Douglas Adams - Sicuro, Sicurissimo, Praticamente Sicuro (Racconto)

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Douglas Adams Sicuro, sicurissimo, praticamente sicuro titolo originale: Young Zaphod Play's It Safe (1986) traduzione di Laura Serra MONDADORI Il racconto è stato per la prima volta pubblicato in Italia all'interno del volume del ciclo completo de “La Guida Galattica per gli Autostoppisti” nel 2000 nella collana “I Massimi della Scienza”. Un grande apparecchio volante sfrecciò sullo specchio d'un mare di straordinaria bellezza. Da metà mattina in poi viaggiò avanti e indietro descrivendo archi sempre più ampi, finché attrasse l'attenzione degli isolani, gente pacifica ghiotta di crostacei. Gli indigeni si radunarono sulla spiaggia e, con gli occhi socchiusi per il sole accecante, guardarono il cielo cercando di capire cosa fosse quell'affare lassù. Qualsiasi persona istruita e informata fosse capitata da quelle parti, osservando alcuni particolari avrebbe forse notato che l'apparecchio somigliava molto a un casellario: un grande casellario che qualcuno aveva forzato e che, volando, giaceva riverso con i cassetti per aria. Gli isolani, forniti di un diverso tipo d'istruzione, constatarono invece che l'aggeggio somigliava pochissimo a un'aragosta.

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Racconto simpatico di Douglas Adams. Per chi ha letto la saga, soprattutto. Per chi non l'ha fatto be', potrebbe essere un buon modo per iniziare.

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Douglas Adams

Sicuro, sicurissimo, praticamente sicuro

titolo originale: Young Zaphod Play's It Safe (1986)

traduzione di Laura Serra

MONDADORI

Il racconto è stato per la prima volta pubblicato in Italia all'interno del volume del ciclo completo de “La Guida Galattica per gli Autostoppisti” nel 2000 nella collana “I Massimi della Scienza”.

Un grande apparecchio volante sfrecciò sullo specchio d'un mare di straordinaria bellezza. Da metà mattina in poi viaggiò avanti e indietro descrivendo archi sempre più ampi, finché attrasse l'attenzione degli isolani, gente pacifica ghiotta di crostacei. Gli indigeni si radunarono sulla spiaggia e, con gli occhi socchiusi per il sole accecante, guardarono il cielo cercando di capire cosa fosse quell'affare lassù.

Qualsiasi persona istruita e informata fosse capitata da quelle parti, osservando alcuni particolari avrebbe forse notato che l'apparecchio somigliava molto a un casellario: un grande casellario che qualcuno aveva forzato e che, volando, giaceva riverso con i cassetti per aria.

Gli isolani, forniti di un diverso tipo d'istruzione, constatarono invece che l'aggeggio somigliava pochissimo a un'aragosta.

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Parlando concitatamente, rilevarono la totale assenza di chele, il dorso rigido privo di curve e l'evidente difficoltà ad ancorarsi al terreno, una caratteristica, questa, che parve loro assai curiosa. Per un pezzo saltellarono sul suolo della loro isola per far vedere a quello stupido congegno che tenere i piedi in terra era la cosa più facile del mondo.

Ma presto finirono per trovare noioso il diversivo. In fondo, poiché era chiarissimo che l'oggetto non era un'aragosta e poiché il loro mondo era benedetto da un'abbondante messe di aragoste (cinque o sei delle quali - visione celestiale - marciavano in quel momento dalla battigia verso di loro), non vedevano motivo di perdere altro tempo a guardare e decisero di concedersi subito un bel pranzo a base di aragoste.

Proprio in quella l'apparecchio si fermò di colpo a mezz'aria, poi si raddrizzò e si lanciò a capofitto nell'oceano, provocando una tale esplosione di spruzzi, che gli isolani corsero urlando a nascondersi tra gli alberi.

Quando, pochi minuti dopo, lasciarono con cautela il loro nascondiglio, essi videro solo quieti cerchi concentrici sull'acqua e qualche bolla di risucchio.

"È strano" si dissero mangiando le migliori aragoste di tutta la Galassia occidentale: era la seconda volta che un fenomeno simile capitava nel giro di un anno.

