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FACOLTÀ DI ECONOMIA DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO PUBBLICO DELLECONOMIA CURRICULUM AMMINISTRAZIONE PUBBLICA EUROPEA E COMPARATA XXV CICLO LA DISCIPLINA DEI RIFIUTI TRA NORMATIVA EUROPEA E NORMATIVE NAZIONALI. SPUNTI DI COMPARAZIONE TRA IL SISTEMA ITALIANO E IL SISTEMA INGLESE COORDINATORE CANDIDATO CHIAR.MO PROF. ROBERTO MICCÙ CHIARA FELIZIANI TUTOR CHIAR.MA PROF.SSA PAOLA CHIRULLI

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FACOLTÀ DI ECONOMIA

DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO PUBBLICO

DELL’ECONOMIA

CURRICULUM AMMINISTRAZIONE PUBBLICA EUROPEA E

COMPARATA XXV CICLO

LA DISCIPLINA DEI RIFIUTI

TRA NORMATIVA EUROPEA E NORMATIVE

NAZIONALI. SPUNTI DI COMPARAZIONE TRA IL

SISTEMA ITALIANO E IL SISTEMA INGLESE

COORDINATORE CANDIDATO

CHIAR.MO PROF. ROBERTO MICCÙ CHIARA FELIZIANI

TUTOR

CHIAR.MA PROF.SSA PAOLA CHIRULLI

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“La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni (…).

Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia di ieri aspettano il carro dello

spazzaturaio. (…) più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di

Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per fare posto alle nuove (…).

Dove portino ogni giorni il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori dalle città, certo; ma

ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano (…).

Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula (…) rinnovandosi ogni giorno la città

conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano

sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i giorni e anni e lustri”.

ITALO CALVINO, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972

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I

LA DISCIPLINA DEI RIFIUTI TRA NORMATIVA EUROPEA E NORMATIVE NAZIONALI.

SPUNTI DI COMPARAZIONE TRA IL SISTEMA ITALIANO E IL SISTEMA INGLESE

INDICE

INTRODUZIONE

IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI NELLO SPAZIO GIURIDICO

EUROPEO TRA AMBIENTE, MERCATO E BUONA AMMINISTRAZIONE

CAPITOLO I

TENDENZE EVOLUTIVE DELLA LEGISLAZIONE IN MATERIA DI RIFIUTI TRA DIRITTO

DELL’UNIONE EUROPEA E DIRITTO NAZIONALE. DALL’ASSENZA DELL’EUROPA

ALLA (QUASI) SCOMPARSA DELLO STATO

I.1 Premessa pag. 6

I.2 Le origini. Regolare i rifiuti per tutelare l’igiene urbana e l’ordine

pubblico pag. 9

I.3 L’avvento dell’Europa: i rifiuti tra mercato e ambiente nelle direttive

degli anni Settanta e nel c.d. decreto Ronchi pag. 12

I.4 Il Codice dell’ambiente (d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152) non ferma

“l’inquinamento normativo” pag. 21

I.5 La direttiva rifiuti 2008/98/Ce e la spinta dell’Europa verso

obiettivi di green economy pag. 30

I.6 Il decreto legislativo 3 dicembre 2010 n. 205: ultimo atto di una storia

ancora in fieri pag. 40

I.7 Verso un “diritto per principi” di matrice europea pag. 43

CAPITOLO II

L’ “EUROPEIZZAZIONE” DELLA NOZIONE DI RIFIUTO E DI QUELLE CONTIGUE DI

SOTTOPRODOTTO ED END OF WASTE

II.1 Non c’erano una volta i rifiuti pag. 50

II.2 L’istituto del rifiuto. Dal “tutto rifiuto” … pag. 54

II.3 … al (quasi) niente rifiuto pag. 65

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II

II.4 Sottoprodotto ed end of waste pag. 78

II.5 L’ “europeizzazione” della nozione di rifiuto pag. 88

CAPITOLO III

IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI IN ITALIA

III.1 Considerazioni preliminari pag. 92

III.2 Il servizio pubblico pag. 94

III.2.1 La prima stagione. Dalla municipalizzazione alla (ri)scoperta

del mercato pag. 97

III.2.2 La seconda stagione. Il servizio pubblico nella dimensione

europea pag. 114

III.3 L’incerta sorte dei servizi pubblici locali tra apertura al mercato

e ricorso all’in house providing: il caso dei rifiuti pag. 125

III.4 (segue) Dal referendum abrogativo del 2011 alla Legge 17

dicembre 2012 n. 221 pag. 145

III.5 Servizi pubblici (ancora) instabili pag. 162

CAPITOLO IV

IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI IN GRAN BRETAGNA

IV.1 Considerazioni preliminari pag. 165

IV.2 La disciplina giuridica dei rifiuti in Gran Bretagna pag.168

IV.3 La direttiva 2008/98/Ce e le “Waste (England and Wales)

Regulations 2011” pag. 181

IV.4 Il servizio pubblico in Gran Bretagna pag. 190

IV.5 Il servizio pubblico di gestione dei rifiuti. Modalità organizzative pag. 203

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III

CAPITOLO V

IL SERVIZIO PUBBLICO TRA UNIONE EUROPEA E STATI MEMBRI.

VERSO LA (RI)SCOPERTA DEI PRINCIPI DI ADEGUATEZZA, DIFFERENZIAZIONE E

AUTONOMIA

V.1 Premessa pag. 218

V.2 La dimensione ambientale del servizio pubblico di gestione

dei rifiuti urbani pag. 220

V.3 La dimensione organizzativa del servizio pubblico di gestione

dei rifiuti urbani pag. 226

V.4 Verso la (ri)scoperta dei principi di adeguatezza, differenziazione

e autonomia pag. 233

V.5 Riflessioni conclusive pag. 241

BIBLIOGRAFIA pag. 246

ELENCO SENTENZE CITATE pag. 275

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1

INTRODUZIONE

IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI NELLO SPAZIO

GIURIDICO EUROPEO TRA AMBIENTE, MERCATO E BUONA

AMMINISTRAZIONE

Le continue novità legislative, unitamente ai fermenti giurisprudenziali e, non ultimo,

alla risonanza del dibattito pubblico mostrano la spiccata attualità che il tema dei

servizi pubblici, anche e soprattutto locali, reca ancora oggi nello spazio giuridico

nazionale ed europeo.

A distanza di molti anni dai primi fondamentali contributi dottrinari1, infatti, la

materia de qua continua a connotarsi per uno straordinario dinamismo, ancorché il

fuoco della discussione si sia spostato dalla nozione ad altri profili del servizio

pubblico, tra cui l’organizzazione e le forme di gestione, nonché gli obblighi

connessi alla tutela dell’ambiente che pure sovente si legano a taluni servizi, quale ad

esempio quello di gestione dei rifiuti.

Ad ampliare gli orizzonti ha certamente contribuito, non solo l’accresciuta

complessità della realtà giuridica e del tessuto sociale, ma anche l’(odierna) Unione

europea. Questa, infatti, nel suo progressivo sviluppo è andata sempre più

sovrapponendosi agli Stati membri, dettando discipline tanto puntuali da finire per

condizionare pervasivamente, e sotto molteplici punti di vista, le politiche dagli stessi

intraprese2.

1 V. E. ORLANDO, Prefazione, in ID., Primo Trattato completo di diritto amministrativo, Milano, 1897;

S. ROMANO, Principii del diritto amministrativo, III ed., Giuffrè, Milano, 1912; A. DE VALLES, I

servizi pubblici, in V. E. ORLANDO (a cura di), Primo Trattato completo di diritto amministrativo, cit.. 2 In tal senso, A. ROMANO, Amministrazione, legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. Amm., 1999, 1,

130; nonché ID., La concessione di pubblico servizio, in G. PERICU – A. ROMANO – V. SPAGNUOLO

VIGORITA, La concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995. Inoltre, si veda anche L. DE

LUCIA, Amministrazione transnazionale e ordinamento europeo. Saggio sul pluralismo

amministrativo, Giappichelli, Torino, 2009, il quale sottolinea come “la natura integrata

dell’ordinamento europeo comport[i] una generalizzata necessità di collaborazione tra organi

governativi, giurisdizionali e amministrativi. Collaborazione che, finalizzata al raggiungimento degli

obiettivi stabiliti dal diritto comunitario, è disciplinata, in modo differenziato, per i titolari delle varie

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Per ciò che concerne i servizi pubblici di rilevanza economica, specie se a

“connotazione ambientale”, come quello di gestione dei rifiuti urbani, detta influenza

può apprezzarsi da una duplice prospettiva: ambientale ed organizzativa. Dal primo

punto di vista, è possibile rilevare come da alcuni anni a questa parte l’Unione

europea abbia virato in maniera decisa verso obiettivi di sviluppo sostenibile legati

alla c.d. green economy. Il che, con precipuo riguardo ai servizi pubblici a rete, ha

fatto sì che le istituzioni abbiano fissato obblighi e standard piuttosto elevati di

sostenibilità, finendo per catalizzare una progressiva trasformazione in chiave

ambientale dei servizi in argomento e, di conseguenza, per imporre agli Stati membri

un costante sforzo di adeguamento. Parimenti, una significativa influenza si è avuta

poi dal punto di vista organizzativo – gestionale, nella misura in cui il servizio

pubblico - quale anello di congiunzione tra il diritto e la scienza economica – a

partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso è stato (ri)considerato

dall’allora Comunità come un ulteriore ed imprescindibile tassello nella costruzione

del mercato unico e, per l’effetto, è stato interessato da significative politiche di

liberalizzazione, volte a scardinare i sistemi monopolistici (ove esistenti) e ad aprire

il settore alla concorrenza.

Come poco sopra anticipato, entrambe queste prospettive sono ben compendiate nel

servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani, a cui il presente studio è dedicato.

L’intento è quello di indagare, in chiave comparata, la reale portata delle

trasformazioni che il diritto europeo ha determinato a livello nazionale per ciò che

concerne entrambi gli aspetti – quello ambientale e quello organizzativo – del

servizio in argomento.

funzioni pubbliche (…)”. E come “a questa struttura costituzionale corrispond[a] il progressivo

emergere di un’unione amministrativa europea”.

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In virtù di detto obiettivo, e per quanto concerne il primo dei su menzionati profili, lo

studio muoverà dalla ricostruzione della disciplina giuridica nazionale dei rifiuti. Nel

fare ciò, si metterà in luce come risalga a tempi recenti una legislazione che -

abbandonati i meri obiettivi di ordine pubblico e igiene urbana - regoli la materia

ispirandosi a finalità di tutela prettamente ambientale e come la stessa sia

ampiamente tributaria del diritto europeo e della giurisprudenza della Corte di

Giustizia. Il che, per vero, se da un lato non è bastato a garantire alla legislazione

nazionale un elevato livello di organicità; dall’altro lato, ha portato all’emersione,

prima, e alla affermazione, poi, di una serie di principi - quali ad esempio quelli di

prevenzione e di sviluppo sostenibile - capaci di favorire un’ideale reductio ad unum

delle prescrizioni in materia di rifiuti.

Il ruolo determinante dei giudici di Lussemburgo, inoltre, verrà ampiamente

evidenziato anche nel capitolo secondo, deputato alla ricostruzione della nozione di

“rifiuto”. Qui, infatti, lo studio sarà incentrato prevalentemente sull’analisi della

giurisprudenza europea che negli anni ha fatto applicazione delle c.d. direttive rifiuti

al fine di tracciare le linee evolutive lungo cui hanno preso forma e sostanza il

concetto di rifiuto e quelli ad esso contigui di sottoprodotto ed end of waste. In

particolare, si vedrà come la progressiva transizione da un approccio di governance

eminentemente regolatorio ad uno di tipo preventivo si sia accompagnata al

passaggio da un’interpretazione molto lata del concetto di rifiuto, all’idea per cui la

latitudine di quest’ ultimo possa (e, anzi, ove possibile debba) essere erosa dai vicini

sottoinsiemi dei sottoprodotti e dell’end of waste3.

Ricostruiti, nei primi due capitoli, il sistema delle fonti normative e le nozioni

fondamentali della materia de qua, potranno dirsi gettate le basi per affrontare lo

3 In tal senso, per tutti, F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a

cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011.

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studio della gestione dei rifiuti urbani, quale esempio di servizio pubblico locale. In

altri termini si muoverà dall’analisi del piano ambientale alla disamina di quello più

strettamente regolatorio, dando conto dei moduli organizzativi in uso ai fini

dell’espletamento di tale servizio, alla luce soprattutto delle recenti evoluzioni

legislative e giurisprudenziali. Prima di affrontare i profili di maggiore attualità,

tuttavia, lo studio avrà cura di ricostruire i termini del dibattito dottrinario

sviluppatosi intorno alla nozione di servizio pubblico, nonché – in un secondo

momento - di mettere in luce le trasformazioni che il diritto europeo ha catalizzato in

relazione all’istituto de quo a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso.

Proprio l’analisi di tale ultimo aspetto, infatti, si rivelerà funzionale ad una

riflessione circa l’attuale mutevolezza delle regole e le sue possibili cause.

Orbene, una volta esaminati tanto il profilo ambientale quanto quello organizzativo

del servizio pubblico di gestione dei rifiuti a livello nazionale, si darà spazio alla

comparazione, analizzando – nel capitolo quarto - come detto servizio viene

disciplinato e svolto in Gran Bretagna. L’obiettivo, dunque, è quello di verificare

come tale Paese abbia risposto alle istanze avanzate dall’Europa per ciò che concerne

entrambi i sopra menzionati profili del servizio in argomento.

Infine, da ultimo, si cercherà di ricondurre a sistema le suggestioni emerse nel corso

dell’intera trattazione, specialmente focalizzando l’attenzione sulle analogie e sulle

differenze che intercorrono tra Italia e Gran Bretagna nella materia in questione.

Inoltre, i molti richiami all’Unione europea, unitamente al parallelo tra i due Paesi, si

riveleranno altresì funzionali ad esplorare il tema più generale della reale autonomia

che residua in capo agli Stati Membri nel disciplinare taluni istituti, quale quello dei

servizi pubblici, appunto. D’altra parte, i reiterati (e – come dimostra l’esempio

italiano - sovente controversi) interventi legislativi che da alcuni anni a questa parte

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hanno interessato la materia de qua al proclamato scopo di adeguare la legislazione

nazionale al diritto europeo, di contro all’esigenza di assicurare servizi pubblici

efficienti e qualitativamente apprezzabili mettono in luce come questi ultimi si

trovino oggi al centro di un’ideale tensione tra istanze contrapposte4. Da un lato,

l’auspicio di una sempre maggiore uniformità normativa; dall’altro, la necessità –

diffusa un po’ in tutta Europa - di garantire un’amministrazione responsabile e

servizi adeguati alle realtà territoriali cui gli stessi sono rivolti, in ossequio ai principi

di differenziazione ed adeguatezza5.

La composizione di tale tensione è con ogni probabilità la sfida maggiore che attende

i servizi pubblici di qui ai prossimi tempi. La stessa, infatti, implica - tra le altre cose

– il bisogno di coniugare le ragioni della concorrenza con quelle della buona

amministrazione, nonché l’opportunità di fare luce sul ruolo spettante alle autonomie

locali nella gestione dei servizi in argomento6. Un ruolo oggi messo (ulteriormente)

in discussione dalla crisi economica che sta interessando in varia misura l’Europa

intera e che ha imposto l’adozione a livello nazionale di politiche di riordino della

spesa pubblica7, le quali in taluni casi sono andate proprio ad incidere sullo spazio

riservato alle autonomie locali nei diversi contesti nazionali.

4 E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, in Dig. disc. pubbl., aggiornamento, Roma, 2012.

5 A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza fra diritto comunitario e modelli

nazionali, in G. FALCON (a cura di), Il diritto amministrativo dei Paesi europei tra omogeneizzazione

e diversità culturali, Cedam, Padova, 2005. Nonché, più di recente, G. PIPERATA, I servizi pubblici

locali, in L. VANDELLI – F. BASSANINI, Il federalismo alla prova: regole, politiche, diritti nelle

Regioni, Il Mulino, Bologna, 2012, 281 e specialmente pagg.284 e ss.. 6 Sul punto, si vedano ad esempio le osservazioni di F. DE LEONARDIS, Prefazione a E. MICHETTI, In

house providing. Modalità, requisiti e limiti. Evoluzione legislativa e giurisprudenziale interna ed

europea anche alla luce del referendum del 12 – 13 giugno 2011, Giuffrè, Milano, 2011; nonché,

prima ancora, l’analisi di L. DE LUCIA, Le funzioni di Province e Comuni nella Costituzione, in Riv.

trim. dir. pubbl., 2005, 1, 23. 7 Al riguardo cfr, inter alia, G. BUCCI, La Banca centrale e il potere economico - monetario, in F.

ANGELINI – M. BENVENUTI (a cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica. Atti

del convegno di Roma, 26 – 27 aprile 2012, Jovene, Napoli, 2012; G. MONTEDORO, Mercato e potere

amministrativo, Ed. Sc., Napoli, 2010, pp. 347 e ss.; R. PEREZ, Autonomia finanziaria degli enti locali

e disciplina costituzionale, in AA. VV., Studi in onore di Alberto Romano, vol. III, Ed. Sc., 2011,

2233.

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CAPITOLO I

TENDENZE EVOLUTIVE DELLA LEGISLAZIONE IN MATERIA DI RIFIUTI

TRA DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E DIRITTO NAZIONALE.

DALL’ASSENZA DELL’EUROPA ALLA (QUASI) SCOMPARSA DELLO STATO

I.1 PREMESSA

Lo studio dei rifiuti quale species del diritto ambientale, a sua volta branca del diritto

amministrativo, esige una premessa di metodo tesa a mettere in luce come la loro

disciplina giuridica, nonché - ed ancor prima - la stessa nozione, siano l’approdo di

quel “cammino che conduce alla realtà non solo scoprendola, ma addirittura

creandola” 1.

Tutto il diritto ambientale, infatti, “si atteggia fondamentalmente (…) come diritto di

formazione giurisprudenziale: in esso il diritto scritto tende generalmente a venire

dopo, quasi come cristallizzazione di ciò che di volta in volta la giurisprudenza è

andata elaborando”2.

E’ nell’origine eminentemente pretoria dell’istituto de quo, pertanto, che trovano

spiegazione sia il vorticoso mutare della legislazione in tema di rifiuti sia il carattere

animato dei dibattiti che da tempo immemore aleggiano sui coni d’ombra della

materia. Al riguardo, basti porre mente al fatto che, sino ad un recente passato, si è

discusso persino della stessa possibilità di collocare il “settore dei rifiuti nel sistema

1 S. ROMANO, Mitologia giuridica, in Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano, 1947.

2 F. DE LEONARDIS, Trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, in G. ROSSI (a cura di),

Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. L’A. ricorda, infatti, come non sia un caso che

“praticamente tutte le trattazioni di diritto ambientale abbiano inizio non tanto richiamando una o più

norme scritte, ma il famoso caso giurisprudenziale della Fonderia di Trail (cfr. America Journal of

International Law, 1941).

Ex multis, sottolineano il carattere giurisprudenziale del diritto ambientale B. CARAVITA DI TORITTO,

Diritto dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, III ed., 2005; P. DELL’ANNO, Manuale di diritto

ambientale, Cedam, Padova, 2003; F. FONDERICO, La tutela dell’ambiente, in S. CASSESE (a cura di),

Trattato di diritto amministrativo, Parte speciale, vol. II, Giuffrè, Milano, 2003, dove l’autore accorda

alla giurisprudenza “un ruolo di supplenza”.

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del diritto ambientale”3. Secondo parte della giurisprudenza

4, infatti, la normativa

relativa ai rifiuti altro non era che “un cerchio più ampio di tutela, una sorta di legge

quadro applicabile ad ogni produzione di rifiuti ed alla loro [indistinta] immissione

nell’ambiente” complessivamente inteso. Per converso, alle discipline settoriali,

caratterizzate, ad esempio, dalla riferibilità a singole fattispecie di rifiuti, doveva

riconoscersi natura speciale e derogatoria, “con la conseguenza dell’applicabilità

della normativa sui rifiuti (e dei suoi principi ispiratori) ad ogni fattispecie non

espressamente sottratta ad essa da norme speciali”5 . Tale ricostruzione, tuttavia, non

è stata condivisa dal Giudice delle Leggi, che in più occasioni ha affermato come la

teoria dei “cerchi concentrici di tutela” fosse priva di qualsivoglia fondamento6,

ritenendo – per converso – valevole l’opposto principio della specialità della

normativa sui rifiuti rispetto alle altre prescrizioni in tema di ambiente.

Ciò posto, non può sottacersi neppure come l’attenzione del mondo giuridico per i

rifiuti sia nata da impellenze concrete che nulla o poco avevano a che fare con

l’interesse per la protezione e la tutela dell’ambiente in quanto tale7. In origine,

infatti – vale a dire, quando il settore de quo era appannaggio esclusivo dello Stato -

sono state pestilenze, epidemie e, più in generale, motivi di ordine sanitario a destare

3 P. DELL’ANNO, (voce) Rifiuti, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Giuffrè,

Milano, 2006. 4 C. Cass. pen., S.U., 27 settembre 1995 n. 12310. In dottrina cfr. G. AMENDOLA, Gestione dei rifiuti e

normativa penale, Milano, Giuffrè, 2000. Contra, F. FRACCHIA, I procedimenti amministrativi in

materia ambientale, in A. CORSETTI - R. FERRARA - N. OLIVETTI RASON, Diritto dell’ambiente,

Laterza, Bari, II. ed., 2002. 5 P. DELL’ANNO, (voce) Rifiuti, cit..

6 Cfr., ad ex., C. Cost. ord. 23 giugno 1999 n. 267; C. Cost. 30 marzo 2001 n. 86; C. Cost. 17 maggio

2001 n. 150. 7 B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente, cit.; ma anche P. DELL’ANNO, (voce) Rifiuti, cit., il

quale evidenzia come “la normativa nazionale in materia di rifiuti ha registrato un’evoluzione da

oggetto di rilievo igienico-sanitario a disciplina dotata di autonomia tanto dei principi sostanziali

quanto degli strumenti giuridici impiegati”; e A. MONTAGNA, (voce) Rifiuti (gestione dei), in Enc.

giur. Treccani, 2003, il quale ricorda che “le uniche norme contenenti la valutazione dell’interesse

ambientale [si rinvengono] in alcune disposizioni degli anni ’30, così come era avvenuto nell’altro

settore ambientale della tutela delle acque, in particolare gli artt. 217 e 218 del testo unico delle leggi

sanitarie (r.d. 27 luglio 1934 n. 1265) che prevedevano il divieto di inquinamento del suolo”.

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l’interesse dei poteri pubblici nei confronti dei rifiuti, così come del resto è avvenuto

per molti settori del diritto ambientale8.

Alla luce di simili dati fattuali, pertanto, deve constatarsi come “dal punto di vista

istituzionale e normativo, la materia dei rifiuti [abbia] conosciuto una rapida

evoluzione nel corso degli ultimi trent’anni”9, catalizzata soprattutto dal diritto

europeo e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Conseguentemente, la

disamina del sistema delle fonti che informano il diritto dei rifiuti deve

necessariamente tenere conto delle prescrizioni provenienti dalle istituzioni europee,

atteso che l’influenza di queste ultime si è rivelata così pervasiva da determinare

profondamente l’assetto dell’intero sistema di gestione dei rifiuti, nonché la nozione

stessa dell’istituto in esame10

.

L’analisi che segue, pertanto, non può che prendere le mosse dalla ricostruzione,

anche in chiave storica, delle fonti normative riferibili alla materia de qua, per poi

giungere (nel capitolo seguente) alla enucleazione della definizione di rifiuto e di

8 Si pensi, ad esempio, all’epidemia di colera che nel 1854 si diffuse nel quartiere londinese di St.

James (cfr. P. HARREMONES & OTH., The precautionary principle in the 20th Century. Late lessons

form early warning, London, Earthscan, 2002). Le autorità sanitarie non sapevano come arginare gli

effetti nefasti dell’emergenza, anche a causa delle scarse conoscenze scientifiche del tempo.

Certamente non potevano immaginare che, come preconizzato dal dottor Jhon Snow, la causa del

colera fosse da ricercare nell’acqua. Il medico, infatti, osservando la realtà, immaginò come la

malattia potesse dipendere da un batterio presente nell’acqua sgorgante da una certa fontana. Ed

effettivamente, una volta posto il divieto di abbeverarsi presso tale fonte, l’epidemia conobbe una fase

recessiva sino alla sua totale scomparsa. In quel caso, dunque, era l’inquinamento delle acque, aspetto

sino a quel momento ignorato dalle autorità pubbliche, ad aver originato il diffondersi del colera.

Infatti, come ricorda F. DE LEONARDIS, Tra precauzione e ragionevolezza, in www.federalismi.it,

2006 “trent’anni dopo, nel 1884, lo studioso Koch dimostrò che effettivamente il colera si diffonde

non per via aerea, come fino ad allora si era creduto, ma attraverso un vibrione contenuto nell’acqua.

Si accertò, quindi, che l’intuizione del dottor Snow era corretta”. 9 B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente, cit.. Analogamente, L. KRAMER, EU environmental

law, Sweet & Maxwell, London, 2011. 10

In tal senso, tra gli altri, J. FLUCK , The term “waste” in EU law, [1994] EELR 79; nonché C.

VERDURE, The europeanization of the definition of waste, paper presentato in occasione del convegno

“Globalization and europeanization of environmental law and policy”, Copenaghen 22-23 marzo

2010.

Inoltre, a titolo meramente esemplificativo, e salvo quanto meglio specificato infra, basti osservare

come l’ultimo intervento in ordine di tempo del legislatore italiano in tema di rifiuti, ossia il d. lgs. 3

dicembre 2010 n. 205 sia stato adottato al fine di recepire la direttiva 98/2008/CE del Parlamento

europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti.

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quelle contigue di sottoprodotto ed end of waste, attorno alle quali il legislatore ha

costruito la disciplina della gestione.

I.2 LE ORIGINI. REGOLARE I RIFIUTI PER TUTELARE L’IGIENE URBANA E L’ORDINE

PUBBLICO

Si è già anticipato come, sino ad un recente passato – ossia fin quando i rifiuti, specie

nella loro dimensione ambientale, rappresentavano una questione tutta interna agli

ordinamenti nazionali - la materia in esame fosse priva di un corpus normativo di

riferimento recante i caratteri dell’organicità e della completezza.

Ed, in effetti, la prima legge nazionale in tema di rifiuti11

, ossia “la L. n. 366 del

1941, che pure era una legge moderna per l’epoca in cui fu emanata e già

individuava i fondamentali interessi pubblici presenti nella materia (…), era tuttavia

limitata alla tematica dei rifiuti urbani, e non aveva avuto, per alcuni punti essenziali,

concreta attuazione. [Viceversa], la disciplina della materia, soprattutto per quanto

riguarda i rifiuti diversi da quelli urbani, restava affidata agli strumenti normativi

secondari e amministrativi previsti per la tutela dell’igiene pubblica a livello

locale”12

.

Emblematico in tal senso è l’art. 1, comma primo, di tale legge a mente del quale “la

raccolta, il trasporto e lo smaltimento (utilizzazione o dispersione distruzione) dei

rifiuti urbani assumono, nei riflessi dell’igiene, dell’economia e del decoro, carattere

di interesse pubblico”.

11

A. MONTAGNA, (voce) Rifiuti (gestione dei), cit., il quale scrive: “la prima fonte normativa per la

gestione dei rifiuti risale ad epoca antecedente alla nascita della Repubblica e si individua nella legge

20 marzo 1941 n. 366, avente ad oggetto la “Raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi

urbani”, che, come si evince dalla rubrica, limitava il proprio ambito di applicazione ai rifiuti di

origine urbana, interessandosi dell’aspetto economico della gestione dei rifiuti e non di quello di

protezione dell’ambiente”. 12

Così B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente, cit.; nonché V. ONIDA, I rifiuti solidi: profili

istituzionali e normativi, in AA.VV., Rischio rifiuti, Legnano, 1988.

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10

La ratio di simile formulazione si comprende agevolmente ponendo mente al periodo

storico in cui la legge è stata promulgata. Come osservato dalla dottrina, infatti, al

tempo “la gestione dei rifiuti era funzionale, ancor prima che alla tutela

dell’ambientale, ai profili dell’igiene e della salute pubblica: per ciò stesso essa

prendeva in considerazione i rifiuti prodotti nelle città, con esclusione dei rifiuti che,

nelle campagne, venivano invece trattati direttamente dagli abitanti delle

medesime”13

.

Di conseguenza, non deve stupire il fatto che in più punti della legge emerga

palesemente la preoccupazione del legislatore per la salvaguardia dell’igiene, al fine

essenzialmente di preservare la Nazione da emergenze sanitarie suscettibili di

destabilizzare l’ordine pubblico. Ciò si evince, ad esempio, dalla lettura dell’art. 14

della L. n. 366 del 1941, il quale dispone testualmente che “nello svolgimento di tutti

i servizi contemplati dalla presente legge, devono essere sempre salvaguardati nel

miglior modo l’igiene e il decoro, anche per quanto si riferisce alle condizioni di

lavoro del personale ad essi addetto (…) nei servizi stessi dovranno, inoltre, essere

sempre rispettate le norme vigenti per impedire la moltiplicazione e la

disseminazione delle mosche”.

13

In questo senso G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, in M. P. CHITI - G. GRECO (a cura di),

Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffrè, Milano, 2007.

Ex multis, si tenga presente che ancora intorno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso illustre

dottrina (cfr. M. S. GIANNINI, Ambiente: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici, in Riv. trim dir

pubbl., 1973, 1, 15) leggeva l’ambiente come un “coacervo” di interessi, tra cui in primis quello del

mantenimento dell’igiene urbana. L’A., infatti, scriveva: “nella normativa sull’igiene del suolo, sugli

inquinamenti atmosferici, sulla pulizia delle acque, l’ambiente non è una zona di territorio, ma quelle

località, del territorio, ma anche del mare libero, ove si manifesta un’azione aggressiva dell’uomo

(…). Infine l’elemento caratterizzante è dato dall’azione potenzialmente o attualmente aggressiva

dell’uomo che rende aggressivo un qualche elemento nei confronti dell’uomo: è l’ambiente aggredito

che reagisce aggressivamente (…). Oggi si ritiene eticamente riprovevole aggredire l’ambiente se e in

quanto lo si renda aggressivo; se l’azione umana non producesse questo evento dannoso per le

collettività, l’aggressione dell’ambiente potrebbe provocare rimpianti, o altri fatti emozionali, ma non

interesserebbe la normazione giuridica”.

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11

Parimenti, anche la disciplina delle modalità di gestione dei rifiuti urbani, affidata ai

Comuni14

, denota ictu oculi come al tempo l’interesse primario da tutelare fosse

individuato nella salute pubblica. Gli artt. 15 e ss. della legge in commento, infatti,

contengono disposizioni volte chiaramente alla salvaguardia dell’igiene nei centri

abitati. Innanzitutto, si afferma che “i rifiuti interni dei centri di popolazione

agglomerata devono essere raccolti e conservati, fino al momento del trasporto, in

modo da evitare qualsiasi dispersione” ed inoltre “nel caso che a tale fine vengano

adoperati recipienti portatili, questi debbono essere muniti di coperchio a chiusura

ermetica”15

. Non solo, ai sensi dell’art. 17 della medesima legge risultano vietati “il

gettito dei rifiuti ed il temporaneo deposito di essi nelle pubbliche vie e piazze, nei

pubblici mercati coperti e scoperti, e nei terreni pubblici e privati”, mentre a norma

del successivo art. 18 si prescrive che “l'asportazione di tutti i rifiuti esterni ed interni

deve essere effettuata giornalmente”.

Da quanto detto, dunque, è agevole desumere luci ed ombre della L. n. 366 del 1941.

Si evince, infatti, come la disciplina ivi contenuta, benché per certi versi moderna,

fosse tuttavia solo parziale. In altri termini, se non può non apprezzarsi la circostanza

14

Dal punto di vista dell’organizzazione relativa alla gestione dei rifiuti urbani, e salvo quanto si dirà

più diffusamente infra, occorre dar conto del fatto che la L. n. 366 del 1941 individuava una

competenza a livello centrale in capo al Ministero dell’interno. Ai sensi dell’art. 2 della citata legge si

legge, infatti, che “il Ministero dell'interno ha l'alta vigilanza ed il controllo sull'andamento dei servizi

contemplati dalla presente legge nonché di tutti gli altri che, nella materia, hanno carattere

complementare ed accessorio”. A tal fine, dunque, - prosegue l’art. 3 - è istituito, come ripartizione

organica del Ministero dell'interno, un "ufficio centrale per i rifiuti solidi urbani" ed, inoltre, presso il

medesimo Ministero è istituita altresì “la commissione centrale per i rifiuti solidi urbani alla quale

sono conferite le attribuzioni previste dalla presente legge”.

A mente dell’art. 9, invece, la legge prevedeva che “i servizi inerenti alla raccolta, al trasporto ed allo

smaltimento dei rifiuti solidi urbani competono ai comuni, i quali sono tenuti a provvedervi con diritto

di privativa, ai sensi del testo unico approvato con R. decreto 15 ottobre 1925-III, n. 2578, o

direttamente o mediante concessione. [Tuttavia] su proposta del podestà il prefetto può, con suo

decreto, riconoscere, per ogni comune, zone con popolazione non agglomerata, nelle quali il trasporto

dei rifiuti solidi urbani può essere accordato ai singoli privati con speciale autorizzazione del podestà

e sotto l'adempimento delle condizioni indispensabili perché la raccolta, il trasporto e lo smaltimento

dei rifiuti stessi si svolgano in armonia ai principi stabiliti dalla presente legge”. 15

Art. 15 L. n. 366 del 1941 che, sotto la rubrica “della conservazione temporanea e della raccolta dei

rifiuti urbani”, apre il Titolo II della Legge in commento.

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12

che il legislatore avesse preconizzato aspetti cruciali della materia dei rifiuti, qual è

ad esempio la suddivisione in fasi della gestione degli stessi, si deve tuttavia

convenire che la legge in commento costituiva una forma “embrionale” di disciplina

dei rifiuti medesimi.

In primo luogo perché la ratio che ispirava il legislatore del 1941 era finalisticamente

molto distante da quella che connota i più recenti interventi normativi16

. Infatti, come

anticipato, lungi dal voler tutelare l’ambiente e preservare l’ecosistema

dall’inquinamento derivante dall’incontrollata produzione di rifiuti, scopo primario

della L. n. 366 del 1941 era porre al riparo la Nazione dall’insorgenza di malattie ed

epidemie, suscettibili di ripercuotersi con effetti nefasti sul decoro e l’ordine

pubblico. Inoltre, a riprova della scarsa attenzione nei confronti del “bene –

ambiente” , la normativa si occupava della gestione dei soli rifiuti urbani, mostrando

noncuranza per le modalità con cui venivano smaltiti i rifiuti nelle zone diverse dai

centri abitati, che quindi ben avrebbero potuto essere gettati nei fiumi o seppelliti

sotto cumuli di terra, trasformandosi così in fonte di inquinamento per le acque ed il

suolo.

I.3 L’AVVENTO DELL’EUROPA: I RIFIUTI TRA MERCATO E AMBIENTE NELLE

DIRETTIVE DEGLI ANNI SETTANTA E NEL C.D. DECRETO RONCHI

Il descritto stato di (sostanziale) vuoto normativo si è protratto molto oltre la fine del

secondo conflitto mondiale, essenzialmente fino a quando il legislatore italiano si è

16

A titolo esemplificativo si osservi l’art. 177 del d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (c.d. Codice

dell’ambiente) come da ultimo modificato per effetto del d. lgs. 3 dicembre 2010 n. 205. La

disposizione, che apre la Parte IV del Codice dedicata ai rifiuti, al primo comma stabilisce in modo

programmatico che “la parte quarta del presente decreto disciplina la gestione dei rifiuti e la bonifica

dei siti inquinati, anche in attuazione delle direttive comunitarie, in particolare della direttiva

2008/98/Ce, prevedendo misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana, prevenendo o

riducendo gli impatti negativi della produzione e gestione dei rifiuti, riducendo gli impatti complessivi

dell’uso delle risorse e migliorandone l’efficacia”.

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13

trovato nella condizione di dover recepire i dettami impartiti a livello europeo dalle

istituzioni comunitarie.

Si collocano sul finire degli anni Settanta, infatti, le prime direttive in tema di

rifiuti17

, in attuazione delle quali è stato adottato il d.P.R. 10 settembre 1982 n. 91518

,

oggi abrogato. Tale decreto “attuava puntualmente le prime norme di disciplina dei

rifiuti emanate in sede comunitaria, con riferimento alle singole misure demandate

agli Stati membri”19

, ponendo “al centro della disciplina i principi generali

concernenti lo smaltimento e la classificazione dei rifiuti”20

ed affrontando, “per la

prima volta, il tema della ripartizione delle competenze nazionali in materia di rifiuti

tra i diversi livelli istituzionali di governo”21

.

Dunque, nonostante al tempo la Comunità economica europea non avesse ancora una

puntuale competenza in materia di ambiente22

, questi primi interventi normativi

17

Segnatamente si tratta della direttiva 75/439/Cee del Consiglio del 16 giugno 1975

sull’eliminazione degli oli usati; della direttiva 75/442/Cee del Consiglio del 15 luglio 1975 relativa ai

rifiuti; della direttiva 76/403/Cee del Consiglio del 6 aprile 1976 concernente lo smaltimento dei

policrorodifenili e dei policlorotrifenili; e della direttiva 78/319/Cee del Consiglio del 20 marzo 1978

relativa ai rifiuti tossici e nocivi. In dottrina cfr., inter alia, F. CAPELLI, Portata ed efficacia delle

direttive Cee in materia di rifiuti, in Riv. giur. amb., 1987, 1, 33. 18

Decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915 (in Gazz. Uff., 15 dicembre, n.

343). - Attuazione delle direttive (Cee) numero 75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo

smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e numero 78/319 relativa ai rifiuti tossici e

nocivi. 19

G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit.. 20

C. CORRERA, Smaltimento dei rifiuti solidi urbani e dei rifiuti tossici e nocivi: analisi del d.p.r. n.

915 del 1982, Milano, 1992; F. GIAMPIETRO - P. GIAMPIETRO, Lo smaltimento dei rifiuti: commento al

d.p.r. n. 915/1982, Rimini, 1987; S. VINCIGUERRA, Problemi generali dello smaltimento dei rifiuti

dopo l’attuazione delle direttive comunitarie, in Rass. giur. en. elettr., 1987, 3, 637. 21

Segnatamente, a norma dell’art. 4 d.P.R. n. 915/1982, allo Stato erano riconosciute funzioni

generali di carattere amministrativo; alle Regioni ex art. 6 la “politica di piano” per la gestione dei

rifiuti; infine, agli Enti locali, stando agli artt. 7 e 8, spettavano compiti di tipo eminentemente

gestorio. 22

Il Trattato istitutivo della Comunità economica europea, firmato a Roma nel 1957, non conteneva

alcun riferimento all’ambiente, così come del resto quest’ultimo non riceveva menzione nella

Costituzione italiana del 1942. Ciò si spiega ponendo mente al fatto che la Comunità è nata al fine di

perseguire scopi di carattere eminentemente economico, rispetto ai quali l’ambiente tout court inteso

non costituiva una priorità (cfr. G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, Cedam, Padova, 2010).

Da un punto di vista pratico, precipitato di tale circostanza era la mancanza in capo alla Comunità di

una qualsivoglia competenza in materia ambientale. Di conseguenza, come ricorda la dottrina (M.

RENNA, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2009, 3-4,

649), nel momento in cui - all’inizio degli anni Settanta del ‘900 - emersero le prime problematiche

inerenti all’ambiente “si pose la questione del fondamento sostanziale, del titolo formale e degli

strumenti utilizzabili per l’azione politica e gli interventi normativi di protezione ambientale della

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14

“hanno avuto la funzione fondamentale di indurre e stimolare lo Stato italiano ad

emanare le leggi più importanti di disciplina della materia”23

.

In particolare, con la direttiva 75/442/Cee, vera e propria pietra miliare delle fonti in

tema di rifiuti, il Consiglio, facendo leva sugli artt. 100 e 235 del Trattato Cee, da un

lato, ha esortato gli Stati membri al “ravvicinamento delle legislazioni” in materia di

gestione dei rifiuti, al fine di scongiurare il prodursi di situazioni di “disuguaglianza

Comunità” . In proposito va detto che, quanto al fondamento sostanziale, questo fu rinvenuto nell’art.

2 del Trattato Cee norma dal carattere programmatico che, interpretata in chiave evolutiva, si disse

implicare uno “sviluppo armonioso delle attività economiche” compatibile con la salvaguardia

dell’ambiente. Per quel che concerne, invece, il titolo formale, lo stesso fu rintracciato negli originari

artt. 100 e 235 del Trattato Cee, relativi rispettivamente al ravvicinamento delle legislazioni nazionali

e ai c.d. poteri impliciti della Comunità. Sulla base di tali argomenti, dunque, le istituzioni europee

presero a giustificare i propri interventi in materia ambientale affermando come gli stessi fossero

animati dall’“obiettivo di garantire, attraverso l’armonizzazione delle misure di tutela, la realizzazione

e mantenimento d un mercato comune, libero e concorrenziale”. In altri termini, per oltre un decennio

“i provvedimenti normativi adottati erano primariamente diretti a garantire il corretto funzionamento

del mercato e in alcuni casi essi rivelavano un’attenzione maggiore per determinate esigenze

economiche piuttosto che per la tutela dell’ambiente in quanto tale, dando luogo a evidenti soluzioni

di compromesso” (così M. RENNA, Ambiente e territorio, cit.).

La situazione così descritta ha poi conosciuto una svolta nel 1986 in occasione dell’Atto Unico

europeo, quando è stato introdotto nel Trattato Cee un titolo ad hoc in tema di ambiente

(segnatamente, si trattava del Titolo VII, artt. 130R, 130S e 130T), così ponendo fine al problema

relativo al fondamento normativo dell’azione comunitaria in materia ambientale. “All’Atto Unico si

deve quindi l’apertura di una nuova fase del diritto dell’ambiente, caratterizzata da una crescita

inarrestabile, sia quantitativa sia qualitativa, degli interventi normativi comunitari in materia

ambientale, che ha portato l’ambiente, in breve tempo, dall’essere un illustre sconosciuto per le norme

del Trattato a costituire uno dei settori più importanti e sviluppati del diritto amministrativo europeo”.

Successivamente, infatti, tanto con il Trattato di Maastricht quanto con il Trattato di Amsterdam alla

materia ambientale è stato riconosciuto ampio risalto, anche da un punto di vista squisitamente

formale grazie alla riformulazione nel 1997 dell’art. 2 del Trattato Ce, dove ha trovato espressis verbis

menzione l’obiettivo di promuovere “un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il

miglioramento della qualità di quest’ultimo”. Ad oggi, pertanto, anche a seguito dell’adozione della

Carta di Nizza e del Trattato di Lisbona, sembra possibile affermare che “il valore ambiente è

definitivamente assurto a valore in sé dell’ordinamento comunitario, oggetto di tutela diretta in quanto

tale e non più solo di protezione mediata in quanto valore potenzialmente compromettibile con il

processo di crescita”.

In ordine al processo di progressiva affermazione delle competenze comunitarie in materia di

ambiente si rinvia a M. P. CHITI - G. GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo.

Parte speciale, Giuffrè, Milano, 2007; L. KRAMER, EU enviromental law, cit..

Per quel che concerne, invece, il c.d. principio delle competenze attribuite che da sempre orienta

l’azione delle istituzioni europee cfr. L. AZZENA, Il sistema delle competenze dell’Unione europea, in

G. COLOMBINI - F. NUGNES (a cura di), Istituzioni, diritti, economia. Dal Trattato di Roma alla

Costituzione europea, Plus ed., Pisa, 2004; ID., Il sistema delle competenze, in AA. VV., Il Trattato

che adotta una Costituzione per l’Europa, in Foro it., 2005, V, 8; E. CANNIZZARO, Gerarchia e

competenza nel sistema dello fonti dell’Unione europea, in Dir. un. eur., 2005, 4, 651; ID., Esercizio

di competenze comunitarie e discriminazioni “a rovescio”, in Dir. un. eur., 1996, 2, 351; L. DANIELE,

Diritto dell’Unione europea. Sistema istituzionale - ordinamento. Tutela giurisdizionale –

competenze, Giuffrè, Milano, 2008; U. DRAETTA, Le competenze dell’Unione europea nel Trattato di

Lisbona, in Dir. com. e scambi comm., 2008, 3, 680; L. SALTARI, Il riparto di competenze tra

l’Unione europea e gli Stati: ossificazione o fluidità?, in Giorn. dir. amm., 2010, 3, 231; G. TESAURO,

Diritto dell’Unione europea, cit.. 23

B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente, cit..

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15

nelle condizioni di concorrenza”, suscettibili di incidere negativamente sul

funzionamento del mercato comune, e dall’altro lato, ha manifestato la necessità di

un’azione della Comunità tesa a raggiungere “con una più ampia regolamentazione”

gli obiettivi della protezione dell’ambiente e del miglioramento della qualità della

vita24

.

A partire da tale momento, quindi, può dirsi abbia preso avvio un “dialogo” tra il

legislatore europeo e quello nazionale, il cui frutto tangibile si identifica nel processo

di normazione, per certi versi ancora in fieri, che ha interessato l’istituto dei rifiuti.

Detto dialogo, peraltro, è divenuto più serrato a partire da quando la Comunità

economica europea ha assunto una vera e propria competenza nella materia

ambientale per effetto delle modifiche che, in occasione dell’Atto Unico Europeo,

sono state apportate al Trattato Cee25

. L’introduzione nel corpus di quest’ultimo di

24

Tali concetti sono palesati expressis verbis nei primi due considerando della direttiva 75/442/Cee, i

quali recano testualmente: “considerando che una disparità tra le disposizioni in applicazione o in

preparazione nei vari Stati membri per lo smaltimento dei rifiuti può creare disuguaglianza nelle

condizioni di concorrenza e avere perciò un 'incidenza diretta sul funzionamento del mercato comune;

che è quindi necessario procedere, in questo settore, al ravvicinamento delle legislazioni previsto

dall'articolo 100 del trattato”; nonché “considerando che appare necessario che tale ravvicinamento

delle legislazioni sia accompagnato da un 'azione della Comunità per raggiungere con una più ampia

regolamentazione uno degli obiettivi della Comunità nel settore della protezione dell'ambiente e del

miglioramento della qualità della vita; che occorre quindi prevedere alcune disposizioni specifiche;

che, non essendo stati previsti dal trattato i poteri d'azione necessari a tal fine, occorre fare ricorso

all'articolo 235”. 25

Come evidenziato alla nota n. 22, retro, si trattava del Titolo VII, artt. 130R, 130S e 130T.

In particolare, si ricorda che ai sensi dell’art. 130 R del Trattato Cee “l'azione della Comunità in

materia ambientale ha l'obiettivo: a) di salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell'ambiente;

b) di contribuire alla protezione della salute umana; c) di garantire un'utilizzazione accorta e razionale

delle risorse naturali.

L'azione della Comunità in materia ambientale e fondata sui principi dell'azione preventiva e della

correzione, anzitutto alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina

paga". Le esigenze connesse con la salvaguardia dell'ambiente costituiscono una componente delle

altre politiche della Comunità.

Nel predisporre l'azione in materia ambientale la Comunità terrà conto: a) dei dati scientifici e tecnici

disponibili; b) delle condizioni dell'ambiente nelle varie regioni della Comunità; c) dei vantaggi e

degli oneri che possono derivare dall'azione o dall'assenza di azione; d) dello sviluppo

socioeconomico della Comunità nel suo insieme e dello sviluppo equilibrato delle sue singole regioni.

La Comunità agisce in materia ambientale nella misura in cui gli obiettivi di cui al paragrafo 1

possano essere meglio realizzati a livello comunitario piuttosto che a livello dei singoli stati membri.

Fatte salve talune misure di carattere comunitario, gli Stati membri assicurano il finanziamento e

l'esecuzione delle altre misure.

Nel quadro delle loro competenze rispettive, la Comunità e gli Stati membri cooperano con i Paesi

terzi e le organizzazioni internazionali competenti. Le modalità della cooperazione della Comunità

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un Titolo ad hoc in tema di ambiente ha permesso alle istituzioni comunitarie di

intervenire con maggior autorevolezza e “disinvoltura” nella materia de qua e, per

l’effetto, ha segnato l’inizio di quel processo che ha condotto i rifiuti, e più in

generale l’ambiente, ad affrancarsi dall’obiettivo di realizzare un mercato unico e ad

acquisire autonomia rispetto a quest’ultimo.

Sulla base di tali premesse, nel 1991 il Consiglio è intervenuto a modificare la

direttiva 75/442/Cee attraverso la direttiva 91/156/Cee26

, il cui ambito di

applicazione si è da subito rivelato “ampio ed esaustivo, dal momento che l’Allegato

I alla medesima – nell’ambito della descrizione delle categorie di rifiuti – contempla

in maniera indifferenziata i rifiuti raccolti, trasportati, recuperati o smaltiti,

indipendentemente dalla loro natura, provenienza, nocività o pericolosità”27

.

La direttiva, tuttavia, all’art. 2, p. 2, fa salva la possibilità di introdurre attraverso atti

normativi ad hoc “disposizioni specifiche, particolari o complementari a quelle della

presente direttiva per disciplinare la gestione di determinate categorie di rifiuti”. Il

legislatore comunitario, infatti, sin da subito si è mostrato consapevole della

necessità di contemplare, accanto ad una disciplina di carattere generale, altre

previsioni calibrate in base alle peculiarità di determinate tipologie di rifiuti e delle

diverse modalità di gestione e trattamento degli stessi28

. “L’approvazione di direttive

comunitarie a ciò espressamente dedicate tende a conseguire un più elevato livello di

possono formare oggetto di accordi, negoziati e conclusi conformemente all'articolo 228, tra questa e i

terzi interessati”. 26

Si tratta della direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 156, 91/156/CEE, che sostituisce gli artt. da

1 a 12 della direttiva 75/442/Cee aggiungendo agli stessi tre documenti allegati. Sul punto, inter alia,

cfr. F. GIAMPIETRO, Smaltimento e recupero dei rifiuti nella direttiva Cee 156/91: strumenti ed

obiettivi nuovi per il legislatore italiano, in Rass. giur. en. elettr.,1992, 3, 617. 27

In questi termini G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit.. 28

In questo senso cfr. direttiva 78/319/CEE del Consiglio del 20 marzo 1978 relativa ai rifiuti tossici e

nocivi. Sul punto cfr. G. AMENDOLA, I rifiuti. Normativa italiana e comunitaria, Giuffrè, Milano,

1991; M. J. SUESS - J. W. HUISMANS, La gestion des dechets dangereux: principes directeurs et code

de bonne pratique, Copenaghen, 1984; F. ROELANTS DU VIVIER, Les vaisseux du poison. La route des

dechets toxiques, Parigi, 1988.

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tutela dell’ambiente, in considerazione della specificità del trattamento necessario a

reimpiegare o smaltire tipologie di rifiuti che richiedono il confronto con i più evoluti

processi tecnico-scientifici; tende altresì a disciplinare compiutamente, regolare e

controllare, le attività economiche ed imprenditoriali correlate a specifici processi di

trattamento e gestione”29

, assumendo il carattere della specialità rispetto alla

disciplina di tipo generale. E’ in quest’ottica, dunque, che si spiega - ad esempio -

l’avvento delle direttive 91/689/Cee30

e 94/62/Ce31

, con cui le istituzioni comunitarie

hanno inteso disciplinare rispettivamente il settore dei rifiuti pericolosi, nonché

quello degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggi.

In attuazione di tali importanti direttive europee 32

, nonché all’esito di “un periodo di

travaglio legislativo”33

, in Italia è stato emanato il d. lgs. 5 febbraio 1997 n. 2234

,

meglio noto come decreto Ronchi, dal nome dell’allora Ministro dell’Ambiente. Tale

intervento si inseriva nel quadro dell’esigenza sovrannazionale di garantire il

soddisfacimento degli obiettivi fissati dall’Europa in tema di ambiente, in particolare

per quel che concerne “l’adeguamento dei modelli di consumo e produzione alla

29

Cfr. G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit.. 30

Direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991 n. 689, 91/689/Cee relativa ai rifiuti pericolosi. 31

Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 dicembre 1994 n. 62, 94/62/Ce relativa agli

imballaggi e ai rifiuti di imballaggi. 32

Il riferimento, lo si ribadisce, è alle due direttive del 1991 in tema di rifiuti (direttiva del Consiglio

18 marzo 1991 n. 156, 91/156/Cee e direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991 n. 689, 91/689/Cee) e a

quella del 1994 relativa agli imballaggi e ai rifiuti di imballaggi (direttiva del Parlamento europeo e

del Consiglio 20 dicembre 1994 n. 62, 94/62/Ce), in ordine alle quali si rinvia a L. KRAMER - M.

ONIDA, Codice dell’ambiente. Norme comunitarie, Giappichelli, Torino, 2001. 33

Così si legge in A. MONTAGNA, (voce) Rifiuti (gestione dei), cit., il quale ricorda come durante tale

periodo si siano succeduti ben diciotto decreti legge “ed una legge c.d. ponte, intervenuti con

riferimento al testo base, ovvero al d.P.R. n. 915 del 1982”. 34

Il decreto, emanato in attuazione della legge delega 22 febbraio 1994 e pubblicato sulla Gazzetta

Ufficiale del 15 febbraio1997 n. 38, all’art. 56 ha abrogato la previdente disciplina contenuta nel citato

d. P.R. 10 settembre 1982 n. 915.

Come osservato da parte della dottrina, il c.d. Decreto Ronchi, ha dettato una “normativa ampia (58

articoli e nove allegati) e complessa”, che “per alcuni profili si è posta nel segno della continuità

rispetto alla normativa preesistente, sotto altri aspetti ha invece profondamente innovato la disciplina

della gestione dei ritiuti” (cfr. G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit.).

Per un commento allo stesso cfr. M. BALLETTI, La nuova disciplina dei rifiuti: d.lgs. 5 febbraio 1997

n. 22, attuazione delle direttive n. 91/156/Cee, n. 91/689/Cee; n. 94/62/Ce, Giappichelli, Torino,

1998; F. GIAMPIETRO, Il d.lgs. n. 22/1997 di attuazione delle direttive comunitarie sui rifiuti: le

perduranti situazioni di conflitto con la normativa europea, in Riv. giur. amb., 1997, 3-4, 397.

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18

capacità dell’ambiente di sostenerne il peso, specialmente in una visione di lungo

periodo”35

.

Per la prima volta, in un unico testo normativo trovavano la loro compiuta

regolamentazione tutti gli aspetti fondamentali della disciplina giuridica dei rifiuti a

cominciare dall’enunciazione dei principi generali sino ai profili legati alla gestione

degli stessi36

, senza tralasciare questioni quali il riparto di competenze tra i vari

livelli di amministrazione37

e le procedure volte all’ottenimento di autorizzazioni per

realizzare attività di smaltimento o recupero38

.

Peculiarità della nuova normativa era innanzitutto la circostanza di recepire le

definizioni comunitarie di concetti cruciali per la materia de qua, prime tra tutte

quella di “rifiuto”39

e di “smaltimento”, quale “fase residuale della gestione dei

rifiuti”40

, in ragione della “primaria rilevanza assunta dalle azioni di prevenzione

nella produzione dei rifiuti, nonché dai trattamenti diretti al recupero – mediante

riutilizzo e riciclo – dei medesimi”41

. Inoltre il decreto in esame si caratterizzava per

il fatto di esortare al contingentamento della produzione di rifiuti attraverso l’utilizzo

di tecnologie pulite42

; per l’istituzione di un apposito Catasto dei rifiuti “destinato a

35

Cfr. A. MONTAGNA, (voce) Rifiuti (gestione dei), cit., dove si legge: “è noto come la produzione dei

beni e dei servizi che occorrono allo sviluppo [della società], dai trasporti alla sanità, sfruttino le

risorse della terra generando rifiuti e conseguentemente inquinamento. Si tratta dello smaltimento di

miliardi di tonnellate di rifiuti prodotti dalla nostra società dei consumi (basti pensare che solo

nell’Unione europea ogni anno devono essere trattati più di 21 milioni di tonnellate di rifiuti tossici)”. 36

Cfr. Titolo I, artt. 1-17 d. lgs. n. 22/1997. 37

Cfr. Titolo I, artt. 18 e ss. d. lgs. n. 22/1997. L’assetto ivi delineato, peraltro, ha poi trovato

conferma ai sensi dell’art. 85 d. lgs. 31 marzo 1998 n. 112, recante il nuovo trasferimento di funzioni

amministrative dallo Stato alle Regioni ed agli Enti locali. In proposito cfr. A. FERRARA, Commento

all’art. 85, in G. FALCON (a cura di), Lo Stato autonomista: funzioni statali, regionali e locali nel d.

lgs. n. 112 del 1998, Il Mulino, Bologna, 1998. 38

Cfr. Titolo I, artt. 27 e ss. d. lgs. n. 22/1997. In dottrina cfr. A. LOLLI, Autorizzazioni e verifiche

ambientali nel sistema normativo sulla gestione dei rifiuti, in Riv. giur. amb., 1998, 2, 203. 39

Cfr. art. 6, comma primo, lett. a). In proposito cfr. infra Capitolo II. 40

Cfr. art. 5, comma primo, d. lgs. n. 22/1997. 41

M. DI LULLO, Il rifiuto come bene: titolarità e gestione, in Riv. giur. amb., 2001, 3-4, 383. 42

Gli artt. 3 e 4 del d. lgs. n. 22/1997, infatti, sembrano esortare chiaramente alla prevenzione nella

produzione dei rifiuti nonché al recupero degli stessi. In particolare a mente dell’oramai abrogato art.

3, rubricato “prevenzione nella produzione dei rifiuti” si legge:

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19

raccogliere i dati concernenti le qualità e le quantità dei rifiuti trattati43

ed, infine, per

l’individuazione di procedure amministrative volte a compendiare gli interessi dei

diversi soggetti operanti nella filiera dei rifiuti44

. Ex multis, come evidenziato da

parte della dottrina, “il decreto Ronchi, conferendo attuazione anche alle direttive sui

rifiuti pericolosi e di imballaggio, non costituisce soltanto fonte di disciplina dei

rifiuti in generale in quanto prevede agli artt. 34 e seguenti anche una serie di

disposizioni che regolano tali particolari categorie di rifiuti”45

.

“Le autorità competenti adottano ciascuna nell'ambito delle proprie attribuzioni iniziative dirette a

favorire, in via prioritaria, la prevenzione e la riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti

mediante:

a) lo sviluppo di tecnologie pulite, in particolare quelle che consentono un maggiore risparmio di

risorse naturali;

b) la promozione di strumenti economici, eco-bilanci, sistemi di ecoaudit, analisi del ciclo di vita dei

prodotti, azioni di informazione e di sensibilizzazione dei consumatori, nonché lo sviluppo del sistema

di marchio ecologico ai fini della corretta valutazione dell'impatto di uno specifico prodotto

sull'ambiente durante l'intero ciclo di vita del prodotto medesimo;

c) la messa a punto tecnica e l'immissione sul mercato di prodotti concepiti in modo da non

contribuire o da contribuire il meno possibile, per la loro fabbricazione, il loro uso o il loro

smaltimento, ad incrementare la quantità, il volume e la pericolosità dei rifiuti e i rischi di

inquinamento;

d) lo sviluppo di tecniche appropriate per l'eliminazione di sostanze pericolose contenute nei rifiuti

destinati a essere recuperati o smaltiti;

e) la determinazione di condizioni di appalto che valorizzino le capacità e le competenze tecniche in

materia di prevenzione della produzione di rifiuti;

f) la promozione di accordi e contratti di programma finalizzati alla prevenzione e alla riduzione della

quantità e della pericolosità dei rifiuti”.

In dottrina, quanto al principio di prevenzione o di azione preventiva si rinvia al recente scritto di F.

DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in AA. VV., Studi in

onere di Alberto Romano, Ed. Scientifica, Napoli, 2011, 2079. Ex multis cfr. D. AMIRANTE, I principi

comunitari di gestione dell’ambiente e il diritto italiano: prime note per un dibattito, in Dir. e

gestione dell’ambiente, 2001, 1, 7; M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente,

Giappichelli, Torino, 20007; P. DELL’ANNO, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale,

Giuffrè, Milano, 2004; ID. Prevenzione dell’inquinamento ambientale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1986,

1, 206; R. FERRARA, I principi comunitari di tutela dell’ambiente, in Dir. amm., 2005, 3, 509. 43

Cfr. art. 48 d. lgs. n. 22/1997 44

Si pensi, ad esempio, agli accordi di programma tra la pubblica amministrazione e i diversi

operatori economici. 45

In questi termini, B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente,. cit.. Sul punto cfr. il Titolo II

del d. lgs. n. 22/1997 che ha riguardo alla gestione dei rifiuti da imballaggio nonché il Titolo III dove

viene regolamentata la gestione di particolari categorie di rifiuti. In quest’ottica, si segnala inoltre la

creazione di Consorzi deputati alla gestione di singole tipologie di rifiuti, quali ad esempio la plastica,

il vetro o gli oli, al fine di assicurare trattamenti mirati (cfr., ad ex. art. 48 d. lgs. n. 22/1997). Ciò si

spiega con la volontà del legislatore nazionale di condividere l’idea comunitaria del rifiuto come

risorsa.

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Ciò non di meno, il decreto in esame nella sua primigenia versione è stato oggetto di

critiche serrate che hanno indotto il legislatore ad emendarlo più volte46

, senza

tuttavia trovare il plauso della Corte di Giustizia47

. Quest’ultima, infatti, in più di

un’occasione ha giudicato il nostro Stato inadempiente nei confronti delle

prescrizioni impartite dalle istituzioni europee. E’ quanto è accaduto, ad esempio,

con riguardo all’art. 30, comma secondo, del d. lgs. n. 22 del 1997, ritenuto in

contrasto con l’art. 12 della direttiva 75/442/Cee – come modificata dalla direttiva

91/156/Cee – “nella parte in cui consente alle imprese di esercitare la raccolta ed il

trasporto dei rifiuti non pericolosi (…) come attività ordinaria e regolare, senza

sottostare all’obbligo di essere iscritte all’Albo nazionale delle imprese esercenti

servizi di smaltimento dei rifiuti”48

.

Contestualmente, sul fronte europeo sono stati emanati ulteriori atti normativi che

hanno imposto all’Italia un continuo sforzo di adattamento49

. In particolare, il

46

Il riferimento è al d. lgs. 8 novembre 1997 n. 389, c.d. Ronchi bis; L. 9 dicembre 1998 n. 426, c.d.

Ronchi ter; L. 23 marzo 2001 n. 93, c.d. Ronchi quater; nonché alla L. 31 luglio 2002 n. 179, recante

Disposizioni in materia ambientale. 47

Come ricorda P. DELL’ANNO, (voce) Rifiuti, cit., infatti, la disciplina contenuta nel d. lgs. n. 22/1997

“veniva più volte integrata e modificata negli anni successivi [alla sua adozione], mentre la Corte di

Giustizia europea sanzionava ripetutamente ingenui tentativi del nostro legislatore di rendere meno

gravosi gli obblighi degli operatori e di favorire il recupero di energia e di materia dai rifiuti”.

A titolo esemplificativo, si ricorda CGCE 25 novembre 2004, Commissione c. Italia, C-447/03, dove

si legge: “non avendo adottato le misure necessarie per assicurare che i rifiuti stoccati o depositati in

discarica (…) fossero recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare

procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente e non avendo adottato le

disposizioni necessarie affinché il detentore dei rifiuti stoccati o depositati in discarica (…)

consegnassero tali rifiuti ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un’impresa che effettua le

operazioni previste nell’allegato II A o II B della direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE,

oppure provvedessero essi stessi al loro recupero o smaltimento, la Repubblica italiana è venuta meno

agli obblighi su di essa incombenti ai sensi degli artt. 4 e 8 di detta direttiva”. Motivazioni dello stesso

tenore sono poste a fondamento anche delle sentenze CGCE 9 settembre 2004, Commissione c. Italia,

C- 375/02; CGCE 24 ottobre 2002, Commissione c. Italia, C-383/02; CGCE Commissione c. Italia, C-

516/03. 48

CGCE 9 giugno 2005, Commissione c. Italia, C-270/03. 49

A titolo esemplificativo basti ricordare: d. lgs. 13 gennaio 2003 n. 36, Recepimento della Direttiva

31/99/CE relativa alle discariche dei rifiuti; d. lgs. 14 marzo 2003 n. 65, Attuazione delle direttive

1999/45/CE e 2001/60/CE relativa alla classificazione, imballaggio ed etichettatura dei preparati

pericolosi; d. lgs. 24 giugno 2003 n. 182, Attuazione della Direttiva 2000/59/CE relativa agli impianti

portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi e dai residui del carico; d. lgs. 24 giugno 2003 n.

209, Attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai veicoli fuori uso; d.P.R. 15 luglio 2003 n. 254,

Regolamento recante la disciplina della gestione dei rifiuti sanitari a norma dell’art. 24 della L. 31

luglio 2002 n. 179; d.l. 14 novembre 2003 n. 314, Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento

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recepimento nel nostro ordinamento di una serie di direttive dedicate a singoli aspetti

della gestione dei rifiuti è avvenuto con autonomi provvedimenti normativi, diretti ad

“affiancare” la disciplina generale originariamente contenuta nel d. lgs. n. 22 del

1997, che quindi ben presto ha finito con il perdere valore in termini di completezza

ed esaustività.

I.4 IL CODICE DELL’AMBIENTE (D. LGS. 3 APRILE 2006 N. 152) NON FERMA L’

“INQUINAMENTO NORMATIVO”

Dopo ripetute condanne imposte dalla Corte di Giustizia e, soprattutto, alla luce di

una disciplina legislativa in tema di rifiuti caratterizzata dalla frammentarietà e dalla

disorganicità, il legislatore italiano ha optato per una pressoché totale riforma del d.

lsg. n. 22 del 1997 che difatti è stato abrogato dal Titolo I, Parte IV, d. lgs. n. 152 del

200650

, meglio noto come Testo Unico ambientale o Codice dell’ambiente51

.

e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza, dei rifiuti radioattivi; d. lgs. 11 maggio 2005 n.

133, Recepimento della direttiva 2000/76/Ce in materia di incenerimento dei rifiuti; d. lgs. 25 luglio

2005 n. 1511, Recepimento direttiva 2003/95/Ce relativa alla riduzione dell’uso di sostanze

pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche e per lo smaltimento dei relativi rifiuti. 50

D. lgs. 3 aprile 2006 n. 152, Norme in materia di ambiente, pubblicato in Gazzetta Ufficiale 14

aprile 2006 n. 88. Nello specifico, è all’art. 264 di tale decreto che il legislatore ha disposto

l’abrogazione della previgente normativa come contenuta nel d. lgs. n. 22/1997, specificando tuttavia

che “al fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente

normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto, i provvedimenti attuativi del citato

decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22, continuano ad applicarsi sino alla data di entrata in vigore

dei corrispondenti provvedimenti attuativi previsti dalla parte quarta del presente decreto” (art. 264,

comma 1, lett. i), d. lgs. n. 152/2006).

Per un commento al quale si rinvia a F. GIAMPIETRO (a cura di), Commento al Testo Unico

ambientale, Ipsoa, Milano, 2006; R. GRECO, Codice dell’ambiente, Nel diritto editore, Roma, 2009. In

dottrina cfr. A. L. DE CESARIS, Una nuova disciplina per l’ambiente?, in Giorn. dir. amm., 2007, 1,

123; A. POSTIGLIONE, Il nuovo testo unico in materia ambientale: un quadro generale, in Dir. giur.

agr. amb., 2006, 2, 213. 51

La qualifica di “codice” è stata espressamente affermata dall’art. 3 quater, comma primo, del d. lgs.

n. 152/2006, come introdotto dall’art. 1, comma secondo, del d.lgs. n. 4/2008, e subito fatta propria

dalla Corte Costituzionale in una serie di sentenze (cfr., ad ex., C. Cost. 22 luglio 2009 n. 225; C.

Cost. 23 luglio 2009 nn. 233, 234, 235; C. Cost. 24 luglio 2009 nn. 246, 247, 249, 250, 251; nonché

C. Cost. 30 luglio 2009 n. 254).

Per quel che concerne il tema della codificazione ambientale si rinvia a F. FONDERICO, La muraglia e i

libri: legge delega, testo unico e codificazione del diritto ambientale, in Giorn. dir. amm., 2005, 6,

585; ID, La codificazione del diritto dell’ambiente in Italia: modelli e questioni, in Riv. trim. dir.

pubbl., 2006, 3, 612; ID., L’evoluzione della legislazione ambientale, in Riv. giur. ed., 2007, 2, 97; F.

GIAMPIETRO, Né testo unico né codice dell’ambiente …ma un unico contenitore per discipline

differenziate, in Ambiente & sviluppo, 2006, 5, 405; F. FRACCHIA, Codification and the environment,

in Italian Journal of pubblic law, 2009, 1, 22.

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Quest’ultimo - rispetto al quale parte della dottrina preferisce parlare di testo

“unificato”52

- è stato emanato in attuazione della L. delega 15 dicembre 2004 n.

30853

che ha conferito al Governo la potestà di adottare uno o più decreti legislativi,

In un’ottica di comparazione con altre esperienze europee cfr. D. AMIRANTE, Codificazione e norme

tecniche nel diritto ambientale. Riflessioni sull’esperienza francese, in Dir. gest. ambiente, 2002, 1, 9;

H. JARASS, Il codice dell’ambiente in Germania, in D. DE CAROLIS - E. FERRARI - A. POLICE (a cura

di), Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Giuffrè, Milano, 2006. 52

In questo senso cfr. F. FONDERICO, La codificazione, cit., il quale ritiene che il d. lgs. n. 152/2006

non può definirsi codice dell’ambiente “non solamente nel senso in cui corrispondono a tale locuzione

le grandi codificazioni moderne: sistemi di valori, prima e ancora più che sistemi di norme, tesi a

delineare l’organizzazione giuridica di un’intera società. Ma neppure può definirsi tale nel senso, più

limitato e corrente, al quale ci si riferisce ragionando delle codificazioni post moderne”. L’A., così

argomentando, individua almeno cinque fattori che ostacolano l’anzidetta assimilazione.

Segnatamente, mancano l’omogeneità del materiale normativo ed un piano del codice, così come

risulta assente una parte generale contenente “le disposizioni di generale applicazione: principi,

definizioni, organi, competenze, situazioni soggettive e istituti trasversali che costituiscono l’elemento

di connessione orizzontale dei vari settori verticali”. Inoltre, risulta carente la “c.d. analisi interna della

normativa che si compendia nella scomposizione e ricomposizione sistematica del materiale

normativo” e, non da ultimo, “difetta l’aspirazione alla completezza”, intesa come esaustiva

trattazione di tutti i profili afferenti ad una determinata materia. Al contempo, però, il decreto in

esame si differenzia anche dal modello del testo unico, giacché di questo mancano tanto i requisiti di

forma quanto quelli di sostanza. Dunque, “non essendo un codice e neppure un testo unico, la

definizione che meglio gli si addice è quella di testo unificato: ed infatti esso è il frutto della mera

unificazione dei vari schemi di decreti che avrebbero dovuto separatamente riordinare i singoli settori

oggetto della delega”.

In senso analogo cfr. A. CELOTTO, Il codice che non c’è: il diritto ambientale tra codificazione e

semplificazione, in www.giustamm.it, 2006; F. FRACCHIA, Lo sviluppo sostenibile, ESI, Napoli, 2010;

F. GIAMPIETRO, Né testo unico né codice, op. cit.; nonché M. RENNA, Semplificazione e ambiente, in

Riv. giur. ed., 2008, 1, 37, il quale scrive: “il d. lgs. n. 152 del 2006, che alcuni identificano in modo

improprio come il "codice dell'ambiente". In realtà (…) il decreto in questione non è affatto un codice

e non è nemmeno un t. u.”.

Per un inquadramento generale in ordine al tema della codificazione, in specie quella c.d. di settore si

rinvia a A. CIOFFI, (voce) “Codificazione” e principi generali (dir. amm.), in Dig. disc. pubbl.

(aggiornamento), UTET, 2010; N. IRTI, “Codici di settore”: compimento della “decodificazione”, in

M. A. SANDULLI (a cura di), Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, Giuffrè, Milano,

2005; B. G. MATTARELLA, (voce) Codificazione, in S. CASSESE (a cura di) Dizionario di diritto

pubblico, Giuffré, Milano, 2006. 53

Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 2004 n. 302 e rubricata “delega al Governo per

il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di

diretta applicazione”.

In proposito, si segnala che tra gli argomenti addotti da parte della dottrina a sostegno della tesi

secondo cui il d. lgs. n. 152/2006 non costituisce propriamente un’opera di codificazione, ve ne è uno

che trova fondamento proprio nella citata Legge di delega. Ricorda, infatti, A. CELOTTO, Il codice che

non c’è, cit., che “la legge di delega [all’art. 1, comma primo] non conferiva al Governo la potestà di

codificare, bensì quella di adottare (…) uno o più decreti legislativi di riordino, coordinamento e

integrazione” delle disposizioni legislative in materia ambientale, “anche mediante la redazione di

testi unici”. Non stupisce, dunque, che, come evidenziato dall’A., “puntualmente il d. lgs. n. 152 del

2006 non si autoqualifica né come codice né come testo unico, ma semplicemente come Norme in

materia ambientale”.

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anche in forma di testi unici, per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della

legislazione in materia ambientale54

.

Tra i settori interessati, ovviamente, anche quello dei rifiuti che ha trovato la propria

disciplina a norma degli artt. 177 e ss. del d. lgs n. 152 del 200655

. Tuttavia, tra le

critiche che parte della dottrina ha mosso nei confronti di tale opera di

razionalizzazione56

, vi è il fatto che la normativa sui rifiuti non è riuscita a trovare

nel citato decreto la sua unica sedes materiae57

.

54

Per un commento alla L. 15 dicembre 2004 n. 308 cfr. F. GIAMPIETRO, Delega al governo per il t.u.

ambientale: una corsa (inutile?) contro il tempo, in Ambiente, 2005, 2, 105; ID., I criteri direttivi

specifici (?) della legge delega sui testi unici ambientali, in Ambiente, 2005, 3, 205; A. LIGUORI, La

legge delega in materia ambientale: prime considerazioni, in Foro it., 2005, V, 59. 55

Con precipuo riferimento alla materia dei rifiuti, i principi ed i criteri direttivi dettati dalla L. delega

n. 308/2004 sono, tra gli altri: I) assicurare un’efficace azione per l’ottimizzazione quantitativa e

qualitativa della produzione dei rifiuti, finalizzata, comunque, a ridurne la quantità e la pericolosità;

II) semplificare (…) e razionalizzare le procedure di gestione dei rifiuti speciali; III) promuovere il

riciclo e il riuso dei rifiuti, anche utilizzando le migliori tecniche di differenziazione e di selezione

degli stessi, nonché il recupero di energia (…); IV) prevedere i necessari interventi per garantire la

piena operatività delle attività di riciclaggio (…); V) razionalizzare il sistema di raccolta e di

smaltimento dei rifiuti solidi urbani (…); VI) promuovere la specializzazione tecnologica delle

operazioni di recupero e di smaltimento dei rifiuti speciali, al fine di assicurare la complessiva

autosufficienza a livello nazionale; VII) garantire adeguati incentivi e forme di sostegno ai soggetti

riciclatori dei rifiuti e per l’utilizzo di prodotti costituiti da materiali riciclati, con particolare

riferimento al potenziamento degli interventi di riutilizzo e riciclo del legno e dei prodotti da esso

derivati; VIII) definire le norme tecniche da adottare per l’utilizzo obbligatorio dei contenitori di

rifiuti urbani adeguati, che consentano di non recare pregiudizio all’ambiente nell’esercizio delle

operazioni di raccolta e recupero dei rifiuti nelle aree urbane. Ex multis, sul punto cfr. V. CERULLI

IRELLI – G. C. DI SAN LUCA (a cura di), La disciplina giuridica dei rifiuti in Italia, cit.. 56

M. RENNA, Le semplificazioni amministrative (nel decreto legislativo n. 152 del 2006), in Riv. giur.

amb., 2009, 5, 651, ad esempio, rileva come la “complessità normativa [che caratterizza la materia

ambientale] non sia stata affatto eliminata né invero significativamente attenuata con l’approvazione

del d. lgs. n. 152/2006. Diversi i punti deboli che secondo l’A. minano la bontà dell’intervento

legislativo in argomento. Innanzitutto, “la legge di delega n. 308 del 2004 ha lasciato fuori dalla

delegazione legislativa diversi settori di tutela ambientale”, quale ad esempio quello della tutela

paesaggistica. In secondo luogo, tale legge è stata attuata solo in modo parziale, giacché con il d. lgs.

n. 152/2006 “non si è neanche provveduto a disciplinare tutti i settori nei quali la legge n. 308 del

2004 aveva delegato il Governo a riordinare, coordinare e integrare le disposizioni vigenti”. Ex

mutltis, il Governo ha mostrato di voler rinunciare a “percorrere la strada, pur espressamente indicata

dalla legge di delega, di redigere uno o più testi unici di riforma organica della disciplina ambientale”.

Alla luce di tali argomenti, dunque, la dottrina citata osserva che “la fretta con la quale il decreto è

stato confezionato ha condotto all’approvazione di un testo censurabile nel merito, sotto diversi

profili, tra cui quelli del rispetto delle norme e dei principi comunitari e dell’osservanza del nuovo

riparto delle competenze legislative stabilito dalla Costituzione, oltre a quello della conformità con la

legge di delega”.

Ex multis, ID. Semplificazione e ambiente, cit.. nonché A. CELOTTO, Il codice che non c’è, cit., il

quale, intendendo per codice un “atto unitario, organico, coerente, portatore di principi, regolante

fattispecie astratte, con norme tese a durare nel tempo, in maniera da creare un ordinamento

sezionale”, scrive che in Italia “non abbiamo un codice ambientale, dato che – a ben vedere – il

decreto legislativo n. 152 del 2006 non è, in senso stretto, un codice”. A suffragio di tale assunto, l’A.

adduce l’esistenza di “almeno tre argomenti decisivi”: il nomen juris (aspetto relativamente al quale

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Fuori dai confini del d. lgs. n. 152 del 2006, infatti, “si trovano recepite non solo

numerose direttive concernenti particolari categorie di rifiuti, ma anche diverse

direttive di maggior respiro”58

. Si pensi, ad esempio, alla direttiva 1999/31/CE sulle

discariche, recepita con il d. lgs. 13 gennaio 2003 n. 36; nonché alla direttiva

2000/59/CE, relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi

ed i residui di carico, recepita con il d. lgs. 24 giugno 2003 n. 182; ed, ancora, alla

direttiva 2000/76/CE in tema di incenerimento dei rifiuti, recepita con il d. lgs. 11

maggio 2005 n. 133 e, infine, alla direttiva 2006/21/CE relativa alla gestione dei

rifiuti delle industrie estrattive, recepita con il d. lsg. 30 maggio 2008 n. 11759

.

Ciò non di meno, sembra potersi convenire con quella parte della dottrina incline a

ritenere che “con l’adozione del d. lgs. n. 152/2006 si è avuto un parziale ma

consistente riordino della disciplina vigente in alcuni dei più importanti ambiti del

diritto ambientale, [tra cui proprio quello dei rifiuti], che ha consentito, a seguito di

cfr. nota n. 53, retro); il contenuto normativo, poiché “il testo del c.d. codice è troppo ampio e

dettagliato, senza unitarietà e privo di norme sistematiche o di principio”; ed infine la scarsa stabilità,

dal momento che “il d. lgs. n. 152 non ha mostrato alcuna persistenza, avendo subito in meno di tre

anni una serie cospicua di modifiche”. 57

M. RENNA, Semplificazione e ambiente, cit., secondo cui “è sufficiente riscontrare, per esempio,

come la parte quarta del decreto, relativa alla gestione dei rifiuti, sia colma di rinvii a fonti normative

esterne al medesimo decreto, riguardanti pressoché tutte le regolamentazioni sub-settoriali [inerenti

alla materia de qua], nonché addirittura la disciplina delle discariche e quella dell'incenerimento di

rifiuti, che sono rimaste rispettivamente nel d. lgs. n. 36 del 2003 e nel d. lgs. n. 133 del 2005, anziché

essere inglobate nello stesso d. lgs. n. 152 del 2006. (…) Pertanto, quand'anche si reputasse che il

Governo non avrebbe potuto occuparsi del riordino, del coordinamento e dell'integrazione di

disposizioni legislative non ancora vigenti al momento dell'entrata in vigore della legge di delega,

andrebbe comunque constatato che sarebbe stato ben possibile (…) dettare le disposizioni contenute”

nei decreti legislativi previgenti “insieme a quelle contenute nel d. lgs. n. 152 del 2006, all'interno di

un unico e unitario provvedimento normativo”. 58

M. RENNA, Ambiente e territorio, cit.. 59

Ex multis, non compresa nel d. lgs. n. 152/2006 era anche la direttiva 96/61/CE sulla prevenzione e

la riduzione integrate dell’inquinamento (modificata dalle direttive 2003/35/CE e 2003/87/CE),

recepita in un primo tempo solo parzialmente dal d. lgs. 4 agosto 1999 n. 372 e, successivamente, in

via integrale da parte del d. lgs. 18 febbraio 2005 n. 59.

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successivi interventi correttivi60

, l’emergere di una embrionale forma di

codificazione”61

.

La bontà di quest’ultima, peraltro, è stata ripetutamente vagliata dalla Corte

Costituzionale che nel solo luglio del 2009 si è pronunciata in proposito con ben

dieci sentenze62

. Benché in tale occasione il casus belli avesse riguardo

essenzialmente al riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni nella materia

ambientale63

, il Giudice delle Leggi ha sfiorato anche aspetti specifici64

della

60

Il riferimento è, in particolare, alle modifiche introdotte dal d. lgs. 16 gennaio 2008 n. 4, pubblicato

sulla Gazzetta Ufficiale 29 gennaio 2008 n. 24, recante “Ulteriori disposizioni correttive ed integrative

del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, Norme in materia di ambiente”. 61

Così F. FONDERICO, Corte costituzionale e codice dell’ambiente, in Gior. dir. amm., 2010, 4, 368. 62

Il riferimento è alle sentenze citate alla nota n. 51, retro. 63

Come ricorda parte della dottrina (cfr. F. FONDERICO, Corte costituzionale, cit.), infatti, la Corte

costituzionale è stata “chiamata a giudicare della legittimità costituzionale del d. lgs. n. 152/2006,

impugnato in via principale da numerose Regioni nella sua interezza e nelle sue parti più qualificanti.

[Tuttavia] sebbene la tipologia di giudizio verta su questioni di riparto delle sfere costituzionali di

competenza dello Stato e delle Regioni”, la Corte con le citate sentenze “non realizza soltanto una

tendenzialmente stabile actio finium regundorum tra centro e periferia, ma a tale risultato perviene

sulla base di una preliminare chiarificazione di presupposti (di teoria generale) e nozioni (di diritto

ambientale) che meritano altrettanta considerazione”. Le pronunce del luglio 2009, infatti,

s’impongono all’attenzione perché la Corte, al fine di affermare la legittimità costituzionale del

decreto impugnato e, dunque, la competenza esclusiva del legislatore nazionale a legiferare in materia

ambientale, ricostruisce in via preliminare la nozione di ambiente.

Al riguardo, il leading case è costituito dalla sentenza C. Cost. 22 luglio 2009 n. 225 (rel. Maddalena),

dove “la Corte sembra aver abbandonato la nozione di trasversalità dell’ambiente (…) per addentrarsi

nel sentiero, non privo di insidie della qualificazione dell’ambiente come bene a tutti gli effetti”. Così

F. DE LEONARDIS, La Corte costituzionale sul codice dell’ambiente tra moderazione e disinvoltura, in

Riv. giur. ed., 2009, 7, 1455, il quale osserva come due siano i passaggi essenziali della sentenza,

“costituiti dalla definizione dell’ambiente come bene e dalla distinzione tra definizione e fruizione del

bene stesso”.

Dal primo punto di vista può affermarsi come la sentenza in argomento si ponga in linea di continuità

rispetto a precedenti pronunce (C. Cost. 7 novembre 2007 n. 367; C. Cost. 14 novembre 2007 n. 378;

C. Cost. 14 aprile 2008 nn. 104 e 105; C. Cost. 5 marzo 2009 n. 61. Nonché ancor prima C. Cost. 28

maggio 1987 n. 210, rispetto alla quale cfr. E. PICOZZA, L’ambiente … allo Stato, in Corr. giur., 1987,

925), in cui il Giudice delle Leggi aveva qualificato l’ambiente come bene unitario e materiale rispetto

al quale lo Stato gode di una competenza di tipo esclusivo, con ciò mostrando una chiara inversione di

tendenza rispetto a quanto affermato in altre occasioni dove la Corte aveva parlato di “materia

trasversale “ o “valore”.

Quanto, invece, al secondo aspetto, “la Corte afferma in modo netto che spetta allo Stato la tutela e la

conservazione dell’ambiente mediante la fissazione di livelli di tutela mentre alle Regioni spetta solo

essenzialmente il potere di regolare la fruizione dell’ambiente”. In altri termini, “si ribadisce che lo

Stato deve provvedere a definire il bene ambiente nei suoi contenuti mentre le Regioni devono

occuparsi di come tale bene può e deve essere goduto dal pubblico e dai vari soggetti” (cfr. F. DE

LEONARDIS, La Corte costituzionale, cit.). Tuttavia la Corte non chiarisce se, come sostenuto da

ampia parte della dottrina, in capo alle Regioni residui la potestà di adottare norme più stringenti

rispetto a quelle statali ai fini della tutela dell’ambiente (sul tema si rinvia a M. G. DELLA SCALA, La

circolazione dei rifiuti tra discipline regionali, normativa statale, vincoli costituzionali e principi di

diritto europeo, in Foro amm. CdS, 2009, 2, 356).

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disciplina contenuta nel d. lgs. n. 152 del 2006, compreso appunto il tema dei

rifiuti65

.

Quanto poi ai contenuti della disciplina giuridica dettata dal d. lgs. n. 152 del 2006, è

possibile affermare come quest’ultimo nella sua Parte IV, accanto a taluni segnali di

continuità rispetto alle disposizioni di cui al d. lgs. 5 febbraio 1997 n. 2266

, presenti

anche significativi elementi di novità. Dal punto di vista dell’organizzazione

Con riguardo alla configurazione dell’ambiente come valore, materia, bene, ecc. da parte della Corte

costituzionale cfr. A. CIOFFI, L’ambiente come materia dello Stato e come interesse pubblico.

Riflessioni sulla tutela costituzionale e amministrativa, a margine di Corte Cost. n. 225 del 2009, in

Riv. giur. amb., 2009, 6, 970; P. DELL’ ANNO, La tutela dell’ambiente come “materia” e come valore

costituzionale di solidarietà e di elevata protezione, in Ambiente & sviluppo, 2009, 7, 585; F.

FRACCHIA, Sulla configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà

ambientale, in Dir. econ., 2002, 1, 215; P. MADDALENA, L’ambiente come valore costituzionale

nell’ordinamento comunitario, in Cons. St., 1999, 4, 675; ID., L’ambiente: prolegomeni per una sua

tutela giuridica, in Riv. giur. amb., 2008, 3-4, 523; ID., La giurisprudenza della Corte costituzionale

in materia di tutela e fruizione dell’ambiente e le novità sul concetto di “materia”, sul concorso di più

competenze sullo stesso oggetto e sul concetto di materie, in Riv. giur. amb., 2010, 5, 685.

Per quel che concerne il riparto di competenze tra Stato e Regioni ante riforma del Titolo V Cost. cfr.

M. CECCHETTI, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2000. Per un

esame di ciò che è accaduto a seguito della L. cost. n. 3/2001 si rinvia, tra gli altri, a M. CECCHETTI,

La disciplina giuridica della tutela dell’ambiente come “diritto dell’ambiente”, in

www.federalismi.it, 2006; G. CORSO - V. LOPILATO (a cura di), Il diritto amministrativo dopo le

riforme costituzionali, Giuffrè, Milano, 2006; F. COSTANTINO, Il Titolo V alla luce della

giurisprudenza costituzionale sulla tutela dell’ambiente, in AA. VV., Studi in onore di Alberto

Romano, vol. III, Ed. Sc., Napoli, 2011, 2233; F. CUOCOLO, Le energie rinnovabili tra Stato e

Regioni. Un equilibrio instabile tra mercato, autonomia e ambiente, Giuffrè, Milano, 2011; F.

ELEFANTE, La materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” e il riparto delle competenze

legislative ed amministrative in materia ambientale tra Stato e Regioni, in AA. VV., Studi in onore di

Vincenzo Atripaldi, Jovene, Napoli, 2010; R. FERRARA, La tutela dell’ambiente fra Stato e regioni:

una “storia infinita”, in Foro it., 2003, 692; F. FONDERICO, Riforma costituzionale e tutela

dell’ambiente, in Ambiente, 2002, 2, 337; F. FRACCHIA, La “materia ambiente” nel testo del Titolo V,

in www.federalismi.it, 2002. Più di recente cfr. P. MADDALENA, La giurisprudenza della Corte, cit.;

ID., La tutela dell’ambiente nella giurisprudenza costituzionale, in Giorn. dir. amm., 2010, 3, 307; ID.,

Come si determina la materia di cui all’art. 117 Cost., in www.federalismi.it, 2008; ID.,

L’interpretazione dell’art. 117 e dell’art. 118 della Costituzione secondo la recente giurisprudenza

costituzionale in tema di tutela e fruizione dell’ambiente, in www.giustizia-amministrativa.it, 2008;

M. RENNA, L’allocazione delle funzioni normative e amministrative, in G. ROSSI (a cura di), Diritto

dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. 64

A titolo esemplificativo, si ricordano C. Cost. 22 luglio 2009 n. 235 in tema di danno ambientale e

C. Cost. 24 luglio 2009 n. 247 sugli imballaggi e le bonifiche, per un commento alle quali cfr. F. DE

LEONARDIS, La Corte costituzionale, cit.. 65

Il riferimento è a C. Cost. 24 luglio 2009 n. 249, dove la Corte – pur mostrando di condividere

l’impianto della pronuncia “capofila” (C. Cost. 22 luglio 2009 n. 225) nell’affermare la competenza

esclusiva dello Stato in materia ambientale – non manca di riconoscere “la lesione di prerogative

regionali” per ciò che concerne l’esercizio della potestà legislativa e regolamentare. Sul punto cfr.

amplius F. DE LEONARDIS, La Corte costituzionale, cit.. 66

Sottolineano questo aspetto G. BOTTINO – R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit.. Volendo esemplificare, si

pensi alla classificazione dei rifiuti in urbani, speciali e pericolosi contenuta nell’art. 184 d. lgs. n.

152/2006 che riproduce il contenuto dell’art. 7 del decreto Ronchi. Ancora, si veda il riparto di

competenze tra Stato, Regioni ed Enti locali in tema di gestione, laddove gli artt. 195 e ss. d. lgs. n.

152/2006 confermano quanto precedentemente previsto ex artt. 18 e ss. d. lgs. n. 22/1997.

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amministrativa in tema di rifiuti, ad esempio, vengono in rilievo le c.d. Autorità

d’ambito, ossia nuove Autorità dotate di personalità giuridica, previste per la prima

volta dall’art. 201 del d. lgs. n. 152 del 2006, “in relazione alla necessità di gestire su

scale territoriali ottimali determinati servizi pubblici di rilevanza ambientale, quali

(…) il servizio di gestione integrata dei rifiuti”67

. Inoltre, per quel che concerne

l’aspetto funzionale, il legislatore all’art. 208 del d. lgs. n. 152 del 2006 ha previsto

l’autorizzazione unica per la costruzione e la gestione degli impianti di smaltimento e

di recupero, “nella quale sono state accorpate l’autorizzazione alla realizzazione

degli impianti e l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento e di

recupero dei rifiuti”68

, un tempo distinte benché emanabili contestualmente ex art.

27, comma nono, del d. lgs. n. 22 del 1997. Infine, l’art. 209 del Codice

dell’ambiente ha sostanzialmente integrato quanto già previsto nel senso della

semplificazione dall’art. 18 della L. n. 93 del 200169

per quel che concerne il rinnovo

delle autorizzazioni all’esercizio degli impianti di gestione dei rifiuti e il rinnovo

dell’iscrizione all’Albo nazionale gestori rifiuti70

.

67

M. RENNA, Le semplificazioni amministrative, cit., il quale tuttavia si mostra critico nei confronti di

questo nuovo istituto, affermando come con la sua creazione il legislatore del 2006 abbia operato in

senso contrario rispetto all’esigenza di “procedere pure a un disboscamento della selva di Autorità ed

Enti pubblici istituiti appositamente per lo svolgimento di funzioni di tutela dell’ambiente”, nell’ottica

di una razionale redistribuzione delle funzioni amministrative. L’A., infatti, non manca di rilevare che

quanto previsto a norma dell’art. 201 d. lgs. n. 152/2006 rappresenta “una novità assai significativa

rispetto a quanto disposto in precedenza (…) dall’art. 23 del decreto Ronchi”. Per completezza,

occorre poi segnalare che l’art. 2, comma trentotto, della L. 24 dicembre 2007 n. 244 (L. finanziaria

per il 2008), ai fini della riduzione dei costi derivanti da duplicazioni di funzioni, è intervenuta sul

punto. Detta norma “della finanziaria, ha determinato, nella sostanza, un superamento delle

disposizioni del decreto n. 152 sulle Autorità d’ambito prima ancora che avesse inizio la loro

attuazione, costituendo un indubbio segnale positivo nella direzione di una semplificazione

organizzativa in materia di ambiente”. 68

M. RENNA, Le semplificazioni amministrative, cit.. 69

Si tratta della L. 23 marzo 2001 n. 93, rubricata Disposizioni in campo ambientale. 70

Detta disposizione, infatti, ha previsto che al meccanismo dell’autocertificazione previsto dalla

legge del 2001 si possa fare ricorso quando il soggetto interessato sia in possesso, non solo della

certificazione Emas, ma anche della certificazione Ecolabel o dei certificati UNI EN ISO 14001.

Simile previsione, come osservato in dottrina (M. RENNA, Le semplificazioni amministrative, cit.),

costituisce un importante segnale nell’ottica della semplificazione procedimentale, ammissibile,

nonostante l’intrinseca complessità della materia ambientale, poiché nel caso di specie la decisione

semplificata “concerne meri rinnovi di provvedimenti ampliativi già rilasciati, limitatamente ai quali

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Eppure non sempre i segnali di cambiamento sono stati salutati con favore. Parte

della dottrina, ad esempio, descrive come un “vistoso esempio di complicazione

nell’allocazione delle funzioni amministrative” le previsioni in tema di gestione dei

rifiuti originariamente contenute negli artt. 214 e ss. del d. lgs. n. 152 del 2006. Da

questo punto di vista, infatti, il Codice dell’ambiente nella sua primigenia versione,

innovando rispetto ai previgenti artt. 31 e ss. del d. lgs. n. 22 del 1997, aveva previsto

che le procedure semplificate per l’ottenimento dell’autorizzazione allo svolgimento

delle attività di auto-smaltimento e dell’esercizio delle operazioni di recupero

avvenissero con partecipazione sinergica della Sezione regionale dell’Albo nazionale

dei gestori ambientali e della Provincia competente. Tale assetto, però, è stato dai più

tacciato di essere in contrasto con i principi di efficacia, efficienza ed economicità

che debbono informare l’attività amministrativa, tanto da indurre il legislatore del

200871

a ripristinare lo status quo ante.

D’altro canto, quello appena citato costituisce solo uno dei tanti possibili esempi di

interventi “ortopedici” operati in via legislativa sul corpus del Codice dell’ambiente

con riguardo ai rifiuti. Non può sottacersi, infatti, come la disciplina contenuta nella

Parte IV del d. lgs. n. 152 del 2006, lungi dall’imporsi agli operatori giuridici con il

carattere della stabilità, sia stata più volte emendata tra il 2006 e il 201072

, quando il

si ritiene che ci si possa fidare delle verifiche e dei controlli tecnici effettuati dai certificatori

ambientali”. 71

Per effetto dell’art. 2, commi trentadue e ss, del d. lgs. 16 gennaio 2008 n. 4, infatti, il legislatore è

intervenuto a modificare quanto previsto a norma degli artt. 214, 215 e 216 del d. lgs. n. 152/2006. 72

In proposito si ricorda, innanzitutto, il d. lgs. 8 novembre 2006 n. 284 (G.U. 24 novembre 2006 n.

274) “Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, recante norme

in materia ambientale”, con cui il legislatore ha disposto, da un lato, l’abrogazione dell’art. 207

(“Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti”) e, dall’altro lato, la modifica di parte dell’art.

224, secondo comma, (“Consorzio nazionale imballaggi) del d. lgs. n. 152/2006. Inoltre, il medesimo

decreto all’art. 1, commi primo e secondo, “con disposizioni che non sembrano avere precedenti, ha

previsto una sorta di scaletta degli interventi emendativi da effettuare” (M. RENNA, Semplificazione e

ambiente, cit.).

Successivamente, a quasi due anni di distanza dall’adozione del Codice dell’ambiente, il d. lgs. 16

gennaio 2008 n. 4 -(G.U. 29 gennaio 2008 n. 24) “Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del

decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, recante norme in materia ambientale” – ha comportato una

riforma più incisiva. Nello specifico il legislatore, oltre ad aver modificato e abrogato alcuni articoli

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d. l. n. 10573

- andando a toccare una norma fondamentale, qual è quella relativa

all’ambito di applicazione della normativa stessa – ha costituito preludio della

riforma più radicale operata sul finire del 2010.

Il descritto proliferare di atti normativi costituisce indubbiamente espressione

tangibile “dell’ipertrofia che caratterizza il diritto dell’ambiente”74

, tanto da indurre

taluno a parlare di un vero e proprio “inquinamento normativo”75

. Parte della

dottrina, infatti, osserva criticamente come il diritto dell’ambiente sia cresciuto “sotto

una pioggia incessante di norme comunitarie, in grande prevalenza direttive, che

troppo spesso il legislatore nazionale ha recepito pedissequamente con decreti

legislativi isolati e scoordianti rispetto alle altre fonti normative”76

. Se si esamina il

rapporto tra le norme interne e quelle di matrice europea, infatti, si apprezza ictu

oculi come le prime altro non facciano che “rincorrere” continuamente le seconde.

L’intero escursus sin qui condotto, d’altra parte, è pervaso da continui riferimenti

agli sforzi compiuti dal legislatore italiano per ottemperare alle prescrizioni dettate

del Codice e ad averne sostituiti integralmente altri – quali, ad esempio, gli artt. 181, 182 e 185 – ha

introdotto ex novo gli artt. 181 bis, 206 bis e 252 bis. Sempre nel 2008, inoltre, la parte IV del Codice

dell’ambiente è stata interessata da altri cinque interventi legislativi, operati rispettivamente con: d. l.

23 maggio 2008 n. 90; d. l. 3 novembre 2008 n. 171; d. lgs. 20 novembre 2008 n. 188; d. l. 29

novembre 2008 n. 185 ed, infine, d. l. 30 dicembre 2008 n. 208. 73

Il d. l. 8 luglio 2010 n. 105 (in G. U. 9 luglio 2010 n. 158), conv. in L. 13 agosto 2010 n. 129,

all’art. 1, comma terzo, ha modificato l’art. 185 d. lgs. n. 152/2006 rubricato “Esclusioni dall’ambito

di applicazione”. Detto decreto, peraltro, era stato preceduto nel 2009 da un ulteriore intervento di

riforma operato con il d. l. 25 settembre 2009 n. 135 (in G. U. 25 settembre 2009 n. 223), conv. in L.

20 novembre 2009 n. 166, che all’art. 13, comma quattro lett. b) ha inserito nell’art. 236 d. lgs. n.

152/2006, rubricato “Consorzio nazionale per la gestione, raccolta e trattamento degli oli minerali

usati”, le lett. l bis); l ter); e l quater). 74

M. RENNA, Le semplificazioni amministrative cit.; nonché, in senso analogo D. AMIRANTE, Il diritto

ambientale italiano e comparato, Jovene, Napoli, 2003; A. CELOTTO, Il codice che non c’è, cit.. 75

L’espressione è riportata da M. RENNA, Le semplificazioni amministrative, cit.. 76

M. RENNA, Le semplificazioni amministrative, cit.. In senso analogo cfr. ID., Semplificazione e

ambiente in G. SCIULLO (a cura di), La semplificazione nelle leggi e nell’amministrazione: una nuova

stagione, Bonomia University Press, Bologna, 2008; R. FERRARA - F. FRACCHIA - N. OLIVETTI

RASON, Diritto dell’ambiente, Laterza, Bari, 2005.

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30

dal legislatore europeo77

. Il che – si è visto – ha dato luogo ad una “perniciosa

incertezza sull'affidabilità delle prescrizioni contenute”78

nel Codice dell’ambiente.

I.5 LA DIRETTIVA RIFIUTI 2008/98/CE E LA SPINTA DELL’EUROPA VERSO OBIETTIVI

DI GREEN ECONOMY

In linea di continuità con quella che può definirsi la “storia” della legislazione

nazionale in tema di rifiuti si colloca anche il d. lgs. n. 205 del 2010, ultimo

“importante” intervento normativo operato dall’Italia nella materia de qua. Anche in

questo caso, infatti, le modifiche che il citato decreto ha apportato alla Parte IV del

Codice dell’ambiente trovano la propria ragion d’essere nella necessità dello Stato di

recepire una direttiva, segnatamente la n. 2008/98/Ce79

. Quest’ultima, approvata il 2

ottobre 2008, a seguito di un intenso carteggio tra Consiglio e Parlamento europeo80

,

attiene essenzialmente alla gestione integrata dei rifiuti e va ad incidere in maniera

alquanto significativa sui precetti contenuti nella direttiva 2006/12/Ce81

, la quale a

sua volta aveva modificato la “storica” direttiva 75/442/Cee82

.

Prima di procedere all’esame del d. lgs. n. 205 del 2010, dunque, sembra opportuno

spendere qualche breve considerazione in ordine alla direttiva che esso recepisce, al

fine di indagarne quantomeno la ratio e gli obiettivi.

