Carcinoma adenosquamoso 2 (1,6%) 1 (1,9%)

Carcinoma acinare 2 (1,6%) 1 (1,9%)

Carcinoma indifferenziato 1 (0,8%) -

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69

Tabella 2.9 - Caratteristiche anatomopatologiche

Open Robot

Diametro max 2,6±1,3 cm 2,6±1,1 cm

TNM

T1 6 (5,1%) 4 (8%)

T2 17 (14,4%) 7 (14%)

T3 85 (72,0%) 37 (74%)

T4 10 (8,5%) 2 (4%)

N0 36 (30,5%) 16 (32%)

N1 76 (64,4%) 33 (66%)

N2 6 (5,1%) 1 (2%)

M1 4 (3,4%) 1 (2%)

Infiltrazione spazi perineurali 61 (51,3%) 25 (48,1%)

Infiltrazione altri organi 103 (86,6%) 39 (75,0%)

PanIN su trancia 13 (11,0%) 7 (13,5%)

Angioinvasione 33 (28,0%) 10 (19,2%)

Necrosi 7 (5,9%) 4 (7,7%)

Si riportano di seguito le definizioni di alcuni dei parametri valutati nell’analisi statistica:

margini di resezione: la precisa definizione e valutazione dei margini di resezione

chirurgica rappresenta un punto cruciale per la corretta stadiazione della neoplasia. I

margini di resezione comprendono:

o trancia di resezione della via biliare principale

o trancia di resezione del pancreas

o trancia di resezione duodenale prossimale, in caso di DCP con conservazione del

piloro

o margine di resezione retro-peritoneale

La classificazione TNM distingue le seguenti categorie: R0 (assenza di residui tumorali), R1

(residui tumorali microscopici), R2 (residui tumorali macroscopici)

fistola pancreatica (POPF), secondo la classificazione ISGPF (International Study Group on

Pancreatic Fistula)249

o di grado A o “fistola transitoria”: necessita solo di un lieve aggiustamento della

normale gestione post-operatoria, ma non c’è indicazione all’uso di somatostatina

o antibiotici nè alla nutrizione parenterale; la TC non mostra raccolta fluida

peripancreatica; non determina prolungamento dei tempi di ospedalizzazione,

viene trattata rimuovendo i drenaggi in modo più lento e cauto del normale;

o di grado B: richiede l’impostazione di nutrizione parenterale totale o enterale e

mantenimento in sede dei drenaggi peripancreatici; alla TC si apprezzano raccolte

che necessitano del riposizionamento dei drenaggi stessi; se si associano febbre,

leucocitosi e/o dolore addominale è necessaria una terapia antibiotica oltre

all’uso di analoghi della somatostatina; i tempi di ricovero si prolungano o si

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70

rende necessario un nuovo ricovero, e spesso questi pazienti vengono dimessi

con i drenaggi ancora in sede e mantenuti sotto stretta osservazione

o di grado C: a fronte di un quadro clinico instabile vengono istituiti protocolli di

nutrizione parenterale totale o enterale, associati all’uso di somatostatina o

analoghi e antibiotici endovena, spesso in regime di ricovero presso un’unità di

terapia intensiva; il paziente necessita di lunghi tempi di ricovero

DGE (delayed gastric emptying), secondo la classificazione ISGPF250

o di grado A: se il SNG (sondino naso-gastrico) viene lasciato in sede fino alla IV-VII

GPO (giornata post-operatoria) o viene reinserito dopo la III GPO a causa di

nausea e vomito in seguito alla rimozione, o se il paziente riprende ad alimentarsi

per os con dieta solida in VIII-XIV GPO

o di grado B: se il SNG viene lasciato in sede fino alla VIII-XIV GPO o viene reinserito

dopo la VII GPO, o se il paziente riprende ad alimentarsi per os con dieta solida in

XV-XXI GPO; vi è indicazione all’uso di procinetici e al supporto nutrizionale

(enterale o parenterale) per le prime 3 settimane post-operatorie

o di grado C: se il SNG non può essere rimosso o viene reinserito dopo la XIV GPO, o

se il paziente non è in grado di riprendere l’alimentazione per os entro la XXI GPO;

è necessario un prolungato supporto nutrizionale (>3 settimane dopo

l’intervento), e l’inizio della terapia adiuvante è posticipato

mortalità perioperatoria: s’intende la mortalità occorsa entro 30 giorni dall’intervento.

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71

CAPITOLO 3 - RISULTATI

3.1 - Risultati istologici

Nella casistica delle DCP open (gruppo A) sono stati asportati in media 43±15,1 linfonodi (range 6-

78) di cui in media 4,7±6,1 metastatici, mentre in quelle robot-assistite (gruppo B) sono stati

asportati in media 41,6±13,3 linfonodi (range 15-83) di cui in media 3,8±5,6 metastatici, in

assenza di una differenza statisticamente significativa (p=0.56).

I margini di resezione sono risultati positivi (R1) nel 14,3% (n=17) dei casi nel gruppo delle DCP

open e nel 15,4% (n=8) di quelle robot-assistite, in assenza di una differenza statisticamente

significativa (p=0.85) (tabella 3.1).

Tabella 3.1 - Margini di resezione

Open Robot p

R0 102 (85,7%) 44 (84,6%) 0.85

R1 17 (14,3%) 8 (15,4%)

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3.2 - Risultati intra-operatori

La percentuale di conversione nelle DCP robot-assistite è stata nulla.

La durata media dell'intervento open, considerando globalmente tutte le procedure, è risultata di

420,5±99,1 (215-720) minuti.

La durata media dell'intervento robot-assistito, considerando globalmente tutte le procedure, è

risultata di 524,2±83,8 (330-780) minuti.

Considerando i due diversi approcci, è stata riscontrata una differenza statisticamente significativa

nella durata dell'intervento (p<0.00001) in favore del gruppo open.

In tabella 3.2 è riportato, oltre all’ORT (operative room time) dei casi totali, anche quello dei casi

senza procedura chirurgica aggiuntiva; è stato rilevato un aumento statisticamente significativo

della durata dell’intervento robot-assistito in relazione alla presenza di procedure chirurgiche

associate rispetto all’intervento robot-assistito senza chirurgia associata (p=0.04), mentre tale

differenza non risulta statisticamente significativa per il gruppo open (p=0.51).

Vi è comunque una differenza statisticamente significativa (p<0.00001) anche tra l’ORT medio dei

casi senza procedura chirurgica aggiuntiva del gruppo open e l’ORT medio dei casi senza

procedura chirurgica aggiuntiva del gruppo robotico, sempre in favore del gruppo open.

Tabella 3.2 - Durata media dell’intervento nei due gruppi

Casi totali Casi senza procedura

chirurgica aggiuntiva

Casi con procedura

chirurgica aggiuntiva

n Media ORT

1DS ORT

Range ORT

n Media ORT

1DS ORT

Range ORT

n Media ORT

1DS ORT

Range ORT

Open 122 420,5° 99,1 215-

720

95 418,9* 99,3 215-

720

25 433,6* 96,7 230-

620

Robot 52 524,2° 83,8 330-

780

50 519,5^ 79,2 330-

780

2 641^ 149,9 535-

747

ORT=operating room time; ° p<0.00001; *p=0.51; ^p=0.04

Per valutare l’impatto della curva di apprendimento sulla durata dell’intervento, i casi del gruppo

B sono stati suddivisi in tre periodi (I da Agosto 2009 a Ottobre 2011; II da Novembre 2011 a

Dicembre 2013; III da Gennaio 2014 a Febbraio 2016): considerando i tre diversi periodi di

osservazione, è stata riscontrata una riduzione, sebbene non statisticamente significativa, della

durata dell’intervento. I valori sono riportati in tabella 3.3 e in figura 3.1.