L'apparecchio che non era un'aragosta scese subito alla profondità di sessanta metri e si fermò in un cupo ambiente azzurro sospeso tra vaste masse d'acqua fluttuanti. In alto, dove il mare era cristallino, guizzò un luccicante

banco di pesci. In basso, dove la luce faticava ad arrivare, il colore sfumava in un blu fosco e inquietante.

Alla profondità di sessanta metri il sole filtrava poco. Un grande mammifero acquatico dalla pelle serica passò pigro accanto all'oggetto, lo ispezionò con tiepido interesse, come si fosse aspettato di trovare lì qualcosa del genere, poi si diresse in su, verso le strie di luce.

L'apparecchio rimase immobile uno o due minuti per registrare dati, quindi scese di altri trenta metri. A quel punto il buio si fece ancor più fitto. Dopo pochi secondi le luci interne si spensero e prima che si accendessero quelle esterne, l'unico, debole bagliore visibile giunse per un istante da una targhetta rosa fluorescente su cui era scritto: Azienda Beeblebrox di recupero materiali e reperti impossibili.

I potenti raggi dei fari, rivolti in basso, illuminarono un grande banco di tarponi che fuggì via in agghiacciato silenzio.

Nella buia sala di controllo che occupava l'intero arco della prua smussata, quattro teste erano radunate davanti allo schermo del computer che analizzava i deboli segnali discontinui provenienti dagli abissi sottostanti.

— Eccolo — disse infine il proprietario di una delle teste.

— Possiamo affermarlo con sicurezza? — chiese il proprietario di un'altra testa.

— E matematicamente sicuro — replicò il proprietario della prima testa.

— È matematicamente sicuro che la nave naufragata sul fondo di questo oceano sia proprio la nave che voi vi eravate detti matematicamente sicuri che non potesse matematicamente naufragare? — domandò il proprietario delle due teste rimanenti, aggiungendo, con un gesto conciliante delle mani: — Beninteso, è una domanda innocente, la mia.

1 due funzionari dell'Amministrazione Sicurezza e Protezione Civile gli lanciarono un'occhiata gelida, ma l'uomo con l'impari, o meglio il pari numero di teste non se ne accorse. Tornò di corsa al suo sedile di pilota, aprì un paio di birre, una per sé e l'altra sempre per sé, poggiò i piedi sulla console e, attraverso 1 ' ultravetro della nave, disse: — Ciao, piccolo—a un pesce che passava.

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— Signor Beeblebrox... — mormorò il funzionario più basso e meno rassicurante.

— Sì? — fece Zaphod, sbattendo la lattina appena vuotata su alcuni degli strumenti più sensibili. — Siete pronti all'immersione? Forza.

— Signor Beeblebrox, mettiamo bene in chiaro una cosa...

— Ma certo — convenne Zaphod. — Prima di tutto perché non mi dite che cosa c'è realmente su quella nave?

— Glielo abbiamo già detto — rispose il funzionario. — Sottoprodotti.

— Sottoprodotti. Sottoprodotti di che?

— Di processi.

— Quali processi?

— Processi sicuri al cento per cento.

— Santa Zarquana Budella! — esclamarono in coro le due teste di Zaphod. — Così sicuri che avete dovuto costruire una zarquta nave-fortezza per condurli al più vicino buco nero e scaricarceli dentro? Ma non ci sono tiniti dentro, vero? Perché il pilota ha compiuto una deviazione per andare a pesca di aragoste, vero? Ah, è stato un vero ganzo, quell'uomo, ma insomma, ammettetelo, questa è pura buantropia, è pura ebefrenia, è pura schizo-aberro-anomalia, è... è... assoluta mancanza di vocaboli adatti]

—Chiudi il becco!—gridò la testa destra alla sinistra.—Stiamo straorzando'Zaphod strinse forte la rimanente lattina di birra per calmarsi.

I due funzionari rimasero zitti. Sentivano di non poter aspirare a quel livello di confabulazione.

— Sentite, signori — riprese Zaphod dopo un attimo di quieta riflessione, — voglio solo sapere in che razza di pasticcio mi state ficcando.