77

A titolo esemplificativo si ricordano gli atti normativi già menzionati alla nota n. 49 retro. 78

M. RENNA, Semplificazione e ambiente, cit., il quale scrive: “la disorganicità e l’asistematicità della

legislazione ambientale, [in specie per quel che concerne la materia dei rifiuti], vanno ben oltre ciò

che può ritenersi in qualche modo fisiologico a causa della complessità della materia in re ipsa”. 79

Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 n. 98, 2008/98/Ce, relativa

ai rifiuti e che abroga alcune direttive, pubblicata in G.U. L. 312 del 22 novembre 2008. In dottrina,

per un commento cfr., inter alia, H. A. NASH, The revised Directive on waste: resolving legislative

tensions in waste management?, in 21 [2009] 1 JEL 139; E. SCOTFORD, The new waste directive –

trying to do it all … an early assessment, in 11 [2009] ELR 75. 80

Tale aspetto è chiaramente sottolineato da H. NASH, Agreement reached on the revised directive on

waste, cit., dove si legge: “nonostante il disaccordo circa gli obiettivi e l’avversione degli Stati

membri in ordine agli obblighi relative alla gestione dei rifiuti, il Parlamento europeo e il Consiglio

hanno raggiunto un compromesso politico nella stesura della Direttiva rifiuti”. 81

Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 n. 12, 2006/12/Ce, relativa ai

rifiuti, pubblicata in G.U. L. 114 del 27 aprile 2006. Quest’ultima risulta abrogata a partire dal 12

dicembre 2010, data entro cui gli Stati membri avevano l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie

per conformarsi alla nuova direttiva europea. In dottrina, per un commento cfr., inter alia, E.

SCOTFORD, Trash or treasure: policy tensions in EC waste regulation, in [2007] 3 JEL 367. 82

Direttiva del Consiglio del 15 luglio 1975 n. 442, 75/442/Cee, relativa ai rifiuti.

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31

Al riguardo, è possibile osservare come quattro siano gli architravi su cui essa

poggia83

.

Innanzitutto, vera e propria mission della direttiva 2008/98/Ce è promuovere la c.d.

società rifiuti - zero, ossia “aiutare l’Unione europea ad avvicinarsi a una società del

riciclaggio, cercando di evitare la produzione di rifiuti e di utilizzare i rifiuti come

risorse”84

.

Se è vero dunque che - come spiegano alcuni autori - “i rifiuti sono tanto diversi dai

beni da poter essere considerati il loro contrario”, giacché “si tende a disfarsi dei

rifiuti mentre si vuole godere e/o disporre dei beni”85

, con la direttiva in commento il

legislatore europeo sembra esortare a meditare funditus prima declassare un bene a

rifiuto.

83

B. DENTAMARO - F. IERVOLINO, La disciplina comunitaria dei rifiuti vecchia e buona normativa a

confronto, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2010, 1, 359 dove si legge che “i principi ai quali la direttiva

si ispira sono essenzialmente quattro”.

Non stupisce, peraltro, che l’intero impianto della direttiva possa riassumersi nei suoi principi

ispiratori, giacché come ricorda la dottrina “il principio postula un valore, un fine generale” (A.

CIOFFI, (voce) “Codificazione” e principi generali, cit.). Esso, dunque - osserva A. ROMANO,

Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del convegno celebrativo del 150°

anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983 - “s’impone come norma oggettiva

e garantisce all’amministrazione autonomia e discrezionalità”.

In generale, per quel che concerne il ruolo dei principi nell’ordinamento cfr., inter alia, S. BARTOLE,

(voce) Principi generali del diritto, in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986; V. CRISAFULLI, I principi

costituzionali dell’interpretazione ed applicazione delle leggi, in Scritti in onore di Santi Romano,

Padova, 1940; F. MODUGNO, (voce) Principi generali dell’ordinamento, in Enc. giur., XXIV, Roma,

1991; U. RESCIGNO, Sui principi generali del diritto, in Scritti in onore di L. Mengoni, Giuffrè,

Milano, 1995.

Con specifico riferimento ai principi relativi alla pubblica amministrazione cfr., da ultimo, M. RENNA

– F. SAITTA, Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2012. Inoltre cfr. G. DELLA

CANANEA – C. FRANCHINI, I principi dell’amministrazione europea, Giappichelli, Torino, 2010; A.

POLICE, Principi e azione amministrativa, in F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo,

Giappichelli, Torino, 2008; G. SALA, Principi generali “costituzionali” per l’attività amministrativa,

in Annuario AIPDA, Giuffrè, Milano, 2004. 84

Così si legge al considerando n. 28 della direttiva 2008/98/Ce, il quale prosegue affermando: “in

particolare, il Sesto programma comunitario di azione in materia ambientale sollecita misure volte a

garantire la separazione alla fonte, la raccolta e il riciclaggio dei flussi di rifiuti prioritari. In linea con

tale obiettivo e quale mezzo per agevolarne o migliorarne il potenziale recupero, i rifiuti dovrebbero

essere raccolti separatamente nella misura in cui ciò sia praticabile da un punto di vista tecnico,

ambientale ed economico, prima di essere sottoposti a operazioni di recupero che diano il miglior

risultato ambientale complessivo. Gli Stati membri dovrebbero incoraggiare la separazione dei

composti pericolosi dai flussi di rifiuti se necessario per conseguire una gestione compatibile con

l’ambiente”. 85

R. FEDERICI, La nozione di rifiuti: una teoria, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2006, 6, 1951.

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32

Dunque, alla luce delle esigenze di tutela ambientale nonché in virtù del principio di

integrazione86

, si palesa l’opportunità di considerare i rifiuti come risorse87

. E ciò a

conferma del fatto che l’ambiente nelle sue molteplici componenti “non solo è

disceso dal diritto internazionale e da quello comunitario al sistema nazionale, ma

tende oggi ad interessare orizzontalmente qualsiasi attività svolta sia da soggetti

pubblici che da soggetti privati”88

, specie quelle di tipo commerciale89

.

Il Sesto Programma europeo di azione ambientale, ad esempio, mostra di volere

“indurre il mercato a lavorare per l’ambiente” dal momento che ha proposto il ricorso

al c.d. approccio non normativo, ossia ad un insieme di azioni tese ad “orientare i

mercati e la domanda dei consumatori verso prodotti e servizi ecologicamente

superiori (…) garantendo che per quanto possibile il prezzo dei prodotti incorpori il

86

In base a tale principio, “le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate

nella definizione e nella attuazione delle politiche e azioni comunitarie”. Esso, inserito in occasione

dell’Atto Unico europeo (art. 130 R del Trattato Ce), con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam

è confluito nell’art. 6 del Trattato Ce. Oggi, invece, a seguito delle modifiche apportate dal Trattato di

Lisbona, lo stesso si trova menzionato a norma dell’art. 130 TFUE. Inoltre, lo stesso è sancito anche

all’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza nel 2000 e oggi,

ex art. 6 Trattato UE (come modificato in occasione di Lisbona) recante “lo stesso valore giuridico

dei Trattati”.

In dottrina cfr. F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente tra Unione europea e WTO, in Dir.

amm., 2004, 3, 513; L. KRAMER, EU enviromental law, cit.; M. WEAIMER, The integration of

environmental protection as a general rule for interpretino community law, in 38 [2001] Com. market

law rev., 1, 159. 87

In particolare, la dottrina (R. FEDERICI, La nozione di rifiuti: una teoria, cit.) puntualizza che le

istituzioni europee chiedono di “assicurare un elevato livello di protezione ambientale e non già di

trasformare artificialmente i rifiuti in non rifiuti”. 88

Così F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit., il quale, osserva che quello che “è stato

definito come il più importante di tutti i principi, [ossia quello di integrazione], prescrive che qualsiasi

attività, tanto più quelle di cura concreta dell’interesse generale posta in essere dalle amministrazioni

comunitarie, e di riflesso anche da quelle nazionali, debba prendere in considerazione la componente

ambientale, misurarsi con essa e integrarla come uno degli elementi inderogabili del bilanciamento di

interessi”. Ex multis cfr. M. C. CAVALLARO, Il principio di integrazione come strumento di tutela

dell’ambiente, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2007, 2, 467. 89

In proposito, da ultimo, R. ROTA, Ambiente e libertà economiche. Principio di integrazione e

bilanciamento di interessi tra ordinamento comunitario e ordinamento interno, in

www.astridonline.it, 2011. Inoltre, prima ancora, cfr. F. CAPELLI, Tutela ambientale e libertà di

circolazione delle merci: due principi a confronto, in Dir. com. sc. int., 2003, 3, 620; M. MONTINI,

Commercio e ambiente: bilanciamento tra tutela ambientale e libera circolazione delle merci nella

giurisprudenza della CGCE, in Dir. com. sc. int., 2002, 2, 429; A. WEALE - A. WILLIAMS, Between

economy and ecology? The single marrket and the integration of environmental policy, in D. JUDGE

(ed.), A green dimension for the EC, Frank Kass, London, 1993.

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33

reale costo ambientale”90

. Del pari, da alcuni anni a questa parte la Corte di Giustizia

- in una nutrita serie di pronunce – ha preso a riconoscere expressis verbis “che vi

possono essere casi in cui la tutela ambientale limita la libertà di circolazione delle

merci”91

, purché siano rispettate talune condizioni92

.

90

Il Sesto Programma di azione ambientale, la cui operatività è prevista per gli anni 2001 – 2010, è

stato adottato con la decisione del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 luglio 2002,

106/2002/Ce (GUCE L 242 del 10 settembre 2002). In dottrina, per un commento, cfr. F. FONDERICO,

Sesto Programma di azione UE per l’ambiente e strategie tematiche, in Riv. giur. amb., 2007, 5, 698.

Evidenzia l’influenza che il Sesto Programma ha esercitato in materia di rifiuti D. POCKLINGTON, The

significance of the proposed changes to the waste framework directive, in [2006] EELR, 1, 175. 91

In questi termini F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit.. L’A., infatti, ricorda come in

materia ambientale la Corte di Giustizia sia stata considerata un “attivista politico” nonché “una fonte

di idee fondamentali del processo di integrazione” (cfr. M. SHAPIRO, The european Cour of Justice, in

A. SBRANCIA (ed.), Euro-politics, The Booking Institute, Washington, 1992; J. WHEILER, Journey to

an unknown destination: a retrospective and perspective of the European Court of Justice in the arena

of political integration, in 31 [1993] Journ. Comm. Market Studies 4, 417.

Tra le prime sentenze, si segnalano in particolare: CGCE, 20 settembre 1988, Commissione c.

Danimarca, C-302/1986; CGCE, 13 luglio 1989, Enichem c. Cinisello Balsamo, C-380/87; CGCE, 25

luglio 1991, Aragonesa de publicidad, C-1/90; CGCE, 9 luglio 1992, Commissione c. Belgio, C-2/90;

CGCE, 13 aprile 1994, Commissione c. Germania, C-131/93; CGCE, 17 maggio 1994, Repubblica

francese c. Commissione, C-41/93; CGCE, 3 dicembre 1998, Bluhme, C-67/97. 92

In CGCE 20 settembre 1988, Commissione c. Danimarca, C-302/1986, ad esempio, la Corte ha

affermato che la tutela dell’ambiente costituisce un’esigenza imperativa in ossequio alla quale è

ammissibile che una disposizione nazionale vada a limitare la libera circolazione delle merci, a patto

che però risultino integrate “tre condizioni: la disciplina nazionale deve applicarsi indistintamente ai

prodotti nazionali e a quello importati; essere necessaria per rispondere ad esigenze imperative del

diritto comunitario; essere proporzionata al fine perseguito”. Nel caso di specie, la Danimarca aveva

adottato una misura, concernente l’obbligo di commercializzare alcuni tipi di bevande in contenitori

riutilizzabili, che secondo la Commissione si poneva in contrasto con l’allora art. 30 del Trattato Cee,

a mente del quale “sono vietate le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di

effetto equivalente”.

In dottrina, cfr. M. MAZZAMUTO, Diritto dell’ambiente e sistema comunitario delle libertà

economiche, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2009, 6, 1571 il quale, esaminando il rapporto tra la tutela

dell’ambiente e le libertà economiche garantite a livello europeo, scrive che la problematicità della

questione ambientale si esprime primariamente nel bilanciamento con altri beni giuridici. In

particolare, l’A. evidenzia come la giurisprudenza della Corte di Giustizia abbia cercato di inquadrare

l’interesse ambientale “nel sistema delle libertà economiche”, a dimostrazione del fatto che non è

“ammissibile alcuna impostazione di unilateralismo ambientalista”. In altri termini, “l’evocazione

dell’interesse ambientale, sempre che in effetti ricorra, non può essere assunto come motivo che

determini un terreno franco per l’intervento pubblico”. Di tutto ciò sono espressione talune pronunce

della Corte di Giustizia in cui il fine della tutela dell’ambiente non è prevalso su altri e diversi

interessi, spesso in ragione del mancato rispetto del principio di proporzionalità. In questo senso cfr.

CGCE, 16 novembre 2000, C-217/99; CGCE, 29 novembre 2001, C-17/00; CGCE, 14 dicembre 2004,

C- 309/02; CGCE, 20 settembre 2007, C-297/05.

In ordine al principio di proporzionalità cfr. da ultimo S. COGNETTI, Principio di proporzionalità.

Profili di teoria generale e di analisi di sistema, Giappichelli, Torino, 2010 e D. U. GALETTA,

Principio di proporzionalità, in M. RENNA – F. SAITTA, Studi sui principi del diritto amministrativo,

Giuffré, Milano, 2012.

Ex multis, cfr. E. CANNIZZARO, Il principio di proporzionalità nell’ordinamento internazionale,

Giuffrè, Milano, 2000; D. U. GALETTA, Dall’obbligo di trasposizione delle direttive all’obbligo di

rispetto del principio di proporzionalità: riflessioni a prima lettura, in Riv. it. dir. pubbl. comunit.,

1997, 1, 89; ID, Il principio di proporzionalità comunitario e il suo effetto si spill over negli

ordinamenti nazionali, in Nuove autonomie, 2005, 2, 541; G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea,

cit.; J. UEDDA, Is the principle of proportionality the european approach? A review and analysis of

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Inoltre, l’opportunità di vagliare la percorribilità di altre vie prima di disfarsi di un

bene indubbiamente risponde al secondo architrave della direttiva rifiuti, vale a dire

al principio di prevenzione, il quale – essendo collocato al vertice della gerarchia dei

rifiuti ex art. 4 direttiva 2008/98/Ce93

– riveste un ruolo centrale “nella gerarchia

delle modalità di approccio alle problematiche ambientali generate dalla produzione

dei rifiuti”94

.

Anzi, è possibile affermare che la prevenzione – o azione preventiva – costituisce

proprio “il principio ispiratore della disciplina comunitaria dei rifiuti”95

dettata dalla

direttiva in esame. Qui inoltre lo stesso – pur non trovando ancora una vera e propria

definizione96

– vede finalmente “perimetrato” il suo proprium a norma dell’art. 3 n.

12, dove si legge che rientrano nel novero della prevenzione tutte le “le misure,

trade and environment cases before the european Court of Giustice, in 14 [2003] Eur. bus. law. rew.,

5, 557. 93

L’art. 4 della direttiva 2008/98/Ce è rubricato “gerarchia dei rifiuti”. Al comma primo si legge: “la

seguente gerarchia dei rifiuti si applica quale ordine di priorità della normativa e della politica in

materia di prevenzione e gestione dei rifiuti: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c)

riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio recupero di energia, e e) smaltimento”. 94

F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit., il quale evidenzia come la direttiva 2008/98/Ce sia

animata dall’intento di attuare “il passaggio da quella che significativamente è stata considerata come

la società del consumo a quella che, con espressione della medesima direttiva, viene indicata come la

“società del riciclaggio”. Al considerando n. 29, infatti, si legge che “gli Stati membri dovrebbero

sostenere l’uso di materiali riciclati (come la carta riciclata) in linea con la gerarchia dei rifiuti e con

l’obiettivo di realizzare una società del riciclaggio e non dovrebbero promuovere, laddove possibile,

lo smaltimento in discarica o l’incenerimento di detti materiali riciclati”. 95

F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.; nonché E. SCOTFORD, The new waste directive,

cit.. 96

Tale principio, infatti, non ha ancora trovato – quantomeno a livello normativo - una compiuta

definizione, nonostante già da alcuni anni esso trovi frequentemente menzione tanto in atti di diritto

internazionale (cfr. Dichiarazione di Rio) ed europeo (oltre agli atti di diritto derivato, si tenga

presente che la prevenzione è stata inserita nel Trattato Cee già nel 1986 in occasione dell’Atto

Unico europeo), quanto nelle Carte costituzionali (articolo 45 della Costituzione spagnola e articolo

66 della Costituzione portoghese) e negli atti legislativi di numerosi Stati (in Francia la L. 7 aprile

1987 n. 11 (c.d. legge base sull’ambiente) che all’art. 2, comma primo, stabilisce che “le azioni aventi

effetti immediati o futuri sull’ambiente devono essere considerate in via preventiva, riducendo o

eliminando le cause prima di correggere gli effetti di tali azioni o di attività suscettibili di modificare

la qualità dell’ambiente”).

Analogamente – evidenzia la dottrina (F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.) - nel Codice

dell’ambiente italiano “la prevenzione, pur richiamata tra i principi [ex art. 3 ter] e in circa quaranta

articoli (più della metà dei quali i materia di rifiuti e bonifiche), non viene definita specificatamente

nei suoi contenuti”. L’opera di ricostruzione, dunque, per lungo tempo è spettata all’interprete che, a

tal fine, ha potuto avvalersi delle indicazioni desumibili dai contesti normativi in cui il principio

campeggia e, soprattutto, dalla giurisprudenza, in primis della Corte di Giustizia (ad ex. CGCE, 26

aprile 2005, Commissione c. Irlanda, C-494/01) e della Corte europea dei diritti dell’uomo

(significative le pronunce in materia di ambiente, a cominciare da CEDU 9 dicembre 1994 ric. n.

16798/90).

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prese prima che una sostanza, un materiale o un prodotto sia diventato un rifiuto, che

riducono: a) la quantità dei rifiuti, anche attraverso il riutilizzo dei prodotti o

l’estensione del loro ciclo di vita; b) gli impatti negativi dei rifiuti prodotti

sull’ambiente e sulla salute umana; oppure c) il contenuto di sostanze pericolose in

materiali e prodotti”.

Ciò basta a segnare la distanza tra il principio de quo e quello di precauzione97

,

nonché a percepire come la direttiva in esame sia la prova di un sostanziale

revirement nell’approccio che le istituzioni europee hanno nei confronti dei rifiuti.

L’aver collocato la prevenzione in cima alla gerarchia dei rifiuti, infatti, sta ad

indicare che - a differenza di quanto postulato fino ad un recente passato – obiettivo

prioritario degli Stati membri non deve essere quello di ripristinare lo status quo ante

dopo che un danno si è verificato, poiché al contrario il principio dell’azione

preventiva “prevede l’adozione di misure [atte a] prevenire ogni possibile danno o

deterioramento”98

del bene ambiente.

97

Per quel che concerne il principio di precauzione si rinvia innanzitutto allo studio monografico di F.

DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione del rischio, Giuffrè, Milano, 2005,

dove si legge: “se si considera che le valutazioni che giustificano l’applicazione del principio di

precauzione sono connotate da rischio e incertezza, mentre quelle che consentono l’applicazione del

principio di prevenzione risultano connotate da regole meno elastiche e probabilistiche, non si può

non rimarcare che i due principi corrispondano ciascuno a presupposti differenziati, ovvero che la

precauzione costituisca uno sviluppo o una specificazione della prevenzione”. In senso analogo cfr. D.

AMIRANTE, Il principio precauzionale tra scienza e diritto. Profili introduttivi, cit.; M. CECCHETTI,

Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, cit.; N. DE SADELEER, Enviromental Principles.

From Political slogans to legal rules, OUP, Oxford, 2002; G. MANFREDI, Note sull’attuazione del

principio di precauzione in diritto pubblico, in Dir. pubbl., 2004, 3, 1075; T. MAROCCO, Il principio

di precauzione e la sua applicazione in Italia e in altri Stati membri della Comunità europea, in Riv.

it. dir. pubbl. comunit., 2003, 6, 1233.

Viceversa, per quel che concerne la oramai risalente teoria unificatrice si rinvia a P. DELL’ANNO,

Principi del diritto ambientale, cit., secondo cui il principio di azione preventiva rappresenta una

“mera sub- funzione” del principio di prevenzione. Nonché cfr. B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto

dell’Ambiente,cit.; C. CORDINI, Diritto ambientale comparato, Cedam, Padova, 2002; A. GOSSEMENT,

Le principe de precaution, L’Harmattan, Paris, 2003.

Ex multis, con riguardo al principio in argomento cfr. F. DE LEONARDIS, Tra precauzione e

ragionevolezza, cit.; R. FERRARA, I principi comunitari di tutela dell’ambiente, cit.; H. HOHMANN,

Precautionary legal duties and principles of modern international environmental law: the

precautionary principle: International environmental law between exploitation and protection,

Gratham & Trotman, London, 1994; L. KRAMER, EU enviromental law, cit.; A. KISS - D. SHELTON,

Manual of european enviromental law, Cambridge Univ. Press, Cambridge, 1993. 98

L. KRAMER, EU enviromental law, cit., il quale osserva che “il principio dell’azione preventiva (…)

riveste importanza fondamentale in ogni politica ambientale efficace, perché permette di intraprendere

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Ciò non di meno, anche il principio “chi inquina paga” costituisce tutt’oggi un

ulteriore pilastro della direttiva 2008/98/Ce, seppure il suo ruolo sia sensibilmente

mutato rispetto alle origini. Questo, introdotto nell’allora Trattato Cee in occasione

dell’Atto Unico Europeo, in realtà è comparso per la prima volta a livello

comunitario in una raccomandazione nel 197599

. Al tempo, nella logica

“mercantilista” della Comunità economica europea, l’avvento di tale principio

sembrò costituire una vera e propria “rivoluzione copernicana”, nella misura in cui lo

stesso appariva idoneo ad incidere su aspetti considerati cruciali, quale ad esempio

quello degli aiuti di stato alle imprese100

.

Il richiamo al contesto storico in cui per la prima volta il principio de quo è emerso,

dunque, appare da solo sufficiente a spiegarne la originaria vocazione economica101

.

In un primo tempo, infatti, la locuzione “chi inquina paga” stava essenzialmente ad

indicare che “i costi dovuti al deterioramento dell’ambiente, il danno da

inquinamento e i costi delle bonifiche non [avrebbero dovuto] essere sostenuti dalla

azioni con anticipo rispetto all’aggravarsi dei problemi”. Esso, inoltre reca “importanti risvolti

economici perché spesso è molto più costoso riparare un danno – sempre che sia possibile bonificare

completamente – piuttosto che evitarlo”. In senso analogo A. KISS - D. SHELTON, Manual, cit.. 99

Il riferimento è alla raccomandazione 75/436/Euratom/CECA/Cee, relativa alle modalità di

applicazione del principio e pubblicata in G.U.C.E. n. L. 144 del 25 luglio 1975, nella quale si legge

che “ le persone fisiche e giuridiche, di diritto pubblico o privato responsabili di inquinamento devono

sostenere i costi delle misure necessarie per evitarlo o per ridurlo”. In realtà, riferimenti al principio de

quo si rinvengono anche in atti precedenti, come ad esempio la comunicazione del 1972 della

Commissione al Consiglio relativa al Primo Programma delle Comunità europee per l’ambiente (in

G.U.C.E. n. C 52 del 26 maggio 1972).

In dottrina cfr. D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit., il quale scrive: “primo

ad affermarsi a livello comunitario il principio chi inquina paga nasconde nella semplicità della sua

formula slogan, (…) una certa ambiguità e notevoli difficoltà di applicazione, soprattutto perché

corrisponde ad una visione dei rapporti fra attività umane ed ambiente sostanzialmente superata”. 100

Per quel che concerne gli aiuti di stato cfr, per tutti, O. PORCHIA, (voce) Aiuti di stato, in Dig. disc.

pubbl. (aggiornamento), UTET, 2010. Sul legame tra politica ambientale e aiuti di stato alle imprese

cfr. F. CAPELLI, Tutela ambientale, cit.; A. COLAVECCHIO, Aiuti di stato, ostacoli al commercio tra

Stati membri ed esigenze di tutela dell’ambiente nella giurisprudenza comunitaria. A proposito della

sentenza Preussenelektra, in Cons. Stato, 2003, II, 869; C. CORDINI, Diritto ambientale comparto, cit.;

F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit.. 101

Tale assunto trova costanti conferme nella dottrina. Oltre a D. AMIRANTE, Il diritto ambientale

italiano e comparato, cit., cfr. M. CECCHETTI, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, cit.;

M. MELI, Le origini del principio chi inquina paga e il suo accoglimento da parte della comunità

europea, in Riv. giur. amb., 1989, 1, 217.

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società attraverso le imposte, ma da chi ha causato il danno. Per questo non

[dovevano] essere elargiti aiuti statali per pagare i costi delle bonifiche”102

.

Negli anni, tuttavia, detto principio ha finito per essere soggetto ad un ribaltamento

di prospettiva, tale per cui la responsabilità di colui che inquina si impone come

precipitato indefettibile della tutela dell’ambiente e non come grimaldello giuridico

atto unicamente a presidiare la costruzione del mercato unico. Alla luce dell’art. 191,

comma secondo, TFUE, infatti, il principio “chi inquina paga” costituisce una sorta

di ultima ratio non solo perché antieconomico, ma soprattutto perché implica una

tutela per equivalente (ossia la monetizzazione del danno) inidonea a garantire il

ripristino dello status quo ante. Come osservato da parte della dottrina, infatti, risulta

acquisito che “l’ottica del rattoppo ambientale” poggia “su due presupposti oggi non

più condivisibili, quali la percezione delle risorse ambientali come beni

sostanzialmente illimitati o comunque sempre riproducibili, e la capacità del sapere

scientifico e dell’organizzazione sociale di riparare sempre e comunque eventuali

danni”103

.

In definitiva, posto che la scienza ecologica ha sconfessato l’idea della perfetta

fungibilità tra utilità ambientali e utilità economiche, il modello di tutela solamente

successiva dell’ambiente appare oggi “sostanzialmente superato da una più corretta

impostazione della tutela ambientale in senso soprattutto preventivo”104

. Al principio

102

L. KRAMER, EU enviromental law, cit.. 103

In proposito D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit., il quale ricorda che

l’origine del principio chi inquina paga “va individuata sicuramente nella teoria economica, in

particolare nell’idea della necessità di internazionalizzare i costi della tutela ambientale attribuendoli

agli inquinatori”. Ex multis cfr. M. CECCHETTI, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, cit.;

e P. DELL’ANNO, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, cit., il quale sottolinea come già

nel Terzo Programma comunitario di azione ambientale si affermava che “l’addebito dei costi

destinati alla protezione dell’ambiente a chi causa l’inquinamento incita quest’ultimo a ridurre

l’inquinamento provocato dalle proprie attività ed a ricercare prodotti e tecnologie meno inquinanti”. 104

D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit.. Ma anche R. FERRARA, I principi

comunitari, cit., il quale evidenzia che “i principi europei (…) ci ricordano che o le politiche

pubbliche degli odierni sistemi multilivello si prefiggono di attivare forme e strumenti di protezione a

carattere preventivo, capaci coerentemente di operare ex ante, prima che gli eventi dannosi si siano

verificati, oppure non ci sarà che la tutela ex post, a carattere meramente risarcitorio, e che, questa

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“chi inquina paga” resta dunque una funzione – per così dire – deterrente105

, oltre che

“un ruolo di utile complemento sia nella fase di internazionalizzazione dei costi, sia

come norma di chiusura nei casi in cui l’approccio preventivo fallisca”106

.

Quarto ed ultimo architrave della direttiva 2008/98/Ce è il principio della

responsabilità estesa del produttore107

, la cui aspirazione è quella di costituire “uno

dei mezzi per sostenere una progettazione e una produzione dei beni che prendano

pienamente in considerazione e facilitino l’utilizzo efficiente durante l’intero ciclo di

vita (…) senza compromettere la libera circolazione delle merci nel mercato

interno”108

. A tale principio sembrerebbe dunque spettare il ruolo di tres d’union tra

l’obiettivo di dare vita ad una società del riciclo e quello di improntare la gestione dei

rifiuti al principio di prevenzione, specie nella sua “accezione positiva”109

. Al

stessa, è poca cosa, sostanzialmente consolatoria, e spesso, per giunta, di non agevole realizzazione

sul piano pratico”. 105

Al riguardo, cfr. M. CAFAGNO, Principi e strumenti, cit., dove si legge che “l’imposizione

dell’onere della riparazione è diretta ad influire sulla condotta dei consociati, inducendoli, con la

prospettiva della responsabilità a tener conto, nei rispettivi calcoli di convenienza, dei costi di

ripristino ambientale”. 106

D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit.. 107

L’art. 8 della direttiva 2008/98/Ce, rubricato “responsabilità estesa del produttore” dispone:

“Per rafforzare il riutilizzo, la prevenzione, il riciclaggio e l’altro recupero dei rifiuti, gli Stati membri

possono adottare misure legislative o non legislative volte ad assicurare che qualsiasi persona fisica o

giuridica che professionalmente sviluppi, fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti

(produttore del prodotto) sia soggetto ad una responsabilità estesa del produttore. Tali misure possono

includere l’accettazione dei prodotti restituiti e dei rifiuti che restano dopo l’utilizzo di tali prodotti,

nonché la successiva gestione dei rifiuti e la responsabilità finanziaria per tali attività. Tali misura

possono includere l’obbligo di mettere a disposizione del pubblico informazioni relative alla misura in

cui il prodotto è riutilizzabile e riciclabile.

Gli Stati membri possono adottare misure appropriate per incoraggiare una progettazione dei prodotti

volta a ridurre i loro impatti ambientali e la produzione di rifiuti durante la produzione e il successivo

utilizzo di prodotti e ad assicurare che il recupero e lo smaltimento dei prodotti che sono diventati

rifiuti avvengano in conformità con gli articoli 4 e 13.

Tali misure possono incoraggiare, tra l’altro, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di

prodotti adatti all’uso multiplo, tecnicamente durevoli e che, dopo essere diventati rifiuti, sono adatti a

un recupero adeguato e sicuro e a uno smaltimento compatibile con l’ambiente.

Nell’applicare la responsabilità estesa del produttore, gli Stati membri tengono conto della fattibilità

tecnica e della praticabilità economica nonché degli impatti complessivi sociali, sanitari e ambientali,

rispettando l’esigenza di assicurare il corretto funzionamento del mercato interno. 108

In questi termini il considerando n. 27 della direttiva 2008/98/Ce. 109

Tale espressione è presa in prestito da F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit., il quale

evidenzia come il principio di azione preventiva codificato all’art. 3, comma dodici, della direttiva

2008/98/Ce possa essere declinato secondo due accezioni: una negativa e una positiva. Dal primo

punto di vista, tale principio “postula un intervento a monte del processo di produzione o di consumo

(…) volto a diminuire le quantità di materiali prodotti e immessi in commercio al fine di ottenere un

risparmio delle risorse naturali”. In altri termini, si tratta di “una sorta di invito a produrre di meno o a

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contempo lo stesso testimonia anche la marcata interazione esistente tra la materia

ambientale e quella economica110

. Non può sottacersi, infatti, come la messa al bando

di un prodotto111

piuttosto che l’imposizione dell’obbligo di conformarsi a

determinati standard nella progettazione di un bene112

, costituiscano misure capaci di

esplicare effetti dirompenti sul piano economico, giacché si risolvono in prescrizioni

che interessano intere filiere produttive. Non è un caso, pertanto, se misure del

genere di quelle citate vengono normalmente introdotte in maniera graduale e, in

ogni caso, facendo (almeno teoricamente) salva la possibilità per gli Stati membri di

valutare aspetti cruciali, quali la fattibilità tecnica e la praticabilità economica.

mettere in commercio di meno”. E’ quello che accede, ad esempio, con le misure di messa al bando di

prodotti ritenuti particolarmente pericolosi per l’ambiente (in proposito cfr. l’art. 1, comma 1130,

della L. 26 dicembre 2006 n. 296 (L. finanziaria per il 2007) che ha previsto, a decorrere dal 1 gennaio

2011, il divieto di commercializzare sacchetti non biodegradabili per l’asporto delle merci, c.d.

shopper. Sul punto cfr. amplius nota n. 111, infra). Quanto, invece, all’accezione positiva, in questo

caso la prevenzione “incoraggia lo sviluppo”, nella misura in cui suggerisce di produrre in modo

diverso. Da tale punto di vista, inoltre, la medesima dottrina evidenzia come il principio di azione

preventiva possa essere ulteriormente scomposto, essendo enucleabili una prevenzione “a monte”

(progettazione ecologica); una prevenzione “durante” (sottoprodotti) ed, infine, una prevenzione “a

valle” (cessazione della qualifica del rifiuto) del processo di produzione. 110

Al riguardo cfr., inter alia, M. CAFAGNO, La cura dell’ambiente tra autorità e mercato, in AA.

VV., Ambiente, attività amministrativa e codificazione. Atti del primo colloquio di diritto

dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2006; F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit.; R. ROTA,

Ambiente e libertà economiche, cit.. 111

Si veda, ad esempio, l’art. 1, comma 1130, della L. 26 dicembre 2006 n. 296 (L. finanziaria per il

2007) che ha previsto, a decorrere, dal 1 gennaio 2011, il divieto di commercializzare sacchetti non

biodegradabili per l’asporto di merci, c.d. shopper. Sul punto, peraltro, si segnala che mutatis

mutandis sul finire degli anni ottanta del secolo scorso il sindaco del comune di Cinisello Balsamo

aveva adottato misure analoghe. Al tempo, tuttavia, la questione oltre a destare grande scalpore era

stata portata al vaglio della Corte di Giustizia (CGCE 13 luglio 1989, Enichem c. Cinisello Balsamo,

C-308/87). 112

Al riguardo cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit., secondo il quale il principio della

responsabilità estesa del produttore, come codificato dall’art. 8 della direttiva 2008/98/Ce, sembra

inteso a realizzare una prevenzione “a monte”, giacché postula “un vero e proprio facere, una

produzione realizzata sulla base di una progettazione ecologica: di prodotti che diventano rifiuti in un

tempo maggiore (prodotti tecnicamente durevoli) , di prodotti i cui componenti sono riutilizzabili (uso

multiplo); di prodotti i cui componenti sono riciclabili; di prodotti comunque ecocompatibili”.

In concreto, ciò può implicare, con riferimento ad alcuni tipi di beni, quali ad esempio i veicoli o i

pneumatici, “la progettazione di un sistema articolato di raccolta dei prodotti “a fine vita”. Al

riguardo, si ricorda che la Corte di Giustizia nel 2007 ha condannato l’Italia per non aver

correttamente recepito la direttiva 2000/53/Ce relativa ai veicoli fuori uso (direttiva del Parlamento

europeo e del Consiglio del 18 settembre 2000 in GUCE 21 ottobre 2000 L 269). Segnatamente, lo

Stato italiano è stato condannato per non aver previsto “ per quanto riguarda i veicoli a motore a tre

ruote, disposizioni volte ad assicurare che gli operatori economici istituiscano sistemi di raccolta di

tutti i veicoli fuori uso e, nella misura in cui sia tecnicamente fattibile, delle parti usate allo stato di

rifiuto, asportate al momento della riparazione di veicoli e ad assicurare un’adeguata presenza dei

centri di raccolta sul territorio nazionale” (CGCE 24 maggio 2007, Rudiger Jager, C-94/05).

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In definitiva, dall’analisi dei quattro architravi su cui poggia l’ultima direttiva rifiuti

si evince chiaramente come nella materia de qua abbia avuto luogo un vero e proprio

revirement113

, tale per cui il baricentro non è più costituito dagli aspetti strictu sensu

gestori (in specie lo smaltimento), optandosi piuttosto per un intervento a monte in

ossequio al principio di azione preventiva. Ciò del resto si pone in linea con l’attuale

politica europea in materia ambientale, poiché – constatato il “deterioramento dello

stato generale dell’ambiente della Comunità”114

– le istituzioni sembrano aver virato

in maniera decisa verso il perseguimento di un modello di green economy improntato

ai principi dello sviluppo sostenibile115

e della “eco-efficienza”116

.

I.6 IL DECRETO LEGISLATIVO 3 DICEMBRE 2010 N. 205: ULTIMO ATTO DI UNA

STORIA ANCORA IN FIERI

Analizzati i principi su cui è imperniata la disciplina dei rifiuti contenuta nella

direttiva 2008/98/Ce, è ora possibile muovere all’esame delle modifiche che il d. lgs.

n. 205 del 2010 ha apportato alla Parte IV del Codice dell’ambiente al fine

proclamato di conformarsi alle prescrizioni europee.

Poiché infatti – secondo quanto anticipato, e in linea di continuità con la “tradizione

normativa” in tema di ambiente117

– il recente intervento legislativo trova la propria

113

Così F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a cura di), Diritto

dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. 114

F. FONDERICO, Sesto Programma di azione UE per l’ambiente, cit.. 115

Tale aspetto viene evidenziato, ad esempio, in L. KRAMER, EU environmental law, cit.. Inoltre, sul

rilievo del principio dello sviluppo sostenibile, anche nell’ottica della tutela delle generazioni future,

cfr. M. ALLENA – F. FRACCHIA, Globalization, environment and sustainable development, in global,

european and italian perspectives, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011, 3-4, 779; R. BIFULCO – A.

D’ALOIA (a cura di), Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della

responsabilità intergenerazionale, Jovene, Napoli, 2008; F. FRACCHIA, Sviluppo sostenibile e diritti

delle generazioni future, in Riv. quad. dir. amb.,n. 0/2010; ID., Sulla configurazione giuridica unitaria

dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà ambientale, cit.. 116

F. FONDERICO, Sesto Programma di azione UE per l’ambiente, cit.,il quale puntualizza come per

“eco-efficienza” si intenda la volontà di “sganciare l’impatto e il degrado ambientale dalla crescita

economica”. 117

In proposito cfr. F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit., il quale scrive: “dal

sotterraneo piano dei bisogni della società, quello che esprime i principi istituzionali e il ruolo della

stessa amministrazione, l’esigenza di tutela dell’ambiente è andata progressivamente emergendo nei

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ragion d’essere nella necessità dello Stato di recepire la direttiva poc’anzi esaminata,

l’analisi del d.lgs. n. 205 del 2010 a cui ci si appresta – pur senza voler affrontare

funditus i profili inerenti la gestione, cui è riservato il capitolo III - mira

essenzialmente a verificarne la rispondenza ai principi contenuti nella direttiva rifiuti.

Al riguardo, è possibile innanzitutto apprezzare il fatto che la gestione dei rifiuti,

definita expressis verbis come una “attività di pubblico interesse”118

, deve svolgersi

in ossequio a una serie di principi di conio (anche) europeo. In particolare, ai sensi

del novellato art. 178, d. lgs. n. 152 del 2006, le attività di cui la gestione dei rifiuti

consta debbono essere realizzate “conformemente ai principi di precauzione, di

prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di

cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione,

nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi

inquina paga”119

. La norma, dunque, nella sua prima parte mostra di ratificare

l’operatività nel contesto nazionale dei principi europei di tutela dell’ambiente e, in

particolare, di quelli che nelle pagine precedenti sono stati indicati come i capisaldi

della direttiva 2008/98/Ce.

Ed in effetti da un esame complessivo emerge che gli elementi di novità introdotti

dal d.lgs. n. 205 del 2010 sono prioritariamente orientati al perseguimento dei quattro

vari piani ordinamentali seguendo, almeno nel nostro paese, un percorso diverso da quello

tradizionale. Ed, infatti, generalmente, la tutela di un interesse viene riconosciuta in prima battuta

dagli ordinamenti nazionali e poi ascende negli ordinamenti superiori (diritto comunitario e diritto

nazionale); mentre la tutela ambientale è discesa nell’ordinamento nazionale in gran parte in risposta a

imput provenienti da livelli superiori”. Non a caso, infatti, ancora sul finire degli anni Ottanta del

Novecento, F. G. SCOCA, Tutela dell’ambiente: impostazione del problema dal punto di vista

giuridico, in Quad. reg., 1989, 2, 532 scriveva: “l’ambiente si presenta come una nozione così vicina

ai nostri interessi da sollecitare più le nostre emozioni che non le nostre idee”. 118

Art. 177, comma secondo, d. lgs. n. 152/2006 come modificato dal d. lgs. n. 205/2010. 119

L’art. 178 del d. lgs. n. 152/2006 come modificato dal d. lgs. n. 205/2010 prosegue affermando

che “a tal fine la gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità,

trasparenza, fattibilità tecnica ed economica, nonché nel rispetto delle norme vigenti in materia di

partecipazione e di accesso alle informazioni ambientali”.

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principi – guida che si è visto informare la direttiva rifiuti e, più in generale, alla

volontà di contribuire a creare una società rifiuti-zero.

Ciò si evince proprio a cominciare dal citato art. 178, dove campeggia l’espresso

richiamo al principio “chi inquina paga” e a quello di prevenzione, le cui definizioni

riproducono testualmente quelle contenute nella direttiva 2008/98/Ce. Inoltre,

l’affinità tra il provvedimento di rango europeo e l’odierna Parte IV del Codice

dell’ambiente trova ulteriore conferma a norma dei successivi artt. 178 bis e 179 del

d. lgs. n. 152 del 2006. Il primo, creato ex novo dal legislatore nel 2010, codifica il

principio della responsabilità estesa del produttore, condividendo in pieno la ratio e

la sostanza della corrispondente previsione europea. Stessa cosa per ciò che concerne

l’art. 179 che, nel dettare i “criteri di priorità nella gestione dei rifiuti”, riproduce

ancora una volta testualmente quanto stabilito dall’art. 4 della direttiva 2008/98/Ce.

In definitiva, il d. lgs. 205 del 2010 – specie per il risalto accordato al principio di

prevenzione - sembra voler confermare l’assunto secondo cui il modo di approcciarsi

alla tematica dei rifiuti ha subito un “capovolgimento della prospettiva”120

. Infatti, se

l’impianto normativo coniato nel 2006 mirava principalmente a regolare la “gestione

del rifiuto, dando per scontato che esso fosse un prodotto necessario e non

eliminabile della società contemporanea, il nuovo approccio è rivolto

fondamentalmente a evitare e/o ridurre drasticamente la formazione del rifiuto”121

.

Al contempo, inoltre, dall’esame di tale decreto trae assoluto conforto l’idea che

“l’esigenza di tutela dell’ambiente è andata progressivamente emergendo nei vari

piani ordinamentali seguendo, almeno nel nostro ordinamento, un percorso diverso

120

Così F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.. 121

F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.. D’altra parte, come sottolineato da G. BOTTINO -

R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit., “sta all’intelligenza dell’uomo e dell’ordinamento giuridico

indirizzare i comportamenti umani e la gestione delle cose in senso virtuoso approfittando delle

caratteristiche vantaggiose per ridurre o far scomparire quelle di svantaggio; come quando si riesce a

utilizzare i sottoprodotti”.

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da quello tradizionale. Ed, infatti, generalmente, la tutela di un interesse viene

riconosciuta in prima battuta dagli ordinamenti nazionali e poi ascende [agli]

ordinamenti superiori (diritto comunitario e diritto internazionale); mentre la tutela

ambientale è discesa nell’ordinamento nazionale in gran parte in risposta ad imput

provenienti da livelli superiori”122

.

I.7 VERSO UN “DIRITTO PER PRINCIPI” DI MATRICE EUROPEA

Nelle pagine che precedono si è cercato di ricostruire il sistema delle fonti in materia

di rifiuti dagli albori, ossia dalla L. n. 366 del 1941, sino ai giorni nostri. Ciò ha

implicato un continuo parallelo tra la legislazione soprannazionale e quella interna.

Uno sguardo attento solo a quest’ultima, infatti, si sarebbe rivelato eccessivamente

“miope”, poiché - come più volte messo in evidenza - l’attuale assetto della

normativa nazionale in tema di rifiuti è ampiamente tributario nei confronti del

diritto europeo123

.

Infatti, nonostante il Trattato Cee, al pari della Costituzione italiana del 1948124

, non

contenesse alcun riferimento all’ambiente, “subito dopo l’entrata in vigore del

Trattato di Roma, ci si rese conto che la creazione di una Comunità Economica

122

F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit.. In senso analogo cfr. J. FLUCK, The term

“waste” in EU law, cit. e C. VERDURE, The europeanization of the definition of waste, cit.. 123

In senso analogo cfr. nota n. 122, retro. 124

Per la ricostruzione del dibattito dottrinale sul ruolo dell’ambiente nella Costituzione italiana cfr.

B. CARAVITA DI TORITTO - A. MARRONE, L’organizzazione costituzionale e l’ambiente, in S. NESPOR

– A. L. DE CESARIS (a cura di), Codice dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 1999; F. FRACCHIA, Sulla

configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà ambientale, cit.;

N. GRECO, La Costituzione dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 1996; P. MADDALENA, L’ambiente

valore costituzionale nell’ordinamento comunitario, cit.; A. POSTIGLIONE, Ambiente: suo significato

giuridico unitario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, 1, 55; A. SIMONCINI, Ambiente e protezione della

natura, Cedam, Padova, 1996. Senza dimenticare che per lungo tempo, più che l’ambiente

propriamente inteso, ciò a cui si è dato rilievo è stato il paesaggio. In proposito cfr. A. CASETTA, La

tutela del paesaggio nei rapporti tra Stato Regione e autonomie locali, in Le Regioni,1984, 4, 431; P.

DE LEONARDIS (a cura di), I valori costituzionali nell’ambiente-paesaggio, Giappichelli, Torino, 1997;

ID., Verso la tutela del paesaggio come situazione oggettiva costituzionale, in Riv. trim. dir. pubbl.,

1988, 2, 535; A PREDIERI, (voce) Paesaggio, in Enc. dir., Milano, 1981; ID. Significato della norma

costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione

(raccolta di saggi), Giuffrè, Milano, 1969; A. M. SANDULLI, La tutela del paesaggio nella

Costituzione, in Riv. giur. ed., 1967, II, 69.

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Europea, con un mercato comune in cui i confini nazionali non costituivano più delle

barriere economiche, comportava la necessità di meccanismi comunitari volti a

tutelare [anche] l’uomo e l’ambiente”125

. E, se in un primo momento talune misure

mostravano di proteggere l’ambiente solo in via indiretta126

, poiché l’obiettivo

principale era ancora la costruzione di un mercato unico, a partire dall’introduzione

nel Trattato Cee di un Titolo ad hoc127

è sembrato chiaro che l’ambiente costituisce

di per sé un bene meritevole di tutela. Pertanto, da quando le istituzioni comunitarie

hanno iniziato a porre in essere una vera e propria “politica ambientale”, poco alla

volta si è determinata una sorta di ribaltamento della prospettiva, tale per cui anche

all’interno dei confini nazionali l’ambiente non è più stato concepito in una posizione

125

L. KRAMER, EU enviromental law, cit.. 126

Come ricorda parte della dottrina (M. RENNA, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo,

cit.), inizialmente fu sulla base degli artt. 100 e 235 del Trattato Cee che “gli organi comunitari

poterono cominciare ad adottare anche programmi e misure di protezione ambientale al fine di

armonizzare le normative nazionali aventi un’incidenza sul funzionamento del mercato comune”.

Infatti, in mancanza di una espressa competenza nella materia de qua, ma “essendo già chiaro allora

come l’assenza o la presenza, all’interno di uno Stato membro, di una determinata misura di

protezione ambientale, o una sua differente intensità, siano in grado di alterare significativamente

l’uniformità del mercato europeo, gli interventi comunitari diretti a salvaguardare l’ambiente potevano

giustificarsi proprio con l’obiettivo di garantire, attraverso l’armonizzazione delle misure i tutela, la

realizzazione e il mantenimento di un mercato comune, libero e concorrenziale”.

In senso analogo cfr. F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit., il quale sottolinea come,

tanto dal punto di vista del diritto internazionale quanto da quello del diritto comunitario, “le vicende

della relazione commercio – ambiente (…) possono essere ricostruite in tre tappe fondamentali”. In

particolare, per quel che concerne il contesto europeo, l’A. sottolinea che “in una prima fase

l’ambiente, non menzionato dai Trattati, non viene preso in considerazione al fine della limitazione

della circolazione delle merci; in una seconda fase l’elemento ambientale viene riconosciuto dapprima

con i programmi d’azione, poi con le direttive in settori specifici e ancora con le norme dei trattai e le

direttive trasversali; infine vi è la copiosa produzione giurisprudenziale che riconosce in modo chiaro

che vi possono essere casi in cui la tutela ambientale limita la libertà di circolazione delle merci”.

Emblematico di tale evoluzione è, ad esempio, il comportamento della Commissione europea in tema

di divieto di circolazione della automobili non catalitiche. Mentre agli inizi degli anni Ottanta del

secolo scorso, all’esito di una procedura di infrazione, la Germania è stata condannata per aver vietato

la circolazione di determinate auto ritenute foriere di un eccessivo inquinamento dell’aria, a distanza

di pochissimi anni (precisamente nel 1988) la Commissione ha archiviato una procedura di infrazione

analoga (cfr. F. CAPELLI, Tutela ambientale, cit.). 127

Il riferimento è al Titolo VII del Trattato Cee, costituito da tre articoli: 130R, 130S e 130T.

Successivamente, pur restando collocati nell’ambito del Trattato Cee tali articoli sono stati dapprima

spostati nel Titolo XVI (Trattato di Maastricht) e poi, per effetto del Trattato di Amsterdam, essi sono

stati collocati nel Titolo XIX e hanno visto mutare la propria numerazione in artt. 14, a75 e 176. Oggi,

dopo che in occasione di Lisbona il Trattato Ce è stato rinominato Trattato sul funzionamento

dell’Unione europea, l’ambiente è disciplinato dagli artt. 191 – 193 TFUE.

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servente rispetto ad altri interessi128

. A dimostrazione di ciò – e in disparte il dibattito

circa l’opportunità di inserire l’ambiente tra i principi fondamentali della nostra

128

“Storicamente”, come ricorda D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit., il

contributo dottrinario che ha originato il dibattito in ordine al concetto di ambiente si deve a Massimo

Severo Giannini. In particolare in M. S. GIANNINI, Ambiente: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici,

cit., l’A. descrive l’ambiente come un “coacervo di situazioni giuridiche”, ossia come il centro in cui

convergono interessi diversi: sanitari, urbanistici e paesaggistici. “Da ciò deriva (…) una prevalenza

dell’aspetto urbanistico della tutela ambientale intesa prevalentemente come pianificazione dei

rapporti uomo/ambiente nel territorio”. In altri termini, in Giannini, così come successivamente in altri

autori (in primis A. PREDIERI, (voce) Paesaggio, cit.; ma anche L. MEZZETTI, La “costituzione

dell’ambiente”, in ID. (a cura di), Manuale di diritto ambientale, Padova, 2001) l’ambiente non rileva

in quanto tale, ma quale mezzo per raggiungere altri fini, individuati, di volta in volta, nella

pianificazione urbanistica piuttosto che nella salubrità delle acque o del territorio. Ed, in effetti, “la

prima sentenza della Corte costituzionale che si è occupata di ambiente è la n. 151 del 1986,

concernente la legittimità costituzionale della legge 431 del 1985, la cosiddetta legge Galasso, la

quale, come è noto, formò un elenco delle zone d’Italia sottoposte per legge al vincolo paesaggistico e

statuì per le Regioni l’obbligo di redigere piani paesaggistici, ovvero dei piani territoriali aventi

valore paesistico ambientale” (P. MADDALENA, La giurisprudenza della Corte Costituzionale in

materia di tutela e fruizione dell’ambiente e le novità sul concetto di “materia”, sul concorso di più

competenze sullo stesso oggetto e sul concorso di materie, cit.; P. STELLA RICHTER, Diritto

urbanistico. Manuale breve, Giuffrè, Milano, 2010).

Ciò non di meno e nonostante oggi sia ancora difficile “definire l’ambiente sul piano giuridico ed

indicare i presupposti giuridici della sua tutela” (P. MADDALENA, L’ambiente, prolegomeni per una

sua tutela giuridica, cit.), il superamento dell’assunto della sua irrilevanza giuridica si deve in gran

parte alla giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr., ad ex., C. Cost. 27 giugno 1986 n. 151; C.

Cost. 28 maggio 1987 n. 210; C. Cost. 30 dicembre 1987 n. 641), “ma soprattutto [al] nuovo testo

della Costituzione italiana che lo menziona espressamente all’art. 117”. Come evidenziato da parte

della dottrina (P. MADDALENA, La giurisprudenza della Corte, cit.), infatti, “dopo la modifica

costituzionale del Titolo V della Parte II della Costituzione, grande rilievo ha avuto la previsione della

materia “ambiente, ecosistema e beni culturali”, come materia di competenza esclusiva dello Stato, là

dove fino a quella data l’intera tutela ambientale era stata costruita sul raccordo fra l’art. 9 e l’art. 32

della Costituzione. Sennonché, a questo punto, l’attenzione della Corte costituzionale si è spostata

dall’oggetto della tutela ambientale alla distribuzione delle competenze fra Stato e Regioni in materia

di ambiente” (più in generale cfr. P. STELLA RICHTER, La nozione di “governo del territorio” dopo la

riforma dell’art. 117 Cost., in Giust. Civ., 2003, 4, 312, il quale a commento dell’assetto delineato dal

legislatore costituzionale nel 2001 osserva che “una disciplina così disorganica non poteva non

innescare un ampio dibattito fra gli interpreti, anche perché essa ha dato immediatamente luogo a un

contenzioso costituzionale tra Stato e regioni di dimensioni preoccupanti. Gli interpreti si sono sin qui

impegnati nel tentativo di definire le varie materie elencate dall'art. 117, cercando di individuare il più

preciso significato di ciascuna d'esse, ma poiché, come si è visto, il problema ha carattere generale e

gli intrecci sono molteplici, è necessario individuare piuttosto un metodo per mettere ordine o quanto

meno una regola generale cui ispirarsi nella soluzione dei singoli problemi”). Emblematica in tal

senso la sentenza n. 225 del 2009 (C. Cost. 22 luglio 2009 n. 225), la quale “esibisce una nozione di ambiente che colpisce per quanto è nuova, importante, diversa” (A. CIOFFI, L’ambiente come materia

dello Stato e come interesse pubblico. Riflessioni sulla tutela costituzionale e amministrativa, a

margine di Corte Cost. n. 225 del 2009, cit.). In tale pronuncia, infatti, la Corte fa derivare il criterio

di riparto della competenza tra Stato e Regioni dalla definizione che gli stessi giudici danno del bene

ambiente. Poiché “la materia è determinata dal fine costituzionale della conservazione e (…) ha per

oggetto specifico il bene materiale, la biosfera”, si afferma che “l’ambiente appartiene in prevalenza al

potere legislativo dello Stato”. Pertanto, “fissando lo Stato il livello d’una tutela piena ed elevata, si

fissa la conservazione del bene e si costituisce un limite inderogabile alla competenza della Regione, e

così la competenza dello Stato diventa esclusiva”. Ex multis, la questione del riparto di competenze tra

lo Stato e le Regioni interessa anche quello specifico aspetto del diritto ambientale che si risolve nella

disciplina dei rifiuti. In proposito cfr. C. Cost. 22 dicembre 2010 n. 373, a commento della quale si

rinvia ad A. RUGGERI, A proposito di (impossibili?) discipline legislative regionali adottate in

sostituzione di discipline statali mancanti, in www.federalismi.it, 2011.

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46

Costituzione129

- basti porre mente al fatto che, mentre in passato l’intera tutela

ambientale trovava fondamento “sul raccordo fra l’art. 9 e l’art. 32 della

Costituzione”130

, oggi l’art. 117 Cost., come modificato dalla L. cost. n. 3 del 2001,

contempla espressis verbis “ambiente, ecosistema e beni culturali” come materia di

competenza esclusiva dello Stato131

.

Di simile evoluzione, com’è intuibile, ha beneficiato anche il settore dei rifiuti, in

quanto branca del diritto ambientale. La disamina sin qui condotta, infatti, ha inteso

mettere in luce il cammino che ha portato il legislatore italiano a disciplinare la

gestione dei rifiuti non solo e non tanto al fine di garantire un corretto livello di

igiene ambientale, quanto in vista dell’obiettivo di preservare l’ambiente – e di

riflesso la salute umana – da fenomeni di inquinamento. Nel fare ciò, non si è potuto

prescindere dal constatare come le tappe di simile evoluzione normativa, a partire dal

129

Per una completa ricostruzione del dibattito e per un’analisi delle relative proposte di riforma cfr.

F. DE LEONARDIS, L’ambiente tra i principi fondamentali della Costituzione, in www.federalismi.it,

2004, nonché ID., Trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, cit.. In particolare, l’A., dopo

aver evidenziato come dall’esame delle varie proposte emerga “nuovamente il non sopito problema

della definizione di ambiente”, si sofferma sulla necessità e sull’opportunità di una modifica

costituzionale volta ad inserire l’ambiente tra i principi fondamentali. Quanto alla necessità, si legge:

“dato che nell’ordinamento attuale sono già presenti riferimenti costituzionali per la tutela

dell’ambiente [artt. 2, 9 e 32 Cost.], non sembra astrattamente necessario che vi sia una norma

costituzionale ad hoc”. Diverso il discorso in termini di opportunità. Poiché “il ruolo delle modifiche

costituzionali è anche quello di costituire una sorta di bilancio consuntivo di ciò che il diritto vivente

di per sé già esprime (…), inserendo una disposizione in materia di ambiente nella parte relativa ai

principi fondamentali, la nostra Costituzione si metterebbe al passo con quanto è già avvenuto di

recente in Belgio e in Svizzera e sta avvenendo in Francia, andando ad inserirsi nel novero delle Carte

costituzionali che già da tempo includono l’ambiente tra gli oggetti di tutela espressamente garantiti”. 130

Così P. MADDALENA, La giurisprudenza della Corte, cit.. 131

Art. 117, comma secondo, lett. s). Cost. Sul punto cfr. F. DE LEONARDIS, La Corte costituzionale

sul codice dell’ambiente, cit.; P. MADDALENA, La tutela dell’ambiente nella giurisprudenza

costituzionale, cit.; ID. Come si determina la materia di cui all’art. 117 Cost., cit.

Per quel che concerne, più in generale, la non sempre semplice individuazione pratica del criterio di

riparto delle competenze tra Stato e Regioni ex art. 117 Cost. cfr., tra gli altri, P. STELLA RICHTER, Un

nuovo tipo di sentenza costituzionale: la sentenza creativa, in Giust. Civ., 2003, 4, 608; nonché ID., La

nozione di “governo del territorio” dopo la riforma dell’art. 117 Cost., cit..

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D.P.R. n. 915 del 1982132

, siano state in gran parte determinate dall’incedere delle

prescrizioni di ascendenza europea133

.

Non di meno, si è anche evidenziato come gli interventi normativi di matrice

eminentemente interna, uniti ai continui sforzi compiuti dal legislatore italiano al fine

di recepire le direttive comunitarie, abbiano dato vita ad “un coacervo talmente

intricato da porre frequentemente l’interprete (…) di fronte a rebus insolubili”134

. Ciò

è tanto vero che, a parere di ampia parte della dottrina, neppure le pretese opere di

sistematizzazione, qual è innanzitutto il Codice dell’ambiente135

, sono state in grado

di produrre risultati soddisfacenti in termini di chiarezza e organicità.

132

Il riferimento è al D.P.R. 10 settembre 1982 n. 915, recante Attuazione delle direttive (Cee) n.

75/442 relativa ai rifiuti , n. 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei

policlorotrifenili e n. 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi. 133

In proposito, oltre ai vari riferimenti contenuti nelle pagine che precedono, cfr., per tutti, F. DE

LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit. 134

Così D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit.. 135

Infatti, come evidenziato nelle pagine che precedono, molte sono le voci che si sono levate a

sostegno della tesi per cui il d.lgs. n. 152 del 2006, lungi dal rappresentare un’opera di codificazione

nel senso ortodosso del termine, si risolve in un “mero contenitore di norme in materia ambientale

disorganico e precario”. In questo senso A. CELOTTO, Il codice che non c’è, cit., il quale osserva come

quella della codificazione appaia essere una “moda” del nostro tempo. Mentre, infatti, agli inizi degli

anni ottanta del secolo scorso, in un’ottica di semplificazione, era invalsa la tendenza alla

delegificazione, questa “con il passaggio al nuovo secolo, ha ceduto il posto ai tentativi di

codificazione: non più grandi codici unitari, ma codici di settore” o testi unici, che nella sostanza sono

ben lontani alle grandi opere di codificazioni che la storia ha conosciuto, a cominciare dall’opera

giustinianea del 534 d.c.. (In senso critico nei confronti taluni tentativi di riordino di atti normativi

anche P. STELLA RICHTER, Una iniziativa normativa improvvida: il testo unico sull’espropriazione

per pubblica utilità, in Foro amm. CdS, 2004, 3, 622 il quale osserva che “il presupposto connaturale

di ogni testo unico è (o meglio, dovrebbe essere) l'esistenza, in una determinata materia, di un assetto

normativo soddisfacente e quindi presumibilmente destinato a durare: in questi casi è certamente utile

semplificare e riordinare le fonti, così cristallizzando la disciplina vigente. L'utilizzazione del testo

unico è invece del tutto controproducente e quindi assolutamente sconsigliabile, se invece alla materia

è ancora necessario mettere mano in modo innovativo. Il che accade pressoché in ogni settore

dell'ordinamento in un'epoca, qual è quella che viviamo, in cui l'accelerazione delle modifiche sociali

ed economiche della società rende necessarie continue modifiche della normativa”).

In particolare, secondo l’A. “ci sono almeno tre argomenti decisivi per negare che il d. lgs. n. 152 del

2006 sia un codice (e, forse, nemmeno un testo unico)”. Innanzitutto, in nomen juris. Benché “l’auto-

qualificazione dell’atto fa fede solo juris tantum (…) il d. lgs. n. 152 del 2006 non si auto-qualifica né

come codice né come testo unico, ma semplicemente come Norme in materia ambientale. In secondo

luogo, il contenuto normativo, giacché “il testo del c.d. codice è troppo ampio e dettagliato, senza

unitarietà e privo di norme sistematiche o di principio”. Ed, infine, la scarsa stabilità, “avendo subito

[quattro] anni una serie cospicua di modifiche”.

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Stando così le cose, non solo per ciò che concerne l’ambiente tout court inteso, ma

anche con specifico riguardo alla materia dei rifiuti136

, sembrerebbe di essere di

fronte ad un esempio di quello che sul finire degli anni Settanta del secolo scorso

Natalino Irti apostrofava come il fenomeno della “decodificazione”137

. Eppure la

reductio ad unum delle prescrizioni in tema di rifiuti - e più in generale in tema di

ambiente - può essere garantita dal ricorso ai principi (anche questi prevalentemente)

di derivazione europea, da intendere quali “linee-guida per il legislatore e per gli

interpreti [capaci di] costituire, se non il nucleo, almeno un asse centrale attorno al

quale far ruotare le discipline di settore”138

. Ciò è reso possibile dal fatto che il valore

aggiunto dei principi riposa tutto nella loro valenza ordinatoria e sistematica, oltre

che nel fatto di essere emblema del carattere “sociale” della scienza giuridica, nella

misura in cui “essi non splendono di luce propria, la loro luce essendo quella di mille

e mille casi della vita quotidiana”139

.

136

Come evidenziato nelle pagine che precedono, infatti, anche la Parte IV del d. lgs. n. 152/2006 è

stata più volte emendata. 137

N. IRTI, L’età della decodificazione, Giuffré, Milano, 1979; ID., “Codici di settore”: compimento

della “decodificazione”, cit., il quale con tale espressione intendeva definire la perdita di centralità dei

grandi codici tradizionali ( cfr, per tutti il Code Napoléon del 1804) che caratterizza l’epoca moderna. 138

D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit., il quale non a caso sottolinea che

“uno sguardo d’insieme al diritto comparato dell’ambiente degli ultimi anni mostra come i tentativi di

razionalizzazione passino soprattutto per una normazione di principio”.

D’altra parte, la dottrina ci ha insegnato che peculiarità dei principi è quella di assolvere a tre funzioni:

produzione di norme; integrazione di norme, interpretazione di norme (cfr. V. CRISAFULLI, I principi

costituzionali, cit.).

Per dare la misura del ruolo di grande rilievo che i principi rivestono nella materia de qua, si tenga

presente che quando si è discusso in ordine alla possibilità di inserire un riferimento all’ambiente

nell’ambito dei principi fondamentali della Carta costituzionale, la dottrina si è interrogata circa “il

contenuto minimo o massimo della dimensione o dello spessore” che la novella avrebbe dovuto

assumere. In particolare, F. DEL LEONARDIS, L’ambiente tra i principi fondamentali della costituzione,

cit., ha osservato: “dato che nel diritto vivente, non solo nazionale, si è formato un insieme di principi

in materia ambientale, tra i quali devono evidenziarsi particolarmente quelli di integrazione e di

precauzione, è opportuno che tali principi vengano resi palesi”. 139

G. MIELE, Prefazione, in F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, 1911-14, rist. Cedam,

Padova, 1960. In senso analogo S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917; G. ZANOBINI,

Corso di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1958.

Più di recente, cfr. A. ROMANO, Introduzione, in AA. VV., Diritto amministrativo, Monduzzi,

Bologna, 2005, il quale con riguardo alla disciplina dell’amministrazione tout court intesa osserva

come la stessa sia “sì affidata alla legislazione ordinaria, ma anche, e soprattutto per l’essenziale,

direttamente da principi istituzionali; ossia, perfino da un livello più elevato di quello della

Costituzione: che i suoi primi articoli solo riproducono”. E, ancora, cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di

prevenzione, cit., il quale scrive che osservando il diritto positivo, “non si può non notare che sempre

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Quanto detto sembra da ultimo confermato proprio dal d. lgs. n. 205 del 2010 che,

nel recepire la direttiva rifiuti 2008/98/Ce, mostra di dare ampio risalto ai principi su

cui quest’ultima è imperniata, in primis quello di prevenzione o azione preventiva

che – si è visto - “costituisce ex professo il principio ispiratore della disciplina

comunitaria dei rifiuti”140

.

In definitiva, anche alla luce dei più recenti interventi normativi nella materia de qua,

sembra potersi dire che il diritto dei rifiuti, benché non sia (rectius possa essere)

esclusivamente un “diritto per principi”141

, trovi in questi la propria chiave di lettura.

Con la precisazione che si tratta (in gran parte) di principi di ascendenza europea, a

dimostrazione del fatto che il diritto UE si è esteso ben oltre “i suoi originari ambiti e

le sue originarie finalità legate alla devoluzione [da parte degli Stati membri] della

sovranità in materia economica alla Comunità europea”, così che “da ordinamento

derivato, e quindi autonomo, tende a trasformarsi in un ordinamento originario, e

quindi sovrano”142

.

più spesso veri e propri principi istituzionali, come per es. quello di imparzialità, richiamato dall’art.

97 della Costituzione, trovano collocazione accanto ad altri principi generali di livello ordinario, come

i quattro (economicità, efficacia, pubblicità e trasparenza) espressamente riconosciuti dalla legge

generale sull’azione amministrativa. La grande famiglia dei principi, che trova il suo capostipite nel

principio di ragionevolezza, viene progressivamente riconosciuta dal diritto positivo e comprende, di

volta in volta, nuovi principi che attirano l’interesse della dottrina e della giurisprudenza, come i

principi dell’ordinamento comunitario”. 140

Sul punto si rinvia a quanto affermato nelle pagine che precedono e, più in generale, a F. DE

LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.. 141

L’espressione è presa in prestito da D. AMIRANTE, Diritto ambientale italiano e comparato, cit., il

quale descrive con tale locuzione l’intero diritto ambientale. 142

A. ROMANO, Amministrazione, legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. amm., 1999, 1, 130.

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CAPITOLO II

L’ “EUROPEIZZAZIONE” DELLA NOZIONE DI RIFIUTO E DI QUELLE

CONTIGUE DI SOTTOPRODOTTO ED END OF WASTE

II.1 NON C’ERANO UNA VOLTA I RIFIUTI

C’è stato un tempo in cui non si buttava via nulla, in cui tutto ciò che risultava

consunto e logoro veniva reimpiegato nella produzione di nuovi oggetti e materiali1.

Così era per la carta, la stoffa, il legno e persino per gli scarti alimentari. Questo

“ciclo vitale” è stato interrotto dal progresso. Si narra, infatti, sia stata la Rivoluzione

Industriale ad aver “inventato i rifiuti”2. Come a dire che, al boom economico è

corrisposto il boom dei rifiuti, secondo un clymax ascendente che dalla fine del

XVIII secolo ha caratterizzato la storia della nostra civiltà sino ai giorni nostri3.

Così oggi “basta entrare in un supermercato per rendersi conto che i due terzi dei

prodotti in esso contenuti sono destinati a diventare in breve tempo rifiuti da

eliminare”4. Ed inoltre, per avere contezza del fenomeno

5 nelle sue dimensioni

complessive, ai rifiuti c.d. urbani occorre aggiungere quelli c.d. speciali – come, ad

esempio, i residui dell’attività edilizia, della produzione di metalli o, ancora,

dell’industria alimentare – nell’ambito dei quali si collocano anche i rifiuti c.d.

1 E. SORI, La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al Primo Novecento, Il Mulino, Bologna,

2001. 2 L. PINNA, Autoritratto dell’immondizia. Come la civiltà è stata condizionata dai rifiuti, Bollati

Boringhieri, Torino, 2011. 3 Notano, infatti, G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, in M. P. CHITI – G. GRECO (a cura di),

Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffré, Milano, 2007, che “la scienza moderna dapprima

si è prefissa lo scopo di ricercare e produrre sempre nuovi beni, per soddisfare i crescenti bisogni e

quindi per soddisfare la crescita dell’umanità. In un certo senso, di pari passo è cresciuta la dannosità

dei rifiuti e non si è pensato subito di porvi rimedio per salvaguardare l’ambiente”. 4 F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a cura di), Diritto

dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. 5 Sul sito www.apat.gov.it è consultabile il rapporto ISPRA 2008, dal quale emergono dati

significativi in tema di rifiuti. In particolare, si apprende che in Italia ogni anno vengono prodotti circa

33 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e ben 135 milioni di tonnellate di rifiuti c.d. speciali, cui

devono aggiungersi i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, c.d. RAEE, e i veicoli fuori

uso.

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pericolosi, vale a dire quelli in grado di causare danni particolarmente gravi

all’ambiente e alla salute umana ove non correttamente gestiti.

Quanto detto concorre a chiarire perché la società in cui viviamo sia stata apostrofata

“società del consumo”6 e – tenuto anche conto delle perigliose vicende che da quasi

un ventennio affliggono talune realtà italiane7 - lascia al contempo immaginare come

sia da considerare indispensabile una corretta gestione di questo enorme flusso di

oggetti e materiali che, prima facie, chiamiamo indistintamente rifiuti.

Orbene, nelle pagine che precedono si è cercato di ricostruire la loro disciplina

giuridica attraverso l’esame congiunto della legislazione europea e nazionale, attesa

la pregnante influenza che la prima ha da sempre esercitato nei confronti della

seconda, e - nel fare ciò - e’ stata messa in evidenza l’origine in gran parte pretoria

della normativa de qua8. Si è osservato, infatti, come in un primo tempo siano stati

prevalentemente motivi di ordine sanitario a destare l’interesse dei poteri pubblici per

l’istituto in esame e come la rapida evoluzione normativa che negli ultimi trent’anni

6 F. DE LEONARDIS, I rifuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit..

7 Il pensiero corre immediatamente a Napoli e alla Campania, dove a partire dai primi anni Novanta

del secolo scorso si è iniziato a parlare di “emergenza rifiuti”. In particolare, si ricorda (L. BARONI, Lo

sguardo vigile dell’Europa sulla emergenza rifiuti in Campania, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011,

6, 1095) che “l’inizio dell’emergenza rifiuti in Campania è convenzionalmente fatto risalire all’11

febbraio del 1994 quando [con il DPCM 11 febbraio], si dichiara per la prima volta lo stato di

emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti (…) per un iniziale periodo di un anno che poi sarà,

via via, prorogato fino al 2009 quando vi è la formale dichiarazione della fine dell’emergenza”.

In questo lasso di tempo si è fatto ricorso all’istituto del Commissariamento (che in assenza di

apposita previsione legislativa è stato ricondotto nell’alveo degli interventi urgenti in materia di

protezione civile) e al potere di ordinanza extra ordinem, senza peraltro che tali misure si rivelassero

risolutive. Anzi – ricorda la dottrina (C. BASSU, Emergenza rifiuti a Napoli: la doppia faccia della

sussidiarietà, in Riv. giur. amb., 2009, 2, 403) – “i rifiuti continuano ad accumularsi nelle strade di

Napoli e le barricate erette dai cittadini per impedire l’accesso alle discariche assurgono

quotidianamente agli onori della cronaca”. Nel mentre, plurime condanne “fioccano” da parte della

Corte di Giustizia e, da ultimo, anche da parte della Corte Edu (cfr., da ultimo, CGUE 4 marzo 2010,

Commissione v. Italia, C-297/08 e Corte EDU 10 gennaio 2012, Di Sarno e a. v. Italia, ric. n.

30765/08). Ma la strada per che porta alla (vera) fine dell’emergenza sembra ancora in salita.

Ex multis, cfr. L. COLELLA, La governance dei rifiuti in Campania tra tutela dell’ambiente e

pianificazione del territorio. Dalla “crisi dell’emergenza rifiuti” alla “società europea del

riciclaggio”, in Riv. giur. amb., 2010, 2, 493 e M. GNES, L’emergenza nello smaltimento dei rifiuti e

la proposta di istituzione di un’Agenzia per il territorio nel Mezzogiorno, in Riv. giur. mezzogiorno,

2010, 3, 537. 8 F. DE LEONARDIS, Trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, in G. ROSSI (a cura di),

Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011.

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ha riguardato tale settore sia stata catalizzata in prevalenza dalla giurisprudenza,

specie della Corte di Giustizia9.

Ciò vale altresì per la nozione stessa di rifiuto che, lungi dell’essere una “scatola

vuota”, è stata e continua ad essere riempita di contenuti, prima ancora che per mano

del legislatore, grazie all’opera creatrice dei giudici europei, nonché in parte di quelli

nazionali.

Se è vero, infatti, che nell’ambito della scienza giuridica l’enucleazione di definizioni

costituisce da sempre attività di particolare rilievo, essa diventa “assolutamente

prioritaria in un sistema di regolazione, giacché si rivela prodromica ai fini

dell’individuazione stessa di cosa possa o meno essere regolato”10

.

La materia de qua ne è un chiaro esempio11

. Ed il presente capitolo è volto in modo

precipuo a mettere in luce come la ricerca di una definizione di rifiuto esaustiva,

9 Così B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 2005.; F. DE LEONARDIS,

Trasformazioni, cit., P. DELL’ANNO, Manuale di diritto ambientale, Cedam, Padova, 2003; F.

FONDERICO, La tutela dell’ambiente, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo,

Parte speciale, vol. II, Giuffrè, Milano, 2003. 10

Così I. CHEYNE – M. PURDUE, Fitting definition to purpose: the search for a satisfactory definition

of waste, in 7 [1995] JEL 149 i quali osservano che, nella prassi, le tecniche utilizzate al fine di

enucleare la definizione di istituti giuridici sono solitamente due. Da un lato, si può definire elencando

attività od oggetti che rientrano nella nozione dell’istituto in argomento; dall’altro, è possibile fare

leva sullo scopo della regolazione. Entrambe queste tecniche, tuttavia, presentano degli inconvenienti.

Mentre la prima, infatti, rischia di peccare di rigidità; la seconda per converso rischia di peccare per

vaghezza. La maggior parte dei sistemi di regolazione, allora, adotta un misto di entrambe. Di norma,

infatti, la legge contiene una definizione molto ampia che spetta poi al potere esecutivo circoscrivere.

Esempio di simile approccio si rinviene nel sistema inglese di controllo integrato dell’inquinamento,

laddove la definizione del processo che può essere controllato è così vasta da poter inglobare qualsiasi

processo e il “processo” è definito come “ogni attività portata avanti dalla Gran Bretagna che è

passibile inquinare l’ambiente”. In generale, - proseguono gli autori – “l’obiezione che si può muovere

nei confronti di definizioni così ampie è che esse accordano (seppur implicitamente) eccessivi poteri

all’esecutivo in ordine alla individuazione di quali processi possano essere soggetti a regolazione.

Inoltre, una volta che un atto del parlamento è entrato in vigore solo i giudici possono avere l’ultima

parola nel decretare il senso da attribuire alle parole del testo di legge. Tuttavia, se è ammissibile che

una definizione sia interpretata alla luce degli obiettivi avuti di mira dalla legge, deve esserci però un

limite a tutto ciò”. 11

A dimostrazione di ciò, si veda innanzitutto la Comunicazione della Commissione europea 21

febbraio 2007 n. 59 (COM2007 59 def.) relativa all’interpretazione in materia di rifiuti e sottoprodotti,

dove si legge: “Negli ultimi trent'anni la definizione di "rifiuto" ha assunto una grande importanza in

Europa per tutelare l'ambiente dagli effetti della produzione e della gestione dei rifiuti. Gli oggetti o le

sostanze definite "rifiuti" sono disciplinate dalla normativa comunitaria in materia, al fine di

proteggere la salute umana e l'ambiente. (…) Pur tuttavia, l'interpretazione di questa definizione ha

sollevato non poche questioni. (…) Per rafforzare la certezza del diritto e per facilitare la

comprensione e l'applicazione della definizione di rifiuto, la presente comunicazione intende, da una

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universale e, per quanto possibile, stabile si caratterizzi per essere

contemporaneamente tanto complessa quanto imprescindibile12

. La complessità

deriva dal fatto che le continue evoluzioni dell’industria, della chimica e, più in

generale, delle scienze rendono necessari costanti sforzi di adattamento al fine di

porre la normativa in questione al riparo dal rischio di una cronica obsolescenza. Al

contempo, tuttavia, il carattere eccessivamente mobile dei confini dell’istituto rischia

di andare a detrimento di quanti aspirino a districarsi tra le nebbie della materia,

atteso che “l’inclusione di una sostanza o oggetto in tale categoria comporta

parte, fornire alle autorità competenti alcuni orientamenti che permettano loro di stabilire, caso per

caso, se determinati materiali costituiscono rifiuti o meno e, dall'altra, informare gli operatori

economici sul modo in cui tali decisioni sono adottate. La comunicazione contribuirà inoltre ad

armonizzare l'interpretazione della legislazione in materia di rifiuti nell'Unione europea”. Si veda,

altresì, il VI Programma di azione comunitaria in materia di ambiente adottato a Johannesburg nel

2002, che propone in chiave programmatica il “miglioramento e una chiarificazione delle definizioni

normative rilevanti, in modo da garantire una maggiore certezza del diritto (ad esempio, le nozioni di

rifiuto e "end of waste")” (F. FONDERICO, Sesto Programma di azione Ue per l’ambiente e strategie

tematiche, in Riv. giur. amb., 2007, 3, 695). Ed, ancora, si veda il preambolo della direttiva

98/20078/Ce. Qui si legge, infatti, che “La direttiva definisce alcuni concetti basilari, come le nozioni

di rifiuto, recupero e smaltimento (…). È pertanto necessario procedere a una revisione della direttiva

2006/12/CE per precisare alcuni concetti basilari come le definizioni di rifiuto, recupero e

smaltimento, per rafforzare le misure da adottare per la prevenzione dei rifiuti, per introdurre un

approccio che tenga conto dell’intero ciclo di vita dei prodotti e dei materiali, non soltanto della fase

in cui diventano rifiuti, e per concentrare l’attenzione sulla riduzione degli impatti ambientali connessi

alla produzione e alla gestione dei rifiuti, rafforzando in tal modo il valore economico di questi ultimi

(…)”.

Inoltre, per ciò che concerne la dottrina, cfr. I. CHEYNE – M. PURDUE, Fitting definition to purpose:

the search for a satisfactory definition of waste, cit.. Qui gli AA. si chiedono cosa renda “speciale” -

da punto di vista definitorio - il problema dei rifiuti rispetto a quello dell’inquinamento. Sul punto gli

stessi ricordano come tradizionalmente in Gran Bretagna il problema dell’inquinamento sia stato letto

come il bisogno di rispondere ad un determinato danno, causato ad esempio da talune emissioni.

Diversamente – si afferma - quella dei rifiuti è questione più ampia. Infatti, mentre l’inquinamento è

sempre causato da rifiuti (in senso lato), viceversa i rifiuti non sempre provocano inquinamento. Ne

deriva che il problema dei rifiuti è il problema del rischio che gli stessi possano causare fenomeni di

inquinamento ove non trattati adeguatamente. La loro gestione, pertanto, comprende una vasta serie di

attività, il che rende difficile enucleare una definizione chiara ed esaustiva di “rifiuto”. 12

Non è un caso, dunque, che l’importanza del tema sia stata avvertita anche fuori dai confini italiani.

Al riguardo (e senza tener conto delle pur autorevoli note a sentenza), cfr. inter alia I. CHEYNE, The

definition of waste in EC law, in 14 [2002] JEL 61; J. FLUCK, The term “waste” in EU law, in [1994]

1 EELR 79; D. POCKLINGTON, Opening Pandora’s Box – the EU Review of the Definition of “waste”,

in [2003] EELR 204; ID., The utility of the concept of “waste”, in 5 [1996] Env. Liability 94; M.

PURDUE – I. CHEYNE, Fitting definition to purpose: the search for a satisfactory definition, cit.; N. DE

SADELEER, New perspectives on the definition of waste in EC law, in [2005] JEEPL, 46; A. SAMUELS,

The legal concept of waste, in 11 [2010] JPL 1391; ID., Waste, in [2004] JPL 1465; S. TROMAS, EC

waste law – a complete mess?, in 13 [2001] JEL 133; C. VERDURE, The Europeanization of the

definition of waste, paper presentato in occasione del convegno “Globalization and europeanization of

environmental law and policy”, Copenaghen 22-23 marzo 2010; D. WILKISON, Time to discard the

concept of waste?, in 1 [1999] ELR 172.

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importanti conseguenze in ordine alla sua gestione (necessità di autorizzazioni,

obblighi di tracciabilità, aspetti penali, ecc.)”13

.

Orbene, poiché - come osservato nelle pagine che precedono - sono in prevalenza le

prescrizioni di matrice europea ad influenzare le legislazioni nazionali, punto di

partenza per questo studio non può che essere la definizione di rifiuto che si rinviene

nell’ultimo atto normativo generale adottato dalle istituzioni europee nella materia de

qua, ossia la direttiva 2008/98/Ce14

. Qui, infatti, all’art. 3 p. 1 si legge che con

l’espressione rifiuto deve intendersi “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore

si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”15

.

Posto, tuttavia, che tale definizione - oltre ad essere ricognitiva degli esiti raggiunti

negli anni dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia - costituisce il (momentaneo)

approdo della politica europea nella materia de qua, può giovare alla trattazione

ripercorrere le tappe salienti della sua storia. Nelle pagine che seguono, pertanto, si

tenterà di ricostruire – soprattutto grazie all’esame della giurisprudenza (europea, ma

anche nazionale) – le linee evolutive lungo cui è venuta a formarsi la nozione di

rifiuto, unitamente a quelle ad essa “contigue”16

di sottoprodotto ed end of waste.

II. 2 L’ISTITUTO DEL RIFIUTO. DAL “TUTTO RIFIUTO” …

Come è solita ricordare la dottrina – e come evidenziato nelle pagine che precedono -

nonostante l’originaria mancanza nel Trattato Cee di previsioni che potessero

13

F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 14

Come ricordato nelle pagine che precedono, la direttiva 98/2008/CE del Parlamento europeo e del

Consiglio del 19 novembre 2008 costituisce in ordine di tempo l’ultimo atto normativo generale

rivolto agli Stati membri che le istituzioni europee hanno adottato in tema di rifiuti. Prima di essa si

ricordano la direttiva 75/442/Cee, che ha costituito il primo atto di intervento specifico in materia,

nonché le successive 91/156/Cee e 2006/12Ce. A esse devono inoltre aggiungersi le direttive relative

a particolari categorie di rifiuti, quali ad esempio quelle in tema di rifiuti pericolosi (direttiva

78/319/Cee e direttiva 91/689/Cee), imballaggi (direttiva 94/62/Cee) o veicoli fuori uso (direttiva

2000/53/Ce). 15

Tale definizione si rinviene identica a norma dell’art. 183, primo comma, lett. a) del Codice

dell’ambiente italiano, d. lgs. n. 152/2006 smi. 16

F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit..

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fungere da base legale per l’emanazione di atti normativi in materia ambientale, il

Consiglio già a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso ha adottato una serie

di direttive in tema di rifiuti sulla base del combinato disposto degli (allora) artt. 100

e 235 Tr.Cee17

.

Ciò che, invece, raramente si rammenta è il fatto che la prima in ordine di tempo di

tali direttive, oltre a riguardare un aspetto molto settoriale della materia, qual è quello

degli oli usati, è stata emanata per ragioni che poco o nulla avevano a che fare con la

tutela dell’ambiente. Al tempo, infatti, si combatteva la guerra arabo – israeliana e

nel 1973 l’Organizzazione dei Paesi occidentali di petrolio (OPEC) impose un

embargo nei confronti dei Paesi occidentali al fine di indebolire il supporto che

questi ultimi offrivano ad Israele. Secondo parte della dottrina, dunque, la direttiva

75/439/Cee18

non ha rappresentato tanto un tassello della legislazione ambientale

quanto piuttosto una misura di protezione in risposta all’embargo disposto

dall’OPEC19

.

In ogni caso - guardando agli effetti pratici - tale direttiva, proprio in ragione del suo

carattere settoriale e, soprattutto, delle contingenze che ne avevano determinato

l’adozione, non disciplinando in maniera esaustiva la materia de qua lasciava

impregiudicate le legislazioni all’epoca vigenti nei vari Stati membri20

. La

17

Sul punto cfr. M. P. CHITI – G. GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo. Parte

speciale, Giuffrè, Milano, 2007; L. KRAMER, EU environmental Law, Sweet & Maxwell, London,

2011; M. RENNA, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit.,

2009, 3-4, 649; G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea,Cedam, Padova, 2011. Inoltre, si rinvia a

quanto osservato funditus nel primo capitolo del presente lavoro (in particolare cfr. p. I.3, retro). 18

Direttiva del Consiglio del 16 giugno 1975, concernente l’eliminazione degli oli usati (in G.U. L

194 del 27 luglio 1975). 19

In questo senso D. WILKINSON, Time to discard the concept of waste?, cit.. 20

Al riguardo, si segnala che la Germania aveva adottato una legge generale sui rifiuti già nel 1972.

Mentre nel 1973 fu la volta di Danimarca, Belgio e Olanda. Quanto alla Gran Bretagna, invece, il

primo atto legislativo adottato dal Parlamento inglese in materia di rifiuti è stato il “Deposit of

poisonous wastes Act”, del 1972. Tuttavia, trattandosi di una legislazione piuttosto settoriale, peraltro

adottata per offrire una risposta ad una situazione contingente di carattere emergenziale, la stessa

venne abrogata a soli due anni di distanza, quando fu adottato il Control of pollution Act (sul punto

cfr. amplius capitolo IV, infra). Infine, per ciò che concerne l’Italia, si ribadisce come all’epoca

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disomogeneità normativa e il conseguente rischio di compromettere il funzionamento

del mercato unico spinsero, dunque, la Commissione a mettere mano ad una

disciplina organica dell’istituto21

.

Simili istanze trovarono composizione nella direttiva 75/442/Cee22

, questa sì

dedicata alla materia dei rifiuti complessivamente intesa. E’ qui, pertanto, che si

rinviene la prima definizione europea di “rifiuto” recante carattere generale, laddove

ai sensi dell’art. 1 lett. a) si legge che esso consiste in “qualsiasi sostanza od oggetto

di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi secondo le disposizioni

nazionali vigenti”.

Eppure, nonostante la direttiva aspirasse a dettare un corpus normativo uniforme e,

soprattutto, univoco, il proprium della nozione di rifiuto è parso da subito alquanto

controverso per una serie di ragioni, in primis di “politica economica”.

Al riguardo, infatti, occorre sottolineare come la disciplina dell’istituto dettata dalla

Comunità sia stata accolta in modo (almeno parzialmente) negativo all’interno degli

Stati membri, attesi gli obblighi ivi previsti in termini di gestione dei rifiuti e,

dunque, le ricadute di ordine economico da essa derivanti23

. In particolare, la dottrina

ricorda come profilo controverso sia parso sin da subito quello dell’individuazione

trovasse applicazione la L. n. 366 del 1941, con riguardo alla quale cfr. amplius quanto riportato nel

capitolo I, retro. 21

D. WILKINSON, Time to discard the concept of waste, cit., ricorda come il primo Programma di

azione europeo in materia ambientale (OJ C 112 20.12. 73) non avesse tra i suoi obiettivi quello di

dettare una disciplina ad hoc per i rifiuti. Tuttavia, la circostanza per cui vari Stati membri avevano

adottato normative di settore (tra loro ovviamente non omogenee) che rischiavano di minare

l’armonizzazione del mercato, unitamente alla notificazione alla Commissione di una proposta di

legge francese e del Control of Pollution Act adottato dalla Gran Bretagna, spinsero la Commissione

verso l’elaborazione di una proposta di regolamentazione dei rifiuti. 22

Direttiva del Consiglio del 15 luglio 1975, 75/442/Cee, relativa ai rifiuti in GUCE 25 luglio 1975 n.

194. 23

Sul tema cfr., tra gli altri, L. KRAMER, EU environmental law, cit.; K. MACCORMICK, Towards a

definition of waste in economics: a neo-institutional approach, in Rev. of Social Economy (1986) 44;

D. POCKLINGTON, The utility of the concept of “Waste”, cit., il quale definisce espressamente dette

ricadute come “inevitabili”. Inoltre, più in generale, sul rapporto tra ambiente e libertà economiche

cfr., inter alia, F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente tra Unione europea e WTO, in Dir.

amm., 2004, 3, 513; M. MAZZAMUTO, Diritto dell’ambiente e sistema comunitario delle libertà

economiche, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2009, 6, 1571; M. MONTINI, Commercio e ambiente:

bilanciamento tra tutela ambientale e libera circolazione delle merci nella giurisprudenza della

CGCE, in Dir. com. sc. int., 2002, 3, 429.

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dell’esatta latitudine della nozione di rifiuto. Meglio - come si avrà modo di leggere

nel proseguo della trattazione - ci si interrogava in ordine alla enucleazione dello

statuto giuridico cui sottoporre i prodotti secondari (in seguito denominati

sottoprodotti)24

- ossia i materiali di scarto risultanti da un processo produttivo che

tuttavia, almeno in astratto, sono suscettibili di essere reimpiegati – sembrando

assolutamente antieconomico (rectius vessatorio) applicare agli stessi il regime

giuridico previsto per i rifiuti25

.

Sotto altro profilo, invece, la definizione di rifiuto contenuta nell’art. 1 lett. a) della

direttiva 75/442/Cee ha fatto sorgere non poche perplessità in relazione al senso da

attribuire al termine chiave disfarsi (dispose). Innanzitutto perché, quest’ultimo,

lungi dall’essere esplicativo del concetto di rifiuto, sembrava a sua volta

presupporlo26

. Ed inoltre perché non era chiaro se l’uso di tale termine postulasse un

accertamento in ordine all’esistenza dell’ “animus dereliquendi” nel detentore della

sostanza od oggetto, ossia un’indagine circa l’esistenza – in colui che si disfa di

qualcosa – di escluderne ogni riutilizzazione economica da parte di terzi. La Corte di

Giustizia, tuttavia, a partire dalla pronuncia resa in relazione al noto caso Vessoso e

Zanetti27

, ha sempre sostenuto che – anche al fine di non pregiudicare la ratio della

direttiva rifiuti28

- “il detentore può essere tenuto, in forza di una norma nazionale, a

disfarsi di una cosa senza per questo avere l’intenzione di escluderne ogni

24

In proposito cfr. L. KRAMER, EU environmental law, cit. nonché F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo

smaltimento alla prevenzione, cit.. 25

Imprescindibile al riguardo il richiamo a CGCE 28 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, C- 206 e 207/88,

vera pietra miliare della giurisprudenza della Corte di Giustizia per ciò che concerne questo specifico

aspetto della materia de qua. Al riguardo, inoltre, cfr. amplius infra. 26

Cfr. art. 1 lett. b) della direttiva 75/442/Cee. 27

CGCE 28 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, C- 206 e 207/88. 28

Al p. 12 della citata sentenza si legge, infatti, che “lo scopo essenziale delle direttive 75/442/ e

78/319, enunciato rispettivamente nel loro terzo e quarto considerando, vale a dire la protezione della

salute umana e dell’ambiente, sarebbe compromesso qualora l’applicazione delle due direttive

dipendesse dall’intenzione del detentore di escludere o no una riutilizzazione economica, da parte di

altre persone, delle sostanze o degli oggetti di cui egli si disfa”.

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riutilizzazione economica da parte di altre persone”29

. Pertanto – ha concluso la

Corte - “la nozione di rifiuto (…) non presuppone che il detentore che si disfa di una

sostanza o di un oggetto abbia l’intenzione di escluderne ogni riutilizzazione

economica da parte di altre persone”30

.

A ciò si aggiunga, infine, che secondo taluno31

a rendere fallimentare lo sforzo

definitorio operato con la direttiva 75/442/Cee ha concorso la circostanza per cui

quest’ultima sembrava di fatto lasciare spazio a interpretazioni differenti del concetto

di rifiuto tra i diversi Paesi membri della Comunità. La dottrina, infatti, non ha

mancato di sottolineare come non ci fosse una sola direttiva rifiuti, bensì tante quante

le lingue degli Stati membri in cui la stessa era stata tradotta32

. Quasi a voler dire che

(anche) la diversità linguistica ha creato incertezza in ordine alla ortodossa

interpretazione del concetto di rifiuto33

, fino al punto da minare persino la

“sincronia” tra la legislazione europea e il diritto internazionale34

.

29

Cfr. p. 11 della sentenza citata. 30

Cfr. p. 13 della sentenza citata. 31

D. WILKINSON, Time to discard, cit. 32

Tale aspetto, del resto, è stato sottolineato anche dalla giurisprudenza. Si veda, ad esempio, CGCE

29 febbraio 1984, Cilfit c. Ministero della Sanità, C-77/83, in cui si legge “directives are published in

the language of each Member State and each language is equally authentic”. Inoltre, mentre nel testo

redatto in lingua inglese si rinvengono i termini dispose e disposal, nelle altre versioni vengono

sovente utilizzati termini semanticamente distanti. Si guardi, ad esempio, al caso italiano dove

compaiono le parole “disfarsi di” e “smaltimento”. 33

In tal senso cfr. D. WILKINSON, Time to discard, cit.. Inoltre, per un esame delle questioni che la

direttiva rifiuti ha sollevato nell’ordinamento tedesco cfr. J. FLUCK, The therm “Waste”, cit.. 34

Così D. WILKINSON, Time to discard, cit., il quale evidenzia che lungi dall’essere priva di

conseguenze, tale mancanza di univocità semantica, nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso si è

riverberata tanto sul piano delle relazioni esterne della Comunità economica europea, quanto, dal

punto di vista interno, sui rapporti tra i singoli Stati membri e tra questi ultimi e le istituzioni europee.

Dal primo punto di vista, ad esempio, si segnala che nella seconda metà degli anni ottanta del ‘900

l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD) ha iniziato ad occuparsi della

regolazione del traffico internazionale dei rifiuti pericolosi. Ciò conseguentemente ha richiesto

l’elaborazione di una nozione di rifiuto, cui l’OECD è addivenuta nel maggio del 1988. Sempre in

quegli stessi anni, inoltre, sono stati avviati anche i negoziati per le convezioni Basel e Bakamo sui

rifiuti pericolosi. Ebbene è interessante notare come i concetti di rifiuto adottati in ciascuna di queste

occasioni e dalla Comunità economica europee siano tra molto simili, ma non identici. Ciò ha fatto sì

che, come osservato da parte della dottrina.

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E’ anche in ragione di tale ultimo fattore35

, dunque, che nel 1989 le istituzioni

comunitarie iniziarono a lavorare alla formulazione di una valida proposta di

emendamento della direttiva75/442/Cee, al fine proclamato di “introdurre definizioni

più precise di rifiuto, smaltimento e rifiuto pericoloso”36

.

Così, dopo lunghe trattative, nel maggio del 1991 sulla base dell’art. 130 Tr. Cee,

come inserito in occasione dell’Atto Unico europeo, è stata adottata la direttiva

91/156/Cee37

, che ha emendato la precedente direttiva 75/442/Cee e ha introdotto

una (parzialmente) nuova definizione di rifiuto. Al nuovo art. 1 lett. a), infatti, era

possibile leggere che per rifiuto si intende “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri

nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o

abbia l’obbligo di disfarsi”.

Essenzialmente, dunque, con la direttiva del 1991 il legislatore europeo ha introdotto

il riferimento all’All. I - intitolato “categorie di rifiuti” – che, tuttavia, sembrava

dilatare eccessivamente i confini dell’istituto in esame, stante la valenza

omnicomprensiva della sua ultima voce a tenore della quale costituiva rifiuto “ogni

materiale, sostanza o prodotto che non è contenuto nelle precedenti categorie”38

. Ed,

35

Nota, infatti, la dottrina (L. KRAMER, Casebook on EU Environmental law, Hart Publishing,

Oregon, 2002) che tra le altre ragioni che portarono ad emendare la direttiva del 1975 ce ne erano

anche alcune di carattere internazionale. 36

Così si legge in Com 88 (391) (5. 8. 88) at. 2. 37

Direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/Cee, che modifica la direttiva 75/442/Cee relativa ai

rifiuti, in GUCE 26/3/1991. Per completezza occorre puntualizzare come la direttiva in questione non

sia stato l’unico atto normativo adottato dalle istituzioni europee nella materia de qua dopo la direttiva

del 1975, essa tuttavia e’ il solo atto dedicato all’istituto dei rifiuti complessivamente inteso. In

quell’arco temporale, infatti, furono adottate da parte del Consiglio altre direttive, dedicate tuttavia ad

aspetti più settoriali della materia. Segnatamente si ricordano: direttiva del Consiglio 6 aprile 1976,

76/403/Cee, concernente lo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlotifenili; direttiva del

Consiglio del 20 marzo 1978, 78/319/Cee, relativa ai rifiuti tossici e nocivi; direttiva del Consiglio del

6 dicembre 1984, 84/631/Cee, relativa alla sorveglianza e al controllo all’interno della Comunità delle

spedizioni transfrontaliere di rifiuti pericolosi. 38

Alla lettera Q16 dell’Allegato I alla direttiva 91/156/Cee era possibile leggere testualmente quanto

segue: “any materials, substances or products which are not contained in the above categories”. In

proposito cfr. la posizione critica di S. TROMANS, EC waste law: a complete mess?, cit., il quale

descrive tale locuzione come “one example of courios drafting which perhaps gives EC waste law a

bad name”.

Al contempo, occorre anche ricordare che a distanza di qualche la Commissione con la decisione

94/3/Ce adottò il Catalogo europeo dei rifiuti, nella cui introduzione lo stesso veniva descritto come

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inoltre, nella versione originale della direttiva - scritta in inglese - il termine

“dispose” (che tecnicamente significa “smaltire”) è stato sostituito con quello di

“discard” (“disfarsi”)39

, benché nella traduzione in italiano questa differenza si sia

persa a vantaggio – ancora una volta – del termine “disfarsi”.

Più nel dettaglio, stando a quanto affermato nel preambolo della direttiva e in

ossequio al disposto dell’art. 13 dell’allora Trattato Cee, le modifiche hanno trovato

la propria ratio nell’obiettivo di assicurare un alto livello di protezione ambientale.

La direttiva, infatti, riconosceva il bisogno di assicurare una terminologia e una

definizione di rifiuto comuni a tutti gli Stati membri, al fine di incrementare

l’efficienza del sistema di gestione dei rifiuti40

, e sottolineava come le difformità tra

le legislazioni dei diversi Paesi potessero incidere negativamente sulla qualità

dell’ambiente ed interferire con il funzionamento del mercato interno41

.

Tuttavia - nonostante le intenzioni e le grandi aspettative - tali emendamenti, lungi

dal sopire il dibattito circa la latitudine ed il proprium della nozione di rifiuto, se

possibile lo hanno accresciuto. La maggior parte della incertezze si sono appuntate

sul senso da attribuire all’All. 1 e sul rapporto di quest’ultimo con il di poco

successivo Catalogo europeo dei rifiuti, nonché soprattutto sul significato del termine

disfarsi (discard). Infatti, benché quest’ultimo costituisse un concetto chiave per la

un elenco non esaustivo di rifiuti, passibile di periodici aggiornamenti e, ove necessario, di revisione.

In ogni caso, va anche detto, che l’inclusione di un materiale nell’Elenco de quo non stava di per sè a

significare che quel materiale fosse sempre un rifiuto. Lo stesso, infatti, doveva altresì soddisfare la

definizione di rifiuto contenuta nella direttiva 91/156/Ce. 39

Nella versione in inglese della direttiva 91/156/Cee si legge infatti: “waste shall mean any substance

or object in the categories set out Annex I which the holder discards or intends or is required to

discard”. Per un analisi di tali termini cfr., inter alia, J. FLUCK, The term “Waste”, cit.. 40

Si vedano in particolare il primo ed il terzo considerando della direttiva in commento, a tenore dei

quali (rispettivamente): “considerando che la direttiva 75/442/Cee ha istituito, a livello comunitario,

una regolamentazione per lo smaltimento dei rifiuti; che, per tenere conto delle esperienze acquisite

nell’applicazione di tale direttiva da parte degli Stati membri, occorre modificare la stessa; che dette

modifiche si basano su un livello elevato di protezione dell’ambiente”; “considerando che, per rendere

più efficace la gestione dei rifiuti nell’ambito della Comunità, sono necessarie una terminologia

comune e una definizione dei rifiuti”. 41

In questo senso, cfr. il quinto considerando della direttiva in esame, dove si legge: “considerando

che una disparità tra le legislazioni degli Stati membri in materia di smaltimento e di recupero dei

rifiuti può incidere sulla qualità dell’ambiente e il buon funzionamento del mercato interno”.