Tabella 3.3 - Variazione della durata dell'intervento robot-assistito nei tre periodi di studio

Casi totali Casi senza procedura chirurgica aggiuntiva

n Media ORT 1DS ORT Range ORT n Media ORT 1DS ORT Range ORT I 9 549,4 96,9 470-780 8 551,3 103,4 470-780 II 18 508,3 86,8 330-720 18 508,3 86,8 330-720 III 25 526,5 77,7 430-747 24 517,3 64,0 430-710

ORT=operating room time

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73

Figura 3.1 - Variazione della durata dell'intervento robot-assistito nei tre periodi di studio

Per valutare l’effetto della curva di apprendimento sull’ORT in una serie consecutiva di DCP

mininvasive, inoltre, sono stati presi in considerazione tutti i pazienti sottoposti a intervento

laparoscopico robot-assistito (n=106) della nostra casistica: i casi totali sono stati quindi suddivisi

in tre periodi di osservazione (I da Giugno 2008 a Dicembre 2010, II da Gennaio 2011 a Giugno

2013, III da Luglio 2013 a Febbraio 2016), ed è stata riscontrata una progressiva riduzione dei

tempi operatori, con una differenza statisticamente significativa tra l’ORT medio del I e del III

periodo (p=0.003). i valori sono riportati in tabella 3.4 e in figura 3.2.

Tabella 3.4 - Variazione della durata dell'intervento robot-assistito nei tre periodi di studio

n Media ORT 1DS ORT Range ORT

I 18 587,8* 132,6 420-960

II 33 532,6 104,7 400-760

III 55 505,7* 85,1 330-747

*p=0.003

300

350

400

450

500

550

600

650

700

750

800

I II III

Casi totali

300

350

400

450

500

550

600

650

700

750

800

I II III

Casi senza procedura aggiuntiva

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Figura 3.2 - Variazione della durata dell'intervento robot-assistito nei tre periodi di studio

In 41 (35,7%) pazienti del gruppo A è stato necessario eseguire trasfusioni intra-operatorie: in 17

pazienti è stata eseguita la trasfusione di 1 sacca di emazie concentrate, in 19 pazienti la

trasfusione di 2 sacche, in 4 pazienti la trasfusione di 3 sacche e in 1 solo paziente la trasfusione di

4 sacche.

In 1 (2,0%) solo paziente del gruppo B è stato necessario eseguire la trasfusione intra-operatoria

di 1 singola sacca di emazie concentrate.

Vi è una differenza statistica molto significativa nel numero di trasfusioni intra-operatorie nei due

gruppi, con p=0.0014, a favore dell’approccio laparoscopico robot-assistito.

300

400

500

600

700

800

900

1000

I II III

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3.3 - Risultati peri-operatori

La mortalità peri-operatoria, cioè a 30 giorni dall'intervento, è risultata essere del 5,7% (n=7) nel

gruppo sottoposto a intervento open e del 3,8% (n=2) nel gruppo sottoposto a intervento robot-

assistito, in assenza di una differenza statisticamente significativa (p=0.61).

In 85 (69,7%) pazienti sottoposti a DCP open sono state riportate una o più complicanze nel

decorso postoperatorio. Le più frequenti sono state: il ritardato svuotamento gastrico (n=40), le

raccolte addominali (n=38), la fistola pancreatica (n=30) e le complicanze respiratorie (n=26).

In 40 (76,9%) pazienti sottoposti a DCP robot-assistita sono state riportate una o più complicanze

nel decorso postoperatorio. Le più frequenti sono state: il ritardato svuotamento gastrico (n=30),

le raccolte addominali (n=21), la fistola pancreatica (n=17) e le complicanze respiratorie (n=10).

Non vi è una differenza statisticamente significativa tra le percentuali di pazienti che hanno

presentato decorso post-operatorio irregolare nei due gruppi (p=0.33).

I vari tipi di complicanza sono riportati in tabella 3.5 e in figura 3.3.

Tabella 3.5 - Complicanze del decorso post-operatorio

Complicanze Open Robot Totale p

Fistola pancreatica 30 (24,6%) 17 (32,7%) 47 (27,0%) 0.27

grado A 15 (12,3%) 6 (11,5%) 21 (12,1%)

grado B 11 (9,0%) 8 (15,4%) 19 (10,9%)

grado C 4 (3,3%) 3 (5,8%) 7 (4,0%)

Complicanze di moncone 4 (3,3%) 2 (3,8%) 6 (3,4%) 0.85

Fistola dell’anastomosi gastro-/duodenodigiunale 2 (1,6%) 3 (5,8%) 5 (2,9%) 0.16

Fistola biliare - 1 (1,9%) 1 (0,6%) 0.23

DGE 76 (62,3%) 38 (73,1%) 114 (65,5%) 0.17

grado A 40 (32,8%) 13 (25,0%) 53 (30,5%)

grado B 23 (18,9%) 12 (23,1%) 35 (20,1%)

grado C 13 (10,7%) 13 (25,9%) 26 (14,9%)

Emoperitoneo 5 (4,1%) 3 (5,8%) 8 (4,6%) 0.63

Sanguinamento digestivo 4 (3,3%) 3 (5,8%) 7 (4,0%) 0.45

Sanguinamento erosivo 3 (2,5%) 1 (1,9%) 4 (2,3%) 0.83

Raccolte addominali 38 (31,1%) 21 (40,4%) 59 (33,9%) 0.24

Altre complicanze chirurgiche 22 (18,0%) 5 (9,6%) 27 (15,5%) 0.17

Complicanze cardiologiche 14 (11,5%) 5 (9,6%) 19 (10,9%) 0.72

Complicanze respiratorie 26 (21,3%) 10 (19,2%) 36 (20,7%) 0.76

Altre complicanze mediche 44 (36,1%) 15 (28,8%) 59 (33,9%) 0.36

Mortalità perioperatoria 7 (5,7%) 2 (3,8%) 9 (5,2%) 0.61

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Figura 3.3 - Complicanze del decorso post-operatorio

Confrontando l’incidenza di fistola pancreatica nei due gruppi (24,6% nel gruppo open vs 32,7%

nel gruppo robotico) non è emersa una differenza statisticamente significativa (p=0.27); in

particolare, confrontando l’incidenza di fistola di gravità superiore al grado A nei due gruppi, non

è emersa una differenza statisticamente significativa (p=0.33).

Per quanto riguarda le complicanze di moncone (3,3% del gruppo open vs 3,8% nel gruppo

robotico) non è emersa una differenza statisticamente significativa (p=0.85).