Puntò l'indice contro i segnali intermittenti che scorrevano sullo schermo del computer. Non gli dicevano assolutamente nulla, ma non gli piaceva il loro aspetto. Erano pieni di strani svolazzi e numerazzi e altre brutte cose.

— Sta per disintegrarsi, vero? — gridò. — Ha la stiva zeppa di barre d'aoristo che emanano radiazioni ipsilon o schifezze del genere capaci di abbrustolire questo settore dello spazio per zilioni di anni. E sta per disintegrarsi, eh? È a questo che stiamo andando incontro? Uscirò da quel relitto di nave naufragata con ancora più teste?

— Non può essere naufragata, signor Beeblebrox — replicò il funzionario. — La nave è sicura al cento per cento, glielo garantisco. Non può disintegrarsi, nel modo più assoluto.

— Allora come mai siete così ansiosi di darle un'occhiata?

— Ci piace dare un'occhiata alle cose perfettamente sicure.

— Aaargh-uuurgh-buuurp!

— Signor Beeblebrox — fece paziente uno dei funzionari, — posso ricordarle che ha un lavoro da fare?

— Ah, sì. Be', ho l'impressione che all'improvviso mi sia passata la voglia di farlo. Cosa mi credete, del tutto privo d'ogni cacchio di coso morale, di... come si chiamano quelle cose morali?

— Scrupoli?

— Bravo, scrupoli. Eh, mi credete privo di qualsiasi scrupolo morale?

I due funzionari attesero con calma, tossicchiando per ingannare il tempo.

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Zaphod emise uno di quei sospiri che significano "come andremo a finire" e che avevano lo scopo di assolverlo da tutte le colpe, poi, nel suo sedile di pilota, si girò verso lo schermo.

— Nave! — chiamò.

— Seee — disse la nave.

— Fa' quel che faccio io.

La nave rifletté per qualche millisecondo sulla cosa e, dopo aver controllato due volte tutte le guarnizioni per servizio pesante, nel fioco bagliore delle sue luci cominciò a scendere piano e inesorabilmente verso i più cupi abissi marini.

Centocinquanta metri.

Trecento.

Seicento.

Laggiù, a una pressione di quasi settanta atmosfere, nelle gelide profondità inaccessibili alla luce, la natura coltiva le sue fantasie più folli. Incubi lunghi mezzo metro mostrarono le loro orride sembianze nel bagliore dei fari, e dopo un lungo sbadiglio si reimmersero nella fitta oscurità.

Settecentocinquanta metri.

Colpevoli segreti con occhi innestati su peduncoli guizzarono accanto ai vaghi contorni delle luci della nave.

A poco a poco sugli schermi del computer comparve sempre più chiara la topografia del fondo oceanico, finché a un certo punto si riuscì a individuare una forma ben distinta da tutto il resto. Simile a un'enorme fortezza cilindrica inclinata su un fianco, a metà della sua estensione si allargava sensibilmente per accogliere il massiccio ultrafasciame che rivestiva le cruciali stive e che, a detta dei progettisti, avrebbe dovuto renderla la più sicura e inespugnabile di tutte le navi mai costruite. Prima del varo lo speciale rivestimento era stato sottoposto a un collaudo spietato: badilate, bastonate, esplosioni e tutti i colpi che i progettisti sapevano sopportabili e che gli avevano fatto assestare per dimostrare che li avrebbe sopportati.

Nella cabina il silenzio carico di tensione si caricò di ulteriore tensione quando diventò chiaro che era proprio quella sezione a essersi spaccata nettamente in due.

— Di fatto la nave è sicurissima — dichiarò uno dei funzionari. — È costruita in maniera che se anche si squarciasse, il carico della stiva non potrebbe assolutamente essere intaccato.

Millecentosessantaquattro metri.

Quattro pressurmute intelligenti uscirono pian piano dal boccaporto aperto della scialuppa di salvataggio e, rischiarate dal fascio luminoso delle sue luci, si diressero verso la mostruosa sagoma che spiccava cupa nella notte marina. Si muovevano con goffa grazia, come fossero prive di peso nonostante gravasse su di loro un intero mondo d'acqua.

