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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO Dottorato di Ricerca in «Sociologia, Teoria e Metodologia del Servizio Sociale» X ciclo Tesi di Dottorato di GIULIO GERBINO { b f'. Tutore PROF. EMANUELE SGROI Università degli Studi di Palermo , · , Co-tutore PROF. GIACOMO MULÈ f"h/) cM Università degli Studi di - Coordinatore PROF. GIULIANO GIORIO / n. . / Università degli Studi di Triest( '-'--X---'>--r> (

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO

Dottorato di Ricerca in «Sociologia, Teoria e Metodologia del Servizio Sociale»

X ciclo

Tesi di Dottorato di GIULIO GERBINO { b f'.

Tutore PROF. EMANUELE SGROI C~ Università degli Studi di Palermo , · ~, ,

Co-tutore PROF. GIACOMO MULÈ ~:x~ f"h/) cM Università degli Studi di Pal~~o ~·· -~

Coordinatore PROF. GIULIANO GIORIO / n. . / Università degli Studi di Triest( '-'--X---'>--r> ( ~·~

ai miei genitori Maria e Rocco

INDICE

INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1 - FORME DI SOLIDARIETÀ E CRISI DI INTEGRAZIONE POLITICA DELLA SOCIETÀ OCCIDENTALE CONTEMPORANEA

I.O. Premessa

I. I. Verso una sociologia della globalizzazione? I.I.I. Globalizzazione e teoria sistemica: Niklas Luhmann l. I.2. Globalizzazione come occidentalizzazione? 1.1.3. Globalizzazione e multiculturalismo l.I.4. Multiculturalismo e cultura comune

1.2. Particolarismo e universalismo I .2. I. Gli universalismi differenziati 1.2.2. Particolarismi, universalismi, identità, solidarietà

1.3. Aspetti attuali della differenziazione sociale I.3.1. Alcuni spunti dai 'classici' 1.3.2. L'analisi neofunzionalista della differenziazione sociale

I.4. La fiducia come problema e come risorsa relazionale I .4. I. Cercando una definizione 1.4.2. Confidare e fiducia 1.4.3. Modelli difiducia 1.4.4. Solidarietà sociale e fiducia

1.5. L'associazione come problema sociologico

1. 6. Bene comune e beni comuni

I. 7. Altruismo e prosocialità

1.8. Forme di regolazione sociale

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CAPITOLO 2 - LA FILOSOFIA POLITICA CONTEMPORANEA E IL PROBLEMA DELLA CRISI DELLA CITTADINANZA MODERNA 125

2. O. Premessa

2. I. Alcune definizioni filosofiche classiche

2.2. Prospettive della filosofia politica contemporanea 2.2.1. L'utilitarismo 2.2.2. Il liberalismo 2.2.3. Il liberismo 2.2. 4. Il marxismo

2.2.4.1. Il comunismo va oltre la giustizia 2.2.4.2. Giustizia e proprietà privata

2.2.5.11 comunitarismo 2.2.5.1. Doveri verso la struttura culturale 2.2.5.2. Neutralità e deliberazioni collettive 2.2.5.3. Legittimità politica

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2.2.6. llfemminismo 2.2.6.1. Uguaglianza sessuale e discriminazione 2.2.6.2. Pubblico e privato 2.2.6.3. Un'etica della cura 2.2.6.3 .1. Le capacità morali 2.2.6.3 .2. Il '"agionamento morale 2.2.6.3.3. I concetti morali

CAPITOLO 3 - LA CITIADINANZA OLTRE LE APORIE DELLA MODERNITÀ

3. O. Premessa

3.1. Cittadinanza e progetto dell 'Jlluminismo

3.2. Cittadinanza versus disuguaglianza sociale 3.2.1. Critiche a Marshall: Giddens, Barba/et, Held 3.2.3. La cittadinanza repubblicana: Zolo e Habermas 3.2.4. Cittadinanza tra appartenenza e diritti 3.2.5. La 'terza via' di M Walzer

3.3. Cittadinanza statalistica versus cittadinanza societaria

3.4. Società civile e cittadinanza

3.5. La cittadinanza liberal

3.6. Cittadinanza e disuguaglianze ascritte

3. 7. La cittadinanza come relazione sociale 3. 7.1. La relazione tra cittadinanza e democrazia nella modernità 3. 7.2. Alcuni orientamenti teorici post-moderni

CAPITOLO 4 - SOLIDARIETÀ SOCIALE, AUTONOMIE SOCIALI E CITIADINANZA NELLA DIMENSIONE COMUNITARIA

4. O. Premessa

4.1. Comunità e società: una problematica attuale? 4.1.1. Il concetto di comunità in alcune opere sociologiche 'classiche' 4.1.2. Declino e ripresa del concetto di comunità

4.2. Gemeinschaft-Gesellschaft: una rivisitazione

4.3. La Gemeinschaft come supporto della Gesellschaft

4. 4. Leggere la società come 'rete ' 4.4. /.Sviluppi del contributo parsonsiano 4.4.2. Gemeinschaft-Gesellschaft in chiave di complessità

4. 5. Il paradigma di rete per una lettura relazionale della società

4.6. Le reti sociali informali 4.6.1. L'analisi di rete

4. 7. Dalla coppia Gemeinschaft-Gesellschaft alla sociologia relazionale

4.8. Gemeinschaft-Gesellschaft: dibattito sociologico e dibattito filosofico-politico

4.9. Politica sociale e community care

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

2

INTRODUZIONE

Solidarietà e cittadinanza sono termini chiave del dibattito sociologico classico e

contemporaneo: si tratta di concetti che hanno attraversato le tormentate fasi

storiche dell'Ottocento e del Novecento, oltre che i multiformi sviluppi della teoria

sociale e politica. Le società della tarda modernità, ad elevata differenziazione

societaria, presentano problematiche tali da sollecitare una rivisitazione dei

fondamenti del pensiero moderno nel quale si inserisce quella riflessione

sociologica cui si è fatto cenno. Il nostro itinerario di ricerca tenterà di ricavare

spunti e chiavi di lettura per una rinnovata analisi di questi oggetti, con alcune

'incursioni' in territori di per sé estranei alla sociologia (la filosofia politica), ma dai

quali possono provenire indicazioni circa il punto in cui si trova il pensiero sulla e

della modernità.

Il concetto di solidarietà sconta attualmente un carattere di indeterminatezza,

vaghezza, talvolta di ambiguità, secondo gli usi disinvolti o ideologici cui spesso è

sottoposto: esso conserva ancora potenzialità analitiche utili ad una ricognizione

della società occidentale contemporanea percorsa da tensioni, frammentazioni e

ricomposizioni? Quali possono essere, in tal senso, le basi per il ripensamento dei

sistemi di welfare? Si tratta di interrogativi certamente impegnativi, ma, riteniamo,

non eludibili. Nel primo capitolo verranno anche esaminati alcuni fenomeni

sociologicamente riconducibili alla solidarietà sociale: fiducia, associazione, beni

collettivi e bene comune, altruismo, reciprocità. Verranno impiegate criticamente

3

due chiavi di lettura generali, globalizzazione e differenziazione, necessane a

comprendere nelle società ad elevata complessità le ragioni di quella che appare una

debolezza complessiva dell'integrazione sociale e politica, che rende problematiche

la costituzione e la continua innovazione delle basi della solidarietà sociale.

Il secondo capitolo contiene una rapida panoramica sui temi della giustizia sociale e

dell'uguaglianza (elementi cardine della cittadinanza moderna e che rimandano ad

un'idea di solidarietà sociale) secondo alcuni dei filoni della filosofia politica

contemporanea: utilitarismo, liberalismo, neocontrattualismo, comunitarismo,

marxismo, femminismo. Numerosi sono gli spunti stimolanti per l'analisi

sociologica, tuttavia il pensiero filosofico politico contemporaneo rimane ancora

interno alle logiche della modernità e non riesce ad osservare dall'esterno il proprio

oggetto di studio e le sue principali categorie. La nostra attenzione si focalizzerà

sull'esame delle modalità con cui le diverse teorie filosofico-politiche della giustizia

tematizzano una qualche uguaglianza - morale, politica, sociale - fra soggetti. Un

quesito importante è se esista - e se sì di che tipo - un fondamento filosofico alla

solidarietà sociale, orizzontale e verticale, intesa normativamente come valore.

Nel terzo capitolo verranno prese in esame le teorie sulla cittadinanza - una delle

dimensioni ed espressioni più significative di integrazione politica e di solidarietà

sociale - valutandole criticamente rispetto alle sfide poste dall'attuale contesto

societario: multiculturalismo, crisi dei sistemi di welfare state, ridefinizione della

politica sociale, rapporto società civile-stato. L'analisi della crisi della cittadinanza

4

moderna rinvia sociologicamente ai nodi strutturali della tensione tra modernità e

post-modernità: da lì verranno enucleati elementi in grado di sostenere un'analisi

riflessiva, capace cioè di esaminare dall'esterno il proprio oggetto, e di offrire

elementi utili a rispondere al quesito «se, e se sì, in che senso e in quali modi, la

cittadinanza sia o possa essere quel 'qualcosa' che può funzionare da 'cemento'

politico della società».

Nel quarto capitolo verranno trattati i problemi relativi alla tensione Gemeinschaft-

Gesellschaft. La comunità è stata ritenuta, dalla sociologia classica e

contemporanea, una forma declinante e residuale rispetto al consolidarsi delle

relazioni societarie, nelle società industriali caratterizzate da una crescente

differenziazione sociale. Compiremo, pertanto, una rapida presentazione dell'analisi

sociologica del concetto di comunità a confronto con letture di altro genere

(segnatamente quella filosofico-politica), allo scopo di accertarne l'utilità analitica.

Prendendo spunto da un provocatorio quesito di Martin Bulmer - «è realistico

scommettere sulla comunità» ai fini di programmi per il benessere collettivo? -

tenteremo di mostrare le principali opportunità e i problemi implicati dagli approcci

teorici nei quali è presente il concetto di comunità. Le prospettive teoriche possibili

a partire dal paradigma della società come rete e dall'intervento di rete possono

sostenere un approfondimento relazionale della cittadinanza e delle 'autonomie

sociali' nel quadro di una rinnovata visione delle relazioni tra le diverse sfere civili

in cui si articola la società tardo-moderna.

CAPITOLO 1

CAPITOLO 1 FORME DI SOLIDARIETÀ E CRISI DI INTEGRAZIONE POLITICA DELLA SOCIETÀ OCCIDENTALE CONTEMPORANEA

1. O. Premessa

Il termine solidarietà incrocia frequentemente dibattiti teorici fra studiosi di varie

discipline (sociologia, diritto, teoria politica, economia, psicologia sociale, politica

sociale ... ). Al tempo stesso, esso è presente, in modo crescente, all'attenzione dei

policy makers e dell'opinione pubblica per via della discussione circa i caratteri da

imprimere alla riforma dello stato sociale e di alcuni dei suoi settori

finanziariamente più consistenti (pensioni e sanità). 1 Vi sono anche varie questioni

sociali - la cui punteggiatura è data, spesso, da eventi sottolineati e amplificati dai

mass media - che rimandano all'idea e alla pratica (a idee e a pratiche) di

solidarietà: l'immigrazione straniera dal Sud del mondo e dall'Est europeo, la

presenza di gruppi nomadi, la malattia mentale, la condizione di sieropositivi e

malati di AIDS, le trasformazioni e la diffusione delle povertà, i costi delle

trasformazioni del sistema produttivo e del mercato del lavoro, la questione

ambientale, i conflitti bellici regionali, le carestie e le catastrofi in varie aree del

pianeta. Solidarietà è inoltre termine caro alle molteplici espressioni del terzo

settore (volontariato, cooperazione sociale, impresa sociale, associazionismo

sociale), da esse assunto- come valore fondativo e riferimento, simbolico oltre che

1Per una mappa concettuale, si veda: ITALO DE SANDRE, Solidarietà, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXV, 2, 1994, pp. 247-63; PAOLO NATALE, Forme e finalità dell'azione solidaristica, in BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Altruismo e solidarietà. Riflessioni su prosocialità e volontariati, Milano, Angeli, 1994, pp. 57-76; GIAN PRIMO CELLA, Definire la solidarietà, in «Parolechiave», 2, 1993, pp. 23-

7

pratico, per le motivazioni all'azione. Non si può peraltro trascurare la rilevanza del

riferimento alla solidarietà storicamente documentato nell'esperienza dei movimenti

sindacali e cooperativistici di varia ispirazione (perlopiù socialista e cattolico-

democratica).

È evidente come l'ampia varietà di riferimenti empirici e di approcci e prospettive

alle situazioni accennate sia tale da rendere indeterminato, vago o addirittura

ambiguo il concetto di solidarietà. Esso non può essere - esplicitamente o

implicitamente - ritenuto del tutto equivalente ai concetti di altruismo, generosità,

giustizia sociale o simili.

Si rivela necessaria una riflessione che consenta di verificare se il concetto di

solidarietà mantenga potenzialità analitiche, descrittive ed esplicative utili ad una

ricognizione della società occidentale contemporanea, attraversata da un insieme

inedito di tensioni, frammentazioni e ricomposizioni. Ciò può contribuire a

evidenziare la solidarietà possibile e offrire basi per il ripensamento dei sistemi di

welfare.

Ripercorrere criticamente e agg10mare l'analisi sociologica del concetto e delle

pratiche di solidarietà sociale è un compito alquanto impegnativo, stante l'ampia

portata semantica del concetto, risultante non solo dal dibattito scientifico ma anche

dalle vicende storiche e sociali attraverso le quali esso è transitato, tra Ottocento e

Novecento, come elemento di ideologie e tradizioni culturali e politiche (movimento

operaio e socialista, cattolicesimo sociale, radicalismo laico borghese), come base

dei programmi e delle azioni di partiti operai e movimenti sindacali, come principio

34. Per una ricostruzione storica delle vicende del concetto, cfr. MARIUCCIA SALVATI, Solidarietà: una scheda storica, in «Parolechiave», 2, 1993, pp. 11-22.

8

finalistico sancito in alcune carte costituzionali, come criterio di fondo di politiche

sociali e del lavoro. Tuttavia, pur con la consapevolezza dei rischi di ambiguità e

indeterminatezL:a che tale oggetto può comportare, ciò non esime dal tentare una

ricostruzione sociologica dell'analisi del concetto di solidarietà sociale.

Taluni approcci, riprendendo la lezione durkheimiana, ricordano come sia improprio

accedere ad una sovrapposizione del concetto di solidarietà con quelli di altruismo e

generosità:2 quest'ultima concezione rimanda a relazioni verticali fra gruppi segnati

da differenze, tali da dare luogo a mobilitazione di gruppi più avvantaggiati a favore

di gruppi o soggetti in posizione di svantaggio relativo. In realtà, il concetto di

solidarietà concerne anche i legami orizzontali e la cooperazione di cui sono attori

gruppi caratterizzati da una comunanza di interessi. Il diffondersi di allarme circa la

'crisi di solidarietà' si riferisce alla prima accezione, essendo totalmente fuori luogo

rispetto alla seconda, in ordine alla quale, anzi, si assiste al moltiplicarsi di forme e

contesti che testimoniano la permanenza di azioni e comportamenti solidali di tipo

orizzontale: neocorporativismi e localismi sono solo due tra i possibili esempi di

forme di solidarietà, anche se 'corte' e non certo universalistiche. Il prodotto di tale

ragionamento è che occorre puntare, allo scopo di non compromettere ulteriormente

il livello di integrazione della società, a stimolare relazioni solidali di tipo

orizzontale basate su ciò che può accomunare soggetti e gruppi sociali in un

contesto pluralistico: i diritti nella loro universalità. L'interesse a perseguire e

tutelare i diritti (di cui tutti sono portatori) dovrebbe condurre ad occuparsi di chi

non ne gode pienamente.

2Cfr. GIOVANNI SARPELLON, Solidarietà, altruismo, interesse, in PIERPAOLO DONATI- GIOVANNI B. SGRITIA (a cura di), Cittadinanza e nuove politiche sociali, Milano, Angeli, 1992, pp. 234-38.

9

Da altre prospettive, nel quadro di un'ampia considerazione dell'esperienza italiana

di welfare state, viene argomentata l'obsolescenza delle forme di solidarietà

storicamente realizzatesi, in parte perché occulte o imposte e non chiaramente

esplicitate e sostenute da consenso, in parte perché facenti riferimento ad un

contesto societario profondamente mutato;3 al fallimento dello stato e del mercato

rispetto al soddisfacimento dei bisogni sociali si è accompagnato il crescente ruolo

del terzo settore. Per far fronte al disagio sociale e ai deficit di cittadinanza nelle

loro varie forme, è necessario puntare ad una solidarietà di cittadinanza sulla cui

base rafforzare le solidarietà di tipo comunitario e le risorse del! 'altruismo sociale,

mantenendo un impianto universalistico.

La società occidentale contemporanea vive una forte crisi di integrazione politica.

Con la modernità, hanno iniziato a sfaldarsi I' ancien régime, Io statico ordine

sociale premodemo, i tradizionali legami comunitari: nuove forme di integrazione

sociale si sono sostituite o affiancate alle precedenti o inserite in esse. La sociologia

nasce proprio in quest'epoca, quando si inizia ad avvertire e a problematizzare la

differenziazione e l 'autonomizzazione della società dallo stato. In questo capitolo

verranno esaminati e discussi i più significativi mutamenti attraversati dai fenomeni

sociologicamente riconducibili alla solidarietà sociale: fiducia, associazione, beni

collettivi e bene comune, altruismo, reciprocità. Globalizzazione e differenziazione

sono chiavi di lettura generali, oggi necessarie a comprendere nelle società ad

elevata complessità le ragioni di tale complessiva debolezza, che problematizza e

3Cfr. UGO ASCOLI, We/fare State e solidarietà: quale futuro per l'Italia? in «Parolechiave», Solidarietà. La parola, le interpretazioni, le storie, i luoghi, i modelli, 2, 1993, pp. 103-111.

10

trasforma in profondità la costituzione e la continua innovazione delle basi della

solidarietà sociale.

1.1. Verso una sociologia della globalizzazione?

I processi di globalizzazione, sempre più analizzati nella loro crescente portata e

percepiti nei loro molteplici effetti, imprimono un'accelerazione crescente agli

scambi e alle interdipendenze di tipo economico, politico, culturale all'interno delle

società nazionali e tra di esse; tra i principali fattori di tali processi vi sono le

innovazioni scientifico-tecnologiche, le trasformazioni delle organizzazioni

produttive, i mezzi di comunicazione di massa, i profondi mutamenti nelle relazioni

internazionali di cui sono attori stati e organizzazioni internazionali. Nella teoria

sociologica l'interesse verso le dimensioni globali della socialità è presente già in

autori classici - Comte, Spencer, Marx, Durkheim - ai quali si deve la prima

elaborazione di categorie e modelli analitici che hanno segnato i percorsi della

disciplina, in parallelo alle prospettive offerte dalle teorie dell'azione miranti ad

osservare la società e le sue dinamiche a partire dalle azioni degli individui. Più

recentemente, a partire dagli anni '70 si sono sviluppati alcuni approcci che hanno

tentato di leggere secondo varie ottiche i fenomeni oggi sinteticamente riconducibili

all'espressione globalizzazione: in chiave prevalentemente economica, come nel

caso della teoria del sistema-mondo di I. Wallerstein, o secondo una visione attenta

ai processi culturali, proposta da riviste come «lnternational Sociology» e «Theory,

Culture & Society» e da esponenti come Ronald Robertson, il quale ha lanciato

11

l'idea di dare vita ad una 'sociologia della globalizzazione'. Uno dei tratti comuni

alle due impostazioni consiste nell'esprimere l'esigenza che la teoria sociologica

elabori paradigmi innovativi, non più vincolati da una visione di società come entità

coincidente con la nazione, idea che ha finito con il provocare un restringimento

delle analisi e la difficoltà nel centrare le dimensioni societarie globali e le loro

radici storiche e culturali.4

1.1.1. Globalizzazione e teoria sistemica: Niklas Luhmann

La teoria sistemica nella versione elaborata da Niklas Luhmann concettualizza il

sistema societario come sistema comunicativo auto-poietico auto-referenziale

globale: il sistema esiste grazie alla comunicazione dotata di senso che costruisce e

interconnette le azioni che compongono il sistema stesso: il sistema societario

«racchiude al suo interno tutte le comunicazioni possibili, riproduce tutte le

comunicazioni e costruisce orizzonti dotati di senso per ulteriori comunicazioni», in

quanto «rende possibile la comunicazione tra diversi sistemi sociali».5 Al di fuori

della società come sistema sociale, sostiene Luhmann, non può quindi aversi

4Per una efficace e sintetica presentazione dei due approcci teorici alla globalizzazione qui citati, si veda GIANFRANCO BOTTAZZI, Prospettive della globalizzazione: sistema-mondo e cultura globale in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXV, 3, 1994, pp. 425-40; le opere cui Bottazzi si riferisce sono: IMMANUEL W ALLERSTEIN, Unthinking Socia/ Sciences: The Limits of Nineteenth-Century Paradigms, Cambridge, Polity Press, 1991; MIKE FEATIIERSTONE (a cura di), G/obal Culture. Nationalism, Globalization and Modernity, London, Sage, 1991; RONALD ROBERTSON, Globalization. Socia/ Theory and Global Culture, London, Sage, 1992. L'articolo di LUIGI BONANATE, Globalizzazione e democrazia, ovvero alla scoperta

_ di un equivoco in «Teoria Politica», 3, 1996, pp. 3-16, offre una serie di considerazioni sul versante politologico e delle relazioni internazionali, con un riferimento di tipo antropologico al rapporto della società occidentale con culture diverse e alla deterritorializzazione dello stato contemporaneo; ci sembra, però, insufficiente il ricorso alla democrazia procedurale come unica via di soluzione alle questioni sollevate dai conflitti tra multiculturalismo e cittadinanza democratica, quando appaiono abbastanza evidenti i limiti mostrati dalla attuale versione di quest'ultima.

5NIKLAS LUHMANN, La società mondiale come sistema sociale, ( ediz. orig. 1982), trad. it. in NICOLÒ ADDARIO - ALESSANDRO CAVALLI (a cura di), Economia, politica e società, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 113-24; il passo citato è a p. 114.

12

comumcaz10ne dotata di senso. Un sistema è articolato in sottosistemi che

scaturiscono da processi di differenziazione, i quali, a loro volta, ingenerano il grado

di complessità del sistema medesimo. La differenziazione che caratterizza il

cambiamento delle società occidentali nella modernità si basa sul criterio delle

funzioni (politica, economica, culturale, scientifica ... ). I confini tra sistemi sociali

non sono più di natura territoriale, ma di comportamento comunicativo. La

differenziazione funzionale fa sì, dunque, che tutti i comportamenti comunicativi

siano inclusi nel sistema societario, il quale altro non può essere che un sistema

globale: «la società moderna è [ ... ] una società mondiale in un duplice senso. Essa

fornisce un mondo per un sistema e integra tutti gli orizzonti del mondo come gli

orizzonti di un unico sistema comunicativo. Il significato fenomenologico [di

mondo] e quello strutturale convergono. Una pluralità di mondi possibili diventa

inconcepibile. Il sistema comunicativo mondiale costituisce un unico mondo che

comprende tutte le possibilità».6 In quest'ottica, il concetto di sistema societario non

necessita del requisito dell'integrazione sociale, né in termini di identità e autostima

comune (come per lo stato nazionale) né in termini di eguaglianza di condizioni di

vita: il sistema sussiste se si ha un adeguato fluire della comunicazione dotata di

senso, in grado di elaborare le differenze tra sistema e ambiente. Più un sistema è

differenziato al proprio interno (e quindi - almeno tendenzialmente - minore è il

grado di integrazione sociale) meglio esso potrà gestire il proprio confine con

l'ambiente. La differenziazione funzionale presuppone eguaglianza (poiché

differenzia solo in base a particolari funzioni e gli individui sono inclusi in un

sottosistema funzionale in virtù di pari opportunità), ma crea diseguaglianza,

6/bidem, p. 116.

13

giacché ali' interno dei sottosistemi funzionali le differenze sono reimpiegate

secondo la funzione e dunque rimarcate. Il processo appena descritto può diventare

distruttivo se arriva ad interrompere la comunicazione dotata di senso. In sintesi, per

Luhmann, ciò si presenta sotto forma di due elementi: « 1) un sistema mondiale

differenziato funzionalmente sembra minare alla base i suoi stessi prerequisiti; e 2)

la pianificazione non può sostituire l'evoluzione - al contrario, essa ci renderebbe

maggiormente dipendenti da sviluppi evolutivi non progettati». 1 Una possibile

alternativa all'evoluzione socio-culturale in un solo sistema è la differenziazione

strutturale nei sottosistemi funzionali, la quale può introdurre in essi processi

evolutivi auto-referenziali innovativi, migliorando la 'capacità adattiva' dell'intero

sistema. Poiché neanche questa ipotesi è in grado di garantire un controllo completo

dell'evoluzione del sistema sociale globale, non rimane, secondo Luhmann, che

potenziare l'auto-osservazione del sistema medesimo, seguendo alcuni attuali

orientamenti epistemologici che incorporano strutture auto-referenziali e che si

ricollegano alla teoria dei sistemi.

1.1. 2. Globalizzazione come occidentalizzazione?

Una quarta prospettiva, elaborata da Serge Latouche, legge la globalizzazione come

processo di occidentalizzazione del pianeta:8 l'Occidente - inteso come entità non

solo geografica (I 'Europa), ma anche religiosa (il cristianesimo), filosofica

(l'illuminismo), razziale (la razza bianca), economica (il capitalismo) - non si

7/bidem, p. 120. 8SERGE LATOUCHE, L'occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e limiti

de/l'uniformazione planetaria, trad. it., Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

14

identifica totalmente ed esclusivamente con l'uno o l'altro dei suoi elementi

storicamente costitutivi, peraltro mutevoli; all'Occidente è possibile imputare il

complesso dei mutamenti avutisi con la modernità. Il carattere ideologico della

nozione di Occidente emerge considerando gli esiti dei processi di differenziazione

in ognuna delle dimensioni in cui tale nozione si articola. L'Occidente possiede «la

credenza, inaudita nella scala del cosmo e delle culture, in un tempo cumulativo e

lineare e l'attribuzione all'uomo di dominare totalmente la natura, da una parte, e la

credenza nella ragione calcolatrice per organizzare la sua azione, dall'altra. Questo

immaginario sociale che svela il programma della modernità così com'è esplicitato

in Newton e in Descartes, ha chiaramente origine nel fondo culturale ebraico, nel

fondo culturale greco e nella loro fusione». 9 Le idee moderne di progresso e di

sviluppo trovano un senso solo all'interno di questo quadro antropologico e

culturale. L'occidentalizzazione ha tra le sue espressioni più incisive la

deculturazione: l'Occidente è un"anticultura', una civiltà che svuota dall'interno le

culture deboli o marginali - sia centrali che periferiche - riempiendole con i

propri codici e imperativi. La specificità dell'Occidente consisterebbe nella sua

autoriflessività, cioè nel fatto che l'Occidente come cultura è in grado di distanziarsi

da sé ed autorappresentarsi, manifestando una superiore vocazione universale al

contatto con altre culture. Tuttavia, esistono culture non occidentali (India, Cina,

Islam) di ampia portata e con 'effetti di seduzione' sulle piccole culture: anch'esse,

però, subiscono in parte il fascino dell'Occidente. Ciò in quanto, osserva Latouche,

la cultura occidentale moderna fonda la sua universalità, in ultima analisi, sulla

competizione individuale e la ricerca della performance: elementi che vengono

9 Ibidem, p. 48.

15

percepiti come dotati di una sembianza di neutralità rispetto ai caratteri

antropologici delle culture. L'Occidente non è universalizzabile come civiltà -

colonialismi e neocolonialismi lo attestano - ma è riproducibile in quanto

macchina tecno-economica, e i casi del Giappone e delle 'tigri' del Sudest asiatico

ne sono dimostrazione, anche se non è possibile prevedere gli esiti

dell'assorbimento della concezione lineare e cumulativa del tempo e della 'sacra'

credenza nella possibilità di dominare la natura. Il processo di occidentalizzazione è

dunque universale - poiché le dimensioni economiche e culturali dell'Occidente si

sono dispiegate in ampiezza spaziale e temporale - e riproducibile nella sua

dimensione tecno-economica. La deculturazione si attua attraverso una gamma di

meccanismi che non comprende soltanto la violenza e la spoliazione, ma anche il

dono: mediante quest'ultimo «l'Occidente acquista il potere e il prestigio che

generano la vera destrutturazione culturale»; 10 di fronte al dono da parte della cultura

occidentale le culture marginali sono disarmate, poiché ne riconoscono la

superiorità tanto del contenuto (la tecnica, l'aiuto umanitario, il messaggio

religioso ... ) quanto della modalità dell'atto: esse si sentono in debito.

L'immaginario delle culture deboli è stravolto dal constatare che il proprio mondo

tradizionale è solo uno dei mondi esistenti, molti dei quali sono radicalmente

diversi. Cade, dunque, il solipsismo culturale che aveva agito da fattore di garanzia

della persistenza delle culture non occidentali. La deculturazione non consiste in un

processo di acculturazione, ma di sostituzione e di interiorizzazione pressoché

completa di una cultura con un'altra: «paradossalmente, l'Occidente è al tempo

stesso la sola 'cultura' che si sia veramente mondializzata con una forza, una

10/bidem, p. 71.

16

profondità e una rapidità inaudite, e la sola 'cultura' dominante che non riesce ad

assimilare veramente non solo gli allogeni ma i suoi propri membri. [ ... ] La sua

universalità è negativa. Il suo prodigioso successo consiste nello scatenamento

mimetico di modi e pratiche deculturanti. Esso universalizza la perdita di senso e la

società del vuoto». 11 L'occidentalizzazione, però, mostra tutti i suoi limiti e i suoi

fallimenti, tanto nella crisi delle strutture istituzionali, economiche e politiche di

molte ex-colonie quanto nella presenza di forme culturali sincretiche e nel

proliferare di particolarismi e fondamentalismi etnici o religiosi. Economia

informale e forme di microsolidarietà nelle bidonvilles delle aree urbane del Sud del

mondo attestano l'esistenza di una vitalità inimmaginabile in contesti asfittici e

ritenuti non in grado di valorizzare le proprie risorse.

1.1.3. Globalizzazione e multiculturalismo

Riprendendo A. J. Toynbee, 12 Franco Cassano13 indica due possibili modalità di

risposta, da parte delle culture deboli, alla deculturazione analizzata da Latouche:

l 'Erodianismo, caratterizzato dall'assunzione della cultura forte come modello e dal

tentativo di imitazione nei confronti di quest'ultima, e lo Zelotismo, che corrisponde

alla posizione di chiusura, al contempo timorosa e aggressiva, nella propria identità.

Si tratta - in entrambi casi - di posizioni di subalternità, che non assumono in

maniera costruttiva il conflitto, ma o lo ignorano, come nel primo caso, o lo

estremizzano rendendo irriducibili e contrapposte le due polarità. Nell'analisi di

11/bidem, p. 88. 12 ARNOLD J. TOYNBEE, Civiltà al paragone, trad. it., Milano, Bornpiani, 1983.

17

Toynbee, le due posizioni hanno referenti empirici nelle vicende di alcune società,

sebbene l 'Erodianismo abbia avuto una diffusione di gran lunga minore dello

Zelotismo. Vi sono, aggiunge Cassano, delle forme intermedie tra le due estreme:

una di esse corrisponde alla cosiddetta prostituzione della cultura subalterna, cioè al

tentativo di mantenerne gli aspetti compatibili con la cultura importata,

distruggendo i riferimenti culturali e morali più significativi senza sostituirli con

altri e dando luogo a patologie sociali su vasta scala (povertà assoluta, devianza,

mercificazione dilagante, economia illegale). Un'altra modalità di risposta alla

deculturazione è l'integralismo, sviluppatosi in paesi che qualche decennio fa

avevano tentato senza successo la strada dell 'Erodianismo. Uno dei punti centrali

dell'argomentazione di Cassano si basa sulla considerazione che «le patologie da

deculturazione [ ... ] non nascono dai limiti intrinseci di alcune culture, ma

dall'inserimento coatto in un modello dominante che impone loro di trasformarsi o

perire». 14 L'integrismo del modello produttivistico è però 'asettico', in quanto

ammantato di razionalità. Occorre allora rimetterlo in discussione dall'interno,

evidenziandone gli aspetti che possono frenare la mercificazione e la

tecnicizzazione della vita sociale. Torna il tema dei 'limiti dello sviluppo' e

l'interrogativo posto all'identità occidentale, al paradigma dell'infinità e a quello

della libertà dell'individuo. La risposta più adeguata della cultura occidentale

all'integralismo, sostiene Cassano, consiste nella decostruzione di se stessa e dei

suoi meccanismi repressivi: «l'atto più universalistico e coerente del nostro

13FRANCO CASSANO, L'integralismo della corsa, in FRANCO CRESPI - ROBERTO SEGATORI (a cura di), Multiculturalismo e democrazia, Roma, Donzelli, 1996, pp. 11-20.

14/bidem, p. 18.

18

universalismo dovrebbe consistere nel riconoscere le proprie patologie e la propria

parzialità». 15

I processi di socializzazione, identificazione, produzione simbolica sono fortemente

collegati, nelle società a modernità avanzata, con il processo di differenziazione

della società: in essa si presentano gruppi - a base diversa: etnica, religiosa,

razziale, nazionale - provvisti di culture o subculture proprie. In certi casi ciò può

anche essere il risultato di consistenti flussi migratori.

Il multiculturalismo, nella visione di Blau16, può essere descritto come l'esito -

virtuoso, auspicato: il che denuncia un certo carattere ideologico di tale nozione -

di significative relazioni comunicative e di scambio fra individui appartenenti a

gruppi diversi, in un clima di reciproco riconoscimento, rispetto, valorizzazione

senza pretese di primogeniture di sorta: «l'obiettivo del multiculturalismo è quello

di incrementare i benefici portati dalla diversificazione a vantaggio di più persone e

della società nel suo insieme, migliorando la comunicazione tra i vari gruppi». 17

Possono tuttavia prodursi delle conseguenze indesiderate: la valorizzazione di ogni

cultura, se non adeguatamente posta in relazione con le altre, può far sorgere

tentazioni etnocentriche. Il paradosso del multiculturalismo consiste, per Blau, nel

fatto che esso lavora per la sua scomparsa: una società sostanzialmente

multiculturale porterà gradualmente all'attenuazione e alla scomparsa delle

differenze culturali, le quali si fonderanno in una sintesi (si potrebbe dire in un

melting pot) in cui i singoli elementi costitutivi originari resteranno indistinguibili.

15 Ibidem, p. 20. 16PETER M. BLAU, I paradossi del multiculturalismo, trad. it., in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVI,

1, 1995, pp. 53-63. 17/bidem, p. 56.

19

In realtà, le condizioni sociali affinché ciò accada non sono di poco conto, se si

considera che, nella quasi totalità dei casi, le differenze culturali sono accompagnate

da pesanti differenze di status. Una strategia di multiculturalità avrà successo

soltanto se anche questa classe di variabili sarà soggetta ad adeguati interventi

perequativi: «in termini astratti, un prerequisito per il successo del multiculturalismo

è l'intersecarsi delle differenze di classe e culturali, non la forte correlazione che si

verifica attualmente». 18

1.1. 4. Multiculturalismo e cultura comune

Il tema del multiculturalismo richiama - simmetricamente, si potrebbe dire - la

problematica della cultura comune, cioè di un insieme più o meno limitato di

elementi comuni ali' interno della cultura della società contemporanea. Mike

F eatherstone 19 si è riproposto di esaminare le condizioni in base alle quali una

cultura comune interagisce ali' interno dei processi di integrazione sociale,

orientando individui e gruppi sociali verso «un superiore e coerente insieme di

valori e di gusti». Egli mette in guardia contro il rischio di confondere due piani che

invece vanno tenuti distinti: l'analisi della cultura comune esistente e la

teorizzazione circa la sua desiderabilità nella società postmoderna, attraversata dal

fenomeno della cultura consumistica di massa.

Esiste, e, se sì, in che termini una cultura comune? Occorre innanzitutto sgombrare

il campo da un'idea di cultura unitaria, aconflittuale e del tutto funzionale ali' ordine

18/bidem, p. 63. 19MIKE FEATHERSTONE, Cultura comune o culture non comuni?, trad. it. in «Studi di sociologia», XXIX, I,

1991, pp. 41-61.

20

sociale: un'idea mitica risalente allo storicismo e al romanticismo tedeschi20 e che ha

inciso, in particolare, nello sviluppo degli studi in antropologia. Tale concezione

contiene una 'visione estetica della cultura', caratterizzata i) da una struttura

unitaria, in cui le parti sono armonicamente integrate fra loro e ii) dalla necessità di

una raffinata sensibilità interpretativa (intuizione artistica) per esprimere e realizzare

il significato intrinseco della cultura stessa. 21 Questo è il concetto di cultura comune

che è possibile ritrovare nella sociologia funzionalista del Novecento, in particolare

nel pensiero di Parsons. Con valenza e denominazione diverse, il concetto è presente

anche negli studi di orientamento marxista, dove la cultura è vista, in chiave

manipolativa, come ideologia dominante (cioè 'falsa coscienza').

F eatherstone si rifa ad alcuni studi22 che hanno mostrato - mediante l'esame dei

casi del feudalesimo, del capitalismo ottocentesco e di quello novecentesco - che

la riproduzione delle società non avviene né per mezzo di una cultura comune né per

mezzo di un'ideologia dominante. Due sono le argomentazioni principali a tale

proposito. Innanzitutto, non è dimostrato che in passato le società occidentali

fossero più integrate di oggi: ad esempio, in età feudale le comunicazioni erano

carenti, gli stati centrali - sebbene fosse largamente dominante l'ideologia della

cristianità- non erano in grado di esercitare una forza integrativa rilevante, i flussi

migratori erano costanti, magia e superstizione permanevano nella cultura degli

strati sociali inferiori. Il mito secondo il quale le società feudali erano state comunità

integrate è derivato da una lettura errata dell'opera tOnniesiana, dall'impostazione di

Durkheim e dalla rilettura parsonsiana di quest'ultimo. Era stato Durkheim, infatti, a

2°Cfr. MARGARET ARCHER, Culture and Agency, Cambridge, Cambridge University Press, 1988. 21Cfr. MIKE FEATHERSTONE, Cultura ... cit., p. 43.

21

focalizzare l'attenzione sulla coscienza collettiva, a forte impronta religiosa, che

nelle società primitive a bassa differenziazione garantiva un'elevata integrazione

morale e sociale.

Il secondo punto del ragionamento di F eatherstone parte da un quesito: in che modo

ricostruire e mantenere nel tempo un consenso morale, in un contesto

desacralizzato? È possibile creare la «sensazione che la società sia divenuta una

comunità nazionale unitaria»?23 Nelle società moderne ciò è alquanto improbabile in

termini concreti, ma si può considerare il 'potenziale mitico' dell'integrazione

culturale: si tratta della «invenzione delle tradizioni»24 operata da 'specialisti nella

produzione dei simboli', i quali intervengono nei processi di costruzione e

ricostruzione delle rappresentazioni di una comunità. 25

In ordine alla questione relativa alla formazione di una cultura comune,

Featherstone accetta l'idea di Raymond Williams secondo la quale tale cultura deve

assumere positivamente la differenziazione tipica della società complessa e al

contempo favorire la solidarietà, cioè «restituire la diversità senza causare

separazioni».26 Si tratta di un paradosso, poiché tale nozione di cultura comune

richiede di essere sviluppata, non essendo però al tempo stesso programmabile.

Williams ritiene che la cultura di massa non sia un frutto degenerato di una errata

ricerca di una cultura comune: l'espressione 'cultura di massa', a suo avviso, risente

ideologicamente di una elitaria separazione fra cultura della borghesia colta e

cultura popolare.

22N. ABERCROMBIE - S. HILL - B. S. TuR.NER, The Dominant ldeology, London, Allen and Unwin, 1980. 23MIKE FEATHERSTONE, Cultura ... cit., p. 45. 24E. HOBSBAWN- T. RANGER, The lnvention ofTradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983. 25MIKE FEATHERSTONE, Cultura ... cit., p. 45.

22

Gli approcci al tema della globalizzazione che abbiamo presentato~ se adoperati

congiuntamente e in modo complementare, possono rivelarsi utili a costruire un

quadro di tali dimensioni in cui sia gli aspetti strutturali ed oggettivi, cioè le

interdipendenze di tipo economico, che quelli di tipo socioculturale - le immagini

del mondo come sistema globale e i processi di creolizzazione delle culture

particolari e locali - seppure con dinamiche ed esiti altamente diversificati,

emergano nella loro rilevanza e nelle loro relazioni.

1.2. Particolarismo e universalismo

La problematica appena esaminata si ricollega alle tensioni esistenti fra

particolarismo e universalismo, secondo la definizione parsonsiana delle variabili

strutturali come alternative di orientamento e di azione nella classificazione delle

relazioni sociali, soprattutto di tipo istituzionale. La modernità, in buona sostanza,

ha connotato negativamente il primo elemento - identificato con sistemi di

appartenenza arcaici che mortificavano le potenzialità individuali e cristallizzavano

le relazioni fra ceti - e positivamente il secondo, corrispondente ad una nuova

concezione antropologica e del rapporto stato-individuo basato sulla cittadinanza

comune a tutti i 'consociati'. Le realtà storiche da superare erano quelle della società

feudale, dello stato assoluto o di quello tradizionale, che impedivano alla borghesia

di affermare compiutamente la propria egemonia culturale ed economica.

Particolarismo, dunque, come ostacolo ai processi di modernizzazione della società

26RAYMOND WILLIAMS, Common Culture e Culture is Ordinary, in Resources of hope, London, New Left Books, 1989 citato in MIKE FEATHERSTONE, Cultura ... cit.

23

o come uno degli indicatori del carattere premoderno/tradizionale della società,

perché ritenuto una minaccia alle esigenze e alle mete universalistiche o, ancora,

<<Una tipica espressione dell'egoismo sociale, economico e politico, degli interessi di

parte, delle lealtà ristrette».27 Secondo una visione meno modellistica e meno

dualistica, è possibile considerare la dicotomia particolarismo-universalismo m

termini più articolati e complessi, individuando un numero molto ampio di

combinazioni fra i due elementi, disposte lungo un continuum i cui estremi sono

costituiti da sistemi di azione premoderni e da sistemi di azione modernizzati. Sarà

così possibile cogliere taluni particolarismi che sono sorti dalla e nella

modernizzazione o altre manifestazioni che possono divenire «fattore di sostegno

allo sviluppo una volta che siano state inserite in circuiti istituzionali e di potere

appropriati»28 o, ancora, forme di mobilitazione caratterizzate come particolaristiche

nelle loro genesi, poi apertesi a prospettive universalistiche. 29 Già ne Il sistema

sociale Parsons faceva riferimento a tipi di struttura sociale improntati anche a

modelli universalistici di attribuzione o a modelli particolaristici di realizzazione;

questi ultimi, in particolare, sono stati l'oggetto di alcune ricerche, citate

nell'articolo di Mutti, che hanno mostrato come criteri particolaristici appartenenti

alla cultura tradizionale di una società, se filtrati e combinati con criteri realizzativi,

possono favorire i processi di modernizzazione. Mutti va oltre, osservando che «le

relazioni interpersonali particolaristiche costituiscono un lubrificante indispensabile

27ANTONIO Mum, Particolarismo, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXVII, 3, 1996, pp. 501-11; p. 501. Vedi anche, per una visione che propone l'idea di un 'universalismo differenziato', MAURO MAGATil, Mutamento sociale e differenziazione de/l'universalismo, in «Studi di sociologia», XXXIV, 1, 1996, pp. 15-35.

28ANTONIO MUTII, Particolarismo ... cit., p. 508. 29GABRIELLA TuRNATURI, Associati per amore, Milano, Feltrinelli, 1991.

24

al funzionamento delle società moderne»,30 e non solamente nelle sfere private

individuali o nei gruppi e nei movimenti sociali ma anche nella sfera economica e in

quella politico-istituzionale della società. Vivere in una società globalizzata, dove le

relazioni sociali sono sottoposte a stretching (stiramento) nello spazio e nel tempo31

genera negli individui 'insicurezza ontologica', che può essere da essi controllata

mediante legami particolaristici che consentano di adottare atti di fiducia basati su

comportamenti dei propri interlocutori caratterizzati da un minimo di prevedibilità,

e perciò rassicuranti. 32 Schematizzando, Mutti individua due forme idealtipiche di

particolarismo che potremmo definire hard e soft. La forma hard, ostile alla

modernizzazione e alternativa all'universalismo, identifica comunità chiuse verso

l'esterno, con confini netti basati sulla dicotomia amico/nemico, basate su tradizioni

sacralizzate e ritenute immodificabili. La fo~a soft di particolarismo, simbiotica

rispetto alla modernità, corrisponde a comunità che, pur rappresentando comunque

un riferimento identitaria significativo per i suoi membri, presentano caratteri di

maggiore articolazione, flessibilità ed apertura, di disponibilità al dialogo e alla

cooperazione con altre, diverse comunità.

30ANTONIO MUTII, Particolarismo ... cit., p. 508. Vedi anche, per aspetti collegati al tema in questione, dello stesso autore, Reti sociali: tra metafore e programmi teorici, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXVII, 1, 1996, pp. 5-30. Il tema dell'analisi di rete verrà ripreso più avanti.

31L'espressione è di ANTHONY GIDDENS, La costituzione della società. Lineamenti di teoria della strutturazione, trad. it., Milano, Comunità, 1990, come ripresa in PETER DICKENS, Sociologia urbana, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1992.

32Sulla tematica della fiducia e sui meccanismi che legano fiducia interpersonale e fiducia sistemica nelle relazioni sociali, Mutti si riferisce, su un piano microsociologico ai seguenti studi: ERIK H. ERIKSON, Infanzia e società, trad. it., Roma, Armando, 1970; S. M. LIPSET - W. SCHNEIDER, The Confidence Gap, New York, Free Press, 1983.

25

1. 2.1. Gli universalismi differenziati

Il tema degli universalismi - in qualche modo speculare rispetto a quello dei

particolarismi poc'anzi esaminato - conduce a ulteriori riflessioni. Considerare la

differenziazione degli universalismi, ricostruendoli a partire dai soggetti più che

dalle istituzioni, consente, secondo Turnaturi,33 di assumere la problematicità

dell'orizzonte della vita quotidiana della persona, dimensione caratterizzata dalla

presenza contraddittoria e dinamica di un 'pluralismo di universalismi'; questo

approccio intende offrire elementi utili alla costruzione di uno scenario in cui

universalismo equivalga a riconoscimento e rispetto delle differenze, le quali non

vanno considerate, dunque, come realtà statiche o da sottoporre ad omologazione.

Cogliere una sorta di differenziazione del! 'universalismo comporta «reintrodurre

elementi di disuguaglianza nella forzata eguaglianza, di tener conto di percorsi,

processi, pathos, emozioni, dell'individuo nella sua interezza». 34 Nella società

contemporanea l'universalismo assume, per vari ordini di motivi, il carattere della

paradossalità: in molti casi il particolarismo presenta le proprie ragioni in nome

dell'universalismo, «si nutre vampirescamente di universalismo».35 Ci sembra di

potere affermare che questa analisi non è totalmente condivisibile, nel senso che è

forse eccessivo pensare ad un universalismo quasi totalmente 'strumentalizzato' dai

particolarismi hard e svuotato dei suoi contenuti propriamente universalistici - una

visione che potrebbe essere ritenuta frutto di una indebita sovrapposizione del

concetto di universalismo a quello collegato, ma diverso, di globalizzazione. È pur

33GABRIELLA TuRNATURI, I soggetti dell'universalismo, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXV, 3, 1994, pp. 361-83.

34/bidem, p. 3 71.

26

vero, tuttavia, che taluni fenomeni sociali contemporanei possono essere ricondotti a

un «duplice processo di universalizzazione del particolarismo e di

particolarizzazione dell'universalismo» :36 i particolarismi hard e soft crescono, si

differenziano e acquistano in maggiore misura riconoscimento e visibilità sociale e

culturale, anche come risposta o reazione a stati di 'insicurezza ontologica' o per le

altre dinamiche già ricordate (universalizzazione del particolarismo), ma si ha,

anche se non in ragione direttamente proporzionale alla crescita dei particolarismi,

la particolarizzazione dell'universalismo come «conseguenza della generalizzazione

dell'idea di essere tutti partecipi, pur nel particolare, di un'essenza umana

universale».37 Vale comunque la constatazione che sempre più difficilmente, in un

contesto tendenzialmente globalizzante, i particolarismi si costituiscono in assenza

di universalismo - e in ciò consistono gli effetti globalizzanti che scaturiscono dai

processi di comunicazione - determinando una situazione inedita: «l'insorgere dei

particolarismi, dei nazionalismi, dei localismi nei nostri giorni si differenzia da

quello ottocentesco proprio perché nasce dalla mancanza di senso, dalla perdita

dell'identità, oltre che da reali discriminazioni, nasce dalla voglia di

differenziazione, di scissione dalla globalità, dall'esigenza di poter narrare la propria

esperienza a sé e agli altri. La crisi dell'universalismo nasce, paradossalmente, da un

eccesso di universalismo, da un eccesso di comunicazione puramente formale, dalla

perdita di senso della propria esperienza e della possibilità di una sua narrazione e

condivisione»;38 tale crisi si ha quando l'universalismo assume i caratteri del

35 Ibidem, p. 362. 36RONALD ROBERTSON, Globalization ... cit., in GIANFRANCO BOTTAZZI, Prospettive della globalizzazione ...

cit., p. 434. 37GIANFRANCO BOTTAZZI, Prospettive della globalizzazione ... cit., p. 435. 38GABRIELLA TuRNATURI, I soggetti de/l'universalismo ... cit., p. 365.

27

livellamento che omologa esperienze e differenze. Altro fattore di paradossalità

dell'universalismo, prosegue Turnaturi, è dato da una frequente confusione dei

diritti della persona con quelli del cittadino. 39 Tuttavia, se da un punto di vista

analitico tale distinzione è necessaria, porre in quest'ottica le questioni relative ai

diritti delle minoranze culturali nelle società occidentali contemporanee non evita il

sorgere di conflitti circa tali diritti, ma soltanto ne sposta il terreno da quello dei

diritti - perlopiù sociali - di cittadinanza a quello dei diritti umani, rinviando ai

problemi della loro costituzionalizzazione formale e materiale e della loro

implementazione a livello di policies. Su queste problematiche avremo modo di

ritornare; per il momento ci limitiamo a concordare con la constatazione che «oggi

la cittadinanza dei nostri ricchi paesi rappresenta l'ultimo privilegio di status,

l'ultimo fattore di esclusione e discriminazione anziché - come fu all'origine dello

stato nazionale - di inclusione e parificazione, l'ultimo relitto premoderno delle

differenziazioni personali, l'ultima contraddizione irrisolta con l'affermata

universalità ed uguaglianza dei diritti fondamentali»40• Questa osservazione ci pare

utile, in quanto riteniamo si possa esprimere, a partire da essa, una duplice necessità:

i) chiarire i nessi tra le dimensioni giuridiche e quelle sociologiche del concetto e

delle pratiche della cittadinanza moderna e contemporanea, e ii) evidenziare la

complessità della dinamica particolarismo-universalismo - soprattutto con

riferimento alle prospettive di società multiculturali - irriducibile in logiche di

livello sottosistemico (economico, politico o giuridico) poste come reciprocamente

esclusive. In sintesi, ridefinire e differenziare l'universalismo a partire dalle persone

39Tale posizione prende spunto da alcune note di LUIGI FERRAJOLI, Cittadinanza e diritti fondamentali, in «Teoria politica», IX, 3, 1993, pp. 63-76.

28

segnala sicuramente un certo disagio verso la tradizionale formulazione del concetto

e delle pratiche - soprattutto culturali, politiche e giuridiche - ad esso connesse e

rimanda, inoltre, ad approcci al tema della giustizia - come quello proposto da

Amartya Sen, 41 che chiama in causa la dimensione della scelta e le sue componenti

emotive oltre che razionali - imperniati sul riconoscimento pieno delle differenze e

delle capacità individuali, ma nello stesso tempo attenti a non legittimare

particolarismi hard.

1.2.2. Particolarismi, universalismi, identità, solidarietà

Franco Crespi42 si propone di ricercare nuove basi della solidarietà nella società

contemporanea, attraversata dalle dinamiche della globalizzazione e della

differenziazione e dalle conseguenti tensioni fra universalismo e particolarismo: «se

è vero [ ... ] che la solidarietà non è sempre una condizione necessaria per il

funzionamento del sistema sociale, è anche vero che la forma democratica non può

che essere basata su regole universalmente condivise».43 La globalizzazione ha

migliorato notevolmente le condizioni di vita in taluni paesi, mentre in altri ha fatto

sorgere nuove aspettative, diverse da quelle tradizionali. Consumismo e

competitività sembrano essere diventati tratti assunti a modello per molte società e a

ciò si è accompagnata anche una certa omogeneizzazione di alcuni stili di vita,

soprattutto giovanili. Tuttavia, a tali trasformazioni culturali non ha corrisposto la

40/bidem, p. 74. 41AMARTYA K. SEN, La diseguaglianza: un riesame critico, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1994. Per un breve

esame di questa posizione, cfr. infra, capitolo 2. 42FRANCO CRESPI, Mutamento sociale, identità e crisi della solidarietà, in FRANCO CRESPI - ROBERTO

SEGATORI (a cura di), Multiculturalismo ... cit.; pp. 3-9. 43/bidem, p. 3.

29

diffusione del modello liberaldemocratico: economia di mercato e democrazia

rappresentativa non vanno di pari passo, e i casi delle 'tigri' asiatiche e della Cina lo

confermano. La crescita economica e un più elevato benessere hanno offerto spazi

più ampi allo sviluppo e all'espressione delle differenze culturali. La crescita delle

interdipendenze economiche e la fine dell'ordine mondiale basato sulla

contrapposizione politico-ideologica fra due blocchi hanno determinato fattori critici

per i sistemi politici dei vari paesi, con una elevata variabilità legata ai singoli casi.

Le istituzioni politiche tradizionali devono fare i conti con l'erosione dei propri

fondamenti; prendono piede forme di separatismo sulla base di un'identità etnica,

religiosa, nazionale e di fondamentalismo. Crespi individua un elemento

problematico nel «fatto ( ... ] che il giusto principio del riconoscimento dei diritti

particolari sta un po' dovunque configurandosi come conflitto di identità anziché

come conflitto di interessi: ciò porta a opposizioni che, di per sé, tendono a

presentarsi come inconciliabili e non suscettibili di compromesso, impedendo di

affrontare in modo pragmatico le contraddizioni». 44 Già K. Marx aveva tentato senza

successo di fondare la solidarietà sociale sui rapporti economici reali e quindi nella

società civile; in seguito anche É. Durkheim, che individuava la base della

solidarietà sociale nella solidarietà organica risultante dalla divisione del lavoro in

una società modernizzante ad elevata specializzazione funzionale, aveva dovuto

riconoscere la necessità di un riferimento a principi generali di tipo etico-religioso.

Le interdipendenze economiche agite nel contesto della globalizzazione e i connessi

valori e modelli di vita e di relazione non sono in grado di offrire adeguati

riferimenti alle identità individuali e collettive e al senso di appartenenza. Si spiega

44/bidem, p. 6.

30

perciò l'attuale tendenza a cercare nuove forme di identità e di appartenenza

richiamandosi a (non sempre reali) tradizioni religiose, etniche, nazionalistiche. Si

pone dunque un dilemma di non facile soluzione, che vede opposte le forme di

appartenenza particolaristiche, ormai troppo 'corte' rispetto alle esigenze di

integrazione e di solidarietà sociale, e quelle sovranazionali, eccessivamente

universalistiche e non in grado di sostenere un'identità culturale. Crespi ritiene che

«occorre da un lato riconoscere il bisogno insopprimibile di identità e, dall'altro,

mostrare che le definizioni delle identità sono riduttive rispetto alla complessità

della situazione esistenziale nella quale ci troviamo».45 Riconoscere la priorità

dell'esistenza rispetto ad ogni conoscenza - in opposizione ad uno dei tratti più

marcati del modello culturale dell'Occidente - è un passaggio necessario che si

ricollega al ritenere parziale ogni interpretazione della realtà e a ricercare il senso

ultimo della vita, anche se questo è inattingibile nella sua globalità: «questo

significa che mentre possiamo riconoscere tutta l'importanza della richiesta di senso

contenuta nella ricerca dell'identità, possiamo anche riconoscere che le definizioni

dell'identità non esauriscono mai l'intera realtà degli individui e delle collettività». 46

Quanto detto aiuta a ridimensionare il riferimento alle identità particolari e a

mantenere di più i conflitti entro l'ambito degli interessi, per definizione negoziabili

e ben più manipolabili attraverso procedure e strumenti razionali. «L'attenzione

all'esistenza, come situazione comune caratterizzata dalle dimensioni affettive, dal

desiderio, dall'angoscia -e dalle gioie, dalla consapevolezza della morte, ma anche

come condizione comune di non sapere riguardo al senso ultimo della vita, sembra

45/bidem, p. 7; tali considerazioni sono estesamente sviluppate nel volume, dello stesso autore, Imparare ad esistere. Nuovi fondamenti della solidarietà sociale, Roma, Donzelli, 1994.

31

costituire l'unico possibile riferimento universalmente condiviso in una cultura che

è essenzialmente relativistica».47 All'atteggiamento ironico verso le pretese di

validità universali proposto da R. Rorty e dalla cultura postmoderna occorre

aggiungere la consapevolezza della irriducibilità dell'esistenza a un conflitto tra

diverse identità. Nell'attuale orizzonte, la democrazia «deve cercare il suo

fondamento in un concetto assai meno determinato di solidarietà, che consenta al

tempo stesso di ridefinire delle regole universalmente condivise, senza pretendere di

imporre valori assoluti rispetto alle identità particolari».48

Su un piano che tocca argomentazioni anche di tipo filosofico-politico, sembra

emergere con sempre maggiore evidenza la correlazione fra crisi dell'universalismo

e tenuta delle democrazie occidentali, che vedono aumentare le difficoltà nel

comporre le istanze universalistiche con una crescita delle espressioni delle identità

particolaristiche, spesso in aperta polemica con i valori fondanti delle prime.

L'universalismo, ricorda Francesco Pardi, 49 è affermato in una piccola minoranza di

società, e perciò non è possibile darlo per scontato. La modernità attribuisce

all'universalismo il carattere di regola super partes, irrecusabile rispetto a soggetti

diversi per identità culturale e per interesse economico. Ciò in base a due

presupposti: la differenziazione sociale, che dà luogo a interessi diversificati e

potenzialmente confliggenti, e il manifestarsi di relazioni di 'indifferenza' tra

fondamenti valoriali anch'essi diversificati e potenzialmente confliggenti. In tal

modo l'universalismo è in grado di rendere possibile la coesistenza o, più spesso, di

46FRANCO CRESPI, Mutamento sociale ... cit., p. 8. 471bidem. 481bidem, p. 9. 49FRANCESCO PARDI, Indifferenza e universalismo procedurale, in FRANCO CRESPI- ROBERTO SEGATORI (a

cura di), Multiculturalismo ... cit.; pp. 21-34.

32

regolare i conflitti fra valori e interessi: «non l'integrazione perfetta, ma

l'indifferenza come tecnica per la regolazione dell'insuperabile imperfezione sociale

pare essere lo scopo realisticamente concepito di ogni idea di universalismo. In altre

parole l'universalismo deve creare le condizioni per la formazione di una unitas

multiplex, di un sistema ove la molteplicità delle componenti non generi sempre e

necessariamente il conflitto e la guerra».50 L'universalismo cui Pardi si riferisce è

dunque di carattere procedurale e agisce in base ad un meccanismo simbolico -

definito modalizzazione - che dovrebbe creare indifferenza fra diverse istanze

valoriali e di interesse, 'tecnicizzando' le situazioni conflittuali. L'universalismo,

attraverso l'abbandono di ogni particolarismo, ha fatto sì che «col divenire

ugualmente validi ed egualmente riconosciuti, tutti i valori sono nello stesso

momento divenuti egualmente relativi, avendo essi perduto la funzione di

integrazione primaria delle società».51 Una società universalistica riconosce validità

ad ogni 'pretesa di validità', consente la comunicazione morale tra tutti i valori,

tranne quelli che affermano di volerne bandire qualche altro. Rimane in piedi la

questione di cosa possa garantire l'integrazione della società. A giudizio di Pardi, i

valori tendono ad assomigliare sempre di più agli interessi; in un ordinamento

universalistico le chiusure sono accettate sulla base degli interessi e non dei valori:

si tratta di chiusure organizzative ( closure) che possono essere superate mediante la

comunicazione e lo scambio. Gli ordinamenti non universalistici sono caratterizzati

da chiusure ontologiche (closedness) che comportano il mantenimento dell'identità.

L'universalismo procedurale si presenta nell'Occidente sotto tre forme: razionalista,

50/bidem, p. 23. 51/bidem, p. 24.

33

relativista (privilegia l'esperienza vissuta), tecnocratico (privilegia il criterio del

successo). La prima forma corrisponde al massimo di proceduralismo e non entra

affatto nel merito dei valori, ma si esprime totalmente nella ricerca di condizioni che

consentano di formulare regole super partes. Tale impostazione ritiene che i diversi

valori siano 'traducibili' attraverso le regole irrecusabili. L'unico elemento richiesto

a tutti i 'giocatori' è un 'meta-gioco' che «funga da ponte tra tutti i giochi giocabili e

quindi tra tutti i significati emergenti dalle differenti comunità».52 Per adoperare la

terminologia di Karl-Otto Apel, si tratta, per i soggetti in gioco, di riconoscere la

loro comune appartenenza ad un' «ideale comunità di comunicazione» con la regola

irrecusabile. L'universalismo relativista muove dal presupposto che le diversità fra

culture siano tali da non consentire una benché minima traducibilità dei valori. Le

regole di interpretazione dei significati non sono universali, ma hanno valore

soltanto all'interno di una certa cultura. L'universalismo può essere conseguito

attraverso la comunicazione, lo scambio di senso a partire da un vago sentimento di

appartenenza al genere umano. Proprio perché la 'traduzione' è per definizione

imperfetta, la consapevolezza di ciò motiverebbe a ricercare intese e punti di

contatto. Anche gli universalisti tecnocratici ritengono che le diversità tra culture

non siano traducibili, ma non si rassegnano alla risposta dell'ermeneutica e

dell'appello alla comune umanità. In questa visione, le differenze non sono altro che

equivalenti funzionali, che possono essere manipolati mediante strumenti tecnici

propri dei vari sottosistemi: politici, economici, scientifici, eccetera.

52lbidem, p. 27.

34

Cecilia Cristofori53 ritiene inadeguate - in modo condivisibile, a nostro avviso - le

proposte avanzate da Pardi e Crespi in ordine all'universalismo necessario per i

conflitti fra culture occidentali e culture altre. La forma procedurale indicata da

Pardi, attraverso il tentativo di sterilizzare e tecnicizzare quanto più possibile i

conflitti, ha il limite di rimanere troppo utopica e di non fare i conti con la sfiducia

esistente verso questo tipo di soluzioni. Lo spostamento dei conflitti dal terreno

delle identità a quello degli interessi, come argomentato da Crespi, ha anch'esso un

carattere utopico; in esso, inoltre, è carente la considerazione della complessa natura

dell'identità, strettamente connessa all'opacità dell'esistenza, più volte evidenziata e

approfondita dallo stesso Crespi. Identità e interessi, secondo Cristofori, sono nella

realtà molto difficili da separare, e tale separazione può avvenire solo a posteriori,

quando cioè il conflitto si sia dispiegato nell'insieme delle sue dimensioni: identità,

interesse, valore, riconoscimento. Se per conflitto si intende «una sorta di

cortocircuito» fra le dimensioni di cui sopra, è possibile analizzarne i casi concreti,

comprenderne le ragioni in gioco, ipotizzarne soluzioni prima che degeneri a

irriducibile scontro di identità, quando cioè sia del tutto assente il loro reciproco

riconoscimento come condizione per l'interazione e un'eventuale negoziazione.

Questa impostazione può essere applicabile nella sfera sociale come in quella

politica all'interno delle dinamiche di cittadinanza e di inclusione-esclusione, nelle

relazioni fra popoli e fra stati. Seguendo T. Adorno e W. Benjamin, vanno

sottolineate anche le potenzialità positive del conflitto culturale, come spinta al

mutamento sociale. Taluni studi antropologici propongono la cifra del sincretismo

53CECILIA CRISTOFORI, Gli universali dell'interazione, in FRANCO CRESPI - ROBERTO SEGATORI (a cura di), Multiculturalismo ... cit.; pp. 39-46.

35

come altro esito possibile della globalizzazione rispetto a quelli della acculturazione

e della omologazione: «questo approccio è di sicuro interesse perché evidenzia le

forme di produzione dell'innovazione culturale senza passare sotto silenzio i

caratteri del dominio in cui consistono i processi di omologazione [ ... ]. La denuncia

e l'attenzione critica che i concetti di acculturazione e omologazione riuscivano a

garantire debbono, infatti, poter essere trasferiti in queste modalità interpretative,

pena la loro riduzione alla tensione conciliativa e ottimistica dei processi spontanei

di osmosi sociale, in una riedizione sofisticata e modernizzata»54•

Il tema universalismo/particolarismo ha più volte incrociato, nel corso del nostro

percorso di ricerca, la dimensione dell'identità. Ambrogio Santambrogio55 parte

dall'idea che valori e interessi, lungi dall'essere riferimenti alternativi, siano

elementi presenti nella costituzione e nella definizione di identità: «valori, intesi in

senso lato come elementi culturali di riferimento all'interno delle identità, e

interessi, intesi in riferimento alla sfera dei beni materiali nell'accezione più ampia e

non strettamente economica, sono [ ... ] dimensioni complementari per la definizione

di un'identità».56 La sua argomentazione si sviluppa in sei punti. 1) La dialettica tra

valori ed interessi, tutta interna alle identità, va fatta emergere nella sua portata:

sono riduttive sia le posizioni che indicano nel conflitto fra valori divergenti la vera

radice dei conflitti di identità sia quelle per le quali il conflitto di fondo è tra diversi

interessi generali 'mascherati' da riferimenti simbolici e valoriali. Ad esempio, nella

cultura occidentale l'interesse allo sviluppo economico è presentato come interesse

54lbidem, p. 46. 55AMBROGIO SANTAMBROGIO, Identità, valori, interessi, in FRANCO CRESPI - ROBERTO SEGATORI (a cura

di), Multiculturalismo ... cit.; pp. 112-119. 561bidem, p. 113.

36

'generale' e accompagnato da elementi simbolici e valoriali particolari. Anche i

valori non sono di per se stessi universalistici, possono aversi 'valori particolari', e

hanno una concretezza più solida di quella generalmente loro attribuita. Non a caso,

osserva Santambrogio, tre delle quattro forme weberiane idealtipiche di agire

sociale fanno riferimento in qualche modo alla dimensione simbolica. In ogni caso,

va ricordato che non può darsi per scontato il sopravvento della dimensione dei

valori né di quella degli interessi; risulta parimenti falsante ogni enfasi

sull'universalismo di una delle due dimensioni. 2) Se l'imperialismo culturale va

rifiutato, mentre l'interesse allo sviluppo economico può essere fatto proprio da

chiunque, «è forse ugualmente pericolosa la situazione in cui l'Occidente,

destrutturati e relativizzati i propri valori, si offre con la pura e semplice potenza

tecnica e tecnologica del proprio modello di sviluppo. Questa neutralizzazione nega

alla radice la possibilità di un confronto tra culture diverse, proprio perché una delle

posizioni, quella dei paesi sviluppati, cosciente dei propri sensi di colpa, neppure si

mette in gioco. L'effetto di tale ritrarsi potrebbe essere, da una parte, un buco nero

che tutto inghiotte, dominato dalla logica tecnica e impersonale dei mercati e dello

sviluppo ad ogni costo. E, dall'altra, un relativismo paralizzante, che porta

l'Occidente a non difendere più i propn valori, perché tutte le culture sono

egualmente valide».57 Gli interessi vanno dunque 'smascherati' al pan delle

ideologie, per ottenere un 'effetto di chiarificazione' e porre m luce i 'valori

impliciti agli interessi', sì da potere instaurare un reale confronto tra le parti. 3)

L'universalismo si trova dunque stretto tra due riduzionismi: quello basato sulla

relativizzazione dei valori (che dà luogo ad un universalismo solo procedurale) e

57/bidem, p. 116.

37

quello basato sulla relativizzazione degli interessi (si avrebbe un universalismo

ontologico). I conflitti non hanno un'unica modalità di svolgimento, cioè quella che

vede contrapposti valori o interessi: differenziando questo oggetto di analisi,

possono esservi conflitti tra valori e interessi all'interno della medesima identità o

fra diverse identità. L'identità, dunque, è composta da elementi eterogenei e

potenzialmente conflittuali. 4) Crespi58 ritiene che i conflitti fra identità non siano

negoziabili, a differenza di quelli fra interessi. Ma, se si accede ad una accezione

complessa di identità come composta tanto da valori quanto da interessi, il conflitto

fra identità ne chiama in causa tutte le dimensioni, in un intreccio spesso non

districabile. Operare la distinzione e la separazione fra gli aspetti di identità e quelli

di interesse in questione nel conflitto può rappresentare una possibile strategia per

disinnescarne la sterilità o la distruttività e avviarne una negoziazione.

Santambrogio non concorda con il presupposto di Crespi circa la non mediabilità dei

valori nelle identità: come potrebbe essere possibile una società pluralista? Rawls

indica una soluzione in positivo nella costituzione della politica come sfera

autonoma dalle concezioni morali, religiose, filosofiche degli individui; Crespi, dal

canto suo, propone una soluzione in negativo basata sul riconoscimento comune

dell'esistenza umana come condizione contraddittoria, che non consente a nessuno

di assolutizzare la propria identità. 5) L'assolutizzazione dei valori può condurre

all'intolleranza, alla violenza, alla riduzione all'omologazione o al silenzio del

diverso. Anche il relativismo ha i suoi rischi, perché si rimane ancorati alla fatticità

e la prassi stessa tende all'irrazionalità. 6) Ritenere che interesse ed egoismo siano

sempre collegati è errato, possono esservi interessi che vanno a beneficio di soggetti

58Cfr. FRANCO CRESPI, Mutamento sociale ... cit.

38

diversi dall'io che li esprime. Nella società complessa le identità chiedono che sia

rispettato il diritto alla pari dignità, ad un pari riconoscimento come degne di essere

riconosciute: «accettare, anche senza necessariamente condividere, diventa il

presupposto stesso per una qualsiasi forma di condivisione».59

Ad analoghe considerazioni era pervenuto il filosofo statunitense Michael Walzer, il

quale aveva sostenuto che i particolarismi costituiscono un aspetto ineliminabile

della vita sociale e dei rapporti fra società o - all'interno di una nazione - fra

culture o etnie diverse, e diventano 'pericolosi' solo se le identità si percepiscono

minacciate.60 Un efficace antidoto contro la radicalizzazione delle identità

particolaristiche è dato dalla differenziazione e pluralizzazione delle identità:

«quando le identità si moltiplicano, le passioni si dividono», 61 e la forza della

minaccia viene attenuata o spenta. W alzer ritiene che non esista una struttura

politica ideale in grado di favorire questo processo di articolazione interna delle

identità, essendo ogni soluzione frutto di negoziazione e, dunque, per definizione

provvisoria e soggetta a superamento.

1. 3. Aspetti attuali della differenziazione sociale

Modernità e differenziazione sociale sono concetti che, nella tradizione come anche

nella recente produzione sociologica, hanno camminato in coppia: operare una

rivisitazione di entrambi può offrire elementi utili alla comprensione delle

condizioni critiche in cutversano solidarietà sociale -e integrazione politica. Le righe

che seguono hanno lo scopo di focalizzare l'attenzione sul secondo concetto: su

59 AMBROGIO SANTAMBROGIO, Identità ... cit., p. 119. 60MICHAEL W ALZER, La rinascita della tribù, trad. it. in «Micromega», 5, 1991, pp. 99-111.

39

quello di modernità c1 soffermeremo in altra parte del nostro itinerario di

riflessione. 62 Di quale tipo sono le relazioni fra i processi di differenziazione e la

solidarietà nella società contemporanea? In particolare, la crisi di solidarietà sociale

o, perlomeno, delle forme di solidarietà sociale tipiche della modernità, in quale

rapporto sta con la differenziazione?