Il confronto tra le incidenze di fistola dell’anastomosi gastro-/duodenodigiunale nei due gruppi

non è risultato essere statisticamente significativo (p=0.16), così come il confronto tra le incidenze

di fistola biliare (p=0.23).

Il DGE (delayed gastric emptying), ovvero il ritardato svuotamento gastrico, ha complicato il

decorso del 62,3% dei pazienti del gruppo open e del 73,1% dei pazienti del gruppo robotico, in

assenza di una differenza statisticamente significativa (p=0.17): i pazienti del gruppo A che hanno

presentato DGE hanno rimosso il SNG e ripreso l’alimentazione per os dopo 10,2 giorni in media,

mentre quelli del gruppo B dopo 12,2 giorni, in assenza di significatività statistica (p=0.26).

L’emoperitoneo, il sanguinamento digestivo e quello erosivo hanno complicato il decorso di una

piccola percentuale di pazienti di entrambi i gruppi, peraltro in assenza di una differenza

statisticamente significativa (rispettivamente p=0.63, p=0.45 e p=0.83).

I pazienti di entrambi i gruppi hanno presentato raccolte addominali nel decorso post-operatorio

(31,1% nel gruppo open vs 40,4% nel gruppo robotico), in assenza di significatività statistica

(p=0.24).

Per quanto riguarda le complicanze mediche, quelle respiratorie sono state le più frequenti in

entrambi i gruppi, in particolare in quello open (21,3% nel gruppo open vs 19,2% nel gruppo

robotico), con differenza non statisticamente significativa (p=0.76); anche le complicanze

cardiologiche si sono presentate con maggior frequenza nel gruppo open (11,5% nel gruppo open

vs 9,6% nel gruppo robotico), anche in questo caso però in assenza di significatività statistica

(p=0.72).

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

Open

Robot

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L’incidenza di complicanze di grado superiore al II, secondo la classificazione di Clavien-Dindo

(figura 1.19), non risulta essere significativamente diversa nei due gruppi (tabella 3.6).

Tabella 3.6 - Classificazione delle complicanze nei due gruppi secondo Clavien

Clavien Open Robot p

0 25 (20,5%) 7 (13,5%) 0.28 I 27 (22,1%) 6 (11,5%) 0.11 II 53 (43,4%) 30 (57,7%) 0.09 IIIa 0 (0,0%) 4 (7,7%) 0.04 IIIb 7 (5,7%) 3 (5,8%) 0.99 IVa 3 (2,5%) 0 (0,0%) 0.46 IVb 0 (0,0%) 0 (0,0%) 0.67 V 7 (5,7%) 2 (3,8%) 0.61

La degenza media in terapia intensiva nei due gruppi in studio è stata rispettivamente di 2,0±3,4

(0-22) giorni per il gruppo A e di 1,2±0,8 (0-6) giorni per il gruppo B, in assenza di una differenza

statisticamente significativa (p=0.08).

Non è stata riscontrata una differenza statisticamente significativa tra i giorni di degenza

ospedaliera media dei pazienti del gruppo A (26,7±26,5; range 5-184 giorni) e del gruppo B

(22,8±13,9; range 6-86 giorni), con p=0.33.

Vi è una differenza statisticamente significativa nei giorni di degenza media tra il sottogruppo dei

pazienti con decorso regolare e il sottogruppo dei pazienti con decorso complicato, sia nel gruppo

A (18,6±14,4 giorni, con un range di 8-93 giorni, nel sottogruppo a decorso regolare; 30,3±29,8

giorni, con un range di 5-184 giorni, nel sottogruppo a decorso complicato; p=0.03) che nel

gruppo B (12,3±1,4 giorni, con un range di 10-15 giorni, nel sottogruppo a decorso regolare;

26,0±14,4 giorni, con un range di 6-86 giorni, nel sottogruppo a decorso complicato; p=0.002)

(tabella 3.7). Confrontando la durata del ricovero dei pazienti con decorso regolare del gruppo A e

del gruppo B, non è emersa una differenza statisticamente significativa, sebbene tale durata sia

inferiore nel gruppo robotico rispetto al gruppo open (12,3 vs 18,6 giorni rispettivamente;

p=0.14); lo stesso dicasi della durata del ricovero dei pazienti con decorso complicato del gruppo

A e del gruppo B, sebbene anche in questo caso la durata del ricovero sia inferiore nel gruppo

robotico rispetto al gruppo open (26,0 vs 30,3 giorni rispettivamente; p=0.39).

Tabella 3.7 - Variazione della durata del ricovero in base alla presenza o meno di complicanze

postoperatorie

Approccio Casi con decorso regolare Casi con decorso complicato

n Media DS Range n Media DS Range

Open 37 18,6* 14,4 8-93 81 30,3* 29,8 5-184

Robot 12 12,3** 1,4 10-15 40 26,0** 14,4 6-86

*p=0.03; **p=0.002

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Durante il ricovero, in 51 (42,9%) pazienti del gruppo A è stato necessario eseguire trasfusioni

post-operatorie, così come in 20 (39,2%) pazienti del gruppo B, in assenza di una differenza

statisticamente significativa tra i due gruppi (p=0.66).

Per quanto riguarda i pazienti itterici alla diagnosi (68,9% nel gruppo A vs 57,7% nel gruppo B), è

stato valutato il loro outcome in relazione all’eventuale posizionamento preoperatorio di

drenaggio biliare: in particolare, nel gruppo A il 47,6% (n=40) degli itterici è stato drenato, così

come il 46,7% (n=14) degli itterici del gruppo B (tabella 2.6). All’interno dei due gruppi A e B sono

stati dunque messi a confronto i due sottogruppi dei pazienti itterici drenati e non drenati,

analizzandone i seguenti dati: degenza, decorso regolare, complicanze chirurgiche, complicanze

mediche (con particolare riguardo a quelle infettive), trasfusioni intra- e post-operatorie,

mortalità perioperatoria, stato attuale del paziente ed eventuale recidiva di malattia nel follow-up

a lungo termine (tabella 3.8).

Tabella 3.8 - Differenze nell’outcome dei pazienti itterici drenati rispetto ai non drenati

Open Robot

drenati non drenati p drenati non drenati p

Degenza (gg) 23,6±16,3

(19; 5-93)

28,7±32,1

(21; 8-184)

0.37 27,1±20,1

(19; 11-86)

18,5±8,5

(17,5; 6-37)

0.13

Decorso regolare 30,0% 34,1% 0.69 21,4% 31,3% 0.55

Complicanze chirurgiche 45,0% 54,5% 0.38 78,6% 62,5% 0.34

Complicanze mediche 42,5% 45,5% 0.79 50,0% 43,8% 0.73

infettive 27,5% 15,9% 0.20 28,6% 12,5% 0.28

Trasfusioni

intra-operatorie 36,1% 39,5% 0.75 - - -

post-operatorie 55,0% 44,2% 0.33 35,7% 50,0% 0.43

Mortalità perioperatoria 5,1% 7,0% 0.73 - 12,5% 0.31

Stato del paziente

deceduto 40,0% 40,0% 1.0 35,7% 46,7% 0.55

Recidiva 75,0% 60,5% 0.22 53,8% 50,0% 0.84

Sebbene nessuna differenza raggiunga il livello di significatività, è interessante notare come nel

gruppo open la degenza post-operatoria dei pazienti itterici drenati sia inferiore rispetto a quella

dei pazienti itterici non drenati (23,6±16,3 giorni vs 28,7±32,1 giorni; p=0.37).