Con la testa destra Zaphod scrutò la nera immensità sopra di sé e per un attimo la sua mente cacciò un muto urlo d'orrore. Buttò un'occhiata a sinistra e fu lieto di vedere che l'altra testa guardava tranquilla la partita di ultra-cricket brockiano in onda sul monitor del casco. Dietro di lui, alla sua sinistra, procedevano i due funzionari dell'Amministrazione Sicurezza e Protezione Civile; davanti a lui, alla sua destra, camminava la muta vuota, che trasportava gli strumenti e li guidava sondando il terreno.

Giunsero accanto all'enorme squarcio prodottosi nell'astronave, la Bunker Dureterna, e illuminarono la voragine con le torce. Tra le paratie spesse una sessantina di centimetri e orribilmente accartocciate, si intravedevano macchinari a pezzi. Si era accasata lì una famiglia di grandi anguille trasparenti, che pareva gradire la nuova abitazione.

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La muta vuota li precedette, esaminando tutta l'estensione dell'immensa carena scura della nave e cercando di aprire le camere stagne. La terza che provò si schiuse piano, a poco a poco. I tre si radunarono lì, aspettando lunghi minuti che i meccanismi di pompaggio se la vedessero con la spaventosa pressione esercitata dall'oceano e la sostituissero gradualmente con l'altrettanto spaventosa pressione dell'aria e dei gas inerti. Alla fine il portello interno si aprì ed entrarono nella buia stiva della Bunker Dureterna.

Bisognò oltrepassare molte altre porte ermetiche Tiene-duro-sicuro, ognuna delle quali venne aperta dai funzionari con una serie di chiavi quarchiche. Si ritrovarono presto così all'interno dei forti campi di sicurezza, che la partita di ultracricket si vide sempre meno e Zaphod dovette cambiar canale e sintonizzarsi sui videoclip rock, le cui onde non conoscevano barriera di pianeta o dimensione.

Varcata l'ultima porta, emersero in un vasto ambiente dall'aria sepolcrale. Zaphod diresse la torcia verso la parete di fronte e illuminò in pieno una faccia che urlava con gli occhi sbarrati.

Cacciando un urlo poco meno agghiacciante, lasciò cadere la torcia e crollò sul pavimento, o meglio su un corpo che giaceva lì indisturbato da sei mesi e che reagì all'imprevisto urto esplodendo con grande violenza. Zaphod si chiese quale fosse la reazione più opportuna, e dopo una breve ma animata discussione interna decise che la soluzione migliore era senza dubbio svenire.

Quando rinvenne, pochi minuti dopo, finse di essersi dimenticato chi era, dov'era e come fosse finito lì, ma non convinse nessuno. Allora finse che la memoria gli fosse tornata così repentinamente da procurargli uno choc e farlo svenire di nuovo, ma la muta vuota (per la quale cominciava a nutrire viva antipatia) lo aiutò, contro la sua volontà, a tirarsi su e lo costrinse a venire a patti con la situazione.

L'ambiente, illuminato in maniera fioca e intermittente, era sgradevole sotto molti aspetti, il più cospicuo dei quali era rappresentato dalla pittoresca collocazione delle membra del defunto e compianto ufficiale di rotta, sparpagliate sul pavimento, le pareti, il soffitto e soprattutto la parte inferiore della muta di Zaphod. La scena era talmente orrida che non vi accenneremo più per il resto della storia: ci limiteremo qui a riferire che Zaphod vomitò dentro la sua muta, poi se la tolse e, dopo opportune modifiche al casco, la scambiò con quella vuota. Purtroppo, sentendo il disgustoso fetore che aleggiava per la nave e vedendo la sua ex muta girare tranquilla con ghirlande d'intestini putrefatti addosso, vomitò di nuovo nella muta appena indossata, provocando un problema con cui dovettero convivere sia lui sia la sua bardatura.

Be', ormai il peggio era passato. Ormai niente più orrori.

Per lo meno, niente più orrori di quel tipo.