Accanto alla accresciuta percezione dei fenomeni descritti dal concetto di

globalizzazione, viene parallelamente e sempre di più evidenziata, nell'ambito della

teoria sociologica, la portata dei processi di differenziazione sociale: sinteticamente

esprimibile, questa, in termini di aumento della complessità dei sistemi sociali, dal

punto di vista delle loro articolazioni e relazioni interne e delle relazioni di ogni

sistema con il proprio ambiente. Le definizioni sono variegate e hanno condotto, e

conducono, a diversi risultati analitici:63 il concetto di differenziazione sociale -

come quello di solidarietà sociale - è coevo alla nascita della sociologia; potremmo

dire, anzi, che i due concetti hanno rappresentato due fra i principali strumenti che la

teoria sociologica ha costruito per leggere e problematizzare la società nella

modernità. Volendo circoscrivere il campo di una panoramica teorica sui temi della

differenziazione ad alcuni significativi contributi, faremo rapidi riferimenti a

Spencer e Durkheim, per poi dedicare un approfondimento alle posizioni elaborate

61/bidem, p. 110. 62Cfr. infra, capitolo 3. 63«Processo attraverso il quale le parti (comunque definite) di una popolazione e di una collettività, sia questa

una società, un'associazione, un'organizzazione, un gruppo, ovvero un sistema sociale acquisiscono gradatamente una identità distinta in termini di funzione, attività, struttura, cultura, autorità, potere, o altre caratteristiche socialmente significative e rilevanti. In sintesi, differenziazione significa diventar differenti alla luce di categorie sociali e per cause sociali»: questa la defmizione sintetica del concetto data da LUCIANO GALLINO, Dizionario di Sociologia, Torino, Tea/Utet, 1993, p. 224, il quale prosegue passando in rassegna vari autori classici e contemporanei, i significati da essi elaborati, gli usi più diffusi, le diverse dimensioni del concetto.

40

da Simmel, Parsons, Alexander e, nell'ambito della sociologia italiana

contemporanea, da Donati.

1.3.1. Alcuni spunti dai 'classici'

Herbert Spencer ha introdotto, all'interno della definizione di differenziazione

sociale, la nozione dell'aumento della complessità della società, che si dispiega con

la dinamica dell'evoluzione: in senso orizzontale ciò corrisponde al coagularsi nella

società delle sfere politica, economica, del diritto, religiosa, culturale come sistemi

distinti ma fra loro interdipendenti; in senso verticale, la differenziazione indica la

formazione di una sempre più ampia pluralità di livelli di status, relativamente alle

sue tre componenti costitutive - ricchezza, potere, prestigio - e alle loro possibili

combinazioni. Il grado di differenziazione di una società- e la divisione del lavoro

in particolare - ne riflette il livello di evoluzione raggiunto; il concetto di

evoluzione è connotato ideologicamente in senso positivo, in sintonia con la più

generale diffusione in Inghilterra dei fermenti evoluzionistici: la specie, l'individuo

o la forma di vita sociale più evoluta sono migliori di quelli meno evoluti, perché

sono in grado di rispondere meglio alle sfide e alle esigenze dell'ambiente. La

nozione spenceriana è però gravata da limiti ideologici e deterministici che

impediscono una adeguata concettualizzazione della differenziazione come

espressione delle dinamiche contraddittorie della modernità.

Dell'opera di Émile Durkheim è fin troppo nota la centralità dei temi relativi alla

differenziazione sociale, anche se egli riteneva che questa nozione non fosse affatto

coincidente con quella di divisione del lavoro sociale: con la prima si sarebbero

41

dovuti indicare i fenomeni di dissociazione arbitraria dall'organismo sociale, mentre

la seconda avrebbe abbracciato i fenomeni di solidarietà organica in grado di

garantire alla società lo svolgimento delle funzioni vitali, l'integrazione e l'ordine

sociale. In realtà, gli sviluppi della teoria sociologica hanno superato questo punto e

il concetto di differenziazione sociale è stato impiegato nel modo contrario a quello

auspicato da Durkheim. Anche in questo caso, la scelta ideologica e metodologica

per l'ordine sociale a scapito dell'autonomia individuale finisce per imbrigliare

l'analisi entro schemi riduzionistici. 64

La differenziazione sociale (1890) è una delle prime opere di Georg Simmel.65 In

essa è rintracciabile la consapevolezza del forte legame tra il fenomeno, o meglio

l'insieme di fenomeni oggetto dell'opera, e l'orizzonte sociale e culturale della

modernità. Nella società moderna la responsabilità individuale prende il

sopravvento rispetto alla modalità arcaica della responsabilità collettiva per gli atti

del singolo, e questa evoluzione, frutto della differenziazione, ha significato una

diminuzione della violenza nei rapporti sociali, prima segnati da lotte anche cruente

fra clan o cerchie parentali. La responsabilità concerne il singolo individuo, e

neanche nella sua globalità ma in quella parte della sua personalità che ha infranto le

regole della società. La differenziazione, dunque, è vista come processo che non

solo rende diversi gli individui tra loro ma anche accresce la complessità della

personalità di ognuno di essi. Individui appartenenti a gruppi contrapposti possono

presentare maggiori affinità di quanto non ci si attenda, posto che all'interno dei

gruppi le forme della differenziazione sono simili, se non uguali. Quanto più i

64ÉMILE DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, ( ediz. orig. 1893 ), trad. it., Milano, Comunità, 1962. 65GEORG SIMMEL, La differenziazione sociale, (ediz. orig. 1890), trad. it., Roma-Bari, Laterza, 19952

42

gruppi sono 'individuali', hanno cioè l'individualità, e non la socialità, come

carattere e interesse prevalente del gruppo medesimo in quanto tale, tanto più,

osserva Simmel, i singoli individui adotteranno comportamenti molto simili tra loro:

individuale e sociale sono combinati secondo livelli inversamente proporzionali.

Analogamente - ed è uno dei più rilevanti elementi di fondo della teoria

simmeliana - ampiezza della cerchia di appartenenza e libertà dell'individuo sono

direttamente proporzionali. L'esigenza di rendere omogenei i livelli sociali e

l'impulso alla differenziazione sociale sono collegati: il secondo per Simmel è lo

strumento o la conseguenza della prima, presente fra gli esseri umani come dato

naturale e costante, che talvolta può assumere le forme, sia negli individui che nelle

masse, di tracotanza, formidabile ostacolo alla creazione di condizioni di giustizia

intesa come eguaglianza e rispetto della legge. Questa riflessione consente di

richiamare un elemento portante della teoria di Simmel: il carattere in parte

sfuggente e distonico dell'individuo rispetto alla società, che viene adeguatamente

problematizzato, attraverso lo studio delle forme istituzionali e organizzative

risultanti dalla relazione di tale carattere con le esigenze e le opportunità della

società. Le cerchie sociali, per effetto della differenziazione, si moltiplicano e si

collocano secondo una disposizione concentrica: quelle maggiori (stato, patria ... )

sono esterne rispetto a quelle minori (professioni, associazioni per il tempo

libero ... ) e sono dotate di ordini normativi specifici, che vanno da livelli maggiori di

generalità a livelli minori, tutti necessari alla vita sociale. Un ampio numero di

cerchie in cui il singolo è inserito indica un livello elevato di civiltà; quanto più tali

cerchie si intersecano, gli spazi per la individualità del singolo ne risulteranno

43

limitati. L'aumento del numero delle cerchie cui può appartenere un individuo è

espressione dello sviluppo dello spirito pubblico della società, così che ogni aspetto

della personalità degli individui può tendenzialmente trovare riscontro in processi di

integrazione e di attività sociale: collettivismo e individualismo sono salvaguardati

in egual misura, posto che il primo si basa sulla disponibilità di varie opportunità

aggregative, mentre il secondo è fondato sul fatto che è l'individuo a realizzare la

combinazione delle cerchie sociali cui appartiene. Nella società moderna si ha

l'allargamento della cerchia comprendente l'insieme della personalità dell'individuo

e la riduzione o la dissoluzione delle cerchie chiuse, il che responsabilizza

l'individuo a trovare modalità di soddisfazione di quei bisogni alternative a quelle

proprie di tali cerchie chiuse.

1.3.2. L'analisi neofunzionalista della differenziazione sociale

Anche in Talcott Parsons il concetto di 'differenziazione sociale' corrisponde

all'incremento di complessità sistemica e subsistemica della società nella modernità.

Probabilmente anche per influenza dello spirito del tempo che caratterizzava la

società statunitense nella prima metà del Novecento, egli aveva concepito l'idea di

forti connessioni tra il cambiamento sociale della modernità e la differenziazione

sociale. Anzi, secondo una recente lettura - che si autodefinisce neofanzionalista

- del pensiero del sociologo di Harvard, 66 in esso il cambiamento sociale è visto

come differenziazione; Jeffrey Alexander, già allievo di Parsons e fra i principali

esponenti di tale orientamento scientifico, si ripropone fra l'altro - ed è ciò che in

44

questa sede ci interessa di più - di operare una ricostruzione neofunzionalista della

teoria parsonsiana della differenziazione. 67 Questa operazione prende avvio dal

constatare che per Parsons nei processi di cambiamento sociale nella modernità il

trend centrale è proprio la differenziazione sociale: essa ha carattere unilineare e

progressivo, unità differenziate vanno prendendo il posto di istituzioni e ruoli

multifunzionali. La teoria parsonsiana della differenziazione è dunque teoria del

cambiamento sociale e in un certo senso anche teoria della modernità.

Sono abbastanza note le critiche rivolte a Parsons: la teoria non è storicamente

specifica, non individua le cause della differenziazione, non analizza il ruolo dei

gruppi concreti nell'attivare o ostacolare la differenziazione, sottovaluta il ruolo del

potere e del conflitto, gli incrementi di efficienza e di integrazione sono ritenuti

scontati, il processo viene fatto intendere come lineare, continuo e conducente verso

un'unica e perfetta modernità idealtipica.

Altre visioni del cambiamento sociale hanno puntato l'attenzione sul processo di

'produzione' e 'costruzione' della realtà sociale, sui processi di interazione,

negoziazione e conflitto che regolano il sorgere e l'esistenza di un ordine

istituzionale, sull'autonomia dei gruppi e delle loro rappresentazioni della realtà; le

analisi condotte secondo questi approcci s1 sono incentrate sui modi in cui il

divenire storico, le tradizioni culturali, i rapporti internazionali trasformano un

ordine istituzionale e su come attori individuali e collettivi e le loro interazioni

'producano' la società e il cambiamento sociale.

661EFFREY C. ALEXANDER, Teoria sociologica e mutamento sociale. Un 'analisi multidimensionale della modernità, trad. it., Milano, Angeli, 1990.

67MARIA ELENA CAMARDA, Jeffrey Alexander: la ricostruzione neofunzionalista della teoria della differenziazione, «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXIII, 3, 1992, pp. 391-423.

45

I ,neofunzionalisti riconoscono la validità di queste critiche; tuttavia si ripropongono

di leggere il cambiamento sociale a partire da una analisi 'non funzionalista' del

modello AGIL. I critici ritengono che proprio tale modello impedisca una analisi

soddisfacente del cambiamento sociale, mentre i neo funzionalisti sono dell'avviso

opposto, in quanto lo schema AGIL è il nucleo di una teoria multidimensionale

dell'azione e dell'ordine. Tenteremo adesso di esplicitare il significato di

quest'ultima espressione.

Carattere saliente e originale della teoria parsonsiana è, come evidenzia Alexander,

il tentativo di operare una sintesi fra dimensione volontarista dell'azione e

dimensione condizionale dei fatti materiali sopraindividuali. Ciò in base a due

elementi: 1) l'autonomia individuale ha una base sociale e 2) l'ordine sociale ha una

base multidimensionale: i due elementi vengono definiti da Alexander volontarismo

formale. A ciò Parsons unisce la sua scelta ideologica per l'espansione della libertà,

dell'autonomia e responsabilità dell'individuo. I fattori interni ed esterni che

incidono sulla libertà dipendono, a suo avviso, dall'aumento di differenziazione

sociale, culturale e psicologica. Volontarismo sostantivo viene definito da

Alexander l'insieme che Parsons costruisce tra volontarismo formale, scelta

ideologica e visione del cambiamento come differenziazione.

Il principale punto debole di Parsons in tema di differenziazione è ritenere che il

volontarismo formale sia estensibile alla realtà storico-empirica, mentre esso,

sostiene Alexander, è solo una proprietà analitico-formale dell'azione. Da che cosa

è data la multidimensionalità di una teoria dell'azione e dell'ordine sociale? Così si

esprime Camarda, sintetizzando il pensiero di Alexander: «una teoria può dare conto

46

della differenza tra volontarismo formale e volontarismo sostantivo solo sulla base

di scelte teorico-presupposizionali e metodologiche che soddisfano lo standard della

multidimensionalità. Sul piano presupposizionale una teoria sociologica soddisfa lo

standard della multidimensionalità attraverso una concettualizzazione sintetica

dell'azione e dell'ordine, sul piano metodologico mantenendo una prospettiva sulla

realtà sociale che eviti il riduzionismo e il determinismo».68

Alexander accede ad un'idea 'postpositivista' di pensiero scientifico come processo

generale che si realizza sia sul piano generale 'teoretico' sia sul piano specifico

'empirico-sperimentale', piani da considerare come gli estremi di un continuum e

che, essendo distinti analiticamente ma non ontologicamente, sono autonomi e

interdipendenti.

Per quanto concerne il piano presupposizionale, le due questioni cruciali di ogni

teoria sociologica sono l'ordine e l'azione. Una teoria può concettualizzare l'azione

in modo normativo o strumentale e il modo in cui le azioni sono ordinate come

esterno o interno. Una teoria, se sceglie uno dei due modi, si configura come

unidimensionale, mentre se sceglie la multidimensionalità trascende i due poli:

«l'azione è concettualizzata multidimensionalmente se è intesa come un continuum

che va dalla razionalità strumentale alla normatività. L'ordine è concepito come

multidimensionale se si considerano le azioni organizzate sia secondo modalità

simbolico normative, sia secondo vincoli materiali. In accordo con questa

concezione, le azioni concrete presentano sia una -dimensione normativa che una

dimensione strumentale, elementi di contingenza e di libero volere e elementi di

68/bidem, p. 395.

47

referenza più strutturata all'ordine normativo e al contesto delle limitazioni poste

dalle esigenze esterne». 69

La teoria parsonsiana ha un deficit di multidimensionalità su entrambi i piani,

presupposizionale e metodologico, ma ciò non annulla la validità del nucleo

presupposizionale parsonsiano, dal quale vanno espunte le distorsioni. La critica ha

indirizzato i suoi rilievi all'insieme della teoria, senza distinguere il piano

presupposizionale dagli altri piani, fraintendendo così - è l'opinione di Alexander

- il pensiero di Parsons. Nella teoria parsonsiana la differenziazione è la modalità

centrale del cambiamento sociale: questa concezione riposa su una visione

multidimensionale dell'azione e dell'ordine, e quindi, secondo Alexander, risulta

valida. Le critiche al funzionalismo di Parsons trovano motivazione

nell'articolazione della relazione tra il modello astratto e universale di interscambio

tra le quattro dimensioni AGIL e la storia, piuttosto che nella teoria in sé.

La confusione di piani presente nella teoria di Parsons si riflette negativamente su

tre aspetti inerenti il cambiamento sociale: equilibrio, stabilità e conflitto. In merito

al primo aspetto, lordine della organizzazione sistemica (nel senso di modello) è

identificato indebitamente con l'equilibrio della realtà empirica, non considerando i

fattori contingenti che influenzano la stabilità. Su tale riduzionismo si basano i

rilievi critici alla teoria di Parsons sulla differenziazione. La mancata distinzione tra

modello analitico e realtà empmca s1 traduce in confusione. All'analisi del

cambiamento storicamente fattuale s1 sostituisce l'idea di uno sviluppo-

differenziazione necessano, 1 cm aspetti sono dedotti dal modello: la

differenziazione cessa di essere processo e viene considerata evento con prospettive

69 Ibidem, p. 398.

48

e ricadute di lungo termine m direzione di una costante penetrazione della

modernità. Cade, perciò, la distinzione fra volontarismo formale e volontarismo

sostantivo. La differenziazione «non è più pensata come sviluppo basato su

assunzioni presupposizionali, ma piuttosto come ricerca di equilibrio empirico da

parte dei sistemi».70 Sul piano presupposizionale Alexander osserva nell'opera di

Parsons una tendenza all'idealismo sociologico, che si rivela nel primato del livello

normativo su quello condizionale: le strutture sociali derivano da modelli culturali

espressione di valori generalizzati, sottovalutando così i fattori strumentali e

condizionali: «Parsons pur non ignorando l'esistenza dell'ordine strumentale non vi

assegna interesse indipendente e pensa l'ordine come una sorta di 'naturale identità

degli interessi' basata sulla interpenetrazione degli individui grazie a simboli

culturali. [ ... ] Tale sottovalutazione della misura in cui esigenze condizionali creano

una 'identificazione artificiale degli interessi' sta a fondamento delle critiche rivolte

alla sociologia parsonsiana per la non considerazione delle relazioni di potere, di

conflitto e per l'insistenza posta sulle conseguenze riequilibranti e integrative dei

processi di differenziazione». 11

Il giudizio complessivo di Alexander è che la teoria della differenziazione elaborata

da Parsons ha parecchie ambiguità, dovute a riduzionismo, determinismo,

funzionalismo e idealismo, che vanno a danno delle potenzialità della teoria stessa.

Ciò però non intacca il fatto che Parsons abbia considerato in modo

multidimensionale azione e ordine e che il nucleo centrale della teoria sia costruito

in tal senso: il che consente ad Alexander di tentare la ricostruzione della teoria

70 Ibidem, p. 406. 71 Ibidem, p. 407.

49

della differenziazione, eliminando le incongruenze degli sviluppi parsonsiam

rispetto alle sue stesse premesse.

Per Alexander una teoria del cambiamento è valida se è in grado di trattarne la

dinamica oltre che la morfologia: questo requisito è di fatto carente o assente nelle

teorie sociologiche del cambiamento disponibili; molto spesso queste sono

caratterizzate dal 'problema dei tre libri', per rifarsi ai tre libri de La divisione del

lavoro sociale di Durkheim, cioè da discrepanze significative nelle scelte

presupposizionali e metodologiche relative alle varie dimensioni della riflessione

sociologica.

L'individuazione e descrizione di tendenze nella differenziazione va intesa, secondo

Alexander, solo come schema idealtipico di orientamento nelle analisi empiriche,

questo perché i processi di differenziazione sono storicamente specifici e ciò non

può affatto essere disatteso dall'analisi. La teoria potrà tener conto di tale specificità

attraverso due livelli di sintesi collegati fra loro: i) tra schema classificatorio e

schema esplicativo di differenziazione; ii) tra dimensione contingente e dimensione

strutturale della vita sociale. In ordine al primo tipo di sintesi, si tratta di adottare un

quadro struttural-volontarista che vada in profondità; in ordine al secondo livello di

sintesi, va osservato che la relazione tra dimensione strutturale e dimensione

contingente dell'azione articola il legame micro-macro della vita sociale. A ciò

occorre una posizione teorica che argomenti adeguatamente il legame micro-macro:

questa dovrà essere basata «sulla comprensione multidimensionale dell'azione e

sulla comprensione analitica delle relazioni tra differenti livelli di organizzazione

50

empirica».72 Il modello che traduce tale posizione teorica ha due premesse: a) il

legame micro-macro rispecchia due diversi livelli analitici entro unità empiriche,

non una diversità fra unità empiriche in sé, come quella esistente fra individuo e

società, fra azione e ordine; b) occorre porsi su un piano interparadigmatico, capace

di combinare rispettivamente teorie micro e teorie macro.

I vari filoni microsociologici contemporanei, all'interno di una struttura teorica

generale data dal nucleo presupposizionale di Parsons, possono diventare elementi

analitici che illuminano la comprensione della contingenza dell'azione.

«Sono gli attori concreti, attraverso la loro azione contingente, che traducono 1

vincoli posti agli ambienti macrostrutturali ai loro orientamenti e alle loro attività, a

dare un corso ai processi di cambiamento, ad attivarli, a bloccarli o a rallentarli. Il

piano empirico su cui analizzare i processi di cambiamento è quindi individuato

come piano dei processi contingenti e storicamente specifici sia strategici sia

interpretativi di 'produzione sociale', attraverso cui un ordine istituzionale viene

mantenuto, sviluppato o cambiato. Sono infatti questi i processi che producono le

modalità storicamente specifiche di differenziazione. I differenti corsi assunti

dall'azione contingente dei concreti attori individuali e collettivi entro vincoli

macrostrutturali consentono anche di spiegare e comprendere le variazioni di grado

di livello di differenziazione di una singola istituzione o della struttura di ruoli entro

un dato sistema sociale e il modo in cui particolari società, istituzioni o sistemi di

ruoli passano da un livello di complessità ad un altro». 73

721bidem, p. 410. 731bidem, pp. 414-5.

51

Attraverso quali passaggi la ricostruzione neofunzionalista conferma la validità del

considerare i processi di cambiamento della modernità come differenziazione? Una

prima motivazione, di natura teorico-epistemologica, sostiene che, adottando

un'impostazione postpositivista, è possibile affermare che nei processi di

cambiamento si può individuare un trend centrale; esso può essere dato dalla

differenziazione a condizione che multidimensionalità e sinteticità di azione e

ordine siano presenti al livello presupposizionale. Una seconda motivazione, di tipo

ideologico, fa osservare che la differenziazione viene considerata elemento saliente

dei cambiamenti strutturali e simbolici della modernità, dotato della valenza

emancipatoria di quest'ultima. Pensare lo sviluppo sociale come differenziazione in

un'ottica multidimensionale significa valorizzare le azioni volte a realizzare gli

ideali che danno senso alla società umana, tenendo conto delle condizioni esterne

ostacolanti i processi emancipatori.

Il neofunzionalismo, osserva Camarda, conserva solo alcuni deboli tratti del

funzionalismo, che viene impiegato per comporre un quadro descrittivo della

società: è un funzionalismo depurato «dalla analogia organicista, dalla visione

iperintegrata della struttura sociale, dalla visione ipersocializzata dell'uomo, dalla

considerazione del sistema come capace di equilibrarsi senza relazione ai modi di

azione e alle decisioni degli individui e dei gruppi: e [ ... ] da ogni prospettiva

evoluzionista implicita nel concetto di differenziazione a favore di una impostazione

storico-comparativa. Inoltre tratti sistemici - presenti nel concetto di

52

differenziazione neofunzionalista sono molto deboli, di certo molto lontani dai

termini a cui ci ha abituato la riflessione di N. Luhmann».74

A questo si può però affiancare un'osservazione. Se nella modernità cambiamento

sociale coincide con affermazione della modernità stessa, non così avviene nella

post-modernità, nella quale si registra una frattura e una divaricazione: il

cambiamento sociale post-moderno è complesso, non è espressione totale e coerente

della modernità e può essere colto solo da un pensiero in grado di differenziarsi da

se stesso e osservarsi dall'esterno. Ma su tali questioni avremo modo di ritornare in

maniera più approfondita quando affronteremo i nodi teorici legati alla modernità. 75

Solo in apparenza i due insiemi di processi - globalizzazione e differenziazione

sociale - segnalano tendenze opposte: in realtà fra di essi intercorrono, come si è

visto, relazioni significative, poiché proprio la globalizzazione dell'aspirazione e

della pratica del benessere materiale offerto dalla 'società tecnica' e la veicolazione

comunicativa dei più svariati modelli di comportamento, modelli di azione, valori

offrono elementi e occasioni per una crescita (o per una maggiore visibilità) delle

differenze e delle identità (sociali, culturali, etniche, religiose eccetera). Tale

dinamica non avviene senza tensioni, a cominciare da quella, sempre più avvertita

dagli individui anche se vissuta in modi estremamente diversi, tra il livello sistemico

della società e i mondi vitali. Si tratta di problematiche che affondano le proprie

741bidem, p. 417. 75Cfr. infra, capitolo 3.

53

radici nella modernità e nello sviluppo della società industriale, esplorate

sociologicamente da Durkheim in poi.

1.4. La fiducia come problema e come risorsa relazionale

1. 4.1. Cercando una definizione

La rilevanza della problematica della fiducia nelle società moderne e postmoderne

sembra essere stata riconsiderata - dopo l'attenzione dedicatale dai 'classici':

Durkheim, Simmel, Parsons - solo di recente. 76 La fiducia - sia interpersonale che

istituzionale - diventa elemento sempre più rilevante nell'analisi delle relazioni

sociali in contesti caratterizzati da un'elevata complessità e, di conseguenza,

dall'incertezza e dal rischio di vulnerabilità che incombono sugli attori sociali.

Sebbene sia spesso decisiva rispetto al sorgere e allo svolgersi della cooperazione, la

fiducia non è ad essa necessaria né può essere facilmente data per scontata in

presenza di cooperazione. Purtuttavia - e lo si vedrà attraverso le argomentazioni

che verranno presentate - la fiducia è una delle risorse culturali e morali necessarie

all'azione di una società.

Le forme di cooperazione sono numerose e molte di esse non si basano sulla fiducia,

come, ad esempio, nel caso del fairplay nella competizione. La teoria dei giochi ha

mostrato come non sia sufficiente affinché vi sia cooperazione che tutti gli attori

coinvolti abbiano buoni motivi per volerla e attuarla (ciò è esemplificato dal celebre

76Per un'ampia panoramica degli studi più significativi, si veda: ANTONIO Murn, La fiducia: un concetto fragile, una solida realtà, in «Rassegna italiana di sociologia», XXVIII, 1987, 2, pp. 223-47; LUIS

54

dilemma del prigioniero). Vi è anche un problema di comunicazione fra gli attori

quanto alle loro motivazioni e alle loro convinzioni circa i comportamenti altrui:

indagare tali ambiti, di natura prettamente psicologica, è però alquanto complesso e

dagli esiti incerti. La fiducia, quindi, non è un requisito necessario alla

cooperazione: questa, infatti, può essere ottenuta anche mediante la coercizione, il

prendere impegni, la stipula di contratti, la formulazione di promesse. Tali modalità,

tuttavia, non hanno affatto i caratteri di 'equivalenti funzionali' della fiducia: «è

ovvio che le probabilità di cooperazione aumentano con il crescere del livello di

fiducia; ma il comportamento cooperativo non dipende in esclusiva dalla fiducia, e

la soglia ottimale di fiducia varierà al variare delle circostanze», 77 una parte rilevante

delle quali può concernere gli interessi personali. Bisogna economizzare la fiducia,

poiché si tratta di una risorsa scarsa, e ciò lo si può fare battendo tutte le strade che

conducono alla cooperazione. La scarsità della fiducia non significa però che essa si

esaurisca con l'uso o che sia solo il prodotto di effetti secondari e non di intenzioni;

scarsità non significa neanche che la fiducia usata per produrre cooperazione sia

sempre surrogabile anche quando il suo livello di partenza è troppo basso. La

fiducia è un prodotto indiretto delle relazioni umane, non manipolabile, talvolta

collegato alle dimensioni della familiarità, dell'amicizia, della comunanza di valori

ma non identificabile con nessuno di questi elementi. La fiducia può anche

assumere le forme di una passione, influenzata da sentimenti e convinzioni non

razionali.

RONIGE~ La fiducia: un concetto fragile, una non meno fragile realtà, trad. it. in «Rassegna italiana di sociologia», XXIX, 1988, 4, pp. 383-402.

77DIEGO GAMBETTA, Possiamo fidarci della fiducia?, in ID. (a cura di), Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, trad. it., Torino, Einaudi, 1989, pp. 275-309; il passo citato si trova a p. 290.

55

L'importanza della fiducia aumenta al crescere della complessità della società o del

particolare ambiente sociale in cui ci si trova: la fiducia assume pertanto il carattere

di aiuto a operare una riduzione di complessità. P. Sztompka così definisce il

concetto: «la fiducia è la scommessa sulle future, contingenti azioni degli altri». 78

Da questa definizione è possibile ricavare i caratteri salienti del concetto in esame:

- essa si riferisce alle azioni umane - anche a quelle di più ampia portata,

complesse o ineluttabili, e non agli eventi naturali (con riferimento a questi ultimi è

necessario parlare di speranza);

- essa, come anche la speranza, si riferisce a eventi incerti o non totalmente

comprensibili; nel primo caso si ha l'incertezza di certi rischi, mentre nel secondo

l'incertezza concerne taluni pericoli;

- i rischi sono inerenti ad azioni umane contingenti, nelle quali gli attori agiscono

liberamente, e non ad azioni imposte;

- si nutre fiducia nelle azioni altrui, non nelle proprie, tranne quando ci si riferisca a

malattia, perdita della lucidità e dell'autocontrollo;

- la fiducia è una scommessa: è, cioè, «l'impegno di me stesso tramite qualche

azione»19 ed esprime l'aspettativa che probabilmente le azioni degli altri saranno

favorevoli; una fiducia non sorretta da un impegno attivo è meglio definibile come

fiducia vaga, confidence;

- il contenuto della scommessa può includere più aspetti riferiti ali' azione altrui.

La fiducia può essere rivolta a vari soggetti o oggetti sociali, secondo diversi livelli

di generalità:

78PIOTR SZTOMPKA, Introduzione alla teoria del/a fiducia, trad. it. in FRANCO CRESPI - ROBERTO SEGATORI (a cura di), Multiculturalismo ... cit.; pp. 49-72. Il passo citato si trova a p. 51.

56

- nell'ordine sociale (fiducia generalizzata, che conferisce 'sicurezza ontologica');

- in tutti i segmenti istituzionali, o sottosistemi, della società (fiducia per segmenti);

- nei sistemi che richiedono competenza professionale o tecnica: trasporti, mercati

finanziari, reti telematiche ... (fiducia tecnologica);

- nelle organizzazioni concrete: governo, università, ospedali, tribunali (fiducia

organizzazionale; se pubbliche è una forma di fiducia pubblica);

- nei prodotti (fiducia commerciale);

- nei ruoli sociali: avvocati, medici, preti, imprenditori. .. (fiducia nelle posizioni);

- nelle persone (fiducia personale; se pubbliche, è un'altra forma di fiducia

pubblica). È importante sottolineare come ognuna delle forme descritte sia

riconducibile ad azioni umane.

Altre categorizzazioni possibili: fiducia esterna/interna, fiducia o sfiducia

focalizzata/diffusa, la quale ultima può dare luogo ad una vera e propria «cultura

della fiducia o della sfiducia». Sia fiducia che sfiducia si estendono con relativa

facilità da un livello all'altro: tuttavia la prima ha, in genere, un movimento dai

livelli superiori verso quelli inferiori, mentre la seconda ha un movimento inverso

dal basso verso l'alto.

Le condizioni favorevoli al sorgere della fiducia si basano su diversi elementi: la

possibilità di controlli e sanzioni e l'esistenza di strutture ambientali di supporto,

verso i quali può essere maturata una 'fiducia di secondo grado'.

Oltre alla riduzione dell'incertezza e della complessità dell'ambiente che deriva

all'attore dal dare fiducia ad altri, anche per chi riceve fiducia si ha una

791bidem, p. 53.

57

«temporanea sospensione dei normali vincoli sociali», 80 nel senso che il credito

ottenuto esime temporaneamente da un immediato controllo sociale, dando spazio a

innovazione, originalità, non conformità. Viceversa, la sfiducia ottenuta può avere

effetti paralizzanti o di rallentamento. La fiducia influisce positivamente anche sui

gruppi di appartenenza dei soggetti dell'interazione, favorisce la comunicazione,

incoraggia forme di cooperazione e di aiuto, regola i conflitti.

Può esservi, tuttavia, il caso della fiducia mal riposta, per via di un'errata

valutazione del partner, il quale il più delle volte ne approfitterà e solo raramente

risponderà positivamente al credito immeritatamente ricevuto. Anche la sfiducia può

essere infondata, e i suoi effetti diffusivi possono essere molto resistenti ad essere

intaccati. Fiducia mal riposta e sfiducia infondata sono tanto più difficili ad essere

superate quanto più sono diffuse e non focalizzate verso soggetti specifici.

In assenza di fiducia, questa verrà sostituita da sostituti funzionali:

provvidenzialismo (può avere effetti consolatori, ma produce passività e

stagnazione), corruzione, eccessiva vigilanza da parte di agenzie private in luogo di

quelle istituzionali, ghettizzazione (etnica, religiosa ... ), patemalizzazione (ricerca di

una figura 'patema', autoritaria), estemalizzazione della fiducia (fiducia verso

sistemi sociali stranieri idealizzati e mitizzati).

Quali elementi favoriscono - secondo Sztompka - la fiducia e quali, invece, la

sfiducia? Riassumendo, abbiamo quanto segue:

- familiarità e visibilità: il contatto diretto agevola il sorgere della fiducia e se

questo non è praticabile diventa centrale la comunicazione; si inseriscono così

elementi tipici della comunità nell'impersonale contesto societario;

80/bidem, p. 59.

58

- continuità della vita sociale per periodi apprezzabili: mutamenti e turbolenze

permanenti o molto prolungati possono generare disorientamento e sfiducia;

- pluralismo delle opzioni: se vi sono maggiori possibilità di scelta, ciò consentirà

ad un'ampia quota di soggetti di scegliere qualcosa che dia loro fiducia;

- sicurezza personale dal punto di vista economico, occupazionale, di istruzione;

- certezza e regolarità della vita sociale;

- integrità ed esempio di condotta del personale dei 'punti di accesso' a istituzioni,

organizzazioni, sistemi esperti.

Le sei precondizioni della fiducia di cui sopra hanno un legame molto stretto con la

democrazia. Le forme politiche autoritarie o comunque non democratiche si basano

su sostituti funzionali della fiducia e su sfiducia a vari livelli. Ciò non toglie che

anche nelle democrazie la fiducia incontri difficoltà e problemi, che si riflettono

sulla tenuta della vita democratica; d'altra parte è anche possibile analizzare la

situazione dal rovescio, evidenziando come le défaillances della democrazia

possano provocare una diminuzione del livello di fiducia. È un circolo che, come

sottolinea Sztompka, può assumere la qualificazione di virtuoso come anche di

vizioso. Il problema, per le democrazie contemporanee, diviene allora

l'individuazione di modalità atte a rendere virtuoso questo circolo e a mantenerlo

tale. Poiché gli inviti alle fiducia non porterebbero a nulla, l'unica via percorribile

consiste nella democratizzazione della vita sociale nei suoi vari aspetti. Come?

Sztompka indica sei ambiti d'intervento, con il pensiero rivolto soprattutto alle

giovani democrazie post-socialiste dell'Est europeo:

59

- contro il procedere per tentativi a favore della certezza (progettualità, coerente

determinazione nell'azione di governo);

- contro l'arbitrarietà e a favore dell'affidabilità (costituzionalismo, garantismo);

- contro l'insicurezza e a favore dei diritti personali;

- contro la segretezza e a favore della visibilità e della familiarità (trasparenza

dell'apparato di governo e dei suoi responsabili; attenta comunicazione

istituzionale);

- contro il monocentrismo e a favore del pluralismo (decentramento, sviluppo delle

autonomie locali);

- contro l'inettitudine e a favore dell'integrità del personale politico, economico, dei

sistemi esperti.

Oltre le strategie generali sopra descritte, l'autore ne indica altre tre, specificamente

dirette a rafforzare le basi della fiducia: i) dare maggiore enfasi alla fiducia nella

prima socializzazione e nell'esperienza scolastica; ii) collegare la fiducia,

nell'immaginario delle persone, con altre risorse morali disponibili; iii) dimostrare

che la fiducia è utile, anche se impiegata a fini strumentali al perseguimento di

interessi personali.

Le soluzioni proposte da Sztompka trovano tuttavia limitazioni e problemi proprio

per via degli effetti che esse stesse auspicano: la crescita delle autonomie sociali e lo

sviluppo delle individualità rappresentano alcuni degli aspetti del processo di

differenziazione sociale -alla base dell'aumento della complessità sociale, la quale

rende arduo, se non impossibile, governare 'dall'alto' il sistema sociale.

60

1. 4. 2. Confidare e fiducia

Il rapporto tra fiducia istituzionale e fiducia interpersonale necessita di ulteriori

approfondimenti, allo scopo di individuare - a livello degli attori sociali e a livello

sistemico - le condizioni facilitanti e quelle ostacolanti. Il punto di vista di N.

Luhmann, ancorché caratterizzato dal pensare la fiducia come fattore di

mantenimento e autopoiesi delle relazioni sistemiche, offre interessanti prospettive

per una lettura del fenomeno nelle società ad elevata complessità.

Il nucleo dell'argomentazione del sociologo tedesco81 si basa sulla distinzione

analitica tra fiducia (trust) e confidare ( confidence ). Egli ritiene inadeguata

l'accezione di fiducia - data da Eisenstadt e Roniger82 - come solidarietà, intento

e partecipazione, poiché si finisce con il ritornare al dibattito sulla divisione del

lavoro sociale e sulla solidarietà secondo la tensione Gemeinschaft-Gesellschaft.

Luhmann intende studiare il problema della funzione della fiducia, cioè di

individuare «quali meccanismi sociali generano fiducia nonostante le delusioni

possibili».83 Familiarità e fiducia vanno tenute distinte: «la familiarità è un fatto

inevitabile della vita, la fiducia è una soluzione a problemi specifici di rischio», 84 ma

chiarire i contorni della prima è propedeutico all'esame della seconda. La familiarità

risulta dall'attività umana di operare distinzioni condensandone le forme, sì da poter

giungere a rappresentare il non familiare mediante le forme del familiare: in tal

modo, il pericolo fa parte del mondo della vita familiare. Queste operazioni

81NIKLAS LUHMANN, Familiarità, confidare e fiducia: problemi e alternative in DIEGO GAMBETIA (a cura di), Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, trad. it., Torino, Einaudi, 1989; pp. 123-40.

82SHMUEL NOAH EISENSTADT - LUIS RONIGER, Patrons, Clients and Friends, Cambridge, Cambridge University Press, 1984.

83NIKLAS LUHMANN, Familiarità ... cit., p. 124.

61

avvengono mediante simboli (nel significato originale di symbolon distinto da

dùibolon ), i quali «presuppongono la differenza tra familiare e non familiare e

operano in mvdo tale da permettere il reingresso di questa differenza nel

familiare». 85 Nell'età moderna, a differenza del ruolo svolto dalla simbologia

religiosa in epoca premoderna, il termine rischio viene considerato elemento

familiare della vita delle persone, non più inerente la natura o Dio. I mutamenti

storici della semantica vanno considerati anche per introdurre la differenza tra

confidare e fiducia: tali concetti si riferiscono entrambi ad aspettative che possono

essere deluse. Le aspettative fanno saldamente parte della vita umana. Nel caso della

fiducia vi è il presupposto di un nostro impegno preliminare e di una situazione di

rischio di fronte alla scelta di una opzione fra più alternative disponibili; il confidare

è privo di questi elementi. Il legame tra fiducia e rischio è rimarcato

dall'osservazione che si ha fiducia solo quando il danno eventuale può essere

maggiore del beneficio auspicato, «solo se un esito negativo può farci pentire di

quell'azione».86 È dunque chiamata in causa la nostra capacità di discernere i rischi,

la loro prossimità e gravità. Luhmann osserva che, al di là degli schematismi, la

distinzione tra confidare e fiducia è estremamente complessa, perché determinate

relazioni possono evolvere da un tipo all'altro.

Il liberalismo politico ed economico, mediante l'accento posto sull'azione e sulla

scelta individuale tende a spostare le aspettative dal confidare alla fiducia,

sottostimando però il fatto che agli individui necessita confidare nel sistema al fine

di parteciparvi. Né si può ritenere che la relazione tra confidare e fiducia sia

84/bidem. 85/bidem, p. 125.

62

configurabile come un g10co a somma zero, postulando tra essi un rapporto di

proporzionalità inversa: <mna teoria di questo genere trascurerebbe la complessità

strutturale dei sistemi sociali come variabile interveniente». 87 In realtà, osserva

Luhmann, società a complessità crescente richiedono incrementi tanto del confidare

quanto della fiducia: «avere fiducia nel sistema e dare fiducia ai partner sono

atteggiamenti diversi per ciò che concerne le alternative, ma possono influenzarsi

reciprocamente». 88

La familiarità e il confidare si basano su relazioni asimmetriche tra sistema e

ambiente (tra familiare e non familiare), in virtù delle quali ci si premunisce contro

il pericolo presidiando i confini e regolando l'ordine sistemico interno, cioè

mediante un 'individualismo autoaffermativo'. La fiducia, viceversa, attua un

diverso tipo di autoriferimento, che sorge dal rischio insito nella decisione e

nell'azione: «ciò che determina il rischio è un calcolo puramente interiore delle

condizioni esterne [ ... ] è a un tempo dentro e fuori l'azione: è un modo in cui

l'azione fa riferimento a se stessa, un modo paradossale di concepire l'azione».89

Il fatto che la percezione e la valutazione del rischio siano un fatto fortemente

soggettivo differenzia le persone e i modi in cui esse si relazionano al rischio e

costruiscono condizioni di fiducia o sfiducia, di individualità in senso moderno.

L'importanza relativa nella vita sociale della familiarità, del confidare e della

fiducia non varia automaticamente in funzione di strutture sociali e imperativi

86/bidem, p. 127. 87/bidem, p. 129. 88/bidem. 89 Ibidem, pp. 130-31.

63

culturali, ma secondo relazioni complesse di dipendenza reciproca, che sono

influenzate da condizioni che seguono il corso del mutamento sociale.

Le condizioni della familiarità hanno subìto una prima serie di mutamenti radicali

per via dell'introduzione della scrittura, dell'alfabetizzazione e poi, soprattutto, della

stampa: ciò ha ampliato le possibilità di interpretazioni del mondo difformi e

conflittuali, in cui il non familiare non esercita funzioni protettive rispetto al

trattamento del diverso: «il mondo sociale viene ricostruito in termini di

'interessi'»,90 oggetto di calcolo, di tentativi di imposizione e di sfruttamento.

Confidare e fiducia s1 rivelano decisivi per discernere, in base a interessi

contingenti, sulla bontà dell'uso della conoscenza e del potere. Un altro rilevante

mutamento è segnato dal passaggio, nella differenziazione sociale, dalla

stratificazione alla differenziazione funzionale: ciò ha condotto all'estensione a tutti

i sottosistemi funzionali delle interdipendenze che fanno capo a ogni individuo: ne

risulta, per adoperare l'efficace espressione sintetica di Luhmann, che «confidare è

necessario, la fiducia non lo è»,91 anche se questa fa parte dell'ambito

imprescindibile delle decisioni e delle scelte individuali. La relazione fra confidare e

fiducia nei grandi sistemi differenziati funzionalmente viene dunque richiamata in

tutta la sua rilevanza: «In assenza del primo elemento [il confidare] si diffonderà

anche un sentimento di insoddisfazione e alienazione e perfino di anomia, che può

anche non avere un impatto immediato sul sistema. Ma se manca il secondo

elemento [la fiducia] si- trasforma il modo in cui la gente prende decisioni su

questioni importanti [ ... ] la mancanza del confidare e la necessità di fiducia possono

90/bidem, p. 132. 911bidem, p. 133.

64

formare un circolo vizioso. Un sistema - economico, legale o politico - ha

bisogno di fiducia come condizione iniziale. Senza di essa non può stimolare attività

di supporto in situazioni di incertezza o di rischio. Al tempo stesso, le proprietà

strutturali e operative di tale sistema possono erodere il primo termine e insidiare

quindi una delle condizioni essenziali del secondo».92

Sono diverse le conseguenze della mancanza dei due elementi: nel caso del

confidare, si avrà una tendenza alla chiusura nel mondo vitale, all'alienazione, al

fondamentalismo, e ne soffriranno anche il sistema politico e quello economico; la

mancanza di fiducia preclude talune opportunità offerte all'azione degli individui in

contesti di incertezza e di rischio, può scoraggiare la rettitudine, l'innovazione e

l'interesse allo sviluppo.

Le considerazioni circa le distinzioni e le relazioni fra il confidare e la fiducia sono

molteplici e complesse, e costituiscono un ulteriore approfondimento della

distinzione macro-micro nella ricerca sociologica empirica: il macrolivello è qui

rappresentato dal confidare e il microlivello dalla fiducia. Ciononostante, osserva

Luhmann, non è il caso di estendere ad ambiti troppo vasti l'impiego della fiducia

come strumento esplicativo: «il concetto di fiducia non può prendere il posto di

quello di Gemeinschaft o di solidarietà. Fiducia o sfiducia, non è certamente questa

la distinzione che useremmo per definire la società moderna» :93 a tale scopo,

Luhmann ha evidenziato la portata della crescente diversificazione e

particolarizzazione di familiarità e non familiarità e la graduale sostituzione del

pericolo con il rischio come danno potenziale insito in ogni azione umana. Sono le

921bidem, pp. 134-35. 931bidem, p. 137.

65

condizioni che hanno stimolato l'emergere della fiducia nelle società moderne, ma

che non garantiscono che si crei un circolo virtuoso tra fiducia e confidare.

1.4.3. Modelli di fiducia

L'analisi sociologica del concetto di fiducia ne ha dapprima messo a fuoco gli

aspetti universali; essa, inoltre, ha trattato l'argomento con riferimento alle società

occidentali avanzate, partendo dall'idea che modernizzazione ed estensione

generalizzata della fiducia andassero di pari passo. Roniger propone un approccio

comparativo al tema della fiducia,94 allo scopo di analizzare i «modi con cui essa

varia, tanto nella sua estensione quanto nella sua regolazione istituzionale».95

Vi sono certamente delle caratteristiche universali della fiducia che vanno

opportunamente evidenziate: essa rende possibili gli scambi sociali in situazioni di

precarietà e incertezza, mediante il reciproco, implicito riconoscimento dell'integrità

dell'altro e della sua identità in rapporto alla comune appartenenza ad un orizzonte

di senso comune: «la problematicità della fiducia è imputabile agli stessi motivi che

la generano».96 Le azioni e i comportamenti degli individui non sono regolati

unicamente da norme, da obblighi contrattuali, dalla sottomissione ad autorità o

dalle aspettative. Oltre che dalle motivazioni, richieste e promesse espresse dagli

attori, la precarietà e l'incertezza sono influenzate dal variare nel tempo delle

condizioni iniziali dello scambio. Fidarsi è qualcosa di extra-razionale, un'apertura

all'esperienza della relazione che contribuisce a strutturare la relazione stessa.

94LUIS RONIGER, La fiducia nelle società moderne. Un approccio comparativo, trad. it., Soveria Mannelli, Rubbettino, 1992.

95/bidem, p. 15.

66

Il rapporto esistente nelle società moderne tra fiducia e universalismo è stato

probabilmente sopravvalutato a scapito della considerazione della fragilità della

estensione della fiducia e della persistenza di forme di fiducia meno generalizzate.97

Roniger propone di differenziare l'analisi della estensione della fiducia secondo le

due forme idealtipiche della generalizzazione e della focalizzazione: ciò può essere

compiuto studiando i modi in cui la fiducia transita con o senza successo dalla

relazione interpersonale alla dimensione sistemica e viceversa.

Roniger osserva che l'interattività è presente già negli elementi fondativi della

fiducia: da una parte nel reciproco riconoscersi e rapportarsi delle identità, dall'altra

nella credibilità intesa come solidarietà e lealtà rispetto alla relazione intrapresa.

Una delle origini, in termini interpretativi, di questa iniziale avance gratuita

potrebbe risiedere nella fiducia incondizionata e gratuita presente nel gruppo

interattivo originario composto dalla madre e dal suo bambino: la presenza o

carenza di questo elemento si è rivelata discriminante, secondo vari studi

psicologici, ai fini della maturazione della capacità di intessere relazioni e di nutrire

fiducia negli altri e nelle istituzioni. La fiducia gratuita e incondizionata si estende

anche all'interno degli ambiti interattivi complessi e delle istituzioni: in questo caso

si tratterà di fiducia basata sulla caratteristica (etnica, religiosa ... ) in comune a più

soggetti, o della fiducia reciproca profonda e autentica tipica di amicizie, pseudo-

parentele e molte relazioni informali condotte all'interno di organizzazioni formali

96/bidem. 97Su questo punto cfr. PAOLO JEDLOWSKI, Sulla fiducia in FRANCO CRESPI- ROBERTO SEGATORI (a cura di),

Multiculturalismo ... cit., pp. 73-78: la fiducia generalizzata è «il risultato, il sedimento di una lunghissima serie di esperienze storiche, di elaborazioni morali, di conquiste istituzionali, di atti deliberati - e in fondo anche del giudizio positivo che la massa degli abitanti delle società occidentali centrali ha nei confronti del benessere che un certo sistema economico, politico e culturale ha generato: in fin dei conti è il prodotto di un consenso diffuso nei confronti di certe istituzioni e di certe regole» (p. 74).

67

moderne nelle quali è rilevante il grado di sincerità, sensibilità, empatia, rispetto

reciproco, condivisione di senso comune come espressione della ricerca di conferma

da parte dell'individuo. Quest'ultima forma di fiducia è quella segnata da maggiori

rischi di insuccesso, poiché è soggetta da un lato alla fragilità degli individui,

dall'altro alle forze strutturali del potere e della strumentalità, che regolano la vita

sociale. La proiezione della fiducia, dunque, può avvenire sia a partire

dall'eguaglianza che dalla diseguaglianza fra individui (come avviene, ad esempio,

nel caso della relazione clientelare).

L'estensione della fiducia al di là di relazioni parentali è collegata alla

partecipazione a una realtà sociale complessa, ma non comporta automaticamente

una tendenza alla generalizzazione della fiducia medesima, realizzandosi molto

spesso secondo la modalità della specificità o focalizzazione: in questo caso, la

fiducia si concentrerà su esperienze e attori sociali specifici. Delle due forme, la

fiducia generalizzata, in chiave comparativa, rappresenta un caso raro e speciale, più

che la norma delle società moderne, che conduce all'emergere finale della fiducia

come particolare bene pubblico, il cui consumo da parte di un membro non riduce,

ma anzi potenzia, il consumo da parte di altri. Generalizzazione e focalizzazione

della fiducia possono applicarsi tanto a persone quanto a istituzioni.

Successivamente Roniger analizza le due modalità di estensione della fiducia in

rapporto alla tendenza, tipica delle società moderne e postmoderne, alla

formalizzazione della fiducia mediante vari elementi: la competenza tecnica, la

formazione di mercati per la produzione e la verifica della fiducia, la diffusione di

sostegni istituzionali e razionai-burocratici per il controllo e la regolazione della

68

fiducia. Tali mezzi non sono stati in grado di eliminare l'incertezza e stabilizzare la

fiducia, ma sono divenuti autoreferenziali, al più compensando il bisogno di fiducia

con quello di supervisione e controllo. La formalizzazione e regolazione

istituzionale della fiducia nelle società moderne e postmoderne si è attuata secondo

due forme principali: quella basata sulla 'cornice organizzativa' e quella basata sulla

delega della fiducia. La prima forma contraddistingue la posizione di attori sociali

inseriti in strutture istituzionali con confini organizzativi definiti (una scuola, un

posto di lavoro, un'azienda ... ) che condividono le norme dell'organizzazione e ne

valorizzano la capacità di creare fiducia basata sulla caratteristica, che viene però

regolata istituzionalmente, perché le dimensioni implicate sono sia personali che

strutturai-istituzionali. La seconda forma è basata sulla delega della fiducia: in tal

caso la fiducia viene formalizzata in virtù del fatto che si detiene un ruolo di autorità

o del riconoscimento da parte di un livello istituzionale gerarchicamente superiore;

tipici sono gli esempi dei rapporti fiduciari tra stato e associazioni professionali o tra

queste e i professionisti singoli, o anche dei rapporti tra aziende e loro

rappresentanti o agenti, tra banche e possessori delle loro carte di credito.

«Teoricamente (e, in caso di successo, anche in pratica) i depositari della fiducia

derivano la loro credibilità, in questi casi, dall'immagine di responsabilità fiduciaria

che è loro garantita dall'essere connessi ad una immagine di affidabilità più astratta,

che riguarda le istituzioni».98 Il duplice livello di esposizione della fiducia delegata

- interpersonale e istituzionale - richiede che il depositario della fiducia rimanga

personalmente 'responsabile' al di là della 'copertura' offertagli dall'istituzione.

L'istituzionalizzazione della fiducia mediante la delega è favorita dalla sua

98LUIS RONIGER, Lafiducia ... cit., p. 32.

69

estensione secondo la modalità della generalizzazione; tale modalità, a sua volta,

può incontrare difficoltà anche per l'aumento di incertezza derivante dalla

diffusione di -. . .ma cultura 'postmoderna' e dalla crisi epistemologica ad essa

collegata, nel cui ambito «nuovi ceti intellettuali sfidano la stessa possibilità di usare

i fatti e la nozione di causalità per giudicare azioni sociali, relazioni e conflitti».99

Nelle società contemporanee le forme in cui si manifesta la fiducia possono essere

in via approssimativa ricondotte a quattro tipologie, costruite sulla base della

distinzione delle forme di estensione della fiducia (focalizzazione e

generalizzazione). In questi quattro modelli, è possibile tener conto dei modi

variabili in cui si presentano le forme fiduciarie, i loro meccanismi di estensione, la

regolazione istituzionale, il contenimento della sfiducia:

1) La focalizzazione totale della fiducia investe tanto le istituzioni che le persone, e

le due forme si rafforzano a vicenda. Trovano spazio le relazioni clientelari, e ciò

segnala la preminenza della fiducia basata sulla caratteristica e sull'esperienza

rispetto a quella imperniata sulla competenza tecnica. Se le condizioni economiche,

sociali e politiche della società sono critiche, tale modello tenderà verso uno stato di

sfiducia generalizzata; se, viceversa, i parametri generali del sistema sono in crescita

o in equilibrio positivo, il modello può evolvere verso la generalizzazione selettiva

della fiducia istituzionale o, ancora, verso la generalizzazione totale della fiducia.

2) La generalizzazione selettiva della fiducia interpersonale mette insieme fiducia

istituzionale focalizzata e fiducia interpersonale generalizzata. Tale modello può

essere ritenuto molto aderente alle minoranze etniche, nazionali e religiose delle

società moderne e postmoderne, nelle quali diventa rilevante la fiducia basata sulla

99 Ibidem, p. 34.

70

caratteristica. In questo caso, si avrà sfiducia da parte della minoranza verso la

società ospite.

3) Nella generalizzazione selettiva della fiducia istituzionale si ha la presenza

congiunta di fiducia focalizzata sul piano interpersonale e fiducia generalizzata

verso le istituzioni. I casi storici sono quelli in cui le forme particolaristiche di

relazione sono state funzionali al rafforzamento della fiducia istituzionale intesa

come bene pubblico (come, ad esempio, nella vicenda della modernizzazione del

Giappone). Vi è un forte peso della fiducia basata sulla caratteristica, dei controlli

pubblici, dell'interesse di ognuno alla propria reputazione e di quant'altro

contribuisce a comporre una immagine globale di credibilità e affidabilità.

4) Con la generalizzazione totale della fiducia quest'ultima si presenta come bene

pubblico tanto nella sfera interpersonale quanto in quella istituzionale. Tale

situazione è rintracciabile nelle società occidentali postmoderne, anche se essa «è

lontana dal rappresentare un modello universale, come si vede nelle complesse

megalopoli come New York, dove un fondo di sfiducia emerge come concomitante

all'indebolimento massiccio delle aspettative di fiducia reciproca in base a

caratteristiche comuni. Del resto, la generalizzazione della fiducia [ ... ] non implica

l'eliminazione radicale della sfiducia: implica piuttosto il suo contenimento ed il suo

uso selettivo».100 La scarsa diffusione di quest'ultimo modello è corrispondente alla

sua fragilità, soprattutto per la fiducia istituzionale, sottoposta a crisi rilevanti per

via dei fenomeni di corruzione i cui effetti nocivi alla fiducia possono ripercuotersi

anche a livello interpersonale: l'effetto può essere l'aumento dei controlli e delle

procedure nonché dei relativi costi sociali: «se crolla la fiducia nelle istituzioni [ ... ],

71

come è possibile mantenere fiducia in quelle persone che utilizzano proprio quei

mezzi generali di scambio, o ricoprono i ruoli chiave di quelle stesse istituzioni?».101

In che modo, allora, la fiducia focalizzata può dare luogo a quella generalizzata? E,

parallelamente, in presenza di quali condizioni la fiducia generalizzata corre il

rischio di trasformarsi in fiducia focalizzata? Il caso dei paesi dell'Est europeo

documenta che, dietro la facciata di relazioni sociali formalmente universalistiche

durante i regimi socialisti, esisteva una trama di sistemi di fiducia focalizzata e in

certo senso clientelare, in campo soprattutto economico. Questo tipo di relazioni -

e anche il caso del Mezzogiorno italiano lo attesta - ha una notevole capacità di

adattamento ai processi di modernizzazione, perché ritenuto comunque valido dagli

individui in situazioni di transizioni caratterizzate da incertezza. Per altro verso,

anche nelle democrazie occidentali la fiducia si trasforma: si assiste, infatti, al

diffondersi di movimenti costruiti su basi etniche (I "invenzione della tradizione')

che adottano sistemi di fiducia altamente selettiva; cede anche la fiducia tecnologica

nei sistemi esperti, dopo il disastro di Chernobyl e altri simili; fasce sociali

giovanili, soprattutto metropolitane, si sottraggono alla fiducia generalizzata;

modelli di relazioni di tipo clientelare si infiltrano nei rapporti fra imprese e fra

imprese e committenti pubblici. La fiducia, sostiene J edlowski, 102 tende a

trasformarsi in bene di mercato, giacché viene promossa, soprattutto da parte dei

leader politici, adottando strategie di marketing. Ma, a ben vedere, più che di

fiducia, quella che vien~promossa è adesione fideistica, poiché il singolo individuo

non ha strumenti efficaci per misurare l'attendibilità del personaggio che si propone.

100/bidem, p. 45. 101/bidem, p. 46.

72

Si viene così ad istituire una circolarità fra crisi della fiducia generalizzata e fiducia

fideistica nel leader, nel senso che la seconda viene talvolta proposta e praticata

come rimedio alla crisi della prima, mentre, nello stesso tempo, ne è concausa.

1. 4. 4. Solidarietà sociale e fiducia

La riflessione sul tema della fiducia nelle società moderne si ricollega alla

problematica della crisi della solidarietà e della democrazia che in esse attualmente

è presente.

Cotesta103 inserisce l'analisi del concetto di fiducia nella più ampia cornice delle

teorie del mutamento sociale, individuando in esse una tendenza post-evolutiva e

multidimensionale, con radici weberiane e intenti ermeneutici, rappresentata da

Crespi e Sztompka. In ordine al rapporto tra solidarietà e democrazia e alla

dicotomia universalismo/particolarismo, Cotesta ritiene inadeguata, rispetto al

diffondersi di localismi e particolarismi, la chiave di lettura della reazione dei mondi

vitali ai processi di razionalizzazione strumentale della modernizzazione.

Rifacendosi a Crespi, il quale constata che si afferma la forma di integrazione a

livello dell'interazione e non a livello societario, Cotesta osserva che «non emerge

una generalizzazione sistemica della fiducia, ma si va diffondendo una sua

generalizzazione selettiva interpersonale e istituzionale. Tutto questo ha molto a che

fare con il riconoscimento o, se si preferisce, con l'identità» .104 La modernità,

seguendo in questo Haferkamp, è un intreccio di status ascrittivo e acquisitivo, nel

102PAOLO JEDLOWSKI, Sullafiducia ... cit. 103VrITORIO COTESTA, Fiducia, solidarietà, democrazia in FRANCO CRESPI-ROBERTO SEGATORI (a cura di),

Multiculturalismo ... cit.; pp. 85-96.

73

senso che «l'acquisizione, o il successo, avviene da posizioni ascritte o, molto

spesso, auto-ascritte». 105 A livello locale le élites sono protagoniste di una lotta per

l'identità, rivendicazione che, lungi dal caratterizzarsi come premodema o

antimodema, si inscrive totalmente nel codice simbolico della modernità, che ha

sancito il diritto al riconoscimento delle identità tanto dei popoli quanto delle

persone. La svolta tuttavia disorienta, a motivo del carattere cruento dei conflitti che

la segnano.

La solidarietà, base della democrazia, può trovare motivi di rinvigorimento nel

recupero della dimensione originaria del sociale, che consiste, rifacendosi a Crespi,

nel fatto che l'uomo è costitutivamente con l'Altro, che si articola nell'essere per

l'Altro oppure nell'essere contro l'altro. La democrazia richiede uguaglianza

complessa, che considera e valorizza le differenze, per garantire un effettivo

riconoscimento della dignità della persona umana: a ciò devono mirare le istituzioni

politiche ed economiche, impegnandosi ad offrire ad ogni individuo, nella

specificità della sua condizione, un uguale insieme di diritti fondamentali, l'accesso

ai beni fondamentali per la vita e lo sviluppo della propria identità.

104 Ibidem, p. 91. 105/bidem.

74

1.5. L'associazione come problema sociologico

Associazione è un termine che abbraccia parecchi significati, con l'inconveniente di

presentare una certa genericità e vaghezza. Già in Aristotele, ad esempio, vi è l'idea

che l'associazione esprima la 'natura' del sociale. Donati intende argomentare come

«nel concetto di associazione risieda qualcosa che coglie il senso sui generis del

sociale e che tale senso possa essere compreso solo attraverso una teoria adeguata

delle relazioni sociali». 106 Vediamo in breve alcune caratteristiche di tale concetto:

- polisemicità: si riferisce sia ad un tipo di relazioni (di 'avvicinamento') e di

processi sociali (di 'sociazione') sia ai gruppi formatisi per mezzo di tali relazioni e

processi;

- sovrafunzionalità: nei tre significati di cui sopra, la realtà ricompresa nel termine

possiede un numero illimitato di caratteristiche non pre-determinabili.

È noto, peraltro, come il termine associazione oggi indichi più comunemente gruppi

formatisi in vista del raggiungimento di un certo interesse, cioè gruppi secondari.

Si tratta di un concetto che è tipico prodotto della modernità che ha segnato lo

sviluppo delle contingenze sociali (libertà) e il superamento di sistemi rigidi di

stratificazione sociale. L'argomentazione di Donati intorno all'associazione come

concetto sociologico si articola in due punti: «i) come concetto astratto, esso designa

lo specificarsi della società in quanto relazione associativa (il che non significa

necessariamente e solo consensuale, ma invece interattiva, e quindi anche

conflittuale); ii) come concetto avente un referente empirico, esso viene sempre più

a designare quelle sfere di vita sociale che non possono essere identificate con (o

106PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale della società, Milano, Angeli, 19943, p. 116.

75

circoscritte nei confini de) il mercato o lo Stato, ma stanno fuori di essi, per quanto

in interazioni con essi; in questo secondo significato, l'associazionismo diventa la

modalità attraverso cui si costruiscono sempre nuove autonomie sociali,

autopoietiche nella loro logica di sviluppo e fortemente indipendenti quanto a

comunicazione, vincoli e scambi di risorse con le altre sfere della società». 101

Sono quattro i principali ambiti semantici riferibili al concetto di associazione:

a) il primo è di tipo antropologico, per il quale associazione significa «una

propensione originaria degli esseri umani a vivere in raggruppamenti sociali»108

(società segmentarie o dove l'associazione si basi su affinità e somiglianza);

b) il secondo è di tipo politologico, per il quale associazione significa «una forma di

mediazione degli interessi, e del loro governo, avente una propria autonomia, con

potere superiore agli individui ma inferiore a quello dello Stato. In questa accezione

si identifica con i cosiddetti 'corpi intermedi'»109 (società stratificate per ceti e/o

classi);

c) il terzo è di tipo economico e corrisponde al significato di «espressione della

ricerca di interessi comuni i quali, per quanto latamente intesi, sono concepiti e

governati da una logica della utilità. In questa accezione l'associazione è il soggetto

di una società concepita come mercato»110 (società 'aperte', a orientamento

utilitaristico e pragmatico);

d) il quarto ambito semantico è di tipo sociologico, per il quale associaz10ne

significa <<Una relazione- o un processo di avvicinamento, umone, cooperazione,

107/bidem, p. 118. 108/bidem, p. 122. 109/bidem. 110/bidem, pp. 122-23.

76

connessione a maglie più strette o più larghe, e il prodotto di tali relazioni e

processi, in funzione di obiettivi essenzialmente sociali» 111 (società funzionalmente

differenziate).

Quali relazioni intercorrono fra i quattro tipi di semantica relativi al concetto di

associazione? «Se è vero che la associazione è una tendenza propria

(antropologicamente connaturata) degli esseri umani, le associazioni come noi oggi

le intendiamo sono un prodotto evolutivo proprio del tipo e grado di

differenziazione sociale che viene attualizzato da una concreta collettività o

dall'intera società, utilizzando una semantica che può essere di tipo politologico,

economico o sociologico, o una loro combinazione o mix. Di fatto, è l'articolarsi di

questi vari tipi di semantica secondo uno sviluppo multidimensionale che rende così

arduo lo studio delle associazioni come forme sociali». 112

Vedremo fra breve in quali modi la sociologia abbia studiato l'associazione più che

altro come parte dell'analisi delle comunità e poi come analisi dei gruppi sociali di

vario genere. Il collegamento fra associazione e dinamica dei sistemi sociali solo di

recente è divenuto oggetto di analisi, quando si è iniziato a riflettere sulla società in

modo riflessivo, cioè con la sociologia moderna. V arie sono le ottiche adoperate a

tale scopo, a proposito delle quali non si può non menzionare la opposizione forte

fra gli approcci di individualismo metodologico e quelli di olismo metodologico. Il

primo orientamento, come è noto, prende le mosse da W eber che definisce

'~omunità' quelle relazioni in cui l'agire si basa su una appartenenza caratterizzata

come affettiva o tradizionale; analogamente, una relazione si definisce

mlbidem, p. 123. 112/bidem.

77

•associazione' se l'agire sociale è basato su identità o legame di interessi con

motivazione razionale (rispetto ad uno scopo o ad un valore). Per Weber i tipi più

puri di associazione si possono classificare nello scambio razionale rispetto allo

scopo, nella pura unione di scopo, per perseguire gli interessi oggettivi dei membri,

nell'unione di intenzioni, basata su motivi razionali rispetto al valore. Il sociologo

tedesco ribadisce che comunità e associazione nelle vesti di relazioni sono concetti

di più ampia portata rispetto a quello di gruppo sociale, che ha caratteri ben precisi,

struttura, eventuale capo, eccetera. Inoltre, la realtà storico-empirica presenta

relazioni sociali perlopiù miste fra comunità e associazione. 113

L'orientamento olistico ha Durkheim fra i suoi primi riferimenti. L'associazione è

sinonimo di società, poiché è la condizione originaria di individui che sono da

considerare il prodotto di legami sociali, e non i creatori di questi. L'associazione è

strettamente collegata alla divisione del lavoro sociale e alla differenziazione della

società, e il grado di avanzamento di tali processi determina il carattere 'meccanico'

oppure 'organico' della solidarietà. 114

Il confronto tra individualismo e olismo metodologico apre, secondo Donati, una

prospettiva illuminante: «l'associazione non è il prodotto né degli individui né delle

strutture collettive, ma delle loro interazioni e interpenetrazioni. Invero è un

fenomeno relazionale sui generis». 115

L'autore che per primo concettualizza esplicitamente l'associazione come relazione

sociale 'pura' nell'ambito di una teoria generalizzata della differenziazione sociale è

113MAx WEBER, Economia e società, (ediz. orig. 1922), trad. it., I, Milano, Comunità, 19812, pp. 38-39. 114ÉMILE DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, (ediz. orig. 1893), trad. it., Milano, Comunità, 1962,

pp. 277-78. nsPIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 129.

78

Georg Simmel: 116 si tratta di un vero e proprio approccio relazionale, al di là di

individualismo e olismo metodologici. In Simmel «l'associazione è caratteristica

propria di ogni interazione sociale (consensuale o conflittuale, quali che ne siano i

contenuti) m quanto azione reciproca, sociabilità o sociazione pura

( Vergesellschaftung). La società è associazione m quanto è per definizione

'reciprocità' (azione reciproca) fra individui che possono essere definiti solo in

rapporto ad essa». 117 Simmel sostiene che a 'fare' l'associazione non è il suo

contenuto (impulso, interesse, scopo, inclinazione, situazione psichica e

movimento): essa sorge quando emerge quella «forma, realizzantesi in innumerevoli

modi diversi, in cui gli individui raggiungono insieme un 'unità sulla base di quegli

interessi - sensibili o ideali, momentanei o durevoli, coscienti o inconsci, che

spingono in modo causale o che attirano teleologicamente - e nell'ambito della

quale questi interessi si realizzano». 118

L'associazione è una trama fitta di relazioni in cui gli individui si trovano non

appena vengono a contatto fra loro: ogni relazione, avendo una storia propria, si

evolverà verso forme più definite oppure si dissolverà. Per comprendere le

associazioni, osserva Simmel, occorre rifarsi alle relazioni micro-sociali, da lui

definite 'vita pulsante della società'.

Il rapporto fra associazioni e differenziazione sociale: se la società si articola in

cerchie intersecantesi e non concentriche, aumentano, per l'individuo, le probabilità

di far parte di un ampio numero di associazioni: si tratta, com'è ovvio, di una

relazione diretta fra le due dimensioni. Simmel ha mostrato, inoltre, come i processi

116Cfr. GEORG SIMMEL, Sociologia, (ediz. orig. 1908), trad. it., Torino, Utet, 1989. 117PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 129.

79

di autonomizzazione e formalizzazione delle forme associative siano tipicamente

riconducibili alla modernità e alle sue dinamiche.

Ben diverso il discorso di von Wiese, che, pur ponendosi nel solco della sociologia

formale e dello studio della società come associazione, ha però distinto

analiticamente nella società i processi associativi da quelli dissociativi, 119 mentre in

Simmel i due caratteri sono relazionalmente presenti nel concetto di associazione.

Altra ottica per l'analisi dell'associazione è quella della dualità

movimento/istituzione. L'associazione può assumere forme di 'stato nascente'

oppure forme di 'istituzione' o, ancora, una combinazione delle due. 120

L'associazione può essere il prodotto di un movimento sociale, ma anche di

un'istituzione. Dunque la sociologia moderna si ricollega al pensiero classico e

tradizionale quando riconosce che la vita sociale si esprime nel fatto che gli uomini

si associano, ma va oltre osservando che l'associazione è il modo di essere sui

generis delle società che imparano a risolvere i propri problemi per mezzo della

differenziazione sociale e delle istituzioni sociali artificiali. La differenziazione

sociale produce i presupposti dell'associazione cioè il distacco fra gli individui; le

associazioni costituiscono il prodotto di questo processo e nello stesso tempo lo

alimentano circolarmente e relazionalmente.

Premodernità e modernità presentano forme idealtipiche di solidarietà alquanto

differenti: Durkheim e T-Onnies hanno coniato, a tale- riguardo, l'uno la dicotomia fra

solidarietà meccanica e solidarietà organica, l'altro la dicotomia fra comunità e

118Cfr. GEORG SIMMEL, Sociologia ... cit., p. 9. 119Cfr. LEOPOLD VON WIESE, Sociologia, (ediz. orig. 1955), trad. it., Torino, Utet, 1968.

80

società. Ciò che sembra emergere in entrambe, al fondo, è l'idea di un certo

spostamento da forme di solidarietà ascritte a forme di solidarietà scelte dagli

individui. Nel pensiero liberale, la dicotomia fondamentale non è tanto quella fra

individualismo e solidarietà - semmai sottolineata dai teorici liberisti - bensì

quella tra persuasione e forza, cioè tra la libera adesione degli individui ad

argomentazioni razionali, che fanno riferimento a idee e valori condivisi, e la forza

di un potere assoluto o dell'ascrizione. È con la modernità che si avvia la

differenziazione sociale e, in essa, la formazione di un'opinione pubblica e di una

società civile tendenzialmente autonoma dalla sfera politica: 'pubblico' tende a non

essere più sinonimo di 'politico', così come individuo, in quanto componente

dell'opinione pubblica, non equivale più esclusivamente a privato.

La solidarietà, in questo contesto, comincia a perdere i connotati di eredità e di

tradizione per assumere quelli della scelta e della costruzione fondate sulla volontà

degli individui. Il fenomeno delle associazioni, espressione emblematica della

società civile, rappresenta una delle forme peculiari della solidarietà sociale

moderna.

Durkheim aveva sostenuto che l'autonomia individuale e la solidarietà organica si

sarebbero sviluppate di pari passo, senza nuocersi reciprocamente, ma, anzi,

sostenendosi l'una con l'altra, e questo sarebbe avvenuto per effetto delle nuove

relazioni sociali originate dalla divisione del lavoro sociale. La solidarietà organica

si fonda, infatti, sulla differenza e sulla consapevolezza di essa da parte di individui

e gruppi sociali; la coscienza collettiva, secondo Durkheim, non è più unica -

come nelle società a solidarietà meccanica - ma diviene pluralistica, differenziata

12°Cfr. FRANCESCO ALBERONI, Movimento e istituzione, Bologna, Il Mulino, 1977.

81

all'interno delle varie parti e articolazioni della società. 121 Le associazioni svolgono,

dunque, la funzione vitale di mediare e integrare i livelli dell'autonomia individuale

e dell'ordine sociale.

Weber, nel prendere posizione contro la visione durkheimiana delle associazioni

nella società moderna, ne mise in luce la caratteristica autonomia dalla sfera

politica, la partecipazione volontaristica, la finalizzazione ad uno scopo. 122

Poco prima anche Simmel aveva toccato il tema delle associazioni moderne,

ponendone in evidenza le novità rispetto alle corporazioni tradizionali, novità che

gravitano principalmente attorno al pluralismo sociale che è lo spazio in cui

l'autonomia individuale seleziona ciò che le si confa, componendo una propria rete

di relazioni sociali e di associazioni. 123 N elio stesso tempo, le molteplici opportunità

relazionali e associative favoriscono la crescita delle individualità autonome.