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comprensione della definizione di rifiuto, il suo significato non era esplicitato dalla

direttiva 91/156/Ce42

.

Di qui la maggior parte delle incertezze di carattere definitorio, e il conseguente

dibattito dottrinario43

, a cui gli Stati membri in prima battuta hanno provato a dare

risposta autonomamente44

, salvo poi esortare ripetutamente la Corte di Giustizia a

prendere una posizione sul punto45

.

42

I. CHEYNE – M. PURDUE, Fitting definition, cit.; K. GETLIFFE, European waste law: has rcent case

law impacted upon the mess?, in 4 [2002] ELR 675; ma anche D. WILKINSON, Time to discard, cit.. 43

Sul punto si svilupparono svariate tesi. Secondo un primo orientamento (I. CHEYNE – M. PURDUE,

Fitting definition, cit.), partendo dall’assunto secondo cui il termine “disfarsi” (discard) ha un

significato più ampio rispetto a “smaltire” (dispose), con esso la Comunità avrebbe inteso ampliare

l’ambito di applicazione della direttiva. Secondo altri (S. TROMANS, Is Frank Kafka alive and well and

working for the Environment Agency? Transfrontier waste shipments and proportionality, in 3 [1990]

JEL, 12), invece, il nuovo lemma sarebbe stato preferito a quello precedentemente in uso al fine di

armonizzare l’applicazione della normativa in tema di rifiuti, posto che quest’ultima ove tradotta in

alcune lingue diverse dall’inglese, tra cui l’italiano, non subì modifiche a seguito dell’entrata in vigore

della direttiva 91/156/Cee. Ancora, altrove (J. FLUCK, The term “waste” in EU law, cit.), facendo leva

sul dato fattuale per cui il termine “discard” si trovava ad essere separato dalle due liste di “disposal

and recovery operations”, si sottolineo’ la necessita’ di addivenire ad una definizione “neutrale” dello

stesso, in base alla quale poter sostenere come “discard” non indicasse tanto l’atto di gettare via una

cosa, quanto piuttosto un’azione capace di mutare l’originaria funzione dell’oggetto. Infine, non

mancò neppure chi (A. WAITE, Crucial need to understand the meaning of waste, in Institute of waste

management, UKELA, 1994), valorizzando la c.d. componente soggettiva della nozione di rifituo,

sottolinearono la circostanza che la nuova terminologia avrebbe sotteso un riferimento alla

condizione psicologica del detentore del bene, nel senso che secondo la direttiva l’intenzione avuta di

mira da tale soggetto avrebbe dovuto rivestire un ruolo cruciale al fine di determinare il significato di

“rifiuto”. 44

D’altra parte, come da taluno osservato (I. CHEYNE – M. PURDUE, Fitting definition, cit.), se è vero

che nel preambolo della direttiva 91/156/Cee veniva expressis verbis manifestato l’intento di

apportare degli emendamenti al fine di enucleare una definizione di rifiuto in grado di incrementare

l’efficienza della gestione dei rifiuti all’interno della Comunità (cfr. in particolare il primo e il terzo

considerando), è chiaro che la scelta del nuovo lemma non potesse che essere preordinata al

raggiungimento di tale finalità e, più in generale, degli obiettivi fatti propri dalla nuova direttiva.

Bisognava tuttavia capire perché il legislatore comunitario avesse scelto di utilizzare proprio il

termine “discard”.

In Gran Bretagna, ad esempio, il Department of the Environment, Transport and the Regions, in un

certo senso minimizzando la questione, ipotizzò che la modifica terminologica potesse essere letta

come il risultato di due fattori concorrenti. Da un lato, la fretta dei membri del Consiglio di adottare la

direttiva in esame e, dall’altro, il dato che nella legislazione inglese del tempo fosse in uso proprio il

termine “discard” (evidenziare che la legislazione in vigore in GB ha influenzato anche la direttiva

rifiuti del 1975). In ogni caso, il cambio di terminologia, lungi dall’essere apostrofato come una mera

questione di forma, suscitò un vivace dibattito dottrinale. 45

Solo tra il 1995 e il 1996, a titolo meramente esemplificativo, si segnalano: CGCE Gallotti e a., C-

75/95; CGCE Rosi, C-26/95; CGCE Mattei e a, cause riunite C-174/95, C-175/95, C-176/95; CGCE

Deodati e Lucchini, C-187/95; CGCE Piccolo, C-331/95; CGCE Corbo, C-332/95; CGCE Miranda,

C-342/95; CGCE Tancredi, C-363/95; CGCE Onorati e Marulli, C-377/95; CGCE Gallotti, C-6/96;

CGCE Iannilli, C-24/96; CGCE Paolantoni, C-34/96; CGCE Commissione v. Spagna, C-107/96;

CGCE Inter-environment Wallonie, C-129/96; CGCE Marchionne, C-189/96; CGCE Alari, C-190/96;

CGCE Beside, C-192/96; CGCE Buchen, 193/96; CGCE Chemische Afvastoffen, C-203/96; CGCE

Commissione c. Francia, C-223/96; CGCE Cordella e Newbold, C-271/96; CGCE Nardi, C-271/96;

CGCE Cipriani, C-272/96; CGCE Terranova, C-273/96; CGCE Pezzola, C-296/96.

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62

Tra le pronunce di maggior rilievo, capaci di influenzare sensibilmente anche la

giurisprudenza delle Corti nazionali46

, si ricordano quelle rese nei casi Euro

Tombesi47

e a. ed Inter - Environment Wallonie ASBL c. Regione Wallonne48

.

Nel primo caso, la Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi con riferimento

a ben quattro rinvii pregiudiziali promossi dalle Preture italiane di Terni e Pescara, le

quali per ragioni diverse49

chiedevano ai Giudici di Lussemburgo di chiarire se i

concetti di rifiuto e rifiuto destinato al recupero, contenuti nella direttiva

91/156/Cee, dovessero continuare ad essere letti ed interpretati alla luce della

pregressa giurisprudenza della Corte – vale a dire conformemente a quanto deciso, ad

46

Interessante, a questo proposito, il richiamo al noto caso Mayer Parry Recycling Limited v.

Environment Agency deciso nel 1999 dall’Alta Corte di Inghilterra e Galles. In breve i fatti: Mayer

Parry Recycling Limited (MPR) era una delle maggiori industrie di metalli in Gran Bretagna.

Nell’esercizio della propria attività, la stessa sottoponeva i metalli a svariati processi per poi destinarli

sia al mercato straniero che a quello nazionale. Il nodo gordiano che l’Alta Corte era chiamata a

sciogliere riguardava il se (o fino a che punto) per effetto di simili trasformazioni i materiali trattati

potessero comunque definirsi rifiuti. Nel risolvere il caso – ricorda la dottrina (D. POCKLINGTON, UK

perspectives on the definition of “waste” in EU legislation, in [1999] EELR 72) - “la Corte ha tenuto

conto dell’interpretazione che i giudici di Lussemburgo hanno offerto della nozione di rifiuto [e, in

particolare del termine discard ] nei casi Tombesi e Wallonne”. Per tale via la Corte ha concluso nel

senso che “vige una presunzione per cui tutte le operazioni in esame rientrano nella nozione di

recovery operations di cui all’All. II B della direttiva rifiuti. (…) Pertanto, i materiali sottoposto a

detti trattamenti costituiscono rifiuti”. Inoltre, è interessante notare come secondo la medesima

dottrina detta pronuncia testimonia(va) la crescente competenza dei giudici nazionali di statuire in

ordine a questioni afferenti al diritto europeo senza bisogno di “interpellare” la Corte di Giustizia. E,

ancora, “benché la sentenza de qua valga come precedente solo per le Corti dell’Inghilterra e del

Galles, la sua conformità alla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo (…) farà sì che la stessa si

imponga anche all’attenzione delle giurisdizioni di altri Stati”.

Per un commento alla sentenza cfr. anche S. BELL, Refining the definition of waste, in 1[1999] ELR

283; S. TROMAS, Is Frank Kafka alive and well and working for the Environmental Agency?, cit.. 47

CGCE 25 giugno 1997, Euro Tombesi e a, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94, C-224/95,

per un commento alla quale cfr., inter alia, A. GRATANI, La Corte di Giustizia si pronuncia ancora

sulla incompatibilità della distinzione tra “rifiuto” e “residuo”, in Riv. giur. amb., 1998, 1; M.

PURDUE - A. VAN ROSSEM, The distinction between using secondsry raw materials and the recovery of

waste: the directive definition of waste, in 10 [1998] JEL 117. 48

CGCE 18 dicembre 1997, Inter Environment Wallonie ASBL c. Regione Wallonne, C-129/96, con

riguardo alla quale cfr. A. GRATANI, In pendenza di un termine di trasposizione di una direttiva gli

Stati membri devono astenersi dall’emanare normative nazionali contrastanti con il diritto

comunitario, in Riv. giur. amb., 1998, 3-4, 504. 49

In particolare, Euro Tombesi e Adino Tombesi (C-304/94) sono imputati di aver realizzato senza

autorizzazione una discarica costituita da detriti e ritagli di marmo provenienti dalla lavorazione del

marmo effettuata dalla società Sotema, di cui sono proprietari e legali rappresentanti. Roberto Santella

(C-330/94) è imputato di aver prodotto senza autorizzazione rifiuti tossici e pericolosi, costituiti da

pece proveniente dalle emissioni prodotte dagli elettrofiltri di forni di cottura, destinati ad essere

eliminati mediante incenerimento. Nella causa C-342/94, invece, Giovanni Muzi e Paolo Astori sono

imputati di aver violato il combinato disposto dell’art. 25, n. 1, e dell’art. 6 del DPR n. 915/82,

relativo ai rifiuti speciali denominati “panelli di sansa” (residui di olio di oliva). Infine, nella causa C-

224/95 Anselmo Savini è imputato di aver trasportato senza autorizzazione della Regione Abruzzo

rifiuti speciali prodotti dalla ELIOS Srl e venduti alla SIA srl.

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63

esempio, nel caso Vessoso e Zanetti - e se, allo stesso tempo, in queste due

definizioni potessero essere inclusi tutti i materiali che residuano da un ciclo

produttivo [sottoprodotti] e, in caso affermativo, se essi dal punto di vista della

normativa europea fossero soggetti alla disciplina contenuta nella su citata direttiva50

.

Sul punto la Corte, dopo aver ricordato che “per giurisprudenza costante, la nozione

di rifiuto, ai sensi degli artt. 1 della direttiva 75/442, nella sua versione originale,

(…) non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti

suscettibili di riutilizzazione economica”51

, ha concluso affermando che “tale

interpretazione non è messa in discussione [dalla] direttiva 91/156”52

. Pertanto, “la

nozione di rifiuto figurante all’art. 1 della direttiva 75/442, come modificata (…) non

deve essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di

riutilizzazione economica, neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire

oggetto di un negozio giuridico (…)”53

.

Similmente, in Environment Wallonie ASBL c. Regione Wallonne54

, il Consiglio di

Stato belga si è rivolto alla Corte per chiedere se “una sostanza indicata nell’All. I

della direttiva 91/156/Cee (…) che sia inserita, direttamente o indirettamente, in un

processo di produzione industriale, sia un rifiuto ai sensi dell’art. 1, lett. a)” della

direttiva55

.

50

Cfr. pp. 30 e 34 della sentenza citata. 51

Cfr. p. 47 della sentenza citata. 52

Cfr. p. 48 della sentenza citata. 53

Cfr. p. 54 della sentenza citata. 54

CGCE 18 dicembre 1997, Inter Environment Wallonie ASBL c. Regione Wallonne, C-129/96. 55

Cfr. p. 24 della sentenza citata. Inoltre, il giudice a quo ha chiesto alla Corte di chiarire anche se gli

artt. 5 e 189 del Tr Cee “ostino a che gli Stati membri adottino disposizioni in contrasto con la

direttiva 75/442/Cee, come modificata dalla direttiva 91/156/Cee, durante il periodo fissato per la

trasposizione di quest’ultima”. Sul punto, la Corte si è espressa affermando che “l’obbligo di uno

Stato membro di adottare tutti i provvedimenti necessari per raggiungere il risultato prescritto da una

direttiva è un obbligo cogente (…). Nel caso di specie, e in conformità a una prassi corrente, la stessa

direttiva 91/156/Cee stabilisce un termine alla scadenza del quale le disposizioni legislative,

regolamentari e amministrative necessarie a conformar visi devono essere entrate in vigore negli Stati

membri”. Poiché questo termine è diretto, in particolare, a dare agli Stati membri il tempo necessario

all’adozione dei provvedimenti di trasposizione, non si può contestare agli stessi Stati l’omessa

trasposizione della direttiva nel loro ordinamento prima della scadenza di tale termine”. Tuttavia,

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64

Nel rispondere a tale quesito, i giudici di Lussemburgo sono partiti dall’assunto per

cui – alla luce delle modifiche introdotte dalla direttiva 91/156/Cee – “l’ambito di

applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine disfarsi”56

.

Ciò premesso, la Corte ha richiamato la propria pregressa giurisprudenza57

e ha

ribadito che “la nozione di rifiuto (…) non deve intendersi nel senso che essa esclude

le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica”58

. Pertanto,

“possono costituire rifiuti, [ai sensi della direttiva, anche] le sostanze che fanno parte

di un processo di produzione”59

.

Dette pronunce, dunque, testimoniano come in un primo tempo la giurisprudenza

(seguita da ampia parte della dottrina60

) fosse incline ad interpretare in senso molto

estensivo la nozione di rifiuto61

“ricomprendendo in essa praticamente ogni tipo di

“durante il termine fissato per la trasposizione agli Stati membri devono adottare i provvedimenti

necessari ad assicurare che il risultato prescritto dalla direttiva sarà realizzato alla scadenza del

termine stesso”. Per tali ragioni, dunque, la Corte conclude nel senso che “dal combinato disposto

degli artt. 5, secondo comma, e 189, terzo comma, del Trattato e dalla stessa direttiva risulta che, in

pendenza di tale termine, essi devono astenersi dall’adottare disposizioni che possano compromettere

gravemente il risultato prescritto dalla direttiva stessa”, con la precisazione che una simile valutazione

è rimessa al giudice nazionale. 56

Cfr. p. 26 della sentenza citata. 57

In particolare, CGCE 28 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, cit.; CGCE 25 giugno 1997, Euro Tombesi

e a, cit. nonché CGCE 10 maggio 1995, Commissione c. Germania, C-422/92, per un commento alla

quale cfr. A. GRATANI, La Corte di Giustizia prende posizione. I “residui” vanno assoggettati alla

disciplina prevista per i rifiuti”, in Riv. giur. amb., 1995, 5, 653 e M. MEDUGNO, Ulteriori spunti da

“oltremanica” sulla nozione di rifiuto, in Riv. giur. amb., 1995, 5, 669. 58

Cfr. p. 31 della sentenza citata. 59

Cfr. p. 32 della sentenza citata. 60

Inter alia, cfr. J. FLUCK, The term “Waste”, cit.; D. POCKLINGTON, The utility of the concept of

“Waste”, cit.. 61

Peraltro, occorre rammentare come le vicende appena esaminate siano note anche per le opinioni

espresse dall’Avvocato Generale Jacobs nel corso dei rispettivi giudizi. In particolare, in relazione al

caso Euro Tombesi egli ha affermato che “il termine rifiuto e il sistema di regolazione dettato dalla

direttiva si estendono sia agli oggetti e materiali che sono smaltiti (disposed of, All. II A) sia a quelli

che sono sottoposti ad operazioni di recupero (recovered, All. II B). In questo modo, il termine

disfarsi contenuto nella definizione di rifiuto ex art. 1, lett a), ha un significato tale da ricomprendere

sia lo smaltimento dei rifiuti che la loro destinazione ad operazioni di recupero. Conseguentemente, la

portata del termine rifiuto dipende dal significato attribuito a siffatte locuzioni” (p. 50). Ciò non di

meno, l’A.G. non ha mancato di sottolineare né il fatto che dette espressioni fossero definite in modo

poco esaustivo nella direttiva (p. 54), né la “circolarità” definitoria esistente tra il concetto di rifiuto e

quello di disfarsi (p. 55). Pertanto, al fine di sbrogliare la matassa, ha suggerito di non fossilizzare

l’attenzione sulla ricerca di una definizione omnicomprensiva , quanto piuttosto di compiere

valutazioni caso per caso. E ha ammesso finanche l’opportunità di lasciare agli Stati membri maggiori

margini di autonomia (p. 56).

Al tempo, tuttavia, detto approccio non ha mancato di suscitare scalpore tra gli studiosi che lo hanno

tacciato di essere un po’ “inconsistente” nella misura in cui lo stesso faceva del termine “rifiuto un

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65

fattispecie”62

, così da scongiurare il rischio - si legge nella maggior parte delle

sentenze – di tradire la ratio della direttiva, vale a dire gestire i rifiuti evitando il

prodursi di pregiudizi per la salute umana e l’ambiente. Erano questi, d’altra parte,

gli anni in cui il perno della disciplina dei rifiuti era considerato lo smaltimento

poiché si presupponeva che i rifiuti fossero un “prodotto ineliminabile della

società”63

.

II.3 … AL (QUASI) “NIENTE RIFIUTO”

Il quadro poc’anzi tracciato ha preso, tuttavia, a mutare agli inizi del nuovo

millennio. Infatti, benché la Corte di Giustizia avesse dato vita ad un filone

giurisprudenziale piuttosto univoco nel considerare quello di rifiuto come un istituto

a “maglie larghe”, nel 2000 - pronunciandosi in relazione al caso ARCO64

- la stessa

ha (almeno in parte) mitigato la perentorietà del proprio decennale orientamento.

In tale circostanza, il Consiglio di Stato dei Paesi Bassi ha compiuto, nei confronti

della Corte di Giustizia, due rinvii pregiudiziali in relazione a questioni sorte

nell’ambito di altrettanti giudizi, relativi a due provvedimenti amministrativi

concernenti sostanze destinate ad essere utilizzate come combustibile nell’industria

cementifica o per produrre energia elettrica.

Più nel dettaglio, nel primo caso (C-418/97), la società ARCO aveva chiesto al

Ministro dell’ambiente l’autorizzazione per trasportare in Belgio un certo

quantitativo di LUWA-bottoms (prodotti derivati dal processo di fabbricazione

mero appellativo da utilizzare per ogni oggetto destinato ad operazioni di smaltimento e recupero”.

Così D. WILKINSON, Time to discard, cit.. Ex multis, per un commento al c.d. “teorema Jacobs” cfr.

M. PURDUE, The distinction between, cit.; I. CHEYNE, The definition of waste in EC law, cit.; A. VAN

ROSSEM, The distinction between, cit.. 62

F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit., il quale sottolinea che

“qualcuno ha icasticamente osservato che prevaleva il partito del c.d. tutto rifiuto”. 63

F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 64

CGCE 15 giugno 2000, ARCO Chemie Nederland Ltd, cause riunite C-418/97 e C-419/97, per un

commento alla quale J. TIEMAN, The broad concept of waste and the case of ARCO-Chemie and Hees-

EPON, in [2000] EELR 327.

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66

seguito dalla ARCO e destinati ad essere utilizzati come combustibili nell’industria

del cemento). Poiché “l’autorità competente ha dichiarato di non opporsi alla

progettata esportazione di detti rifiuti [solo] sino al 1 febbraio 1996”65

, l’azienda ha

proposto un ricorso dinanzi al giudice amministrativo basco. Quest’ultimo, dovendo

in sostanza stabilire se il trasferimento di LUWA-bottoms in Belgio rientrasse

nell’ambito di applicazione del regolamento CEE 1 febbraio 1993 n. 259, si è chiesto

se detti materiali costituissero o meno dei rifiuti. Pertanto, si è rivolto alla Corte di

Giustizia domandando se “dalla semplice circostanza che sui LUWA-bottoms viene

eseguita un’operazione menzionata nell’allegato II B della direttiva [rifiuti] discenda

che l’operazione consiste nel disfarsi di tali sostanze e che, pertanto, esse vanno

considerate rifiuti (…)”66

.

Nel secondo caso (C-419/97), invece, la Epon - società che produce energia elettrica

nei Paesi Bassi - aveva chiesto l’autorizzazione per modificare il funzionamento di

una centrale elettrica. Segnatamente, voleva utilizzare trucioli di legno provenienti

dal settore edilizio come combustibile per generare energia. “Per motivi analoghi a

quelli citati nell’ambito della causa C-418/97, il Consiglio di Stato ha deciso di

sospendere il procedimento” e di chiedere alla Corte “se dalla semplice circostanza

che viene eseguita sui trucioli di legno un’operazione menzionata nell’allegato II B

della direttiva [rifiuti] discenda che l’operazione consiste nel disfarsi di tali sostanze

e che pertanto esse vanno considerate rifiuti (…)”67

.

Una volta disposta la riunione dei ricorsi, la Corte ha risolto entrambe le questioni in

senso analogo. Vale a dire: dopo aver ricordato che “l’ambito di applicazione della

65

Cfr. p. 14 della sentenza citata. 66

Cfr. p. 20 della sentenza citata. 67

Cfr. p. 32 della sentenza citata.

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67

nozione di rifiuto dipende dal significato del termine disfarsi”68

, i giudici di

Lussemburgo hanno concluso che “dal semplice fatto che su una sostanza (….)

venga eseguita un’operazione menzionata nell’allegato II B della direttiva non

discende che l’operazione consiste nel disfarsene e che, pertanto, detta sostanza vada

considerata un rifiuto (…)”69

. Infatti – prosegue la Corte – “l’effettiva esistenza di un

rifiuto ai sensi della direttiva va accertata alla luce del complesso di circostanze,

tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne

l’efficacia”70

.

In altri termini, la Corte mostra di prendere (almeno parzialmente) le distanze

dall’idea per cui tutto costituisce rifiuto, esortando l’interprete a compiere una

valutazione caso per caso, pur nel necessario rispetto degli obiettivi di tutela fissati

dalla direttiva71

e, dunque, ponendo la debita attenzione nei confronti del fattore

“rischio”72

.

68

Cfr. pp. 36 e 52 della sentenza citata. 69

Cfr. p. 51 della sentenza citata. 70

Cfr. p. 88 della sentenza citata, dove inoltre si legge che: “le circostanze che una sostanza utilizzata

come combustibile sia il residuo di un processo di produzione di un’altra sostanza, che non sia

ipotizzabile nessun altro uso di tale sostanza se non lo smaltimento, che la composizione della

sostanza non sia idonea per l’uso che ne viene fatto o che tale uso debba avvenire in particolari

condizioni di precauzione per l’ambiente possono essere considerate indizi del fatto che il detentore

della sostanza stessa se ne disfa ovvero ha deciso o ha l’obbligo di disfarsene ai sensi dell’art. 1, lett.

a), della direttiva”. 71

In un passo della sentenza, infatti, la Corte afferma che “l’ambito di applicazione della nozione di

rifiuto dipende dal significato del termine disfarsi. Conformemente alla giurisprudenza della Corte,

tale termine va interpretato tenendo conto delle finalità della direttiva”. A questo proposito, la Corte

ricorda che il terzo considerando precisa che “ogni regolamento in materia di smaltimento dei rifiuti

deve essenzialmente mirare alla protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi

della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti. Occorre del resto

sottolineare che, ai sensi dell’art. 130 R, n. 2, del Trattato Ce, la politica della Comunità in materia

ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata sui principi, in particolare, della precauzione

e dell’azione preventiva” (pp. 36-39). E, ancora, “va infine precisato che, in mancanza di disposizioni

comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti

nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario.

Potrebbe pregiudicare l’efficacia dell’art. 130 R del Trattato e della direttiva l’uso, da parte del

legislatore nazionale, di modalità di prova come le presunzioni iuris et de iure che abbiano l’effetto di

restringere l’ambito di applicazione della direttiva escludendone sostanze, materie o prodotti che

rispondono alla definizione del termine “rifiuti ai sensi della direttiva” (pp. 41-42). 72

Così dicendo, dunque, i giudici di Lussemburgo mostrano anche di confermare quell’indirizzo

incline ad accordare un certo rilievo al fattore rischio. In tal senso cfr. CGCE 5 ottobre 1999, Lirussi e

Bizzarro, C-175/98, per un commento alla quale cfr. M. MONTINI, Deposito temporaneo e deposito

preliminare di rifiuti: le precisazioni della Corte di Giustizia, in Riv. giur. amb., 2000, 2, 271. In tale

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68

Questo indirizzo ha poi trovato conferma in una lunga serie di pronunce dove la

Corte - pur ribadendo che il termine disfarsi e il concetto di rifiuto non possono

essere interpretati restrittivamente per “non pregiudicare l’effetto utile della

direttiva”73

- ha finito per escludere la natura di rifiuto con riguardo, ad esempio, ai

detriti di una miniera (Avesta Polarit)74

, al coke da petrolio prodotto da una raffineria

occasione, il pretore di Udine si era rivolto in via pregiudiziale alla Corte chiedendole: a) lumi sulla

corretta interpretazione dei concetti di deposito temporaneo e deposito preliminare di rifiuti; b)

chiarimenti circa il se le autorità nazionali fossero tenute a vegliare sul rispetto degli obblighi di tutela

ambientale previsti dall'articolo 4 della direttiva 75/442, anche in relazione ad operazioni di deposito

temporaneo non qualificabili come operazioni di gestione dei rifiuti ai sensi della normativa

comunitaria. Orbene, l’A. ricorda come con riguardo alla prima questione “la Corte conclude (…) che

la nozione di deposito temporaneo si differenzia da quella di deposito preliminare di rifiuti, in quanto

avviene in una fase temporale necessariamente precedente a questa e non può quindi essere in alcun

modo considerato una operazione di gestione dei rifiuti ai sensi della direttiva (…)”. Tuttavia –

afferma la Corte in merito alla seconda questione – “nei limiti in cui i rifiuti, anche temporaneamente

depositati, possano provocare rilevanti danni all’ambiente (…) le disposizioni dell’art. 4 della direttiva

si applicano anche all’operazione di deposito temporaneo”, anche se questa tecnicamente non rientra

tra le operazioni di smaltimento e di recupero di rifiuti, in quanto logicamente precedente. La

soluzione offerta dalla Corte, dunque, evidenzia l’A., “deve essere letta alla luce del concetto

comunitario di effetto utile invocato dalla Commissione CE nel caso di specie, ai sensi del quale gli

Stati membri nell'attuazione della direttiva 75/442 devono adottare idonee misure per evitare che le

imprese possano fare un uso abusivo della deroga prevista dalla direttiva in tema di deposito

temporaneo, a danno dell'ambiente”. Le cautele previste dall’art. 4 della direttiva rifiuti, infatti,

trovano chiaramente la propria ratio nel principio di precauzione. 73

Simile affermazione ricorre costante in pressoché tutte le pronunce qui citate. In particolare, in

CGCE 18 aprile 2002, Palin Granit Oy, C-9/00, la Corte amministrativa suprema della Finlandia –

investita di un ricorso avverso l’autorizzazione ambientale rilasciata dal Consiglio del Consorzio

all’impresa Palin Gratit Oy per lo sfruttamento di una cava di granito – ha chiesto ai giudici di

Lussemburgo di chiarire se i detriti provenienti dalla cava fossero o meno rifiuti. Orbene, in un passo

della sentenza si legge che “il verbo "disfarsi" deve essere interpretato alla luce della finalità della

direttiva 75/442 che, ai sensi del terzo `considerando', è la tutela della salute umana e dell'ambiente

contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei

rifiuti, ma anche alla luce dell'art. 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia

ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione

e dell'azione preventiva. Ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso

restrittivo (…). Nel caso specifico, la questione di stabilire se una determinata sostanza sia un rifiuto

deve essere risolta alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva

75/442 ed in modo da non pregiudicarne l'efficacia”. Proprio per tali ragioni, dunque, la Corte ha

ritenuto che l’argomento in base al quale il luogo di deposito dei detriti provenienti dallo sfruttamento

di una cava non costituisce una discarica, bensì un deposito di materiali riutilizzabili (qualora tali

detriti siano suscettibili di essere utilizzati per lavori di riporto o per la costruzione di porti e

frangiflutti), “non può bastare per escludere che i detriti siano considerati rifiuti” (p. 28). Il riutilizzo,

infatti, non sembra sicuro ed è prevedibile solo a lungo termine. Pertanto, “il detentore di detriti

derivanti dallo sfruttamento di una cava di pietra, depositati a tempo indeterminato in attesa di un

possibile utilizzo, si disfa o ha deciso di disfarsi di tali detriti i quali devono, di conseguenza, essere

qualificati come rifiuti” (p. 39). 74

Il riferimento è a CGCE 11 settembre 2003, Avesta Polarit Chrome Oy, C-114/01. Nell’ambito di

un giudizio promosso dalla Avesta Polarit Oy (azienda gestore di una miniera che produce in via

principale cromo) per l’annullamento dell’autorizzazione condizionata concessale dal Centro

regionale dell’ambiente per la Lapponia, la Corte amministrativa suprema della Finlandia ha operato

un rinvio pregiudiziale, chiedendo alla Corte di pronunciarsi circa l’interpretazione degli artt. 1,

comma primo, lett. a) e 2, n. 1, lett. b) della direttiva rifiuti. Più nel dettaglio il giudice a quo ha

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e ivi reimpiegato (Saetti e Frediani)75

o, ancora, al colaticcio proveniente da una

azienda suinicola (Commissione europea c. Regno di Spagna)76

.

chiesto di stabile se i “se – alla luce di una serie di fattori indicati nel provvedimento di rinvio - i

detriti derivanti dall'estrazione di minerale nello sfruttamento di una miniera e/o la sabbia di scarto

risultante dall'arricchimento del minerale stesso vadano considerati rifiuti” (p. 30). Al riguardo la

Corte, dopo aver richiamato il caso Palin Granit, ha affermato che con tutta evidenza “detriti

provenienti dall'attività estrattiva, che non si configurano come produzione principale derivante dallo

sfruttamento di una cava di granito, rientrano, in via di principio, nella categoria dei residui

provenienti dall'estrazione e dalla preparazione delle materie prime di cui al punto Q 11 dell'allegato I

della direttiva 75/442” (p. 33). Tuttavia, nel caso concreto occorre verificare se residui del genere

debbano essere qualificati come rifiuti per il motivo che il loro detentore se ne disferebbe o avrebbe

l'intenzione o l'obbligo di disfarsene, ai sensi dell'art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442”

(p. 35). Orbene, “a questo riguardo, occorre distinguere, da una parte, i residui che sono utilizzati

senza trasformazione preliminare nel processo di produzione per assicurare un necessario

riempimento delle gallerie e, dall'altra, gli altri residui” (p. 36). Solo i primi

“non possono essere considerati come sostanze di cui il detentore si disfi o abbia intenzione di

disfarsi, poiché, invece, esso ne ha bisogno per la sua attività principale”, a meno che – ovviamente –

tale utilizzo sia vietato per ragioni di sicurezza o di tutela dell’ambiente”. 75

A tal proposito cfr. CGCE 14 gennaio 2004, Saetti e Frediani, C-235/02, per un commento alla

quale cfr. E. POMINI, “Pet-coke” e nozione di rifiuto: la Corte di Giustizia in linea con la scelta di

esclusione già operata dal legislatore italiano, in Riv. giur. amb., 2004, 3, 425. In tale circostanza, il

GIP di Gela, nell’ambito di un procedimento penale a carico di M. A. Saetti e A. Frediani

(rispettivamente direttore ed ex direttore della raffineria di petrolio di Gela, indagati per non aver

rispettato la legislazione in materia di rifiuti), ha sollevato dinanzi alla Corte di Giustizia bene quattro

questioni preliminari vertenti sugli artt. 1, comma primo, lett. a) e f); 2, n. 1, lett. b) e 4 della direttiva

rifiuti. Nello specifico, alla Corte è stato chiesto di chiarire: a) se il coke da petrolio sia o meno

rifiuto?; b) se l’uso del coke come combustibile costituisca attività di recupero?; c) se il coke usato

come combustibile possa essere escluso dall’applicazione della normativa sui rifiuti?; d) se un utilizzo

entro certi limiti e secondo certe condizioni sia sufficiente ad assicurare il rispetto dell’art. 4 della

direttiva? Al riguardo, dopo aver richiamato la pronuncia Palin Granit e dopo aver compiuto

un’analisi analoga a quella svolta in relazione al caso ARCO, la Corte ha statuito che “il detentore di

detriti o di sabbia di scarto (…), provenienti dallo sfruttamento di una miniera, [normalmente] si disfa

o ha intenzione o l'obbligo di disfarsi di tali sostanze, che devono essere qualificate, di conseguenza,

come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, salvo che [come nel caso di specie] il detentore li utilizzi

legalmente per il necessario riempimento delle gallerie della detta miniera e fornisca garanzie

sufficienti sull'identificazione e sull'utilizzazione effettiva delle sostanze destinate a tale effetto” (p.

43). 76

Sul punto cfr. CGCE 8 settembre 2005, Commissione c. Regno di Spagna, C- 416/02. In tale

fattispecie, la Commissione ha chiesto alla Corte di condannare la Spagna sul presupposto che

quest’ultima ha permesso che carogne e colaticcio provenienti da un’azienda suinicola venissero

scaricati nell’ambiente in violazione della direttiva rifiuti. In particolare – si legge al p. 85 – “la

Commissione sostiene che l'azienda in questione produce rifiuti in grande quantità, in particolare

colaticcio e carogne, e che tali rifiuti, in mancanza di una normativa comunitaria specifica relativa alla

loro gestione, sono disciplinati dalla direttiva 75/442. Ebbene, tale azienda opererebbe senza

l'autorizzazione richiesta ai sensi dell'art. 9 di tale direttiva e i detti rifiuti (…) verrebbero scaricati

senza controlli sui terreni vicini, in spregio agli obblighi in materia di ricupero o smaltimento oggetto

dell'art. 4 della stessa direttiva. Infine, la detta azienda non sarebbe stata oggetto di alcun adeguato

controllo periodico da parte delle competenti autorità, in violazione dell'art. 13 della detta direttiva”. Ciò posto, la Corte esamina partitamente le due fattispecie, vale a dire quella del colaticcio e quella

delle carogna. Quanto al primo, “dai documenti del fascicolo risulta che tale colaticcio viene utilizzato

come fertilizzante agricolo (…). La persona che dirige lo stabilimento in esame non cerca quindi di

disfarsene, cosicché tale colaticcio non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442”. Né,

d’altra parte, “La circostanza che nel catalogo europeo dei rifiuti, tra i "rifiuti provenienti da

produzione (…) in agricoltura", compaiano le "feci animali, urine e letame (comprese le lettiere

usate), effluenti, raccolti separatamente e trattati fuori sito", (…) è tale da porre nuovamente in dubbio

questa conclusione. Tale menzione generica degli effluenti d'allevamento non prende, infatti, in

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Inoltre, sentenza dopo sentenza, i giudici di Lussemburgo hanno anche enucleato

delle “linee guida” (rectius, “indizi”77

) utili ad orientare l’interprete nel labirinto dei

rifiuti. In particolare, oltre a sottolineare la necessità di interpretare il termine disfarsi

alla luce della ratio della direttiva e dell’art. 174 n. 2 del (allora) Trattato Ce78

, la

Corte ha ripetutamente ritenuto determinante il “criterio derivante dalla natura o

meno di residuo di produzione di una sostanza, [nonché] il grado di probabilità di

riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare”79

.

Ex multis, la stessa è arrivata ad affermare che, in mancanza di indicazioni puntuali

da parte della direttiva circa i criteri per individuare la volontà del detentore di

disfarsi di un bene o sostanza, “gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità

considerazione le condizioni in cui i detti effluenti vengono utilizzati”. Per quel che concerne, invece,

le carogne, il governo spagnolo nella propria difesa ha sostenuto che esse “sarebbero "già coperte da

un'altra normativa" e sarebbero pertanto escluse dall'ambito di applicazione di tale direttiva, in

conformità all'art. 2, n. 1, lett. b), sub iii)” della stessa. Ed, in effetti, scrive la Corte “per quanto

riguarda le carogne in esame, il legislatore comunitario ha adottato un'"altra normativa" (…). La

direttiva 90/667riguarda infatti, in particolare, la gestione di tali carogne come rifiuti. Essa fissa norme

precise applicabili alla detta categoria di rifiuti, prescrivendo in particolare che essi siano sottoposti a

trasformazione presso stabilimenti riconosciuti o eliminati mediante incinerazione o sotterramento”.

E, ancora, “le disposizioni della direttiva 90/667disciplinano l'impatto ambientale del trattamento delle

carogne e, grazie al loro grado di precisione, impongono un livello di protezione dell'ambiente almeno

equivalente a quello prescritto dalla direttiva 75/442. Esse costituiscono pertanto, contrariamente a

quanto sostenuto dalla Commissione nella sua replica, un'"altra normativa" che disciplina questa

categoria di rifiuti e che permette di considerare che tale categoria è esclusa dall'ambito di

applicazione della detta direttiva, senza che sia necessario valutare se anche la normativa nazionale

invocata dal governo spagnolo sia costitutiva di simile "altra normativa". Ne consegue, quindi, che a

giudizio della Corte “la direttiva 75/442non è dunque applicabile alle carogne in esame” (p. 103). 77

E’ la stessa Corte di Giustizia a parlare di “indizi” in molte delle sue pronunce. Cfr., ad esempio,

CGCE, Saetti e Frediani, cit.. In dottrina, per un’analisi esaustiva di tali criteri nonché dei “casi

limite” affrontati dalla Corte di Giustizia, cfr. N. DE SADELEER, New perspectives on the definition of

waste in EC law, in 1 [2005] JEEPL 46 e prima ancora L. KRAMER, The distinction between product

and waste in Community law, in 2 [2003] Env. Liability, 3. 78

Oltre alla già citata sentenza resa in relazione al caso Palin Granit Oy, cfr. CGCE 10 maggio 2007,

Thames Water Utilities Limited, C-252/05, dove la Corte è stata invitata a pronunciarsi sulla natura di

rifiuto delle acque reflue scaricate sul territorio della contea di Kent. Qui, infatti, al p. 27 si legge che

“l'espressione disfarsi non va interpretata solo alla luce delle finalità della direttiva 75/442 (…) bensì

anche alla luce dell'art. 174, n. 2, CE. (…). Pertanto, il termine disfarsi non può essere interpretato

restrittivamente”. Per completezza, si segnala che sul problema delle acque reflue (questa volta nella

città di Londra) è recentemente intervenuta CGUE 18 ottobre 2012, Commissione europea c. Regno

Unito, C-301/10, per un commento alla quale cfr. A. GRATANI, No allo scarico dei reflui nel Tamigi.

Dopo la condanna UE due nuovi tunnel per reflui nel 2020, in Riv. giur. amb., 2013, 1, 71. 79

Così già al p. 37 di Palin Granit Oy, cit.. Non a caso, in un passaggio precedente della stessa

sentenza si legge che “né il fatto che alcuni detriti siano oggetto di un'operazione di trattamento

prevista dalla direttiva 75/442, né la circostanza che essi siano riutilizzabili consentono di stabilire se

tali detriti siano o meno rifiuti ai sensi della direttiva 75/442. Altre considerazioni risultano, invece,

più rilevanti”.

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di prova (…), purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario”80

.

Nonché, addirittura ad ammettere la possibilità che – a certe condizioni81

- la materia

de qua sia regolata da una normativa diversa dalla direttiva rifiuti82

, finanche non di

rango europeo bensì nazionale83

.

80

In questi termini si legge al p. 44 della sentenza CGCE 18 dicembre 2007, Commissione europea c.

Italia, C- 194/05. In tale circostanza, la Commissione ha chiesto alla Corte di condannare l’Italia sulla

base dell’assunto per cui quest’ultima – avendo escluso, mediante legge, la natura di rifiuti di una

serie di materiali e sostanze - sarebbe venuta meno agli obblighi sulla stessa incombenti per effetto

della direttiva rifiuti. Nello specifico, la Commissione ha sostenuto che l’art. 1, comma diciannove, L.

443/2001 ha escluso dall’ambito di applicazione della normativa nazionale in materia di rifiuti terre e

rocce da scavo, esorbitando i limiti in proposito fissati dalla Corte. Sul punto, i giudici di

Lussemburgo hanno osservato che nonostante dalle disposizioni controverse sembrerebbe potersi

desumere in via presuntiva che il detentore non voglia disfarsi delle terre e delle rocce da scavo, in

realtà “non può esistere alcuna presunzione generale in base alla quale un detentore di terre e rocce da

scavo tragga dal loro riutilizzo un vantaggio maggiore rispetto a quello derivante dal mero fatto di

potersene disfare. Pertanto, (…) è giocoforza constatare che tali disposizioni finiscono per sottrarre

alla qualifica di rifiuto, ai sensi dell'ordinamento italiano, taluni residui che invece corrispondono alla

definizione sancita dall'art. 1, lett. a), della direttiva”. 81

La questione è stata affrontata dalla Corte già a partire dal caso Avesta Polarit Oy. Qui, infatti, alla

Corte è stato chiesto di specificare se la locuzione “altra normativa” di cui all’art. 2, n. 1, lett. b) si

riferisca unicamente alla normativa comunitaria o se, piuttosto, con detta espressione “possa intendersi

anche la normativa nazionale, come talune disposizioni della legge mineraria e del decreto finlandese

sui rifiuti” (p. 30). Sul punto i giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che non si possa escludere che

“i termini altra normativa, figuranti all’art. 2, n. 1, lett. b), della direttiva 75/442, riguardino anche, a

certe condizioni, normative nazionali” (p. 49). Al contempo, però, hanno anche puntualizzato che “per

essere considerata come altra normativa (…) una legislazione nazionale non deve semplicemente

riguardare le sostanze o gli oggetti in questione (…) ma deve contenere disposizioni precise che

organizzano la loro gestione come rifiuti, ai sensi dell’art. 1, lett. d), della detta direttiva” (p. 52).

D’altronde, “un livello di protezione dell’ambiente sensibilmente differente a seconda che taluni siano

gestiti nell’ambito della direttiva 75/442 e altri fuori di tale ambito potrebbe pregiudicare gli obiettivi

della Comunità nel settore dell’ambiente come definiti all’art. 174 CE, e più in particolare gli obiettivi

di cui alla stessa direttiva 75/442. Pertanto una legislazione nazionale del genere deve perseguire gli

stessi obiettivi di questa direttiva e raggiungere un livello di tutela dell’ambiente almeno equivalente a

quello che risulta dai provvedimenti di applicazione di questa, anche se le modalità adottate dalla detta

legislazione nazionale si discostano da quelle previste dalla direttiva 75/442” (p. 59). 82

Oltre al già citato caso Avesta Polarit Oy, cfr. in particolare CGCE 10 maggio 2007, Thames Water

Utilities Ltd, C-252/05, dove alla Corte viene chiesto di chiarire se le acque reflue provenienti dal

sistema fognario siano dei rifiuti e se le stesse siano escluse dall’ambito di applicazione della direttiva,

potendosi applicare alle stesse la direttiva 91/271. In proposito, dopo aver chiarito che dette acque

costituiscono rifiuti (p. 29), la Corte si sofferma sulla seconda questione ricordando innanzitutto che

“l’art. 2, n. 1, lett. b) IV, della direttiva 75/442 esclude dalla propria sfera di applicazione le acque

reflue (...) a condizione, tuttavia, che dette acque siano già contemplate da altra normativa”. Con tale

espressione si possono intendere anche disposizioni nazionali, purché non siano riferite ad una

sostanza in particolare, bensì dovendo le stesse “contenere disposizioni precise che ne organizzano la

gestione come rifiuti”. Infatti – prosegue la Corte – “affinché una legislazione comunitaria o nazionale

possa essere considerata altra normativa, essa deve contenere disposizioni precise che organizzano la

gestione dei rifiuti e garantire un livello di tutela dell’ambiente almeno equivalente a quello che risulta

dalla direttiva 75/442 e, segnatamente, dagli artt. 4, 8 e 15 della direttiva stessa” (p. 34). Pertanto,

poiché “la direttiva 91/271 non garantisce un siffatto livello di tutela” (p. 35), essa non può trovare

applicazione nel caso di specie. 83

Sul punto cfr. CGCE, Avesta Polarit Oy, cit., dove peraltro al p. 60 si legge che “nella causa

principale, spetterà eventualmente al giudice del rinvio (…) assicurarsi che le disposizioni alternative

della legge mineraria invocate a tal fine portino (…) ad un livello di protezione dell’ambiente ad un

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Il progressivo distacco dall’idea che tutto costituisce rifiuto, oltre ad essere stato

ribadito dalla giurisprudenza successiva84

, ha poi trovato conferma anche a livello

legislativo, sia nella direttiva 2006/12/Ce85

sia - da ultimo - nella direttiva

2008/98/Ce86

.

livello di protezione almeno equivalente” a quello garantito dalla direttiva rifiuti. A tal proposito,

inoltre, la Corte raccomanda di tenere in debita considerazione il IV considerando della direttiva

91/156/Ce, dove si legge che “ai fini di un’elevata protezione dell’ambiente è necessario che gli Stati

membri, oltre a provveder in modo responsabile allo smaltimento e al recupero dei rifiuti, adottino

misure intese a eliminare la formazione dei rifiuti promuovendo le tecnologie pulite e i prodotti

riciclabili e riutilizzabili, tenuto conto delle attuali e potenziali possibilità del mercato per i rifiuti

recuperati”.

Cfr., altresì, CGCE 11 novembre 2004, Niselli, C-457/02. Qui la Corte è stata investita di un rinvio

pregiudiziale proposto dalla Procura di Terni, nell’ambito di un procedimento penale a carico di

Antonio Niselli, imputato del reato consistente nell’aver svolto una attività di gestione dei rifiuti senza

previa autorizzazione. Nella sentenza si legge che la direttiva 75/442/Cee così come modificata nel

1991 è stata recepita dall’Italia con il d. lgs. n. 22/1997 (c.d. decreto Ronchi), che per la gestione di

alcuni tipi di rifiuti esige una autorizzazione amministrativa, il cui difetto è sanzionato penalmente.

Dopo l’avvio del procedimento penale, tuttavia, il governo italiano ha adottato il d. lex 8 luglio 2002

n. 138 (conv. in L. n. 178/2002), recante – all’art. 14 – l’interpretazione autentica della definizione di

rifiuto. Il Tribunale di Terni, dunque, “si interroga in sostanza in merito all'"interpretazione autentica"

della nozione di rifiuto fornita dall'art. 14 del decreto legge n. 138/02, che potrebbe essere in contrasto

con la direttiva 75/442. Secondo tale interpretazione, i fatti addebitati al sig. {Niselli} non

costituirebbero più reato in quanto i rottami ferrosi posti sotto sequestro erano destinati al riutilizzo e

quindi non potrebbero più essere qualificati come rifiuti. Tuttavia, nell'ipotesi in cui tale

interpretazione fosse incompatibile con la direttiva 75/442, il procedimento penale dovrebbe

proseguire sulla base dell'imputazione formulata” (p.22). Orbene, la Corte sul punto risponde che “la

direttiva 75/442 non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di

disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale. In mancanza di disposizioni

comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti

nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi l'efficacia del diritto comunitario” (p. 34).

Tuttavia, “qualora l'interpretazione esposta dal giudice a quo fosse applicata nel senso che una

sostanza o un materiale di cui ci si disfi in un modo diverso da quelli menzionati negli allegati II A e

II B alla direttiva 75/442 non costituisce un rifiuto, essa restringerebbe anche la nozione di rifiuto

quale risulta dall'art. 1, lett. a), primo comma, della detta direttiva” (p. 38). Pertanto, “La prima

questione deve essere risolta dichiarando che la definizione di rifiuto contenuta nell'art. 1, lett. a),

primo comma, della direttiva 75/442 non può essere interpretata nel senso che essa ricomprenderebbe

tassativamente le sostanze o i materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di

recupero menzionate negli allegati II A e II B della detta direttiva, oppure in elenchi equivalenti, o il

cui detentore abbia l'intenzione o l'obbligo di destinarli a siffatte operazioni” (p. 40). 84

A titolo esemplificativo, cfr. CGCE 24 giugno 2008, Comune di Mesquer c. Total France Sa e Total

International Ltd, C- 188/07; CGCE 22 dicembre 2008, Commissione europea c. Italia, C-283/2006.

85

Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti del 5 aprile 2006, 2006/12/Ce, in

GUCE 24 aprile 2006 n. 114. Per un commento alla quale cfr., inter alia, D. POCKLINGTON, The

significance of the proposed changes to the waste framework directive, in [2006] EELR 75; E.

SCOTFORD, Trash or treasure: policy tensions in EC waste regulation, in 3 [2007] JEL 367. 86

Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008,relativa ai rifiuti e che

abroga la direttiva 2006/12/Ce, 2008/98/Ce. Per un commento alla quale cfr., inter alia, H. A. NASH,

The revised Directive on waste: Resolving legislative tensions in waste management?, in 21 [2009]

JEL 139; E. SCOTFORD, The new waste directive – Trying to do it all … An early assessment, 11

[2009] ELR 75.

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Quanto alla prima, parte della dottrina87

ha osservato come essa, nulla (o poco)

innovando, abbia svolto un ruolo prettamente ricognitivo degli esiti sino a quel

momento raggiunti in via pretoria. Tra i profili di continuità si annovera specialmente

la definizione di rifiuto che, ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 2006/12/Ce,

continua ad essere descritto come “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle

categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o

l'obbligo di disfarsi”88

.

Nel 2006, dunque, il legislatore europeo non solo non ha emendato detta definizione,

ma non ha neppure colto l’occasione per esplicitare il significato del termine disfarsi.

Tuttavia, quella che secondo taluno ha rappresentato un’occasione mancata, secondo

altra lettura alquanto suggestiva è stata la conferma del fatto che “nel tentativo di

appianare le incertezze correlate ai suoi termini e alla sua applicazione, la direttiva

dovesse essere soggetta ad un’interpretazione” tesa a vagliarne prevalentemente le

finalità89

.

In particolare, è stato osservato come sovente la stessa Corte di Giustizia abbia

sottolineato che il termine disfarsi - e, dunque, anche il concetto di rifiuto - dovesse

essere letto muovendo dalla ratio della direttiva, vale a dire proteggere la salute

umana e l’ambiente dagli effetti nocivi dei rifiuti90

. E come, per l’effetto, la stessa nel

87

In particolare, cfr. E. SCOTFORD, Trash or treasure, cit.. 88

Tale definizioni si ritrovava identica nel Codice dell’ambiente italiano all’art. 183, nonché

nell’ambito della legislazione inglese. 89

Così E. SCOTFORD, Trash or treasure, cit, nonché - prima di lei - anche I. CHEINE, The definition of

waste in EC law, in [2002] JEL 61; D. POCKLINGTON, How sustainable is the concept of waste?, in

[2002] EWL, 33; D. WILKINSON, Time to discard, cit.. 90

Cfr. ad esempio, CGCE Palin Granit Oy, cit.; nonché CGCE, Niselli, cit., dove al p. 32 si legge:

“L'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del verbo "disfarsi". Esso

deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442, che, ai sensi del suo terzo

considerando', è la tutela della salute umana e dell'ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del

trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei rifiuti, ma anche alla luce dell'art. 174, n. 2,

CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di

tutela ed è fondata in Particolare sui principi della precauzione e dell'azione preventiva”.

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tempo abbia preso le distanze dall’idea che tutto costituisce rifiuto91

. Pertanto,

secondo tale filone di pensiero, nel tentativo di delineare l’esatta latitudine del

concetto di rifiuto e, più in generale, gli obiettivi perseguiti dalla legislazione

europea nella materia de qua è dal principio di prevenzione che bisognerebbe

muovere92

.

Infatti, se in origine l’attenzione delle istituzioni era incentrata sulla gestione dei

rifiuti ed in specie sull’attività di smaltimento (funzione di regolazione), negli anni

hanno preso corpo politiche volte ad evitare la formazione stessa dei rifiuti o, quanto

meno, a favorirne, il recupero93

. In altri termini, si è assistito ad un graduale

sovvertimento della gerarchia dei rifiuti. Di ciò vi sarebbe una timida traccia già

nella direttiva 2006/12/Ce, laddove nei considerando si legge, che “è auspicabile

favorire il recupero dei rifiuti e l'utilizzazione dei materiali di recupero come materie

prime per preservare le risorse naturali (...)”94

e che “ai fini di un'elevata protezione

dell'ambiente è necessario che gli Stati membri, oltre a provvedere in modo

responsabile allo smaltimento e al recupero dei rifiuti, adottino misure intese a

91

Ciò - si è visto – è accaduto a partire dal caso ARCO. Così, ad esempio, in CGCE, Niselli, cit. la

Corte al p. 40 e ss afferma che “il fatto che una sostanza utilizzata sia un residuo di produzione

costituisce, in via di principio, un indizio dell'esistenza di un'azione, di un'intenzione o di un obbligo

di disfarsene ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442 (…)”. “Può tuttavia ammettersi

un'analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di

fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un

residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di "disfarsi” (…) ma che essa

intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza

operare trasformazioni preliminari”. Osserva la Corte, infatti, che “un'analisi del genere non contrasta

con le finalità della direttiva 75/442 in quanto non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle

disposizioni di quest'ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti,

beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti,

indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa

applicabile a tali prodotti”. 92

E. SCOTFORD, Trash or treasure, cit., la quale scrive: “quando una sostanza o un oggetto esorbita

dalla definizione di rifiuto, ciò è indice del fatto che quest’ultimo non è stato generato; quando invece

una sostanza o un oggetto rientra nella definizione vuol dire che è stato posto in essere il meccanismo

di regolazione volto a minimizzare il rischio di inquinamento”. Ex multis, sottolinea l’importanza del

principio di prevenzione nella materia de qua anche F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla

prevenzione, cit. nonché ID., Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in

AA.VV., Studi in onore di Alberto Romano, Ed. Sc., Napoli, 2011, 2079. 93

In tal senso cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti,

cit.. 94

Così al considerando n. 5 della direttiva in commento.

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limitare la formazione dei rifiuti promuovendo in particolare le tecnologie "pulite" e i

prodotti riciclabili e riutilizzabili (…)”95

.

Ciò non di meno, è stato altresì evidenziato come paradossalmente la direttiva de qua

abbia dettato puntuali prescrizioni solo con riferimento alla regolazione di quegli

oggetti e materiali che sono già rifiuti e non abbia fissato misure ad hoc al fine di

promuovere quello che, stando ai suoi considerando ed alla giurisprudenza della

Corte di Giustizia, sembrerebbe essere il suo obiettivo prioritario, ossia la

prevenzione nella formazione dei rifiuti96

. Tuttavia, tale antinomia secondo taluno

potrebbe risolversi (ancora una volta) in via interpretativa, attingendo alla direttiva

stessa e ai principi che questa postula. In particolare quello di correzione alla fonte, il

quale dovrebbe informare la gerarchia dei rifiuti e, per l’effetto, implicare che le

politiche tese a prevenire la formazione dei rifiuti abbiano la priorità rispetto alle

politiche volte a disciplinarne lo smaltimento97

.

Il passo in avanti che la direttiva 2006/12/Ce non ha avuto il “coraggio” di fare98

è

stato, invece, compiuto dalla successiva direttiva rifiuti, la 2008/98/Ce99

, che mira

95

Così al considerando n. 6 della direttiva in commento. 96

E. SCOTFORD, Trash or treasure, cit.. Peraltro la “timidezza” con cui la direttiva 2006/12/Ce ha

fatto leva sul principio di prevenzione si è riverberata anche nelle legislazioni nazionali. Per ciò che

concerne l’Italia – e secondo quanto affermato nel capitolo che precede – ad esempio, la dottrina non

ha mancato di evidenziare come l’impianto del d. lgs. n. 152/2006 mirasse ancora a regolare “la

gestione del rifiuti, dando per scontato che esso fosse un prodotto necessario e non eliminabile della

società contemporanea (…)” (F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.). 97

E. SCOTFORD, Trash or treasure, cit..Sul punto si v. quanto stabilito dall’art. 3 della direttiva

2006/12/Ce, dove al p. 1 si legge che “gli Stati membri adottano le misure appropriate per

promuovere: a) in primo luogo, la prevenzione o la riduzione della produzione e della nocività dei

rifiuti, in particolare mediante: i) lo sviluppo di tecnologie pulite, che permettano un maggiore

risparmio di risorse naturali; ii) la messa a punto tecnica e l’immissione sul mercato di prodotti

concepiti in modo da non contribuire o da contribuire il meno possibile, per la loro fabbricazione, il

loro uso o il loro smaltimento, ad incrementare la quantità o la nocività dei rifiuti e i rischi di

inquinamento; iii) lo sviluppo di tecniche appropriate per l’eliminazione di sostanze pericolose

contenute nei rifiuti destinati ad essere recuperati. (…)”. 98

Come si è cercato di mettere in evidenza in queste pagine, la direttiva 2006/12/Ce dal punto di vista

contenutistico era essenzialmente incentrata sulla funzione di regolazione (cfr., in particolare, gli artt.

4 e 8, nonché gli artt. 9 – 14). Essa, infatti, dava vita ad uno schema regolatorio per la gestione dei

rifiuti congegnato in modo tale da minimizzare il suo impatto sull’ambiente e sulla salute umana.

Tuttavia, la stessa direttiva ha dato vita ad una tensione di cui pure si è cercato di dire. Mentre la

maggior parte delle sue disposizioni riguardavano la gestione di materiali classificati come rifiuti, essa

aveva tra i suoi obiettivi quello di prevenire la produzione dei rifiuti.

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espressis verbis ad aiutare l’Unione europea ad avvicinarsi ad una società del riciclo,

“cercando di evitare la produzione di rifiuti e di utilizzare [questi ultimi] come

risorse”100

.

Qui, innanzitutto, si rinviene finalmente una nuova definizione di rifiuto, priva del

controverso riferimento all’allegato I. All’art. 3, p. 1, n. 1 si legge, infatti, che

costituisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia

l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”101

. Ed, inoltre, accanto alla definizione di rifiuto

pericoloso102

, è stata inserita per la prima volta anche quella di rifiuto organico, nel

cui ambito rientrano i “rifiuti biodegradabili di giardini e parchi, rifiuti alimentari e

di cucina prodotti da nuclei domestici, ristoranti, servizi di ristorazione e punti

99

Nei considerando si legge, infatti, che “l’obiettivo principale di qualsiasi politica in materia di rifiuti

dovrebbe essere di ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei

rifiuti per la salute umana e l’ambiente. La politica in materia di rifiuti dovrebbe altresì puntare a

ridurre l’uso di risorse e promuovere l’applicazione pratica della gerarchia dei rifiuti (p.6). Pertanto, si

afferma che “è (…) necessario procedere a una revisione della direttiva 2006/12/Ce per precisare

alcuni concetti basilari come le definizioni di rifiuto, recupero e smaltimento, per rafforzare le misure

da adottare per la prevenzione dei rifiuti, per introdurre un approccio che tenga conto dell’intero ciclo

di vita dei prodotti e dei materiali, non soltanto della fase in cui diventano rifiuti, e per concentrare

l’attenzione sulla riduzione degli impatti ambientali connessi alla produzione e alla gestione dei rifiuti,

rafforzando in tal modo il valore economico di questi ultimi. Inoltre, si dovrebbe favorire il recupero

dei rifiuti e l’utilizzazione dei materiali di recupero per preservare le risorse naturali. Per esigenze di

chiarezza e leggibilità, la direttiva 2006/12/CE dovrebbe essere abrogata e sostituita da una nuova

direttiva”. 100

Così si legge al considerando n. 28 della direttiva 2008/98/Ce. Inoltre, al successivo p. 40 si legge

che “per migliorare le modalità di attuazione delle azioni di prevenzione dei rifiuti negli Stati membri

e per favorire la diffusione delle migliori prassi in questo settore, è necessario rafforzare le

disposizioni riguardanti la prevenzione dei rifiuti e introdurre l’obbligo, per gli Stati membri, di

elaborare programmi di prevenzione dei rifiuti incentrati sui principali impatti ambientali e basati sulla

considerazione dell’intero ciclo di vita dei prodotti e dei materiali. Tali misure dovrebbero perseguire

l’obiettivo di dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali connessi alla produzione di

rifiuti”. 101

Tale definizione si ritrova identica nell’art. 183, comma primo, lett. a) del Codice dell’ambiente

italiano come modificato dal d. lgs. n. 105/2010.

Sul punto, la dottrina (F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.) nota che

“in tale nozione sono presenti due elementi: uno di carattere oggettivo (qualsiasi sostanza o oggetto) e

uno di carattere soggettivo (di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi). Con

riferimento al primo elemento, si evidenzia che, per il diritto italiano, possono essere considerati rifiuti

solo beni mobili (…). In relazione al requisito soggettivo, si pensi che un qualsiasi oggetto è

suscettibile di divenire rifiuto: se getto nel cestino una bella mela, questa si trasforma in un rifiuto, pur

non avendone le caratteristiche oggettive, per il solo fatto che ho inteso disfarmene”. Al riguardo,

infatti, R. FEDERICI, A proposito di cose che non sono beni: sottosuolo e rifiuti, in Rass. dir. civ.,

2001, 2, 330 scrive: “il legislatore lascia però spazio al soggetto (…) di trattare come rifiuti cose che

altri, conservandole, potrebbero legittimamente considerare come beni”. 102

All’art. 3, p. 1, n. 3 il rifiuto pericoloso viene descritto come quel “rifiuto che presenta una o più

caratteristiche pericolose di cui all’allegato III”.

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vendita al dettaglio e rifiuti simili prodotti dagli impianti dell’industria

alimentare”103

.

In secondo luogo, la volontà di far sì che l’Europa si spogli delle vesti di “società del

consumo” trova concretamente riscontro nella gerarchia dei rifiuti, che pone al primo

posto la prevenzione e relega ad ultima ratio lo smaltimento104

. Il nuovo approccio,

in sostanza, “è rivolto fondamentalmente ad evitare e/o ridurre drasticamente la

formazione del rifiuto”105

, con ciò dando luogo a quello che parte della dottrina ha

definito come un vero e proprio “capovolgimento di prospettiva”106

.

L’abbandono dell’idea per cui tutto costituisce rifiuto, inoltre, è stata ulteriormente

confermata dal fatto che il legislatore europeo, sulla scia di quanto deciso negli anni

dalla Corte di Giustizia, agli artt. 5 e 6 della direttiva 2008/98/Ce ha codificato per la

prima volta gli istituti del sottoprodotto e della materia prima seconda (o end of

waste). D’altra parte, conformemente a quanto previsto dal Sesto Programma

europeo di azione ambientale107

, già nei considerando il legislatore - mosso dalla

volontà di eliminare qualsivoglia “confusione tra i vari aspetti della definizione di

rifiuto [anche al fine di poter applicare] procedure appropriate, se del caso, ai

sottoprodotti che non sono rifiuti, da un lato, e ai rifiuti che cessano di essere tali,

103

Così all’art. 3, p. 1, n. 4. 104

Cfr. l’art. 4 della direttiva in esame, dove si legge: “La seguente gerarchia dei rifiuti si applica

quale ordine di priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti:

a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il

recupero di energia; e e) smaltimento. (…)”. 105

F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.. Non a caso, infatti, il legislatore europeo all’art. 3

p. 12 della direttiva in esame ha rivolto agli Stati membri l’invito ad incentivare l’adozione di “misure

prese prima che una sostanza, un materiale o un prodotto sia diventato rifiuto”. Lo stesso, inoltre,

specifica come tali misure debbano essere rivolte a ridurre: “a) la quantità dei rifiuti, anche attraverso

il riutilizzo dei prodotti o l’estensione del loro ciclo di vita; b) gli impatti negativi dei rifiuti prodotti

sull’ambiente e la salute umana; oppure c) il contenuto di sostanze pericolose in materiali e prodotti”. 106

Così F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit. il quale evidenzia come in questo modo il

legislatore europeo mostri di voler portare a compimento “un percorso iniziato quasi quarant’anni fa

che è passato attraverso varie tappe: in un primo momento l’attenzione del legislatore si concentrava

fondamentalmente sullo smaltimento del rifiuto [cfr. art. 1 direttiva 75/442/Cee], successivamente la

prevenzione, anche se in modo assai timido iniziava a farsi strada nelle direttive, in alcune risoluzioni

del Consiglio (…); infine la prevenzione sembra aver conquistato il ruolo di principio primario sulla

scena dei modelli di azione a livello comunitario”. 107

In proposito cfr. F. FONDERICO, Il IV Programma di azione UE per l’ambiente, cit..

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dall’altro”108

– ha sottolineato l’opportunità di addivenire ad una definizione di detti

istituti. Pertanto, oggi può dirsi che l’insieme dei rifiuti risulta “limitato e intaccato

da [questi due] contigui sottoinsiemi” e che “nel continuo scontro tra i partiti del

tutto rifiuto e del niente rifiuto si è pervenuti ad una posizione mediana”109

.

II. 4 SOTTOPRODOTTO ED END OF WASTE

Come più volte sottolineato, quello della definizione di rifiuto è stato da sempre il

problema dell’individuazione dell’esatta latitudine di tale nozione110

. Si è avuto

modo di osservare, infatti, come già nel risalente caso Vessoso e Zanetti111

alla Corte

di Giustizia venne chiesto di chiarire il discrimen tra rifiuti e prodotti secondari

(rectius, sottoprodotti)112

.

In effetti, nell’ambito di un processo produttivo sovente vengono involontariamente

ad esistenza prodotti secondari che possono - ma non necessariamente devono -

essere riutilizzati nello stesso o in altro ciclo di produzione. Tra gli “innumerevoli”113

esempi, si pensi al siero di latte o al truciolato derivato dal legno, piuttosto che al

coke da petrolio. Come anticipato, con riferimento ad essi “il problema principale era

dato dal fatto che agli operatori economici era invisa l’idea che tali sottoprodotti

dovessero rientrare nella nozione di rifiuto e che nella gestione degli stessi fosse

108

Così si legge al considerando n. 18 della direttiva in commento. 109

In tal senso F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 110

Così, tra gli altri, N. DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit., dove si legge:

“al fine di evitare le forche caudine della disciplina dei rifiuti (…) alcuni operatori economici non

hanno esitato a qualificare i loro residui di produzione come prodotti o come sottoprodotti”. 111

CGCE, Vessoso e Zanetti, cit.. 112

In tale circostanza, infatti, il giudice a quo ha chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire anche se

l’art. 1 della direttiva 75/442/Ce e l’art. 1 della direttiva 78/319/Ce (sui rifiuti tossici) “vadano intesi

nel senso che nella nozione giuridica di rifiuto debbano essere comprese anche le cose, di cui il

detentore si sia disfatto, suscettibili però di riutilizzazione economica (…)”. 113

F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit..

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necessario ottemperare agli obblighi previsti dalle disposizioni contenute nella

direttiva”114

rifiuti.

Orbene, inizialmente, la Corte di Giustizia - sul presupposto che il detentore tende di

prassi a disfarsi di detti prodotti secondari - ha strenuamente sostenuto che essi

dovessero essere soggetti alla disciplina giuridica dettata per i rifiuti. Così, la stessa

per anni si è mostrata salda nel ritenere che “la nozione di rifiuto (…) non deve

intendersi nel senso che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione

economica”115

e che, pertanto, “una normativa nazionale la quale adotti una

definizione della nozione di rifiuto escludente [tali] sostanze o oggetti non è

compatibile” con la normativa europea116

. Ciò in quanto “lo scopo essenziale delle

direttive 75/442 e 78/319 (…) vale a dire la protezione della salute umana e

dell’ambiente, sarebbe compromesso qualora l’applicazione delle due direttive

dipendesse dall’intenzione del detentore di escludere o no una riutilizzazione

economica, da parte di altre persone, delle sostanze o degli oggetti di cui egli si

disfa”117

.

114

Così L. KRAMER, EU Environmental Law, cit.. Del pari, N. DE SADELEER, New perspectives on the

definition of waste, cit.. 115

CGCE, Vessoso e Zanetti, cit., p. 9. 116

CGCE, Commissione europea c. Germania, cit., p. 22. Inoltre, ai pp. 23 e 25 della medesima

sentenza, la Corte prosegue affermando che “questa conclusione non è rimessa in discussione né dalle

modifiche apportate alla prima [75/442] di tali due direttive dalla direttiva 91/156 (…) né dalla

abrogazione della seconda [78/319], operata anch’essa dalla direttiva 91/689 (…). Si deve pertanto

constatare che, escludendo talune categorie di rifiuti riciclabili dall’ambito di applicazione della sua

normativa relativa allo smaltimento dei rifiuti, la Repubblica federale di Germania è venuta meno agli

obblighi che ad essa incombono in forza delle direttive 75/442 e 78/319”. 117

CGCE, Vessoso e Zanetti, cit., p. 12. Ex multis, simile linea di pensiero è stata confermata, ad

esempio, in CGCE, Euro Tombesi, cit. dove al p. 54 si legge che “la nozione di rifiuti (…) non deve

essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di riutilizzazione economica,

neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire oggetto di un negozio giuridico (…)”. Ancora,

in CGCE, Inter-Environment Wallonie, cit., pp. 28 e 34, si afferma che “l’elenco delle categorie di

rifiuti di cui all’allegato I (…) e le operazioni di smaltimento e di recupero enumerate agli allegati II A

e II B (…) indicano che la nozione di rifiuto non esclude in via di principio alcun tipo di residui, di

prodotti di scarto e di altri materiali derivanti da processi industriali. (…) [Dunque] il mero fatto che

una sostanza sia inserita, direttamente o indirettamente, in un processo di produzione industriale non

la esclude dalla nozione di rifiuto (…)”.

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Tuttavia - come si è avuto modo di anticipare – sin dal caso ARCO la Corte di

Giustizia è sembrata stemperare il rigore del proprio orientamento118

e a partire dalla

sentenza resa in occasione del successivo caso Palin Granit la stessa ha preso “ad

operare la distinzione tra i residui di produzione (…) e i sottoprodotti”119

. Mentre i

primi devono essere considerati veri e propri rifiuti, poiché consistono in oggetti o

sostanze che “non sono ricercate in quanto tali al fine di un possibile utilizzo

ulteriore”120

; i secondi sono dei prodotti e come tali sfuggono alla disciplina giuridica

dettata per i rifiuti. Infatti – ha ritenuto la Corte - i sottoprodotti, pur non costituendo

il fine primario di un ciclo produttivo, sono oggetti o sostanze che l’impresa “intende

sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo

successivo, senza operare trasformazioni preliminari”121

.

Di qui i giudici di Lussemburgo hanno proseguito puntualizzando le condizioni che

devono ricorrere perché si possa parlare di sottoprodotti. In particolare, per un certo

periodo di tempo e in una serie piuttosto nutrita di pronunce122

, la Corte ha

118

CGCE, ARCO, cit.. In un passo della pronuncia, infatti, si legge che “l’effettiva esistenza di un

rifiuto ai sensi della direttiva va accertata alla luce del complesso di circostanze, tenendo conto della

finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia” (p. 88). 119

F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit., ma anche – in senso critico - N.

DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit.. Del pari, nella successiva sentenza

Avesta Polarit Chrome, la Corte - dopo aver affermato che “detriti e sabbia di scarto che risultano da

operazioni di arricchimento del minerale (…) costituiscono residui provenienti dall’estrazione e dalla

preparazione delle materie prime di cui al punto Q11 dell’allegato I della direttiva 75/442” – ha

sostenuto che “rimane da esaminare se residui del genere debbano essere qualificati come rifiuti [o

come sottoprodotti]. (…) A questo riguardo, occorre distinguere, da una parte, i residui che sono

utilizzati senza trasformazione preliminare nel processo di produzione per assicurare un necessario

riempimento delle gallerie e, dall’altra, gli altri residui”. Si apprezza così che, mentre “i primi sono

utilizzati come materia nel processo industriale minerario propriamente detto e non possono essere

considerati come sostanze di cui il detentore si disfi o abbia intenzione di disfarsi” (p. 37), “per quanto

riguarda i residui la cui utilizzazione non è necessarie nel processo di produzione per riempire le

gallerie, essi devono, in ogni caso, essere considerati nel loro complesso come rifiuti” (p. 40). 120

F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 121

CGCE, Palin Granit, cit. p. 34. Al successivo p. 35, inoltre, si legge che “la differenza tra prodotti

e rifiuti sta nell’assenza di operazioni di trasformazione preliminare e nella certezza del riutilizzo

senza recare pregiudizio all’ambiente”. Per l’effetto, “non vi è alcuna giustificazione per assoggettare

alle disposizioni [della direttiva rifiuti], che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero

dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti,

indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa

applicabile a tali prodotti”. 122

Inter alia, cfr. CGCE, Avesta Polarit Chrome, cit.; CGCE, Niselli, cit.; CGCE, Saetti e Frediani,

cit.; CGCE, Commissione c. Italia, cit..

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costantemente ribadito che costituisce condicio sine qua non per l’esistenza di un

sottoprodotto a) la certezza del riutilizzo b) nel medesimo processo produttivo c) in

assenza di qualsiasi tipo di trasformazione preliminare123

. In Commissione europea

c. Italia, ad esempio, si legge che la possibilità di considerare una sostanza o un

oggetto come sottoprodotto “deve essere limitata alle situazioni in cui il riutilizzo di

un bene, di un materiale o di una materia prima (…) non è semplicemente eventuale

bensì certo, non richiede una trasformazione preliminare e interviene nel corso del

processo di produzione o di utilizzazione”124

.

Peraltro, se in un primo tempo - secondo la Corte di Giustizia - il riutilizzo doveva

avvenire esclusivamente nell’ambito del medesimo processo produttivo che aveva

generato il prodotto de quo, successivamente la nozione di sottoprodotto è stata

interpretata in maniera più estensiva, così da ricomprendere l’ipotesi in cui un

oggetto o materiale venga utilizzato (dall’impresa che lo ha prodotto ma) in un ciclo

di produzione diverso e persino il caso in cui lo stesso sia utilizzato da soggetti

terzi125

. In tal senso appare emblematica la pronuncia resa in relazione alla nota

vicenda della petroliera Erika126

. Qui, infatti, i giudici di Lussemburgo hanno

123

In tal senso cfr. CGCE, Avesta Polarit Chrome, cit. In dottrina, per un’analisi puntuale di tali

condizioni cfr. N. DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit.,il quale sottolinea

come secondo la Corte di Giustizia dette condizioni debbano essere “interpretate restrittivamente”. 124

Così si legge al p. 46 di CGCE, Commissione europea v. Italia, cit.. 125

Sul punto cfr. N. DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit., il quale scrive che

non è necessario che sia “il produttore stesso ad ri-usare la sostanza o il prodotto”. Essendo piuttosto

sufficiente che tale ri-uso avvenga effettivamente nell’ambito di un processo di produzione, in disparte

lo specifico operatore economico che riutilizza il sottoprodotto. 126

CGCE, Grande sezione, 24 giugno 2008, Comune di Mesquer c. Total France SA e Total

International Ltd, C- 188/07, per un commento alla quale cfr. G. LANDI, Il caso Erika arriva alla

Corte di Giustizia, ovvero un caso di interpretazione estensiva della nozione di rifiuto servito su un

piatto d’argento, in Riv. giur. amb., 2008, 4, 985. Più nel dettaglio, nel dicembre del 1999 “la

petroliera Erika, noleggiata dalla Total International Ltd per trasportare olio pesante (…) affondava al

largo della costa atlantica francese sversando parte del suo carico in mare”. Il Comune di Mesquer ha

proposto ricorso dinanzi al Tribunale competente chiedendo che le società riparassero i danni

all’ambiente provocati dai rifiuti sversati. Il giudizio è giunto sino in Cassazione, dove il giudice ha

ritenuto di compiere un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. “La prima domanda posta da

giudice francese – ricorda l’A. - riguarda l’elemento oggettivo della direttiva rifiuti, se cioè l’olio

pesante possa o meno essere classificato come rifiuto. La Corte risponde affermando che una sostanza

come l’olio pesante che viene venduto come combustibile, non può di per sé costituire un rifiuto (…)

nei limiti in cui è sfruttata o commercializzata a condizioni economicamente vantaggiose e può essere

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ritenuto che l’olio pesante accidentalmente sversato in mare in seguito ad un

naufragio – e, dunque, miscelato ad acqua, sabbia, sedimenti - costituisca un rifiuto e

non un sottoprodotto, (semplicemente) poiché lo stesso “non può più essere sfruttato

o commercializzato senza preliminari operazioni di trasformazione”.

L’insieme di queste pronunce, inoltre, ha indubbiamente orientato il legislatore

europeo, che seguendo la via tracciata dalla Corte di Giustizia è giunto ad elaborare

la definizione di sottoprodotto contenuta nell’art. 5 della direttiva 98/2008/Ce127

e

poi recepita dagli Stati membri128

. Questa in effetti - benché a tutt’oggi non manchi

effettivamente utilizzata come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di

trasformazione”. Diversamente, richiamando un proprio precedente (CGCE 7 settembre 2004, Van de

Walle e a., C-1/03), la Corte osserva che “idrocarburi accidentalmente sversati in mare costituiscono

sostanze che il loro detentore non aveva l’intenzione di produrre e delle quali egli si disfa, ancorché

involontariamente, in occasione del loro trasporto. L’olio pesante nel caso di specie deve pertanto

essere qualificato come rifiuto ai sensi della direttiva rifiuti”. 127

Sul punto, cfr. inter alia, P. GIAMPIETRO, Quando un residuo produttivo va qualificato

sottoprodotto (e non rifiuto) secondo l’art. 5 della direttiva 2008/98/Ce, in www.ambientediritto.it,

2008; ID., Rifiuti, prodotti, MPS nella nuova direttiva Ce, in www.ambientediritto.it, 2008; H. A.

NASCH, Thereviseted directive on waste: resolving the legislative tensions on waste managment?, cit..

128 Benché in questo caso il legislatore italiano avesse anticipato quello europeo, disciplinando i

sottoprodotti all’art. 183, primo comma, lett. n) del Codice ambiente, lo stesso è poi dovuto

intervenire nuovamente al fine di recepire la definizione contenuta nell’art. 5 direttiva 98/2008/Ce. E’

così che nel 2010 è stato introdotto l’art. 184 bis nel corpo de d. lgs. n. 152/2006, dove si legge che

costituisce sottoprodotto “qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) la

sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il

cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o

l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di

utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato

direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d)

l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i

requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a

impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana” (p.1). In proposito, cfr. F. DE

LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit., il quale scrive: “la nuova definizione di

sottoprodotto appare particolarmente importante dal momento che sono stati chiariti due punti

fondamentali: a) il sottoprodotto non deve necessariamente essere utilizzato nel corso dello stesso

processo di produzione ma può essere utilizzato anche in un processo di produzione successivo; b) il

sottoprodotto non deve necessariamente essere utilizzato dallo stesso produttore ma può essere

utilizzato anche da terzi”. Al contempo, tuttavia, la stessa ha dato adito anche ad alcune perplessità,

specie per quanto concerne il senso dell’espressione “ulteriore trattamento diverso dalla normale

pratica industriale” di cui alla lettera c), sub. In mancanza di indicazioni puntuali da parte del

legislatore, la dottrina (G. GAVAGNIN, La normale pratica industriale nell’interpretazione della

Cassazione: chiarezza non ancora fatta, in Riv. giur. amb., 2012, 5, 745) ricorda come si siano

formati due orientamenti. Uno, restrittivo, secondo cui “l’espressione utilizzato direttamente

signific[a] utilizzato tal quale e, conseguentemente (…) il trattamento consentito [deve] essere meno

ampio di un recupero che per sua natura può riguardare soltanto un rifiuto” (in tal senso cfr. G.

AMENDOLA, Il quarto decreto correttivo della normativa sui rifiuti, primi appunti: in particolare

sull’ambito di applicazione, in www.industrieambiente.it, 2010; V. PAONE, I sottoprodotti e la

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di sollevare talune perplessità129

- ha una valenza prettamente ricognitiva degli esiti

raggiunti dalla giurisprudenza. Vi si legge, infatti, che “una sostanza od oggetto

derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è la [sua]

produzione (…) può non essere considerato rifiuto ai sensi dell’articolo 3, punto 1

[della direttiva medesima], bensì sottoprodotto soltanto se sono soddisfatte” le

condizioni sopra descritte, ossia quelle elaborate negli anni dalla Corte di

Giustizia130

.

Un discorso analogo può farsi con riguardo all’istituto dell’ end of waste, o materia

prima seconda, che consiste in un oggetto o materiale il quale, dopo essere stato

normale pratica industriale: una questione spinosa, in Amb. sviluppo, 2011). L’altro, invece, incline a

“sostenere la necessità di non circoscrivere eccessivamente la portata dell’espressione normale pratica

industriale e, al tempo stesso, di non abbracciare qualsiasi operazione comunemente inserita in un

ciclo produttivo (in tal senso cfr. L. PRATI, I sottoprodotti dopo il recepimento della direttiva

2008/98/Ce, in Riv. giur. amb., 2011, 549, ma anche di recente - a commento di C. Cass. pen. 10

maggio 2012 n. 17435 - A. MURATORI, Sottoprodotti: la Suprema Corte in difesa del sistema

Tolemaico?, in Amb. sviluppo, 2012, 7, 605).

129 Per completezza, occorre infatti precisare come in ordine al proprium delle descritte condizioni

non manchino tutt’ora talune perplessità. Ad esempio, con riguardo alla dibattuta questione della

“certezza del riutilizzo” cfr. di recente E. POMINI, Il punto sui sottoprodotti: la certezza del riutilizzo,

in Riv. giur. amb., 2012, 5, 753. L’A., commentando la sentenza TAR Puglia, Lecce, II, 25 maggio

2012 n. 932, si sofferma ad esaminare un passaggio del dispositivo in cui i giudici amministrativi

affermano la necessità che il riutilizzo sia “preventivamente programmato dal produttore nell’ambito

di un processo produttivo”. In proposito, posto che né il legislatore nazionale né quello comunitario

offrono spunti utili a chiarire cosa debba intendersi per certezza del riutilizzo, l’A. suggerisce di

muovere “da quanto precisato dalla Commissione UE nella propria comunicazione del 21 febbraio

2007 (COM2007 59)”, senza peraltro dimenticare di tenere in debita considerazione la direttiva

98/2008/Ce. Questa, in particolare, “non contempl[a] espressamente il requisito dell’integralità del

riutilizzo dei residui”. Pertanto, “non appare strettamente aderente al nuovo dettato normativo quanto

statuito dal TAR Puglia (…) laddove annovera tra gli elementi la cui assenza determina la qualifica

come rifiuti dei materiali in questione anche il mancato riutilizzo integrale”. Viceversa, secondo l’A.,

“la soluzione da preferire sembra essere quella di non richiedere la necessaria integralità del riutilizzo

dei residui di produzione, sempre a condizione che sia dimostrata una gestione degli stessi del tutto

simile a quella degli altri prodotti, che dovrebbe comprendere anche la possibilità, in caso di mancata

vendita, di poter smaltire i sottoprodotti non riutilizzati come rifiuti”. 130

Il p. 1 dell’art. 5 direttiva 98/2008/Ce prosegue elencando dette condizioni: “a) è certo che la

sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzata/ o; b) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzata/o

direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; c) la

sostanza o l’oggetto è prodotta/o come parte integrante di un processo di produzione e d) l’ulteriore

utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti

pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti

complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.

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sottoposto a talune operazioni di recupero, smette di esser qualificabile come

rifiuto131

.

Infatti, anche in ordine alla enucleazione del proprium di tale istituto, molta parte

l’ha avuta la Corte di Giustizia che con la propria giurisprudenza è andata via via

definendo le condizioni al ricorrere delle quali un rifiuto cessa di essere tale132

. Tra

queste, innanzitutto, la necessità che un oggetto sia sottoposto ad un’operazione di

recupero, compresi il riciclo e la preparazione per il riutilizzo. Ma anche il fatto che,

in relazione ad esso, sussista un mercato o una domanda e, soprattutto, che l’utilizzo

di tale (nuovo) oggetto non comporti danni all’ambiente né alla salute umana.

Non a caso, dunque, nella pronuncia resa in relazione al caso ARCO - vera pietra

miliare nella “storia” dell’end of waste – la Corte ha affermato che “un oggetto può

continuare ad essere considerato rifiuto [escludendo, quindi, la possibilità di rientrare

nel regime derogatorio previsto per le materie prime seconde] se dall’operazione di

recupero esso non risulta come analogo ad una materia prima, con le stesse

caratteristiche e la capacità di essere usato alle stesse condizioni di protezione

ambientale”133

.

131

Sul punto cfr., inter alia, D. POCKLINGTON, The Changing importance of “recovery” and

“recycling” processes in EU waste management law, in [2000] EELR, 272; ID., Opening Pandora’s

Box – the EU review of the definition of “waste”, in [2003] EELR, 204. 132

Al riguardo, cfr. N DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit.. 133

Così al p. 96 della sentenza CGCE, ARCO, cit.. Sul punto, cfr. I. CHEYNE, The definition, cit.,

secondo cui ciò starebbe a significare che “il rischio di danni all’ambiente [appare] alla Corte essere

elemento rilevante al fine di decidere se una sostanza (già classificata come rifiuto) [sia] o meno

ancora tale dopo essere stata sottoposta ad operazioni di recupero”. In senso critico, tuttavia, cfr. K.

GETLIFFE, European waste law, cit., la quale osserva che, così statuendo, la Corte sembra applicare

in modo eccessivamente estensivo il principio di precauzione.

Ex multis, cfr. un caso che ha interessato la giurisprudenza inglese, Castle Cement c. Environment

Agency [2001] 2 EWHC Admin 224 (per un commento cfr. H. KEELE, When does waste cease to be

waste, in [2001] ELR 3). Qui la vicenda involgeva dei rifiuti “lavorati” per fare combustibile da

utilizzare nell’industria del cemento. Mentre il ricorrente sosteneva che il combustibile non fosse un

rifiuto ai sensi della direttiva, poiché esso costituiva l’equivalente di una materia prima;

l’Environment Agency, di contro, affermava che la combustione di combustibile rappresentava parte

di un processo di recupero. Orbene, il giudice interno chiamato a dirimere la questione ritenne che il

combustibile costituisse un rifiuto e ciò sulla base di due argomenti tratti proprio dalla sentenza

ARCO. Innanzitutto, si disse, l’atto della combustione doveva essere visto come un chiaro atto di

“discarding” ed, inoltre, solo opinando in tal senso poteva essere garantita l’effettività della direttiva.

In particolare, a tale ultimo proposito l’organo giudicante affermò come la produzione di Cemful fosse

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Al pari di quanto è accaduto per l’istituto del sottoprodotto, anche l’orientamento

della giurisprudenza di Lussemburgo in materia di end of waste è stato accolto dal

legislatore europeo, il quale ha “cristallizzato” detti criteri nell’ultima direttiva rifiuti

(e, successivamente, gli stessi hanno fatto breccia negli ordinamenti nazionali134

).

Qui, infatti, all’art. 6, p. 1, si legge che “taluni rifiuti specifici cessano di essere tali

ai sensi dell’articolo 3, punto 1 [della direttiva medesima], quando siano sottoposti a

un’operazione di recupero, incluso il riciclo, e soddisfino criteri specifici da

elaborare conformemente” ad una serie di condizioni. Vale a dire: “a) la sostanza o

l’oggetto è comunemente utilizzata/o per scopi specifici; b) esiste un mercato o una

domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti

tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti

applicabili ai prodotti; e d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a

impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”135

.

“potenzialmente dannosa per l’ambiente”, il che di per sè poteva ritenersi motivo sufficiente a

ricondurre tale pratica nel novero di quelle attività nei cui confronti doveva trovare applicazione la

direttiva, “a meno di non voler minare proprio l’effettività di quest’ultima”.

134 Per ciò che concerne l’Italia, il riferimento è all’art. 184 ter del d.lgs. n. 152/2006 come modificato

nel 2010. Tale articolo, sotto la rubrica “cessazione della qualifica di rifiuto”, al p. 1 dispone infatti

che: “Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il

riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle

seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici; b) esiste

un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti

tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; d)

l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla

salute umana”. Per ciò che concerne, invece, la Gran Bretagna le “Waste (England and Wales)

Regulations 2011”, Parte I. Reg.3, compiono un rinvio direttamente alla direttiva e alle definizioni ivi

contenute.

135 L’art. 6 della direttiva 98/2008/Ce prosegue affermando che “I criteri includono, se necessario,

valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente

della sostanza o dell’oggetto.

Le misure intese a modificare elementi non essenziali della presente direttiva, completandola, che

riguardano l’adozione dei criteri di cui al paragrafo 1 e specificano il tipo di rifiuti ai quali si

applicano tali criteri, sono adottate secondo la procedura di regolamentazione con controllo di cui

all’articolo 39, paragrafo 2. Criteri volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale dovrebbero

essere considerati, tra gli altri, almeno per gli aggregati, i rifiuti di carta e di vetro, i metalli, i

pneumatici e i rifiuti tessili.

I rifiuti che cessano di essere tali conformemente ai paragrafi 1 e 2 cessano di essere tali anche ai fini

degli obiettivi di recupero e riciclaggio stabiliti nelle direttive 94/62/CE, 2000/53/CE, 2002/96/CE e

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Una lettura d’insieme di tali condizioni consente, tra le altre cose, anche di

apprezzare la differenza – invero non sempre agevole136

– tra l’istituto de quo e

quello del sottoprodotto. Come osservato dalla dottrina, infatti, mentre quest’ultimo

“non è mai diventat[o] rifiuto”137

e il suo riutilizzo oltre a dover essere certo non

presuppone operazioni di trasformazione, l’end of waste era un rifiuto ma, “a seguito

di trattamenti vari, [ritorna] ad essere un prodott[o] utilizzabil[e] e con un valore

economico sul mercato”138

.

In questi stessi termini, del resto, si è sempre espressa anche la giurisprudenza, sia

quella della Corte di Giustizia139

sia – di riflesso – quella nazionale. A tale ultimo

riguardo, si veda - ad esempio - quanto deciso recentemente dal Tribunale di Brescia.

Nel 2009 quest’ultimo è stato chiamato a pronunciarsi in merito alla qualifica di

alcuni rottami ferrosi acquistati da presunti commercianti e, quindi, ceduti a terzi per

2006/66/CE e nell’altra normativa comunitaria pertinente quando sono soddisfatti i requisiti in materia

di riciclaggio o recupero di tale legislazione.

Se non sono stati stabiliti criteri a livello comunitario in conformità della procedura di cui ai paragrafi

1 e 2, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di

essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile. Essi notificano tali decisioni alla

Commissione in conformità della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22

giugno 1998 che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle

regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, ove

quest’ultima lo imponga”. 136

Cfr., ad esempio, i considerando nn. 8 ed 11 della direttiva 98/2008/Ce .

Inoltre, in dottrina cfr. H. KEELE, When does cease to be waste?, cit.; F. VANETTI, Rifiuti metallici o

materie prime seconde?, in Riv. giur. amb., 2010, 5, 816. Ma anche F. FONDERICO, Sesto programma

di azione UE per l’ambiente e “strategie tematiche”, in Riv. giur. amb., 2007, 5, 696, che scrive:

“l'orientamento, nel solco tracciato dal Sesto Programma, sarebbe quello di fornire un quadro

regolatorio stabile, anche al fine di garantire al mondo imprenditoriale sufficienti certezze giuridiche

sui tempi di ammortamento degli investimenti necessari e non incidere negativamente sulla

competitività dell'economia europea.

Le proposte vanno da una razionalizzazione dell'esistente quadro legislativo, con l'introduzione di

aggiustamenti di tipo incrementale, fino all'istituzione di nuovi assetti.

Quali esempi del primo genere, si possono citare la strategia in materia di rifiuti e quella in materia di

inquinamento atmosferico. Nel caso dei rifiuti, in particolare, i principali interventi riguarderanno un

miglioramento e una chiarificazione delle definizioni normative rilevanti [quale, ad esempio quella di

end of waste], in modo da garantire una maggiore certezza del diritto”. 137

F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 138

F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 139

Si veda, ad esempio, CGCE Niselli, cit., per un commento alla quale cfr. A. L. DE CESARIS,

Nozione di rifiuto: l’Italia perde il pelo ma non il vizio, in Riv. giur. amb., 2005, 2, 275 e A.

NATALINI, Rifiuti, la Corte europea boccia l’Italia, in Dir. giust., 2004, 50.

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il loro recupero o riutilizzo, senza tuttavia che tali commercianti fossero muniti delle

necessarie autorizzazioni per la gestione di simili rifiuti140

.

Orbene, dopo aver richiamato un illustre precedente della Corte di Giustizia141

, i

giudici del Tribunale hanno osservato che "i rottami ferrosi effettivamente

potrebbero perdere la qualificazione di rifiuto, per assumere quella di "materie

prime secondarie" in presenza di determinate circostanze la cui dimostrata

sussistenza conduce all'applicazione di quello che, a tutti gli effetti, può essere

definito un regime derogatorio (…)”142

.

Di qui, dunque, i giudici hanno colto l’occasione per chiarire nuovamente il confine

tra end of waste e sottoprodotto. Nello specifico, si ribadisce che, mentre le materie

prime seconde si risolvono in materiali derivanti da un'operazione di riutilizzo,

riciclo o recupero di rifiuti, “ossia sono il prodotto commerciabile di un rifiuto

trattato” ; i sottoprodotti, invece, non sono mai stati rifiuti e si risolvono in materiali

immediatamente riutilizzabili, vale a dire senza bisogno di alcun preventivo

trattamento143

.

Tutto ciò premesso, il Tribunale conclude escludendo che nel caso de quo il rottame

possa essere liberamente commercializzato come materia prima secondaria, giacché

lo stesso non è stato sottoposto ad un trattamento di tipo preventivo. In caso contrario

- vale a dire qualora fosse possibile un immediato uso dello stesso senza alcun

trattamento preliminare - esso potrebbe essere qualificato come sottoprodotto.

140

Tribunale Brescia 22 dicembre 2009 n. 1198, per un commento alla quale cfr. F. VANETTI, Rifiuti

metallici o materie prime seconde?, cit.. 141

Il riferimento è precisamente al sopra citato caso ARCO. 142

In particolare – si legge nella nota di F. VANETTI, Rifiuti metallici o materie prime seconde?, cit.. –

“colui che commercia il rottame, per poterlo qualificare materia prima secondaria, dovrebbe provare

(i) la sua provenienza, (ii) le sue caratteristiche specifiche o gli eventuali trattamenti subiti e, quindi,

(iii) la rispondenza a determinate specifiche per il suo riutilizzo” 143

Così del resto si legge in F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit., ma

anche in E. POMINI, Rifiuti, residui di produzione e sottoprodotti alla luce delle linee guida della

Commissione CE, della (proposta di) nuova direttiva sui rifiuti e della riforma del decreto legislativo

152/2006: si attenua il divario tra Italia ed Unione Europea?, in Riv. giur. amb., 2008, 2, 355.

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II. 5 L’ “EUROPEIZZAZIONE” DELLA NOZIONE DI RIFIUTO

La disamina sin qui condotta consente di apprezzare la parabola vissuta dalla nozione

di rifiuto dagli anni Settanta del secolo scorso sino ai giorni nostri. L’intento, d’altra

parte, era quello di fornire una visione di insieme dei mutamenti occorsi nella

materia de qua dal punto di vista definitorio a partire da quando le istituzioni europee

hanno preso ad interessarsi dei rifiuti, con ciò finendo per influenzare

pervasivamente anche le legislazioni nazionali144

.

Innanzitutto, si è visto come i rifiuti siano “tipici” dell’età moderna145

e come fino a

non molto tempo fa essi fossero considerati una sorta di prodotto ineliminabile

dell’odierna società146

. Per tale ragione, ab origine l’attenzione delle istituzioni

europee – e, di riflesso, quella degli Stati membri147

- si è concentrata essenzialmente

in ordine alla loro gestione148

. Di conseguenza, al risalto dato ai profili regolatori

della materia de qua, in un primo tempo si è accompagnata una interpretazione molto

lata del concetto di rifiuto. Ciò al fine dichiarato – si legge nella giurisprudenza della

Corte di Giustizia - di proteggere l’ambiente e la salute umana149

.

Simile indirizzo, tuttavia, ha immediatamente incontrato lo sfavore degli operatori

economici che, “nell’intento di sfuggire alle Forche Caudine della disciplina dei

144

Non a caso parte della dottrina (C. VERDURE, The europeanization of the definition of waste, paper

presentato al convegno “Globalization and europeanization of environmental law and policy”,

Copenhagen, 22 – 23 marzo 2010) ha parlato di “europeizzazione” della definizione di rifiuto. In

senso analogo, benché con riguardo all’ambiente in generale cfr. F. DE LEONARDIS, La disciplina

dell’ambiente, cit.. 145

In tal senso L. PINNA, Autoritratto dell’immondizia, cit. ed E. SORI, La città e i rifiuti, cit., ma

anche R. FEDERICI, Rifiuti, cit.. 146

Così F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. Nonché D. POCKLINGTON,

The utility of the concept of waste, cit., il quale scrive: “la produzione di rifiuti è una conseguenza

inevitabile di pressoché tutte le operazioni e le attività essenziali per il funzionamento dell’odierna

società”. 147

Si ribadisce che il diritto europeo ha pervasivamente influenzato i diritti nazionali (anche) nella

materia de qua. Non a caso, già nel 1994 parte della dottrina (J. FLUCK, The term “waste” in EU law,

cit.) scriveva: “il diritto europeo sta enormemente influenzando il diritto degli Stati membri. E ciò vale

anche per il diritto ambientale (…)”. 148

In tal senso F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.; J. FLUCK, The

term “waste”, cit.. 149

Cfr., ad esempio, CGCE Vessoso e Zanetti, cit., in particolare il p. 12.

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rifiuti, (…) non hanno esitato a qualificare i loro residui [di produzione] come

prodotti o come sottoprodotti”150

. Anche in ragione di ciò151

, dunque, la Corte di

Giustizia è stata ripetutamente esortata a chiarire la “latitudine” del concetto di

rifiuto152

. Per tale via, a partire dal caso ARCO153

la stessa ha finito con il mitigare la

rigidità del proprio pregresso orientamento e, poco alla volta, ha precisato i contorni

di altri due istituti, il sottoprodotto e l’end of waste154

.

Al contempo - preso atto del fatto che “i risultati raggiunti dalla politica ambientale

comunitaria erano stati nel complesso modesti, evidenziando un lento ma inesorabile

deterioramento dello stato generale dell'ambiente della Comunità"155

, e che ancora

agli albori del nuovo millennio “i progressi nel cambiare le tendenze economiche e

sociali nocive per l'ambiente sono stati scarsi”156

- l’approccio regolatorio, volto

prioritariamente alla gestione dei rifiuti ha dovuto cedere il passo ad un approccio di

tipo preventivo, volto cioè ad evitare (o, per lo meno, a limitare) la produzione stessa

dei rifiuti157

.

Come si è avuto modo di rilevare, di ciò vi è traccia sia nella direttiva 12/2006/Ce

sia, soprattutto, nella direttiva 98/2008/Ce158

. Questa, in particolare, si prefigge

l’obiettivo di fare dell’Europa una società a “rifiuti zero” e, a tal fine, pone al vertice

150

In questi termini, N. DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit.. 151

Si è visto in fatti che quello del confine tra rifiuto e sottoprodotto, pur trattandosi di una delle

questioni più controverse, non è stata la sola. Sul punto cfr. amplius quanto riportato nelle pagine che

precedono. 152

Si vedano le pronunce variamente richiamate nel testo, a partire da CGCE, Vessoso e Zanetti, cit.. 153

CGCE, ARCO, cit.. 154

Quanto al primo, cfr., inter alia, CGCE, Avesta Polarit, cit.; CGCE, Saetti e Frediani, cit.; CGCE,

Commissione europea v. Regno di Spagna, cit.. Per ciò che concerne, invece, la materia prima

seconda o end of waste cfr. CGCE, ARCO, cit., nonché CGCE, Niselli, cit.. 155

Così F. FONDERICO, Sesto Programma di azione UE per l’ambiente e “strategie climatiche”, cit.,

parlando a proposito del V Programma . 156

Così F. FONDERICO, Sesto Programma di azione UE per l’ambiente e “strategie climatiche”, cit.. 157

Sul punto cfr. amplius F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit; ID,

Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, cit.. 158

In proposito, cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e novità normative in materia di

rifiuti, cit.; E. SCOTFORD, Trasch or treasure, cit.; nonché ID., The new waste directive, cit..

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della gerarchia dei rifiuti proprio il principio di prevenzione o azione preventiva159

.

Inoltre, conformemente a tale logica, la stessa disciplina per la prima volta gli istituti

del sottoprodotto e dell’end of waste160

, “cristallizzando” così le indicazioni dettate

negli anni dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Alla luce della disamina sin qui condotta, dunque, è possibile osservare innanzitutto

come negli anni le istituzioni europee abbiano disciplinato in maniera alquanto

dettagliata la materia dei rifiuti, finendo per influenzare sensibilmente le legislazioni

nazionali al punto tale da far parlare di una vera e propria “europeizzazione” della

nozione di rifiuto161

.

In secondo luogo, si è potuto apprezzare come tale disciplina abbia assunto dei

contenuti tali da affrancare l’istituto dei rifiuti dagli obiettivi primariamente connessi

con la costruzione del mercato unico, per abbracciare politiche eminentemente volte

alla tutela dell’ambiente. Su tutti, si pensi al ruolo oggi accordato al principio di

prevenzione nell’ambito della gerarchia dei rifiuti.

Infine, bisogna altresì evidenziare come per effetto di simile revirement lo spazio dei

rifiuti sia stato progressivamente “eroso” dall’espandersi di quello dei sottoprodotti e

delle materie prime seconde, al punto che – come osservato da parte della dottrina –

oggigiorno “la definizione di rifiuto, secondo la prospettiva europea, si potrebbe

(provocatoriamente) definire residuale (più che complementare) rispetto” a tali

159

Cfr. art. 4 della direttiva 2008/98/Ce. In dottrina cfr. F. DE LEONARDIS, I rifiuti, cit., che parla di un

capovolgimento di prospettiva. 160

Si tratta, rispettivamente, degli artt. 5 e 6 della direttiva 2008/98/Ce. Recepiti pedissequamente in

Italia negli artt. 184 bis e ter del Codice dell’ambiente come modificato nel 2010. E recepiti, altresì, in

Inghilterra che alla Reg. 3 delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011” rinvia addirittura alle

definizioni contenute nella direttiva rifiuti. 161

Così C. VERDURE, The Europeanization of the definition of waste, cit.. Ciò, peraltro è comprovato

dal fatto che le definizioni di rifiuto (e oggi anche quelle di sottoprodotto ed end of waste) sono

recepite in modo pedissequo negli Stati membri.