Il tasso di complicanze chirurgiche nel sottogruppo dei pazienti drenati è inferiore rispetto a

quello dei pazienti non drenati (45,0% vs 54,5%; p=0.38), sebbene in assenza di significatività

statistica. Sempre nel gruppo open, è emersa una differenza - seppur non significativa (p=0.20) -

tra l’incidenza di complicanze infettive nei pazienti itterici drenati e nei pazienti itterici non

drenati (27,5% vs 15,9% rispettivamente) a svantaggio della procedura di drenaggio biliare pre-

operatorio, così come vi è una differenza - anche in questo caso non significativa - tra la necessità

di trasfusioni post-operatorie nel gruppo drenato e nel gruppo non drenato (55,0% vs 44,2%

rispettivamente; p=0.33) a vantaggio di quest’ultimo.

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Infine, il tasso di recidiva nel gruppo open è del 75,0% per il sottogruppo dei pazienti itterici

drenati e del 60,5% per il sottogruppo dei non drenati, con una differenza che - sebbene non

significativa (0.22) - sembrerebbe deporre a svantaggio del drenaggio pre-operatorio.

Nel gruppo robotico, invece, la degenza post-operatoria dei pazienti itterici drenati è superiore

rispetto a quella dei non drenati (27,1±20,1 giorni vs 18,5±8,5 giorni rispettivamente), con una

differenza che, seppur non statisticamente significativa (p=0.13), depone a svantaggio della

procedura di drenaggio pre-operatorio.

A differenza del gruppo open, nel gruppo robotico l’incidenza di complicanze chirurgiche è stata

più alta nel sottogruppo dei pazienti drenati rispetto ai non drenati (78,6% vs 62,5%

rispettivamente), sebbene in assenza di significatività statistica (p=0.34).

Anche in questo caso, è emersa una differenza - seppur non significativa (p=0.28) - tra l’incidenza

di complicanze infettive nei pazienti itterici drenati e nei pazienti itterici non drenati (28,6% vs

12,5% rispettivamente) a svantaggio della procedura di drenaggio biliare pre-operatorio.

La percentuale di pazienti itterici drenati che hanno necessitato di trasfusioni nel decorso post-

operatorio è inferiore rispetto a quella dei pazienti itterici non drenati (35,7% vs 50,0%; p=0.43),

sebbene tale differenza non raggiunga la significatività statistica; inoltre, la mortalità

perioperatoria è nulla nel sottogruppo degli itterici drenati, mentre in quello dei non drenati

arriva al 12,5%: anche in questo caso però in assenza di significatività statistica (p=0.31).

Infine, al follow-up a lungo termine i pazienti deceduti nel sottogruppo degli itterici drenati sono il

35,7%, mentre nel sottogruppo degli itterici non drenati sono il 46,7%: ciononostante, tale

differenza non è statisticamente significativa (p=0.55).

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3.4 Follow-up a lungo termine e sopravvivenza

Dei 122 pazienti del gruppo A, 7 non sono inseriti in questa analisi a causa della mortalità

perioperatoria, e altri 27 in quanto persi al follow-up; quindi, tale analisi del follow-up a lungo

termine prende in considerazione un gruppo di 88 pazienti.

Dei 52 pazienti del gruppo B, invece, 2 non sono inseriti in questa analisi a causa della mortalità

perioperatoria, e altri 2 in quanto persi al follow-up; quindi, tale analisi del follow-up a lungo

termine prende in considerazione un gruppo di 48 pazienti.

Tutte le variabili precedentemente analizzate sono state nuovamente messe a confronto tra i due

gruppi, rispetto alle quali sono risultati omogenei come i precedenti.

Il tempo di follow-up medio è stato di 24,1±19,8 mesi, con una mediana di 18,6 mesi di follow-up,

per il gruppo open, mentre quello del gruppo robotico è stato di 25,4±20,2 mesi, con una mediana

di 18,7 mesi di follow-up.

E’ stato possibile somministrare il trattamento adiuvante al 53,7% dei pazienti del gruppo open,

con un’attesa mediana dall’intervento per l’inizio del primo ciclo di chemioterapia di 68 giorni, e al

70,8% dei pazienti del gruppo robotico, con un’attesa mediana di 70 giorni; vi è una differenza ai

limiti della significatività statistica (p=0.05) tra le percentuali di pazienti che hanno ricevuto il

trattamento adiuvante nei due gruppi in favore di quello robotico, mentre non vi è una differenza

statisticamente significativa nell’attesa mediana per l’inizio della chemioterapia nei due gruppi

(p=0.89).

Dei 44 pazienti sottoposti a terapia adiuvante nel gruppo open, 38 hanno eseguito uno schema

con sola Gemcitabina, 1 con sola Capecitabina, 1 con Capecitabina e Oxaliplatino, 1 con FOLFOX,

mentre di 3 pazienti non risulta chiaro lo schema eseguito; dei 34 pazienti sottoposti a terapia

adiuvante nel gruppo robotico, 29 hanno eseguito uno schema con sola Gemcitabina, 2 con sola

Capecitabina, 1 con Gemcitabina e Abraxane, mentre di 2 pazienti non risulta chiaro lo schema

eseguito.

Nel gruppo open il follow-up medio è stato di 26,2 mesi per i pazienti che hanno completato il

trattamento chemioterapico (CCT; 50,0%), mentre il follow-up medio per i pazienti che non lo

hanno completato (NCCT; 50,0%) è stato di 24,4 mesi; nel gruppo robotico invece il follow-up

medio è stato di 34,7 mesi per i pazienti che hanno completato il trattamento chemioterapico

(CCT; 42,9%), mentre il follow-up medio per i pazienti che non lo hanno completato (NCCT; 57,1%)

è stato di 19,5 mesi.

Relativamente al gruppo open, il 41,7% dei pazienti del gruppo CCT ha recidivato, con una

mediana di 12,1 mesi per la comparsa della recidiva; del gruppo NCCT invece ha recidivato il

29,2% dei pazienti, con una mediana di 9,4 mesi per la comparsa della recidiva, senza differenza

statisticamente significativa tra i due gruppi (p=0.23). Anche la sopravvivenza attuariale e la DFS

(disease-free survival) nei due gruppi CCT e NCCT sono sovrapponibili, con p non significativo.

Nel gruppo robotico, invece, il 27,6% dei pazienti del gruppo CCT ha recidivato, con una mediana

di 16 mesi per la comparsa della recidiva; del gruppo NCCT invece ha recidivato il 20,7% dei

pazienti, con una mediana di 9 mesi per la comparsa della recidiva, senza differenza

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statisticamente significativa tra i due gruppi (p=0.45). Anche la sopravvivenza attuariale e la DFS

(disease-free survival) nei due gruppi CCT e NCCT sono sovrapponibili, con p non significativo.

Dei pazienti sottoposti a intervento open, coloro i quali non hanno ricevuto terapia adiuvante

hanno un’età media maggiore rispetto ai pazienti che invece l’hanno ricevuta (71 anni vs 65 anni),

con una differenza statisticamente significativa (p=0.018).

