Dove non si tocca

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"O fingi che non sia successo nulla, ti chiudi nel tuo buio e invochi il silenzio affinché smetta di gridare tanto forte così da poterti concentrare sul tuo infinito smarrirti, oppure decidi di collaborare e in qualche modo ti concedi la possibilità di ritrovare una strada che ti indichi l’unico modo possibile per tornare alla vita, di nuovo".

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Dove non si toccadi Giuseppe Iacolino

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Mi ero perso, non c’era niente da fare. Affondavo letteralmente in un buio pesto, come in un pozzo del quale non si conosce la profondità e la sensazione di silenzio non lasciava trapelare niente. Forse era troppo tardi per pentirsi degli errori fatti, delle parole non dette, dei momenti perduti, ma forse anche facendolo, non avrei ottenuto nulla. Ed era così, mi ritrovavo solo tra tante persone a parlare con tutti e non essere ascoltato da nessuno. Condizioni del genere sono difficili da digerire e quando lo sconforto arriva, masticarlo e mandarlo giù non è meno semplice che fingere che non ci sia, specie quando il tempo passa inesorabile e i pensieri, con le proprie convinzioni, sono gli unici compagni che ti restano. Allora rimangono poche soluzioni possibili. Quindi o fingi che non sia successo nulla, ti chiudi nel tuo buio e invochi il silenzio affinché smetta di gridare tanto forte così da poterti concentrare sul tuo infinito smarrirti, oppure decidi di collaborare e in qualche modo ti concedi la possibilità di ritrovare una strada che ti indichi l’unico modo possibile per tornare alla vita, di nuovo.

− Prego, si accomodi − dissi latentemente sorpreso, aprendo la porta e facendogli cenno di entrare, − è ancora un po' tutto in disordine. Sa, non credevo fosse così puntuale.

− E perché non lo credevi? – chiese, sistemando il suo cappotto gocciolante sull’appendiabiti accanto alla porta, mentre insieme a quel confidente “tu” mi elargiva un sorriso.

− Beh, perché io non lo sono quasi mai e poi con questo tempo.

− Non perché tu non lo sia, vuol dire che non debba esserlo io, non ti pare. E poi un po' di pioggia non ha mai fatto male a nessuno, credimi.

− Se lo dice lei. Beve qualcosa?− Certo, ma prima mettiamo ordine e sediamoci, abbiamo da

parlare giusto? – Senza aspettare una risposta si mosse verso una delle due poltrone sistemate nella stanza, si accomodò e cominciò a dividere i bicchieri sul tavolino, passando al vaglio le varie bottiglie.

Io rimasi a guardarlo per una po' e poi presi posto anche io sulla poltrona alla sua destra. Lui alzò gli occhi dalle bottiglie, dopo aver fatto la sua scelta, un rarissimo Balvenie Cask 191 e fece cenno di versarmene un bicchiere.

− Certo − risposi − è il mio preferito.− Lo so.Brindammo in silenzio e mandammo giù. Poi ci appoggiammo

entrambi sulle nostre rispettive spalliere e rimanemmo a guardarci per un po', sentendo il whisky riscaldarci la gola. Era strano trovarmelo davanti, in fondo era davvero da tanto che non lo vedevo e non dialogavo con lui e questo mio strano timore, che al

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tempo stesso m’incuriosiva, improvvisamente si dissipò quando fu lui a rompere il silenzio, con quell’espressione che tradiva una lucida chiarezza di pensiero.

− E se dicessi: tempo?− Direi insufficiente.− E diresti male − rispose di getto, quasi senza lasciarmi

attenuanti, come se conoscesse già la mia risposta, − in fondo il tempo è solo il tempo. C’è e basta. Scorre, ad alcuni sembra veloce, ad altri lento, ma il suo scorrere è immutato, inesorabile.

− E ci cambia ogni cosa, anche quando non lo vorremmo.− Assolutamente. Non è mica il tempo a cambiarci le cose.

Siamo noi a farlo. Noi gestiamo il tempo, noi lo facciamo passare e noi lo fermiamo e siamo sempre noi a prendercene, se ne abbiamo bisogno.

Rimasi un po' perplesso. Rimuginai un istante e prima di rispondere bevvi un altro sorso di Cask. − Prendercene dice? Ero piccolo − cominciai − credo dodici, tredici anni. Mio padre, molti anni prima, aveva costruito in giardino una porta da calcio, con delle travi e una vecchia rete da pesca del nonno. Lui non era molto in casa e quando c’era se non litigava con mia madre, si chiudeva nel suo studio a sbrigare cose personali o di lavoro. Lo amavo e lui amava me e il poco tempo che passavamo assieme era prezioso. Usammo quella porta mezza dozzina di volte e sempre a tempo perso e ricordo nitidamente che un giorno mi chiese di giocare con lui in giardino. Fu lui a chiedermelo, non io, lui. Io avevo la testa altrove, ero troppo occupato per giocare e gli dissi che odiavo il calcio e preferivo di gran lunga il Basket. Così rimasi in camera mia e non scesi nemmeno per cena. Il giorno dopo non tornò a casa dopo il lavoro e alle due di mattina la polizia ci informò che era accidentalmente rimasto coinvolto in una rapina al centro commerciale. I due rapinatori avevano aperto il fuoco contro le guardie e lui era rimasto coinvolto. Era morto poco dopo in ambulanza. Gli oggetti personali che ci recapitarono furono la sua ventiquattro ore e una busta con dentro un canestro, di quelli che si fissano al muro e un pallone da basket. − Diedi un sorso al mio whisky, − sostiene ancora che dipenda tutto da noi quindi?