Le associazioni, per Simmel, costituiscono il fulcro della società moderna, pur

adoperando come strumento interno di regolazione sociale il sentimento dell'onore

anziché il potere, la stima in luogo della coercizione. La relazione sociale assume

per Simmel la valenza di scambio tra attori: essi ricevono vantaggi - anche se di

tipo non economico - dalla relazione, in termini di valori che esprimono la loro

personalità.

Successivamente Parsons, nel riprendere la linea tracciata da Simmel, osservava

come le associazioni, da lui annoverate nel sottosistema integrativo della societal

community, collegano le sfere della comunità e della società. In particolare,

121ÉMILE DURKHEIM, La divisione ... cit.; ID., Lezioni di sociologia: fisica dei costumi e del diritto, (ediz. orig. 1950), trad. it., Milano, Etas, 1973; Io., Il suicidio, (ediz. orig. 1897), trad. it., Torino, Utet, 1969, cap. 3, p. 2.

122MAx WEBER, Parlamento e governo, (ediz. orig. 1921), trad. it., Torino, Einaudi, 1982, p. 29. 123GEORG SIMMEL, La differenziazione sociale, (ediz. orig. 1890), trad. it., Bari, Laterza, 19952•

82

!"associazione democratica' parsonsiana è regolata dalla persuasione-influenza, la

quale funziona secondo una dinamica di scambio intrattenuto da soggetti che

scelgono individualmente di accedervi. Si ritrova così una certa continuità fra le

posizioni di Parsons e quelle, esaminate in precedenza, di Simmel e Durkheim.

L'enfasi sulla razionalità presente nella rappresentazione della società elaborata

dalla sociologia moderna è oggi soggetta a critica da parte della sociologia

postmoderna, secondo la quale non è più sostenibile il binomio ragione-progresso

sociale: uno dei principali motivi - già individuato da Durkheim - è che la

ragione non è solo il meccanismo in base al quale si costruiscono le relazioni e

l'ordine sociale, ma è anche, in qualche misura, il prodotto della società. Rimane, in

ogni caso, il fatto che la centralità della ragione è stata il presupposto del costituirsi

di una sfera societaria autonoma dalla politica e dall'economia, con un proprio

strumento di regolazione, la persuasione-influenza, funzionante in base alla verità

come criterio di distribuzione dell'approvazione sociale. A tali conclusioni perviene

anche Luhmann, il quale osserva che occorre accettare la verità elaborata e

condivisa dal gruppo per essere pienamente parte di esso; ma la verità è una

costruzione della ragione, risultando, quindi, fortemente collegata alla

considerazione sociale. 124

L'autonomia della società civile dalla politica e dall'economia è del tutto evidente

soltanto a livello analitico: «il progetto di una sfera sociale governata

esclusivamente attraverso processi di persuasione non solo è stato nella società

moderna, ma continua ad essere oggi ed è destinato a rimanere anche in futuro solo

124NIKLAS LUHMANN, Teoria politica nello stato del benessere, trad it., Milano, Angeli, 1983, p. 273.

83

un ideale. La società civile della democrazia per esistere ha bisogno dello stato»; 125

questo bisogno ha per oggetto sia le regole del gioco politico sia le regole del gioco

all'interno della società civile. Nella qualità delle risposte a queste sfide consiste la

qualità della civility esprimibile da una società.

Il tema della crisi della democrazia moderna ha una datazione che, almeno quanto

alle premesse, risale ai teorici che per primi ne analizzarono virtù e limiti:

l'ambivalenza della democrazia - sempre soggetta alla possibilità di degenerare in

tirannia delle maggioranze o in oligarchia - era stata segnalata già da Alexis de

Tocqueville. 126 In tempi più recenti - più precisamente nel Novecento, secolo nel

quale si sono potute sedimentare conoscenze su una varietà di situazioni e di cicli di

sviluppo - è stata evidenziata una 'deriva autoritaria' nelle democrazie

contemporanee, in termini di strutture di dominio che si fanno strada nonostante

costituzioni e leggi di chiara impostazione democratica, con un'estensione e

intensificazione del controllo sistemico a scapito dell'integrazione sociale.

Di pari passo è andata sviluppandosi un'elaborazione significativa del concetto di

società civile come sfera distinta dall'economia e dalla politica, con una propria e

peculiare 'logica'. Alcuni filoni della teoria sociologica hanno tentato, proprio negli

ultimi anni, di sottolineare l'autonomia della società civile, in quanto dotata di una

specifica modalità di azione, quella sociale; il tentativo mira ad individuare quali vie

il sociale starebbe seguendo (o potrebbe seguire) per superare le secche della

125DA VIDE LA V ALLE, Integrazione sociale e scelta individuale. Le associazioni nella società moderna e postmoderna, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVI, 1, 1995, pp. 65-92; p. 88.

126Cfr. ALEXIS DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, (ediz. orig. 1835-1840), trad. it., Torino, Utet, 1968.

84

modernità e della post-modernità. Questa è la cornice teorica cui fa riferimento la

teoria del costituzionalismo societario elaborata da David Sciulli. 121 Una teoria che

parta da tali premesse rinvia ad una teoria della società civile e del sociale come

particolare forma associativa. Nelle righe che seguono, tenteremo di presentare i

principali spunti offerti dalla teoria del costituzionalismo societario, cogliendone

valenze positive e limiti, ai fini dell'analisi della nostra problematica. 128

La teoria in esame parte dall'idea che la coppia autoritarismo/non-autoritarismo

vada esaminata sociologicamente, giacché è insufficiente la considerazione delle

dimensioni giuridico-costituzionali di una democrazia. Occorre porre in luce

l'infrastruttura sociale dalla cui esistenza dipende la possibilità di orientare il

mutamento sociale in senso non-autoritario, mediante l'agevolazione delle

dinamiche di integrazione sociale. La teoria sociologica, secondo Sciulli, non ha

colto questo risultato: da un lato essa, con Max Weber, ha compreso che la

competizione fra individui e fra gruppi sociali avrebbe sempre più richiesto

meccanismi formali di regolazione, con inevitabili conseguenze autoritarie; 129 per

altro verso, il pensiero liberale ha maturato l'idea e l'aspettativa che dalla

competizione sarebbero scaturite spontaneamente libertà e democrazia. Se tale

ultima posizione non 'vede' il problema, a quella weberiana sfugge il motivo

sociologico per il quale le società moderne, ampiamente attraversate dalla

competizione sociale e dalla razionalizzazione giuridica e burocratica, non siano

127Cfr. DAVID SCIULLI, Voluntaristic Action as a Distinct Concept: Theoretical Foundations of Societal Constitutionalism, in «American Sociologica! Review», 51, 1986, pp. 743-66.

128Cfr. ANDREA M. MACCARINI, Collegialità contro deriva autoritaria: la forma associativa nella teoria sociologica del «costituzionalismo societario», in «Sociologia e ricerca sociale», 49, 1996, pp. 141-65. L'articolo presenta criticamente la teoria di Sciulli, mediante l'esame dei principali contributi di questo Autore; ibidem per le relative indicazioni bibliografiche.

129Cfr. MAx WEBER, Economia ... cit.

85

precipitate nell'autoritarismo burocratico. La causa di tale inadeguatezza, sostiene

Sciulli, è stata la forte carenza di criticità della teoria sociologica. Le teorie di

orientamento narxista hanno adoperato la chiave di lettura della dipendenza per

l'analisi del carattere repressivo delle società occidentali. Purtuttavia, sia tali teorie

sia quelle di orientamento liberale condividono a livello presupposizionale l'idea -

sociologicamente non fondata - che le istituzioni politiche e sociali occidentali

siano esaustive di ogni possibile forma d'integrazione sociale e di ordine sociale non

autoritario: tutte le teorie, ad avviso di Sciulli, registrano una vera e propria

mancanza di alternative concettuali m merito agli argomenti di cm ci stiamo

occupando.

Per Sciulli l'integrazione sociale dipende dalla misura in cui gli attori sono in grado

di riconoscere e comprendere in comune (anche senza accettare) le obbligazioni

sociali vigenti all'interno di un sistema di relazioni: si potrà avere integrazione, e

non controllo, se tale possibilità è concreta, e viceversa. Tale concezione ha

un'impronta cognitivistica e chiama in causa la dimensione fondamentale della

comunicazione, ma ha il limite di non poter spiegare i casi di mancata integrazione e

adesione alle norme che non siano motivati da dissonanze cognitive. Cosa, dunque,

consente l'integrazione sociale? È possibile individuare l'infrastruttura

specificamente sociale in grado di fare da base ad un ordine sociale integrativo nella

modernità? Sciulli ritiene che tale infrastruttura sia data da una particolare forma

organizzativa del sociale, la formazione collegiale, di cui aveva già parlato

Parsons: 130 «le formazioni collegiali sono [ ... ] la sola forma organizzativa sociale in

13°Cfr. TALCOTI PARSONS, Teoria sociologica e società moderna, (ediz. orig. 1967), trad. it., Milano, Etas Kompass, 1971, in particolare le pp. 207-236 contenenti un saggio dal tema «Universali evolutivi della

86

grado di istituzionalizzare vincoli normativi adeguati alle condizioni moderne di

competitività fra gruppi eterogenei». 131 Tali forme possono essere osservate

operando una svolta di carattere teorico ed epistemologico in direzione del

proceduralismo, cioè della dimensione procedurale all'interno del normativo, dal

momento che non è più possibile riferirsi ad una ragione oggettiva e sostantiva. Il

proceduralismo è, per Sciulli, l'ultimo livello possibile di generalità e di

universalismo.

Le formazioni collegiali, nella visione di Sciulli, sono «corpi deliberativi i cm

membri s'impegnano nel compito di spiegare e descrivere fenomeni qualitativi»132

secondo criteri tipici degli ordinamenti giuridici razionali moderni; esse sono

presenti perlopiù nelle professions, nelle divisioni di ricerca delle grandi

multinazionali, nei dipartimenti delle università e in altri corpi deliberativi. Lì dove

le formazioni collegiali vengono istituzionalizzate, si dà vita o si rafforza una sfera

pubblica, il controllo sistemico viene contenuto e il mutamento sociale segue le

strade dell'integrazione fra attori eterogenei. Tali formazioni danno un contributo in

tale direzione che è essenzialmente di tipo cognitivo, consistente

«nell'istituzionalizzazione di una contingenza palpabile nell'ambiente dei detentori

del potere», 133 i quali percepiscono di essere soggetti a controllo circa l'orientamento

autoritario/non autoritario da essi impresso al mutamento sociale.

società» e in esso il paragrafo su «L'associazione democratica», caratterizzata da direzione elettiva e sostegno mediato dei membri agli orientamenti delle politiche. L'associazione è, nel saggio citato, uno dei quattro complessi «fondamentali per la struttura delle società moderne» (p. 235), unitamente all'organizzazione burocratica per il conseguimento dei fmi collettivi, il denaro e il sistema di mercato, i sistemi giuridici universalistici generalizzati.

131ANDREA M. MACCARINI, Collegialità ... cit., p. 146. 132/bidem, p. 150. 133/bidem, p. 151.

87

Non essendo possibile, in questa sede, approfondire ulteriormente l'analisi della

posizione di Sciulli, basterà osservare come, pur recependo la validità di molte sue

intuizioni ed elaborazioni, la svolta procedurale si riveli insufficiente a conferire

forza a una teoria delle formazioni collegiali che voglia essere critica. Del resto, le

democrazie occidentali contemporanee vanno sperimentando l'inadeguatezza del

proceduralismo di fronte alle sfide attuali: l'integrazione sociale richiede un

substrato culturale comune, il proceduralismo non è un equivalente funzionale

dell'universalismo. Al fondo, ciò che emerge è una non chiara teorizzazione

sociologica della modernità, il che impedisce anche la costruzione di una adeguata

teoria sociologica dell'associazione.

L'individualismo ha costituito un tema centrale nelle analisi scientifiche della

modernità; i temi della socialità hanno finito molto spesso con il trovarsi nel cono

d'ombra dell'individualismo. Nella vulgata rappresentata da discorsi non scientifici

di vario tenore (giornalistico, moralistico, politico) in ordine ai fenomeni della

socialità, l'individualismo è spesso dipinto a tinte fosche e catastrofiche,

descrivendone il travolgente dilagare e la portata distruttrice dei legami sociali

solidaristici. Le nuove forme di socialità, siano esse palesi o sotterranee, vengono

così oscurate da una percezione distorta e sovrastimata dell'individualismo.

Maffesoli ha affrontato questa problematica, 134 avviando le sue argomentazioni

dall'assunto secondo il quale occorre superare la visione 'sostanzialistica'

dell'individuo, così come era stata proposta e resa centrale dal pensiero moderno. La

134MICHEL MAFFESOLI, Il tempo delle tribù. Il declino dell'individualismo nelle società di massa, trad. it., Roma, Armando, 1988.

88

concezione cui accede il sociologo francese è quella di individuo come persona,

cioè come elemento molteplice e differenziato facente parte di un ordine più vasto

in cui ogni espressione riflette il macrocosmo generale. Persona da intendere,

dunque, etimologicamente come maschera, come insieme di modi e ruoli diversi

che assumono significati diversi nei contesti in cui singolarmente ci si trova. La

differenza fondamentale è che «mentre la logica individualistica riposa su

un'identità separata o chiusa in se stessa, la persona vale soltanto in rapporto agli

altri». 135 Se ne trae la conseguenza della necessità di superare la dicotomia moderna

fra soggetto e oggetto. Ciò che collega soggetti diversi non è più, in quest'ottica, la

storia basantesi su un contratto sociale cui gli individui razionali aderiscono, ma un

mito a cui si appartiene, nel quale ci si riconosce.

Talvolta, sostiene Maffesoli, il legame sociale si basa su un'emozione collettiva, per

la quale i soggetti individuali si riconoscono in una certa forma tipizzata, si

'perdono' in un soggetto collettivo: è il fenomeno definibile come neo-tribalismo.

Gli esempi citati da Maffesoli (le culture urbane giovanili del genere 'punk',

'paninari' ... ) offrono lo spunto per riflettere sull'idea di 'estendibilità dell'io': le

forme di aggregazione sociale nelle società occidentali contemporanee sempre più

tendono a impiegare come criterio l'empatia e sempre meno la logica binaria

dell'identità.

Max Weber individuò la 'comunità delle emozioni' (Gemeinde) come tipo ideale: di

aspetto effimero, mutevole nella composizione, di dimensione locale, priva di una

organizzazione, con una struttura quotidiana. 136 Forme riconducibili a tale categoria

135 Ibidem, p. 21. 136MAx WEBER, Economia ... cit., pp. 38-40.

89

sono presenti m tutte le religioni, negli interstizi esistenti fra le rigidità delle

istituzioni; più la società è aperta, più numerosi e diversificati saranno i gruppi con

una base emozionale condivisa, con una certa solidità nonostante la precarietà

costitutiva di tale base. E pertanto anche la dinamica empatica che anima la società

contemporanea non può essere letta come «l'ultima manifestazione di un attivismo

collettivo proprio della borghesia [ ... ] una strumentalizzazione coordinata degli

affetti sociali». 137

In realtà, in gran parte delle situazioni di comunità delle emozioni si riscontra la

prevalenza di elementi disindividualizzanti, della casualità, della non-razionalità

strumentale. Durkheim aveva posto in evidenza la 'natura sociale dei sentimenti',

alludendo alla prossimità che si ha nel quartiere, dotata di una sua non ben definibile

forza attrattiva: è la dimensione della vita quotidiana, dei piccoli eventi, gesti,

sentimenti, relazioni. Secondo Maffesoli, la elaborazione e diffusione delle opinioni

si serve più del substrato e della trasmissione delle emozioni che non della mera

razionalità, e tutto ciò costituisce per la società una forma di solidarietà e anche di

continuità, dando origine ad una memoria collettiva. Quest'ultima è sì legata ad uno

spazio fisico comune, ma trascende il gruppo giacché lo proietta in una prospettiva

immaginaria. Si crea così una sorta di 'aura' che caratterizza una certa epoca: se

l'aura teologica stava al Medioevo, come quella politica al Settecento e quella

progressista all'Ottocento, si potrebbe affermare che il Novecento sta assistendo al

sorgere di un'aura estetica, fondata su una miscela-di elementi comunitari, mistici,

ecologici. Tutto ciò, secondo Maffesoli, è segno di un certo clima 'olistico', di

ricomposizione organica, riconducibile alla ripresa del solidarismo in nuove forme:

137MICHEL MAFFESOLI, Il tempo ... cit., p. 23.

90

le emoz10m, m tal senso, vanno ritenute una combinazione di oggettività e

soggettività. L'emozione diviene una metafora conoscitiva della complessità

organica delle società occidentali, rispetto alla quale l'individualismo mostra ormai

tutti i suoi limiti: «l'estetica del sentimento non è affatto caratterizzata da

un'esperienza individualistica o 'interiore', ma al contrario da qualcosa che è

essenzialmente apertura agli altri, all'Altro. E tale apertura connota lo spazio, il

locale, la prossemia, dove si gioca il destino comune; ciò permette di stabilire uno

stretto legame tra la matrice o l'aura estetica e l'esperienza etica». 138

L'etica si esprime concretamente in gruppi determinati, ed è caratterizzata in modo

empatico e prossemico. Le relazioni fra etica del gruppo e morale vigente in una

data società possono anche attraversare fasi conflittuali; l'etica comporta comunque,

in vario modo, conformismo tra i componenti del gruppo. È appena il caso di

ricordare che l'etica del gruppo è stata considerata, nel quadro della modernità, un

residuo di arcaicità. Oggi, tuttavia, si osserva come il legame comunitario di gruppo

possa talvolta combinarsi con l'efficienza economica o tecnologica: i casi della

Silicon Valley californiana e il modello giapponese di organizzazione della

produzione industriale basato sui gruppi ne sono esempi significativi. Sebbene si

tratti di un'analisi non generalizzabile, Maffesoli ritiene che l'affermazione di un

sentimento nello spazio pubblico non possa essere ignorata, sia nella forma

dell'integrazione comunità-tecnologia che in altre forme. La forma comunitaria è,

ad avviso del sociologo francese, connotata «non tanto per un progetto (pro-jectum)

volto verso l'avvenire quanto per l'effettuazione 'in actu' della pulsione a stare

138/bidem, pp. 26-27.

91

insieme». 139 Da questa spinta alla prossimità e dalla condivisione di uno spazio -

fisico, immaginario, di emozioni - nasce l'idea comunitaria e l'etica

corrispondente: «è la comunanza di sentimenti a suscitare la ricerca di una 'moralità

differente', che qui preferisco definire esperienza etica». 140 Il legame tra etica

comunitaria e solidarietà è mediato e rafforzato dal rituale, che produce effetti

securizzanti, di conferma dei sentimenti del gruppo verso se stesso. L'etica

comunitaria, fondata sulla prossimità, finisce con il filtrare le regole razionali della

giustizia teorica: azioni spontanee latamente altruistiche a livello micro, sebbene

talvolta distanti da una visione d'insieme della giustizia sociale o anche

caratterizzate talvolta da assistenzialismo e paternalismo, sono espressione di una

mobilitazione di emozioni collettive che non si limitano più ad attendere

l'intervento statale. In che modo si attiva questo meccanismo? Risponde Maffesoli:

«si privilegia non tanto ciò a cui si aderisce volontariamente (prospettiva

contrattuale e meccanica) quanto piuttosto ciò che è emozionalmente comune a tutti

(prospettiva sensibile e organica)». 141 Gli eventi accadono 'come se' l'etica

comunitaria esistesse, dal momento che essa è avvolta nell'aura del proprio ambito

spazio-temporale.

La 'comunità delle emozioni' come tipo ideale e altre forme simili presentano

un'accentuazione dell'estasi nel senso di 'uscita da sé', che è propria dell'atto

sociale in quanto tale. Maffesoli indica con la metafora 'tribù' o 'tribalismo' tale

insieme complesso di fenomeni sociali.

139 Ibidem, p. 28. 140/bidem, p. 29. 141/bidem, p. 31.

92

Il costume, espressione dell'etica comunitaria, diventa interessante oggetto di analisi

della vita delle tribù di cui si compone la società contemporanea. Simmel definiva il

costume come 'una delle forme più tipiche della vita sociale'. Maffesoli, riunendo

alcuni elementi dalle sue argomentazioni, ne parla nei termini di «insieme degli usi

comuni che permette che un insieme sociale si riconosca per quello che è».142 La

forza che il costume esercita sulle relazioni sociali consiste paradossalmente nella

sua non verbalizzazione e non formalizzazione, nel suo penetrare in profondità nella

società senza transitare per il circuito della razionalità strumentale. La quotidianità è

l'ambito di un insieme variegato di libertà interstiziali e relative, per cui è possibile

parlare di una 'socialità in nero' all'interno e a latere di una socialità 'ufficiale'. La

sensibilità collettiva e le varie forme di legame sociale si servono di situazioni

banali, luoghi di convivialità quotidiana: è in tali luoghi che il costume consente l 'e-

stasi (I 'uscita da sé) dal quotidiano e il consolidamento del tribalismo. Il carattere

tribale rinvenibile in vario modo all'interno di varie società contemporanee è segno

del fatto che il principio individuationis (individualismo) non è così scontato come

sembra. Si tratta di società in cui la struttura di base è la tribù (nel senso di gruppo

organico); in esse, al presunto dominio del principio di autonomia tende ad

affiancarsi e a sostituirsi un principio di allo no mia fondato «sull'adeguamento,

sull'adattamento, sull'articolazione organica all'alterità sociale e naturale», 143

segnando, così, una discontinuità non priva di ambiguità rispetto alla modernità.

142/bidem, p. 35. 143 Ibidem, p. 44.

93

1. 6. Bene comune e beni comuni

La noz10ne di bene comune, cardine del solidarismo elaborato dal pensiero

filosofico e politico cattolico e dalla dottrina sociale della Chiesa, torna a stimolare

l'interesse degli scienziati sociali e dei sociologi.

Nella originaria elaborazione filosofica, il concetto di bene comune si distingue dal

bene individuale e dal bene pubblico: quanto al bene comune, esso non è la

semplice sommatoria dei beni individuali, che tuttavia non vengono negati, ma

inverati e armonizzati a livello comunitario, ponendo come fine la persona; il bene

pubblico è «un bene di tutti in quanto uniti», a differenza del bene comune che «è

dei singoli, in quanto membri di uno Stato; è un valore comune che i singoli

possono perseguire solo assieme, nella concordia». 144 Per l'analisi sociologica la

formulazione originaria di bene comune pone non pochi problemi, stante il tratto

della complessità culturale, valoriale, istituzionale che è proprio delle società

occidentali contemporanee: il fatto che tale formulazione di bene comune sia

oggettivistica ne spiega, almeno in parte, il declino nella pratica sociale della post-

modernità, in cui i processi di secolarizzazione hanno eroso le basi sacrali e

trascendenti della società e i riferimenti normativo-istituzionali 'forti'. Ciò, tuttavia,

non risolve la questione dell'integrazione sociale, piuttosto la pone in termini

rinnovati: è possibile, e se sì con quali modalità, un insieme sufficiente di valori

ultimi condivisi da una collettività affinché questa non sia mantenuta insieme solo

dalla forza in varie forme? È il quesito che lo stesso pensiero liberale pone, 145 pur

144NICOLA MATTEUCCI, Bene comune in NORBERTO BOBBIO - NICOLA MATTEUCCI - GIANFRANCO PASQUINO (a cura di), Dizionario di Politica, Torino, Utet, 1976, p. 95.

145/bidem.

94

rimarcando l'insopprimibile esigenza di garantire all'autonomia degli individui

spazi adeguati in una società policentrica e democratica. Ci sembra tuttavia di poter

dire che, a grandi linee, tale orientamento, a livello sociologico, rimanga bloccato in

questo impasse, indicando nella estensione formale e nella tutela pubblica dei diritti

individuali, anche sociali, la via per la costruzione di un bene comune quale base del

consenso minimo necessario ad una società democratica.

L'esigenza di qualcosa di più in tema di bene comune, rispetto all'impostazione

liberale, è espressa da Franco Cassano, 146 sebbene egli ponga in evidenza le

questioni relative ai beni pubblici più che al bene comune. Il rapporto tra razionalità

individuale e razionalità collettiva è un tema che ha suscitato - all'interno della

teoria sociologica, come anche di quelle politica ed economica - un'ampia varietà

di posizioni. A tale dibattito è possibile ricondurre anche l'analisi del concetto di

bene pubblico quale particolare prodotto dell'azione collettiva. Cassano mostra tutta

la sua insoddisfazione nei confronti delle impostazioni del problema costruite a

partire del noto dilemma del prigioniero, mediante il quale Mancur Olson ha

argomentato che l'azione collettiva (o di solidarietà e di cooperazione), anche se

eticamente fondata e utile in termini di produttività, non può mai essere razionale

dal punto di vista individuale; 141 viene pertanto in evidenza la figura del free-rider,

cioè l'attore che, pur non prendendo parte all'azione collettiva e non pagandone i

costi, potrà usufruire degli eventuali benefici. Secondo Olson, chi si impegna in

un'azione collettiva - a meno che non si tratti di gruppi di piccole dimensioni - lo

146FRANCO CASSANO, La secolarizzazione infinita. Note sulla morte dei beni pubblici, in «Rassegna Italiana di sociologia», XXXI, 1, 1990; pp. 11-25.

147MANCUR OLSON, La logica del/ 'azione collettiva. I beni pubblici e la teoria dei gruppi, ( ediz. orig. 1971 ), trad it., Milano, Feltrinelli, 1983.

95

fa perché mosso da incentivi selettivi (acquisizione personale di posti e risorse) o in

base a spinte del tutto irrazionali: i beni pubblici ottenibili attraverso l'azione

collettiva sono al di là di questo mondo e, come è evidente per Olson, ciò che è

trascendente nulla ha a che vedere con la razionalità. Ponendo a confronto le tesi di

Olson con quelle di Hirschman,148 Cassano nota che le azioni collettive esistono e

che esse non sono analizzabili in modo rigidamente schematico secondo l 'idealtipo

della razionalità rispetto allo scopo: in molti casi di azione collettiva, infatti, lo

scopo (I' ottenimento di un beneficio o comunque di un risultato) è già contenuto

all'interno dello sforzo (il costo sostenuto). Elster ha contestato questo punto,

sostenendo che si tratta di una «fallacia dei sottoprodotti», cioè soltanto di effetti

secondari dell'azione a prescindere dal risultato finale auspicato, e che ciò darebbe

adito ad una visione «frivola» dell'azione pubblica e ad una «teoria narcisistica della

politica». 149 In realtà, nota Cassano, la gratificazione e il senso di dignità ricavati da

chi porta avanti un'azione collettiva sono spesso necessari alla conduzione di

quest'ultima; e poi, effetti principali ed effetti secondari dell'azione collettiva

spesso si sovrappongono parzialmente. Elster aveva poi analizzato altrove, 150

modificando e integrando la sua posizione, l'effetto palla di neve che si dispiega

quando un nucleo di cooperatori incondizionati intraprende per primo l'azione

collettiva, essendo disposto ad accettare senza condizioni eventuali danni e

delusioni da isolamento: in tal caso, l'azione di questo nucleo modifica la situazione

di partenza, poiché riduce i costi di ingresso nell'azione per coloro che vi

intervenissero in seconda battuta, i quali ultimi innescheranno un analogo effetto a

148ALBERT O. HIRSCHMAN, Felicità privata e felicità pubblica, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1983. 149JON ELSTER, Uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1989.

96

catena per chi si aggregherà in eventuali fasi successive, e così via. È la fattispecie

delineata idealtipicamente da W eber nell'agire razionale rispetto al valore .151 In

termini di linguaggio comune, nota Cassano, non si tratta altro che del coraggio e

della fiducia di chi inizia per primo, contagiando poi anche altri. Ciò che non è

ottenibile mediante un'azione razionale rispetto allo scopo, può diventarlo a

condizione che cambi il modello di azione e assuma come riferimento un valore

(dovere, dignità, bellezza, precetto religioso, pietà, una 'causa' importante di

qualsiasi specie). Va anche detto che questo comportamento non elimina i rischi di

insuccesso né, in talune circostanze, possibili effetti perversi.

Hirschman individua in Pascal la prima distinzione tra beni privati - «cose

particolari che possono essere possedute esclusivamente da uno solo» - e beni

pubblici - cioè il «vero bene» che «dev' esser tale che tutti lo possono possedere

senza diminuzione e senza invidia, e che nessuno possa perderlo suo malgrado».152

Pascal, a proposito del vero bene, allude a Dio, il bene infinito e trascendente.

Hirschman riprende dal pensiero pascaliano l'idea che il bene pubblico è ciò che

trascende l'utilità individuale e di corto respiro. Rimane vero, anche se non va

sopravvalutato, il fatto che possano esservi, dietro le 'virtù pubbliche', «incentivi

selettivi» volti all'ottenimento di beni individuali anziché collettivi; tali incentivi

possono essere anche non materiali, configurandosi come solidaristici e/o

normativi: il bisogno di intrattenere relazioni solidali con altri o l'esigenza che

l'azione sia conforme a certe norme morali. 153 Tuttavia, nota Cassano, queste

150JON ELSTER, Making Sense of Marx, Cambridge, Cambridge University Press, 1985. 151MAx WEBER, Economia e società, (ediz. orig. 1922), trad. it., Milano, Comunità, 1961. 152BLAISE PASCAL, Pensieri, trad. it. a cura di P. SERINI, Torino, Einaudi, 1962; pp. 447, 425. 153 ALESSANDRO PIZZORNO, Considerazioni sulle teorie dei movimenti sociali, in «Problemi del socialismo»,

12, 1989; pp. 2-27.

97

tipologie di incentivi hanno un contenuto che solo in termini linguistici può definirsi

utilitaristico; lo stesso Pizzomo, ritenendo a ciò insufficiente il concetto di interesse,

ha posto in evidenza la nozione di identità. 154 Ma anche continuando a ragionare in

termini di interesse, ci si può riferire ancora a Pascal, il quale arriva a sostenere

l'utilità individuale della fede in Dio: la ricompensa promessa, l'oggetto della

scommessa, è infinita e quindi di gran lunga superiore rispetto al costo da assumere,

al rischio da correre. Il comportamento dei cooperatori incondizionati si approssima

allo schema di Pascal, anche se talvolta tale posizione può essere sfruttata per

ottenere vantaggi materiali immediati per sé stessi in nome della volontà generale.

In Pascal è presente la tensione tra fede e scienza in un contesto socio-culturale

avviato alla secolarizzazione: la fede in Dio è una scommessa in senso pieno, poiché

le certezze dogmatiche non reggono più. Analogamente, osserva Cassano, «anche il

bene pubblico sta morendo o forse si sta soltanto nascondendo: ecco perché per esso

oggi si può parlare nei termini di una scommessa». 155 La secolarizzazione è implicata

nella crisi delle forme di solidarietà sociale poiché ha intaccato il «fondamento

mitico» - cioè la religione - di obbligazioni rilevanti anche nella società moderna

di stampo liberale: sviluppando queste argomentazioni, Hirsch osserva come la

competizione economica e politica abbia finito con l'oltrepassare i limiti sociali

dello sviluppo, tendendo alla commercializzazione di tutte le relazioni sociali: 156

154ALESSANDRO PIZZORNO, Identità e interesse, in LOREDANA SCIOLLA (a cura di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983.

155FRANCO CASSANO, La secolarizzazione infinita ... cit., p. 22. 156FRED HIRSCH, I limiti sociali allo sviluppo, ( ediz. orig. 1976), trad. it., Milano, Bompiani, 1981. Secondo

questo Autore, le società della tarda modernità sono caratterizzate da una rilevanza sempre maggiore dei 'beni posizionali' il cui godimento si deteriora al crescere del numero di persone che vi accede: l'accesso dipende dallo status sociale e dal reddito individuale relativo a quello altrui. La società dello sviluppo economico e dell'opulenza incentiva la domanda di tali beni, ma non può soddisfarla interamente, provocando frustrazione sociale. Con l'erosione delle norme etico-religiose che limitano la massimizzazione del perseguimento del tornaconto individuale la politica diviene corporativistica. Ciò

98

vengono a mancare, di conseguenza, quelle virtù - verità, fiducia, accettazione,

freno, obbligo - di basilare importanza in un'economia in cui gli individui

regolano contrattualmente le loro transazioni. Hirsch non riesce a individuare validi

equivalenti funzionali della religione, in grado di evitare, al contempo, i rischi

opposti della scomparsa dei beni pubblici e di una loro definizione autoritaria e

centralistica. Al fondo, osserva Cassano, non è altro che un'antinomia tra bene

pubblico e democrazia, la quale ultima, reggendosi sul principio di maggioranza,

talvolta potrà distaccarsi dalla volontà generale in nome dell'interesse comune.

Quale soggetto si configura portatore o interprete del bene comune in una società

che voglia essere democratica? Se si eccettuano i casi di emergenza catastrofica -

qualificati, per esempio, da tutto ciò che può derivare dalla non illimitatezza delle

risorse ambientali - i quali mostrano come non tutte le questioni possano essere

adeguatamente trattate secondo il principio di maggioranza, il problema, per

Cassano, è «come far affacciare all'interno di un linguaggio in cui tutto è e deve

essere negoziabile, l'idea di un parametro trascendente capace di ridimensionare

drasticamente le nostre utilità [ ... ]. La scommessa è sulla capacità di trascendere il

proprio interesse immediato guardandolo con l'ottica delle future generazioni».157

Una diversa posizione, che si autodefinisce prudente rispetto alla questione della

«morte dei beni pubblici» come tematizzata da Cassano, 158 è quella di Ota De

Leonardis, 159 il cui intento è evitare il pericolo di una anche involontaria ricaduta nel

richiede ulteriore regolazione pubblica dell'economia per equilibrare lofferta di beni posizionali: il presupposto di tale politica non è di tipo ugualitaristico ma fa capo ad un codice morale di comportamento altruistico.

157FRANCO CASSANO, La secolarizzazione infinita ... cit., p. 24. 158Jbidem. 1590TA DE LEONARDIS, Diritti, differenze e capacità. Sulla giustizia come processo sociale, in «Democrazia e

diritto», XXXI, 5-6, 1991; pp. 197-218.

99

fondamentalismo, nel quale si può incorrere quando si evoca come imprescindibile

la necessità di recuperare una qualche trascendenza del legame sociale. La sua

attenzione si concentra sulle istituzioni, definite come «sistemi di azione concreti

che nel loro funzionamento quotidiano e fattuale elaborano e riproducono beni

riconosciuti come pubblici, comuni, cioè beni condivisi da - e che come tali

accomunano - una collettività di soggetti». 160 L'idea è quella di analizzare più che i

beni, i processi istituzionali, mediante i quali i beni vengono prodotti, e i soggetti

coinvolti in tali processi. Il legame sociale è stato trasformato dalla

secolarizzazione, il suo carattere di astrazione è posto fortemente in discussione;

legge e contratto sociale hanno subìto una smitizzazione, le identità collettive della

prima modernità sono in declino: questi i principali tratti della crisi della

cittadinanza moderna e dei suoi caratteri (confini, criteri di inclusione/esclusione,

diritti e obblighi). In altri termini, «sono diventati incerti i modi istituzionalmente

riconosciuti per identificare i beni comuni». 161 Rifugiarsi nell'appello a (e nella

pratica di) una appartenenza comunitaria non è, per De Leonardis, una soluzione,

giacché comprimerebbe gli spazi della democrazia. All'interno della tematizzazione

della crisi della cittadinanza moderna, è possibile individuare due questioni

rilevanti: i) differenza versus universalizzazione e astrazione della cittadinanza

moderna, e ii) una giustizia «locale», anziché centralizzata, per molte categorie di

beni comuni. È anche vero che la crisi della cittadinanza moderna non comporta

160 Ibidem, p. 197. 161/bidem, p. 198.

100

solo perdite, ma insieme nuove «procedure secolarizzate di produzione e uso dei

beni comuni». 162

In ordine alla crisi della cittadinanza moderna, De Leonardis considera due esempi

diversi di elementi di criticità: da un lato la condizione degli homeless, delle persone

senza dimora, che sfugge alle consolidate chiavi di lettura e modalità di intervento

contro la povertà e il disagio sociale; per altro verso, l'emergere dei «familismi

morali», analizzati da Tumaturi e Manconi, 163 cioè quelle organizzazioni di società

civile caratterizzate da una «solidarietà egoistica», centrata sul proprio particolare,

sul proprio privato, ma con significative ricadute, anche non intenzionali, di tipo

universalistico: si tratta, secondo le espressioni di Tumaturi, di forme di

apprendimento morale e di sperimentazione diretta di nuove culture dei diritti e

delle risorse-beni comuni.

Nelle società occidentali contemporanee, le differenze hanno assunto una rilevanza

tale da non poter essere più considerate alla stregua di deviazioni da una norma

astratta; occorre, invece, tematizzarle esplicitamente come interdipendenze, cioè

come differenze tra soggetti: «i soggetti di diritti sono dunque tali in quanto

collocati in queste interdipendenze, vincolati, con un'autonomia e una responsabilità

limitate. I limiti, i vincoli che li legano al contesto, in questa prospettiva diventano

requisiti, risorse, possibilità per l'esercizio di diritti». 164 La differenza viene qui

assunta in chiave relazionale, offrendo uno spunto che riprenderemo presentando la

posizione di Donati. 165 In concreto, il criterio di giustizia da adoperare può essere

1621bidem, p. 199. 163Cfr. GABRIELLA TuRNATURI, Associati per amore, Milano, Feltrinelli, 1991; LUIGI MANCONI, Solidarietà,

egoismo. Buone azioni, movimenti incerti, nuovi conflitti, Bologna, Il Mulino, 1990. 1640TA DE LEONARDIS, Diritti, differenze e capacità ... cit., p. 204. 165Cfr. infra.

101

tratto dalla riflessione di Amartya Sen: considerare le «capacità fondamentali» dei

soggetti, il cui esercizio è un diritto da riconoscere a tutti. 166 È infatti impossibile, a

giudizio dell'economista indiano, puntare all'eguaglianza mediante la distribuzione

equa di beni fondamentali, come propone Rawls, 167 poiché i medesimi beni vengono

valorizzati diversamente secondo le diverse capacità delle persone. Di quale tenore

dovrebbe essere una teoria, e anche una politica, della giustizia in un contesto di

'società delle differenze'? Riprendendo Elster, 168 De Leonardis afferma che non può

che trattarsi di una «giustizia locale», non centralistica, ma articolata secondo il tipo

di beni da allocare, i particolari criteri allocativi e gli schemi redistributivi di quel

tipo di beni. Una tale concezione chiama in causa proprio il tema delle capacità

fondamentali dei soggetti, dei quali vengono sottolineate la libertà di scelta e di

azione in ordine alla gestione delle capacità medesime: i soggetti sono, cioè, in

quest'ottica «partner delle scelte istituzionali che li riguardano, competenti a

decidere dei problemi di cui sono portatori e delle soluzioni di giustizia

corrispondenti». 169 Ne risulta rimarcata la rilevanza delle istituzioni, relativamente ai

loro standard di funzionamento e ai loro rapporti con i cittadini.

Analogo il punto di avvio dell'analisi di Carlo Dono lo, 110 per il quale la centralità

della dimensione istituzionale è fondamentale, nonostante che il prevalere degli

approcci riconducibili all'individualismo metodologico abbia sminuito la rilevanza

della problematica del bene comune e delle dimensioni 'collettiva' e 'universale':

166AMARTYA SEN, Scelta, benessere, equità, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1986; p. 356. 167JOHN RAWLS, Una teoria della giustizia, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1982. 168JON ELSTER, Giustizia locale. Come le istituzioni assegnano i beni scarsi e gli oneri, trad. it., Milano,

Feltrinelli, 1995. 1690TA DE LEONARDIS, Diritti, differenze e capacità ... cit., p. 211. 170CARLO DONOLO, Esercizi sociologici in tema di beni comuni, in «Democrazia e diritto», XXXI, 5-6, 1991;

pp. 185-96.

102

«risulta ancora difficile - malgrado tutto - dedurre istituzioni da scambi [ ... ]

l'ordine sociale è istituito-costruito, ovvero dipende dalla cooperazione tra istituti

(già sempre pre-esistenti) e azioni determinate, le quali, in quanto orientate

strategicamente a scopi determinati e locali, non possono non generare effetti fuori

controllo, non voluti, indiretti, lontani, perversi». 111 Donolo riconosce

l'impraticabilità di ricavare la dimensione normativo-istituzionale dell'ordine

sociale da «metapreferenze collettive dichiarate» (contenute, ad esempio, nelle

costituzioni) oppure dai presupposti di ogni ordine o comunicazione. Egli, però, non

concorda con Cassano172 quando questi indica la via per l'individuazione dei beni

pubblici nella trascendenza rispetto agli interessi privati e finiti. Il problema va

invece posto, secondo Donolo, nei termini della ricerca di una dimensione

normativo-istituzionale, e della sua praticabilità, cui agganciare il concetto di «beni

comunrn.

Innanzitutto, occorre accertare se un bene comune non sia già presente in filigrana

nella vita sociale, cioè in modo non esplicito e dichiarato, ad esempio nella struttura

della spesa pubblica e nell'agenda politica: si tratterà, eventualmente, di un bene

comune definito e situato storicamente, ma non per questo non meritevole di

considerazione. Una diversa modalità di individuazione del bene comune potrebbe

consistere nell'esame del comportamento di «una comunità sotto stress, in situazioni

critiche e catastrofiche, o quando è sollecitata ad azioni oblative» oppure anche dal

c-onsiderare la «persistenza di aspetti normativi nelle pratiche del 'familismo

171/bidem, p. 186. 172Cfr. FRANCO CASSANO, La secolarizzazione infinita ... cit.

103

morale'» 173 tematizzate da Turnaturi, 114 pratiche che solo per via di particolari e

circostanziati stimoli emergono dalla loro abituale latenza. A tali elementi si può

aggiungere anche il consenso, in quanto indicatore che documenta la presenza e gli

sviluppi delle varie rappresentazioni di cui si sostanzia la rappresentanza politica.

Alle rappresentazioni viste in prospettiva storica si ricollegano i motivi delle azioni

degli individui e dei gruppi nonché la logica che informa l'evoluzione degli assetti

istituzionali vigenti: «la varietà istituzionale insieme alla varietà delle

rappresentazioni possibili sono 'il' bene comune, che per definizione non può essere

posto da atti di volontà o progettato volta per volta via apprendimento, e così anche

prospettato e proiettato nel futuro». 175

La definizione del contenuto del bene comune segue dunque le vie dell'implicito o

della riemersione nelle situazioni critiche o negli entusiasmi collettivi: «le

collettività democratiche moderne, specie nella tarda maturità [ ... ] presuppongono

non solo la comunità della comunicazione politica, ma anche l'idea di una struttura

metapreferenziale della collettività, che può dividere, ma è 'ciò che resta'

(HOlderlin)». 176

Un 'ulteriore analisi proposta da Dono lo è quella della dinamica delle forme di

razionalità sociale della modernità. Queste possono essere colte all'interno della

successione di avanzamenti e fallimenti sia del mercato che dello stato e delle

reciproche connessioni. È noto come la modernità sia stata contraddistinta da

profondi processi di crescita-espansione e differenziazione interna delle due sfere,

173CARLO DONOLO, Esercizi sociologici ... cit., p. 190. 174Cfr. GABRIELLA TuRNATURI, Associati per amore ... cit. 175CARLO DONOLO, Esercizi sociologici ... cit., p. 191. 176/bidem, p. 192.

104

costellati anche da crisi e fallimenti: i fallimenti in una sfera vengono compensati da

una crescita nell'altra sfera: l'esito di queste successioni di fallimenti del mercato ed

espansioni dello stato - o viceversa - è un intreccio spesso inestricabile. Da ciò si

ha «sia l'espansione del mondo delle merci e dello standard monetario anche per

beni morali, sia l'espansione di dotazioni e titoli, in generale di capabilities degli

attori»; la corrispondente concezione empirica di un bene comune non è altro che un

«costrutto, ricavato dall'esperienza con intere classi di beni comuni in espansione

e/o a rischio». 177 Tale espansione è fortemente segnata dalla giuridificazione di

materie sociali, poiché per un numero sempre maggiore di beni viene richiesta una

tutela formale; beni che, essendo a loro volta via via più differenziati, mutano nelle

loro esigenze di tutela. Accade in taluni casi che beni comuni con struttura

universalistica vengano agiti in funzione di posizioni particolari, anche se chiamano

in causa livelli istituzionali. Si crea un nuovo tipo di relazione tra privato e

pubblico: «riciclandosi nel caso concreto i beni comuni arricchiscono le dotazioni

individuali, interagendo con queste creano un regime di 'capabilities ', di libertà e di

opportunità». 178

Dove trovare tracce dell'esistenza di beni comuni? Per Donolo occorre guardare ai

vincoli accettati liberamente, alle interazioni tra titoli, donazioni e interessi, alla

gestione di grandi questioni senza possibilità di opportunismo. Ma c'è di più: nella

società le istituzioni hanno una dimensione normativa «insopprimibile», e

producono deontologia per il sociale, cioè vincoli rispetto a classi di beni comuni:

«parlare di beni comuni equivale a parlare della genesi di buone istituzioni e quindi

177/bidem, p. 194. 178/bidem, p. 195.

105

del processo sociale come miscela di agire strategico e di investimenti normativi e

comunicativi. Ogni bene comune presuppone tutti gli altri, in una grande catena

dell'essere sociale. [ ... ] La cura e la genesi di buone istituzioni equivale alla cura e

alla riproduzione allargata di beni comuni». 179

Nei contributi fin qui presi in esame ci è parso di cogliere - pur nella varietà degli

specifici punti di vista e dei procedimenti argomentativi - una comune tensione

alla riflessione sulle forme di legame sociale fra i soggetti, anche al di là di quelle

più tipicamente riconducibili all'agire razionale strumentale rispetto ad uno scopo.

L'approccio che - forse più di altri - consente di condurre più a fondo l'analisi

secondo una tale ottica è quello della sociologia relazionale elaborato da Pierpaolo

Donati. 180 Egli ritiene che le teorie attuali sui beni collettivi risentano di una mancata

considerazione della differenziazione societaria cui sono soggetti gli interessi

(collettivi, diffusi, pubblici) riferiti a categorie di beni. Occorre superare le

tradizionali teorie del bene comune, di impronta sia cattolica che utilitaristica e

marxista: in esse, infatti, è assente la relazionalità, cioè «non spiegano la solidarietà

come fatto propriamente sociale», 181 la quale eccede le dimensioni economiche e

politiche e la distinzione (in versione sia tradizionale che moderna) tra pubblico e

privato. Il bene comune non corrisponde più né a qualcosa di interno alla comunità

primaria né al bene pubblico (Stato). È la individuazione di una sfera sociale

differenziata funzionalmente, strutturalmente e culturalmente dalla comunità, dallo

Stato e dal mercato che consente di comprendere senso e operatività della solidarietà

sociale in quanto differente dalle solidarietà comunitarie, statuali, di mercato.

179/bidem, p. 196. 18°Cfr. PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale della società, Milano, Franco Angeli, 19943

106

«La società moderna si identifica con lo sviluppo di quella dimensione 'sociale' che

si espande come spazio delle relazioni costruite, scelte, che stanno tra il momento

pubblico e quello strettamente privato. Si tratta di quelle relazioni in cui la società,

come associazione, si fa fenomeno emergente». 182 Le teorie moderne sui beni

pubblici e collettivi non considerano i fenomeni associativi di terzo settore e la loro

relazionalità peculiare: esse tematizzano il bene comune come «qualcosa che viene

costruito e fruito solamente o principalmente per utilità e contratto da singoli

individui (come il gas della città, la luce delle strade, i trasporti, la rete di

informazione, ecc.)». 183

Il bene comune come bene relazionale può perciò essere inteso come «impresa

congiunta di soggetti aventi determinate relazioni sociali tra loro [ ... ] un modo

nuovo di 'fare società '». 184 La concezione e la pratica del bene pubblico, argomenta

Donati, sono insufficienti a promuovere la solidarietà sociale, poiché sono carenti

dal punto di vista della relazionalità.

Ciò potrebbe agevolare la comprensione di taluni insuccessi o inadeguatezze delle

politiche sociali pubbliche: quando la concezione e la pratica moderne di bene

pubblico sono state applicate, nell'ambito del sociale o dei rapporti di mondo vitale,

a categorie sociali caratterizzate da interessi comuni (per esempio, famiglie con un

soggetto non autosufficiente) si è finito con il produrre prestazioni standardizzate,

impersonali, sottratte alla logica della relazionalità primaria perché delegate ad un

sistema burocratico, ora efficiente ora assente o distratto; il soggetto viene

181/bidem, p. 153. 182/bidem, p. 154. 183/bidem. 184/bidem, p. 155.

107

considerato in quanto appartenente ad una categoria a rischio di emarginazione, il

prodursi della quale va a danno degli interessi collettivi e richiede un intervento

pubblico, non dedicando attenzione alla dimensione relazionale. In ogni caso, il

soggetto è tutelato in forza della sua posizione rispetto al sistema produttivo e non in

quanto persona in sé e per sé.

Il concetto di bene comune distinto da quelli di bene pubblico e di bene collettivo,

secondo la crescente differenziazione sociale, può essere descritto come «un bene

che può essere prodotto solamente assieme, non è escludibile per nessuno che ne

faccia parte, non è frazionabile e neppure è concepibile come somma di beni

individuali». 185

I quattro fondamentali tipi di beni

Consumatore non sovrano

Consumatore sovrano

Consumo non competitivo Bene pubblico (G =Stato) Bene relazionale primario (L = Quarto Settore)

Consumo competitivo Bene relazionale collettivo (I = Terzo Settore) Bene privato (A = Mercato)

Fonte: PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza societaria, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 122.

L'elemento discriminante di fondo in ciò, secondo Donati, è la concezione della vita

umana come bene relazionale. La persona è individuo-in-relazione, e va preso atto

che «la relazione è la strutturazione della persona. Si vede allora che la vita umana e

la sua qualità non è più un diritto del singolo in quanto singolo, e neppure un bene

pubblico o collettivo nel senso moderno, ma - propriamente - un bene

comune».186

185 Ibidem, p. 156. 186/bidem.

108

La vita umana come bene comune viene rispettata o maltrattata nella misura in cui

vengono rispettate o calpestate le relazioni sociali di riferimento delle persone. Le

relazioni sono comuni alle persone che le intrattengono. Ma un bene comune come

bene relazionale, proprio perché dipende dalle relazioni sociali dei soggetti, segue le

sorti che questi imprimeranno ad esse. Si ha quindi un'azione collettiva per nulla

riducibile alla sommatoria delle azioni individuali. Andando ancora avanti, si può

osservare che i beni comuni in quanto beni relazionali possono essere espressi e

tutelati solo da gruppi primari, gruppi associativi, comunità di persone: realtà di

terzo settore diverse dalle sfere dello stato e del mercato. È aperta la prospettiva di

una nuova generazione di diritti umani (in senso relazionale) oltre a quelli civili,

politici, economico-sociali di welfare.

Donati propone la tesi che «la solidarietà sociale come distinzione direttrice

specifica delle relazioni di terzo settore [ ... ] diventa un mezzo di comunicazione, un

mezzo simbolico generalizzato e quindi un diritto, diffuso e specifico, che è sociale

- e quindi generalizzabile - in quanto è umano [ ... ]. Esso vale per ambiti

specifici (di terzo settore, appunto), ma è comunicabile e circo labile al di là di essi.

Tale medium e diritto non è comprensibile nel quadro della concezione che dei

diritti umani hanno sia i codici economici che quelli politici, e le loro traduzioni

legislative. Esso non riguarda soltanto determinati 'beni circoscrivibili' (come la

famiglia per il bambino), ma più in generale attiene alle dimensioni solidaristiche di

ogni bene collettivo nei suoi aspetti non materiali: per esempio la pace, il senso del

109

lavoro, i rapporti con l'ambiente naturale, le pari opportunità fra uomo e donna, in

quanto mettono in gioco le relazioni fra soggetti umani». 187

L'attuale organizzazione societaria sembra essere sempre meno in grado di produrre

solidarietà sociale in senso relazionale. Le ragioni di ciò risiedono sì in aspetti

tecnici, politico-amministrativi, economici ma rimane in ombra la dimensione

relazionale di ogni problematica, dalla tutela dell'ambiente alla pace, dalle politiche

sociali allo sviluppo.

1. 7. Altruismo e prosocialità

Il concetto di altruismo viene definito in modo abbastanza concorde in sociologia

come «l'agire in favore di altri senza attese di contropartita e pur potendo scegliere

altrimenti». 188 Si tratta di un termine che è stato ed è oggetto di studio in diversi campi

disciplinari: psicologia (comportamento prosociale ), economia (rapporto tra etica e

mercato), sociologia (in tempi recenti soprattutto a proposito dello sviluppo e

dell'evoluzione del terzo settore), filosofia. 189

187/bidem, pp. 158-59. 188SERGIO MANGHI, Altruismo in «Rassegna italiana di sociologia», 3, XXXVI, 1995, pp. 433-59. In maniera

equivalente si esprime BERNARDO CATTARINUSSI, Altruismo in FRANCO DEMARCHI - ALDO ELLENA -BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Nuovo dizionario di sociologia, Cinisello Balsamo, Sanpaolo, 1987, pp. 72-76; ID., Alcuni aspetti del comportamento prosociale, in ID., (a cura di), Altruismo e solidarietà. Riflessioni su prosocialità e volontariati, Milano, Angeli, 1994, pp. 111-18; vedi anche, ID., Altruismo e società. Aspetti e problemi del comportamento prosociale, Milano, Angeli, 1991.

189Sul piano della filosofia morale, la questione dell'altruismo è stata variamente tematizzata: tra gli altri, ricordiamo le posizioni di THOMAS NAGEL, La possibilità del/ 'altruismo, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1994, e quelle di FRANCESCO ALBERONI - SALVATORE VECA, L'altruismo e la morale, Milano, Garzanti, 1988. Nagel intende per altruismo la possibilità che vi sia armonia tra ragione soggettiva e ragione oggettiva, armonia raggiunta attraverso la mediazione dell'integrità del soggetto, il quale è morale nella misura in cui traduce le proprie ragioni secondo un codice universalistico, pena la non-razionalità del proprio agire, anche se ciò può condurre ad una pluralità di morali in conflitto tra loro, ma ricomponibili mediante il richiamo dei criteri oggettivi che valgono per ogni soggetto agente morale. Per Alberoni e Veca l'altruismo, definito come 'slancio spontaneo' che spinge l'individuo ad agire a vantaggio degli altri, trascendendo se stesso, costituisce una delle due radici della morale nel mondo moderno, la razionalità essendo l'altra. Attraverso l'esame delle conseguenze della riforma protestante sulla morale e l'analisi dell'utilitarismo di Bentham nonché delle posizioni di Kant, Hegel, Marx, Nietzsche, Freud, i due autori

110

In ambito sociologico, le questioni più di frequente al centro dell'attenzione vertono

sulla persistenza dell'altruismo in una società in cui sono in continua trasformazione

le forme di legame sociale e di cooperazione, dove si assiste, inoltre, al mutamento e

alla differenziazione dell'altruismo medesimo in nuove forme associate non più di

tipo soltanto privato-morale ma anche socio-istituzionale. Gli studi sull'azione

collettiva, per altro verso, hanno offerto più d'uno spunto alla riflessione sulla

problematica dell'altruismo. Ciò - forse inevitabilmente - ha condotto al prodursi

di un intreccio fra declinazioni talvolta alquanto diverse del concetto in esame.

Ancora una volta ci imbattiamo in un termine creato agli albori della sociologia, ad

opera di Auguste Comte; l'esigenza era sorta a proposito della trattazione di un

problema scientifico di rilevanza cruciale per il pensiero moderno: l'affacciarsi sulla

scena sociale dell'individuo, «inedita creatura libera da appartenenze morali ascritte e

votata al self-love, generata, insieme, dall'economia di mercato, dalla secolarizzazione

del cristianesimo, dal contrattualismo e dall'illuminismo». 190

Lo spostamento che avviene con la modernità non è tanto da una morale pre-modema

altruista ad una moderna egoista, ma da una morale esterna e data (l"ordine sociale')

ad una fonte interna e libera (l"io'). 191 Anche letture diverse da questa192 riconoscono

che con la modernità si è comunque creato un presupposto morale di tipo nuovo, non

più fondato sul destino, ma sulla scelta; la morale viene dunque ad essere riformulata

dal punto di vista degli individui. La questione dell'altruismo nella società moderna è

mostrano come le due componenti della morale moderna siano entrambe necessarie, l'una avendo bisogno dell'altra, allo scopo di assicurare un adeguato livello di moralità (cioè di rispondenza a criteri di giustizia) alle azioni individuali e alle relazioni intersoggettive ed istituzionali (si tratta, in quest'ultimo caso, di questioni di 'etica pubblica').

190SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 434. 191CHARLES TAYLOR, Radici dell'io. La costruzione dell'identità moderna, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1993.

111

dunque come esso sia possibile per gli individui e per l'ordine sociale di cui questi

ultimi sono componenti.

Manghi ritiene che una delle ambiguità nevralgiche dell'uso del concetto di altruismo

risieda nella «difficoltà di distinguere i giochi linguistici nei quali il termine funge da

principio esplicativo da quelli nei quali esso indica specifici comportamenti che si

intendono spiegare». 193 Questo atteggiamento metodologicamente improprio ha

prodotto una sovrapposizione di biologia e cultura, allorquando si è descritto

l'altruismo come carattere innato della natura umana e, più in generale, di quella

animale; 194 l'altruismo, secondo questa prospettiva, veniva inoltre annoverato tra i

comandamenti della 'religione dell'umanità'. Sebbene la posizione comtiana sia

contraddistinta in modo complessivamente progressista - la nuova religione avrebbe

avuto il suo fondamento nella scienza positiva e non più nella superstizione o nella

dottrina teologica priva di fondamenti razionali- essa non è in grado di prendere atto

che la società sta cambiando profondamente: un 'ordine delle cose', per quanto

scientifico, non è più praticabile, poiché non si trattava di sostituire la morale

tradizionale con una nuova morale unitaria, bensì di gestire la pluralizzazione delle

morali, legittimata dal riconoscimento dell'autonomia degli individui.

Durkheim riprende da Comte l'impostazione olistica e la declina nei termini del

funzionalismo sociale, nel quale vengono individuati, alla luce della differenziazione

sociale, i piani su cui va condotta l'analisi scientifica: sociale, individuale, normativo-

192Come, ad esempio, quella di FRIEDRICH AUGUST VON HA YEK, Scopi individuali e collettivi, trad. it. in SUSAN MENDUS - DAVID EDWARDS (a cura di), Saggi sulla tolleranza, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 51-65.

193SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 435. 194AUGUSTE COMrE, Système de politique positive, I, Paris, Mathias, 1851, p. 614; egli si ricollega ad un

filone di studi, che ha tra i suoi ispiratori David Hume e che fu portato avanti, nella Gran Bretagna della seconda metà del Settecento, da Adam Smith, poi da Jeremy Bentham e Herbert Spencer.

112

culturale, biopsichico. La componente sociale del comportamento degli individui non

ha un'origine naturale, ma sociale e culturale: il parallelo tra uomo e altre specie

animali non regge, giacché presso queste ultime è assente un fenomeno paragonabile

alla società umana. L'altruismo, dunque, attiene la società - non l'individuo - ed è

ad essa che occorre guardare per studiarne le caratteristiche; esso è un elemento di

fondamentale importanza ai fini della costruzione e del mantenimento di quella

solidarietà organica «derivante dalla divisione del lavoro» e che tiene insieme la

società modema. 195 L'individuo elabora la consapevolezza della propria dipendenza

dalla società e di essere solo una cellula di tale organismo, al quale va comunque

garantito il proprio contributo attraverso l'attività di lavoro. L'altruismo - secondo

questa prospettiva - può essere prescritto da norme sociali sotto due forme: una

asimmetrica e una simmetrica. La forma simmetrica richiede di offrire aiuto, in modo

occasionale o organizzato, a soggetti in difficoltà contingente o permanente: chi

trasgredirà alla norma sarà soggetto a sanzione, che si tradurrà nella esclusione

dall'accesso al senso di appartenenza, i cui effetti potranno essere - secondo i casi -

anomia, devianza, emarginazione. Di questo approccio si è fatto interprete primo

Talcott Parsons, ricollegandosi alla visione durkheimiana.

Pitirim A. Sorokin, nell'esaminare la conformità delle forme date di integrazione

sociale a prestabiliti criteri di giudizio, indica nell'altruismo creativo fondato

sull'esortazione evangelica ad amare i propri nemici il principio al quale ispirare i

comportamenti umani, le istituzioni e la cultura della società. 196

195ÉMILE DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, (ediz. orig. 1893), trad. it., Milano, Comunità, 1962; pp. 129ss; pp. 143-46.

1%PITIRIM A. SOROKIN, Love: Jts Aspects, Production, Transformation and Accumulation, in ID., (ed.), Explorations in Altruistic Love and Behavior, Boston, The Beacon Press, 1950.

113

L'altruismo può essere prescritto da una norma sociale in modo simmetrico, quando,

cioè, sia prevista la reciprocità del comportamento, lo scambio di favori: il beneficiato

è vincolato alla restituzione. e questo è noto - prima che si attivi la relazione - ad

entrambi i soggetti in essa coinvolti. Un caso tipico di tale situazione è il dono nelle

società primitive come analizzato da Marcel Mauss: 197 in quel contesto, il dono si

configura come istituzione universale e chiave di lettura per svariate forme di scambio

anche nelle società 'civili'; veniva così smentita la tesi sulla naturalità dell'economia

di mercato.198

Un'altra visione tendente a individuare l'origine dell'altruismo all'esterno

dell'individuo è quella comportamentistica: le sue versioni più evolute pongono

l'accento sul fatto che l'altruismo dell'individuo si ha non tanto in risposta, in modo

meccanico, a stimoli esterni, ma dalla elaborazione interna da parte dell'individuo di

connessioni fra stimoli e risposte e dalla produzione di 'auto-rinforzo': si ha, cioè, un

apprendimento sociale che è pur sempre influenzato da modelli esterni all'individuo, i

quali possono suscitare in lui/lei la tensione all'imitazione di un certo comportamento

prosociale. 199 In questa prospettiva è possibile formulare veri e propri programmi

operativi di 'educazione alla prosocialità'. 200

197MARCEL MAuss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, trad. it., in ID., Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965. Per un'analisi a cavallo tra sociologia e antropologia, vedi il saggio di ENZO COLOMBO, Il dono come risorsa relaziona/e, in «Sociologia e ricerca sociale», XIV, 42, 1993, pp. 47-83. Un approfondimento filosofico della problematica del dono, attraverso un commento delle posizioni del MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales), è contenuto nell'articolo di ROBERTO ESPOSITO, Donare la tecnica, in «Micromega», 4, 1994, pp. 141-57.

198Per altri, significativi punti di_ vista sulla reciprocità come norma-4elle relazioni sociali cfr. KARL POLANYI, L'economia come processo istituzionale in ID. (a cura di), Traffici e mercati negli antichi imperi, trad. it., Torino, Einaudi, 1978; MARsHALL SAHLINS, L'economia dell'età della pietra, trad. it., Milano, Bompiani, 1980.

199Cfr. P. MUSSEN - N. EISENBERG-BERG, Le origini della capacità di interessarsi, dividere ed aiutare, trad. it., Roma, Bulzoni, 1985.

20°Cfr. DONATO SALFI - GIUSEPPINA BARBARA, Possiamo davvero apprendere a star bene con gli altri? La risposta è la prosocialità, in BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Altruismo e solidarietà ... cit., pp. 119-41.

114

Altri elementi utili a comporre un quadro complessivo della problematica

dell'altruismo possono essere tratti dal comunitarismo presente nella sociologia

tedesca a cavallo tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento e

sviluppatosi in continuità con le tradizioni idealistiche e romantiche della cultura di

quel paese. Sono noti, a tale riguardo, sia l'analisi tonniesiana sulla polarità

Gemeinschaft-Gesellschaft sia l'approccio marxiano di critica all'economia

capitalistica che produce sperequazione sociale, impoverimento e alienazione dei

proletari. Tutto ciò ha avuto delle notevoli ricadute all'interno delle società europee ed

occidentali tra Ottocento e Novecento: basti pensare al collettivismo nei paesi del

socialismo reale e allo sviluppo dei diritti di cittadinanza nei paesi dotati di sistemi di

welfare. Anche il tema dell'autonomia dei mondi vitali dallo stato e dal mercato, in

questi anni ripreso da parecchi autori, 201 risente dell'influsso della fenomenologia di

Husserl, altra corrente di pensiero che ha la sua culla nel clima sociale e culturale della

Germania di quell'epoca.

All'interno della prospettiva dell'individualismo metodologico, sono stati costruiti

vari approcci. Tra questi, un rilievo particolare spetta senz'altro al modello weberiano:

negli studi del sociologo tedesco, l'individuo moderno è posto di fronte al problema di

costruire un senso per un mondo secolarizzato e da guardare con disincanto, in cui

l'altruismo non ha più alcun fondamento. Gli idealtipi dell'agire affettivo e dell'agire

razionale rispetto al valore non hanno più come scenario la società ma porzioni molto

limitate di essa (famiglia e altri gruppi primari); etica della convinzione ed etica della

responsabilità conducono ormai lungo direzioni diverse, e gli effetti dell'azione non

dipendono più soltanto dalle intenzioni dell'attore. Per W eber l'altruismo si connota

201Cfr. ACIDLLE ARDIGÒ, Crisi di governabilità e mondi vitali, Bologna, Cappelli, 1980.

115

- da un punto di vista fenomenico - in modo fortemente asimmetrico, poiché esso è

esterno ai rapporti fra individui eguali rispetto al mercato e alla regolazione statuale.

In ambito psico:~ogico sono numerosi gli studi che hanno indagato l'altruismo nei suoi

aspetti motivazionali: tra questi la psicoanalisi che, come in Freud202 e nella lettura

sociologica che ne fa Marcuse,203 ha visto nel fenomeno in esame una forma

'sublimata' di primarie istanze libidiche del soggetto. Altri studi compiuti secondo

diverse prospettive psicologiche hanno posto in evidenza che il comportamento

altruistico può essere gratificante per il soggetto, mantenerne l'autostima,

trasformarne in compassione il disagio interiore per le sofferenze altrui, eliminare lo

scarto drammatico fra l'osservazione esterna di disagi immeritati e il senso interno di

equità supposto come universale:204 fenomeni che andrebbero più opportunamente

rubricati come pseudoaltruismo.205 Analogamente, ma per motivi opposti, trattano di

pseudoaltruismo quelle ricerche sull'altruismo che impiegano il modello dell'attore

razionale utilitarista. Tali approcci contengono, oltre alla premessa individualistica,

anche una premessa normativista: lo scambio. Si ha così un richiamo alla teoria del

dono di Mauss, poiché sia quest'ultimo approccio che quello utilitaristico considerano

l'azione altruistica dettata da una logica che si impone dall'esterno sull'individuo,

anche se gli effetti economici - irrilevanza in termini mercantili nelle società

primitive contro produttività nelle società mercantili - sono profondamente diversi.

202SIGMUND FREUD, La teoria della libido e il narcisismo, trad. it., in ID., Opere, VIII, Torino, Boringhieri, 1976.

203HERBERT MARCUSE, Eros e civiltà, trad. it., Torino, Einaudi, 1964. 204Per le opportune indicazioni bibliografiche, cfr. SERGIO MANGHI, Altruismo... cit., p. 446. Per una

panoramica sulle ricerca psicologica inerente il comportamento prosociale, cfr. ANNA MARIA ASPREA -FIORANGELA ONEROSO DI LISA - GIULIA VILLONE BETOCCHI, Il comportamento di aiuto: problemi e ricerche, in BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Altruismo e solidarietà ... cit., pp. 101-110.

205Cfr. CRISTIANO CASTELFRANCHI, Altruismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, I, Roma, Istituto dell'enciclopedia italiana, 1991, pp. 137-45.

116

Nell'azione individuale razionale l'attore è libero, per definizione, di scegliere, ma

non può scegliere la razionalità, poiché questa è la condizione a base della scelta;

come già visto in precedenza, il dilemma del prigioniero dimostra che il modello

dell'azione individuale razionale non è in grado di spiegare ciò che è diverso da sé:

l'azione collettiva e il comportamento altruistico, elementi non secondari ai fini

dell'identificazione di un ordine sociale. Secondo questa teoria, l'altruismo può

emergere se la norma razionale dello scambio viene riconosciuta, dando vita ad una

prevedibile attesa di reciprocità.206

Elster ha posto tuttavia in luce come sia sbagliato contrapporre l'altruismo alla

razionalità: «l'altruismo, la fiducia e la solidarietà sono dei fenomeni genuini che non

si possono dissolvere in forme ultrasottili di egoismo».207 C'è chi ha avanzato l'ipotesi

di una struttura duale del soggetto agente, composta da una razionalità orientata al

Self-interest e da un'altra orientata al Group-interest:208 resta da aggiungere, seguendo

il ragionamento di Elster, 209 che «le chances logiche dell'altruismo si accrescono, in

particolare, se si assume che le aspettative di ciascun attore nei confronti degli altri

non siano date a priori ma vengano definendosi attraverso l'interazione reciproca».210

Secondo l'approccio della sociobiologia il comportamento altruistico viene spiegato in

termini genetici ed evolutivi: in quest'ottica esso appare un paradosso, poiché

206ROBERT AXELROD, Giochi di reciprocità. L'insorgenza della cooperazione, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1985. In estrema sintesi, diremo che lAutore, impiegando la teoria dei giochi, sostiene la tesi che la cooperazione può avvenire in base ad un calcolo razionale se ogni attore si convince che questa è possibile all'interno di una relazione di reciprocità e se la relazione ha una durata sufficiente a creare una certa stabilità.

207JON ELSTER, Ulisse e le sirene, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1983, p. 237. Per una critica della contrapposizione ideologica tra altruismo-solidarietà e razionalità individuale c:fr. CRISTIANO CASTELFRANCIIl, Solidarietà, mano invisibile e bene pubblico: elementi dell'ideologia corrente, in BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Altruismo e solidarietà ... cit., pp. 35-48; p. 44.

208Cfr. H. MARGOLIS, Seljishness, Altruism and Rationality: a Theory of Socia! Choice, Cambridge, Cambridge University Press, 1982; una impostazione simile è presente in LUCIANO GALLINO, L'attore sociale. Biologia, cultura, intelligenza artificiale, Torino, Einaudi, 1987.

117

comporta un autosacrificio che intacca !''idoneità danviniana' dell'individuo altruista,

migliorando quella del ricevente. Da questo punto di vista sono quattro i tentativi di

spiegazione e classificazione dell'altruismo:

1) selezione di gruppo: l'altruista favorisce i membri del gruppo cm appartiene,

indebolendo la propria posizione ma migliorando quella complessiva del gruppo;

2) selezione di parentela: l'altruista favorisce i parenti, portatori dei suoi stessi geni;

3) manipolazione parentale: l'altruista è indotto da un genitore ad esporsi a favore dei

fratelli con maggiori chances di successo;

4) reciprocità: l'altruista favorisce un altro individuo, il quale ricambierà il gesto

altruistico.

La quarta modalità richiede un gruppo provvisto di un buon livello di razionalità e di

integrazione, poiché essa presuppone una interattività caratterizzata da

un'elaborazione interna ai soggetti coinvolti e una valutazione dei rischi e delle

opportunità. 211

Il concetto di altruismo è stato oggetto anche di una lettura relazionale, nei termini,

cioè, di/orma di una relazione sociale;212 secondo quest'ottica di analisi, ne sono state

individuate diverse tipologie: complementare, simmetrica, reattivo-situazionale,

pseudointerattiva. Il carattere altruistico della relazione non è dato dal carattere

altruistico di norme, motivazioni e comportamenti che la compongono, ma da un

«ininterrotto co-ordinamento di significati diversi tra attori interdipendenti».213 Una

209Cfr. JON ELSTER, Ulisse ... cit., pp. 62-64. 210SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 448. 211Cfr. BERNARDO CATIARINUSSI, Altruismo ... cit. 212Per un'analisi dell'altruismo in questa chiave, vedi COSTANZO RANCI, Doni senza reciprocità. La

persistenza dell'altruismo nei sistemi complessi, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXI, 3, 1990, pp. 363-87.

213SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 449.

118

relazione altruistica presenta aspetti di rischio, sia per l'altruista, il quale può

esercitare influenza anche al di là del motivo dell'aiuto prestato, sia per il fruitore, che

potrebbe veder diminuire la propria autostima fino a maturare ostilità verso l'altruista

o a sminuire la portata dell'aiuto ricevuto.

Rivolgere l'attenzione alla relazione comporta anche un certo spostamento

epistemologico: si tratta della «rinuncia a un'immagine compiuta dell'attore in favore

di un'immagine incompiuta».214 I comportamenti altruistici, dunque, non sono sottesi

necessariamente da 'cause' (norme, motivazioni ... ) altruistiche, ma vengono

consensualmente costruiti e resi tali nell'interazione.