Il trattamento radioterapico adiuvante è stato somministrato in associazione alla chemioterapia a

7 pazienti (8,0%) del gruppo open: di questi, 6 avevano ricevuto diagnosi istologica di

adenocarcinoma duttale pancreatico e 1 di adenocarcinoma della papilla. Tutti e 7 i pazienti

all’esame istologico risultavano T3N1Mx, 4 di essi con margini di resezione indenni da neoplasia

(R0) e 3 con margini di resezione con infiltrazione tumorale microscopica (R1), e presentavano

una media di 50,1 linfonodi asportati di cui una media di 4,4 linfonodi metastatici (ratio 0,09).

Nel gruppo robotico, invece, il trattamento radioterapico adiuvante è stato somministrato in

associazione alla chemioterapia a 6 pazienti (12,5%): di questi, 2 avevano ricevuto diagnosi

istologica di adenocarcinoma duttale pancreatico, 2 di adenocarcinoma del coledoco, 1 di

adenocarcinoma della papilla, e 1 di carcinoma adenosquamoso del pancreas. Tutti e 6 i pazienti

all’esame istologico risultavano T3N1Mx, con margini di resezione indenni da neoplasia (R0), e

presentavano una media di 36,8 linfonodi asportati di cui una media di 6,5 linfonodi metastatici

(ratio 0,18).

Nel corso del follow-up, 39 pazienti su 88 del gruppo open sono deceduti (44,3%), con una

mediana di follow-up per i pazienti deceduti di 18,8 mesi; il 37,2% (n=32) dei pazienti di tale

gruppo è deceduto per recidiva di malattia, con una mediana di follow-up di 18,8 mesi.

Nel gruppo robotico, nel corso del follow-up 15 pazienti su 48 sono deceduti (31,3%), con una

mediana di follow-up per i pazienti deceduti di 18,7 mesi; il 27,1% (n=13) dei pazienti di tale

gruppo è deceduto per recidiva neoplastica, con una mediana di follow-up di 20,5 mesi.

Sebbene il numero di decessi per recidiva di malattia sia inferiore nel gruppo robotico rispetto al

gruppo open (27,1% vs 37,2%), tale differenza non risulta essere statisticamente significativa

(p=0.24). Inoltre, confrontando la mortalità durante il follow-up dei pazienti dei due gruppi in

studio (44,3% nel gruppo open vs 31,3% nel gruppo robotico), sebbene vi sia una differenza in

favore del gruppo sottoposto a intervento mininvasivo, questa non raggiunge il livello di

significatività (p=0.14).

Degli 88 pazienti del gruppo open, 51 (58,0%) hanno presentato ripresa di malattia, con una

mediana di 9,7 mesi per la comparsa della recidiva, mentre dei 48 pazienti del gruppo robotico 21

(43,8%) hanno presentato ripresa di malattia, con una mediana di 9,8 mesi per la comparsa della

recidiva: il tasso di recidiva è dunque inferiore nel gruppo robotico rispetto al gruppo open (43,8%

vs 58,0%), ma con p non significativo (p=0.11).

La mediana di sopravvivenza attuariale dell’intero gruppo open è di 30,8 mesi, con una DFS di

11,5 mesi, mentre la mediana di sopravvivenza attuariale dell’intero gruppo robotico è di 41,2

mesi, con una DFS di 20 mesi.

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Tabella 3.9 - Follow-up a lungo termine e sopravvivenza nel gruppo A e nel gruppo B

Open Robot p

n 88 48 tempo di follow-up medio (mesi) 24,1±19,8 (18,6) 25,4±20,2 (18,7) 0.72 terapia adiuvante 53,7% 70,8% 0.05 attesa mediana per inizio CT (giorni) 68,0 70,0 0.89 CCT 50,0% 42,9% tempo di follow-up medio (mesi) 26,2 34,7 0.30 tasso di recidiva 41,7% 27,6% 0.28 mediana della comparsa di recidiva (mesi) 12,1 16,0 0.22 NCCT 50,0% 57,1% tempo di follow-up medio (mesi) 24,4 19,5 0.47 tasso di recidiva 29,2% 20,7% 0.48 mediana della comparsa di recidiva (mesi) 9,4 9,0 0.82 RT 8,0% 12,5% 0.39 mortalità durante follow-up 44,3% 31,3% 0.14 mediana del tempo di follow-up (mesi) 18,8 18,7 0.95 morte per recidiva 37,2% 27,1% 0.24 mediana del tempo di follow-up (mesi) 18,8 20,5 0.48 tasso di recidiva 58,0% 43,8% 0.11 mediana della comparsa di recidiva (mesi) 9,7 9,8 0.69 sopravvivenza attuariale (mesi) 30,8 41,2 0.10 DFS (mesi) 11,5 20,0 <0.0001

Confrontando la sopravvivenza attuariale nei due gruppi in studio, emerge una differenza -

sebbene non statisticamente significativa (p=0.10) - tra la mediana del gruppo A (30,8 mesi) e

quella del gruppo B (41,2 mesi), a favore di quest’ultimo (figura 3.4).

Figura 2.4

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83

Prendendo in considerazione la DFS (disease-free survival), invece, la differenza tra i due gruppi

(11,5 mesi nel gruppo A vs 20,0 mesi nel gruppo B) risulta essere statisticamente significativa, con

p<0.0001 (figura 3.5).

Figura 3.5

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84

CAPITOLO 4 - DISCUSSIONE E CONCLUSIONI

La chirurgia pancreatica ed in particolare la duodenocefalopancreasectomia, in relazione alla

posizione retroperitoneale della ghiandola, alla sua consistenza spesso friabile e all’intimo

rapporto con grosse strutture vascolari presenti a questo livello, rappresenta ancora oggi una

sfida in termini di complessità tecnica nell’ambito della chirurgia addominale. Per tale motivo è

ormai una raccomandazione assoluta, presente in tutti i lavori della letteratura, limitare

l’esecuzione di questo tipo di chirurgia ai Centri di riferimento ad alto volume; si è visto che solo

in questo modo si riesce a contenere i tassi di mortalità e morbilità legati a questa procedura

chirurgica. La mortalità attualmente si attesta al di sotto del 5% nei Centri ad alto volume271, ma la

curva di apprendimento è lunga specie per la tecnica laparoscopica. Quest’ultima è stata una vera

e propria sfida che si è andata sviluppando nel corso degli ultimi anni, suscitando un interesse

molto diffuso e dei risultati di buon livello, in continuo miglioramento.

La chirurgia mini-invasiva in altri campi d’applicazione aveva già dimostrato dei potenziali

vantaggi, come quello di poter ridurre il dolore e le complicanze post-operatorie, nonché

accorciare la degenza ospedaliera con conseguente inizio precoce della terapia adiuvante.

Nel 1994 Gagner e Pomp eseguirono la prima DCP laparoscopica con conservazione del piloro,

concludendo che, sebbene fattibile, tale procedura non comportava un miglioramento

dell’outcome post-operatorio o una riduzione della degenza post-operatoria54.