− Assolutamente − rispose con la stessa sicurezza di prima.− Anche quando ciò che accade è fuori dal nostro controllo?− In quel caso non si parla più di tempo, ma di volontà.− E che volontà avrebbe avuto mio padre nel morire

dissanguato all’intero di un’ambulanza?− La volontà della scelta. Qualsiasi essa sia, che dipenda da

noi o da altri, la chiave è sempre quella, la scelta e va rispettata.− Non mi stà convincendo, lo sa.− Non voglio farlo, solo non puoi negare che ogni cosa che

accade nella vita di ognuno di noi è sempre questione di scelta. Nostra o di altri, ma comunque tale resta. Indubbiamente viene

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fatta e porterà delle conseguenze, piacevoli o spiacevoli che siano. E anche se in fondo pensi che avresti dovuto giocare con tuo padre e ti attribuisci parte della colpa, se non tutta, ti stai sbagliando. Gli incidenti accadono e non è né il tempo a essere insufficiente, come dici, né noi a potergli impedire di rallentare. Una scelta resta una scelta e il tempo resta il tempo. Se la colpa dovesse essere di qualcuno, allora dovresti prendertela con il primo essere senziente che a deciso qualsiasi cosa abbia deciso in quel lontano momento della sua evoluzione, chissà quanti miliardi di anni fa. O se sei credente con Dio, ma non lo sei, quindi sarei propenso per l’essere senziente. Ovviamente questo non toglie che i ladri abbiano compiuto una scelta in quel momento e tuo padre ci si trovava in mezzo. Ma come detto, una scelta, altro non è che l’evoluzione di una scelta precedente, anche involontaria. Io questa la chiamo vita.

− Quindi è tutto concatenato − constatai, − sembra quasi che sia quindi tutto già scritto, anche se analizzando a fondo, ogni singola scelta può cambiare il corso di qualsiasi evento più o meno legato a noi. Viene facile dedurre che, anche restando immobili, fermi, senza scegliere, si sta compiendo una scelta.

Per la terza volta in pochi minuti, sempre sorridendo senza battere ciglio, rispose allo stesso modo − assolutamente.

− La pensiamo in maniera differente comunque − dissi, − accetto le sue spiegazioni da psico−filo−veda−lei, ma non le condivido e do al tempo il ruolo che credo abbia e alle scelte lo stesso. Se io adesso le sparassi, sarebbe mia la scelta di farlo, non di colui che ha costruito l’arma.

Rimase a guardarmi in silenzio e il suo sguardo compiaciuto rivelava più di quello che credo volesse far trapelare. Io ricambiai per tutto il tempo e frenai la voglia di ribadire meglio il mio punto di vista. Poi parlò.

− Come sta tua moglie?− Sta bene − risposi, un po' spiazzato dalla domanda −

dovrebbe rientrare più tardi.− Prosegue tutto come hai sempre voluto?− Sì, più o meno. Lei è sempre presente e quando non riesco a

scrivere o non mi viene nulla in mente, non mi pressa e sa starmi accanto. Sa, divento intrattabile e dopo quindici giorni di nulla assoluto, meglio non girarmi intorno.

− So come sei − rispose − ero anch’io come te, poi ho capito che se le cose devono arrivare lo fanno da sole. Più stai li a spremerti il cervello, meno cose decenti ne usciranno fuori.

− Probabilmente è così, ma non posso stare molto senza scrivere, ci vivo così. E’ il mio lavoro, la mia vita.

− Sono sicuro che sia così. − Concluse, posando il bicchiere vuoto sul tavolo e girando lo sguardo per la stanza, dandomi la netta impressione che stesse offrendomi il tempo di riflettere sulle mie parole e sulle basi che le supportavano.

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Mentre lo fissavo squadrare la stanza percepivo in lui qualcosa di strano. Mi sentivo a disagio e m’infastidiva dover mettere involontariamente in dubbio le affermazioni fatte un istante prima, come se sapessi di avere comunque torto e che le cose importanti, quelle davvero essenziali, le conoscesse soltanto lui. Poi improvvisamente percepii qualcosa sulla pelle, che andava dalla base del collo fino ai piedi. Un brivido. La mia mano destra era poggiata sul bracciolo della poltrona ed era come se qualcosa si fosse poggiata su di essa. Allontanai quella sensazione strofinandola con l’altra mano e tornai con gli occhi sul mio interlocutore che adesso mi fissava, sull’orlo di aprire ancora bocca.

− Senti freddo?− Sì, un po' − risposi − forse è meglio berci ancora su.− Non potrei essere più d’accordo − disse, sporgendosi e

versando altro denso whisky nei bicchieri − l’ami ancora?− Mia moglie?− Chi altro.− Sì che l’amo. Perché non dovrei?− Oh, dovresti certamente − disse, girando la testa come se il

contrario fosse una cosa impensabile, − è solo che da quello che ricordo stavi per lasciarla.

− E’ stato molto tempo fa, prima di Adam, prima del libro, prima di molte cose. Adesso è tutto diverso. Non la lascerei per niente al mondo.

− Niente al mondo? − chiese, chiudendo le palpebre con aria interrogativa è rivelando le stesse zampe di gallina che odiavo notare anch’io nello specchio del bagno, tutte le volte che mi guardavo appena alzato.

− Precisamente − replicai deciso − per niente al mondo. − Annuì silenziosamente, forse ero riuscito a convincerlo in qualcosa questa volta, ma non ne ero tanto sicuro. Poi non riuscii a resistere. − Ha sempre avuto quelle rughe agli angoli degli occhi? Quando li stringe intendo.

− Da che ne ho memoria, sì. Perché me lo chiedi?− Perché le ho anch’io.− Me ne compiaccio − rispose sorridendo amabilmente e

mettendole di nuovo in mostra, − lo chiedi solo per questo?− Lo chiedo perché io non le sopporto, mi fanno sentire

inadeguato, strano. In un certo qual modo, brutto.− Io le adoro invece. Mi ricordano che la mia espressione è

unica, solo mia.− Ed è brutta.− E’ come voglio che io sia.− Ah, non mi convince sa − replicai − se una cosa è brutta è

brutta, punto e basta. Come se una cosa è bella è bella. Semplice. Oggettivamente quelle rughe sono brutte.

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− Come sempre, sei in errore − disse con una disarmante e sottile tranquillità. Non serviva che aggiungesse delle motivazioni, bastava solo quel modo di articolare quella semplice frase, per convincermi che era lui ad avere ragione. − Prendi l’arte. Ti piace l’arte?