La prima trattazione dell'altruismo come relazione si ritrova nell 'Adam Smith della

Teoria dei sentimenti morali, in cui è presente un'impostazione diversa

dall'utilitarismo de La ricchezza delle nazioni.215 Nella prima delle due opere citate,

Smith differenzia la sympathy - che corrisponde ad una dinamica orizzontale di

reciprocità - dalla benevolence, un atteggiamento verticale di bontà: la seconda

presuppone la prima, e questa è alla base del legame sociale. Il modello teorico

smithiano si fonda qui non già sull'individuo egoista, ma sulle relazioni affettive e

cognitive fra individui. L'interesse, il self-love, non si contrappone alla sympathy ma

ne è una particolare modalità riflessiva: solo facendo esperienza del riconoscimento da

parte degli altri l'individuo potrà coltivare il self-love, e quindi il proprio interesse.

L'ordine sociale è governato da una mano invisibile che fa sì che tutto vada a buon

fme. Al di là delle acquisizioni del modello elaborato da Smith, rimane il fatto che già

214/bidem, p. 450. 215ADAM SMITH, Teoria dei sentimenti morali, trad. it., Roma, Istituto dell'enciclopedia italiana, 1990 (la

prima edizione inglese dell'opera è del 1759, la sesta ed ultima è del 1790); ID., Indagine sulla natura e le ca'USe della ricchezza delle nazioni, trad. it., Milano, Isedi, 1973 (la prima edizione inglese risale al 1776).

119

dalla fine del Settecento sia stata avanzata l'ipotesi di una lettura relazionale

dell'altruismo.

Quale può esse:e il 'destino' dell'altruismo? Se già nelle società primitive non era

affatto scontata la reciprocità del dono, tanto più nelle società della post-modernità

ogni atto di donazione non potrà che essere ed essere percepito come asimmetrico,

portando in sé sia il valore e il significato di aiuto che quello di potere sul fruitore. Se

questo è vero, allora «il donare si fa gratuito nel doppio senso del termine, economico

e morale, ovvero in quanto prescinde dal bilancio costi/benefici e in quanto appare

ingiustificabile».216 I rischi di negatività per i soggetti coinvolti e per l'ordine sociale

vengono contenuti mediante apposite norme e istituzioni e, a livello 'privato',

attraverso il «Co-ordinamento quotidiano delle relazioni interpersonali di amicizia,

d'amore, di parentela, di vicinato, di colleganza, di clientela e così via, come pure

nelle implicazioni interpersonali delle relazioni istituzionalmente codificate».217 Ciò

mette in movimento un processo di costante ridefinizione di identità e status e di

creazione di collegamenti tra le identità degli attori e i sistemi sociali in cui tale

ridefinizione si inserisce.

A livello 'pubblico', gli aspetti negativi e minaccianti dell'altruismo possono essere

contenuti mediante reti anonime di reciprocazione - come nel caso della donazione

di sangue: si tratterà di 'doni senza reciprocità' perché impersonali e soggetti ad una

possibilità di reciprocazione non controllabile;218 ovvero, attraverso organizzazioni

filantropiche socialmente riconosciute impegnate sul terreno dei diritti di cittadinanza

(volontariato, imprese sociali, organismi umanitari e no profit, associazioni per la

216SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 452. 2171bidem, pp. 452-53.

120

tutela dei diritti umani e civili ... ), forme definibili come 'altruismo asimmetrico'

differenziate dall'altruismo personale e da quello impersonale:219 la loro peculiarità è

data dal fatto che «il dono asimmetrico prevede una reciprocazione non anonima tra

donatore e ricevente, mediata e controllata tramite un sistema di solidarietà fondato su

base associativa» e che si svolge a favore di un soggetto in qualche modo esterno al

sistema di appartenenza del donatore o interno ma in posizione di inferiorità (tranne il

caso dei gruppi di mutuo aiuto, in cui tutti i soggetti dispongono di una posizione

paritaria).

Il tratto moderno dell'altruismo è costituito, ad un tempo, dall'arbitrarietà - che può

dare luogo a squilibri di potere - e dalla creatività, come espressione dell'autonomia

degli individui e della società civile: «alla moderna ambivalenza dell'altruismo non

c'è 'rimedio'».220 L'altruismo - essendo gratuità, in senso morale ed economico, e

non essendone dimostrabile l'utilità - non può che configurarsi come scommessa

interattiva.

1.8. Forme di regolazione sociale

Il tema, cruciale nella sociologia, dell'ordine sociale e delle sue condizioni di

esistenza è stato formulato anche nei termini della 'regolazione sociale';221 questa

può essere definita come la gamma di diversi modi «in cui un determinato insieme

di attività o di rapporti fra attori viene coordinato, le risorse che vi sono connesse

vengono allocate, e i relativi conflitti, reali o potenziali, vengono strutturati (cioè

218COSTANZO RANCI, Doni ... cit., p. 377. 219 Ibidem, p. 3 78. 220SERGIO MANGHI, Altruismo ... cit., p. 455.

121

prevenuti o composti)».22= La regolazione sarà efficace se e nella misura in cui: i) la

produzione e riproduzione dei rapporti sociali avrà luogo in modo relativamente

stabile e ii) le risorse verranno allocate secondo modalità legittime e senza il ricorso

costante alla forza. Il processo di regolazione sociale va analizzato tenendo conto

della sua differenziazione: secondo il tipo di attività e/o di rapporti da considerare, si

potrà osservare una specifica forma di regolazione sociale o una combinazione di

qualcuna di esse. Possono pertanto prodursi relazioni e interdipendenze, anche

asimmetriche, tra sfere di attività governate da diverse forme di regolazione sociale.

Lange e Regini raccolgono dalla vasta letteratura esistente su tali argomenti223 quelli

che è possibile indicare come i tre principi di regolazione sociale: l'autorità o

controllo gerarchico, lo scambio nel mercato economico e politico, la solidarietà o

cooperazione basata su norme e valori condivisi. Si tratta di un'articolazione

concettuale che viene ripresa dagli studi di Karl Polanyi, il quale aveva delineato tre

forme di integrazione sociale, scambio, redistribuzione e reciprocità: «la reciprocità

sta a indicare movimenti tra punti correlati di gruppi simmetrici; la redistribuzione

indica movimenti appropriativi in direzione di un centro e successivamente

provenienti da esso; lo scambio si riferisce qui a movimenti bilaterali che si

svolgono tra due 'mani' in un sistema di mercato».224 Uno dei concetti centrali è

quello di embeddedness (incorporazione): reciprocità e redistribuzione

corrispondono, in modo diverso, all'incorporazione dell'economia nella società,

221PETER LANGE - MARINO REGINI, Gli interessi e le istituzioni: forme di regolazione sociale e politiche pubbliche, in IDO. (a cura di), Stato e regolazione sociale. Nuove prospettive sul caso italiano, Bologna, Il Mulino, 1987; pp. 9-41.

222/bidem, p. 13. 223Tale letteratura è puntualmente richiamata all'interno del saggio citato.

122

mentre lo scambio corrisponde all'incorporazione della società nell'economia. Va

osservato, tuttavia, che nonostante l'analisi di Polanyi metta a fuoco il tema delle

forme di integrazione di economia e società piuttosto che quello dell'integrazione

sociale, essa offre delle suggestioni stimolanti anche per la nostra problematica.

È possibile ricondurre - sia pure schematicamente - ad ognuno dei tre criteri di

regolazione un certo tipo di istituzione: Io stato ha incarnato il principio

dell'autorità, il mercato economico e il mercato politico quello dello scambio e le

comunità (sia tradizionali - famiglia, clan - che di tipo nuovo, come talune forme

di movimento sociale) quello della solidarietà.

Tale rappresentazione schematica va puntualizzata alla luce di due considerazioni:

1) nella realtà sociale possono emergere nuove istituzioni o alcune di quelle esistenti

possono acquisire rilievo, dando vita ad originali combinazioni di forme di

regolazione sociale: è il caso delle grandi associazioni organizzate gerarchicamente

nelle società occidentali avanzate, 225 che hanno portato sulla scena un nuovo criterio

di regolazione definibile come 'associativo', basato sulla 'concertazione inter- e

intra-organizzativa';

2) le istituzioni si basano «su un mix dei tre principi di regolazione. Ciò in cui le

istituzioni differiscono fra loro è la misura nella quale uno di questi principi le

caratterizza, perché costituisce il loro criterio dominante di regolazione o si è

storicamente 'incorporato' in esse come quello prevalente».226 Ciò consente di

rintracciare nelle istituzioni eventuali tracce dei vari principi regolativi anche lì

224KARL POLANYI, L'economia come processo istituzionale in ID. (a cura di), Traffici e mercati negli antichi imperi, trad. it., Torino, Einaudi, 1978, pp. 297-331; p. 306. Vedi anche ID., La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, (ediz. orig. 1944), trad. it., Torino, Einaudi, 1974.

225WOLFGANG STREECK- PIDLIPPE C. SCHMITTER, Comunità, mercato, stato e associazioni, trad. it. in «Stato e mercato», 13, 1985, pp. 47-86.

123

dove, a motivo di precomprensioni condizionanti presenti in chi osserva, non ci si

aspetterebbe: «il presupposto secondo cui certi criteri di regolazione sono 'impropri'

per talune istituzioni costituisce solo un giudizio di valore poco fondato

analiticamente». 221

L'istituzione stato interviene nella regolazione sociale perlopiù esercitando la sua

autorità, il cui fondamento ultimo è il monopolio della forza legittima: lo stato si

avvale, a tale scopo, di leggi e provvedimenti amministrativi che vincolano i

soggetti interessati. Ciò non toglie che nei decenni più recenti lo stato abbia fatto

uso anche di criteri di regolazione basati sullo scambio o sull'appello a norme

condivise nei casi in cui il ricorso all'autorità si sia rivelato insufficiente o

inadeguato.

Il mercato economico agisce sulla regolazione sociale, in linea di prmc1p10,

attraverso scambi che si svolgono m virtù di prezzi risultanti dall'incontro tra

domanda e offerta in condizioni di concorrenza dispersa. Se questo è il caso di un

mercato in condizioni idealizzate, nella realtà si ha sempre una certa dose variabile

di influenza di aspetti normativi e di autorità, sia dall'esterno che dall'interno stesso

del mercato.

Le istituzioni comunitarie attivano la regolazione sociale principalmente mediante

forme di solidarietà spontanea, radicate in norme, consuetudini e valori condivisi

nella comunità e che costruiscono condizioni di fiducia, reciprocità, rispetto;

oppure, tali forme di solidarietà possono trovare riferimento nelle regole e gerarchie

della comunità stessa. Questo perché l'appartenenza comunitaria può essere data

2261bidem, p. 18. 2271bidem.

124

dall'ascrizione o da processi di creazione di identità collettive. Anche nelle

comunità è possibile rintracciare rapporti di autorità e di scambio con funzioni di

supporto ai legami normativi.

Una quarta forma di regolazione è - come si è visto - quella che agisce per mezzo

dell '«uso pubblico degli interessi privati organizzati», 228 che vede protagoniste le

grandi associazioni di classe, settoriali e professionali che gestiscono, in regime di

monopolio o oligopolio, interessi funzionalmente definiti: 229 esse possono

influenzarsi a vicenda oppure influire sul mantenimento dell'ordine sociale,

ottenendo così riconoscimento da parte delle altre associazioni 'corporative' e

dell'autorità pubblica. Il meccanismo di funzionamento di questa forma di

regolazione sociale è la concertazione, che richiede una cooperazione strategica con

i poteri pubblici e, all'interno delle associazioni, un certo grado di consenso da parte

degli associati e/o un certo controllo gerarchico su di essi.

Le relazioni fra gli attori principali e secondari sono specifiche per ogni forma di

regolazione sociale: «in un ordine corporativo-associativo, gli attori sono

interdipendenti contingentemente o strategicamente», a differenza che nella

comunità dove essi sono interdipendenti, nel mercato in cui sono tendenzialmente

indipendenti e nello stato dove gli attori sono perlopiù dipendenti. 230

228/bidem. 229/bidem, p. 58. 230 Ibidem, p. 61.

CAPITOL02

CAPITOLO 2 - LA FILOSOFIA POLITICA CONTEMPORANEA E IL PROBLEMA DELLA CRISI DELLA CITTADINANZA MODERNA

2. O. Premessa

Le società occidentali contemporanee vivono una fase di mutamento sociale che non

è esagerato né enfaticamente retorico definire epocale perché tale è la portata dei

problemi sociali e politici a cavallo tra il XX e il XXI secolo. Tali sfide interpellano

in profondità diversi ambiti della ricerca scientifica e della produzione teorica.

Anche la filosofia politica sta contribuendo in modo significativo a questa

elaborazione, talvolta dialogando con la sociologia, la scienza della politica,

l'economia, la teoria giuridica.

All'interno di questo capitolo verrà compiuta una panoramica sui temi della

giustizia sociale e dell'uguaglianza (elementi cardine della cittadinanza moderna)

secondo alcuni dei filoni della filosofia politica contemporanea: utilitarismo,

liberalismo, neocontrattualismo, comunitarismo, marxismo, femminismo. Come si

vedrà, pur cogliendo numerosi spunti in grado di stimolare l'analisi sociologica,

sorgono talune difficoltà, principalmente dal fatto che il pensiero filosofico politico

contemporaneo rimane ancora interno alla modernità e alle sue logiche, non

riuscendo a osservare dall'esterno il suo oggetto di studio e le sue principali

categorie. La nostra sintesi ruoterà attorno ad alcuni interrogativi: a cosa può servire

- nel quadro di un'analisi sociologica su solidarietà sociale e cittadinanza -

approfondire filosoficamente i temi della giustizia sociale e politica? Con quali

127

modalità ed esiti le diverse teorie filosofico-politiche della giustizia postulano una

qualche uguaglianza - morale, politica, sociale - fra soggetti? Può esservi - e se

sì di che tipo -- un fondamento filosofico alla solidarietà sociale, orizzontale e

verticale, intesa normativamente come valore?

2.1. Alcune definizioni filosofiche classiche

Se si considera il panorama della filosofia dei classici, il concetto di giustizia ha

radici antiche e presenta una pluralità di elaborazioni che è possibile schematizzare

lungo due direttrici: la prima ha inteso la giustizia come comportamento conforme

alla legge o ad una norma pattuita (è la posizione, ad esempio, di Aristotele,

Hobbes, Kant, Kelsen); la seconda ha formulato il concetto di giustizia come

'efficienza della norma', focalizzando cioè la capacità di quest'ultima, in generale,

di rendere possibili i rapporti umani. 1 Le varie teorie della giustizia che hanno

assunto e sviluppato la seconda prospettiva, pongono fini diversi all'efficienza delle

norme che regolano il comportamento intersoggettivo: sulla concezione di giustizia

come strumento per una pacifica convivenza Platone è il primo ad esprimersi. Molto

spesso la giustizia delle leggi è stata valutata verificando se esse consentivano di

ottenere e mantenere un certo valore ultimo: felicità (Aristotele, S. Tommaso),

utilità (sofisti, Carneade, Hume), libertà (Kant), pace (Hobbes, Kelsen).

L'efficienza della norma è stata talvolta intesa come fanzionalità negativa,

valutando cioè la capacità della norma di evitare i conflitti. Ma il giusnaturalismo si

era espresso in termini più generali, sostenendo che le norme del diritto naturale

128

dovessero regolare tutte le situazioni della condizione umana, sia desiderabili che

indesiderabili, compresi la guerra o il conflitto. Due sono allora i criteri che è

possibile indicare per fondare un giudizio oggettivo su un ordinamento normativo:

l'eguaglianza come reciprocità e l 'autocorreggibilità. Hegel, dal canto suo, con la

concezione dello stato come Dio che si è realizzato nel mondo, nega la possibilità di

discutere l'ordinamento giuridico sotto qualsiasi aspetto.

La giustizia non è definibile sulla base di evidenze empiriche, essendo un concetto

normativo, caratterizzato essenzialmente, cioè, come fine sociale e di natura morale.

Come definirla, allora, in termini descrittivi? Essa viene talvolta equiparata alla

legalità, all'imparzialità, all'egualitarismo, che però sono cose diverse dalla

giustizia, poiché 'giusto' non è sinonimo di 'uguale', né di 'legittimo' o di

'imparziale'. La giustizia va quindi considerata come «nozione etica fondamentale e

non definita».2

Vi è differenza tra un'azione giusta e una moralmente buona? Sia per Platone che

per Aristotele la seconda era sinonimo della prima. Hart giudica più appropriato

parlare di giustizia in ordine alle condizioni di classi di individui,3 mentre la

valutazione della bontà morale e della moralità attengono più specificamente le

azioni dei singoli individui. Per Rawls il terreno di applicazione delle giustizia inizia

lì dove si hanno rivendicazioni contrastanti su una certa attività e dove ognuno

avanza pretese circa ciò che ritiene essere proprio diritto.4 Anche Hume aveva

1Cfr. NICOLA ABBAGNANO, Giustizia in ID., Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 19772, pp. 438-40.

2Cfr. FELIX E. OPPENHEIM, Giustizia trad. it. in NORBERTO BOBBIO - NICOLA MA TIEUCCI - GIANFRANCO PASQUINO Dizionario di politica, Torino, Utet, 1976, pp. 437-42.

3HERBERT L. A. HART, Il concetto di diritto, trad. it., Torino, 1965. 4JOHN RA WLS, Una teoria della giustizia, ( ediz. orig. 1971 ), trad. it., Milano, Feltrinelli, 1982.

129

sostenuto che le questioni di giustizia trovano ongme nell'auto-interesse degli

individui e nella scarsità delle risorse disponibili.

La filosofia politica moderna è pervenuta a due accezioni del concetto di giustizia:

la giustizia formale o legalità (conformità di un'azione alle norme) e la giustizia

sostanziale (attribuzione di benefici e/o oneri secondo similarità o diversità di

caratteristiche personali e sociali che giustifichino un trattamento rispettivamente

simile o differenziato). Se la prima accezione trova un grosso ostacolo nei limiti del

proceduralismo della formazione della norma (è possibile che esistano norme

ingiuste), la seconda rinvia al problema della determinazione di uno standard

generale di giustizia sostanziale (egualitarismo, meritocrazia, mercato ... ). Non è

infrequente il caso in cui si abbia un conflitto fra l'applicazione della giustizia

formale e quella della giustizia sostanziale o fra i vari standard di giustizia

sostanziale. È pensabile, per dirimere o almeno orientare la gestione di tali conflitti,

una metaetica della giustizia? Su questo terreno si sono confrontate due prospettive:

la scuola cognitivista e quella noncognitivista; all'interno della prima si sono

sviluppati due orientamenti: intuizionismo e naturalismo. Gli intuizionisti

sostengono la dimostrabilità della verità di principi morali e, in particolare, di

principi di giustizia sostanziale sulla base dell'intuizione sia morale (ad esempio,

Platone) che religiosa (ad esempio, S. Agostino) che razionale (ad esempio, S.

Tommaso d'Aquino). Per i naturalisti le norme della giustizia sostanziale vengono

derivate da generalizzazioni empiriche o teleologiche (per esempio, Aristotele) o da

definizioni descrittive da termini etici (ad esempio, Bentham). Per i non-cognitivisti

(come Hobbes, ma anche Hume e Kelsen) la coppia giusto/ingiusto equivale alla

130

coppia legale/illegale e tematizzare la giustizia ha senso solo in questa direzione:

essa sorge con il contratto sociale, essendo lo stato di natura caratterizzato dal

bellum omnium contra omnes. Affermazioni circa la giustizia di un diritto o di

un'azione non sono altro che giudizi di valore emessi su base emotiva e dunque

soggettivi. La scelta metaetica di fondo sembra dunque rinviare ad assunzioni di

responsabilità decise in rapporto a fini sociali, fra i quali la giustizia, potenzialmente

contrastanti.

2.2. Prospettive della filosofia politica contemporanea

La filosofia politica contemporanea ha prodotto, soprattutto negli ultimi trent'anni,

diverse teorie sulla giustizia e sulla società libera o buona; in alcuni casi si è avuta

l'elaborazione di prospettive nuove (come nel caso del femminismo), in altri la

rivisitazione e lo sviluppo di temi già affrontati in precedenza (come gli studi di

Nozick sulla teoria dei diritti naturali di Locke ). Uno dei risultati più significativi

consiste nella obsolescenza delle tradizionali chiavi di lettura delle teorie filosofico-

politiche, a cominciare dalla loro collocazione lungo il continuum destra-sinistra. Vi

sono parecchie questioni di 'competenza' della teoria politica che però sono state

oggetto di ampia sottovalutazione, tanto da destra quanto da sinistra: basti pensare ai

temi connessi all'eguaglianza sessuale. Così anche per il giudizio politico sulle

istituzioni politiche, sulle tradizioni storiche e le pratiche culturali: secondo i

comunitaristi, sia destra che sinistra tendono a valutarle in base a principi astorici,

131

mentre - secondo il loro punto di vista - un tale giudizio non può essere elaborato

che dall'interno della propria appartenenza istituzionale.

Un altro limite, più generale, della visione tradizionale m filosofia politica è il

ritenere che ogni teoria, avendo un proprio valore ultimo fondante, sia in ultima

istanza inconciliabile con le altre. In realtà, dal succedersi di diverse teorie politico-

normative sembra emergere che vi è più di un solo valore ultimo fondante, e che,

pertanto, libertà ed eguaglianza non si escludono reciprocamente: «si dà per

scontato che ogni nuova teoria faccia appello a un valore ultimo diverso. Così si

dice che come le vecchie teorie facevano appello all' 'uguaglianza' (socialismo) e

alla 'libertà' (liberismo), le teorie politiche attuali fanno appello ai valori ultimi

dell' 'accordo contrattuale' (Rawls ), del 'bene comune' (com unitarismo),

dell' 'utilità' (utilitarismo), dei 'diritti' (Dworkin) o dell' 'andro ginia' (femminismo).

In tal modo ci troviamo ad avere un numero sempre più elevato di valori ultimi tra i

quali non può darsi nessun confronto razionale. Sennonché questa esplosione di

potenziali valori ultimi costituisce evidentemente un problema serio per l'intero

progetto di sviluppare un'unica teoria comprensiva della giustizia [ ... ]. Certamente

la sola risposta sensata a questa pluralità di valori ultimi proposti è quella di

rinunciare all'idea di costruire una teoria 'monistica' della giustizia. Voler

subordinare tutti gli altri valori a un unico valore dominante sembra una scelta quasi

fanatica». 5 Se si accetta questa sfida - e il presupposto della irriducibilità dei valori

fondanti - il problema da affrontare diviene la ricerca delle modalità di

integrazione delle teorie. Ciò significa che il massimo risultato ottenibile sarebbe

5WILL KYMLICKA, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, ( ediz. orig. 1990), trad. it., Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 11-12.

132

non già una teoria integrata e unitaria, ma soluzioni elaborate per singoli casi o,

tutt'al più, per questioni di portata limitata. Ronald Dworkin ha suggerito l'idea

secondo la quale le teorie politico-normative della giustizia hanno un non

trascurabile fondamento valoriale comune, l'eguaglianza intesa come eguale

considerazione che va riservata agli interessi di tutti: a ben vedere, infatti, non vi è

teoria della giustizia che - in modo esplicito o implicito - non riconosca tale valore

e la diversità e il conflitto fra le teorie sorge sul contenuto dell'uguaglianza, non già

sul principio generale: <mna teoria che negasse ad alcune persone il diritto a

un'uguale considerazione da parte del governo, o che annettesse loro un'importanza

inferiore a quella riconosciuta alle altre, nel mondo moderno verrebbe

immediatamente respinta dalla grande maggioranza delle persone».6 Dworkin - e

Kymlicka con lui - è dunque dell'idea che l'uguaglianza faccia ormai parte, in

modo irreversibile, del nucleo valoriale di tutte le moderne teorie politico-normative

della giustizia e che i conflitti tra le teorie vertano non tanto sulla qualificazione

della uguaglianza come valore, ma sulla sua interpretazione.

In una riflessione in ordine alla giustizia non si può non considerare,

preliminarmente, il problema dei rapporti tra filosofia morale (che si occupa della

individuazione di criteri morali per le azioni individuali) e filosofia politica (uno dei

cui scopi precipui è la trattazione di questioni di etica pubblica). A tale proposito

Kymlicka cita N ozick, secondo il quale «la filosofia morale rappresenta lo sfondo e

stabilisce i confini della filosofia politica. Ciò che le persone possono o non possono

fare l'una all'altra riduce ciò che possono fare mediante l'apparato di uno stato,

oppure per costituire tale apparato. Le proibizioni che è ammissibile imporre sono la

6/bidem, pp. 12-13.

133

fonte di qualsiasi legittimità del fondamentale potere di coercizione dello stato». 7 Da

ciò consegue che anche le interpretazioni individuali delle proprie responsabilità

pubbliche devono inserirsi armonicamente in un «quadro morale più ampio» in cui

trovino senso le proprie responsabilità private.8 (Ciò può essere un problema per le

v1s1om utilitaristiche della giustizia). Peraltro, è vero anche l'inverso:

l'interpretazione degli obblighi personali deve considerare i valori di base delle

istituzioni politiche: democrazia, uguaglianza e tolleranza. Valori, questi, non

esplicitati nell' 'etica della cura' elaborata dal pensiero femminista. Dunque il

rapporto tra filosofia morale e filosofia politica è variamente assunto, e rimane

comunque problematico.

Una teoria politico-normativa della giustizia avrà successo - nel senso di offrire un

contributo convincente alla comprensione delle condizioni necessarie alla giustizia

- nella misura in cui porterà a conclusioni coincidenti con le nostre intime

convinzioni sull'argomento, contribuendo a illuminarle: una teoria contrastante con

tali convinzioni difficilmente potrà essere accettabile. Tuttavia è un fatto che

l'elemento intuitivo risenta anch'esso di una variegata collocazione all'interno dei

vari orientamenti della filosofia politica. Se però si accetta il punto di vista in base al

quale la filosofia politica «è materia di argomentazione morale, e l'argomentazione

morale non può evitare di fare appello alle nostre convinzioni ponderate [ ... ] [che]

possono essere giuste o sbagliate» e che possono essere organizzate in princìpi

morali e in teorie della- giustizia, «un obiettivo centrale della filosofia politica,

quindi, è quello di valutare le teorie alternative della giustizia ossia di controllare la

7ROBERTNOZICK, Anarchia, Stato e Utopia, trad. it., Firenze, Le Monnier, 1981, p. 5. 8Cfr. WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 15.

134

forza e la coerenza degli argomenti con cui cercano di suffragare la correttezza delle

loro posizioni».9

2.2.1. L'utilitarismo

L'utilitarismo è la teoria filosofico-normativa moderna che, pnma m ordine di

tempo, abbia tentato di disegnare organicamente un quadro di riferimento per la

moralità sia individuale che collettiva. La sua influenza è stata ed è talmente

profonda da far ritenere a John Rawls - cui si deve la teoria che ha segnato uno

spartiacque nella filosofia politica contemporanea che s1 dovesse

necessariamente partire ·dalla discussione dell'utilitarismo per avanzare una

prospettiva che ne consentisse il superamento. 1° Che cos'è la giustizia secondo

l'utilitarismo? «L'utilitarismo nella sua formulazione più semplice, sostiene che

l'azione o la politica moralmente giusta è quella che produce maggiore felicità per i

membri della società». 11 Nell'immaginario comune delle società contemporanee, il

termine evoca forme irrefrenabili di egoismo e individualismo, la riduzione anche

delle relazioni interpersonali o di quelle istituzionali a puro mezzo di

soddisfacimento dell'interesse particolare. Nella formulazione . . . onginana,

l'utilitarismo ha un intento progressista, di critica dell'ordine esistente e di riforma

sociale; l'utilitarismo contemporaneo ha sviluppato diversi filoni e orientamenti,

alcuni con significative divergenze teoriche. 12 Esso presenta alcune innegabili

91bidem, p. 16. 10Tale prospettiva è delineata nella nota opera Una teoria ... cit. IIWILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 19. 12Cfr. FRANCESCO ALBERONI - SALVATORE VECA, L'altruismo e la morale, Milano, Garzanti, 1988; WILL

KYMLICKA, Introduzione ... cit., pp. 60-61.

135

attrattive: i) l'obiettivo degli utilitaristi «non dipende dall'esistenza di Dio e

nemmeno da quella dell'anima o di qualche altra dubbia entità metafisica», 13 il bene

che esso cerca di promuovere in modo imparziale è l'utilità o il benessere umano

per tutti i membri della società: ii) consequenzialismo: è giusta un'azione o una

politica le cui conseguenze sono chiaramente identificabili come positive, nel senso

che migliorano la vita di qualcuno. In sintesi, è possibile enucleare due capisaldi

della visione utilitaristica: l'importanza del benessere umano all'interno della teoria

filosofico-normativa e l'idea che le regole morali vanno valutate in base alle loro

conseguenze sul benessere umano. L'argomentazione fondamentale dell'utilitarismo

procede, infatti, dando una definizione del benessere umano o dell' 'utilità' (come

edonismo del benessere o come stato mentale non edonistico o come soddisfazione

delle preferenze o, ancora, come soddisfazione delle preferenze informate cioè

razionali) e indicando i modi per massimizzare tale utilità, attribuendo pari rilevanza

all'utilità di ogni persona.

Il problema più consistente della concez10ne utilitaristica è situato all'interno

dell'imperativo di massimizzazione dell'utilità, posto che le diverse possibili

definizioni di utilità non hanno un'influenza decisiva sull'impianto generale della

teoria. Tale imperativo corrisponde alla «interpretazione migliore della nostra

intuitiva adozione del 'consequenzialismo'?». 14 Sembrerebbe di no, posto che le

preferenze delle persone saranno quasi sempre maggiori e fra loro divergenti

rispetto a risorse scarse- per definizione. Fra l'altro soddisfare le preferenze di

qualcuno potrebbe sì massimizzarne l'utilità ma potrebbe anche comportare la

13WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 20. 141bidem, p. 30.

136

mortificazione dell'utilità complessiva o viceversa. L'ostacolo potrebbe essere

superato puntando a quelle soluzioni in grado di garantire effettivamente l'utilità al

maggior numero possibile di preferenze espresse dalle persone. In realtà, osserva

Kymlicka, i problemi sono ben altri: «la procedura decisionale utilitaristica presta il

fianco a due obiezioni principali: in primo luogo non tiene conto degli obblighi

speciali che abbiamo verso particolari persone e, in secondo luogo, tiene conto di

preferenze di cui non si dovrebbe tenere conto». 15

Per obblighi speciali si intendono quelli assunti nei confronti di familiari, amici,

creditori o persone a cui si è promesso qualcosa in cambio di altro: verso tali

obblighi ci sentiamo moralmente impegnati, anche a prescindere dalla valutazione

dell'utilità che potrebbe portarci a sottrarci a tali impegni.

Le preferenze illegittime sono, «sì 'irragionevoli' dal punto di vista della giustizia,

ma non sono necessariamente 'irrazionali' dal punto di vista dell'utilità di un

individuo». Escluse quindi le preferenze non informate, potrebbero aversi

preferenze che producono una qualche utilità reale pur negando diritti di altri

soggetti: «ove si tenga conto di questo tipo di utilità, il risultato può essere una

politica di discriminazione nei confronti delle minoranze impopolari». Tuttavia, «la

nostra moralità corrente ci dice che queste preferenze sono ingiuste e che non se ne

deve tener conto». 16

Si tratta di una posizione rifiutata dagli utilitaristi, i quali ritengono che «prima del

calcolo dell'utilità non esiste nessun criterio che valga a stabilire che cosa

'legittimamente' appartenga a una persona. A determinare che cosa sia

15 Ibidem, p. 33. 16/bidem, p. 39.

137

legittimamente mio è una qualsiasi distribuzione che massimizzi l'utilità, sicché è

per definizione impossibile che degli atti di massimizzazione dell'utilità mi privino

di ciò che legittimamente mi appartiene». 11 Ciò significherebbe attribuire un peso

morale a ogni fonte di utilità o dover sempre considerare tutti i tipi di preferenze: è,

questa, la posizione degli 'utilitaristi dell'atto'. Per gli 'utilitaristi della regola', il

test dell'utilità va compiuto sulle regole, ritenendo che l'azione giusta è quella

prescritta dalle migliori regole: queste comprendono anche la regola di mantenere le

promesse, tutelare i rapporti speciali, rispettare i diritti. La violazione di tali obblighi

in forza del calcolo dell'utilità ostacolerebbe la cooperazione sociale e

intaccherebbe i valori della vita umana e della libertà, portando ad una diminuzione

dell'utilità. Si potrebbero inoltre verificare abusi della possibilità di tradire le

promesse e di operare discriminazioni inaccettabili in vista del bene pubblico.

Ma, in realtà, l'utilitarismo della regola finisce con il perdere di vista i torti subiti da

chi ha visto tradire la promessa fattagli o da chi è stato discriminato nei suoi diritti.

Mantenere le promesse e rispettare i diritti di tutti sono infatti da considerare

requisiti morali prioritari e non meri strumenti di massimizzazione dell'utilità a

medio e lungo termine. Anzi, ciò ribadisce «la critica che gli agenti U [moralmente

responsabili cercando la massima utilità] vedono nel riconoscimento degli obblighi

speciali qualcosa che non solo non precede la massimizzazione dell'utilità, ma ne

dipende». 18

Dalla diversità scaturita dalla differenziazione interna all'utilitarismo deriva anche

una notevole eterogeneità delle sue conseguenze pratiche. Basterà ricordare come

17/bidem, p. 40. 18/bidem, p. 43.

138

principi utilitaristici siano stati alla base anche dell'edificazione dei moderni sistemi

di welfare state; altre voci richiamantesi alla medesima dottrina propendono tuttavia

per il laissez-faire capitalistico. Ciò che ne risulta, secondo Kymlicka, è che

«l'utilitarismo non si presenta più come il linguaggio corretto del dibattito politico

[ ... ] a dispetto delle sue ascendenze radicali, [ ... ] non è più in grado di definire una

posizione politica univoca», 19 come era stato al suo sorgere nella Gran Bretagna del

Settecento.

2.2.2. Il liberalismo

Tra gli autori più rappresentativi delle teorie liberali della giustizia prenderemo in

esame J ohn Rawls, Ronald Dworkin, Sebastiano Maffettone, Amartya K. Sen. 20

Rawls ha elaborato la sua teoria della giustizia come equità allo scopo di creare

un'alternativa sistematica sia all'utilitarismo che a ciò che egli definisce come

'intuizionismo', composto da un insieme disordinato di idee e principi intuitivi

antiutilitaristici su un numero limitato di questioni, un insieme di intuizioni cui

occorre dare un senso: ciò può essere fatto tentando di costruire una scala di priorità

quando i precetti contrastino tra loro. 21 A tali istanze cerca di rispondere la teoria di

Rawls. Come è noto, essa si basa su un'idea generale di giustizia secondo la quale

«tutti i beni sociali principali - libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi

per il rispetto di sé - devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una

19 Ibidem, p. 61. 20In realtà il liberalismo comprende un'ampia serie di posizioni con sfumature diverse, tanto che si è parlato

di «una famiglia di diversi liberalismi» (SEBASTIANO MAFFETIONE, Fondamenti filosofici del liberalismo, in RONALD DWORKIN - SEBASTIANO MAFFETIONE, I fondamenti del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 128).

139

distribuzione ineguale di uno o più di questi beni non vada a vantaggio dei meno

avvantaggiati». 22 La concezione generale di giustizia è collegata alla equa

distribuzione dei beni sociali, l'uguaglianza va raggiunta mediante la rimozione

delle sole disuguaglianze che svantaggiano qualcuno.

Questa formulazione generale ha bisogno di essere integrata in modo da consentire

di affrontare il problema del possibile conflitto fra i vari beni da distribuire. Rawls

propone di articolare così la concezione generale:

<<Primo principio - Ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di

eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per

tutti. Secondo principio - Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere:

a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il

principio di giusto risparmio, e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in

condizioni di equa eguaglianza di opportunità. Prima regola di priorità (la priorità

della libertà) - I principi di giustizia devono essere ordinati lessicalmente, e quindi

la libertà può venir limitata solo in nome della libertà stessa. [ ... ] Seconda regola di

priorità (la priorità della giustizia rispetto all'efficienza e al benessere) - Il

secondo principio precede lessicalmente il principio di efficienza e quello della

massimizzazione della somma dei vantaggi, l'equa opportunità precede il principio

di differenza». 23

Kymlicka così sintetizza la formulazione rawlsiana: «l'uguaglianza delle libertà ha

la precedenza sull'uguaglianza delle opportunità e questa ha la precedenza

sull'uguaglianza delle risorse. Ma all'interno di ognuna di queste categorie vale la

21JOHN RAWLS, Una teoria ... cit. 221bidem, pp. 255-56.

140

semplice idea rawlsiana che una disuguaglianza è ammessa solo se va a vantaggio di

chi sta peggio. Così le regole di priorità non interferiscono con il principio

fondamentale dell'equità che continua a valere all'interno di ogni categoria».24

A sostegno della sua tesi, Rawls avanza due argomenti: l'uguaglianza delle

opportunità - in sintonia con le più diffuse intuizioni ponderate sulla giustizia - e

il fondamento contrattualistico dei principi rawlsiani di giustizia, i quali

risulterebbero dalle scelte degli individui nella 'posizione originaria'.

L'uguaglianza delle opportunità viene ammessa da Rawls a condizione che le

posizioni di vantaggio siano tali da recare beneficio anche ai più svantaggiati; essa

si basa innanzitutto sull'assenza di discriminazioni giuridiche; oggi, inoltre, si

sottolinea parecchio la necessità di azioni positive ('affirmative actions') che

promuovano i gruppi svantaggiati. A questi aspetti, secondo Rawls, andrebbe

aggiunta anche la distribuzione di talenti naturali, neanch'essa frutto di scelte o

azioni consapevoli delle persone. Circostanze sociali e doni naturali sono parimenti

immeritati. Per Dworkin ciò è sufficiente a definire 'fraudolenta' la concezione di

giustizia come uguaglianza di opportunità, poiché la visione prevalente di questa

tiene conto soltanto delle differenze di situazioni sociali, ignorando quelle relative ai

talenti naturali oppure considerandole frutto di scelte individuali: «se siamo

veramente interessati a rimuovere le disuguaglianze immeritate, allora la tesi

prevalente dell'uguaglianza delle opportunità è inadeguata».25

Rawls sostiene (principio di differenza) che beneficiare dei propri doni naturali e

delle proprie condizioni sociali di partenza sarà giusto nella misura in cui ciò porterà

23 Ibidem, p. 255. 24WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 67.

141

benefici anche per i meno avvantaggiati: solo a queste condizioni è possibile

accettare il principio dell'uguaglianza delle opportunità. Resta tuttavia non chiaro,

per Kymlicka, il motivo per cui il principio di differenza di Rawls si applica a tutte

le disuguaglianze e non solo a quelle originate da fattori moralmente arbitrari

(circostanze sociali e talenti naturali). 26

Il secondo e principale argomento di Rawls è quello relativo al contratto sociale. Di

norma, osserva Kymlicka, gli argomenti attinenti il contratto sociale sono ritenuti

deboli, perché ipotizzano uno stato di natura precedente ad ogni forma di autorità

politica, dove ognuno è isolato dagli altri: un insieme di individui atomizzati senza

che vi sia una società, nemmeno ad un livello minimo. Tutti i contrattualisti - tra i

quali Hobbes, Locke, Kant, Rousseau - sono stati criticati per avere elaborato

teorie a partire da presupposti (lo stato di natura e il contratto sociale) che non sono

mai realmente esistiti. In realtà, pensare lo stato di natura non equivale a individuare

una tesi storica o antropologica, ma è <<Una tesi morale che esclude ogni forma di

subordinazione naturale tra gli esseri umani».27 Rawls si pone in questa prospettiva

nel formulare l'idea della 'posizione originaria', una «condizione puramente

ipotetica, caratterizzata in modo tale da condurre a una certa concezione della

giustizia».28 La differenza consiste nel fatto che la posizione originaria di Rawls,

rispetto al tradizionale stato di natura, è una «posizione iniziale di uguaglianza»,

incluse le dotazioni di capacità naturali. 29 Ed essa è tale per opera di un 'velo di

ignoranza' che impedisce ad ognuno di conoscere la propria posizione sociale, i

25 Ibidem, p. 70. 26 Ibidem, p. 72. 27Ibidem, p. 74. 28JOHN RAWLS, Una teoria ... cit., p. 28. 29Ibidem, p. 20.

142

propri talenti naturali, la propria concez10ne del bene, le proprie propens1om

psicologiche. In tal modo potranno essere correttamente prescelti i principi di

giustizia mediante una 'contrattazione equa': Rawls ritiene che, in tali condizioni,

verrebbe scelto il principio di differenza. Come si arriva a questo? Protetti, per così

dire, dal velo di ignoranza, gli individui tenderanno a scegliere ciò che può rendere

felice la loro vita, una 'vita buona': 1) beni principali sociali (reddito, opportunità e

poteri, diritti e libertà); 2) beni principali naturali (salute, intelligenza, vigore fisico,

immaginazione e talenti naturali). La scelta razionale da compiere è dettata dalla

strategia del 'maximin', che consiste nel massimizzare ciò che si otterrebbe se ci si

trovasse nella posizione minima.

Una delle principali obiezioni alla teoria rawlsiana consiste nel sottolineare come la

descrizione della posizione originaria sia costruita in vista del principio di differenza

che il suo Autore intende dimostrare. Rawls si difende, sostenendo che tale

descrizione è giustificata dall'esigenza di individuare principi in linea con le nostre

convinzioni ponderate sulla giustizia, decidendo se e in che misura modificare la

descrizione medesima o le nostre convinzioni-intuizioni.

C'è da osservare, però, che in questa maniera l'argomento intuitivo dell'uguaglianza

delle opportunità e quello del contratto cessano di essere indipendenti, e il secondo

cessa di essere decisivo per porsi semplicemente a sostegno del primo, in linea, del

resto, con l'intento iniziale manifestato da Rawls di aprire una strada oltre la

strettoia dell'utilitarismo e dell'intuizionismo disorganico.

Tra i problemi interni alla concezione di Rawls, Kymlicka nota che solo le

disuguaglianze sociali sono impiegate per definire la posizione peggiore e sono

143

quindi soggette alla compensazione del principio di differenza, mentre gli svantaggi

naturali non devono influire sulla distribuzione che deve avvenire secondo

l'uguaglianza di opportunità. Si ha pertanto, secondo Kymlicka, una duplice

instabilità della teoria. Parificare il trattamento delle disuguaglianze naturali a quello

delle disuguaglianze sociali - come ci suggerisce una concezione intuitiva di

giustizia - non è affatto semplice, forse impossibile. Rawls, peraltro, non ritiene

desiderabile una siffatta politica sociale.

Si pone inoltre il problema della disuguaglianza provocata da differenze originate da

scelte personali. Pur partendo da una uguaglianza di dotazioni di beni principali può

darsi che, per via di diverse scelte personali, gli individui conseguano disuguali

livelli di benessere. Tale disuguaglianza, secondo il principio di differenza di Rawls,

sarebbe accettabile solo se il soggetto meno avvantaggiato potesse trame qualche

beneficio: viceversa, andrebbe trasferita una quota di benessere dall'avvantaggiato

allo svantaggiato. Ciò però va contro una concezione intuitiva di giustizia (ognuno è

responsabile dei costi delle proprie scelte). Sebbene Rawls ribadisca che il principio

di differenza va applicato alle disuguaglianze nella dotazione di doni naturali e a

quelle prodotte da circostanze sociali e che ognuno è responsabile dei costi delle

proprie scelte, la formulazione del principio di differenza non contiene la distinzione

tra disuguaglianze non scelte e disuguaglianze scelte. Peraltro, si è già visto come i

beni principali naturali sono esclusi dall'elenco da impiegare per determinare chi si

trova svantaggiato.

Ronald Dworkin ha ripreso da Rawls l'idea di un sistema distributivo 'ambizioni-

dipendente' e 'doti-indipendente' - ciò che lo stesso Rawls, pur riconoscendo la

144

necessità di entrambi i principi, non ha compiutamente incluso nel suo 'principio di

differenza' - che utilizza il meccanismo dell'asta pubblica per dare ad ognuno

eque possibilità di scelta e di un sistema assicurativo per premunirsi contro il rischio

di essere colpiti da svantaggi naturali, posto che le disuguaglianze derivate da

svantaggi naturali non possono essere ignorate né totalmente eliminate: il sistema

assicurativo, in tal senso, rappresenta la «seconda soluzione migliore».30

L'asta pubblica consente di assegnare a persone pari fra loro - per talenti naturali e

per 'potere iniziale d'acquisto' - le risorse preferite da ognuno rispetto ai propri

progetti e desideri e nessuno aspirerà al pacchetto di beni scelto dagli altri : se ciò

accade, sarà superato quello che Dworkin definisce il test dell'invidia, il quale

«esprime la visione ugualitaria liberale della giustizia nella sua forma più

difendibile. Se si potesse attuarla perfettamente, si conseguirebbero i tre obiettivi

principali della teoria di Rawls: rispetto dell'uguaglianza morale delle persone,

mitigazione degli effetti degli svantaggi moralmente arbitrari e accettazione delle

responsabilità delle proprie scelte».31

Rimane tuttavia il problema - non risolvibile mediante l'asta di cui sopra - della

compensazione degli svantaggi naturali. Dworkin propone a tale scopo il modello

assicurativo da applicare concretamente attraverso il sistema fiscale, che opera

attraverso forme di prelievo e redistribuzione di flussi monetari: anche in questo

caso si tratta della seconda migliore soluzione possibile, poiché taluni svantaggi

naturali non sono compensabili con risorse sociali: «non c'è somma di denaro che

possa consentire a una persona gravemente svantaggiata di avere una vita felice

30RONALD DWORKIN, Whal is Equality? Pari I: Equality of Welfare; Pari Il: Equa/ity of Resources, in «Philosophy and Public Affairs», 10/3-4, pp. 185-246, 283-345.

145

come ·quella delle altre. L'uguaglianza completa delle condizioni di vita è

impossibile».32 Dworkin, a tale riguardo, ritiene che una distribuzione ambizioni-

dipendente e doti-indipendente contenga due tendenze opposte, ognuna delle quali

può essere perseguita a scapito dell'altra: nessuna delle due esigenze potrà essere

compiutamente soddisfatta. Ci si trova in mezzo a un dilemma cruciale: le

disuguaglianze naturali non possono essere totalmente compensate, tuttavia non

possono nemmeno essere ignorate né sottovalutate. Dworkin propone di svolgere

l'asta pubblica fra persone che, ignorando la propria dotazione di talenti/svantaggi

naturali, destinino una quota delle loro risorse iniziali ad un'assicurazione contro il

rischio di trovarsi svantaggiati da questo punto di vista: il sistema fiscale, come

detto, è il meccanismo di regolazione di tale schema assicurativo. Si eviterà così sia

l'abbandono al proprio destino delle persone con svantaggi naturali sia la 'schiavitù

delle persone di talento' che si avrebbe ove si volessero compensare totalmente le

disuguaglianze naturali con risorse sociali, cioè con premi assicurativi molto elevati:

paradossalmente, le persone più dotate riceverebbero minore considerazione di

quelle meno dotate. Non rimane altro, secondo Dworkin, che adottare il sistema

dell'asta pubblica e delle assicurazioni, come seconda migliore soluzione possibile.

Kymlicka ritiene che la conclusione cui approda Dworkin sia «piuttosto deludente»,

poiché «i suoi vantaggi teorici non hanno riscontri pratici»:33 è impossibile misurare

vantaggi e svantaggi relativi delle persone in quanto questi sono il risultato sia dei

talenti naturali che delle scelte compiute ed è alquanto arduo distinguere le

differenze che trovano origine nei primi da quelle derivate dalle seconde. La stessa

31WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 93. 321bidem, p. 95.

146

qualificazione dei talenti naturali come vantaggi e svantaggi, lungi dall'essere

assoluta e universale, risente del carattere storico-culturale di una società. Può finire

così che, come spesso accade nei sistemi burocratizzati di welfare state, «tassiamo i

ricchi, anche se alcuni sono diventati tali grazie ai loro sforzi e non ai vantaggi

naturali; soccorriamo i poveri, anche se alcuni [ ... ] sono tali per scelta e non a causa

di svantaggi naturali. Alcune persone, quindi avranno una copertura inferiore a

quella che in via ipotetica avevano acquistato, solo perché ora, grazie alla costanza

dell'impegno, fanno parte delle categorie dal reddito più elevato. Altre, al contrario,

avranno una copertura superiore a quella che meritano, solo perché vivono secondo

stili di vita più dispendiosi».34 Ma è comunque la migliore soluzione concretamente

applicabile, data la distanza tra ideale e realtà concreta.

Nonostante i suoi limiti, «la teoria di Dworkin è importante. La sua idea di un test

dell'invidia coglie e pone in rilievo che cosa voglia dire per uno schema distributivo

soddisfare gli obiettivi fondamentali della teoria di Rawls: realizzare uno schema

distributivo che rispetti l'uguaglianza morale delle persone prevedendo dei

compensi per le situazioni di svantaggio, ma rendendo nondimeno gli individui

responsabili delle proprie scelte. La realizzazione di queste idee può essere affidata

a un apparato più funzionale della miscela di aste, schemi assicurativi e prelievi

fiscali elaborata da Dworkin. Ma chi è d'accordo sulle premesse fondamentali della

sua proposta riconoscerà che egli ha contribuito a chiarirne le conseguenze sul

terreno della giustizia distributiva».35

33 Ibidem, p. 1O1. 341bidem, p. 100. 35 Ibidem, pp. 1O1-02.

147

Rimangono poco approfondite - tanto nella teoria di Rawls che in quella di

Dworkin - le conseguenze pratiche: non ci si può limitare, nelle società avanzate, a

compensare monetariamente le disuguaglianze, come in parte avviene per mezzo

dello stato sociale, ma occorre intervenire a monte, modificando i meccanismi

sociali ed economici che producono le disuguaglianze. È l'idea rawlsiana di una

'democrazia a proprietà privata»,36 che tuttavia rimane solo accennata, offrendo il

fianco ad accuse di disimpegno dalle questioni fattuali di giustizia o di apologia

dell'esistente. L'opinione di Kymlicka è che «il rapporto tra teoria liberale

contemporanea e prassi politica liberale tradizionale risulta alquanto oscuro. Le due

cose sembrano percorrere, per molti versi, strade separate». 37

La posizione di Sebastiano Maffettone getta un ponte verso alcune sollecitazioni dei

comunitaristi al liberalismo.38 Egli individua un punto debole nella concezione

comunitarista nel fatto che non si può sostenere filosoficamente che tutte le forme di

comunità siano intrinsecamente accettabili sotto il profilo etico e simili sotto quello

teorico-filosofico: mafia, partiti politici, famiglia, sette segrete eccetera non sono

certo la medesima cosa. La sua posizione è parimenti critica verso le teorie

soggettivistiche dei valori, fra cui in particolare quella basata sul concetto di

razionalità intesa come massimizzazione dell'auto interesse, in quanto inadeguate ad

affrontare il problema di una filosofia dei valori comuni e, più in generale, a

«valutare e criticare nell'ambito del ragionamento morale» ;39 se «l'etica deve servire

come guida per l'azione» non avrebbe senso affidare a sentimenti e stati d'animo

36JOHN RA WLS, Una teoria ... cit., p. 233. 37WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. l 08. 38SEBASTIANO MAFFETIONE, Valori comuni, Milano, Il Saggiatore, 1989. 39/bidem, p. 44.

148

personali un tale compito, poiché, dovendosi ritenere accettabile ogni posizione

espressa, non ve ne sarebbe alcuna in grado di essere ritenuta eticamente preferibile

ad altre, portando ali' emergere dell'arbitrarietà. E ciò vale anche se si pongono

vincoli di universalità, generalità, pubblicità e coerenza alle posizioni da esprimere.

Maffettone si ripropone di elaborare, a tal fine, una teoria etica razionalista del

valore, imperniata su una razionalità dialogica e finalizzata alla «costruzione di un

rapporto tra formazione riflessiva della volontà e decisione ultima o risolutiva».40

Per la risoluzione dei dilemmi pratici di cui è costellata l'esistenza quotidiana le

persone fanno riferimento a norme, che vengono accettate in quanto basate su

principi, cioè su valori. L'etica razionalista comprende dunque una teoria

dell'obbligo che presuppone un'analisi delle norme e una teoria del valore il cui

presupposto, a sua volta, è un'analisi dei principi. La realtà concreta con le sue tante

particolarità pone problemi a una tale formulazione del modello teorico.

Se ci si riferisce ad una teoria dell'azione intenzionale volontaria, cioè non-

automatica e non-coatta, che si compie attraverso una decisione tra alternative,

occorre di necessità analizzare anche gli aspetti motivazionali. Le motivazioni

possono distinguersi tra esplicative (desumibili dal comportamento dell'agente

rispetto alle cause sottostanti) o giustificative (si analizzeranno le motivazioni

addotte dall'agente per motivare, se richiesto, le sue azioni). Risalire dalle

motivazioni alle norme e da queste ai principi appare un passaggio indispensabile

per comprendere in base a che cosa vengono compiute scelte fra più alternative. Ma

40 Ibidem, p. 46.

149

occorre comunque chiamare in causa una teoria del valore che dichiari «ciò che è

buono o intrinsecamente desiderabile».41

Le condizioni ~torico-sociali all'interno delle quali si dà la possibilità di formulare

una teoria del valore sono caratterizzate dal processo di secolarizzazione. Se si è

consapevoli dei forti limiti del positivismo logico, che ha dichiarato inutile

operazione metafisica una teoria del valore, si può adottare il concetto di 'valori

empirici' (J. Dewey), «la cui stima e valutazione non sia indipendente da quanto i

soggetti provano e esperiscono».42

Come punto di partenza, se analizziamo l'espressione: «attribuire valore a un

oggetto x presuppone che tale oggetto sia in grado di essere desiderato o comunque

dare soddisfazione a un soggetto A», troviamo elementi utili anche se non

sufficienti. Infatti: perché dovrebbe avverarsi il contenuto di questa definizione di

valore? I soggettivisti risolvono la questione considerando equivalente il 'dover

essere' ali'' essere effettivamente', generalizzando l'espressione riferita al singolo e

trasformandolo in obbligo per tutti. Ma così facendo non vengono adeguatamente

considerati gli elementi di diritto presenti in ogni obbligo basato su di un valore.

Una delle posizioni prevalenti in tema di razionalità etica è, come si è visto, quella

utilitarista, che individua nella massimizzazione dell'utilità il criterio-guida:

l'individuo massimizza attraverso l'espressione di una propria preferenza che dà

luogo al massimo di soddisfazione. In tal caso l'utilità come misura delle preferenze

coincide con il valore: ma questa inversione del «rapporto naturale tra ciò che vale e

il modo in cui noi lo apprezziamo, sostenendo che il valore non è che

411bidem, p. 51. 42 Ibidem, p. 52.

150

un'ipostatizzazione di ciò che n01 riteniamo soggettivamente preferibile» non è

corretta, poiché «si scambia un elemento di fatto, quale una preferenza individuale,

con un elemento di diritto, quale una raccomandazione normativa rispetto al

valore».43 Se l'impostazione soggettivistica può anche andar bene per approfondire

motivazioni di tipo esplicativo, non è così per quelle di tipo giustificativo: quale

significato avrebbe studiare il rapporto tra adesione a norme e principi se questi non

sono altro che la generalizzazione di preferenze individuali elevate ad obbligo?

Alcuni fra gli utilitaristi, nel tentativo di introdurre correttivi a questo punto della

loro teoria, hanno finito con l'introdurvi elementi normativi e di valore accettando

ciò che nelle loro premesse avevano fermamente respinto. Nonostante ciò,

rimangono problemi da affrontare. Alcune teorie oggettiviste, come quelle dei diritti

naturali e quelle intuizioniste dell'etica, di fatto non consentono o quasi di

individuare un «accesso privilegiato al valore» e di «definire priorità tra valori

fondamentali tutti appartenenti ad una medesima lista». 44 Questo tuttavia caratterizza

solo un certo tipo di teorie oggettive del valore, e cioè quelle posizioniste che

considerano i valori come tali indipendentemente dal contesto storico-sociale.

Teorie di tipo costruzionistico ritengono i valori e le gerarchie di priorità fra di essi

come costruzioni realizzate «in base alle esigenze e alle credenze di una data società

in un certo momento (anche lungo) storico».45 Rimane dunque il limite della

relatività della validità della teoria, dovendo ricorrere ad un minimo comune

denominatore valoriale presente in una società in un dato momento storico. Sostiene

Maffettone: «se, come appare ovvio, non esistono valori assoluti, e se non si può

43/bidem, p. 55. 44/bidem, p. 57.

151

fare a meno di un'idea di valore in una teoria razionalista, [ ... ] allora si dovranno

ricavare questi valori dall'interazione storica. La complessità delle situazioni

decisionali non è che un modo, e forse il più chiaro, in cui percepiamo questo fatto.

[ ... ] in questi tipi di operazione [ ... ] noi non troviamo valori come oggetti già

presenti. Piuttosto li costruiamo, li formiamo nel momento stesso in cui ricorriamo

loro. Lo sforzo stesso dell'interpretazione ci guida alla costruzione dei valori in una

circolarità che può ben essere virtuosa». 46 Il compito di elaborare una teoria

oggettiva del valore, dunque, non finisce mai di essere completato.

Tra i valori comuni e oggettivi di volta in volta presenti nel contesto storico-sociale

e condizionati dalla struttura politica e giuridica vi è il valore dell'integrità. Essa

come valore possiede il carattere sostanziale di essere <<Una congiunzione massimale

tra un principio di autonomia individuale da un lato, e uno di giustizia sociale

dall'altro», ed appare dunque nella sua caratteristica natura costruttiva che

rappresenta «il grado di valore di un contesto interattivo».47 Ai due estremi concreti

di essa troviamo da una parte il «solipsismo, inteso come mancanza di

considerazione per gli altri, e dall'altra il totalitarismo inteso come prevalenza

assoluta dell'interesse pubblico sui diritti della persona».48 L'integrità di una persona

si basa sul carattere, che a sua volta si fonda su desideri, preoccupazioni, progetti,

idiosincrasie; essa comporta, ancora, interpretazione (Dworkin), sforzo ermeneutico.

Altre fondamentali caratteristiche possono essere individuate nella coerenza e nella

continuità, nella comunicabilità - intesa come «capacità di dare significato comune

45/bidem, p. 58. 46/bidem, pp. 58-59. 47 Ibidem, p. 62. 48/bidem, pp. 62-63.

152

e intersoggettivamente sensato alle intenzioni etiche di individui appartenenti a una

comunità»49 - nell'interdipendenza, nella partecipazione. Ma tali proprietà non

sono sufficienti alla comprensione di una teoria dell'integrità e delle sue funzioni

nell'ambito di un progetto etico razionalista. Occorre puntualizzare che i valori cui

si riferiscono le norme «sono al fondo valori di identità personale e rispetto di sé che

si integrano con il rispetto per gli altri nell'ambito di una comunicazione perenne

attraverso le culture e le epoche. Ed è forse quest'ultima la proprietà più tipica

dell'integrità, una proprietà morale comunicativa. I principi morali fondamentali di

un'etica razionalista non sono dogmi né fantasmi. Sono, invece, il risultato

dell'inesauribile travaglio ermeneutico dell'unione sociale di individui liberi e

e guaii». 50

Come risolvere il dilemma fra il consequenzialismo - impostazione teorica attenta

a verificare l'osservanza dell' «obbligo morale di compiere l'azione legata alla

produzione di risultati ottimali in una lista che elenchi gli stati di cose da un punto di

vista puramente oggettivo»51 - e la teoria dei diritti individuali portati all'estremo?

La prima posizione finisce con l'infliggere notevoli limitazioni all'autonomia e

all'integrità degli individui, non considerati nelle loro particolarità e differenze,

mentre la seconda ignora che le pretese a far valere diritti individuali sacrificano gli

interessi della collettività e pongono problemi seri per dirimere i conflitti fra titolari

di diritti. Maffettone richiama la posizione di T. Scanlon, volta a «dare valore alla

fenomenologia morale di un certo gruppo in un dato momento storico».52 Potrà così

49 Ibidem, p. 67. 50 Ibidem, p. 69. 51 /bidem, p. 75-76. 52/bidem, p. 90.

153

aversi un reciproco bilanciamento fra l'oggettività di un'etica razionalista e la

soggettività degli interessi riconosciuti come diritti. I criteri in virtù dei quali

giustificare ber.;.efici e perdite degli individui saranno di tipo sia soggettivo che

oggettivo (legati in tal caso alle preferenze sociali anche in quanto differenziate

dalla semplice aggregazione delle preferenze individuali): «prendendo sul serio i

valori condivisi da una comunità storica, [questa tesi] cerca di costruire, da questi,

diritti morali che valgano come prerogative relative all'agente».53

In ordine al dibattito filosofico-politico sulla democrazia moderna, Maffettone

propone una concezione libera/socialista, risultante cioè da una interazione critica

dei due più importanti filoni della teoria politica e della storia politica della

modernità. Lo snodo di partenza è il liberalismo, ritenuto elemento ormai

caratterizzante e imprescindibile anche se si fa propria la visione socialista.

Il liberalismo - la cui espressione economica ha avuto e ha larga rilevanza nella

storia contemporanea - contiene principi (tra cui l'efficienza) che necessitano di

una correzione socialista, poiché vi sono beni (ambiente, esternalità, lealtà, fiducia)

non riducibili al calcolo economico. Anche la giustizia distributiva pone in crisi il

liberalismo, perché esso non tiene abbastanza conto delle conseguenze delle azioni

compiute dagli individui per affermare i propri diritti. Inoltre, il sistema liberale

della tolleranza rispetto a diverse posizioni morali è indecidibile, quindi porta alla

paralisi: «è difficile prendere decisioni pubbliche rilevanti - quelle che

svantaggiano alcuni e avvantaggiano altri - senza avere una qualche concezione

del valore oggettivo delle preferenze. [ ... ] Quando ragioniamo in sede pubblica, da

cittadini, noi non valutiamo tutte le preferenze alla pari per il semplice motivo che

53 Ibidem, p. 91.

154

sono espressione della volontà di qualcuno. Il fatto che faccia parte dei suoi piani di

vita non ci basta di solito per prendere sul serio una proposta altrui. Pretendiamo

pure che non sia troppo idiosincratica, che non sia ispirata a egoismo, che abbia una

qualche visione del bene pubblico e così via. Tutto ciò contrasta, però, con il

sistema della tolleranza, parte centrale dell'interpretazione liberale della

democrazia. Ma [ ... ] quel sistema è indecidibile. Per cm, per nmuovere

l'indecidibilità, bisogna giocoforza limitare la tolleranza».54

Viene anche ridefinita la neutralità, di cui Maffettone dà una tesi liberal-socialista,

in grado cioè, di «distinguere tra preferenze secondo un criterio»55 e non in senso

avalutativo. Ritorna la teoria dell'integrità.

Per Amartya K. Sen ogni analisi filosofico-politica della disuguaglianza sociale

rimanda ad un quesito metodologico di fondo: 'eguaglianza di che cosa?'. La

caratteristica comune della classe di teorie etiche egualitarie sugli assetti sociali «di

dichiararsi egualitari, in qualche modo significativo, è collegata all'esigenza di

dimostrare una eguale attenzione, a qualche livello, per tutte le persone coinvolte».56

Oltre le teorie dichiaratamente ugualitarie come quella di Rawls, anche quelle

dichiaratamente antiugualitarie, come quella di N ozick, o le teorie utilitariste

possono essere indagate secondo la nozione, anche implicita, di eguaglianza che in

esse è contenuta. La vera discriminante fra i vari approcci, sostiene l'economista

indiano, è data proprio dal contenuto dell'uguaglianza proposta. Il fondamento

dell'argomentazione è di tipo antropologico: «l'importanza della domanda

'eguaglianza di che cosa?' deriva dalla effettiva diversità degli esseri umani, di

54lbidem, p. 153. 55lbidem.

155

modo che la richiesta di eguaglianza rispetto a una variabile tende a entrare m

conflitto - nei/atti, non soltanto in teoria - col desiderio di eguaglianza rispetto a

un'altra variabile. Noi siamo profondamente diversi nelle nostre caratteristiche

proprie [ ... ] così come in certe circostanze esterne [ ... ]. È precisamente per tale

diversità che l'insistenza sull'egualitarismo in un ambito è in contrasto con

l'egualitarismo in un altro». 57 Sono infatti molteplici e diverse le variabili in base

alle quali si può valutare e viene di fatto valutata l'uguaglianza: reddito, beni

primari, diritti alla libertà, e così via.

La retorica dell'uguaglianza degli uomini ('tutti gli uomini nascono eguali') può

avere effetti profondamente anti-egualitari, poiché si potrebbero trattare esseri

diversi in modo eguale. La 'variabile focale' o 'spazio' per Sen è quella «su cui

l'analisi si focalizza nel confrontare persone diverse»: 58 essa può avere una sua

pluralità interna. Il conflitto tra gli esiti dei diversi approcci alla valutazione

dell'uguaglianza è dato dal fatto che «le caratteristiche della diseguaglianza in spazi

diversi (come il reddito, la ricchezza, la felicità, eccetera) tendono a divergere, a

causa della eterogeneità degli individui. L'eguaglianza in termini di una variabile

può non coincidere con l'eguaglianza sulla scala di un'altra. Per esempio,

opportunità eguali possono condurre a redditi molto diseguali».59 E ciò conferma

l'esigenza di valutare l'uguaglianza di un certo assetto sociale considerando le

capacità di scegliere, acquisire e combinare fra loro funzionamenti - ad esempio,

un'adeguata nutrizione, ttna buona salute, la partecìpazione alla vita sociale e così

56AMARTYA K. SEN, La diseguaglianza. Un riesame critico, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 7-8. 57 Ibidem, p. 9. 58 Ibidem, p. 16. 59 Ibidem, p. 17.

156

via - da parte delle persone. Con ciò Sen si distacca dalla teoria rawlsiana dei beni

primari, poiché essa non considera ai fini dell'uguaglianza di un assetto le

caratteristiche personali e sociali di soggetti diversi, le quali «possono condurre a

sostanziali variazioni interpersonali nella conversione di beni primari o risorse in

acquisizioni».60 Una significativa applicazione di questa impostazione è la

misurazione della povertà e l'individuazione di strumenti efficaci per eliminarla: il

solo parametro del reddito si rivela insufficiente a tutti e due gli scopi.

2. 2. 3. Il liberismo

I liberisti si battono per il libero mercato, considerato giusto, per una limitata

ingerenza dello stato nell'ambito della politica sociale e contro una tassazione

redistributiva, ritenuta ingiusta in quanto vìola i diritti delle persone. Non tutte le

teorie 'di destra' o neoconservatrici sono liberiste allo stato puro: ciò che differenzia

queste ultime da altre è che il libero mercato va promosso e difeso, in quanto offre

spazi alla più completa libertà delle persone di disporre dei propri diritti, al di là di

considerazioni circa la strumentalità del mercato medesimo rispetto a traguardi di

efficienza economica o di effetti sulle libertà politiche e civili.

Per esaminare il rapporto tra giustizia e mercato dal punto di vista dei liberisti,

prenderemo in esame la 'teoria del titolo valido' di Robert Nozick.61

~n sintesi, Nozick - come molti altri autori liberisti - sostiene che sono giuste le

distribuzioni di beni originate da liberi scambi tra individui provvisti di un titolo

60 Ibidem, p. 61. 61 ROBERT NOZICK, Anarchia ... cit.

157

valido per il possesso dei beni che possiedono e che decidono di scambiare. Ogni

prelievo fiscale da parte dello stato è ingiusto - anche se compiuto a fini

redistributivi, per compensare disuguaglianze derivanti da svantaggi naturali

immeritati - tranne quelle tasse necessarie a mantenere le istituzioni a tutela del

sistema del libero scambio, come, ad esempio, l'apparato repressivo e quello

giudiziario.

«[ ... ] La 'teoria del titolo valido' di Nozick consta di tre princìpi fondamentali: 1.

principio di giustizia nei trasferimenti: tutto ciò che si è acquisito giustamente si può

liberamente trasferire; 2. principio di giustizia nell'acquisizione iniziale, che spiega

il processo mediante il quale le persone possono giungere a possedere le cose che

poi possono trasferire in armonia con ( 1 ); 3. principio di rettificazione

dell'ingiustizia, concernente il problema di come trattare i beni ingiustamente

acquisiti o trasferiti». 62 La formula della distribuzione giusta, a condizione che le

persone abbiano acquisito giustamente le loro proprietà, è: «da ciascuno secondo

come sceglie, a ciascuno secondo come viene scelto».63 Si tratta quindi di una

concezione della giustizia ambizioni-dipendente (come l'egualitarismo liberale di

Rawls e Dworkin) ma doti-dipendente, poiché Nozick non considera meritevoli di

compensazione gli svantaggi derivanti da fattori indipendenti dalle scelte personali,

come le condizioni sociali ascritte e i talenti naturali.

Il liberismo di Nozick si basa su due argomenti: uno di carattere intuitivo e uno,

filosofico, che fonda i diritti di proprietà sull'auto-appartenenza.

62WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 113. 63ROBERT NOZICK, Anarchia ... cit., p. 171.

158

L'argomento intuitivo mostra che - anche partendo da una teoria diversa da quella

del titolo valido - si può dare luogo ad una distribuzione fortemente disuguale, ma

legittima, perché ottenuta attraverso una libera e spontanea adesione di tutti i

soggetti coinvolti, e quindi giusta. Nozick ammette l'ingiustizia di chi subisce

disuguaglianze immeritate, ma ribadisce che non è affatto ammissibile intaccare

diritti e titoli altrui per operare compensazioni e redistribuzioni. Ma, così facendo,

nota Kymlicka, Nozick attribuisce priorità alla libertà di azione delle persone,

trascurando le nostre intuizioni circa il trattamento equo della disuguaglianza.

Tuttavia, anche se N ozick accetta l'idea liberale che occorre accettare la concezione

intuitiva di giustizia secondo la quale è giusto porre rimedio alle disuguaglianze

immeritate, egli rimane convinto del fatto che, trattandosi spesso di reddito su cui le

persone esercitano un diritto assoluto, «i diritti particolari sulle cose riempiono di

diritti lo spazio e non lasciano più posto ai diritti generali di essere in certe

condizioni materiali».64 Egli ritiene che una distribuzione iniziale giusta abbia per

oggetto diritti di proprietà assoluti su certi beni. Ma non è così con qualsiasi altro

modello distributivo, a cominciare da quelli di Rawls e di Dworkin.

Il secondo argomento di Nozick, improntato al principio dell'auto-appartenenza, è

derivato dalla formula kantiana che impone di trattare ogni persona sempre come

fine e mai come mezzo: ognuno appartiene a se stesso - sostiene Nozick- e deve

poter disporre liberamente di se stesso. L'individuo è, perciò, portatore di diritti

assolutamente inviolabili. L'uguaglianza nei diritti di ogni individuo è un riflesso

della massima kantiana. L'utilitarismo, di contro, non pone limiti ai sacrifici

possibili ai diritti in vista di una maggiore utilità.

159

Quali diritti sono "indicatori' pesanti del rispetto delle persone come fini? Se per

Rawls il riferimento è a una certa quota di risorse della società (i beni principali),

per N ozick si tratta di quelli relativi all'auto-appartenenza. Ma, a prima vista, i due

diversi approcci sembrano non alternativi. Nozick ribadisce che l'auto-appartenenza

comporta l'assolutezza del diritto di proprietà sui propri beni e che sarebbe dunque

ingiusto violare tale principio; in ciò prende le distanze dalle argomentazioni di

Rawls e Dworkin.

In sintesi, Kymlicka riporta così la posizione di Nozick: « 1. La redistribuzione

rawlsiana (al pari degli altri interventi coercitivi del governo negli scambi del

mercato) è incompatibile con il riconoscimento dell'auto-appartenenza delle

persone. Solo un capitalismo senza limitazioni riconosce l'auto-appartenenza. 2. Il

riconoscimento dell'auto-appartenenza delle persone è componente cruciale di una

società che intenda trattare le persone da uguali». 65

Kymlicka trova insoddisfacente la concezione di uguaglianza di N ozick, per due

ordini di motivi: i) all'auto-appartenenza non corrispondono necessariamente diritti

di proprietà assoluti; ii) il principio di auto-appartenenza non è sufficiente a

giustificare il principio dell'uguale trattamento delle persone. Il diritto di proprietà

assoluto, infatti, vige nella misura in cui l'acquisizione iniziale del bene è avvenuta

in modo legittimo: se tale acquisizione è illegittima, lo stato ha la possibilità di

ridistribuire il bene; se l'acquisizione fosse stata invece legittima, è possibile usare

la forza, con pari giustificazione per procedere a rìdistribuire la ricchezza: questo

perché spesso l'acquisizione iniziale avviene con la forza, e se si ritiene legittimo

64/bidem, p. 253. 65WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 123.

160

l'uso della forza per acquisire, non si vede perché non considerarlo altrettanto

legittimo in caso di prelievo nei confronti del proprietario a fini redistributivi.