La chirurgia laparoscopica presenta delle criticità specifiche che richiedono abilità differenti

rispetto alla tradizionale chirurgia open: in primis, il passaggio da una visione diretta e

tridimensionale del campo operatorio a una visione bidimensionale, la necessità di coordinazione

video-occhio-mano, l’effetto fulcro, l’utilizzo di strumenti laparoscopici lunghi ed una ristretta

gamma di movimenti, una significativa riduzione della sensibilità tattile e amplificazione del

fisiologico tremore. Queste caratteristiche nell’ambito della chirurgia laparoscopica comportano

una difficoltà tecnica soprattutto nella fase di dissezione del processo uncinato e nella fase

ricostruttiva (in particolare nella costruzione dell’anastomosi pancreatico-digiunale). Attualmente,

sono quattro le tecniche impiegate per eseguire una DCP laparoscopica: pure laparoscopy, hand-

assisted laparoscopy, laparoscopic-assisted surgery, robotic-assisted laparoscopy.

Fin dall’introduzione della chirurgia mini-invasiva sono stati sollevati dubbi circa la sua radicalità

oncologica nell’ambito della patologia maligna pancreatica60: una review del 2011 di Gumbs et

al.61 ha dimostrato come, in termini di numero di linfonodi asportati e percentuale di negatività

dei margini di resezione, la DCP laparoscopica consentisse di raggiungere la radicalità oncologica.

Sempre lo studio di Gumbs ha messo in evidenza come la durata dell’intervento laparoscopico e il

tasso delle complicanze si riducano progressivamente durante la curva di apprendimento61:

pertanto Palanivelu, che presenta un’ampia casistica, raccomanda la DCP laparoscopica

esclusivamente per Centri con elevata esperienza sia in chirurgia mininvasiva che in chirurgia

pancreatica open62.

Negli ultimi decenni, l’avvento dei sistemi robotici ha consentito di apportare grossi vantaggi alla

tecnica laparoscopica tradizionale: il sistema robotico da Vinci, infatti, con la sua visione

magnificata in 3D, i 7 gradi di libertà degli strumenti, la possibilità di eseguire movimenti in scala

(scaling function) e l’eliminazione del fisiologico tremore (filtering function), facilita il

confezionamento dell’anastomosi pancreatico-digiunale rispetto alla tradizionale tecnica

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laparoscopica. Oltre ai vantaggi in fase ricostruttiva, la tecnica laparoscopica robot-assistita facilita

la creazione del tunnel retropancreatico e la dissezione del processo uncinato in fase

demolitiva272,273: il quarto braccio del robot facilita la retrazione anteriore del collo del pancreas

per esporre la confluenza mesenterico-portale274, e dopo la creazione del tunnel retropancreatico

la visione magnificata e gli strumenti con EndoWrist consentono una dissezione precisa e con

minime perdite ematiche275. Inoltre, la visione magnificata e la scaling function consentono al

chirurgo di legare e recidere i piccoli vasi digiunali che altrimenti, durante la retrazione del

pancreas, andrebbero incontro ad avulsione, potendo causare un sanguinamento di difficile

controllo anche in open273.

Sebbene alcuni autori sostengano che la mancanza di feedback tattile possa rappresentare uno

svantaggio della chirurgia robotica, in particolare nella fase di dissezione del processo uncinato276,

Giulianotti ritiene che in chirurgia robotica il feedback tattile venga rimpiazzato dal feedback

visivo e che, una volta completata la curva di apprendimento, il delicato step della dissezione della

vena mesenterica superiore dal pancreas possa essere eseguito in sicurezza e con grande

precisione273.

Riguardo alla feasibility della procedura laparoscopica robot-assistita, Zureikat111 riporta un tasso

di conversione a open dell’8% per la DCP, mentre Giulianotti273 del 18,3%. Nella nostra esperienza,

in nessun caso si è resa necessaria la conversione dell’intervento, grazie ad una corretta selezione

pre-operatoria dei pazienti.

In termini di numero di linfonodi asportati e di percentuale di negatività dei margini di resezione, i

risultati della nostra casistica, così come quelli di varie review sulla metodica laparoscopica61,

confermano che l’approccio laparoscopico robot-assistito risulta essere altrettanto valido rispetto

al tradizionale approccio open: in particolare, nella casistica delle DCP open sono stati asportati in

media 43±15,1 linfonodi (range 6-78), mentre in quella delle DCP laparoscopiche robot-assistite

41,6±13,3 linfonodi (range 15-83), in assenza di una differenza statisticamente significativa

(p=0.56); inoltre, i margini di resezione sono risultati positivi (R1) nel 14,3% delle DCP open e nel

15,4% di quelle laparoscopiche robot-assistite, anche in questo caso in assenza di una differenza

statisticamente significativa (p=0.85).

Uno dei principali problemi delle resezioni pancreatiche laparoscopiche è la lunga durata: nella

casistica in studio, la durata media (ORT) dell'intervento open è stata di 420,5±99,1 (215-720)

minuti, mentre quella dell'intervento robot-assistito di 524,2±83,8 (330-780) minuti, con una

differenza statisticamente significativa (p<0.00001) in favore dell’approccio open.

Questo dato è in parte giustificato dall’instrument traffic (IT), ovvero il tempo necessario al

cambio degli strumenti da inserire nei trocars al tavolo operatorio, e in parte dalle eventuali

procedure chirurgiche aggiuntive: a tal proposito, è stato rilevato un aumento statisticamente

significativo della durata dell’intervento robot-assistito in relazione alla presenza di procedure

chirurgiche associate (p=0.04).

La maggior durata dell’intervento, comunque, è un problema relativo, visto che non sono state

evidenziate differenze in termini di incidenza di complicanze e durata della degenza tra i due

gruppi in studio.

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Per valutare l’effetto della curva di apprendimento sull’ORT in una serie consecutiva di DCP

mininvasive, sono stati presi in considerazione tutti i pazienti sottoposti a intervento

laparoscopico robot-assistito (n=106) della nostra casistica: i casi totali sono stati quindi suddivisi

in tre periodi di osservazione (I da Giugno 2008 a Dicembre 2010, II da Gennaio 2011 a Giugno

2013, III da Luglio 2013 a Febbraio 2016), ed è stata riscontrata una progressiva riduzione dei

tempi operatori, con una differenza statisticamente significativa tra l’ORT medio del I e del III

periodo (p=0.003).

È anche interessante notare come il numero di linfonodi asportati aumenti nei tre periodi di

osservazione (30,3 linfonodi asportati in media nel I periodo, 38,1 nel II e 40,7 nel III), con una

differenza statisticamente significativa tra I e II periodo (p=0.03) e tra I e III periodo (p=0.006), in

relazione al miglioramento della tecnica chirurgica legato alla curva di apprendimento.

Questo dato assume particolare rilevanza nell’ottica di una corretta stadiazione del carcinoma

pancreatico, la quale non può prescindere dalla valutazione anatomopatologica di un adeguato

numero di linfonodi: il numero totale di linfonodi esaminati infatti, il quale dipende sì

dall’estensione della dissezione linfonodale ma anche dall’accuratezza dell’esame

anatomopatologico, correla con la prognosi soprattutto dei pazienti N0, poiché se i linfonodi

esaminati sono <12 si rischia di sottostadiare questi pazienti, con un forte impatto sulla

sopravvivenza277. Quindi, in accordo con le attuali linee guida dell’AJCC (American Joint

Committee on Cancer), la corretta stadiazione del carcinoma pancreatico richiede l’esame di

almeno 12 linfonodi278.