− Sì, come tutti.− Ottimo. Conosci “La pietà” di Michelangelo?− Certo che la conosco ed è meravigliosa.− E se ti dicessi che non mi piace mi prenderesti per uno che

non ne capisce niente e non apprezza il “bello”, perché quell’opera oggettivamente lo è, giusto?

Ci pensai un attimo, poi senza neanche volerlo risposi − assolutamente.

− Capisco − disse, sporgendosi verso di me, − ma vedi, stabilire che una cosa, qualsiasi cosa, abbia un valore oggettivo è uno dei più grandi esempi di mancanza di rispetto che si possano perpetrare. Tralasciando il banale presupposto che se una cosa può essere gradevole per me non lo possa essere per qualcun altro, il semplice definire qualcosa in maniera oggettiva esclude a priori la possibilità di una replica, di un dissenso. Esclude il confronto, non con qualcun altro ma con il “proprio” punto di vista. Dire io reputo la Pietà oggettivamente bella o le mie rughe oggettivamente brutte, esclude a priori il semplice fatto che “tu stesso” possa mettere in discussione tale affermazione. E credimi, se non sei disposto a cambiare quelli che reputi i punti saldi del tuo modo di vedere le cose, quegli stessi punti ti renderanno cieco alle altre mille possibilità che ti si potrebbero presentare.

− Lei tende a volere sempre ragione, vero?− Solo quando so di averla − rispose tranquillamente,

riprendendo il bicchiere che prima aveva posato su di un ripiano accanto alla poltrona e dando una gustosa sorsata. − So che non la pensi così ma, come dicevo prima, dovresti cominciare ad accettare le cose che ti circondano. I pareri, i punti di vista, gli eventi e di conseguenza ti consiglierei di agire nel modo più appropriato.

− Chissà, forse ha ragione e forse ha completamente torto.− Probabile, ma adesso si è fatto tardi e questa chiacchierata

sarà meglio riprenderla più in là. Non so, magari domani?− Certamente, la riprenderemo domani.Vuotammo i bicchieri, con il cenno di un brindisi di congedo a

distanza per l’ultimo sorso e ci alzammo. Lo aiutai a rimettersi il cappotto e gli aprii la porta.

− Buonanotte − dissi, − e dorma bene.− Buonanotte anche a te − rispose, già fuori dalla porta − e

riposa come chi non deve temere nulla. − Si girò e scomparve dietro l’angolo della prima rampa.

Richiusi il portone e rimasi un istante a fissare le due poltrone vuote. Presi il posto che prima occupava il mio interlocutore, mi

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distesi e chiusi gli occhi. Ripassai tutta la conversazione appena fatta e provai un senso di benessere, come non ne provavo da tempo. Rimasi li, ad aspettare qualcosa, come se non sapessi quello che doveva succedere, eppure non aspettavo nulla e nessuno, tranne il ritorno di mia moglie. Mi addormentai e la sognai. Eravamo distesi in una spiaggia, lei stava accanto a me e guardava alcune barche a vela in lontananza. Poi sentii un’altra voce. Era mia madre e veniva fuori dal mare, vestita con un lungo abito rosso. S’inginocchiava dal mio lato, mi guardava fisso negli occhi e sorridendo mi carezzava i capelli con la mano. Poi, dopo avermi dato un bacio sulla fronte, mi diceva: “Buonanotte e riposa come chi non deve temere nulla”.

C’era qualcosa nei suoi occhi, come l’esigenza di dirmi qualcosa, di farmi “capire” qualcosa, ma inspiegabilmente si frenava. Intuivo che non me l’avrebbe detta.

Eravamo di nuovo ognuno al proprio posto, con i bicchieri in mano e l’attesa a dividerci. E in me balenava un dubbio, lo stesso che mi portavo dietro da quando mi ero chiuso la porta alle spalle.

− Dimmi pure − disse improvvisamente, distogliendo i miei pensieri da dove si trovavano.

− Cosa dovrei dirle?− Ciò che ti passa per la testa e che muori dalla voglia di

chiedere.Lo sapeva. Era evidente. L’unica cosa che mi sfuggiva era il

come facesse a saperlo. Quel sorriso poco accennato, lasciava trapelare una telepatia che mi sembrava innaturale e quindi decisi di dargli seguito. − Mi chiedo perché abbia usato quelle parole ieri sera, prima di congedarsi.

− Quelle che usava tua madre per darti la buonanotte, dici?− Sì, proprio quelle.− Perché evidentemente la conoscevo − rispose

tranquillamente − ma, invece di chiedermi come facevo a conoscerla e a sapere questo, visto che ho la tua stessa età e tua madre è morta da quasi dieci anni, dovresti chiederti perché tu non lo sai?

− Cosa non so?− Diavolo John − disse un po' costernato − come faccio io a

saperlo.− Se glielo chiesto evidentemente non lo so. Mi auguro abbia

l’accortezza di dirmelo.− Lo farò credimi, a tempo debito ma lo farò. Adesso rispondi a

questa domanda − fece, sorseggiando dal suo bicchiere − chi sono io?

La domanda mi colse di sorpresa e a supportare il mio smarrimento non fu la mancanza di prontezza nel rispondere, ma l’assenza stessa della risposta. − Lei è… Lei è… − Non riuscivo a ricordare chi fosse. Cercavo di inquadrarlo, ma non ci fu modo di

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riuscirci. Com’era possibile non saperlo. Lo avevo invitato, lo avevo atteso. Ogni cosa era stata sistemata proprio in visione del suo arrivo. Dal tavolo, alle poltrone, alla selezione di drink. Tutto in sua funzione, eppure non riuscivo a ricordare chi fosse quella persona. Solo una strana sensazione mi pervadeva ed era quella che lo rendeva la persona più vicina a me in quel momento, più di chiunque altro. Lui mi conosceva, sapeva chi ero, sapeva cos’ero. Per un istante fui pervaso dall’angoscia, da una strana paura. Ero all’oscuro, mi sentivo solo e di nuovo quella strana sensazione provata prima. Un brivido, dalla base del collo correva lungo la schiena e le mie mani percepivano nitidamente un calore a me estraneo. E quando il disagio sembrava prendere il sopravvento, qualcosa mi riportò indietro: la sua voce.