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concetti162

. In altri termini, tanto a livello europeo quanto a livello nazionale, si è

passati da una politica del “tutto rifiuto” ad una del “(quasi) niente rifiuto”.

162

G. GAVAGNIN, La “normale pratica industriale” nell’interpretazione della Cassazione, cit..

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CAPITOLO III

IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI IN ITALIA

III.1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

Nei capitoli che precedono si è dato corso, da un lato, alla ricognizione delle fonti in

materia di rifiuti e, dall’altro lato, alla ricostruzione della relativa nozione e di quelle

contigue di sottoprodotto ed end of waste. Entrambe queste analisi sono state svolte

avendo riguardo non solo del contesto giuridico nazionale ma anche, e soprattutto, di

quello europeo, attesa la pregnante influenza che quest’ultimo esercita sul primo1. In

questo modo si è cercato di tracciare le linee tendenziali lungo cui negli anni si è

evoluto il sistema e, per l’effetto, è stato messo in risalto il fatto che alcuni dei

passaggi più significativi sono stati catalizzati dalla giurisprudenza, specie quella

della Corte di Giustizia2.

Parimenti importante si vedrà essere il ruolo del diritto europeo e della

giurisprudenza anche con riferimento ai profili inerenti alla gestione dei rifiuti

urbani, quale esempio di servizio pubblico locale, tema che si intende affrontare in

questa sede. In particolare, nelle pagine che seguono si proverà a dare conto dei

moduli organizzativi in uso ai fini dell’espletamento di tale servizio pubblico, alla

luce soprattutto delle recenti evoluzioni legislative3 e giurisprudenziali

4 che hanno

interessato l’istituto negli ultimi anni. E, nel fare ciò, non ci si potrà esimere dal

compiere ampi riferimenti all’Europa, posto che i cambiamenti che da almeno due

decenni hanno interessato la materia dei servizi pubblici (anche locali) sono stati in

larga parte orientati proprio dalle politiche dell’Unione in tema di costruzione del

1 In tal senso, cfr. per tutti A. ROMANO, Amministrazione, legalità e ordinamenti giuridici, in Dir.

amm.,1999, 1, 130. 2 Si veda in particolare quanto detto con riguardo alla perimetrazione della nozione di rifiuto, nonché

all’emersione, prima, e all’affermazione, poi, degli istituti del sottoprodotto e dell’end of waste. Al

riguardo, cfr. inter alia CGCE 28 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, C- 206 e 207/88; CGCE 25 giugno

1997, Euro Tombesi e a., cause riunite C-304/94; CGCE 15 giugno 2000, ARCO Chemie Nederland

Ltd, cause riunite C-418/97 e C-419/97; CGCE 8 settembre 2005, Commissione c. Regno di Spagna,

C-416/02. 3 Il riferimento è, in particolare, agli interventi legislativi succedutisi nel biennio 2011-2012: il d. l. 13

agosto 2011 n. 138 convertito nella L. 14 settembre 2011 n. 148; la L. 12 novembre 2011 n. 183 ed,

infine, il d. l. 24 gennaio 2012 n. 1 convertito nella L. 24 marzo 2012 n. 27. 4 Da ultimo si ricorda Corte Cost. 20 luglio 2012 n. 199, in relazione alla quale cfr. amplius infra.

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mercato unico e implementazione della concorrenza5, nonché in taluni casi – come

ad esempio quello dei rifiuti – dalla legislazione europea in tema di ambiente6.

Preliminarmente, tuttavia, è d’uopo ricostruire nei suoi termini più generali l’istituto

del servizio pubblico, sia nella dimensione nazionale che in quella locale, a

cominciare dalle origini sino ai giorni nostri, ciò quanto meno al fine di meglio

contestualizzare il tema della presente indagine e cogliere il proprium dell’istituto7.

Nel presente capitolo, dunque, muovendo dalla Legge sulle municipalizzazioni del

1903 si cercherà di ripercorrere le tappe dell’evoluzione normativa che ha interessato

l’istituto e di vedere come la fisionomia dello stesso – specie in settori peculiari,

quale quello dei rifiuti - sia mutata per effetto dell’irrompere sulla scena giuridica di

un nuovo attore: l’Unione europea. Di qui l’attenzione si incentrerà sulle

problematiche connesse ai più recenti interventi legislativi al fine di comprendere

quanto la mutevolezza delle regole che negli ultimi venti anni sembra aver

caratterizzato il settore de quo sia dipesa dall’influenza che l’UE esercita sugli Stati

membri e quanto, invece, la stessa si ricolleghi - come molti sono propensi a

ritenere8 - alla mancanza di un disegno organico da parte del legislatore nazionale.

5 Al riguardo, cfr. innanzitutto F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa: cura

dell’interesse generale e autonomia privata nei nuovi modelli di amministrazione, Cedam, Padova,

2000. Inoltre, cfr. E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, in S. MANGIAMELI (a

cura di), I servizi pubblici locali, Giappichelli, Torino, 2008, la quale osserva che “l’incidenza del

diritto europeo sulla disciplina dei pubblici servizi, nazionali e locali, non è più suscettibile di essere

posta in discussione (…)”; nonché M. CLARICH, Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza:

l’esperienza italiana e tedesca a confronto, in Riv. trim. dir. pubbl., 2003, 1, 91, dove si legge: “Il

diritto europeo ha rappresentato un fattore di cambiamento epocale anche nel settore dei servizi

pubblici. (…) La costituzione economica europea ha richiesto [infatti] una revisione del nostro

ordinamento molto più ampia di quella imposta” ad altri Paesi, come ad esempio la Germania. 6 Infatti, come si avrà modo di sottolineare nel proseguo della trattazione, nel tempo la legislazione

europea in materia di ambiente è diventata così pervasiva da influenzare sensibilmente anche

l’organizzazione di quei servizi pubblici (anche locali) che recano indubbi punti di contatto con la

materia (acqua, energia e , ovviamente, i rifiuti), ponendo in capo ai gestori dei servizi medesimi una

serie di obblighi alquanto stringenti per ciò che concerne la sostenibilità e la compatibilità ambientale. 7 Da ultimo, sottolinea l’ importanza dello studio delle fonti per la migliore comprensione degli istituti

“odierni” P. MADDALENA, I beni comuni nel diritto romano: qualche valida idea per gli studiosi

odierni, in www.federalismi.it, 2012. 8 Rinviando per maggiori approfondimenti a quanto si dirà più avanti, basti qui fare riferimento, da

ultimo, a G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi pubblici

locali. Alla ricerca del filo di Arianna, in www.giustamm.it, 2011; e S. STAIANO, I servizi pubblici

locali nel decreto-legge n. 138 del 2011. Esigenze di stabile regolazione e conflitto ideologico

immaginario, in www.federalismi.it, 2011 dove si legge: “ora, è un fatto che oggi gli eventi premono

con forza inedita; e che ciò consiglierebbe di agire nella consapevolezza delle esigenze di riordino,

razionalizzazione, coerente ricomposizione di molti ambiti del sistema normativo (…) bandendo gli

ideologismi che hanno estenuato la vicenda legislativa dei servizi pubblici, dei quali sono ancora assai

carenti la regolazione e il controllo, in un tempo in cui regolazione e controllo sono il vero nocciolo

della questione”.

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III.2 IL SERVIZIO PUBBLICO

Quello del servizio pubblico è un istituto antico (e tuttavia – si vedrà - ancora

straordinariamente attuale per il suo essere perennemente in fieri9) se si pensa che sul

finire dell’800, uno dei padri del diritto amministrativo italiano metteva già in luce il

“fatto materiale e innegabile, dell’immane moltiplicazione di servizi pubblici” i

quali, dunque, erano gioco forza divenuti oggetto di studio da parte de “la scienza

amministrativa”10

.

In realtà di servizio pubblico si era iniziato a parlare ancora prima, quando alcuni

Stati c.d. “a regime borghese” avevano disposto la statizzazione dei servizi postali11

,

ma fu indubbiamente con la fine dello Stato monoclasse e l’avvento dello Stato

pluriclasse che si assistette a “l’espansione dei servizi pubblici”12

. Di lì in poi, infatti,

ha preso avvio quel cammino che ha portato all’affermazione nella realtà giuridica e,

prima ancora in quella sociale, della c.d. amministrazione di servizio, per cui

9 Scrive, infatti, L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno all’autonomia, il

rispetto della disciplina europea, la finalizzazione alle aspettative degli utenti, in Giur. it., 2013, 3,

678; “si tratta di materia viva nella realtà e nell’ordinamento, che non può essere lasciata senza

spiegazioni”. Ciò può essere percepito, innanzitutto, da un esame dei molteplici interventi legislativi

che, specie negli ultimi anni, hanno interessato l’istituto de quo. Ma si può anche osservare come alla

base di tale “mutevolezza” vi sia il fatto (fisiologico) che inevitabilmente i bisogni avvertiti come

necessari da una comunità variano nel tempo e che rispetto a quegli stessi bisogni “vi è una

responsabilità ultima degli enti territoriali di tutela della persona e di soddisfacimento dei bisogni

essenziali. Ciò [che peraltro] è conforme all’ordinamento comunitario” (G. ROSSI, Diritto pubblico e

diritto privato nell’attività della pubblica amministrazione: alla ricerca della tutela degli interessi, in

Dir. pubbl., 1998, 3, 661). 10

In questi termini V. E. ORLANDO, Prefazione al Primo Trattato completo di diritto amministrativo,

Milano, 1897. 11

Al riguardo cfr. M. S. GIANNINI, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Il Mulino,

Bologna, 1986, il quale ricorda come detta statizzazione, disposta “nel periodo tra il primo quarto e la

metà del secolo XIX” (in Italia si ebbe nel 1862), fosse stata determinata essenzialmente dal

malcontento relativo al regime precedentemente in vigore. “Con le gestioni commesse a privati –

infatti – i piccoli centri non erano serviti, il servizio si erogava disordinatamente; i prezzi erano

eterogenei, diversi, spesso esosi; non vi era garanzia del segreto epistolare”. 12

Così M. S. GIANNINI, Il pubblico potere, cit.. Qui si legge, in particolare, che lo Stato monoclasse,

anche detto Stato censitario o borghese, “fu quello Stato che per eccellenza seguì i principi ideologici

e politici del liberalismo politico e del liberismo economico”. Dunque “l’ideologia che dominava la

classe di potere nello Stato ottocentesco era nel senso (…) dell’assolutizzazione del principio di libera

iniziativa. (…) Esso – ricorda l’A. – aveva valore in positivo, ossia come garanzia della libertà di

impresa, e in negativo, ossia come rimozione di ostacoli all’esplicazione libera dell’iniziativa

economica, e quindi come astensione dei pubblici poteri da interventi limitativi della medesima (…)”.

Pertanto, in applicazione di siffatto principio, “lo Stato monoclasse distrusse grandissima parte di ciò

che avevano costruito gli Stati dei precedenti periodi” e, ad esempio, “furono dismesse tutte le

imprese in mano pubblica, statali e locali”. Ciò non di meno, fu ammessa una serie sempre più nutrita

di eccezioni (quale, ad ex., la statizzazione del servizio postale) introdotte “per ragioni di

miglioramento della condizione umana”, le quali “contengono in sé una forza dirompente, che porterà

alla fine dello Stato borghese”. Sul finire dell’800, infatti, “le amministrazioni della tradizione, dello

Stato e degli enti territoriali sono divenute amministrazioni che in prevalenza gestiscono servizi

pubblici”, ossia un insieme di attività non riconducibili alla nozione di “funzioni” (le sole un tempo

ritenute di competenza dello Stato). “Da allora la nozione entra in circolo, ma resta fra quelle più

tormentate”.

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“all’attività amministrativa tipica mediante esercizio di poteri si [è] affiancata, in

termini sempre più consistenti, l’attività di prestazione di servizi ai cittadini”13

.

Con la diffusione di tale istituto, inoltre, ha preso le mosse anche la ricerca di una

definizione giuridica capace di illustrarne esaustivamente il proprium. Tuttavia,

quella di servizio pubblico costituisce ancora oggi una “fortunosa espressione”14

tanto suggestiva quanto sprovvista di una nozione unanimemente condivisa o,

secondo alcuno, “giuridicamente rilevante”15

e ciò, probabilmente, in ragione di una

serie di circostanze concomitanti.

Innanzitutto – si è detto in dottrina - il fatto che “il concetto di servizio pubblico

comprend[a] una quantità di istituti e rapporti l’uno profondamente diverso

dall’altro”16

. In secondo luogo, la circostanza per cui l’espressione “servizio

13

La riflessione si deve ad A. ROMANO, Il cittadino e la pubblica amministrazione, in AA. VV., Il

diritto amministrativo degli anni ’80, Atti del XXX Convegno di Varenna, Giuffrè, Milano, 1987. Ma

considerazione analoga si rinviene anche in E. SCOTTI, Il pubblico servizio. Tra tradizione nazionale e

prospettive europee, Cedam, Padova, 2003. 14

L’espressione si deve a M. NIGRO, L’edilizia popolare come servizio pubblico, in Riv. trim. dir.

pubbl., 1957, 2, 118.

Considerazioni pressoché analoghe si rinvengono in tutte le trattazioni che abbiano riguardo

dell’istituto in argomento. Tra gli altri si ricordano: R. ALESSI, Le prestazioni amministrative rese ai

privati, Milano, Giuffrè, 1956, il quale evidenzia come “le nozioni di servizio pubblico siano tante

quanti gli autori che se ne occuparono” e F. BENVENUTI, Appunti di diritto amministrativo. Parte

generale, IV ed., Cedam, Padova, 1959, secondo cui “è questa [addirittura] una espressione priva di

un valore giuridico esatto e che è mutuata dalla scienza economica”. Più di recente, inoltre, cfr. F.

MERUSI, (voce) Servizio pubblico, in Nss. D. I., XVII, Torino, 1970; F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni di

diritto pubblico dell’economia, Giappichelli, Torino, 2007; R. VILLATA, Sulla nozione di pubblico

servizio con particolare riguardo alla sua rilevanza penalistica, in ID., I servizi pubblici. Temi e

problemi, Giuffrè, Milano, 2003. 15

In questo senso cfr. R. VILLATA, La pubblica amministrazione e i servizi pubblici, in Dir. amm.,

2003, 3, 493, dove si legge: “esiste oggi una nozione di pubblico servizio, unitariamente considerato,

che si possa dire giuridicamente rilevante? Giuridicamente rilevante nel senso che una volta ricondotta

a siffatta nozione una determinata attività ne segua l’applicabilità di una ben definita ed omogenea

disciplina di diritto sostanziale con eventuali riflessi sul piano del processo. Ciò in quanto parrebbe

non revocabile in dubbio l’assunto che in tanto è consentito porsi il problema dei rapporti tra pubblica

amministrazione e servizio pubblico in quanto sia stabilito in che cosa il servizio pubblico consista”.

Tuttavia, altra parte della dottrina (L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno

dell’autonomia, il rispetto della disciplina europea, la finalizzazione alle aspettative degli utenti, cit.)

osserva che “la complessità e la natura multiforme del concetto, comunque, non legittimano

l’abbandono della discussione sulla nozione, per abbracciare l’idea della sua insignificanza – o,

almeno, irrilevanza – giacché bisogni e domande individuali, attività d’impresa, poteri ed

organizzazioni pubbliche restano definite da quel concetto, disciplinate le attività che vi

corrispondono, i rapporti giuridici che ne derivano e le controversie giurisdizionali che possono

seguirne; si tratta di materia viva nella realtà e nell’ordinamento, che non può essere lasciata senza

spiegazioni”. 16

Così S. ROMANO, Principii del diritto amministrativo, III ed., Giuffrè, Milano, 1912, ma

considerazioni analoghe si rinvengono anche in A. DE VALLES, I servizi pubblici, in V. E. ORLANDO (a

cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo, cit., di dove si legge: “l’espressione

servizio pubblico è usata dalla pratica in un significato globale, che non corrisponde al significato

particolare del sostantivo e dell’attributo: ed anzi, se vi è tanta varietà di opinioni sul concetto di

pubblico servizio, ciò dipende dal fatto che, se è incerto l’attributo, il sostantivo è preso volta a volta

in tutti i suoi significati, facendone derivare una nozione diversa dell’idea complessiva”.

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pubblico” è stata mutuata dalla scienza economica ha prodotto i disagi normalmente

connessi a questo genere di innesti17

. E ancora, il fatto che la disciplina giuridica

relativa all’istituto de quo “si muove in un’area che non costituisce esclusivo

appannaggio del diritto pubblico o del diritto privato, ma che fa applicazione delle

norme desunte dall’una o dall’altra branca (…) [ha] contribuito a porre in

discussione alcuni dei capisaldi della più antica dottrina (e giurisprudenza)

pubblicistica, come la tradizionale distinzione fra atti d’imperio e atti di gestione”18

.

A ciò si aggiunga, infine, che i contorni stessi dell’istituto sono mutati di pari passo

con il mutare della legislazione che lo ha interessato, il che ha fatto sì - in definitiva -

che la ricerca di una definizione esaustiva del concetto di servizio pubblico (e, per

l’effetto, di servizio pubblico locale) si sia intrecciata con la “storia” della sua

Infine, più di recente, cfr. P. CIRIELLO, (voce) Servizi pubblici, in Enc. giur., Roma, 1990 il quale

osserva che quella di servizio pubblico “è un’espressione che il legislatore è venuto via via

adoperando in un numero ormai rilevante di casi senza fornire (…) delle indicazioni univoche e

concordanti atte a consentire una ricostruzione sistematica in termini di diritto positivo”. L’A., infatti,

ricorda come la locuzione “servizio pubblico” sia presente, ad. ex., nell’art. 43 Cost.; negli artt. 358 e

330 c.p., nonché nella L. 29 marzo 1903 n. 103. 17

Sul punto cfr., innanzitutto, A. POLICE, Spigolature sulla nozione di “servizio pubblico locale”, in

Dir. amm., 2007, 1, 79, dove si legge: “la legge sulle municipalizzazioni del 1903, infatti, faceva

riferimento esclusivamente ad un concetto economico di servizio, come di attività idonea a fornire

delle prestazioni ai cittadini, per il soddisfacimento di bisogni ritenuti necessari. Come si vede, la

disorganicità della elencazione delle attività e l’uso del termine servizi pubblici in senso prettamente

economico rendevano assai difficile individuare una compiuta definizione di tale nozione sul piano

giuridico”. E, ancora, come ricorda F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit., ad un certo punto si è

diffusa una corrente dottrinale che negava al servizio pubblico il valore istituto giuridico, ritenendo

piuttosto che detta nozione fosse indicativa di “un’attività economica incidente in via diretta sulla

collettività e che, sotto il profilo giuridico, rileva per legittimare l’inizio di un procedimento giuridico

che ha per fine il mutamento dei titolari dell’attività stessa”. Infine, cfr. G. CAIA, I servizi pubblici, in

L. MAZZAROLLI E A., Diritto amministrativo, Monduzzi, Bologna, 2005, il quale evidenzia come, sotto

l’influenza degli economisti, una certa corrente di pensiero ha preso a leggere l’amministrazione come

“soggetto distributore di utilità al gruppo sociale”, finendo in tal modo per accedere ad una concezione

eccessivamente lata di servizio pubblico (cfr. L. DUGUIT, Les trasformationes du droit public, Parigi,

1913). Siffatta ricostruzione dell’istituto in esame, tuttavia, è stata criticata da altra parte della dottrina

proprio per l’ampiezza della nozione di servizio pubblico. In particolare, si v. R. ALESSI, Le

prestazioni amministrative rese ai privati, cit., il quale lamentava il fatto che detta teoria facesse

“coincidere, praticamente, la produzione di servizi pubblici con l’intera attività amministrativa [poiché

si è formata] nel campo della scienza economica e finanziaria la quale intende i servizi pubblici in

modo del tutto generico, vale a dire come ogni forma di attività di un ente pubblico diretta a

soddisfare i bisogni pubblici”. 18

Così P. CIRIELLO, (voce) Servizi pubblici, cit.. In senso analogo F. DE LEONARDIS, Soggettività

privata e azione amministrativa, cit., il quale osserva che “non solo non vi è antinomia tra esercizio di

funzione pubblica e moduli di diritto privato, ma (…), addirittura, la cura dell’interesse generale in

alcuni casi e anche nei settori riservati fino a pochi anni fa a soggetti pubblici, può essere garantita a

migliori condizioni attraverso l’utilizzazione di strumenti di diritto privato”. Pertanto, “l’azione

amministrativa (…), in quanto orientata alla migliore soddisfazione dei bisogni dei cittadini, deve

svolgersi attraverso i mezzi di volta in volta più idonei, adeguati ed economici per il conseguimento

dei relativi risultati, mezzi, questi, molto spesso appartenenti all’universo dell’autonomia privata”.

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disciplina normativa19

, da alcuni anni a questa parte resa ancora più articolata

dall’innesto nel diritto interno di norme di derivazione europea20

.

Nelle pagine che seguono, pertanto, si cercherà di ricostruire i momenti salienti di

questa storia, fino ad approdare ai tempi attuali, dove i servizi pubblici – specie nella

loro dimensione locale – sono al centro di una tensione tra “istanze contrapposte” la

cui auspicabile composizione secondo attenta dottrina “costituisce l’attuale

condizione, non solo italiana, del servizio pubblico locale e definisce la cifra della

sua instabilità, in termini di transizione verso un approdo ancora non ben

delineato”21

.

III.2.1 LA PRIMA STAGIONE. DALLA MUNICIPALIZZAZIONE ALLA (RI)SCOPERTA

DEL MERCATO

Come in parte anticipato, in Italia i primi atti normativi che hanno riguardato i servizi

pubblici si collocano tra la fine del XIX secolo e gli inizi del secolo successivo.

Risalgono, infatti, rispettivamente al 1862 e al 1865 l’istituzione del monopolio

postale e l’introduzione del regime concessorio nel settore ferroviario, mentre è del

1903 la L. 29 marzo n. 103 sulla c.d. municipalizzazione dei servizi pubblici locali22

.

Di lì in poi con una serie di atti legislativi, intervenuti tra il 1905 e la fine degli anni

19

Non a caso in F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2010, si legge

che “la tematica dei servizi pubblici sembra dunque essere caratterizzata da una tensione definitoria di

matrice prettamente dottrinaria che, nella costante ricerca di conferme, trova smentite ed elabora

correttivi sulla base degli interventi legislativi e delle concrete soluzioni giurisprudenziali, secondo un

riparto di attribuzioni che appare tacitamente definito e che fa da contrappeso, almeno sul fronte

dell’ordinamento interno, ad un atteggiamento prudente del legislatore verso una esplicita e compiuta

definizione della categoria”. Del pari cfr. G. CAIA, I servizi pubblici, cit., il quale scrive: “la

ricostruzione del concetto di servizio pubblico è stata così influenzata da un quadro ordinamentale

privo di univocità ed alquanto incerto, il che spingeva (giustamente) alla ricerca di elementi

sistematici per una considerazione unitaria del servizio pubblico”. 20

Scrive, infatti, F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni, cit.: “l’individuazione del concetto di servizio

pubblico è oggi resa incerta anche dal confluire, nel diritto interno, delle disposizioni che il diritto

comunitario dedica alla categoria dei servizi di interesse economico generale e, più in generale, dai

concetti e dalla terminologia che ricorrono negli atti normativi e nella giurisprudenza comunitaria”. 21

In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, in Dig. disc. pubbl. (aggiornamento),

UTET, 2012 la quale individua dette istanze contrapposte nell’ “aprire i mercati alla concorrenza e

alla libera iniziativa, anche sociale, dei privati; tutelare gli utenti e garantire l’universalità dei servizi;

organizzare servizi efficienti e di qualità elevata; contenere la spesa pubblica; assicurare, specie in

corrispondenza dei diritti fondamentali, livelli minimi di prestazioni uniformi sul territorio nazionale

ed europeo e nel contempo rispettare la specificità e le autonomie locali, aprirsi a nuovi modelli di

democrazia partecipativa, fondati sul coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali pubblici e

nella gestione delle attività di interesse generale”. 22

L. 29 marzo 1903 n. 103 (in G.U. 29 marzo 1903), Assunzione diretta dei pubblici servizi da parte

dei Comuni. Ad essa fece seguito il R.D. 15 ottobre 1925 n. 2578 (in G.U. 4 marzo 1925 n. 4), recante

Approvazione del testo unico della legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei

comuni e delle province.

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’30 dello stesso secolo, fu disposta la nazionalizzazione di pressoché tutti i servizi

pubblici23

e il relativo regime giuridico risultò ben presto sostanzialmente completo,

tanto da rimanere “immutato per mezzo secolo”24

.

Per quel che concerne la disciplina giuridica, in quel momento storico il servizio

pubblico si connotava per la presenza concomitante della c.d. riserva originaria (o

esclusiva) e della gestione pubblica. Con la prima espressione si vuol indicare la

riserva in capo al soggetto pubblico di una determinata attività che,

conseguentemente, si dice essere attività riservata e “produce l’effetto di privare tutti

i soggetti privati della legittimazione ad assumere la qualità di imprenditore nel

settore”25

in questione. Dal punto di vista gestionale, invece, inizialmente accadeva

che lo Stato, per il tramite di un proprio organo, si occupasse direttamente

dell’attività riservata. Questo modello c.d. di gestione diretta fu utilizzato, ad

esempio, con riferimento alle Ferrovie dello Stato e ai servizi telefonici, gestiti

rispettivamente da un’azienda autonoma del Ministero dei trasporti e dall’azienda di

Stato del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni. Solo in un secondo

momento, invece, si sono diffusi il modello della gestione indiretta, vale a dire

23

Risalgono, infatti, al 1905 e al 1909 la nazionalizzazione, rispettivamente, del trasporto ferroviario e

del trasporto automobilistico di linea; mentre al 1907 quella dei servizi telefonici, la cui disciplina

venne parzialmente rivista a distanza di circa un ventennio. Successivamente, si è avuta la regolazione

del trasporto marittimo e di quello aereo; mentre nel 1936 è stato adottato un codice postale e delle

telecomunicazioni.

Per ciò che concerne il fenomeno della nazionalizzazione - con cui si intende (M. STIPO, (voce)

Nazionalizzazione, in Enc. Giur., XXIII, Roma, 1990 “l’acquisizione o il trasferimento della titolarità

e della gestione delle imprese private ad enti pubblici imprenditoriali, cioè a persone giuridiche

(pubbliche) che esercitano attività economiche organizzate con una potenziale finalità di profitto con

gli stessi caratteri dell’impresa privata (…)” - cfr., inter alia, A. DI MAJO, L’avocazione delle attività

economiche alla gestione pubblica o sociale, in Tratt. dir. comm., I, Padova, 1977; F. GALGANO,

Commento all’art. 43 Cost., in Comm. Cost., Bologna, 1982; M. S. GIANNINI, Diritto pubblico

dell’economia, Il Mulino, Bologna, 1998; G. GUARINO, Scritti di diritto pubblico dell’economia,

Giuffré, Milano, 1970; V. OTTAVIANO, (voce) Impresa pubblica, in Enc. Dir., XX, Milano, 1970; A.

PREDIERI, (voce) Collettivizzazione, in Enc. dir., VII, Milano, 1960; V. SPAGNUOLO VIGORITA, (voce)

Nazionalizzazione (disciplina interna), in Nss. D.I., XI, Torino, 1965. 24

Così G. NAPOLITANO, I servizi pubblici, in S. CASSESE (a cura di), La nuova costituzione

economica, Laterza, Bari, 2012, il quale ricorda come “l’unica grande riforma attuata dopo l’entrata in

vigore della Costituzione è la nazionalizzazione della produzione, del trasporto e della distribuzione

dell’energia elettrica, disposta da una legge del 1962”. 25

Cfr. G. NAPOLITANO, I servizi pubblici, cit., il quale evidenzia anche come detto connotato del

servizio pubblico abbia poi trovato la propria “consacrazione” nell’art. 43 della Carta costituzionale, a

mente del quale, “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante

espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti

determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di

energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. In senso

analogo cfr., inter alia, S. CASSESE, Legge di riserva e articolo 43 della Costituzione, in Giur. it,

1960, 6, 1332; F. GALGANO, Commento all’art. 43, cit.; A. MASSERA, Partecipazioni statali e servizi

di interesse pubblico, Il Mulino, Bologna, 1978; A. PREDIERI, (voce) Collettivizzazione, cit..

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l’utilizzo a fini gestori di un ente pubblico all’uopo preposto26

, e lo strumento della

concessione27

, in virtù della quale “l’attività riservata è attribuita, con provvedimento

dello Stato, a società per azioni, che svolgono in forma imprenditoriale il servizio,

ma nella veste di concessionari e, quindi, non in quanto imprenditori retti dal

principio di libertà di iniziativa economica privata”28

.

26

Emblematici, al riguardo, il caso del servizio pubblico di fornitura dell’energia elettrica a partire dal

1962, anno in cui è stato istituito l’ENEL, e quello delle Ferrovie dello Stato a partire dalla metà degli

anni Ottanta. 27

Quello della concessione di pubblico servizio è un istituto giuridico che ha conosciuto alterne

“fortune”. Ricorda, infatti, A. ROMANO, La concessione di un pubblico servizio, in A. ROMANO E A.,

La concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995, come per un certo periodo di tempo esso

sia stato in certa misura oscurato da un istituto affine (ancorché non identico), quello della

concessione di costruzione di opere pubbliche. Tuttavia, a partire dai primi anni Novanta del secolo

scorso – vale a dire in concomitanza con il fenomeno delle liberalizzazioni - la concessione di

pubblico servizio ha visto aumentare la propria importanza, sia economica che pratica. Ciò in quanto –

ricorda l’A. -“l’affidamento in concessione dei pubblici servizi è un modo del loro esercizio che

appare particolarmente consono a quello che sembra essere lo spirito che in questi anni ha preso il

sopravvento: contrario alla riserva, e comunque all’imputazione all’amministrazione di attività che

siano organizzate economicamente in forma imprenditoriale, o che possano, o che, al limite,

addirittura debbano così esserlo”. A dare nuova linfa all’istituto della concessione, inoltre, ha

indubbiamente contribuito il crescente interesse che, sul finire del XX secolo, l’ordinamento europeo

ha mostrato nei confronti dei servizi pubblici (cfr. F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione

amministrativa, cit.). Infatti, essendo quello de quo un istituto sostanzialmente sconosciuto a gran

parte degli Stati membri, si è posta la necessità di chiarire il discrimen tra lo stesso e il contratto

pubblico: “non va dimenticato che l’art. 90 del Trattato Cee (…) [pone] in generale il principio della

libertà di concorrenza attraverso la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi. A questa

regola la disciplina della concessione di pubblico servizio dovrà prima o poi conformarsi” (E. Casetta,

Introduzione, in op. ult. cit.). E’ per tale via, dunque, che l’UE ha finito per mutare il volto all’istituto

della concessione di cui oggi la legislazione italiana evidenzia la natura contrattuale (F. GOISIS,

Concessioni di costruzione e gestione di lavori e concessioni di servizi, in www.ius-publicum.com,

2011).

In dottrina, per un esame più approfondito della concessione sono imprescindibili i richiami a S.

ROMANO, Corso di diritto amministrativo, III ed., Padova, 1937, che affronta in particolare il

problema della giurisdizione sugli atti posti in essere dai privati concessionari di pubblici servizi;

nonché a G. MIELE, Ente pubblico e concessione di servizi pubblici, in Foro amm., 1942, ora in ID.,

Scritti giuridici, Milano, 1987, e O. RANELLETTI, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni,

in Scritti giuridici scelti, Jovene, Napoli, 1992. Inoltre, cfr. anche R. CAVALLO PERIN, La struttura

della concessione di servizio pubblico locale, Giappichelli, Torino, 1998; M. D’ALBERTI, (voce)

Concessioni amministrative, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988; ID., Le concessioni

amministrative. Aspetti della contrattualità delle pubbliche amministrazioni, Jovene, Napoli, 1981; D.

SORACE – C. MARZUOLI, (voce) Concessioni amministrative, in Dig. disc. pubbl., III, Torino, 1989.

Più di recente, invece, cfr. F. DE LEONARDIS, Atti (e regole) dei soggetti concessionari, in Dir. amm.,

2008, 3, 557; F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, cit.. 28

In questi termini G. NAPOLITANO, I servizi pubblici, cit., che prosegue affermando: “esse

acquisiscono la qualifica di imprenditore in virtù di un provvedimento autoritativo e singolare, che

conferisce loro il compito di svolgere l’attività di impresa con esclusione di altri.

Corrispondentemente, l’attività della concessionaria è sottoposta all’indirizzo e al controllo del

concedente”. Prima di lui, coglieva il proprium dell’istituto in argomento E. CASETTA, Introduzione,

cit., il quale scriveva: “si configuri come si vuole la concessione (…) il proprium di essa viene in

genere individuato nella possibilità, conferita dall’amministrazione ad un altro soggetto pubblico o

privato, di esercitare potestà ad essa sola spettanti e che senza un’investitura da parte

dell’amministrazione non potrebbero venire esercitate (potestà per lo più ritenute pubbliche). Ove

cadesse la premessa, ossia ove l’attività del privato non sia peculiare alla pubblica amministrazione,

cadrebbe la stessa ragion d’essere della concessione”.

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100

Per ciò che riguarda nello specifico il settore dei rifiuti, occorre poi ribadire come

risalga a quegli anni - precisamente, al 194129

- la prima legge nazionale ad essi

dedicata. In proposito, si è già anticipato che la L. n. 366, lungi dall’essere orientata

alla tutela dell’ambiente, era ispirata eminentemente dalla finalità di preservare

l’igiene pubblica e il decoro delle città. La stessa, pertanto, aveva riguardo della

gestione dei soli rifiuti urbani, mentre la disciplina degli altri rifiuti restava affidata

agli strumenti normativi secondari e amministrativi previsti per la tutela dell’igiene

pubblica a livello locale30

, al punto che - di fatto - quelli prodotti nelle campagne

erano addirittura demandati alla “cura” della popolazione31

.

A mente della citata legge, soggetti preposti alla gestione dei rifiuti erano i Comuni,

salvo sussistere una competenza centrale in capo al Ministero dell’interno32

. All’art.

2, infatti, era possibile leggere che quest’ultimo “ha l’alta vigilanza ed il controllo

sull’andamento dei servizi contemplati dalla presente legge nonché di tutti gli altri

che, nella materia, hanno carattere complementare ed accessorio”. A tal fine, dunque,

il successivo art. 3 prevedeva l’istituzione, come partizione organica del Ministero

dell’interno, di “un ufficio centrale per i rifiuti solidi urbani alla quale sono conferite

le attribuzioni previste dalla presente legge”.

A livello locale, invece, l’art. 9 affermava che “i servizi inerenti alla raccolta, al

trasporto ed allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani competono ai comuni, i quali

sono tenuti a provvedervi con diritto di privativa, ai sensi del testo unico approvato

con R. D. 15 ottobre 1925 n. 2578, o direttamente o mediante concessione. [Tuttavia]

su proposta del podestà, il prefetto può, con suo decreto, riconoscere, per ogni

comune, zone con popolazione non agglomerata, nelle quali il trasporto dei rifiuti

solidi urbani può essere accordato ai singoli privati con speciale autorizzazione del

Ex multis cfr. S. CASSESE, Partecipazioni pubbliche ed enti di gestione, Milano, Franco Angeli, 1962;

A. MASSERA, Partecipazioni statali e servizi di interesse pubblico, cit.. 29

Si tratta della L. 20 marzo 1941 n. 366 recante “Raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi

urbani”. Come ricordato da B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino

2005 detta legge “era tuttavia limitata alla tematica dei rifiuti urbani”, mentre “la disciplina della

materia, soprattutto per quanto riguarda i rifiuti diversi da quelli urbani restava affidata agli strumenti

normativi secondari e amministrativi previsti per la tutela dell’igiene pubblica a livello

locale(regolamenti locali e in generale altri atti delle autorità locali a tutela dell’igiene pubblica). Ex

multis, cfr. cap. I. 30

Così B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, cit.; nonché V. ONIDA, I rifiuti solidi: profili

istituzionali e normativi, in AA.VV., Rischio rifiuti, Legnano, 1988. 31

Sul punto cfr. amplius G. BOTTINO – R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, in M. P. CHITI – G. GRECO (a cura

di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffrè, Milano, 2007. 32

Come evidenziato da B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, cit., “solo nel 1977, con la

seconda fase dei trasferimenti di funzioni alle regioni,veniva configurato, per la prima volta, un settore

di competenze relativo alla materia dei rifiuti sia urbani sia industriali (art. 101 del d.P.R. n. 696 del

1977).

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podestà e sotto l’adempimento delle condizioni indispensabili perché la raccolta, il

trasporto e lo smaltimento dei rifiuti stessi si svolgano in armonia ai principi stabiliti

dalla presente legge”. Vale a dire in modo tale da assicurare l’igiene e l’ordine

pubblico nelle città33

.

Tornando ad un discorso più generale, occorre evidenziare come il descritto assetto

abbia caratterizzato i servizi pubblici (anche nella loro dimensione locale) per tutto il

tempo della “vecchia costituzione economica”34

, vale a dire fino ai primi anni

Novanta del secolo scorso, quando ha preso avvio la fase delle liberalizzazioni e

delle privatizzazioni su spinta, principalmente, dell’allora Comunità economica

europea. Tuttavia, se è vero che la disciplina giuridica dell’istituto in esame ha

vissuto per oltre mezzo secolo una fase di sostanziale stabilità, è altrettanto vero che

proprio nel corso di quel lungo periodo si collocano le pietre miliari della riflessione

dottrinaria in merito alla nozione, alla natura e al proprium, tutt’altro che pacifici, dei

servizi pubblici.

Storicamente, è possibile affermare che “l’esigenza di elaborare una definizione di

servizio pubblico (…) si pose alla dottrina italiana a fronte della necessità di dare una

connotazione più precisa ad attività peculiari che, pur estranee al tradizionale

concetto di funzione, fossero comunque riconducibili alla P.A.”35

. Detto in altri

33

Sul punto cfr. B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, cit.. A titolo esemplificativo, si

ricorda che l’art. 15 della legge in esame, sotto la rubrica “della conservazione temporanea e della

raccolta dei rifiuti urbani”, prevedeva che “i rifiuti interni dei centri di popolazione agglomerata

devono essere raccolti e conservati, fino al momento del trasporto in modo da evitare qualsiasi

dispersione” e “nel caso che a tal fine vengano adoperati recipienti portatili, questi debbono essere

muniti di coperchio a chiusura ermetica”. 34

L’espressione è presa in prestito da S. CASSESE, La nuova costituzione economica, Laterza, Bari,

2012. 35

In questi termini cfr. F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit..

Per ciò che concerne la distinzione tra funzione amministrativa e servizio pubblico, cfr., innanzitutto,

F. BENVENUTI, Funzione amministrativa, procedimento e processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 1,

1; G. MIELE, Pubblica funzione e pubblico servizio, in Arch. giur., 1933, p. 181; ID. (voce), Servizio

pubblico, in Enc. giur. it. Treaccani, Roma, 1936; nonché G. ZANOBINI, Corso di diritto

amministrativo, Milano, 1958, dove si legge che “mentre la funzione indica l’esercizio di una potestà

pubblica, intesa come una sfera di capacità specifica dello Stato, (…) i servizi rappresentano invece

altrettante attività, materiali, tecniche, spesso di produzione industriale, poste a disposizione dei

singoli per aiutarli nel conseguimento delle loro finalità”. Più di recente, cfr. E. CASETTA, (voce)

Attività amministrativa, in Dig. disc. pubbl., II, Torino, 1987; nonché G. CAIA, I servizi pubblici, cit.,

dove si legge che “per il diritto amministrativo la funzione amministrativa ed il servizio pubblico non

sono due nozioni contrapposte, ma due nozioni differenti che esprimono momenti diversi e non

coincidenti (e tuttavia integrabili e combinabili tra di loro) dell’attività amministrativa nel suo

complesso. (…) la prima è propria di un tipo di attività dell’Amministrazione espressiva di potere e

che è esclusiva di essa, la seconda identifica una serie di attività di tipo logicamente eterogenee e

coordinate nell’ambito, appunto, del servizio pubblico. In sostanza – prosegue l’A. - il servizio

pubblico è un modello più o meno composito di attività amministrativa, distinguibile soprattutto per i

connotati organizzativi. Così, per una descrizione figurativa dei due istituti, sembra possibile dire che

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termini, si avvertì il bisogno di “individuare una categoria comune sotto la quale

ricomprendere una parte dell’attività amministrativa, non autoritativa, che andava

diffondendosi in modo esponenziale in ragione dell’assunzione di nuovi compiti da

parte dello Stato (…)”36

.

In ragione di ciò, “nelle prime trattazioni organiche del diritto amministrativo,

[comparve] l’articolarsi della definizione dei fini dello Stato per lo più in base alla

distinzione tra attività meramente patrimoniale (per lo più relativa alla gestione dei

beni), attività giuridica (avente ad oggetto la realizzazione dei fini essenziali di

conservazione attraverso l’intervento imperativo nella sfera del diritto individuale) e

attività sociale (volta a promuovere il benessere, la cultura, l’equilibrio e la pace

della società e comprendente, tra le altre, anche le attività che verranno poi

qualificate di servizio pubblico)”37

. E nel fare ciò si evidenziava il fatto che, mentre

quella di funzione amministrativa ha valenza verticale, mentre quella di servizio pubblico riveste

valenza orizzontale”. 36

Così F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit.. Del pari, F. MERUSI, (voce) Servizio

pubblico, cit., il quale scrive: “il profilo della teoria del servizio pubblico che interessò gli studiosi

italiani fu quello organico-materiale, perché offriva la possibilità di classificare sulla base di un

concetto giuridico unitario una parte dell’attività non autoritativa della pubblica amministrazione,

attività che si andava estendendo con l’assunzione da parte dello Stato e degli enti pubblici minori di

nuovi compiti sociali ed economici, e di spiegare nel contempo il sempre più vasto fenomeno della

disciplina pubblica di attività economiche imputabili a soggetti privati, realizzato attraverso lo

strumento formale della concessione amministrativa”. E ancora cfr. E. SCOTTI, Il pubblico servizio,

cit., la quale osserva come “sul piano storico, l’esigenza di una sua compiuta nozione giuridica, sia

stata avvertita allorché lo Stato moderno si è assunto su larga scala il compito d’intervenire nei

rapporti sociali volgendo le proprie energie a favorirne il miglioramento. In tale svolta – che sul piano

istituzionale ha segnato il passaggio dallo Stato di diritto allo Stato sociale – alle tradizionali attività

svolte dai pubblici poteri per adempiere a funzioni essenzialmente conservative, si sono affiancati,

com’è noto, nuovi ambiti di azione di tipo prevalentemente non autoritativo, preordinati all’utile dei

singoli membri della collettività. Di tale evoluzione non ha mancato di risentirne la sistematica del

diritto amministrativo che in quel tempo veniva elaborata”. 37

Così E. SCOTTI, Il pubblico sevizio, cit.. Per completezza, si segnala che la categoria dei servizi

pubblici c.d. sociali è stata di recente al centro dell’attenzione di parte della dottrina (A. POLICE,

Spigolature, cit.), la quale osserva che “in mancanza di una nozione giuridica unitaria e precisa di

servizio sociale, un utile apporto è fornito dal disposto del comma 1 dello stesso art. 22 della legge n.

142 del 1990 (…) che, accanto ai servizi produttivi, prevede i servizi che hanno per oggetto attività

rivolte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile della società”. Di qui,

il Consiglio di Stato, sez. V, 12 agosto 1998 n. 1262 è giunto ad affermare “che il profilo funzionale

dei servizi pubblici sociali pone in evidenza un collegamento concettuale con la definizione di Stato

sociale, che (…) compendia le prestazioni della Pubblica Amministrazione rivolte, in via diretta e

concreta, alla tutela e allo sviluppo del benessere dei singoli. Ciò in linea con gli obiettivi di fondo

posti dagli artt. 2 e 3 Cost.”. La citata dottrina ha poi evidenziato come siffatta definizione sia stata poi

recepita dal legislatore all’art. 128 del d. lgs. 31 marzo 1998 n. 112 e come, dunque, quella dei servizi

pubblici sociali finisca per “costituire una categoria unitaria, l’unica suscettibile di contrapporsi a

quella dei servizi di rilevanza economica. (…) Nel servizio sociale dovrebbero intendersi

estensivamente compresi tutti quei servizi che abbiano ad oggetto la soddisfazione dei bisogni primari

della persona costituzionalmente tutelati, tali da giustificare una disciplina speciale rispetto a quella

generale ispirata alla promozione della concorrenza”.

Ex multis, sul tema cfr. F. GIGLIONI, Osservazioni sull’evoluzione della nozione di “servizio

pubblico”, in Foro amm., 1998, 2265; A. POLICE – W. GIULIETTI, Servizi pubblici, servizi sociali e

mercato: un difficile equilibrio, in Servizi pubblici e appalti, 2004, 831.

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l’attività giuridica era rivolta alla “conservazione dell’ordinamento giuridico”38

,

l’attività sociale aveva “come scopo la produzione di effetti politico-sociali, per

quanto al loro raggiungimento si arrivi attraverso applicazioni del diritto”39

.

Un simile bisogno di sistematizzazione delle attività riconducibili alla pubblica

amministrazione divenne ancora più impellente a seguito dell’entrata in vigore della

legge 29 marzo 1903 n. 103 sulle municipalizzazioni, il cui art. 1 qualificava come

servizio pubblico una serie molto eterogenea di diciannove attività che andavano

dalla costruzione di acquedotti sino allo “stabilimento e relativa vendita di semenzai

e vivai di viti ed altre piante arboree e fruttifere”40

. Dunque, alla luce del carattere

variegato delle fattispecie ivi contemplate, si pose il problema di chiarire se detta

elencazione recasse carattere tassativo o, piuttosto, meramente esemplificativo e,

quindi, se i Comuni potessero assumere la gestione di attività non menzionate

dall’art. 1 ma comunque qualificabili come servizi pubblici. “Detto altrimenti,

occorreva individuare un criterio che si ponesse come identificativo della categoria

ed elaborare, pertanto, una nozione più generale”41

.

38

G. ZANOBINI, (voce) Amministrazione pubblica, in Enc. dir., II, Milano, 1958. 39

A. DE VALLES, I servizi pubblici, cit.. Più di recente, E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., scrive:

“dell’attività sociale veniva posto in rilievo il carattere contingente della sua pubblicità, derivante

dallo spontaneo interessamento dello Stato a scopi di sua non necessaria pertinenza”. 40

Detto articolo fu poi recepito nel T.U. sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei

comuni e delle province approvato con il R.D. 15 ottobre 1925 n. 2578, cit.. Sul punto, è interessante

la lettura offerta da G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali in trasformazione, Cedam, Padova, 2010, il

quale scrive: “se si riconduce la legge sulla municipalizzazione alla costituzione economica dello

Stato liberale, questo ambito potenzialmente dilatabile tende immediatamente a restringersi e ad

ordinarsi secondo canoni precisi. Da questo punto di vista è facile avvedersi di come la formulazione

del legislatore del 1903 (…) costituisce un’applicazione di diversi principi e fosse pienamente in linea

con la costituzione economica dello Stato liberale”. In particolare, l’A. individua detti principi in: il

carattere generale dell’interesse pubblico che “strutturalmente costituisce un limite per l’estensione

della nozione”; il fallimento del mercato, ossia “la constatazione dell’impossibilità per l’impresa

privata di assolvere, in regime concorrenziale di efficienza economica, il suo compito di migliore

veicolo di allocazione delle risorse”; il principio dell’equilibrio finanziario, per cui “i ricavi derivanti

dall’esercizio dei servizi pubblici municipalizzati dovevano essere in grado di assicurare la copertura

dei costi di gestione”. 41

In questi termini F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit. e ID., La concessione come

strumento di gestione dei servizi pubblici, in Le concessioni di servizi pubblici, Rimini, 1988, dove

l’A. sottolinea il carattere meramente esemplificativo dell’elencazione contenuta nell’art. 1 della L. n.

103/1903.. Ex multis, cfr. M. SEVERO GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, cit., dove si legge:

“da una parte, un ben scarso ausilio poteva provenire da un esame delle diverse fattispecie

considerate, restando oscuro il motivo per cui il legislatore avesse incluso nell’elencazione, ad

esempio, la produzione ma non la vendita del pane, inserendovi invece la vendita del ghiaccio;

dall’altra, non si rendeva nemmeno possibile sostenere che “l’attività produttiva diveniva pubblico

servizio dopo municipalizzata, perché la domanda investiva non le attività municipalizzate, bensì

quelle municipalizzabili, non cioè la gestione ma la decisione circa l’azione del pubblico potere –

nella specie comunale – nel campo dell’economia”. E ancora, cfr. A. POLICE, Spigolature, cit., il quale

scrive: “l’art. 1 della legge individuava come oggetto della municipalizzazione 19 servizi, in via di

elencazione esemplificativa. Si trattava di attività e servizi di natura e rilevanza diversa (…); mancava

però una nozione generale di servizio pubblico in senso giuridico”.

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Fu in questi anni, pertanto, che maturò quella riflessione dottrinale che condusse alla

formulazione della concezione soggettiva o, nella sua “primigenia espressione”,

nominalistica di servizio pubblico, che “considerava come elemento qualificante del

servizio pubblico la sua imputabilità ad un soggetto pubblico”. A differenza di

quanto accadde in Francia42

, tuttavia, “da noi prevalse l’idea che non fosse il servizio

pubblico il fondamento dello Stato, ma lo Stato il fondamento della pubblicità del

servizio (…). Comune, infatti, agli autori dell’epoca è l’affermazione che di servizi

pubblici possa parlarsi solo quando lo Stato o altro ente pubblico li ha dichiarati tali

e li ha inclusi nelle proprie finalità”43

. Tesi, quest’ultima, che indubbiamente trovava

conforto nel regime giuridico dettato dal legislatore con riferimento alle attività

costituenti servizi pubblici, posto che – come poc’anzi evidenziato – di dette attività

lo Stato era anche il gestore, direttamente o indirettamente44

.

Ciò non di meno, stentava ancora ad emergere il proprium del servizio pubblico, vale

a dire quel quid che consentisse di teorizzare un istituto dotato di una propria

specificità, sia strutturale che funzionale, e soprattutto di distinguerlo “tanto dalle

42

Accenni alle vicende che hanno interessato l’istituto del servizio pubblico in Francia si rinvengono,

ad ex., in F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit.; E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.. Quest’ultima,

in particolare scrive: “in Francia l’ampliamento delle funzioni dello Stato determinò l’affiancarsi

prima e il sostituirsi poi della nozione di service public a quella di piussance publique nel definire

l’ambito di applicazione del diritto pubblico e della giurisdizione amministrativa; sino a configurare

quale nuovo fondamento e nuovo fine dello Stato e della sua autorità, il rendere servizi ai cittadini”. Si

trattava, dunque, di una definizione amplissima alla quale – ricorda l’A. – aderirono anche autorevoli

studiosi italiani, quali Stati Romano e Federico Cammeo. “Tuttavia mancando [in Italia] una

giurisprudenza come quella francese, o una normativa idonee a dare un qualsivoglia rilievo giuridico

ad una simile nozione, essa finiva per esaurire la sua validità sul piano della teoria dello Stato e

dell’individuazione di un nuovo fondamento della pubblicità e del potere pubblico. (…) Per tali

ragioni la nostra maggioritaria dottrina è giunta per altre vie (…) ad elaborare la nozione giuridica di

servizio pubblico della quale si avvertì, contrariamente a quanto avvenuto in Francia, l’estraneità

rispetto alla naturale attività pubblica”.

Ex multis, per un esame dell’attuale assetto del servizio pubblico in Francia cfr. H. WOLLMANN – G.

MARCOU, The provision of public services in Europe. Between State, Local Government and Market,

Cheltenham – Northampton, 2010. 43

In questi termini E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., la quale richiama G. ZANOBINI, L’esercizio

privato delle funzioni pubbliche, in V.E. ORLANDO, Trattato di diritto amministrativo, vol. II., Società

Editrice Libraria, Milano, 1920. L’A., inoltre, prosegue osservando: “sembrava d’altro canto

confortare tali soluzioni il modo allora comune d’intendere i fenomeni giuridici pubblici, secondo il

quale poteva ritenersi fattore determinante della pubblicità soltanto il collegamento con lo Stato,

manifestato e concretizzato nell’appartenenza del servizio alla sfera soggettiva dell’amministrazione”.

Per una ricostruzione del modo in cui veniva inteso al tempo il concetto di Stato cfr. V. E. ORLANDO,

Principi del diritto amministrativo, cit.; O. RANELLETTI, Diritto pubblico e privato nell’ordinamento

giuridico italiano, in Riv. it. dir. piubbl., 1946, 1, 12; ID., Il concetto di pubblico nel diritto, in Riv. it.

sc. giur., 1905.

Per una lettura “temperata” del nesso tra Stato e servizio pubblico cfr. E. PRESUTTI, Istituzioni di

diritto amministrativo, Messina, 1931; S. ROMANO, Il diritto pubblico italiano, Milano, 1914. 44

In tal senso cfr. E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit..

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altre attività dei soggetti pubblici, quanto dalle analoghe attività svolte da soggetti

privati”45

.

Il passo in avanti fu compiuto dal De Valles46

, il quale per primo mise in luce

“quell’elemento essenziale della nozione, di carattere oggettivo, che non verrà mai

più negato: il consistere in prestazioni erogate a favore del pubblico”47

. Senza

rinnegare il profilo dell’inerenza allo Stato, infatti, l’illustre autore chiarì che “il

servizio pubblico [si risolve nel] servizio per il pubblico”48

. Non a caso, allora, la

dottrina ha evidenziato come due siano stati i cardini della teoria del De Valles, vale

a dire “l’imputabilità diretta o indiretta, dell’attività allo Stato o ad un ente pubblico e

la destinazione dell’attività a favore degli amministrati”49

.

Questa, dunque - in sintesi - la prospettiva originaria. Soggettiva “per l’attenzione

prestata al soggetto pubblico cui imputare l’attività espressione del servizio

medesimo e nominalistica in virtù di quello specifico atto necessario a dichiarare

come tale il servizio pubblico”50

, vale a dire l’atto legislativo o amministrativo. La

stessa, tuttavia, non ha mancato di essere posta in discussione e, anzi, è possibile

affermare come di qui altri autori abbiano successivamente preso le mosse

nell’intento di affinare la nozione di servizio pubblico e di meglio puntualizzarne il

proprium.

In particolare, poiché secondo taluno la teoria elaborata dal De Valles finiva per

focalizzarsi “sul fatto che il servizio deve essere prestato al cittadino uti singuli”51

,

uno dei primi aspetti sui quali la dottrina ha concentrato la propria attenzione “è stato

il concetto di pubblico, trasposto dal soggetto alla collettività che di quel servizio

45

Così E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit. .

46 Il riferimento è ad A. DE VALLES, I servizi pubblici, cit..

47 In questi termini E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., la quale precisa come “prima di tale riflessione

[ossia quella compiuta dal De Valles] non si rinviene alcun chiarimento del concetto di servizio

pubblico idoneo a distinguerlo dal generico perseguimento di interessi pubblici istituzionalmente

affidati ad un soggetto pubblico”. Diversamente, secondo la ricostruzione operata dal De Valles si

chiarisce che il servizio pubblico consiste in “un’attività qualificata dalla causa – intesa come scopo

diretto o primario – di soddisfare l’interesse privato che lo Stato ha elevato ad interesse pubblico per

modo che con l’attuazione di quello si attua questo. Un’attività, in altri termini, non libera ma

vincolata nel fine di provvedere all’interesse collettivo che il servizio è inteso a soddisfare”. 48

A. DE VALLES, I servizi pubblici, cit.. Successivamente, in senso conforme cfr. F. BENVENUTI,

Appunti di diritto amministrativo, Cedam, Padova 1987; M. S. GIANNINI, Lezioni di diritto

amministrativo, Roma 1960; E. PRESUTTI, Istituzioni di diritto amministrativo italiano, II ed., Roma,

1917. 49

Così F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit., dove si legge che, di conseguenza, il servizio

pubblico veniva descritto come “un’attività imprenditoriale imputabile, direttamente o indirettamente

allo Stato, volta a fornire prestazioni ai singoli cittadini”. 50

In questi termini F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit.. 51

Così F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit..

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fruisca, uti singuli o uti universi, a seconda della tipologia del servizio, delle

modalità e delle condizioni di utilizzo”52

. Nasceva così la teoria di Alessi delle c.d.

prestazioni rese ai privati53

, la cui peculiarità sta proprio nell’accento posto sul

rapporto che lega tra di loro il soggetto erogatore del servizio e l’utente del

medesimo54

.

E, ancora, alcune critiche si appuntarono anche sul concetto di “prestazione”. Si

disse, infatti, che se esso da un lato rappresentava il tratto peculiare della

ricostruzione del De Valles, al contempo lo stesso ne costituiva “anche il punto

debole, almeno come elemento per costruire giuridicamente l’istituto del pubblico

servizio. Una volta stabilito, dal punto di vista soggettivo, che titolare del servizio

pubblico in senso proprio può essere soltanto lo Stato o un privato concessionario,

l’aspetto organizzativo perde rilievo, tanto più che non presenta dati tipizzabili al di

fuori della concessione o della gestione diretta”55

.

Sempre in senso critico, inoltre, si mise in evidenza il fatto che di fronte “al

moltiplicarsi dei casi di interessamento dello Stato ad attività e fini ad esso prima

estranei”56

il principio nominalistico rischiava di non essere risolutivo, poiché offriva

un criterio identificativo del servizio pubblico valido solamente ex post. “Mancava,

in sintesi, una soluzione che consentisse di descrivere ex ante la categoria

riassumendo le caratteristiche necessarie per ascrivere una specifica attività nel

novero dei servizi pubblici”57

. E ciò proprio in un momento in cui si osservava “che

determinate attività, aventi caratteristiche materiali perfettamente simili ai servizi

pubblici imputabili alla pubblica amministrazione, erano poste in essere da privati e

sottoposte ad una disciplina pubblicistica non basata su di un provvedimento

52

In questi termini F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit.. 53

R. ALESSI, Le prestazioni rese ai privati, cit.. 54

Sul punto cfr. F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit.; nonché P. CIRIELLO, (voce) Servizio

pubblico, cit., il quale riferendosi all’opera di Alessi scrive: “avendo [egli] individuato nella

prestazione amministrativa l’oggetto del pubblico servizio, finì con lo spostare la propria attenzione

sull’analisi del rapporto giuridico che si instaura tra il destinatario della prestazione e il titolare del

servizio medesimo: rapporto disegnato, quanto meno nel suo nucleo essenziale, sulla falsariga del

rapporto obbligatorio di tipo privatistico”. 55

In questi termini, F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit.. 56

Così M. NIGRO, L’edilizia economica popolare come servizio pubblico, cit.. 57

F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit.. Qui si legge, inoltre, che “la sola natura del

soggetto (…) non sembrava poter essere l’unico elemento discriminante fra il servizio pubblico e

un’analoga attività svolta dal soggetto privato, per questa via, ogni attività economica affidata alla p.a.

avrebbe potuto potenzialmente essere qualificata come servizio pubblico, mentre più complessa

sarebbe stata la classificazione di attività svolte da privati e ben riconducibili, al di là del dato

soggettivo, nella categoria allo studio”.

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107

dell’Amministrazione pubblica”58

e per dette attività si coniava la definizione di

“servizi pubblici impropri”59

. La progressiva diffusione di tali servizi, unitamente

agli altri sopra citati fattori, ha condotto, quindi, parte della dottrina60

a ricercare

“nuove modalità attraverso cui l’ordinamento configura quell’assunzione pubblica

del servizio che è ritenuta denominatore comune di tutti i servizi pubblici”61

.

I vari tentativi di affinare la teoria soggettiva, superando l’impostazione prettamente

nominalistica e rendendola in certa misura più duttile, specie per ciò che concerne il

profilo di imputazione del servizio pubblico all’amministrazione, hanno tuttavia fatto

sì che la dottrina finisse per dilatare la prospettiva iniziale tanto da preparare il

terreno per il suo stesso superamento62

. Questo processo, inoltre, fu certamente

favorito dall’avvento della Costituzione italiana la quale, secondo attenta dottrina,

recava in sé i germi per la costruzione di una teoria oggettiva dei servizi pubblici63

.

Una teoria cioè che, essenzialmente, ha spostato il fuoco dal profilo dell’imputazione

del servizio a quello della sua disciplina e della sua destinazione a fini sociali,

58

Così A. POLICE, Spigolature, cit.. 59

In tal senso A. DE VALLES, I servizi pubblici, cit.. 60

In particolare, cfr. M. S. GIANNINI, Osservazioni sulla disciplina della funzione creditizia, in Scritti

in onore di S. Romano, Padova, 1939, dove l’A. ha sostenuto che l’attività bancaria fosse qualificabile

come servizio pubblico in considerazione della riferibilità della funzione e dell’attività creditizia alla

Stato. Inoltre, cfr. G. BERTI, La pubblica amministrazione come organizzazione, Cedam, Padova,

1968; M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966;

ID., L’edilizia popolare come servizio pubblico, cit.. 61

In questi termini E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., la quale prosegue precisando che “la

prospettiva sistematica di fondo, da cui tali elaborazioni muovono, è caratterizzata dalla prioritaria

importanza riconosciuta, nella lettura dei fenomeni giuridici pubblici, al momento organizzativo e alla

funzione di indirizzo e garanzia dell’attività di amministrazione sostanziale”. Per poi concludere nel

senso che “a prescindere dalla con divisibilità delle conclusioni raggiunte dalla dottrina in esame con

riguardo alle ipotesi specificamente considerate, ad essa deve riconoscersi il particolare merito di aver

ricercato la sostanza del fenomeno del servizio pubblico prescindendo da schemi formali

pregiudizialmente assunti come modelli di riferimento universalmente validi e di aver offerto un

interessante suggerimento sul piano del metodo: quello di procedere alla verifica se quando il diritto

pubblico attragga certa attività e certi soggetti nella sua orbita … non si esprima una forma nuova di

assunzione pubblica che si affianchi alle forma tradizionali, consentendo di individuare i tratti

essenziali del servizio pubblico”. 62

In questo senso cfr. R. CAVALLO PERIN, Comuni e province nella gestione dei servizi pubblici,

Jovene, Napoli , 1993 ed E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.; nonché A. POLICE, Spigolature, cit., il

quale osserva come fu “il progressivo articolarsi e diffondersi [dei c.d. servizi pubblici impropri] ad

aver spinto la dottrina a fornire una precisazione della nozione di servizio pubblico in senso

oggettivo”. 63

Sottolineano questo profilo, tra gli altri, G. CAIA, I pubblici servizi, cit. e A. POLICE, Spigolature,

cit., il quale ricorda come nell’opinione di Pototsching “la configurazione nell’art. 43 Cost. dei servizi

pubblici essenziali quali fattispecie di legittima assunzione autoritativa di attività produttive, porta a

constatare con evidenza che per aversi un pubblico servizio non è necessaria la sua gestione da parte

dello Stato o di altro ente pubblico (come sosteneva invece la richiamata teoria soggettiva)”.

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arrivando ad affermare che “la qualificazione del servizio pubblico attiene ad una

particolare destinazione dell’attività economia”64

.

In particolare, l’accento fu posto sugli artt. 43 e 41, comma 3, Cost.65

, dalla cui

lettura congiunta è sembrato possibile evincere che “pubblici servizi non sono solo le

attività attratte alla soggettività dello Stato ex art. 43 Cost. (e gestite dallo stesso o

affidate a propri concessionari) ma anche quelle indirizzate a fini sociali attraverso

programmi o controlli, secondo il disposto dell’art. 41, comma 3, Cost.”66

. In altri

64

Così U. POTOTSCHNIG, I pubblici servizi, Milano, 1964, in particolare cfr. pag. 59. Per un’analisi del

pensiero dell’illustre autore si veda anche la rilettura in chiave attuale offerta da D. SORACE, La

riflessione giuridica di Umberto Pototching: “I servizi pubblici”, in Dir. pubbl., 2002, 2, 583. Qui si

legge, innanzitutto: “l’A. segnala la singolare scarsa attenzione prestata al tema nel momento in cui

egli scrive e nota come vi sia una contraddizione soltanto apparente tra questa disattenzione e lo

sviluppo dei compiti di benessere dello Stato, dal momento che sono state proprio la moltiplicazione

di queste attività non tradizionali dello Stato e la diversa disciplina giuridica di attività private

socialmente rilevanti a metter in crisi la concezione dello Stato e quindi a rendere inapplicabili e

infecondi istituti e principi modellati in armonia con quella concezione. D’altra parte, secondo l’A., la

nozione di servizio pubblico che poteva dedursi dalla dottrina era da considerarsi insufficiente perché

oscillante tra una definizione diretta a trovare la distinzione tra quella nozione e quella di pubblica

funzione ed una qualificazione generica e imprecisa, di sapore nominalistico, idonea soltanto a

distinguere servizi pubblici da servizi privati o meglio da servizi non pubblici”. 65

Sul punto, cfr. D. SORACE, La riflessione giuridica, cit., il quale ricorda: “è dunque

l’insoddisfazione, ad un tempo, per l’approccio nominalistico e per la teoria del rapporto di

prestazione che spinge Pototsching a tentate di formulare una nuova teoria, a base della quale egli

sceglie di porre la Costituzione, individuandovi il punto di partenza nell’art. 43. (…) Dal momento

che esso legittima il trasferimento allo Stato o a enti pubblici di imprese che si riferiscono a servizi

pubblici (essenziali), ciò significa che certe attività sono da considerare servizi pubblici anche se non

appartengono allo Stato o ad enti pubblici. (…) Così stando le cose il principio nominalistico non è

più sostenibile”. E, allora, alla domanda “a quale diverso criterio occorre rifarsi? La risposta (…)

viene reperita da Pototschnig ancora nella Costituzione, e precisamente nel co. 3 dell’art. 41”.

Più di recente, si veda la lettura dei due articoli della Carta costituzionale offerta da F. TRIMARCHI

BANFI, Organizzazione economica ad iniziativa privata e organizzazione economica ad iniziativa

riservata negli articoli 41 e 43 della Costituzione, in Pol. Dir., 1992, 1, 3; nonché quanto della stessa

A. affermato con riguardo all’art. 43 Cost. in Lezioni, cit.., dove si legge che “quando l’art. 43

consente che la legge riservi ad alcuni soggetti le attività relative a servizi pubblici essenziali,

l’aggettivo pubblici non qualifica i servizi in relazione ad una preesistente spettanza a soggetti

pubblici. La pubblicità, intesa come appartenenza a soggetti pubblici, non è un dato che preesiste alla

decisione di riservare i servizi ai soggetti elencati nell’art. 43; la pubblicità in senso soggettivo si

realizzerà per effetto della legge che riserva l’attività a soggetti pubblici. Nell’art. 43 la pubblicità è,

dunque, una qualità che precede il regime giuridico dell’attività: i servizi pubblici, nella norma in

esame, sono servizi per il pubblico”. E ancora: “Affinché la riserva sia consentita, occorre, secondo

l’art. 43, che i servizi pubblici siano essenziali. La qualità di servizio essenziale rimanda ad un

giudizio che riguarda il tipo di bisogno che deve essere soddisfatto, nella sua relazione con il livello di

soddisfacimento offerto dal mercato. (….) l’espressione servizi pubblici essenziali è [dunque]

impiegata, nell’art. 43 Cost., in un’accezione pre-giuridica, che rinvia ai bisogni ai quali i poteri

pubblici ritengono opportuno provvedere.” Infine, si evidenzia che è nel momento in cui la legge ne

dispone la riserva che “le attività divengono servizi pubblici in senso soggettivo, cioè pertinenti al

soggetto pubblico che ne è riservatario. Si può concludere allora che, ai sensi dell’art. 43 Cost., sono

servizi pubblici quelli che i poteri pubblici possono riservare alla propria responsabilità”. 66

In questi termini E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.. Ex multis, cfr. G. CAIA, I servizi pubblici, cit.,

il quale evidenzia come uno dei profili peculiari della teoria oggettiva sia rappresentato dall’aver

enfatizzato la circostanza “che la Costituzione parli, come possibile oggetto di riserva originaria o di

trasferimento a fini di utilità generale, di imprese o categorie di imprese, che si riferiscono a servizi

pubblici essenziali, richiamo che indurrebbe ad ammettere l’esistenza anche di servizi pubblici

essenziali esplicati da imprese non (ancora) riservate e non trasferite in mano pubblica, potendo

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termini, finiva per perdere rilievo la fisionomia del soggetto che eroga il servizio,

mentre acquistava importanza la finalità cui il servizio è preordinato atteso che

“come i privati, anche lo Stato viene a perseguire in questo caso fini che lo

sopravanzano, in quanto imputabili all’organizzazione politica, economica e sociale

del Paese”67

.

Ciò non di meno, il fatto che - secondo la ricostruzione operata da Pototsching -

rientrasse nella nozione di servizio pubblico ogni “attività economica di cui la legge

abbia determinato programmi e controlli per indirizzarla e coordinarla a fini

sociali”68

, fece sì che i contorni dell’istituto si dilatassero tanto da indurre taluno a

lamentare la perdita di specificità della relativa nozione69

. In particolare, ciò che

appariva alquanto sfumato era il confine tra servizio pubblico e mera attività

imprenditoriale ex art. 41 Cost. ogni qual volta non veniva sufficientemente

valorizzata l’esistenza di “uno specifico dovere giuridico di fornire determinate

prestazioni alla collettività secondo standard determinati”70

.

Per questa via, dunque, si giunse a recuperare il principio fondante della teoria

soggettiva e a ribadire la necessaria inclusione dei fini di utilità sociale nei compiti

gravanti istituzionalmente sulla pubblica amministrazione. Solo gli enti esponenziali

di collettività territoriali, infatti, - si disse – possono “costituire il centro

d’imputazione subiettivo del servizio pubblico, perché solo ad essi compete di

assumere le scelte relative alla cura degli interessi della comunità territoriale, rispetto

ai quali un ruolo fondamentale assume la decisione circa quali servizi assumere e

inoltre tali imprese continuare ad essere gestite legittimamente da soggetti privati. In sostanza, la tesi

dei servizi pubblici in senso oggettivo si basa sul dato che, ai sensi dell’art. 43 Cost., essi sarebbero

tali anche prima della riserva e trasferimento dell’impresa” 67

Così U. POTOTSCHING, I pubblici servizi, cit.. Inoltre, cfr. G. CAIA, I servizi pubblici, cit., il quale

osserva che “questa nozione si definisce, appunto, oggettiva perché in essa perde valore la natura della

figura soggettiva che espleta o che predispone il servizio”. E, ancora, cfr. E. SCOTTI, Il pubblico

servizio, cit., dove si legge che “l’imputazione del servizio allo Stato-amministrazione, come fattore

della sua pubblicità, cede dunque il campo all’imputazione dello stesso alla società civile

(l’organizzazione politica, economica e sociale del Paese) e ai suoi fini, quale risvolto della presenza

di una disciplina funzionalizzante idonea a superare il principio di libertà d’iniziativa privata”. 68

U. POTOTSCHING, I pubblici servizi, cit.. 69

In questo senso cfr., innanzitutto, E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., nonché prima ancora G. CAIA,

La disciplina dei servizi pubblici, cit.; M. S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano,

1981; F. MERUSI, Servizi pubblici instabili, Bologna, 1990; M. NIGRO, L’edilizia popolare ed

economica, cit.. 70

In tal senso E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.; nonché A. POLICE, Spigolature, cit., dove si legge:

“seguendo l’impostazione della teoria c.d. oggettiva, però, si perveniva al risultato di ricondurre alla

nozione di servizio pubblico una serie di situazioni non omogenee e (…) scarsa era l’utilità di una

categoria di servizi pubblici tanto ampia da comprendere accanto ad attività economiche pubbliche,

assunte ed organizzate da un soggetto pubblico direttamente, anche ogni forma di possibile attività

economica privata, sol che ricadesse in uno dei tanti piani o programmi di settore della legislazione”.

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secondo quali modalità gestirli, in vista del raggiungimento del miglior grado di

benessere collettivo”71

.

In altri termini, il bisogno di definire compiutamente l’istituto in esame e di meglio

tracciarne il confine “rispetto alle attività di impresa dei pubblici poteri, distinte

dall’esercizio di un servizio pubblico, e all’iniziativa economica dei soggetti privati”

fece sì che i successivi studi tornassero a individuare “il nucleo essenziale

dell’istituto nella autoritativa determinazione di quelle scelte di gestione (…)

necessarie ad assicurare alla collettività il conseguimento degli specifici benefici

sottesi alla stessa istituzione del servizio pubblico”72

.

Può infatti osservarsi come, muovendo da questa idea condivisa, nei successivi

contributi della dottrina siano stati rivalutati tanto il profilo organizzativo73

e

normativo74

quanto – soprattutto - l’aspetto della necessaria titolarità pubblica del

servizio, atteso che, essendo quest’ultimo finalisticamente orientato a soddisfare un

bisogno della collettività, “l’attribuzione ai privati addirittura della titolarità del

servizio non sarebbe [sembrava essere] neppure immaginabile”75

. Detta prerogativa,

71

Così E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.. In senso analogo cfr. R. CAVALLO PERIN, Comuni e

province nella gestione dei servizi pubblici, cit.; I. MARINO, Servizi pubblici e sistema autonomistico,

Giuffrè, Milano, 1986; A. ROMANO, La concessione di pubblico servizio, cit.. 72

In questi termini E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., la quale prosegue affermando: “è in tal modo

emerso con chiarezza il ruolo fondamentale dei principi di doverosità e di funzionalizzazione delle

attività agli interessi dei destinatari al fine di caratterizzare in senso obiettivo e sostanziale il concetto

di servizio e di distinguerlo, (…), dalle attività imprenditoriali espressive della libera iniziativa

economica, pubblica e privata”. E ancora: “non si nega oramai più l’importanza dell’aspetto

normativo, né di quello organizzativo, né del riferimento soggettivo all’amministrazione giacché si

riconosce come tutti questi aspetti concorrano in misura coessenziale alla definizione dell’istituto:

secondo le diverse impostazioni sistematiche l’accento viene posto ora sull’uno ora sull’altro profilo,

onde individuare il fattore originario e determinante della pubblicità dell’istituto e soprattutto il suo

legame - e il tipo di legame – con l’amministrazione”. Inoltre, in senso analogo cfr. S. CATTANEO,

(voce) Servizi pubblici, in Enc. dir., vol. XLII; nonché A. POLICE, Spigolature, cit., dove si legge: “la

più recente dottrina e giurisprudenza, pertanto, hanno affermato che il servizio pubblico può aversi

solo in rapporto ad attività che il soggetto pubblico, attraverso l’uso dei poteri di cui dispone,

legislativi ed amministrativi, fa e considera proprie, nell’ambito dei compiti istituzionali; attività non

implicanti l’esercizio di poteri autoritativi, ma quello di altri poteri, tra cui quelli di diritto privato”. 73

Al riguardo cfr., innanzitutto, G. CAIA, La disciplina dei servizi pubblici,cit. secondo il quale il

servizio si caratterizza quale “modello di organizzazione tipizzato concernente la prestazione di

utilità”; nonché G. BERTI, La pubblica amministrazione come organizzazione, cit; G. GUARINO,

Pubblico ufficiali e incaricato di pubblico servizio,in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, 1, 11. 74

Si veda, ad ex., C. CAIANIELLO, (voce) Concessioni. Diritto amministrativo, in Noviss. Dig. It.,

Torino 1981. 75

Così A. ROMANO, La concessione di un pubblico servizio, cit., per il quale la titolarità è indice della

“soggettivizzazione in un ente pubblico dell’interesse collettivo che il servizio deve soddisfare”; ma in

senso analogo cfr. anche R. CAVALLO PERIN, Comuni e Province nella gestione di servizi pubblici,

cit.. Con precipuo riferimento al profilo della titolarità, inoltre, si segnala quanto osservato da E.

SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.: “rispetto alle precedenti ricostruzioni ciò che muta è in primo luogo

l’impostazione: la titolarità viene ora considerata non più il fattore che determina la pubblicità

obiettiva dell’istituto, ma, secondo un processo logico inverso e più vicino alla teoria francese del

service public, il suo necessario risvolto soggettivo”.

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tuttavia, si spiega – e qui sta il punto di rottura con la primigenia formulazione della

teoria soggettiva – non nell’ottica del potere, da intendersi come potere di scegliere

se erogare un determinato servizio, bensì in ragione del fatto che “titolarità del

servizio significa pertinenza istituzionale dello stesso ad una determinata

amministrazione pubblica”76

. In altri termini, se è vero che un certo servizio

(pubblico) può essere gestito anche da soggetti privati, è altrettanto vero che il

profilo della titolarità “non può che avere un riferimento soggettivo esclusivamente

pubblico” e, dunque, affinché si possa parlare di “servizio (soggettivamente)

pubblico (…) ciò che rileva è che l’attività relativa si inserisca istituzionalmente nel

novero delle misure attuative dei compiti della pubblica amministrazione”77

.

Da quanto detto, dunque, sembra possibile evincere come gli studi che negli anni

hanno interessato l’istituto de quo abbiano preso le mosse dalle due originarie scuole

di pensiero per poi riattualizzarne di volta in volta i predicati78

. In questo modo, è

giunta a maturazione l’idea secondo cui la contrapposizione tra i due modi (oggettivo

e soggettivo) di intendere il servizio pubblico “si rivela in larga parte falsa e

fuorviante: poiché l’uno implica l’altro”79

. E’ stato evidenziato, infatti, come

entrambi i profili concorrano alla definizione dell’istituto in esame, poiché “il criterio

oggettivo è utile (…) per operare una compiuta descrizione dei tratti salienti del

carattere pubblico del servizio. (…) [E] Il criterio soggettivo è invece necessario per

76

G. CAIA, L’organizzazione dei servizi pubblici, cit.; ma cfr. anche A. ROMANO, La concessione di

un pubblico servizio, cit., dove si parla de la “soggettivizzazione in un ente pubblico dell’interesse

collettivo che il servizio deve soddisfare”. 77

Così A. POLICE, Spigolature, cit.. Tale aspetto, inoltre, è ampiamente affrontato anche in F. DE

LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, cit.. 78

Oltre al “recupero” della tesi soggettiva poc’anzi citato, si v. anche quanto sostenuto da D. SORACE,

La riflessione giuridica, cit.. L’A., infatti, scrive: “orbene proprio dal lavoro di Pototsching si possono

oggi attingere alcune idee di fondo per riprendere a ragionare, in termini giuridici, sul tema dei servizi

pubblici (…). Non voglio dire con questo che il libro di Pototsching sia nella sua interezza attuale e

condivisibile, ma credo si possa dire che alcuni aspetti per i quali è stato criticato possono essere oggi

valutati in tutt’altro modo e che non soltanto l’idea di fondo (…) ma anche una gran parte delle sue

attente e approfondite elaborazioni sono ancora oggi di grande attualità e, soprattutto, forniscono una

preziosa indicazione di metodo per ricerche che proprio la situazione attuale rende nuovamente

impellenti”. In particolare, Sorace ritiene che – pur con qualche accorgimento interpretativo - il

contributo di Pototsching si sposi bene con l’intervento pubblico nell’economia così come concepito a

livello europeo. Si legge, infatti, che: “(…) anche lo svolgimento di un’attività che costituisce servizio

pubblico può essere esercizio della libertà d’iniziativa economica privata. L’intervento dello Stato

(…) è un intervento ordinamentale e non organizzativo (…). In tal modo la concezione oggettiva dei

servizi pubblici che viene proposta appare perfettamente compatibile con la disciplina comunitaria

della materia e ben può essere posta alla base, con qualche lieve attenuazione del suo oggettivismo

puro, dell’aggiornamento dei modelli concettuali sei servizi pubblici economici”. 79

In questo senso A. ROMANO, Profili della concessione di pubblici servizi, cit.. Analogamente,

inoltre, cfr. G. CAIA, I servizi pubblici, cit.; F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione

amministrativa, cit. e F. G. SCOCA, La concessione, cit..

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distinguere tali servizi dalle comuni attività economiche esercitate

dall’Amministrazione pubblica”80

. Mentre nessuno dei due di per sé è effettivamente

“in grado di inquadrare il fenomeno nella sua complessità”81

.

Il raggiungimento di questa nuova consapevolezza, inoltre, secondo alcuni può

essere letto come il preludio di uno sviluppo ulteriore, vale a dire la separazione

concettuale tra la titolarità del servizio e il suo profilo gestorio82

. Sul finire dello

scorso secolo, infatti, attenta dottrina ha precisato come quest’ultimo attenga

elusivamente “all’erogazione del servizio e all’adozione delle concrete scelte

operative e funzionali che a questa più immediatamente ineriscono, che sono più

direttamente condizionate da fattori di carattere economico”83

. In altri termini, si

evidenziava il nesso stringente che lega la gestione dei pubblici servizi alla materia

economica e, dunque, in qualche misura si anticipava quello che si è rivelato essere il

leit motif della “nuova costituzione economica”84

. Vale a dire il fatto che, a partire

dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, molte delle scelte di tipo gestorio hanno

finito per essere pervasivamente governate da criteri di matrice economica introdotti

soprattutto dalle istituzioni europee al fine ultimo di costruire un mercato unico e

80

Così A. POLICE, Spigolature, cit., il quale dal primo punto di vista (ossia sotto il profilo oggettivo)

evidenzia che “le prestazioni nella quali i servizi pubblici da concedere si risolvono, devono essere

offerte rivolte al pubblico (e non all’Amministrazione). [Poiché] l’aggettivo pubblico attribuito al

sostantivo servizio acquista qui il significato di a disposizione del pubblico. [Ed inoltre] ulteriore tratto

oggettivo è che il servizio pubblico deve vivere sul mercato”. Per ciò che concerne il profilo

soggettivo, invece, si sottolinea che “il fattore che differenzia il servizio pubblico da una attività anche

oggettivamente analoga è la valutazione effettuata dalla Pubblica Amministrazione sulla doverosità

del porre tale servizio a disposizione dei cittadini”. 81

In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit., la quale prosegue osservando che “la

più valida soluzione al problema definitorio è senz’altro derivata dall’aver superato l’antitesi tra

nozione oggettiva e soggettiva; e dall’aver rappresentato il servizio quale necessaria intersezione di

una oggettiva doverosità e di un necessario risvolto soggettivo pubblico: la titolarità pubblica del

servizio e, cioè, il suo legame con un soggetto pubblico garante nei confronti dell’utenza della

prestazione dei servizi”. 82

E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., secondo cui “ciò che consente di operare tale scissione è l’aver

ricondotto in via essenziale alla titolarità non tanto il potere di esercitare l’attività, quanto piuttosto la

spettanza dell’interesse collettivo cui il servizio è preordinato e il compito di garantirne la

soddisfazione”. Più di recente, ID., (voce) Servizi pubblici locali, cit., dove si legge “la titolarità del

servizio costituisce dunque una funzione pubblica, latu sensu politica, che implica interpretare i

bisogni della collettività e definire quali di essi siano meritevoli di soddisfazione e come”. 83

Così in A. ROMANO, La concessione di un pubblico servizio, cit., il quale scrive: “l’ente pubblico

titolare del servizio non ne può essere anche gestore, almeno finché operi in tale sua qualità”. In senso

analogo cfr. anche D. SORACE, Pubblico e privato nella gestione dei servizi pubblici locali mediante

società per azioni, in Riv. it. dir. pubb. comunit., 1997, 1, 51 dove si rinviene la distinzione tra

provider (fornitore) e producer (produttore) di servizi pubblici; nonché E. SCOTTI, Il pubblico

servizio, cit., dove si legge: “in una complessiva considerazione dell’istituto devono dunque ricondursi

l’attività di gestione (e la sua titolarità) al momento dell’esercizio del servizio, e la titolarità del

servizio al momento della direzione e del controllo”. 84

L’espressione è presa in prestito da S. CASSESE, La nuova costituzione economica, cit..

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favorire lo sviluppo della piena concorrenza85

. Il che con riguardo ad alcuni dei

servizi “maggiori”, qual è ad esempio quello dei rifiuti, ha portato allo “stemperarsi

del carattere locale, in un quadro più ampio di competenze e relative

responsabilità”86

.

In proposito si ricorda, ad esempio, come agli inizi degli anni Ottanta in Italia venne

adottato il d.P.R. 10 settembre 1982 n. 915 al fine di dare attuazione ad una serie di

direttive che alcuni anni prima la (allora) Comunità economica europea aveva

emanato in materia di rifiuti87

. Queste prime direttive, adottate quando ancora le

istituzioni non avevano una specifica competenza di in materia di ambiente88

, erano

preordinate al raggiungimento degli originari obiettivi della Comunità, vale a dire la

creazione di un mercato unico e la garanzia delle libertà fondamentali a ciò

funzionali. Non a caso, infatti, la prima (e più importante) di queste direttive, la

75/442/Cee, esortava gli Stati membri al “ravvicinamento delle legislazioni” in

materia di gestione dei rifiuti, al fine di scongiurare il prodursi di situazioni di

“disuguaglianza nelle condizioni di concorrenza”, suscettibili di incidere

85

Sul punto cfr. amplius il p. seguente. Per il momento sia sufficiente rinviare alle considerazioni

espresse da F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, cit. e G. MONTEDORO,

Mercato e potere amministrativo, Ed. Sc., Napoli, 2010, nonché all’analisi svolta da M. CLARICH,

Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza, cit., dove è possibile leggere: “Il diritto europeo

ha rappresentato un fattore di cambiamento epocale anche nel settore dei servizi pubblici. (…) La

Costituzione italiana del 1948 ha, com’è noto, una matrice composita (…). I limiti all’espansione della

presenza pubblica diretta e indiretta nell’economia sono stati, se non inesistenti, comunque, assai

ridotti”. Basti pensare che “l’art. 41 della costituzione, soprattutto il comma 3, ha rappresentato la

base giuridica idonea a legittimare, con l’avallo della Corte costituzionale, interventi dirigistici” e che

“lo stesso art. 43 (…) non ha posto alcun limite significativo al nostro legislatore”. Dunque, sembra

possibile affermare che “la Costituzione italiana ha eretto difese assai deboli all’intervento pubblico

nell’economia. I servizi pubblici nazionali sono stati per lo più esercitati in regime di monopolio

legale ex art. 43 della Costituzione. Inoltre, sotto il profilo organizzativo, l’attività veniva svolta talora

direttamente dallo Stato o dagli enti locali (gestioni interne o in economia), talora attraverso aziende-

organo (statali e municipalizzate), talora da enti pubblici separati dallo Stato ma assoggettati a poteri

di indirizzo e controllo diretto (enti pubblici economici), talora da soggetti privati in regime di

concessione amministrativa”. Da ciò, quindi, secondo l’A. è facile intuire perché “la costituzione

economica europea [abbia] richiesto una revisione del nostro ordinamento” molto ampia. 86

In questi termini, E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit. la quale osserva: “in relazione ai

servizi maggiori o grandi servizi, tendenzialmente identificabili con i servizi a rete (energia, acqua,

rifiuti, trasporti), si assiste, ormai da tempo, all’affermazione di baricentri centralistici, espressi da

specifiche discipline di settore per lo più di matrice europea e da un’intensa applicazione delle regole

di concorrenza (…). Mantengono invece carattere pienamente locale i servizi locali minori e quelli

sociali, che presentano limitate incidenze sul mercato interno (…); ancorché nell’ultimo decennio si

sia tentato di omologarli ai grandi servizi attraverso una disciplina generale che ha fatto una rigorosa e

indifferenziata applicazione dei principi di concorrenza a tutti i servizi locali (…)”. 87

Come evidenziato nel capitolo I, si trattava delle direttive adottate dalle istituzioni europee a partire

dagli anni ’70 del Novecento. Su tutte cfr. la direttiva 75/442/Cee. 88

In ordine all’evoluzione delle competenze dell’Unione europea in materia di ambiente cfr. Capitolo

I, retro.

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114

negativamente sul funzionamento del mercato comune”89

. Per l’effetto, tra i vari

aspetti affrontati dal decreto con cui l’Italia ha inteso recepire dette direttive vi era

anche quello del riparto di competenze tra i diversi livelli di Governo. In particolare,

si riconoscevano allo Stato funzioni generali di carattere amministrativo (art. 4), alle

Regioni la competenza in ordine alla c.d. politica di piano per la gestione dei rifiuti

(art. 6), mentre agli enti locali venivano attribuiti compiti di tipo eminentemente

gestorio (artt. 7 – 8)90

.

Iniziava, dunque, a farsi strada l’idea – in gran parte condizionata da una lettura

fuorviata della normativa europea - che, al fine di garantire l’armonizzazione tra le

legislazioni dei diversi Stati membri, il baricentro decisionale dovesse spostarsi dal

livello di governo locale a quello statale, ossia lo stesso livello che di norma assume

le scelte di politica economica che servono a “segnare la rotta” del sistema Paese. E

ciò nonostante l’Europa non avesse affatto espresso la propria “ostilità” nei confronti

delle autonomie locali.

III.2.2 LA SECONDA STAGIONE. IL SERVIZIO PUBBLICO NELLA DIMENSIONE

EUROPEA

L’inizio della seconda stagione dei servizi pubblici può farsi idealmente coincidere

con il periodo compreso tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del

secolo scorso, quando – anche su spinta dell’allora Comunità europea91

- ha preso

89

Cfr. il primo considerando della direttiva 75/442/Cee, dove era possibile leggere testualmente

“considerando che una disparità tra le disposizioni in applicazione o in preparazione nei vari Stati

membri per lo smaltimento dei rifiuti può creare disuguaglianza nelle condizioni di concorrenza e

avere perciò un’incidenza diretta sul funzionamento del mercato comune; che è quindi necessario

procedere, in questo settore, al ravvicinamento delle legislazioni previsto dall’art. 100 del Trattato

(…)”. 90

Con particolare riguardo al ruolo delle autonomie locali nella gestione dei servizi pubblici sul finire

del secolo scorso cfr., inter alia, V. PARISIO, Europa delle autonomie locali e principio di

sussidiarietà: la “Carta europea delle autonomie locali”, in Foro amm., 1995, 9, II, 2124; A.

PIOGGIA, Servizi pubblici e autonomia locale: i limiti del diritto interno e del diritto comunitario, in

Riv. giur. quadr. pubbl. servizi, 1999, 1, 103; N. RANGONE, I servizi pubblici, Il Mulino, Bologna,

1999 91

Sul punto, per tutti, cfr. G. BUCCI, Implicazioni dei rapporti tra ordinamento giuridico italiano ed

ordinamento comunitario sul ruolo della Banca d’Italia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1998, 1, 93

(specialmente pagg. 135 e ss.); E. PICOZZA, L’incidenza del diritto comunitario (e del diritto

internazionale) sui concetti fondamentali del diritto pubblico dell’economia, in Riv. it. dir. pubbl.

comunit., 1996, 1, 239, nonché G. MONTEDORO, Mercato e potere amministrativo, cit., 27 e ss.

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avvio un processo di generale ripensamento dell’intervento pubblico

nell’economia92

.

Essenzialmente, i tratti salienti di questa nuova fase si risolvono nell’avvento delle

liberalizzazioni, benché a volte le stesse si siano rivelate più formali che

sostanziali93

; nella globalizzazione e ri-espansione della c.d. lex mercatoria, poiché

“il diritto dei mercati (…) è prodotto dalle grandi imprese, soprattutto

multinazionali”94

e, non da ultimo, nella presenza sempre più pervasiva della

92

In proposito, P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione. Dalla

specialità del soggetto alla rilevanza della funzione, Cedam, Padova, 2005, parla di un “progressivo

mutamento del rapporto tra Stato e mercato, che ha determinato un ripensamento, ancorché in via di

interpretazione adeguatrice, della c.d. Costituzione economica, ispirato ad un ampliamento della

libertà di iniziativa economica dei privati e a una conseguente riduzione delle sfere di azione riservate

ai pubblici poteri”. Scrive, infatti, F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, cit.,

che “sempre più spesso l’esercizio della pubblica funzione viene affidato a soggetti con personalità

giuridica di diritto privato, società di capitali, fondazioni o associazioni – che, in alcuni casi, derivano

dalla privatizzazione di enti pubblici e, in altri, sono invece costituiti ad hoc per la cura di interessi

generali – o, anche a persone fisiche”. E ciò – prosegue l’A. - fa si che si diffondano “a macchia

d’olio, non solo nell’ordinamento italiano, ciò che la dottrina più risalente indicava come zona grigia,

al confine tra pubblico e privato” (cfr. S. PUGLIATTI, (voce) Diritto pubblico e privato, in Enc. dir.,

XII, 1964).

Provando ad andare a fondo della questione, è possibile osservare come secondo attenta dottrina

questa nuova stagione rechi radici profonde. In M. D’ALBERTI, Poteri pubblici, mercati e

globalizzazione, Il Mulino, 2008 si legge, infatti, che “una fase di particolare interesse si è aperta dagli

anni Ottanta del Novecento. Con il declino delle soluzioni diverse dall’economia di mercato e con il

consolidarsi della globalizzazione degli scambi, è sembrata entrare in crisi la stessa idea

dell’intervento dei poteri pubblici nell’economia, ancor più che agli inizi dell’Ottocento, e si sono

prospettati grandi mutamenti nel rapporto fra istituzioni pubbliche e mercati”. C’è stato - ricorda l’A.

- chi ha parlato della fine degli interventi pubblici; chi della rinascita della lex mercatoria e chi, infine,

ha continuato a vedere spazi per l’azione pubblica nell’economia. Vi è però “un dato comune: la

percezione che si sia in presenza di una svolta fondamentale nel rapporto fra economia e pubblici

poteri”. 93

Per liberalizzazione – scrive G. CORSO, (voce) Liberalizzazione amministrativa ed economica, in S.

CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 2006 – “s’intende la possibilità di

svolgere attività economiche prima inammissibili a causa dell’esistenza di monopoli legali o di

accedere a mercati caratterizzati in precedenza da robuste barriere all’ingresso”. Il procedimento,

alquanto articolato, prevede innanzitutto “un provvedimento amministrativo che elimina il monopolio

legale e trasforma (o prevede la trasformazione de) il vecchio monopolista da ente pubblico o da

azienda pubblica in società per azioni: da qui la possibilità per le imprese private di entrare nel

relativo mercato e la possibilità per i privati di acquistare le azioni della [novella] società (…). E’ per

questo che il processo di liberalizzazione è strettamente legato al processo di privatizzazione”. Ciò

non di meno, il fatto che un settore risulti formalmente liberalizzato non implica ipso facto che lo

stesso risulti essere tale anche da un punto di vista sostanziale. E’ stato affermato (F. TRIMARCHI

BANFI, Lezioni, cit.), infatti, come “la liberalizzazione delle attività [sia] solo un passo verso la

concorrenza che non fa venir meno le ragioni della regolazione”, ossia di quelle misure volte a

correggere i fallimenti di mercati non ancora perfettamente concorrenziali.

Ex multis, sul tema cfr. P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione, cit.,

nonché F. DE LEONARDIS, Legalità, autonomie e privatizzazioni, in Dir. amm., 2000, 2, 241. 94

Così M. D’ALBERTI, Poteri pubblici, cit.. Sul punto cfr. anche F. GALGANO, Lex mercatoria, Il

Mulino, Bologna, V ed., 2010; N. IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Bari, 2006,

nonché G. DELLA CANANEA, I pubblici poteri nello spazio giuridico globale, in Riv. trim. dir. pubbl.,

2003, 1, 1, dove si legge. “da più parti si afferma che è in atto una dequotazione complessiva del ruolo

degli Stati, a fronte del pervasivo e penetrante dominio esercitato dai poteri privati sulle inferenze dei

mercati. In effetti, le più aggiornate trattazioni delle relazioni internazionali mettono in luce la

crescente importanza delle imprese multinazionali (…). In sede sociologica, si è anche rilevato che le

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Comunità, oggi Unione, europea, che ha finito per assumere la regia delle scelte di

politica economica (ma non solo) degli Stati membri, compresa l’Italia95

. Secondo

taluno, tuttavia, detti fattori non hanno “causato né l’abbandono né il declino degli

interventi pubblici” nell’economia. Al contrario, la regolazione costituisce ancora

una realtà e, mentre secondo alcuni la stessa reca “oggi un’identità completamente

nuova rispetto al passato”96

, altri evidenziano come vi sia invece “una grande

continuità storica” poiché gli strumenti regolatori tradizionali sembrano coesistere

con i nuovi, pur nel segno di importanti trasformazioni97

.

imprese multinazionali non si limitano ad avvalersi delle norme statali più favorevoli in vista dei

propri interessi, bensì concorrono a creare le regole del mercato (…). Nell’ottica più propriamente

giuridica, si è detto che l’impero della legge è eroso dalla nuova lex mercatoria, in cui il contratto (in

particolare, la categoria dei contratti uniformi, assume un ruolo fondamentale nella creazione dei

precetti destinati a regolare gli assetti di interessi”. 95

Come si legge in M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale: evoluzione normativa e

profili ricostruttivi, in Dir. pubbl., 1998, 3, 981 nella materia de qua “causa diretta o indiretta

dell’evoluzione è il diritto comunitario che ha ristretto l’area dell’esenzione dalle regole della

concorrenza dei servizi d’interesse generale pur prevista in astratto dall’art. 90 del Trattato Ce e che

sempre più spesso rompe categorie concettuali che costituiscono altrettanti dogmi della nostra

dottrina”. E, ancora lo stesso A. in uno scritto più recente (Servizi pubblici e diritto europeo della

concorrenza, cit.) osserva come in Europa “le imprese pubbliche hanno vissuto a lungo indisturbate in

una sorta di cono d’ombra della politica europea della concorrenza. Solo nell’ultimo ventennio la

Commissione ha riscoperto ed applicato con rigore le disposizioni in tema di aiuti di Stato e le regole

in tema di concorrenza ala settore dei pubblici servizi. Le direttive di liberalizzazione dei servizi

(specie quelle in materia di telecomunicazioni e di energia elettrica e gas) hanno innescato un

processo di revisione profonda degli assetti normativi nazionali. Nell’esperienza italiana,

l’impalcatura dello Stato imprenditore è venuta progressivamente meno in gran parte sotto la spinta

del diritto comunitario ed è stata sostituita con le nuove architetture, peraltro non ancora consolidate,

dello Stato regolatore (…).

In senso sostanzialmente analogo cfr., inter alia, R. CAVALLO PERIN, I principi come disciplina

giuridica del pubblico servizio tra ordinamento interno ed ordinamento europeo, in Dir. amm., 2000,

1, 41; F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, cit; G. NAPOLITANO, I servizi

pubblici, cit.; E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit. ed ID., Servizi pubblici locali e

ordinamento comunitario, cit.. 96

Cfr. M. D’ALBERTI, Poteri pubblici, cit. e i riferimenti bibliografici ivi citati. L’A. evidenzia come

secondo alcuni studiosi i caratteri della “nuova” regolazione economica si riassumono nel rifiuto delle

pianificazioni; nella rinuncia sostanziale alla imprese pubbliche a favore delle privatizzazioni; nel

superamento di forme di regolazione dettagliata a beneficio di una disciplina c.d. per standard e

principi; nonché, nella diffusione delle Autorità indipendenti. Di questo avviso sembrerebbe essere M.

CLARICH, Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza, cit., il quale nell’ambito delle “novità

strutturali derivanti dal passaggio dallo Stato gestore allo Stato regolatore” include: a) la “comparsa di

nuovi soggetti regolatori e [l’]eclissi delle vecchie forme di gestione dei servizi pubblici”, alludendo

rispettivamente alla nascita delle autorità indipendenti e alla scomparsa degli enti pubblici economici;

b) l’ “abbandono degli strumenti di regolazione tradizionali a favore di strumenti più compatibili con

la libertà di impresa e con la garanzia della par condicio concorrenziale”; c) i “procedimenti per

l’esercizio dei poteri normativi di competenza delle autorità di regolazione”, poiché “nei servizi

pubblici soggetti a rapida evoluzione tecnologica e di mercato, il legislatore non può far altro che

stabilire per legge pochi principi e criteri generali delegando alle autorità di regolazione amplissimi

poteri normativi”; d) l’emersione di “una trama più complessa di relazioni giuridiche verticali e

orizzontali; ed, infine, e) il sorgere di “nuovi tipi di conflitti per i quali vengono introdotte sempre più

di frequente forme di risoluzione delle controversie alternative alla giurisdizione”. 97

Così M. D’ALBERTI, Poteri pubblici, cit., secondo cui “l’ampia diffusione degli strumenti

consensuali e persuasivi, delle privatizzazioni, delle misure basate su standard, dei regolatori

indipendenti, non ha assolutamente comportato – a tutt’oggi – l’abbandono delle programmazioni,

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Certo è che per quanto concerne nello specifico l’istituto in esame, l’avvento della

“nuova costituzione economica” ha portato con sé una serie di importanti novità a

cominciare dal profilo normativo. Se, infatti, fino agli anni Ottanta si era registrata

una sostanziale immobilità legislativa, “il rilancio dell’obiettivo di una piena

integrazione e di un mercato unico europeo (…) ha imposto il riconoscimento delle

libertà di circolazione e di concorrenza anche in settori fino a quel momento

riservati”98

e, dunque, ha comportato l’adozione di una serie di atti normativi tanto a

livello europeo99

che, conseguentemente, nazionale100

.

degli strumenti cogenti e sanzionatori, delle imprese in mano pubblica, dei regolatori legati al

governo. Coesistono, in definitiva strumenti vecchi e nuovi di regolazione pubblica dell’economia.