Il proprietario della faccia urlante si era calmato un po' ed emetteva borborigmi incoerenti dentro il grande serbatoio a sospensione di emergenza pieno di liquido giallo.

— Che cosa folle — balbettò. — Folle! Gli avevo detto che avremmo potuto benissimo pescare l'aragosta sulla strada del ritorno, ma lui non voleva sentir ragioni. Una vera ossessione, la sua! Vi fate mai prendere da una simile foia per le aragoste? lo no, mai. Hanno una carne gommosa e stopposa, e poi non sono nemmeno tanto saporite, vi pare? Preferisco di gran lunga le capesante, e gliel'avevo pure detto. Oh, se gliel'avevo detto, per Zarquon!

Zaphod contemplò quell'incredibile essere che, attaccato a innumerevoli cannule di sostentamento, agitava le braccia nella vasca borbottando parole che gli altoparlanti trasmettevano per tutta la nave, facendola rimbombare sinistramente di suoni minacciosi, simili a echi provenienti da lontani corridoi.

— È stato lì che ho sbagliato! — urlò l'uomo fuori di sé. — Ho detto che preferivo le capesante e lui ha replicato che le preferivo perché non avevo mai assaggiato le vere aragoste, le aragoste del paese da cui provenivano i suoi avi, che era proprio questo qui. E me l'avrebbe dimostrato quant'erano buone, ha detto: l'aragosta delle sue parti valeva un intero viaggio, figuriamoci se non

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valeva la piccola deviazione che bisognava fare nel nostro caso. La nave? Oh, quella la sapeva governare benissimo nell'atmosfera. Per Zarquon, che follia, che follia! — L'uomo si interruppe e roteò gli occhi come se il mondo gli avesse fatto rintoccare una campana nella mente. — La nave uscì dal controllo — riprese. — Che bufala, che buscherata, che castroneria! E solo per dimostrare che erano buone le aragoste, un crostaceo molto sopravvalutato! Scusate se continuo a parlare di aragoste, poi cercherò di smettere; ma sempre alle maledette ho pensato per tutto il mio soggiorno in questa vasca. Vi rendete conto di cosa significhi stare confinati in una nave con le stesse persone per mesi e mesi, essere costretti a mangiare schifezze e sentire per tutto il tempo uno dei compagni blaterare di aragoste? E vi rendete conto di cosa significhi poi galleggiare in una vasca per sei mesi pensando alle aragoste? Prometto che dopo non parlerò mai più di aragoste, anzi lo giuro. Aragoste, aragoste, aragoste, basta! Credo di essere l'unico sopravvissuto. Sono l'unico che è riuscito ad arrivare al serbatoio di emergenza prima che ci inabissassimo. Ho inviato l'sos, poi c'è stato l'impatto. Che disastro, eh? Un vero disastro. E tutto perché quel cretino era ghiotto di aragoste. Vi sembrano sensati i miei discorsi? Faccio molta fatica a capire se lo sono.

Fissò i tre con aria supplichevole, mentre la sua mente pareva tornare lentamente sulla terra ondeggiando come una foglia d'autunno. Poi batté le palpebre e gettò loro un'occhiata obliqua, come una scimmia che osservasse un insolito pesce. Con le dita raggrinzite dal liquido grattò la parete di vetro del serbatoio in un gesto strano. Dense bollicine gli uscivano dalla bocca e dal naso, si fermavano tra i capelli simili a stracci e procedevano in su.

— Oh, Zarquon, oh, cielo — mormorò pietosamente — sono stato trovato, sono stato salvato!

— Sì — fece secco uno dei funzionari, — è stato trovato, finalmente. — Si avvicinò al computer principale al centro della stanza e diede una rapida occhiata ai maggiori circuiti di controllo della nave per vedere i rapporti sui danni.

— Le camere delle barre di aoristo sono intatte — disse.

— Cacchio di can che fugge! — ringhiò Zaphod. — Allora ci sono davvero delle barre di aoristo a bordo!