Per definire la legittimità dell'acquisizione iniziale Nozick si rifà a Locke, che

aveva definito legittima l'acquisizione che lascia per gli altri una parte 'sufficiente e

altrettanto buona', in modo da non danneggiare la condizione di nessuno:

storicamente, tuttavia, la clausola 'sufficiente e altrettanto buona' non è stata quasi

mai osservata (basti pensare al fenomeno delle enclosures - recinzioni di terreni e

'invenzione' dei relativi diritti di proprietà - nell'Inghilterra del Seicento che fu

alla base dell'aumento della produttività agricola). C'è però da rilevare che il

peggioramento per altri soggetti può ripercuotersi anche su aspetti diversi dal mero

benessere materiale, come, ad esempio, l'autonomia o l'ampiezza delle opzioni.

Inoltre, l'appropriazione si riduce a basarsi il più delle volte sull'adagio del 'chi

prima arriva meglio alloggia' (eccesso di arbitrarietà).

Vi sono, poi, sistemi di appropriazione diversi da quello di N ozick (e che questi

ignora) che possono determinare effettivi miglioramenti anziché solo non-

peggioramenti: appropriazioni più produttive di altre, appropriazioni collettive

eccetera.

Gli effetti della regolazione delle acquisizioni mediante il prmc1p10 di auto-

appartenenza alla Nozick sono molteplici: «un sistema che consenta alle persone di

appropriarsi di quantità disuguali del mondo esterno determinerà per alcuni

condizioni di vita significativamente peggiori rispetto ad alternative moralmente

rilevanti».66 Sui diritti costruiti in tal modo peserà dunque un'ipoteca di illegittimità

66/bidem, p. 135.

161

e di arbitrarietà. Si rivela, perciò, poco praticabile il tentativo di fondare un

capitalismo senza restrizioni sul principio di auto-appartenenza.

Kymlicka contesta lo status del mondo esterno antecedente all'appropriazione così

come concepito da Nozick: il mondo non è inizialmente privo di possessori, ma va

considerato proprietà comune oppure suddiviso in parti uguali per ognuno. In realtà,

il capitalismo di Nozick risulta fondato oltre che sull'auto-appartenenza degli

individui anche sul possesso delle risorse. L'auto-appartenenza, infatti, è presente in

un'ampia varietà di approcci oltre che in quello liberista. Non solo: secondo lo

schema liberista, l'operaio 'costretto' a vendere il proprio lavoro al capitalista non

perde la sua auto-appartenenza; ciò che sfugge a N ozick è che viene a cadere il

rispetto del criterio kantiano 'tratta ogni persona come fine e mai come mezzo':

cade quindi l'auto-appartenenza sostanziale.

2. 2. 4. Il marxismo

La contestazione più rilevante mossa dalle teorie di orientamento marxista a quelle

liberali verte sul concetto stesso di giustizia, il cui carattere di garanzia

dell'uguaglianza formale viene ritenuto insufficiente a fronte delle disuguaglianze

materiali. In realtà, si è visto come le teorie di Rawls e Dworkin contengano delle

proposte di trattamento equo anche di tale genere di disuguaglianze. Non così,

invece, nelle teorie liberiste, secondo le quali sono giusti tutti gli scambi realizzati

nel libero mercato fra legittimi possessori dei propri beni, a prescindere dalla

situazione preesistente e dall'esito finale in termini di distribuzione dei beni.

162

Kymlicka esamina due posizioni all'interno del filone marxista: la prima rifiuta la

concezione liberale di giustizia sostenendo che di essa, ritenuta semplice correttivo

nella società capitalistica, non c'è bisogno nella società comunista; per la seconda

posizione non si può accettare l'idea liberale che la giustizia sia compatibile con la

proprietà privata dei mezzi di produzione, ritenuta in se stessa ingiusta.

2. 2. 4.1. Il comunismo va oltre la giustizia

Nelle teorie liberali della giustizia uno dei punti-chiave è l'uguaglianza morale di

tutti gli individui, che deve essere garantita da un sistema giuridico e dall'equilibrio

tra benessere singolo e benessere sociale. Marx definì l'uguaglianza giuridica (pari

diritti tra le persone) e l'equità come nozioni obsolete e inutili.67 Diritti uguali per

tutti quando ognuno ha diverse capacità - per via di fattori naturali e sociali -

significa fare parti uguali fra disuguali. A ben vedere, osserva Kymlicka, Marx non

intende negare l'uguaglianza morale ('tutte le persone devono essere trattate da

uguali'), ma quella giuridica: i diritti, secondo Marx, non sono sufficienti, da soli, a

garantire l'uguaglianza morale degli individui. È però, questo, un argomento debole,

in quanto non offre migliori alternative: se i diritti non sono adeguati a definire tutti

i punti di vista rilevanti ai fini dell'uguaglianza morale, quali altri elementi lo sono?

Marx e i marxisti oltrepassano il problema, auspicando condizioni sociali in cui non

abbiano più a porsi questioni distributive: la società comunista nella quale - una

volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione - si avrà abbondanza di

67Testualmente l'espressione è «obsoleto ciarpame verbale»: KARL MARX - FRIEDRICH ENGELS, Se/ected W orks, London, Lawrence and Wishard, p. 321, riportata in WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 182.

163

risorse che verranno allocate secondo il noto criterio «da ciascuno secondo le sue

capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno».68

2. 2. 4. 2. Giustizia e proprietà privata

La concezione liberale della giustizia è criticata dai marxisti anche per la sua quasi

esclusiva concentrazione sulla distribuzione più che sulla produzione di risorse: per

quanto si intervenga al fine di regolare e rendere equa la prima - sostengono i

marxisti - si tratterà di una fatica di Sisifo, poiché la seconda, funzionante

mediante la proprietà privata dei mezzi di produzione, continuerà a ongmare

disuguaglianze e ingiustizie; proprietà, sempre secondo le teorie marxiste, non

corrisponde soltanto a reddito, ma anche, e soprattutto, a potere e controllo sulla vita

propria e altrui: distribuire e socializzare la proprietà dei mezzi di produzione ha un

notevole effetto di riequilibrio nei rapporti tra le classi. Le teorie di Rawls e

Dworkin, tuttavia, non escludono la proprietà privata dei mezzi di produzione

dall'applicazione dei propri principi di giustizia, anzi: Rawls, sebbene si sia limitato

ad accennarla senza approfondirne i contorni, delinea la prospettiva di una

'democrazia a proprietà privata', che prevede una diffusione sociale della proprietà

privata medesima in un senso vicino a quello inteso dai marxisti. Ma in realtà

l'obiezione principale mossa dai marxisti alla giustizia liberale rimane l'idea che di

essa, nella società comuuista, non vi sarà più bisogno: in quel caso non si avranno

più diverse e contrastanti visioni di ciò che è bene, ma si perverrà ad un'identità di

68KARL MARx - FRIEDRICH ENGELS, Selected Works ... cit., pp. 320-21, espressione riportata in WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 187.

164

interessi e a solidi legami affettivi all'interno della società che permetteranno di

soddisfare armonicamente i bisogni di tutti, senza che qualcuno abbia necessità di

rivendicare i propri diritti contro qualcun altro o contro la società. In verità, nota

Kymlicka, questa idea è coerente più con una visione comunitarista che con una

marxista.

Un altro argomento della teoria marxiana è che la proprietà privata non fa altro che

accrescere e complicare le situazioni di povertà: occorre pertanto non solo abolirla,

ma nello stesso tempo puntare al massimo sviluppo possibile delle forze produttive,

per eliminare radicalmente la scarsità di risorse rispetto alla massa dei bisogni

umani; facendo ciò, si toglie materia al sorgere dei conflitti sociali e viene meno

l'esigenza di una giustizia sociale che li dirima. Ma anche questo punto è oggi

ritenuto debole, posto che la scarsità di risorse, lungi dall'attenuarsi, si mostra sotto

nuovi aspetti, quali quelli, ad esempio, dei limiti dell'ecosistema ambientale per le

generazioni presenti e future.

Kymlicka è dell'idea che l'idea marxiana di giustizia e quella liberale muovano da

presupposti non inconciliabili: «tra agire spontaneamente per amore reciproco e

vedere in se stessi e nei propri simili altrettanti depositari di diritti, è molto meglio la

prima alternativa. Ma perché le due possibilità sono alternative? Perché si deve

scegliere o amore o giustizia? In fin dei conti [ ... ] il senso della giustizia è una

precondizione o addirittura una componente dell'amore per gli altri».69 Regolare

giuridicamente alcune relazioni - ad esempio quelle familiari - non ha affatto

eliminato le dimensioni affettive in esse presenti.

69WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., pp. 187-88.

165

L'enfasi delle teorie marxiste sulle condizioni di sfruttamento e alienazione

derivanti dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, concentrata in poche mani,

si rivela non .rJiù rispondente rispetto alle trasformazioni avutesi nelle società

avanzate sia nel sistema economico che nell'ambito sociale delle forme di povertà

ed emarginazione sociale: nel primo caso, non si tiene conto della forte avanzata del

lavoro autonomo, delle forme di azionariato nelle grandi imprese, della diffusione di

forme cooperativistiche, di impresa sociale e no pro.fil; nel secondo, non si tiene

conto del fatto che la quasi totalità dei poveri oggi non è più rappresentata da

lavoratori sfruttati (il che, semmai, continua ad accadere nel Sud del mondo e in altri

paesi economicamente deboli) ma si trova esclusa dal mercato del lavoro. Ne risulta,

quindi, una inadeguatezza teorica del filone marxista oltre che in se stesso - per via

delle discutibili assunzioni in ordine alla inutilità del concetto di giustizia - anche

rispetto alla propria prassi politica che è improntata all'uguaglianza liberale più di

quanto gli stessi marxisti siano disposti ad ammettere.

2. 2. 5. Il comunitarismo

Come nel caso del liberalismo, anche il comunitarismo non si presenta compatto,

ma articolato e differenziato in diversi comunitarismi, espressione di diverse

posizioni teoriche. Questo paragrafo conterrà una sintesi dei principali aspetti e di

talune sfumature delle concezioni comunitariste elaborate dai principali esponenti di

questa corrente teorica: Alasdair Maclntyre, Charles Taylor, Michael J. Sandel,

Elizabeth H. W olgast.

166

Il comunitarismo valuta in modo del tutto particolare il principio di

autodeterminazione che le altre teorie di cui siamo venuti discorrendo accolgono

tutte come base indiscussa delle proprie argomentazioni sulla giustizia. Tale

principio consiste nel ritenere che tutte le persone abbiano il diritto intangibile di

scegliere per sé il tipo di vita desiderato. (Ciò è tra l'altro in sintonia con le nostre

concezioni intuitive in ordine alla giustizia). I comunitaristi non accettano la

concezione liberale generale dell'autodeterminazione e ritengono che vada dedicata

molta più attenzione alle condizioni sociali entro le quali tale principio possa essere

esercitato.

L'unica limitazione all'autodeterminazione accettata dai liberali è quella operata nei

confronti di chi è oggettivamente incapace (bambini, disabili mentali, persone

definite 'incapaci di intendere e di volere') di affrontare le scelte decisive

dell'esistenza. Il fatto che vi siano persone che fanno un 'cattivo' uso

dell'autodeterminazione non giustifica, per i liberali, ingerenze che avrebbero il

sapore del paternalismo, quando non della violenza: l'assunto di base di questa

posizione è che se le persone scelgono qualcosa, hanno formulato giudizi di valore

ed elaborato ragioni più che valide - dal loro punto di vista - per farlo, ed un

giudizio esterno (per esempio, da parte dello stato) sarebbe inutile o deleterio,

poiché non passerebbe attraverso il vaglio consapevole dell'individuo interessato. In

ogni caso occorre ricordare che i giudizi individuali di valore possono essere rivisti

in vista di una vita realmente buona, e non soltanto di una vita ritenuta buona.

L'autodeterminazione consiste proprio nell'elaborare giudizi di valore, che per

definizione sono difficili da formulare e oltretutto fallibili. Ciò non significa,

167

osserva Kymlicka, che vadano intraprese politiche per scoraggiare azioni e attività

che hanno un fondamento ritenuto erroneo: in linea generale questo equivarrebbe ad

uno stato paternalista che ben pochi, in una società moderna, accetterebbero. Chi

definisce cosa è bene per l'individuo? «Il nostro bene non è né universale né proprio

del singolo individuo: esso ha legami importanti con le pratiche culturali che

condividiamo con gli altri membri della nostra comunità»,70 ma il primo e unico

interprete autorizzato è l'individuo medesimo: è, questo, il 'requisito

dell'interiorizzazione' di cui ha parlato Dworkin. 11 Il paternalismo conduce ad azioni

che per i soggetti coinvolti sono prive di senso e quindi, per definizione, non buone.

L'autodeterminazione, almeno nella visione di Rawls e di qualche altro autore

liberale, non è fine a se stessa, ma consente di «rintracciare l'ottimo». 72

Un modello di stato coerente con questa impostazione dovrebbe possedere il

requisito della neutralità: non fare propria, cioè, alcuna concezione di vita buona né

influire su alcuna fra quelle esistenti. La teoria rawlsiana aveva infatti suggerito di

distribuire i beni principali sulla base di una 'teoria parziale del bene' che consenta

alle persone di impiegare le proprie risorse secondo la visione prescelta di valore e

di vita buona. La società deve limitarsi a promuovere l'interesse fondamentale delle

persone a vivere una vita buona.

Su questi punti si ha un forte conflitto tra liberalisti e comunitaristi: per questi ultimi

lo stato non può essere neutrale, ma deve caratterizzarsi come artefice di una

'_politica del bene comune'. Ma 'neutralità dello staro' e 'politica del bene comune'

70/bidem, p. 227. 71Cfr. RONALD DWORKIN, La comunità liberale, (ediz. orig. 1989), trad. it. in ALESSANDRO FERRARA (a cura

di), Comunitarismo e liberalismo, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 195-228. 72ROBERTNOZICK, Spiegazionifilosofiche, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1987; pp. 355, 450ss.

168

non sono necessariamente contrapposte, dato che la nozione di bene comune non

viene esclusa dai teorici liberali, ma formulata e interpretata come integrazione

politica, economica, sociale degli interessi facenti capo ai componenti di una

comunità in una funzione di scelta sociale. Il bene comune viene ottenuto attraverso

tale integrazione e non già ad opera di decisioni autoritative calate dall'alto.

Nella società comunitaristica, il bene comune definisce una vita buona come lo stile

di vita della comunità, come punto di riferimento rispetto al quale valutare le

preferenze e le azioni individuali: «uno stato comunitarista deve incoraggiare i

cittadini ad adottare concezioni del bene in armonia con lo stile di vita della

comunità, e scoraggiarli dal far proprie concezioni del bene in contrasto con esso».73

Uno dei fondamenti delle teorie comunitariste è la concezione dell'io - alquanto

diversa da quella liberale; la differenza consiste, in sintesi, nel fatto che mentre per i

liberali «l'io viene prima dei fini che persegue»,74 in continuità con quanto affermato

in proposito da Kant, per i comunitaristi l'io è storicamente inserito in una fitta

trama di relazioni sociali da cui è impossibile distanziarsi del tutto per esercitarne

un'analisi critica ed assumere eventualmente posizioni differenziate: «tutti noi

affrontiamo le circostanze della vita come portatori di una particolare identità

sociale. [ ... ] Pertanto ciò che è bene per me dev'essere il bene di uno che abiti

questi ruoli».75 Vi sono degli «orizzonti di autorevolezza della vita, quello cristiano e

quello umanista», cioè i valori comunitari, che «ci impongono degli scopi», 76 da cui

non è possibile distanziarsi mai del tutto, pena l' autoesclusione dalla vita sociale. I

73WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., pp. 231-32. 74JOHN RAWLS, Una teoria ... cit., p. 455. 75 ALASDAIR MACINTYRE, Dopo la virtù, trad. it., Milano, F eltrinelli, 1988, pp. 244-45. 76CHARLES TAYLOR, Hegel e la società moderna, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 157-59.

169

liberali, viceversa, sono dell'idea che per l'individuo è sempre possibile osservare

riflessivamente sia le pratiche sociali che i ruoli e i valori sociali in cui esse si

inquadrano, sì da poter anche intraprendere direzioni diverse. La libertà, secondo

quasi tutti i filosofi liberali, non è un valore in sé, ma la condizione necessaria

affinché i progetti di vita buona possano essere valutati ed eventualmente fatti propri

dalle persone. Anche i liberali concordano sull'idea che alcune cose vadano

considerate come un 'dato', poiché di volta in volta ci troviamo entro certe

condizioni o situazioni sociali, ma ciò non significa che non possa essere pensato

qualcosa di diverso dal 'dato', se i nostri giudizi di valore ci spingeranno a farlo.

L'io non è distinguibile dai suoi fini, sostiene Sandel, poiché se lo fosse ciò sarebbe

in contrasto con la nostra autopercezione profonda: egli non crede che ognuno di noi

possa osservare se stesso sciolto dai propri fini «come puro principio di azione e di

possesso, come realtà pressoché inconsistente».77 I liberali rispondono che questo è

vero, però non se ne può dedurre che l'io non possa osservare se stesso come

distinto dai propri fini e quindi esaminarli e discuterli. Ciò che Sandel, ai fini del

suo ragionamento, dovrebbe dimostrare - ma non può farlo - è che noi non

saremmo effettivamente in grado di pensare il nostro io con fini diversi da quelli che

ha.

Un altro appunto rilevante mosso dai comunitaristi al liberalismo verte

sull'atomismo a loro dire presente in quest'ultimo; essi propongono in alternativa

una 'tesi sociale', secondo la quale gli individui per autodeterminarsi e sviluppare le

proprie capacità hanno bisogno di una società con talune caratteristiche: una

comunità con una 'politica del bene comune'. Kymlicka osserva che il liberalismo

170

concorda totalmente con il comunitarismo su questo punto, ma diverge da esso in

ragione del proprio argomento a favore della neutralità dello stato. Il dibattito su

questa dicotomia si articola in tre punti.

2. 2. 5.1. Doveri verso la struttura culturale

Se lo stato deve essere caratterizzato dalla neutralità, in che modo esso potrà tutelare

e salvaguardare forme o vestigia culturali in pericolo di sopravvivenza? Anche

questa contrapposizione, a detta dei liberali, non sussiste, tant'è che Dworkin le ha

dedicato molta attenzione. 78 In sostanza, anche i liberali riconoscono la necessità che

nella società sia sempre disponibile un'ampia gamma di opzioni culturali, ma di

discostano dai comunitaristi poiché ritengono più appropriato a tale scopo il ruolo

attivo della società civile più che dello stato.

2. 2. 5. 2. Neutralità e deliberazioni collettive

Sembrerebbe che il com unitarismo, nell'avanzare la propria interpretazione della

'tesi sociale', sostenga che tale dimensione possa essere adeguatamente soddisfatta

da uno stato che incarni un certo insieme coerente di valori, come se ciò che è

sociale fosse immediatamente identificabile con ciò che è politico e statale, saltando

il livello della società civile e delle sue aggregazioni. Osserva Kymlicka: «di fatto,

si direbbe che nel dibattito sulla neutralità ciascuna delle due parti non abbia saputo

far tesoro della lezione dell'altra. Ignorando secoli di insistenza liberale

77MICHAEL J. SANDEL, Il liberalismo e i limiti della giustizia, trad. it., Milano Feltrinelli, 1994, pp. 94, 100.

171

sull'importanza della distinzione tra stato e società, i com unitaristi continuano a

pensare che tutto ciò che è sociale debba diventare terreno d'azione del politico.

[ ... ] D'altro canto i liberali, ignorando secoli di insistenza comunitaristica sulla

natura storicamente debole della nostra cultura e sulla necessità di studiare le

condizioni di sopravvivenza di una cultura libera, tendono ancora a dare per

scontata l'esistenza di una cultura tollerante e varia, quasi si trattasse di una realtà

naturale e capace di autoalimentarsi, e della cui esistenza una teoria della giustizia

debba limitarsi a prendere atto». 79 Ma dall'esame dei due orientamenti teorici più

significativi della filosofia politica contemporanea - liberalismo e comunitarismo

- Kymlicka ricava elementi che sostengono l'idea che occorra promuovere, da

entrambe le parti, un'analisi comparativa articolata dei pro e dei contro offerti dagli

ambiti e procedure - sia statali che di società civile - di valutazione del bene.

2. 2. 5. 3. Legittimità politica

La critica dei comunitaristi punta l'indice contro la neutralità dello stato che non

garantirebbe così la propria legittimità verso i cittadini, i quali, a loro volta,

sarebbero privi del contesto sociale necessario all'autodeterminazione: cittadini non

legati tra loro da una comune forma di vita darebbero scarso valore alle istituzioni

pubbliche e ai compiti indicati dalla giustizia sociale. Questa posizione

comunitarista viene prop9sta anche come chiave diJettura della crisi di legittimità

che investe le democrazie occidentali contemporanee. Rawls e Dworkin hanno

78Cfr. RONALD DWORKIN, Questioni di principio, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 225. 79WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 250.

172

sostenuto che anche in queste società esiste un fondamento comune della legittimità

che è dato da un comune senso di giustizia e non da una comune concezione del

bene.

L'enfasi sui diritti individuali potrebbe avere incrinato - secondo i comunitaristi -

la legittimità dell'ordine democratico in quanto non si sarebbe prestata la dovuta

attenzione all'adozione pubblica di principi del bene. Ma su quest'ultima questione

le teorie comunitariste non presentano chiare argomentazioni, facendo piuttosto

riferimento a ricostruzioni idealizzate delle società comunitarie del passato, in cui si

aveva una 'politica del bene comune' fondata su partecipazione e lealtà dei membri,

ma che in realtà erano strutturate su forti esclusioni a base sessista, razzista,

confessionale, economica: nella storia non esistono esempi di società di impronta

comunitaria con fini condivisi a partire dai quali venga formulata una 'politica del

bene coinune' resa legittima da tutti i gruppi sociali presenti e non solo da

'maggioranze morali' che escludono e talvolta segregano mmoranze: «1

comunitaristi amano dire che la teoria politica dovrebbe prestare più attenzione alla

storia di ciascuna cultura. Ma a loro volta, sorprendentemente, anch'essi si

impegnano molto di rado in una simile analisi della nostra cultura».80

Il liberalismo, dal canto suo, possiede un carattere di potenziale universalità che

dovrebbe impedire l'emarginazione di gruppi minoritari da parte dei gruppi

dominanti: rimane però il problema dell'applicazione pratica e corretta dei principi

liberali, che però rappresentano «oggi più che mai, la sola scaturigine vitale della

legittimità pubblica».81

80/bidem, p. 256. 81/bidem, p. 258.

173

Nel campo più strettamente politico, se le tesi comunitarie tendono a sfociare o

nell'irrilevanza o nell'intolleranza delle loro pratiche, anche le tesi liberali hanno

sottovalutato cosa significhi realmente creare le condizioni culturali sostanziali, non

solo formali, dell'autodeterminazione. 82 Comunitarismo e liberalismo rappresentano

senz'altro le due principali concezioni a confronto nello scenario della filosofia

politica contemporanea. Alessandro Ferrara mostra come la contrapposizione tra

comunitarismo e liberalismo - senza nulla togliere alle significative discontinuità

teoriche - venga a volte presentata e più spesso percepita con toni più forti di

quanto non emerga ad un attento esame:83 egli, infatti, individua non pochi elementi

comuni alle due prospettive, tra i quali, ad esempio, l'accettazione del pluralismo

delle società moderne, le esigenze di integrazione sociale che un ordine politico non

può disconoscere, l'importanza, storicamente consolidata, dell'appartenenza nella

cultura occidentale. Autori come Ronald Dworkin e Michael Walzer,84 ponendosi

trasversalmente alla linea di demarcazione tra liberalismo e comunitarismo, hanno

offerto spunti interessanti per un universalismo che Ferrara definisce «esemplare e

individuante del giudizio riflettente», 85 che consiste nel situare la domanda circa le

82Un' esauriente antologia che raccoglie e presenta efficacemente alcune fra le posizioni più autorevoli espresse in questo dibattito è ALESSANDRO FERRARA (a cura di), Comunitarismo ... cit. Vedi anche: SALVATORE VECA (a cura di), Giustizia e liberalismo politico, Milano, Feltrinelli, 1996, con una stimolante introduzione del curatore ed un'ampia bibliografia sulle teorie della giustizia; STEFANO PETRUCCIANI, Comunitarismo liberalismo universalismo, in «Parolechiave», 1, 1993, pp. 31-49, nel quale si fa riferimento alla raccolta di saggi CHANTAL MOUFFE (ed.), Dimensions of Radical Democracy. Pluralism, Citizenship, Community, London, Verso, 1992; WOLFGANG KERSTING, Liberalismo, comunitarismo e democrazia, trad. it. in «Filosofia politica», IX, 2, 1995, pp. 181-206; MAURIZIO PASSERIN D'ENTRÈVES, Tolleranza e comunità. Un confronto tra i teorici comunitari e la teoria liberale, in «Teoria politica», VII, 1, 1991, pp. 121-36.

83 ALESSANDRO FERRARA, Introduzione, in ID, Comunitarismo ... cit., pp. IX-LVII. 84Può essere di qualche utilità ricordare l'opera principale di MICHAEL WALZER, Sfere di giustizia, trad. it.,

Milano, Feltrinelli, 1987: l'idea generale in essa sviluppata è che la giustizia sociale (distributiva) va vista pluralisticamente nelle singole sfere di distribuzione di ogni specifica categoria di beni - ognuna delle quali può richiedere criteri specifici - in base al principio dell'eguaglianza complessa, in sostituzione dell'inadeguata nozione di eguaglianza semplice, che si basa sulla dominanza o sul monopolio di una certa categoria di beni rispetto ad altre.

85 ALESSANDRO FERRARA, Introduzione ... cit., p. LV.

174

questioni di giustizia all'interno delle condizioni storiche e sociali di una comunità,

adottando il criterio dell'autenticità, per la quale la migliore soluzione è quella che

valorizza al meglio la concreta identità della comunità, anche in chiave di

. . mnovaz1one.

Del resto, come abbiamo anticipato all'inizio di questo paragrafo, anche il

comunitarismo è un orientamento teorico non monolitico, ma che presenta varietà di

accentuazioni e sfumature. Di ciò può essere espressione la posizione sulla

modernità di Charles Taylor, desumibile da un recente saggio nel quale egli

tematizza il suo disagio riguardo a tale oggetto. 86 Tre sono gli aspetti principali della

modernità attorno ai quali si esprime il disagio del filosofo anglosassone:

l'individualismo, il primato della ragione strumentale e le loro conseguenze sociali.

L'individualismo moderno presenta una forte ambivalenza: per un verso esso ha

consentito uno sviluppo senza precedenti delle libertà individuali, negate e oppresse

nei regimi tradizionali, ma per un altro si è assistito a un declino del senso condiviso

del mondo e delle attività della vita sociale e a fenomeni di involuzione narcisistica:

«il lato oscuro dell'individualismo è il suo incentrarsi sull'io, che a un tempo

appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato, e le allontana

dall'interesse per gli altri e la società». 87

Il secondo elemento di disagio è il primato della ragione strumentale, definita come

«il tipo di razionalità cui ci rifacciamo quando calcoliamo l'applicazione più

economica dei mezzi disponibili a un fine dato. La sua misura del successo è il

86CHARLES TAYLOR, Il disagio della modernità, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1994. 87 Ibidem, pp. 6-7.

175

massimo dell'efficienza, il migliore rapporto costi-prodotto».88 Questo primato, oltre

che accrescere in positivo le potenzialità dell'azione, espone tuttavia al rischio che

la razionalità strumentale possa estendersi impropriamente ad altri ambiti diversi da

quelli misurabili con l'analisi costi-benefici. A ciò si ricollega anche il grande peso

della tecnologia nella vita sociale, estesa ormai a moltissimi ambiti dell'esistenza

quotidiana delle persone. Stato e mercato hanno incorporato 'meccanismi potenti' di

tipo impersonale - le 'gabbie di ferro' di cui aveva parlato Max W eber - i quali, a

certe condizioni, possono avere una forza tale da spingere gli individui che operano

all'interno di certe organizzazioni ad azioni contrarie al senso di umanità e al buon

senso. La dimensione istituzionale, osserva Taylor, non va esclusa dunque da ipotesi

di cambiamento.

Il terzo elemento di disagio, infine, è motivato dalle conseguenze politiche dei primi

due: una limitazione consistente delle nostre scelte ad opera di meccanismi

istituzionali e delle strutture della società industrial-tecnologica, come mostrano, ad

esempio, le questioni relative all'ambiente, a livello sia macrosociale che

individuale. Altra conseguenza significativa è il disinteresse alla partecipazione

politica attiva, di cui già Tocqueville aveva parlato, che aumenta il rischio di

«perdere il controllo politico sul nostro destino, ossia una facoltà che potremmo

esercitare in comune in quanto cittadini».89 Le osservazioni di Taylor non sfociano

però in un rifiuto della modernità o nell'esigenza del suo superamento: sebbene egli

ritenga inadeguato «un semplice compromesso tra v-antaggi e costi» della modernità,

trova più opportuna una riflessione su «come pilotare questi sviluppi [positivi] verso

88/bidem, p. 7. 89/bidem, p. 13.

176

le loro più promettenti potenzialità, e come evitare di scivolare nelle forme

de gradate». 90

Elizabeth W olgast si è domandata se l'attuale enfasi della filosofia politica

contemporanea - o almeno di alcuni suoi orientamenti - sui diritti individuali non

sia eccessiva, con il rischio di offrire a talune situazioni umane una inadeguata

inquadratura teorica. 91

Il concetto di diritto individuale è conseguente a quello di atomismo sociale, per il

quale ogni comprensione della società e della politica deve partire dal singolo

individuo umano. Tale linguaggio presuppone negli individui una capacità di

rivendicare nei confronti di altri l'attuazione del diritto, allo scopo di tutelare e

promuovere la propria dignità personale. Ma esistono talune circostanze reali di

ingiustizia che evidenziano, secondo W olgast, l'inefficacia della concezione

atomistico-individualistica dei diritti: tale è, ad esempio, la situazione dei pazienti

maltrattati negli ospedali da medici o infermieri, i quali hanno su di essi ampi

margini di potere.92 Il malato ospedalizzato ha bisogno di cure ma anche di rispetto,

e tuttavia, proprio perché malato, non è in condizione di rivendicare ciò che

corrisponde ai suoi diritti. Semmai, avrebbe più senso operare un richiamo ai doveri

deontologici di medici e infermieri. Intanto l'impostazione atomistica dei diritti

individuali non considera il fatto che possano esservi delle relazioni di dipendenza

tra soggetti, giacché presuppone che tutte le relazioni siano tra pari: «non c'è posto,

nel modello, per la responsabilità di chiunque verso un altro; ognuno risponde a e di

90lbidem, p. 15. 91 ELIZABETH H. WOLGAST, La grammatica della giustizia, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1991. 92Si tratta di un tema indagato da MICHEL FOUCAULT, Nascita della clinica, trad. it., Torino, Einaudi, 1969.

177

se stesso, punto e basta».93 Analoghe irrazionalità Wolgast nota esaminando un altro

esempio, quello dei diritti dei bambini: anche in questo caso, il fatto che i bambini

siano dipendemi dai propri genitori (e non avendo scelto di esserlo) è ignorato dal

modello, come anche la responsabilità dei genitori nel garantire il rispetto dei diritti

dei propri figli. Questi ed altri esempi di 'diritti sbagliati' sostengono

l'argomentazione di W olgast, tesa a mostrare che «i diritti hanno il proprio posto, un

posto però limitato; non forniscono una panacea morale, un comodo insieme di

giustificazioni cui ricorrere quando si desidera una giustificazione. Vanno usati con

discernimento e discrezione, senza affidarsi ciecamente alla visione atomistica».94

2.2.6. I/femminismo

Anche il femminismo è un orientamento teorico abbastanza variegato, che ha però

la carateristica di porsi in posizione trasversale rispetto ad altri approcci come

liberalismo, socialismo, liberismo. L'elemento comune a tutti i contributi è

senz'altro l'impegno volto all'eliminazione della subordinazione delle donne, anche

se le teoriche femministe divergono fra loro sulla concettualizzazione della

subordinazione femminile e sulle strategie per superarla.

Non ostante il fatto che quasi tutte le teorie politiche dominanti, come si è visto,

condividano un fondamento ugualitario, si è lontani da un pieno riconoscimento e

da un organico impegno mirante ad affrontare la disuguaglianza di genere. Vero è

93ELIZABETH H. WOLGAST, La grammatica ... cit., p. 40. 94/bidem, p. 53.

178

che sempre meno questa discriminazione è stata apertamente difesa e sviluppata, ma

è altrettanto vero che principi filosofici e politiche sociali rimangono largamente

improntati ad un'impostazione che si presenta asessuata ma in realtà rivela la sua

parzialità maschile e il suo scarso o nullo interesse per le esperienze e le esigenze

delle donne.

Per illustrare la tesi centrale del femminismo, Kymlicka presenta tre argomenti: i)

uguaglianza sessuale e discriminazione; ii) il rapporto tra pubblico e privato; iii)

enfasi sulla giustizia versus enfasi sulla cura.

2.2.6.1. Uguaglianza sessuale e discriminazione

L'idea che la subordinazione del ruolo femminile rispetto a quello maschile avesse

un fondamento naturale-biologico ha avuto sostenitori anche nel ventesimo secolo

fra cultori maschi di teoria politica di varia estrazione: questa è una delle radici,

nelle società occidentali, della lunga esclusione delle donne dalla vita economica,

politica, civile e sociale al di fuori della famiglia, in passato sancita anche in norme

giuridiche positive. Gli sviluppi contemporanei sia della teoria che della prassi

politica hanno portato a riconoscimenti formali della totale parità fra i sessi e

all'assunzione di misure volte a garantirla. Ciò però non ha risolto il problema delle

reali condizioni di inferiorità sociale in cui moltissime donne si trovano, tanto che

talune emergenze sociali - povertà, precarietà o inferiorità occupazionale, deficit di

istruzione, violenze sessuali - riflettono in modo evidente una forte

discriminazione di genere.

179

Le principali forme di contrasto alla discriminazione di genere hanno seguito una

strategia volta a far accedere le donne a tutto ciò cui hanno accesso gli uomini,

secondo regole neutre rispetto al sesso: è la strategia delle pari opportunità

(filosoficamente definito come approccio della differenza), oggi ampiamente

diffusa nelle democrazie liberali. La portata ugualitaria di questo approccio è

tuttavia limitata, in quanto esso non fa altro che tentare di rendere più equa la

distribuzione di ruoli codificati dal genere maschile e a misura di esso, cioè secondo

il suo punto di vista - inevitabilmente situato e parziale. Quando, ad esempio, si

tratta di assegnare una posizione lavorativa che può essere ricoperta da persone che

non abbiano responsabilità di bambini piccoli, anche se non vi è alcuna

discriminazione formale o esplicita in base al genere, molte donne non potranno

accedere a quel lavoro, poiché non possiedono quel requisito, dal momento che è

quasi sempre delle donne l'onere della cura dei bambini piccoli: «[ ... ] mentre

l'approccio basato sulla differenza vede nella mancanza di una discriminazione

arbitraria la prova dell'assenza di una disuguaglianza sessuale, tale mancanza di

fatto può essere la prova della sua pervasività. È precisamente perché in questa

società le donne sono subordinate che non c'è bisogno di discriminarle

positivamente. [ ... ] Con l'aumentare delle disuguaglianze sessuali presenti nella

società, aumenterà anche l'identificazione tra istituzioni sociali e interessi maschili,

e di conseguenza verrà meno il bisogno di ricorrere a discriminazioni arbitrarie».95

Anche se - nella sintesi di Kymlicka - l'analisi femminista delle società

occidentali non corrisponde totalmente alla situazione attuale, purtuttavia ne rivela

alcune caratteristiche effettivamente presenti.

95WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 269.

180

Quali sono le conseguenze della critica femminista dell'approccio della differenza

sulle teorie ugualitarie della giustizia?

La disuguaglianza di genere va riformulata, ponendola non come questione di

arbitraria discriminazione ma di dominio, il quale si impone soprattutto sui soggetti

più deboli e più distanti dalla condizione posta come criterio di riferimento, in

questo caso quella maschile.96

Per alcune esponenti femministe, le donne devono poter anch'esse ridefinire i ruoli

sociali e ciò richiede una politica del/ 'autonomia più che una politica

dell 'uguaglianza. 97

Tuttavia, osserva Kymlicka, autonomia ed uguaglianza non sono valori competitivi

ma si richiamano l'una all'altra, trattandosi di principi entrambi peculiari di una

concezione autenticamente liberale della giustizia. Il punto è che eminenti teorici

liberali - a cominciare da Rawls - si sono limitati ad applicare il principio di

differenza senza intaccare più di tanto la tradizionale subordinazione delle donne.

Le ragioni di ciò non stanno, secondo Kymlicka, nell'impianto delle teorie liberali,

in particolare di quella rawlsiana, ma nella sottovalutazione del problema che rende

per così dire reticenti tali teorie: «se i teorici maschi hanno evitato l'approccio

basato sul dominio, ci sono ovvie ragioni di autointeresse».98

96Cfr. CATHERINE MACKINNON, Feminism Unmodified: Discourses on Life and Law, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1987, p. 44.

97Cfr. ELIZABETH GROSS, Feminist Challenges, Socia/ and Politica/ Theory, Boston (Mass.), Northeastem University Press, 1986.

98WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 273.

181

2. 2. 6. 2. Pubblico e privato

I teorici contemporanei della giustizia continuano, nel solco della visione

tradizionale, ad affermare o ad accettare implicitamente che i rapporti interni alla

famiglia - incluse le questioni relative alla disuguale distribuzione del lavoro

domestico e al rapporto tra le responsabilità familiari e quelle lavorative - esulano

dal campo di applicazione della giustizia, posto che si tratta di rapporti privati,

regolati dall'istinto o dalla simpatia naturale. La concezione implicita di famiglia

rimane quella tradizionale, a guida maschile, con una distribuzione sessuata delle

attività economiche esterne e di quelle domestiche e riproduttive. La rilevanza di tali

aspetti nelle dinamiche di relazione tra i sessi fa sì che la famiglia si configuri quale

terreno decisivo ai fini del raggiungimento di una uguaglianza di genere. Le

femministe criticano i liberali perché questi giustificherebbero la necessità di non

ingerenza nei rapporti familiari appellandosi alla loro appartenenza alla sfera

privata, che ne fa un ambito intangibile da parte della regolazione pubblica: si

avrebbe così un contrasto - interno ai principi liberali - tra uguaglianza dei sessi e

distinzione pubblico/privato. In realtà le teorie liberali considerano variamente la

famiglia, ma in ogni caso non la annoverano del tutto all'interno della sfera privata

- intesa come sfera della libertà liberale autonoma dal potere politico (società

civile) - senza però giustificarne in modi razionalmente e moralmente adeguati il

tradizionale assetto a prevalenza maschile: si tratta di una 'triste realtà' per la teoria

politica occidentale.99 L'inadeguatezza della tradizionale distinzione liberale

99 Ibidem, p. 280.

182

pubblico/privato in ordine alla problematica della disuguaglianza di genere induce a

ritenere più corretta una distinzione tra pubblico e domestico.

2.2.6.3. Un 'etica della cura

Collegata alla distinzione pubblico/domestico e alla conseguente divisione sessuata

tra lavoro produttivo extrafamiliare e lavoro familiare e di cura è l'idea, abbastanza

diffusa nella filosofia occidentale, che i due sessi siano portatori di diversi modi di

pensare e sentire, perfino di una diversa moralità: per gli uomini improntata alla

razionalità, scevra da passioni e universalistica, per le donne carica di elementi

intuitivi ed emozionali e perciò particolaristica; l'etica della giustizia e dei diritti è

stata associata a norme, valori e virtù maschili, mentre l'etica della cura e della

responsabilità verso gli altri è stata in genere associata a norme, valori e virtù

femminili. La sfera pubblica necessita di universalismo e, ritenendo che il progetto

morale femminile non possedesse questo carattere, si è trovata una giustificazione

per escludere le donne dalla sfera pubblica.

La diversità di moralità nei due generi ha un fondamento effettivo? E se sì, come va

assunta? Il tema è stato affrontato negli studi di Carol Gilligan, che ha riconosciuto

una diversità nello sviluppo morale delle donne rispetto agli uomini, descrivendola

sinteticamente in questi termini: «secondo questa concezione, il problema morale

sorge quando gli oggetti nei confronti dei quali ci si sente responsabili sono in

conflitto, e non quando vi è conflitto tra i diritti di due soggetti. E la soluzione del

problema richiede una modalità di pensiero contestuale e narrativa piuttosto che

formale e astratta. Una moralità intesa come cura degli altri pone al centro dello

183

sviluppo morale la comprensione della responsabilità e dei rapporti, laddove una

moralità intesa come equità lega lo sviluppo morale alla comprensione dei diritti e

delle norme». 100

Le due prospettive, secondo Gilligan, sono incompatibili. Questo argomento è stato

molto discusso: secondo alcuni, uomini e donne le usano entrambe più o meno

regolarmente; altri ritengono che tale diversità non annulli un'affinità di fondo

nell'approccio alla dimensione morale. La questione, ai fini della nostra indagine, è

«stabilire se, riguardo alle questioni politiche, esista un approccio basato sulla cura

in competizione con l'approccio basato sulla giustizia, e, in caso affermativo, se sia

un approccio superiore». 101 La diversità nella moralità tra uomini e donne viene

analizzata da Gilligan in ordine a tre punti: capacità morali, ragionamento morale,

concetti morali.

2. 2. 6. 3.1. Le capacità morali

L'opposizione, da questo punto di vista, è tra apprendimento di principi morali

(giustizia) e sviluppo di disposizioni morali (cura). Lo spostamento proposto da

Gilligan è dal conoscere i principi morali all'essere persone 'attrezzate' ad agire

moralmente, individuando i bisogni altrui e le soluzioni adatte al loro

soddisfacimento, verso la maturazione, cioè, di una sensibilità morale alla giustizia.

Se, da un lato, questa p_!ospettiva non sembra oggettivamente alternativa a quella

cognitiva ma integrativa in una relazione di reciprocità, è pur vero che le teorie

10°CAROL GILLIGAN, Con voce di donna, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1987, p. 27. 101WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 293.

184

liberali della giustizia hanno sottovalutato o poco approfondito l'importanza della

famiglia e di altri mondi vitali nel costruire la sensibilità morale alla giustizia; né,

peraltro, tali teorie hanno chiaramente denunciato l'ingiustizia del modello familiare

a dominanza maschile.

2.2.6.3.2. Il ragionamento morale

Le capacità morali possono fare a meno dei principi morali? Per le teoriche

femministe sì, poiché la moralità delle persone affronta situazioni particolari e non

applica principi universali e astratti. Discernere nelle situazioni particolari gli aspetti

moralmente più rilevanti richiede però uno sguardo ampio alla società e quindi il

ricorso a principi generali che gettino luce su casi dai risvolti spesso complessi. Alla

stessa conclusione si perviene nell'ipotesi di un conflitto tra più richieste

moralmente rilevanti che mettono in crisi l'interlocutore e le sue pur sempre limitate

risorse. Anche in questo caso, dunque, riferirsi a principi o a attenersi alla situazione

particolare non sono in realtà alternative, ma esigenze da considerare e da

conciliare, se ritenute legittime.

2.2.6.3.3. I concetti morali

La riflessione si concentra sulla dicotomia sollecitudine per i diritti e l'equità

(giustizia) versus attenzione alle responsabilità e alle relazioni (cura), in ordine al

contenuto dei principi di cui avvalerci per lo sviluppo della moralità.

185

Un primo argomento avanzato da Gilligan a sostegno del suo punto di vista è che

<<nell'ottica della giustizia l'io come agente morale è la figura che spicca su uno

sfondo di relazioni sociali, e come tale giudica le contrastanti pretese sue e degli

altri sulla base di un criterio di uguaglianza o di uguale rispetto (I' imperativo

categorico, la regola d'oro). Nell'ottica della cura, la relazione diventa la figura che

definisce l'io e gli altri. Nel contesto della relazione, l'io come agente morale

percepisce il bisogno e reagisce a tale percezione». 102 Per 'rete delle relazioni in atto'

si deve intendere non l'insieme delle relazioni effettivamente intrattenute ad un

certo momento, ma un'appartenenza comune a tutti «per il fatto stesso di essere

esseri umani». 103 Se è così, siamo allora in presenza di un principio universale

(I' identificazione simpatetica con tutte le parti in causa) da applicare ad ogni

situazione particolare. Rimane poi il problema di come risolvere dilemmi morali

come quelli che nascono dal dover decidere di rispondere a bisogni in conflitto di

soggetti diversi per posizione nella rete di relazioni (ad esempio tra familiari, amici

intimi, altri).

Un secondo punto porta a riflettere sul rapporto tra la comune umanità delle persone

e la loro propria individualità: l'etica della giustizia, secondo le teoriche femministe,

si occupa esclusivamente dell'altro generalizzato finendo con il trascurare l'altro

concreto di cui si fa carico, invece, l'etica della cura. Anche questa opposizione

rischia di essere enfatizzata più del dovuto da parte delle femministe, se si considera

che entrambe le prospettive in discussione sono universali: l'etica della cura

occupandosi del particolare non nega la comune umanità, così come, per altro verso,

102CAROL GILLIGAN, Con voce ... cit., p. 23. 103/bidem, p. 165.

186

l'etica della giustizia, nel tener conto delle preferenze delle persone, non può

esimersi dal considerare le loro particolari individualità. Alla posizione femminista

ha fatto problema, a tale proposito, la nozione rawlsiana di posizione originaria, che

è stata però da essa fraintesa connotandola di astrattezza: in realtà la posizione

originaria fa chiaro riferimento alla necessità che ognuno impari a porsi dal concreto

punto di vista altrui.

In ultimo Gilligan esamina la differenza tra un ragionamento morale basato su

diritti-pretese (etica della giustizia) ed uno basato sull'accettazione delle

responsabilità verso gli altri (etica della cura): la studiosa femminista sostiene che il

primo si impernia su un meccanismo - i diritti - che in buona sostanza è di

autotutela, in cui i doveri si riducono perlopiù alla reciproca non-interferenza e non

è necessariamente richiesto un interesse positivo verso il benessere degli altri, come

nel caso dell'etica della cura. Questa, tuttavia, appare una lettura critica da

indirizzare ad un bersaglio diverso e cioè alle teorie liberiste, poiché le varie teorie

liberali della giustizia non trascurano affatto il legame diritti-responsabilità verso gli

altri. Parrebbe, a questo punto, che la dicotomia delineata da Gilligan non sia così

netta come da lei argomentato.

C'è però un punto di reale discontinuità che è la valutazione morale del dolore

soggettivo: per i liberali esso vincola moralmente la nostra responsabilità solo se

deriva da un'ingiustizia oggettiva, con il medesimo effetto anche quando da una

ingiustizia oggettiva non scaturisca alcun dolore soggettivo. Per le femministe

l'appello alla responsabilità verso un dolore soggettivo è sempre moralmente

vincolante.

187

I liberali ritengono che non si debba ritenere immorale un dolore soggettivo causato

da colpa o negligenza della persona, poiché occorre pur sempre porre un limite alle

pretese che altri possono avanzare nei nostri confronti: se così non fosse si avrebbe

un'ingiustizia poiché alcuni soggetti, più responsabili, dovrebbero sacrificare i

propri legittimi progetti a beneficio di persone imprudenti e irresponsabili. Ciò

naturalmente ha valore solo per le relazioni tra adulti capaci di intendere e di volere,

escludendo quindi le relazioni con minori, malati, disabili o persone comunque

dipendenti dalle nostre cure e responsabilità.

Osserva Kymlicka: «il dibattito tra cura e giustizia, quindi, non è tra responsabilità e

diritti. Quella di responsabilità, anzi, è una nozione centrale dell'etica della

giustizia». '04 La teoria di Rawls «fa affidamento su una capacità di assumere

responsabilità per i nostri fini». 105 I dolori soggettivi, inoltre, possono sorgere da

aspettative sbagliate perché infondate o illegittime; come può anche accadere che

talune ingiustizie oggettive non vengano percepite dai soggetti oppressi a motivo di

condizionamenti culturali, ma rimangono pur sempre tali, cioè immorali, anche se

non viene espresso un dolore soggettivo.

Vi è poi da contemperare la responsabilità per il proprio benessere personale e

quella verso il benessere altrui, dal momento che una rigida applicazione dell'etica

della cura potrebbe condurre a minimizzare gli spazi per sé a favore dei doveri verso

gli altri, sempre per via dell'incremento delle aspettative di questi nei nostri

confronti. Questa esigenza di equilibrio viene infatti ammessa da Gilligan, 106 ma è

104WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 310. 105JOHN RAWLS, Unità sociale e beni principali, in AMARTYA K. SEN - BERNARD WILLIAMS (a cura di),

Utilitarismo e oltre, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 213. 106CAROL GILLIGAN, Con voce ... cit., p. 152.

188

difficile ricavare da questo passaggio teorico un criterio che indichi una misura,

l'individuazione della quale viene quindi rinviata all'esame della singola situazione

concreta.

Kymlicka ritiene che vadano individuati dei criteri generali: «[ ... ] questo è un

terreno in cui l'astrazione è una virtù importante. Se vogliamo che il libero

perseguimento dei nostri progetti non sia interamente sommerso dalle esigenze

etiche della cura per gli altri, ci servono non solo dei limiti alle nostre responsabilità

morali, ma dei limiti prevedibili. Se vogliamo fare dei progetti a lungo termine,

abbiamo bisogno di sapere in anticipo su che cosa possiamo contare e di che cosa

siamo responsabili». 101

Dal confronto tra etica della giustizia ed etica della cura sembra risultare chiaro che

il vero elemento cruciale di distinzione è il concetto di responsabilità per i propri

fini. Seguendo il ragionamento sin qui condotto, la responsabilità verso altri che

dipendono da noi esulano dall'etica della giustizia - poiché 'invadono' il campo

dei nostri progetti, vincolando moralmente la nostra azione - e si collocano al di là

o al di fuori della vita pubblica. Ciò, però, non risolve i problemi teorici, ma li

ripropone, suggerendo ulteriori indirizzi di ricerca: «dovremo dire allora che la cura

riguarda i rapporti con le persone che dipendono da noi e la giustizia quelli con gli

adulti autonomi? Un problema è che la distribuzione della cura è anch'essa una

questione di giustizia. [ ... ] non è possibile vedere nella cura soltanto un possibile

progetto di vita anziché un vincolo morale per ogni piano di vita. [ ... ]

l'eliminazione della disuguaglianza sessuale esige non solo la redistribuzione del

107WILL KYMLICKA, Introduzione ... cit., p. 312.

189

lavoro domestico, ma anche l'abbandono della distinzione netta tra pubblico e

domestico». 108

Siamo dunque ad una tensione non risolta - e al momento non risolvibile - tra

giustizia e cura, poiché la prima presuppone di essere applicata solo ad interazioni

tra adulti autonomi; la posta in gioco è elevata: <<Una teoria dell'uguaglianza fra i

sessi che non affronti tali questioni e non metta in discussione quelle concezioni

tradizionali della discriminazione e della privacy che ce ne hanno impedito la

visione, non può considerarsi adeguata». 109

108/bidem, pp. 317-18. 109/bidem, p. 319.

CAPITOLO 3

CAPITOLO 3 - LA CITTADINANZA OLTRE LE APORIE DELLA MODERNITÀ

3.0. Premessa

La cittadinanza, all'interno del percorso della modernità, ha rappresentato un codice

simbolico e normativo fondamentale per l'integrazione della società. I processi

sociali scaturiti dalla modernità hanno trasformato in profondità le società

occidentali e hanno offerto nuove e significative opportunità di crescita e di

sviluppo agli individui e alle molteplici forme di interazione sociale. Si sono però

anche prodotte contraddizioni, patologie, deviazioni dalla modernità come progetto. 1

Da parte dell'analisi sociologica, filosofica, giuridica, politologica si è dato vita ad

un ampio dibattito su tali questioni, e segnatamente sul fatto se la modernità

rimanga un progetto ancora attuale ancorché incompleto o se sia ormai tramontata

l'era dei 'grandi racconti' che lascia spazio solo al pensiero debole post-moderno o

se, invece, occorra tentare di individuare una prospettiva che superi la modernità e i

suoi limiti senza tuttavia abbandonarne le istanze e le realizzazioni positive. La

posizione assunta all'interno del dibattito sulla modernità influisce notevolmente

anche sulla riflessione in ordine alle vicende della cittadinanza. La prospettiva

sociologica prescelta consentirà inoltre di esaminare in profondità il problema dei

criteri fondativi dello Stato sociale. Rimane perciò centrale affrontare la questione

1Cfr. JOHN BENDIX, Cittadinanza, in Enciclopedia delle scienze sociali, I,. Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1991, pp. 772-777.

192

«se, e se sì, in che senso e in quali modi, la cittadinanza sia o possa essere quel

'qualcosa' che può funzionare da 'cemento' politico della società».2

Scopo di questo capitolo è prendere in esame le teorie sulla cittadinanza - una

delle dimensioni ed espressioni più significative di integrazione politica e di

solidarietà sociale - e di offrire spunti di valutazione critica rispetto alle sfide che

l'attuale contesto societario pone: multiculturalismo, crisi dei sistemi di welfare

state, ridefinizione della politica sociale, rapporto società civile-stato. Lungo questo

percorso avremo modo di attraversare sociologicamente i nodi strutturali della

modernità e della post-modernità, enucleando, dall'ampio dibattito scientifico su tali

argomenti, elementi in grado di sostenere un'analisi riflessiva, capace cioè di

esaminare dall'esterno il proprio oggetto.

3.1. Cittadinanza e progetto dell 'Jlluminismo

L'analisi filosofico-politica di Salvatore Veca sui temi della cittadinanza è protesa

verso la prospettiva dell'emancipazione, il cui avvio viene emblematicamente

individuato nella Rivoluzione francese (emancipazione come passaggio di

condizione da schiavi a sudditi, da sudditi a cittadini). L'idea generale è che il

'Progetto Ottantanove' - il complesso valoriale e normativo dato da liberté,

égalité, fraternité - sia ancora sostanzialmente incompiuto nelle democrazie

contemporanee; i problemi, gli squilibri, le tensioni nelle società occidentali

2PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 6.

193

sarebbero da attribuire a questa incompiutezza: «la nozione di cittadinanza è

formulata in una sequenza di argomenti a più stadi, caratterizzata da un

ordinamento. Questo ordinamento è essenzialmente incompleto. E è bene che sia

così, se si prende sul serio una prospettiva emancipatoria». 3 Il compimento di questo

disegno può essere realizzato attraverso la composizione della prospettiva liberale e

di quella socialista - accettando anche le tensioni e le contraddizioni che ciò può

comportare: le due prospettive danno vita ad un «'composto chimico' [ ... ]

letteralmente instabile»4 - entrambe particolarmente significative nella storia della

democrazia moderna. I cardini teorici di una prima versione della cittadinanza

secondo il 'Progetto Ottantanove' sono, come è noto, il riconoscimento dei diritti

individuali attraverso le dichiarazioni, la teoria del valore della scelta individuale, la

teoria del contratto sociale. 5 La conversione di status avviene mediante la

costituzionalizzazione delle libertà individuali, di cui viene istituita la tutela, che

«vincola le scelte sociali alla rispondenza o alla corrispondenza (in una qualche

forma) con le scelte individuali».6 In quest'ottica si presuppone che fra cittadini e

autorità legittima vi sia una relazione diretta, che non ammette corpi intermedi o

società parziali. Si tratta dunque di un assetto istituzionale indifferente o neutrale di

fronte agli interessi, impegnato esclusivamente nella tutela dei diritti morali

individuali; una versione della cittadinanza molto prossima allo stato di diritto nella

3SALVATORE VECA, Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull'idea di emancipazione, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 19.

4/bidem, p. 107. 5 Ibidem, pp. 23-24. 61bidem, p. 25.

194

sua concettualizzazione liberale classica: l'individuo artefice del proprio destino in

posizione di centralità.

La via liberale all'emancipazione si basa sul riconoscimento dell'autonomia cui ha

diritto ogni individuo, riconoscimento che è chiaro retaggio illuministico. Il che

implica necessariamente anche un evidente richiamo all'uguaglianza (nel

godimento e nel riconoscimento dell'autonomia) e, seguendo lo sviluppo storico

delle società moderne, alla differenza.

La posizione marxiana evidenzia la contraddizione fra le due forme di cittadinanza,

quella del citoyen e quella del bourgeois. Con il sorgere dell'idea e delle pratiche di

cittadinanza prende avvio la questione sociale moderna, poiché le disuguaglianze di

dotazioni sociali e culturali e di opportunità vengono ad assumere una diversa

natura, alla luce della definizione di pari cittadinanza per tutti. Marx identifica nel

mercato capitalistico la principale fonte di disuguaglianze; l'incompiutezza della

cittadinanza moderna verrà colmata dalla rivoluzione nei rapporti di produzione. È il

concetto di emancipazione socialista: l'uomo artefice del proprio destino nel senso

della libertà come capacità, a condizione, cioè, che sia garantito a tutti lo sviluppo

delle proprie capacità, tenuto conto delle disuguaglianze naturali e sociali.

L'uguaglianza viene anteposta alla libertà; si punta ad una società senza mercato e

senza stato.

Alexis de Tocqueville ha evidenziato in successione ai diritti di libertà il diritto di

associazione, la libera arfe di associarsi per difendere diritti o promuovere interessi,

anche mediante la rappresentanza politica. Ciò si connette al fatto e al valore del

pluralismo (pluralismo degli interessi e delle espressioni di rappresentanza politica).

195

Nei principi dell'89 la 'nazione' è l'unica forma di identità collettiva cui può dare

luogo la libera scelta di aggregarsi dei cittadini, non essendo ammesso alcun 'corpo

intermedio' fra stato e individui, poiché questi potrebbero farsi portatori di istanze

non coincidenti con la volontà generale. Non sono cioè ammesse identità collettive

alternative a quella di cittadinanza così definita. (Anche nell'odierno ordinamento

statuale italiano, ad esempio, permane traccia di ciò, se si considera, ad esempio,

che il parlamentare eletto in un dato collegio rappresenta comunque l'intera nazione

senza vincolo di mandato). Veca sostiene che «il pluralismo non appartiene

necessariamente all'orizzonte della modernità e alla teoria della cittadinanza»,

essendo piuttosto frutto della differenziazione che si fonda sulla libertà degli

individui: con ciò egli riconosce che la cittadinanza moderna presuppone un

contesto sociale non differenziato, già solo per questo aspetto profondamente

diverso da quello contemporaneo. Le democrazie moderne e contemporanee

contengono irrisolto il dilemma pluralismo-individualismo: in altri termini, l'esito

del diritto di coalizione è dato dal 'conflitto sociale della modernità' ,7 determinato

dall'estensione dei diritti di cittadinanza civili, politici e sociali. s Se Veca afferma

che rimane irrisolto il dilemma individualismo/pluralismo, giacché osserva

correttamente che il pluralismo non è della modernità, viene però da constatare che

esso si è prodotto con la modernità, e dunque ad essa, in quanto processo storico, è

imputabile. Ancora: egli riconosce che lo sviluppo della modernità nel senso

dell'estensione dei diritti individuali genera conflitti sociali, ma la sua analisi non è

7RALF DAHRENOORF, Il conflitto sociale nella modernità, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1989. 8T. H. MARsHALL, Cittadinanza e classe sociale, ( ediz. orig. 1950), trad. it., Torino, Utet, 1976.

196

in grado di andare oltre nell'indicarne le motivazioni, poiché non sottopone a vaglio

critico il 'pregiudizio' moderno circa l'identificazione tra volontà generale e stato.

Lo scopo di un'attuale teoria normativa della cittadinanza non è più quello della

trasformazione dei sudditi in cittadini, ma, ben oltre, quello di «identificare

razionalmente criteri o principi per l'allocazione o la distribuzione di vantaggi e

svantaggi, di costi e benefici della cooperazione sociale per estendere e rendere più

rispondente la versione della cittadinanza sino a tradurla 'costituzionalmente' in uno

status sotto cui descrivere uomini e donne cui ascrivere diritto a beni di cittadinanza,

a eque opportunità fondamentali (sotto la condizione previa della definizione dei

doveri o dei costi, grazie a uno schema di giustizia fiscale [ ... ])».9 Da qui prende le

mosse il tormentato - e anch'esso incompiuto - percorso della teoria democratica,

di cui Veca riepiloga alcuni aspetti salienti: i) il pluralismo organizzato non è solo

conseguenza ma precondizione della democrazia, ii) il pluralismo produce effetti

antimonocratici, tutelando diritti ed opportunità dei cittadini, iii) si attuano tensioni

fra scelte individuali, collettive e delle organizzazioni, iv) vengono erose le basi

dell'uguaglianza politica ('una testa, un voto'), v) la percezione pubblica degli

interessi generali viene distorta, come anche la rappresentanza politica, vi) vengono

incrementati l'agenda politica e il ruolo dell'agenzia politica, vii) la leadership

democratica risulta indebolita, a vantaggio e ad opera delle grandi burocrazie

private, dei modellatori delle preferenze nel 'supermarket delle identità collettive',

dei potentati economici e finanziari.

9SALVATORE VECA, Cittadinanza ... cit., pp. 38-39.

197

Lo stato di diritto evolve in stato sociale, l'agenda politica si amplia, si ridefinisce il

confine fra sfera privata e sfera pubblica: «questa estensione del pacchetto di diritti

da ascrivere allo status di cittadinanza esprime al meglio il mix, il 'composto

chimico instabile', fra gli ideali della emancipazione liberale e quelli

dell'emancipazione socialista». 10

Sulle prospettive del suo approccio ai temi della cittadinanza contemporanea V eca

afferma: «[ ... ]la mia tesi è che il terzo '89, quello che ci è tuttora contemporaneo,

in cui ci poniamo i dilemmi normativi generati dal remoto Progetto Ottantanove,

formuli per noi un'agenda di questioni pertinenti, se prendiamo sul serio l'idea di

valore politico e morale che questo è il miglior passato da cui guardare a un futuro

normativo desiderabile, alla luce di un qualche criterio o insieme di criteri di

giudizio politico e morale, per gli scopi di una filosofia politica della cittadinanza».11

Di quali questioni si tratta? È la sfida dei diritti di 'terza generazione', che

«dipendono [ ... ] da una sorta di riclassificazione analitica di interessi diffusi che

toccano questioni (di sorte e di tempo, quando non di significato) di vita per uomini

e donne». 12 In questa fase di ridefinizione si è animata la corrente post-moderna, che

però a giudizio di Veca nulla toglie alla validità e all'integrità della storia del

grande racconto della cittadinanza moderna e alle sue prospettive attuali. Tali

questioni potrebbero essere: «i) come ridisegnare la mappa dello stato sociale [ ... ]

ii) come tutelare la virtù del pluralismo riducendone i costi? [ ... ] iii) come

mantenere la promessa della correlazione fra scelte individuali e scelte collettive, su

lOJbirJem, p. 42. 11/bidem, pp. 43-44. 12 Ibidem, p. 44.

198

un'arena ristretta a poche, grandi questioni che pertengano a interessi di lungo

termine? [ ... ]iv) come modellare lo status di cittadinanza perché esso mantenga le

caratteristiche di un processo di abilitazione per uomini e donne differenti e non di

un processo di livellamento?». 13

Per affrontare tali quesiti una filosofia politica della cittadinanza dovrà basarsi sulla

«migliore interpretazione possibile di quel grappolo di valori, di quel nucleo

normativo di libertà, eguaglianza, fraternità che è la traccia, vicina, della remota

vicenda del primo '89. Costituzione di libertà (negativa e positiva); eguaglianza

nelle opportunità fondamentali per cittadini e cittadine; solidarietà di cittadinanza

con chiunque, senza sua responsabilità, è svantaggiato con handicap imputabili alla

sorte nelle dotazioni sociali e naturali iniziali, quando non svantaggiato dalle

differenze che istituzioni, inique o inefficienti, sanzionano, costitutivamente o

regolativamente, come ineguaglianze». 14 A ciò si aggiunga l'insopprimibile e

correlata esigenza di formulare regole «per i ruoli degli attori sociali e i confini delle

arene o delle sfere della loro libertà di scelta», 15 tra cui il mercato.

A tale proposito, V eca approfondisce il rapporto fra l'esistenza del mercato in

generale e la teoria normativa della cittadinanza. Il mercato nella sua autonomia da

altre sfere sociali - segnatamente da quella politica - trova la sua motivazione

essenziale nella libertà, ne è espressione: è la visione liberale dello stato di diritto,

che esclude l'uguaglianza distributiva, perché quest'ultima configura una violazione

dei diritti morali individuali e della libertà di scelta individuale. Nella prospettiva

13 fbidem, pp. 46-4 7. 141bidem, p. 47. 15 Ibidem, p. 48.

199

socialista il mercato è connotato negativamente, perché viene individuato

responsabile delle inuguaglianze nei rapporti di produzione, che si riflettono m

asimmetrie in varie altre sfere. «L'argomento socialista ex ante contro il mercato

porta con sé, come implicazioni, l'erosione delle basi non della semplice libertà

negativa, ma dell'intera famiglia di diritti e libertà, inclusa l'elisione della

possibilità del pluralismo. Il mercato [ ... ] risulta così un elemento ineludibile in una

teoria normativa della cittadinanza». 16 Come risolvere, allora, il dilemma

uguaglianza-libertà? La recente teoria democratica punta alla composizione di

entrambe le esigenze, considerando da un lato la migliore efficienza del mercato

rispetto ad altri sistemi di regolazione dell'economia e dall'altro l'arbitrarietà

morale della distribuzione delle dotazioni naturali e sociali iniziali, oltre che

l'inefficienza del mercato in alcuni ambiti e le inuguaglianze ingiuste cui il mercato

può condurre. Occorre, quindi, <mna correzione degli esiti di mercato o una

redistribuzione più egualitaria o meno inegualitaria delle dotazioni sociali iniziali

perché lo schema delle istituzioni politiche e sociali possa essere razionalmente

giustificato per cittadini e cittadine dotate di pari dignità». 17 Veca fa qui riferimento

a un 'paniere di beni sociali primari o di eque opportunità fondamentali' che

vengono affidati alla responsabilità e alla libera scelta di ciascuno.

In conclusione, sembra esservi un'adesione ad un giudizio di valore positivo sulla

modernità che compromette, per taluni aspetti, un equlibrato giudizio critico su di

essa, alla luce del suo sviluppo storico: in particolare, la relazione postulata dal

16/bidem, p. 51. 11/bidem, p. 53.

200

codice moderno tra individuo e Stato è univoca - l'individuo è titolare di diritti di

cui è garante lo Stato, ma non dei doveri necessari al mantenimento e allo sviluppo

degli scopi dello Stato medesimo. La attuale problematica della cittadinanza non

può essere ridotta a questioni meramente redistributive dei vantaggi e dei costi

prodotti dal mercato.

3.2. Cittadinanza versus disuguaglianza sociale

L'opera di T. H. Marshall è senz'altro il riferimento classico fondamentale sul tema

della cittadinanza nell'ambito della teoria sociologica. Egli parte dal considerare il

processo di costruzione della democrazia industriale britannica nel suo sviluppo

storico, sociale e politico, individuando nella cittadinanza la chiave di lettura di

alcuni fra i più significativi mutamenti avutisi in quella società. I temi approfonditi

nella sua analisi possono essere ricondotti a tre aree: i) la definizione del concetto di

cittadinanza e dei suoi contenuti normativi, ii) la sua dinamica evolutiva, iii) le

relazioni tra i diritti di cittadinanza e le disuguaglianze sociali derivanti dal mercato.

Cos'è la cittadinanza? «La cittadinanza è uno status che viene conferito a coloro che

sono membri a pieno diritto di una comunità. Tutti quelli che posseggono questo

status sono uguali rispetto ai diritti e ai doveri conferiti da tale status. Non c'è

nessun principio universale che determini il contenuto di questi diritti e doveri, ma

le società nelle quali la cittadinanza è un'istituzione in via di sviluppo presentano

l'immagine di una cittadinanza ideale rispetto a cui si possono misurare le conquiste

ottenute e verso cui le aspirazioni possono indirizzarsi. La spinta in avanti lungo il

201

sentiero così tracciato è una spinta verso un maggior grado di uguaglianza, un

arricchimento del materiale di cui è fatto lo status e un aumento del numero delle

persone cui è conferito questo status». 18

La portata radi~almente innovativa della concettualizzazione marshalliana emerge

ancora di più nella sua articolazione interna: il sociologo inglese, secondo un'analisi

«dettata dalla storia ancor più chiaramente che dalla logica», distingue al suo interno

tre elementi - il civile, il politico, il sociale - cui fanno capo degli insiemi

specifici di diritti e le istituzioni pubbliche più vicine all'esercizio di una gamma di

diritti. Al 'civile' corrispondono così i diritti di libertà individuale, di possedere cose

in proprietà e di stipulare contratti, a ottenere giustizia; le istituzioni più

direttamente implicate sono le corti di giustizia. Il 'politico' include i diritti alla

partecipazione attiva e passiva all'esercizio del potere politico; le istituzioni

coinvolte sono il parlamento e gli organi amministrativi locali. L'elemento 'sociale'

della cittadinanza è ampio e variegato, comprendendo dal diritto ad un livello

minimo di sicurezza e benessere di tipo economico al diritto ad intrattenere normali

relazioni sociali da persone civili; le istituzioni maggiormente collegate a tale

elemento sono il sistema scolastico e i servizi sociali. 19

Sebbene la cittadinanza nei suoi aspetti sia caratterizzata da una tensione verso

l'uguaglianza, la sua evoluzione è strettamente collegata allo sviluppo del

capitalismo «che è un sistema di disuguaglianza, e non di uguaglianza».2° Come è

stata possibile la compresenza di principi così divergenti? Per Marshall, nella prima

18/bidem, p. 24. 19/bidem, p. 9. 20/bidem, p. 24.

202

fase della cittadinanza il riconoscimento dei diritti civili agli individui era necessario

allo sviluppo del mercato e, dunque, la logica (civile) dello status e quella

(mercantile) del contratto conducevano nella medesima direzione: solo individui

tutelati nella loro integrità personale avrebbero potuto dare vita ad una libera

competizione economica. La cittadinanza politica, invece, contiene principi in grado

di minacciare la logica antiugualitaria capitalistica, poiché segna l'ingresso delle

classi lavoratrici nelle istituzioni politiche delle democrazie liberali: questa fase

segna infatti l'avvio del riformismo del Novecento, del riconoscimento dei diritti

sociali, della nascita e della crescita quantitativa e qualitativa dei sistemi di

sicurezza sociale.

Marshall è dell'idea che la cittadinanza sociale non abbia forza sufficiente per

battere l 'antiugualitarismo del mercato, potendone tutt'al più contenere taluni effetti

negativi mediante un miglioramento della qualità della vita a favore dei soggetti

meno avvantaggiati nella stratificazione sociale. Questa seppur limitata

compenetrazione tra tendenza ugualitaria dei diritti sociali e tendenza antiugualitaria

del mercato è ormai abbastanza radicata, sostiene Marshall, e non è più possibile

espungere la cittadinanza sociale dall'economia di mercato delle società moderne. 21

21Quanto affermava Marshall troverà conferma, ad esempio, nella vicenda politico-sociale della Gran Bretagna thatcheriana degli anni '80, quando al massiccio piano governativo di deregulation, privatizzazioni e altre misure neo-liberiste non fece seguito una drastica diminuzione degli stanziamenti per ammortizzatori sociali. La medesima dinamica può tuttavia essere interpretata anche secondo una diversa ottica: il governo britannico conservatore non operò tagli alla spesa sociale di taglio più assistenziale ma non introdusse nelle politiche sociali ed economiche quelle innovazioni che avrebbero forse prevenuto o almeno attenuato l'ingrossarsi· della underclass di poveri ed esclusi che popola soprattutto le metropoli e le aree depresse del paese.

203

La cittadinanza non è in grado di eliminare le disuguaglianze ma finisce con

l' «alterare la struttura della disuguaglianza sociale» :22 dal terreno dello status (che

era quello investito dalle disuguaglianze premoderne) si tende ad uno spostamento

verso quello dei redditi e di taluni consumi privati. Considerando questi effetti

unitamente ad altri caratteri ugualitari delle democrazie moderne (diffusione delle

tutele sindacali e assenza di privilegi ereditari), Marshall osserva che la

disuguaglianza è di gran lunga meno intollerabile rispetto al passato e che, con il

progredire dei sistemi di protezione sociale, tenderà ad alleggerirsi ulteriormente.

L'opposizione tra cittadinanza e mercato, conclude il sociologo inglese, non

conduce a conflitti insuperabili: attraverso compromessi sociali, si configura anzi

come fattore di stabilità e di sviluppo delle democrazie industriali.23

3. 2.1. Critiche a Marshall: Giddens, Barba/et, Held

L'ottimismo della tesi marshalliana trova oggi non pochi critici fra i sociologi che

hanno indagato le vicende della cittadinanza. Prenderemo brevemente in esame le

posizioni, tra gli altri, di Anthony Giddens, Jack M. Barbalet, David Held.

Giddens non condivide l'idea marshalliana di linearità e gradualità dello sviluppo

della cittadinanza, che sarebbe agevolato da un circolo virtuoso Stato-mercato: in

questo quadro non emerge il conflitto sociale e politico, attivato soprattutto

attraverso le lotte delle classi operaie, che invece ha avuto un peso non marginale.