(…) Non vi sono, dunque, né interruzioni, né metamorfosi radicali della regolazione pubblica dei

mercati nell’età contemporanea. Vi sono, tuttavia, non poche trasformazioni rispetto al passato”. In

specie – osserva l’A. – a) si rafforza l’onere delle autorità pubbliche di giustificare le regole di

disciplina dei mercati; b) si riduce la discrezionalità amministrativa nell’attuazione delle regole; c) si

afferma il primato del diritto della concorrenza sulle regolazioni pubbliche di settore; d) si formano

interrelazioni sempre più consistenti fra regolazioni economiche nazionali e ultranazionali. 98

Così G. NAPOLITANO, Servizi pubblici, cit.. Sul punto cfr. anche quanto evidenziato da M. CLARICH,

Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza, cit. e da G. M. RACCA, I servizi pubblici

nell’ordinamento comunitario, in G. PERICU – A. ROMANO – V. SPAGNUOLO VIGORITA (a cura di), La

concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995, secondo la quale “è opinione diffusa che la

nozione di servizio pubblico e le sue peculiari forme di gestione siano state per lungo tempo utilizzate

come schermo giuridico per consentire la sopravvivenza di privilegi e di mercati protetti di cui gli

Stati membri della Comunità europea hanno giovato per resistere all’integrale applicazione delle

norme del Trattato”. 99

In proposito G. M. RACCA, I servizi pubblici, cit., osserva: “ciò che interessa la Comunità europea

sono gli effetti che le varie forme di gestione dei servizi pubblici possono avere sul mercato, in

relazione al perseguimento degli obiettivi comunitari. (…) Tuttavia l’ostacolo all’armonizzazione di

questo settore deriva soprattutto dalla difformità dei modelli giuridici di gestione delle attività

riconducibili fra i servizi pubblici nei vari paesi membri”. Inizialmente, dunque, l’ordinamento

comunitario si è limitato “ad imporre a tutti i soggetti (…) l’applicazione di procedure concorsuali

vincolate per l’aggiudicazione di appalti a terzi”. A titolo esemplificativo, si pensi alla direttiva del

Consiglio 90/531/Cee del 17 settembre 1990, relativa alle procedure di appalto degli enti erogatori di

acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti operanti nel settore

delle telecomunicazioni, per un commento alla quale cfr. E. PICOZZA, Appalti pubblici di servizi. Un

set di regole verso la liberalizzazione, in Comm. Internaz., 1991, 501.

Più di recente, in G. NAPOLITANO, Servizi pubblici, cit., si legge che: “si sono susseguiti regolamenti e

direttive che hanno disposto, almeno in parte, la liberalizzazione del trasporto aereo e marittimo, delle

telecomunicazioni, del trasporto ferroviario, dell’elettricità, delle poste, del gas naturale. La maggior

parte di tali norme è stata adottata sulla base dell’[odierno] art. 114 del TFUE. La norma prevede

l’adozione da parte del Consiglio (e ora anche del Parlamento europeo) di misure relative al

ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che

hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno. I diversi servizi pubblici,

quindi, sono stati considerati alla stregua di altrettanti mercati e sottoposti a una disciplina uniforme a

livello europeo. La liberalizzazione di questi settori, prodotta dal diritto comunitario e recepita quindi

nell’ordinamento interno, ha comportato la limitazione e, in alcuni casi, l’integrale soppressione del

precedente regime di riserva e monopolio legale (…)”. Pertanto, dal punto di vista europeo, i servizi

pubblici si trovano oggi ad essere assoggettati alle norme dettate in materia di concorrenza a

cominciare dagli artt. 101 e ss. del TFUE. 100

In senso parzialmente critico cfr. M. CLARICH, Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza,

cit., dove si legge che l’ordinamento italiano è stato segnato da “una revisione profonda della

legislazione nazionale e dell’assetto organizzativo dei poteri pubblici, non accompagnata, però, come

ci si sarebbe aspettati, da una revisione organica della Costituzione volta a modificare le disposizioni

rilevanti per il diritto pubblico dell’economia espungendo quelle obsolete” (In ordine alle incertezze

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Prima di passare ad analizzare questi ultimi, tuttavia, può essere utile ricostruire -

ancorché per sommi capi - i capisaldi della politica europea nella materia de qua. Nel

fare ciò, occorre muovere dal ricordare come, benché ab origine la Comunità non

avesse alcuna competenza specifica nei riguardi dei servizi pubblici, la stessa si sia

avvicinata a questi ultimi legiferando in materia di mercato interno. Per tale via, se

ne è occupata dapprima marginalmente, vedendo negli stessi un’eccezione al pieno

operare della concorrenza, e poi “nobilitandoli”, in ragione del loro essere preordinati

alla soddisfazione di bisogni di carattere generale, tanto da coniare la categoria dei

servizi di interesse economico generale.101

Più nel dettaglio, perno dell’azione europea è stato ed è l’art. 106 TFUE (un tempo

art. 86 del TCe), il quale al comma primo sancisce la regola generale, secondo cui

“gli Stati membri non emanano, né mantengono nei confronti delle imprese

pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura

contraria alle norme dei trattati, (…)”. Mentre al comma secondo mitiga la cogenza

di detta regola, prevedendo che “le imprese incaricate della gestione di servizi di

interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte

alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui

l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di fatto o di diritto,

della specifica missione loro affidata. (…)”.

relative al riconoscimento del rilievo costituzionale della libertà di concorrenza cfr. C. cost. 7 ottobre

1999 n. 384, con commento di A. PACE, La Corte disconosce il valore costituzionale della libertà di

concorrenza?, in Giur. cost., 1999, 2965). Ciò non di meno, l’A. non manca di rintracciare importanti

segnali di cambiamento anche all’interno della Carta costituzionale, laddove “per un verso (…) è in

atto in via interpretativa un’opera di ibernazione del comma 3 e di contemporaneo risveglio del

comma 1 dell’art. 41 (…). Per altro verso, in occasione della revisione del titolo V della Costituzione

ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 200 n. 3 (…) ha fatto ingresso nell’art. 117, comma 2,

lett. e) la tutela della concorrenza, inserita tra le materie riservate alla competenza esclusiva dello

Stato”. Inoltre, il fatto che nell’elenco, alla lett. m), sia inclusa anche la determinazione dei livelli

essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il

territorio nazionale, secondo l’A. rappresenta “riferimento indiretto ai servizi pubblici e, in

particolare, al loro contenuto di universalità che costituisce uno dei collanti del modello europeo di

società”. Ecco, allora, che gli argomenti poc’anzi menzionati, unitamente al richiamo ai vincoli

derivanti dall’ordinamento comunitario di cui all’art. 117, primo comma, Cost., portano l’A. ha

concludere nel senso che “quasi per eterogenesi dei fini, la riforma del Titolo V della Costituzione

potrebbe dunque esplicare effetti ben oltre l’ambito dei rapporti tra centro e periferia, investendo i

rapporti tra Stato e mercato”. 101

Sul punto cfr. D. SORACE, I servizi “pubblici” economici nell’ordinamento nazionale ed europeo

alla fine del primo decennio del XX secolo, in Dir. amm., 2010, 1, 8; nonché E. SCOTTI, (voce) I

servizi pubblici locali, cit.. Inoltre cfr. F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa,

cit., dove si legge: “(…) viene emergendo il nuovo concetto di servizio universale, relativo alle

posizioni di vantaggio che devono essere comunque assicurate ad destinatari delle prestazioni e che

impone la rilettura della concezione tradizionale di servizio pubblico. L’insieme di tali evoluzioni

[pertanto] sembra richiedere una riconsiderazione globale del tema dell’esercizio di attività

amministrativa da parte dei soggetti privati”.

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Orbene, per lungo tempo il portato dell’art. 106 TFUE è stato svilito o – secondo

taluno – addirittura mistificato102

- dalla giurisprudenza che ha finito per legittimare

quell’orientamento incline ad interpretare estensivamente il citato comma secondo e

a riconoscere, per tale via, un ampio margine di discrezionalità in capo agli Stati

membri nella individuazione di settori esenti dalle regole della concorrenza. In altri

termini, per un lungo periodo l’eccezione l’ha fatta da padrone prevaricando,

sostanzialmente, la regola generale.

E’ solo sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso che si è assistito al revirement,

“allorché la Comunità ha abbandonato l’atteggiamento di sostanziale agnosticismo

circa le scelte nazionali concernenti l’istituzione e l’organizzazione dei servizi

pubblici, per dare attuazione, anche in tali ambiti, alla decisione di sistema del

Trattato CE relativa all’instaurazione di un’economia di mercato aperta e in libera

concorrenza”103

. Di lì in avanti, infatti, il rapporto regola – eccezione di cui

all’odierno art. 106 TFUE è stato letto dalla giurisprudenza, in primis quella della

Corte di Giustizia, in chiave “ortodossa” con conseguente ribaltamento della

prospettiva un tempo dominante.

E’ possibile affermare, dunque, come - dopo anni di pressoché totale indifferenza -

le istituzioni europee abbiano posato lo sguardo sul settore dei servizi pubblici,

intendendo questi ultimi come un ulteriore tassello utile alla costruzione del mercato

unico104

. A partire da Amsterdam105

, tuttavia, e ancor più in concomitanza con

l’adozione della Carta di Nizza106

, la prospettiva sembra essere ulteriormente mutata

102

M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale, cit.. 103

Così E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit.. 104

Cfr. rif. Direttive anni ‘90. 105

Si v. E. SCOTTI, (voce) I servizi pubblici locali, cit., dove l’A. evidenzia come, quella sorta di

competenza concorrente di Stati membri ed UE che negli anni si era nei fatti creata, sia stata poi

consacrata dal Trattato di Amsterdam, in quello che un tempo era l’art. 16 TCe (oggi art. 14 TFUE), il

quale “attribuisce all’Unione un’esplicita competenza, da condividersi con gli Stati membri, in materia

di servizi di interesse generale”. L’articolo citato, infatti, dispone che “in considerazione

dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni

dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, l’Unione e

gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione dei

Trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolare

economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti. Il Parlamento europeo e il

Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono

tali principi e fissano tali condizioni, fatta salva la competenza degli Stati membri, nel rispetto dei

trattati, di fornire, fare eseguire e finanziare tali servizi”. 106

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (anche detta Carta di Nizza) è stata

proclamata dai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione il 7 dicembre

2000 a Nizza e pubblicata, nella sua versione originaria (successivamente adattata nel 2007), in GUCE

C 364 del 18 dicembre 2000. Il documento, dal valore giuridico allora incerto, ha rappresentato un

passo decisivo nel cammino dell’Europa verso un pieno riconoscimento dei diritti fondamentali. Oggi

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o, per meglio dire, ampliata. Oggi, infatti, la dottrina non manca di evidenziare la

“duplice rilevanza dei servizi pubblici nell’ordinamento europeo: da un lato essi,

qualora abbiano una dimensione latu sensu economica, rilevano come segmenti di

“mercato interno” da liberalizzare e da restituire ai suoi legittimi attori, cioè le

imprese, pubbliche o private, in regime di concorrenza e nel rispetto delle regole e

della libertà di mercato (…)”107

. Mentre, “per altro verso il servizio pubblico e la sua

efficienza, accessibilità, elevata qualità, vengono considerati fattori di importanza

fondamentale per la qualità della vita dei cittadini europei nonché per l’ambiente e

la competitività delle imprese europee”108

.

Esempio paradigmatico di tale evoluzione è offerto proprio dal servizio relativo alla

gestione dei rifiuti, atteso che, da alcuni anni a questa parte, non sembra più

revocabile in dubbio il fatto che l’Europa abbia preso a considerare detto servizio

pubblico, non tanto per le utilità che può arrecare al mercato interno, quanto piuttosto

per i suoi riflessi sul benessere collettivo”109

, compreso il profilo della salute.

la stessa, in virtù dell’art. 6 TUE come modificato in occasione di Lisbona, reca lo stesso valore

giuridico dei Trattati, tanto da far parlare di una sorta di “costituzionalizzazione” dei diritti

fondamentali nell’ordinamento UE. In dottrina, per ciò che concerne il ruolo e il valore della Carta di

Nizza prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (anche con riguardo al suo rapporto con

l’obiettivo del mercato unico) cfr., inter alia, G. AZZARITI, Il valore della Carta dei diritti

fondamentali nella prospettiva della costruzione europea: dall’Europa dei mercati all’Europa dei

diritti, in S. LABRIOLA, Ripensare lo Stato, Milano, 2003; R. BIFULCO E A., L’Europa dei diritti.

Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Il Mulino, Bologna, 2001; M. P.

CHITI, La Carta europea dei diritti fondamentali: una carta di carattere funzionale, in Riv. trim. dir.

pubbl., 2002, 1; S. RODOTÀ, La Carta come atto politico e documento giuridico, in A. MANZELLA – P.

MELOGRANI – E. O PACIOTTI – S. RODOTÀ (a cura di), Riscrivere i diritti in Europa, Introduzione alla

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Il Mulino, Bologna, 2001. Per un’analisi del ruolo

della Carta dopo Lisbona cfr., da ultimo, S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari, 2012.

Inoltre cfr. M. CARTABIA, I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona: verso nuovi equilibri?, in

Giorn. dir. amm., 2010, 2, 223; L. DANIELE, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e

Trattato di Lisbona, in Dir. un. eur., 2008, 3, 655; N. PARISI, Funzione e ruolo della Carta dei diritti

fondamentali nel sistema delle fonti alla luce del Trattato di Lisbona, in Dir. un. eur., 2010, 3, 653. 107

Così E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit.. 108

In questi termini ancora E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., la quale

richiama i contenuti del Libro Bianco sui servizi di interesse generale del 2004, COM (2004) 374. 109

E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., la quale prosegue osservando: “è

del resto oramai evidente che tale complessa rilevanza europea del servizio pubblico sia alla base della

sempre più frequente attrazione alla sfera istituzionale comunitaria anche delle scelte, certamente non

quelle di livello locale, volte a definire non solo gli assetti di mercato, ma anche le specifiche esigenze

generali rilevanti a livello europeo e con esse il regime giuridico di base idoneo a realizzare il

contemperamento tra tali istanze e le libertà economiche”. Ex multis, cfr. C. IANNELLO, I servizi

pubblici locali dal pluralismo organizzativo al monopolio privato. Riflessioni circa il rapporto tra le

recenti riforme in materia di servizi pubblici locali e l’ordinamento europeo, in Rass. dir. pubbl. eur.,

2011, 1, 99 il quale parla dei servizi pubblici come di un “pilastro del [odierno] modello europeo di

società” e prosegue evidenziando come “il Trattato di Lisbona, che riconosce un ruolo importante ai

servizi di interesse generale [cfr. art. 1 Prot. 26], rappresenti la codificazione, a livello di diritto

primario, del uovo equilibrio raggiunto dall’ordinamento sovrannazionale su tale questione”.

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Emblematiche, al riguardo, le direttive rifiuti 2006/12/Ce110

e 2008/98/Ce111

. In

quest’ultima, ad esempio, la protezione della salute umana e la tutela dell’ambiente

vengono elevati ad obiettivo principale112

, tanto da condizionare pervasivamente le

modalità di gestione dei rifiuti poste in essere a livello nazionale. All’articolo 13,

infatti, si legge che “gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che

la gestione dei rifiuti sia effettuata senza danneggiare la salute umana” e senza recare

pregiudizio all’ambiente. Di riflesso, parimenti rilevante è anche l’importanza

crescente che, nella materia de qua, la giurisprudenza sembra attribuire al nesso tra

ambiente e salute. Da ultimo, infatti, si segnala che la Corte di Giustizia113

,

pronunciandosi nel 2010 nell’ambito di un ricorso per infrazione che vedeva parte

resistente l’Italia, ha riconosciuto come quest’ultima, “avendo omesso di adottare

piani efficienti per la gestione dei rifiuti [in Campania], abbia violato gli artt. 4 e 5

della direttiva 2006/12/Ce” e come, di conseguenza, la stessa abbia creato una

situazione di pericolo per l’ambiente e la salute umana114

.

Orbene, tutto ciò premesso e premessa la descritta competenza concorrente

dell’Unione europea e degli Stati membri nel settore de quo115

, occorre altresì

puntualizzare come, nonostante l’Unione riconosca l’afferenza dei servizi pubblici

110

Si tratta della Direttiva 2006/12/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 sui

rifiuti. In particolare si v. il secondo considerando nonché gli artt. 4 e 5. 111

Direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai

rifiuti. 112

Al considerando n. 6 si legge che “l’obiettivo principale di qualsiasi politica in materia di rifiuti

dovrebbe essere di ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei

rifiuti per la salute umana e l’ambiente (…)”. Al considerando n. 49, poi, è scritto che “poiché

l’obiettivo principale della presente direttiva, vale a dire la protezione dell’ambiente e della salute

umana, non può essere realizzato in misura sufficiente dagli Stati membri e può dunque (…) essere

realizzato meglio a livello comunitario, la Comunità può intervenire in base al principio di

sussidiarietà sancito dall’art. 5 del trattato (…)”. E, infine, all’art. 1 si afferma che “la presente

direttiva stabilisce misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana prevedendo o riducendo gli

impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti, riducendo gli impatti complessivi

dell’uso delle risorse e migliorandone l’efficacia”. 113

Il riferimento è a CGCE 4 marzo 2010, Commissione c. Italia, C-297/08, per un commento alla

quale sia consentito rinviare a C. FELIZIANI, The Duty of Member States to Guarantee the Right to a

Healthy Environment: A Consideration of European Commission v Italy (C-297/08), in JEL, 24 3

(2012), 535 – 546. 114

Cfr., in particolare, pp. 111- 112 della pronuncia citata. 115

Infatti, come osservato da E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit., benché “a livello europeo

la materia dei servizi pubblici non rientri tra le competenze (né esclusive né concorrenti)

originariamente attribuite alla Comunità. (…) L’Unione si è occupata dei servizi di interesse

economico generale (SIEG) europei e cioè di quei servizi, alcuni dei quali (anche) locali, caratterizzati

da una chiara dimensione comunitaria e per questo sottoposti a specifiche discipline di settore. (…)

Tale assetto, che ha di fatto dato vita ad una competenza concorrente dell’Unione in materia di servizi

di interesse economico generale, ha poi trovato un’espressa ratifica nel Trattato. L’art. 14 del TFUE

attribuisce infatti all’Unione un’esplicita competenza, da condividersi con gli Stati membri, in materia

di servizi di interesse generale”.

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anche locali al mercato interno, “non si rinviene tuttavia una disciplina europea della

concorrenza applicata ai servizi pubblici locali, né atti d’inquadramento generale”116

.

Le scelte che li riguardano, dunque, paiono potersi ritenere demandate alle autorità

locali, almeno fin quando “non emergano altrimenti interessi generali europei: in tali

ipotesi la disciplina europea giunge a riguardare anche l’an e il quomodo del servizio

pubblico locale, sia pur in maglie rispettose del principio di sussidiarietà”117

.

Di qui spiegato il bisogno di allineamento della disciplina nazionale con gli standard

fissati a livello europeo, il quale tuttavia è reso indubbiamente più complesso dalla

distanza di significato che caratterizza determinati concetti nel diritto

sovrannazionale e in quello interno. Benché, infatti, rispetto ad essi si tenti sovente

un’opera di assimilazione, “in ambiti come quello dei servizi pubblici, occorre tenere

presente che i concetti del diritto comunitario sono costruiti secondo una logica

propria, che è dettata dalla ricerca di un punto di equilibrio tra lo scopo di aprire i

mercati alla concorrenza e la salvaguardia delle prerogative degli Stati per

l’attuazione delle proprie politiche”118

. Non solo, dunque, le locuzioni sono diverse

ma spesso ciò che muta è il significato intrinseco di determinate espressioni. Infatti,

mentre “il diritto comunitario costruisce i propri concetti a partire dal significato

economico che alcuni fatti assumono dal punto di vista delle condizioni di

concorrenza che il diritto intende promuovere o preservare, nell’elaborazione dei

concetti del diritto amministrativo interno, l’interesse si appunta, invece, sulla

116

In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 117

Così E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 118

In questi termini F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni, cit., nonché F. DE LEONARDIS, Soggettività privata

e azione amministrativa, cit., dove si legge: “nell’ordinamento comunitario, significativamente, non si

rintracciano definizioni di pubblica amministrazione in senso soggettivo o di servizio pubblico con i

caratteri profilati propri degli schemi tradizionali, apparendo tale ordinamento, piuttosto portatore di

un diverso assetto concettuale a geometria variabile. Invero ad esso non interessa tanto definire in

astratto e a priori il concetto di Stato e/o di pubblica amministrazione, quanto assicurare, nel fluire dei

rapporti economico-istituzionali, il rispetto dei principi di concorrenza: ciò consente, di volta in volta,

di inquadrare o meno un singolo soggetto nella nozione. In tale sistema, conseguentemente, sarà vano

ricercare un concetto di Stato tipico, formale e assorbente (…). E ciò – sembra di poter sottolineare –

vale anche per i concetti di organismo di diritto pubblico, impresa pubblica, diritti speciali ed

esclusivi, servizi di interesse generale economici e non economici (…)”. Pertanto – conclude l’A. -

attribuendo a dette nozioni “un effetto utile, ossia il contenuto più adeguato per il conseguimento hic

et nunc degli obiettivi della normativa di cui si tratti, la giurisprudenza della Corte di Giustizia va

offrendo, per parte sua, un efficace contributo alla rivisitazione dei concetti fondamentali del sistema

del diritto amministrativo”. Inoltre sul tema cfr. E. CANNADA BARTOLI, Nozione di impresa pubblica

ai sensi dell’art. 90 del Trattato istitutivo del Mercato Comune europeo, in Riv. dir. ind., 1993, 1, 34;

J. A. MORENO MOLINA, Le distinte nozioni comunitarie di pubblica amministrazione, in Riv. it. dir.

pubbl. comunit., 1998, 4, 587; e più di recente G. DELLA CANANEA, La “lingua dei diritti” nel dialogo

tra le corti nazionali ed europee: permanenze o discontinuità?, in Dir. amm., 2010, 1, 85.

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123

particolare qualità del potere pubblicistico e sulla posizione giuridica dei singoli nella

relazione con il potere”119

.

Ciò basta forse a spiegare perché, come osservato da parte della dottrina120

, il diritto

europeo non ha fornito utili elementi per chiudere definitivamente il dibattito interno

sulla dimensione oggettiva o soggettiva in cui ascrivere il servizio pubblico, né per

chiarire il rapporto che intercorre tra quest’ultimo e i servizi pubblici locali.

A tale ultimo proposito, infatti, si evidenzia come, in mancanza di una definizione

puntuale121

, l’istituto del servizio pubblico locale abbia inevitabilmente risentito del

dibattito dottrinario che ha interessato la più generale figura del servizio pubblico,

rispetto al quale la dottrina non ha mancato di chiedersi se tra i due istituti esista o

meno un rapporto di genus a species.

Orbene, la risposta a tale interrogativo è stata da alcuni trovata nell’art. 112 TUEL,

dove si legge che “gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze,

provvedano alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione

di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo

economico e civile delle comunità locali”122

. Commentando tale disposizione, parte

119

Ancora F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni, cit., la quale prosegue affermando: “la diversità dei criteri

ordinatori dei rispettivi concetti può determinare fraintendimenti, quando la terminologia del diritto

comunitario confluisce nel diritto interno”. Inoltre, “ il peculiare carattere dei concetti del diritto

comunitario nei settori qui considerati, si riflette nella tecnica seguita per l’applicazione dei concetti

medesimi, sia nei procedimenti amministrativi – nei quali le autorità comunitarie fanno uso di quei

concetti – sia nel processo davanti ai giudici comunitari. [Infatti] la finalità cui rispondono le nozioni

del diritto comunitario indirizza le autorità che fanno uso di quelle nozioni ad una verifica del fatto

intesa a determinarne gli effetti economici, sotto il profilo cui la nozione dà rilevanza giuridica. (…)

L’analisi economica dà concretezza al ragionamento giuridico: ai concetti astratti (…) si sostituisce

l’indagine diretta a misurare gli effetti economici delle determinazioni, per poi metterli a confronto

con il parametro normativo, a sua volta interpretato nella sua portata economica”. Ex multis, sulle

particolarità della nozione di servizio pubblico fatta propria dal diritto dell’Unione europea, anche in

relazione agli obiettivi di integrazione economica cfr. A. ARENA, La nozione di servizio pubblico nel

diritto dell’integrazione economica. La specificità del modello soprannazionale europeo, Ed. Sc.,

Napoli, 2011. 120

In proposito R. VILLATA, Pubblica amministrazione e servizi pubblici, cit.. Ma anche M.

DELSIGNORE, L’ambito di applicazione: la nozione di servizio pubblico locale a rilevanza economica,

in R. VILLATA (a cura di), La riforma dei servizi pubblici locali, Giappichelli, Torino, 2011. 121

Al pari del servizio pubblico, infatti, neppure l’istituto del servizio pubblico locale ha mai trovato

compiuta definizione nel nostro ordinamento. Dunque, né nella legge sulle municipalizzazioni del

1903, dove “l’uso del termine servizi pubblici [era] in senso prettamente economico”, né in quelle

successive è possibile rinvenire una definizione capace di chiarire il proprium dell’istituto. Al

momento, pertanto, il punto di riferimento è rappresentato dall’art. 112 TUEL dove, sostanzialmente e

salvo il più generale riferimento agli enti locali (anziché ai Comuni e alle Province), è confluita la

definizione di cui alla precedente legge di riordino delle autonomie locali del 1990 (con riferimento

all’art. 22 L. n. 142/1990 cfr. R. CAVALLO PERIN, Comuni e Province nella gestione dei servizi

pubblici, cit.. 122

Al riguardo, in senso critico cfr. A. POLICE, Spigolature, cit., dove si legge che “tale previsione, se

fornisce una chiara indicazione di che cosa debba intendersi per servizio, non dà alcun indizio per la

determinazione del significato del termine pubblico, che è invece l’elemento qualificante dell’intera

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124

della dottrina ha evidenziato, innanzitutto, come l’assunzione dei servizi pubblici

locali sia “rimessa ad autonome valutazioni degli enti locali, in relazione ai differenti

contesti socio-economici e territoriali” e come a tal fine una attività debba “incidere

in via diretta sulla comunità, perché rispondente ad esigenze essenziali o diffuse di

una determinata collettività locale”123

. Di qui l’impressione che dal punto di vista

oggettivo “la nozione di servizio pubblico locale costiuisc[a] una specificazione della

nozione generale, [solo] con un ambito più ristretto della prima”124

. Inoltre, per ciò

che concerne il profilo soggettivo, “resta centrale la decisione di istituire il servizio e

la previa valutazione, effettuata dall’ente territoriale, sulla doverosità del porre tale

servizio a disposizione della collettività locale”125

. Pertanto, “si conferma che la

nozione di servizio pubblico locale costituisce una specificazione della nozione

generale e si differenzia da quest’ultima proprio per il fatto che l’istituzione del

servizio viene decisa dall’ente locale che ne assume la titolarità”126

.

operazione definitoria della locuzione servizio pubblico” anche, e forse a maggior ragione, nella sua

dimensione locale. Ex multis, cfr. M. DELSIGNORE, L’ambito di applicazione, cit., dove si legge:

“nella L. n. 142/1990 e poi anche con il TUEL, la delimitazione della nozione di servizio pubblico

assume tratti assai meno precisi (…). La definizione, talmente ampia da abbracciare qualsiasi attività,

finisce per riconoscere piena autonomia – e quindi anche piena responsabilità politica – in capo al

comune e all’ente locale, salvo non esista l’indicazione del legislatore quanto all’obbligatorietà del

servizio”. L’A. inoltre ricorda che “la giurisprudenza spiega la generalità della disposizione di cui

all’art. 112 TUEL quale conseguenza della genericità dei fini che fanno capo all’ente locale”. In

proposito cfr. Cons. Stato, V, 13 dicembre 2006 n. 7369, secondo cui “quel che rileva è perciò la

scelta politico-amministrativa dell’ente locale di assumere il servizio, al fine di soddisfare in modo

continuativo obiettive esigenze della collettività”. 123

In questo senso A. POLICE, Spigolature, cit. , il quale osserva altresì che “il ruolo degli enti locali

come interpreti primari dei bisogni e delle esigenze delle rispettive comunità sembra in piena sintonia

con la volontà di valorizzazione del sistema autonomistico agli effetti di cui agli artt. 5, 118 Cost.”. 124

Così A. POLICE, Spigolature, cit., che precisa: “per espressa previsione normativa, infatti, questa

particolare species di servizio pubblico è limitata alle sole attività che sono rivolte a realizzare fini

sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, sempre che esse rientrino

nell’ambito delle competenze dell’ente territoriale che le assume”. 125

In questi termini ancora A. POLICE, Spigolature, cit., il quale puntualizza: “si parla di assunzione

del servizio pubblico, di quell’atto di autonomia con il quale, accertata la utilità collettiva di una

determinata prestazione (la sua doverosità), l’ente locale competente assume su di sé la titolarità del

compito-servizio. La discrezionalità degli enti locali in tali deliberazioni deve trovare un proprio

limite di estensione in diversi ordini di elementi. Il primo legato al contesto istituzionale nel quale si

svolge l’azione dell’ente territoriale, il secondo è di carattere interno e attiene alle modalità che

debbono accompagnare l’assunzione della decisione. (…) In altri termini, non ogni servizio, non ogni

attività, solo perché assunta dall’ente pubblico diventa perciò stesso pubblico servizio: occorre una

giustificazione oggettiva alla pubblicità del servizio”.

In giurisprudenza cfr., ad ex., Cons. Stato, V, 14 dicembre 1988 n. 818 e Cons. Stato, VI, 12 marzo

1990 n. 374, dove al tal fine viene valorizzato il ruolo della motivazione con la quale la quale la PA

deve suffragare la propria scelta in ordine all’assunzione di un determinato servizio. 126

In questo senso cfr. A. POLICE, Spigolature, cit., ma anche M. DELSIGNORE, L’ambito di

applicazione, cit.; F. G. SCOCA, La concessione come strumento di gestione dei servizi pubblici, cit.;

ed, infine, recentemente C. MARZUOLI, Gli enti territoriali e la scelta del modello per la gestione dei

pubblici servizi locali, in Munus, 2011, 1, 69 dove il servizio pubblico locale viene definito come:

“quella prestazione che il potere pubblico (locale, nel caso) ritiene debba esssere messa a disposizione

dei cittadini, in adempimento di uno specifico obbligo costituzionale o in attuazione di una autonoma

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125

Come si è avuto modo di osservare, dunque, la ricerca del significato e della sfera

dogmatica in cui collocare l’istituto in commento, anche nella sua dimensione locale,

si è svolta in un terreno tutto interno, atteso che – a detta di molta parte della

dottrina127

- le categorie elaborate dal diritto europeo non hanno aggiunto nulla al

dibattito. Le cose cambiano (seppur solo in parte), invece, se dal profilo definitorio si

passa a quello organizzativo, poiché “in relazione ai servizi “maggiori” o “grandi

servizi”- tendenzialmente identificabile con i servizi a rete [compresi i rifiuti] - si

assiste ormai da tempo all’affermazione di baricentri centralistici, espressi da

specifiche discipline di settore per lo più di matrice europea e da un’intensa

applicazione delle regole di concorrenza”128

.

III.3 L’INCERTA SORTE DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI TRA APERTURA AL MERCATO

E RICORSO ALL’IN HOUSE PROVIDING: IL CASO DEI RIFIUTI

Se, dunque, per effetto delle scelte di politica economica (e non solo129

) operate

dall’Europa i servizi pubblici c.d. nazionali sono stati interessati da una sostanziale

riscrittura del loro regime giuridico, “indiretto è [stato] invece l’intervento

comunitario nella materia dei servizi pubblici locali” poiché, almeno teoricamente, in

questo settore “l’azione delle istituzioni europee si arresta a livello di principio”130

,

scelta politica dell’istituzione rappresentativa della popolazione di riferimento”. In giurisprudenza cfr.,

inter alia, Cons. Stato, V, 13 dicembre 2006 n. 7369. 127

In tal senso, inter alia, A. POLICE, Spigolature, cit.; E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e

ordinamento comunitario, cit.; R. VILLATA, Pubblica amministrazione e servizi pubblici, cit.. 128

In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit., la quale richiama A. TRAVI, Servizi

pubblici e tutela della concorrenza fra diritto comunitario e modelli nazionali, in G. FALCON (a cura

di), Il diritto amministrativo dei Paesi Europei tra omogeneizzazione e diversità culturali, Cedam,

Padova, 2005. Inoltre, cfr. S. CASSESE, La signoria comunitaria sul diritto amministrativo, in Riv. it.

dir. pubbl. comunit., 2002, 2, 291. 129

Si pensi, in particolare, alla legislazione europea in materia ambientale e agli obblighi da essa

derivanti in capo ai soggetti gestori di taluni importanti servizi pubblici, quali quello di gestione dei

rifiuti o quello idrico. Sul punto cfr. nota n. 6, retro nonché amplius E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici

locali, cit.. 130

E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., la quale sottolinea come ab

inizio rispetto agli stessi si fosse affermata “l’estraneità all’ambito di rilevanza europeo” (cfr., ad ex.,

CGCE 9 settembre 1999, Ri. San., C- 108/98). Al contempo, però, l’A. puntualizza: “ma, in ossequio

al principio di sussidiarietà, l’azione delle istituzioni europee si arresta a livello di principio; a tale

livello tende ad affermare i limiti essenziali derivanti dai principi e dalle regole del mercato e, in

particolare di concorrenza, riconoscendo la responsabilità delle autorità pubbliche locali di definire gli

obblighi e le funzioni di servizio pubblico e di garantire che gli operatori svolgano i compiti che sono

stati loro affidati. La definizione dell’equilibrio tra missioni di interesse generale e applicazione delle

regole di mercato viene in tale modo demandata rispettivamente al legislatore nazionale e regionale

nonché all’autonomia organizzativa degli enti locali (…)”. Ex multis cfr. C. IANNELLO, I servizi

pubblici locali dal pluralismo organizzativo al monopolio privato, cit., dove l’A. si interroga sul “se, e

in quale misura, il diritto europeo riguardi anche il settore dei servizi pubblici locali” e su “quale sia il

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126

mentre l’individuazione della disciplina puntuale è rimessa agli Stati membri e,

ovviamente, agli enti locali131

. Il che, tuttavia, non esime affatto le autorità nazionali

dalla ricerca di un tendenziale equilibrio (o, meglio, conformità) tra la disciplina

interna e i dictat europei, specie per ciò che concerne il profilo gestorio dei servizi

pubblici locali132

come testimoniato, peraltro, anche dal caso dei rifiuti133

.

grado di condizionamento”? Nel rispondere a detti quesiti, l’A. muove dal constatare come in dottrina

sia stato autorevolmente sostenuto “che le norme del trattato non trovino applicazione alle ipotesi di

servizi pubblici locali”, poiché gli stessi generalmente “non hanno un consistente valore economico”.

Tesi, quest’ultima, apparentemente corroborata da una certa giurisprudenza della Corte di Giustizia

(CGCE 9 settembre 1999, C-108/98) e dalla circostanza per cui la direttiva servizi 123/2006/Ce, c.d.

Bolkestein, non si applica al settore dei servizi pubblici locali. Tuttavia – prosegue l’A. – “la tesi

dell’indifferenza (…) non convince” così come sarebbe una forzatura affermare “che il fenomeno dei

servizi pubblici locali è, in quanto tale, oggetto di interesse dell’ordinamento europeo”. Piuttosto,

bisogna convenire che “il diritto europeo adotta delle nozioni che si presentano come trasversali

rispetto alla dicotomia locale/nazionale, come ad esempio quella di servizio di interesse economico

generale (…) dunque, quando è intervenuto in materia di servizi pubblici si è sempre interessato del

servizio in sé considerato, poco importandosi del livello di governo cui era affidata la responsabilità

all’interno di ogni singolo stato membro”. 131

In senso critico cfr. G. CAIA, I servizi pubblici locali di rilevanza economica (liberalizzazioni, de

regolazioni ed adeguamento alla disciplina comunitaria), in AA.VV., Scritti in onore di Franco

Pugliese, ESI, Napoli, 2010. In particolare, l’A. lamenta il fatto che le riforme legislative intervenute

negli ultimi dieci anni non hanno tenuto in debita considerazione il ruolo delle P.A. laddove, invece,

“la necessità dell’adeguata considerazione per il ruolo delle Pubbliche amministrazioni deriva dalla

innegabile circostanza che esse devono cogliere, sintetizzare ed interpretare i bisogni dei cittadini e la

conseguente domanda di prestazioni di utilità, anche sotto il profilo delle relative modalità, quantità e

qualità”. Più nello specifico, sembra svilito il ruolo del principio di sussidiarietà. L’A., infatti, scrive

che “molti servizi pubblici sono disciplinati dalla legge come servizi pubblici locali. E ciò accade (…)

per la loro diretta rilevanza rispetto agli interessi delle popolazioni insediate sul territorio e rispetto

allo sviluppo (benessere) delle medesime. (…) Tale persistente configurazione è dunque importante

perché testimonia il valore del principio di sussidiarietà verticale (…)”. Tuttavia alcuni recenti

interventi legislativi “fanno sorgere il dubbio che per i servizi pubblici locali la rilevanza della

sussidiarietà venga svuotata da prescrizioni superiori ed esterne, che si impongono (…) come

indicazione dettagliata (e senza alternative) delle modalità e condizioni per l’organizzazione di questi

servizi pubblici, non tenendosi dunque neppure conto dei numerosi e vari presupposti di diritto e di

fatto e cioè delle diversificate situazioni, che sono sorte nel tempo e che sono oggi presenti nei vari

contesti locali (…)”. Da ciò discende, dunque, quello che l’A. indica come uno dei problemi cruciali

nella disciplina dei servizi pubblici locali, vale a dire il mancato rispetto dei criteri di differenziazione

ed adeguatezza.

Sul tema inoltre cfr., inter alia, V. PARISIO, Europa delle autonomie locali, cit.; A. PIOGGIA, Servizi

pubblici e autonomia locale, cit.; E. PIZZETTI, Le autonomie locali e l’Europa, in Le Regioni, 2002, 5,

935; A. SCRIMALI, Il Parlamento europeo e la promozione delle autonomie locali negli Stati membri

dell’Unione europea, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2005, 5, 899. 132

Al riguardo cfr. E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., dove si legge:

“l’armonizzazione del regime dei servizi pubblici locali con il diritto europeo dei mercati pone

numerose questioni relative soprattutto ai profili organizzativi. Molti sono i problemi che il prisma

comunitario evidenzia, quali quelli relativi alla legittimità di diritti speciali ed esclusivi e alle modalità

di affidamento (…) al ruolo regolatorio del Comune (…). In tale scenario la questione maggiormente

sentita attiene oggi alla seguente opzione: quali margini di autonomia organizzativa residuano in capo

all’ente locale nella scelta delle modalità di gestione dei servizi che intende assicurare? E’ doveroso il

ricorso al mercato (c.d. esternalizzazione o outsourcing) o l’ente locale può far ricorso – e in quali

limiti – alla c.d. autoproduzione dei servizi attraverso il modello del c.d. in house providing, o a forme

istituzionali ibride, pubblico-private (la società mista), secondo un modello di partenariato pubblico

privato che la Commissione europea sembra legittimare?”. Ex multis, cfr. E. SCOTTI, Organizzazione

pubblica e mercato società miste, in house providing e partenariato pubblico privato, in Dir. amm.,

2005, 4, 915.

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127

A tale ultimo riguardo rileva, innanzitutto, il distinguo, un tempo a noi sconosciuto,

tra servizi recanti rilevanza economica e servizi privi di tale rilievo134

; ma soprattutto

il susseguirsi di interventi legislativi, volti essenzialmente a chiarire “quali margini di

autonomia organizzativa residuano in capo all’ente locale nella scelta delle modalità

di gestione dei servizi che intende assicurare ai cittadini”135

. E, dunque, in questo

133

Sul punto si v. quanto affermato nel Capitolo I in riferimento al rapporto tra direttive europee e

normativa interna di recepimento. Inoltre, si ponga mente alla nota questione della “crisi dei rifiuti” in

Campania e alle sentenze di condanna per “mala gestio” adottate dalla Corte di Giustizia nei confronti

dello Stato italiano (in specie, cfr. CGCE 4 marzo 2010, Commissione europea c. Italia, C-297/08 e,

prima ancora, CGCE 26 aprile 2007, Commissione europea c. Italia, C-135/05). 134

Sul tema cfr. M. DELSIGNORE, L’ambito di applicazione, cit., dove si legge innanzitutto che la

distinzione è stata mutuata dall’allora art. 86, comma secondo, TCe dove era possibile leggere: “…”.

Ad oggi, inoltre, il medesimo distinguo appare di fondamentale importanza dopo la pronuncia C.

Cost. 27 luglio 2004 n. 272 (in Foro it., 2004, I, 2594 con note di S. BENINI, F. FRACCHIA e A.

TRAVI), dove la Consulta ha affermato la legittimità “dell’intervento del legislatore statale solo

laddove lo stesso sia riconducibile alla tutela della concorrenza, intesa come materia trasversale;

[mentre] laddove manchi la rilevanza economica la disciplina statuale recede di fronte ad una diversa

disciplina regionale”. Al contempo, l’A. non manca di evidenziare la mutevolezza di detto criterio “in

relazione all’evoluzione degli assetti, degli equilibri, della tecnologia nel singolo settore”, ecc. Per

questa ragione, tanto la Commissione europea quanto la giurisprudenza nazionale hanno più volte

sottolineato “la necessità della ricostruzione in via interpretativa della nozione di servizio pubblico

locale di rilevanza economica, mancando una disposizione normativa che ne fornisca una definizione

esaustiva. (…) così occorre verificare in concreto se l’attività da espletare presenti o meno il connotato

della redditività, anche solo in via potenziale”. Detta verifica, peraltro, prosegue l’A. diviene ancora

più imprescindibile con riguardo all’in house (come disciplinato per effetto dell’art. 23 bis d. l. 25

giugno 2008 n. 112, cfr. infra), poiché il ricorso a detta forma di gestione appare possibile “solo se il

servizio è fuori mercato o comunque in situazione di possibile fallimento del mercato”.

Ex multis, cfr. A. POLICE, Spigolature, cit. per il nesso tra “rilevanza economica” e art. 2082 c.c., dove

si rinviene una definizione di imprenditore, ed E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.; nonché F.

FRACCHIA, I servizi pubblici e la retorica della concorrenza, in Foro it., 2011, V, 106, il quale scrive:

“una volta qualificata un’attività come servizio pubblico, permane poi il problema di accertarne la

rilevanza economica, presupposto per l’applicazione della normativa statale: la sent. 325/10 della

Corte Costituzionale (…) ha cura di chiarire che spetta allo Stato definire i criteri per l’applicazione

della relativa disciplina (tali caratteri, si noti, esibirebbero un carattere oggettivo), laddove a livello

comunitario la valutazione circa la natura economica e imprenditoriale di un’attività è svolta caso per

caso”. Soluzione quest’ultima accolta anche dal Consiglio di Stato, V, 10 settembre 2010 n. 6529 in

materia di refezione scolastica, dove si legge che “occorre far ricorso ad un criterio relativistico, che

tenga conto delle peculiarità del caso concreto, quali la consueta struttura del servizio, le concrete

modalità del suo espletamento, i suoi specifici connotati economico-organizzativi, la natura del

soggetto chiamato ad espletarlo, la disciplina normativa del servizio”. 135

In questi termini E. SCOTTI, Servizi pubblici locali, cit.. Per una ricostruzione dei fattori che hanno

condotto all’emersione del problema cfr. G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali in trasformazione,

Cedam, Padova, 2010, dove si legge “il volano dell’apertura del settore dei servizi pubblici alle regole

della concorrenza è stato inizialmente la modifica di trattamento riservato alle imprese in mano

pubblica, in particolare a seguito della lettura via via più restrittiva della clausola derogatoria a favore

delle imprese richiamate dal par. 2 dell’art. 86 del Trattato Ce – imprese incaricate della gestione di

servizi di interesse economico generale – categoria nella quale rientrano le imprese pubbliche” ch

erogano i servizi pubblici. Si è trattato in ogni caso di un processo, per così dire, “a tappe” e

fortemente dipendente dal modo di intendere i servizi pubblici. In particolare – ricorda l’A. – il

“modello neo feudale” cui si era giunti nel periodo compreso tra gli anni ’70 e ’80 del novecento

“entra in collisione con la prospettiva del completamento del mercato [unico], delineata dal Libro

Bianco del 1985 (…) dunque, dalla prima metà degli anni ’80, le Istituzioni comunitarie hanno

iniziato a controllare non solo la compatibilità dell’esercizio dei diritti esclusivi con il diritto

comunitario ma la stessa ammissibilità della loro istituzione ed attribuzione. (…) Il revirement è poi

chiaramente esplicitato nella Direttiva 90/531/Cee, con la quale si estendono ai settori

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128

senso ad avvicinarsi alla logica di concorrenzialità cara all’Unione europea136

. Con

l’avvertenza che in molti casi – quale, ad esempio, quello dei rifiuti – la

composizione del quadro normativo di riferimento da alcuni anni a questa parte

richiede il coordinamento, non solo tra diritto europeo e diritto interno, ma anche –

nell’ambito di quest’ultimo – tra disciplina generale (ossia quella relativa ai servizi

pubblici locali tout court intesi) e disciplina di settore, qual è quella da ultimo

positivizzata nel Codice dell’ambiente137

. Da ciò discende che la disamina del

relativo apparato normativo, cui si darà corso nelle pagine che seguono, dovrà essere

svolta avendo riguardo di ambedue i piani.

Orbene, dando inizio a tale analisi, occorre innanzitutto ribadire che in base a quanto

previsto dalla L. n. 103 del 1903 nel settore dei servizi pubblici locali si era delineata

una situazione di monopolio legale, poiché la legislazione “consentiva ai Comuni di

assumere la titolarità del servizio in esclusiva con provvedimento amministrativo di

competenza del consiglio comunale”138

. In senso analogo – si è visto – la L. n. 366

del 1941 per ciò che riguardava la gestione dei rifiuti urbani139

.

precedentemente esclusi le regole e le procedure comunitarie per l’aggiudicazione degli appalti

pubblici”. Tuttavia – si legge nel saggio citato – “la liberalizzazione dei servizi pubblici a rete ha

avuto, almeno inizialmente, effetti limitati sui servizi pubblici locali”. Tanto che alcuni importanti

servizi di pubblica utilità, come la raccolta dei rifiuti e il trasporto pubblico locale, hanno potuto

continuare ad essere organizzati dagli Stati membri in monopoli legali, più o meno estesi, ed alle

imprese che vi operavano potevano continuare ad essere attribuiti diritti esclusivi senza contrasto con

il diritto comunitario”. A ciò si aggiunga che “in alcuni casi i servizi pubblici locali sono stati

considerati al di sotto della soglia di rilevanza comunitaria in quanto la loro attività non incideva sugli

scambi tra gli Stati membri”. 136

Come osservato da C. IAIONE, Le società in-house. Contributo allo studio dei principi di auto-

organizzazione e auto-produzione degli enti locali, II ed., Jovene, Napoli, 2012 a partire dalla metà

degli anni Novanta, a livello europeo, il tema dei servizi di interesse economico generale è stato

interessato da una serie di interventi normativi e regolamentari. Innanzitutto, “in occasione

dell’approvazione del Trattato di Amsterdam è stato introdotto l’art. 16 del Trattato Ce che riconosce

il carattere fondamentale dei servizi di interesse economico generale in relazione ai valori comuni

dell’Unione europea e all’obiettivo della coesione sociale e territoriale”. Inoltre, solo nel biennio 2003

– 2004 le istituzioni hanno adottato molteplici documenti programmatici nella materia de qua.

Innanzitutto, - ricorda l’A. - nel 2003 la Commissione europea ha presentato il Libro Verde sui servizi

di interesse generale [COM(2003)270] seguito, nel 2004, dal Libro Bianco sui servizi di interesse

generale [COM(2004)374]. Sempre nel 2004, inoltre, “è stata pubblicata una Proposta di direttiva

europea relativa ai servizi nel mercato interno, cioè a tutti i servizi che costituiscono un’attività

economica ai sensi dell’art. 49 del Trattato CE” [COM(2004)2]. Infine, ancora nello stesso anno, la

Commissione ha reso pubblico il Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto

degli appalti pubblici e delle concessioni [COM(2004)327]. 137

A titolo meramente esemplificativo, si osserva che all’art. 1, primo comma, del c.d. Decreto

Ronchi era possibile leggere: “Il presente decreto disciplina la gestione dei rifiuti, dei rifiuti

pericolosi, degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggi, fatte salve le disposizioni specifiche particolari

o complementari, conformi ai principi del presente decreto, adottate in attuazione di direttive

comunitarie che disciplinano la gestione di determinate categorie di rifiuti”. 138

Così G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali, cit.. 139

Si veda quanto più diffusamente affermato nel capitolo I.

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129

Simile assetto ha poi trovato sostanziale conferma nella legge sull’ordinamento delle

autonomie locali del 1990140

, con cui il legislatore ha previsto (almeno teoricamente)

una pluralità di forme di gestione dei servizi pubblici locali e ha affidato

all’autonomia di ciascun Comune e Provincia la scelta delle modalità organizzative

da adottare141

. All’art. 22, comma primo, infatti, era possibile leggere che “i Comuni

e le Province, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedano alla gestione dei

servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di bei ed attività rivolte a

realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità

locali”. Mentre al successivo comma 3 era scritto che “i Comuni e le Province

possono gestire i servizi nelle seguenti forme: a) in economia, quando per le modeste

dimensioni o per le caratteristiche del servizio non sia opportuno costituire una

istituzione o un’azienda; b) in concessione a terzi, quando sussistano ragioni

tecniche, economiche o di opportunità sociale; c) a mezzo di azienda speciale, anche

per la gestione di più servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale; d) a mezzo

di istituzione, per l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale; e) a

mezzo di società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico

locale costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio (…)”142

.

In definitiva, con la disposizione da ultimo citata, il legislatore aveva voluto sancire

una “trasformazione non traumatica del modello di impresa locale verso tipologie di

diritto comune” e, nello specifico, verso il modello della società di capitali a

prevalente capitale pubblico143

. Nei fatti, tuttavia, l’intento riformatore era frustrato

140

Il riferimento è alla L. 8 giugno 1990 n. 142. Per ciò che concerne la disciplina dei servizi pubblici

locali nel vigore della L. n. 142/1990 cfr., inter alia, M. CAMMELLI, I servizi pubblici

nell’amministrazione regionale, in Le Regioni, 1992, 1, 19; R. CAVALLO PERIN, Comuni e province

nella gestione dei servizi pubblici, cit.; E. PICOZZA, I servizi pubblici locali e le loro forme di gestione

con riguardo al regime di diritto comunitario, nazionale e regionali, in N. rass. lgg., 1995, 1005. 141

A. LOLLI – J. BERCELLI, I servizi pubblici ambientali (acqua e rifiuti) in Italia. Novità normative, in

www.ius-publicum.com, 2011. 142

Sul punto cfr. G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali, cit., il quale osserva come il legislatore del

1990 abbia “mantenuto il monopolio legale (…) senza intaccare il precedente regime giuridico della

riserva legale di attività a favore degli Enti locali”. Ed inoltre, “la normativa successivamente emanata

per alcuni settori [tra cui quello dello smaltimento dei rifiuti] indubbiamente accentuava tali

caratteristiche di potenziale transizione verso un regime concorrenziale , senza però realizzarlo, se non

parzialmente”. 143

Al riguardo, cfr. l’analisi di P. ROSSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali nell’art. 23 bis

della legge 133/2008, in G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali, cit.. Inoltre, cfr. E. SCOTTI,

Organizzazione pubblica e mercato: società miste, in house providing e partenariato pubblico

privato, cit., la quale a proposito del recente “atteggiarsi dei rapporti tra amministrazione” osserva che

“alla tradizionale separazione tra interessi pubblici e mercato (…) va infatti oggi sostituendosi una più

sottile e talvolta non chiara commistione. Lo attesta il diffondersi, anche a fronte di funzioni o compiti

pubblici, di un modelli organizzativo pensato per lo svolgimento in comune dell’impresa: la società”.

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130

dalla previsione della possibilità per l’ente locale di affidare direttamente (dunque,

senza previo espletamento della gara) il servizio alla S.p.A. di cui era azionista di

maggioranza. In tal modo, infatti, non solo non si favoriva una concorrenza nel

mercato, ma neppure si realizzava una vera concorrenza per il mercato144

.

Tale disciplina valeva anche per il servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani, a

cui ha continuato ad applicarsi anche dopo il 1997, ossia quando è entrato in vigore il

decreto Ronchi145

, adottato dal legislatore italiano al fine di dare attuazione a tre

importanti direttive emanate alcuni anni prima dalle istituzioni europee146

.

Come anticipato, grazie a tale decreto per la prima volta tutti gli aspetti relativi alla

disciplina del servizio in esame hanno trovato compiuta regolamentazione all’interno

di un unico testo legislativo. Più nel dettaglio, la gestione dei rifiuti veniva

In senso fortemente critico cfr. V. DOMENICHELLI, I servizi pubblici locali tra diritto amministrativo e

diritto privato (a proposito del “nuovo” art. 113 del TUEL), in Dir. amm., 2002, 2, 311, il quale a

posteriori evidenzia: “chi pensava di risolvere i problemi dei servizi pubblici locali (inefficienza, anti-

economicità, influenza politica, ecc.), innestando il modello societario nel piccolo mondo antico delle

aziende speciali (…) si deve essere ricreduto, quanto meno sulla semplicità dell’operazione. Le

società è espressione portatrice di propri valori, non necessariamente coincidenti con quelli del diritto

amministrativo e dei soggetti che vi operano (…). Il legislatore, dapprima, ha cercato di regolare tale

impianto di diritto privato nel corpo del diritto pubblico, introducendo discipline mediatorie fra le

diverse esigenze (…)”. Tuttavia – prosegue l’A. – la scelta compiuta “non è stata chiarissima, incerta

fra il mantenimento dei servizi pubblici nell’alveo degli enti locali ancorché in veste di azionisti e la

definitiva dismissione dei servizi pubblici a vantaggio del mercato”. Sta di fatto che “l’ente locale

azionista è venuto invero a soffrire di una crisi identità, diviso fra le concrete (e consuete) esigenze e

finalità di erogare il servizio ai cittadini e quelle nuove (ma meno concrete) di accrescere il valore

della sua partecipazione societaria”.

Più in generale, sul tema dell’attività amministrativa svolta in forma societaria cfr., innanzitutto, P.

CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione, cit. e F. DE LEONARDIS,

Soggettività privata e azione amministrativa, cit.. Inoltre cfr. anche A. ANDREANI, Questioni nuove

nella recente legislazione in tema di società di capitali con partecipazione degli enti locali, in Dir.

amm., 1995, 2, 245; M. CAMMELLI, Le società a partecipazione pubblica. Comuni, Province e

Regioni, Rimini, 1989; E. CANNADA BARTOLI, Servizi pubblici locali mediante società per azioni, in

Giur. it., 1996, I, 493; F. LUCIANI, La gestione dei servizi pubblici locali mediante società per azioni,

in Dir. amm, 1995, 275; F. A. ROVERSI MONACO, Società con partecipazione minoritaria degli enti

locali e gestione dei servizi pubblici, in AA. VV., Studi in onore di Vittorio Ottaviano, Milano, 1993. 144

Al riguardo cfr. G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali, cit., il quale scrive che “un processo di

riforma delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali che espressamente manifesti una

dichiarata preferenza per il mercato, immediatamente impone di confrontarsi con due possibili macro

modelli di introduzione di dinamiche concorrenziali: da un lato quello della concorrenza nel mercato

e dall’altro lato quello della concorrenza per il mercato. Nella sostanza - puntualizza l’A. - il

meccanismo è il seguente: quando non è possibile la concorrenza nel mercato, perché il servizio non

può essere svolto da una pluralità di operatori in competizione tra loro, deve farsi luogo alla

competizione per il mercato, nella quale più operatori si contendono la gestione di un unico servizio”. 145

Si tratta del d. lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 (G.U. 15 febbraio 1997 n. 38) che ha abrogato la

disciplina contenuta nel d.P.R. 10 settembre 1982 n. 915. Ampi riferimenti alla disciplina giuridica del

servizi di igiene urbana come disciplinato dal decreto Ronchi si rinvengono in A. VIGNERI, La

gestione dei rifiuti nel nuovo codice ambientale, in Astrid – Rassegna, 34/2006. 146

Nello specifico – e come già ricordato nel capitolo I - si tratta di due direttive del 1991 in tema di

rifiuti (direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 156, 91/156/Cee e direttiva del Consiglio 12 dicembre

1991 n. 689, 91/689/Cee) e di una direttiva del 1994 relativa agli imballaggi e ai rifiuti di imballaggi

(direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 dicembre 1994 n. 62, 94/62/Ce).

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131

qualificata, secondo tradizione, come “attività di pubblico interesse” (art. 2) e per

tale si intendeva “la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti,

compreso il controllo di queste operazioni nonché il controllo delle discariche e

degli impianti di smaltimento dopo la chiusura” (art. 3)147

.

Inoltre, se dal punto di vista delle forme di gestione del servizio il decreto Ronchi

non innovava rispetto alla disciplina generale, poiché lo stesso compiva ampi rinvii

alla sopra menzionata Legge di riordino delle autonomie locali, soluzioni del tutto

peculiari venivano imposte con riguardo al profilo organizzativo.

La grande novità del decreto Ronchi, infatti, “era rappresentata dall’obbligo imposto

ai Comuni di organizzare dett[o] servizi[o] non più isolatamente l’uno dall’altro, ma

mediante forme di cooperazione di area vasta, di dimensione sovra-comunale”148

. Più

nel dettaglio, al fine di assicurare una gestione maggiormente rispondente ai principi

dell’efficienza e dell’economicità, l’art. 23 del decreto Ronchi aveva previsto che “la

gestione dei rifiuti urbani [venisse] attuata secondo ambiti territoriali ottimali (ATO)

[corrispondenti alle Province, e] finalizzati al superamento della frammentazione

delle gestioni e alla razionalizzazione dimensionale delle medesime”149

.

Come presumibile, tale assetto organizzativo recava dei riflessi anche per ciò che

concerne il riparto di competenze. Ed, infatti, i sensi dell’art. 18 del decreto Ronchi,

allo Stato spettavano “funzioni di indirizzo e coordinamento” e alle Regioni – in virtù

del successivo articolo 19 - “la predisposizione, l’adozione e l’aggiornamento,

sentiti Province e Comuni, dei piani regionali di gestione dei rifiuti di cui all’art. 22”

(lett. a), nonché “la regolamentazione delle attività di gestione dei rifiuti, ivi

compresa la raccolta differenziata dei rifiuti urbani (…)” (lett. b). Da ultimo, i

Comuni “effettuano la gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo

147

Al riguardo, cfr. C. IAIONE, Le società in house, cit., il quale scrive: “il fulcro della normativa non

risiede più nello smaltimento dei rifiuti, bensì nella loro gestione. Nell’ambito del nuovo contesto

normativo lo smaltimento dei rifiuti diventa, infatti, una fase residuale delle loro gestione la quale si

compone di quattro distinti momenti principale (…). La raccolta, il trasporto, il recupero e lo

smaltimento diventano, così, fasi della gestione e non più fasi dello smaltimento, come avveniva con

il d.P.R. n. 915/1982 (…)”. 148

A. LOLLI – J. BERCELLI, I servizi pubblici ambientali (acqua e rifiuti), in Italia. Novità normative,

cit.. 149

Così C. IAIONE, Le società in house, cit.. All’art. 23, comma primo, d. lgs. n. 22/1997, infatti, era

possibile leggere che “salvo diversa disposizione stabilita con legge regionale, gli ambiti territoriali

ottimali per la gestione dei rifiuti urbani sono le Province. In tali ambiti territoriali ottimali le Province

assicurano una gestione unitaria dei rifiuti urbani e predispongono piani di gestione dei rifiuti, sentiti i

Comuni, in applicazione degli indirizzi e delle prescrizioni del presente decreto”. Ex multis, cfr. A.

PIETROBON, Problemi ed interessi sull’ambito ottimale del servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani,

in AA. VV., Interessi pubblici nella disciplina delle public companies, enti privatizzati e controlli,

Giuffré, Milano, 2000; C. SAN MAURO, Il servizio pubblico locale: strumenti, organizzazione,

gestione, Cedam, Padova, 2003.

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smaltimento in regime di privativa nelle forme di cui alla legge 8 giugno 1990 n. 142

e dell’art. 23” (art. 21, comma primo). Inoltre gli stessi “disciplinano la gestione dei

rifiuti urbani con appositi regolamenti che, nel rispetto dei principi di efficienza,

efficacia ed economicità, stabiliscono in particolare: a) le disposizioni per

assicurare la tutela igienico-sanitaria in tutte le fasi della gestione dei rifiuti urbani;

[e] b) le modalità del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani (…)”.

Parte della dottrina, dunque, ha osservato come con riguardo alle competenze il d.

lgs. n. 22 del1997 abbia tentato di “incoraggiare un approccio globale alla questione

rifiuti che si riveli in grado di realizzare un forte coinvolgimento degli enti locali”150

,

in primis dei Comuni. E’ a questi ultimi, infatti, che in base al decreto Ronchi

spettava la titolarità del servizio, venendosi così a configurare – secondo taluno - di

fatto “un monopolio legale in favore degli stessi soggetti pubblici”151

.

Tornando ad assumere un punto di vista più generale, occorre osservare come la

situazione di tendenziale chiusura verso una concorrenza effettiva non sia mutata

neanche con l’entrata in vigore del d. lgs. 18 agosto 2000 n. 267, meglio noto come

Testo Unico degli Enti locali152

che, nella versione originaria, non solo recepiva de

plano (all’art. 112) la “classica” definizione di servizio pubblico locale, ma neppure

innovava in punto di disciplina per quel che concerne l’organizzazione153

.

150

In tal senso cfr. C. IAIONE, Le società in house, cit., nonché R. GUBELLO, La riforma dei servizi

pubblici locali – Art. 35 L. 28 dicembre 2001 n. 448 (legge finanziaria 2002), in Nuove leggi civ., n.

1-2/2003. 151

Così C. IAIONE, Le società in house, cit. e R. GUBELLO, La riforma dei servizi pubblici locali, cit..

Gli AA. tuttavia non mancano di evidenziare come il profilo della titolarità debba essere distinto da

quello della materiale erogazione dello stesso. Infatti, mentre la prima compete “sempre ed

esclusivamente al Comune, (…) la seconda può essere attuata nei modi fissati dall’art. 113 del d. lgs.

n. 267/2000”. Ciò significa che “il Comune rimane il solo ed unico responsabile dello svolgimento del

servizio pubblico nei confronti della collettività di riferimento. Al soggetto erogatore, quando diverso

dalla Pubblica Amministrazione, spetta invece il compito di effettuare le operazioni materiali di

erogazione del servizio nelle forme e secondo le modalità stabilite dalla legge (…)”.

In giurisprudenza cfr., inter alia, Cons Stato, V, 19 febbraio 2004, n. 679, che ha ritenuto legittimo, ai

sensi dell’art. 113, comma quinto, lett. c) d. lgs. n. 267/2000, “l’affidamento diretto dell’erogazione

del servizio di igiene urbana, conferito a società a capitale interamente pubblico partecipata da due

Comuni e da una società a capitale totalmente pubblico” (per un commento cfr. F. PIETROSANTI,

Sull’affidamento diretto dell’erogazione di un servizio pubblico locale, in Foro it., 2004, 4, III, 193). 152

Per tutti cfr. R. CAVALLO PERIN – A. ROMANO (a cura di), Commentario breve al testo unico sulle

autonomie locali, Cedam, Padova, 2006. 153

D’altra parte, va anche detto che – secondo quanto evidenziato da parte della dottrina (G.

PIPERATA, I servizi pubblici locali, in www.astridonline.it, 2004) – l’intento del legislatore di dettare

una disciplina “omnicomprensiva” risultava di fatto frustrato dalla presenza di molteplici discipline di

settore, quale ad esempio quella relativa ai rifiuti.

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133

Simile assetto è stato dapprima censurato dalla Commissione europea, che nel 2000

ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano154

, e poi

riformato in chiave (asseritamente) pro-concorrenziale dal legislatore nazionale con

l’art. 35 della L. 28 dicembre 2001 n. 448155

(senza, tuttavia, riuscire a tacitare i

rilievi critici avanzati dalle istituzioni europee156

). In particolare, quest’ultimo venne

definito da parte della dottrina un “terremoto”157

, nella misura in cui ha riscritto

l’(allora) art. 113 TUEL introducendo disposizioni delle quali si percepiva “la portata

dirompente sugli assetti (…) dei servizi pubblici locali e sulle linee di evoluzione [al

tempo] in atto. (…) Proprietà esclusiva delle reti e degli impianti in capo agli enti

locali e principio della concorrenza nella scelta del gestore del servizio [erano] i due

cardini della riforma”158

, che tuttavia – forse anche a causa dei numerosi punti critici

che la caratterizzavano159

- non raggiunse i risultati sperati160

.

154

La procedura ha avuto inizio con la lettera di messa in mora dell’8 novembre 2000 [n. SG (2000)

D/108243] e aveva specifico riguardo alla disciplina di cui all’art. 22 L. n. 142/1990 il cui contenuto

era poi stata trasfuso nel successivo TUEL adottato nel 2000. 155

Si trattava di un articolo inserito nella Legge finanziaria per il 2002 e rubricato “Norme per la

gestione dei servizi pubblici locali”. Per un commento allo stesso cfr., innanzitutto, A. TRAVI, La

riforma dei servizi pubblici locali (art. 35 L. 28 dicembre 2001 n. 448), in Nuove leggi civ., 2003, 3 e

ss.; nonché, inter alia, L. BENVENUTI, Discrezionalità amministrativa e gestione dei servizi pubblici

locali, in Dir. reg., 2002, 2331; V. DOMENICHELLI, I servizi pubblici locali tra diritto amministrativo e

diritto privato, cit; M. DUGATO, I servizi pubblici degli enti locali, in Giorn. dir. amm., 2002, 2, 218;

R. GUBELLO, La riforma dei servizi pubblici locali, cit.; M. SINISI, La tutela della concorrenza

nell’affidamento del servizio e nella scelta del partner privato ai sensi dell’art. 35, l. n. 448 del 2001,

in Foro amm. – Tar, 2003, 2015. Inoltre cfr. L. R. PERFETTI, I servizi pubblici locali. La riforma del

settore operata dall’art. 35 della L. 448/2001 ed i possibili profili evolutivi, in Dir. amm., 2002, 4,

575 che scrive: “si tratta di un intervento di riforma che, già dalla constatazione della sede prescelta

(la legge finanziaria), denuncia un intento occasionale. Chi guardi ai lavori parlamentari ed

all’insieme del tessuto normativo, troverà a stento l’intenzione di un disegno razionale di riforma ed,

anzi, la sensazione complessiva è quella di una disciplina affrettata, incompleta (…). E’, quindi

seriamente da dubitarsi che (…) si sia innanzi ad un disegno coerente ed omogeneo”. Lo stesso A.,

peraltro, non manca di evidenziare come l’art. 35 recasse i germi di una vera liberalizzazione, benché

gli stessi fossero stati “maldestramente” celati dal legislatore. Si legge, infatti, che “per quel che

emerge dall’art. 35, L. n. 448 del 2001, lo svolgimento dell’attività di pubblico servizio locale è libera

ed è svolta in regime di autorizzazione dai soggetti titolari di reti private ovvero in forza

dell’aggiudicazione della gara ad evidenza pubblica per l’ottenimento del diritto ad utilizzare, in

esclusiva (parziale o totale), le dotazioni di proprietà di un soggetto pubblico o di un’impresa

pubblica. E’ questa l novità più significativa (…) Si ritiene ragionevolmente di poter argomentare che

l’attività di servizio pubblico locale venga svolta secondo il regime di cui all’art. 41, comma 3, Cost.”.

Di conseguenza – conclude l’A. – “credei si possa dire che l’art. 35, L. 448 n. 2001 delinea un

modello ampiamente oggettivista” giacché “è il mercato a prestare il servizio pubblico e nessuna

riserva monopolista è posta a vantaggio dell’ente pubblico”. 156

Si ricorda, infatti, che con nota del 26 giugno 2002 la Commissione europea avviava una procedura

di infrazione nei riguardi dello Stato italiano, contestando a quest’ultimo di non aver assicurato – con

l’adozione dell’art. 35 L. 448/2001 - la piena concorrenza nel settore dei servizi pubblici. 157

Così V. DOMENICHELLI, I servizi pubblici locali tra diritto amministrativo e diritto privato, cit.. 158

In questo senso V. DOMENICHELLI, I servizi pubblici locali tra diritto amministrativo e diritto

privato, cit.. Ex multis, cfr. C. IAIONE, Le società in-house, cit., il quale sottolinea che l’art. 35

“stabiliva il principio del conferimento della titolarità del servizio a società di capitali individuate

attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica, quale unica modalità di

erogazione del servizio da svolgere in regime di concorrenza (per il mercato)”.

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134

Anche per questa ragione, nel 2003 il legislatore è intervenuto nuovamente nella

materia de qua con il d. l. 30 settembre 2003 n. 269161

, il cui art. 14 è andato a

modificare nuovamente il disposto dell’art. 113 TUEL. In particolare, oltre a

introdurre il distinguo tra servizi di rilevanza economica e servizi privi di detta

In giurisprudenza cfr., inter alia, Cons. Stato, V, 16 marzo 2005 n. 1074 con cui i giudici di Palazzo

Spada hanno affermato l’illegittimità dell’affidamento diretto a società partecipata del servizio di

raccolta e trasporto dei rifiuti urbani che avvenga senza il previo espletamento di una procedura ad

evidenza pubblica, atteso che – secondo la sezione – non può dubitarsi del carattere industriale del

servizio de quo alla luce “della rilevante organizzazione di uomini e mezzi e dell’impiego di capitale

che esso richiede, nonché della complessità del processo di gestione e trattamento dei rifiuti”.

Inoltre cfr. anche Cons. Stato, V, 6 giugno 2003 n. 2380; TAR Lombardia, III, 8 aprile 2003 n. 994;

TAR Lombardia, III, 29 agosto 2001 n. 5163. 159

Al riguardo cfr. L. R. PERFETTI, I servizi pubblici locali, cit., il quale tra “le principali deficienze

della disciplina” ha indicato: a) “il problema della compatibilità con il diritto comunitario e i dubbi di

legittimità del rinvio al regolamento”; b) l’insufficienza degli strumenti regolatori, quali la gara,

l’autorizzazione per l’esercizio dell’attività e il contratto di servizio; c) il rischio di conflitti tra più

livelli di governo; d) il fatto che il legislatore avesse dettato una disciplina speciale per le società

quotate; ma soprattutto e) “la scarsissima considerazione dei diritti dei cittadini quanto alla disciplina

dei servizi pubblici locali. Poiché si è convinti del fatto che i servizi pubblici siano funzionali alla

protezione ed al pieno godimento dei diritti, non si può trascurare come, invece, il legislatore

nazionale abbia del tutto ignorato la sostanza ed il contenuto del pubblico servizio per concentrarsi

solamente sui profili di carattere organizzativo”. 160

Come ricorda P. ROSSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali, cit., sulla scia del mai

approvato d.d.l. Vigneri, la ratio della riforma “era costituita dall’auspicato superamento del sistema

monopolistico degli affidamenti diretti alle società miste nell’ottica di un’apertura dei servizi locali

quantomeno ad una concorrenza per il mercato (…)”. Essa “aveva l’indubbio merito di fondare la

disciplina dei servizi pubblici locali sul principio della tutela della concorrenza, imponendo, al

contempo, un riposizionamento ai poteri locali, chiamati ad assolvere non più al ruolo di gestore del

servizio, bensì di autorità di regolazione, indirizzo e vigilanza. (…) Tuttavia, il modello competitivo

privilegiato dal legislatore era, come si è detto, quello della concorrenza per il mercato: le imprese

competono non direttamente sul mercato, bensì per ottenere dall’ente locale l’affidamento di un

servizio avente le caratteristiche del monopolio naturale. Peraltro (…) il nuovo regime continuava a

consentire numerose ipotesi di affidamento diretto” e “l’ampiezza delle deroghe faceva riemergere

una prospettiva di lunga sopravvivenza per il regime di affidamento diretto che in principio si

dichiarava di voler superare. Il che aveva (…) anche indotto la Commissione UE ad estendere la

procedura d’infrazione già attivata in relazione al regime previgente anche all’art. 35”. 161

D. l. 30 settembre 2003, conv. con modificazioni nella L. 24 novembre 2003 n. 326 e recante

“Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”.

Al riguardo, cfr. L. DE LUCIA, Le funzioni di Province e Comuni nella Costituzione, in Riv. trim. dir.

pubbl., 2005, 1, 23; M. DUGATO, La disciplina dei servizi pubblici locali, in Giorn. dir. amm., 2004, 1,

121 e ss.. Inoltre, cfr. anche L. AMMANNATI, Sulla inattualità della concorrenza nei servizi pubblici

locali, in Giorn. dir. amm., 2004, 8, 906; F. MERUSI, Cent’anni di municipalizzazione: dal monopolio

alla ricerca della concorrenza, in Dir. amm., 2004, 1, 49; G. NAPOLITANO, Dieci anni di riforme

amministrative. I servizi pubblici, in Giorn. dir. amm., 2004, 7, 804; S. VARONE, Servizi pubblici e

concorrenza, Giappichelli, Torino, 2004; nonché C. IAIONE, Le società in-house, cit., il quale a

proposito delle ragioni che indussero il legislatore italiano ad operare una nuova riforma, osserva che

con l’art. 14 d.l. 269/2003 “il legislatore ha inteso adeguare la normativa interna sui servizi pubblici

locali alle norme dettate dal Trattato CE in materia di servizi di interesse generale . Ciò al fine di

indurre la Commissione europea a non dar seguito al procedimento di infrazione comunitaria

preannunciato nei confronti dell’Italia con la lettera di formale messa in mora del 26 giugno 2002

[Nota della Commissione europea, 26 giugno 2002, n. C(2002)2329 in

www.dirittodeiservizipubblici.it].

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135

rilevanza162

, il decreto ha inciso sensibilmente in ordine alla disciplina giuridica dei

servizi pubblici locali, benché non nella direzione di una vera apertura alla

concorrenza quanto piuttosto in quella di una “controriforma”. Come osservato da

parte della dottrina, infatti, il citato art. 14 ha “non solo rivitalizzato l’originario

schema dell’affidamento diretto a società mista, ma [ha] anche introdotto

l’affidamento in house”163

, così come interpretato dalla Corte di Giustizia nella

celeberrima sentenza Teckal164

. E ciò nei fatti si è tradotto “nel sostanziale

depotenziamento del principio della gara, che non costituiva più la via obbligata per

l’affidamento del servizio, ma diventava soltanto una delle possibili soluzioni

organizzative a disposizione dell’Ente locale”165

.

In quella occasione, infatti, il comma quinto dell’art.113 del TUEL è stato

interamente riscritto ed è stata prevista una triplice alternativa per ciò che concerne la

gestione del servizio, ammettendosi che lo stesso potesse essere affidato: “a) a

società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad

evidenza pubblica; b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio

privato venga scelto attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza

pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in

materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità

competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche; c) a società a capitale

162

All’art. 14 lett. a), infatti, si leggeva: “nella rubrica le parole “rilevanza industriale” sono sostituite

dalle seguenti: “di rilevanza economica”. Detto distinguo è dunque andato sostituire quello tra servizi

aventi rilevanza industriale e servizi privi di tale rilevanza. 163

Così P. ROSSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali, cit.. 164

Si tratta della sentenza CGCE 18 novembre 1999, Teckal, C-107/98, per un commento alla quale

cfr., inter alia, G. GRECO, Gli affidamenti “in house” di servizi e forniture, le concessioni di pubblico

servizio e il principio della gara, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2000, 6, 1416; R. IANNOTTA, Nota a

Corte di Giustizia – 18 novembre 1999 (Causa C. 107/98), in Foro amm., 2001, 4, 309 .

Con riferimento a quello che ai più è parso essere un recepimento de plano, cfr. in senso critico F.

CINTIOLI, I servizi pubblici locali tra perentoria privatizzazione e incerta liberalizzazione. Note

sull’art. 23 bis, in www.giustamm.it, 2009, dove si legge: “il punto più censurabile (…) sta nel fatto

che, recependo in norma di legge una decisione della Corte di Giustizia riferibile ad una fattispecie

peculiare e perciò non assumibile a paradigma (il notissimo caso Teckal), si è visibilmente

compromesso il giusto equilibrio degli interessi in gioco. Con questo atipico affidamento diretto (ad

una società di veste privata, ma costituente articolazione dell’ente pubblico), l’ente locale mantiene sì

il potere di gestione, ma lo esercita in forme tali da non assumere la responsabilità politica che

dovrebbe conseguirne e da eludere troppo spesso quei vincoli di attuazione dell’imparzialità e del

buon andamento che presidiano l’azione amministrativa”. 165

In tal senso P. ROSSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali, cit.. Del pari cfr. F. CINTIOLI, I

servizi pubblici locali tra perentoria privatizzazione e incerta liberalizzazione, cit., il quale scrive:

“avendo lasciato agli enti locali la possibilità di scegliere, per i servizi di rilevanza economica, tra

l’affidamento a privati mediante gara, l’affidamento diretto a società mista a capitale pubblico-privato

e l’affidamento diretto a società in house, si sono create le premesse perché anche la concorrenza per

il mercato restasse pressoché una formula vuota. (…) Tale equiparazione (insieme ad una disciplina

transitoria che ha favorito fenomeni di cristallizzazione delle situazioni preesistenti), ha

sostanzialmente reso possibile l’azzeramento di ogni prospettiva di liberalizzazione nel settore”.

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136

interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale

sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri

servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con

l'ente o gli enti pubblici che la controllano”.

Le tre modalità gestionali, dunque, venivano poste dal legislatore del 2003 “sullo

stesso piano”, essendo la scelta rimessa all’ente locale “in relazione alla maggiore

adeguatezza nei casi di specie”166

. Tuttavia le stesse sono tra di loro alquanto diverse.

Infatti, la prima “si basa su di un meccanismo di concorrenza per il mercato,

incentrato su di una procedura concorsuale di selezione del gestore e finalizzato

all’esternalizzazione del servizio ed alla parziale liberalizzazione del mercato di

riferimento”167

; la seconda implica una partnership tra soggetti pubblici e operatori

privati; ed, infine, l’ultima – c.d. in house - sottende “la volontà di interiorizzare il

servizio, in quanto consiste nell’affidamento diretto dell’attività di erogazione ad un

soggetto societario con capitale interamente di origine pubblica e legato agli enti di

riferimento da un rapporto di delegazione interorganica”168

.

Indubbiamente, delle tre soluzioni, è quella descritta da ultimo che ha suscitato

maggiori interrogativi finendo per porsi al centro del dibattito, sia dottrinario169

che

166

In tal senso G. CAIA, I servizi pubblici locali di rilevanza economica, cit., il quale precisa che

“ovviamente, la scelta doveva avvenire sulla base dei principi generali, da tempo elaborati dalla

giurisprudenza: necessità di preliminare di una relazione che confronti i risultati economici

prevedibilmente derivanti dalle varie possibili forme di gestione tenendosi conto della qualità del

servizio erogato e del diverso grado di efficienza nello svolgimento attraverso l’uno e l’altro

strumento, mediante un calcolo dettagliato dei costi e benefici di ciascuno di essi (Cons. Stato, sez.

VI, 12 marzo 1990 n. 374). 167

Così G. PIPERATA, (voce) Servizi pubblici locali, in S. CASSESE ( a cura di), Dizionario di diritto

pubblico, Giuffrè, Milano, 2006. 168

In questo senso cfr. G. PIPERATA, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 169

Nella vastità dei contributi offerti dalla dottrina al tema dell’in house si segnalano, senza pretesa

alcuna di esaustività: D. CASALINI, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house,

Jovene, Napoli, 2003; R. CAVALLO PERIN – D. CASALINI, L’in house providing: un’impresa

dimezzata, in Dir. amm., 2006, 1, 51; M. CAPANTINI, Contratto di servizio e affidamenti in house, in

Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2004, 4, 801; A. CLARIZIA, La Corte suona il de profundis per l’in-house,

in www.giustamm.it, 2005; G. GRECO, Imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, affidamenti

in house: ampliamento o limitazione della concorrenza?, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2005, 1, 61;

C. IAIONE; Le società in house, cit.; ID., Gli equilibri instabili dell’in house providing fra principio di

auto-organizzazione e tutela della concorrenza. Evoluzione o involuzione della giurisprudenza

comunitaria?, in Giust. civ., 2006, 1, 12; A. MASSERA, L’“in house providing”: una questione da

definire, in Giorn. dir. amm., 2004, 8; 849; G. MARCHEGIANI, Alcune considerazioni in tema di diritto

comunitario concernente le concessioni e i cd “affidamenti in house”, in Foro it., 2004, 4, I, 945; ID.

Gli affidamenti in house e la sindrome del cavallo a dondolo. Sentenze a confronto, in

www.giustamm.it, 2004; M. MAZZAMUTO, Brevi note su normativa comunitaria e in house providing,

in Dir. un. eur., 2001, 2-3. 337; G. MONTEDORO, Mercato e potere amministrativo, cit., pp. 147 e ss.;

E. SCOTTI, Organizzazione pubblica e mercato: società miste, in house providing e partenariato

pubblico privato, cit.; ID., Le società miste tra in house providing e partenariato pubblico privato:

osservazioni a margine di una recente pronuncia della Corte di Giustizia, in Foro amm. CdS, 2005, 3,

666; R. URSI, Brevi osservazioni sui presupposti dell’approvvigionamento “in house” di servizi

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137

giurisprudenziale170

. Non fosse altro perché il ricorso all’in house, ossia “il fatto che

un ente pubblico partecipi o controlli il soggetto incaricato dell’esecuzione di un

contratto di appalto, ovvero preposto alla gestione del servizio, priva quest’ultimo

della sua autonomia”171

e finisce per risolversi nel ricorso ad un sistema di

autoproduzione e, dunque – almeno prima facie - in una sostanziale chiusura nei

confronti del mercato.

Senza entrare funditus nell’esame dell’istituto, sia sufficiente osservare che la

fattispecie - plasmata principalmente dalla Corte di Giustizia172

– si fonda sul c.d.

pubblici locali alla luce del nuovo testo dell’art. 113, 5 comma, lett. c), del testo unico sugli enti

locali, in Foro it., 2004, III, 193; ID., Le società per la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza

economica tra outsourcing e in house providing, in Dir. amm., 2005, 1, 179. 170

Al riguardo, parte della dottrina (C. IAIONE, Le società in-house, cit.), evidenzia come l’attenzione

della giurisprudenza amministrativa italiana si sia appuntata principalmente sul requisito del

“controllo analogo”, assumendo – quanto meno agli inizi – un atteggiamento più flessibile di quello

della Corte di Giustizia. “Il dibattito giurisprudenziale interno si è incentrato sulla sufficienza o meno

del controllo societario (e dei diversi strumenti ad esso funzionali) esercitabile dall’ente locale sulle

società in house”, dovendosi tuttavia distinguere “le decisioni nelle quali il giudice amministrativo è

stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’affidamento diretto a società unicomunali (…) da

quelle nelle quali la fattispecie aveva ad oggetto l’affidamento diretto del servizio a società multi

comunali (…)”. Infatti, mentre nel primo caso i giudici sono stati chiamati a pronunciarsi sulla

“sufficienza degli ordinari strumenti di diritto societario per la sussistenza di una relazione in house”,

nel secondo caso “si tratta di stabilire se il controllo analogo sulla società partecipata da più enti locali

debba [necessari mento] essere congiunto (…)”. Tra le sentenza del primo gruppo cfr. inter alia Cons.

Stato V, 18 settembre 2003 n. 5316 nonché Cons. Stato, V, 3 febbraio 2005 n. 272, che ha ritenuto le

società unicomunali a prevalente capitale pubblico consistere in moduli organizzativi “altrenativ[i]

alle aziende specializzate costituite dagli enti locali”. Invece, rientrano nel secondo gruppo ad esempio

Cons. Stato, V, 6 maggio 2002 n. 2418 (rispetto alla quale cfr. G. CAIA, La società a prevalente

capitale pubblico come formula organizzativa di cooperazione tra Comuni, in Foro amm. CdS, 2002,

5, 1232); Cons. Stato, V, 25 giugno 2002 n. 3448; Cons. Stato, V, 6 febbraio 2003 n. 637; Cons. Stato,

V, 19 febbraio 2004 n. 679 (in ordine alla quale cfr. L. R. PERFETTI, L’affidamento diretto di servizi

pubblici locali a società partecipate dai Comuni, tra amministrazione indiretta e privilegi extra

legem, in Foro amm. CdS, 2004, 9, 1160). 171

In questi termini C. IAIONE, Le società in-house, cit.. 172

Al riguardo, le prime pronunce della Corte di Giustizia in tema di in house risalgono alla fine degli

anni Novanta del secolo scorso. Si tratta, nello specifico, di CGCE 10 novembre 1998, BFI Holding

BY c. Gemente Arnhem e a., C-360/96; CGCE 9 settembre 1999, RI.SAN c. Comune di Ischia, C-

108/98 e, soprattutto, di CGCE 18 novembre 1999, Teckal c. Comune di Viano, C-107/98, vera pietra

miliare in materia poiché in tale occasione la Corte ha “coniato” la massima in base alla quale

“l’applicazione delle direttive comunitarie [in materia di evidenza pubblica] può essere esclusa nel

caso in cui l’ente locale eserciti sul soggetto un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi

e realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti locali che la controllano”.

Nel 2003, tuttavia, in occasione del caso Commissione europea c. Regno di Spagna (CGCE 8 maggio

2003, C-349/97) la Corte è sembrata voler correggere il “tiro” allorché ha ritenuto integrati “gli

elementi strutturali del rapporto di delegazione organica, anche se parti del rapporto erano, da un lato,

enti territoriali e, dall’altro, un organismo tecnico di derivazione statale. In altri termini non si è

ritenuto necessario verificare l’esistenza di un vero e proprio controllo gerarchico” (C. IAIONE, Le

società in-house, cit.). Il 2005, poi, ha segnato l’avvio di una nuova stagione in tema di in house,

poiché a partire da CGCE 11 gennaio 2005, Stadt Halle, C-26/03 i giudici di Lussemburgo hanno dato

vita ad un orientale mento piuttosto restrittivo, affermando che “la relazione in house non può

sussistere tra enti locali e società dai medesimi controllate ove si tratti di società il cui capitale sia

detenuto anche da soggetti privati”. Soluzione quest’ultima ribadita anche in CGCE 10 novembre

2005 Commissione europea c. Repubblica d’Austria, C-29/04 e in CGCE 18 gennaio 2007, Jean

Auroux c. Commune de Roanne, C-220/05, nonché nell’ipotesi di società solo “potenzialmente mista”

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138

rapporto di delegazione interorganica173

il quale, a sua volta, si configura quando a)

l’ente pubblico esercita sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui

propri servizi interni e b) la società realizza la parte più importante della propria

attività con l’ente pubblico che la controlla. La stessa, inoltre, secondo quella dottrina

intenta a valorizzare (ancorché non indiscriminatamente174

) la scelta per

l’autoproduzione dei servizi pubblici, “trova fondamento nel principio di auto-

(cfr. CGCE 21 luglio 2005, Co,na.me c. Comune di Cingia dé Botti e Padania Acque SpA, C-231/03).

Con la pronuncia CGCE 13 ottobre 2005 Parking Brixen Gmbh, C-458/03, infine, la giurisprudenza

della Corte nella materia de qua ha preso un nuovo corso, atteso che l’attenzione dei giudici si è

appuntata prioritariamente “sulle condizioni e i limiti di utilizzo delle c.d. società in house in senso

stretto, cioè delle società a totale partecipazione pubblica locale”. Nell’ambito di questo nuovo filone

si segnalano anche: CGCE 6 aprile 2006, Anav c. Comune di Bari e a., C-410/04; CGCE 11 maggio

2006, Carbotermo SpA e a. c. Comune di Busto Arsizio, C-340/04, CGCE 19 aprile 2007, Trasga, C-

295/05.

In dottrina, per un esame della giurisprudenza europea cfr. inter alia D. CASALINI, Appalti pubblici e

organizzazione in house: un caso spagnolo, in Foro amm. CdS, 2003, 12, 3544; C. E. GALLO,

Disciplina e gestione dei servizi pubblici economici: il quadro comunitario e nazionale nella più

recente giurisprudenza, in Dir. amm., 2005, 2, 351; G. GRECO, Gli affidamenti in house di servizi e

forniture, le concessioni di pubblico servizio e il principio della gara, cit.; A. MASSERA, L’in house

providing, cit.; L. R. PERFETTI, Pubblico servizio, capacità di diritto privato e tutela della

concorrenza. Il caso del facility management, in Riv. it. dir. pubb. comunit., 2002, 1, 177. Con

specifico riguardo al caso Stadt Halle cfr. innanzitutto E. SCOTTI, Le società miste tra in house

providing e partenariato pubblico privato: osservazioni a margine di una recente pronuncia della

Corte di Giustizia, cit.; nonché A. CLARIZIA, Il privato inquina: gli affidamenti in house solo a società

a totale partecipazione pubblica, in www.giustamm.it, 2005; R. DE NISCOLIS, La Corte si pronuncia

in tema di tutela nella trattativa privata, negli affidamenti in house e a società miste, in Urb. app.

2005, 2, 295. Con riguardo al caso Parking Brixen cfr. A. CLARIZIA, La Corte suona il de profundis,

cit; A. COLAVECCHIO, Gli affidamenti in house a “future” società miste, in www.giutamm.it, 2005; F.

GOISIS, I giudici comunitari negano la “neutralità” delle società di capitali (anche se) in mano

pubblica totalitaria e mettono in crisi l’affidamento in house di servizi pubblici locali, in Riv. it. dir.

pubbl. comunit., 2005, 6, 1912; G. F. FERRARI, Parking Brixen: Teckal da totem a tabù, in Dir. pubbl.

comp. eur., 2006, 1, 271; G. PIPERATA, L’affidamento in house nella giurisprudenza del giudice

comunitario, in Giorn. dir. amm., 2006, 2, 133; R. URSI, La Corte di Giustizia stabilisce i requisiti del

controllo sulle società “in house”, in Foro it., 2006, 2, 79. 173

L’espressione è stata utilizzata per la prima volta dall’Avvocato generale A. La Pergola nelle

conclusioni presentate il 19 febbraio 1998, nella causa BFI Holding BV c. Gemeente Arnhem e a., C-

360/96 ed è stata successivamente ripresa dall’Avvocato generale G. Cosmos nelle conclusioni

presentate il 1 luglio 1999 in relazione al più noto caso Teckal srl c. Comune di Viano, C-107/98, dove

si legge: “se un Comune, nel quadro di una migliore organizzazione interna dei prorpi servizi, ha

affidato la fornitura ad uno dei propri uffici di uno di tali servizi, questo significherebbe che ci si trova

di fronte ad una forma di delegazione interorganica che non fuoriesce dalla sua sfera amministrativa”.

Sul punto, in dottrina, cfr. C. IAIONE, Società in house, cit., “la delega interorganica in quanto esclude

la terzietà fra i soggetti del rapporto in house apre un varco alla possibilità di procedere con

affidamento diretto. Pertanto il rapporto che si viene a instaurare si configura in termini di relazione

organizzativa fra soggetti appartenenti entrambi alla sfera amministrativa”, vale a dire come una

vicenda “interna alla PA” (M. MAZZAMUTO, Brevi note, cit.). 174

Inter alia, si sono interrogati sui limiti cui deve soggiacere il ricorso all’autoproduzione,

rinvenendoli di volta in volta nel principio di proporzionalità, in quello di sussidiarietà orizzontale o

nella necessità di un’efficace allocazione delle risorse: R. CAVALLO PERIN, I principi come disciplina

giuridica del pubblico servizio fra ordinamento interno e ordinamento costituzionale, cit.; L. DE

LUCIA, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità, Giappichelli, Torino, 2002; G.

GRECO, Imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, affidamenti in house, cit.; A. PERICU,

Impresa e obblighi di servizio pubblico, Giuffrè, Milano, 2001; S. VARONE, Servizi pubblici e

concorrenza, cit.; G. F. FERRARI, Servizi pubblici locali ed interpretazione restrittiva delle deroghe

alla disciplina dell’aggiudicazione concorrenziale, in Dir. pubbl. comp. eur., 2005, 3, 837.

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139

organizzazione amministrativa” degli enti locali, il quale sembrerebbe vantare anche

un ancoraggio a livello europeo e segnatamente nel principio di autonomia

istituzionale175

.

La disciplina poc’anzi descritta ha trovato applicazione anche nei riguardi del

servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani, atteso che il Codice (o Testo Unico)

dell’ambiente (d. lgs. n. 152 del 2006176

) quanto alle modalità di gestione del servizio

compiva (e compie tuttora) un rinvio alle norme contenute nel TUEL177

.

Segnatamente, all’art. 202 era possibile leggere che “l'Autorità d'ambito aggiudica il

servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani mediante gara disciplinata dai principi

e dalle disposizioni comunitarie, in conformità ai criteri di cui all'articolo 113,

comma 7, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (…)”, dunque non

escludendo affatto la possibilità di ricorrere alla c.d. autoproduzione178

; mentre il

175

In tal senso C. IAIONE, Le società in house, cit., il quale aggiunge “la libertà di autoproduzione, in

quanto componente essenziale dell’autonomia organizzatoria dei singoli apparati istituzionali, non si

pone in insanabile contrasto con la disciplina comunitaria”. Ciò in quanto “il favor per l’apertura dei

mercati alla libera concorrenza non comporta una totale chiusura dell’ordinamento comunitario verso

l’intervento diretto in economia da parte degli enti pubblici, soprattutto se questo risulta

maggiormente coerente con la tutela del cittadino utente”. Dunque – prosegue l’A. – alla stregua del

diritto “costituzionale” comunitario, il contrasto tra l’interesse all’apertura dei mercati, da un lato, e i

valori sociali e le prerogative delle autonomie locali, dall’altro, può risolversi anche con il sacrificio

del primo” laddove ciò sia giustificato da “ragioni obiettive di tutela dell’interesse generale” e tenuto

conto che il “principio di auto-organizzazione è riconosciuto [dall’art. 6, n. 1 della] Carta europea

delle autonomie locali”. Ex multis, cfr. C. E. GALLO, Disciplina e gestione dei servizi pubblici

economici: il quadro comunitario e nazionale nella più recente giurisprudenza, cit.; L. M. DIEZ

PICAZO, Il principio di autonomia istituzionale degli Stati membri dell’Unione europea, in Quad.

cost., 2004, 3, 865; A. PIOGGIA, Servizi pubblici e autonomia locale: i limiti del diritto interno e del

diritto comunitario, cit; F. PIZZETTI, Le autonomie locali e l’Europa, cit.; E. SCOTTI, (voce) Servizi

pubblici locali, cit., A. SCRIMALI, Il Parlamento europeo e la promozione delle autonomie locali negli

Stati membri dell’Unione europea, in Riv. it. dir pubbl. comunit., 2005, 5, 916. Inoltre, con precipuo

riguardo alla Carta europea delle autonomie locali cfr. V. PARISIO, Carta europea delle Autonomie

locali e principio di sussidiarietà, in F. ROVERSI MONACO (a cura di), Sussidiarietà e pubbliche

amministrazioni, Maggioli, Rimini, 1997; ID., Europa delle autonomie locali e principio di

sussidiarietà: la “Carta europea delle Autonomie locali”, cit.; A. PADRONO, La “Carta europea

dell’autonomia locale”: un pilastro nella costruzione dell’Europa unita, in Quad. reg., 1989, 1, 28. 176

Secondo quanto anticipato, si tratta del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, recante Norme in materia

ambientale (G.U. 14 aprile 2006 n.88), adottato in base alla L. delega 14 dicembre 2004 n. 308,

Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia

ambientale e misure di diretta applicazione. Come diffusamente spiegato nel Capitolo I, tale decreto è

stato più volte emendato anche per ciò che concerne la parte relativa ai rifiuti. A tal proposito, si

segnala il d. lgs.3 dicembre 2010 n. 205 (in G.U. 10 dicembre 2010 n. 288) con cui il legislatore

italiano ha inteso recepire la direttiva 2008/98/Ce la quale, a sua volta, ha abrogato la precedente

direttiva 2006/12/Ce. Ai fini che qui interessano, tuttavia, occorre segnalare come le modifiche

apportate alla parte IV del T.U. dell’ambiente abbiano lasciato impregiudicato il rinvio al TUEL per

quanto concerne la scelta delle modalità di affidamento del servizio di gestione dei rifiuti. 177

Più in generale, l’intero decreto era pervaso da rinvii a fonti esterne con ciò ingenerando dubbi

circa la “bontà” o, meglio, l’utilità del lavoro di codificazione compiuto dal legislatore. Sul punto cfr.

M. RENNA, Semplificazione e ambiente, cit. nonché più in generale quanto osservato nel Capitolo I,

retro. 178

In tal senso cfr. C. IAIONE, Le società in house, cit.. Diversamente, A. TRICARICO, La gestione

integrata dei rifiuti. Dall’entrata in vigore del Codice dell’ambiente alla bocciatura della c.d.

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140

successivo art. 203 chiariva che “i rapporti tra le Autorità d'ambito e i soggetti

affidatari del servizio integrato sono regolati da contratti di servizio” e dettava per

quest’ultimo uno schema tipo.

Inoltre il T.U. del 2006, pur recando notevoli segni di continuità con il precedente

decreto Ronchi, non ha mancato di prevedere anche delle importanti novità con

riguardo al profilo organizzativo del servizio de quo. In particolare, si ricorda la

previsione - all’art. 201 - delle citate Autorità d’ambito “in relazione alla necessità di

gestire su scale territoriali ottimali determinati servizi pubblici di rilevanza

ambientale, quali (….) il servizio di gestione integrata dei rifiuti”179

. Detta Autorità

consiste in un ente pubblico dotato di personalità giuridica, costituito in ciascun

Ambito territoriale ottimale, al quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente e

al quale trasferiscono le proprie competenze in materia di gestione integrata dei

rifiuti180

. In altri termini, secondo l’assetto delineato dal legislatore nel 2006, alle

Regioni spetta la regolamentazione in via generale delle attività di gestione e

l’individuazione degli Ambiti territoriali ottimali (ATO), mentre l’organizzazione,

l’affidamento e la verifica circa il corretto espletamento del servizio sono di

competenza delle Autorità d’ambito, strutture consortili cui partecipano gli Enti

locali, le quali sono chiamate anche a stilare il c.d. Piano d’ambito sulla base delle

linee guida dettate dalle Regioni.

In sintesi – osserva la dottrina - la disciplina relativa ai rifiuti contenuta nel Codice

dell’ambiente mirava a porre in primo piano il ruolo delle Autorità d’ambito e delle

Regioni, “superando il precedente sistema, caratterizzato da importanti competenze

seconda liberalizzazione, in www.giustamm.it, 2011, evidenzia come secondo parte della dottrina “il

Codice dell’ambiente avesse ammesso una sola modalità di affidamento del servizio: ritenendo

sussistente, nel settore dei rifiuti, un mercato dove operano soggetti economici, il legislatore - si

diceva - “è intervenuto a tutela di quel mercato, e, in definitiva della concorrenza, creando per i

rifiuti una disciplina di settore diversa rispetto a quella ordinaria. Lo stesso comma 1 dell’art. 202

contiene dei criteri di selezione del gestore (l’ammontare del corrispettivo offerto) che non sono

pertinenti ad un rapporto in house, ma lo sono se si tratta di selezionare un soggetto terzo, pubblico o

privato”. In senso analogo, inoltre –ricorda l’A. – sembravano deporre anche Cons. Stato, V, 13

febbraio 2009 n. 824 e C. Cost. 4 dicembre 2009 n. 314. 179

Così M. RENNA, Le semplificazioni amministrative (nel decreto legislativo n. 152 del 2006), in Riv.

giur. amb., 2009, 5, 651, il quale ricorda altresì come la Legge finanziaria per il 2008 sia intervenuta

sul punto determinando, “nella sostanza, un superamento delle disposizioni del decreto n. 152 sulle

Autorità d’ambito prima ancora che avesse inizio la loro attuazione (…)”. 180

A. LOLLI – J. BERCELLI, I servizi pubblici ambientali (acqua e rifiuti) in Italia. Novità normative,

cit., che scrivono: “ tali nuovi enti sono stati dotati di una propria sede, di un proprio personale, mezzi

e strumenti. Ciò ha determinato in molte realtà nuovi costi e nuove spese per i Comuni”.

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in capo ai Comuni e alle Province, e lasciando comunque in vita una forte ingerenza

statale (in particolare mediante il meccanismo della fissazione di linee guida)”181

.

Tale assetto, tuttavia, come si avrà modo di illustrare tra breve, è stato sin da subito

oggetto di “ripensamenti” da parte del legislatore che – vuoi in ragione delle

vicissitudini normative che hanno interessato la disciplina generale sui servizi

pubblici locali contenuta nel TUEL, vuoi in ragione della crisi economica, che ha

imposto una rimodulazione delle politiche di spesa anche a livello locale – già nel

2008 ha paventato “il superamento delle disposizioni sulle Autorità d’ambito”182

.