Al di là della mera suddivisione secondo il TNM dei pazienti in N0 e N1, inoltre, essendo

quest’ultimo un gruppo disomogeneo suscettibile di ulteriore stratificazione, l’LNR (lymph node

ratio) consente di combinare i dati relativi al numero di linfonodi metastatici con la misura

dell’adeguatezza della dissezione linfonodale: in tal senso è un indicatore prognostico e di rischio

di disease-specific death, in grado di predire l’outcome dei pazienti N1 sottoposti a resezione

pancreatica meglio del semplice numero totale di linfondodi positivi277,279; in particolare, un

LNR>0.4 si associa a un rischio di morte pari a quello dato dalla presenza di metastasi a

distanza277. Nella nostra casistica, l’LNR media dei pazienti sottoposti a intervento open è 0.11,

mentre l’LNR media dei pazienti sottoposti a intervento mininvasivo è 0.10, in assenza di

significatività statistica (p=0.50).

Questo studio ha inoltre confermato il dato - già evidenziato in letteratura - che la

duodenocefalopancreasectomia eseguita con tecnica laparoscopica robot-assistita è associata a

ridotte perdite ematiche intra-operatorie61,280: infatti, mentre nel gruppo open il 35,7% dei

pazienti ha necessitato di trasfusioni intra-operatorie di emazie concentrate, solo il 2,0% dei

pazienti del gruppo robotico ha necessitato di trasfusioni intra-operatorie, con una differenza

statistica estremamente significativa (p=0.0014) a favore dell’approccio laparoscopico robot-

assistito. Questo dato può essere spiegato dal vantaggio conferito dall’approccio laparoscopico

robot-assistito nella dissezione e resezione del processo uncinato, prevenendo importanti perdite

ematiche intra-operatorie273.

Secondo studi recenti, i pazienti sottoposti a DCP per adenocarcinoma pancreatico necessitano di

trasfusioni perioperatorie nel 40-60% dei casi281,282. Le trasfusioni allogeniche hanno però un

effetto immunosoppressivo: nonostante la drammatica riduzione del rischio di trasmissione con la

terapia trasfusionale di infezioni da virus dell'epatite B e C e da HIV, infatti, le trasfusioni

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rappresentano una fonte di morbidità correlata alle infezioni283, a causa della soppressione della

risposta immunitaria innata che si pensa possa essere anche responsabile dell’associazione tra

trasfusioni e recidiva di malattia; questo è un fattore altamente significativo nei pazienti affetti da

carcinoma pancreatico, in quanto una significativa quota di essi potrebbe avere una malattia

sistemica al momento della chirurgia.

Lo studio di Sutton et al. ha infatti dimostrato che pazienti che ricevono trasfusioni perioperatorie

>2 unità di emazie concentrate presentano una più precoce recidiva e una ridotta sopravvivenza

globale; inoltre, vi è una associazione prognosticamente negativa tra la trasfusione

intraoperatoria di >2 unità di emazie concentrate e la DFS (disease-free survival): tale associazione

è assente nei pazienti che ricevono solo 1-2 unità durante l’intervento, senza conseguenze sulla

sopravvivenza globale, mentre la trasfusione di >2 unità di emazie concentrate è un predittore di

ridotta sopravvivenza globale284.

La sicurezza della procedura laparoscopica robot-assistita rispetto al tradizionale approccio open è

testimoniata anche dai tassi di mortalità peri-operatoria, rispettivamente del 3,8% e del 5,7%, in

assenza di significatività statistica (p=0.61).

Per quanto riguarda la morbilità, le complicanze principali a seguito dell’intervento robotico sono

state le stesse dell’intervento open: ritardato svuotamento gastrico (62,3% dei pazienti del

gruppo open vs 73,1% dei pazienti del gruppo robotico), raccolte addominali (31,1% dei pazienti

del gruppo open vs 40,4% dei pazienti del gruppo robotico) e fistola pancreatica (24,6% dei

pazienti del gruppo open vs 32,7% dei pazienti del gruppo robotico).

Non vi è una differenza statisticamente significativa tra le percentuali di pazienti che hanno

presentato morbilità post-operatoria nei due gruppi (p=0.33), né tra i tassi di incidenza delle

singole complicanze.

La fistola pancreatica, comunque, è stata generalmente controllata e limitata con la sola terapia

medica (grado A e B), senza che vi fosse una compromissione nell’outcome del paziente: in

particolare, confrontando l’incidenza di fistola di gravità superiore al grado A nei due gruppi, non

è emersa una differenza statisticamente significativa (p=0.33). Bisogna anche sottolineare come,

nel gruppo sottoposto a procedura mininvasiva, sia stata evidenziata una riduzione della

prevalenza della fistola pancreatica nei tre periodi in studio (I 44,4%, II 38,9%, III 24,0%), che,

sebbene non significativa, fa ipotizzare una possibile riduzione di tale complicanza con l’aumento

del numero di casi trattati.

La presenza di complicanze post-operatorie ha influito sulla durata della degenza ospedaliera:

sebbene non vi sia una differenza significativa tra i tempi di degenza media dei due gruppi di

pazienti - nonostante questa sia stata più breve per il gruppo robotico (26,7±26,5 giorni di

degenza media per i pazienti operati con intervento open vs 22,8±13,9 giorni di degenza media

per i pazienti operati con intervento mini-invasivo) - quelli che hanno presentato decorso

complicato hanno avuto una degenza significativamente più lunga rispetto ai pazienti con decorso

regolare, sia nel gruppo open (p=0.03) che nel gruppo robotico (p=0.002).

Tenendo conto della riduzione nel tempo, anche se non statisticamente significativa, della

prevalenza di complicanze quali la fistola pancreatica (come messo in evidenza in questo studio),

si può sperare che in futuro, con l’aumento del numero di casi, vi possa essere una riduzione

ulteriore della durata della degenza post-operatoria, con una conseguente diminuzione della

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spesa sanitaria (e quindi anche un miglioramento nel rapporto costi/benefici per la metodica)

nonché una maggiore percentuale di pazienti in grado di ricevere i trattamenti adiuvanti, grazie al

recupero post-operatorio più rapido.

Uno studio di Wang et al. ha evidenziato un’associazione tra la presenza di ittero pre-operatorio

(con valori di bilirubina totale ≥5 mg/dL) e la maggior incidenza di complicanze infettive nel

decorso post-operatorio, in pazienti non drenati sottoposti a DCP285: abbiamo quindi preso in

considerazione le due popolazioni di itterici drenati e itterici non drenati pre-operatoriamente

della nostra casistica confrontandone l’incidenza di complicanze post-operatorie e i tempi di

degenza, in quanto l’indicazione a drenare pre-operatoriamente i pazienti con ittero ostruttivo

candidati a DCP resta controversa286.