− So cosa stai provando, John − disse pacatamente − lo sento anch’io.

− Allora chi sei? − dissi istintivamente, abbandonando quel formale “lei” mantenuto per tutto il tempo.

− Risponderò anche a questo, stanne certo. La domanda più importante adesso non è chi sia io, ma perché sono qui.

− Per parlare − dissi nervoso e a disagio, rigirandomi il bicchiere nella mano, − per parlare con me.

− Tutto qui? − chiese − non ti domandi per parlare di cosa?− No − risposi ricomponendomi a forza, − non ancora almeno,

ma sono sicuro che me lo dirà.− Certo che lo farò, sono qui per questo. E ti prego di darmi del

tu. − Si aggiustò sulla poltrona e cominciò con una lunga serie di domande. Cominciò col chiedermi del mare e di quanto ne fossi attratto da sempre. Della “Vela”, la mia seconda passione dopo la scrittura. Dei viaggi fatti con mia moglie e di come lei fosse la mia vera e unica casa. Di mio figlio Adam e del bene incondizionato che gli volevo, nonché dell’immensa gioia che avevo provato quando a sei anni lo portai in barca a vela con me. Tutte cose belle, che mi rilassarono e mi trasportarono in una dimensione che soltanto io potevo capire. Mi stava dimostrando che anche lui ne era al corrente e dai dettagli che mi dava, sembrava aver provato le mie stesse sensazioni. Avevamo provato le stesse gioie, le stesse emozioni.

− Cosa dovrei capire da tutto questo? − gli chiesi.− Intanto che non sono una minaccia per te, ma la cosa più

vicina che puoi trovare. Poi che è il modo migliore possibile che ho per farti arrivare alla comprensione di ciò che ti è successo.

− Che mi è successo − ripetei perplesso, − cosa mi sarebbe successo?

− Non posso dirtelo io, non voglio. Devi arrivarci da solo e soltanto in quel modo potrai accettare quello che è successo.

− Mi stai facendo paura − dissi, cercando di leggere nel suo placido sguardo qualcosa in più. In effetti non sapevo chi fosse, il

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reale motivo della sua presenza in quella stanza e riflettendoci accuratamente, non avevo memoria di molte cose passate. Era come se i miei contorni fossero sbiaditi e non riuscissi a vedere più in là, di quanto mi fosse concesso. Mi venivano davanti ricordi d’infanzia, mia madre che cucinava, mio padre stanco davanti al televisore, il mio matrimonio con Meredith e nostro figlio Adam, ma ciò che mi sfuggiva era proprio davanti ai miei occhi, solo celato da qualcosa.

− Non averne − disse − ricordi, non devi temere nulla.Ci fissammo per un po', restando in silenzio. Poi, nonostante

quelle parole che per me erano sempre state le più rassicuranti mai udite, non riuscii a non pensare al peggio e un senso d’incertezza, supportato da tutti i discorsi fatti fino a quel momento, s’impadronì di me e non sembrava più esserci spazio per altre possibilità. − Dimmi la verità, sono morto?

− No, John − disse con un sorriso, − non sei morto.− Me lo diresti se lo fossi? − domandai, sentendomi come un

bambino che chiede se sotto il suo letto viva un orco cattivo.− Certo che te lo direi, ma non lo farò perché non è così. Ma

vorrei che adesso tu provassi a ricordare qualcosa; qualcosa di poco piacevole, ma che servirà a farti capire ciò che sta succedendo.

− Come posso farlo? Come posso riuscirci?− Questo lo sai solo tu, ti chiedo soltanto di chiudere gli occhi,

ricordare e di non aver paura di farlo. Pensa al perché puoi essere qui con me, al “come” tu possa essere in questa stanza con me. Infine − aggiunse, − ti chiedo di accettare quello che sarà. Solo così potrai riconoscere. Solo così, potrai capire.

Stanco di sforzarmi di afferrare il significato di ogni sua parola, decisi di fare come mi aveva detto. Chiusi gli occhi e mi lasciai andare. Mi rilassai, sforzandomi di pensare a qualcosa che era successo, alle persone che conoscevo e che mi erano accanto, alla vita per come sapevo di averla vissuta prima di aver aperto la porta a quello sconosciuto che tale sapevo non essere.

Cosa mi teneva ancorato alla vita? Cos’era la mia stessa vita? Mi venne in mente mio figlio e quel suo sorriso, così simile al mio. Le sue piccole dita che tentavano di tirare la scotta per girare la randa, cioè la corda che governa la vela maestra e far virare la nostra imbarcazione. La sua voce rotta dagli schizzi d’acqua che ci bagnavano a causa di qualche onda grossa. Forse ero un pazzo a portarlo così piccolo con me, ma le sue grida di gioia erano la ricompensa, molto meglio delle lacrime che gli vedevo versare quando non poteva seguirmi e restava con le mani serrate nella ringhiera, guardandomi allontanare. I suoi mille giochi sparsi sul tappeto del salotto e i fogli con i disegni nel pavimento del mio studio, quando ero intento a scrivere qualcosa. Mia moglie, i suoi occhi azzurri come quel mare che amavo tanto. Le canzoni che

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intonava girando per casa e le piroette da prima ballerina, ricordando i suoi trascorsi classici, che un po' la imbarazzavano, ma che ai miei occhi la rendevano solo mia. La sua pelle e i suoi consigli. E le sue mani; quelle mani che sentivo stringermi ancora. Sì, era questo che sentivo. Era questo che avvertivo nitidamente anche adesso, mentre tra i ricordi riaffioravano nitide e forti, nonostante la loro affusolata forma. Così gentili e mie. Mani che non mi hanno mai lasciato. Mani che mi stringono, ma che non riesco a stringere. Perché ricordo questo? Perché con tutte le cose meravigliose che posso ricordare di lei, questo è l’unico pensiero che sento e che non riesco a cancellare? Poi, mentre ero in preda a questi pensieri, mi fu chiaro. Era successo qualcosa, qualcosa di terribile e non riuscivo a ricordarlo. Solo una cosa era palese e reale, la mano di Meredith. La sua mano stava stringendo la mia, lo sentivo, ero lì, ma non potevo ricambiare e non capivo perché, né come fossi in quella situazione. Come poteva essere possibile tutto questo.