22T. H. MAR.sHALL, Cittadinanza ... cit., p. 63. 23 Ibidem, p. 71.

204

Poiché, inoltre, taluni risultati ugualitari sono ancora da conseguire, tale conflitto

rimane aperto. 24

Barbalet si ripropone di analizzare le condizioni economico-sociali in presenza delle

quali i diritti di cittadinanza non rimangano mere affermazioni formali. 25 Egli

sostiene che oltre all'antinomia, segnalata da Marshall, tra antiugualitarismo del

mercato e ugualitarismo della cittadinanza, vi sono significative tensioni interne alla

cittadinanza stessa, tra le varie categorie di diritti di cui essa si compone: l'esercizio

dei diritti civili di libertà aumenta il potere dei titolari, mentre l'esercizio dei diritti

sociali prevede il consumo di prestazioni che devono essere erogate dallo Stato.

Secondo Barbalet - e su questo punto, come si vedrà più avanti, concorda anche

Danilo Zolo - è improprio annoverare i diritti sociali fra i diritti di cittadinanza,

almeno per tre ordini di motivi: i) essi non sono diritti di partecipazione ad una

common national community, ma rappresentano condizioni pratiche utili a

parteciparvi; ii) i diritti sociali fanno riferimento a pretese di prestazioni

particolaristiche e selettive, mentre i diritti devono essere formulati secondo

universalità e formalità; iii) i diritti sociali possono essere attuati solo in presenza di

un'efficiente economia di mercato, di un'articolata struttura amministrativa e

professionale, di un adeguato sistema fiscale. Barbalet ne ricava che è più corretto

24ANTHONY GIDDENS, Class Division, Class Conjlict and Citizenship Rights, in ID., Profiles and Critiques in Socia/ Theory, London, Macmillan, 1982, pp. 171-73, 176.

25JACK M. BARBALET, Cittadinanza. Diritti, conflitto e disuguaglianza sociale, trad. it., introduzione e cura di DANILO ZOLO, Padova, Liviana, 1992.

205

definire i diritti sociali come conditional opportunities, che consentono il pieno

esercizio dei diritti civili e politici di cittadinanza.26

Secondo Held la complessità della cittadinanza moderna non può essere tematizzata

esaustivamente da una 'concezione ristretta' che guarda soltanto al suo rapporto con

la stratificazione sociale e il sistema capitalistico: occorre anche considerare le

disuguaglianze di genere, razziali, tra generazioni e le tematiche ambientali. La

cittadinanza deve inoltre guardare al di là dei confini dello Stato-nazione: la

globalizzazione sta allargando sempre di più la distanza fra i diritti nazionali di

cittadinanza, la legislazione internazionale e le relazioni sociali. 21

Danilo Zolo concorda con Held sulla necessità di superare la concezione marxista di

cittadinanza, rivelatasi inadeguata alla complessità della società contemporanea, in

quanto vista solo strumentalmente come alternativa graduale e pacifica alla

rivoluzione socialista, e non come fine:28 il punto, infatti, è riflettere su quali spazi vi

siano per una cittadinanza autenticamente democratica nella società postindustriale

in termini di autonomia individuale e non solo di libertà negativa. Egli invece non

condivide l'istanza di Held ad estendere la cittadinanza a quasi ogni genere di

rivendicazione normativa (sono qui ricompresi anche i diritti di terza e quarta

generazione - diritto ad un ambiente sano e diritto alla preservazione da

26Per una posizione contraria a questa, cfr. LUIGI FERRAJOLI, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in DANILO ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 263-92, di cui daremo conto infra.

27DAVID HELD, Citizenship and Autonomy in ID., Politica/ Theory and the Modern State, Stanford, Stanford University Press, 1989, pp. 189-213.

28DANILO ZOLO, Prefazione ... cit.

206

manipolazioni genetiche nocive all'integrità degli individui e della stessa specie

umana- cui fa cenno Norberto Bobbio).29

Luigi Ferrajoli contesta l'idea sociologica marshalliana di cittadinanza, a suo

giudizio troppo distante da quella giuridica al punto da stravolgerne il significato

originario:30 la cittadinanza è un argomento per il quale il riferimento al diritto

positivo è imprescindibile, posto che «i diritti, al pari dei doveri e delle altre

situazioni giuridiche, non sono quelli che giusnaturalisticamente identifichiamo

come rispondenti a istanze di giustizia, o di ragione, o di efficacia o anche di

concreta soddisfacibilità. Essi sono quelli e solo quelli performativamente prodotti

dalle leggi, siano esse costituzionali o ordinarie, indipendentemente dalla loro

coerenza o incoerenza, dalla loro plausibilità o non plausibilità e dalla loro maggiore

o minore effettività».31 La sociologia, osserva Ferrajoli, non può attribuirsi 'funzioni

legislative', stabilendo quando si abbia un diritto (di cittadinanza o di altro genere) e

quando no, prescindendo dalle leggi positive: i diritti presenti negli ordinamenti

vanno 'presi sul serio' .32 Non si può, poi, affermare - come fa Marshall - che la

cittadinanza è il contenitore di tutti i diritti civili, politici e sociali o di altro genere,

attuali e a venire, giacché verrebbe a perdersi la nozione giuridica di persona e dei

suoi diritti, da tenere distinti da quelli del cittadino, che sono essenzialmente quelli

politici. La cittadinanza è uno status che caratterizza gli appartenenti ad un

-29-Cfr. NORBERTO BOBBIO, L'età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990. 30LUIGI FERRAJOLI, Dai diritti del cittadino ... cit. 31/bidem, p. 275. 32La critica di Ferrajoli si indirizza anche contro le posizioni volte a configurare come 'servizi sociali' i

cosiddetti diritti sociali di cittadinanza (alla salute, al lavoro, all'istruzione, alla sussistenza eccetera), in quanto sprovvisti di apposite procedure per regolarne l'esercizio ed esigerne l'adempimento (azionabilità): cfr. JACK M. BARBALET, Cittadinanza ... cit.; DANILO ZOLO, La strategia della cittadinanza, in Io., (a cura di), La cittadinanza ... cit., pp. 3-46.

207

ordinamento politico-statuale rispetto a chi non vi appartiene, e non altro; nessun

ordinamento democratico potrebbe fondatamente pretendere di negare i diritti civili

o taluni diritti sociali (ad esempio salute, equa retribuzione) a non cittadini, il che

dimostra come tali diritti non facciano parte della cittadinanza in senso giuridico.

Taluni ordinamenti giuridici hanno favorito l'equivoco, riservando ai soli cittadini la

titolarità di diritti che in realtà sono da riconoscere a tutti gli esseri umani, pena la

produzione di pesanti e ingiuste discriminazioni. Abbiamo già avuto modo di

raccogliere un'osservazione abbastanza netta di Ferrajoli circa la portata di

esclusione e discriminazione della cittadinanza contemporanea, che egli ha poi

sviluppato in direzione di una proposta tesa al superamento della cittadinanza

nazionale: la prospettiva è quella del compimento di un costituzionalismo mondiale

che - già avviato con le convenzioni internazionali sui diritti dell'uomo -

riconosca, non senza un certo carattere di 'utopia giuridica' che lo stesso autore

ammette, tutti i diritti fondamentali, anche quelli di circolazione e di residenza, alla

persona anziché al cittadino e abolisca i confini statuali, ponendo così le premesse

per una seria assunzione di uno sviluppo sostenibile ed equilibrato tra Nord e Sud

del pianeta da parte dei paesi oggi più avanzati. La posizione di Ferrajoli suscita nel

complesso interesse, giacché chiarisce la nozione giuridica attuale di cittadinanza e

segnala puntualmente i rischi e le ambiguità che sorgono quando a tale specifica

nozione si intenda in modo improprio attribuire (o 'scaricare') il compito di

assumere e risolvere problematiche di genere squisitamente politico e sociale.

L'argomento di F errajoli, dunque, riconduce la questione della crisi della

208

cittadinanza moderna alla riflessione sociologica sulle forme di integrazione sociale

e politica nelle società della post-modernità.

3.2.3. La cittadinanza repubblicana: Zolo e Habermas

Zolo approccia il concetto di cittadinanza come <mn'idea strategica ed espansiva,

capace di coprire almeno in parte il vuoto teorico che si è aperto con la crisi dei

'paradigmi ricevuti' del socialismo e della liberaldemocrazia»,33 due famiglie di

teorie e di prassi politiche radicate profondamente nella modernità ed entrambe in

crisi, sebbene con motivazioni storiche e modalità alquanto differenti. Quello di

Zolo è un tentativo volto a costruire una concezione e una pratica della democrazia

che salvaguardi i valori della tradizione liberaldemocratica senza però ridursi in

espressioni formalistiche o proceduralistiche. L'idea che egli sviluppa è quella di

una cittadinanza 'repubblicana' che si richiama in parte alla teorizzazione di Jiirgen

Habermas e si fonda sull'esercizio attivo dei diritti civili e politici da parte dei

cittadini e nella quale le affinità etnico-culturali entrino in gioco solo nella

definizione delle identità collettive ma non in quella dei diritti di cittadinanza: «la

componente repubblicana della cittadinanza si svincola dall'appartenenza ad una

comunità prepolitica, integrata sulla base della discendenza, della tradizione o della

lingua comune. [ ... ] La nazione dei cittadini non trova la propria identità in affinità

etnico-culturali, ma nella prassi dei cittadini stessi che esercitano attivamente i

33DANILO ZOLO, Prefazione in ID. (a cura di), La cittadinanza ... cit., pp. IX-X.

209

propri diritti democratici di partecipazione e di comunicazione».34 Le trasformazioni

dello Stato-nazione e il processo di integrazione politica europea disegnano scenari

profondamente diversi del rapporto tra cittadinanza e identità nazionale, che

mostrano come le tensioni tra capitalismo e democrazia, lungi dall'attenuarsi,

continuino ad attraversare le società occidentali. Il modello repubblicano di

cittadinanza ad Habermas non sembra, così com'è, adeguato alla complessità delle

società moderne, nelle quali la 'sovranità civica' dei cittadini è altamente

istituzionalizzata o lasciata nell'informalità che caratterizza la formazione delle

opinioni e delle volontà; un modello plausibile è quello di politica deliberativa,

connotato «dall'intreccio di quelle diversificate forme di comunicazione che

dovrebbero certo essere organizzate in modo da presumere di vincolare

l'amministrazione pubblica a premesse razionali e, seguendo questa via, di

disciplinare anche il sistema economico secondo punti di vista sociali ed ecologici,

senza contrastarne la logica. [ ... ] Solo nel caso in cui si realizzasse un simile gioco

combinato fra la formazione istituzionalizzata dell'opinione e della volontà da una

parte, e le comunicazioni pubbliche informali dall'altra, la cittadinanza potrebbe

anche oggi significare qualcosa di più che l'aggregazione degli interessi prepolitici

del singolo e il godimento passivo di diritti conferiti in modo paternalisticm>.35 La

concezione habermasiana manifesta però un certo sbilanciamento verso il

proceduralismo, per quanto 'democratico', e verso le potenzialità positive

intrinseche della comunicazione razionale.

34Cfr. JORGEN HABERMAS, Cittadinanza politica e identità nazionale, in ID., Morale, diritto, politica, trad. it., Torino, Einaudi, 1992; ID., Cittadinanza e identità nazionale, trad. it., in «Micromega», 5, 1991, pp. 123-146.

210

Zolo ritiene che l'attuale crisi della cittadinanza nelle società occidentali sia

riconducibile in buona sostanza ad una serie di tensioni interne, che è possibile

riunire in tre gruppi.

Un primo tipo di tensioni concerne l'opposizione tra diritti acquisitivi e diritti non

acquisitivi che è espressione della incompatibilità di fondo tra libertà ed

uguaglianza. Secondo l'idea prevalente fino a qualche tempo fa, l'affermazione -

in termini di riconoscimento giuridico e implementazione - dei diritti di

cittadinanza è stata ritenuta corrispondente all' inveramento progressivo

dell 'uguaglianza,36 che avrebbe attenuato le disuguaglianze derivanti dal mercato

conducendole dall'ambito dello status a quello dei consumi privati. Ma gli sviluppi

successivi delle performances dei sistemi di welfare si sono incaricati di mostrare

l'inconsistenza e il valore ideologico dell'equazione marshalliana: nelle società

occidentali i fenomeni di povertà, lungi dallo scomparire, si sono trasformati ed

evoluti, presentandosi anche sotto forme inedite, la disoccupazione non ha cessato

di attanagliare larghe fasce di popolazione, le disuguaglianze di genere e a base

etnica permangono. Tutto ciò compone un quadro preoccupante di esclusioni

dall'esercizio dei diritti di cittadinanza, imprevisto da analisi forse wishful thinking

come quella pur meritoria, perché pionieristica, di Marshall. Si direbbe, anzi, che i

diritti di cittadinanza, così come sono formulati e agiti, costruiscono condizioni di

disuguaglianza; Zolo cita l'esempio di diritti - come l'autonomia negoziale, la

libertà di associazione, la libertà di stampa, la libertà d'iniziativa economica e

35JORGEN HABERMAS, Cittadinanza e identità nazionale ... cit., p. 137. 36Cfr. T. H. MARSHALL, Cittadinanza ... cit., dell'ottimismo del quale a tale riguardo abbiamo già avuto modo

di discutere in questo capitolo.

211

finanziaria - che, se esercitati a certe condizioni, consentono a chi ne è titolare di

acquisire potere politico, economico, comunicativo, creando quindi asimmetrie e

squilibri all'interno della società. La conclusione di Zolo è che una certa parte dei

diritti di cittadinanza è - nonostante ogni intenzione positiva - in grado di

produrre disuguaglianza. e' è da aggiungere, inoltre, che la posizione del cittadino,

rispetto al potenziale esercizio della sua cittadinanza, cambia radicalmente a

seconda di come i soggetti forti della cittadinanza (partiti, sindacati, imprese,

burocrazie pubbliche, professioni, organizzazioni segrete ... ) trattano le istanze

politiche ed economiche, discriminando fra quelle di cui sono portatrici le

organizzazioni a maggiore forza organizzativa, le associazioni meno strategiche

nella divisione del lavoro o la massa maggioritaria di cittadini consumatori

atomizzati e non aggregati. La portata strategica dell'affiliazione corporativa

rispetto all'esercizio della cittadinanza è ancor più evidente per gli immigrati extra-

comunitari. A questa considerazione di Zolo si può però affiancare l'idea che

l'aggregazione organizzata degli interessi, pur essendo un fenomeno tipico delle

società moderne, non è contemplata dall'attuale codice simbolico e normativo della

cittadinanza: il problema segnalato da Zolo è reale, ma non può essere affrontato

soltanto con il rafforzamento dei diritti individuali per chi non è affiliato,

richiedendo una più adeguata tematizzazione - in termini di diritti e obblighi -

dello status delle aggregazioni organizzate di interessi.

Un secondo genere di tensioni è individuabile tra l'esercizio dei diritti di

cittadinanza e l'autonomia individuale (da non intendere qui in senso ontologico ed

etico). Il riferimento è allo squilibrio esistente fra la libertà dei produttori di

212

informazione e comunicazione attraverso i vari media e la vulnerabilità degli utenti-

consumatori in termini di capacità di orientamento e autoidentificazione rispetto a

questo tipo di offerta di mercato. L'effetto negativo si ha non solo per la eventuale

trasmissione di contenuti selettivi o distorti, ma per la veicolazione delle stesse

griglie selettivo-distorsive adottate dai produttori di comunicazione. Anche in

questo caso il carattere oligopolistico del mercato dei media, basato sul diritto alla

libertà di comunicazione e su quello all'iniziativa economica, non è adeguatamente

controbilanciato sul versante dei singoli consumatori.

La terza forma di tensioni si ha, infine, fra i diritti di cittadinanza e le attuali

tendenze globalizzanti, soprattutto nel sistema economico-finanziario, nelle

comunicazioni di massa, nello sviluppo tecnologico, nella questione ambientale.

L'opposizione è sostanzialmente tra il modello della cittadinanza basato

sull'appartenenza nazionale e le spinte verso forme 'cosmopolitiche' di governo. 37

Secondo alcuni autori - fra i quali Antonio Cassese e David Held- la tendenza è

verso un ampliamento dell'ambito di applicazione delle normative internazionali a

tutela dei diritti dei cittadini. 38 Ma anche questa potrebbe configurarsi come una

forma di ottimismo non sufficientemente fondato, in primo luogo per motivi

giuridici: non è possibile ad oggi pensare ad un ordinamento giuridico

internazionale del tutto paritario - che disconosca cioè le differenze tra

superpotenze e stati deboli - e dotato di una giurisdizione in grado di imporsi con

forze proprie e non dei singoli stati membri. Non si può inoltre trascurare il fatto che

37Cfr. DANILO ZOLO, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 1995. 38Cfr. ANTONIO CASSESE, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 1984;

DAVID HELD, Citizenship ... cit.

213

le principali organizzazioni internazionali attuali (Organizzazione delle Nazioni

Unite, Unione Europea) dispongono di organi istituzionali che non rispettano i

principi basilari della liberaldemocrazia: i parlamenti non hanno funzioni legislative,

gli organi legislativi non sono espressione dei cittadini e quelli di governo traggono

origine da accordi fra i governi degli stati membri. Inoltre, la chiusura delle società

occidentali di fronte ai flussi di migranti dal Sud del mondo e dall'Est europeo è un

ulteriore, potente fattore di crisi della cittadinanza moderna a fronte di questi aspetti

della globalizzazione.

3. 2. 4. Cittadinanza tra appartenenza e diritti

Pietro Costa traccia una ricostruzione storiografica delle origini del concetto di

cittadinanza;39 esso, secondo la formulazione maturata nella Francia rivoluzionaria

del 1789, ha due nuclei fondamentali, l'idea rousseauiana di sovranità nazionale e

l'idea lockiana di proprietà:40 si può parlare, pertanto, della configurazione moderna

della cittadinanza in termini di 'appartenenza' (alla nazione-sovrana) e 'diritti', una

polarità che genera frizioni tra i due estremi, tra Stato e individuo. L'idea di fondo è

dunque che il soggetto esiste, ed è titolare di diritti, in quanto appartiene ad uno

Stato-nazione; 'cittadino' è ciò che fa da medium tra 'uomo' e 'sovranità'. Tale

polarità è ugualmente presente, nella sostanza, sia nella cultura giuridico-politica

39PIETRO COSTA, La cittadinanza: un tentativo di ricostruzione 'archeologica', in DANILO ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 4 7-92.

4°Vedi anche, su quest'ultimo aspetto, PIETRO BARCELLONA, L'individualismo proprietario, Torino, Boringhieri, 1987.

214

dell'illuminismo rivoluzionario che m quella positivistica dell'Ottocento:

quest'ultima, ponendo l'accento sulla solidarietà sociale e sulla funzione

organicizzante della cultura e delle istituzioni rispetto all'individualismo, rinvia di

nuovo all'idea, moderna, di un'appartenenza dell'individuo allo Stato verso il quale

- e qui si ha la discontinuità con la fase illuministica - è legittimo nutrire

aspettative di interventi di sostegno alla coesione sociale ai vari livelli, ciò che verrà

formalizzato nei diritti sociali. La cittadinanza si arricchisce di nuovi contenuti

formali e sostanziali, ma resta immutata nella sua funzione di medium esclusivo tra

individuo e Stato. Le tre categorie di diritti di cittadinanza - civili, politici, sociali

- sono tuttavia espressione di diverse antropologie di estrazione moderna che si

intersecano e convivono, non senza contraddizioni: quella tipicamente lockiana

dell'individuo proprietario, titolare dei diritti civili necessari a far fronte ai bisogni

'naturali', quella positivistica che enfatizza la preminenza delle esigenze sociali e

collettive rispetto ai bisogni individuali.

Le osservazioni di Costa offrono spunto per formulare un'ipotesi in ordine alla crisi

della cittadinanza moderna. Appartenenza e diritti nella loro formulazione moderna

sono entrambi in crisi, attraversano cioè una fase di profonda trasformazione: la

prima per via del sempre più evidente indebolimento teorico e fattuale dell'idea di

Stato-nazione e della differenziazione e riposizionamento reciproco tra politico e

statuale; i diritti, i) in quanto concepiti secondo un universalismo astratto che oggi

non riesce più a dare - risposte soddisfacenti a tutti, assumendo differenze e

pluralismi e ii) poiché, sempre meno riconducibili alla cittadinanza nazionale,

215

mancano di un chiaro riferimento sociale e istituzionale per ciò che va al di là delle

appartenenze nazionali.

Inoltre, è sicuramente arduo formulare una nuova e più convincente definizione di

cittadinanza - come anche dei concetti di appartenenza e diritti - in assenza di

una non confusa e non contraddittoria antropologia; proprio di questo avverte

l'esigenza Pietro Barcellona quando afferma che «la neutralizzazione della volontà

di dominio, la violenza latente o esplicita nel sistema dell'economia-mondo chiama

in causa altre forze: oltre la razionalità calcolistica, oltre le mitologie della giustizia,

occorre riaprire il tema della costituzione della 'persona' e del suo stare insieme ad

altre 'persone'».41 Ma su tali argomenti avremo modo di ritornare più avanti.

La nozione moderna di cittadinanza non può fare a meno - come si è visto - di

quella di appartenenza: in svariate definizioni essa è elemento fondamentale.42 Luca

Baccelli osserva come l'appartenenza sia un aspetto poco presente nel dibattito

filosofico e politologico italiano sull'argomento. 43

Il rapporto tra appartenenza e diritti solleva numerose questioni, molte delle quali

emerse nel dibattito filosofico tra liberali e comunitaristi.44 Alcuni limiti della

visione liberale sono stati efficacemente posti in luce dalle critiche comunitariste:

basti pensare alle difficoltà a tematizzare in termini individualistici la coesione

41 PIETRO BARCELLONA, A proposito della cittadinanza sociale, in «Democrazia e diritto», XXVIII, 2-3, 1988, pp. 15-30; p. 29.

42Per Marshall, come si è visto, essa è «uno status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno titolo di una comunità»; inoltre, «la fonte originaria dei diritti sociali è da cercarsi nell'appartenenza alle comunità locali ed alle associazioni funzionali» (T. H. MARsHALL, Cittadinanza... cit., pp. 24, 18). Per Barbalet «la cittadinanza può essere facilmente descritta come la partecipazione o l'appartenenza ad una comunità» (JACK M. BARBALET, Cittadinanza ... cit., p. 30).

43LUCA BACCELLI, Cittadinanza e appartenenza, in DANILO ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 123-65.

44Per i termini essenziali di tale dibattito, vedi supra, capitolo 2.

216

sociale, la costituzione dell'identità individuale e l'autonomia individuale, come

anche l'impossibilità di dimostrare che i principi liberali - tra cui gli stessi diritti e

la tolleranza - non hanno un fondamento filosofico universale, ma sono frutto di

determinate circostanze storiche e culturali (la modernità delle società occidentali).

Per altro verso, emerge la fragilità della parte propositiva del comunitarismo, che si

ritrova spesso a saltare la distinzione tra il piano analitico e quello normativo

relativo all'etica e alla politica. I comunitaristi fanno appello alla tradizione

anglosassone del repubblicanesimo civico classico45 e alle sue concezioni di libertà

positiva come controllo collettivo sulla vita comune, di patriottismo come

«identificazione con gli altri in una vita comune particolare», 46 di legame sociale nel

senso della philia aristotelica. In una versione recente - abbastanza prossima,

nonostante le intenzioni del suo autore, alle istanze comunitaristiche47 - questo

orientamento si presenta come un paradigma in grado di coniugare le divergenti

istanze della cittadinanza e della comunità, dei diritti liberali e dei doveri verso

un'appartenenza che sia riferimento comune per le identità: «l'individuo diventa un

cittadino attraverso la performance dei doveri relativi alla pratica della

cittadinanza».48 Non si può tuttavia ignorare una duplice realtà: in primo luogo, nella

451 cui tratti principali sono efficacemente sintetizzati da Baccelli: «secondo quella che nella cultura anglosassone è ormai una consolidata tradizione interpretativa, per 'repubblicanesimo civico' si intende una determinata visione etico-politica che nasce nella classicità greco-romana e viene riproposta dall'umanesimo civile fiorentino. Tale visione è poi stata ereditata sia da filosofi come Montesquieu e Rousseau sia dal pensiero politico inglese ed americano (a partire dall'opera di James Harrington), tanto da costituire a lungo un'alternativa all'individualismo liberale» (LUCA BACCELLI, Cittadinanza ... cit., p. 137, nota 24). Per una problematizzazione della cittadinanza repubblicana nelle società moderne, vedi MICHAEL W ALZER, Citizenship, trad. it., in «Democrazia e diritto», XXVIII, 2-3, 1988, pp. 43-52.

46CHARLES TAYLOR, Il dibattito fra sordi di liberali e comunitaristi, trad. it. in ALESSANDRO FERRARA, Comunitarismo e liberalismo ... cit., p. 146.

47ADRIAN OLDFIELD, Citizenship and Community. Civic Republicanism and the Modern World, London, Routledge, 1990.

48LUCA BACCELLI, Cittadinanza ... cit., p. 157.

217

polis greca non tutti, neanche fra i nativi liberi, esercitavano attivamente la propria

cittadinanza (da essa erano esclusi, infatti, schiavi e stranieri residenti); in secondo

luogo, le condizioni che in quel contesto socio-culturale consentivano l'esprimersi

della cittadinanza repubblicana non sono affatto riproducibili nelle società

occidentali contemporanee, dove si è affermata una «ideologia della cittadinanza

[che] è essenzialmente un'interpretazione maturata nei primi tempi dell'età moderna

(neoclassica) del repubblicanismo greco e romano, e l'attuale interpretazione legale

del concetto trae le sue origini dalla Roma dell'Impero e dalle prime riflessioni

dell'età moderna sul diritto romano»,49 una ideologia che concepisce la cittadinanza

essenzialmente come godimento passivo di un insieme di diritti che caratterizza lo

status del cittadino.

Se dunque, da un lato, l'individualismo dei liberali non dà adeguato spaz10

all'appartenenza che è indispensabile in una collettività politica democratica,

dall'altro i com unitaristi considerano negativamente il dissenso, che invece è

necessario sia alla dialettica democratica che alla stessa costituzione dell'identità del

cittadino.

3.2.5. La 'terza via' di M Walzer

Michael W alzer ha tentato una 'terza via' proponendo il riconoscimento della

soggettività politica e morale delle comunità di vicinato, quartiere, etnia e la non-

49MICHAEL W ALZER, Citizenship ... cit., p. 43.

218

neutralità dello Stato rispetto ai valori politici caratterizzanti, pur salvaguardando le

libertà fondamentali. Nella sua concezione di giustizia, «la comunità stessa è uno, e

presumibilmente il più importante, dei beni che vengono distribuiti» da parte del

'noi', il soggetto plurale dei cittadini di un paese.50 Walzer però non chiarisce in che

modo definire il 'noi'; egli riconosce che una comunità ha il diritto di mantenere la

propria identità collettiva, se necessario anche esercitando, entro certi limiti, un

'diritto di chiusura' verso flussi di migranti, ma non può affatto discriminare i

residenti non cittadini: ogni decisione in merito è di natura eminentemente politica,

e non può assumere una valenza ideologica (sulla base di argomentazioni

etnicistiche o organicistiche). Vale però la pena esprimere una considerazione,

prendendo spunto da quest'ultima posizione di Walzer. Se ad una comunità politica

è riconosciuto un 'diritto di chiusura' affinché essa possa preservare la propria

'forma di vita', ciò significa ammettere che una teoria filosofico-politica e una

pratica della cittadinanza non sono indifferenti o neutrali rispetto ai valori della

comunità politica, ma anzi che vi sono valori e norme che hanno un proprio rilievo

nelle sfere pubbliche (e non solo in quelle diverse dallo Stato), per quanto ciò non

sia scevro da contraddizioni, limiti e conflitti. Del resto sembra quasi un'ovvietà la

constatazione empirica che i medesimi principi moderni di libertà, democrazia,

uguaglianza trovano svariate espressioni nelle formulazioni giuridiche e

costituzionali e nelle pratiche sociali e politiche dei moderni sistemi politici

democratici, a riprova ael carattere storicamente e culturalmente situato di tali

50MICHAEL WALZER, Sfere di giustizia, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1987, p. 39.

219

nuclei valoriali. 51 Le concez1om meramente procedurali di democrazia e

cittadinanza rischiano di non tener conto di queste evidenze empiriche, come, per

altro verso, quelle comunitariste sembrano trascurare il dato della complessità

sociale. Il dibattito tra liberali e com unitaristi sul rapporto tra giustizia e concezioni

del bene probabilmente gaudagnerebbe in chiarezza e in propositività da una piena

assunzione di quanto appena detto. In chiave più propriamente sociologica ciò può

servire a ricordare la rilevanza dell'analisi dei valori in quanto significativamente

relazionati i) ai processi di costruzione e trasformazione delle identità sociali,52 ii)

alle dinamiche delle istituzioni, iii) a processi aggregativi di soggetti collettivi. 53 Le

risultanze empiriche delle principali indagini europee ed italiane sui valori

confermano per un verso l'ipotesi generale del passaggio da valori di tipo

materialistico propri della società industriale a valori di tipo post-materialistico -

che cioè pongono al centro la ricerca di una migliore qualità della vita54• Per quanto

riguarda, ad esempio, lo specifico della situazione italiana all'inizio degli anni '90,

si sono riscontrate tendenze apparentemente contraddittorie, come una crescente

distanza degli individui dalle istituzioni e una certa propensione, maggiore rispetto

51Le concezioni di cittadinanza più vicine agli ideali dell'illuminismo - come quella di Veca, cfr. supra -non trascurano di sottolineare tale elemento normativo.

52Cfr. LOREDANA SCIOLLA, Valori e identità sociale. Perché è ancora importante per la sociologia studiare i valori e i loro mutamenti, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXIV, 3, 1993, pp. 341-359. L'Autrice definisce l'identità sociale «non nel senso di semplice autoconservazione, come si sostiene in alcune influenti teorie psicosociologiche (preservazione e accrescimento strumentale di ciò che è già presente in nuce ), ma come autofondazione, che comporta cioè sia la definizione-creazione di confini, sia la lotta per

_ la loro validazione intersoggettiva e il loro mantenimento» (p. 354). 53Cfr. RENZO GUBERT (a cura di), Persistenze e mutamenti dei valori degli italiani nel contesto europeo,

Trento, Reverdito, 1992. 54RONALD INGLEHART, La rivoluzione silenziosa, (ediz. orig. 1977), trad. it., Milano, Rizzoli, 1983. ID.,

Valori e cultura politica nella società industriale avanzata, trad. it., Padova, Liviana, 1993: le indagini dello scienziato politico hanno individuato indicatori di cultura e valori post-materialisti, anche nella sfera politica, soprattutto nelle giovani generazioni di alcuni paesi europei. Un quesito che scaturisce dalla lettura di queste analisi verte sullo sbocco della rivoluzione silenziosa: se essa vada in direzione post-individualista o, al contrario, di un'accentuazione delle tendenze atomistiche.

220

ad un recente passato, alla relazione sociale - in vari ambiti della vita sociale:

famiglia, lavoro, religione, politica - ma in un senso non univocamente

determinato, per certi versi ambiguo e oscillante tra interesse personale strumentale

e riconoscimento dell'alterità e di una propria identità relazionale, fenomeni

sintetizzabili nell'espressione di un individualismo relazionale non ancora ben

decifrabile nei suoi possibili sviluppi: «resta da chiedersi in che misura un tale

individualismo relazionale, che scaturisce dall'intreccio tra una cultura ancora

costantemente orientata verso l'individuo ed un'attenzione crescente alla relazione,

intesa come componente indispensabile di una sfera individuale in difficoltà dinanzi

alle mancate garanzie istituzionali di promozione del soggetto, possa essere

operante. In che modo una strategia di risposta all'insolvenza delle assicurazioni

istituzionali sulla promozione dell'individuo, può rivelarsi a sua volta, come

generatrice di legame sociale, dando vita così ad una nuova polis».55

3. 3. Cittadinanza statalistica versus cittadinanza societaria

Giovanna Zincone ha impiegato la categoria dei diritti di cittadinanza per svolgere

un'analisi comparata di alcuni sistemi politici occidentali nelle loro trasformazioni

durante il ciclo storico della modernità. 56 L'ottica prescelta è originale in quanto si

colloca 'in basso': «si guarda non al sistema, ma alle persone, ed il sistema viene

55SALVATORE ABBRUZZESE, Conclusioni in SALVATORE ABBRUZZESE - RENZO GUBERT- GABRIELE POLLINI, Italiani atto secondo. Valori, appartenenze e strategie per la Il Repubblica, Rimini, Guaraldi, 1995; pp. 189-205; p. 202.

221

giudicato sulla base delle tutele e dei diritti di cui godono i suoi membri: la

maggiore o minore possibilità di influenzare le decisioni politiche attraverso il voto,

la garanzia di non essere imprigionati arbitrariamente, la libertà di leggere e di

criticare a piacimento, il poter contare sulla solidarietà collettiva in caso di

bisogno».57 In quale modo è nata la cittadinanza? Le ipotesi esplicative sui fattori

determinanti sono numerose e Zincone, prendendo in esame una letteratura molto

ampia, le aggrega in nove filoni: a) da una mossa dal basso, cioè dalle lotte operaie;

b) da una mossa dall'alto, ossia da concessioni delle classi dirigenti per motivi

strumentali a propri interessi o esigenze; c) da una combinazione di mossa dal basso

e mossa dall'alto; d) dall'azione di coalizioni o classi sociali egemoniche; e) da

determinanti economiche che influenzano i rapporti di forza tra le classi; f) la

cittadinanza sociale sorge in presenza di strutture idonee (efficienti apparati

burocratici e decisionali) o per colmare un deficit di sicurezza e di solidarietà

prodottosi con l'economia industriale; g) dai caratteri della cultura politica; h) da

fattori esogeni; i) da tensioni tra risorse o tra valori e da trasferimenti di istituzioni

in luoghi ed in sfere diverse. 58

Se si guarda al suo sviluppo storico, la cittadinanza, contrariamente sia alla sua

configurazione 'intuitiva' che a quella giuridica, non corrisponde mai o quasi mai ad

un «pacchetto di diritti uguali per tutti».59 Ciò vale non solo per le prime fasi dei

diritti di cittadinanza, ma anche, in periodi più recenti, in ordine alla situazione delle

56GIOV ANNA ZINCONE, Da sudditi a cittadini. Le vie dello stato e le vie della società civile, Bologna, Il Mulino, 1992.

57/bidem, pp. 8-9. 58 Ibidem, pp. 52-62. 59lbidem, p. 9.

222

donne e degli immigrati: «le democrazie contemporanee, come quelle antiche,

hanno sempre i loro metechi [sic ]»:60 vi sono, cioè, diversi gradi di cittadinanza per

chi è incluso, i problemi sorgono non soltanto per chi ne è escluso del tutto.

La storia delle democrazie moderne è segnata da processi di inclusione di categorie

in precedenza del tutto escluse, i cui esiti sono però estremamente diversi m

profondità ed estensione; tali categorie sono identificate da fenomeni di

emargmaz10ne interna, di immigrazione dall'esterno, di inclusione imperfetta o

incompiuta. Come anche diversamente articolate si presentano di volta in volta le

categorie incluse.

Così sono non solo entrambe legittime ma integrabili, sostiene Zincone, le

concezioni e interpretazioni della cittadinanza come 'tutela dei deboli' (teorie

liberali) e quelle della cittadinanza come 'risposta manipolatoria dei forti' (in modo

diverso: teorie elitistiche e marxiste). Il punto di vista prescelto da Zincone, anziché

puntare a identificare le promesse non mantenute della cittadinanza moderna, si

ripropone di metterne a fuoco l'impatto sulla vita quotidiana delle classi

svantaggiate, allo scopo di formulare chiavi di lettura dei perché della mancata

estensione del benessere economico e sociale a tutti gli strati delle società moderne.

I sistemi politici occidentali nelle loro varie fasi evolutive possono essere pertanto

classificati secondo un modello che articola due variabili della cittadinanza: da un

lato il rapporto tra società civile e stato e la proiezione dell'una sull'altro o viceversa

(con due modalità principali ma non totalmente alternative: societarismo e

statalismo), dall'altro il carattere impresso alle relazioni sociali dal soggetto, società

60/bidem.

223

civile o stato, prevalente nella sfera pubblica (con due modalità principali anche in

questo caso non totalmente alternative: emancipazione e stabilizzazione).

Incrociando le modalità delle due variabili Zincone ottiene quattro forme

idealtipiche di cittadinanza: societaria emancipatrice (presente nei percorsi seguiti

dai paesi scandinavi degli anni venti e trenta di questo secolo), societaria

stabilizzatrice (individuabile nella Gran Bretagna liberale dell'Ottocento), statalista

emancipatrice (come nella fase intermedia della Francia rivoluzionaria), statalista

stabilizzatrice (ad esempio, la Germania durante il cancellierato di Bismarck).61

Ognuna di queste forme idealtipiche «rappresenta una fase del mutamento e della

produzione di diritti di cittadinanza».62 I modelli statalisti, a differenza di quelli

societari, sono perlopiù caratterizzati da elevata conflittualità e competizione

economica e politica sia all'interno che all'esterno (con altri stati). Più in

particolare, nel societarismo emancipatore, sono le fasce sociali svantaggiate,

attraverso le loro emanazioni (specialmente partiti e sindacati), ad imprimere allo

stato un carattere progressista; mentre nel societarismo stabilizzatore le spinte 'dal

basso' vengono assorbite in modo prudente e graduale, consentendo al contempo ai

vecchi gruppi sociali e politici di mantenere il controllo delle risorse: può accadere

in questo caso che i gruppi dominanti nella società civile riescano a trasferire nella

politica i rapporti sociali tradizionali o ne chiedano il ripristino. Ciò smentisce il

luogo comune che il modello societario - dal punto di vista delle teoria e della

prassi democratica - sia sempre preferibile a quello statalista. Zincone peraltro

61/bidem, pp. 83ss. 62/bidem, p. 130.

224

osserva che l'intera articolazione del modello nelle quattro forme idealtipiche si

rivela utile per ricostruire e analizzare l'avvio del processo di sviluppo dei diritti di

cittadinanza nelle società moderne, mentre è più che altro attraverso il societarismo

emancipatore che è possibile classificare i sistemi democratici contemporanei e le

loro transizioni.63 Gli elementi che influiscono sul processo di sviluppo della

cittadinanza - e che sono quindi discriminanti rispetto al carattere

stabilizzatore/emancipatore di un sistema politico-sociale - nel modello elaborato

da Zincone sono diversi:

I) il livello e la configurazione della conflittualità politica interna, considerando in

particolare il grado di frammentazione e la distanza ideologica tra gli attori in

campo;

2) il tipo di cultura politica che caratterizza le élite e, all'interno di questa, i criteri

di legittimazione del potere, i modi di produzione degli assetti sociali ed economici

ottimali, la configurazione degli assetti sociali ottimali;

3) la competizione economica esterna;

4) il livello della conflittualità internazionale (eventuale stato di guerra o di

tensione internazionale, eventuale unificazione nazionale mediante la guerra);

5) ampiezza e carattere delle coalizioni (eventuale presenza di una coalizione

egemonica, pluralista ed inclusiva, eventuale inclusione dei nuovi attori nelle

coalizioni vincenti e loro posizione dominante/subordinata in tali coalizioni). 64

63/bidem, p. 136. 64 Ibidem, pp. 86-90.

225

L'ipotesi di fondo che lega le cinque variabili fra loro è che «i diritti di cittadinanza

(politici e sociali) siano nati - nei paesi precursori - come strumenti di strategie

dirette ad inserire (attraverso azioni concomitanti di integrazione dall'alto e di

conquista dal basso) i nuovi attori politici emersi dai processi di mobilitazione delle

classi svantaggiate. Essi si sono poi diffusi, subendo processi di adattamento locale,

sia per imitazione da parte di élite nazionali frustrate, sia per conquista militare, sia

per colonizzazione. [ ... ] Nei paesi precursori, rispetto a ciascun tipo, i diritti sono

diversi perché diverse sono le condizioni in cui la necessità di integrare-conquistare

si presenta».65 Rispetto alle tendenze più recenti osservabili nelle democrazie

contemporanee, Zincone osserva che il modello statalista evolve verso un modello

politocentrico, con due varianti: a dominanza dei partiti e a dominanza della

pubblica amministrazione, con maggiori rischi di particolarismo, discrezionalità e

clientelismo nella prima. Il modello societario evolve, invece, verso un modello

sociocentrico, con due varianti: conservatrice, a preminenza del mondo degli affari,

e innovatrice, con una preminenza del lavoro organizzato. Anche qui si tratta

ovviamente di forme idealtipiche, utili ad una classificazione della realtà empirica,

che però Zincone non approfondisce più di tanto.

65 Ibidem, p. 86.

226

3. 4. Società civile e cittadinanza

Non sarà inutile, prima di procedere oltre nella nostra riflessione sulla cittadinanza,

mettere maggiormente a fuoco un concetto, quello di società civile, il cui impiego si

è rivelato cruciale nell'analisi sociologica, ma non solo, delle società occidentali tra

modernità e post-modernità. Tale concetto ha attraversato delle vicende alterne, in

buona misura riconducibili alle profonde trasformazioni registrate da parte del suo

referente empirico. Per una ricostruzione critica in questa direzione seguiremo

alcune note di Jeffrey C. Alexander,66 il quale ha avvertito proprio la necessità di

«sviluppare un modello di società democratica che presti più attenzione alla

solidarietà e ai valori sociali - a cosa pensa e dice la gente e a come questa si

rapporta alla politica - più di quanto facciano la maggior parte delle teorie delle

scienze sociali oggi. In altre parole è necessaria una teoria che sia meno centrata in

modo miope sulla struttura sociale e più attenta alle idee che le persone hanno in

mente e alle esperienze e interazioni a cui queste danno luogm>.67

La teoria democratica contemporanea è tutta incentrata sui meccanismi politico-

istituzionali, sulla divisione dei poteri e sugli aspetti formali del governo

democratico, e questo presso studiosi di tutti gli orientamenti, dai liberali ai

marxisti. Tutto ciò fa parte dei fenomeni definibili come differenziazione strutturale

in sistemi sociali ad elevata complessità e moderYJ:_izzazione. Tuttavia, si trascura

l'ambiente sociale che supporta le strutture politiche, ambiente che non può però

227

essere ridotto alle dimensioni economiche, come avanzato dal materialismo. Su

questo si è innestata una frattura fra teorici formalisti della democrazia (liberali) e

teorici sostantivi (socialisti e marxisti). A seguito del crollo dei sistemi di socialismo

reale, tale frattura è stata letta nei termini di una complementarità tra forme diverse.

Ma, al di là di ciò, quali sono le condizioni sociali su cui si basa la democrazia?

Alexander tenta di dare una nuova definizione di 'società civile', <mna sfera della

società che è relativamente indipendente non solo da ciò che è specificamente

politico, ma anche dal contesto economico».68 All'interno di questa riflessione il

sociologo statunitense intende evidenziare la rilevanza della solidarietà sociale

all'interno della società democratica, senza nulla togliere al riconoscimento

dell'individualità. Alexander parte dal considerare la società civile «il campo in cui

la solidarietà sociale è definita in termini universalistici. Si tratta della we-ness di

una comunità nazionale intesa nella maniera più forte possibile, la sensazione di

essere legati ad ogni membro di quella comunità che trascende gli impegni

particolari, la lealtà limitata, gli interessi di parte. Questo è l'unico tipo di solidarietà

in grado di creare un filo di identità che unisca persone lontane per religione, classe,

gruppo etnico o razza. Soltanto questo tipo di filo comune e con potere di unione,

inoltre, può permettere ai singoli appartenenti a questo gruppo di essere concepiti

come responsabili essi stessi dei loro diritti 'naturali'».69 Un possibile problema

66JEFFREY C. ALEXANDER, I paradossi della società civile, trad. it. in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXVI, 3, 1995, pp. 319-39.

67 Ibidem, p. 319. 68/bidem, p. 322. 69/bidem.

228

comportato da questa definizione è l'accento posto sul carattere •nazionale' della

comunità che attiva la solidarietà.

Ciò è comprensibile se si riconosce l'origine di questa concezione nella tradizione

filosofica e politica liberale post-hobbesiana, che rappresenta uno dei fondamenti

epistemologici della modernità e delle idee moderne di società. Sebbene il concetto

di società civile proprio di tale tradizione sia vago, occorre prenderlo in

considerazione, per scoprire come sia meno individualistico di quanto si pensi. Se

Hobbes aveva identificato società civile e stato, 10 Locke ha posto le basi per la

definizione di una sfera indipendente di socialità emergente dallo stato di natura e

che informa la legge civile attraverso il contratto sociale. 11 Si tratta di una solidarietà

- osserva Locke - basata sull'individuazione. Ciò è stato elaborato anche dai

moralisti scozzesi, tra cui Adam F erguson. Il rapporto tra individuale e collettivo

viene anche approfondito da Tocqueville, che nella sfera della vita pubblica

individua l'ambito «dell'interesse individuale correttamente inteso» da non separare

dai vincoli collettivi extrapolitici della legge e dalla regolazione della religione.

Questi elementi della tradizione liberale della prima modernità sono stati indeboliti

a metà dell'Ottocento quando, ritenuto assodato il manifestarsi della solidarietà e

della parità sociale, il pensiero politico sulla società civile ha enfatizzato il tema

della libertà politica e legale. Con il capitalismo industriale, tale enfasi ha ceduto il

passo alla questione sociale, sull'onda dei movimenti sindacali e socialisti;

attraverso i compromessi fra Stato e lavoratori, lo Stato stesso si è rafforzato nella

70THOMAS HOBBES, Leviatano, (ediz. orig. 1651), trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1976. 71JOHN LOCKE, Due trattati sul governo, (ediz. orig. 1690), trad. it., Torino, Utet, 1982.

229

sua legittimazione e non ci si è preoccupati di garantire l'esistenza di una sfera

civica indipendente dallo Stato: migliori condizioni sociali e una maggiore giustizia

sarebbero state possibili solo attraverso un forte ruolo di garanzia dello Stato. Ma

questa via ha mostrato i suoi limiti, tanto in Europa quanto nel Sud del mondo che

tentava di tirarsi fuori dal colonialismo.

Il pensiero del Novecento ha assunto questa realtà come fatto emp1nco e «la

scomparsa della vita pubblica è diventata assiomatica per ogni riflessione sulla vita

del ventesimo secolo. Prigionieri di questo storico spostamento nelle assunzioni

intellettuali, questi pensatori influenti non sono stati in grado di valutarlo

correttamente. Essi erano convinti che il capitalismo aveva distrutto la vita pubblica,

che nelle società democratiche di massa lo strapotere del mercato aveva

polverizzato i legami sociali, trasformando i cittadini in egoisti, e aprendo la strada

all'oligarchia e alla burocrazia».72

Già nel pensiero di Marx la società civile vemva identificata con l'economia

capitalista, anche se questi criticava Hegel per la sua concezione privatizzata di

società civile. La posizione di Hegel tende in realtà a far emergere gli aspetti più

comunitari e solidaristici dell'idea liberale: la società civile comprende, oltre

all'insieme dei bisogni economici, anche la sfera dell'etica, distinta dall'ambito

morale familiare e dallo Stato. Queste concezioni influenzano l'idea di società civile

elaborata da Antonio Gramsci, da lui definita come ambito politico, culturale, legale

e pubblico in posizione intermedia fra i rapporti economici e il potere politico, in ciò

72 JEFFREY C. ALEXANDER, l paradossi ... cit., p. 324.

230

discostandosi dall'ortodossia marxista;n questa idea di società civile legittimava una

nuova via per l'instaurazione del socialismo, non più basata solo sulle dimensioni

economiche, ma attraverso la trasformazione in profondità della società civile

medesima.

In senso sociologico, società civile intesa come «una forma di orgamzzaz10ne

sociale distinta dalle categorie politiche ed economiche, che fa riferimento

contemporaneamente alla solidarietà collettiva e al volontarismo individuale»74 non

coincide con, né comprende totalmente, la comunità (anch'essa sociologicamente

intesa).

Alexander propone di considerare la Gesellschafl come una Gemeinschaft, nel senso

di analizzare la società civile come forma di coscienza collettiva ampia e sviluppata

sì da «includere tutti i vari raggruppamenti all'interno di un ambito territoriale

separato e amministrativamente regolato», 75 sulla base di legami universalistici

radicati in valori espressi attraverso diritti e appartenenza a un popolo. In questo

senso, il dibattito attuale sulla società civile ha scelto in buona parte (Habermas,76

Cohen e Arato11) di rifarsi a Kant, ritenendo che tali legami universalistici non siano

dati che dalla ragione e dal diritto astratto, il che rimanda «al classico ideale di

comunicazione completamente trasparente». 78 Un simile universalismo astratto

caratterizza anche Rawls.

73ANTONIO GRAMSCI, Quaderni dal carcere, (ediz. orig. 1947), Torino, Einaudi, 1975. 74JEFFREY C. ALEXANDER, I paradossi. .. cit., p. 327. 751bidem. 76JORGEN HABERMAS, Teoria del/ 'agire comunicativo, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1986. 771. COHEN- A. ARATO, Civil Society and Politica/ Theory, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1992. 78JEFFREY c. ALEXANDER, I paradossi ... cit., p. 328.

231

Queste posizioni circa i legami universalistici costituiscono, secondo Alexander,

errori di astrazione ma/posta, che nuocciono all'utilità sociologica del concetto di

società civile: «l'universalismo si articola spesso nel linguaggio concreto piuttosto

che in quello astratto», 79 come ritiene M. Walzer a proposito della sua concezione di

giustizia.80 La declinazione in termini concreti dell'universalismo della società civile

vale anche per la dimensione istituzionale di quest'ultima.

Gli Stati-nazione costituiscono ancora un riferimento obbligato per la nozione di

società civile, anche se «non esiste una ragione perché il concetto di società civile

non possa essere applicato a livello sovranazionale».81 Per la società civile sembra

prendere consistenza un processo sovranazionale simile a quello concernente le

interdipendenze nell'ambito della sfera economica. La società civile può ancora

essere ritenuta isomorfica con la nazione, ma assolutamente non coincidente con lo

Stato.

Alexander passa poi in rassegna alcune recenti concezioni di società civile: Arato,

Held, 82 Keane83, Marshall;84 dalla gran parte di esse emergono ambiguità e

inadeguatezze di vario genere: «è necessario un uso del termine decisamente più

delimitato e differenziato, capace di seguire la demarcazione empirica della società

civile che la democrazia in senso ideale implica. Gli usi arcaici devono essere

abbandonati. Corti di giustizia, polizia, mercato, interessi della proprietà privata,

famiglia, sfere religiose e filosofiche sono tutte istituzioni con specifici ed

79lbidem. 80MICHAEL W ALZER, Sfere di giustizia ... cit. 81JEFFREY c. ALEXANDER, I paradossi ... cit., p. 329. 82DAVID HELD, Modelli di democrazia, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1987. 83J. KEANE, Democracy and Civil Society, London, Verso, 1988.

232

indipendenti interessi non politici differenti da quelli della società civile, la sfera

della solidarietà sociale universalizzante, così come sono differenti da quelle dello

statm>.85

La separazione tra sfera pubblica e sfere civili e tra diverse sfere civili va posta solo

sul piano analitico, e non su quello empirico, in modo tale da riuscire a cogliere le

relazioni e le interazioni. Anche le sfere non civili, ma distinte dallo Stato, sono, per

dirla con M. Walzer, 'sfere di giustizia', anche se «questi altri 'regimi di

giustificazione' differiscono profondamente dalle giustificazioni che si riferiscono al

'bene comune', il criterio che maggiormente approssima quello della stessa società

civile. Le istituzioni, le interazioni e i valori che sottostanno alla solidarietà sociale

si allontanano in modo chiaro da quelle della cooperazione e competizione

economica, dalle relazioni intime e affettive della vita familiare e dal simbolismo

astratto e trascendentale che fa da mezzo di scambio nella vita religiosa e

intellettuale. La solidarietà civile può ben essere una condizione necessaria, se non

sufficiente, perché queste altre funzioni sociali siano realizzate in modo

democratico. Per questa ragione, sfera civile e sfera non-civile non possono

semplicemente coesistere in una specie di interscambio armonioso. Non è solo la

pluralizzazione delle sfere che garantisce una buona società, come suggerisce

Walzer, e neppure il libero gioco e la buona volontà degli interlocutori disposti a un

compromesso sui loro interessi di fronte a pretese in conflitto e persuasive di

giustificazione morale, come propongono Boltanski e Thevenot. 86 Per mantenere la

84T. H. MARsHALL, Cittadinanza e classe sociale ... cit. 85JEFFREY c. ALEXANDE~ I paradossi ... cit., pp. 334-35. 86L. BOLTANSKY-L. THEVENOT, De lajustification, Paris, Gallimard, 1991.

233

democrazia è spesso necessario che la sfera civile 'invada' le altre sfere non civili,

per richiedere certi tipi di riforme e di risposte, e poi per monitorarle e registrarle

attraverso regolazioni successive. In risposta a quelle che possono essere chiamate

'intrusioni distruttive' nel regno civile, la società civile fa sforzi per 'riparare'. In

termini funzionalisti, la società civile può essere concepita come una dimensione

sociale, o come un sottosistema, che riceve gli input da queste altre sfere, che è

limitata dai vincoli che esse pongono e alle quali a sua volta si sforza di porre

vincoli. In un senso più fenomenologico si può dire che la società civile fornisce

alcune risorse di base, date per ovvie, sulle quali fanno affidamento le attività delle

altre sfere. Essa costituisce gran parte della vita pubblica sulla quale

l'organizzazione sociale della società contemporanea poggia». 87

3. 5. La cittadinanza liberal

Di Ralf Dahrendorf è una delle più significative tematizzazioni sociologiche liberal

della cittadinanza, elaborata tenendo conto delle problematiche e delle prospettive

che la contraddistinguono. Dopo la svolta politico-economica neoliberista degli anni

'80 e il crollo dei regimi a socialismo reale dell'Europa orientale, anche la questione

della cittadinanza moderna richiede un profondo ripensamento. I paesi avanzati si

trovano in una situazione che alcuni decenni fa sarebbe stata definita paradossale: la

continua crescita dei livelli produttivi di beni e servizi (provisions) accompagnata da

87JEFFREY C. ALEXANDER, I paradossi ... cit., pp. 335-36.

234

un palese arretramento nei titoli di accesso ( entitlements ). 88 Per il sociologo tedesco

ciò è tanto più grave poiché egli è dell'idea che la cittadinanza si collochi

interamente sul versante dei titoli di accesso e rifiuta il concetto secondo il quale i

diritti sociali andrebbero legati ad una contropartita in lavoro da parte dei beneficiari

di prestazioni economiche ( workfare ): il rischio di queste soluzioni consisterebbe, in

ultima analisi, in uno scivolamento verso il lavoro forzato. Ad ogni buon conto, ciò

che in precedenza ha costituito motivo di evoluzione e di sviluppo della cittadinanza

nelle sue molteplici dimensioni - ossia un certo equilibrio, ancorché precario e

difficile da ottenere, nelle democrazie moderne tra provisions e entitlements - ha

bisogno di essere attualizzato e rafforzato, nonostante i problemi attuali. In che

modo? Il vero problema delle democrazie moderne, argomenta Dahrendorf, consiste

nell'esistenza di una sottoclasse di individui esclusi dall'accesso all'esercizio dei

diritti di cittadinanza: sembra tuttavia improprio parlare di una sottoclasse poiché

non si tratta di una classe in senso stretto, ma di un aggregato di vittime della

maggioranza di individui interessati al mantenimento dello status quo. Queste

persone non si trovano nelle posizioni più basse della stratificazione sociale, ma

addirittura al di sotto e al di fuori di essa e delle forme minime di redistribuzione,

dal momento che mancano di titoli di accesso, cioè di cittadinanza. Ciò ha per

conseguenza un 'prezzo morale': minare alla base i valori su cui si fonda la

convivenza democratica. Considerazioni del tutto analoghe possono essere fatte a

proposito del profondo divario fra il Nord avanzato e il Sud povero del pianeta: tali

88RALF DAHRENDORF, Cittadtnanza: una nuova agenda per il cambiamento, trad. it. in «Sociologia del diritto», XX, 1, 1993, pp. 7-18.

235

situazioni «CI costringeranno a convincerci del fatto che la cittadinanza o è un

progetto universale, o è una penosa copertura del privilegio». 89 Se le g10vam

democrazie dell'Europa orientale stenteranno a produrre adeguati sforzi sia sul

versante delle provisions che su quello degli entitlements sarà estremamente

improbabile che la costruzione della cittadinanza possa sottrarsi ai conflitti di tipo

etnico o presunti tali, portando alla negazione della democrazia. Anche la

prospettiva dell'unificazione europea e la definizione di una cittadinanza europea

non possono non tener conto dell'esigenza di un bilanciamento dei due versanti. I

pericoli che incombono sull'ambiente naturale fanno inoltre emergere in modo

sempre più prepotente l'istanza a tutelare il diritto di tutti ad un habitat vivibile.

Ecco dunque che i diritti di cittadinanza «devono essere riformulati da menti attente

e precise che non li utilizzino per fini che non sono loro propri o per coprire

interessi costituiti. Devono essere riaffermati da quelli che nella riforma vedono la

sola speranza di libertà. E devono essere ampliati per far fronte alle nuove sfide».90

89/bidem, p. 14. 90/bidem, p. 18.

236

3. 6. Cittadinanza e disuguaglianze ascritte

L'analisi di Giovanni Battista Sgritta mostra come lo sviluppo delle cittadinanza

moderna sia fortemente connesso alle evoluzioni dei sistemi di disuguaglianza

sociale, riflettendone le vicende:91 la teoria di Marshall ha descritto i tratti

problematici di questa interazione, che non ha condotto ad uno Stato sociale in

senso proprio, ma all'introduzione di alcuni correttivi alle disfunzionalità sociali

dell'economia di mercato i quali ne hanno lasciato intatta la struttura di base. Il

modello messo a punto da Keynes e Beveridge ha così finito, paradossalmente, con

l'agevolare il mercato mediante il sostegno pubblico alla riproduzione della forza

lavoro: ciò è provato dal fatto che, sebbene si sia elevato il tenore medio di vita, i

sistemi di disuguaglianza permangono, pur con modalità e forme nuove. L'impianto

dei diritti sociali ha rivelato una fragilità strutturale, dovuta al fatto che la loro

formalizzazione non corrisponde al loro esercizio effettivo. In più i sistemi di

welfare state hanno posto a base dell'esercizio dei diritti sociali il presupposto della

'società del lavoro', cioè del pieno inserimento dei destinatari nel mercato del

lavoro, poi rivelatosi non aderente al reale stato dei fatti. In quell'ottica l'estensione

e la diffusione delle prestazioni di welfare sono strettamente collegate alle

dinamiche del mercato, sia dal versante dell'offerta complessiva che della domanda.

Qui, nota S gritta, em~rge una contraddizione _stridente tra i principi della

cittadinanza democratica e l'esiguità dei suoi spazi di agibilità concreta. Per un certo

237

periodo - fino agli anni '70 di questo secolo - il compromesso tra mercato e

cittadinanza ha retto, bene o male, poiché un'ampia maggioranza della popolazione

era inserita nel mercato del lavoro. In seguito, tale circostanza ha cominciato a

mostrare segni di cedimento, con la costante crescita della disoccupazione

riconducibile a vari fattori: internazionalizzazione dell'economia, introduzione di

nuove tecnologie labour saving, presenza femminile più massiccia nella

popolazione attiva, e così via. La complessità sociale è in continua crescita e le

forme di disuguaglianza sociale aumentano e si intrecciano sempre più. La

principale frattura è tra chi ha lavoro e chi non ne ha, o tra chi ha lavori stabili e ben

pagati e chi lavora precariamente e con bassi compensi. S gritta si sofferma, in

particolare, sull'analisi delle disuguaglianze sociali di genere e di generazione. Per

quanto riguarda le prime, occorre ricordare che già il piano Beveridge, ad esempio,

dava per scontata la subordinazione economica della donna nella famiglia e la

centralità maschile nei ruoli di mercato. Con tratti più o meno accentuati, questa

impostazione è stata largamente prevalente e l'emancipazione femminile ha seguito

più che altro percorsi di appropriazione di ruoli sociali, economici e politici pensati

a misura del genere maschile: «essere socialmente anfibio, attivo

contemporaneamente sui due fronti della riproduzione e della produzione, in effetti

la donna è il solo soggetto ad essere impegnato in un'attività di lavoro all'interno

della casa che supera ampiamente i limiti di fatica e di tempo indispensabili per il

91 GIOVANNI B. SGRITTA, Cittadinanza: classi, squilibri di genere e asimmetrie generazionali in PIERPAOLO DoNATI- GIOVANNI B. SGRITTA (a cura di), Cittadinanza e nuove politiche sociali, Milano, Angeli, 1992, pp. 59-81.

238

suo esclusivo sostentamento».92 Il rapporto tra i due piani ha più il sapore

dell'interferenza negativa che non dell'interazione positiva. La cittadinanza che -

secondo il codice moderno-industriale è mediata dalla posizione dell'individuo nel

sistema produttivo - nel caso delle donne risulta attenuata quando non mutilata.

Poiché è impensabile un ritorno ai tassi di attività delle donne e ai modelli familiari

di alcuni decenni fa, si profila un conflitto tra la questione della cittadinanza

femminile e i modelli prevalenti di relazione tra sfera domestica e sfera pubblica:

«si introduce nell'agenda politica la variabile del tempo come condizione della

partecipazione democratica e criterio di regolazione dell'equità nella distribuzione

delle risorse. Con il che si scardina alle fondamenta l'opposizione tradizionale tra

sfera della produzione e sfera della riproduzione [ ... ], per sostenere la necessità di

introdurre un punto di riferimento universale che trascenda le convenzionali

distinzioni di sesso e di età nella divisione delle responsabilità sociali e delle risorse

disponibili».93 Alle asimmetrie di genere si ricollegano quelle generazionali: la

drastica riduzione della natalità nei paesi occidentali, soprattutto in Italia, il

prolungamento nel tempo dei percorsi formativi dei giovani, l'aumento assoluto e

relativo di anziani pensionati cui si aggiungono gli elevati tassi di disoccupazione

giovanile compongono un quadro sociale ben difficilmente gestibile secondo

l'attuale configurazione della cittadinanza. I pericoli di esclusione sociale investono

fasce sempre più ampie di persone e i diritti di cittadinanza corrono il rischio di

92/bidem, p. 70. 93/bidem, p. 73. Sulla problematica sociologica del tempo nelle politiche sociali, si veda LAURA BALBO (a

cura di), Time to Care. Politiche del tempo e diritti quotidiani, Angeli, Milano, 1987.

239

sancire i privilegi di alcuni a scapito di altri ('società dei due terzi'). Le politiche

sociali hanno davanti a sé questioni di non facile soluzione.

3. 7. La cittadinanza come relazione sociale

Pierpaolo Donati avvia la sua analisi della vicenda contemporanea della cittadinanza

constatando che la forte crisi di integrazione politica della società contemporanea si

inscrive all'interno dei forti processi di mutamento sociale che la attraversano: «la

società cambia a tal punto che i prerequisiti sociali della cittadinanza - la

razionalità e la solidarietà - sembrano scomparire. [ ... ] [La cittadinanza] è ciò che

dà ad una società forma e contenuto di 'comunità politica', [ ... ] [un] simbolo, che è

insieme una semantica e un insieme di istituzioni (culturali e strutturali) della

società moderna politicamente intesa».94 L'ipotesi del sociologo bolognese è che la

crisi di integrazione politica non è altro che una crisi della democrazia e della

cittadinanza moderna. Se cittadinanza è appartenenza ad una comunità politica, la

dimensione relazionale richiede una tematizzazione più esplicita e più compiuta: la

cittadinanza moderna a base individuale non può essere sufficiente a esprimere tale

appartenenza in senso globale.

Donati ha elaborato una teoria della cittadinanza societaria, mediante l'applicazione

della sua teoria relazionale della società:95 si tratta di un pensiero articolato e

complesso, di cui non è possibile, in questa sede, dare conto esaurientemente, ma

94PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., pp. 3-4.

240

soltanto illustrare alcuni passaggi essenziali. La tesi di Donati è che «la relazione, o

piuttosto il complesso societario di relazioni, che connette il sistema politico-

amministrativo con la nuova società civile ha un nome: [ ... ] cittadinanza societaria.

Essa può essere anche detta post-moderna in quanto, pur con alcune continuità

rispetto a quella moderna, tuttavia se ne distacca e va oltre».96 Nella sfera della

società civile - cioè «l'insieme delle sfere di relazioni sociali, associative in senso

lato, distinte dal mercato e dallo Stato»97 - sono ricomprese, oltre agli individui,

anche le autonomie sociali «portatrici di propri diritti-doveri di cittadinanza».98

Cambia dunque la direzione di emanazione, per così dire, della cittadinanza: questa,

diversamente che nella modernità, non viene calata dall'alto (dal sistema politico) a

individui e categorie sociali astratte, ma si configura come «titolarità di cui i

soggetti sociali (individuali e collettivi) sono portatori e che viene istituzionalizzata

attraverso determinati processi e strutture in una forma comune, quella appunto di

una distinta e autonoma comunità politica».99

La cittadinanza moderna contiene una contraddizione costitutiva, laddove presenta

al contempo istanze di emancipazione e di controllo sociale; queste ultime sono

state chiaramente evidenziate, tra gli altri, da Michel Foucault che nel Panopticon di

Jeremy Bentham ne ha indicato l'emblema teorico. I due generi di istanze non sono,

secondo Donati, isolabili l'una dall'altra e ciò è alla base di una fra le tensioni più

laceranti della cittadinanza moderna, in bilico tra appartenenza ad una collettività e

95PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale della società, Milano, Angeli, 19943•

%PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 20. 97/bidem, p. 19. 98 Ibidem, p. 14. 99/bidem.

241

diritti individuali: «la creazione di un vincolo (la cittadinanza come appartenenza)

contro le sue stesse premesse (e promesse) di liberazione da ogni vincolo». 100

L'oscillazione fra uguaglianza e libertà, fra individualismo e solidarietà e

l'impossibilità di un equilibrio adeguato alla complessità post-moderna sono fra le

ragioni di fondo della crisi della cittadinanza moderna.

La stessa vicenda attuale della cittadinanza è però oggetto, a conferma di quanto

appena detto, di diverse chiavi di lettura che, a grandi linee, Donati riconduce a tre

orientamenti principali. Secondo un primo orientamento, la cittadinanza moderna

non è in crisi, ma anzi deve ancora completare il suo progetto, i problemi e le

contraddizioni derivano da tale incompiutezza; 101 questa prospettiva, secondo

Donati, non è sostenibile teoreticamente poiché «non fa i conti con la storia». w2 Un

secondo orientamento tematizza la crisi della cittadinanza moderna come

incompiutezza e inadeguatezza della formulazione dei suoi valori di fondo alla

complessità contemporanea; 103 affermare ciò è per Donati necessario ma non

sufficiente, poiché non ci si pronuncia rispetto agli esiti che diverse opzioni per

valori comuni possono avere in ordine alla crisi del politico. Per un terzo

orientamento la crisi della cittadinanza moderna è radicale, per via di contraddizioni

interne: o per l'eccessivo dominio della sfera economica nella vita sociale104 o per il

restringimento della cittadinanza a mero titolo formale di accesso a prestazioni; 105

100 Ibidem, p. 22. 101Cfr., in questo stesso capitolo, le posizioni di Salvatore Veca e Jtirgen Habermas. to

2PIERPAOLO DoNATI, La cittadinanza ... cit., p. 24. 103Cfr., in questo stesso capitolo, le posizioni di Michael Walzer e Jeffrey C. Alexander. 104Cfr. CARLO MONGARDINI, Le trasformazioni della cittadinanza in ID. (a cura di), Due dimensioni della

società.L'utile e la morale, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 181-186; 105È, quest'ultima, la posizione di NIKLAS LUHMANN, Teoria politica nello Stato del benessere, trad. it.,

Milano, Angeli, 1983.

242

Donati non concorda con lo scivolamento verso il post-modernismo del pensiero

debole o dell'opportunismo sistemico, poiché entrambi rappresentano pos1z1om

ideologiche sebbene partano dall'assunto della crisi irreversibile delle ideologie

politiche. 106

Storicamente la cittadinanza è scaturita da una costruzione sociale che si è svolta

nelle società moderne e che sembra abbia ormai sfruttato ogni potenzialità di questo

orizzonte socio-culturale: «la storia strettamente moderna della cittadinanza, fino al

welfare beveridgiano, è storia degli spostamenti dalla cittadinanza del bourgeois

alla cittadinanza del lavoratore, sotto l'egida della modernizzazione industriale, con

il relativo modello di democrazia industriale. E ci si chiede: dove è finita e dove

andrà a finire la cittadinanza dell'uomo come uomo?». 101 Donati sembra cioè essere

dell'idea che la crisi della cittadinanza moderna altro non faccia che segnalarne

l'inadeguatezza della concettualizzazione e della pratica attuale, mentre dalla società

provengono già segnali che indicano l'avvio di un processo di costruzione di una

nuova forma di cittadinanza oltre la modernità. 108 Ciò consente a Donati di affermare

che «l'attuale crisi di integrazione politica comporta la crisi di una certa idea

(moderna) di democrazia, ed entrambe si esprimono nella crisi della forma

106Cfr., per una rassegna di posizioni su questi temi, CARLO MONGARDINI - MARIA LUISA MANISCALCO (a cura di), Moderno e postmoderno. Crisi d'identità di una cultura e ruolo della sociologia, Roma, Bulzoni, 1989.

107 Ibidem, p. 25. 108Per una visione concorde con l'idea di svuotamento della modernità (cioè l'esaurimento delle potenzialità

del modello moderno di convivenza sociale, basato sull'astrazione giuridica e sull'astrazione monetaria) e con la necessità del recupero di una dimensione comunitaria cfr. PIETRO BARCELLONA, Il ritorno del legame sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 124-29.

243

corrispondente di cittadinanza. Ma ciò non significa fine della cittadinanza tout

court». 109 Per dirla in breve, la fine di un mondo non è la fine del mondo.

La proposta di Donati si impernia sulla considerazione della cittadinanza come

relazione sociale «caratterizzata da sovra-funzionalità e da una forma reticolare

attraverso cui si realizzano processi di differenziazione sociale». 110 La sovra-

funzionalità della cittadinanza consiste nell'assolvere, oltre a quella politica

preminente, anche un numero indefinito di funzioni di altro tipo, ad esempio

psicologico (senso di appartenenza), culturale (stili di vita 'nazionali'), economico

(il far parte di un sistema di scambi di risorse), sociale (il riferirsi a talune norme

sociali), giuridico (l'essere inseriti in un ordinamento giuridico con diritti e doveri),

eccetera. La forma reticolare della cittadinanza osservata come relazione sociale la

si ritrova nel fatto che questa non concerne più soltanto il rapporto universalistico

tra l'individuo e il vertice (politico) della società, ma «nello stesso tempo identifica

anche l'appartenenza a sfere sociali più differenziate e differenziantesi»111 : si ha cioè

una compresenza di forme tanto universalistiche quanto particolaristiche di

solidarietà.

Donati individua il punto di rottura tra la cittadinanza moderna e quella post-

moderna non già nella dicotomia liberalismo/socialismo (entrambi, infatti, hanno in

comune una matrice illuministica, data dal «riferimento universalistico nei diritti

109 Ibidem, p. 26. Sulla relazione tra cittadinanza e democrazia e sulle responsabilità e le virtù politiche del cittadino in chiave filosofico-politica, si veda JOSEP M. VILAJOSANA, Cittadino, doveri istituzionali e virtù politiche, trad. it., in «Ragion pratica», 6, 1996, pp. 177-93.

110PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 27. mlbidem, p. 30.

244

dell'individuo astratto dalla comunità» 112) ma nell'inconciliabilità tra universale dei

diritti e appartenenze particolari o nell'esito di un 'pluralismo senza fondamento',

nella attuale incapacità della società post-moderna di «conferire identità politica

attraverso la cittadinanza intesa in senso illuministico». 113

Abbiamo già avuto l'occasione, all 'intemo di questo lavoro, di osservare come la

società post-moderna proceda ad una differenziazione dell'universalismo in più

universalismi 114: ciò significa che questi non hanno più un referente centrale nello

Stato, ma referenti diversificati secondo le molteplici sfere sociali. Tale

differenziazione è post-moderna in quanto intacca alla radice l'ideologia

illuministica, per la quale lo Stato è il centro di imputazione dell'universalismo. La

cittadinanza moderna, concepita sulla base dell'appartenenza degli individui a Stati-

nazione, non è più in grado di gestire la relazione tra universalismo dei diritti e

particolarismo dell'appartenenza a formazioni sociali più ristrette.