Tornando alla disciplina generale, va detto che, dopo alcuni interventi di portata

abbastanza circoscritta183

, tappa di assoluto rilievo nella storia dei servizi pubblici

locali è stata segnata dall’avvento dell’art. 23 bis d.l. 25 giugno 2008 n. 112184

con

cui il legislatore ha apportato (ulteriori) modifiche all’art. 113 TUEL e, più in

generale, è sembrato compiere una “scelta univoca (…) a favore della concorrenza

per il mercato”185

. In particolare, alla proclamata finalità di un “adeguamento alla

disciplina comunitaria”, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 23 bis “i modelli di

gestione dei servizi pubblici locali non sono più posti dal legislatore nazionale, sullo

stesso piano. La gestione esternalizzata e la dismissione delle partecipazioni

pubbliche locali sono dichiarate mezzo ordinario (…), mentre la gestione diretta è

181

In tal senso A. TRICARICO, La gestione integrata dei rifiuti, cit., la quel prosegue puntualizzando:

“Tuttavia, non si può non tener conto del fatto che, sino all’inizio delle attività da parte del gestore

individuato dall’Autorità d’ambito secondo le modalità previste dall’art. 202, i Comuni continueranno

a gestire i rifiuti urbani e i rifiuti assimilati avviati

allo smaltimento. Inoltre, è evidente che i diversi Comuni che compongono l’Ato non possono non

sentirsi coinvolti dal rilevante processo di trasformazione in atto, dovendo - oggi come in futuro -

essere sempre più propositivi rispetto alle scelte dell’Autorità in materia di pianificazione generale,

definizione dei fabbisogni, modalità di erogazione dei servizi, individuazione di adeguate forme di

gestione (eventuale perimetrazione di sub-ambiti, modalità di affidamento dei servizi ad uno o più

gestori, modello di calcolo della tariffa unitaria di servizio, modalità di riscossione della tariffa,

controllo della corretta erogazione dei servizi previsti nei contratti)”. 182

M. RENNA, Le semplificazioni amministrative (nel decreto legislativo n. 152 del 2006), cit.. 183

Si segnalano, in particolare, l’art. 4, comma, della L. 24 dicembre 2003 n. 350; l’art. 1, comma 48,

della L. 15 dicembre 2004 n. 308 e l’art. 15 del d. l. 4 luglio 2006 n. 223 conv. nella L. n. 248/2006. 184

Il d. l. 25 giugno 2008 n. 112, recante “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la

stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria” è stato poi convertito nella L. 6

agosto 2008 n. 133. Peraltro – ricorda P. ROSSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali, cit. –

“il d.l. 25 giugno 2008 n. 112 (…) non contemplava norme di riordino dei servizi pubblici locali.

Nell’iter di conversione, il Governo ha inserito, con un emendamento, l’art. 23 bis, recante norme di

Servizi pubblici locali a rilevanza economica”. 185

Così F. CINTIOLI, I servizi pubblici locali tra perentoria privatizzazione e incerta liberalizzazione,

cit., dove si legge: “la scelta univoca, che era mancata, a favore della concorrenza per il mercato quale

forma ordinaria (e principale) di affidamento dei servizi pubblici, sembra comunque oggi comparire a

chiare lettere nell’ordinamento ed effettivamente è enunciata nella nuova disposizione: “… avviene in

via ordinaria …”. Così come è sin da principio manifesta la volontà legislativa di fortemente limitare

gli affidamenti diretti in house”.

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142

disciplinata come soluzione in deroga, ammessa solo in situazioni eccezionali”186

. Al

comma terzo dell’art. 23 bis si leggeva, infatti, che solo “per situazioni eccezionali

che a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e

geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace

e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire a società a capitale

interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti

dall’ordinamento comunitario per la gestione in house”. E ciò anche qualora il

servizio in questione fosse stato quello di igiene urbana187

.

A distanza di qualche mese, inoltre, il legislatore è intervenuto nuovamente

sull’istituto in commento con l’art. 15 del d. l. 25 settembre 2009 n. 135, poi

convertito nella L. 20 novembre 2009 n. 166188

. La “riforma della riforma”189

ha

186

In questi termini cfr. G. CAIA, I servizi pubblici locali di rilevanza economica, cit., il quale

prosegue osservando criticamente: “eppure , la giurisprudenza comunitaria non aveva mai affermato

che le gestioni dirette non sono conformi ai principi europei”. Anzi, in CGCE 10 settembre 2009, Sea,

C-573/07, i giudici di Lussemburgo hanno affermato che “un’autorità pubblica ha la possibilità di

adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti,

amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non

appartenenti ai propri servizi”. Del pari, l’A. ricorda che il Consiglio di Stato già nel 1998 (Cons. St.,

V, 23 aprile 1998 n. 477) aveva osservato che “l’esternalizzazione dei servizi pubblici non rappresenta

un obbligo per le Pubbliche amministrazioni competenti, potendo esse provvedere con

l’autoproduzione (gestione diretta o, secondo l’odierna terminologia, in house providing). [Pertanto],

quanto richiamato dimostra già che le soluzioni oggi introdotte rientrano semplicemente nelle facoltà

del legislatore italiano e non attengono ad un recepimento di regole comunitarie”.

In senso solo formalmente ma non anche sostanzialmente critico cfr. P. ROSSI, La nuova disciplina dei

servizi pubblici locali, cit., dove con riferimento all’art. 23 bis, comma primo, si legge: “il tenore

letterale della citata previsione appare quantomeno inesatto, poiché i servizi pubblici locali

tradizionalmente non sono oggetto dell’ordinamento comunitario, stante la marginalità geografica del

loro mercato di riferimento; peraltro anche da ultimo il Trattato di Lisbona ha ribadito, all’art. 2 del

Protocollo 26, che i servizi di interesse generale rientrano nella piena discrezionalità regolatoria e

gestionale dei singoli Stati membri. Ciò non toglie che la scelta discrezionale del legislatore italiano di

ancorare la disciplina sui servizi pubblici locali ai principi comunitari relativi ai servizi di interesse

generale, appaia quanto mai ragionevole, anche avuto riguardo alle numerose procedure di infrazione

che la disciplina nazionale italiana ha subito per la sua non conformità al sistema concorrenziale di

libero mercato delineato dalla Costituzione economica europea”. 187

Scrive, infatti, A. TRICARICO, La gestione integrata dei rifiuti, cit.: “l’art. 23 bis del d. l. 112/2008,

definendo una nuova disciplina dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, imponeva principi

omogenei, applicabili trasversalmente ai vari settori, soprattutto con riferimento al profilo

dell’affidamento. E, a spazzare ogni residuo di dubbio, in ordine al rapporto tra normativa speciale e

generale aveva provveduto il tanto atteso Regolamento attuativo, il cui art. 12 alla lettera c) del

comma 1, abrogava espressamente il citato art. 202 ad eccezione della parte in cui assegna all’Autorità

d’ambito il compiuto di affidare la gestione del servizio dei rifiuti”. 188

Il d.l. 25 settembre 2009 n. 135 recava “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi

comunitari e per l’esecuzione delle sentenze della Corte di Giustizia europea” e il suo art 15 era

rubricato “Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza

economica”.

A commento della riforma, oltre alla bibliografia richiamata infra, si segnala D. AGUS, I servizi

pubblici locali e la concorrenza, in Giorn. dir. amm., 2010, 5, 464, il quale in particolare evidenzia il

favor pro concorrenziale che trapela dall’intervento legislativo del 2009. Nel commento si legge,

infatti, che: “una mal celata diffidenza verso logiche di mercato sembra pervadere gli interventi

normativi che hanno avuto la finalità di liberalizzare il settore dei servizi pubblici locali. Tali

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avuto essenzialmente l’obiettivo di chiarire alcuni dubbi interpretativi connessi alla

prima versione dell’art. 23 bis e ha maggiormente circoscritto il suo raggio di

operatività, escludendone l’applicabilità in una serie per nulla risibile di settori, quali

la distribuzione di energia elettrica, il trasporto ferroviario regionale e le farmacie

comunali. Come evidenziato da parte della dottrina, questa delimitazione “non è, di

per sé, un fattore negativo (perché non sempre è opportuno o utile ricondurre ad

un’unica categoria tutti i regimi di diversificate attività che pure presentano alcuni

caratteri comuni), ma è tuttavia segno di una indefinizione della disciplina

complessiva”190

, poiché – tra le altre cose - non viene chiarito il rapporto tra norme

generali e norme di settore che, dunque, non scompaiono191

.

Per ciò che concerne più da vicino il profilo della gestione, inoltre, permane la

distinzione tra modalità ordinarie ed eccezionali di affidamento del servizio, ma le

stesse sono state ulteriormente precisate. In particolare, al comma secondo del

riscritto art. 23 bis le lettere a) e b) descrivono le ipotesi di conferimento in via

ordinaria, avendo riguardo rispettivamente di imprenditori o società “individuati

mediante procedure competitive ad evidenza pubblica” (lett. a)) e di società di

capitali a partecipazione mista pubblico-privata (lett. b)). Peraltro, con riferimento a

tale seconda eventualità, va detto che l’affidamento alle c.d. società miste è stato

subordinato al ricorrere di tre presupposti: i) che la gara per l’individuazione del

socio privato si svolga secondo procedure ad evidenza pubblica nell’osservanza dei

principi di cui alla lett. a); ii) che detta gara abbia ad oggetto, oltre alla qualità di

interventi, infatti, (…) sono stati caratterizzati da incompletezza e hanno spesso lasciato una o più vie

di fuga per ritornare al passato”. Diversamente, il d.l. 112/2008 e ancor più la L. n. 166/2009 segnano

“un punto positivo nel lento e laborioso processo di affermazione dei principi concorrenziali in questo

delicato settore”. 189

In questi termini F. CINTIOLI, I servizi pubblici locali tra perentoria privatizzazione e incerta

liberalizzazione, cit., il quale prosegue individuando i contenuti della riforma. In particolare: a) “si

sono puntualizzati i (piuttosto eterogenei, in verità) al momento esclusi dal suo spettro applicativo

(…)”; b) “si è inclusa la società mista tra i casi di gestione legittima del servizio”; c) “si è meglio

delineata la tipologia dell’in house, la cui eccezionalità è stata confermata e sostanzialmente

rafforzata”; d) “sono stati eliminati gli interventi delle autorità di regolazione, lasciando solo il parere

preventivo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (…); e) “è stato introdotto, per via

legislativa, quel regime transitorio che la fonte regolamentare non era riuscito a prevedere”. 190

Così G. CAIA, I servizi pubblici locali di rilevanza economica, cit., il quel prosegue preconizzando:

“la rilevata incompletezza della attuale disciplina di legge sui servizi pubblici locali di rilevanza

economica e la conseguente circostanza che non si è ancora pervenuti ad un assetto finale delle

riforme, che pure il legislatore insiste a voler introdurre (seppur secondo linee che mutano in brevi

lassi di tempo), lascia presagire ulteriori e forse prossimi interventi normativi”. 191

Al riguardo cfr. M. DELSIGNORE, L’ambito di applicazione, cit., dove si legge: “L’aspirazione a

dettare una normativa generale resta tale: i settori esclusi sono tanti e tali da non permettere di

affermare l’esistenza di una disciplina trasversale sui servizi pubblici locali. (…) Le esclusioni

comportano l’applicazione di regimi settoriali diversi, che non rispondono alla medesima logica”.

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socio, anche l’attribuzione di compiti operativi connessi alla gestione del servizio

(c.d. gara a doppio oggetto); ed, infine, iii) che al socio privato faccia capo una

partecipazione non inferiore al 40 per cento192

.

Quanto all’affidamento in house, invece, questo in virtù del d. l. n. 135 del 2009 ha

assunto la foggia di “un’eccezione sempre più … eccezionale”193

. Come osservato da

parte della dottrina, infatti, il nuovo comma terzo dell’art. 23 bis sembra

circoscrivere ulteriormente le possibilità di ricorso a detto modello gestionale. Sia

perché utilizza l’espressione “situazioni eccezionali”, anteponendola alla descrizione

delle “peculiari caratteristiche”; sia perché consente l’affidamento unicamente in

favore di società a capitale interamente pubblico locale, subordinatamente ad

un’indagine volta al riscontro del fallimento del mercato; sia, infine, perché

contempla espressamente la necessità che tali società posseggano i requisiti imposti

dall’ordinamento comunitario per la gestione in house (…)”194

.

Ovviamente di fronte ad un sistema il cui baricentro è così nettamente sbilanciato a

favore dell’esternalizzazione dei servizi pubblici, le reazioni della dottrina e, in parte,

192

Sul punto cfr. S. TARULLO, Il restyling nella gestione dei servizi pubblici locali: osservazioni

minime sull’art. 23 bis del D.L. 112/08 come riformato dal D.L. 135/09, in www.giustamm.it, 2009, il

quale prosegue osservando: “probabilmente la strada intrapresa è virtuosa, ma merita di essere

puntellata con qualche certezza in più, tenendo conto della connotazione di monopolio naturale che

caratterizza i servizi locali erogati attraverso infrastrutture e reti e della conseguente soppressione di

ogni spazio di scelta in capo ai destinatari”. In particolare, l’A. afferma in senso critico che “la

rivisitata lett. b) del comma 2 non chiarisce la sorte della società mista difforme, per tale intendendosi

quella che non rispetti la soglia del 40 per cento di partecipazione del privato ovvero non riconduca a

quest’ultimo compiti effettivamente operativi”.

Ex multis sulle società miste dopo la riforma del 2009 cfr. S. VALAGUZZA, Gli affidamenti a terzi e a

società miste, in R. VILLATA (a cura di), La riforma dei servizi pubblici locali, cit.. 193

Così S. TARULLO, Il restyling nella gestione dei servizi pubblici locali, cit.. Inoltre cfr. V. PARISIO,

Forma privatistica e sostanza pubblicistica: modello societario e gestione dei servizi pubblici locali,

in www.giustamm.it, 2012, dove si legge: “a dimostrazione dell’atteggiamento di aperta ostilità

dimostrata dal legislatore, si prevedeva che l’ente locale verificasse l’impossibilità di mettere sul

mercato il servizio e adottasse un’apposita delibera con analitica motivazione circa le ragioni che non

rendevano possibile l’apertura al mercato (il fallimento del mercato) e, contestualmente veniva

richiesto un parere all’Antitrust, da rilasciare entro sessanta giorni”. 194

In questi termini S. TARULLO, Il restyling nella gestione dei servizi pubblici locali, cit., il quale

evidenzia “che la novella reca in sé una potenzialità di evoluzione ermeneutica esplicitamente legata a

futuri arresti della Corte di Giustizia. Tale riflessione dimostra una volta di più il carattere osmotico

che ha oggi assunto il rapporto tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario; carattere tale

per cui le nozioni del diritto comunitario rilevanti per il diritto interno devono essere ormai

interpretate ed applicate (anche dai giudici italiani) in sintonia con gli orientamenti dei giudici

lussemburghesi”. Per altro la disciplina dell’in house di cui al descritto comma terzo dell’art. 23 bis si

completa da quanto previsto al successivo comma quarto. A mente del quale – ricorda l’A. – l’ente

affidante deve dare “adeguata pubblicità alla scelta , motivandola in base ad un’analisi di mercato” e,

contestualmente, deve trasmettere “una relazione contenente gli esiti della predetta verifica

all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per acquisirne il parere”. Ex multis, per

un’analisi della disciplina dell’in house a seguito della riforma del 2009 cfr. F. GOISIS, L’in house

nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali, in R. VILLATA (a cura di), La riforma dei servizi

pubblici locali, cit..

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145

anche della giurisprudenza non potevano che essere altrettanto nette195

. Si è, infatti,

registrata una chiara divisione tra quanti, “liberalizzatori”196

, hanno salutato con

favore la riforma, vedendo nella stessa un possibile volano verso un sistema più

marcatamente concorrenziale, e chi, viceversa, ha creduto di dover prendere le

distanze da quanto positivizzato dal legislatore, rinvenendo nelle nuove norme il

germe di un possibile scollamento tra il servizio pubblico e il contesto in cui lo stesso

deve essere espletato197

. Insomma, come a voler dire che la concorrenza non è

tutto198

e che sarebbe auspicabile il riconoscimento di una maggiore autonomia in

capo agli enti locali nella “definizione delle modalità di gestione dei servizi”, senza

limitare la stessa alla mera “scelta tra le forme predeterminate dal legislatore”199

.

III.4 (SEGUE) DAL REFERENDUM ABROGATIVO DEL 2011 ALLA LEGGE 17 DICEMBRE

2012 N. 221

La questione, peraltro, lungi dall’essere relegata al mero bizantinismo accademico ha

presto assunto le sembianze del dibattito pubblico, dal momento che il tema della

195

Inter alia cfr. Cons. Stato, V, 26 gennaio 2011 n. 552 che, a fronte del descritto assetto normativo,

ha ritenuto legittima la scelta di procedere alla gestione diretta in economia di un servizio pubblico,

rigettando di conseguenza la tesi di “un vincolo assoluto a rivolgersi all’esterno”. 196

Così F. CINTIOLI, I servizi pubblici locali tra perentoria privatizzazione e incerta liberalizzazione,

cit.. 197

In particolare, cfr. M. DELSIGNORE, L’ambito di applicazione, cit., dove si legge che “il servizio

pubblico locale, in particolare, evoca, ancor più del servizio pubblico tout court, il ruolo

dell’Amministrazione, locale appunto, nel mettere a disposizione del cittadino utente quell’attività

qualificata come servizio pubblico. L’elemento della titolarità, intesa quale scelta in capo all’ente

locale di qualificare l’attività di pubblico servizio, è essenziale e ineliminabile”. 198

Sul punto particolarmente significativa la posizione di F. FRACCHIA, I servizi pubblici e la retorica

della concorrenza, cit., il quale a proposito della “fibrillazione normativa” che da oltre un decennio

caratterizza la materia dei servizi pubblici locali nonché a proposito della oramai nota pronuncia C.

Cost. 17 novembre 2010 n. 325, afferma che “il valore della concorrenza non è il filtro teorico che

consente di catturare compiutamente l’essenza del fenomeno dei servizi pubblici. (…) Guardando con

fissità a questo valore, che, tra l’altro, neppure compare in modo espresso in Costituzione nell’art. 41,

infatti, a tacere del fatto che per definizione si trascurano i servizi non a rilevanza economica,

sfuggono porzioni essenziali dell’istituto e, in particolare, rimane in ombra il rapporto con gli utenti.

(…) Ancora una volta, la soluzione ricercata per risolvere un problema peculiare di competenza

legislativa statale (si ricorda, infatti, che nella citata pronuncia la Corte costituzionale si è pronunciata

in ordine alla legittimità dell’art. 23 bis, come modificato nel 2009. Più nello specifico, il Giudice

delle Leggi ha dichiarato infondata la questione ritenendo che la disciplina dei servizi pubblici locali

rientri nella materia della tutela della concorrenza e, dunque, nella competenza esclusiva dello Stato ex

art. 117 Cost.) rischia di appiattire lungo una sola dimensione un quadro normativo molto più

complesso e articolato, impedendo di coglierne la profondità”. Pertanto, “è forse giunto il momento di

separare i temi e di isolare la specificità dei servizi pubblici, chiarendo con cura che la concorrenza

non è l’unico obiettivo dell’istituto, ma è uno dei problemi da esso intercettato e, al più, si configura

come uno strumento utilizzabile per risolvere questioni peculiari”. 199

Così E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit..

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146

gestione dei servizi pubblici locali è stato oggetto nel 2011 di un referendum

abrogativo e, successivamente, di un (ennesimo) intervento legislativo200

.

In particolare, all’esito delle consultazioni svoltesi nel giugno del 2011, l’art. 23 bis è

stato abrogato201

e, per l’effetto, nell’agosto dello stesso anno il Governo ha adottato

il d. l. n. 138/2011202

, il cui art. 4 reca “Disposizioni di adeguamento della disciplina

dei servizi pubblici locali all’esito referendario ed alla normativa comunitaria”. Detto

articolo, è intervenuto “in parte a reintrodurre le disposizioni sancite dal d. P. R. 168

200

In proposito, nella vastità dei contributi dottrinari si segnalano: E. FURNO, La never ending story

dei servizi pubblici locali di rilevanza economica tra aspirazioni concorrenziali ed esigenze sociali:

linee di tendenza e problematiche aperte alla luce del d.l n. 138/2011, convertito nella L. n. 148/2011,

in www.giustamm.it, 2011; A. LUCARELLI, Primissime considerazioni a margine degli artt. 4 e 5

decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011 e relativo impatto sui servizi pubblici locali, in

www.rivistaaic.it, 2011; D. MASETTI, La nuova (?) disciplina dei servizi pubblici locali dopo il

referendum abrogativo del 12-13 giugno 2011, in www.giustamm.it, 2011; V. PARISIO, Forma

privatistica e sostanza pubblicistica: modello societario e gestione dei servizi pubblici locali, cit.; L.

PERFETTI, La disciplina dei servizi pubblici locali ad esito del referendum ed il piacere

dell’autonomia locale, in Giorn. dir. amm., 2011, 9, 484; G. PIPERATA, Il cammino lento e incerto dei

servizi pubblici locali dalla gestione pubblica al mercato liberalizzato, in Munus, 2011, 1, 42; I.

RIZZO, La disciplina dei servizi pubblici locali dopo il referendum, in Urb. e app., 2011, 8, 899; P.

SABBIONI, Il ripristino della disciplina abrogata con referendum: il caso dei servii pubblici locali di

rilevanza economica, in Forum di quaderni costituzionali, 2011; F. TRIMARCHI BANFI, Procedure

concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto dell’Unione e nella Costituzione (all’indomani della

dichiarazione di illegittimità delle norme sulla gestione dei servizi pubblici economici), in Riv. it. dir.

pubbl. comunit., 2012, 5, 669; C. VOLPE, Appalti pubblici e servizi pubblici. Dall’art. 23 bis al

decreto legge manovra di agosto 2011 attraverso il referendum: l’attuale quadro normativo, in

www.giustamm.it, 2011. 201

Peraltro unitamente all’art. 154, primo comma, del d. lgs. n. 152/2006, meglio noto come Codice

dell’ambiente. L’abrogazione è stata disposta con i d. P.R. 18 luglio 2011 n. 113 e n. 116 (in G.U. 20

luglio 2011 n. 167) e ha avuto quale effetto la caducazione del regolamento attuativo dell’art. 23 bis,

ossia il d. P.R. 168 del 2010. Per ciò che concerne le conseguenze che l’esito del Referendum ha

prodotto sul settore dei rifiuti cfr. A. TRICARICO, La gestione dei rifiuti, cit., la quale afferma che tutto

ciò si traduceva: “nell’esclusione della reviviscenza dell’art. 202 del d.lgs. 152/200657; nella

sopravvivenza della disciplina abrogata con riguardo ai rapporti sorti in precedenza, attesa l’efficacia

ex nunc dell’abrogazione; nella permanenza della possibilità di avvalersi della “gara pubblica” per la

scelta del gestore, considerato che, pur non rappresentando più il modello ordinario imposto per

espressa volontà legislativa, non avrebbe potuto essere esclusa nell’ambito di un settore, qual è quello

dei rifiuti, in cui è dimostrata l’esistenza di un mercato concorrenziale e di operatori economici

altamente specializzati; nella opportunità di ricorrere all’affidamento in house, che, pur non essendo

più qualificabile come derogatorio, avrebbe comunque richiesto un’adeguata motivazione, attesi i

limiti tratteggiati dalla Comunità Europea (partecipazione pubblica totalitaria, controllo analogo ed

attività prevalente), ma anche quelli interni fissati dalla giurisprudenza della Corte dei Conti in

materia di partecipazione degli Enti locali in società di diritto privato; nell’eliminazione dell’obbligo

di addurre la sussistenza di caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del

contesto di riferimento tali da non consentire un efficace ed utile ricorso al mercato, sottoponendo la

congruità di tale valutazione al parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (…)”. 202

Il decreto 13 agosto 2011 n. 138, rubricato “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione

finanziaria e per lo sviluppo” (GU 13 agosto 2011 n. 133) è stato poi convertito nella L. 14 settembre

2011 n. 148 (in G.U. 16 settembre 2011 n. 216). Sul punto cfr. in senso critico V. PARISIO, Forma

privatistica e sostanza pubblicistica, cit., la quale afferma che “il legislatore è intervenuto per colmare

un vuoto normativo che, in realtà, non sussisteva, in quanto trovano diretta applicazione i principi

europei. La gestione in house providing era dunque pienamente ammissibile [per il solo fatto

dell’abrogazione dell’art. 23 bis], a condizione che fossero rispettati i soli requisiti posti dalla

giurisprudenza della Corte di Giustizia (…)”.

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147

del 2010 ed, in parte, a modificarne il contenuto, non senza dare adito a dubbi

interpretativi”203

.

Innanzitutto, per ciò che concerne l’ambito applicativo, la nuova disciplina in ragione

dell’esito referendario non trovava applicazione nei riguardi del servizio idrico

integrato204

, oltre che negli altri casi già esclusi dall’(abrogato) art. 23 bis205

. La

203

In questi termini A. AZZARITI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dopo il referendum:

le novità e le conferme della legge 148/2011, in Ist. del federalismo, 2011, 3, 531, dove si legge: “la

norma ha suscitato dubbi di legittimità costituzionale, da un lato, in relazione al divieto di formale e

sostanziale ripristino della normativa abrogata discendente dagli artt. 5 e 75 Cost.,

nell’interpretazione resa dal giudice costituzionale, e, dall’altro, in relazione ai principi di autarchia ed

autodeterminazione degli enti locali nello svolgimento delle funzioni di affidamento dei servizi

pubblici locali, discendenti dagli artt. 5, 114, 118 Cost.”.

Quanto al primo profilo, si anticipa sin d’ora che la Corte costituzionale nel luglio del 2012 ha

ritenuto illegittimo l’art. 4 d. l. n. 138 del 2011 per violazione dell’art. 75 Cost.. Secondo parte della

dottrina (G. MONTEDORO – L. TRETOLA, La liberalizzazione dei servizi pubblici locali dopo la nuova

“riforma” del decreto “Cresci Italia” 2012, in www.giustamm.it, 2012), tuttavia, tale esito poteva

ritenersi in qualche modo preconizzato dalle sentenze con cui il Giudice della Legge si era

pronunciato in ordine all’ammissibilità dei quesiti referendari (Corte cost. 26 gennaio 2011 n. 24. In

dottrina cfr. A. LUCARELLI, I servizi pubblici locali verso il diritto pubblico europeo dell’economica,

in Giur. Cost., 2001, 1, 247 e ss.), dove si legge: “… all’abrogazione dell’art. 23 bis, da un lato non

conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo; dall’altro, conseguirebbe

l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria”. Dunque, secondo la

medesima dottrina, all’esito delle consultazioni popolari avrebbe dovuto trovare immediata

applicazione l’art. 106 TFUE, da cui deriva anche l’ammissibilità della gestione in house nel rispetto

dei criteri fissati dalla giurisprudenza europea. 204

Non è passato inosservata, infatti, la circostanza che la consultazione popolare del giugno 2011 si è

imposta all’attenzione della società tutta come “referendum sull’acqua”, benché in realtà il quesito

avesse riguardo dell’intera categoria dei servizi pubblici locali. In proposito, dunque, D. BALDAZZI, La

sentenza n. 199 del 2012: tra intentio del Comitato promotore e tutela della volontà referendaria, in

Quad. cost., 2012, 4, 871 sottolinea come la vicenda de qua sia emblematica del “cortocircuito che si

può instaurare tra il rispetto delle prerogative del Comitato promotore e la tutela della volontà

referendaria oggettiva”. “La normativa adottata successivamente al referendum, in realtà, sembrava

corrispondere proprio alla intentio dei promotori, perché effettivamente sottraeva le modalità di

affidamento del SII alla disciplina generale dei servizi pubblici locali (…) la Consulta la pone però

ugualmente nel nulla, poiché rileva che essa riproduce – anche testualmente – la disposizione

abrogata”. Da ciò l’A. desume che “l’assenza di un rapporto di rappresentanza diretta tra promotori ed

elettori e la mancanza di una motivazione esplicita della richiesta di abrogazione impediscono di

interpretare l’iniziativa secondo il significato attribuitole dai promotori, quando tale significato non

corrisponde alla ratio oggettiva del quesito”. Detto in altri termini, “la volontà popolare deve (…)

essere difesa dalle interferenze del legislatore, ma anche dalle possibili strumentalizzazioni del

Comitato promotore”. 205

Sul punto cfr. S. STAIANO, I servizi pubblici locali nel decreto-legge n. 138 del 2011. Esigenze di

stabile regolazione e conflitto ideologico immaginario, cit., dove si legge: “la soluzione -

comprensibilmente mossa da intenti di opportunità politica - non è del tutto lineare. Infatti, le

conseguenze dell’esito positivo del referendum abrogativo (…) consistono nell’applicazione

immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (…). Ora, l’art. 4 del d. l. n. 138 del

2011 ripercorre, sotto molti profili, l’impianto dell’abrogato art. 23 bis del d. l. n. 112 del 2008,

prevedendo, tuttavia, in luogo delle “situazioni eccezionali” alla luce delle quali il terzo comma di tale

disposto consentiva l’affidamento in house, un diverso modo per limitare - sensibilmente – il ricorso

a tale modello di gestione dei servizi, consistente nella previsione di una soglia di valore. Se tale

soluzione fosse conforme all’esito referendario, lo sarebbe anche per il servizio idrico integrato,

sicché la previsione specifica a questo riferita (l’aggiunta nell’elenco dei settori esclusi) non

apparirebbe necessitata, ben potendo anche il servizio idrico integrato essere assoggettato al generale

quadro regolativo comunitario. (…) E la previsione dell’art. 4, d. l. n. 138 del 2011 potrebbe apparire

un modo per eludere la volontà referendaria (…) la quale non sembra consentire un trattamento in

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148

stessa, dunque, si applicava “a tutti gli altri servizi pubblici di rilevanza economica,

tra cui quelli aventi un’apposita disciplina settoriale, come il servizio gestione rifiuti

ed il trasporto pubblico locale, e quelli privi di una propria regolamentazione di

settore, come i servizi cimiteriali, illuminazione pubblica (…)”206

.

Quanto, invece, al profilo gestionale, l’art. 4 prevedeva la possibilità di ricorrere

alternativamente all’affidamento: a) a società, in qualsiasi forma costituite, a mezzo

di gara e nel rispetto dei principi comunitari e nazionali in materia di contratti

pubblici; b) a società miste pubblico-private, dove il socio privato detiene (almeno) il

40% delle quote e viene selezionato con una gara c.d. a doppio oggetto207

; c) diretto a

società in house, purché siano rispettati i requisiti del controllo analogo e

dell’attività prevalente e purché il servizio abbia un valore economico non eccedente

la soglia massima di 900 mila euro. In sostanza, il legislatore del 2011 ha eliminato il

netto distinguo tra modelli ordinari e ipotesi eccezionali, poiché la possibilità di

ricorrere all’in house providing è stata subordinata “unicamente al mancato

raggiungimento di una determinata soglia economica, in assenza dei presupposti

sostanziali e procedurali precedentemente previsti”208

. Il che, tuttavia, da più parti, è

stato ritenuto un limite comunque troppo stringente all’autoproduzione209

, specie in

ragione di quello che era stato l’esito referendario.

malam partem, quanto all’autonomia di scelta del modello di gestione, per i servizi pubblici a

rilevanza economica diversi dal servizio idrico integrato”. 206

Così A. AZZARITI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dopo il referendum, cit., la quale

prosegue sottolineando come “in relazione alla prima tipologia di servizi [quelli oggetto di una

disciplina ad hoc], va osservato che l’attuale norma non contiene un’espressa clausola di prevalenza

rispetto alla normativa di settore così come, invece, disponeva l’art. 23 bis, comma 1, in deroga al

principio generale lex posterior generalis non derogat priori specialis”. 207

Come evidenzia S. STAIANO, I servizi pubblici locali nel d. l. n. 138 del 2011, cit., “è consentita la

società mista pubblico-privata, purché siano svolte procedure competitive a evidenza pubblica sia per

la scelta del socio privato (per una quota non inferiore al quaranta per cento) sia per l’attribuzione “di

specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio (art. 4, c. 12)”. 208

In questi termini A. AZZARITI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dopo il referendum,

cit.. L’A. inoltre ricorda come nella primigenia versione del d. l. n. 138 del 2011 la possibilità di

ricorrere all’affidamento diretto fosse subordinata allo svolgimento da parte dell’ente locale di un’

istruttoria (da effettuarsi a mezzo di un’analisi di mercato da trasporre in una c.d. delibera quadro)

tesa a comprovare il fallimento del mercato in un determinato settore. Tuttavia “la disposizione, così

formulata, avrebbe imposto all’ente locale una prova disagevole, implicante uno studio approfondito

delle esternalità di produzione e consumo, delle situazioni di monopolio e delle possibilità regolative

dei servizi, con notevoli difficoltà di adeguamento per gli enti locali minori”. Pertanto, “in sede di

conversione tale inciso è stato abolito, introducendo, in sostituzione, l’obbligo meno stringente per

l’ente locale di motivare le ragioni della decisione e i benefici per la comunità locale derivanti dal

mantenimento di un regime di esclusiva del servizio, ora previsto dall’art. 4, comma 2, della legge

148/2011”. Ex multis, sull’argomento cfr. S. STAIANO, I servizi pubblici locali nel decreto legge n.

138 del 2011, cit., in particolare pp. 5 e 6. 209

Ad esempio, evidenziano il carattere stringente delle misure pro-concorrenziali introdotte dal

legislatore dopo il referendum, M. CAPANTINI, La sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012:

i servizi pubblici locali dopo la decisione della Corte costituzionali, in Quad. cost., 2012, 4, 868 ed E.

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149

Il (solo apparente) revirement legislativo, dunque, ha indotto ad interrogarsi – ancora

una volta - circa il ruolo dell’in house e il grado di autonomia riconosciuto agli enti

locali, specie in rapporto a quello che, stando alla lettera della legge, sembrava essere

l’obiettivo primo della (ennesima) riforma, vale a dire la tutela della concorrenza210

.

Al riguardo, preme osservare come, nonostante sia la dottrina “classica”211

sia un

certo filone giurisprudenziale212

abbiano costantemente evidenziato l’inerenza agli

enti locali delle scelte gestorie dei servizi pubblici locali, gli interventi legislativi

SCOTTI (voce) Servizi pubblici locali, cit., che scrive: “la discposizione abrogata è stata poi riproposta

con previsioni peraltro ancor più limitative, rafforzate da misure di coazione dirette e indirette, quali

poteri sostitutivi e misure premiali”. Ancor più critico, E. FURNO, Le tortuose vie dei servizi pubblici

locali di rilevanza economica tra legislatore, referendum e Corte costituzionale: palla al centro?, in

www.giustamm.it, 2012, il quale sottolinea come le “poche novità introdotte dall’art. 4 (…)

accentuavano la drastica riduzione (rectius, impossibilità in concreto se non per i c.d. servizi

innominati) delle ipotesi di affidamento diretto dei servizi pubblici locali, prevedendo vincoli ancor

più stringenti, e/o la sottrazione, dall’ambito di applicazione della stessa disposizione, del servizio

idrico integrato, trattandosi per la restante parte di sostanziale (e non solo formale) riproduzione della

disciplina già abrogata in via referendaria”. Estremamente interessanti, infine, le considerazioni

sviluppare da F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto

dell’Unione e nella Costituzione, cit., la quale scrive: “le previsioni della legislazione statale in tema

di gestione in house sono (o meglio erano) più restrittive di quelle del diritto europeo, ma quelle che il

giudice costituzionale presenta come ulteriori condizioni, poste dalla legge statale affinché fosse

consentita la gestione in house, non sono propriamente tali”. Infatti, mentre “le condizioni della

gestione in house secondo il diritto europeo sono coerenti con le ragioni che richiedono che,

dovendosi scegliere tra una pluralità di interessi si proceda con gara (…) Al contrario, le restrizioni

introdotte dalla legge statale miravano a ridurre la possibilità di ridurre la possibilità di ricorrere alla

gestione in house, fermi restando i caratteri della figura organizzativa come disegnata dal diritto

europeo”. In altri termini, “il diritto interno lasciava inalterate le condizioni che identificano la

fattispecie della gestione in house, e semplicemente ne vietata l’impiego, salvo casi eccezionali.

[Dunque, esso] non procedeva più avanti sulla strada segnata dal diritto europeo, ma procedeva

piuttosto per una strada diversa”. 210

In ordine al “valore” della concorrenza, oltre alle sopra richiamate riflessioni di F. FRACCHIA, I

servizi pubblici e la retorica della concorrenza, cit., cfr. G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo,

cit., il quale osserva come da alcuni anni “si era diffusa in Italia l’idea, del tutto infondata, che

l’ordinamento dell’U. E. avesse posto il mercato come una sorta di Grund norm alla quale tutte le altre

dovevano piegarsi”. 211

Cfr., ad ex., U. BORSI, Le funzioni del Comune italiano, in V. E. ORLANDO (a cura di), Primo

trattato completo di diritto amministrativo, II, Milano, 1915. Inoltre, più di recente cfr. E. SCOTTI,

(voce) Servizi pubblici locali, cit.. 212

Per ciò che concerne la giurisprudenza nazionale cfr., a titolo esemplificativo, Cons. Stato, V, 23

aprile 1998 n. 477, dove si legge che “la tutela comunitaria del mercato non interferisce sino a

disconoscere ai singoli apparati istituzionali ogni margine di autonomia organizzativa nell’approntare

la produzione e l’offerta dei servizi e delle prestazioni di rispettiva competenza”. Ma anche Corte

Cost. 27 luglio 2004 n. 272 che - nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’allora art. 113,

comma settimo, secondo e terzo periodo del TUEL - da un lato, ha affermato che la fissazione dei

principi fondamentali in materia di servizi pubblici economici rientra nella competenza legislativa

esclusiva dello Stato ex art. 117, comma secondo, lett. e); ma, dall’altro lato, ha posto dei limiti alla

potestà legislativa dello Stato ritenendo che la stessa non possa tradursi in una eccessiva compressione

dell’autonomia regionale e locale nella materia de qua. Ex multis, per ciò che concerne la

giurisprudenza comunitaria, cfr. CGCE, Grande sezione, 9 giugno 2009, C-480/06 dove si legge che

“un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico su si essa incombenti mediante

propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi

e che può farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche” poiché “il diritto comunitario

non impone in alcun modo alle autorità pubbliche di ricorrere ad una particolare forma giuridica per

assicurare in comune le loro funzioni di servizio pubblico”.

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150

occorsi negli ultimi anni “sembrano ispirati, alternativamente, all’estensione ovvero

alla compressione dell’autonomia organizzativa degli enti locali”213

. Ebbene, in tale

contesto - secondo parte della dottrina - la riforma operata con la legge n. 148 del

2011 non lasciava intravedere chiaramente quali spazi di autonomia residuassero in

capo agli enti locali, specie in ragione del fatto che il legislatore aveva nuovamente

tipizzato in maniera piuttosto dettagliata i possibili moduli organizzativi dei servizi

pubblici locali, ricalcando nella sostanza quanto previsto dall’originaria versione

dell’art. 23 bis214

.

Sul punto, se nessun chiarimento è emerso dalle riforme che, tra la fine del 2011215

e

i primi mesi del 2012216

, hanno interessato l’istituto de quo, maggiori indicazioni si

213

In questi termini A. AZZARITI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dopo il referendum,

cit.. Infatti, osserva l’A., mentre “l’apparato regolatorio delineato dal previgente art. 113 TUEL, come

modificato dall’art. 14 del d. l. n. 268/2003, (…) era incentrato sulla sostanziale equiordinazione ed

alter natività dei modelli organizzativi previsti, tra cui l’in house providing (…), diversamente, la

riforma attuata dal decreto Ronchi, attraverso l’indicazione tassativa delle forme di gestione dei

servizi pubblici locali e riconduzione del modulo organizzativo in house providing ad un ambito

derogatorio, preclude all’ente locale ogni determinazione in ordine alla scelta di rivolgersi al mercato

o gestire in proprio il servizio”. E, ancora, “la consultazione referendaria del 12 e del 13 giugno 2011

ed il successivo intervento normativo avutosi con la legge 148/2011 hanno rimesso in discussione i

principi in precedenza affermati. A fronte dell’abrogazione referendaria dell’art. 23 bis, sembra

riespandersi l’autonomia organizzativa degli enti locali nelle scelte dei modelli di gestione”. In senso

analogo cfr. anche G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi

pubblici locali. Alla ricerca del filo di Arianna, cit., il quale scrive: “ciò che colpisce (…) è l’assenza

di coordinate coerenti di medio-lungo periodo, che è alla base della contraddittorietà delle politiche

legislative; l’autonomia degli enti locali non è mai stata tanto enfatizzata quanto,

contemporaneamente, compressa”. 214

In tal senso cfr. A. AZZARITI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dopo il referendum,

cit., dove si legge: “si pone il dubbio se, a fronte della disciplina introdotta dall’art. 4 della legge

148/2011, residuino spazi di autonomia per gli enti locali in ordine all’utilizzo di forme di gestione

non codificate. Si pensi, ad esempio, alla gestione in economia” o alle c.d. non profit utilities, in

ordine alla quale C. IAIONE, L’alba del giorno dopo nei servizi pubblici locali, in www.labsus.org,

2011, scrive: “si tratta di un modello organizzativo, generalmente di diritto privato, che (i) coinvolge

nella proprietà o, quantomeno, nella titolarità di un SPL tutti gli stakeholders e, quindi, in primis i

cittadini; (II) non prevede una distribuzione integrale degli utili prodotti ai diversi soci, bensì il loro

reimpiego quasi esclusivo per il potenziamento/ammodernamento delle infrastrutture e/o per il

miglioramento della qualità del servizio. Sotto il primo profilo, si tratta di formule gestorie nelle quali

i cittadini non sono più meri utenti perché, anche se con gradazioni diverse, vengono coinvolti nella

gestione dei servizi. (…) Sotto il secondo profilo, in una NPU i ricavi tariffari vengono utilizzati

anzitutto per coprire i costi operativi e i costi del capitale di debito (…). L’utile netto d’impresa,

invece, no viene destinato alla distribuzione di dividendi se non sotto forma di sconto sulle tariffe

praticate ai cittadini”. 215

L’art. 4 della L. n. 148 del 2011, infatti, è stato modificato a pochi mesi dalla sua entrata in vigore

dall’art. 9 della L. 12 novembre 2011 n. 183 (c.d. Legge di stabilità per il 2012). Al riguardo cfr. A.

LUCARELLI, La sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 e la questione della inapplicabilità del

patto di stabilità interno alle s.p.a. in house e alle aziende speciali, in www.federalismi.it, 2012. 216

Nel gennaio del 2012 il legislatore è intervenuto nuovamente nella materia de qua con l’art. 25 del

d. l. 24 gennaio 2012 n. 1(c.d. decreto Cresci Italia), successivamente convertito in L. 24 marzo 2012

n. 27, per un’analisi del quale cfr. G. MONTEDORO – L. TRETOLA, La liberalizzazione dei servizi

pubblici locali, cit.. In particolare, l’art. 25 - rubricato “Promozione e concorrenza dei servizi pubblici

locali” – ha inciso sull’impianto del d. l. n. 138 del 2011 a) introducendo un art. 3 bis recante “ambiti

territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali”; b) integrando

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evincono dalla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale. Quest’ultima,

infatti, nel luglio del 2012 si è pronunciata in ordine alla legittimità dell’art. 4 d. l. n.

138 del 2011 rispetto all’art. 75 Cost.217

, ritenendo come “una norma legislativa che

quanto previsto a norma dell’art. 4 ed, infine, ha modificato in parte l’art. 114 TUEL, introducendo il

comma 5 bis “secondo cui anche le aziende speciali e le istituzioni sono assoggettate al patto di

stabilità interno”. Più nel dettaglio, per ciò che concerne l’art. 3 bis il legislatore ha inteso “in primo

luogo, determinare l’accelerazione della costituzione di ambiti territoriali ottimali di dimensioni

adeguate per una organizzazione più efficiente dei servizi”. Inoltre, lo stesso articolo introduce “la

previsione secondo cui le società in house sono assoggettate al patto di stabilità interno, secondo

quanto disporrà un decreto ministeriale (…): a tal fine, sarà l’ente locale o l’ente di governo locale

dell’ambito o del bacino a vigilare sul rispetto dei derivanti vincoli da parte di dette società in house”.

Infine, la legge Cresci Italia ha inciso sull’art. 4 prevedendo l’obbligo per l’ente pubblico “di operare a

monte una valutazione sulla presenza o meno delle condizioni per una liberalizzazione di un servizio

(di cui ha preventivamente determinato i contenuti degli obblighi di servizio pubblico e universale),

scegliendo se optare per l’attuazione di una concorrenza nel mercato o per il mercato”. Inoltre

“all’esito della verifica l’ente adotta una delibera quadro che illustra l’istruttoria compiuta ed

evidenzia, per i settori sottratti alla liberalizzazione, i fallimenti del sistema concorrenziale e,

viceversa, i benefici per la stabilizzazione, lo sviluppo e l’equità all’interno della comunità locale

derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio”. Infine, vengono descritte le

modalità di affidamento del servizio da erogare in diritto di esclusiva e si prevede che il conferimento

della gestione possa avvenire: a) “in favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite

individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica (…)”; b) in favore di società miste

pubblico-private; c) “in deroga a quanto previsto dai commi 8, 9, 10, 11 e 12 se il valore economico

del servizio oggetto dell’affidamento è pari o inferiore alla somma complessiva di 200.000 euro annui,

l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico che abbia i requisiti

richiesti dall’ordinamento europeo per la gestione cosiddetta in house”. Sul punto, i primi commenti

evidenziano “qualche perplessità su una norma che non tiene conto del possibile diverso

dimensionamento dell’ente locale (trattando allo stesso modo enti locali di piccole e grandi

dimensioni), ma soprattutto fortemente limitativa dell’applicabilità della fattispecie in house, al di là

della prospettata residualità della stessa”.

Ex multis, cfr. G. PIPERATA, La disciplina dei servizi pubblici locali negli ultimi interventi legislativi

di stabilità economica, in Giorn. dir. amm., 2012, 1, 23; C. VIVANI, La nuova disciplina dei servizi

pubblici locali di rilevanza economica: la concorrenza tra liberalizzazioni e diritti di esclusiva, in

Urb. e app., 2012, 1, 39. Più in generale, per un inquadramento del decreto Cresci Italia nell’ambito

delle politiche nazionali ed europee in tema di semplificazione cfr. P. LAZZARA, Principio di

semplificazione e situazioni giuridico-soggettive, in Dir. amm., 2011, 4, 679. 217

Il riferimento è a Corte cost. 20 luglio 2012 n. 199 per un commento alla quale cfr., inter alia, D.

BALDAZZI, La sentenza n. 199 del 2012: tra intentio del Comitato promotore e tutela della volontà

referendaria, cit.; M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012: i servizi pubblici locali dopo la

decisione della Corte costituzionali, cit.; E. FURNO, Le tortuose vie dei servizi pubblici locali di

rilevanza economica tra legislatore, referendum e Coste costituzionale: “palla al centro”, cit.; A.

LUCARELLI, La sentenza della Corte costituzionale 199/2012, cit; L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi

pubblici locali: il ritorno dell’autonomia, il rispetto della disciplina europea, la finalizzazione alle

aspettative degli utenti, cit.; P. SABBIONI, La sentenza n. 199 del 2012: una sentenza coraggiosa, forse

troppo, in Quad. cost., 2012, 4, 874; nonché F. GIGLIONI, Il rilancio dell’in house providing, in

www.labsus.org, 2012. Qui si legge che i ricorsi, proposti da varie regioni italiane, erano tesi ad

evidenziare diversi profili di illegittimità, ma “la Corte ha considerato ammissibili solo quelli

vertenti sul rispetto dell’art. 75 Cost. che disciplina l’istituto del referendum abrogativo. Pur

trattandosi quest’ultima di norma che attiene al riparto di competenze, la Corte considera ammissibili

questi ricorsi giacché una lesione dell’autonomia e delle potestà delle regioni, ma anche degli enti

locali sul piano regolamentare, è rinvenibile dalla disciplina contestata” (in senso conforme cfr., ad

ex., C. Cost. n. 303/2003; n. 196/2004; 383/2005; nonché più di recente C. Cost. nn. 22 e 80 del

2012). Tuttavia, in senso fortemente critico cfr. M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit., dove

l’A. osserva che “le lesioni potenziali, denunciate dalle Regioni e riconosciute dalla Corte,

sembrerebbero riferirsi a potestà legislative e a competenze regolamentari locali francamente difficili

da apprezzare. L’art. 4, infatti, aveva prevalentemente ad oggetto i profili della materia “SPL” relativi

alle forme di gestione e all’affidamento degli stessi. Profili che, per espressa giurisprudenza

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riproponga nella sostanza una norma abrogata attraverso consultazione referendaria

[sia] incostituzionale per violazione dell’art. 75 Cost., nel caso in cui,

successivamente all’abrogazione, né il quadro politico, né le circostanze di fatto

siano tali da giustificare un effetto di vanificazione della volontà popolare”218

. In altri

termini – a parere della Corte – mentre “l’esito referendario (…) ha automaticamente

prodotto un effetto di espansione dei poteri regionali e locali”219

, l’art. 4 del d. l. n.

138 del 2011 ha sensibilmente limitato questi ultimi, subordinando di fatto la

possibilità di ricorrere all’in house providing al rispetto di vincoli (forse) ancor più

stringenti di quelli contemplati dalla norma abrogata220

.

costituzionale (v. sent. 272/04), possono essere disciplinati non dalle Regioni ma solo dallo Stato

(…)”. Pertanto, secondo l’A. – “se per un verso l’esito del Referendum non può essere ignorato dal

legislatore, d’altro canto esso non dovrebbe avere l’effetto di appiattire la competenza statale nel

campo dei SPL su quel minimo inderogabile di concorrenzialità imposto dal diritto UE”. 218

In proposito, tuttavia, D. BALDAZZI, La sentenza n. 199 del 2012, cit., scrive: “il tema dei rapporti

fra consultazione referendaria e legislazione successiva è stato spesso oggetto di ricostruzioni

dottrinali assolutamente divergenti fra loro. E’ controverso, infatti, se sussista effettivamente in capo

al legislatore un divieto di reintrodurre la norma abrogata in via referendaria, e quali siano il

fondamento teorico e la durata di un simile vincolo; controversa è inoltre l’identificazione dei rimedi

per fare fronte alle eventuali violazioni legislative. Fino ad oggi, una conferma dell’esistenza di tale

limitazione era rintracciabile soltanto in un obiter dictum contenuto nell’ordinanza n. 9 del 1997, con

la quale la Corte aveva dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzioni proposto dal Comitato

promotore del referendum abrogativo in materia di finanziamento pubblico ai partiti” (per un

commento a tale ordinanza cfr. G. FERRI, Il divieto di ripristino della normativa abrogata dal

referendum e la discrezionalità del legislatore, in Giur. cost., 1997, 1, 55; R. PINARDI, Riflessioni a

margine di un obiter dictum sulla costituzionalità delle leggi successive all’abrogazione referendaria,

in Giur. cost., 1997, 1, 65).

Ex multis sul tema cfr., tra gli altri, G. AZZARITI, Referendum, leggi elettorali e Parlamento: la forza

delle decisioni referendarie nei sistemi di democrazia rappresentativa, in Giur. cost., 1995, 1, 88; P.

CARNEVALE, La Corte e il referendum: un nuovo atto, in Giur. cost., 1993, 10, 2259; L. CUOCOLO,

Referendum e altri strumenti di democrazia diretta, in G. F. FERRARI (a cura di), Atlante di diritto

pubblico comparato, UTET, Milano, 2010, 267; M. LUCIANI – M.VOLPI (a cura di) Referendum,

Laterza, Bari, 1992; A. PACE, F. A. ROVERSI MONACO, F. G. SCOCA, Le conseguenze giuridiche dei tre

referendum sul nucleare, in Giur. cost., 1987, 3092; S. PANUNZIO, Esperienze e prospettive del

referendum abrogativo, in AA. VV., Attualità e attuazione della Costituzione, Laterza, Bari, 1979;

ID., Chi è il custode del risultato abrogativo del referendum?, in Giur. cost., 1997, 8, 1983; G. M.

SALERNO, Il referendum, Cedam, Padova, 1992; ID., Alcune considerazioni in tema di effetti

consequenziali del referendum di principio in materia elettorale, in Giur. it., 1996, IV, 29. Inoltre, per

una ricostruzione delle varie posizioni espresse dalla dottrina cfr. il recente contributo di E. FURNO, Le

tortuose vie dei servizi pubblici locali, cit.,il quale con riguardo alla sentenza in esame scrive: “la

Corte, seppur in modo sbrigativo, riconosce e giustifica l’esistenza di un vincolo derivante

dall’abrogazione referendaria, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in

una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia

rappresentativa, mostrando così di condividere la pari ordinazione gerarchica tra referendum e legge

(…)”. 219

F. GIGLIONI, Il rilancio dell’in house providing, cit.. 220

In senso critico, tuttavia, cfr. M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit., il quale evidenzia

che anche a seguito del referendum in capo allo Stato residuava un certo margine di apprezzamento,

“margine che, riteniamo, dovrebbe poter ancora essere utilizzato dal legislatore statale, anche dopo il

Referendum, seppur in modo diverso da quanto fatto con l’art. 4. E che, data l’esclusività della

legislazione statale in tema di concorrenza, non può considerarsi oggi aggredibile dalle Regioni (…).

Inoltre – prosegue l’A. – “ la sentenza in commento restituisce una disciplina dei SPL ancora una

volta stravolta. L’intenzione di dare stabilità e certezza normativa al settore, di aprirlo alla

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Con il proprio dictum, dunque, la Corte sembrerebbe spingere il legislatore a

ripensare l’approccio seguito negli ultimi anni “tutto teso, anche se con risultati

contraddittori e nella sostanza confusi, a privilegiare il ricorso al mercato e alla

concorrenza”221

e a restringere i margini di autonomia degli enti locali in tema di

autoproduzione dei SPL. Infatti, benché - come statuito dallo stesso Giudice delle

Leggi nel 2004222

– lo Stato sia competente a legiferare nella materia de qua alla luce

dell’art. 117, comma secondo, lett. e) Cost.223

, ciò non di meno lo stesso è chiamato

ad operare in maniera equilibrata sì da far “salva l’autonomia, anch’essa di livello

concorrenza, di attrarvi investimenti esteri, s’infrange, al momento sul divieto di contravvenire alla

volontà popolare espressa col Referendum 2011”. 221

F. GIGLIONI, Il rilancio dell’in house providing, cit.. 222

Il riferimento è a C. Cost. 27 luglio 2004 n. 272, dove la Corte definisce la concorrenza come una

“materia funzione, che si dispone in modo trasversale rispetto alla ripartizione delle materie tra Stato e

Regioni, e che ha l’attitudine di sovrapporsi ad ogni altro ambito materiale, anche di spettanza

regionale, in virtù della finalità pro-concorrenziali perseguita”. Sul punto cfr. L. DE LUCIA, Le funzioni

di Province e Comuni nella Costituzione, cit., il quale scrive: “la Corte ha affermato che la disciplina

dei servizi pubblici locali non rientra tra le funzioni fondamentali, giacché la gestione dei predetti

servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente

locale, potendo invece rientrare nell’ambito della materia tutela della concorrenza”. Il risultato –

prosegue l’A. – “appare, almeno in parte, conforme al nuovo assetto costituzionale, mentre non risulta

pienamente persuasivo l’iter argomentativo seguito. Infatti (…) un conto è stabilire quali prestazioni

devono essere necessariamente erogate (o, comunque, assicurate) da province e comuni in favore della

collettività; altro conto è evidentemente la disciplina delle modalità di erogazione. Orbene, il primo

aspetto rientra sicuramente tra le funzioni fondamentali ed è pertanto di competenza statale (…); il

secondo, salvo che non attenga alla tutela della concorrenza o ai livelli essenziali delle prestazioni,

può anche rientrare nella competenza legislativa regionale concorrente”. Infine, “profilo ancora

diverso è quello relativo alle forme di organizzazione del servizio”. Queste, infatti, in caso di servizio

recante rilievo economico, possono essere disciplinate dalla legge statale poiché in tale eventualità si

rinviene un nesso tra l’organizzazione del servizio e la tutela della concorrenza. 223

In proposito si veda quanto affermato in senso critico da F. TRIMARCHI BANFI, Procedure

concorrenziali e regole di concorrenza, cit.. Qui, l’A. muove dal constatare come il termine

“concorrenza assum[a] significati diversi secondo il contesto nel quale è impiegata. Nell’art. 117 Cost.

essa designa il principio ordinatore dell’economia di mercato, quello stesso principio che si legge

nell’art. 119 TFUE. (…) Nel diritto europeo, invece, sono regole di concorrenza “le regole raccolte

nel capo primo del titolo settimo del Trattato”. A livello interno – prosegue l’A. - i dubbi sorgono

allorché ci si chieda “se l’aggiudicazione dei contratti pubblici mediante procedure di gara rientri nella

nozione di tutela della concorrenza” ex art. 117 Cost. “ La risposta della giurisprudenza costituzionale

è affermativa; ma vi sono ragioni per dubitare della correttezza di questa risposta. (…) I mercati dei

contratti pubblici sono mercati artificiali, creati e amministrati allo specifico scopo di controllare

l’imparzialità delle amministrazioni aggiudicatrici. Per questa ragione è difficile configurare la

concorrenza che si svolge in questo tipo di mercati come regola che tutela la concorrenza nel senso

dell’art. 117 Cost. (…)”. In altri termini, “oggetto della tutela assicurata dalle procedure di gara è la

parità di trattamento degli operatori economici da parte delle autorità, e questo specifico oggetto non

giustifica l’assimilazione delle procedure concorrenziali alle regole dell’economia di concorrenza. E

tanto meno ciò potrebbe essere giustificato alla luce del diritto europeo, che (…) distingue con

chiarezza le procedure concorrenziali, predisposte a fini controllo sull’imparzialità delle autorità

amministrative, dalle regole di concorrenza che sono dettate per il corretto funzionamento dei

mercati”. Di conseguenza, l’A. dubita della correttezza del percorso ermeneutico compiuto dalla Corte

costituzionale nella pronuncia in argomento allorquando la stessa richiama un proprio precedente (C.

Cost. n. 325/2010, per un commento alla quale cfr. L. CUOCOLO, La Corte costituzionale “salva” la

disciplina statale sui servizi pubblici locali, in Giorn. dir. amm., 2011, 5, 484) per concludere nel

senso che “la gestione a mezzo terzi è una regola di concorrenza nel senso dell’art. 106, comma

secondo, TFUE”.

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costituzionale, di regioni ed enti locali per l’offerta dei servizi pubblici locali”224

.

D’altra parte, una soluzione di tal fatta non sembra porsi neppure in contrasto con la

politica delle istituzioni europee, atteso che “il rispetto delle competenze degli enti

locali è alla base dell’approccio dell’Unione europea ai servizi pubblici locali”225

, in

ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza226

, e che l’in

house è istituto tuttora pacificamente ammesso nell’ordinamento europeo, ancorché

subordinatamente al rispetto di talune condizioni227

.

224

F. GIGLIONI, Il rilancio dell’in house providing, cit.. Con riguardo alle più recenti prese di

posizione della Corte costituzionale in relazione al riparto di competenze legislative tra Stato e

Regioni cfr., da ultimo, F. BENELLI, Recenti tendenze della giurisprudenza costituzionale sul riparto

per materie tra Stato e Regioni e sul declino del principio di leale collaborazione (nota a C. cost. 23

febbraio 2012 n. 35, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Calabria

n. 4 del 2011 in materia di tracciabilità dei flussi finanziari), in Le Regioni, 2012, 3, 624. Qui l’A.

osserva che “all’indomani della riforma costituzionale del Titolo V, la Corte costituzionale aveva

avviato un’importante opera di reinterpretazione del nuovo riparto di competenze (…) orientata verso

l’esaltazione di un sistema di relazioni tra Stato e Regioni di tipo policentrico”, il cui perno era

rappresentato dal principio di leale collaborazione. Diversamente, “la sentenza in commento sembra

ispirata a una diversa filosofia. (…) non viene negata la natura trasversale della materia di cui all’art.

117, secondo comma, lett. h). Ciò che muta rispetto alla giurisprudenza precedente, infatti, sono le

conseguenze che l’esercizio di questa materia ha sugli spazi di autonomia regionale”. Infatti, mentre

un tempo la natura trasversale di una materia era “espressione di una relazione biunivoca da leggersi

in chiave di reciprocità”, nella sentenza citata “il principio di leale collaborazione nonché i requisiti

della proporzionalità ed adeguatezza (…) non sono neppure evocati”. Sembra dunque essere in atto –

conclude l’A. - un processo di ridefinizione dei rapporti tra Stato e Regioni secondo un “disegno che

appare poco soddisfacente dell’autonomia regionale”. 225

Così E. SCOTTI, (voce) I servizi pubblici locali, cit., la quale prosegue osservando: “quanto alle

politiche di concorrenza, sin verso la fine degli anni ’90, si è addirittura escluso che i mercati locali

potessero considerarsi mercati rilevanti ai fini dell’intervento della comunità”. Proprio in riferimento

al settore dei rifiuti, infatti, nel 1999 la Corte di Giustizia “a proposito di una controversia concernente

l’organizzazione da parte del Comune di Ischia del servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani, ha

ritenuto che la deroga alle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento e alla libera

prestazione dei servizi, prevista all’art. 55 del Trattato, eventualmente in combinato disposto con

l’art. 66 del Trattato, non si applica in una situazione nella quale gli elementi sono tutti confinati

all’interno di un solo Stato membro e che, pertanto, non presenta alcun nesso con una delle situazioni

considerate dal diritto comunitario nel settore della libera circolazione delle persone e dei servizi”.

Ex multis, con riguardo al favor dell’Europa per le autonomie locali cfr. tra gli altri V. PARISIO,

Europa delle autonomie locali e principio di sussidiarietà, cit.; A. SCRIMALI, Il Parlamento europeo e

la promozione delle autonomie locali, cit.; nonché recentemente F. DE LEONARDIS, Politiche e poteri

dei governi locali nella tutela dell’ambiente, in Dir. amm., 2012, 4, 775. 226

A dimostrazione del favor dell’Unione europea nei riguardi delle autonomie locali, cfr., inter alia,

il Protocollo sui servizi di interesse generale che riconosce “il ruolo essenziale e l’ampio potere

discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e organizzare servizi

di interesse economico generale (…); nonché la direttiva 2006/123/Ce relativa ai servizi nel mercato

interno, la quale “lascia impregiudicata la libertà, per gli Stati membri di definire (…) quali essi

ritengano essere i servizi di interesse economico generale (…) e a quali obblighi specifici essi

debbano essere soggetti (…)”. 227

Tra le pronunce più recenti della Corte di Giustizia in materia di in house si segnalano CGCE 29

novembre 2012, Econord Spa c. Comune di Cagno e Comune di Varese c. Comune di Solbiate, cause

riunite C- 182/11 e C-183/11, che affronta la questione del c.d. “in house frazionato” (cfr. E. FURNO,

SPA pubblica ed affidamento diretto: la Corte di Giustizia rifinisce “l’in house frazionato” in una

sentenza foriera di conseguenze, in www. giustamm.it, 2012); CGCE 10 settembre 2009, Sea srl c.

Comune di Ponte Nossa, C-573/07; CGCE 13 novembre 2008, Coditel Brabant SA c. Comune

d’Uccle, C- 324/07; CGCE 17 luglio 2008, Comune di Mantova, C-371/05.

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Ciò non di meno, una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 d. l. n.

138 del 2011 restano aperte questioni tutt’altro che marginali228

, anche in relazione

alla gestione dei rifiuti urbani229

. In primis, quella della normativa applicabile alla

materia de qua, ossia “dei limiti che il legislatore statale incontra nella futura

regolazione della materia”230

.

Al riguardo, nella varietà delle tesi prospettate, taluno ha ritenuto plausibile una

automatica riespansione dell’autonomia decisionale degli enti locali in merito alla

scelta dei moduli di gestione dei servizi pubblici, con conseguente possibilità di un

ricorso generalizzato all’in house231

.

Altri, per contro, hanno escluso la reviviscenza delle norme già abrogate dall’art. 23

bis, optando piuttosto per l’applicabilità “della disciplina di settore non toccata [dalla

sentenza della Consulta], della normativa e dei principi generali dell’ordinamento

europeo, nonché di quelli affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e di

quella nazionale”232

.

Altrove poi si è sostenuto che, nelle more di un intervento legislativo che “non

implichi un’apertura decisa alla concorrenza, penalizzando, quasi fino ad annullarla,

228

Si veda ad esempio quanto evidenziato da M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit, dove si

legge: “scompaiono norme (commi 19-27) che, sebbene figlie dell’art. 23 bis, non attengono

all’apertura alla concorrenza, bensì alla scissione tra la proprietà delle società di SPL e la loro

regolazione, e che, pertanto, sarebbe stato forse opportuno salvare [secondo un approccio selettivo];

(…) si creano vuoti normativi nel settore dei rifiuti (che trovava nell’art. 4 la disciplina di riferimento

per l’affidamento) e in altri servizi quali mense, trasporti scolastici, servizi cimiteriali, servizi di

illuminazione, ecc.” 229

Sul punto cfr. A. TRICARICO, La gestione dei rifiuti, cit., in particolare pag. 20 e ss. 230

In tal senso F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto

dell’Unione e nella Costituzione, cit., la quale prosegue specificando che “i limiti ai quali ci si

riferisce sono quelli (negativi) che derivano dalla volontà popolare, e quelli (positivi) che si

impongono al legislatore, in osservanza dei vincoli del diritto europeo”. 231

In tal senso sembra orientato F. GIGLIONI, Il rilancio dell’in house providing, cit.. Interessanti sul

punto anche le osservazioni di L. R. PERFETTI, La disciplina dei servizi pubblici locali ad esito del

referendum e il piacere dell’autonomia locale, cit. nonché quelle – in chiave possibilista - di E.

SCOTTI, (voce), Servizi pubblici locali, cit., la quale scrive: “potrebbe dunque riaprirsi la strada per un

ripensamento di fondo in materia di servizi pubblici locali, al momento (ri)consegnate all’autonomia

degli enti locali”. 232

Così C. VOLPE, La “nuova normativa” sui servizi pubblici locali di rilevanza economica. Dalle

ceneri ad un nuovo effetto “Lazzaro”. Ma è vera resurrezione?, in www.giustamm.it, 2013, il quale

evidenzia come dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 si venga a creare una

situazione analoga a quella determinatasi in esito al referendum abrogativo del giugno 2011. Pertanto,

se - come affermato dalla stessa Corte nella sentenza n. 24 del 2011 [relativa alla ammissibilità del

referendum] - “all’abrogazione dell’art. 23 bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza

delle norme abrogate da tale articolo; dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata

nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (…)”. Del pari, all’azzeramento della

normativa contenuta nell’art. 4 del d.l. n. 138/2011 (…) consegue un effetto di semplificazione; con

conseguente applicazione” della normativa europea e di quella nazionale non inficiata dalla pronuncia

di incostituzionalità. In senso analogo cfr. anche F. LUCIANI, “Pubblico “ e “privato” nella gestione

dei servizi economici locali in forma societaria, in www.giustamm.it, 2012.

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l’ipotesi in house233

, dovessero trovare applicazione l’art. 3 bis d. l. n. 138 del 2011 e

l’art. 76, comma settimo, d. l. n. 112 del 2008234

.

Secondo altri, infine, dalla lettera della pronuncia appena rammentata sarebbe stato

possibile desumere che l’emananda disciplina avrebbe dovuto “riprodurre la regola

del passato, purché (…) accompagnata dalla previsione che la rende derogabile nel

caso in cui la gestione a mezzo terzi risulti incompatibile con la missione del servizio

pubblico”235

. Detto altrimenti, fermo il divieto di affidamento diretto del servizio, il

legislatore avrebbe dovuto riconoscere la possibilità di ricorrere all’in house nei casi

di cui all’art. 106, comma secondo, TFUE. Tuttavia, la medesima dottrina ha preso le

distanze da simile opzione ermeneutica, riconoscendo come “il punto critico” della

sentenza n. 199 del 2012 stia nel fatto che con essa la Corte costituzionale ha

mostrato di ravvisare “nel diritto europeo il divieto di gestire direttamente i servizi

pubblici di rilevanza economica, a meno che sussistano le condizioni per le deroghe

ammesse dall’art. 106, c. 2 TFUE” e ciò nonostante si tratti di “un’interpretazione

che non trova riscontro in sentenze del giudice europeo, e che incontra ostacoli nel

testo stesso dell’art. 106 TFUE”236

.

233

Di questa opinione M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit., il quale scrive “la sentenza in

commento restituisce una disciplina dei SPL ancora una volta stravolta. L’intenzione di dare stabilità e

certezza normativa al settore, di aprirlo alla concorrenza, di attrarvi investimenti esteri, s’infrange, al

momento, sul divieto di contravvenire ala volontà popolare espressa col Referendum 2011. (…) allo

stato attuale, la scomparsa dell’art. 4 implica per gli EELL la possibilità di trattenere/creare gestioni in

house osservando le sole regole dell’ordinamento comunitario, delineate dalla giurisprudenza della

CGCE (…) L’esternalizzazione/privatizzazione dei servizi, tuttavia, ancorché non più imposta,

dovrebbe permanere come facoltà che gli EELL possono attuare in forza della propria autonomia

organizzativa e nel rispetto, anche in questo caso, dei dettami del diritto UE. 234

Il primo – osserva M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit. - “per i soli servizi a rete (idrici

compresi) prevede, in breve: l’individuazione, da parte delle Regioni, degli ambiti ottimali (ATO) per

ciascun servizio e degli enti deputati ad amministrarli unitariamente; (…) l’assoggettamento delle

società in house alle regole sul patto di stabilità interno (…); meccanismi finanziari premiali (in base

al concetto di virtuosità) per gli enti territoriali di ATO in cui i servizi siano esternalizzati con gara”.

In secondo, invece, alla luce delle modifiche allo stesso apportate dall’art. 20, comma nove, d. l. n.

98/2011, prevede che “il personale delle società affidatarie dirette di SPL [venga] computato per il

calcolo delle spese di personale che determina la possibilità o meno per gli EELL di effettuare

assunzioni”. Ex multis, sottolinea la perdurante applicabilità del citato art. 3 bis anche C. VOLPE, La

“nuova normativa” sui servizi pubblici locali di rilevanza economica.,cit.. 235

F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto dell’Unione e

nella Costituzione, cit.. 236

Così F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto

dell’Unione e nella Costituzione, cit., dove si legge: “nel linguaggio del diritto europeo si parla spesso

di apertura dei mercati degli appalti pubblici alla concorrenza. (…) Questo linguaggio non implica,

tuttavia, l’assimilazione dell’obbligo di procedere con gara alle regole di concorrenza in senso

proprio, giacché l’apertura di questi mercati alla concorrenza comunitaria è prescrizione che ha come

specifica finalità la garanzia della non discriminazione delle imprese secondo la nazionalità (art. 12),

del diritto di stabilimento (art. 43) e della libertà di prestazione dei servizi (art. 49) – ora artt. 18, 49 e

56 TFUE. (…) l’affidamento senza procedura concorrenziale rientra nel divieto posto dall’art. 86,

comma primo, poiché un simile affidamento viola gli artt. 43 CE o 49 CE o ancora i principi di parità

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157

Al di là delle diverse opzioni teoriche paventate dalla dottrina, il legislatore è

intervenuto sul punto con il d. l. 18 ottobre 2012 n. 179, convertito in L. 17 dicembre

2012 n. 221, il cui art. 34 detta la nuova disciplina dei servizi pubblici locali di

rilevanza economica. Qui, in particolare, i commi che interessano sono il 20, il 23 ed

il 27. Il primo prevede che “(…) l’affidamento del servizio [sia] effettuato sulla base

di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante”. Tale relazione,

da stilare sia in caso di esternalizzazione che in caso di ricorso all’in house, deve

dare conto a) delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento

europeo per la forma di affidamento prescelta; b) dei contenuti specifici degli

obblighi di servizio pubblico e servizio universale. E ciò è bastato ad instillare in

parte della dottrina il dubbio se, così dispondendo, il legislatore abbia voluto

affermare “l’equiordinazione dei modelli di affidamento” e fare dell’in house un

“modello alternativo alla gara”237

.

di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (C-410/2004). Nessun riferimento alle regole

di concorrenza, e soprattutto nessun riferimento al secondo comma” dell’art. 106 TFUE. Dunque –

prosegue l’A. – “i principi di non discriminazione secondo la nazionalità e di parità di trattamento, e le

libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi devono essere garantiti quando si danno circostanze

nelle quali l’amministrazione aggiudicatrice si trova nella condizione di compiere una scelta. Quando

la scelta è esclusa, perché l’affidatario fa parte dell’organizzazione (in senso ampio) della stessa

amministrazione aggiudicatrice, manca il presupposto perché trovino applicazione le norme che

presidiano i diritti delle imprese, e l’indizione della gara cessa di essere necessaria. Questa è la

sostanza della ben nota giurisprudenza europea sull’in house providing”. D’altra parte – si ribadisce -

“il diritto europeo non si interessa ai modelli organizzativi che gli Stati membri adottano per la

gestione dei servizi pubblici (…) ciò che conta per il diritto dell’Unione è che, se la gestione è affidata

a terzi, questi soggetti siano scelti con modalità che garantiscano la parità di trattamento (…)”. Ne

deriva che “l’indagine approfondita che il giudice europeo esige riguardo all’effettiva sussistenza delle

condizioni in presenza delle quali si configura l’in house providing non è indice di sfavore per questa

figura organizzativa; si tratta piuttosto della ragionevole preoccupazione di evitare che la gestione in

house sia una mera apparenza, che permette di eludere la procedura concorrenziale”. 237

Così C. VOLPE, La “nuova normativa” sui servizi pubblici locali di rilevanza economica, cit., il

quale - alla luce di una serie di argomenti, tra cui il fatto che “l’affidamento in house senza gara

costituisce pur sempre un’eccezione alle direttive comunitarie che vanno interpretate restrittivamente”

– ritiene che “alla domanda andrebbe data risposta negativa, dato che la gara costituisce pur sempre la

modalità principale di scelta del soggetto a cui affidare la gestione del servizio. (…) Ma allora se così

è – prosegue l’A. – che bisogno c’è di motivare sul ricorso all’evidenza pubblica – previa gara

normale o gara a doppio oggetto (per la costituzione della società mista) – rispetto all’affidamento in

house? E’ vero semmai il contrario”. A tale obiezione, si potrebbe tuttavia rispondere assumendo il

punto di vista di altra parte della dottrina (F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di

concorrenza nel diritto dell’Unione e nella Costituzione, cit.), la quale evidenzia che non è corretto

parlare dell’in house con una vera e propria eccezione alle regole della concorrenza. “A ben vedere,

l’eccezione all’applicazione del metodo di gara per assegnare gli incarichi è apparente: in realtà essa

sviluppa la logica del metodo medesimo, poiché procede dalla constatazione che sono assenti le

ragioni che giustificano la gara. (…) Il termine eccezione descrive il fenomeno nel suo aspetto

esteriore (…) Ma, se si ha presente la ragione della procedura concorsuale, vale a dire l’esistenza di

una scelta dell’amministrazione della quale deve essere garantita l’imparzialità, ci si rende conto che

la presunta eccezione risponde alla stessa ratio della regola. Non c’è da scegliere e quindi non c’è

materia di gara”.

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158

Il successivo comma 23, invece, inserisce nell’art. 3 bis del d. l. n. 138 del 2011 –

rimasto vigente anche dopo la pronuncia della Corte costituzionale - un comma

primo bis che va a ridefinire un aspetto molto importante della materia de qua, vale a

dire il ruolo oggi spettante agli enti locali. Qui si legge, infatti, che “le funzioni di

organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, compresi

quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani, di scelta della forma di gestione, di

determinazione delle tariffe all’utenza (…), di affidamento della gestione e relativo

controllo, sono esercitate unicamente dagli enti di governo degli ambiti o bacini

territoriali ottimali (…)”, individuati ai sensi del comma primo dello stesso art. 3 bis.

Infine, il comma 27 – introdotto in sede di conversione del d. l. n. 179 del 2012 –

elimina uno dei limiti all’in house che erano stati previsti dall’art. 4, comma ottavo,

del d. l. n. 95 del 2012, ossia il fatto che il servizio oggetto dell’affidamento dovesse

avere un “valore economico pari o inferiore a 200 mila euro annui”238

. Ciò in quanto

la disposizione, marginalizzando di fatto la possibilità di ricorrere a detto modulo

gestorio, “non era più conforme ai contenuti della sentenza della Corte costituzionale

n. 199/2012”239

.

In definitiva, dal quadro d’insieme delle più recenti vicissitudini – vale a dire dalla

declaratoria di illegittimità dell’art. 4 d. l. n. 138 del 2011 e dalla successiva

disciplina legislativa dettata sul finire del 2012 – sembrerebbe possibile evincere,

innanzitutto, che il ruolo degli enti locali in materia di servizi pubblici ne sia uscito

rafforzato (o, quantomeno, non ulteriormente indebolito)240

. In tal senso parrebbe

238

Letteralmente l’art. 4, comma ottavo, del d. l. 6 luglio 2012 n. 95 convertito con modificazione

dalla L. 7 agosto 2012 n. 135 recava: “a decorrere dal 1 gennaio 2014 l’affidamento diretto può

avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti

dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house e a condizione che il

valore economico del servizio o dei beni oggetti dell’affidamento sia complessivamente pari o

inferiore a 200.000 mila euro annui”. 239

Così C. VOLPE, La “nuova normativa” sui servizi pubblici locali di rilevanza economica, cit., il

quale puntualizza come “in mancanza dell’intervenuta soppressione normativa non si sarebbe potuto

che seguire un’interpretazione costituzionalmente orientata, nel senso di escludere l’applicazione del

limite dei 200.000 euro all’in house quanto meno per i servizi pubblici locali di rilevanza economica”. 240

In proposito si veda quanto osservato da L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il

ritorno all’autonomia, il rispetto della disciplina europea, al finalizzazione alle aspettative degli

utenti, cit., secondo cui: con il d. l. 18 ottobre 2012 n. 179 conv. in L. 17 dicembre 2012 n. 221

“l’ordinamento nazionale (…) non opera alcuna scelta di modello (…) ma rinvia alla scelta che

dell’uno o dell’altro concretamente si compia da parte dell’ente affidante”. Ciò non di meno –

prosegue l’A. – “sembra rilevante osservare come la scelta tra i diversi modelli non sia libera, ma

dovrà essere compiuta alla luce di alcuni principi (…); si intende fare riferimento alle finalità indicate

dal comma 20 [dell’art. 34 L. n. 221/2012], vale a dire il rispetto della disciplina comunitaria e la

parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e l’adeguata informazione alla collettività di

riferimento”. Inoltre, “dal punto di vista degli obiettivi da perseguire viene – correttamente – meno il

riferimento alla concorrenza come ad un valore in sé, per declinarsi nei due profili della parità tra le

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deporre sia la presa di posizione della Consulta sia il nuovo comma 1 bis introdotto

nell’art. 3 bis del d. l. n. 138 del 2011 dall’art. 34, comma 23, d. l. 18 ottobre 2012 n.

179. Né tale considerazione potrebbe dirsi smentita dall’obbligo di motivazione

imposto dal comma 20 del citato art. 34, posto che lo stesso sembra piuttosto ispirato

al principio di trasparenza nonché ai canoni dell’efficienza, efficacia ed economicità

dell’azione amministrativa.

In secondo luogo, il fatto che le modalità di gestione dei servizi pubblici locali non

siano più disciplinate dettagliatamente, sembrerebbe postulare – per quanto non

espressamente previsto dal legislatore nella L. 17 dicembre 2012 n. 221 - un rinvio

de plano ai principi che informano la normativa (e la giurisprudenza) europea,

secondo quanto auspicato da ampia parte della dottrina241

.

Infine, la circostanza che siano caduti i limiti ancora di recente previsti con riguardo

all’uso del modulo in house (primo tra tutti, quello relativo al valore economico del

servizio), lascerebbe intendere che permane un qualche spazio per l’autoproduzione

da parte degli enti locali e che la “corsa” alla esternalizzazione nell’ottica della

completa liberalizzazione abbia assunto un ritmo più lento242

.

imprese ed economicità della gestione, che sono – invece – da mettere in relazione con la pretesa

dell’utente del servizio a godere del miglio servizio possibile alle condizioni più abbordabili;

l’organizzazione del servizio, quindi, trova finalmente la sua direzione corretta, vale a dire quella del

riferimento a chi dei servizi debba usufruire e la tutela della concorrenza vede chiarita la sua

strumentalità alla migliore organizzazione del servizio, ancora nell’interesse dell’utente”. 241

Per tutti cfr. L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno all’autonomia, il

rispetto alla disciplina europea, la finalizzazione alle aspettative degli utenti, cit., che scrive: “la

pronunzia di incostituzionalità dell’art. 4 d. l. 13 agosto 2011 n. 138 determina il venire meno della

sua efficacia fin dall’origine, sicché il regime applicabile ai servizi pubblici locali (…) è solo quello

che discende dalla diretta applicazione delle disposizioni costituzionali e comunitarie rilevanti [salvo

gli effetti già prodotti e stabilizzatisi]”; nonché F. LUCIANI, “Pubblico” e “privato” nella gestione dei

servizi economici locali in forma societaria, cit.; e C. VOLPE, La “nuova normativa” sui servizi

pubblici locali di rilevanza economica. Dalle ceneri ad un nuovo effetto “Lazzaro”, cit.. 242

Sul punto cfr., ancora una volta, quanto affermato da L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici

locali: il ritorno all’autonomia, il rispetto alla disciplina europea, la finalizzazione alle aspettative

degli utenti, cit., a parere del quale “(…) l’organizzazione del servizio (…) trova finalmente la sua

direzione corretta, vale a dire quella del riferimento a chi dei servizi debba usufruire e la tutela della

concorrenza vede chiarita la sua strumentalità alla migliore organizzazione del servizio, ancora

nell’interesse dell’utente. (…) Dunque, il modello di riferimento smette di essere cercato in una scelta

organizzativa, per dirigersi verso l’adeguatezza al fatto (al tipo di servizio, alla rimuneratività della

gestione, all’organizzazione del mercato, alle condizioni delle infrastrutture e reti), alle disposizioni

comunitarie – coerenti a quelle costituzionali – ed all’interesse della comunità degli utenti – che

costituisce la vera sfida della disciplina”. Ex multis, si veda anche quanto osservato , prima dell’ultimo

intervento legislativo, da M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit., dove si legge: “quali che

siano le mosse del legislatore, vanno però sottolineati due aspetti “amministrativi” che cospirano

comunque per uno sviluppo liberale del settore dei SPL. In primo luogo, anche se si tornasse ad un

assetto simile a quello dell’art. 113 TUEL, la scelta di ciascun ente locale di ricorrere all’in house, per

essere legittima, dovrebbe sempre essere motivata a priori, in base ad un’analisi che metta in luce i

vantaggi/svantaggi comparativi tra le varie soluzioni possibili (come affermato, per ovvie ragioni di

buon andamento dell’azione amministrativa, anche da recente giurisprudenza del Consiglio di Stato,

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Ovviamente, le vicende normative e giurisprudenziali sin qui descritte si sono

riverberate anche sul servizio di gestione dei rifiuti urbani, quale esempio di servizio

pubblico locale a rilevanza economica. Anzi, per completezza, occorre segnalare

come quest’ultimo negli ultimi anni sia stato posto sotto il “fuoco incrociato” di

plurimi tentativi di riforma. Non solo, infatti, tale istituto – stante il rinvio che Codice

dell’ambiente compie all’art. 113 TUEL - ha risentito della querelle circa le modalità

di affidamento del servizio, ma lo stesso è stato oggetto di ulteriori tentativi di

riforma per ciò che concerne la sua organizzazione.

Più nel dettaglio, si ricorda come il legislatore dapprima con la legge finanziaria per

il 2008243

e poi, in maniera apparentemente più decisa, con la L. n. 42 del 2010244

abbia disposto la soppressione delle Autorità d’ambito. In particolare, secondo tale

ultimo provvedimento l’attività di dette Autorità sarebbe dovuta cessare a decorrere

dal 27 marzo 2011, mentre nelle more le Regioni avrebbero dovuto attribuire le

funzioni un tempo conferite alle Autorità ad altri enti non meglio specificati.

Tuttavia, poiché la norma era ispirata dalla finalità di contenimento della spesa da

parte degli enti locali e dalla volontà di favorire una maggiore semplificazione

amministrativa - eliminando i c.d. enti intermedi - è plausibile credere che, in virtù

della stessa, le funzioni un tempo spettanti alle Autorità d’ambito dovessero essere

attribuite alle Province o, ancor più probabilmente, ai Comuni. Soluzione

quest’ultima che, pur nel silenzio del legislatore, sembrava confortata dai richiami ai

principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza contenuti nel comma 186 bis

dell’art. 2 della Legge finanziaria per il 2010.

n. 854/11)”. (…) “In secondo luogo, alcune norme adottate nell’ultimo anno a contorno della

disciplina dell’art. 4 (…) dovrebbero avere l’effetto, in una con la contrazione della finanza pubblica,

di disincentivare gli EELL dal costituire/mantenere gestioni dirette in perdita, in house comprese

(…)”. 243

M. RENNA, Le semplificazioni amministrative (nel decreto legislativo n. 152 del 2006), cit.. 244

Si tratta della L. 26 marzo 2010 n. 42 di conversione del d. l. 25 gennaio 2010 n. 2, recante

“Interventi urgenti concernenti enti locali e regioni”. L’art. 1, comma primo, di tale legge ha inserito il

comma 186 bis all’art. 2 della Legge finanziaria per il 2010 (L. 23 dicembre 2009 n. 191) e

disponendo così la soppressione delle Autorità d’ambito entro un anno dalla approvazione della legge

medesima (vale a dire, entro il 27 marzo 2011). Testualmente si legge: “Decorso un anno dalla data

di entrata in vigore della presente legge, sono soppresse le Autorita' d'ambito territoriale di cui agli

articoli 148 e 201 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni. Decorso lo

stesso termine, ogni atto compiuto dalle Autorità d'ambito territoriale è da considerarsi nullo. Entro

un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni attribuiscono con legge le

funzioni già esercitate dalle Autorita', nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e

adeguatezza. Le disposizioni di cui agli articoli 148 e 201 del citato decreto legislativo n.152 del 2006

sono efficaci in ciascuna regione fino alla data di entrata in vigore della legge regionale di cui al

periodo precedente. I medesimi articoli sono comunque abrogati decorso un anno dalla data di

entrata in vigore della presente legge”.

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161

Ciò non di meno, nella realtà è accaduto che con una serie di provvedimenti – quali il

d. l. n. 225 del 2010 (c.d. decreto Milleproroghe 2011245

), il d.p.c.m 25 marzo

2011246

ed, infine, il d. l. n. 216 del 2011247

, lo stesso legislatore ha disposto la

ultravigenza delle Autorità d’ambito per tutto il 2012.

Inoltre, come anticipato nelle pagine che precedono, proprio quando detto termine

stava per spirare è intervenuta la L. 17 dicembre 2012 n. 221 che, all’art. 34, detta la

nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. In particolare, il

comma 23 di detto articolo è andato in parte a modificare l’art. 3 bis del d. l. n. 138

del 2011, recante “Ambiti territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento

dei servizi pubblici locali”. Quest’ultimo – per quanto qui di pertinenza - al comma

primo ribadisce innanzitutto che spetta alla Regioni organizzare, contemperando le

ragioni della concorrenza con quelle della tutela ambientale, “lo svolgimento dei

servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, definendo il perimetro degli

ambiti o bacini territoriali ottimali [la cui dimensione, almeno di regola non deve

essere inferiore a quella del territorio provinciale248

] (…) e istituendo o designando

245

Si tratta del d. l. 29 dicembre 2010 n. 225, convertito con L. 26 febbraio 2011 n. 10 recante

“Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di

sostegno alle imprese e alle famiglie” in G.U. n. 47 del 26 febbraio 2011. 246

D.p.c.m. 25 marzo 2011, recante “Ulteriore proroga di termini relativa al Ministero dell’ambiente e

della tutela del territorio e del mare”, in G.U. 31 marzo 2011 n. 74. Qui, in particolare, nella tabella

allegata si legge che i termini di cui all’art. 2, comma 186 bis, della L. 26 dicembre 2009 n. 191 sono

ulteriormente prorogati fino al 31 dicembre 2011. Detta proroga – si puntualizza nella motivazione –

“intende assicurare l'indispensabile continuità nell'erogazione dei servizi pubblici locali e

nell'esercizio delle relative funzioni pubbliche, poiché l'abrogazione delle Autorità d'Ambito ad opera

dell'articolo 2, comma 186-bis della legge 191/2009, coinciderebbe temporalmente con le prime

applicazioni delle disposizioni in tema di affidamento del servizio pubblico locale recate dall'articolo

23-bis del Dl 112/2008, rendendo, in caso di intempestività delle leggi regionali di attribuzione delle

funzioni delle Ato ad altri soggetti, del tutto critiche le procedure di affidamento stesse. La cessazione

delle Ato senza che le Regioni siano intervenute, inoltre, bloccherebbe di fatto l'operatività del

predetto articolo 23-bis, giacché renderebbe del tutto controvertibile l'identità del soggetto legittimato

all'affidamento dei servizi di cui trattasi. La proroga garantisce un ulteriore periodo transitorio, utile al

passaggio delle funzioni dalle Ato ai nuovi soggetti individuati dalle Regioni, nonché

all'apprestamento di opportune iniziative di coordinamento in tal senso". 247

Il riferimento è a d. l. 29 dicembre 2011 n. 216, convertito in L. 24 febbraio 2012 n. 14 recante

“Proroga di termini previsti da disposizioni legislative”, in G.U. 27 febbraio 2012 n. 48. In particolare,

l’art. 13, rubricato “Proroga dei termini in materia ambientale”, al comma secondo recita: “il termine

di cui all’art 2, comma 186 bis, della legge 23 dicembre 2009 n. 191, e successive modificazioni,

come prorogato ai sensi dell’art. 1, commi 1 e 2, del d. l. 29 dicembre 2010 n. 225, convertito con

modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011 n. 10, e dal DPCM 25 febbraio 2011, pubblicato nella

Gazzetta Ufficiale n. 74 del 31 marzo 2011 è prorogato al 31 dicembre 2012”. 248

L’art. 3 bis del d. l. n. 138/2011, al comma primo, prevede altresì che “Le regioni possono

individuare specifici bacini territoriali di dimensione diversa da quella provinciale, motivando la

scelta in base a criteri di differenziazione territoriale e socio-economica e in base a principi di

proporzionalità, adeguatezza ed efficienza rispetto alle caratteristiche del servizio”.

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gli enti di governo degli stessi, entro il termine del 30 giugno 2012”249

. Il successivo

comma 1 bis, poi, prova a fare chiarezza prevedendo in maniera apparentemente

tassativa che “le funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di

rilevanza economica, compresi quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani, di

scelta della forma di gestione, di determinazione delle tariffe all'utenza per quanto di

competenza, di affidamento della gestione e relativo controllo sono esercitate

unicamente dagli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e

omogenei istituiti o designati ai sensi del comma 1 del presente articolo”.

Nei fatti, dunque, il legislatore statale ha demandato ancora una volta alle Regioni il

compito di organizzare su base territoriale la gestione del servizio in esame, benché

nel rispetto delle indicazioni impartite dal livello di governo centrale250

.

III. 5 SERVIZI PUBBLICI (ANCORA) INSTABILI

Volendo a questo punto della trattazione ricondurre ad unità le considerazioni sin qui

formulate, preme innanzitutto ribadire come da alcuni anni a questa parte i servizi

pubblici, anche nella loro dimensione locale, stiano vivendo un “processo di

trasformazione”251

apparentemente senza fine che fa degli stessi un istituto connotato

da grande instabilità252

. Detto processo è stato, ed è tuttora, indubbiamente

249

Il comma primo dell’art. 3 bis del d. l. n. 138/2011 continua prevedendo che “(…) Fermo restando

il termine di cui al primo periodo del presente comma [ossia, il 30 giugno 2012] che opera anche in

deroga a disposizioni esistenti in ordine ai tempi previsti per la riorganizzazione del servizio in ambiti,

è fatta salva l'organizzazione di servizi pubblici locali di settore in ambiti o bacini territoriali ottimali

già prevista in attuazione di specifiche direttive europee nonché ai sensi delle discipline di settore

vigenti o, infine, delle disposizioni regionali che abbiano già avviato la costituzione di ambiti o bacini

territoriali in coerenza con le previsioni indicate nel presente comma. Decorso inutilmente il termine

indicato, il Consiglio dei Ministri, a tutela dell'unità giuridica ed economica, esercita i poteri

sostitutivi di cui all'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, per organizzare lo svolgimento dei

servizi pubblici locali in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, comunque tali da consentire

economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l'efficienza del servizio”. 250

Peraltro, giova ribadire quanto evidenziato alla nota 249, supra, vale a dire che il nuovo art. 3 bis

del d. l. n. 138 del 2011 come modificato dalla L. 221 del 2012, al comma primo, fa salva

“l’organizzazione di servizi pubblici locali di settore in ambiti o bacini territoriali ottimali già prevista

in attuazione di specifiche direttive europee nonché ai sensi delle discipline di settore vigenti o, infine,

delle disposizioni regionali che abbiano già avviato la costituzione di ambiti o bacini territoriali in

coerenza con le previsioni indicate nel presente comma”. Al riguardo, pertanto si segnalano ad

esempio: Legge Regione Emilia Romagna 23 dicembre 2011 n. 23; Legge Regione Marche 25 ottobre

2011 n. 18; Legge Regione Piemonte 24 maggio 2012 n. 7; Legge Regione Sicilia 9 gennaio 2013 n.

3; Legge Regione Veneto 31 dicembre n. 52. 251

Così P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione, cit., nonché prima

ancora, e per tutti, F. MERUSI, Servizi pubblici instabili, Il Mulino, Bologna, 1990. 252

Di recente tra coloro che hanno evidenziato questo aspetto si ricordano innanzitutto E. SCOTTI,

(voce) Servizi pubblici locali, cit., che parla di dei servizi pubblici come di un istituto in transizione

“verso un approdo ancora non ben delineato”, nonché F. FRACCHIA, I servizi pubblici e la retorica

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catalizzato dall’Unione europea, atteso che “le forme dell’intervento pubblico

nell’economia sono [sempre più] significativamente influenzate dal diritto

comunitario”253

.

Ciò posto, occorre tuttavia evidenziare come la situazione di profonda incertezza che

aleggia sui molti coni d’ombra della materia non sia esclusivamente imputabile alle

influenze del diritto europeo. Al contrario, infatti, ciò che da più parti si lamenta è “la

mancanza [già a livello nazionale] di parametri istituzionali e culturali

sufficientemente definiti”254

. In altri termini, di un solido inquadramento sistematico,

posto che il vorticoso mutare della legislazione può essere letto come la prova di un

andamento ondivago e della mancanza di un progetto organico, capace di comporre

con coerenza le molte istanze che ruotano attorno all’istituto del servizio pubblico255

.

Emblematico in proposito, il profilo del ruolo delle autonomie locali nella gestione

dei servizi pubblici – quel è ad esempio quello di igiene urbana256

- e nella scelta

delle relative modalità di affidamento257

. Aspetto in ordine al quale legislatore,

della concorrenza, cit.; G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi

pubblici locali, cit.; C. VOLPE, Servizi pubblici locali e legge di stabilità 2012. Il dinamismo

normativo continua, in Foro amm. CdS., 2011, 11, 3549. 253

In questi termini F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni, cit.; ma anche E. PICOZZA, Il diritto pubblico

dell’economia nella prospettiva dell’integrazione europea, cit.. Per ciò che concerne nello specifico

l’istituto in esame, cfr. F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, cit., nonché E.

SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., la quale osserva che “l’incidenza del

diritto europeo sulla disciplina dei servizi pubblici, nazionali e locali, non è più suscettibile di essere

posta in discussione; e ciò sia che si tratti di servizi di rilevanza economica, sia che si abbia riguardo

ad attività prive di tale rilevanza. Gli interventi delle istituzioni europee hanno radicalmente cambiato

il volto dei servizi pubblici, rendendoli permeabili a logiche (quelle della concorrenza e del mercato)

tradizionalmente estranee alle attività pubbliche e al buon andamento e all’efficienza dell’azione

amministrativa". 254

Così G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi pubblici locali,

cit.. 255

Non è un caso, dunque, se in dottrina a commento delle recenti vicende legislative si leggono

espressioni quali “fibrillazione normativa” (F. FRACCHIA, I servizi pubblici e la retorica della

concorrenza, cit.) o “dinamismo normativo” (C. VOLPE, Servizi pubblici locali e legge di stabilità

2012, cit.) o, ancora, “disciplina instabile” (E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.) piuttosto che

“ tormentata via” (F. MERUSI, La tormentata via della concorrenza nei servizi pubblici locali, in

Munus, 2011, 2, 425), “tortuose vie” (E. FURNO, Le tortuose vie dei servizi pubblici locali di rilevanza

economica, cit.) e “cammino lento e incerto” (G. PIPERATA, Il cammino lento e incerto dei servizi

pubblici locali dalla gestione pubblica al mercato liberalizzato, cit.). 256

Sul punto, da ultimo, cfr. A. TRICARICO, La gestione integrata dei rifiuti. Dall’entrata in vigore del

Codice dell’ambiente alla bocciatura della c.d. seconda liberalizzazione (Osservazioni a Corte

costituzionale 199 del 2012), cit.. 257

Come osservato da F. DE LEONARDIS, Prefazione a E. MICHETTI, In house providing. Modalità,

requisiti e limiti. Evoluzione legislativa e giurisprudenziale interna ed europea anche alla luce del

referendum del 12 – 13 giugno 2011, Giuffrè, Milano, 2011, “l’esito dei quesiti referendari di cui

sopra dimostra con tutta evidenza come l’idea di un sistema di fornitura di tali servizi incentrato,

principalmente, sui meccanismi concorrenziali non sia stata ancora pienamente accettata in Italia (e

forse nemmeno in molti degli altri paesi europei). Le ragioni di questa “avversione” per il privato e

“predilezione” per il pubblico, che sembrano entrambe profondamente radicate nel tessuto sociale

italiano, sono certamente molteplici. Le più “nobili” si rifanno all’esigenza di garantire ad ogni

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giurisprudenza e cittadini sono sembrati assumere posizioni tra loro anche molto

distanti, come dimostrato dalle “alterne fortune” vissute (ancora di recente)

dall’istituto dell’in house258

. Il che, peraltro, oltre a minare la certezza del diritto e

alcuni principi cardine dell’azione amministrativa259

– in primis quello di buon

andamento – rischia di avere sensibili ricadute sul sistema economico e sul livello

occupazionale del Paese, nonché sui rapporti giuridici di quest’ultimo con gli altri

Stati membri dell’UE260

.

Ad oggi, dunque, sembra possibile affermare che i servizi pubblici in Italia sono

ancor più “instabili” di quanto Fabio Merusi non li ritenesse essere oltre vent’anni

fa261

. E la ragione di ciò sembrerebbe doversi ricondurre più alla mancanza di una

politica legislativa univoca ed organica che non alle ingerenze dell’Unione europea

nella materia de qua. Anzi, il dubbio che potrebbe legittimamente avanzarsi è che

talvolta l’Europa finisca per fungere da alibi per le tante contraddizioni della nostra

legislazione.

individuo la possibilità di usufruire dei servizi pubblici essenziali, a prezzi accessibili per tutti, e

assicurando al contempo un elevato livello di qualità del servizio stesso. (…) La realtà, tuttavia, ha

spesso smentito le aspettative. (…) Ciò induce, allora, a chiedersi se dietro l’“avversione” per i

meccanismi concorrenziali e la “predilezione” per il pubblico non si nascondano in realtà altre, e

sicuramente meno “nobili”, motivazioni”. 258

Il riferimento è ai reiterati tentativi del legislatore di marginalizzare le possibilità di ricorso a tale

istituto da parte degli enti locali (cfr., solo di recente, l’art. 23 bis d. l. n. 112 del 2008, come

modificato nel 2009; il d. l. n. 1/2012, c.d. decreto liberalizzazioni e l’art. 4 d.l. n. 138 del 2011), al

risultato della consultazione popolare nonché alla parola della Corte costituzionale che, pur non

osteggiando la spinta alla liberalizzazione dei servizi pubblici locali (cfr. C. Cost. n. 325/2010, in

ordine alla quale cfr. L. CUOCOLO, La Corte costituzionale “salva” la disciplina statale sui servizi

pubblici locali, cit. e più di recente anche C. Cost. n. 200/2012, per un commento alla quale cfr. G.

CORSO, La liberalizzazione dell’attività economica non piace alle Regioni, in Giur. it., 2013, 3, 673;

E. FURNO, La Corte “salva” la liberalizzazione della attività economiche, ma “boccia” la

soppressione automatica delle norme incompatibili per violazione dell’autonomia regionali, in

www.giustamm.it, 2012), con la sentenza n. 199 del 2012 sembra aver voluto lanciare un monito

affinché ciò avvenga cum grano salis. Come opportunamente sottolineato da E. SCOTTI, (voce) Servizi

pubblici locali, cit., “l’apertura alla concorrenza non può prescindere dalla garanzia della universalità

che, come si è visto, costituisce il nucleo imprescindibile dei servizi pubblici locali e che non può

ritenersi di per sé surrogata dall’operare (eventuale) delle dinamiche di mercato”. 259

Si veda sul punto ancora una volta E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit. la quale osserva

che “emerge oggi, preponderante, un’esigenza di ragionevolezza e di differenziazione: sia per settori

che per realtà territoriali. Si domanda così, da più parti e secondo diverse prospettive, di valorizzare –

nel contempo responsabilizzando – l’autonomia territoriale, ancorando le scelte degli enti locali ad un

effettivo rispetto dei principi di efficienza ed economicità della gestione dei servizi, in vista degli

interessi dei cittadini”. 260

Tale aspetto è chiaramente messo in evidenza, ad esempio, da M. CAPANTINI, La sentenza n. 119

del 2012, cit.; S. STAIANO, I servizi pubblici locali nel d.l. n. 138 del 2011, cit.. 261

Il riferimento è, chiaramente, a F. MERUSI, Servizi pubblici instabili, cit..

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165

CAPITOLO IV

IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI

IN GRAN BRETAGNA

IV.1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

Dopo aver ricostruito – rispettivamente nei capitoli I e III - il sistema delle fonti in

materia di rifiuti e le modalità di gestione del relativo servizio pubblico in Italia,

appare ora opportuno dedicare spazio alla comparazione1, analizzando come detto

servizio viene disciplinato e svolto in Gran Bretagna2.