Aprii gli occhi di scatto e mi trovai mezzo disteso sulla mia poltrona. Gli occhi del mio ospite erano puntati su di me e stava bevendo in tutta tranquillità. Mi ricomposi e cercai di fare chiarezza nella mente per quel che potevo. − Dov’è Meredith? Dov’è Adam? Perché non ricordo nulla e che diavolo stiamo facendo qua? − Dal tono accelerato e dalle domande fatte, mi aspettavo di essermi alzato e preteso mille volte ragione, ma mi accorsi di essere rimasto seduto e tutto sommato, di aver mantenuto un tono composto.

− Dimmelo tu dove sono, John − rispose − e cosa ci facciamo qui.

− Sono morti? Meredith è morta? − replicai − Cristo, aiutami tu.

− Stai tranquillo, non sono morti e tu non credi in Cristo, lo sappiamo entrambi e comunque non credo che vorresti il suo aiuto. Vuoi davvero che ti dica cosa è successo?

− Sì, vorrei lo facessi.− D’accordo John, ti giuro che lo farò. Ti ho detto prima che

risponderò a tutte le tue domande e così sarà, ma vorrei che ci arrivassimo insieme. Ti assicuro che nulla può accadere che non sia già successo e quindi nulla accadrà di male.

Mi sentivo frastornato e impotente, come tenuto in gabbia. Ma il mio carceriere era gentile, cordiale e totalmente disponibile. E nel tempo che ci volle per assorbire quelle sue parole si dipanò in me un senso di calma e riflessione. Accettai le sue parole e il suo consiglio e mi misi in condizione di ascoltare e rispondere a tutto quello che mi avrebbe chiesto. − Ti ascolto − gli dissi, riprendendo il bicchiere tra le mani e mandando giù un lungo sorso che servì a calmare i miei pensieri.

− Bene. Dimmi cosa hai sentito, cosa hai visto.

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− Gli unici pensieri sono stati mio figlio e mia moglie. I suoi giochi, l’andare a vela insieme a lui e i momenti con Meredith, la nostra casa e poi... − m’interruppi.

− Poi… − mi suggerì.− Le sue mani. Le mani di Meredith. O meglio, la sua mano, ho

sentito la sua mano. Mi ha stretto, toccato ed io non riuscivo a stringerla. Perché non riuscivo a stringerla? Voglio riuscirci, devo farlo. So che entrambi ne “abbiamo” bisogno.

− Lo so, ma vorrei non ci pensassi adesso.− Come posso non pensarci − replicai stranito, − la sentivo

capisci, la sentivo.− Lo so, ti ho capito, ma vorrei mi dessi retta. − Rispose,

facendomi cenno con le mani di calmare ogni mio pensiero e riprendendo il bicchiere che aveva posato per quel movimento, dandomi il tempo di sgombrare la mente.

− Ok, scusa. Ti ascolto.− Bene. Quante donne hai avuto prima di Meredith?− Perché mi chiedi questo? Che cosa c’entra adesso? − chiesi

un po' spiazzato, − so che devo risponderti e non capisco perché mi sia deciso a farlo, ma perché mi chiedi proprio questo?

− Ogni cosa che ti chiedo, logica o illogica che ti sembri, serve per farti capire quello che sta succedendo. Detto questo, quante donne hai avuto prima di Meredith?

Mi fidavo di lui, sapevo che potevo farlo e che lui mi avrebbe condotto ad un punto chiaro. Non sapevo quanto tempo ci avrebbe messo né cosa avrebbe fatto, ma decisi di rispondere. − L’ho conosciuta dopo l’università, quindi qualcuna l’ho avuta. Diciamo dieci, quindici, ma non molte di più.

− Ottimo. E dimmi, di quante di queste ti sei innamorato?− Se intendi l’amore adolescenziale che si prova da ragazzi,

tre, quattro al massimo cinque, non ricordo esattamente.− Fantastico. E a quante di queste hai detto “ti amo”?− Ma perché mi chiedi questo, davvero non capisco?−John, rispondi e basta. − Replicò secco, riportando alla luce le

rughe agli angoli degli occhi, che aveva anche quando mi fissava con attenzione.

− A tutte e cinque, credo. Forse a qualcuna in più, ma solo per convincerle a lasciarsi andare. Sì, non è onorevole ma ero giovane, tutti l’hanno fatto. Anche tu scommetto.

− Io dici, stiamo parlando di te. − Rispose seccamente, con l’aria di chi è stato accusato ingiustamente di un reato impossibile da commettere.

− Ok, se lo dici tu. Comunque se t’interessa, a quelle di cui ero innamorato, l’ho sempre detto incondizionatamente.

− E dimmi, hai mai detto ti amo a Meredith?Stavo per rispondere “si”, ma qualcosa mi fermò. Non ero

certo della risposta. − Credo di sì − dissi − ma non ne sono sicuro.

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− Te lo dico io − spiegò, − non lo hai mai fatto. Non le hai mai detto che la amavi.

− Stai cercando di dirmi che io non amo mia moglie?− Assolutamente. Sto solo cercando di dirti che non le hai mai

detto “ti amo”. Ma dimmi − aggiunse prima di essere interrotto da me che mi ero spostato sulla punta della poltrona, come a voler dare più autorità alla mia replica, convinto che sarebbe servito quello per farmi forte, − sai cos’è l’amore?

− Che domanda − dissi, un po' spiazzato − certo che lo so.− Sì, ne sono convinto. Tu sai amare e lo hai fatto, o meglio, il

sentimento che manifestavi nei suoi confronti viene comunemente chiamato amore, ma non è proprio quello che tu provi per Meredith. Quello che tu provi per lei è ben altro. Vedi, io so cos’è, ma tu non lo ricordi affatto e lo confondi ed è questo che devi comprendere. E’ la tua chiave di volta John, l’unico modo per capire dove ti trovi e riuscire ad accettare quello che scoprirai.