Il legame micro-macro richiede una nuova tematizzazione e l'idea di Donati è che

«la complessità maggiore deve [ ... ] essere maggiormente regolata, e quindi

vincolata (Io è di fatto), se vuole essere vitale nel relazionare adeguatamente

l'universale con il particolare (per esempio della cittadinanza)». 115 In concreto, ciò

comporta i) una generalizzazione dei valori fondamentali tale da renderli applicabili

a quante più sfere sociali possibile e ii) una specificazione dei valori secondo i

caratteri propri di ogni contesto particolare.

112 Ibidem, p. 31. 113/bidem. 114Cfr. supra, capitolo 1. 115PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 33.

245

Abbiamo poc'anzi osservato come per Donati la cittadinanza post-moderna sia

dotata del carattere della sovra-funzionalità: approfondendo ciò, egli nota che il

concetto in esame coinvolge e vincola limitatamente all'appartenenza di tipo

politico ai vari livelli, mentre in altre sfere relazionali essa fa capo alla scelta da

parte dei soggetti. In senso più generale, tale articolazione ricalca la distinzione

società del/ 'umano/società tecnica elaborata dalla sociologia relazionale dello stesso

Autore 116 ed esprime quella mediazione e quel legame relazionale tra

universalizzazione di valori e funzioni da una parte e differenziazione delle sfere

sociali dall'altra che sembra contraddistinguere la post-modernità; nella modernità,

invece, la cittadinanza è costruita sulla base della distinzione tra sfera pubblica

(coincidente con lo Stato) e sfera privata (identificata come 'società civile'), e il

'pendolo' tende soprattutto verso l'appartenenza sistemica nella 'società tecnica'.

La cittadinanza contemporanea è in crisi poiché non corrisponde più agli esiti dei

processi di differenziazione societaria della modernità da cui è scaturità una società

articolata in sfere sociali relazionali osservabili mediante lo schema AGIL:

economia (A), governo politico (G), associazioni (I), famiglie (L): «ciascuna di

queste sfere è cresciuta sulla base di un proprio codice simbolico, con propri mezzi

materiali e simbolici (specifici e generalizzati) di interscambio con le altre sfere, ha

edificato le proprie istituzioni, ha codificato i propri diritti e doveri

116/bidem, p. 34: la società dell'umano è la società osservata come «insieme di relazioni sociali che debbono essere continuamente rilegittimate, motivate, agite, senza meccanismi tecnici o sistemici che possano garantirle 'automaticamente'»; la società tecnica indica invece «le forme associative organizzate attraverso meccanismi tecnici» come, ad esempio, le imprese, le amministrazioni pubbliche, i sistemi di sicurezza sociale eccetera.

246

(regolamentazioni)». 111 Ciò che sostiene Donati è che la cittadinanza nelle

democrazie contemporanee - sia negli ordinamenti giuridici che nell'analisi

scientifica - è rimasta indietro rispetto alla differenziazione societaria, inquadrando

le relazioni sociali in maniera riduttiva nel binomio Stato-mercato, conferendo la

titolarità dei diritti di cittadinanza ai soli individui ed escludendone la sfera

associativa e quella familiare. 118 Proprio da una più attenta considerazione

sociologica dei processi di differenziazione societaria emergono elementi che

lasciano intravedere un nuovo modello di cittadinanza societaria, post-industriale e

post-moderna, che riflette l'attuale configurazione del sociale in sfere sociali

autonome ma collegate relazionalmente.

La cittadinanza post-moderna sembra tendere di più (anche se non esclusivamente)

a porre l'accento sull'appartenenza comunitaria. Non si spiegherebbe altrimenti,

sostiene Donati, l'intensificarsi dell'attenzione scientifica, e per certi versi anche di

quella politica, verso il binomio uguaglianza-riconoscimento delle differenze e i

molti temi ad esso riconducibili (libertà-solidarietà, ripensamento dei sistemi di

sicurezza sociale e del sottostante concetto di benessere, multiculturalismo e

valorizzazione delle identità ... ). Lo scenario che si va delineando, argomenta

Donati, presenta proprio tali elementi, che documentano un certo declino della

cittadinanza statalista e il graduale manifestarsi di una cittadinanza societaria in cui

lo Stato non è più il referente centrale, ma vi è una pluralità di sfere sociali

117PIERPAOLO DoNATI, Introduzione generale. Le nuove frontiere della politica sociale: l'Europa delle famiglie, in Io. - FABIO FERRUCCI (a cura di), Verso una nuova cittadinanza della famiglia in Europa. Problemi e prospettive di politica sociale, Milano, Angeli, 1994, pp. 7-36; p. 9.

118Con accenti simili per un profondo ripensamento della cittadinanza, GIUSEPPE COTIURRI, Mutamenti. Culture e soggetti di un pubblico sociale, Molfetta, La Meridiana, 1992.

247

pubbliche (autonomie sociali) e di relazioni sociali il cui contenuto non è più

soltanto politico: una visione nella quale lo Stato non scompare ma tende a

relazionarsi con le autonomie sociali rappresentando, rispetto ad esse, «da un lato il

limite della loro comune compatibilità e dall'altro un sistema di valori e regole che

garantisce la loro effettiva autovalorizzazione». 119 Una cittadinanza, dunque, plurima

e complessa, che sembra procedere non più per processi di inclusione/esclusione

come nella modernità, bensì attraverso processi associativi e di connessione

relazionale fra universalismi non esclusivi riconducibili alle sfere sociali.

Il rapporto tra individuo e appartenenza è stato ripreso, tra gli altri, da Dario Rei, il

quale avverte la necessità, a tale proposito, di una più attenta considerazione

antropologica che, delineando il complesso di relazioni sociali in cui l'individuo è

inserito, consenta di articolare e differenziare diritti individuali e diritti relazionali,

configurando una democrazia dei cittadini solidali. 120

3. 7.1. La relazione tra cittadinanza e democrazia nella modernità

Già da varie considerazioni proposte nel corso del nostro itinerario di ricerca sono

emerse le radici moderne della cittadinanza e della democrazia contemporanea:

anzi, in un senso generale, è possibile affermare che «per la modernità, cittadinanza

119PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 37. 120DARIO REI, La cultura della cittadinanza come orizzonte della politica sociale, in ROBERTO DE VITA -

PIERPAOLO DONATI - GIOVANNI B. SGRITTA (a cura di), La politica sociale oltre la crisi del welfare state, Milano, Angeli, 1994, pp. 58-78.

248

e democrazia sono i due lati di una stessa medaglia», 121 realtà che consiste di un

assemblaggio, non senza contraddizioni, di vari elementi provenienti dalla teoria

filosofica, politica, giuridica e sociologica. Poiché i due oggetti considerati

presentano connessioni particolarmente significative, è anche opportuno domandarsi

come si configuri la relazione tra la crisi della cittadinanza e quella della democrazia

moderna. Tocqueville, per primo, aveva avanzato l'ipotesi che la democrazia

moderna contenesse nel suo nucleo più interno gli elementi della propna

contraddizione e involuzione rispetto alle premesse valoriali di liberté, égalité,

fraternité. Egli aveva infatti tratteggiato i contorni di due modelli di relazione fra

democrazia e cittadinanza: i) il modello liberale classico, con una società civile

vitale perché ricca di relazioni associative e con responsabilità chiaramente distinte

da quelle del potere politico, con un'efficace garanzia delle libertà civili; ii) il

modello di democrazia dispotica, con un potere politico centralistico e

tendenzialmente autoreferenziale, con una debole partecipazione c1v1ca e una

limitazione di fatto delle libertà, specialmente di quelle associative. 122

L'interattività nella relazione tra democrazia e cittadinanza segna un passaggio

decisivo con la modernità: è in quest'ottica che si concepisce l'idea che la

cittadinanza possa soddisfare i bisogni umani fondamentali. Ma le vicende

attraversate dal codice moderno della cittadinanza vanno in altra direzione, giacché

«la democrazia passa da valore (di emancipazione) a metodo (di governo attraverso

specifiche istituzioni e regole) e poi a codice procedurale puramente funzionale

121PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 45. 122Cfr. ALEXIS DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, (ediz. originali: primo tomo 1835, secondo

tomo 1840), trad. it. in ID., Scritti politici, Il, Torino, Utet, 1988.

249

(produzione sistemica di alternative per selezioni che dovrebbero rimanere sempre

'aperte')»: 123 di qui la crisi della cittadinanza moderna.

La democrazia, osserva Donati, soprattutto nel pensiero classico e tradizionale ma

anche in quello liberale contemporaneo, risente di una definizione limitata in quanto

la si concepisce soltanto come forma di esercizio del potere. Questa definizione, di

per sé problematica nell'ambito della sociologia, per Donati è una formula di

contingenza, un'espressione, cioè, contenente un simbolo - governo del popolo -

che esprime ciò che rimane indeterminato (da parte del popolo).

L'indeterminazione cresce al crescere della complessità della società, e ciò fa

sorgere domande di non poco conto: la democrazia è confinata nell'ambito del

contingente o vi è in essa un qualche ruolo da parte dei valori liberali - libertà,

uguaglianza, fraternità?

La storia della democrazia moderna ha mostrato come vi sia stata un'estensione -

certo non lineare né uniforme - del suo codice simbolico-normativo anche a sfere

diverse da quella politica: basti considerare, sotto tale profilo, le vicende della

cittadinanza e dei diritti ad essa connessi. Il principio democratico, secondo la

prospettiva della sociologia relazionale, ne è risultato riformulato in «governo

dell'attore sociale da parte dell'attore sociale in ogni e qualunque relazione

sociale». 124 Si viene così a configurare un primato dell'attore sociale sulla relazione

che, per Donati, è fonte di notevoli problemi. La modernità ha fatto sì che nella

società sorgessero, mediante processi di differenziazione e universalizzazione,

123PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 49. 124/bidem, p. 52.

250

numerose forme di socialità. La democrazia moderna, sia nella teoria che nelle

prassi, si è però mantenuta con una certa rigidità entro i binari del rapporto im-

mediato tra regolazione statuale e diritti individuali, con una carente o assente

tematizzazione del contributo individuale (in termini di obbligazione) alla

dimensione sociale e del significato da attribuire alle varie sfere sociali che si

presentavano sulla scena. Stato e mercato sono stati i due poli di attrazione per tali

forme di socialità, ma, nel complesso, «le forme politiche della socialità sono state

tutt'al più tollerate, e spesso strumentalizzate» in vista di scopi politico-

istituzionali. 125 Se si eccettua il sindacato - che però è stato ben presto assorbito

nello schema neocorporativo di rapporti tra Stato, imprese e lavoratori - nessuna

forma politica della socialità ha conosciuto, nelle democrazie occidentali

contemporanee, uno sviluppo significativo in termini di cittadinanza.

Secondo Donati vi è una relazione diretta tra inadeguatezze della cittadinanza e crisi

della democrazia: «in termini generali, i sistemi politici hanno tanto più incontrato

crisi quanto più essi non hanno saputo sviluppare 'autonomia democratica'». 126

I soggetti sociali che nelle democrazie occidentali hanno avuto negata la loro istanza

di riconoscimento della cittadinanza hanno percorso varie strade: exit (il rifiuto della

dimensione politica e il 'tirarsi fuori' dalla dinamica democratica), voice (la protesta

in varie forme), la riforma interna (istituzionale o extrapartitica) con accenti ed esiti

che sociologia e scienza politica hanno più volte analizzato. 121 Ma finora la domanda

di cittadinanza rimane pressoché inevasa e di tale difficoltà ad impostare

125 Ibidem, p. 54. 126 Ibidem, p. 56. 127Cfr. ALBERTO. HIRSCHMAN, Lealtà, defezione, protesta, Milano, Bompiani, 1982.

251

correttamente il problema vi è traccia, ad esempio, anche in importanti leggi di

riforma, di portata 'epocale', varate recentemente: la legge 142 del 1990 sulle

autonomie locali e la legge 241 del 1991 sul procedimento amministrativo e la

trasparenza, pur introducendo innovazioni necessarie e positive, si muovono ancora

all'interno della logica dell'ampliamento dei diritti individuali e della facilitazione

della partecipazione ai processi decisionali pubblici: secondo Donati, il pericolo è

che, nonostante le intenzioni, si finisca con il dare un'ulteriore spinta

all' autoreferenzialità della politica anche locale. La via della semplice

partecipazione, già ampiamente battuta fin dagli anni '70, si rivela inadeguata,

poiché, dando spazio a tutte le posizioni, la conflittualità cresce e la capacità

decisionale e di gestione diminuisce, frustrando le molteplici aspettative suscitate

(I' esperienza dei comitati di gestione delle USL di qualche tempo fa è esemplare al

riguardo). L 'autoreferenzialità del sistema politico è stata ed è vista talvolta come

un male necessario a sbloccare i meccanismi obsoleti della democrazia mediante le

riforme istituzionali. Il fatto è, sostiene Donati, che sia la partecipazione che le

riforme delle istituzioni presentano aspetti validi, ma, non essendo inquadrate in un

codice simbolico che ipotizza un progetto di società giusta e solidale, sfociano in un

«sostanziale sottosviluppo della cittadinanza», 128 in una democrazia bloccata. Come

spiegare tale blocco? L'ipotesi di Donati è che nell'Europa occidentale «società

civile e Stato, sfere sociali di vita quotidiana e istituzioni politiche, sono ormai

governate da un particolare 'codice simbolico' democratico il quale produce

incessantemente anomia e sprigiona, per reazione, sempre nuove richieste di

128PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza ... cit., p. 61.

252

maggior potere/funzionalità che non possono essere soddisfatte all'interno del

sistema societario dato e delle sue istituzioni politiche». 129 Il codice simbolico della

democrazia è interno a quello della modernità, soprattutto lì dove esso designa la

realtà e il mondo come costruzioni sociali operate attraverso selezioni in base a

'griglie' culturali: la visione contingente della realtà ha conseguenze anche sulla

teoria e sulle prassi della politica. La sociologia ha parlato, in tal senso, di una

società a razionalità limitata, non nelle potenzialità ma negli esiti, sempre

contraddittori, del gioco tra istanze sistemiche funzionali e istanze non funzionali.

Di qui il carattere per così dire compromissorio e 'stabilmente precario' della

democrazia moderna. La cittadinanza si configura come «operazione di

inclusione/esclusione secondo logiche di guadagno combinatorio contingente,

anziché essere un complesso di diritti e obblighi che dovrebbe essere tutelato e

promosso secondo una logica emancipativa coerente con se stessa». 130 Le istanze

inclusive - vecchie e nuove - dei soggetti deboli non fanno altro che evidenziare

l'inadeguatezza del codice funzionale della democrazia a razionalità limitata; in

essa, i diritti sono formulati sulla base di interessi di cui sono portatori gli individui

legittimati a farlo dalla loro appartenenza alla comunità politica e il cui contenuto -

fatte salve le leggi - è libero per definizione. Gli interessi, tuttavia, rimandano

sempre a delle identità, per quanto parziali e segmentate; 131 le identità, a loro volta,

non vengono dal nulla, ma si formano nel contesto di un'appartenenza politica e

anche socio-culturale. D-ai diritti di cittadinanza, quindi, si risale in qualche modo

129 Ibidem, pp. 61-62. 1301bidem, p. 64.

253

alla identità del cittadino: ciò che la cittadinanza moderna non è in grado di

elaborare, giacché ignora programmaticamente le appartenenze diverse da quella

politico-statuale. Una cittadinanza articolata solo sugli interessi, che pretenda di

essere neutrale rispetto alle culture, non può esistere, così come ogni sistema

politico, anche il più politically correct. Nonostante ciò sia empiricamente evidente,

il codice simbolico della modernità tende ad espungere l'elemento sociologicamente

normativo sia dalla identità del cittadino che dai criteri regolativi dei sistemi politici:

«si fa strada [ ... ] il problema di sapere se, nel prossimo futuro, sia possibile e come

produrre una democrazia normativa che non si auto-contraddica e auto-sconfigga in

partenza». 132 La prospettiva neo-funzionalista considera irreversibile il processo di

erosione delle basi normative della cittadinanza e della democrazia, erosione che

rende fragile e inconsistente, e perciò in ultima analisi irrilevante, ogni appartenenza

o mediazione individuo/sistema. La dinamica democratica, non potendo incentrarsi

sul rapporto tra interessi in chiave utilitaristica o rational choice né sulle

appartenenze, diviene tecnica di selezione opportunistica operata da identità

indefinite perché indefinibili. Ora, il particolare rapporto tra identità del cittadino e

appartenenza culturale per Donati è tale da non poter essere ulteriormente

disconosciuto o sottovalutato, se per appartenenza culturale si intende la «capacità

di elaborare ciò che la relazione sociale incorpora come sua storia normativa» e

per tradizione culturale la «capacità di sviluppo normativo delle relazioni». 133

Seguiamo l'argomentazione di Donati. Poiché la cittadinanza è un sistema che è in

131ALESSANDRO PIZZORNO, Identità e interesse, in LOREDANA SCIOLLA (a cura di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983, pp. 139-54.

132PIERPAOLO DoNATI, La cittadinanza ... cit., p. 73.

254

parte di appartenenza (in primis politica), essa precede l'individuo; l'identità del

cittadino risulta non dal sistema politico di riferimento ma dalla relazione tra

quest'ultimo e l'individuo-cittadino. Inoltre, i due poli della relazione non sono

riducibili l'uno all'altro o viceversa né ognuno di essi alla relazione. Anche la

cittadinanza, come ogni altra relazione sociale, è intrinsecamente nomica, giacché si

regge su aspettative che si producono e tendono a stabilizzarsi. Anche il neo-

funzionalismo concorda su questo punto: ma esso ritiene che tutto sia negoziabile,

mentre nell'approccio relazionale la relazione in sé non lo è, giacché le relazioni

sono fra gli elementi costitutivi per l'identità dei soggetti, in parte anche a

prescindere dalla loro volontà o consapevolezza. La post-modernità attualmente non

è ancora in grado di concepire relazioni sociali contenenti elementi ascritti insieme

ad elementi acquisitivi, e quindi tende a dissolverle anomicamente.

In chiave relazionale, democrazia e cittadinanza possono essere articolate secondo

lo schema AGIL in quattro ambiti: a) diritti economici, b) diritti politici, c) diritti

sociali, d) diritti culturali: quest'ultimo è l'ambito meno sviluppato nella modernità,

giacché concerne il tema delle appartenenze culturali. Questo schema ha due aspetti

che vanno sottolineati: esso «evidenzia il fatto che la persona umana è bensì anche

cittadino, ma la cittadinanza non assorbe la persona umana. Si assume che la

cittadinanza, mentre si accolla l'onere di realizzare l'improbabile dell'umano, può

anche dar vita a qualcosa che umano non è». 134 Questa affermazione spinge ad

approfondire la cultura della cittadinanza, un aspetto poco indagato perché

133 Ibidem, p. 75. 134/bidem, p. 80.

255

surclassato dall'attenzione verso gli aspetti politici ed economici del concetto. La

situazione attuale vede una contrapposizione fra due culture della cittadinanza: una

basata sul modello della inclusione statalizzante, tendente a tradurre i bisogni sociali

in diritti il cui oggetto sono prestazioni da parte dello Stato sociale; la seconda è la

cultura della autonomia societaria che concepisce la cittadinanza come relazione

sociale fondamentalmente autonoma dallo Stato (anche se ad esso compete la

funzione di regolazione e tutela - o, per impiegare l'espressione di Donati, di

guida relazionale - delle autonomie sociali), nella quale i diritti sono i valori

comuni ritenuti centrali dalla sfera politica mediante le autonomie sociali e le

relazioni, di cooperazione e di conflitto, fra di esse. Perché Donati ritiene preferibile

la seconda alla prima? Egli osserva che l'inclusione statalizzante dei soggetti,

specialmente di quelli deboli, non modifica la forma delle istituzioni, ma tutt'al più

alcuni contenuti della loro azione, la 'struttura' non muta: «attendersi uguaglianza

sociale dalla semplice inclusione civica è errato: l 'egualizzazione delle condizioni di

vita è un prerequisito affinché l'inclusione venga riconosciuta e possa operare,

piuttosto che un risultato». 135 Se si considerano le ricadute sullo Stato sociale delle

dinamiche della relazione tra democrazia e cittadinanza, è possibile osservare,

innanzitutto, che la corrispondenza diretta tra crescita della democrazia, dei diritti

sociali e delle politiche sociali è in crisi, per vari ordini di motivi: i) l'inclusione

sociale nei sistemi di welfare mediante l'appartenenza politico-nazionale è fonte di

problemi (sovraccarico amministrativo e fiscale, conflitti tra interessi

sull'allocazione delle risorse economiche, coagularsi di sub-culture che rifiutano

135/bidem, p. 83.

256

l'assimilazione, spaccatura tra società dei due terzi garantiti e di un terzo non

garantito, burocratizzazione e privatizzazione delle forme di solidarietà sociale

primarie e secondarie, standardizzazione delle prestazioni a fronte di una società

sempre più multi-culturale); ii) lo sviluppo delle politiche sociali non coincide più

con quello delle politiche pubbliche, vi sono nuovi attori e il ruolo dello Stato

evolve da unico centro di imputazione a garante di una programmazione e di una

regolazione coerente con gli obiettivi del sistema; iii) ripensare lo Stato sociale

comporta anche confrontarsi con la necessità talvolta dolorosa di operare limitazioni

nell'accesso alle prestazioni, con un monitoraggio dei cambiamenti nei bisogni

esistenti e nell'efficacia delle modalità di intervento. Con riferimento a tali

questioni, non si tratta tuttavia di operare riduzioni opportunistiche à la Luhmann,

ma di riequilibrare l'assetto dei sistemi di welfare, incluse la gerarchizzazione delle

priorità di intervento e le distorsioni derivanti dal riferimento ormai obsoleto alla

società industriale.

Una concezione di cittadinanza più adeguata alle nuove forme della post-modernità

sostituisce al codice moderno dell'uguaglianza - che non riesce a trattare

correttamente le esigenze oggi contrastanti dell'universalismo e delle differenze -

il codice della reciprocità, che include al contempo uguaglianza (nei diritti) e

simiglianza/dissimiglianza (riguardo alle identità). 136

La reciprocità, che Donati definisce come 'affidamento reciproco', può divenire

«mezzo simbolico generalizzato di interscambio proprio della solidarietà come

136Per il concetto di dissimiglianza cfr. V ACLA V BELOHRADSKY, Della dissimiglianza, in «Studi di sociologia», XXVIII, 4, 1990, pp. 415-34.

257

dimensione latente del sociale», 137 cioè uno dei fondamenti non solo dello Stato

sociale, ma anche «dell'intero sistema societario e della democrazia come forma

complessa del suo governo politico, che sia proprio (specifico) dei mondi della vita,

ma possa essere riconosciuto (legittimato e promosso) anche dal 'complesso Stato-

mercato'». 138

Il sistema dei diritti sociali di cittadinanza (o sistema di 'welfare ')

Caratteri Modello mutualistico Modello statalistico Modello societario (società (prima industrializza-zione) (seconda industrializza- post-industriale)

zione)

Principio di Minimo o residuale Massimizzazione Generalizzazione e cittadinanza (assistenziale) dell'inclusione politica differenziazione secondo le

appartenenze

Referente delle Ceti sociali e condizioni di Classi sociali definite in Condizioni e stili di vita di politiche sociali povertà rapporto al mercato ogni persona

capitalistico

Copertura dei Mutualità e assistenza ex- Attraverso assicurazioni Nuovi mix e combinazioni rischi post con forme miste di obbligatorie generali per fra Stato, mercato,

intervento fra Stato e categorie professionali e in solidarietà associative e solidarietà locali e parte per via fiscale solidarietà primarie (reti professionali informali)

Regole di Secondo una logica Secondo una logica Secondo una logica allocazione assistenziale redistributiva distributiva

Ruolo dello Welfare state residuale Welfare state istituzionale o Welfare state come Stato quasi-totale- ordinatore generale e guida

relazionale

Estensione della Limitata secondo la Universalistica ma solo per Universalistica per cittadinanza categoria sociale di i soggetti di lavoro condizioni di vita (età,

appartenenza gender, struttura familiare, ecc.)

Soggetti di Individui in quanto Individui in quanto Individui in quanto cittadinanza appartenenti a comunità appartenenti a collettivi di appartenenti a 'soggetti

tradizionali lavoro sociali'

Fonte: PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza societaria, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 91.

Ecco, dunque, la definizione nella quale Donati raccoglie sinteticamente gli

elementi principali della sua teoria della cittadinanza societaria: essa è

137PIERPAOLO DoNATI, La cittadinanza ... cit., p. 85.

258

«quell'insieme di valori e norme comuni che selezionano positivamente (e quindi

premiano) le relazioni di scambio, ispirate alla reciprocità, che contribuiscono al

mantenimento e al costante rafforzamento delle reciproche autonomie di soggetti

sociali pubblicamente rendicontabili». 139

Donati ha osservato taluni limiti sociologici nella teoria di Dahrendorf sulla

cittadinanza in una società aperta. In primo luogo, egli ritiene che restringere il

campo d'azione della dinamica sociale e quindi della cittadinanza all'asse Stato-

mercato significhi non considerare le sfere associative e le dimensioni culturali. Una

seconda osservazione verte sull'insufficienza di una concezione della cittadinanza

che proceda alla ricerca di un equilibrio fra liberalismo e socialismo, fra libertà e

uguaglianza nel tentativo di garantire a tutti un equo accesso alle risorse tramite

intitolazioni a diritti, escludendo da ciò le forme di solidarietà sociale e di

reciprocità primarie e secondarie, comunque le si valuti. In ultimo Donati nota che

lo status dei cittadini è, nella visione di Dahrendorf, di ricettori anziché di soggetti

attivi e che il compito di ridisegnare il complesso dei diritti di cittadinanza spetta a

'menti precise', cioè a nuove élite, ancorché illuminate e scevre da visioni

particolaristiche: ciò non solo non intacca le derive assistenzialistiche degli attuali

sistemi di welfare ma non chiarisce quale sia l'ambito delle responsabilità e dei

doveri dei cittadini verso la collettività politica. 140

Così caratterizzata, la cittadinanza secondo l'ottica del neo-individualismo

democratico - che Donati definisce come cittadinanza lib-lab - non si libera dagli

138/bidem, p. 99. 139 Ibidem, p. 195. 140 Ibidem, pp. 241-43.

259

attuali limiti di efficacia, che si trasformano in veri e propri effetti perversi, poiché

essa genera: disuguaglianza (società dei due terzi) e conflitti in ordine ai diritti e alle

identità della cittadinanza; i/libertà, dal momento che, esaltando le libertà

individuali negative, di fatto si riducono le libertà positive di perseguire mete

comuni di cittadinanza; deperimento della politica sociale da bene comune ad

assistenza alle fasce sociali marginali.

Al fondo, ciò che limita fortemente la nozione neo-individualista democratica di

cittadinanza è il fatto che essa non viene sociologicamente osservata come relazione

sociale, il che impedisce di vedere i diritti delle persone tenuto conto delle loro

relazioni di responsabilità e reciprocità nonché dei diritti della relazione in sé legati

ai caratteri culturali delle specifiche situazioni: «una cittadinanza intesa come puro

entitlement alimenta una logica auto-sconfiggentesi, che fallisce nel generare

cittadinanza perché non tiene conto del fatto che ai diritti corrispondono dei doveri,

e che gli uni e gli altri sono relazioni sociali. [ ... ] Una teoria adeguata deve poter

osservare e produrre il reciproco bilanciamento fra queste relazioni», a meno che

non intenda giustificare uno Stato sociale che gestisca monopolisticamente o,

all'opposto, residualmente le politiche sociali. 141 La cittadinanza lib-lab, protesa al

compimento del progetto della modernità, si rivela dunque inadeguata ad osservare

ed assumere i dati della società della post-modernità.

141/bidem, p. 265.

260

Tipologia della cittadinanza secondo gli orientamenti e l'autonomia dei soggetti portatori dei diritti di cittadinanza

Orientamenti degli attori

Autonomia dei soggetti portatori dei diritti

(a fronte del potere statuale)

Debole Forte

In senso Cittadinanza statuale Cittadinanza societaria particolaristico 'frammentata' e 'clientelare' 'corporativa'

In senso universalistico

Cittadinanza statuale 'centralizzata'

Cittadinanza societaria 'plurale' o delle

'autonomie sociali'

Fonte: PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza societaria, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 272.

3. 7.2. Alcuni orientamenti teorici post-moderni

Nella sociologia contemporanea alcuni autori hanno colto il punto di svolta dal

moderno al post-moderno, prendendo atto degli esiti della crescente differenziazione

della società e dei suoi sotto-sistemi che danno luogo ad una sempre maggiore

distanza tra mondi della vita quotidiana e istituzioni politiche; 142 tale situazione non

consente più sintesi universalistiche, sebbene le istanze di riconoscimento dei diritti

e dell'uguaglianza si siano globalizzate, giacché le solidarietà nazionali e di classe

non riescono a comporre come in precedenza le spinte centrifughe. L'approccio

proposto dai teorici del post-moderno ritiene insufficienti sia le risposte liberali che

quelle neo-conservatrici,- perché operano riduzioni eccessive della complessità

sociale; il neo-funzionalismo sistemico di Luhmann non indica altra strada se non la

261

ricerca di strategie opportunistiche di governo degli input dell'ambiente, mentre per

Crespi l'ipotesi è che solidarietà sociale e cittadinanza post-moderne possano evitare

il dominio dei particolarismi richiamando l'appartenenza di tutti alla condizione

esistenziale dell'essere umano, di per sé limitata e non definibile in ogni suo aspetto

e differenza: la consapevolezza di tale condizione favorirebbe la costituzione di

identità particolari ma non aggressive, essendo ognuna di esse sollecitata a gestire il

proprio 'potere intrinseco' da 'forza attiva socialmente responsabile'. Il limite di

questa concezione è che non ammette alcun modello normativo che faccia da

riferimento al vissuto soggettivo, ma punta a nuove forme di mediazione simbolica

in grado di equilibrare il rispetto delle differenze individuali e la condivisione della

condizione esistenziale, essendo tali mediazioni simboliche di per sé sempre

riduttive e transitorie. Sia nell'ipotesi di Luhmann che in quella di Crespi, la

cittadinanza si svuota di ogni contenuto sociologicamente normativo.

Una diversa visione dell'attuale 'snodo' della modernità è stata elaborata da

Anthony Giddens, secondo il quale stiamo assistendo non già alla fine della

modernità ma ad una sua radicalizzazione. E gli considera tre fasi all'interno del

ciclo storico della modernità: la fase illuminista, la fase della modernità dispiegata e

del 'politeismo disincantato' di Max Weber, la fase della modernità radicale,

caratterizzata dalla riflessività del sapere e dall'esigenza di un ripensamento della

modernità stessa. I rapporti sociali, nella modernità radicale, sono sottoposti a

processi di disembedding ('disaggregazione'): sono 'tirati fuori' da contesti locali di

142Cfr., in particolare, NIKLAS LUHMANN, I/luminismo sociologico, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1983; FRANCO CRESPI, Azione sociale e potere, Bologna, Il Mulino, 1989; ID., Imparare ad esistere ... cit.

262

interazione e rimodulati su nuove distribuzioni spazio-temporali. Le relazioni sociali

sono stretched, cioè 'stirate' nello spazio e nel tempo, e richiedono una dose

crescente di fiducia sistemica. L'aumento del rischio comportato da questo modello

di relazioni sociali viene vissuto in modo ambivalente: da un lato si assite a processi

di reembedding, cioè di riaggregazione e di ricomposizione fra intimità e

personalità, fra competenza e riappropriazione, tra fuga nel privato e impegno

CIVICO, m breve «la combinazione di rischio e opportunità». 143 La proposta

conclusiva di Giddens è quella di un «realismo utopico [che] combina l'apertura di

finestre sul futuro con l'analisi delle tendenze istituzionali in corso, rendendo così

gli scenari politici del futuro immanenti al presente», ponendo «un limite al

carattere indefinitamente aperto della modernità». 144

143 ANTHONY GIDDENS, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1994, p. 145.

144 Ibidem, p. 174.

CAPITOL04

CAPITOLO 4 - SOLIDARIETÀ SOCIALE, AUTONOMIE SOCIALI E CITTADINANZA NELLA DIMENSIONE COMUNITARIA

4. O. Premessa

Il declino della comunità è stato, da T onnies in poi, ritenuto progressivo e lineare

nonché simmetrico rispetto al consolidarsi delle relazioni societarie. In questo

capitolo verranno approfonditi i problemi scaturenti dalla tensione Gemeinschaft-

Gesellschaft alla luce del tentativo di compiere una rapida presentazione dell'analisi

sociologica del concetto di comunità a confronto con letture di altro genere

(segnatamente quella filosofico-politica). Cogliendo un provocatorio quesito di

Martin Bulmer - «è realistico scommettere sulla comunità» ai fini di programmi

per il benessere collettivo? - si tenterà di mostrare quali possano essere le

principali opportunità e i problemi implicati da tali approcci teorici nonché le nuove

possibili configurazioni comunitarie o di nuove comunità all'interno delle società

avanzate. Le prospettive delineate dal paradigma della società come rete e

dall'intervento di rete possono sostenere un approfondimento relazionale della

cittadinanza e delle autonomie sociali.

4.1. Comunità e società: una problematica attuale?

4.1.1. Il concetto di comunità in alcune opere sociologiche 'classiche'

Comunità appartiene al novero dei concetti di importanza cruciale nella vicenda

della moderna teoria sociale e politica. Il suo ambito semantico è molto ampio, ma è

265

possibile ricomporre i significati maggiormente esplorati in sociologia secondo due

direttrici - quella psicologica e quella ecologica - che riflettono la prima una

qualità delle relazioni sociali, l'altra la collocazione territoriale di un insieme di

individui. 1

La comunità intesa essenzialmente come forma di socialità o di sociabilità è uno

stato particolare presente ogni qualvolta i membri di una collettività agiscono dando

preminenza ai valori, norme, costumi, interessi della collettività rispetto a quelli

personali, del sotto-gruppo di appartenenza o di altre collettività, oppure quando il

senso di appartenenza, la consapevolezza di interessi comuni, l'adesione affettiva

alla collettività e l'essere inseriti in una rete di relazioni sociali esprimono

concretamente fenomeni di solidarietà all'interno di una collettività, anche se il

manifestarsi della dimensione comunitaria non elimina le possibilità di conflitto, di

potere o dominio.2 Così, non è corretto ritenere che la forma comunitaria sia

storicamente precedente a quella societaria in senso esclusivo; come pure sarebbe

impropria la corrispondenza della comunità ad un inferiore stadio evolutivo delle

forme di solidarietà o la sua collocazione ideologica in una scala di valore di tali

forme. La nozione ecologica di comunità è stata elaborata dalla 'scuola di Chicago',

che ne ha fornito sia un quadro teorico-concettuale che un insieme ampio e

articolato di riferimenti su base empirica.

Le origini del concetto risalgono al pensiero romantico tedesco, filone al quale si

ricollega Tonnies con la sua opera fondamentale Comunità e società che riprende e

approfondisce i caratteri della comunità in relazione alle trasformazioni sociali della

1RAIMONDO STRASSOLDO, Comunità, in FRANCO DEMARCID- ALDO ELLENA- BERNARDO CAITARINUSSI {a cura di), Nuovo dizionario di sociologia, Cinisello Balsamo, Sanpaolo, 1987, pp. 485-99.

266

modernizzazione e dell'urbanizzazione. L'analisi Wnniesiana evidenzia i caratteri

delle due forme di relazioni sociali - che attraverso elaborazioni successive

verranno indicate come forme idealtipiche - con un certo tono di adesione

ideologica e rimpianto verso la comunità perduta, i cui archetipi principali vengono

indicati nella famiglia e nel villaggio rurale centro-europeo. Al di fuori del

panorama tedesco, il concetto ha avuto una minore attenzione: negli Stati Uniti i

caratteri della Gemeinschaft tOnniesiana si ritrovano nel concetto di gruppo

primario di Charles H. Cooley,3 in quello di folk society di Robert Redfield,4

parzialmente in quello di comunità proposto da Robert Maclver;5 nella sociologia

anglosassone in generale, peraltro, il termine community è molto diffuso e ad esso

corrisponde il concetto di comunità territoriale locale; in Francia, George Gurvitch6

ha adoperato l'espressione communauté per indicare una forma media di sociabilità

per fusione tra individui, compresa tra la massa e la comunione.

La nozione di comunità non può non essere complessa, in quanto si compone di

elementi eterogenei, e acquisita, poiché fa capo a processi di socializzazione, né è

mai presente allo stato puro, ma sempre variamente associata a relazioni di calcolo,

di conflitto, di violenza. Spostando l'attenzione verso la costituzione e il

mantenimento della comunità, è possibile studiare il processo di comunizzazione

2LUCIANO GALLINO, Dizionario di sociologia, Torino, Tea/Utet, 1993, pp. 144-47. 3CHARLES H. COOLEY, L'organizzazione sociale, (ediz. orig. 1909), trad. it., Milano, Comunità, 1963. 4ROBERT REDFIELD, La piccola comunità, la società e la cultura contadina, (ediz. orig. 1955), trad. it.,

Torino, Rosenberg & Sellier, 1976. 5ROBERT MAclVER, Governo e società, (ediz. orig. 1947), trad. it., Bologna, Il Mulino, 1965. Secondo

questo approccio, la comunità è la base fondamentale della vita sociale, il più piccolo gruppo all'interno del quale l'individuo è in grado di soddisfare tutti i suoi bisogni e svolgere tutte le sue funzioni - un gruppo sociale autosufficiente di primo livello, anche se non è ben chiaro quali siano tali bisogni e funzioni e di che tipo di autosufficienza si tratti; lo Stato, secondo questo Autore, ha per obiettivo diventare «lespressione delle [ ... ] principali aspirazioni» delle comunità (ibidem, p. 205).

6GEORGE GURVITCH, La vocazione attuale della sociologia. Verso la sociologia differenziale, (ediz. orig. 1950, 19633), trad. it., Bologna, Il Mulino, 1965.

267

nell'ambito dei fenomeni religiosi, economici, territoriali, della partecipazione attiva

alla vita comune: in contesti del genere la forza del legame comunitario è data da

una rete di relazioni interpersonali flessibili, da legami 'sacri' e oggetto di

identificazione simbolica, da un efficace collegamento con la più ampia realtà

sociale.1

Comunità e società fanno parte, nel pensiero di Tonnies, di un umco schema

interpretativo: «la teoria della società muove dalla costruzione di una cerchia di

uomini che, come nella comunità, vivono e abitano pacificamente l'uno accanto

all'altro, ma che sono non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati,

rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre là rimangono legati nonostante

tutte le separazioni. Di conseguenza, qui non si svolgono attività che possano venire

derivate da un 'unità a priori esistente necessariamente, e che quindi esprimano

anche la volontà e lo spirito di questa unità nell'individuo, in quanto compiute per

mezzo suo, realizzandosi tanto per gli associati con l'individuo quanto per

l'individuo stesso. Piuttosto, in questo ambito ognuno sta per conto proprio e in uno

stato di tensione contro tutti gli altri».8

Tra gli autori che hanno più o meno direttamente esercitato influenza su Tonnies,

vanno ricordati Marx:9 e Maine, 10 al quale si deve l'elaborazione della dicotomia

status-contratto come chiave interpretativa del cambiamento sociale nella

modernità. Weber riprende e approfondisce la coppia tOnniesiana Gemeinschaft-

7Queste sono le coordinate del concetto secondo l'ottica dell'individualismo metodologico: cfr. Comunità, in RAYMOND BOUDON - FRANçOis BOURRICAUD, Dizionario critico di sociologia, trad. it., Roma, Armando, 1991, pp. 88-92.

8FERDINAND TONNIES, Comunità e società ... cit., p. 83. 9Cfr. KARL MARx, Forme che precedono la produzione capitalistica, (il manoscritto risale al 1857-58, ediz.

orig. 1939-1941), trad. it., Roma, Rinascita, 1956. 10Cfr. HENRY J. SUMNERMAINE, Village Communities in East and West, London, 1871.

268

Gesellschaft ponendola in relazione alla tipologizzazione dell'agire sociale; 11 egli

definisce una relazione sociale 'comunità' «se, e nella misura in cui, la disposizione

dell'agire sociale poggia [ ... ] su una comune appartenenza, soggettivamente sentita

(affettiva o tradizionale) degli individui che ad essa partecipano»; 12 una relazione

sarà definita 'associazione' «se, e nella misura in cui, la disposizione dell'agire

sociale poggia su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato

razionalmente (rispetto al valore o allo scopo )». 13

In Durkheim la dicotomia Gemeinschaft-Gesellschaft viene riformulata nei termini

del rapporto tra solidarietà meccanica e solidarietà organica, rapporto che viene

analizzato in modo problematico, tentando di individuare continuità e tensioni tra le

due differenti forme sociali: anche la società a solidarietà organica non può fare a

meno di una comune base morale, proprio a motivo della crescente differenziazione

nei ruoli sociali e produttivi. 14

Parsons rielabora la dicotomia tOnniesiana nel quadro della definizione del noto

schema delle cinque variabili strutturali ('pattern variables ') dell'orientamento di

valore come definizioni di modelli relazionali di aspettativa di ruolo; lo schema è

ottenuto scomponendo le due categorie 'comunità' e 'società' in caratteri le cui

combinazioni in 'dilemmi di scelta' o 'variabili strutturali' rappresentano un insieme

11Può essere di qualche utilità ricordare come la traduzione dal tedesco delle opere weberiane abbia rappresentato, proprio a proposito del concetto di cui ci stiamo occupando, una questione di una certa importanza, che non a caso è stata diversamente risolta negli Stati Uniti, in Francia, in Italia, paese nel quale la recezione delle opere di Weber è passata attraverso il filtro delle teorie di Parsons. Rinviamo, per una sintesi di questa problematica, alle note di GREGOR FITZI, Un problema linguistico-concettuale nelle

- traduzioni di Weber: «Comunità», trad. it. in «Filosofia politica», VIII, 2, 1994, pp. 257-268. Qui basterà accennare al fatto che lo stesso termine italiano 'comunità' traduce oltre Gemeinschaft, due distinti termini presenti nel testo weberiano originale: Gemeinschaftshandeln - da tradurre con 'agire in comune', concetto che esula dalla problematica inerente la coppia comunità-società - e Vergemeinschaftung - che andrebbe tradotto con 'accomunamento', cioè «una relazione sociale fondata su semplici rapporti consensuali».

12MAx WEBER, Economia e società ... cit., voi. I, p. 23.

269

più ampio e variegato di forme di orientamenti della relazione e di varianti di ogni

singola forma: «L Il dilemma gratificazione-disciplina: affettività e neutralità

affettiva. II. Il dilemma tra interessi privati e interessi collettivi: orientamento in

vista dell'ego e orientamento in vista della collettività. III. La scelta tra tipi di criteri

di orientamento di valore: universalismo e particolarismo. IV. La scelta tra

'modalità' dell'oggetto sociale: realizzazione e attribuzione. V. La definizione della

portata dell'interesse all'oggetto: specificità e diffusione». 15 Nonostante lo schema

teorico parsonsiano si sia mosso in direzione di un modello funzionalista di società,

oggi non più convincente, le variabili strutturali «rappresentano comunque la

versione più moderna e sofisticata della coppia analitica comunità-società». '6

Il 'bisogno di comunità' è stato ritenuto, da parte di alcuni autori di orientamento

liberal-conservatore, uno degli elementi su cui ha fatto leva il totalitarismo del XX

secolo: 11 esso sarebbe sorto come conseguenza ai processi - tipici della

modernizzazione industriale europea - di distruzione delle organizzazioni

intermedie di aggregazione sociale, di sradicamento territoriale e di impoverimento

culturale, dello spostamento dai piccoli centri alle grandi città, dall'accelerazione

della mobilità spaziale e delle comunicazioni di ogni tipo; gli individui, sganciati

dalle comunità organiche pre-moderne e privi di stabili punti di riferimento

soprattutto a livello relazionale e culturale, sarebbero stati più vulnerabili al fascino

di ideologie totalizzanti e dei relativi movimenti sociali e politici, dotati di codici

13/bidem, p. 38. 14ÉMILE DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale ... cit. 15TALCOTIPARSONS, Il sistema sociale, (ediz. orig. 1951), trad. it., Milano, Comunità, 1965, p. 73. 16ARNALDO BAGNASCO, Comunità: definizione, in «Parolechiave», 1, 1993, pp. 11-30; p. 18. 17Un autore classico in tal senso è JOSÉ ORTEGA Y GASSET, La ribellione delle masse, (ediz. orig. 1930), trad.

it., Bologna, Il Mulino, 1962; tra i contemporanei, ROBERTA. NISBET, La comunità e lo stato. Studio

270

simbolici comunitari nei quali identificarsi e verso i quali maturare un senso di

appartenenza, essendo anche disposti ad accettarne i valori e a mobilitarsi per essi.

Nel contesto societario moderno, l'esigenza di ambiti comunitari di relazione si

(ri)presenta, anche se con modalità ed esiti alquanto diversi: si potrebbe dire che

oggi il fenomeno si ripropone nelle svariate forme di espressione socio-culturale

delle differenze, di sviluppo delle 'autonomie sociali', pur tra contraddizioni e

particolarismi, e di innovazione o sperimentazione di modelli integrativi ed

organizzativi. 18

4.1. 2. Declino e ripresa del concetto di comunità

Se si eccettua la nozione ecologica di comunità, non si può non prendere atto del

declino del concetto di comunità nella sua accezione psicologica; tuttavia, il suo

campo di applicazione contiene problematiche il cui interesse è tuttora attuale:

modernizzazione, secolarizzazione, solidarietà, livelli di articolazione e di relazione

tra forme di sociabilità.

Si è avuto, osserva Bagnasco, un certo rimescolamento in ragione del quale alcuni

temi prima esplorati attraverso la coppia analitica comunità-società sono stati

inquadrati entro diverse concettualizzazioni; il sociologo torinese indica tre esempi

sull'etica de/l'ordine e della libertà, (ediz. orig. 1953), trad. it., Milano, Comunità, 1957; tra gli autori che hanno anticipato alcuni elementi di questa posizione, Alexis de Tocqueville e Simone Weil.

18Su quest'ultimo aspetto cfr. GIULIANO GIORIO, Dall'intersoggettività alla reciprocità nelle risposte ai bisogni umani della società tecnologica, in ID. (a cura di), Dall'intersoggettività alla reciprocità nelle risposte ai bisogni umani della società tecnologica, Padova, Cedam, 1990, pp. 9-37; ID., L'organizzazione della comunità in ambiente montano, in FRANCO DEMARCHI ET ALII (a cura di), Territorio e comunità. Il mutamento sociale nel/ 'area montana, Milano, Angeli, 1983, pp. 18-54. Sulla tematica dello 'sviluppo della comunità' all'interno di realtà rurali o di paesi in via di sviluppo, cfr. GIULIANO GIORIO, Organizzazione di comunità con particolare riferimento al/ 'ambiente rurale italiano, Padova, Marsilio,

271

di concetti nei quali si ritrova quanto è rimasto dalla dissoluzione del concetto di

comunità: identità (la problematizzazione della costruzione societaria dell'identità

soprattutto individuale a fronte di una costruzione comunitaria), reciprocità (la

consistenza - tutt'altro che trascurabile - di una dimensione informale nei sistemi

economici moderni e l'emergere della reciprocità come suo codice simbolico-

normativo), fiducia (le trasformazioni e le persistenze della fiducia sia nella sua

dimensione interpersonale che in quella istituzionale o sistemica). 19

La tematica dell'identità nei suoi termini attuali - già oggetto di esame in questo

lavoro20 - richiama quella della comunità, se non altro perché l'identità, sebbene

con modalità diverse secondo i vari approcci sociologici, si pone come mediazione

tra individuo e società, come elemento che entra in gioco nei processi di

integrazione sociale;21 se, tuttavia, l'identità viene tematizzata nei termini della sua

perdita all'interno delle società moderne, il suo rapporto con il concetto di comunità

viene a perdere di senso, giacché nei contesti comunitari pre-moderni come delineati

da T onnies non possono darsi identità individuali autonome. Bagnasco individua un

altro possibile punto di contatto teorico fra identità e comunità a proposito della

critica agli approcci utilitaristici alla politica: in questo caso, è possibile mostrare

come gli attori politici siano mossi non solo da interessi, ma anche da identità

collettive che possono essere alla base delle loro strategie di azione

L'economia informale - quella, cioè, che sfugge alla contabilità nazionale -

contiene relazioni economiche di vario genere, oltre quelle che gravitano nei settori

1969; MURRA Y G. Ross, Organizzazione di comunità Teoria e principi, ( ediz. orig. 1955), trad. it., Roma, O.N.A.R.M.O., 1968.

19Cfr. ARNALDO BAGNASCO, Comunità ... cit., pp. 18-23. 2°Cfr. supra, capitolo 1.

272

illegali e criminali: tradizionali, di sopravvivenza e simili il cui codice simbolico-

normativo è la reciprocità e non la massimizzazione dell'uso delle risorse. Sotto

certi aspetti, questo insieme di fenomeni può essere ricondotto a forme comunitarie,

ad una «tendenza alla de-differenziazione strutturale, alla ricomparsa di ruoli meno

specifici e di relazioni più particolaristiche»22 in vari ambiti e con varie modalità:

produzione di beni e servizi per l'autoconsumo familiare o di gruppi amicali, i

servizi offerti dal volontariato, eccetera. Anche in questo caso, l'accostamento di tali

fenomeni al concetto di comunità è limitato ad alcuni aspetti; le tipologie di

meccanismi di regolazione dell'integrazione sociale elaborate da Polanyi sono in

grado di produrre migliori esiti analitici. 23

Per quanto riguarda la fiducia, sarà sufficiente rinviare a quanto già detto in altra

parte del nostro itinerario di ricerca24 allo scopo di soppesare affinità e discontinuità

di tale concetto con quello di comunità: è chiaro che i maggiori riscontri reciproci si

avranno in tema di condizioni per la stabilizzazione delle aspettative intersoggettive,

di componenti non-razionali dell'azione, di relazioni particolaristiche fra persone:

purtuttavia, non si può non concordare con Bagnasco quando osserva che parlare di

fiducia - in linea di principio - ha senso nella società, e non nella comunità, nella

quale non si hanno condizioni di incertezza in ordine alle relazioni interpersonali.

21Cfr. LOREDANA SCIOLLA (a cura di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983.

22ARNALDO BAGNASCO, Comunità: definizione ... cit., p. 21. Cfr. LUCIANO GALLINO, Doppio lavoro ed economia informale. Verso la futura società pre-moderna, in ID. (a cura di), Occupati e bioccupati. Il doppio lavoro nel/ 'area torinese, Bologna, Il Mulino, 1982.

23 Ad esse abbiamo già fatto cenno: vedi supra, capitolo I. 24Vedi supra, capitolo I.

273

Gli studi sulle comunità locali hanno rappresentato una certa continuità di interesse

alla dimensione ecologica della comunità. La lunga tradizione di questi studi25 viene

oggi portata avanti e innovata, senza sopravvalutare la dimensione spaziale,

soprattutto con riferimento alle problematiche in chiave locale dello sviluppo socio-

economico, delle reti di relazione e della politica sociale.

4.2. Gemeinschaft-Gesellschaft: una rivisitazione La teorizzazione di F erdinand T onnies circa il passaggio nella forma dei rapporti

sociali dalla 'comunità' alla 'società' ha risentito di assunzioni che in parte ne hanno

deformato il contenuto: già i contemporanei di Tonnies ne diedero una lettura

evoluzionistica, corrispondente ad una diffusa tendenza di quel tempo (fine

dell'Ottocento), come se i cambiamenti in corso nelle società industriali indicassero

un passaggio progressivo e netto dalla comunità alla società. Anche Durkheim, ne

La divisione del lavoro sociale, accredita questa lettura, sebbene con una positiva

valutazione della civiltà industriale, diversa da quella proposta da Tonnies. Lo

schema dualistico comunità-società, da allora in poi, è stato largamente impiegato,

adoperando i due poli come tipi ideali di relazioni sociali tra persone che si

associano mediante il consenso, nel caso della comunità, o il contratto nel caso della

società. Nel pensiero del sociologo tedesco - come si è visto - la distinzione

fondamentale tra le due forme di associazione è che in quella comunitaria si

presuppone una unione essenziale fra le persone, mentre in quella societaria le

25Riportiamo soltanto alcuni fra i riferimenti essenziali a contributi pionieristici: ROBERT S. L YND - HELEN MARREL LYND, Middletown, (ediz. orig. 1929 e 1937), trad. it., 2 volumi, Milano, Comunità, 1970 e 1974; ANNA ANFOSSI - MAGDA TALAMO - FRANCESCO INDOVINA, Ragusa comunità in transizione, Torino, Taylor, 1959; ALESSANDRO PIZZORNO, Comunità e razionalizzazione, Torino, Einaudi, 1960.

274

persone sono essenzialmente separate. Lo specificum della teoria tonniesiana

consiste nel ritenere basilare il carattere fondamentalmente normativo della

relazione sociale, secondo un'articolazione a tre livelli: ordine sociale, legge,

moralità.

Donati si ripropone non tanto di affrontare i problemi relativi alle due categorie

'comunità' e 'società', ma di «ripensare le categorie tonniesiane come due varianti

di una concezione della relazione sociale, in linea di principio realistico-relazionale,

che è stata stravolta prima da Max Weber e poi da Talcott Parsons. Il primo ne ha

dato una visione nominalistica, ideal-tipica e categoriale post-kantiana. Il secondo

l'ha utilizzata secondo un realismo analitico, scarsamente e non propriamente

'relazionale', che ha dissolto la validità della prospettiva tOnniesiana in un

funzionalismo evoluzionistico privo di mondo vitale».26 Il limite presente sia in

W eber che in Parsons consiste - ad avviso di Donati - nell'avere ricondotto la

relazione all'azione, non tematizzandola adeguatamente. In fasi successive della sua

elaborazione, Tonnies aveva sfumato gli aspetti più evoluzionistici della coppia

categoriale comunità-società, che da concetti storico-empirici avevano assunto la

caratteristica di concetti tendenzialmente analitici. Questo problema prettamente

teoretico è stato affrontato in modo più soddisfacente da Parsons: questi ha

osservato che la Gemeinschaft è costruita su valori ultimi, mentre la Gesellschaft è

basata su valori di scambio, il che starebbe a significare che la prima forma non

esclude totalmente l'altra, poiché i valori rispettivamente sottostanti rispondono a

diversi imperativi societari. Questo dibattito è stato poi portato avanti solo da

275

Habermas e Luhmann: il pnmo ha difeso la combinazione di Gemeinschaft e

Gesellschaft, sostenendo, contro Parsons, che la comunicazione e la comunità hanno

maggiore rilevanza degli imperativi del sistema societario;21 il secondo ritiene che

nella società contemporanea vi sia un'assoluta prevalenza della Gesellschaft, che

oscura totalmente le dimensioni comunitarie. 28

Donati ritiene che vada esplorato, nella teoria di Tonnies, il 'problema relazionale',

in modo da ricavarne utili elementi per una teoria relazionale della relazione sociale:

«la tesi è che, nel pensiero di Tonnies, il carattere organico specifico della società

non consente di giustificare una evoluzione lineare delle relazioni sociali. Al

contrario, lo sviluppo della Gesellschaft mantiene e riproduce strutture di

Geme inschaft». 29 Le radici della forma 'comunità' sono in un 'mondo quotidiano'

(che T onnies definisce cultura popolare) irriducibile al 'sistema' o a sistemi

culturali. Sebbene Tonnies su tali aspetti si sia mostrato incerto, egli rimaneva

convinto che la comunità non sarebbe scomparsa, poiché la sua permanenza si

aggancia al 'diritto naturale' e sugli elementi di fondo della società. Nonostante che

tali argomentazioni possano rivelarsi insufficienti, Donati ritiene che tale linea di

ricerca meriti di essere approfondita, e che «oggi molti fenomeni significativi

testimonino al contrario l'esigenza di caratteristiche (strutture e processi) profonde

del sociale che non si lasciano ridurre all'interpretazione funzionalistica che, da

Parsons a Luhmann, è stata impropriamente data al pensiero di Tonnies».30

26PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 89. MAx WEBER, Economia e società, (ediz. orig. 1922), traci. it., Milano, Comunità, 1961; TALCOTI PARSONS, La struttura dell'azione sociale, (ediz. orig. 1937), trad. it., Bologna, Il Mulino, 1968.

27J0RGEN HABERMAS, Teoria dell'agire comunicativo, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1986. 28NIKLAS LUHMANN, Illuminismo sociologico, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1983. 29FIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 91. 30 Ibidem, p. 92.

276

4. 3. La Gemeinschaft come supporto della Gesellschaft

L'idea di Tonnies che comunità e società costituiscano un intreccio viene

confermato da un passo della sua opera principale: «la forza della comunità persiste,

sia pure attenuandosi, anche nell'era della società, e rimane la realtà della vita

sociale».31 In che senso? Il termine 'realtà' corrisponde in Tonnies a 'organico', in

opposizione a 'meccanico', 'artificiale', 'razionale'. L'affermazione iniziale viene a

essere così spiegata da Donati: «per quanto la Gesellschaft possa svilupparsi in tutta

la sua 'artificialità', [ ... ] essa non può cancellare la Gemeinschaft, perché

cancellerebbe il proprio stesso supporto di vita: l'organismo vivente è la comunità,

mentre la società è un prodotto-aggregato riflesso».32 La società razionale, costruita,

deve possedere una capacità di vita, che le consenta di assimilare le energie

necessarie e di fronteggiare le forze che portano in direzione opposta. «Il diritto

naturale [ ... ] non è altro che l'espressione della realtà della vita sociale così intesa

[ ... ] è il diritto di ciò che esiste sulla base della comunicazione normale, né

eccezionale né patologica, la quale include tanto la dimensione comunitaria che

quella societaria. Esso, infatti, può venir inteso tanto come volontà essenziale

comune, quanto come volontà arbitraria comune».33 Si tratta di una concezione del

diritto naturale che - diversamente che in Luhmann - ammette sviluppo, se per

31FERDINAND TONNIES, Comunità e società, (ediz. orig. 1887), trad. it., Milano, Comunità, 1963, p. 297. 32PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 93. 33 Ibidem, p. 94.

277

diritto naturale si intende «tutto ciò che è conforme al senso di un rapporto

comunitario, che ha un senso in esso e per esso».34

Così sintetizza Donati il pensiero del sociologo tedesco: «la relazione di comunità è

qui concepita come 'condizione fondamentale' che il 'soggetto razionale' deve

adempiere ai fini di una razionalità del diritto che sfugge ai canoni dell'illuminismo

evoluzionistico, quale sarà ripreso ai nostri giorni tanto da Habermas che da

Luhmann, seppure in modi assai diversi. [ ... ] In breve, laddove gli uomini stanno

assieme e non si dividono o lottano aggressivamente fra loro producendo patologie

che portano alla dissoluzione delle relazioni sociali, per quanto essi siano

differenziati e uniti dalla mera 'volontà arbitraria', permane sempre un elemento di

comunità, come sentire reciproco, comune, associativo. Ogni nuovo stimolo ogni

nuova richiesta di 'socialità', chiamando necessariamente in causa la ragione e il

linguaggio, può diventare vita fisiologica solo passando attraverso una fase di

'comprensione'. È questo l'elemento comunitario come dimensione sempre e

necessariamente reale della vita sociale intesa come capacità di con-vivenza».35

4. 4. Leggere la società come 'rete '

4. 4.1. Sviluppi del contributo parsonsiano La lettura della teoria tOnniesiana esposta nei paragrafi precedenti, inquadrata nella

prospettiva relazionale elaborata da Donati, trova rispondenza anche in un'analoga

esigenza prospettata da Habermas:36 adottare, rifacendosi a Tonnies, una unità di

analisi della sociologia diversa da quella adottata da Parsons e dalle teorie

34FERDINAND TONNIES, Comunità e società ... cit., p. 62.

278

dell'azione (I' unit act, atto elementare) e che riconduceva all'individuo-sistema il

problema degli orientamenti di valore anziché riportarli alle dimensioni culturali

della relazione sociale. Cinque punti fanno da base al discorso di Donati: i) la

modernità del Novecento è stata ritenuta sinonimo di progresso del sistema,

mediante la sua razionalizzazione, anche quando la razionalità veniva riferita

primariamente all'individuo; ii) la crisi dei sistemi di welfare state induce a

riprendere l'impiego di ciò che la modernità aveva definito, da un punto di vista

sistemico, residuale e pre-moderno; iii) accanto alla crescita della razionalità

sistemica si è consolidata una 'razionalità di mondo vitale' che presenta un elevato

grado di differenziazione; iv) razionalizzazione sistemica e razionalizzazione vitale

hanno fatto emergere l'intreccio tra 'base comunitaria' e 'base sociale' (sistemica),

sia nel patologico che nel 'normale'; v) l'integrazione di società ad elevata

complessità viene garantita solo da meccanismi alimentati da razionalità sia

sistemica che comunitaria, e ogni 'normalità' o 'patologia' va compresa in rapporto

al relazionarsi di entrambe le forme di razionalità.

Quali conseguenze ne scaturiscono? «Questo significa non solo che azione e sistema

sociale sono altamente compenetrati fra loro, pur nella loro reciproca e crescente

auto-differenziazione, ma che la loro 'sostanza' sociale non è differente, poiché

azione e sistema sociale sono soltanto modi diversi di combinare, in modo

relazionale (reticolare), dei profili di possibilità che non sono mai dati nella realtà

concreta come tipi 'puri' della Gemeinschaft o Gesellschaft. Tali 'possibilità' sono

possibilità della 'volontà' in Tonnies, di orientamenti al valore o motivazioni-

35PIERPAOLO DONATI, Teoria relaziona/e ... cit., p. 95; pp. 95-96. 36JOR.GEN HABERMAS, Teoria dell'agire ... cit.

279

disposizioni in Parsons, di preferenze e aspettative m Luhmann, di 'possibilità

comunicative' in Habermas».37

E dunque si ha che «nella concreta fenomenologia sociale, la relazione sociale è

sempre una intelaiatura complessa, sovente incoerente e ambivalente, di

orientamenti che la teoria classica considererebbe 'spuri': per esempio una relazione

può essere fortemente affettiva, moderatamente particolaristica, ascrittiva, piuttosto

diffusiva e notevolmente orientata al self. [ ... ] Cosicché solo una lettura in chiave di

'rete' della coppia tOnniesiana e delle corrispondenti variabili modello parsonsiane

può ricondurre questi quadri concettuali alla comprensione decentrata del mondo

propria della modernità». 38

4.4.2. Gemeinschaft-Gesellschaft in chiave di complessità

Il paradigma della complessità è una chiave di lettura da applicare anche alla coppia

Gemeinschaft-Gesellschaft: in tal modo le due categorie non si escludono a vicenda

ma possono essere analizzate nelle loro interazioni e compenetrazioni dovute a

fattori sia strutturali (condizionali, strumentali) che normativi (di valori, di 'volontà'

nel senso dato da Tonnies). La società, secondo il paradigma della complessità, è

leggibile non tanto come società 'a due livelli' (sistema/mondo vitale) come pensa

Habermas, ma come 'sistema aperto', come 'rete'. Tuttavia, sostiene Donati,

fermarsi alle affermazioni di Tonnies senza proporne uno sviluppo è limitante e non

rispondente alla società contemporanea: «la sua lezione può ancora essere istruttiva

37PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., pp. 97-98. 38/bidem, pp. 98-99.

280

nel senso di costituire un terreno di riflessione per lo sviluppo di una teoria

sociologica per la quale ogni e ciascuna relazione sociale positiva (cioè non

distruttiva, ma - almeno potenzialmente o parzialmente - di 'affermazione

reciproca'), proprio in quanto rei-azione, è l'uno e l'altro dei due poli insieme: per

esempio comunitario/informale e funzionale/formale. In un modello di società che

ingloba questa complessità, si vedrebbe allora che la 'comunità' (l'elemento

comunitario, analiticamente e però realisticamente inteso), non è l'opposto di una

'società ' concepita come sfera pubblica (borghese), con il suo stato e le sue

istituzioni, come ancora la concepisce Tonnies, ma è l'elemento intermedio (di

mediazione) fra il polo privato e il polo pubblico (o loro sinonimi, secondo la

terminologia specifica utilizzata dai vari approcci sociologici)».39

Ciò consente di superare, da un lato, approcci sociologici dualistici che si rivelano

riduttivi e poco aderenti alla realtà e, dall'altro, di dare il giusto rilievo nella teoria

sociologica all'elemento comunitario della relazione sociale.

Non va tralasciato di notare che l'analisi di T onnies non è recepibile così com'è,

giacché tiene in scarsa considerazione aspetti ormai evidenziati dagli sviluppi della

teoria sociologica: gli elementi negativi (ostili, distruttivi) delle relazioni sociali, gli

effetti indiretti, non-intenzionali e perversi delle azioni-relazioni-comunicazioni.

Resta però l'acquisizione - desumibile dall'opera di Tonnies - che «nella misura

in cui le relazioni sociali sono (e/ o devono essere) positive [ ... ] sempre ci deve

essere un fondo di Gemeinschaft». 40

39 Ibidem, p. 100. 40/bidem, p. 101.

281

4. 5. Il paradigma di rete per una lettura relazionale della società

Come è possibile ricavare da Luhmann, 41 i tre principali paradigmi sociologici di

società di tipo sistemico sono: i) parte/tutto, basato sull'analogia organica

(Tonnies); ii) sistema/ambiente (Parsons, primo Luhmann); iii) autopoiesi (seconda

fase di Luhmann).42 L'analogia organica è insufficiente rispetto alla complessità del

sociale come relazionalità, anche se un paradigma appropriato, sempre dal punto di

vista della relazionalità, non può non indagare il problema delle relazioni fra parti e

intero. Nessuno degli altri due paradigmi, tuttavia, mostra adeguatezza in questo

senso: il paradigma sistema/ambiente pone al centro la differenziazione e il tema del

confine, non delle relazioni; il paradigma dell' autopoiesi enfatizza i caratteri e le

dinamiche dei meccanismi interni ai sistemi.

Il paradigma di rete, di contro, può offrire elementi utili, poiché, oltre a descrivere le

relazioni fra le parti e l'intero in modo non organico, consente di conservare le

acquisizioni degli altri due paradigmi di società come sistema (sistema/ambiente e

autopoiesi).43 Occorre però verificare se le reti sociali sono sistemi sociali: una

41NIKLAS LUHMANN, Mutamento di paradigma nella teoria dei sistemi, in «Sistemi urbani», 2, 1983, pp. 333-47.

42Per l'elaborazione di tale paradigma il sociologo tedesco si è ispirato alle scienze biologiche e cognitive e in particolare ai contributi di HUMBERTO R. MATURANA- FRANCISCO J. V ARELA, Autopoiesi e cognizione, (ediz. orig. 1980), trad. it., Venezia, Marsilio, 1985.

4311 concetto di rete sociale (socia/ network) fu introdotto da JOHN A. BARNES, Class and Committees in a Norwegian Island Parish, in «Human Relations», 7, 1954; fra gli altri studi pionieristici sull'argomento condotti dalla 'scuola di Manchester', ricordiamo: JEREMY BOISSEVAIN - J. CLYDE MITCHELL (eds.), Reti, norme e istituzioni, (ediz. orig. 1973), trad. it. in FORTUNATA PISELLI (a cura di), Reti.L'analisi di network nelle scienze sociali, Roma, Donzelli, 1995, pp. 3-25; ELIZABETH Borr, Ruoli coniugali e reti sociali, (ediz. orig. 1957), parziale trad. it. in FORTUNATA PISELLI (a cura di), Reti ... cit., pp. 53-88. Per una

_ sintetica panoramica concettuale e gli opportuni riferimenti bibliografici, cfr. RAFFAELLA SUTTER, Rete sociale, in FRANCO DEMARCHI - ALDO ELLENA- BERNARDO CATTARINUSSI (a cura di), Nuovo dizionario di sociologia, Cinisello Balsamo, Sanpaolo, 1987, pp. 1756-61. Per un confronto fra gli approcci della 'scuola di Manchester' e della 'analisi strutturale americana', si veda: ANTONIO MVTTI, Reti sociali: tra metafore e programmi teorici, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVII, 1, 1996, pp. 5-30; MAURIZIO GRIBAUDI, L'analisi di rete: tra struttura e configurazione, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVII, 1, 1996, pp. 31-55. Per una critica delle 'promesse non mantenute' della 'scuola strutturale', vedi: MICHAEL EVE, La «network analysis» è l'analisi dei networks?, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVII, 4, 1996, pp. 531-558.

282

risposta positiva a tale quesito è stata data da orientamenti strutturalistici o

neofunzionalistici;44 altri autori avanzano invece l'esigenza di una teoria dei sistemi

'aperti' ad impianto fenomenologico, con richiami all'intersoggettività e

all'empatia, ritenendo inadeguati i due precedenti approcci.45 Tuttavia, osserva

Donati, solo riduttivamente la relazione può essere intesa come 'sistema' o parte di

esso in un 'ambiente', ove il sistema venga definito in senso funzionalistico. Se per

'sistema' si dà una definizione basata sulle interazioni tra attori mediate da un

sistema simbolico, allora tra 'sistema' e 'rete' non c'è nulla in comune. Ne risulta

che «il concetto sociologico di rete include quello di sistema senza poter essere

ridotto a sistema: visto in un'ottica di rete, il sistema sociale è (i) una dimensione

analitica della rete che (ii) ne evidenzia le interdipendenze funzionali e (iii)

'stabilizza' - attraverso nodi di congiunzione/disgiunzione - i meccanismi

retroattivi e i circuiti attraverso i quali si esprime la fenomenologia del sociale. Ma

la rete è anche il conduttore, il luogo, il modo in cui altri aspetti e dimensioni del

sociale prendono vita e si esprimono. La società appare allora come un mix di

formale e informale che richiede un nuovo paradigma di osservazione».46

Un'altra, diversa via è rappresentata dal tentativo di generalizzare e differenziare

riflessivamente il concetto di sistema, includendo, oltre le dimensioni funzionali,

anche quelle informali e di mondo vitale, dando una definizione di sistema 'aperto'

morfogenetico, selettivo, autodirettivo e auto-regolato, operante mediante un codice

44P. BLAU - J. SCHWARTZ, Crosscutting Socia/ Circles. Testing a Macrostructural Theory of Intergroup Relations, New York, Academic Press, 1985.

45 ACIIlLLE ARDIGÒ, Per una sociologia oltre il post-moderno, Roma-Bari, Laterza, 1988. 46PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 103.

283

simbolico cibernetico in un 'ambiente' .47 Tale posizione, tuttavia, presuppone che

ciò che non è funzionale venga ricondotto alla dimensione del sistema che, per

quanto flessibile, rimane sempre governato da un codice simbolico di tipo

meccanicistico (come quello cibernetico). Peraltro, osserva Donati, le reti sociali

non si riducono a «mera spontaneità e intersoggettività contingente»,48 i soggetti

agiscono entro percorsi segnati culturalmente.

<<Il paradigma di rete: (a) prende atto che è venuta meno la 'cogenza sistemico-

normativa' dei primi due paradigmi sistemici tutto/parte e sistema/ambiente [ ... ], e

che la società contemporanea è intrinsecamente caratterizzata dall'allentamento e

frammentazione delle relazioni sociali, con la fine della socializzazione attraverso la

'interiorizzazione dall'alto'; (b) respinge il modello auto-poietico come modello

complessivo, pur ammettendo la validità del concetto e la necessità di includere

l 'auto-referenzialità nell'osservazione della fenomenologia sociale; ( c) prende atto

che gli attori sociali non si muovono, né si possono muovere, 'a caso', ma entro

sentieri che sono culturalmente forgiati; ( d) interpreta la nascita di una nuova

normatività per la quale deve essere elaborata una teoria dei sistemi creativi di

regole sociali, retta da una 'logica di rete', che è insieme strategica (cognitivo-

strumentale), comunicativa (espressiva, dialogica) e normativo-valoriale

(generalizzazione di valori). Con ciò il concetto di rete mostra la sua capacità di

costituire una sorta di meta-codice simbolico per il concetto di sistema.

Quest'ultimo deve essere ulteriormente generalizzato e differenziato

47Cfr. WALTER BUCKLEY, Sociologia e teoria dei sistemi, (ediz. orig. 1967), trad. it., Torino, Rosenberg & Sellier, 1976.

48PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 104.

284

(riflessivamente). Solo così l'analisi può 'comprendere' le reti sociali come realtà

insieme formali e informali». 49

4.6. Le reti sociali informali

Con l'espressione 'reti sociali informali' o "primarie' vengono solitamente

identificati insiemi di relazioni primarie i cui soggetti sono i componenti di una

famiglia, i parenti, i vicini, gli amici, chi dà un aiuto occasionale, i gruppi di mutuo

aiuto, le forme non organizzate di volontariato, le reti informali presenti nelle

organizzazioni (queste ultime, tuttavia, esulano dallo specifico della nostra analisi).