In proposito, si sottolinea come più ragioni hanno deposto nel senso di scegliere

quest’ultimo Paese come tertium comparationis. Da un lato, la spiccata attenzione

delle istituzioni britanniche nei confronti dell’ambiente3 unitamente all’attualità che

1 Sino a questo momento, infatti, il parallelo è stato svolto prevalentemente tra Italia e Unione

europea, al fine di verificare come la prima abbia risposto alle istanze, sia di tipo ambientale (cfr.

recepimento delle direttive rifiuti) sia di tipo pro-concorrenziale (cfr. apertura di determinati servizi

pubblici al mercato), avanzate dalla seconda. Solo nel secondo capitolo sono state compiute delle

brevi “incursioni” nell’ordinamento britannico con l’intento di approfondire il delinearsi in quel

contesto della nozione di rifiuto e di quelle contigue di sottoprodotto ed end of waste. In dottrina, si

ricordano inter alia D. POCKLINGTON, Opening Pandora’s Box – the EU Review of the Definition of

“waste”, in [2003] EELR 204; ID., UK perspectives on the definition of “waste” in EU legislation, in

[1999] EELR 72; ID., The utility of the concept of “waste”, in 5 [1996] Env. Liability 94; E.

SCOTFORD, Trash or treasure: policy tensions in EC waste regulation, in 3 [2007] JEL 367, ID., The

new waste directive – Trying to do it all … An early assessment, 11 [2009] ELR 75; D. WILKINSON,

Time to discard the concept of waste?, in 1 [1999] ELR 172.

Inoltre, per quel che concerne l’opportunità di uno studio comparato in materia di servizi pubblici cfr.

G. MORBIDELLI, Introduzione: i servizi pubblici locali in Europa, in Dir. pubbl. comp. eur., 2001, 783

e ss., il quale sottolinea come ciò sia funzionale a vedere i servizi pubblici “al di là del nostro

ordinamento patrio: e ciò sia al fine di offrire il contributo della comparazione al dibattito (…) sia

anche per offrire dei criteri di interpretazione delle stesse norme comunitarie, che sovente sono

mutuate da specifici istituti di ordinamenti degli Stati membri (…) e pertanto non possono essere

comprese senza tener conto dell’humus in cui sono nate e sono state coltivate”. 2 Con l’avvertenza che, nelle pagine che seguiranno, si procederà all’analisi della disciplina giuridica

del servizio di gestione dei rifiuti urbani vigente in Inghilterra, atteso che le normative attualmente in

vigore nelle altre regioni del Regno Unito si rifanno sostanzialmente a quest’ultima salvo che per

piccole disposizioni di dettaglio. 3 La dottrina (D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, Sweet & Maxwell, 2011), infatti,

osserva che molta parte della legislazione “pionieristica” in materia ambientale ha avuto origine in

Gran Bretagna e ciò sia prima che dopo l’inserimento – nel 1986 - nel Trattato Ce di un capo ad hoc

per ciò che concerne le competenze della (allora) Comunità in materia ambientale. A titolo

esemplificativo, l’A. ricorda che la Gran Bretagna si è posta in una posizione di avanguardia con

riguardo a tematiche quali la responsabilità del produttore e l’end of waste. Inoltre, la stessa è leader

per ciò che concerne l’uso di strumenti economici (in specie, tasse ed incentivi) in materia ambientale.

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166

il tema dei rifiuti riveste in detto contesto4; dall’altro il valore che dal punto di vista

metodologico reca il confronto tra un sistema giuridico di civil law ed uno di

common law5.

Con particolare riferimento al settore dei rifiuti, inoltre, si segnala che risale al 1974 il “Control of

Pollution Act” (COPA), con il quale – tra le altre cose – è stato istituito un sistema di autorizzazione

per l’attività di smaltimento dei rifiuti. Benché tale sistema non si sia rivelato esente da criticità,

preme rilevare che lo stesso è stato preso a modello non solo da molti Stati membri, ma anche dalla

stessa Comunità europea. Una chiara influenza del modello tracciato nel COPA, infatti, si rinveniva

nella prima direttiva rifiuti 75/442/EEC. Sul punto amplius cfr. S. BELL – D. MCGILLIVRAY,

Environmental Law, Oxford, 2008, nonché quanto osservato nel proseguo della trattazione. 4 Per avere una prima idea di quanto il tema dei rifiuti sia considerato attuale in Gran Bretagna si veda

il sito ufficiale del Departement for Environment, Food and Rural Affairs (DEFRA) del Governo

inglese (www.defra.gov.uk/environment/waste) ed i molti materiali ivi pubblicati, anche a scopo

meramente divulgativo.

Si tenga presente, inoltre, quanto affermato già in passato da parte della dottrina. Nel 1991, ad

esempio, N. ATKINSON, The Regulatory Lacuna: Waste Disposal and the clean Up of Contaminated

Sites, in 2 [1991] JEL 265, scriveva: “Ogni anno in Inghilterra e Galles milioni di tonnellate di rifiuti

sono prodotti dagli abitanti dell’isola (…). Recentemente, tuttavia, è aumentata la consapevolezza

riguardo i danni all’ambiente che possono derivare da uno scorretto smaltimento dei rifiuti, così come

è aumentata la preoccupazione riguardo gli ingenti costi che ciò può comportare sia per le presenti che

per le future generazioni”. 5 In specie, tale confronto è particolarmente “avvincente” se operato in relazione a profili afferenti al

diritto amministrativo, attesa “la scarsa determinatezza che tuttora connota la nozione di diritto

amministrativo nell’ordinamento inglese”. Attenti studiosi (P. CHIRULLI, Attività amministrativa e

sindacato giurisdizionale in Gran Bretagna. Dal locus standi alla justiciability, Giappichelli, Torino,

1996), infatti, hanno rilevato come sul finire del secolo scorso “la dottrina inglese [mostrasse] ancora

qualche perplessità verso una chiara distinzione tra diritto privato e diritto pubblico”. La stessa cosa –

ricorda l’A. – si aveva in giurisprudenza. “Si consideri quanto affermato sul punto da Lord

Wilberforce nella decisione sul caso Davy c. Spelthorne, [1984] 1 A. C. 276: le espressioni “diritto

privato” e “diritto pubblico” sono recentemente state importate nel diritto inglese da paesi che, a

differenza del nostro, hanno sistemi separati di diritto privato e di diritto pubblico. Non v’è dubbio che

essere siano utili definizioni a fini descrittivi. In questo paese esse debbono tuttavia essere utilizzate

con cautela, giacché, tipicamente, il diritto inglese si incentra non sui principi, ma sui rimedi”.

Andando ad indagare le cause di tale stato delle cose, l’A. sottolinea che “Manifesto dell’avversione

della dottrina inglese ottocentesca nei confronti della nozione di diritto amministrativo” è

indubbiamente l’opera di A. V. DICEY, Introduction to the study of the law of the constitution, VIII

ed., Liberty Fund, Indianapolis, 1994. “Essa ciò non di meno costituisce tuttora (…) l’indispensabile

punto di partenza di ogni analisi tesa a cogliere le tappe più significative dell’emersione e dello

sviluppo di quella serie di principi e di istituti (…) cui solo recentemente è stata riconosciuta natura

pubblicistica ma le cui matrici storiche, culturali ed ideologiche sono da ricercare, tuttavia, proprio nel

pensiero di quegli autori ottocenteschi, primo fra tutti A.V. Dicey, che asserivano di non conoscere

altro diritto se non l’ordinary law of the land”. Al riguardo, infatti, si osserva che la teoria

costituzionale di Dicey, imperniata sui principi della Parlamentary sovereignty e dalla rule of law,

portava al “totale disconoscimento dell’esistenza di un terso potere, esecutivo, posto fra quello

legislativo e quello giudiziario. Importante corollario di questa affermazione era la dicotomia tra

diritto e amministrazione, in base alla quale se si riconosceva la supremazia del primo non poteva

riconoscersi rilevanza alla seconda e viceversa. (…) La dialettica private-pubblica

amministrazioneveniva interamente ricondotta sotto l’applicazione unitaria dell’ordinary law of the

land, demandata alle corti ordinarie che la amministravano con gli strumenti previsti per le

controversie tra privati”.

Ex multis cfr., innanzitutto, A.V. DICEY, The development of administrative law in England, in The

law quarterly review, 1915, 148. Più di recente, inoltre, cfr. G. GORLA, Interessi e problemi della

comparazione con la “commn law”, in ID., Diritto comparato e diritto comune europeo, Giuffrè,

Milano, 1981; C. HARLOW – R. RAWLING, Law and administration, Wiedenfeld&Nicolson, London,

1984; C. HARLOW, “Public” and “Private” Law: a Definition without Distinction, in The Modern

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167

L’obiettivo che in questa sede si intende perseguire, dunque, è quello di verificare

come la Gran Bretagna abbia risposto alle istanze avanzate dall’Europa nella materia

de qua, sia dal punto di vista della tutela ambientale sia dal punto di vista della

organizzazione del servizio pubblico di gestione dei rifiuti. In altri termini, dopo aver

esaminato le trasformazioni che il diritto UE ha innescato nell’ordinamento italiano

sotto entrambi i profili poc’anzi menzionati6, l’intento è ora quello di passare a

valutare se – ed eventualmente come – le prescrizioni di matrice europea abbiano

influito nel contesto giuridico di un altro Stato membro, qual è appunto la Gran

Bretagna7.

Per tale via sarà, dunque, possibile giungere a tracciare un parallelo tra i due Paesi,

ma anche formulare talune considerazioni in ordine al tema, ben più generale, delle

modalità con cui le istituzioni europee operano al fine di creare – non tanto e non più

solo un mercato unico, quanto piuttosto - un ordinamento giuridico unitario8.

Law Review, 1980, 241; J. D. B. MITCHELL, The causes and effects of the absence of a system of

public law in the United Kingdom, in Public Law, 1965, 96; L. SCARMAN, The development of

administrative law: obstacles and opportunities, in Public Law, 1991, 490. 6 Si vedano in proposito le considerazioni sviluppate nei capitoli I e III, retro.

7 Sull’argomento, ancorché in termini più generali, si segnalano le riflessioni di J. USHER, The

Reception of General Principles of Community Law in the United Kingdom, in Eur. Buss. Law. Rew.,

2006, 489. Qui si legge che “il tipo di influenza più ovvia si è avuto allorché a livello interno sono

stati sviluppati dei rimedi ad hoc per non incorrere in violazioni del diritti comunitario, laddove –

peraltro – in molti casi le corti della Gran Bretagna hanno persino anticipato gli indirizzi della Corte di

Giustizia”. A titolo esemplificativo, infatti, l’A. ricorda come l’influenza del diritto inglese sia

chiaramente ravvisabile nella giurisprudenza della Corte di Giustizia sul diritto ad essere ascoltati

(cfr. CGCE 23 ottobre 1974, Transocean Marine Paint Association c. Commission, C-17/74). E

ancora: “si può osservare un notevole parallelismo tra il diritto inglese e il diritto comunitario con

riguardo allo sviluppo di certi principi (…) e tecniche interpretative, qual è, ad esempio,

l’interpretazione teleologica”.

Sul punto cfr. anche L. DE LUCIA, Amministrazione transnazionale e ordinamento europeo. Saggio sul

pluralismo amministrativo, Giappichelli, Torino, 2009; D. OSBORN, The Impact of EC Environmental

Policies on UK Public Administration, in L. KRAMER (a cura di), European Environmental Law,

Ashgate, 2003, il quale evidenzia come “l’impatto non sia stato unidirezionale”, poiché “nonostante il

tardivo avvento sulla scena, il contributo del Regno Unito all’emergente politica comunitaria [in

materia ambientale] è stato fondamentale”, anche in ragione della posizione di forza - dal punto di

vista dell’esperienza scientifica ed amministrativa - da cui la Gran Bretagna muoveva. 8 Al riguardo, cfr. A. ROMANO, Amministrazione, legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. amm., 1999,

1, 130, il quale osserva come nel tempo il diritto europeo si sia esteso ben oltre “i suoi originari

ambiti e le sue originarie finalità legate alla devoluzione della sovranità in materia economica alla

Comunità europea”, così che “da ordinamento derivato, e quindi autonomo, tende a trasformarsi in un

ordinamento originario, e quindi sovrano”.

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In definitiva, si cercherà di sviluppare talune considerazioni circa l’influenza che

l’Unione europea esercita in ordine alle politiche nazionali al fine di valutare se,

quanto meno con precipuo riguardo al settore in esame, l’oramai indiscussa primautè

del diritto UE9 sia effettivamente in grado di garantire l’omogeneità delle discipline

nazionali e, soprattutto, se (o fino a che punto) quest’ultima sia sempre la soluzione

da preferire o se, piuttosto, talvolta non sia meglio “governare per differenza”10

,

specie al fine di garantire l’adeguatezza della normativa al contesto cui la stessa deve

applicarsi11

.

IV.2 LA DISCIPLINA GIURIDICA DEI RIFIUTI IN GRAN BRETAGNA

Se – come molti sostengono12

– specie a partire dagli anni Novanta del secolo scorso,

la maggior parte della legislazione del Regno Unito in materia ambientale ha avuto

“origine” in Europa, ciò è particolarmente vero per quel che concerne i rifiuti e la

loro gestione13

. A titolo esemplificativo si ricorda, infatti, che due pietre miliari della

legislazione britannica di rango primario, quali il “Waste Management Licensing

Regulations” del 1994 e l’“Environmental Act” del 1995, sono state adottate

Ex multis, cfr. D. WYATT, The Growing competence of the European Community, in Eur. Bus. Law.

Rew., 2006, 483, il quale ritiene che quattro siano – in particolare – i fattori che hanno contribuito

all’espansione delle competenze dell’UE negli ultimi trent’anni: 1) il Trattato Cee aveva uno scopo

ampio; 2) detto trattato è stato interpretato estensivamente da parte delle istituzioni europee e 3) degli

Stati membri; inoltre 4) negli anni sono state apportate modifiche (ampliative) molto significative,

specie dal punto di vista delle competenze. 9 Sul principio del “primato” o della primazia del diritto europeo sui diritti nazionali cfr., inter alia, M.

P. CHITI, Diritto amministrativo europeo, Giuffrè, Milano, 2011; P. CRAIG, EU Law. Text, Materials

and Cases, Sweet & Maxwell, London, 2011; G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, Cedam,

Padova, 2010. 10

L’espressione è presa in prestito da F. GIGLIONI, Governare per differenza. Metodi europei di

coordinamento, ETS, Pisa, 2012. 11

In questo senso, di recente, E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, in Dig. disc. pubbl.,

aggiornamento, 2012; nonché prima ancora A. TRAVI, Servizi pubblici e tutela della concorrenza fra

diritto comunitario e modelli nazionali, in G. FALCON (a cura di), Il diritto amministrativo dei Paesi

Europei tra omogeneizzazione e diversità culturali, Cedam, Padova, 2005. 12

Cfr., inter alia, D. OSBORN, The Impact of EC Environmental Policies on UK Public

Administration, cit.; S. TROMAS, EC Waste Law – A complete mess?, in 13 [2001] JEL 133. 13

Così D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit..

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principalmente al fine di recepire nell’ordinamento interno le previsioni dettate dalla

(allora) Comunità in tema di rifiuti.

Ciò non di meno, e a differenza di quanto si è detto con riguardo all’Italia14

, la

“storia” del diritto inglese nella materia de qua ha radici ben più antiche ed

“autonome”, tanto da indurre più d’uno a parlare di una legislazione di

avanguardia15

. Al riguardo, occorre innanzitutto sottolineare come l’essere stata

teatro della Rivoluzione industriale abbia fatto sì che la Gran Bretagna già nel XIX

secolo iniziasse ad interessarsi al problema dei rifiuti16

, ancorché – al pari di quanto

accaduto in Italia alcuni anni dopo17

- in un primo tempo ciò fosse principalmente

14

Si veda in proposito quanto ricordato nel capitolo I. Sul punto in dottrina, cfr. inter alia B.

CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente, Il Mulino, Bologna, III ed. 2005; P. DELL’ANNO, (voce)

Rifiuti, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 2006. 15

In particolare cfr. D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 16

Estremamente interessante, al riguardo, la ricostruzione operata da L. PINNA, Autoritratto

dell’immondizia. Come la civiltà è stata condizionata dai rifiuti, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.

Qui si legge, infatti: si potrebbe “pensare che la rivoluzione industriale abbia portato ricchezza e

benessere quasi istantaneamente (…). Naturalmente niente è più lontano dal vero”. E “la storia di

Londra, la capitale della prima nazione a entrare nella rivoluzione industriale, è in proposito molto

interessante. All’inizio del settecento Londra aveva circa 600.000 abitanti e (…) era ancora una città

pestilenziale. (…) Ma all’alba dell’Ottocento Londra contava 900.000 abitanti. Evidentemente

l’aumento era avvenuto grazie all’immigrazione (…). Come è facile immaginare, con il rapido

aumento degli abitanti e la conseguente comparsa di bidonville e slum, la situazione della città

pestilenziale non poteva che peggiorare. Il sistema fognario di Londra era primitivo: canalette lungo le

strade, canali, fossi, ruscelli affluenti del Tamigi, e qualche abbozzo di fognatura sotterranea per

drenare le acque piovane dalle strade cittadine. Le case avevano un pozzo nero per raccogliere le

deiezioni. (…) A questi guai si aggiunsero, come un potentissimo colpo di maglio due “innovazioni”

tecnologiche. I nuovi acquedotti e, soprattutto, il WC. (…) Il risultato di questo insieme infernale di

innovazione tecnologica, città pestilenziale e scarse conoscenze medico-biologiche sarà l’esplosione

di ripetute e gravissime epidemie di colera” (cfr. il caso della fontana di Broad Street, cap. I retro). Al

riguardo, l’autore ricorda che “nel suo famoso rapporto An Inquiry into the Sanitary Conditions of the

Labouring Population of Great Britain del 1842, [lo scienziato] Chadwick sosteneva che migliorare le

condizioni sanitarie e la salute della classe operaia era nell’interesse dello Stato. Sia perché la

produttività del lavoro (meno assenze) sarebbe aumentata, sia perché ci sarebbe stato un minor

numero di malati a carico del bilancio pubblico. I principali nemici erano quindi il tanfo e l’aria

viziata creata dalle stanze sovraffollate, dai vicoli stretti con catapecchie addossate le une alle altre

nelle bidonville, dalla mancanza di spazi verdi, e ovviamente dai liquami e dai rifiuti allo stato libero”.

Ecco allora che, a distanza di poco più di un decennio, nel 1875 con il Public Health Act Londra

conobbe per la prima volta il dustbin, ossia il secchio dell’immondizia. “Stavano nascendo i primi

servizi di nettezza urbana”. 17

Si veda quanto ricordato nel capitolo I con riguardo alla genesi della L. 20 marzo 1941 n. 366.

Inoltre, in dottrina, cfr. tra gli altri G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, in M. P. CHITI – G.

GRECO (a cura di) Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffrè, Milano, 2007; A. MONTAGNA,

(voce) Rifiuti (gestione dei), cit..

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legato all’esigenza di assicurare un elevato livello di igiene nelle città18

. Le Autorità

locali, infatti, sin dal 1848 in forza del “Public Health Act” (poi sostituito dal

“Sanitary Act” del 1866) sono state dotate di specifici poteri in relazione alla

necessità di prevenire e gestire l’accumulo di rifiuti nocivi lungo le strade e negli

spazi pubblici. “Le disposizioni ivi contenute, dunque, hanno costituito la base per

quello che oggi è lo Statutory nuisance control [benché] il loro essere orientate

prioritariamente alla tutela dell’igiene pubblica, piuttosto che dell’ambiente, [sia]

parso da subito evidente”19

.

Inoltre, parte della dottrina evidenzia come a rendere in un certo senso “pionieristica”

la legislazione inglese in materia di rifiuti, abbia concorso in maniera determinante

anche il rilievo che la proprietà reca da sempre nell’ordinamento di common law.

Come da taluno sottolineato, infatti, il rapporto tra i rifiuti e la loro gestione, da un

lato, e il diritto di proprietà, dall’altro lato, è stato sensibilmente caratterizzato dal

cosiddetto fenomeno NIMBY20

. A quest’ultimo, dunque, si lega la grande mole di

contenzioso relativa alla costruzione degli impianti connessi con il ciclo dei rifiuti,

quali ad esempio le discariche, i centri per la raccolta e il riciclo dei rifiuti o ancora

18

In tal senso S. BELL – D. MCGILLIVRAY, Environmental Law, cit. ed E. COCKAYNE, Hubbub: Filth,

Noise and Stench in England, Yale University Press, 2007. Ma anche L. PINNA, Autoritratto

dell’immondizia, cit., il quale ricorda come vicende analoghe hanno caratterizzato anche altri Paesi,

quale ad esempio la Francia. “Anche Parigi ebbe la sua estate di passione: il Grande Puzzo del 1880”.

Nella capitale francese, infatti, “la stragrande maggioranza dei pozzi neri delle abitazioni non era

collegata alle fogne”. Ma “la calda estate del 1880 fece ovviamente ripensare tutto il sistema di

smaltimento dei rifiuti fognari” e “anche per i rifiuti solidi (…) la crescita delle città peggiorò la già

difficile situazione e costrinse a ripensare le primitive misure di “nettezza urbana”. (…) La svolta

epocale, per Parigi, avvenne nel 1884, quando il prefetto della Senna di allora, Eugene Poubelle,

emise un’ordinanza con cui obbligava tutte le case, i negozi, le botteghe a dotarsi di bidoni metallici

con coperchio dentro i quali mettere le immondizie. I bidoni dovevano essere poi esposti in

determinate ore sulla strada, dove venivano svuotati da un apposito servizio” di nettezza urbana. 19

Così si legge in AA.VV. Environmental Law, ButterWorths Lexisnexis, 2002. 20

Il fenomeno Nimby, acronimo di “not in my back yard”, lega assieme il tema della tutela della

proprietà privata e quello della partecipazione alle decisioni recanti impatto ambientale. In dottrina,

sotto il primo profilo cfr., per tutti A. LAYARD, Planning and Environment at a Crossroad, in 3 [2002]

JEL 2002 401 e D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit., in specie pp. 271 e ss..

Quanto al secondo profilo, tra i contributi più recenti si segnalano: E. ETERMIRE, Public Access to

Environmental Information Held by Private Companies, in 12 [2012] ELR 1 7; M. LEE, Population

and the Environment, in 13 [2011] ELR 2 81; O. W. PEDERSON, Price and Partecipation: the UK

Before the Aarhus Convention’s Compliance Commitee, in 14 ELR 2 [2011] 115.

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gli inceneritori21

, poiché sovente essi si collocano al crocevia tra la dimensione

ambientale ed il pieno godimento del diritto di proprietà22

.

Come anticipato, tuttavia, e similmente a quanto avvenuto in Italia, solo in un

secondo momento la legislazione britannica in materia di rifiuti ha assunto come

scopo primario quello della tutela dell’ambiente. In tal senso, il primo atto legislativo

– in ordine cronologico - specificatamente dedicato ad arginare gli effetti negativi

che i rifiuti sono in grado di produrre dal punto di vista dell’inquinamento è stato

adottato nel 1972 in modo del tutto fortuito23

. Infatti, a seguito della scoperta di una

ingente quantità di cianuro abbandonato all’aperto in una vallata e in ragione del

panico diffusosi tra la popolazione, per il timore dei danni alla salute e all’ambiente

che potevano derivare da tale rifiuto pericoloso, il Governo inglese si vide costretto a

prendere urgentemente dei provvedimenti e adottò il “Deposit of Poisonous Waste

Act”.

Quest’ultimo, dunque, ha costituito una sorta di misura ad hoc assunta per rispondere

ad uno specifico stato di emergenza, dato dal deposito illegale di sostanze pericolose

(salvo, tuttavia, aspirare ad avere un’applicazione pratica ben al di là del singolo caso

di specie). Questa circostanza, unitamente al fatto di contenere una definizione di

21

Inter alia, tale aspetto viene evidenziato in AA.VV., Environmental Law, cit.; S. TROMAS, EC

Waste Law – a Complete Mess?, cit.. 22

Cfr. nota n. 19, retro. Inoltre, occorre anche evidenziare come tali questioni si leghino anche al tema

del diritto al rispetto della vita privata e familiare e (soprattutto) del diritto alla salute. A tale proposito

appare emblematica la giurisprudenza della Corte EDU sviluppatasi intorno all’art. 8 CEDU a partire

dal noto caso Lopez Ostra c. Spagna. (Corte EDU 9 dicembre 1994, Lopez Ostra c. Spagna, ric.

16798/90). Dopo di allora si ricordano, inter alia, Corte EDU 9 giugno 1998, McGinley c. Regno

Unito, ric. n. 21825/93; Corte EDU 19 febbraio 1998, Guerra e a. c. Italia, ric. n. 14967/89; Corte

EDU 8 luglio 2003, Hatton c. Regno Unito, ric. n. 36022/97; Corte EDU 2 novembre 2006,

Giacomelli e a. c. Italia, ric. n. 59909/00; Corte EDU 6 luglio 2009 Tatar c. Romania, ric. n.

67021/01; nonché, da ultimo, Corte EDU 10 gennaio 2012, Di Sarno e a c. Italia, ric. n. 30765/08.

In dottrina, cfr. A. MASSERA, Diritto amministrativo e ambiente. Materiali per uno studio introduttivo

dei rapporti tra scienze istituzioni e diritto, ES, Napoli, 2011; E. RUOZZI, La tutela dell’ambiente

nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, ESI, Napoli, 2011ed, infine, sia consentito

rinviare a C. FELIZIANI, Il diritto fondamentale all’ambiente salubre nella recente giurisprudenza

della Corte di Giustizia e della Corte EDU in materia di rifiuti. Analisi di due approcci differenti, in

Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2012, 6, 999. 23

Così in AA. VV., Environmental Law, cit..

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“rifiuto” piuttosto circoscritta24

, ha fatto sì che il “Deposit of Poisonous Act”

rivelasse uno scarso grado di effettività, tanto da indurre il legislatore ad abrogarlo a

soli due anni di distanza dalla sua entrata in vigore. Ciò non toglie, però, che lo

stesso abbia segnato l’avvio della moderna legislazione britannica in materia di

rifiuti. Moderna in duplice senso: sia perché orientata, a differenza del passato, al

perseguimento di obiettivi profondamente connessi alla tutela dell’ambiente25

e sia

perché calata in una dimensione che negli anni sarebbe diventata sempre più

europea26

.

Come anticipato, nel 1974 il “Deposit of Poisonous Act” è stato abrogato e sostituito

dal “Control of Pollution Act” (COPA) il quale, oltre a poggiare su basi più solide27

,

aveva uno spettro applicativo molto più vasto, sia in ragione della definizione di

rifiuto28

ivi contenuta sia in virtù delle attività connesse al ciclo dei rifiuti che lo

stesso ambiva a regolare29

. In particolare, con il COPA il legislatore ha introdotto per

la prima volta un sistema di controlli molto stringente, tale per cui prima di poter

depositare i rifiuti in una discarica o bruciarli in un inceneritore era necessario che gli

interessati ottenessero un’apposita autorizzazione da parte della amministrazione

competente30

.

24

Il testo del documento è consultabile al seguente indirizzo:

http://www.legislation.gov.uk/ukpga/1972/21/pdfs/ukpga_19720021_en.pdf. 25

D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 26

D. OSBORN, The Impact of EC Environmental Policies on UK Public Administration, cit.. 27

Non ultimo in ragione del fatto che, come ricorda parte della dottrina (D. POCKLINGTON, The Law of

Waste Management, cit.), in questo caso non si trattava di atto legislativo “emergenziale” (…). 28

Nel Control of Pollution Act, il legislatore al S. 30 affermava che rientrava nella nozione di rifiuto:

“any substance which constituted a scarp material or an effluent or other unwanted substance arising

from the application of any process; and any substance or article which required to be disposed of as

being broken, worn out, contaminated or otherwise spoiled”. 29

In questo senso, D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 30

In AA.VV., Environmental Law, cit. si parla addirittura di una “domestic statutory devolution”

poiché in virtù del COPA il numero dei rifiuti soggetti a controllo crebbe in modo esponenziale.

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Benché il sistema regolatorio così come congegnato non fosse esente da criticità31

, lo

stesso ha avuto però il merito di costituire un esempio per molti altri Stati membri e

finanche per la stessa Comunità europea. La dottrina, infatti, non manca di

evidenziare come una chiara eco del “Control of Pollution Act” sia ravvisabile

addirittura nella prima direttiva rifiuti che – non a caso – è stata adottata nel 1975,

ossia l’anno successivo all’entrata in vigore del COPA32

.

Nel 1989, tuttavia, quest’ultimo è stato messo seriamente in discussione da parte di

un’apposita commissione istituita presso la Camera dei Comuni33

, la quale notava

come mai nelle inchieste sino a quel momento svolte in relazione a problemi di

carattere ambientale fosse stato ravvisato un così alto tasso di scetticismo riguardo la

legislazione in vigore e l’operato del Governo, sia a livello centrale che locale34

. In

tale occasione, dunque, si fece il punto su quelli che, in quindici anni, si erano

rivelati essere i punti deboli del “Control of Pollution Act”35

e si decise di provare a

porre rimedio agli stessi con l’adozione di un nuovo atto legislativo. E’ così che nel

1990 ha visto la luce l’ “Environmental Protection Act”.

Inizialmente, tuttavia, la distanza tra quest’ultimo e il suo predecessore non è

sembrata molto marcata, stanti talune analogie non di poco conto. La nuova

31

In particolare, in S. BELL – D. MCGILLIVRAY, Environmental Law, cit., si legge che il COPA recava

le seguenti criticità: a) mirava in via prioritaria a disciplinare, attraverso stringenti controlli, la fase del

deposito dei rifiuti, piuttosto che la loro gestione; b) mancava una guida strategia alla gestione dei

rifiuti; c) c’era un’eccessiva sovrapposizione in punto di responsabilità tra i diversi livello di governo;

d) mancavano strumenti coercitivi in grado di assicurare il rispetto delle prescrizioni ivi contenute. 32

Sul punto cfr. S. BELL – D. MCGILLIVRAY, Environmental Law, cit., nonché D. POCKLINGTON, The

Law of Waste Management, cit.. Quest’ultimo, in particolare, evidenzia come l’influenza della

legislazione Britannica sia ravvisabile con riguardo alla definizione di rifiuto contenuta nella prima

direttiva rifiuti. 33

Si tratta della House of Commons Environment Committee Investigation che all’esito del proprio

lavoro elaborò un apposito report. 34

Il testo del report a cui si fa riferimento è riportato in AA.VV., Environmental Law, cit., dove si

legge anche: “sembra che a partire dal 1974 ci sia stata la mancanza di una guida a livello di governo

centrale e di legislazione”. 35

Tra questi, in particolare: “l’inadeguatezza della base normativa (…); la scarsa attenzione accordata

dalle istituzioni al tema dei rifiuti (…); la mancanza di un apparato burocratico e operativo

sufficientemente qualificato; la mancanza di una vera e propria industria dello smaltimento dei rifiuti;

l’assenza di un piano efficace per la riduzione dei rifiuti e il loro riciclo” (AA.VV. Environmental

Law, cit.).

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legislazione, infatti, oltre a riprodurre la definizione di rifiuto contenuta nel COPA36

,

ne ricalcava la disciplina anche per ciò che concerne altri importanti profili della

materia, quale ad esempio la regolamentazione dei rifiuti pericolosi.

Al contempo, però, si registravano anche alcune interessanti novità. Innanzitutto

l’“Environment Protection Act” si differenziava dal COPA per il fatto di avere un

ambito applicativo molto più ampio, interessando la pressoché totalità delle attività

relative alla gestione dei rifiuti37

. Inoltre, da un lato, un “duty of care” veniva

imposto per la prima volta in capo a tutti i soggetti operanti, a qualsivoglia titolo,

nella filiera dei rifiuti38

; e, dall’altro lato, il novero delle attività sottoposte a

preventiva autorizzazione risultava notevolmente ampliato39

.

Avendo cercato di sopperire, almeno nelle intenzioni, a quelle che in passato erano

state ritenute essere le criticità del COPA40

, sembrava che la novella legislazione

potesse aspirare ad avere un certo grado di stabilità. Tuttavia, al pari di quanto

avvenuto in Italia41

, simile assetto regolatorio - calibrato su esigenze (quasi)

prettamente interne - ha dovuto misurarsi con l’imporsi in modo sempre più deciso

dell’Europa. A solo un anno di distanza dall’entrata in vigore dell’ “Environmental

Protection Act”, infatti, l’avvento della direttiva 91/156/Cee42

ha fatto sorgere la

necessità di apportare ulteriori modifiche sia al regime delle autorizzazioni che alla

36

Cfr. nota n. 28, retro. 37

D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 38

D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 39

Come osservato da parte della dottrina, detto sistema autorizzatorio ha costituito un elemento chiave

nella regolazione dei rifiuti in Gran Bretagna. Lo stesso, tuttavia, non deve essere considerato

isolatamente almeno per due ragioni. Innanzitutto perché, in certa misura, esso trae origine (o quanto

meno ispirazione) da disposizioni di rango internazionale ed europeo. In secondo luogo perché lo

stesso ha operato unitamente a misure ad esso sia pre-esistenti (quali ad esempio quelle dettate dal

diritto urbanistico) che susseguenti (AA.VV., Environmental Law, cit.). 40

Cfr. nota n. 31, retro. 41

Si veda la ricostruzione della legislazione nazionale operata nel capitolo I, a partire dal Decreto del

Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915 (in G. U., 15 dicembre, n. 343) - Attuazione

delle direttive (Cee) numero 75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo smaltimento dei

policlorodifenili e dei policlorotrifenili e numero 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi. 42

Come ricordato nei capitolo I e II, si tratta della direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 156,

91/156/CEE, che sostituisce gli artt. da 1 a 12 della direttiva 75/442/Cee aggiungendo agli stessi tre

documenti allegati.

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definizione di rifiuto43

. Per tale ragione nel 1994 sono state adottate le “Waste

Management Licensing Regulations”, che hanno modificato in parte

l’“Environmental Protection Act”, mentre l’anno successivo è stato emanato

l’“Environment Act”.

Quest’ultimo, in particolare, ha segnato una tappa molto importante nella storia della

legislazione britannica in materia di rifiuti avendo introdotto una serie di novità

alquanto significative. Tra le più importanti, si ricorda il fatto che l’ “Environment

Act” ha gettato le fondamenta per la “costruzione” dell’istituto della responsabilità

del produttore44

; lo stesso, inoltre, ha introdotto l’obbligo di controlli con riguardo ai

terreni contaminati e alle miniere abbandonate45

ed, infine, ha previsto una vera e

propria strategia per il recupero e lo smaltimento dei rifiuti in Inghilterra e in

Galles46

.

A ciò si aggiunga, poi, che ampia parte dell’ “Environment Act” era dedicata

all’istituzione e alla regolamentazione di una nuova autorità di regolazione,

43

La direttiva 91/156/Cee all’art. 1 lett. a) stabiliva che per rifiuto dovesse intendersi “qualsiasi

sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o

abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. 44

In proposito, si sottolinea come, ancor prima dell’avvento della direttiva 91/156/EEC, la dottrina

inglese avvertisse una serie di difficoltà connesse alla applicazione delle consolidate regole della

responsabilità civile alla materia de qua. In N. ATKINSON, The Regulatory Lacuna: Waste Disposal

and the Clean Up of Contaminated Sites, cit., ad esempio si legge: “I tradizionali principi di Common

Law si sono sempre rivelati sufficienti per regolare le relazioni tra soggetti in materia proprietaria e

ciò anche quando un soggetto aveva subito un danno derivante dal deposito dei rifiuti. (…) Ciascuno

dei tradizionali strumenti opera principalmente per tutelare gli interessi del proprietario ed è basato

sulla regola per cui “sic utero suo ut alienum non laedus”. Tutto ciò, però, comporta non poche

difficoltà per il ricorrente nel caso di danno derivante da deposito di rifiuti. (…) Alla luce delle

difficoltà sperimentate dai ricorrenti in azioni di questo tipo, che variano per natura e peculiarità nei

diversi Stati membri, la Comunità europea ha proposto di introdurre una direttiva che imponga in

ciascuno Stato sui produttori di rifiuti la responsabilità sui propri rifiuti (…)”.

Ex multis, cfr. K. BENTIL, Environmental Suits before the Courts – Prospects for Pressure Groups, 3

JPEL 2 [1981] 324; C. GEARTY, The Place of the Private Nuisance Action and the Modern Law of

Torts, 14 Cambridge Law Journ., 2 [1989] 214; A. OGUS – G. M. RICHARDSON, Economics and

Environment: A Study of Private Nuisance, in 36, Cambridge Law Journ. [1977] 1 84; A. J. WAITE,

Private Civil Litigation in the Environment, in Land Management and Environmental Law Review,

1989, 113. 45

Parte V. 46

Parte II, artt. 57 – 60.

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l’Environment Agency47

, avente il compito di operare, “mediante un approccio

integrato”, alla gestione del bene ambiente48

. La sua creazione, benché non

rappresentasse una novità assoluta in Gran Bretagna49

, si poneva indubbiamente in

linea con le prescrizioni dettate a livello europeo, giacché a partire dal 1991 la

direttiva rifiuti ha fatto obbligo agli Stati membri di individuare autorità preposte alla

elaborazione e messa a punto di piani strategici per la gestione dei rifiuti50

.

Nel complesso, è possibile affermare che la legislazione introdotta intorno alla metà

degli anni Novanta, al fine di recepire la direttiva 91/156/Cee, si è caratterizzata per

il fatto di poter vantare un certo grado di stabilità, giacché la stessa è stata applicata

per oltre un quinquennio senza che si rendesse necessario l’intervento di rilevanti

emendamenti51

. Le cose sono decisamente cambiate, invece, con l’inizio del nuovo

secolo. A partire dal 2000, infatti, a livello normativo sono stati periodicamente

47

Più nello specifico, l’Environment Act aveva previsto l’istituzione dell’Environment Agency in

Inghilterra ed in Galles, mentre in Scozia il regolatore prese il nome di Scottish Environmental

Protection Agency (SEPA). 48

E. GALLAGHER, The Environment Agency, in 3 JPEL [1996] 6. Qui si legge: “una nuova

Environment Agency è stata investita della responsabilità di rendere effettiva la legislazione

ambientale in Inghilterra e Galles. (…) L’idea peraltro non è totalmente nuova. Già negli anni settanta,

infatti, una proposta di questo genere era stata avanzata dalla Royal Commission. Spinte in questo

senso si ebbero poi anche nel 1984 e portarono, tre anni più tardi, alla creazione de Her Majesty’s

Inspectorate of Pollution (HMIP), la quale ebbe il merito di introdurre nella gestione del bene

ambiente il concetto di controllo integrato dell’inquinamento”. A distanza di cinque anni, inoltre,

un’agenzia ad hoc venne creata con riguardo alla gestione dei fiumi e prese il nome di National Rivers

Authority (NRA). L’agenzia istituita nel 1991, dunque, “ha riunito le due istituzioni appena

menzionate e le ben 86 autorità di regolazione locali che regolano il deposito e il trasporto di rifiuti”.

Al contempo, l’autore evidenzia come il compito attribuito all’agenzia, vale a dire quello di giungere

alla adozione di soluzioni ottimali per l’ambiente complessivamente inteso, non fosse affatto facile.

L’agenzia, infatti, non può assumere delle decisioni a sostegno di un profilo della materia ambientale

e che vadano contemporaneamente a detrimento di un altro profilo. “Solo per fare un esempio, non è

corretto dimettere un inceneritore per ridurre l’inquinamento dell’aria se i materiali un tempo smaltiti

mediante tale impianto poi vengono gettati indiscriminatamente nelle acque del fiume”. 49

Cfr. ultima nota, retro. E. GALLAGHER, The Environment Agency, cit. peraltro evidenzia che

“l’obiettivo di una gestione integrata del bene ambiente non è il solo motivo alla base della creazione

dell’Environment Agency. Di fondo, infatti, vi sarebbe anche la volontà del governo inglese di dare

corso ad un processo di c.d. deregulation. L’intento, in altri termini, è quello di dare vita ad una

organizzazione con cui le industri e gli altri operatori economici possano agevolmente rapportarsi”. 50

Si vedano al riguardo gli artt. 6 e 7 della direttiva 91/156/Cee, dove si legge: “Gli Stati membri

stabiliscono o designano l’autorità o le autorità competenti incaricate di porre in atto le disposizioni

della presente direttiva” (art. 6). E ancora: “(…) le autorità competenti di cui all’art. 6 devono

elaborare quanto prima uno o più piani di gestione dei rifiuti che contemplino fra l’altro: tipo, quantità

ed origine dei rifiuti da recuperare oda smaltire; requisiti tecnici generali; tutte le disposizioni

particolari per rifiuti di tipo particolare; i luoghi o impianti adatti per lo smaltimento (…)”. 51

Per ciò che riguarda lo stato della legislazione al tempo vigente in Italia cfr. capitolo I, retro.

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adottati provvedimenti recanti “Waste Strategy”52

. Di prassi, si tratta di un atto

legislativo per ciascuna regione del Regno Unito53

, i quali nel complesso sono andati

a costituire il piano di gestione dei rifiuti dell’intera Nazione. Tra questi, merita

particolare attenzione quello denominato “Waste Strategy for England 2007”54

,

adottato (anche) al fine di recepire nell’ordinamento interno la direttiva rifiuti

2006/12/Ce55

.

Dall’esame di detta strategia, ciò che emerge è innanzitutto il fatto che la stessa

mostra di essere ispirata a quella che oggi, a livello europeo, è la consolidata nozione

di gerarchia dei rifiuti, al vertice della quale si colloca la prevenzione56

. Ciò si riflette

in ambiziosi obiettivi per quanto concerne la riduzione dei rifiuti domestici, da

(circa) 22 milioni di tonnellate nel 2000 a (circa) 15 milioni di tonnellate nel 2010; e

si riflette altresì nell’espressa volontà di ridurre del 45% la produzione complessiva

di rifiuti entro il 2020. A questo ultimo riguardo, peraltro, appare molto interessante

il fatto che il documento sottolinei non solo i benefici economici derivanti dal

52

Il primo in ordine di tempo è stato il Waste Strategy 2000 for England and Wales, adottato dal

Department of Transport, Environment and the Regions (DETR). 53

Al riguardo, si segnalano: National Waste Strategy for Wales (2002); National Waste Strategy for

Scotland (2003); Waste Management Strategy for Nrthern Ireland (2006); Waste Strategy for England

(2007). 54

Dal punto di vista strutturale, la Waste Strategy 2007 consta di otto capitoli e svariate appendici. Il

capitolo primo costituisce un’introduzione al nuovo piano di azione; mentre i capitoli due e tre

riguardano più da vicino la regolazione. Il capitolo quattro concerne gli obiettivi in tema di materiali,

prodotti e settori. Successivamente si affronta il tema delle azioni di governo per promuovere gli

investimenti e l’uso di risorse pubbliche (capitolo cinque), nonché quello dei progetti a livello sia

nazionale che locale per un approccio coordinato alla crescita e agli investimenti (capitolo sei). Da

ultimo, il capitolo sette intercetta i temi del coinvolgimento dei privati e delle organizzazioni nello

svolgimento dei servizi de quibus, nonché quello della promozione di una sorta di educazione civica al

tema dei rifiuti; mentre il capitolo otto identifica gli indicatori e gli obiettivi per monitorare i progressi

fatti (o ancora da fare). 55

Si tratta della direttiva 2006/12/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 relativa

ai rifiuti. In proposito cfr. amplius quanto riportato nei capitoli I e II, retro. 56

Al riguardo cfr. J. ADSHED, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, in 10 ELR 1

[2008] 46 – 51, la quale evidenzia come nel 2007 il governo inglese ritenesse vitale il fatto che la

regolazione dei rifiuti fosse calibrata anche in base ai rischi ambientali e a quelli per la salute.

Pertanto, la “waste strategy” prevedeva che le misure di regolazione fossero volte ad incoraggiare la

prevenzione e, non ultimo, l’impiego dei rifiuti come risorsa. Con riferimento all’importanza che il

principio di prevenzione riveste in materia di rifiuti cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e

novità normative in tema di rifiuti, in AA. VV., Studi in onore di Alberto Romano, Ed. Sc., Napoli,

2012, 2079; ID., I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a cura di), Diritto

dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011.

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raggiungimento di simili obiettivi, ma soprattutto la necessità di coinvolgere l’intera

società nel perseguimento degli stessi affinché si creino i presupposti per una

responsabilità ambientale condivisa57

. In altri termini, diversamente da quanto

registrato in Italia58

, emerge chiaramente il dato per cui il Governo inglese già nel

2007 sembrava puntare sul fattore educativo – culturale come strumento per

conseguire importanti risultati in punto di sostenibilità ambientale.

Per ciò che concerne gli obiettivi strategici, la “Waste Strategy” mostra come cinque

fossero gli aspetti ritenuti cruciali dal Governo inglese nel 2007: a) ridurre il

dispendio di risorse naturali nella filiera produttiva; b) spezzare il nesso tra crescita

economica e aumento dei rifiuti; c) riutilizzare o riciclare un maggior numero di

prodotti; d) incrementare la produzione di energia mediante impiego dei rifiuti ed,

infine, e) limitare l’uso delle discariche.

Di questi, se alcuni hanno rappresentato da sempre un punto cardine della politica

inglese in materia di rifiuti59

, ve ne sono altri che, invece, costituiscono importanti

novità per il contesto britannico e che, almeno in parte, sono stati “instillati”

dall’Europa. Il riferimento è, in particolare, all’utilizzo dei rifiuti come fonte da cui

trarre energia. Al riguardo si evidenzia, infatti, che agli inizi del 2007 secondo le

statistiche solo il 10% dei rifiuti urbani venivano sfruttati come fonte per la

produzione di energia, mentre il Governo puntava a che detta percentuale potesse

crescere sino al 25% entro il 2020. Perché un obiettivo di tal fatta potesse realizzarsi,

era chiaro che lo sviluppo del relativo mercato costituiva un fattore cruciale. Per

questa ragione, le istituzioni nel 2007 si sono offerte di supportate il lavoro del

57

In proposito, cfr. J. ADSHED, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit.. 58

In Italia, infatti, l’idea per cui anche il singolo cittadino può contribuire alla gestione della cosa

pubblica – nel caso di specie il bene ambiente – costituisce un’acquisizione piuttosto recente, legata

agli studi relativi al principio di sussidiarietà orizzontale, introdotto all’art. 118, ult. comma, Cost in

occasione della riforma del Titolo V della Costituzione operata nel 2001. Al riguardo, per tutti, cfr. G.

ARENA, Cittadini attivi. Un altro modo di pensare l’Italia, Laterza, Bari, 2011. 59

Il riferimento è, in particolare, all’obiettivo di ridurre l’uso discariche. Cfr., per tutti, D.

POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit..

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179

“Waste and Resources Action Programme” (WRAP), specie focalizzando gli sforzi

su taluni materiali - come, ad esempio, il legno - la maggior parte del quale di prassi

veniva gettato in discarica, perdendo quindi l’opportunità di essere sfruttato come

ricorsa60

.

In termini generali, va detto che dal punto di vista pratico il raggiungimento di

risultati concreti in tutti i suddetti settori è stato perseguito mediante l’uso congiunto

di incentivi e misure di regolazione. Più nel dettaglio, si evidenzia che l’obiettivo del

Governo di raggiungere importanti traguardi per ciò che concerne il riciclo e il

compostaggio dei rifiuti domestici è stato perseguito, da un lato, dotando le autorità

locali della facoltà di elargire incentivi ai privati “virtuosi” e, dall’altro lato,

mediante la pubblicazione di appositi protocolli volti ad educare la popolazione alla

corretta gestione dei rifiuti, specie chiarendo quando un rifiuto cessa di essere tale61

.

Inoltre, in virtù dell’intenzione del Governo di accordare priorità a taluni materiali -

sulla base del presupposto per cui gli stessi rappresentano “rifiuti chiave” e, dunque,

devono essere oggetto di politiche ad hoc – sono state proposte una serie di misure

volontarie che vanno ad incidere positivamente sull’istituto della responsabilità del

produttore ed – ancora - è stata istituita un’apposita Unità Prodotti e Materiali con il

compito di monitorare l’intero ciclo di vita di taluni prodotti al fine di implementare

la loro compatibilità ambientale62

.

Bisogna poi aggiungere che, oltre ai suddetti obiettivi, la “Waste Strategy” del 2007

aveva anche quello di incoraggiare e promuovere nuovi progetti per la realizzazione

60

Sul punto, cfr. J. ADSHEAD, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit.. 61

Sul punto, cfr. J. ADSHEAD, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit., la quale

ricorda anche che Defra e l’Environment Agency hanno pubblicato una guida volta ad orientare gli

utenti nella interpretazione della nozione di rifiuto. 62

Sul punto, cfr. J. ADSHEAD, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit..

Page 185: DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO PUBBLICO DELL …padis.uniroma1.it/bitstream/10805/2287/1/TESI.pdf · II.5 L’ “europeizzazione” della nozione di rifiuto pag. 88 CAPITOLO III

180

di infrastrutture utili a migliorare il sistema di gestione dei rifiuti63

. Detto obiettivo è

stato perseguito attraverso la messa in atto di un programma volto, da un lato, ad

incrementare commesse ed investimenti per dar vita a grandi infrastrutture in tempi

rapidi ed a costi contenuti e, dall’altro lato, cercando di far sì che detti progetti

fossero conformi alle linee guida dettate a livello nazionale per la realizzazione delle

grandi opere, in modo da agevolare il rilascio dei permessi di costruire64

.

Da ultimo, si evidenzia inoltre come, al fine di realizzare tali programmi, il Governo

abbia riconosciuto in via generale la necessità di assicurare il coordinamento tra i

diversi livelli di governo e non solo65

. Pieno supporto, pertanto, è stato assicurato alle

autorità locali, nonché ai soggetti privati a vario titolo impegnati nella filiera dei

rifiuti. Inoltre gli organismi locali, quali ad esempio le “Regional Development

Agencies”, sono state esortate a lavorare di concerto con le istituzioni e, soprattutto,

con le organizzazioni del terzo settore66

.

63

Al momento delle consultazioni avviate nel 2006 al fine di elaborare la “waste strategy” in parola,

una delle maggiori preoccupazioni riguardava la capacità stessa della Gran Bretagna di poter

concretamente avviare il piano di azione che si stava stilando attesa la carenza di infrastrutture.

Preoccupazioni nascevano inoltre dal fatto che gli investimenti in tale settore erano da sempre molto

scarsi. La parte V della “Waste Strategy”, pertanto, contiene una serie di prescrizioni con cui il

Governo spera di poter invertire il descritto trend. In sostanza, lo scopo è quello di stimolare nuovi

investimenti in infrastrutture destinate al trattamento dei rifiuti e stimolare il mercato a fare uso di

prodotti costruiti con materiali riciclati. 64

Sul punto, cfr. J. ADSHEAD, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit.. Qui si

legge inoltre che il piano del Governo per lo sviluppo delle infrastrutture poggiava su alcune

organizzazioni ed iniziative già esistenti oltre che su altre più recenti. Tra le tante si ricordano:

WRAP, il Waste Infrastructure Development Programme (WIDP), il Waste Implementation

Programme e il Business Resource Efficiency and Waste Programme volto a fornire indicazioni e

supporto alle autorità locali e a stimolare la crescita del mercato. Al contempo, si evidenzia anche

come lo sviluppo delle infrastrutture in argomento sia tematica intimamente connessa con quella della

pianificazione urbanistica, anch’essa peraltro interessata – al tempo - da un “vento” di riforma come

dimostra l’adozione nel 2007 del Libro Bianco intitolato “Planning for a Sustainable Future”. 65

A titolo esemplificativo si pensi, infatti, al ruolo dell’Environment Agency. Sul punto cfr., per tutti,

D. POCKLINGTON, The Law of Waste Managment, cit.. 66

Sul punto, cfr. J. ADSHEAD, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit., la quale

ricorda altresì che la piena realizzazione di quella che allora era la nuova strategia è stata guidata dal

Defra-led Strategy Board, che si è assunto anche il compito di monitorare i riscontri pratici della

riforma sul medio – lungo periodo.

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181

IV.3 LA DIRETTIVA 2008/98/CE E LE “WASTE (ENGLAND AND WALES)

REGULATIONS 2011”

Al di là della bontà delle soluzioni fatte proprie dalla “Waste Strategy 2007”,

l’avvento nel 2008 della nuova direttiva rifiuti ha “costretto” la Gran Bretagna – al

pari di tutti gli altri Stati membri dell’Unione europea67

– a mettere nuovamente

mano alla propria legislazione. Così, al fine di recepire la direttiva 2008/98/Ce, il

Parlamento nel 2011 ha adottato le “Waste (England and Wales) Regulations

2011”68

. Queste ultime, entrate in vigore il 29 marzo del 2011, sono state

successivamente emendate - a distanza di un solo anno - nella parte relativa alla

organizzazione e gestione della raccolta differenziata dei rifiuti domestici e di quelli

industriali o commerciali, “al fine di imporre un generale dovere di raccogliere

separatamente carta, metallo, plastica e vetro a partire dal 1 gennaio 2015”69

. Al

contempo, con detto emendamento, il Parlamento ha inteso altresì imporre in capo

alle autorità competenti il (correlato) dovere di predisporre le infrastrutture

necessarie perché la raccolta differenziata sia effettivamente realizzata. Il tutto

puntualizzando come tali obblighi operino solo laddove detta modalità di raccolta

risulti necessaria “al fine di facilitare o incrementare il recupero [dei rifiuti] e purché

la stessa risulti praticabile sotto il profilo tecnico, ambientale ed economico”70

.

In termini generali, le “Waste (England and Wales) Regulations 2011” si articolano

in undici Parti (o sezioni). Dopo una Parte prima contenente informazioni generali,

quali - ad esempio - quelle relative all’ambito di applicazione, il testo mostra di

accordare ampio spazio agli aspetti più prettamente gestionali della materia. Al

riguardo, emerge innanzitutto che, conformemente alle indicazioni impartite

67

Si veda in proposito quanto osservato nel capitolo I con riguardo all’Italia. 68

Il documento nella sua interezza è consultabile al sito www.defra.gov.uk/environment/waste. 69

In tal senso è stato riscritto il punto 13 del The Waste (England and Wales) Regulations 2011. Al

riguardo, cfr. www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation. 70

Sul punto cfr. ancora www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation.

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182

dall’Europa nella direttiva 2008/98/Ce, il principio di prevenzione costituisce anche

in Gran Bretagna la “regola aurea” in tema di gestione dei rifiuti71

. Infatti, non solo

la Parte seconda è specificatamente dedicata ai “Programmi di prevenzione dei

rifiuti”, ma il principio in esame trova posto anche nelle Parti quarta e quinta

rubricate, rispettivamente, “Waste prevention programmes and waste management

plants. General provision” e “Duties in relation to waste management and improved

use of waste as a resource”. La Parte terza, “cuore” della disciplina, è poi dedicata ai

piani di gestione dei rifiuti e trova un ideale completamento nella successiva Parte

sesta – che chiude la disciplina degli aspetti più strettamente gestionali della materia

– rubricata “Duties of planning authorities”. Le sezioni che seguono sono dedicate,

nell’ordine, ai depositi in mare dei rifiuti72

; all’obbligo di registrazione dei soggetti

che a vario titolo operano nella filiera dei rifiuti73

; al trasporto di questi ultimi74

e ai

profili sanzionatori della materia75

. Da ultimo, si hanno le disposizioni finali76

.

In un’ottica comparata, ossia volendo porre a raffronto la disciplina in esame e il d.

lgs. n. 205 del 2010, con cui l’Italia ha inteso recepire la medesima direttiva, è

possibile compiere talune riflessioni sia in punto di forma che di sostanza.

Sotto il primo profilo, va dato atto innanzitutto del fatto che la legislazione inglese in

materia di rifiuti – rispetto a quella italiana77

- si caratterizza per una maggiore

linearità. Non solo, infatti, i rifiuti in Gran Bretagna non sono stati “vittime” del

tumultuoso succedersi di previsioni legislative che, specie a partire dagli anni

Novanta del secolo scorso, ha caratterizzato la storia dell’istituto in esame nel nostro

71

Per ciò che concerne il rilievo accordato al principio in argomento dalla legislazione italiana cfr.

quanto riportato nel capitolo I, retro nonché le riflessioni formulate da F. DE LEONARDIS, I rifiuti:

dallo smaltimento alla prevenzione, cit. e ID., Principio di prevenzione, cit.. 72

Parte VII, Reg. 21 – 23. 73

Parte VIII, Reg. 24 – 34. 74

Parte IX, Reg. 35. 75

Parte X, Reg. 36 – 45. 76

Parte XI, Reg. 46 – 48. 77

Si vedano in proposito i rilievi compiuti nel capitolo I, retro.

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183

Paese78

, ma le norme di riferimento appaiono lineari nella forma e chiare nella

sostanza, pur non essendo prive dei dovuti rinvii a fonti esterne79

.

D’altronde, quello di rendere intellegibile ai più il senso profondo della normativa in

esame è intento di cui lo stesso Governo inglese non fa affatto mistero. Così si

spiegano, ad esempio, gli strumenti di ausilio creati per guidare gli operatori

economici e i privati cittadini nei meandri della materia e fugare quei dubbi che

rischiano di far smarrire “la retta via” a coloro i quali quotidianamente si trovano a

maneggiare a vario titolo i rifiuti. Questa la ratio, tra l’altro, della “Legal Definition

of Waste Guidance” consultabile sul sito internet del Ministero dell’ambiente80

e

rivolta principalmente “agli operatori economici e a tutte quelle organizzazioni che

quotidianamente si trovano a dover assumere decisioni circa la natura o meno di

rifiuto di determinate sostanze o materiali”81

. Infatti - si legge sul sito del Ministero –

se è vero che in molti casi la decisione può essere presa sulla base del semplice senso

comune, senza bisogno di ausili particolari, è altrettanto vero che sovente la stessa si

presenta quanto mai complessa. E’ ciò che accade, ad esempio, quando una sostanza

o un oggetto reca valore economico o è passibile di un successivo utilizzo o, ancora,

quando un oggetto è stato completamente riciclato tanto da non costituire più un

rifiuto in senso stretto. “Lo scopo delle linee guida è proprio quello di far sì che

anche in casi difficili come questi venga presa la decisione corretta”82

.

Al contempo, e sempre da un punto di vista eminentemente formale, occorre anche

osservare come, a differenza di quanto previsto dal legislatore italiano nel Codice

78

Al riguardo cfr., inter alia, D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit.. 79

In proposito cfr. D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. Per completezza, infatti,

occorre evidenziare che l’atto legislativo da ultimo esaminato non esaurisce l’intera disciplina dei

rifiuti. Al riguardo, si ricorda in particolare che sono attualmente vigenti anche: “The Environmental

Permitting for Waste”, “The Hazardous Waste Regulations” e “The Waste Shipment Regulations”. 80

La Legal Definition of Waste Guidance è consultabile sul sito del Ministero dell’ambiente

all’indirizzo: www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation/eu-framework-directive. 81

Questo l’obiettivo che il Governo inglese intende perseguire con il documento in parola. 82

Così si legge sul sito del Ministero www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation/eu-

framework-directive.

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184

dell’ambiente (come emendato dal d.lgs. 205 del 201083

), le “Waste (England and

Wales) Regulations 2011” non dedichino particolare spazio alle definizioni84

. Ciò

non perché la Gran Bretagna abbia elaborato soluzioni proprie e peculiari con

riguardo alle nozioni cardine della materia (rifiuti, sottoprodotto, ecc.), bensì perché

– salvo marginali eccezioni - il legislatore inglese ha recepito in modo così

pedissequo la direttiva 2008/98/Ce da ritenere sufficiente un generale rinvio alle

definizioni contenute in quest’ultima85

. Nella Parte prima, Reg. 3 (2) si legge, infatti,

che “tutte le espressioni ed i termini utilizzati, ma non definiti, [nel presente

provvedimento] e che sono contenuti anche nella direttiva rifiuti hanno, ai presenti

fini, lo stesso significato che recano nella direttiva”. Così è, dunque, per la

fondamentale nozione di “rifiuto”, per quelle contigue di “sottoprodotto” ed “end of

waste” – di cui si è detto diffusamente nel capitolo secondo del presente lavoro -

nonché per quelle altrettanto importanti di “produttore” e “detentore”, ecc..

La circostanza per cui, dal punto di vista definitorio, l’atto legislativo con cui la Gran

Bretagna ha inteso recepire la direttiva rifiuti finisca per “appiattirsi” su quest’ultima,

senza pervenire a soluzioni in alcun modo peculiari o innovative, trova poi

prevedibile conferma anche per ciò che concerne l’indicazione dei principi cardine

della materia. Qui, infatti, a maggior ragione il Parlamento ha dovuto prestare ascolto

ai dictat provenienti dall’Europa, atteso che lo strumento utilizzato da quest’ultima

per regolare la materia de qua è proprio una direttiva, ossia un atto legislativo che

vincola gli Stati membri in ordine agli obiettivi da realizzare e che, a tal fine, fornisce

delle linee guida, ossia indica i principi cui tutti i destinatari dovranno attenersi

83

D. lgs. 3 dicembre 2010 n. 205 (G.U. 10 dicembre 2010 n. 288), recante Disposizioni di attuazione

della direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai

rifiuti e che abroga alcune direttive. 84

Sul punto cfr. la sola Reg. 3 contenuta nella Parte I. 85

Probabilmente in tale senso il fattore linguistico ha inciso in maniera determinante.

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all’atto del recepimento86

. Non deve stupire, quindi, - ma anzi rientra per così dire

nelle “regole del gioco”87

– il fatto che, al pari di quanto accaduto in Italia88

, nelle

“Waste (England and Wales) Regulations 2011” il legislatore abbia accordato

particolare risalto al principio di prevenzione, ponendo costantemente in evidenza il

fatto che lo stesso si colloca al vertice della gerarchia dei rifiuti89

.

L’importanza di detto principio, inoltre, viene ribadita ed enfatizzata anche nei molti

documenti recanti valore esplicativo che il Governo ammette alla libera

consultazione sul proprio sito internet90

. Così, ad esempio, alla voce “Introducing the

Waste Hierarchy” si legge che “molti operatori economici non hanno la

consapevolezza dell’impatto che i rifiuti hanno sulle loro attività. [Ma] Poiché la

domanda di materie prime cresce in tutto il mondo e, di riflesso, crescono anche i

relativi costi, è importante che [gli stessi] prestino attenzione alla gerarchia dei

rifiuti”. Al riguardo – è scritto nel documento - l’articolo 4 della direttiva 2008/98/Ce

indica cinque step, ordinati a seconda dell’impatto che determinate attività sono

suscettibili di avere sull’ambiente. “La prevenzione, poiché offre i migliori risultati

in termini di compatibilità ambientale, si colloca al vertice della gerarchia, seguita in

ordine discendente dalla preparazione per il riutilizzo, il riciclo, il recupero e lo

smaltimento”91

. In via esemplificativa, inoltre, si puntualizzano quali sono i gesti

86

Con riguardo alle peculiarità e al valore della direttiva quale atto legislativo dell’Unione europea

cfr., per tutti, G. GAJA – A. ADINOLFI, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Laterza, Bari,

2012; G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, cit.. 87

Nel senso che lo strumento della direttiva è funzionale a garantire l’omogeneità della disciplina

giuridica nei diversi Stati membri dell’Unione europea. Sul punto, oltre alla dottrina richiamata alla

nota precedent,. si veda anche P. CRAIG – G. DE BURCA, EU Law, cit.. 88

Si vedano in proposito le osservazioni formulate nel capitolo I, retro. 89

Cfr., inter alia, Reg. 12, 15 e 35. 90

Per completezza, si segnala che nel 2012 il Governo ha dato vita a una consultazione pubblica al

fine di elaborare delle linee guida in ordine alla gerarchia dei rifiuti. I termini della consultazione sono

spirati il 30 giugno del 2012 e, al momento, un team di esperti è al lavoro per esaminare i materiali

raccolti e stilare una relazione ufficiale al riguardo, la cui pubblicazione è attesa per i primi mesi del

2013.

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quotidiani mediante i quali è possibile mettere in pratica la “filosofia” che è alla base

della gerarchia dei rifiuti. Si legge, quindi, che mentre la prevenzione si realizza

“impiegando il minor numero possibile di materie prime nella realizzazione dei

prodotti industriali; conservando gli oggetti più a lungo e riutilizzandoli, nonché

facendo minor uso di sostanze e materiali pericolosi” per l’ambiente; l’abbandono in

discarica e il ricorso agli inceneritori sono attività che costituiscono smaltimento e,

dunque, devono rappresentare l’ultima ratio.92

Ancora, sempre a titolo esemplificativo, è possibile sottolineare come il costante

richiamo alla ratio che governa la direttiva 2008/98/Ce - e più in generale all’Europa

- sia presente anche in un altro documento, reso pubblico agli inizi del 2012 e recante

“Government Review of Waste Policy in England 2011”93

. Qui, infatti, si legge

innanzitutto che nella preparazione del documento, “il Governo ha esaminato tutte le

opzioni in campo, riconoscendo che i riferimenti normativi più importanti in materia

di rifiuti provengono (proprio) dall’Europa ed è ad essi che bisogna attenersi”94

.

Pertanto – è scritto nel proseguo del documento – “nel guidare [la gestione de] i

rifiuti in cima alla gerarchia, dobbiamo far sì che la Gran Bretagna rispetti gli

obblighi sulla stessa gravanti e raggiunga gli obiettivi fissati dall’UE”95

.

Peraltro, se è vero che da un punto di vista formale la legislazione inglese è densa di

richiami all’Europa, è altresì vero che l’influenza di quest’ultima non si arresta alle

mere declamazioni di principio, finendo al contrario per incidere fortemente anche

nella sostanza delle norme approvate dal Parlamento nel 2011.

91

Così si legge nella pagina web consultabile all’indirizzo

www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation/waste-hierarchy. 92

Così si legge nella pagina web consultabile all’indirizzo

www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation/waste-hierarchy. 93

Anche questo documento è liberamente consultabile al sito www.defra.gov.uk/enviroment/waste. 94

Così si legge nell’introduzione alla “Goverment Review of Waste Policy in England 2011”, pag. 2. 95

Così si legge nell’Executive Summary della “Goverment Review of Waste Policy in England

2011”, pag. 5.

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Anzi, da questa seconda angolazione è possibile osservare come nel cammino della

Gran Bretagna verso la realizzazione di una “società del riciclo”, l’Europa funga per

così dire da motore trainante. Ciò si evince chiaramente dall’esame delle “sfide”96

che il Governo inglese si prefigge di vincere di qui al 2020. Tra queste vi è,

innanzitutto, quella di puntare ad incrementare le misure volte alla prevenzione dei

rifiuti, poiché un approccio di tipo preventivo “è il modo migliore per ottenere

risultati dal punto di vista della sostenibilità ambientale”97

. Ma non solo. E’ provato,

infatti, che prevenendo la formazione dei rifiuti è possibile anche garantire un

risparmio di spesa sia in capo ai privati, consumatori o produttori che siano, sia in

capo alle pubbliche autorità preposte alla gestione dei rifiuti98

.

In secondo luogo, il Governo ritiene di dover aiutare le comunità locali nello

sviluppo e nella messa in pratica di soluzioni ottimali per la raccolta e, più in

generale, per la gestione dei rifiuti sia domestici che provenienti da attività

produttive. Ciò in quanto – si legge nella nota esplicativa del 2011 - “è cruciale

raggiungere il giusto equilibrio tra qualità del servizio, ambiente e costi, tendendo in

considerazione elementi quali la convenienza e la frequenza della raccolta, nonché la

qualità dei materiali riciclabili raccolti”99

.

Correlativamente, si afferma anche l’intento di continuare ad aumentare la

percentuale di rifiuti riciclati, al fine dichiarato di “raggiungere, entro il 2020, la

soglia del 50% fissata dalla direttiva 2008/98/CE con riguardo ai rifiuti

96

Non è una “licenza” stilistica. Il Governo usa espressamente il termine “challenger” al posto dei più

consueti “targets” e “goals”. 97

Così si legge nella Government Waste Policy Review 2011, p. 10

(www.defra.gov.uk/environment/waste). 98

Così si legge sempre nello stesso passaggio della Government Waste Policy Review 2011, p. 10

(www.defra.gov.uk/environment/waste). 99

Così si legge nella Government Waste Policy Review 2011, p. 11

(www.defra.gov.uk/environment/waste).

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domestici”100

. Tra le modalità di “reimpiego” dei rifiuti, poi, spicca quella della

produzione di energia101

, così da dare vita ad una politica volta ad incrementare

sensibilmente la produzione di energie da fonti rinnovabili, secondo quanto auspicato

anche a livello europeo102

.

Ancora, dando corso ad un’esigenza da sempre fortemente avvertita in Gran

Bretagna103

, nonché conformandosi ancora una volta alla ratio e agli obiettivi della

direttiva 2008/98/Ce, il Governo manifesta chiaramente l’intento di ridurre in modo

drastico entro il 2020 la percentuale di rifiuti da destinare alle discariche104

. Inoltre –

e, in un certo senso, per l’effetto - si afferma la volontà di contrastare efficacemente

la gestione illegale dei rifiuti così da minimizzare i danni che questi ultimi sono

suscettibili di arrecare, in primis, all’ambiente e alla salute umana105

, ma anche alla

vita e all’economia delle comunità locali106

.

100

Così ancora nella Government Waste Policy Review 2011, p. 11

(www.defra.gov.uk/environment/waste). 101

Inter alia, cfr. P. M. CONNOR, UK Renewable Energy Policy: a Review, in RSER 7 [2003] 65 – 82;

S. O. NEGRO - F. ALKEMADE – M. O. HEKKERT, Why Does Renewable Energy Diffuse so Slowly? A

Review of Innovation System Problems, in RSER 16 [2012] 3836 – 3846; B. WOODMAN – C.

MITCHELL, Learning from Experience? The Development of Renewables Obligation in England and

Wales 2002 – 2010, in Energy Policy 39 [2011] 3914 – 3921. 102

Sul tema, oggi di grande attualità, si segnalano: P. D. CAMERON, Legal Aspects of EU Energy

Regulation. Implementing the New Directives on Electricity and Gas Across Europe, OUP, Oxford,

2005; F. DI CRISTINA, L’attuazione del “terzo pacchetto” e il nuovo assetto dei mercati energetici, in

Giorn. dir. amm., 2011, 9, 925; L. KRAMER, EU Environmental Law, cit.; S. QUADRI, L’evoluzione

della politica energetica comunitaria con particolare riferimento al settore dell’energia rinnovabile,

in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011, 3-4, 839. 103

Cfr., per tutti, D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 104

Così sempre nella “Government Waste Policy Review 2011”, p. 11

(www.defra.gov.uk/environment/waste). 105

Cfr. gli artt. 12 e 13 della direttiva 2008/98/Ce, dove si legge: “Gli Stati membri provvedono

affinché, quando non sia effettuato il recupero a norma dell’art. 10, p. 1, i rifiuti siano sottoposti a

operazioni di smaltimento sicure che ottemperino alle disposizioni di cui all’art. 13 in relazione alla

protezione della salute umana e dell’ambiente” (art. 12). E ancora: “Gli Stati membri prendono le

misure necessarie per garantire che la gestione dei rifiuti sia effettuata senza danneggiare la salute

umana, senza recare pregiudizio all’ambiente e, in particolare: a) senza creare rischi per l’acqua,

l’aria, il suolo, la flora o la fauna; b) senza causare inconvenienti da rumori od odori e c) senza

danneggiare il paesaggio o i siti di particolare interesse” (art. 13). In giurisprudenza, sulla pericolosità

dei rifiuti per l’ambiente e la salute umana cfr. CGCE 20 marzo 2010, Commissione c. Italia, C-

297/08. 106

Emblematica, al riguardo, la nota (e già menzionata) vicenda della c.d. “emergenza rifiuti” a

Napoli, il cui inizio “è convenzionalmente fatto risalire all’11 febbraio 1994 quando, con il Decreto

del Presidente del Consiglio dei Ministri [DPCM 11 febbraio 1994, in G.U. n. 35 del 12 febbraio

1994], si dichiara per la prima volta lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella

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189

In definitiva, dall’esame dei traguardi che la Gran Bretagna si è impegnata a tagliare

nel corso dei prossimi anni, emerge chiaramente l’influenza dell’Europa107

. La

politica “per obiettivi” poc’anzi illustrata, infatti, trova senza dubbio il proprio punto

di riferimento nella gerarchia dei rifiuti, che viene apostrofata dallo stesso Governo

inglese come “una guida alla gestione sostenibile dei rifiuti, oltre che un obbligo da

rispettare”108

. L’intento di fondo è, pertanto, quello di consacrare il passaggio entro il

2020 da una società “dell’usa e getta” ad una imperniata su “un’economia zero-

rifiuti” e nel percorrere questo cammino non sembra che la Gran Bretagna mostri

resistenze rispetto ai dictat impartiti dall’Europa, probabilmente condividendo l’idea

che i rifiuti costituiscono un tassello importante nella costruzione del più ampio

mosaico della green economy.

Regione Campania, per un iniziale periodo di un anno che poi sarà, via via, prorogato fino al 2009

quando vi è la formale dichiarazione della fine dell’emergenza [d.lex 30 dicembre 2009 n. 195, conv.

in L. 26 febbraio 2010 n. 26 in G.U. n. 48 del 27 febbraio 2010]” (L. BARONI, Lo sguardo vigile

dell’Europa sulla “emergenza rifiuti” in Campania, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011, 5, 1095). Di

qui il costante ricorso, da parte dei vari soggetti all’uopo preposti, ai poteri commissariali straordinari

al fine gestire l’emergenza, i quali tuttavia non si sono rivelati realmente utili a traghettare la Regione

Campania fuori dall’emergenza rifiuti, tanto che l’Italia è stata condannata più volte da parte della

Corte di Giustizia (cfr. CGCE 26 aprile 2007, Commissione c. Italia, C-135/05 e CGCE 4 marzo

2010, Commissione c. Italia, C-297/08).

In dottrina, sul tema dell’emergenza rifiuti in Campania cfr. G. ARENA, Se c’è il commissario

straordinario non possono esserci i cittadini attivi, in www.labsus.org, 2010; C. BASSU, Emergenza

rifiuti a Napoli: la doppia faccia della sussidiarietà, in Riv. giur. amb., 2009, 2, 403; L. COLELLA, La

governance dei rifiuti in Campania tra tutela dell’ambiente e pianificazione del territorio. Dalla

“crisi dell’emergenza rifiuti” alla “società europea del riciclaggio”, in Riv. giur. amb., 2010, 2, 493;

M. NGNES, Le ordinanze di protezione civile per fronteggiare l’emergenza nel settore dello

smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania, in Riv. giur. mezzogiorno, 2008, 2, 537; A.

LUCARELLI, Il governo dei rifiuti in Campania. Il jolly dell’emergenza in un coacervo di

irresponsabilità ed inefficienze, in www.federalismi.it; L. VIOLA, L’emergenza rifiuti approda davanti

al giudice amministrativo, tra effetto n.i.m.b.y. e analisi economica del diritto, in www.giustamm.it. 107

Ciò – lo si è visto nel capitolo I, retro –emerge anche dall’esame della legislazione italiana, benché

in questo caso la sensazione che trapela sia più quella di una rassegnata sottomissione (anche alla luce

delle molte condanne impartite all’Italia sulla scorta di altrettante procedure di infrazione sollevate

dalla Commissione europea, cfr., ad ex. la poc’anzi citata CGCE 20 marzo 2010, Commisione c.

Italia, C-297/08) che non di una consapevole condivisione di intenti. 108

Questi i termini in cui si esprime il Governo inglese nell’Executive Summary alla Government

Waste Policy Review del 2011 (www.defragov.uk/environment/waste).

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190

IV. 4 IL SERVIZIO PUBBLICO IN GRAN BRETAGNA

La descrizione di quelli che, in base alle “Waste (England and Wales) Regulations

2011”, sono gli obiettivi che informano l’attuale politica inglese in materia di rifiuti

consente di traghettare il discorso verso le modalità di gestione del relativo servizio

pubblico in quel dato Paese. L’accento posto sulle “esigenze delle comunità locali”

così come la diffidenza nei confronti dello smaltimento in discarica, infatti, sono

esempi di obiettivi programmatici che – secondo quanto recentemente auspicato dal

Governo - dovranno tradursi in altrettante azioni concrete e, per l’effetto, finiranno

con il contribuire a delineare la fisionomia del servizio di gestione dei rifiuti.

Ciò posto, prima di entrare funditus nel merito della questione, è d’uopo ricostruire

brevemente – al pari di quanto fatto con riguardo all’Italia109

- l’istituto del servizio

pubblico nei suoi termini generali. Qui la prima sorpresa. Al riguardo, infatti, si

osserva come, nonostante quella di public service (e ancor più quella di public

utilities110

) sia espressione da tempo invalsa nella lingua inglese111

, la stessa abbia -

secondo i più - una valenza meramente descrittiva112

, tenuto anche conto che essa

109

Al riguardo si rinvia a quanto osservato nel capitolo III ed in particolare nei pp. II.2.1 e II.2.2,

retro. 110

Al riguardo, L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, in Dir. pubbl. comp. eur.,

2001, 788 e ss. puntualizza che public services “individuano servizi a contenuto marcatamente sociale,

non necessariamente, ed anzi spesso privi di rilevanza economico imprenditoriale (ad es. sanità o

scuola, ma anche, secondo un’accezione comune nell’ordinamento britannico, la pianificazione

urbanistica e la regolazione edilizia), mentre [le public utilities] si limitano alle attività a carattere

commerciale o industriale relative alla produzione di servizi destinati ad un consumo di massa, spesso

attraverso i c.d. sistemi a rete (telecomunicazioni, poste, gas, acqua, energia)”. 111

Ancor più frequente, tuttavia, è - nel contesto giuridico anglosassone (Regno Unito e USA) l’uso

dell’espressione public utilities. Quest’ultima, si legge in H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision

of Public Services in Europe. Between State, Local Government and Market, Edward Elgar ed., 2010,

è espressione che “si incentra sulla dimensione industriale del servizio e sull’idea dei doveri gravanti

in capo alle pubbliche autorità, benché i servizi siano generalmente offerti dalle imprese sulla base del

mercato”. 112

In D. MINUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali: Regno Unito e Italia a confronto,

cit., si legge che “con l’espressione in lingua inglese, infatti, non ci si riferisce soltanto alle attività di

carattere economico - imprenditoriale che nell’ordinamento italiano sono qualificate come servizi

pubblici di rilevanza economica, bensì anche alle attività di carattere sociale e persino amministrativo,

attribuite ed esercitate da pubblici poteri”. In senso analogo anche L. BONECHI, Il servizio pubblico

locale in Gran Bretagna, cit., nonché I. HARDEN, The Contracting State, Open University Press,

Bristol, 1992, che parla genericamente di “services performed directly for citizens”.

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191

non è supportata alla base da studi di teoria generale113

. Il che, dunque, finisce per

segnare una prima marcata antinomia tra l’Italia (e la Francia114

) e la Gran

Bretagna115

.

Ciò non di meno, come anticipato, la realtà inglese - al pari di quella di molti altri

Stati membri dell’UE, tra cui proprio l’Italia e la Francia – sin dal XIX secolo ha

costituito terreno fertile per l’emersione, prima, e la diffusione, poi, dei servizi

pubblici “in senso materiale”116

, intesi cioè “semplicemente” come servizi erogati in

favore dei cittadini117

. Più nello specifico, va detto che qui “l’individuazione delle

caratteristiche del servizio pubblico è stata, in genere, affrontata da un punto di vista

funzionale (…). Il criterio che viene tradizionalmente utilizzato per distinguere i

servizi pubblici dalle attività private consiste in una scelta politica di spettanza del

Parlamento di Westminster: l’attività è privata se la sua esistenza attiene

113

In questo senso G. MARCOU, I servizi pubblici tra regolazione e liberalizzazione: l’esperienza

francese, inglese e tedesca, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2000, 1, 342. Qui si legge: “servizi pubblici

in senso materiale esistono in tutti i paesi europei. Però l’idea del servizio pubblico come una nozione

giuridica di base si riscontra solo nel diritto pubblico francese” e in quello italiano. In tal senso, la

posizione del Regno Unito è del tutto peculiare. “Non esiste [infatti] nessuna teoria giuridica dello

Stato nella Common Law. Per il diritto inglese, lo Stato è un concetto del diritto internazionale; la

Common Law si riferisce alla Corona”. Dunque, “l’amministrazione pubblica è regolata nel quadro

della prerogativa reale oggi esercitata dal governo (…) e non esiste nessuna autorità pubblica che non

trae la sua fonte dal Parlamento. In questo contesto le espressioni servizio pubblico, ovvero servizio di

interesse economico generale (…) non possono avere nessun senso. La parola public service non è

usata nella lingua giuridica, e ha solo un senso descrittivo. Public service indica la funzione pubblica,

ovvero la sua deontologia (ethics of the public service). Si possono trovare nel diritto inglese istituti

simili alle organizzazioni di servizio pubblico degli altri paesi, però senza una concezione generale, e

senza principi comuni. Anzi esistono numerosi esempi di franchises: cioè un diritto speciale conferito

a un soggetto) che furono stabiliti con uno scopo d’interesse generale: nell’esercizio della prerogativa

reale si possono citare le università, o lo sfruttamento di una via pubblica; la giurisprudenza ha

riconosciuto dopo il secolo XVII che quando una proprietà privata è adibita a un interesse pubblico,

non è più soltanto un diritto privato, e così, per esempio, colui che sfrutta un impianto adibito all’uso

del pubblico e occupa una posizione di monopolio deve applicare una tariffa ragionevole”. Fino ai

primi anni del ‘900, inoltre, il diritto privato è stato “lo strumento più usato per la determinazione dei

servizi rispondenti ai bisogni pubblici: costruzione e sfruttamento di canali, di ferrovie, di serbatoi, a

beneficio di persone private o degli enti locali”. 114

In proposito cfr. quanto osservato nel capitolo III, retro. In dottrina cfr., per tutti, F. MERUSI, (voce)

Servizio pubblico, cit. ed E. SCOTTI, Il pubblico servizio, Cedam, Padova, 2003. 115

Sul punto cfr. T. PROSSER, The Limits of Competition Law. Markets and Public Services, OUP,

Oxford, 2004, specialmente p. 96 e ss., il quale sottolinea come lo studio in termini giuridici dei

servizi pubblici sia tradizionalmente più diffuso nell’Europa continentale che non in Gran Bretagna.

Per contro, qui è da tempo invalso il concetto di “etica” del servizio pubblico, concetto elaborato da

una commissione parlamentare ad hoc. 116

Così G. MARCOU, I servizi pubblici tra regolazione e liberalizzazione, cit.. 117

T. PROSSER, The Limits of Competition Law. Markets and Public Services, cit..

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192

essenzialmente alla sovranità del consumatore nel mercato (…); l’attività deve,

invece, essere qualificata come servizio pubblico se essa è posta in essere in virtù di

una decisione pubblica autoritativa”118

. Da ciò consegue che l’ordinamento inglese

“riconosce natura di public service a qualsiasi servizio la cui esistenza e consistenza

qualitativa e quantitativa dipenda da una decisione pubblica e non dal fisiologico

formarsi della domanda e dell’offerta sul mercato”119

. Il discrimen, pertanto, è tra

consumer sovereignty e authoritative decision, laddove solo in questo secondo caso

si è di fronte ad un servizio pubblico.

A tale assetto, peraltro, si legano a cascata una serie di conseguenze120

. Dal punto di

vista normativo, ad esempio, i servizi pubblici storicamente non hanno trovato “né

una disciplina unitaria né una norma generale attributiva delle competenze e neppure

disposizioni volte a porre i principi fondamentali del servizio”. Ciò in quanto,

nell’esperienza britannica, l’istituto in commento è stato disciplinato mediante

“singoli Acts del Parlamento che istituiscono e disciplinano in base a principi affini,

ma a norme non certo identiche, ogni singolo settore di attività”121

. Inoltre, dal punto

di vista sostanziale, fino a quando il diritto europeo non ha imposto la necessità di

definire il contenuto del servizio universale, raramente gli atti di normazione

118

D. MINUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali: Regno Unito e Italia a confronto, cit.,

il quale prosegue puntualizzando: “ciò comporta che i contenuti della prestazione fornita all’utente

siano determinati, nel primo caso, da un contratto tra consumatore e impresa esercente l’attività

(contratto che rappresenta, da un punto di vista giuridico, l’incontro tra domanda e offerta individuali);

nel secondo caso, dalle decisioni discrezionali della pubblica amministrazione”. 119

L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit., il quale scrive: “la dottrina

britannica si è interrogata, più che sugli elementi formali della nozione, sulla possibilità di qualificare

il servizio “pubblico” per distinguerlo da quello “privato” (…). La chiave con cui in Gran Bretagna si

è tradizionalmente cercato di interpretare il fenomeno (…) ha fatto leva non sull’analisi delle attività

oggetto del servizio, sui fini con esso perseguiti o sulla natura del gestore; piuttosto ha messo a fuoco i

procedimenti di istituzione e il livello di allocazione delle decisioni che giustificano e spiegano

l’esistenza obiettiva del servizio nella realtà economico-sociale (...)”. Dunque, “l’elemento che

qualifica il servizio in senso pubblicistico, distinguendolo da quello privato, è unicamente il fatto che

la sua istituzione sia stata determinata non già dalle scelte dei consumatori sul mercato bensì da una

decisione politica dell’autorità. Con l’ulteriore conseguenza che i contenuti della prestazione fornita

all’utente vengono ad essere determinati in un caso, attraverso il contratto, dall’incontro della

domanda e dell’offerta del servizio e, nell’altro, dalle decisioni discrezionali della pubblica

amministrazione”. 120

Per un esame delle stesse cfr. L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.. 121

L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit..

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primaria indicavano gli obiettivi e gli interessi pubblici che il servizio era chiamato

ad assicurare, essendo la fissazione degli stessi demandata prevalentemente alla

discrezionalità dell’amministrazione122

.

Quanto al soggetto preposto alla istituzione ed alla erogazione del servizio, così

come nel nostro Paese, anche lì molto è dipeso da scelte di politica nazionale e,

prima ancora, dal peculiare assetto costituzionale123

. In particolare, occorre ricordare

che, all’atto di ripartire sul territorio le funzioni amministrative, la Gran Bretagna - a

differenza della maggior parte degli Stati dell’Europa continentale, tra cui l’Italia -

non ha adottato il sistema delle prefetture coniato da Napoleone124

. Infatti, in virtù di

quello che la dottrina definisce come un vero e proprio “pregiudizio” nei confronti

dei “localismi”125

, si è cercato di mantenere un controllo di tipo centralizzato, salvo

prevedere a livello regionale uffici strettamente dipendenti dal Governo centrale e

privi di qualsiasi forma di coordinamento reciproco126

. Da un punto di vista pratico,

“l’inesistenza di una autonomia costituzionalmente garantita e la soggezione degli

122

Ciò secondo parte delle dottrina – P. CRAIG, Constitution, property and regulation, Pubbl. Law,

1991, 538 - si spiega in ragione della fisionomia che l’istituto de quo ha assunto nei diversi momenti

storici e del regime giuridico a cui lo stesso è stato sottoposto, in ossequio alle politiche dettate dal

governo nazionale (ad ex., nazionalizzazioni, liberalizzazioni, ecc.). 123

In generale, per ciò che concerne la “storia” costituzionale della Gran Bretagna cfr. il fondamentale

contributo di A. V. DICEY, Introduzione allo studio del diritto costituzionale. Le basi del

costituzionalismo inglese, Il Mulino, Bologna, 2003; ma anche A. BIONDI, Principio di supremazia e

“Costituzione” inglese, in www.forumcostituzionale.it e P. CARROZZA – A. DI GIOVINE – G. F.

FERRARI (a cura di), Diritto costituzionale comparato, Laterza, Bari, 2013.

Nell’economia del presente lavoro, invece, sia sufficiente ricordare che l’odierno Regno Unito si è

formato nel corso dei secoli per effetto di progressive annessioni di territori un tempo autonomi. Nel

corso di questa lunga fase di progressivo sviluppo, il Paese si è retto in forza di un Governo unico e

centrale (c.d. the Crown in Parliament) basato sul principio della sovranità parlamentare, ma ciò non è

bastato a garantire realmente la reductio ad unum delle diverse realtà (sul punto cfr., amplius, R.

ROSE, Understanding the United Kingdom, Longman, London, 1982). La Scozia, ad esempio, sin

dalla sua annessione nel 1707, ha conservato importanti differenze rispetto all’Inghilterra, per ciò che

concerne in particolare il sistema legale, quello scolastico e l’organizzazione del Governo sul

territorio. Ciò significa – evidenzia la dottrina – che l’espressione “governo unitario” con riguardo al

Regno Unito deve essere intesa quanto meno “in senso relativo” (H. WOLLMANN – G. MARCOU, The

Provision of Public Services in Europe, cit.). 124

Sul punto cfr. amplius, P. CARROZZA – A. DI GIOVINE – G. F. FERRARI (a cura di), Diritto

costituzionale comparato, cit.. 125

L. J. SHARPE, Regionalism in the United Kingdom. The role of social federalism, in H. WOLLMANN

- E. SCHROTER, Comparing Public Sector Reform in Britain and Germany, Ashgate, 2000. 126

J. A. CHANDLER, Local Government Today, III ed., Manchester University Press, 2001.

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enti locali alla legge del Parlamento per quanto attiene non solo la determinazione

delle funzioni, ma addirittura la stessa esistenza e dimensione territoriale degli enti,

[hanno comportato] la pratica indisponibilità da parte del Local Government

dell’autonoma determinazione delle modalità organizzative necessarie al

perseguimento degli interessi pubblici della comunità locale”127

. Ne deriva, dunque,

che – come osservato da parte della dottrina – “la locuzione servizio pubblico locale

se trasposta nell’ordinamento inglese finisce” per perdere ogni connotazione

eminentemente giuridica e assume una valenza omnicomprensiva, “idonea cioè ad

individuare in modo indistinto tutti i servizi forniti alla collettività locale a

prescindere dalla distribuzione delle competenze (…)”128

.

Solo nel 1997, il neo eletto governo laburista, ha intrapreso la strada di un radicale

cambiamento, sostenendo un progetto di devolution nei confronti di Scozia, Galles ed

Irlanda del Nord il cui risultato finale è stato (rectius, voleva essere) quello di mutare

“la natura” del sistema costituzionale inglese, poiché ha fatto della Gran Bretagna –

almeno sulla carta - “uno Stato quasi – federale”129

. Tuttavia, da un punto di vista

pratico, il cambiamento è parso sensibilmente frenato dalle resistenze registrate

proprio a livello regionale130

. Il processo di decentramento, dunque, nei fatti ha avuto

un decorso “estremamente asimmetrico” da regione a regione: mentre la Scozia ed il

Galles hanno assunto un assetto quasi - federale, le altre regioni hanno continuato ad

127

L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.. 128

L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.. 129

Così H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit., nonché D.

WILSON – C. GAME, Local Government in the United Kingdom, Palgrave Macmillan, IV ed., 2006. 130

La dottrina, infatti, ricorda che il governo centrale ha provato a sostenere la nascita di assemblee

regionali, quale pre-condizione per una devolution sostanziale. Si è dunque pensato di sottoporre

questa proposta a referendum nelle diverse regioni. Tuttavia, dopo che - nel novembre del 2004 - il

primo di questi referendum ha dato esito negativo, il governo ha abbandonato l’idea di svolgere la

medesima consultazione popolare nelle altre regioni (H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of

Public Services in Europe, cit., nonché D. WILSON – C. GAME, Local Government in the United

Kingdom, cit.).

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essere entità amministrative tese ad implementare, nei contesti locali, le politiche

promosse a livello centrale131

.

Dal punto di vista dell’organizzazione e dei compiti concreti riservati alle autorità

locali in tema di servizi pubblici, va detto che, dopo il “Municipal Corporation Act”

del 1835, le grandi riforme dell’età moderna sono avvenute nel 1888 e nel 1894. E’

allora, infatti, che è stata creata la struttura a “due corsie” che ha rappresentato la

base per il modello vittoriano di auto-governo locale132

.

In ossequio a detto impianto organizzativo, se da un lato costituiva consolidato

principio quello secondo cui le autorità locali potevano esercitare solo quei poteri

loro espressamente conferiti dal Parlamento, dall’altro lato le stesse hanno finito ben

presto per essere investite di un gran numero di funzioni, tra cui spiccano quelle

correlate all’erogazione dei servizi sociali e di molti servizi pubblici, quali la

fornitura di acqua ed energia nonché proprio la gestione dei rifiuti133

.

Le funzioni, dunque, erano ripartite tra centro e periferia secondo uno schema

binario. Mentre il governo centrale aveva un ruolo di indirizzo politico ed era

competente per le questioni di alta amministrazione (si pensi, ad esempio, alla

politica estera o al commercio), le autorità locali erano chiamate a sbrigare le

incombenze considerate di ordinaria amministrazione. Nel fare ciò, tuttavia, le stesse

godevano di rilevanti margini di autonomia, non ultimo perché – ricorda la dottrina –

sin dal 1835 alle stesse era stato attribuito il potere di imporre nuove tasse al fine di

coprire le spese legate all’amministrazione134

.

Orbene, anche per ciò che concerne i servizi pubblici e, più in generale, il ruolo delle

autonomie territoriali, quella che nella manualistica viene normalmente descritta

131

In tal senso ancora H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit.. 132

Amplius, cfr. D. WILSON – C. GAME, Local Government in the United Kingdom, cit.. 133

Sul punto cfr., amplius, M. HILL, Understanding Social Policy, Oxford, VII ed., 2003. 134

Così H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit..

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come l’età dell’oro ha imboccato una fase di declino a partire dagli anni Tenta del

‘900. Da quel momento, infatti, il modello sin qui descritto è stato riconsiderato e,

per l’effetto, sottoposto a radicali cambiamenti sia dal punto di vista funzionale che

organizzativo. In particolare, al pari di quanto avvenuto in Italia135

, gli anni Quaranta

del secolo scorso sono stati teatro di una decisa fase di nazionalizzazione.

La vera svolta al riguardo è arrivata dopo la fine del secondo conflitto mondiale,

quando il Governo ha virato in maniera molto decisa verso un modello di c.d.

welfare state. In conseguenza di ciò le amministrazioni locali hanno perso la gran

parte delle loro competenze e prerogative, che furono avocate direttamente allo Stato

centrale o trasferite in capo ad organismi strettamente dipendenti da quest’ultimo136

.

A titolo esemplificativo, si ricorda che nel 1947 è stato nazionalizzato il servizio

elettrico, secondo un programma che ha trovato il proprio completamento dieci anni

più tardi137

. E, ancora, ad un anno di distanza è stato istituito il Servizio Sanitario

Nazionale, recante il compito di provvedere a tutti gli aspetti inerenti la salute dei

cittadini, con la sola eccezione dell’igiene urbana, sulla quale hanno continuato a

vigilare le autorità locali. Infine, sempre nel 1948, la responsabilità per i servizi

135

Come ricordato nel capitolo III, retro, in Italia dopo la L. 29 marzo 1903 n. 103 sulla c.d.

municipalizzazione dei servizi pubblici locali, con una serie di atti legislativi – intervenuti tra il 1905 e

la fine degli anni Trenta del ‘900 – è stata disposta la nazionalizzazione di pressoché tutti i servizi

pubblici, vale a dire “l’acquisizione o il trasferimento della titolarità e della gestione delle imprese

private ad enti pubblici imprenditoriali, cioè a persone giuridiche (pubbliche) che esercitano attività

economiche organizzate con una potenziale finalità di profitto con gli stessi caratteri dell’impresa

privata (…)” (M. STIPO, (voce) Nazionalizzazione, in Enc. Giur., XXIII, Roma, 1990). Sul punto cfr.,

inter alia, A. DI MAJO, L’avocazione delle attività economiche alla gestione pubblica o sociale, in

Tratt. dir. comm., I, Padova, 1977; F. GALGANO, Commento all’art. 43 Cost., in Comm. Cost.,

Bologna, 1982; M. S. GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, Il Mulino, Bologna, 1898; G.

GUARINO, Scritti di diritto pubblico dell’economia, Giuffré, Milano, 1970; V. OTTAVIANO, (voce)

Impresa pubblica, in Enc. Dir., XX, Milano, 1970; A. PREDIERI, (voce) Collettivizzazione, in Enc.

Dir., VII, Milano, 1960; V. SPAGNUOLO VIGORITA, (voce) Nazionalizzazione (disciplina interna), in

Nss. D.I., XI, Torino, 1965. 136

Sul punto cfr. H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit.. 137

Nel 1947 l’Electricity Act trasferì i poteri e le strutture sino a quel momento spettanti ad una

pluralità di soggetti sparsi nel territorio ad una singola industria facente capo allo Stato centrale. Mentre dieci anni più tardi, venne creato il Central Electricity Generating Board allo scopo di dar vita

ad un sistema unico per la produzione e la trasmissione dell’energia in tutto in territorio britannico.

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socio-assistenziali è stata attribuita ad un ente all’uopo creato e denominato

“National Assistance”.

Contemporaneamente, tuttavia, i compiti delle autorità locali hanno vissuto una fase

di espansione in settori quali l’educazione e l’edilizia popolare. Dunque – evidenzia

la dottrina – le stesse sono passate dall’essere produttori di public utlilities

(elettricità, gas, acqua) ad essere principalmente soggetti erogatori dei c.d. servizi

sociali, supportando e rafforzando la politica adottata al riguardo dal governo

centrale138

.

Per ciò che concerne, invece, le modalità di gestione ed affidamento di tali servizi,

occorre ricordare come tradizionalmente le autorità locali fossero solite provvedervi

direttamente, mediante proprie unità organizzative funzionali. In sostanza il modello

gestorio era quello di un in house providing ante litteram, laddove si parlava di

“Direct labour organisations” o di “Direct service organisations” “a seconda che il

servizio consistesse [rispettivamente] nella realizzazione o manutenzione di un’opera

o nella prestazione di un servizio”139

.

Sul finire degli anni Settanta, tuttavia, quando il partito conservatore guidato da

Margaret Thatcher ha assunto la guida del Paese, la tradizione del ricorso

all’affidamento in house è stata superata a favore di una maggiore apertura alla

concorrenza. E’ in questa direzione, infatti, che si sono posti sia il “Compulsory

Competitive Tendering”140

che i “Local Government Acts”141

, i cui principi pro-

concorrenziali sono stati generalizzati a tutti i servizi pubblici erogati dagli enti locali

138

Sul punto cfr., amplius, J. A. CHANDLER, Local Government Today, Manchester University Press,

2001. 139

D. MINIUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali, cit.. 140

In proposito, D. MINIUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali, cit., ricorda che si

trattava di “una procedura di confronto concorrenziale introdotta con il Local Government Planning

and Land Act del 1980 che si applicava, tuttavia, solo alle attività di costruzione e di manutenzione del

patrimonio edilizio le quali, secondo le categorie del diritto continentale, non potevano essere

nemmeno considerate [propriamente] un servizio pubblico”. 141

Sul punto cfr. amplius M. RADFORD, Competitions rules: the Local Government Act 1988, in

Modern Law Rev., 51 [1988], 747.

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198

nel 1993 con le “Regulations” adottate dal Secretary of State142

. In ossequio a tale

assetto normativo, dunque, l’ente locale che decideva di non esternalizzare un

servizio era tenuto ad espletare una procedura di confronto concorrenziale, il cui

scopo non era quello di selezionare il contraente quanto piuttosto quello di verificare

preventivamente l’efficienza, l’economicità e l’efficacia dell’autoproduzione del

servizio attraverso “un confronto fra organizzazione amministrativa e mercato”143

.

Detto sistema ha trovato applicazione per circa un ventennio. Ciò non di meno, lo

stesso fu oggetto di svariate critiche da parte della dottrina britannica144

, la quale - tra

le altre cose – mostrava forti perplessità in ordine alla (eccessiva) compressione

dell’autonomia degli enti locali e rimarcava come, per effetto delle citate riforme,

l’Inghilterra fosse stata trasformata da Paese “unitario de-centralizzato a Paese

altamente centralizzato”145

.

Anche per questa ragione, dunque, il governo laburista che dal 1997 assunse la guida

del Paese ha cercato di imprimere una svolta, introducendo un sistema di

incentivazione dell’efficienza e dell’economicità dei servizi fondato su principi

142

In proposito cfr. L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.; P. VINCENT-JONES,

The Regulation of Contractualisation in Quasi-markets for Public Services, in Pub. Law, 1999, 314;

K. WALSH, Competitive Tendering for Local Authority Services: Initial Experiences, HMSO, London,

1991. 143

Così L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit., il quale puntualizza: “(…) con

il Compulsory Competitive Tendering l’ente locale è stato obbligato a verificare ogni volta la

maggiore o minore convenienza ad “esternalizzare” il servizio o, viceversa, a mantenerne l’esercizio

diretto”. Tuttavia, l’A. ricorda che “nessuna norma dettava, in un primo momento, i criteri cui

l’amministrazione locale avrebbe dovuto attenersi nell’ambito dell’iter valutativo, implicitamente

riconoscendo ad essa un’ampia discrezionalità non solo amministrativa ma anche politica. (…) Ciò ha

quindi indotto il legislatore britannico all’emanazione degli Statutory Instruments”, la cui ratio “è

infatti volta alla riduzione dell’ambito di discrezionalità, attraverso la minuziosa disciplina del

procedimento e alla consequenziale sottoposizione delle Local Authorities al rigido controllo e alla

soggezione a penetranti poteri coercitivi sia di verifica che di intervento sulle singole scelte in

concreto effettuate. 144

In particolare, T. PROSSER, The Limits of Competition Law. Markets and Public Services, cit.;

nonché P. VINCENT-JONES, The Regulation of Contractualisation in Quasi-markets for Public

Services, il quele ricorda che gli aspetti criticati riguardavano l’eccessiva riduzione della

discrezionalità di scelta degli enti locali; l’eccessivo formalismo e la rigidità delle procedure nonché la

grande mole di contenzioso derivata dalla copiosa proliferazione normativa. 145

L’espressione si deve a G. JONES, Local Government in Great Britain, in J. J. HESSE, Local

Government and Urban Affairs in International Perspective, Nomos, 1991.

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199

diversi: il “Best Value Regime” di cui al “Local Government Act” del 1999146

. Tale

sistema è stato “concepito come strumento teso non solo a garantire l’efficienza e

l’economicità in sé ma soprattutto l’efficacia e la qualità del servizio, con l’obiettivo

di politica legislativa di rivitalizzazione della democrazia locale (...)”147

. Per tale

ragione, “il potere di intervento demandato al Governo, pur rimanendo assai esteso

ed incisivo, prende adesso forma in modo da non sopprimere la discrezionalità

politico-amministrativa di valutazione e di scelta dei singoli enti”148

.