Confuso e incuriosito da tanta sicurezza, pensai fosse fin troppo convinto dal tono che usava. − Spiegami come e perché amo mia moglie allora, visto che a quanto pare lo sai meglio di me.

− Lo farò e quando finirò di parlare non potrai fare altro che darmi ragione.

− Ti ascolto − dissi, presi il mio bicchiere di Cask e mi misi comodo.

− L’amore è il sentimento più sopravvalutato che esista. Tutti amano e tutti sono amati. Ma quante relazioni intercorrono nella vita di una persona e quante volte quella stessa persona dichiarerà il proprio amore per un’altra. Eppure in quel momento pensava che fosse l’unico amore possibile. Dire ti amo a qualcuno, dopo averlo già detto precedentemente ad un’altra e come riciclare un regalo che ti è tornato indietro. Le persone sono troppo pigre per vedere quello che davvero si nasconde dietro i propri sentimenti e accettano convenzionalmente un termine che faccia il lavoro per loro, che possieda la facoltà di descrivere il proprio trasporto con una semplice parola. Ma in fondo non è così. Lo chiami amore perché è il termine socialmente accettato e che finisce per influenzare il tuo modo di relazionarti e amerai come la società ha deciso che si ama. Ma non è così per te − precisò, puntando il dito della mano che teneva il bicchiere verso di me e facendone quasi versare il contenuto, − tu non hai mai detto ti amo a Meredith perché il tuo coinvolgimento è diverso. Tu sai che non è come le altre volte, solo che non riesci più ad inquadrarlo. Il vostro “amore” dovrebbe chiamarsi con un termine tutto vostro, un termine che non esiste, perché è diverso da tutto quello che conoscevi e che c’è stato in passato. Non può conformarsi al resto del mondo, agli altri sentimenti, perché è solo vostro e perché è il tipo di passione che ti salva la mente, ti tira fuori dalla trappola della mortalità perfino, che quando sei con lei il resto potrebbe scomparire. Ricorda questo,

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John e uscirai dal buio che ti circonda. Ricordando quanto è forte e unico ciò che avete, potrai accettare ciò adesso hai.

Rimasi zitto e immobile. La bocca semi aperta lasciava trapelare lo sbigottimento che imperversava nei miei pensieri. Lui aveva avuto tutto il tempo per appoggiarsi alla spalliera, aggiustarsi la giacca e tornare a fissarmi con lo sguardo di sempre. Mi sforzai di parlare, di dire qualcosa di sensato, ma non usciva nulla dalla mia testa. L’unica cosa che riuscivo a formulare era che aveva perfettamente ragione. Era così, parola per parola. Lei, Meredith, era stata l’unica donna possibile, l’unica vera strada. Quello che mi collegava a lei era diverso da tutte le altre volte, ma non perché era diventata mia moglie e mi aveva dato un figlio, come avevo sempre creduto, ma perché ricordavo che soltanto sapere che c’era bastava a darmi un posto nel mondo. La sola presenza della sua vita nella mia, era sufficiente a farmi affrontare ogni cosa. Tutto era possibile con lei accanto. Lei mi aveva salvato. Ogni cosa era fattibile e sopportabile, se il suo pensiero, così puro e coraggioso, non mi avesse abbandonato. E poi, d’improvviso, fu tutto chiaro. Come uno schiaffo in pieno viso si delinearono tutti i contorni e ritrovai il filo che sentivo aver perso. − Dimmi cosa mi è successo − gli chiesi, − mi mancano solo gli eventi, per il resto sai che so tutto. Dimmi solo come.

− In barca − disse − e successo mentre eri in barca.− Come?− La scotta si è sciolta e la boma ti ha preso dietro la nuca. Sei

svenuto e se fossi caduto in acqua saresti morto.− Quindi, non sono morto? − domandai, toccandomi la testa

con la mano sinistra, quella libera, convinto che avrei trovato il segno della botta del lungo asse che sta alla base della vela sulla mia testa, ma non c’era nulla.

− No, te l’ho già detto prima. Non sei morto.− Che cosa è successo dopo allora? Perché non ricordo nulla e

perché mi trovo qui con te, senza neanche sapere chi diavolo sia tu? − L’ansia stava prendendo ancora una volta il sopravvento, ma dentro di me qualcosa era pronto per sapere. Perché non avrei affrontato tutto da solo, con me c’era Meredith, la mia parte migliore, anche se non riuscivo a vederla. Mi calmai e guardai l’uomo che mi stava davanti, cosciente che aspettava la domanda giusta. − Puoi dirmi cosa mi è successo dopo, sono pronto.

− Sì, John − confermò − lo sei. Ti ha trovato un’altra barca alcune ore dopo. Eri alla deriva. Adam ha attirato la loro attenzione. Ti hanno caricato con loro e ti hanno subito accompagnato a terra, dove un’ambulanza ti ha portato all’Hope Center Hospital. Dopo un intervento di quattro ore eri fuori pericolo, sembrava tutto passato perché davi segni di ripresa, ma non ti sei più risvegliato.

− Che vuol dire che non mi sono più risvegliato?

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− Sei in coma − disse, per la prima volta distogliendo lo sguardo e portandolo in un punto indefinito tra la bottiglia e i miei piedi sullo sfondo e riprendendolo subito, − ma è un coma diverso. Il primario dice di non aver mai riscontrato un caso del genere. Sei stato quasi cosciente per un paio di minuti, poi nulla più. Respiri da solo, non sei attaccato a una macchina, tranne che per le flebo che ti nutrono. Tutti i tuoi valori sono nella norma e sei perfettamente stabile. In pratica è come se dormissi, ma entrambi sappiamo che non è così.

Rimasi totalmente disorientato, perché in realtà mi aspettavo tutt’altro. Non sapevo cosa, ma di certo non questo. Mantenni comunque la calma, sforzandomi di ricordare. − Qualcosa sembra riaffiorare, ma non è chiaro. Dove siamo adesso?

− Questo devi dirmelo tu, John − rispose − hai tutti i pezzi. Collegali e fai ciò che sai fare meglio. Scrivi qualcosa.