Al tema delle reti sociali primarie viene dedicata in Italia una crescente attenzione

soprattutto a partire dagli anni '80, con l'estendersi ed intensificarsi del dibattito

sulle prospettive dello Stato sociale. In realtà - come si è visto in parte nei

paragrafi precedenti - le radici di questa tematica sono abbastanza antiche,

risalendo a Frédéric Le Play, Charles H. Cooley, Georg Simmel, Ferdinand Tonnies,

per nominare i più lontani nel tempo. Il collegamento fra reti sociali primarie e

prospettive dello Stato sociale è stato ed è molto spesso di natura strumentale: come

quando, ad esempio, si motiva il ricorso ai servizi alla persona offerti dalle reti

sociali primarie con l'acuirsi della crisi fiscale e da sovraccarico di domanda del

welfare. Ciò «significa 'suggerire' una soluzione ai problemi facile (perché le reti

già ci sono), indolore (perché gli eventuali costi, disagi ricadrebbero sulle reti e

indirettamente sull'individuo) e quantomeno non traumatica (in quanto tale

soluzione non significa necessariamente riprivatizzazione, nel senso di ricacciati nel

491bidem.

285

mercato, dei meccamsm1 di soddisfazione dei bisogni)».50 Altre volte, invece, il

rapporto tra reti sociali primarie e Stato sociale viene interpretato sulla base

dell'esigenza, sempre più avvertita, di integrare una pluralità di soggetti di diversa

natura nella gestione delle politiche sociali e di coinvolgere e responsabilizzarne i

destinatari/consumatori, in modo che questi possano intervenire come co-produttori

dei servizi, con l'ulteriore risultato di conseguire anche un maggiore livello di

personalizzazione e umanizzazione, oltre che di competenza tecnico-professionale,

nell'erogazione delle prestazioni di welfare.

La (ri)scoperta in chiave - consapevolmente o inconsapevolmente - strumentale

delle reti sociali primarie nella sociologia e nella politica sociale si rivela figlia di un

approccio rigidamente funzionalista, e perciò riduttivo: l 'épistème sottostante a tale

approccio considera prioritariamente solamente alcuni aspetti delle reti sociali

(formali e informali), come quelli di struttura, funzione, compito. In realtà, il

concetto di rete sociale presenta un carattere relazionale che non può essere posto in

secondo piano, per cui «si tratta di accedere ad una épistème relazionale in cui la

funzionalità è tematizzata come problema, e non solo procedurale, ma sostanziale,

cioè riferita a valori, simboli, intenzionalità, per loro natura soggetti a complessi

circoli ermeneutici, a dinamiche non protocollabili, benché si possano anche

ricavare patterns e regolarità».51

50PAOLA DI NICOLA, L'uomo non è un'isola. Le reti sociali primarie nella vita quotidiana, Milano, Angeli, 1986, p. 24. Di analogo tenore le considerazioni contenute in FABIO FOLGHERAITER, Solidarietà di base e auto aiuto nel Lavoro sociale, introduzione all'edizione italiana del testo di LAMBERT MAGUIRE, Il lavoro sociale di rete. L'operatore sociale come mobilizzatore e coordinatore delle risorse informali della comunità, (ediz. orig. 1983), trad. it., Trento, Erickson, 1987, pp. 9-16.

51PIERPAOLO DONATI, Prefazione. La riscoperta delle «reti primarie»: istanze pratiche, ambiguità ed esigenze di una nuova riflessione teorica, in PAOLA DI NICOLA, L'uomo non è un 'isola ... cit., pp. 7-21; pp. 15-16.

286

4. 6.1. L'analisi di rete Le caratteristiche principali di una rete sociale consistono, m generale, nella

sovrafunzionalità, cioè nel porsi come risorsa/vincolo, secondo vane modalità

relaziona/mente combinate, rispetto ad un insieme multiforme e indeterminato di

bisogni: dal punto di vista culturale, la rete dà senso di identità sociale mediante

l'appartenenza; dal punto di vista strutturale e funzionale essa può offrire aiuti e

sostegni per bisogni di natura fisica, materiale, simbolica.

La sociologia contemporanea ha organizzato questi elementi secondo due livelli: i)

differenziazione del legame di rete in aspetti psico-culturali intersoggettivi e in

aspetti strutturali, e ii) differenziazione delle funzioni di rete tra formali (sistemiche,

istituzionali) e informali (spontanee, di mondo vitale).52 Si tratta di distinzioni che

vanno impiegate con prudenza, allo scopo di evitare di costruire classificazioni poco

aderenti alla realtà dei fenomeni. Così, è possibile pervenire a un'articolazione delle

forme di Gemeinschaft e Gesellschaft secondo la distinzione tra formale e

informale, che non coincide con la Gemeinschaft ma è interna ad ognuna delle due

categorie tOnniesiane: «la società è 'rete' in quanto co-relazione di Gemeinschaft e

Gesellschaft, di informale e formale, senza che nessuno di questi termini possa

essere ridotto all'altro».53 Tali distinzioni hanno valore principalmente analitico.

52L'analisi delle reti è l'oggetto della network analysis: una metodologia e un insieme di tecniche che, sorte nell'ambito dell'antropologia e della psicologia sociale, sono state impiegate in sociologia e in altre scienze mediante l'applicazione della teoria dei grafi. «La network analysis non può ovviamente rimpiazzare lo struttural-funziQnalismo come teoria generale dell'-azione sociale perché è innanzitutto una

·tecnica, anche se si basa su una concezione teorica che vede la realtà sociale come l'insieme e l'intrecciarsi delle relazioni umane, relazioni volontarie che si condizionano vicendevolmente in una struttura a volte complessa di giochi e negoziazioni reciproche [ ... ].La network analysis non vuole negare l'utilità dello studio delle funzioni svolte dai vari segmenti della struttura, ma afferma la possibilità di studiare separatamente le forme relazionali in quanto tali, come oggetto di studio comprensibile in se stesso»: ANTONIO M. CmESI, L'analisi dei reticoli sociali: teoria e metodi, in «Rassegna italiana di sociologia», XXI, 2, 1980, p. 297.

53PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 108.

287

La razionalizzazione dei mondi vitali si spiega facendo riferimento all'intreccio tra

differenziazione e pluralizzazione delle forme relazionali (comunità/società,

formale/informale) e alle loro combinazioni. Formale e informale non sono lungo un

continuum lineare, come ritengono i funzionalisti, ma si articolano secondo una

complessità interattiva. Ad un risultato simile a questo si perviene anche quando ci

si limiti all'analisi delle reti sociali secondo gli approcci oggi prevalenti, ancorché

riduttivi: «la specificità introdotta dall'analisi di rete è stata quella di porre

fortemente l'accento sull'importante ruolo che le relazioni interpersonali

particolaristiche (e, per estensione, ascrittive, funzionalmente diffusive, affettive,

informali) esplicano non solo nei contesti tradizionali e nei processi di transizione,

ma anche nella modernità più avanzata, sottolineando inoltre che ciò vale a tutti i

livelli della società (economico, politico e socio-culturale), non solo nella sfera

privata. [ ... ] Gli analisti di rete hanno esplorato le articolazioni interne alle relazioni

particolaristiche e il loro nesso con le relazioni universalistiche [ ... ]. La

rivalutazione dei rapporti interpersonali particolaristici nell'orizzonte esistenziale

dell'attore moderno ha fornito anche un importante stimolo allo studio di

problematiche sempre più al centro della riflessione sociale, quali quelle di identità,

fiducia, fedeltà e comunità [ ... ] ha sollecitato l'elaborazione di una teoria dell'attore

in grado di legare più adeguatamente dimensioni cognitive e dimensioni emotive

dell'azione».54 Le relazioni sociali nelle società complesse sono differenziate e

articolate: esse, «anziché avere un carattere 'lineare' (anche bi-direzionale), o di

complementarietà (tra informale e formale, ecc.), sono piuttosto caratterizzate da

una interazione avente i caratteri di circolarità che potremmo comprendere come

54ANTONIO Murn, Reti sociali ... cit., pp. 27-28.

288

continua compresenza e differenziazione di ciò che, nelle relazioni sociali, è formale

o informale, comunitario o societario, e così via[ ... ]. Allorché viene posta in essere,

una relazione s0ciale è già nel circolo comunità/società o informale/formale. E, in

esso, interattivamente rimane. Quando 'esce per la tangente', diventando pura

Gemeinschaft o pura Gesellschaft dà origine a specifiche patologie». 55

Dalla sovra-funzionalità del concetto di rete sociale deriva la sua ambivalenza

strutturale: le reti sociali primarie possono, in taluni casi e a certe condizioni, offrire

supporti e aiuti per la soluzione di vari problemi delle persone, ma, altre volte, può

anche succedere che siano esse alla base del problema. Donati, a tale riguardo, ha

osservato che si tratta di una 'triplice ambivalenza': «c'è innanzitutto l'ambivalenza

dello stato verso le reti informali: il sistema politico-amministrativo le valorizza, ma

allo stesso tempo le strumentalizza. C'è poi l'ambivalenza delle reti verso lo stato:

chiedono aiuti, riconoscimenti, incentivi, ma non amano regolazioni e controlli. La

terza grande ambivalenza è poi dentro le stesse reti informali: esse sono un sostegno

ma anche un legame, offrono risorse ma anche vincoli, sono cuscinetti e attenuatori

di stress ma possono anche creare conflitti e così via». 56 È quanto mai necessario,

dunque, elaborare un approccio articolato e complesso a tale oggetto di studio,

ponendo particolare attenzione al tipo di relazionalità e agli aspetti normativi che è

possibile riscontrare nelle reti sociali primarie.

4. 7. Dalla coppia Gemeinschaft-Gesellschaft alla sociologia relazionale

55PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 108. 56PIERPAOLO DONATI, Prefazione. La riscoperta delle «reti primarie» ... cit., p. 11.

289

La rilettura di Donati della coppia tOnniesiana Gemeinschaft-Gesellschaft s1

ricollega alla prospettiva di un ripensamento in chiave relazionale della teoria

sociologica. La proposta del sociologo bolognese è di ampia portata; non essendo

possibile illustrarne, in questa sede, i fondamenti, le articolazioni e i risvolti, basterà

ricordare che ciò significa, per il nostro Autore, i) considerare la relazione sociale

come realtà sui generis e ii) definire relazionalmente gli oggetti di studio della

sociologia: il che comporta una vera e propria svolta epistemologica, che si articola

in tre aspetti: un'epistemologia, un paradigma, una pragmatica.

1. Epistemologia relazionale - La presupposizione più generale della sociologia

relazionale può essere sintetizzata nell'espressione 'all'inizio c'è la relazione', da

intendere non in senso relativistico ma realistico, cioè attinente al reale processo

sociale e alla teoria sociale. Lungi dal postulare «l'assoluta contingenza del mondo

sociale», collocare la relazione a livello presupposizionale «non implica

l'accoglimento di una qualche ontologia che neghi il soggetto» ma «assumere che la

relazione ha una sua 'radice' (o una referenza, se si preferisce) non contingente,

mentre essa si dispiega nella contingenza».57 Una conseguenza di ciò è che «le forme

primarie di vita sociale, in quanto relazioni sociali, eccedono la società, nel senso

che la sorpassano, che 'vanno oltre' in quanto non sono mera contingenza (per

esempio di tipo comunicativo)».58

2. Paradigma relazionale - La società, come si è visto nei paragrafi precedenti, è

descritta mediante il paradigma di rete, che supera quello tutto/parte e quello

sistema/ambiente. Il paradigma di rete è più ampio di quello di sistema, poiché «i

57PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., p. 80. 58/bidem, p. 81.

290

sistemi sono una sorta di 'condensazione' delle reti, nel senso che le reti conducono

(sono conduttrici di) più realtà di quanta noi ne possiamo vedere in termini di reti

comunicazionali, con nodi, densità, funzionalità, connettività e altre caratteristiche

'sistemiche'».59 Occorre però ripensare relazionalmente il paradigma di rete,

superando la scissione fra analisi strutturalistiche delle reti (oggi prevalenti) e

analisi culturali o comunicazionali.

3. Pragmatica relazionale - Le implicazioni operative della sociologia relazionale

e i risultati dell'analisi di rete possono trovare sbocco nell'intervento di rete, in

particolare negli ambiti della politica sociale e del servizio sociale: l'intervento di

rete assume che i) l'individuo fa parte di un tessuto di relazioni (familiari, amicali,

di vicinato, associative ... ) nel quale soggetti e oggetti vengono a definirsi

relazionalmente, che ii) di conseguenza l'intervento di sostegno (della persona, della

famiglia ... ) deve essere mirato alla rete di relazioni in cui sono inseriti i soggetti, o

comunque tenendone conto, e che iii) anche l'osservatore o artefice esterno

dell'intervento viene ad inserirsi in quel tessuto di relazioni. 60

4. 8. Gemeinschaft-Gesellschaft: dibattito sociologico e dibattito filosofico-politico

Le osservazioni e gli spunti di analisi sociologica sul concetto di comunità fin qui

presentati consentono una più attenta considerazione del dibattito sviluppatosi

nell'ambito della filosofia politica contemporanea proprio attorno al medesimo

59 Ibidem, p. 82. 60Per un'introduzione all'intervento di rete nell'ambito dei servizi socio-sanitari, i cui primi sviluppi si sono

avuti soprattutto nei paesi anglosassoni, si veda: LAMBERT MAGUIRE, Il lavoro sociale di rete... cit.; LIA SANICOLA (a cura di), Comunità e servizi alla persona, Padova, Cedam, 1990; FRANCA FERRARIO, Il

291

oggetto di cui ci stiamo occupando in questo capitolo. Da quanto emerso fino a

questo momento si ricava una prima, evidente certezza: nei due ambiti scientifico-

disciplinari il medesimo termine 'comunità' viene semantizzato in maniera diversa,

e però non si può sottovalutare una certa influenza reciproca, tanto da far supporre

che talune risposte polemiche da parte liberale alle teorie comunitariste prendano di

mira - forse indebitamente, se non altro da un punto di vista metodologico -

alcuni aspetti, peraltro superati, della concezione sociologica di comunità.61

I filosofi comunitaristi concettualizzano una comunità diversa da quella del primo

Tonnies, per il quale, come si è appena visto, essa è fortemente connotata in senso

ideologico. Questi intendeva inizialmente per comunità una forma di relazioni

sociali caratterizzata da rapporti diretti, dalla condivisione di valori e modelli

normativi in ogni dimensione di vita, dalla lealtà verso la comunità anche a costo

del sacrificio delle proprie posizioni o interessi individuali, da una organicità

complessiva. L'unico elemento - osserva Ferrara - della concezione tonniesiana

che persiste nel pensiero dei comunitaristi è il senso di appartenenza, per di più

formulato in modo innovativo e non tradizionalista: «non si trova una sola riga

nell'intera opera di Maclntyre, Bellah, Taylor e gli altri da cui si possa evincere che

la reintroduzione di elementi di comunità nel tessuto delle società complesse, da essi

così caldamente auspicato, consista nell'incrementare il numero di relazioni /ace to

/ace, il grado di omogeneità culturale o la capacità dei rapporti sociali di

coinvolgere globalmente la persona».62 In nessuna delle sue argomentazioni la

lavoro di rete nel servizio sociale. Gli operatori fra solidarietà e istituzioni, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1992.

61È questo il punto di partenza di una riflessione di ALESSANDRO FERRARA, Comunità, in «Rassegna italiana di sociologia», XXXVII, 4, 1996, pp. 609-19.

62/bidem, p. 612.

292

critica com unitarista all'individualismo liberale, nemmeno quando raggiunge i toni

più vibranti - come in Maclntyre o in Sandel - arriva a respingere il moderno

pluralismo vakriale e culturale basato sul libero esercizio della ragione: tra i

comunitaristi vi è, anzi, chi sostiene che «il disconoscimento radicale di questi

valori segnala la distruzione o distorsione della comunità» e che bisogna porsi

l'obiettivo di costruire <<Un'unità che preservi l'integrità di persone, gruppi e

istituzioni [ ... ] una unità di unità», che gestisca ma non sopprima la coesistenza dei

«valori spesso in conflitto di autonomia e integrazione».63 Sembrerebbe dunque a

Ferrara che tra liberalisti e comunitaristi abbia avuto luogo, almeno fino ad un certo

momento, un 'dibattito tra sordi', giacché i primi combattono un concetto di

comunità assente nel pensiero dei secondi e che deriva dalla prima formulazione

sociologica di Tonnies, ormai superata.

In sintesi, i tratti della concezione filosofico-politica contemporanea di comunità

secondo l'approccio dei com unitaristi sono: i) rafforzare la sfera pubblica, ii)

sostenere le forme associative volontarie intermedie tra individuo e Stato-nazione

(in un senso che - si può osservare per inciso - sembra avvicinarsi abbastanza

alla rilevanza attribuita da Donati alle 'autonomie sociali'), iii) condividere un

interesse autentico per il bene comune inteso come destino comune, non in chiave

materiale o economicistica.

Ferrara muove tre osservazioni in ordine a queste puntualizzazioni. Innanzitutto, tale

concezione di comunità «non è incompatibile con il liberalismo in quanto tale»,64 dal

momento che la comunità dei comunitaristi non può che essere voluta, scelta e non

63PHILIP SELZNICK, // compito incompiuto di Dworkin, trad. it. in ALESSANDRO FERRARA (a cura di), Comunitarismo e liberalismo ... cit., pp. 229-41; p. 233.

293

più ascritta o imposta da modelli socioculturali organicistici. Autori di tendenza

liberale che si sono lasciati interpellare dalle proposizioni dei comunitaristi si sono

pronunciati per ipotesi di una 'comunità liberale ' 65 o di una attiva 'cittadinanza

repubblicana'. 66

La seconda osservazione consiste nella integrabilità fra il disegno liberale e la

comunità secondo i comunitaristi, in quanto quest'ultima corrisponde al

rafforzamento delle istituzioni intermedie, un punto programmatico caro ai liberali à

la Tocqueville, convinti sostenitori che la vitalità della democrazia consiste in una

relazione equilibrata e propositiva tra sfera privata, sfera associativa pubblica e sfera

politica.

In terzo luogo, la proposta dei comunitaristi va nella direzione di un rafforzamento

di istituzioni - famiglia, scuola, chiese - che in una società moderna possono

rappresentare ambiti importanti, anche se non esclusivi, di socializzazione degli

individui a valori e pratiche legati al bene comune più che al proprio personale

interesse. E un segno che sembrerebbe mostrare come la posizione dei comunitaristi

in qualche modo abbia fatto breccia all'interno del pensiero contemporaneo è un

ritorno al tema dei doveri nelle società della tarda modernità: a noi così pare di

potere seppur sommariamente interpretare un recente simposio interdisciplinare

dell'Unesco sul tema Responsabilità e doveri dell'uomo nel terzo millennio,67 una

iniziativa che sembra quasi avere il sapore di controbilanciare l'enfasi sui diritti

dell'uomo, che ha fin qui contraddistinto le teorie della cittadinanza e della giustizia,

64ALESSANDROFERRARA, Comunità ... cit., p. 613. 65RONALD DWORKIN, La comunità liberale ... cit. 66J0RGEN HABERMAS, Cittadinanza politica e identità nazionale ... cit. 67Il simposio internazionale si è tenuto a Valencia (Spagna) dal 28 al 30 gennaio 1998: ne riferisce la pagina

culturale del quotidiano La Repubblica del 30 gennaio 1998.

294

con un nuovo riposizionamento che consenta di assumere le sfide epocali e, al

contempo, di evitare gli effetti perversi dell'individualismo nella globalizzazione.

Se quella appena delineata è la reale portata del pensiero dei comunitaristi, sostiene

Ferrara, vi è materiale sufficiente per reinterpretare il rapporto della loro concezione

con la modernità. Il concetto di comunità che viene emergendo dal pensiero dei

comunitaristi ha una valenza critica di non secondaria importanza, che lo

contrappone al tradizionalismo della classica versione tOnniesiana: esso, in realtà,

non rifiuta l'individualismo in quanto tale, ma una versione atomistica, riduttiva, e

ormai obsoleta rispetto alla nuova consapevolezza maturata nella tarda modernità.

L'individualismo rifiutato dai comunitaristi non solo non stimola più la

modernizzazione della società, ma addirittura la frena, poiché riporta continuamente

funzioni e valori delle istituzioni ad una logica di strumentalità rispetto a fini

individuali definiti indipendentemente dalle istituzioni stesse: esso «conduce ad

un'enfasi miope sul breve periodo nella formazione e gestione delle politiche

sociali, conduce all'impoverimento (materiale e simbolico) di quelle istituzioni che

sono legate a interessi non strumentali, conduce a processi di giuridificazione che

legittimano il punto di vista strumentale in ogni area dell'azione sociale, conduce ad

una tendenza a sottostimare l'impatto delle interdipendenze globali come pure i

problemi ermeneutici di comunicazione tra le culture e a ridurli a problemi strategici

di decisionalità e implementazione, ed infine conduce a una diffusa sfiducia nei

confronti della vita pubblica e alla assimilazione della politica al modello del

mercato e della scelta del consumatore». 68 Il pericolo che la democrazia, attraverso

processi di involuzione individualistica e privatistica della vita sociale, potesse

295

degenerare in un 'dispotismo mite' era stato avvertito da Tocqueville, come

abbiamo già ricordato in altra parte del presente lavoro. 69

La comunità ipotizzata dai comunitaristi, quindi, non è anti-moderna, ma, al

contrario, offre una abbastanza nuova interpretazione della modernità in termini di

completamento del suo nucleo valoriale originario, giacché la nozione filosofico-

politica contemporanea di comunità altro non sarebbe che una riformulazione e

attualizzazione del valore, finora inadempiuto, della fraternité. Ciò, però, non è

sufficiente a decretare una riconciliazione definitiva tra comunità e modernità,

poiché «le vicissitudini del nostro modo di intendere il rapporto fra comunità e

modernità sono influenzate, come da un pianeta invisibile, dal modo in cui è stato

interpretato il rapporto fra individuo e modernità». 10 La contrapposizione rimasta

non risolta, perché non adeguatamente tematizzata, concerne il rapporto tra

individuo e modernità. Ritorna, dunque, il tema controverso di una antropologia che

sia, in un certo senso, 'a cavallo' della modernità e che non sia pre-moderna, anti-

moderna o 'debolmente' post-moderna. Ferrara intravede, in questo cruciale

passaggio teorico della modernità, due posizioni teoriche a fronteggiarsi. La prima

- avviata da Rousseau e poi proseguita con Marx, Horkheimer, Veblen, Wright

Mills, Riesman, Sennett - ritiene che l'autonomia individuale possa essere

minacciata dagli ordinamenti istituzionali e dalle rappresentazioni sociali rispetto

alle quali viene definito il contenuto degli interessi. Una seconda posizione confida

nella capacità riflessiva degli individui come portato ormai irreversibile della

modernità e in grado di garantire distanza critica e autonomia; il pericolo nella tarda

68ALESSANDRO FERRARA, Comunità ... cit., p. 615. 69v edi supra, capitolo 3.

296

modernità sarebbe dato non già dall 'eterodirezione degli individui ma, ali' opposto,

dalla loro crescente difficoltà i) ad appartenere a qualcosa che trascenda i loro

interessi, e ii) a contribuire alla costruzione e innovazione continua di questo

qualcosa; forse non è un caso che questa linea - sulla quale si erano attestati

Hegel, Durkheim, Tocqueville - sia rimasta poco sviluppata e abbia prevalso

l'interpretazione illuministica della modernità: la storia delle idee, la filosofia

politica, la stessa sociologia avranno modo di verificare se in ciò abbiano avuto un

ruolo, probabilmente in parte anche inconsapevole, assunzioni di tipo ideologico che

hanno orientato il pensiero e le pratiche sociali e politiche. Ferrara è comunque

dell'idea che «il discorso sulla comunità oggi condotto da Charles Taylor e da

Robert Bellah è l'erede e il continuatore di questa seconda lettura della modernità.

Al suo interno l'affermarsi del nuovo concetto di comunità assume da un lato la

valenza di completamento della istituzionalizzazione dei valori dell '89, ma

dall'altro anche quello di un correttivo nei confronti di tendenze anomiche pur

presenti nei processi di modernizzazione finora dispiegatisi», anche se è facile

prevedere che la tensione tra le due letture della modernità impegnerà ancora le

menti degli addetti ai lavori. 11

La lettura che Ferrara dà del dibattito tra liberali e comunitaristi, al di là dei risvolti

più propriamente filosofici che esulano dall'ottica del presente lavoro, solleva

indubbiamente questioni anche epistemologiche non secondarie, giacché

sembrerebbe scaturirne l'invito ad un parziale, ma non per questo accessorio,

riesame di alcune categorie-chiave del pensiero moderno e delle relative

70ALESSANDRO FERRARA, Comunità ... cit., p. 616.

297

contraddizioni, cui abbiamo dedicato vari passaggi del nostro studio. Nelle proposte

dei comunitaristi vi è forse qualche elemento che può suscitare perplessità; ad

esempio, il sostegno da programmare a favore di istituzioni come famiglia, scuole,

chiese pone problemi politici di soluzione non autoevidente: come incentivarle

senza con questo fomentare familismi amorali, settarismi, scuole classiste in un

senso o in un altro? Si tratta di problemi non certo filosofici, ma rientranti nella

sfera della politica e della politica sociale. Anche queste perplessità, tuttavia, non

sono tali da inficiare totalmente il ragionamento complessivo dei comunitaristi così

come viene ricostruito da Ferrara.

Donati - dal quale abbiamo tratto il contributo sociologico forse con maggiori

argomentazioni critiche verso la prevalente concezione moderna di democrazia e

cittadinanza - aveva incentrato la sua posizione, come si ricorderà, su alcuni punti:

la modernità i) enfatizza i diritti dell'individuo ma non ne tematizza affatto i doveri

verso la collettività politica, ii) postula una sostanziale coincidenza della sfera

pubblica con quella statale, iii) è portatrice di un'idea di rapporto im-mediato tra

Stato e individuo che non tiene conto delle appartenenze sociali e culturali non

normate dallo Stato, iv) produce anomia, v) ma, soprattutto, presuppone l'individuo

rispetto alle relazioni sociali. Ad eccezione dell'ultimo punto della teoria di Donati,

sembra che la rilettura di Ferrara possa offrire alcune risposte sul piano filosofico-

politico. E anche il tentativo di Ferrara di ricondurre entro il nucleo originario della

modernità quanto sembrerebbe portare ben al di là di essa, non appare decisivo ai

fini dell'argomentazione complessiva, che conserva il suo stimolante interesse.

71 Ibidem, p. 617. CHARLES TAYLOR, Il dibattito fra sordi di liberali e comunitaristi... cit. ROBERT N. BELLAH, Le abitudini del cuore, (ediz. orig. 1985), trad. it., Roma, Armando, 1996.

298

Resta però nella proposta di Ferrara una questione non ancora esplicitamente e

compiutamente tematizzata: se è vero che l'individuo non può essere presupposto

alle relazioni sociali, occorrerebbe prenderne atto sia sul piano filosofico-politico

che su quello sociologico e trame le conseguenze in funzione di nuovi indirizzi di

ricerca. Ma forse si tratta di un addebito eccessivo per alcune brevi note volte a

puntualizzare alcuni aspetti di un dibattito ampio sul concetto di comunità, con

origini profonde nel tessuto socio-culturale di oltre due secoli di storia. Per il

momento ci limitiamo a sottolineare l'apertura teorica e le potenzialità rappresentate

da una posizione del genere.

4. 9. Politica sociale e community care

Il modello della community care si trova al crocevia di numerosi dibattiti teorici in

sociologia e in politica sociale. Ce ne occupiamo, seppur brevemente, in questa sede

poiché rappresenta - a nostro avviso - una esemplificazione particolarmente

significativa dei problemi teorici ed empirici di applicazione dei concetti attorno ai

quali si è incentrato il nostro percorso di ricerca: solidarietà sociale, cittadinanza,

comunità. La community care, inoltre, altro non è che una metodologia di intervento

sociale di rete, secondo le sommarie caratteristiche prima descritte. In questo genere

di approcci operativi, come anche nella epistemologia relazionale cui esso si

collega, al centro non è l 'jndividuo atomistico né la sJruttura sociale ma la relazione

sociale.

299

Il nostro riferimento principale sarà Martin Bulmer, delle documentate e accorte

considerazioni del quale12 ci avvarremo per tentare una risposta ad alcuni quesiti

dello stesso autore, che fanno da leitmotiv a quest'ultima parte del nostro lavoro: «è

realistico scommettere sulla comunità» ai fini di programmi per il benessere

collettivo? Quali possono essere le principali opportunità e i problemi, soprattutto

teorici, implicati da tali approcci nonché le nuove configurazioni comunitarie

all'interno delle società avanzate?

È d'obbligo, innanzitutto, definire l'oggetto di cui ci occupiamo: e qui incominciano

i problemi, poiché alla community care ha fatto finora difetto una definizione

sociologicamente soddisfacente. Questa espressione compare per la prima volta

nella Gran Bretagna della fine degli anni Cinquanta, quando si inizia a pensare ad

una diffusione territoriale dei servizi socio-sanitari. Negli anni, il suo ambito

semantico si è esteso fino al significato oggi più diffuso: con questa espressione si

vuole indicare - in generale, e non senza ambiguità che illustreremo in seguito -

un approccio teorico-operativo di politica sociale in cui si tenta di combinare, nei

sistemi di aiuto a persone ammalate o portatrici di disagio sociale, l'apporto dei

servizi sociali del settore formale - pubbliche amministrazioni, privati

convenzionati, privati a pagamento - con quello del settore informale - famiglia,

parenti, amici, vicinato, volontari. In forma ufficiale, la centralità della community

care è emersa in due importanti documenti di Commissioni nazionali sullo stato

72MARTIN BULMER, Le basi della community care. Sociologia delle relazioni informali di cura, (ediz. orig. 1987), trad. it., Trento, Erickson, 1992; ID., Recenti tendenze della community care: problemi e prospettive, in FABIO FOLGHERAITER- PIERPAOLO DONATI (a cura di), Community care. Teoria e pratica del lavoro sociale di rete, Trento, Erickson, 19932, pp. 89-99. Vedi, inoltre, PAOLA DI NICOLA. Politica sociale e community care, in PIERPAOLO DONATI (a cura di), Fondamenti di politica sociale. Obiettivi e strategie, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993, pp. 179-96.

300

della politica sociale britannica,73 mai però in testi legislativi. Nella Gran Bretagna

degli anni Ottanta e Novanta, questo dibattito ha coinvolto, in modo particolare, i

servizi da rivolgere ai soggetti deistituzionalizzati portatori di handicap mentale o di

malattie mentali e agli anziani non autosufficienti. Il dibattito, quindi, sorge in

presenza di fattori di criticità nella implementazione delle politiche di intervento e

nel clima politico-economico della deregulation, delle privatizzazioni e del

ridimensionamento del welfare promossi durante la lunga permanenza dei

conservatori al governo nazionale.

La novità dell'approccio non risiede nel fatto che le reti informali offrano servizi di

cura - è sempre stato così - ma che la politica sociale si interessi di ciò

programmaticamente, in modo strutturato, e tenti di rapportarsi ad esse per un

miglioramento complessivo dei livelli di benessere.

Il termine 'comunità' non può essere banalizzato o ridotto, ma ne va recepita tutta la

problematicità sociologica (buona parte di questo capitolo è infatti servita a dare una

dimostrazione della necessità di tener conto di questa esigenza). Mutamenti nella

struttura demografica, nei comportamenti riproduttivi, nelle strutture familiari, nei

modelli territoriali di relazioni, nelle forme socio-culturali: tutto ciò - e altro

ancora, come si è visto - rende impossibile, oltre che fuorviante, l'impiego del

concetto di comunità secondo le sue originarie definizioni. Non solo, ma occorre

fare i conti anche con i significati di senso comune di comunità, termine che

«sembra aver incorporato sopra di sé una specie di aureola, un senso diffuso di

'positività'. Per questo rappresenta un concetto che è allo stesso tempo normativo,

analitico e descrittivo. Si riferisce alla società come essa è ma anche ad elementi

73Si tratta del Rapporto Seebohm (1968) e del Rapporto Barclay (1982).

301

sociali che si prestano alla valutazione e che si possono riferire al passato, al

presente o al futuro, addirittura che possono esistere come no». 74 Questa aura di

positività si propaga anche all'idea di community care, che può finire così per

ingenerare l'illusione o il mito che essa rappresenti una panacea per la soluzione dei

numerosi e gravi dilemmi della moderna politica sociale.

Una prima, rilevante ambiguità è data dalla traduzione in termini operativi della

community care: essa corrisponde all'assistenza nella comunità (cioè alla diffusione,

al decentramento, persino alla domiciliarità dei servizi sociali pubblici) o

all'assistenza dalla comunità, da parte della comunità? Bulmer pone in evidenza

che tutte e due le traduzioni possono essere rivelatrici di impostazioni ideologiche e

superficiali, se non supportate da una chiarificazione su che cosa intendere per

'comunità': egli, al di là di riferimenti vaghi ed evocativi, con questa espressione

preferisce riferirsi sociologicamente alla «identificazione fra reti sociali informali

basate localmente e senso di appartenenza». 75 L'idea di comunità che molto spesso

'inquina', per così dire, il dibattito di politica sociale sulla community care risulta da

un insieme eterogeneo di fattori: «l'appello alla 'comunità' implicito nelle politiche

di community care è un amalgama di elementi che provengono dall'immagine del

villaggio tradizionale, da un lato, e dalle caratteristiche storiche di [ ... ] quartieri

urbani della classe operaia, dall'altra. Ora, questi elementi non solo sono un po'

difficili da conciliare ma anche la loro base sociale è frequentemente idealizzata e

romanticizzata». 76

74MARTIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 50. 75/bidem, p. 59. 76/bidem, p. 77.

302

Oggi, cioè, si parla frequentemente di comunità e di reti informali continuando però

a riferirsi a realtà sociali non più esistenti o forse mai esistite in certi termini: «le

cosiddette 'reti naturali' di aiuto del vicinato tradizionale - per niente naturali,

ovviamente - si sviluppavano come risposta a determinate condizioni sociali,

molto specifiche, che non sarebbe auspicabile vedere riprodotte oggigiorno [ ... ].

L'aiuto reciproco tra vicini è maggiormente presente laddove l'informazione e la

fiducia sono elevate e dove le risorse per soddisfare i bisogni in altro modo sono

limitate, vale a dire negli ambienti sociali con una popolazione altamente omogenea

di individui relativamente isolati, relativamente chiusi e relativamente minacciati».77

Anche a proposito di ciò, Bulmer osserva che «l'esistenza di legami locali non va

data per scontata, ma deve invece essere consapevolmente ricercata». 78 La moderna

vita comunitaria è meno caratterizzata da relazioni di vicinato in senso tradizionale e

da senso di appartenenza alla località di residenza e più da un senso di appartenenza

'privatizzato' sviluppato nella famiglia nucleare: la community care non può

ignorare quanto l'analisi sociologica ha da dire su questi aspetti. E se è vero che

queste osservazioni di Bulmer circa la comunità riflettono la visione generale del

concetto che se ne ha nella sociologia anglosassone - una nozione più ecologica

che psicologica, per tornare ad una terminologia già impiegata in questo lavoro - il

richiamo ad un rigore concettuale e metodologico pare del tutto ineccepibile. Ecco

perché - in modo coerente, dal suo punto di vista - egli afferma che, nella sua

formulazione 'classica', -«il termine community è-inadeguato a definire la base

sociale di questo tipo di cura informale» (cioè quello prestato nella famiglia, tra

77Il passo è di PIIlLIP ABRAMS, citato in MARTIN BULMER, Neighbours: the Work of Philip Abrams, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, pp. 92-93.

303

amici e vicini): 79 è opportuno riferirsi ad una 'comunità liberata', nella quale le

relazioni sociali primarie sono cioè svincolate dal radicamento localistico. Questo

tipo di relazioni sociali può essere colto attraverso un uso accorto del concetto di

'rete'.

Analoghe cautele sociologiche occorre riservare al concetto di 'rete sociale': molto

spesso, esso viene impiegato metaforicamente e non analiticamente. Da un punto di

vista analitico, una rete è «un insieme specifico di legami tra un insieme ben

definito di persone, con la proprietà aggiuntiva che le caratteristiche di questi legami

nel loro complesso possono essere usate per interpretare il comportamento sociale

delle persone coinvolte».80 Lo scopo principale delle analisi delle reti sociali deve

consistere nel coglierne forma e struttura: <<Una network analysis condotta in modo

adeguato ha notevoli potenzialità per chiarificare i processi sociali e quanto viene

erogato nella community care. Non si può tuttavia negare che i risultati della

network analysis siano stati inferiori alle promesse ed è quindi necessaria una

valutazione critica di questo approccio», poiché molto spesso essa si ferma agli

aspetti formali delle reti, curando poco l'indagine su quelli di contenuto. 81 La

ragione di ciò è da individuare, probabilmente, in carenze di natura teorica: «non c'è

una 'teoria della rete' nel senso di una serie di proposizioni logicamente correlate e

verificabili».82 E, in ogni caso, ribadisce Bulmer, il concetto di 'rete' non può essere

adoperato come sinonimo di 'comunità'; vi è anche il pericolo di trattare il concetto

78MARTIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 93. 79/bidem, p. 139. 80J. CLYDE MITCHELL, The Concept and Use of Socia/ Networks in ID. (ed.), Socia/ Networks in Urban

Situations, Manchester, Manchester University Press, pp. 1-50; p. 2. 81MARÌIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 169. 82ULF HANNERZ, Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, (ediz. orig. 1980), trad. it., Bologna, Il

Mulino, 1992, p. 313.

304

di rete in modo reificante allo scopo di programmare l'inserimento in esse da parte

dei servizi sociali pubblici o del volontariato: «tali usi dell'idea di network sono

semplicistici e fuorvianti». 83

L'analisi delle reti sociali non può essere asettica, decontestualizzata: «molte

discussioni sulle reti informali ignorano spesso le dimensioni politiche ed

economiche del supporto informale. [ ... ] Philip Abrams [ ... ] si è preoccupato di

collegare la discussione sull'assistenza tra vicini al problema dell'organizzazione

delle comunità locali. E in effetti il suo concetto di 'moderno vicinatismo' includeva

esplicitamente l'organizzazione politica a livello locale. La network analysis,

inoltre, può essere usata per chiarire la struttura dei processi decisionali a livello

locale [ ... ] e per evidenziare le realtà sociologiche che fanno da sfondo alle

manifestazioni politiche». 84

Perché le persone offrono aiuti informali? La risposta a questo interrogativo

consente di acquisire ulteriori elementi sulla 'affidabilità' delle reti sociali informali

all'interno della community care. Bulmer ripercorre numerose interpretazioni che

riassume in alcune categorie non reciprocamente esclusive:

-altruismo: il concetto può essere definito sommariamente come «attenzione per gli

altri come principio di azione»; contrariamente a quanto si pensi,85 nell'ambito della

care informale questa forma di servizio basata sul dono è presente solo nelle

83MARTIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 172: un esempio di questo tipo di impostazione è, per l'Autore, LAMBERT MAGUIRE, Il lavoro sociale di rete ... cit.

84MARTIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 174. 85È questa la posizione, ad esempio, di RICHARD M. TITMUSS, The Gift Relationship: from Human Blood to

Socia/ Policy, London, Allen and Unwin, 1970, il quale, a partire dal caso della donazione di sangue, sosteneva che le politiche sociali comportassero un'estensione delle possibilità di altruismo per gli individui rispetto all'egoismo delle relazioni di mercato.

305

relazioni di attaccamento e intimità, posto che in altri tipi di relazione informale

esso tende a diminuire costantemente per vari fattori di ordine socio-culturale;

- beneficenza: il principio di assistere in aderenza alla percezione del dovere di

aiutare chi si trova nel bisogno individua le motivazioni dell'assistenza nell'ambito

della sfera morale, che porta a riconoscere moralmente la non autosufficienza

dell'altro (quando questa persona sia per noi in qualche modo importante) e quindi

il dovere di assisterlo; questo principio è stato alla base anche dell'agire delle

organizzazioni caritatevoli tradizionali britanniche sorte nell'Ottocento, composte

da persone di estrazione sociale medio-alta, ed esprimeva un atteggiamento

paternalistico proprio di un sistema sociale gerarchico;

- tradizione: l'assistenza informale prestata secondo lo schema weberiano dell'agire

tradizionale si ricollega soprattutto agli elementi di senso comune presenti nell'idea

di 'comunità' già discussi in precedenza;

- dovere o obbligazione: questo tipi di prmc1p10 sembra essere utile per

comprendere le cure informali tra parenti, soprattutto il ruolo 'privilegiato' di carer

delle donne, sul modello della relazione di cura tra madre/padre e figlio/a

(nurturance): questa relazione, strutturando nel figlio un modello di assistenza,

farebbe sorgere il 'dovere' di assistere il proprio genitore anziano o ammalato; qui,

però, in special modo per il particolare ruolo di cura attribuito al genere femminile,

andrebbero adeguatamente considerati i fattori socio-culturali che presiedono a

questa divisione e attribuzione di ruoli che spesso viene invece presentata come

'naturale'· '

306

- reciprocità: questo concetto aiuta a spiegare molti degli elementi descritti in

precedenza;86 la reciprocità è stata molto studiata dagli antropologi (Malinowski,

Mauss, Sahlins ), che ne hanno individuato varie forme, da un massimo ad un

minimo di estensione e di forza nell'obbligo di reciprocazione: la reciprocità

generalizzata può essere utile a interpretare anche le forme della beneficenza o

dell'altruismo, giacché molte azioni di quest'ultimo genere possono essere motivate

o dal volere restituire quanto si è ricevuto da altri o, più o meno consapevolmente,

dal desiderio di autogratificazione; applicato a certi tipi di cure informali (per

esempio, l'assistenza domiciliare), il concetto di reciprocità potrebbe anche

implicare il prevedere una paga per i carers informali locali, qualora questi e i loro

assistiti non si conoscano e si voglia evitare che gli assistiti provino disagio nel

sentirsi in dovere di esprimere gratitudine o deferenza allo scopo di reciprocare

l'assistenza ricevuta. Secondo autori come Homans e Blau, la reciprocità

nell'assistenza informale può essere letta come scambio sociale: non si tratta di

scambio economico poiché le obbligazioni per il futuro sono generiche e affidate

alla discrezionalità dell'assistito. Più in generale, da un punto di vista metodologico,

dal momento che indagare le motivazioni esplicite dei carers informali può

diventare inutile o addirittura fuorviante, si rivela proficua l'analisi delle aspettative

e delle ricompense ricavabili dall'azione volontaria, incrociando questi dati con le

situazioni personali e sociali dei carers, incluse le loro eventuali ulteriori possibilità

di impegno/impiego.

La conclusione di Bulmer non è ultimativa, però richiama, se non altro, alcuni

caratteri essenziali delle relazioni informali di cura: «non esistono [ ... ] delle risposte

86Vedi anche supra, capitolo 1.

307

conclusive alla domanda sul perché le persone si aiutano le une con le altre. È del

tutto chiaro, tuttavia, che gli idealtipi bipolari egoismo-altruismo [ ... ] sono di utilità

assai limitata per comprendere le relazioni di cura. La beneficenza, l'obbligazione, il

dovere o la tradizione giocano tutti un certo ruolo nello spiegare perché i carers si

occupino degli altri. L'approccio teorico più adeguato, comunque, è quello che

spiega la cura informale in termini di reciprocità e di scambio sociale».

L'importante è non perdere di vista il fatto che ciò pone in evidenza «il grado in cui

l'assistenza informale emerga e si sviluppi dalle relazioni sociali così come esse

sono. Non è qualche cosa che può essere 'costruito' in modo meccanico, ad esempio

'forzando' o 'creando' i network sociali».87

Le principali difficoltà della community care sorgono proprio m ordine

all'intrecciamento di cure formali e cure informali, poiché non si tratta di modalità

disposte lungo un medesimo continuum, ma di ambiti segnati da discontinuità e

contraddizioni anche profonde. Per Abrams, anzi, vi è «quasi un'antitesi di

principio» fra i due generi di cure, poiché essi adottano due modi opposti di

organizzazione sociale: comunitario versus burocratico. Le soluzioni adottate nella

pratica sono state diverse e con diversi esiti: dalle esperienze britanniche, Bulmer

ricava che la base del complesso di interventi a favore della persona in difficoltà è la

cura informale, soprattutto in termini di efficacia, posta l'ampiezza della gamma di

esigenze quotidiane cui può rispondere, in modo unificato, il carer informale. In

negativo, la cura informale non può essere data per scontata: essa dipende dalle

disponibilità effettive, dall'intensità dei legami e dalla densità delle rete sociale della

persona; possono inoltre sorgere problemi di continuità dell'assistenza nel tempo,

87MARTIN BULMER, Le basi della community care ... cit., p. 209.

308

poiché le energie di chi assiste non sono illimitate e richiedono di essere supportate

e rigenerate. La competenza tecnico-professionale in taluni casi è imprescindibile, e

di solito viene richiesta/offerta agli/dagli operatori del settore formale. La persona

può talvolta preferire il sostegno formale a quello informale per tutelare la propria

privacy da amici o vicini invadenti o pettegoli. In molte situazioni, tuttavia, il

confine tra formale e informale è mobile, come, ad esempio, nell'assistenza

domiciliare. Bulmer delinea - sempre in base alle effettive esperienze - anche

diverse modalità di relazione tra cure informali e informali: colonizzazione (del

formale sull'informale), competizione e conflitto, coesistenza (reciproco isolamento:

è la forma più comune), collaborazione (è la modalità meno frequente e più difficile

da realizzare), confusione. I nodi critici che emergono dalle esperienze della Gran

Bretagna sono dunque numerosi e di importanza cruciale rispetto all'efficacia della

community care: i) difficoltà nel garantire l'autonomia dell'utente se la componente

formale dell'assistenza è talmente ampia da accentuare nell'utente medesimo la

percezione di dipendenza dal servizio; ii) problemi nella corretta individuazione del

livello di articolazione e decentramento territoriale dei servizi in rapporto alla

progettazione e sperimentazione dell'intrecciamento tra formale e informale; iii) il

peso dei vincoli organizzativi all'interno dei servizi formali, la diversità - fra

operatori formali e operatori informali - di ruoli, concezione e distribuzione del

tempo di cura, di conoscenze, di tipo di relazione con gli utenti, di status sociale; iv)

il tema della responsabilità amministrativa: gli operatori formali rispondono alla

struttura gerarchica e decisionale del proprio ente; v) la differenza di carico

emozionale, che è più forte per il carer informale sia in positivo (maggiore energia e

309

motivazione) che in negativo (minore obiettività e distacco); vi) la rilevanza di

fattori politici ed etici: l'enfasi sulla community care in Gran Bretagna è stata posta

dal governo conservatore per compensare i tagli ai budget del welfare.

Ciò che non può affatto mancare è una incisiva politica di sostegno alle famiglie -

dal momento che esse offrono servizi di cura - sia per mezzo di incentivi fiscali

che mediante servizi di supporto e di alleggerimento per i carers.

Il 'moderno vicinatismo' cui allude P. Abrams consiste in un tessuto associativo

locale, in grado di esercitare forme di controllo sull'integrazione tra cure formali e

cure informali. Non si tratta di un rimedio generale ed esaustivo: «piuttosto si vuol

sottolineare che solo una forte articolazione di interessi a livello di distretto, in

diverse forme, renderà possibile che la voce del cittadino a livello locale venga

distintamente udita». 88

88/bidem, p. 253.

CONCLUSIONI

CONCLUSIONI

Il percorso che abbiamo compiuto ha offerto numerosi spunti di riflessione sulla

nostra problematica. Dal quesito di partenza - in che senso la sociologia si

interroga su concetti che, nella post-modernità, sembrano avere perduto un certo

smalto teorico come solidarietà sociale e cittadinanza? - ci siamo mossi attraverso

un territorio abbastanza esplorato, ma che, probabilmente, richiede di essere

osservato da una prospettiva nuova rispetto a quella che la modernità ha fin qui

proposto: l' autoriflessività che è propria dei sistemi complessi va

epistemologicamente assunta e condotta fino in fondo, cioè fino a che il pensiero

moderno giunga ad osservare se stesso e le proprie premesse dall'esterno,

cogliendone aperture e limiti.

Il tema della globalizzazione attira sempre più l'attenzione scientifica, comparendo

con maggiore frequenza anche nei dibattiti che attraversano l'opinione pubblica

delle società occidentali. Si tratta di un 'utile chiave di lettura dei processi di

mutamento sociale e di relazione fra i sottosistemi culturali, economici, politici di

vari paesi avanzati. Quale tipo di rapporto abbiamo individuato con i temi centrali

del nostro studio? Ci sembra di potere affermare che l'intensificarsi della

globalizzazione - tanto nei processi reali quanto nelle percezioni che di tali

processi si hanno a vari livelli del sociale - sia un dato incontrovertibile che viene

però letto con accenti assai diversi. Per Luhmann, ad esempio, ciò comporta che vi è

312

un umco mondo possibile, quello autoreferenziale e autopoietico della

comunicazione sistemica, che non necessita di integrazione sociale, ma del massimo

di differenziazione sociale per meglio rispondere alle esigenze poste dal proprio

ambiente. Ma si potrebbe osservare che auto-osservazione non equivale sempre e

necessariamente ad autoreferenzialità, la quale rischia di legittimare assetti sociali

in cui il grado di tecnicizzazione sia talmente elevato da annichilire le dimensioni

soggettive e di mondo vitale. Latouche, da una diversa angolatura, intravede una

sorta di implicita - ma dagli effetti dirompenti - coincidenza tra globalizzazione e

occidentalizzazione, cioè di una sostituzione delle culture 'indigene' con il modello

culturale e tecnoscientifico occidentale. Né tantomeno è immaginabile, allo stato

attuale, che nelle società tradizionali e dei paesi del Sud del mondo si avviino

processi di secolarizzazione e di modernizzazione con modalità e caratteri del tutto

o in prevalenza originali e autonomi dalle interdipendenze regionali, continentali e

planetarie. Sembrerebbe, dunque, che globalizzazione e solidarietà sociale - se non

altro a livello di macrosistemi - siano correlate negativamente. Ma così

ovviamente non è, ove si pensi alle molteplici forme in cui il legame sociale è oggi

presente e leggibile, e che fanno riferimento in modo più o meno diretto a fenomeni

come fiducia, associazione, beni comuni, altruismo, reciprocità: concetti che molto

spesso riflettono, della solidarietà sociale, la non-univocità, la differenziazione e la

complessità, talvolta l'ambiguità. La solidarietà sociale nell'età della

globalizzazione è 'differenziata', articolata, resa complessa dai molteplici significati

attribuiti a tale relazione dai soggetti che la pongono in essere.

313

Che significato dare, allora, all'espressione multiculturalismo? È una descrizione

aderente alla realtà? È una previsione degli assetti sociali futuri? È un auspicio? È

una dichiarazione di intenti? Non ci sembra si possa oggi parlare di

multiculturalismo come di qualche cosa già compiutamente manifestatosi, se con

questo termine si intende indicare un modello di società in cui diverse culture

dialogano tra loro in modo sostanzialmente e formalmente paritario, senza egemonie

negoziate o subite. Multiculturalismo può anche essere un modo di definire la

situazione di quelle società occidentali in cui abbia cessato di esistere il monologo

assoluto della loro cultura, ma non ancora la sua egemonia: società nelle quali si

assiste al prendere forma dell'interlocuzione delle 'comunità' di migranti dal Sud

del mondo e ai primi conflitti interculturali interni. È un dibattito profondo e aperto.

Da un lato, la cultura occidentale si scopre parziale, anche quando l'integrismo del

modello produttivistico continua ad autopercepirsi asettico e sganciato da ogni

considerazione circa i propri limiti materiali e sociali. Su di un altro versante, la

cultura occidentale più politically corree! sa di essere superiore alle culture chiuse e

intolleranti ma non sa in quali termini esprimerlo correttamente, rifugiandosi in un

proceduralismo astratto e ricorsivo. Ciò che è possibile osservare è la difficoltà, la

ritrosia, il rifiuto da parte delle culture a mettersi in gioco, a gestire le diversità

senza accentuare o causare separazioni. D'altro canto abbiamo avuto la possibilità di

comprendere alcune delle ragioni per le quali la nozione di particolarismo non va di

per sé connotata di negatività e di antimodemità: l'analisi ha mostrato l'emergere di

forme di particolarismo non secondarie né residuali o persino sorte dai rapporti

sociali della modernità, funzionali ad essa. Così pure l'universalismo: di esso

314

abbiamo osservato il relazionarsi frequente e non occasionale a forme anche 'dure'

di particolarismo o l'essere all'origine di quest'ultimo in modo non intenzionale e

non prevedibile. La definizione delle identità risulta dalla relazione fra valori e

interessi in un contesto di costante differenziazione: ogni visione che oscuri o

sminuisca una delle due componenti rischia di limitare pesantemente la propria

comprensione dei conflitti tra culture e dei dilemmi fra particolarismo e

universalismo.

Se non può essere fondata la correlazione negativa tra differenziazione sociale e

solidarietà sociale - neanche quando si sia osservata l'estensione e la profondità

della differenziazione nell'era della globalizzazione - in che modo tematizzare la

relazione tra questi due fenomeni? La lettura neofunzionalista della teoria di

Parsons, superandone la confusione tra modello analitico e realtà empirica,

conferma l'idea che nei processi di cambiamento sociale della modernità il trend

centrale è proprio la differenziazione sociale. A livello empirico i processi di

differenziazione sono storicamente specifici e l'individuazione in essi di tendenze

va intesa come schema idealtipico di orientamento. Spiegare lo sviluppo sociale

come differenziazione secondo un'ottica multidimensionale significa valorizzare le

azioni volte a realizzare gli ideali che danno senso alla società umana, tenendo conto

dei fattori esterni contrari a tali ideali. Nella modernità cambiamento sociale e

affermazione della modernità coincidono. La post-modernità segna una

discontinuità: il cambiamento sociale post-moderno è complesso, non è più diretta

espressione della modernità, può essere tematizzato adeguatamente solo da un

pensiero in grado di differenziarsi da se stesso e osservarsi dall'esterno.

315

Globalizzazione e differenziazione sociale attraversano, per così dire, e innovano il

concetto e le pratiche di solidarietà sociale: queste si presentano con una

complessità di interdipendenze non riducibile ad una valutazione di positività o

negatività per il soggetto individuale o per il soggetto sovraindividuale, ma che

rimanda analiticamente al costante relazionarsi e ridefinirsi dei fattori di scelta e di

ascnz1one.

Da un rapido esame dei principali sviluppi della filosofia politica contemporanea sui

temi della giustizia sociale e dell'uguaglianza (elementi centrali nel concetto e nelle

pratiche della cittadinanza moderna) - secondo diverse prospettive: utilitarismo,

liberalismo, neocontrattualismo, comunitarismo, marxismo, femminismo -

abbiamo ricavato alcuni spunti utili all'analisi sociologica e, in particolare ad alcuni

interrogativi: con quali modalità ed esiti le diverse teorie filosofico-politiche della

giustizia postulano una qualche uguaglianza - morale, politica, sociale - fra

soggetti? Può esservi - e se sì di che tipo - un fondamento filosofico alla

solidarietà sociale, orizzontale e verticale, intesa normativamente come valore? Il

dibattito tra liberalismo e comunitarismo si staglia abbastanza nettamente sullo

sfondo del panorama complessivo della filosofia politica contemporanea e, al di là

di toni che talvolta sono stati accesi, lascia intravedere più punti di convergenza di

quanto non sembri: la convinta accettazione del pluralismo delle società moderne, le

esigenze di integrazione sociale che un ordine politico non può ignorare, la

consolidata rilevanza dell'appartenenza nella cultura occidentale. Ferrara ha tratto

da questo dibattito l'idea di un universalismo esemplare e individuante del giudizio

316

riflettente in base al quale le questioni di giustizia vengono contestualizzate

all'interno di una comunità e delle sue condizioni storico-sociali, seguendo il

criterio dell'autenticità, che individua la soluzione attraverso la valorizzazione,

anche in termini innovativi, dell'identità concreta della comunità. La proposta di

Ferrara apre una prospettiva interessante, che però al momento non consente ancora

di tematizzare e risolvere i più rilevanti problemi sollevati all'interno dell'attuale

dibattito filosofico-politico: esso, per molti aspetti, rimane ancora interno alla

modernità e alle sue logiche, impedendosi di osservare dall'esterno il suo oggetto di

studio e le sue principali categorie. Se, tuttavia, si sta arrivando ad una condivisione

equilibrata del pluralismo e dell'autonomia del liberalismo e delle esigenze di

integrazione sociale e di appartenenza del comunitarismo si è già in qualche modo e

in qualche misura, a noi sembra, filosoficamente oltre il moderno. Non resterebbe

che prenderne atto e sviluppare di conseguenza l'elaborazione delle teorie

filosofico-politiche della giustizia e della cittadinanza.

La cittadinanza ha rappresentato un codice simbolico e normativo fondamentale per

l'integrazione delle società moderne, che sono state trasformate in profondità dai

processi sociali della modernità: sono state offerte nuove e significative opportunità

di crescita e di sviluppo agli individui e alle molteplici forme di interazione sociale,

come anche si sono prodotti esiti parziali, contraddittori, talvolta anche 'perversi'.

Lo sviluppo della cittadinanza moderna ha rappresentato lo sviluppo di una logica

ugualitaria, al tempo stesso incorporata e alternativa rispetto a quella dell'economia

di mercato. La cittadinanza occidentale ipotizza una relazione diretta tra individuo e

317

stato, sia nella versione liberale del concetto che in quella socialista: ciò ha condotto

ad eccessi di individualismo, il quale a sua volta ha determinato frammentazione

politica. La concettualizzazione della cittadinanza moderna è limitata dal fatto di

essere unidimensionalizzata sugli aspetti politici e pensata solo in chiave nazionale.

I nuclei teorici della cittadinanza - appartenenza e diritti - hanno avuto diversi

percorsi evolutivi fino alla loro attuale crisi: il primo elemento segna il passo per via

della crisi dell'idea moderna di stato-nazione e del processo di differenziazione e

riposizionamento reciproco tra politico e statuale. La crisi dei diritti nasce da due

fattori: i) l'universalismo astratto e procedurale oggi non riesce più a soddisfare

istanze sempre più numerose e 'pesanti', gestendo un complesso insieme di

differenze e pluralismi; ii) cresce il numero dei diritti che pongono domande non

assumibili nel quadro della cittadinanza nazionale e dei riferimenti sociali e

istituzionali di questa. In breve, nella post-modernità vi sono forme di appartenenza

estremamente differenziate e articolate, e non è detto che tutte le forme diverse

dall'appartenenza politica ad uno stato-nazione non abbiano niente a che fare con la

cittadinanza; come anche, non ci si può più limitare alla sola dimensione dei diritti

quale unica espressione della relazione tra stato e individui. Vi è comunque, nel

codice simbolico-normativo della cittadinanza moderna, una contraddizione

costitutiva, che risulta evidente ove si consideri che appartenenza fa riferimento ad

un vincolo tra individui, mentre diritti allude a liberazione degli individui da ogni

vincolo.

Passando in rassegna le teorie sulla cittadinanza, abbiamo ricavato numerosi spunti

per una loro valutazione critica a fronte delle istanze emergenti nell'attuale contesto

318

societario: multiculturalismo, crisi dei sistemi di welfare state, ridefinizione della

politica sociale, rapporto società civile-stato. L'analisi dei nodi strutturali della

modernità e della post-modernità si è rivelata - come si è visto - ineludibile e

bisognosa di un'analisi riflessiva, in grado, cioè, di osservare dall'esterno il proprio

oggetto. Si è anche resa evidente la necessità - allo scopo di pervenire ad una

nuova e più convincente definizione di cittadinanza, come anche dei concetti di

appartenenza e diritti - di una non confusa e non contraddittoria antropologia.

Con queste premesse, si rivela praticabile una definizione di cittadinanza come

relazione sociale, che tenga conto al tempo stesso dei processi di

generalizzazione/ globalizzazione e differenziazione/specificazione; una definizione

caratterizzata da sovra-funzionalità e da una forma reticolare, in grado di cogliere e

far cogliere la complessità del suo oggetto. Pensiero liberale e pensiero socialista, in

quanto entrambi di matrice illuministica, non riescono a risolvere le contraddizioni

tra universalismo (che dà luogo al pluralismo indifferenziato) e particolarismo (che

deriva dall'impronta individualistica moderna e che stimola la differenziazione

sociale).

La complessità oggi esistente nell'idea e nella pratica della cittadinanza deve

agganciarsi alla distinzione 'umano/non umano': se si concepisce l'umano in

termini progettuali, «cittadinanza diventa un titolo di appartenenza ad una comunità

che mobilita e vincola solo per aspetti specifici e limitati, quelli relativi al sistema di

riferimento (città, comune, nazione, comunità sovranazionale), mentre per il resto

lascia liberi i soggetti di agire le proprie appartenenze umane in altre sfere sociali». I

L'idea che ne scaturisce è quella di una cittadinanza societaria che rappresenta il

319

superamento di quella statalistica più tipica di una società industriale caratterizzata

da inclusione politica nello stato-nazione moderno. Tale prospettiva si inquadra

nell'attuale contesto societario, abbastanza diverso dalla società industriale

moderna, e indica una relazione sociale non riducibile alla sola dimensione politica

o a riferimenti filosofico-ideologici che mobilitano i cittadini in un sistema

monopolistico di inclusione, come lo stato nazionale.

Entrano in gioco le diverse 'autonomie sociali', un variegato e complesso insieme di

istituzioni verso le quali lo stato si pone al tempo stesso come garante e come

limitatore: esse si configurano come una 'eccedenza di socialità' sviluppata dalla

società contemporanea e che il codice simbolico-normativo della modernità non è in

grado di esprimere e gestire adeguatamente. La cittadinanza societaria può dunque

essere schematizzata come espressione di un universalismo plurale organizzato su

sottosistemi relaziona/mente differenziati (mercato, reti sociali e sistema

amministrativo pubblico).

Una concezione siffatta della cittadinanza richiama una ridefinizione del concetto di

società civile: non è sufficiente descriverla come ciò che residua rispetto allo stato e

al mercato, occorre invece porre attenzione ai processi di differenziazione sociale

dai quali sono scaturite nuove forme di relazione che fanno della società civile la

'sfera della solidarietà sociale universalizzante', 2 la sfera associativa distinta

analiticamente oltre che dalla sfera economica e da quella politica, anche da quelle

familiari, religiose, intellettuali: «ciascuna di queste sfere è cresciuta sulla base di un

proprio codice simbolico, con propri mezzi materiali e simbolici (specifici e

1PIERPAOLO DONATI, La cittadinanza societaria ... cit., p. 33. 2JEFFREY c. ALEXANDER, I paradossi ... cit., pp. 334-35.

320

generalizzati) di interscambio con le altre sfere, ha edificato le proprie istituzioni, ha

codificato i propri diritti e doveri (regolamentazioni)».3 La crisi della cittadinanza

contemporanea - sia negli ordinamenti giuridici che nella concettualizzazione

scientifica - è quindi dovuta al fatto che essa, in buona sostanza, è rimasta in

posizione arretrata rispetto agli esiti dei processi di differenziazione societaria,

continuando a contestualizzare le relazioni sociali in maniera riduttiva nell'asse

stato-mercato, riservando la titolarità dei diritti di cittadinanza ai soli individui ed

escludendone la sfera associativa e quella familiare.

La cittadinanza societaria va tematizzata anche in relazione alla democrazia: anche

di quest'ultima va ricostruita una nozione adeguata alla complessità post-moderna

che vada oltre la tendenza a ridurne la portata a metodo di governo o, ancora, a

codice procedurale puramente funzionale. La dimensione sociologicamente

normativa della democrazia - come si è visto - non può essere ignorata, poiché

per quanto si insista nell'indicare l'origine della produzione dei diritti negli

interessi, questi ultimi rimandano sempre a delle identità le quali, a loro volta, non

sono spiegabili a prescindere dalle appartenenze se non politiche almeno socio-

culturali. Non esiste una cittadinanza realmente neutrale o indifferente rispetto alle

culture, ma il codice simbolico moderno della democrazia e della cittadinanza non

ne prende atto.

Dall'analisi sociologica dei concetti di solidarietà sociale e di cittadinanza, come

anche dall'analisi delle teorie filosofico-politiche della giustizia, è sorta l'esigenza

di riesaminare il concetto di comunità tanto nelle dimensioni sociologiche quanto in

3PIERPAOLO DONATI, Introduzione generale. Le nuove frontiere della politica sociale ... cit., p. 9.

321

quelle filosofiche: dalla discussione delle pnme ci attendevamo spunti per

l'approfondimento delle trasformazioni del legame sociale e delle forme di

integrazione politica nella post-modernità della differenziazione societaria e della

globalizzazione, mentre ipotizzavamo che la riflessione sulle seconde ci potesse

consentire di comprendere e valutare meglio la capacità autoriflessiva del pensiero

post-moderno. Abbiamo potuto osservare che, sebbene sociologia e filosofia politica

tematizzino in maniera diversa il medesimo termine 'comunità', è evidente una certa

influenza reciproca, che viene rivelata dal fatto che alcune posizioni filosofico-

politiche liberali si oppongono alle teorie comunitariste sulla base di aspetti, ormai

peraltro superati, della concezione sociologica classica di comunità. In realtà, come

si è visto, i punti di contatto tra liberali e comunitaristi sono più numerosi di quanto

si creda o si voglia far credere. Il vero snodo teorico è il rapporto del pensiero -

tanto filosofico che sociologico - con la modernità, e in modo particolare tra la

concezione dell'individuo e la modernità: è il tema antropologico che appare

decisivo ai fini di una collocazione epistemologica che sia, come dicevamo

nell'ultimo capitolo, 'a cavallo' della modernità e che non sia pre-moderna, anti-

moderna o 'debolmente' post-moderna. Se - come afferma Ferrara rileggendo il

dibattito 'tra sordi', cioè tra liberali e comunitaristi - l'individuo non può essere

presupposto alle relazioni sociali, si è già oltre il moderno: si avrebbero così le

premesse per l'avvio di nuove prospettive di ricerca tanto in filosofia politica quanto

soprattutto in sociologia. -

La sociologia classica ha considerato la comunità una forma di sociabilità in declino

progressivo, lineare e simmetrico rispetto al consolidarsi delle relazioni societarie

322

moderne tipiche della società industriale. Gli sviluppi più recenti hanno focalizzato

gli intrecci relazionali, complessi e talvolta ambigui, fra Gemeinschaft e

Gesellschaft propri delle società a differenziazione societaria crescente della tarda

modernità. Martin Bulmer si è domandato se «è realistico scommettere sulla

comunità» ai fini di programmi per il benessere collettivo, e un quesito analogo

potrebbe essere applicato anche alle attese di rinvigorimento della democrazia e

della cittadinanza che da più parti vengono rivolte all'espressione comunità.

L'interrogativo non è di poco conto, se contestualizzato in una fase storica ad

elevata turbolenza, in cui anche le politiche volte a garantire l'esercizio dei diritti di

cittadinanza e l'inclusione sociale sono fortemente in discussione sotto ogni aspetto.

Depurando il concetto di comunità da ogni valenza mitica e onnicomprensiva

rispetto alle attese di soddisfacimento personalizzato e poco costoso dei bisogni di

care o di quelli di inclusione socio-politica, non si può che assumere una posizione

realista, in grado di tener conto dei vincoli e delle opportunità del ricorso alle

relazioni di comunità. Ciò, tuttavia, rinvia ad approcci coerenti: la community care

non è altro che un intervento sociale di rete il quale presuppone l'analisi sociologica

della società e delle forme di associazione secondo il paradigma della rete, e

quest'ultimo, a sua volta, necessita di una epistemologia relazionale affinché la

relazione sociale venga adeguatamente tematizzata come realtà sui generis a livello

presupposizionale. Anche in questo caso si torna, dunque, alla relazione sociale

come unità di analisi della sociologia, al di là di ogni forma di riduzionismo

all'individuo o all'ordine sociale, analogamente a quanto ci è sembrato di cogliere

323

attraverso il nostro itinerario di riflessione sulla solidarietà sociale e sulla

cittadinanza oltre il moderno.

Ridefinire relazionalmente solidarietà sociale e cittadinanza nelle società tardo-

moderne ad elevata differenziazione societaria ha delle ricadute immediate anche

nel campo della politica sociale. All'interno di tutte le sfere civili, con accenti

diversi, è possibile riscontrare processi di scomposizione/frammentazione, ma anche

di ricomposizione e di scambio: per quanto riguarda le relazioni riconducibili alla

sfera economica, ad esempio, è ormai un dato di fatto l'accettazione della

prevalenza in linea di principio del mercato, anche se in forme differenziate e

talvolta con criteri di regolazione combinati (si pensi al settore emergente

dell'economia no profit); nell'ambito delle relazioni che fanno capo alla sfera

politica, per altro verso, non è più in discussione la democrazia, ma semmai il suo

statuto epistemologico e le sue possibili declinazioni. È con buona probabilità

all'interno di questi processi, in ognuna delle sfere civili, che può essere condotta la

ricerca di tracce che attestino la consistenza e la base dei beni comuni come anche

degli indicatori, forse ancora non chiaramente esplicitati, dei doveri che vincolano

individui e forme associative di vario genere verso la collettività. Ad una politica

sociale avanzata e innovativa tali dimensioni non possono sfuggire, pena l'ulteriore

ripiegamento nell 'autoreferenzialità dei propri codici, sistemi ed apparati di

intervento.

324

Anche il rapporto tra politica sociale e multiculturalismo può essere riletto in

quest'ottica: se da un punto di vista filosofico-politico, come suggerisce M. W alzer,

è accettabile, nelle società occidentali contemporanee, un temperato ed equilibrato

'diritto di chiusura' in senso culturale oltre che politico, ai fini della definizione di

una politica sociale di gestione dei flussi di migranti dal Sud del mondo, il

contenuto e i contorni di tale diritto andrebbero esplicitati nelle premesse etiche e

tradotti in indirizzi politici e di politica sociale: la situazione attuale, con il suo 'non

detto' e i suoi molti aspetti impliciti e sottintesi mostra un'ampia serie di equivoci,

ambiguità, conflitti. La tematizzazione di tale 'diritto di chiusura' potrebbe

contenere, almeno in parte, lo scatenarsi nelle opinioni pubbliche di reazioni

emotive e ideologiche incontrollabili, creare l'opportunità di un approccio più

pacato e realistico e offrire maggiori possibilità di un consenso diffuso alla 'politica

del multiculturalismo'.

Indicare la community care come scelta strategica della politica sociale non può

comportare lo smantellamento o l'arretramento 'programmatico' dei servizi del

welfare: se così fosse, verrebbe a mancare il presupposto della rete fra diversi attori,

sarebbe un'ipotesi strumentale e ideologica. Gli studi compiuti sull'argomento

consentono, sulla base delle esperienze maturate in diversi paesi, di affermare il

contrario: la community care richiede un riposizionamento strategico dei servizi e

delle risorse (umane, finanziarie, tecnologiche ... ) del welfare, tale da garantire a

quest'ultimo capacità di mediazione nelle reti informali di aiuto, di monitoraggio e

325

valutazione (Donati direbbe: di osservazione, diagnosi, guida relazionale4). La

programmazione delle politiche sociali secondo l'approccio della community care ai

vari livelli - dal progetto alla gestione e alla valutazione - va profondamente

sburocratizzata, se si intende dare vita realmente ad un nuovo modello di welfare 'a

più voci', in linea cioè con la differenziazione societaria tra sfere civili e ali' interno

di ognuna di esse. Presupposto indispensabile di tale impostazione concettuale ed

operativa è la riformulazione del codice simbolico-normativo della cittadinanza,

prevedendone opportunamente l'estensione alle sfere associativa e familiare.

Un ultimo, breve cenno ci pare necessario dedicare al servizio sociale sia in quanto

specifico ambito scientifico-disciplinare che come area professionale e di intervento.

Il servizio sociale come processo di aiuto sempre di più percepisce

l'imprescindibilità della prevenzione come strategia di intervento nella quale si

inserisce la risoluzione dei problemi e dei disagi di persone, famiglie, gruppi. Sono

però consistenti le difficoltà e i limiti ad una piena assunzione di questo approccio,

sia per via delle attese della società e delle istituzioni nei confronti dell'assistente

sociale sia a causa dei tempi lunghi richiesti da un mutamento di cultura nella

professione. Un punto di forza è dato dal fatto che il servizio sociale ha già in sé un

importante elemento che riconduce alla ridefinizione della cittadinanza: esso, infatti,

ha come obiettivo fondamentale aiutare le persone ad aiutarsi, ad assumersi anche

doveri e responsabilità, flon solo a garantire la fruizione di diritti e prestazioni. Il

servizio sociale eviterà il rischio di una chiusura autoreferenziale nella misura in cui

tematizzerà - dal proprio specifico punto di vista disciplinare - e condurrà la

4PIERPAOLO DONATI, Teoria relazionale ... cit., pp. 463-73.

326

propria relazione con la 'società dei due terzi' in modo che quest'ultima si prenda

carico del 'terzo escluso' e dei suoi doveri verso di esso: è, questo, un 'compito' in

generale della politica sociale e, più limitatamente, del servizio sociale, che non può

ignorare, sottovalutare o non esplicitare adeguatamente questo requisito generale

'etico' che incide anche sul contenuto della professione e sulla professionalità degli

operatori. Ciò richiede al servizio sociale una capacità di autosservazione di se

stesso - teorie, metodologie, modelli di intervento, processi ed esiti - nella

propria relazione con la politica sociale, con i sistemi di we/fare, con la società

affinché anche da esso provenga o continui a provenire un contributo innovativo ad

una cittadinanza oltre il moderno.

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