Le barre di aoristo erano macchinari utilizzati da un'industria energetica ormai fortunatamente obsoleta. Quando la caccia a nuove fonti di energia era divenuta spasmodica, un giovane brillante aveva compreso d'un tratto che uno dei luoghi in cui l'energia disponibile non era stata tutta consumata era il passato. E, pieno di quell'entusiasmo che simili intuizioni tendono a suscitare, la sera stessa aveva inventato il metodo di produzione. Nel giro di un anno enormi tratti di passato erano stati prosciugati di tutta l'energia, finendo per dissolversi. Chi affermava che il tempo andato non doveva essere sfruttato a quel modo era stato accusato di crogiolarsi in un sentimentalismo rovinosamente costoso. Le epoche trascorse erano divenute una fonte energetica assai ricca, pulita ed economica: si poteva sempre creare qualche Riserva Naturale del Passato se qualcuno era disposto a pagarne la manutenzione, e quanto all'idea che prosciugare il passato impoverisse il presente, poteva anche essere vera in minima parte, ma gli effetti non erano quantificabili e non bisognava perdere il senso delle proporzioni.

Solo quando si comprese che il presente veniva davvero impoverito perché i bastardi egoisti, saccheggiatori e dissipatori del futuro procedevano allo stesso identico sfruttamento, ci si rese conto che ogni singola barra di aoristo e il terribile segreto della loro struttura andavano distrutti per sempre. Tutti proclamarono che bisognava eliminarli per il bene dei nonni e dei nipoti, ma naturalmente li eliminarono per amore dei nipoti dei nonni e dei nonni dei nipoti.

Il funzionario dell'Amministrazione Sicurezza e Protezione Civile scrollò le spalle, minimizzando.

— Sono sicurissime—dichiarò. Poi, buttando un'occhiata a Zaphod, di colpo aggiunse con insolita franchezza: — C'è di peggio, a bordo. O almeno — aggiunse battendo l'indice su un monitor—spero che sia a bordo.

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— Cosa diavolo ti salta in testa di dire? — lo investì il collega.

L'altro scrollò di nuovo le spalle. — Non ti preoccupare — replicò. — Può raccontare quello che vuole: nessuno gli crederà mai. Ecco perché abbiamo deciso di usare lui invece di procedere in maniera ufficiale, no? Più assurda sarà la sua storia, più farà la figura dell'avventuriero hippy che s'è inventato tutto. Se anche riferisse questa stessa frase, apparirebbe un paranoico. — Sorrise amabile a Zaphod, che ribolliva di rabbia dentro la sua muta piena di vomito. — Può accompagnarci, se vuole — concluse.

— Vede? — fece il funzionario, esaminando le guarnizioni esterne di ultratitanio della stiva contenente le barre di aoristo. — Perfettamente sicure, perfettamente a posto.

Disse lo stesso quando arrivarono alla stiva in cui erano immagazzinate spaventose armi chimiche, un solo cucchiaino delle quali bastava a infettare fatalmente un intero pianeta.

Disse lo stesso quando controllarono la stiva dei micidiali composti zeta-attivi, un solo cucchiaino dei quali poteva far saltare in aria un intero pianeta.

Disse lo stesso quando esaminarono la stiva dei terribili composti teta-attivi, un solo cucchiaino dei quali avrebbe riempito di radiazioni un intero pianeta.

— Sono contento di non essere un pianeta — mormorò Zaphod.

— Se anche lo fosse non avrebbe nulla da temere — proclamò il funzionario dell'Amministrazione Sicurezza e Protezione Civile. — I pianeti sono sicurissimi. A meno che... — S'interruppe di colpo. Si stavano avvicinando alla stiva più vicina al punto in cui la poppa della Bunker Dureterna era squarciata. Il corridoio, lì, appariva contorto e deformato, e il pavimento era pieno di macchie umide e appiccicose.

— Ehm ehm — disse. — Ehm ehm e doppio ehm ehm.

— Che cosa c'è in questa stiva? — domandò Zaphod.

— Sottoprodotti — fu la risposta, seguita da silenzio.

— Sottoprodotti... di che? — mormorò Zaphod.