Sebbene nessuna differenza raggiunga il livello di significatività, nel gruppo open la degenza post-

operatoria dei pazienti itterici drenati è inferiore rispetto a quella dei pazienti itterici non drenati

(23,6±16,3 giorni vs 28,7±32,1 giorni; p=0.37), mentre nel gruppo robotico la degenza post-

operatoria dei pazienti itterici drenati è superiore rispetto a quella dei non drenati (27,1±20,1

giorni vs 18,5±8,5 giorni; p=0.13).

Per quanto riguarda l’incidenza di complicanze infettive, invece, sia nel gruppo open che nel

gruppo robotico i dati depongono a sfavore della procedura di drenaggio biliare pre-operatorio:

nel gruppo open è infatti emersa una differenza - seppur non significativa - tra l’incidenza di

complicanze infettive nei pazienti itterici drenati e nei pazienti itterici non drenati (27,5% vs 15,9%

rispettivamente; p=0.20), così come nel gruppo robotico (28,6% vs 12,5% rispettivamente;

p=0.28).

Infine, per quanto riguarda la necessità di trasfusioni post-operatorie, emergono dati contrastanti:

mentre nel gruppo open la percentuale di pazienti itterici drenati trasfusi è più alta rispetto a

quella degli itterici non drenati (55,0% vs 44,2% rispettivamente; p=0.33), nel gruppo robotico una

minor percentuale di pazienti itterici drenati ha necessitato di trasfusioni rispetto agli itterici non

drenati (35,7% vs 50,0%; p=0.43).

I dati emersi da questo confronto sono in linea con la letteratura al riguardo, che sconsiglia il

drenaggio pre-operatorio dei pazienti itterici di routine, in quanto non associato a un vantaggio in

termini di morbilità e mortalità287,288 ma solo a un aumento della degenza e dei costi289.

L’analisi del follow-up a lungo termine dei pazienti sottoposti a DCP ha preso in considerazione 88

pazienti del gruppo open e 48 del gruppo robotico. La chemioterapia adiuvante - generalmente a

base di Gemcitabina - è stata somministrata al 53,7% dei pazienti del gruppo open dopo un’attesa

mediana di 68 giorni, e al 70,8% dei pazienti del gruppo robotico dopo un’attesa mediana di 70

giorni: la percentuale di pazienti sottoposti a intervento mininvasivo che hanno ricevuto terapia

adiuvante è significativamente più alta rispetto a quella dell’intervento open (p=0.05).

I giorni intercorsi tra l’intervento e l’inizio della chemioterapia, invece, non sono

significativamente differenti tra i due gruppi: questo dato potrebbe dipendere dal fatto che, in

genere, la chemioterapia adiuvante viene iniziata in base al recupero post-operatorio del paziente

ma comunque non prima di 30-60 giorni dall’intervento; inoltre, da un recente studio è emerso

che non vi è differenza nell’outcome dei pazienti sottoposti a DCP per adenocarcinoma duttale

pancreatico se la chemioterapia adiuvante viene iniziata entro le 12 settimane dopo l’intervento,

purché il paziente abbia avuto un adeguato recupero post-operatorio e si presenti alla terapia con

un migliore performance status290.

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La percentuale di pazienti che hanno completato la chemioterapia adiuvante (CCT) è leggermente

più alta, anche se non significativamente (p=0.60), nel gruppo open rispetto al gruppo robotico

(50,0% vs 42,9%): ciononostante, all’interno del gruppo CCT, la percentuale di pazienti robotici

che hanno recidivato è più bassa rispetto a quella dei pazienti open (27,6% vs 41,7%

rispettivamente), anche in questo caso in assenza di significatività statistica (p=0.28); la mediana

di comparsa della recidiva è di 16 mesi per i pazienti del gruppo robotico che hanno completato la

chemioterapia adiuvante, mentre è di 12,1 mesi per i pazienti del gruppo open, anche se tale

differenza non è statisticamente significativa (p=0.22).

Durante il follow-up, il 44,3% dei pazienti del gruppo open e il 31,3% dei pazienti del gruppo

robotico sono deceduti: sebbene il numero di decessi sia inferiore nel gruppo robotico, questa

differenza non raggiunge la significatività statistica (p=0.14). In particolare, il 37,2% dei pazienti

del gruppo open è deceduto per ripresa di malattia, così come il 27,1% dei pazienti del gruppo

robotico: questo dato correla con i differenti tassi di recidiva nei due gruppi, più bassi nel gruppo

robotico (43,8% vs 58,0%), sebbene tale differenza non sia statisticamente significativa (p=0.11).

Il dato più significativo è rappresentato dalla DFS (disease-free survival), ovvero l’intervallo di

tempo in cui il paziente non presenta malattia tumorale e che intercorre tra la data

dell’intervento e la comparsa di recidiva: la DFS del gruppo sottoposto a intervento mininvasivo è

di 20 mesi, mentre la DFS del gruppo sottoposto a intervento open è di 11,5 mesi, con p<0.0001.

Anche la sopravvivenza attuariale risulta essere maggiore nel gruppo robotico (41,2 mesi) rispetto

al gruppo open (30,8 mesi), ma tale differenza non raggiunge la soglia di significatività (p=0.10).

Il nostro studio ha valutato anche i livelli sierici pre-operatori di Ca19.9 nei due gruppi, in quanto

forniscono informazioni prognostiche nei pazienti con adenocarcinoma pancreatico: correlano

infatti con lo stadio del tumore e sono in grado di predire in modo indipendente la sopravvivenza

globale. I pazienti con livelli di Ca19.9 nella norma (<37 U/mL) hanno infatti una mediana di

sopravvivenza più lunga (32-36 mesi) rispetto ai pazienti con elevati livelli di Ca19.9 (>37 U/mL)

(12-15 mesi). Inoltre, livelli sierici <100 U/mL si associano generalmente a neoplasia

potenzialmente resecabile, mentre livelli >100 U/mL suggerirebbero la non resecabilità della

neoplasia o la presenza di malattia metastatica291.

I livelli pre-operatori di Ca19.9 sono però spesso falsati dalla presenza di ittero ostruttivo, quindi

Humphris et al.292 hanno valutato se il Ca19.9 sierico aggiustato per la iperbilirubinemia potesse

essere utilizzato come affidabile predittore di outcome: dallo studio è emerso che pazienti con

Ca19.9 pre-operatorio <120 U/mL (combinando la mediana corretta e quella non corretta per la

iperbilirubinemia) presentano una maggiore DSS (disease-specific survival).

In conclusione, questo studio dimostra come la chirurgia laparoscopica robot-assisitita applicata al

trattamento della patologia maligna sia fattibile, ripetibile e sicura, con tassi di mortalità e

morbilità comparabili a quelli della chirurgia tradizionale open.

Non solo, ma dallo studio emerge anche come la scelta dell’approccio mininvasivo possa influire

sulla somministrazione del trattamento chemioterapico adiuvante e conseguentemente sui tassi

di recidiva, condizionando in ultimo la sopravvivenza libera da malattia.

Il perfezionamento della tecnica chirurgica e il costante sviluppo tecnologico, che porterà nei

prossimi anni all’introduzione di sistemi robotici dotati di un migliorato sistema di visione, di una

maggiore flessibilità dei bracci robotici e di feedback tattile, lasciano sperare che vi possano

essere ulteriori e progressivi avanzamenti nella metodica.

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CAPITOLO 5 - BIBLIOGRAFIA

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