Ci sono attimi, nella vita di una persona, che durano davvero un istante, ma che sono come dei bagliori di tempesta in una notte buia. Intense luci che illuminano tutto e mettono in mostra cose che altrimenti sarebbe impossibile vedere. Quell’attimo fu così, fugace ma nitido. Era stata la mia lucida volontà a volerlo o forse il mio ragionamento era stato spinto da quell’uomo, fatto sta che compresi; compresi chi ero e cosa ero diventato ma, soprattutto, cosa dovevo tornare ad essere. Adesso sapevo tutto quello che era successo.

− Sono sempre stato un uomo razionale − dissi, guardandolo come mai prima di quel momento.

− Lo so.− E non ho mai lasciato che la mia lucidità fosse compromessa

da fattori esterni o che non dipendessero da me.− Lo so.− Io sentivo la sua mano, − spiegai − ricordo tutto. Sentivo il

calore del suo tocco ed era l’unica cosa che potevo distinguere. Era l’unica cosa a cui mi potevo aggrappare, ma non riuscivo a sopportare l’idea di non poter tornare indietro. Ero fermo in quel letto, immobile e silenzioso, ma riuscivo a ragionare. Ero lucido, cosciente di tutto, ma comunicarlo mi era impossibile. Solo il suo tocco riuscivo a sentire, per qualche strana ragione le sue mani erano l’unica cosa che mi tenevano vigile. Immerso nel silenzio, trascinato improvvisamente in quel buio, le sue mani erano l’unica cosa che mi tenevano lontano dalla pazzia. Ecco cos’è successo.

− Tutto corretto, John − rispose, − tutto corretto.− Ora, dove siamo qui? − domandai girando la testa − La

riconosco, è casa mia, ma se sto parlando con te, dovrebbe essere tutto finito. Perché non sento Adam giocare di là o Meredith cantare? − domandai, tornando con lo sguardo su di lui − che cosa…

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Mi bloccai, fisso su di lui. Sgranai gli occhi, in un misto di incredulità e coscienza. Quell’uomo, quella persona che mi stava seduto davanti. Quel luogo, così familiare e allo stesso tempo lontanissimo.

− Hai capito adesso?Il mio silenzio era il più eloquente segno di assenso che potessi

dare. Era la definitiva conferma di comprensione. − Sì, − dissi, − “ora” è tutto chiaro.

− Dove siamo, John? − mi domandò.− Noi siamo… − risposi, del tutto immobile e quasi senza

accorgermene, − nella mia testa. Siamo nella mia testa. − Un turbinio di pensieri e immagini si accavallavano nella mia mente e lentamente prendevano posto, collocandosi in ordine.

− Quindi, tu dove sei?− Sono in un letto, in qualche reparto dell’Hope center

Hospital.− Proprio così − confermò. Poi con gli occhi ben fissi su di me,

mi spiegò ciò che dentro di me sapevo già, − Vedi, il buio e il silenzio, forse non sarebbero stati una condizione permanente o perlomeno, inizialmente speravi non fosse così e ti aggrappavi ad un esile speranza. Avevi sempre vissuto con l’ansia degli istanti che cambiano la vita, di quelli per i quali si passa tutto il tempo dopo a cercare di capire se si sarebbero potute evitare le condizioni che avrebbero portato a quell’istante stesso.

− Vani discorsi del “se” − dissi, quasi inconsapevolmente, − che non mutano i risultati a cui l’istante ha portato: il buio e il silenzio, appunto.

− Già − confermò, − la tua pelle per fortuna sentiva ancora, come hai detto, ed era l’unico canale grazie al quale ricevevi dati dall’esterno. Tu riuscivi a “vedere” la mano di Meredith e le sue labbra, quando toccavano le tue. Ma per il resto eri solo e hai rischiato di impazzire. E lì hai capito che era proprio la pazzia che avrebbe potuto salvarti. Alla pazzia saresti riuscito a sopravvivere, lei ti avrebbe aiutato a sopportare la solitudine e il distacco. Così hai iniziato a spolverare quel buio, perché sapevi che anche se non avesse avuto grandi pretese, non volevi rischiare qualche brutta figura dopo tanto tempo, perché in fondo avevi deciso di conviverci per un bel po', da quello che le tue stesse orecchie avevano sentito in quegli sporadici momenti di lucidità.

− Quindi cosa ho fatto dopo? − chiesi.− Ti sei perso, John. Hai abbandonato ogni cosa che ti legava

alla tua lucidità, ai tuoi affetti e alla tua coscienza. Eri arrabbiato, spaventato. Un misto di consapevolezza e sconcerto. Sei uno scrittore, la realtà era la tua forza, la descrizione minuziosa della vita e degli eventi, non quello che ti stava succedendo. Una condizione del genere avrebbe fatto impazzire chiunque ed è questo che ti è successo. − Fece una breve pausa, sicuro che stessi

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elaborando ogni parola, che le stessi collocando nel loro giusto spazio. Riempì di nuovo i bicchieri e riprese. − Ma poi mi hai sorpreso. Dopo un lungo e disperato vagare una parte di te, quella che era stata accantonata dallo smarrimento, quella che ti rendeva umano e razionale, si è come ritrovata e ha deciso di riprendere il controllo. Ma per farlo serviva qualcosa che ti riportasse alla tua essenza, alla tua giusta dimensione mentale. Serviva un punto fermo, indissolubile. Serviva qualcuno che non poteva essere confuso con quella condizione di abbandono e desolatezza.

− Meredith − sussurrai, − serviva Meredith.− Sì, John − confermò − serviva Meredith per ricollocarti al tuo

posto e qualcuno che te lo ricordasse.− Certo, solo “Lei” poteva. E cosa è successo dopo?− Ti sei come scosso. Hai preparato le poltrone, il Balvenie

Cask 191 per entrambi e hai scelto un silenzio non troppo invadente, un silenzio morbido, sapevi che mi sarebbe piaciuto, in fondo mi conoscevi. Eri trepidante e curioso nell’attesa che arrivassi. In fondo, anche in un turbinio di sconfinata irrazionalità, in preda ad un così delirante vagare, non avevi mai smesso di parlarti di me. Ero così simile e diverso da te adesso, tanto conosciuto quanto misterioso. E poi mi hai aperto, hai preparato tutto l’occorrente per mettermi a mio agio, nella speranza di non perdermi e adesso sono qui davanti a te.