I due funzionari rimasero zitti. Esaminarono con cura la porta della stiva e videro che le guarnizioni erano state divelte dalle stesse forze che avevano deformato l'intero corridoio. Uno di loro toccò piano la porta, che si aprì al suo tocco. Dentro era buio: si scorgevano solo due fioche luci gialle abbastanza all'interno.

— Di chel — sibilò Zaphod.

Il primo funzionario si girò verso il secondo.

— C'è una capsula di salvataggio che l'equipaggio avrebbe dovuto usare per abbandonare la nave prima del tuffo nel buco nero — disse. — Credo sia bene verificare se c'è ancora. — Il collega annuì e se ne andò senza proferir verbo.

Il primo funzionario fece segno a Zaphod di entrare. Le grandi, fioche luci gialle brillavano a circa sei metri da loro.

— Il motivo per cui tutte le altre cose della nave sono, come ho detto, sicure, è che nessuno è abbastanza pazzo da usarle — osservò pacato. — Nessuno. Per lo meno, nessuna persona così pazza riuscirebbe mai ad avvicinarsi a esse. Qualunque individuo fosse così matto o pericoloso farebbe subito scattare un campanello d'allarme negli altri. La gente sarà pure stupida, ma non tanto stupida.

— Sottoprodotti — sibilò di nuovo Zaphod (era costretto a sibilare per non far sentire il tremito della voce). — Sottoprodotti di che?

— Ehm, degli Stilisti.

— Dei chel

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— La Sirius Cyberaetic Corporation ricevette enormi finanziamenti per progettare e produrre personalità sintetiche da vendere su ordinazione. I risultati furono uniformemente disastrosi. Tutte le "persone" e le "personalità" consistevano in un miscuglio di caratteristiche che non potevano proprio coesistere nelle forme di vita presenti in natura. Per lo più i sintetici erano solo poveri, patetici disadattati, ma alcuni erano molto, molto pericolosi. Pericolosi perché non facevano scattare il campanello d'allarme negli altri. Attraversavano le situazioni come gli spettri attraversano i muri, perché nessuno individuava il pericolo.

"I più pericolosi di tutti risultarono tre soggetti identici, che furono messi in questa stiva perché saltassero in aria con la nave fuori di questo universo. Non sono cattivi, anzi sono tipi piuttosto simpatici e alla mano. Ma sono le creature più pericolose che siano mai vissute, perché non c'è niente che non facciano di quanto è loro permesso di fare e non c'è niente che non venga loro permesso di fare...

Zaphod guardò le fioche luci gialle, le due fioche luci gialle. Quando 1 suoi occhi si furono abituati al bagliore, vide che le due luci illuminavano una terza area, dove c'era qualcosa di rotto. Macchie umide e appiccicose luccicavano qui e là sul pavimento.

Zaphod e il funzionario s'incamminarono con cautela verso le luci. In quella, quattro parole crepitarono forte nell'auricolare dei loro caschi.

— La capsula è scomparsa — comunicò in cuffia l'altro funzionario.

— Rintracciala! — ringhiò quello che stava con Zaphod. — Scopri dove si è diretta. Dobbiamo assolutamente sapere dov'è andata!

Zaphod si avvicinò a una grande porta di vetro smerigliato. Di là da essa si vedeva un serbatoio pieno di denso liquido giallo nel quale galleggiava un uomo dall'aria amabile. Un uomo con il volto solcato da piacevoli rughe d'espressione, che pareva fluttuare felice e sorridere fra sé.

Un altro conciso messaggio giunse d'un tratto negli auricolari. Il secondo funzionario aveva identificato il pianeta verso il quale la capsula di salvataggio era diretta: si trovava nel Settore galattico ZZ9 Plurale Z Alfa.

L'uomo cordiale che galleggiava nel serbatoio pareva borbottare piano fra sé, come già aveva fatto il copilota nella sua vasca. Bollicine gialle gli imperlavano le labbra. Zaphod trovò un piccolo altoparlante vicino al serbatoio e lo accese. Sentì l'uomo mormorare di una città scintillante che sorgeva su una collina.

E sentì il funzionario della Protezione Civile ordinare che il pianeta dello ZZ9 Plurale Z Alfa fosse reso "perfettamente sicuro".