− Quindi tu sei… − dissi, portandomi una mano al petto, restando quasi senza fiato − me.

− Assolutamente − rispose, alzando il bicchiere in segno di brindisi alla mia scoperta.

Ero un po' frastornato ma ogni cosa era finita al suo posto, tutto era chiaro e ovvio. − Ecco perché sapevi di mia madre.

− Sì. Io ero l’unico modo per riportarti “indietro” e il mezzo per farlo era il ricordo di Meredith. Lo avevi smarrito insieme a tutto il resto e io non potevo permetterlo.

− Ma io sto parlando con te in questo momento − costatai, − cioè con me stesso. Siamo nella mia testa. Io non direi di essere lucido, al contrario credo di essere totalmente in preda alla pazzia.

− C’è pazzia e pazzia, John. Se sei tu ad usare questa pazzia, a controllarla, a gestirla e a modellarla per le tue necessità, credi davvero che sia lei ad avere il controllo? O magari sei tu che ne manovri i fili? Hai piegato la tua condizione e adesso, grazie alla tua forza e alla tua più forte arma, Meredith, anche se immobile su di un letto, hai trovato un modo per restare legato alla vita.

− Lo credi davvero? − domandai.− Finché sarai capace di reinventarti un posto tutto tuo, la tua

vita non cesserà mai di essere vita.Lo guardai. “Mi” guardai. Le sue erano parole giuste. − Dimmi

un’ultima cosa, mi risveglierò mai? Tornerò alla vita che conoscevo, quella che non vivo soltanto all’interno della mia testa?

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− Questo non lo so − rispose, concentrandosi su di me come a volermi radicare nella mente un pensiero di fondamentale importanza e rivelando di nuovo le rughe ai lati degli occhi che adesso non mi sembravano più così brutte, − ma so che qui può accadere tutto e se tu lo volessi davvero, e so che è così, io potrei non essere l’unica persona capace di bussare a quella porta.

− Dici davvero? − gli chiesi, intravedendo in lontananza il barlume di una possibilità. Quella che sembrava l’impossibile ipotesi di un nuovo inizio.

− Io − rispose − sono qui perché sei stato tu a volermi. Io sono la tua caparbietà, la tua razionale fame di vita. Io sono stato chiamato da te per trascinarti fuori da un turbine di insana negazione e ci sono riuscito. Tu ci sei riuscito. Quindi, se sei stato capace di tanto, credo che tu sia capace di costruire tutto ciò che vuoi e con chiunque tu voglia. In questo posto John, se lo desideri, tutto diventa possibile.

Seppi che smise di darmi spiegazioni nell’istante esatto in cui, con quelle ultime parole, si appoggiò alla spalliera e riprese a sorseggiare il suo drink. Era tutto esatto, logico e allo stesso tempo incredibile. Ero su di un letto in quel momento e la mia mente vagava, libera di costruire quello che i miei stessi occhi stavano guardando. Due poltrone, una bottiglia di rarissimo whisky, una stanza dalle pareti reali e me stesso di fronte a me. Era davvero possibile tutto e se funzionava realmente così, non avevo motivo per non seguire quel flusso.

− Credo che adesso sia proprio giunto il momento di andare − disse improvvisamente, alzandosi dalla poltrona dopo aver vuotato il bicchiere con un unico sorso, − magari possiamo continuare la nostra conversazione domani, tanto fino a prova contraria, dovrei trovarti qui giusto?

− Credo proprio di si − risposi sorridendo e alzandomi di rimando. Lo accompagnai ancora una volta al portone e come già successo lo aiutai con il cappotto. − Grazie − gli dissi, porgendogli la mano, vittima di un’improvvisa ma composta commozione.

− Ringraziare se stessi è il primo passo per la consapevole affermazione dell’io. − E stringendomi la mano mi tirò a se e mi abbracciò, in una stretta che suggellava un indissolubile accordo. Mi diede un ultimo sguardo, allontanandomi ma tenendomi le mani sulle spalle, − quelle rughe agli angoli degli occhi le sono sempre piaciute. − Mi sorrise, si girò e si allontanò fino a scomparire.

Ripetei ogni passo della volta precedente, mi sedetti di nuovo al suo posto e chiusi gli occhi. Ripassai tutto quello che avevo appreso, che mi ero ricordato. Un incidente, ecco cosa mi era successo, un banalissimo incidente e mio figlio era con me e mi aveva salvato la vita chiamando aiuto. Ed eccomi su di un letto, immobile e vittima di una condizione assurda e destabilizzante per chiunque. Ecco perché avevo reagito così. Ecco perché mi ero

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smarrito. Ma questo non contava più, perché adesso ero in qualche modo tornato in me, forse mi ero trascinato con i gomiti in quella condizione e sicuramente lo sforzo doveva essere stato terribile. Mi sforzai di non pensare a chi, magari in quello stesso momento, mi stava osservando disteso su quel letto, perché a quello non c’era davvero rimedio e mi concentrai su ciò che dovevo essere adesso. Già, ma cosa? C’era da chiederselo davvero e trovare subito una risposta. Dovevo chiedermi cosa fossi adesso? Se l’azione o la reazione? La causa o l’effetto? Era strano, quasi assurdo, eppure ero stato io a creare tutto, io avevo costruito tutto. Sì, ero stato “io”. Ecco cosa ero, né causa o effetto, né azione o reazione. Io ero tutte queste cose messe assieme, io ero ciò che aveva costruito tutto. Ero il solo artefice. Ero il creatore. Avevo detto che tutto era possibile e se la pazzia può creare qualcosa nella testa di un individuo sano, allora io potevo creare ogni cosa attraverso la mia presunta e lucida pazzia. Fu un istante e successe tutto troppo velocemente. Mi alzai di getto e col cuore che mi scoppiava nel petto, andai verso la porta, misi la mano nella maniglia, chiusi gli occhi e la spalancai. Quando qualche istante dopo li riaprii, due occhi grandissimi e azzurri come il mare, si stavano perdendo dentro i miei.