146

L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.. Più nel dettaglio, qui si legge che

“con la nuova normativa si è cercato di restituire alle amministrazioni locali almeno parte della

autonomia e della libertà di scelta che le riforme conservatrici degli anni ’80 avevano loro tolto, senza

rinunciare all’obiettivo dell’efficienza del servizio e della proficuità della spesa. La principale

differenza di approccio risiede nella sostituzione, alle rigide e dettagliate regole procedimentali

proprie del Competitive Tendering, di un principio generale di consultazione, controllo e autonoma

determinazione di standard che le autorità locali hanno l’obbligo di adottare nello stabilire i

Performance Plans e le direttive di gestione. Allo stesso modo, sotto il profilo istituzionale, molti

poteri di intervento del Secretary of State sono stati soppressi e le funzioni di controllo trasferite ad

una apposita Audit Commission”.

Sul passaggio da un modello all’altro cfr. amplius R. FOOTITT, From Competitiv Tendering to Best

Value for Local Government Services, in Riv. trim dir. pubbl., 1999, 2, 515; G. GOSETTI, Il nuovo

welfare locale: dal Compulsory Competitive Tendering al Best Value Regime, in Le Regioni, 2007, 1,

209; C. PAINTER, Public Service Reform From Thatcher to Blair: A Third Way, in Parliamentary

Affairs, 52 [1999] 94. 147

In questi termini L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit., che prosegue: “in

questa prospettiva, la preferenza a priori a favore del mercato come criterio di verifica dell’efficienza

amministrativa propria del Competitive Tendering è superata da una valutazione [prognostica] sulla

maggiore efficienza del soggetto erogatore. Il settore privato non è ritenuto di per sé preferibile alla

gestione in house allo stesso modo in cui non esiste alcuna ragione che consenta di escludere a priori

la necessità di sottoporre al confronto concorrenziale la gestione di un determinato servizio o di

affidarlo all’esterno”. Ex multis, T. PROSSER, The Limits of Competition Law. Markets and Public

Services, cit., il quale sottolinea come il nuovo modello introdotto nel 1999 volesse caratterizzarsi per

il fatto di accordare alle autonomie locali una maggiore flessibilità e discrezionalità nella ricerca del

Best Value, definito al p. 3 (1) del Local Government Act come un complesso di accorgimenti “to

secure continuous improvement in the way in which its functions are exercised, having renard to a

combination of economy, efficiency and effectiveness”. 148

Ancora L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit., il quale ricorda che “le

amministrazioni locali sono (…) tenute ad effettuare annualmente un Review delle funzioni, sulla base

anche delle specificazioni impartite a livello governativo (…)”. Mentre, “il Secretary of State ha perso

gran parte della sua capacità di condizionare le scelte delle amministrazioni locali. Il suo ruolo è ora

quello di provvedere, anzitutto, alla elaborazione di Performance Indicators, tenendo conto dei

suggerimenti provenienti dalla Audit Commission destinati all’obiettiva valutazione dell’esercizio

delle funzioni da parte delle amministrazioni nonché di specifici Performance Standards da accingere

in relazione ad essi. (...) nel caso in cui ritenga che l’amministrazione locale non abbia raggiunto gli

obiettivi o non si sia conformata ai requisiti richiesti, il Secretary of State interviene con le istruzioni

vincolanti (…). Solo che il contenuto di tali provvedimenti non incide più sui contenuti delle singole

azioni intraprese dall’ente e, raramente, con sanzioni in senso stretto”. Ex multis, cfr. P. VINCENT –

JONES, Central-Local Relations under the Local Government Act 1999: a New Consensus?, in The

Modern Law Review [2000] 1 84.

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200

Al contempo, inoltre, non bisogna dimenticare come sul finire del secolo scorso la

fisionomia dei servizi pubblici locali abbia iniziato ad essere sensibilmente

influenzata dal diritto europeo, che – tra le altre cose - ha portato alla ribalta il

concetto di “public procurement”. Infatti, mentre “durante la prima fase della

costruzione europea, la Comunità ha praticamente ignorato i servizi pubblici”149

,

finendo per avallare una lettura eccessivamente ampia della clausola ex art. 106 p. 2

TFUE che – in determinati casi, si è visto – consente di derogare alle regole della

concorrenza150

, a partire da un certo momento si è palesata l’antinomia concettuale

tra l’obiettivo di creare un mercato unico e l’idea di poter lasciar fuori da

quest’ultimo proprio il settore dei i servizi pubblici151

.

Già nei primi anni Novanta del ‘900, dunque, la Gran Bretagna si è trovata stretta tra

due forze. Quella centripeta, incline a restituire ampi margini di autonomia agli enti

149

In questi termini G. MARCOU, I servizi pubblici tra regolazione e liberalizzazione, cit., il quale

prosegue ricordando come il Trattato di Roma nella sua primigenia versione non menzionasse affatto i

servizi pubblici, “salvo che nell’articolo 77, a proposito della politica comune dei trasporti e

nell’articolo 90, attraverso una parola misteriosa, i servizi di interesse economico generale. Lo scopo

del trattato era, in un primo tempo, sopprimere progressivamente le barriere nazionali alla libera

circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi; perciò durante questa tappa i servizi

pubblici non furono molto toccati dalla formazione del mercato comune. La cosa essenziale era che la

concorrenza potesse svilupparsi tra tutte le imprese nell’ambito del mercato comune; l’applicazione

delle regole della concorrenza necessitava soltanto una chiara distinzione tra l’impresa e lo stato, e una

definizione ampia dell’impresa da cui scaturisse che ogni attività economica avrebbe dovuto essere

sottomessa alle regole del diritto comunitario della concorrenza. Tuttavia, quest’indirizzo, seguito

dalla Commissione e dalla Corte di Giustizia, portava a sottomettere lo stesso alle regole della

concorrenza i servizi pubblici che [si estrinsecavano] in un’attività economica”. Sul punto, cfr.

amplius capitolo III, retro. 150

In proposito cfr. F. GIGLIONI, L’accesso al mercato nei servizi pubblici di interesse generale,

Giuffrè, Milano, 2008; G. MONTEDORO, Mercato e potere amministrativo, Ed. Sc., Napoli, 2010; E.

SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, in S. Mangiameli (a cura di), I servizi

pubblici locali, Giappichelli, Torino, 2008. Nonché ancor più di recente la lettura dell’art. 106 TFUE

offerta da F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto

dell’Unione e nella Costituzione (all’indomani della dichiarazione di illegittimità delle norme sulla

gestione dei servizi pubblici economici), in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2012, 5, 723. 151

In dottrina, si segnala la posizione di chi – G. MARCOU, I servizi pubblici tra regolazione e

liberalizzazione, cit.- ritiene che detto conflitto sia emerso con maggior chiarezza con l’avvento

dell’Atto unico europeo, “che mirava alla formazione del mercato unico attraverso un’armonizzazione

del quadro giuridico in tutti i campi nei quali la diversità delle regole giuridiche vi faceva ostacolo.

Questo conflitto – prosegue l’A. – ha anche posto in evidenza le diverse concezioni esistenti riguardo

al ruolo dello Stato e allo scopo dei servizi pubblici negli Stati membri. Queste differenze si riflettono

in una certa misura nelle direttive europee, che sempre risultano frutto di compromessi, nonché nei

diversi modi con cui ogni Stato ha dovuto adattare il suo sistema giuridico e le sue istituzioni per

integrare il contenuto delle direttive medesime”.

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201

locali e quella centrifuga, volta ad aprire (ancor di più) il sistema dei servizi pubblici

al mercato e alla concorrenza. Le riforme attuate negli anni Ottanta, tuttavia, avevano

(forse) irrimediabilmente “intaccato l’idea tradizionale dell’amministrazione locale

come organismo autosufficiente ed integrato (…)”152

, al punto tale che –

complessivamente – non è erroneo ritenere che la spinta liberalizzatrice dell’Europa

abbia avuto la meglio153

, secondo alcuni persino a scapito di altri valori – in primis la

solidarietà – che pure costituiscono l’essenza del servizio pubblico154

.

Più in generale, è possibile osservare come a partire da un certo momento le

istituzioni europee abbiano preso a riscrivere la “Costituzione economica”155

,

inducendo gioco forza gli Stati membri, tra cui ovviamente la Gran Bretagna e

l’Italia156

, a ripensare il proprio modello economico. Il che, ad esempio, nel nostro

152

Così L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.; ma anche P. CRAIG,

Constitution, Property and Regulation, cit.. 153

In L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit., ad esempio, si legge che “infine

la progressiva sottrazione delle competenze degli enti locali è avvenuta con la creazione da parte del

Governo di distinte agenzie, e cioè di enti che possono essere indifferentemente pubblici e controllati

dal Governo o privati ma da esso dipendenti almeno sotto il profilo finanziario. (…) Un esempio

emblematico di questa mutazione di sistema è rappresentato dal servizio di raccolta dei rifiuti.

L’Environmental Protection Act 1990 ha infatti in un primo moment imposto all’ente locale la

separazione interna tra funzioni di regolazione e funzioni operative, Queste ultime sono state poi

affidate sulla base dell’Environmet Act 1995 ad una Environmental Agency, un ente di nomina

esclusivamente governativa”. E, ancora, “questi organi agiscono quali acquirenti di servizi per conto

degli utenti nei confronti di operatori del settore in base a procedimenti di competitive tendering e cioè

ad un confronto concorrenziale. Le agenzie sono soggette ad un penetrante controllo da parte del

Governo, sia per quanto attiene alla disponibilità di risorse che per tutto ciò che concerne

l’imposizione di standard di rendimento e il controllo sul loro rispetto. Allo stesso tempo esse

costituiscono organi di regolazione in modo almeno improprio in quanto a loro volta impongono

standard ai fornitori, controllano ed hanno il potere di agire in modo da pretenderne il rispetto”.

Ex multis, cfr. T. PROSSER, The Limits of Comptetition Law. Markets and Public Services, cit., il quale

osserva come, anche dopo le riforme attuate dal governo laburista a partire dal 1997, la concorrenza

abbia continuato ad essere fortemente incoraggiata. Inoltre, ID., Public Utilities, in www.ius-

publicum.com, 2011, dove si legge: “the public utilities in the UK are different from those in many

other countries. They had been publicly owned, but under the Thatcher and Major Governments from

1979-1997 were privatized; now the only substantial enterprises in public ownership are the Royal

Mail and Scottish Water, and the former is now being prepared for privatization. Government has not

retained any shareholdings in the privatized enterprises, and regulation takes place through the

independent regulatory authorities (…)”. 154

E’ questa la lettura offerta, tra gli altri da T. PROSSER, The Limits of Comptetition Law. Markets

and Public Services, cit.; ID., Regulation and Social Solidarity, in Journal of Law and Society 33

[2006] 3 364.

156

Come ampiamente messo in luce nel capitolo che precede (cfr., in particolare, p. III.2.2), a partire

dai primi anni ’90 del secolo scorso in Italia (ma non solo) ha preso avvio un generale ripensamento

dell’intervento pubblico nell’economia, anche su spinta della (allora) Comunità europea, che ha

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202

Paese157

ha significato prendere le distanze dall’idea - fino a quel momento

largamente dominante - dell’impresa pubblica e, soprattutto, dei monopoli. Tuttavia,

“la risposta alla sfida posta dall’apertura alla concorrenza nell’ambito comunitario [è

dipesa] sempre, in ogni Paese, dal sistema giuridico esistente” e non ultimo, per ciò

che qui ci riguarda, dalla concezione di servizio pubblico ivi invalsa158

. E’ proprio

tale aspetto, dunque, che – come si è cercato di evidenziare già nelle pagine che

precedono – contribuisce a rendere attuali lo studio dei servizi pubblici e l’indagine

sui relativi modelli di gestione degli stessi, nonché sul quantum di spazio lasciato al

libero mercato e alla concorrenza159

.

determinato l’abbandono delle politiche monopolistiche a vantaggio di una marcata liberalizzazione di

molti settori. Sul punto cfr., inter alia, S. CASSESE (a cura di), La nuova costituzione economica,

Laterza, Bari, 2012; P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione. Dalla

specialità del soggetto alla rilevanza della funzione, Cedam, Padova, 2005; G. CORSO, (voce)

Liberalizzazione amministrativa ed economica, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto

pubblico, Giuffrè, Milano, 2006; F. DE LEONARDIS, Legalità, autonomie e privatizzazioni, in Dir.

amm., 2000, 2, 241; E. PICOZZA, L’incidenza del diritto comunitario (e del diritto internazionale) sui

concetti fondamentali del diritto pubblico dell’economia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1996, 1, 239.

157

Cfr. amplius quanto osservato nel capitolo III, retro. Ex multis, cfr. per tutti R. CARANTA, (voce)

Intervento pubblico nell’economia, in Dig. disc. pubbl., (aggiornamento), 2000; nonché F. MERUSI, La

disciplina pubblica delle attività economiche nei 150 anni dell’Unità d’Italia, in Diritto e società,

2012, 1, 93. 158

In questo senso ancora G. MARCOU, I servizi pubblici tra regolazione e liberalizzazione, cit., il

quale prosegue affermando che “queste diverse concezioni [di servizio pubblico] si ritrovano nelle

differenze tra gli stessi Paesi nei modi di trascrizione del diritto comunitario e nell’adattamento del

sistema giuridico nazionale al nuovo ambito”.

In tal senso appare particolarmente interessante la recente pronuncia in materia di in house resa di

recente dalla Corte Suprema del Regno Unito (Supreme Court of the United Kingdom 9 November

2011, Brent London Borough Council and a. c. Risk Management Partners Limited) giacché la stessa

– specie se messa a raffronto con C. cost. 3 novembre 2010 n. 325 – “costituisce un importante indice

di come la più autorevole corte britannica interpreti i rapporti esistenti tra Unione europea e Regno

Unito in materia di affidamento di servizi pubblici locali”. Qui, infatti, la Corte Suprema ha affermato

che “l’eccezione Teckal si applica a tutti gli Stati membri dell’Unione in quanto policy europea;

pertanto, non pare potersi applicare in maniera differenziata da Stato a Stato. (…) La Corte

costituzionale italiana, invece, statuì che lo Stato può introdurre dei requisiti più rigorosi rispetto a

quelli imposti dal diritto europeo e ritenne, pertanto, esistente, in capo allo Stato, un margine di

discrezionalità piuttosto ampio. E’ evidente, dunqeu, lo iato esistente tra gli ordinamenti delle due

Corti” (D. MINIUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali: Regno Unito e Italia a confronto,

cit.). 159

Sottolineano tale aspetto della materia H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public

Services in Europe, cit.. Ex multis cfr. M. REESE – H.J. KOCH, Public Waste Management Services in

the Internal Market – and the Interpretation of Article 106 TFEU, in 8 JEEPL [2011] 1 23. Qui gli

AA. sviluppano una riflessione attorno ad una questione attualmente molto dibattuta (anche) in

Germania, vale a dire “fino a che punto in base al diritto dell’Unione europea sia possibile apportare

restrizioni al mercato della raccolta dei rifiuti domestici, affidando lo svolgimento di tale servizio a

soggetti pubblici, come avviene in molti altri Stati membri”. Questione da cui - evidenziano gli AA. –

derivano interrogativi circa il rapporto tra la disciplina dei servizi pubblici (rectius servizi di interesse

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IV. 5 IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI. MODALITÀ ORGANIZZATIVE

Questa indagine, calata nel contesto della Gran Bretagna con precipuo riguardo al

servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani, fa emergere due dati di fondo. Il

primo – in qualche modo anticipato nelle pagine che precedono – è il fatto che la

gestione dei rifiuti, un tempo chiaramente orientata ad assicurare l’igiene pubblica,

nel XIX secolo ha invece virato in modo deciso verso obiettivi più marcatamente

legati alla tutela dell’ambiente. Il che si è riverberato anche sui profili inerenti il

servizio de quo, nella misura in cui – ad esempio – il Governo si è risolto a

marginalizzare il ricorso alle discariche e agli inceneritori, privilegiando attività

come il riciclo, il recupero e – prima ancora – quelle volte alla prevenzione stessa dei

rifiuti.

Il secondo dato che emerge in maniera chiara è poi quello costituito dal fatto che, per

effetto della normativa europea e dell’esigenza di conformarsi ad essa, anche il

servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani è stato aperto al mercato, salvo

riscoprire – specie negli ultimi tempi – l’importanza delle autorità locali come

crocevia in cui le istanze ambientali, le ragioni economiche e i diritti dei cittadini

possono trovare idonea composizione160

. Infatti, senza contravvenire alla logica che

informa la politica europea nella materia de qua – ma, anzi, secondo recenti letture in

assoluta conformità ad essa161

- in Gran Bretagna il ruolo delle autorità locali negli

generale) e il diritto europeo della concorrenza”, specie alla luce delle prescrizioni contenute nell’art.

106 TFUE. 160

Sulla necessità di ricercare tale composizione cfr. in particolare T. PROSSER, The Limits of

Competition Law. Markets and Public Services, cit., il quale osserva che mercati e diritto sono

cresciuti enormemente in importanza e visibilità negli ultimi decenni. Tuttavia, oggigiorno uno dei

maggiori problemi del diritto consiste nel capire come poter conciliare i valori del mercato con i diritti

dei singoli e la solidarietà sociale e, prima ancora, come poter fronteggiare la tensione tra gli stessi.

Nel settore dei servizi pubblici, in particolare, la spinta verso la creazione di mercati competitivi si

pone in contrasto con il valore della solidarietà sociale che, invece, è coessenziale allo scopo primo

del servizio pubblico. 161

In tal senso, per tutti, F. DE LEONARDIS, Politiche e poteri dei governi locali nella tutela

dell’ambiente, in Dir. amm., 2012, 4, 775, dove si legge: “in molte trattazioni si afferma la dimensione

globale della tutela dell’ambiente come una sorta di tratto distintivo del diritto ambientale (…).

Sottolineando l’effetto ascendente di tale tutela si evidenzia che delle questioni ambientali (…) si

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ultimi anni è stato sensibilmente “rivitalizzato”162

. Le stesse, pertanto, di recente

hanno ri-preso ad occupare anche in tale Paese una posizione cruciale per ciò che

concerne lo sviluppo di politiche e buone prassi inerenti la gestione dei rifiuti163

. E

ciò, peraltro, senza manifestare eccessive resistenze nel collaborare con l’autorità di

regolazione del settore (l’Environment Agency) né tantomeno nel coinvolgere

soggetti privati, bensì – di fatto – accordando sovente a questi ultimi una parte attiva

nella messa in atto del servizio medesimo164

.

Orbene, se del primo aspetto si è (almeno in parte) già detto illustrando gli obiettivi

fatti propri dalla “Waste Strategy 2007” e, da ultimo, dalle “Waste (England and

Wales) Regulations 2011”, con cui la Gran Bretagna ha recepito la direttiva

2008/98/Ce, il secondo profilo deve essere analizzato in questa sede.

Al riguardo, appare d’uopo prendere le mosse dallo studio dei soggetti

tradizionalmente coinvolti nella gestione dei rifiuti, per poi passare ad illustrare il

modello delineato dal legislatore nel 2011.

Come anticipato nelle pagine che precedono, pietra miliare nella disciplina

dell’aspetto gestorio-organizzativo del servizio de quo è l’“Environmental Protection

Act” del 1990, il quale individuava tre autorità ad hoc: le a) Waste Regulation

Authorities, le b) Waste Disposal Authorities, ed infine le c) Waste Collection

Authorities, alle quali devono poi aggiungersi anche i Waste Disposal Contractors.

debbano occupare in primis le amministrazioni di livello internazionale e poi, via via, a scendere

quelle dei livelli inferiori (…)”. Viceversa – puntualizza l’A. – “il ruolo delle politiche e dei poteri dei

governi locali nella tutela dell’ambiente è di assoluto rilievo e non solo per le questioni minute ma

anche per quelle di ambito più generale (…)”. D’altra parte, “la centralità del ruolo e delle politiche

locali in materia di tutela dell’ambiente emerge in modo accentuato anche dall’analisi del diritto

europeo a partire dai programmi di azione ambientale”. 162

In questi termini H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit.. 163

Così, ancora, H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit.. 164

Sul punto cfr. quanto si dirà amplius infra. Per il momento sia sufficiente il rinvio alle linee guida

consultabili all’indirizzo www.defragov.uk/environment/waste.

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Quanto alle prime, l’ “Enviormental Protection Act” aveva attribuito loro il compito

di svolgere funzioni amministrative e di regolazione a livello regionale, benché nel

rispetto di quanto previsto a livello nazionale, ad esempio, dal “Town and Country

Planning Act”165.

. Per effetto dell’ ”Environment Act” del 1995, tuttavia, le stesse

sono state “assorbite” da due agenzie recanti carattere nazionale: l’ “Environment

Agency”, competente limitatamente ai territori dell’Inghilterra e del Galles e la

“Scottish Environment Protection Agency” (SEPA)166

, cui invece spetta l’esercizio

delle medesime prerogative con riguardo alla Scozia. Dunque, a partire dalla metà

degli anni Novanta del secolo scorso, il compito di stilare programmi per la gestione

dei rifiuti ha preso ad essere svolto su scala nazionale dalle Agenzie all’uopo create e

non più a livello regionale dalle “Waste Regulations Authorities” (WRAs)167

.

Le “Waste Disposal Authorities” (WDAs), invece, sono responsabili per ciò che

concerne lo smaltimento dei rifiuti generati nelle aree territoriali di rispettiva

competenza e raccolti dalle “Waste Collection Authorities” (WCAs). Il loro compito,

tuttavia, sovente viene svolto dai “Waste Disposal Contractors” (WDCs) che, a loro

volta, possono sostanziarsi in una società interamente privata oppure in una sorta di

longa manus dell’Autorità di smaltimento, vale a dire in una società creata e

controllata da quest’ultima168

.

165

Il primo documenti in materia di pianificazione urbanistica in Gran Bretagna risale al 1909 (c.d.

“Housing, Town, Planning Act”), ma è solo con il “Town and Country Planning Act” del 1947 che è

stato instituito un sistema omogeneo per tutto il territorio. Attualmente la legislazione urbanistica in

Inghilterra e in Galles è basata sul “Town and Country Planning Act” del 1990 che ha consolidato le

precedenti previsioni normative. Amplius sul nesso tra urbanistica e gestione dei rifiuti cfr. D.

POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 166

Amplius cfr. il sito istituzionale dell’Agenzia: http://www.sepa.org.uk/. 167

La dottrina , inoltre, evidenzia che alle Agenzie è stato trasferita la competenza circa il rilascio

delle autorizzazioni allo svolgimento di attività connesse con la gestione dei rifiuti, anch’essa un

tempo spettante alle WRAs. 168

In questi termini D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. Ai sensi dell’EPA s.

30(5), i Waste Disposal Contractors, sono definiti come “la persona che nell’ambito di un’attività

imprenditoriale raccoglie, conserva, tratta o smaltisce rifiuti”. Dal punto di vista della forma giuridica,

può trattarsi alternativamente: a) “di una società costituita, per tutti o anche per uno solo [dei sopra

menzionati] scopi, dalla WDA; oppure b) “di una società costituita, per tutti o anche per uno solo [dei

sopra menzionati] scopi, da altri soggetti in accordo tra loro o separatamente”. La fattispecie evoca,

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Più nello specifico, competono alle WDAs le seguenti attività: quella di predisporre

le infrastrutture necessarie per lo smaltimento dei rifiuti raccolti dalle WCAs e quella

di attrezzare spazi ad hoc per il deposito, da parte dei cittadini, dei rifiuti

domestici169

. Inoltre le stesse autorità hanno la facoltà di contribuire alle spese

sostenute dai produttori di rifiuti commerciali o industriali per l’approvvigionamento

e la manutenzione di impianti finalizzati al trattamento dei rifiuti prima che gli stessi

siano raccolti170

.

Spetta, invece, alle WCAs il compito di raccogliere i rifiuti domestici prodotti nelle

rispettive aree di competenza, a meno che – secondo la Autorità - l’abitazione sia

situata in un luogo così isolato o inaccessibile da comportare dei costi per

l’espletamento del servizio irragionevolmente alti171

. Resta fermo, in ogni caso, che

non può essere pretesa la corresponsione di alcun prezzo per la raccolta dei rifiuti

domestici, a meno che non sia diversamente previsto nei Regolamenti predisposti dal

Segretario di Stato. Alle WCAs, poi, compete anche la raccolta dei rifiuti c.d.

commerciali,172

laddove ciò sia richiesto da coloro che occupano immobili adibiti a

tali scopi. La stessa cosa vale con riguardo ai rifiuti industriali173

, previo consenso

espresso dalla WDA competente per area. Tuttavia, a differenza di quanto detto con

riguardo ai rifiuti domestici, in ambedue i casi poc’anzi menzionati colui il quale

richiede la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti è tenuto a corrispondere all’Autorità

competente un prezzo, espressamente definito “ragionevole” dal legislatore174

.

dunque, l’istituto dell’in house, in ordine al quale – oltre ai riferimenti compiuti nel capitolo III, retro

– cfr. il recente contributo di D. MINUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali: Regno Unito

e Italia a confronto, in Dir. pubbl. comp. eur., 2012, 4, 1661. 169

Con riferimento a detti spazi, gli stessi devono essere: facilmente accessibili e deve essere

assicurata la possibilità di usufruirne ad orari ragionevoli. Inoltre l’uso degli stessi da parte dei

residenti non deve essere subordinata al pagamento di alcun corrispettivo. 170

D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 171

D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 172

Cfr. http://www.defra.gov.uk/statistics/environment/waste/wrfg03-indcom/. 173

Cfr. http://www.defra.gov.uk/statistics/environment/waste/wrfg03-indcom/. 174

D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit..

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Inoltre, entrambe le WCAs e le WDAs hanno compiti specifici per ciò che concerne

le attività connesse con il riciclo dei rifiuti. In particolare, spetta alle seconde il

potere di stringere accordi con i Waste Disposal Contractors per ciò che concerne

l’uso, la vendita o altre forme di smaltimento dei rifiuti raccolti in una certa area175

.

Orbene, è sul descritto impianto organizzativo che – da ultimo – si sono andate ad

inserire le “Waste (England and Wales) Regulations 2011”, adottate al fine di

recepire nell’ordinamento inglese la direttiva 2008/98/Ce. Ciò che ictu oculi colpisce

dal raffronto tra i due atti è la sostanziale omogeneità di contenuti ed obiettivi,

secondo uno schema che – peraltro – si è visto essere identico anche in Italia176

. Non

solo, infatti, anche il legislatore inglese ha preso definitivamente le distanze dall’idea

che i rifiuti siano oggetti di cui occorre disfarsi, mostrando piuttosto di far propria la

visione dei rifiuti come risorse o entità di cui prevenire la formazione177

, ma lo stesso

è anche sembrato condividere gli obiettivi fissati a livello europeo con riguardo ai

profili inerenti l’organizzazione del servizio pubblico178

.

175

D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 176

Si veda in proposito quanto osservato nel capitolo I, retro. In dottrina, per tutto F. DE LEONARDIS, I

rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 177

Cfr. le linee guida consultabili sul sito http://www.defra.gov.uk/environment/waste/. Inoltre sul

principio di prevenzione e sulla sua applicazione nel settore dei rifiuti, cfr. F. DE LEONARDIS,

Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, cit.. 178

A titolo esemplificativo, si pensi ai principi di autosufficienza e prossimità.

Al riguardo, l’art. 16 della direttiva 2008/98/Ce stabilisce: “1.Gli Stati membri adottano, di concerto

con altri Stati membri qualora ciò risulti necessario od opportuno, le misure appropriate per la

creazione di una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento dei rifiuti e di impianti per il

recupero dei rifiuti urbani non differenziati provenienti dalla raccolta domestica, inclusi i casi in cui

detta raccolta comprenda tali rifiuti provenienti da altri produttori, tenendo conto delle migliori

tecniche disponibili. (…) 2.La rete è concepita in modo da consentire alla Comunità nel suo insieme di

raggiungere l’autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti nonché nel recupero dei rifiuti di cui al

paragrafo 1 e da consentire agli Stati membri di mirare individualmente al conseguimento di tale

obiettivo, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di impianti specializzati per

determinati tipi di rifiuti. 3.La rete permette lo smaltimento dei rifiuti o il recupero di quelli

menzionati al paragrafo 1 in uno degli impianti più vicini, grazie all’utilizzazione dei metodi e delle

tecnologie più idonei, al fine di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute

pubblica. 4.I principi di prossimità e autosufficienza non significano che ciascuno Stato membro

debba possedere l’intera gamma di impianti di recupero finale al suo interno”.

Del pari, nella Parte I.4 dell’Allegato 1 alle “The Waste (England and Wales) Regulations 2011” si

legge: che costituisce obiettivo fondamentale quello di “1.costruire una rete integrata e adeguata di

impianti di smaltimento dei rifiuti e di impianti per il recupero dei rifiuti urbani non differenziati

provenienti dalla raccolta domestica, inclusi i casi in cui detta raccolta comprenda tali rifiuti

provenienti da altri produttori, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili. 2.La rete deve essere

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La direttiva 2008/98/Ce, infatti, ancor più delle precedenti ha posto in capo agli Stati

membri degli obblighi molto stringenti per quanto concerne i piani per la gestione dei

rifiuti, i programmi di prevenzione e l’uso dei rifiuti come risorsa179

, che la Gran

Bretagna ha dato prova di recepire in maniera alquanto puntuale180

.

In particolare, quanto all’elaborazione dei piani e programmi di cui al Capo V della

direttiva rifiuti181

, le “Waste (England and Wales) Regulations 2011” individuano

nelle figure del Secretary of State e dei “Ministers” le “autorità competenti”182

con

riguardo, rispettivamente, ai territori dell’Inghilterra e del Galles183

.

Pertanto, ai sensi della reg. 4, spetta innanzitutto a tali soggetti stabilire entro il 12

dicembre 2013 uno o più programmi recanti misure di prevenzione, vale a dire

“misure da adottare prima che una sostanza, un materiale o un prodotto diventi

rifiuto, al fine di ridurre a) la quantità [complessiva] di rifiuti; b) gli impatti negativi

costruita in modo tale da consentire all’UE nel suo insieme di raggiungere l’autosufficienza nello

smaltimento e nel recupero dei rifiuti domestici e in modo tale da consentire alla Gran Bretagna di

mirare al conseguimento di tale obiettivo, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di

impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti. 3. La rete permette lo smaltimento dei rifiuti o il

recupero di quelli domestici in uno degli impianti più vicini grazie all’utilizzazione dei metodi e delle

tecnologie più idonei, al fine di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute

pubblica. 4. Questo paragrafo non richiede che l’insieme completo delle infrastrutture in questione sia

collocato in Inghilterra o in Galles né in entrambi”. 179

Sul punto, oltre al capo V della direttiva 2008/98/Ce all’uopo dedicato, cfr. ad ex. il considerando

n. 40 dove si legge che “per migliorare le modalità di attuazione delle azioni di prevenzione dei rifiuti

negli Stati membri e per favorire la diffusione delle migliori prassi in questo settore, è necessario

rafforzare le disposizioni riguardanti la prevenzione dei rifiuti e introdurre l’obbligo, per gli Stati

membri, di elaborare programmi di prevenzione dei rifiuti incentrati sui principali impatti ambientali e

basati sulla considerazione dell’intero ciclo di vita dei prodotti e dei materiali. Tali misure dovrebbero

perseguire l’obiettivo di dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali connessi alla

produzione di rifiuti”. In dottrina, cfr. inter alia F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e novità

normative in materia di rifiuti, cit.; H. A. NASH, The revised Directive on waste: Resolving legislative

tensions in waste managment?, in 21 [2009] JEL 139; E. SCOTFORD, The new waste directive – Trying

to do it all … An early assessment, 11 [2009] ELR 75; ID. , Trash or treasure: policy tensions in EC

waste regulation, in 3 [2007] JEL 367. 180

Cfr., in particolare, la Parte V delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”,

espressamente rubricata “Duties in relation to waste management and improved use of waste as a

resource”. 181

Si tratta, segnatamente, degli artt. 28 – 33 della direttiva 2008/98/Ce. 182

Reg. 3, delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. 183

Sul punto cfr. D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit..

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che i rifiuti sono suscettibili di produrre sull’ambiente e sulla salute umana; c) il

contenuto di sostanze pericolose nei materiali e nei prodotti”184

.

Pur non essendo necessario che dette misure siano “coniate” ex novo - ben potendo le

stesse essere già in uso - ciò che rileva invece è il fatto che, dal punto di vista dei

contenuti, detti piani siano compatibili con l’obiettivo generale di proteggere

l’ambiente e la salute umana, prevenendo o riducendo gli effetti negativi connessi

alla produzione e gestione dei rifiuti e che gli stessi facciano applicazione della

gerarchia dei rifiuti. Gli stessi, inoltre, devono contribuire a “spezzare il legame tra

crescita economica e impatti ambientali associati alla produzione dei rifiuti”185

.

Del pari, ai sensi della Parte terza delle “Waste (England and Wales) Regulations

2011”, compete alle suddette autorità anche adottare i piani per la gestione dei rifiuti,

conformemente a quanto previsto dall’art. 28 della direttiva 2008/98/Ce186

. Al reg. 7

(1), infatti, si legge che “l’autorità competente deve assicurare che ci siano uno i più

piani contenenti politiche [ad hoc] per la gestione dei rifiuti in Inghilterra e in

Galles”, in modo tale che l’intero territorio risulti “coperto”187

. Dal punto di vista dei

contenuti, poi, le Parti II e III dell’All. 1 riproducono pedissequamente quanto

stabilito dalla direttiva. Vi si legge, infatti, che i piani in questione devono contenere

innanzitutto “un’analisi della situazione della gestione dei rifiuti esistente in

Inghilterra o in Galles, nonché le misure da adottare per migliorare dal punto di vista

ambientale la preparazione per il riutilizzo, il riciclo, il recupero e lo smaltimento dei

184

Reg. 4. delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. In senso analogo, cfr. art. 29

direttiva 2008/98/Ce, rubricato “Programmi di prevenzione dei rifiuti”. 185

Reg. 5 (a) e (b) delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. Inoltre cfr. l’art. 29 direttiva

2008/98/Ce. 186

L’art. 28 della direttiva 2008/98 Ce, rubricato “Piani di gestione dei rifiuti”, al p. 1 stabilisce che

“gli Stati membri provvedono affinché le rispettive autorità competenti predispongano, a norma degli

articoli 1, 4, 13 e 16, uno o più piani di gestione dei rifiuti. Tali piani coprono, singolarmente o in

combinazione tra loro, l’intero territorio geografico dello Stato membro interessato”. I successivi pp. 3

e 4, poi, indicano rispettivamente gli elementi che i piani in questione “contengono” e quelli che gli

stessi “possono contenere”. 187

Reg. 8 (1) delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”.

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rifiuti, unitamente ad una valutazione del modo in cui i piani contribuiranno

all’attuazione degli obiettivi e delle disposizioni della direttiva”188

. Ancora,

costituiscono elementi essenziali del piano le indicazioni relative a: “a) il tipo, la

quantità e la fonte dei rifiuti prodotti nel territorio, i rifiuti che saranno

prevedibilmente spediti da o verso la Gran Bretagna e una valutazione

dell’evoluzione futura dei flussi di rifiuti; (…) d) informazioni sufficienti circa i

criteri di riferimento per l’individuazione dei siti e la capacità dei futuri impianti di

smaltimento o dei grandi impianti di recupero, se necessario (…)”189

. Mentre, sono

eventuali le informazioni che, tenuto conto del livello e della estensione geografica

dell’area oggetto di pianificazione, si riferiscano a: a) aspetti organizzativi connessi

alla gestione dei rifiuti, inclusa una descrizione della ripartizione delle competenze

tra i soggetti pubblici e privati che provvedono alla gestione dei rifiuti (…); c)

campagne di sensibilizzazione e diffusione di informazioni destinate al pubblico in

generale o a specifiche categorie di consumatori; (…)”190

.

L’autorità competente, inoltre, ha il dovere ogni sei anni – o se necessario anche

prima – di rivedere ciascun programma di prevenzione nonché il piano nazionale di

gestione dei rifiuti, ben potendo però nel frattempo apportare le modifiche ritenute

necessarie191

. Nel fare ciò, dette autorità devono comunque assicurare il

188

Al riguardo si veda l’identico tenore dell’art. 28, p. 2 della direttiva 2008/98/Ce. Qui, infatti, si

legge che “i piani di gestione dei rifiuti comprendono un’analisi della situazione della gestione dei

rifiuti esistente nell’ambito geografico interessato nonché le misure da adottare per migliorare una

preparazione per il riutilizzo, un riciclaggio, un recupero e uno smaltimento dei rifiuti corretti dal

punto di vista ambientale e una valutazione del modo in cui i piani contribuiranno all’attuazione degli

obiettivi e delle disposizioni della presente direttiva”. 189

All. 1, Parte II (6). Inoltre sempre nella Parte II è stabilito che i piani in argomento devono

contenere indicazioni puntuali per quanto concerne le politiche in tema di: rifiuti da imballaggio (7);

raccolta differenziata dei rifiuti (8); rifiuti organici (9); riutilizzo (10); preparazione per il riutilizzo e

obiettivi di riciclo (11). 190

All. 1, Parte III (12). 191

Così è previsto dal Reg 10 (1) delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”, in chiaro

ossequio a quanto stabilito ai sensi dell’art. 30 della direttiva 2008/98/Ce. Quest’ultimo, infatti,

rubricato “Valutazione e riesame dei piani e dei programmi” al p. 1 dispone che “Gli Stati membri

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coinvolgimento e la partecipazione dell’“Environment Agency” nonché dei

rappresentanti delle amministrazioni locali e dell’industria192

. Al riguardo, la Parte

IV dell’All. 1 stabilisce che non appena possibile - una volta stilati i piani o le

proposte di modifica degli stessi - le autorità competenti devono: a) inviare una copia

degli stessi agli organi consultivi, vale a dire il Natural England e la Historic

Buildings and Monuments Commission per ciò che concerne l’Inghilterra e il

Countryside Council per il Galles; b) informare coloro i quali, secondo le medesime

autorità i) potrebbero essere interessate dal programma o ii) vantano un interesse in

relazione ad esso; c) rendere edotti, anche mediante ricorso a mezzi informatici, i

“public consultees” di cui le autorità vogliono conoscere l’opinione in merito al

piano o al programma; d) invitare i suddetti soggetti a esprimere la propria opinione

entro un tempo ragionevole. Inoltre, le autorità competenti sono tenute a conservare

nei rispettivi uffici una copia dei piani e dei programmi in questione e a mettere la

stessa a disposizione di quanti vogliano prenderne visione193

.

Infine, prima che la decisione venga assunta, il Secretary of State o la Scottish

Environment Protection Agency devono prendere in considerazione le opinioni

espresse. Mentre, una volta adottata la determinazione finale, alle stesse è fatto

provvedono affinché i piani di gestione e i programmi di prevenzione dei rifiuti siano valutati almeno

ogni sei anni e, se opportuno, riesaminati ai sensi degli articoli 9 e 11”. 192

Reg.11 delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. La regola sulla partecipazione trova

un limite in taluni casi, qual è in particolare quello di piani o programmi volti a fronteggiare stati di

emergenza nazionale. In ogni caso essa è stabilita in ossequio a quanto previsto dall’art. 31 della

direttiva 2008/98/Ce, il quale sotto la rubrica “partecipazione del pubblico” stabilisce che: “gli Stati

membri provvedono affinché le pertinenti parti interessate e autorità e il pubblico in generale abbiano

la possibilità di partecipare all’elaborazione di piani di gestione e dei programmi di prevenzione dei

rifiuti e di accedervi una volta ultimata la loro elaborazione, come previsto dalla direttiva 2003/35/Ce

o, se del caso, dalla direttiva 2001/42/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001,

concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente. Essi

pubblicano i piani e programmi su un sito web pubblicamente accessibile”. Ex multis, cfr. D.

POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 193

All. 1, Parte IV (14).

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obbligo di informare i soggetti che hanno preso parte alla consultazione della

decisione medesima e delle ragioni sulle quali essa si basa194

.

Sempre in ossequio a quanto previsto dalla direttiva 2008/98/Ce, le “Waste (England

and Wales) Regulations 2011” impongono, in capo tutti coloro che operano a vario

titolo nella filiera dei rifiuti, l’obbligo di adottare tutte le misure disponibili – e

ragionevoli in base alle circostanze del caso - per fare applicazione della gerarchia

dei rifiuti”195

. E’ fatta salva, tuttavia, la possibilità di non seguire pedissequamente

l’ordine imposto dalla gerarchia qualora ciò consenta di “ottenere i migliori risultati

dal punto di vista ambientale e dove ciò sia giustificato dal modo in cui è stato

concepito il ciclo di vita del prodotto e dall’impatto che lo stesso è suscettibile di

avere sul sistema di gestione dei rifiuti complessivamente inteso”196

. Tutto ciò

ovviamente - precisa la dottrina - deve avvenire conformemente ad una serie di

principi, quali quelli di precauzione e di sostenibilità, di fattibilità tecnica ed

economica; di risparmio delle risorse e tenendo conto dell’impatto complessivo

sull’ambiente, la salute, l’economia e più in generale sulla società197

.

In relazione a ciò, la Reg. 13 prevede che, a partire dall’1 gennaio 2015, le aziende e

le imprese che raccolgono carta, metalli, plastica o vetro assicurino la raccolta

differenziata di tali rifiuti laddove ciò sia: a) fattibile dal punto di vista tecnico,

economico ed ambientale ed b) appropriato al fine di raggiungere gli standard di

qualità stabiliti per il riciclo nei diversi settori198

. Pertanto, quando le WCAs

194

All. 1, Parte IV (15). 195

Reg. 12 delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. 196

D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 197

D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 198

In proposito si veda il Capo II direttiva 2008/98/Ce “Requisiti generali”, ed in particolare l’art. 11

rubricato “Riutilizzo e riciclaggio” dove si legge che “1. gli Stati membri adottano le misure

necessarie per promuovere il riutilizzo dei prodotti e le misure di preparazione per le attività di

riutilizzo, in particolare favorendo la costituzione e il sostegno di reti di riutilizzo e di riparazione,

l’uso di strumenti economici, di criteri in materia di appalti , di obiettivi quantitativi o di altre misure.

Gli Stati membri adottano misure intese a promuovere il riciclaggio di alta qualità e a tal fine

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predispongono gli strumenti per la raccolta di detti materiali hanno l’obbligo di

assicurarsi che gli stessi siano idonei a raccogliere separatamente carta, plastica,

vetro, ecc.199

.

Orbene, la descritta conformità tra quanto stabilito dalla direttiva 2008/98/Ce e le

prescrizioni contenute nelle “Waste (England and Wales) Regulations 2011” trova

ulteriore conferma – se necessario - nelle linee guida stilate dal Governo inglese a

supporto della nuova legislazione. Come evidenziato nelle pagine che precedono,

infatti, la “Government Waste Policy Review”200

enuncia gli obiettivi che il Governo

intende perseguire al fine di realizzare una società “rifiuti zero”. Ciò richiede

l’acquisizione di una nuova consapevolezza da parte sia dei soggetti pubblici che dei

privati cittadini, nei confronti del tema “rifiuti”, secondo quanto stabilito (anche) a

livello europeo. E, per l’effetto, si prevedono “benefici non solo in termini di

ambiente più salubre e climate change, ma anche per ciò che concerne la

competitività delle (…) imprese”201

nell’ottica di un avvicinamento ai target della

c.d. green economy.

Nel perseguire simili obiettivi appare chiaro che il Governo intende muoversi lungo

il sentiero tracciato dall’Unione europea con la direttiva 2008/98/Ce. Ciò si evince,

innanzitutto, dal continuo richiamo alla gerarchia dei rifiuti e dal costante monito ad

istituiscono la raccolta differenziata dei rifiuti, ove essa sia fattibile sul piano tecnico, ambientale ed

economico e al fine di soddisfare i necessari criteri quantitativi per i settori di riciclaggio pertinenti

(…). 2. Al fine di rispettare gli obiettivi della presente direttiva e tende verso una società europea del

riciclaggio con un alto livello di efficienza delle risorse, gli Stati membri adottano le misure necessarie

per conseguire I seguenti obiettivi: a) entro il 2020, la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio di

rifiuti quali, come minimo, carta, metallici, plastica e vetro provenienti da nuclei domestici, e

possibilmente di altra origine, nella misura in cui tali flussi di rifiuti sono simili a quelli domestici,

sarà aumentata complessivamente almeno al 50% in termini di peso; entro il 2020 la preparazione per

il riutilizzo, il riciclaggio e altri tipi di recupero di materiale, incluse operazioni di colmatazione che

utilizzano i rifiuti in sostituzione di altri materiali, di rifiuti da costruzione e demolizione non

pericolosi, escluso il materiale allo stato naturale definito alla voce 170504 dell’elenco dei rifiuti, sarà

aumentata almeno al 70% in termini di peso. (…)”. In dottrina cfr. amplius D . POCKLINGTON, The

Law of Waste Management, cit.. 199

Reg. 13 (3) delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. 200

Consultabile sul sito www.defra.gov.uk. 201

Così si legge nel documento recante “Government Waste Policy Review”, pag. 10 in

www.defra.gov.uk.

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un uso sostenibile dei materiali202

, ma anche dagli ampi riferimenti all’opportunità di

considerare i rifiuti come risorse, specie ai fini della produzione di energia203

, e dalla

conseguente riluttanza nei riguardi del deposito in discarica204

.

Infine, nell’economia del presente lavoro, appare d’uopo approfondire anche un

aspetto ulteriore, qual è quello del ruolo che le amministrazioni locali hanno in tema

di gestione dei rifiuti. Al riguardo, sembra opportuno evidenziare in via preliminare

che, formulando talune considerazioni sul più ampio tema della regolazione, il

Governo inglese ha sottolineato come quest’ultima comprenda la ricerca di uno

spazio per riequilibrare le responsabilità tra l’autorità di regolazione, l’ “Environment

Agency”, e le autorità locali e per favorire una maggiore cooperazione tra gli stessi

soggetti. Ciò sulla base dell’assunto per cui quei regolatori che operano isolatamente

possono raggiungere risultati solo parziali, mentre condividendo informazioni e

saperi è possibile individuare più facilmente i profili da correggere e garantire un

maggior risultato in termini di tutela degli investimenti, soddisfacimento dei bisogni

delle comunità locali e, non ultimo, protezione dell’ambiente205

.

Pertanto, benché il servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani competa

fattivamente alle autorità locali - le sole in grado di sviluppare detto servizio in modo

202

In tal senso cfr. “Government Waste Policy Review”, in particolare pagg. 20 e ss. Sul punto, in

dottrina, cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, cit.. 203

In proposito cfr. “Government Waste Policy Review” pagg. 62 e ss. In dottrina, cfr., innanzitutto,

L. KRAMER, EU Environmental Law, cit.; nonchè i contributi di P. M. CONNOR, UK Renewable

Energy Policy: a Review, cit.; S. O. NEGRO - F. ALKEMADE – M. O. HEKKERT, Why Does Renewable

Energy Diffuse so Slowly? A Review of Innovation System Problems, cit.; B. WOODMAN – C.

MITCHELL, Learning from Experience? The Development of Renewables Obligation in England and

Wales 2002 – 2010, cit.. 204

Si vedano le pagg. 69 e ss. del documento recante “Government Waste Policy Review”. Ex multis,

in dottrina cfr. D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 205

Così si legge nella “Government Waste Policy Review” alle pagg. 37-38. Riflessioni in certa

misura analoghe si rinvengono in G. ARENA, Introduzione all’amministrazione condivisa, in Studi

parlamentari e di diritto costituzionale 1997, 117, 29-65; nonché in T. PROSSER, The Limits of

Competition Law. Markets and Public Services, cit.. Inoltre, per ciò che concerne più in generale il

tema della trasparenza amministrativa, nella varietà dei contributi dottrinali, sia sufficiente rinviare a

G. ARENA (voce) Trasparenza amministrativa, in Enc. Giur. XXXI (aggg.), Roma, 1995; F.

MANGANARO, L’evoluzione del principio di trasparenza amministrativa, in www.astrid-online.it,

2009; F. MERLONI E A. ( a cura di), La trasparenza amministrativa, Giuffrè, Milano, 2008.

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tale da rispondere efficacemente alle esigenze delle comunità locali206

- “il Governo

ritiene che il lavoro congiunto possa migliorare l’efficienza della raccolta e la qualità

del servizio erogato in modo pratico e conveniente”207

. Di conseguenza il governo

centrale si dice pronto a lavorare di concerto con le amministrazioni locali (“local

councils”) al fine di incrementare la frequenza della raccolta e rendere più semplice il

riciclo dei rifiuti208

, sull’esempio di quanto già fatto nel 2009 quando venne costituita

la “Waste Collection Commitment”209

.

Al contempo, sembra altresì diffusa nell’ordinamento inglese la convinzione per cui

è necessario che si crei una sinergia tra autorità locali e famiglie (o, più in generale,

privati cittadini). Le prime, infatti, “devono lavorare insieme a queste ultime e non

contro di loro”, sulla base dell’assunto per cui – in un’ottica di lungo periodo -

orientare in senso virtuoso le azioni dei singoli è molto più efficace che imporre

controlli e sanzioni210

. Per questo motivo, nella “Government Waste Policy Review”

si evidenzia l’opportunità di coinvolgere la società civile nella gestione dei rifiuti

affinché “i problemi [comuni] si trasformino in opportunità [comuni]”211

.

206

Sull’opportunità di allocare la gestione servizi pubblici locali al livello degli enti locali al fine di

rispondere alle esigenze delle comunità territoriali, cfr. per tutti E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici

locali, cit.. Inoltre, sulle potenzialità e sul ruolo che gli enti locali dovrebbero avere (anche in Italia) in

settori cruciali per il benessere della collettività, quale l’ambiente, cfr. F. DE LEONARDIS, Politiche e

poteri dei governi locali nella tutela dell’ambiente, cit., dove si legge: “gli enti e le autorità locali

sono protagonisti necessari ed imprescindibili delle politiche di tutela dell’ambiente assieme alle

amministrazioni internazionali (…), alle amministrazioni europee (…) e alle amministrazioni

nazionali (…). Gli enti locali assieme alle amministrazioni citate e alla società civile (…)

compongono un sistema plurilivello che riesce ad assicurare una tutela effettiva, secondo quanto

affermano peraltro gli artt. 3 ter e 3 quinquies del Codice dell’ambiente, solo ed esclusivamente se

tutte le componenti interagiscono armonicamente”. 207

Così si legge nella “Government Waste Policy Review” pag. 43. 208

In tal senso cfr. “Government Waste Policy Review” pag. 43, pp. 122-123. 209

Cfr. ancora “Government Waste Policy Review” pag. 43, p. 125. 210

Così si legge nella “Government Waste Policy Review” pag. 44. Il documento, inoltre, prosegue

affermando che “l’esercizio dei poteri, anche sanzionatori, in capo alle autorità locali deve bilanciare

il bisogno di rispettare le libertà dei singoli con la necessità di sanzionare e reprimere le condotte che

hanno un impatto negativo sulla vita di comunità”. 211

In proposito cfr. amplius la “Government Waste Policy Review” pag. 52. Tale aspetto, inoltre,

sembra potersi collegare a quel filone dottrinario incline a valorizzare il principio di sussidiarietà

orizzontale ex art. 118, ult. c., Cost. come leva per costruire un modello di amministrazione condivisa.

In proposito cfr., innanzitutto, a G. ARENA, Cittadini attivi, cit.. Inoltre cfr. anche G. ARENA E A. (a

cura di), Il valore aggiunto. Come la sussidiarietà può salvare l’Italia, Carocci, Roma, 2010; F.

Page 221: DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO PUBBLICO DELL …padis.uniroma1.it/bitstream/10805/2287/1/TESI.pdf · II.5 L’ “europeizzazione” della nozione di rifiuto pag. 88 CAPITOLO III

216

In proposito, inoltre, è interessante notare come il Governo sembri consapevole del

fatto che “se si vuol spingere gli individui a tenere comportamenti corretti, è

necessario dare loro il buon esempio”212

. Di conseguenza le amministrazioni locali

sono esortate ad incoraggiare e valorizzare best practices, quali ad esempio le

iniziative di “Recyclebank” che assicurano incentivi e premi (ad ex., nella forma di

buoni sconto) a quei cittadini che riciclano oggetti e materiali213

.

In definitiva, emerge l’idea che nel settore de quo il lavoro sinergico di più soggetti,

pubblici e privati, possa rivelarsi in grado di produrre risultati maggiori, quanto meno

in termini qualitativi. Al contempo, inoltre, si ha l’impressione che il baricentro si

stia progressivamente spostando dal livello di governo centrale a quello periferico.

Dall’esame dei recenti atti normativi, infatti, si evince che le autorità locali finiscono

sempre più spesso per fungere da snodo e da raccordo tra le istanze europee e

nazionali, da un lato, e la società civile, dall’altro lato. Spetta ad esse, dunque,

approntare un servizio pubblico di gestione dei rifiuti che coniughi opportunamente

apertura al mercato e tutela dell’ambiente con i bisogni e i diritti dei singoli. Per

questo motivo è essenziale che le stesse abbiano le capacità, le competenze ed i

mezzi per assicurare servizi efficienti e qualitativamente apprezzabili, rispettando

altresì il principio di economicità e garantendo un alto livello di sostenibilità

ambientale. In tal senso, dunque, è particolarmente interessante notare come il

Governo inglese proprio di recente si sia impegnato a rimuovere quegli ostacoli di

ordine burocratico che, frapponendosi alla quotidiana azione amministrativa,

GIGLIONI, Subsidiarity cooperation: a new type of relationship between public and private bodies

supported by the EU law, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2010, 2, 485; ID., Il principio di sussidiarietà

orizzontale nel diritto amministrativo e la sua applicazione, in Foro amm. CdS, 2009, 10 2909. Infine,

con precipuo riguardo al nesso tra sussidiarietà orizzontale e servizi pubblici locali cfr. F. GIGLIONI,

Servizi pubblici locali, sussidiarietà e mercato, in www.labsus.org, 2008 e C. IAIONE, L’energia dei

cittadini dei servizi pubblici locali, in www.labsus.org, 2013. 212

In tal senso cfr. La “Government Waste Policy Review” pag. 45. 213

Così si legge nella “Government Waste Policy Review” pag. 45, in specie p. 137.

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217

rischiano in concreto di frenare il cammino verso una gestione dei servizi pubblici

efficiente e più vicina ai cittadini214

.

214

Si veda in proposito la “Government Waste Policy Review” pag. 46 e ss., in particolare pp. 143 –

145. In dottrina cfr., per tutti, C. GRAHAM, Socio-economic Rights and Essential Services: A New

Challenge for the Regulatory State, in D. OLIVER – T. PROSSER – R. RAWLING, The Regulatory State:

Constitutional Implications, OUP, Oxford, 2010; T. PROSSER, The Limits of Competition Law.

Markets and Public Services, cit.. Simili istanze, inoltre, traspaiono anche nei contributi di attenta

dottrina italiana. Sul punto, per tutti, cfr. E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit..

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218

CAPITOLO V

IL SERVIZIO PUBBLICO TRA UNIONE EUROPEA E STATI MEMBRI.

VERSO LA (RI)SCOPERTA DEI PRINCIPI DI ADEGUATEZZA,

DIFFERENZIAZIONE E AUTONOMIA

V.1 PREMESSA

Lo studio sin qui condotto ha inteso indagare il servizio pubblico di gestione dei

rifiuti urbani sotto una duplice lente: quella ambientale e quella più “classicamente”

amministrativa, vale a dire involgente l’organizzazione e l’erogazione del servizio

pubblico tout court inteso. Nello specifico, muovendo dall’assunto per cui da alcuni

anni a questa parte l’ordinamento europeo “sempre più si sviluppa e si afferma”

sovrapponendosi e condizionando gli ordinamenti interni1, nelle pagine che

precedono si è inteso guardare all’an e al quomodo delle trasformazioni che il diritto

europeo ha catalizzato o, se del caso, imposto a livello nazionale per ciò che

concerne entrambi i su menzionati profili del servizio in argomento.

La chiave di lettura, dunque, è quella dei rapporti tra ordinamento dell’Unione

europea e Stati membri, ma alla luce ancora debole dei principi di differenziazione

ed adeguatezza. Se, infatti, in molti concordano sul fatto che tra i due livelli di

1 In questi termini, A. ROMANO, La concessione di un pubblico servizio, in G. PERICU – A. ROMANO –

V. SPAGNUOLO VIGORITA, La concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995, specialmente

pp. 12 e ss., dove l’A. prosegue osservando che “si ha la sensazione che troppo spesso il dato del

diritto comunitario, o di quello nazionale che lo recepisce, venga considerato isolatamente: così che

l’attenzione si concentra sulla singola direttiva, su quel che sono il suo oggetto esplicito, i limiti della

sua applicabilità che ne conseguono, e i suoi contenuti così come sono letteralmente desumibili.

Mentre, ormai, il diritto comunitario complessivamente considerato costituisce già un ordinamento, e

u ordinamento corposo, consistente e rigoglioso: con tutte le implicazioni che dalla sua definizione

come tale derivano. In particolare: con la possibilità, ma anche con la necessità, di individuare i suoi

principi generali, e addirittura la sua natura intrinseca. Con ben più feconde potenzialità ricostruttive:

con la possibilità di utilizzare tali suoi principi e tale sua natura, per ordinare a sistema le sue norme

scritte, eventualmente colmandone le lacune. E per profilarne linee di sviluppo che, in quanto di

realizzazione degli uni e dell’altra, appaiono prevedibili e ragionevoli.

Più di recente, ha evidenziato la natura complessa ed “integrata” dell’ordinamento europeo, sia dal

punto di vista sostanziale che processuale, in L. DE LUCIA, Amministrazione transnazionale e

ordinamento europeo. Saggio sul pluralismo amministrativo, Giappichelli, Torino, 2009 e ID., I

ricorsi amministrativi nell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, in Riv. trim. dir. pubbl., 2013,

2, 323.

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219

governo si sia instaurata da tempo una proficua dialettica, tale per cui gli stessi

finiscono con l’influenzarsi reciprocamente2, resta solo parzialmente esplorato il

tema della reale autonomia che residua in capo agli Stati membri nel disciplinare

taluni istituti – quale, ad esempio, i servizi pubblici – e dell’opportunità di

valorizzare detta autonomia per garantire un’amministrazione “più vicina” al

contesto in cui la stessa è chiamata ad operare3.

Orbene, volendo sviluppare alcune considerazioni in ordine a tale aspetto, sembra

innanzitutto opportuno individuare qualche “punto fermo” sulla base dello studio sin

qui condotto. A tal fine, si ricorda come nelle pagine che precedono il servizio

pubblico di gestione dei rifiuti urbani sia stato indagato avendo riguardo ad entrambi

i profili sopra menzionati, vale a dire quello ambientale e quello gestorio. E come

tale analisi sia stata compiuta in chiave comparata, ossia ponendo mente al modo in

cui il servizio in questione è disciplinato ed erogato tanto in Italia quanto in Gran

Bretagna. Ne consegue che, per “fare ordine” tra le molteplici suggestioni emerse

dallo studio, le osservazioni che a breve si cercherà si formulare saranno volte a

ricondurre “a sistema” analogie e differenze della disciplina giuridica e

dell’organizzazione di detto servizio nei due Paesi secondo lo schema “binario” sin

qui utilizzato.

2 Inter alia, G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, Cedam, Padova, 2010.

3 Un’indagine in tal senso si rinviene, da ultimo, in F. GIGLIONI, Governare per differenza. Metodi

europei di coordinamento, ETS, Pisa, 2012, il quale nella propria ricerca ha adottato la prospettiva “di

verificare – sul piano dei principi e, soprattutto, delle regole – la possibilità di governare l’esigenza di

integrazione con l’esistenza delle differenze nazionali, puntando non tanto alla riduzione o alla

neutralizzazione di queste ultime, ma alla loro enfatizzazione”. Inoltre, prima ancora, cfr. L. TORCHIA,

Il Governo delle differenze. Il principio di equivalenza nell’ordinamento europeo, Il Mulino, Bologna,

2006. Infine, sottolinea l’opportunità di valorizzare il principio di differenziazione nella

organizzazione dei servizi pubblici locali A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza

fra diritto comunitario e modelli nazionali, in G. FALCON (a cura di), Il diritto amministrativo dei

Paesi europei tra omogeneizzazione e diversità culturali, Cedam, Padova, 2005.

Page 225: DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO PUBBLICO DELL …padis.uniroma1.it/bitstream/10805/2287/1/TESI.pdf · II.5 L’ “europeizzazione” della nozione di rifiuto pag. 88 CAPITOLO III

220

V.2 LA DIMENSIONE AMBIENTALE DEL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI

RIFIUTI URBANI

Prendendo le mosse dalla dimensione ambientale del servizio pubblico di gestione

dei rifiuti urbani, occorre per prima cosa riconoscere come sia oramai fortissima, da

tale punto di vista, l’influenza dell’Unione europea. Tanto in Italia quanto in Gran

Bretagna, infatti, molta parte dell’attuale disciplina giuridica del servizio de quo

consta di prescrizioni di derivazione europea. In entrambi i Paesi, infatti, la materia

dei rifiuti è disciplinata da norme di settore – gli artt. 177 e ss. del d. lgs. n. 152 del

2006 s.m.i. per l’Italia e le “Waste Regulations 2011” per Inghilterra e Galles – che

non fanno mistero del fatto di essere state adottate in recepimento della direttiva

2008/98/Ce, la cui ratio – si è visto – riposa nella volontà di realizzare una società

“rifiuti-zero”. E ciò conformemente a quella che è stata indicata essere la linea

evolutiva dell’intero diritto ambientale, il cui sviluppo è stato e continua ad essere

catalizzato principalmente dal diritto europeo e (in certi ambiti, ancora prima) dalla

giurisprudenza della Corte di Giustizia4.

In particolare, per ciò che concerne i rifiuti si è visto come la legislazione abbia

“conosciuto una rapida evoluzione [solamente] nel corso degli ultimi trent’anni”5.

C’è stato un tempo, infatti, in cui né l’Europa né gli Stati membri si occupavano dei

rifiuti, specie in relazione ad obiettivi di tutela puramente ambientale. La prima

perché, fino all’entrata in vigore dell’Atto Unico europeo, non aveva una specifica

competenza in materia di ambiente6. I secondi perché “storicamente” a livello

nazionale la regolamentazione dei rifiuti era finalizzata in prevalenza ad arginare i

4 Sul diritto ambientale come diritto a formazione prevalentemente giurisprudenziale cfr. F. DE

LEONARDIS, Trasformazioni della legalità nel diritto ambientale in G. ROSSI (a cura di), Diritto

dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011; ma anche B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente,

Il Mulino, Bologna, 2005 e P. DELL’ANNO, Manuale di diritto ambientale, Cedam, Padova, 2003. 5 In tal senso B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, cit..

6 Sul punto cfr., per tutti, L. KRAMER, EU Environmental Law, Sweet & Maxwell, London, 2011; M.

RENNA, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2009, 3-4,

649.

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221

problemi di ordine pubblico derivanti da pestilenze ed epidemie7. Ciò – come

evidenziato nelle pagine che precedono – vale persino per la Gran Bretagna,

nonostante molti sottolineino il carattere “avanguardistico” della legislazione inglese

in materia di ambiente e finanche di rifiuti8. Infatti, se è vero che l’essere stata teatro

della Rivoluzione industriale ha portato detto Paese ad interessarsi del problema dei

rifiuti già nel XIX secolo, è altrettanto vero che – al pari di quanto accaduto in altre

realtà, tra cui quella italiana – tale interesse era motivato dalla volontà di assicurare

un alto livello di igiene nelle città, specie in quelle dove maggiore era la

concentrazione di fabbriche.

Solo in un secondo momento, dunque, l’allora Comunità ha preso ad interessarsi ai

rifiuti9. E sebbene la ragione di fondo fosse legata più alla costruzione del mercato

unico10

che alla tutela dell’ambiente, gli Stati membri si sono trovati nella condizione

di dover recepire le c.d. direttive rifiuti11

. Da lì in poi tra i due livelli di governo ha

7 Per ciò che concerne l’Italia si veda la L. 20 marzo 1941 n. 366 al cui art. 1, comma primo, si legge

che “la raccolta, il trasporto e lo smaltimento (utilizzazione o dispersione distruzione) dei rifiuti urbani

assumono, nei riflessi dell’igiene, dell’economia e del decoro, carattere di interesse pubblico”. In

dottrina cfr., per tutti, M. S. GIANNINI, Ambiente: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici, in Riv. trim.

dir. pubbl., 1973, 1, 15 e più di recente F. DE LEONARDIS, Trasformazioni della legalità nel diritto

ambientale, cit..

Del pari, per ciò che concerne la Gran Bretagna è stato osservato che, nonostante già nel XIX abbia

iniziato ad interessarsi ai rifiuti, i primi atti legislativi avevano come obiettivo principale quello di

assicurare un elevato livello di igiene nelle città. Tale situazione, inoltre, si è protratta ancora fino ai

primi anni Settata, posto che il Deposit of Poisonous Waste Act fu adottato nel 1972 per far fronte ad

uno stato di emergenza dato dall’abbandono illegale di rifiuti pericolosi. Sul punto cfr. S. BELL – D.

MCGILLIVRAY, Environmental Law, OUP, Oxford, 2008. 8 Per tutti, D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, Sweet & Maxwell, London, 2011.

9 Facendo leva sugli articoli 100 e 235 del Trattato Cee, relativi rispettivamente al ravvicinamento

delle legislazioni nazionali e ai c.d. poteri impliciti, negli anni Settanta del ‘900 l’allora Comunità

economica europea adottò le prime direttive in materia di rifiuti. Si trattava, come ampiamente

ricordato nelle pagine che precedono, della direttiva 75/439/Ce; della direttiva 75/442/Cee; della

direttiva 76/403/Cee ed, infine, della direttiva 78/319/Cee. 10

In proposito, si ricorda che con la direttiva 75/442/Cee il Consiglio esortava innanzitutto gli Stati

membri al “ravvicinamento delle legislazioni” in materia di gestione dei rifiuti, al fine di scongiurare

il prodursi di situazioni di “disuguaglianza nelle condizioni di concorrenza”, suscettibili di incidere

negativamente sul funzionamento del mercato comune. In dottrina, tra gli altri, cfr. D. WILKINSON,

Time to discard the concept of waste?, in ELR, 1[1999] 2 172. 11

L’Italia, ad esempio, ha recepito le direttive comunitarie degli anni Settanta con il D. P. R. 10

settembre 1982 n. 915. Sul punto, in dottrina cfr. F. CAPELLI, Portata ed efficacia delle direttive Cee

in materia di rifiuti, in Riv. giur. amb., 1987, 1, 33. Quanto alla Gran Bretagna, invece, la dottrina è

solita ricordare come le direttive citate, ed in particolare la direttiva 75/442/Cee, traessero ispirazione

dalla legislazione britannica. Qui, infatti, nel 1974 era stato emanato il Control of Pollution Act

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222

preso avvio un intenso dialogo12

in cui molta parte l’ha avuta la Corte di Giustizia.

Sono stati, infatti, prevalentemente i giudici europei a riempire di contenuti la

nozione di rifiuto e, per l’effetto, a delineare i contorni di quelle contigue di

sottoprodotto ed end of waste 13

, talvolta persino provando a “mediare” tra i rigidi

dictat imposti dalle istituzioni europee e le istanze emerse a livello nazionale14

.

E così alle prime direttive degli anni Settanta hanno fatto seguito, nell’ordine, le

direttive 91/156/Cee15

e 2006/12/Ce16

, nonché – da ultimo – la direttiva 2008/98/Ce17

(oltre a molti atti tesi a disciplinare singoli aspetti della materia de qua), secondo un

clymax ascendente che ha visto la legislazione diventare sempre più attenta ai profili

eminentemente ambientali della materia. Se è vero, infatti, che ab origine i rifiuti

venivano presi in considerazione come ulteriore tassello del mercato unico e, dunque,

l’approccio adottato dalle istituzioni era prevalentemente regolatorio18

, nel tempo -

(COPA) che abrogava e sostituiva il Deposit of Poisonous Act adottato solo due anni prima. Al

riguardo cfr. amplius D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 12

A ben vedere, tuttavia, si potrebbe dire che in un certo senso tale dialogo sia iniziato ancora prima

se è vero – come evidenziato nelle pagine che precedono – che la prima direttiva rifiuti, la

1975/442/Cee reca una chiara eco del “Control of Pollution Act” adottato dalla Gran Bretagna nel

1974. 13

Sul punto, per tutti, F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a

cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. 14

Come ricordato nel capitolo II, infatti, sin da subito gli Stati membri si sono interrogati circa l’esatta

latitudine della nozione di rifiuto, ossia – più nello specifico – sull’individuazione di uno statuto

giuridico cui sottoporre i prodotti secondari. Emblematiche in tal senso, ad esempio, le pronunce

CGCE 28 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, C-206 e 207/88; CGCE 25 giugno 1997, Euro Tombesi e a.,

C-304/94; CGCE 15 giugno 2000, ARCO, C- 418/97 e C-419/97; CGCE 14 gennaio 2004, Saetti e

Frediani, C-235/02. 15

Direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 156, 91/156/Cee, per un esame della quale si rinvia a

quanto ricordato, specialmente, nei capitoli I e II del presente lavoro e ai riferimenti bibliografici ivi

richiamati, tra cui in particolare F. GIAMPIETRO, Smaltimento e recupero dei rifiuti nella direttiva Cee

156/91: strumenti ed obiettivi nuovi per il legislatore italiano, in Rass. giur. en. elettr., 1992, 3, 617 . 16

Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 n. 12, 2006/12/ce, relativa ai

rifiuti. Anche i questo caso cfr. quanto ricordato amplius nei capitoli che precedono. In dottrina, cfr.

per tutti E. SCOTFORD, Trash or treasure: policy tensions in EC waste regulation, in [2007] 3 JEL 367. 17

Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 n. 98, 2008/98/Ce, relativa

ai rifiuti e che abroga alcune direttive. Sul punto si rinvia alla disamina compiuta nei capitoli che

precedono e ai riferimenti bibliografici ivi richiamati. In questa sede, dunque, sia sufficiente

menzionare il contributo di E. SCOTFORD, The new waste directive – trying to do it all … an early

assessment, in 11 [2009] ELR 1 75. 18

Per molto tempo, infatti – sulla base dell’assunto per cui i rifiuti sarebbero “un prodotto

ineliminabile della società” – cardine della disciplina giuridica dei rifiuti dettata dall’Europa è stato lo

smaltimento. A ciò si legava, pertanto, un’interpretazione giurisprudenziale della nozione di rifiuto

molto ampia, tale da ricomprendere “praticamente ogni tipo di fattispecie” (F. DE LEONARDIS, I rifiuti:

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223

così come la vocazione (quasi) esclusivamente economica dell’Unione europea si è

stemperata19

, del pari – gli stessi sono stati ampiamente riconsiderati nella loro

dimensione ambientale.

Non a caso, dunque, l’ultima direttiva rifiuti consacra quello che parte della dottrina

ha definito come un vero e proprio revirement20

, giacché il baricentro appare ora

definitivamente spostato dall’aspetto strictu sensu gestorio, ossia lo smaltimento, a

quello della prevenzione ex ante. Il principio di prevenzione (o azione preventiva)21

,

infatti, oltre ad essere posto al vertice della gerarchia dei rifiuti ex art. 4 direttiva

2008/98/Ce, costituisce uno degli architravi su cui poggia l’intero impianto

normativo varato dalle istituzioni europee22

. Di riflesso – si è osservato – anche Italia

dallo smaltimento alla prevenzione, cit.). In giurisprudenza, cfr. ad esempio CGCE 25 giugno 1997,

Euro Tombesi e a., cause riunite C-304/094, C-330/94, C-342/94, C-224/95, nonché CGCE 18

dicembre 1997, Inter Environment Wallonie ASBL c. Regione Wallonne, C-129/96. 19

Ampia parte della dottrina, infatti, sottolinea come da alcuni anni a questa parte nel dibattito

giuridico europeo il mercato tout court inteso abbia perso un po’ della propria centralità per fare posto

ad altri temi, tra cui in particolare quello dei diritti fondamentali. Segnale tangibile di questo (quanto

meno parziale) cambiamento di prospettiva sarebbe il riconoscimento della natura giuridica vincolante

della Carta di Nizza sancito dall’art. 6 TUE, come modificato in occasione di Lisbona (in proposito

cfr., inter alia, L. DANIELE, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e Trattato di Lisbona,

in Dir. Un. Eur., 2008, 3, 665; N. PARISI, Funzione e ruolo della Carta dei diritti fondamentali nel

sistema delle fonti alla luce del Trattato di Lisbona, in Dir. Un. Eur., 2009, 3, 653; J. ZILLER, I diritti

fondamentali tra tradizioni costituzionali e “costituzionalizzazione” della Carta dei diritti

fondamentali dell’Unione europea, in Dir. Un. Eur., 2011, 2, 539). Sull’argomento si rinvia, senza

pretesa alcuna di esaustività, a M. CARTABIA, L’universalità dei diritti umani nell’età dei “nuovi

diritti”, in Quad. cost., 2009, 3, 537; P. CRAIG – G. DE BURCA, The Evolution of EU Law, OUP,

Oxford, 2011; nonché ancor più di recente a S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari, 2012,

il quale scrive che “il passaggio dall’Europa dei mercati all’Europa dei diritti [è parso] ineludibile,

condizione necessaria perché l’Europa [potesse] raggiungere la piena legittimazione democratica”. 20

F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. Segnale estremamente

importante di questo “capovolgimento di prospettiva” è dato anche dal fatto che il legislatore europeo

agli artt. 5 e 6 della direttiva 2008/98/Ce ha codificato per la prima volta gli istituti del sottoprodotto e

della materia prima seconda (e end of waste). Pertanto – osserva la medesima dottrina – oggi può dirsi

che l’insieme dei rifiuti risulta “limitato e intaccato da [questi] due contigui sottoinsiemi” e che “nel

continuo scontro tra i partiti del tutto rifiuti e del niente rifiuti si è pervenuti ad una posizione

mediana”. 21

Per un esame del principio in argomento si rinvia in particolare a F. DE LEONARDIS, Principio di

prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in AA.VV., Studi in onore di Alberto Romano,

Ed. Sc., Napoli, 2011, 2079.

22

Come si è cercato di illustrare diffusamente nel capitolo I del presente lavoro, la direttiva rifiuti

2008/98/Ce poggia essenzialmente su quattro architravi, vale a dire: la promozione di una società

rifiuti-zero; il principio di prevenzione o azione preventiva (cfr. in particolare l’art. 3 n. 12); il

principio “chi inquina paga” ed, infine, il principio della responsabilità estesa del produttore. Ex

multis, sul punto cfr. B. DENTAMARO – F. IERVOLINO, La disciplina comunitaria dei rifiuti, vecchia e

nuova normativa a confronto, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2010, 1, 359 .

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224

e Gran Bretagna hanno modificato le rispettive legislazioni ponendo l’accento su tale

principio. Infatti, così come l’art. 178 del Codice dell’ambiente, dopo le modifiche

apportate dal d. lgs. n. 205 del 2010, dispone che le attività di cui la gestione dei

rifiuti consta devono essere realizzate “conformemente” al principio di prevenzione

(nonché a quelli di precauzione, sostenibilità, proporzionalità, responsabilizzazione e

cooperazione), le “Waste Regulations 2011”, oltre ad essere interamente pervase da

continui richiami al principio de quo, dedicano allo stesso addirittura l’intera Parte II.

Più in generale, è d’uopo osservare come la valorizzazione - a livello tanto europeo

che nazionale - del principio di prevenzione, da un lato, si ponga in linea con

l’attuale politica europea in tema di ambiente che, da alcuni anni a questa parte,

appare dichiaratamente orientata al perseguimento di obiettivi di sviluppo

sostenibile23

; mentre, dall’altro lato, lasci intendere che il diritto dell’ambiente – ed

in specie quello dei rifiuti – pur non essendo (o, almeno, non esclusivamente) un

diritto per principi, può trovare in questi ultimi la propria chiave di lettura24

. Il che, si

è visto, risulta particolarmente funzionale in quei casi, quale ad esempio quello

italiano, in cui la necessità di conformarsi alle prescrizioni europee, unitamente al

proliferare della normazione interna, ha dato vita ad un coacervo così intricato che

23

In tal senso, su tutti, L. KRAMER, EU Environmental Law, cit.. Più in generale, in ordine al principio

dello sviluppo sostenibile, anche in relazione alla questione della tutela delle generazioni future, si

rinvia a R. BIFULCO – A. D’ALOIA (a cura di), Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo

sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, Jovene, Napoli, 2008; F. DE LEONARDIS, Tutela

delle generazioni future e organismi preposti alla tutela, in V. PARISIO (a cura di), Diritti interni,

diritto comunitario e principi soprannazionali, Giuffrè, Milano, 2009; F. FRACCHIA, Il principio dello

sviluppo sostenibile, in M. RENNA – F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo,

Giuffrè, Milano, 2012; ID., Sviluppo sostenibile e diritti delle generazioni future, in Riv. quad. dir.

amb., 2010; ID., Sulla configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost e doveri di

solidarietà ambientale, in Dir. eco., 2002, 1, 215; G. ZAGREBELSKY, Nel nome dei figli. Se il diritto ha

il dovere di pensare al futuro, in La Repubblica del 2 dicembre 2011, 55. 24

In tal senso, per tutti, cfr. D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, Jovene, Napoli,

2003, nonché più di recente, a commento della direttiva rifiuti 2006/12/Ce, E. SCOTFORD, Trash or

treasure, cit.. Più in generale, sulla valenza (per così dire) ordinatrice dei principi cfr. G. MIELE,

Prefazione, in F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, 1911 -14, rist. Cedam, Padova, 1960; A.

ROMANO, Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del convegno celebrativo del 150°

anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983; ID., Introduzione, in Diritto

amministrativo, Moduzzi, Bologna, 2005. Infine, più di recente, A. CIOFFI, (voce) “Codificazione” e

principi generali (dir. amm.), in Dig. disc. pubbl. (aggiornamento), UTET, 2010.

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225

neppure le pretese opere di sistematizzazione della materia sono valse a restituire alla

legislazione un adeguato livello di organicità25

. Parimenti, tuttavia, il ruolo dei

principi non può essere sottovalutato neppure in quegli ordinamenti, qual è quello

inglese, in cui la legislazione si connota per una sostanziale linearità. Anche qui,

infatti, essi recano una valenza ordinatoria ed unificante, giacché forniscono la

chiave di lettura delle previsioni di legge e, per l’effetto, le riportano “a sistema”.

D’altronde, in termini complessivi, è possibile osservare come, specie negli ultimi

anni, la legislazione europea in materia di rifiuti (e, in generale, di ambiente) sia

diventata sempre più puntuale, imponendo di conseguenza agli Stati membri un

costante sforzo di adeguamento al fine di realizzare quelli che, a livello

sovrannazionale, sono stati individuati essere gli obiettivi programmatici. Non a

caso, dunque, gli atti normativi interni con cui Italia e Gran Bretagna hanno inteso

recepire la direttiva 2008/98/Ce, ossia il d. lgs. n. 205 del 2010 e le “Waste

Regulations 2011”, mostrano di condividere detti obiettivi e affermano la volontà dei

governi nazionali di impegnarsi al fine di realizzare una società “rifiuti-zero”.

Da ciò deriva che molti servizi pubblici a rete26

, in primis proprio quello relativo alla

gestione dei rifiuti urbani, hanno subito – quanto meno a livello di principio – una

25

Il riferimento è, chiaramente, al d. lgs. n. 156 del 2006, meglio noto come Codice dell’ambiente o

Testo Unico ambientale, da taluno definito persino come “un mero contenitore di norme in materia

ambientale disorganico e precario” (A. CELOTTO, Il Codice che non c’è: il diritto ambientale tra

codificazione e semplificazione, in www.giustamm.it, 2006). Sul punto, cfr. amplius i riferimenti

bibliografici riportati nel capitolo I del presente lavoro, tra cui si segnalano in particolare F.

GIAMPIETRO, Né testo unico né codice dell’ambiente … ma un unico contenitore di discipline

differenziate, in Ambiente & Sviluppo, 2006, 4, 405; M. RENNA, Semplificazione e ambiente, in Riv.

giur. ed., 2008, 1, 37. 26

Si pensi al servizio di distribuzione dell’energia elettrica e del gas nonché al servizio idrico. In

dottrina, per ciò che concerne il primo, si rinvia senza pretesa alcuna di esaustività al recente volume

di G. NAPOLITANO – A. ZOPPINI (a cura di), Annuario del Diritto dell’energia 2013. Regole e mercato

delle energie rinnovabili, Il Mulino, Bologna, 2013, nonché ai contributi di M. DE FOCATIIS - A.

MAESTRONI (a cura di), Libertà d’impresa e regolazione del nuovo diritto dell’energia, Giuffrè,

Milano, 2011 e di S. QUADRI, L’evoluzione della politica energetica comunitaria con particolare

riferimento al settore dell’energia rinnovabile, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011, 3-4, 839.

Con riguardo al servizio idrico, invece, si vedano inter alia i recenti contributi di P. CAROZZA, Vizi

privati, pubbliche virtù?, in Dir. pubbl. comp. eur., 2012, 3, 664 e di E. BOSCOLO, La disciplina

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trasformazione in chiave “ambientale”, con la fissazione di elevati standard di

sostenibilità, nonché l’imposizione di una serie per nulla risibile di obblighi, in capo

tanto all’amministrazione (che del servizio conserva in ogni caso la titolarità) quanto

al soggetto gestore27

, il cui mancato rispetto è motivo di censura da parte della

Commissione europea e della Corte di Giustizia28

.

V.3 LA DIMENSIONE ORGANIZZATIVA DEL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI

RIFIUTI URBANI

L’imposizione da parte dell’Europa di tali obblighi, dunque, ha finito per contribuire

a ridisegnare la fisionomia del servizio pubblico in esame, conferendo allo stesso una

più spiccata connotazione ambientale. Al contempo, la spinta ad una maggiore

pubblicistica delle acque tra pubblicità, tutela ecologica e distribuzione universale, in Dir. pubb.

comp. eur., 2012, 3, 682. Di quest’ultimo A., inoltre, si veda amplius Le politiche idriche nella

stagione di scarsità. La risorsa comune tra demanialità custodiale, pianificazioni e concessioni,

Giuffrè, Milano, 2012. 27

Sulla scissione pratica (e prima ancora concettuale) tra titolarità e gestione del servizio pubblico,

cfr. E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, Dig. disc. pubbl. aggiornamento, 2012. Inoltre,

sottolineano il fatto che la titolarità del servizio sia necessariamente di “pertinenza istituzionale” della

pubblica amministrazione, G. CAIA, L’organizzazione dei servizi pubblici locali. Figure, regime e

caratteristiche, in Foro amm., 1991, 3167; A. ROMANO, La concessione di un pubblico servizio, in A.

ROMANO E A. (a cura di), La Concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995; P. STELLA

RICHTER, Dall’ente pubblico all’ente a legittimazione democratica necessaria, in Foro amm. CdS,

2002, 3001. 28

In proposito appare quanto mai emblematica la nota (e già citata) vicenda dell’ “emergenza rifiuti in

Campania”, il cui inizio – ricorda la dottrina (L. BARONI, Lo sguardo vigile dell’Europa sulla

“emergenza rifiuti in Campania, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011, 6, 1095) è “convenzionalmente

fatto risalire all’11 aprile 1994 quando, con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri

[DPCM 11 febbraio 1994, in G.U. n. 35 del 12 febbraio 1994], si dichiara per la prima volta lo stato di

emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania, per un iniziale periodo di

un anno che poi sarà via via prorogato fino al 2009 quando vi è la formale dichiarazione della fine

dell’emergenza [d. lex 20 dicembre 2009 n. 195, conv. in L. 26 febbraio 2010 n. 26 in G.U. n. 48 del

27 febbraio 2010]”. In ordine a tale questione si ricordano, inter alia, CGCE 26 aprile 2007,

Commissione c. Italia, C-135/05 e CGCE 4 marzo 2010, Commissione c. Italia, C-297/08.

Per un esame della vicenda e delle problematiche ad essa relative cfr. funditus G. ARENA, Se c’è il

commissario straordinario non possono esserci i cittadini attivi, in www.labsus.org; C. BASSU,

Emergenza rifiuti a Napoli: la doppia faccia della sussidiarietà, in Riv. giur. amb., 2009, 2, 403; L.

COLELLA, La governance dei rifiuti in Campania tra tutela dell’ambiente e pianificazione del

territorio. Dalla “crisi dell’emergenza rifiuti” alla “società europea del riciclaggio”, in Riv. giur.

amb., 2010. 3-4, 493; M. GNES, Le ordinanze di protezione civile per fronteggiare l’emergenza nel

settore dello smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania, in Riv. giur. mezzogiorno, 2008, 2, 433;

A. LUCARELLI, Il governo dei rifiuti in Campania. Il jolly dell’emergenza in un coacervo di

irresponsabilità ed inefficienze, in www.federalismi.it, 2011; L. VIOLA, L’emergenza rifiuti approda

davanti al giudice amministrativo, tra effetto n.i.m.b.y. e analisi economica del diritto, in

www.giustamm.it, 2008.

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sostenibilità del servizio ha inciso anche sulla dimensione organizzativa, nella misura

in cui – ad esempio – gli obblighi di servizio pubblico si sono arricchiti di nuovi

contenuti29

. E ciò tanto in quei Paesi, qual è l’Italia, in cui l’istituto de quo costituisce

un topos del diritto amministrativo, quanto in quelle realtà – come, ad esempio,

quella inglese – in cui i servizi pubblici sono intesi prevalentemente in “senso

materiale”, vale a dire come servizi erogati in favore dei cittadini, senza che a ciò si

accompagnino studi di teoria generale.

Per tale via, dunque, i due piani – quello ambientale e quello

organizzativo/gestionale – hanno finito per confondersi, almeno in taluni casi. Infatti,

nonostante i servizi pubblici locali di rilevanza economica non siano mai stati

espressamente interessati da normative europee di diritto derivato, ad essi si

applicano innanzitutto i principi dei Trattati in materia di servizi di interesse

economico generale (SIEG), vale a dire gli artt. 14 e 106 TFUE, nonché il protocollo

n. 26 al TFUE30

. Inoltre, nei confronti degli stessi trovano altresì applicazione quei

principi e quelle regole che attengono a materie – quale l’ambiente – che pure sono

di competenza (ancorché non esclusiva) dell’Unione europea e che si pongono in

rapporto di stretta correlazione con i servizi de quibus. Dunque, se è vero che, “nella

loro essenza di missioni di interesse generale, i servizi pubblici locali sono

29

Sottolineano questo aspetto, tra gli altri, E. BONELLI, Amministrazione governance e servizi pubblici

locali. Tra Italia e Unione europea, Giappichelli, Torino, 2008; N. RANGONE, I servizi pubblici

nell’ordinamento comunitario, in Giorn. dir. amm., 2005, 5, 433; E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e

ordinamento comunitario, in S. MANGIAMELI (a cura di), I servizi pubblici locali, Giappichelli,

Torino, 2008; nonché F. GIGLIONI, Le garanzie degli utenti dei servizi pubblici locali, in Dir. amm.,

2005, 2, 353; ID., Le carte di pubblico servizio e il diritto alla qualità delle prestazioni dei pubblici

servizi, in Pol. del dir., 2003, 2, 405 e, ancor più di recente, ID., L’integrazione per differenziazione

dei servizi di interesse generale, in Giorn. dir. amm., 2012, 6, 538. 30

In tal senso G. GRUNER, Liberalizzazione e autonomie locali, in AA.VV., Atti del Convegno

“Liberalizzare o regolamentare: il diritto amministrativo di fronte alla crisi”, Copanello 29 e 30

giugno 2012, il quale ricorda anche come la stessa Corte costituzionale nella nota pronuncia C. Cost.

17 novembre 2010 n. 325 abbia chiarito che i SIEG hanno “contenuto omologo” ai servizi pubblici

locali di rilevanza economica.

Ex multis, escludono la possibilità e finanche l’opportunità di una disciplina generale di rango europeo

dei servizi pubblici locali F. GIGLIONI, L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse

generale, cit. ed A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza fra diritto comunitario e

modelli nazionali, cit., il quale ammonisce di non cadere nell’errore del “paneuropeismo”.

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tendenzialmente estranei all’intervento delle istituzioni europee”, la presenza – come

nel caso dei rifiuti – di “interessi generali europei” ha portato la disciplina

soprannazionale “a riguardare anche l’an e il quomodo del servizio pubblico

locale”31

.

In proposito, è d’uopo ricordare come ab origine la Comunità europea non avesse

una competenza specifica nella materia de qua e come per lungo tempo la stessa

abbia mostrato una sostanziale indifferenza nei confronti dei servizi pubblici,

legittimando – più o meno consapevolmente – una lettura mistificata32

dell’odierno

art. 106 TFUE.

Ciò non di meno, a partire dagli anni Ottanta e, ancora di più, dai primi anni Novanta

del secolo scorso - vale a dire da quando, su spinta della Comunità33

, a livello

nazionale ha preso avvio quel processo di generale ripensamento dell’intervento

pubblico nell’economia34

di cui si è detto nelle pagine che precedono - le istituzioni

31

In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. Al riguardo appare ancora una volta

emblematica la vicenda dell’emergenza rifiuti in Campania, cfr. nota n. 28, retro. 32

In tal senso M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale: evoluzione normativa e profili

ricostruttivi, in Dir. pubbl., 1998, 3, 981. In proposito, cfr. anche E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici

locali, cit., la quale scrive: “è noto che a livello europeo la materia dei servizi pubblici non rientri tra

le competenze (né esclusive né concorrenti) originariamente attribuite alla Comunità. La maggior

parte degli interventi comunitari in materia di servizi pubblici, che ha condotto alla liberalizzazione

dei principali servizi pubblici nazionali e all’individuazione di principi giuridici funzionali

all’introduzione della concorrenza, si è infatti fondata sulla competenza in materia di mercato interno.

E ha preso le mosse da una concezione residuale del servizio pubblico quale eccezione, limitata e

marginale, all’operare delle regole di concorrenza secondo quanto previsto dal § 2 dell’art. 106

TFUE”. 33

Emblematiche, al riguardo, le osservazioni di G. GUARINO, Pubblico e privato nella economia. La

sovranità tra Costituzione ed istituzioni comunitarie, in Quad. cost., 1992, 1, 21, dove si legge: “con

la sottoscrizione del Trattato CE, si è accettato in modo irreversibile come principio istituzionale

quello del mercato e veniamo a constatare che tale principio, a seguito dell’apertura comunitaria del

sistema, provoca il graduale ma inesorabile smantellamento sia dei poteri nei quali il principio

dell’economia mista si esprimeva, sia delle istituzioni cui l’esercizio di tali poteri aveva dato vita”. 34

In proposito, scrive R. CARANTA, Intervento pubblico nell’economia, in Dig. disc. pubbl.,

aggiornamento, UTET, 2000, “tra i tratti caratterizzanti l’ultimo decennio un posto rilevante merita

senz’altro la progressiva riduzione del ruolo e modificazione delle funzioni dello Stato – e, più in

generale, dei pubblici poteri – nel governo dell’economia. In particolare, appaiono recessive la forma

dell’intervento diretto nell’economia attraverso l’assunzione di attività imprenditoriali, nonché l’idea

stessa di direzione e pianificazione dell’economia (…). Si affermano, invece, tecniche di regolazione

del mercato, come la disciplina antitrust (…)”. Inoltre, “l’ultimo decennio ha visto l’effettivo

trasferimento di alcuni dei poteri in questione ad autorità sovrannazionali, le quali hanno posto sotto il

loro controllo ulteriori potestà pubblicistiche (…); molti istituti sono semplicemente venuti meno,

consentendo la riespansione della libertà del mercato”. Alla luce di tali avvenimenti, dunque, l’A.

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europee hanno “scoperto” i servizi pubblici35

, riconoscendo loro (quasi

improvvisamente) un ruolo di prim’ordine nella costruzione del mercato unico36

. Il

osserva come la “giuridica legittimità” degli stessi vada “innanzitutto valutata alla luce delle

disposizioni economiche contenute all’interno della nostra Costituzione e, segnatamente degli artt. 41

e seguenti del testo costituzionale”, ossia quella che viene normalmente indicata come “Costituzione

economica”.

Sul punto, oltre a rinviare a quanto più diffusamente osservato nel capitolo III del presente lavoro, si

ricordano senza pretesa di esaustività P. BILANCIA, Modello economico e quadro costituzionale,

Giappichelli, Torino, 1996; S. CASSESE (a cura di), La nuova Costituzione economica, Laterza, Bari,

2012; R. MICCÙ, Lo Stato regolatore e la nuova Costituzione economica: paradigmi di fine secolo a

confronto, in P. CHIRULLI – R. MICCÙ (a cura di), Il modello europeo di regolazione. Atti della

giornata di studio in memoria di Salvatore Cattaneo, Jovene, Napoli, 2011; E. PICOZZA, L’incidenza

del diritto comunitario (e del diritto internazionale) sui concetti fondamentali del diritto pubblico

dell’economia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1996, 1, 239; C. PINELLI, I rapporti economico sociali

fra Costituzione e Trattati europei, in C. PINELLI – T. TREU (a cura di), La Costituzione economica:

Italia, Europa, Bologna, 2010; M. RAMAJOLI, La regolazione amministrativa dell’economia e la

pianificazione economica nell’interpretazione dell’art. 41 della Costituzione, in Dir. amm., 2008, 1,

121; F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, Giappichelli, Torino, 2007; ID.,

Organizzazione economica ad iniziativa privata e organizzazione economica ad iniziativa riservata

negli articoli 41 e 43 della Costituzione, in Pol. Dir., 1992, 1, 3.

Infine, evidenziano tale aspetto con precipuo riguardo all’attività amministrativa e ai servizi pubblici

E. BRUTI LIBERATI – F. DONATI (a cura di), La regolazione dei servizi economici di interesse generale,

Giappichelli, Torino, 2010; P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione.

Dalla specialità del soggetto alla rilevanza della funzione, Cedam, Padova, 2005; F. DE LEONARDIS,

Soggettività privata e azione amministrativa, Cedam, Padova, 2000; L. DE LUCIA, La regolazione

amministrativa dei servizi di pubblica utilità, Giappichelli, Torino, 2002. 35

Si pensi all’emersione delle categorie di servizio universale e di servizio di interesse economico

generale. Detto revirement, peraltro, ha trovato forma nell’art. 16 TCe (oggi art. 14 TFUE) introdotto

nel 1997 in occasione del Trattato di Amsterdam, il quale attribuisce all’Unione europea una

competenza concorrente in materia di servizi di interesse generale. Sul punto, cfr. inter alia R.

CAVALLO PERIN, I principi come disciplina giuridica del pubblico servizio tra ordinamento interno e

ordinamento europeo, in Dir. amm., 2000, 1, 41; M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale:

evoluzione normativa e profili ricostruttivi, cit.; F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione

amministrativa, cit.; L. DE LUCIA, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità, cit.;

D. SORACE, I servizi “pubblici” economici nell’ordinamento nazionale ed europeo alla fine del primo

decennio del XX secolo, in Dir. amm., 2010, 1, 8. 36

Di qui il collegamento con il tema della concorrenza. Al riguardo, va detto che – di principio –

l’interesse dell’Unione europea per i servizi pubblici ha inciso primariamente nel senso di scardinare i

sistemi monopolistici (ove esistenti) e, dunque, aprire i servizi al mercato. Per contro, le istituzioni

europee non si sono mai espresse nel senso di escludere il “pubblico” dalla gestione di determinati

servizi, mostrandosi piuttosto abbastanza neutrali nei riguardi della natura (pubblica o privati) del

soggetto gestore (sul punto, per tutti, P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato

nell’amministrazione. Dalla specialità del soggetto alla rilevanza della funzione, cit., spec. pp. 87 e

ss.; F. GIGLIONI, L’accesso al mercato nei servizi di interesse generale. Una prospettiva per

riconsiderare liberalizzazione e servizi pubblici, Giuffrè, Milano, 2008; E. SCOTTI, Il pubblico

servizio. Tra tradizione nazionale e prospettive europee, Cedam, Padova, 2003). In ogni caso, è

nell’ambito di tale tematica che viene abitualmente inquadrata la questione della gestione c.d. in house

dei servizi pubblici. Sul punto - oltre a rinviare all’analisi e ai riferimenti bibliografici riportati nei

capitoli che precedono - per ciò che concerne la Gran Bretagna, si veda la pronuncia resa di recente

dalla Supreme Court of the United Kingdom 9 November 2011, Brent London Borough Council and

a. c. Risk Management Partners Limited, con nota di D. MINUSSI, Affidamento in house di servizi

pubblici locali: Regno Unito e Italia a confronto, in Dir. pubbl. comp. eur., IV, 2012. Per quanto

concerne l’Italia, invece, si vedano inter alia le recenti sentenze C. Cost. 3 novembre 2010 n. 325 (su

cui, tra gli altri, L. CUOCOLO, La Corte costituzionale “salva” la disciplina statale sui servizi pubblici

locali, in Giorn. dir. amm., 2011, 5, 484) e C. Cost. 20 luglio 2012 n. 199 (su cui, tra gli altri, L. R.

PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno dell’autonomia, il rispetto della disciplina

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che – come osservato da parte della dottrina – con riguardo ad alcuni servizi

“maggiori”, tra cui proprio i rifiuti, ha determinato lo “stemperarsi del carattere

locale, in un quadro più ampio di competenze e relative responsabilità”37

.

Nell’ultimo quindicennio, tuttavia, la prospettiva ha subito un ulteriore

ampliamento38

, posto che è stata sempre più valorizzata la dimensione “sociale” dei

servizi pubblici39

. Efficienza, accessibilità, qualità del servizio, infatti, sono assurti al

rango di valori imprescindibili e di fattori fondamentali “per la qualità della vita dei

cittadini europei nonché per l’ambiente e la competitività delle imprese europee”40

.

europea, la funzionalizzazione alle aspettative degli utenti, in Giur. it., 2013, 3, 679). Inoltre, per una

lettura critica della pronuncia da ultimo citata e, più in generale, dell’inquadramento della

problematica dell’in house nell’ambito della concorrenza intesa in senso europeo cfr. F. TRIMARCHI

BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto dell’Unione europea e nella

Costituzione (all’indomani della dichiarazione di illegittimità delle norme sulla gestione dei servizi

pubblici economici), in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2012, 5, 723. 37

In tal senso E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 38

Sulla necessità di una costante rivisitazione della disciplina dei servizi di interesse generale da parte

dell’Unione europea F. GIGLIONI, L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse generale,

cit., che imputa detto bisogno “all’intrinseca quota di politicità che (...) caratterizza” la disciplina in

questione e che al contempo osserva anche come “la periodica necessità di tornare a riconsiderare i

servizi di interesse generale rappresent[i] però anche l’indizio di una problematicità che è collegata

all’incertezza del quadro disciplinare, avvertita tanto dagli Stati membri quanto dagli operatori”. In

senso analogo, inoltre, F. TRIMARCHI BANFI, Considerazioni sui “nuovi” servizi pubblici, in Riv. it.

dir. pubbl. comunit., 2002, 5, 950. 39

Sul punto, tra gli altri, L. DE LUCIA, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità,

cit.; F. GIGLIONI, Le garanzie per gli utenti, in S. MANGIAMELI (a cura di), I servizi pubblici locali,

Giappichelli, Torino, 2008; M. RAMAJOLI, La tutela degli utenti nei servizi pubblici a carattere

imprenditoriale, in Dir. amm., 2000, 2, 383; nonché E. BONELLI, Amministrazione governance e

servizi pubblici locali, cit.. Quest’ultimo, in particolare, osserva: “la questione che viene in luce è

proprio quella della portata economica e della natura sociale del settore dei servizi pubblici locali.

Indubbiamente le attività di erogazione dei servizi in oggetto sono attività di grande rilievo

economico, che potrebbero anche essere svolte da privati con fini di lucro (…). Accanto a questo

contenuto [economico], le medesime attività presentano una rilevanza sociale che è altrettanto

indiscutibile; la distribuzione sul territorio di risorse fondamentali addirittura per la sopravvivenza

umana (l’acqua potabile, per indicarne una) condizione l’accesso dei cittadini al primo diritto umano,

cioè al diritto alla vita (…). La stretta ed indissolubile connessione fra l’erogazione dei servizi in

questione e l’accesso ai diritti umani e sociali [,pertanto,] non può essere ignorata, anche a fronte del

contenuto economico delle attività in cui la prestazione del servizio si sostanzia”. 40

Così E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., ma anche E. BONELLI,

Amministrazione governance e servizi pubblici locali, cit.; e F. GIGLIONI, L’integrazione per

differenziazione dei servizi di interesse generale, cit.. In proposito, peraltro, si ricorda che in

occasione del Trattato di Amsterdam è stato introdotto l’art. 16 TCe dove si sottolinea il ruolo che i

servizi di interesse economico generale rivestono si fini della coesione sociale e territoriale, e che

l’art. 36 della Carta di Nizza (oggi recante valore giuridico vincolante ex art. 6 TUE) sollecita

l’Unione a riconoscere e rispettare l’accesso ai servizi di interesse economico generale, così come

disciplinato dalle legislazioni nazionali (A. LUCARELLI, Art. 36. Accesso ai servizi di interesse

economico generale, in R. BIFULCO – M. CARTABIA – A. CELOTTO (a cura di), L’Europa dei diritti, Il

Mulino, Bologna, 2001).

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Su questi valori l’Europa pone sempre più spesso l’accento41

, spingendo

conseguentemente gli Stati membri ad innalzare il livello qualitativo dei servizi

anche locali, compreso quindi quello di gestione dei rifiuti. Da un lato, dunque, non è

un caso se – ad esempio – nel documento varato dal Governo inglese e denominato

“Government Waste Policy Review 2011” si afferma la necessità di aiutare le

comunità locali nello sviluppo e nella messa in pratica di soluzioni consone ad

un’ottimale gestione dei rifiuti, al fine di “raggiungere il giusto equilibrio tra qualità

del servizio, ambiente e costi (…)”42

. Mentre, dall’altro lato, non stupisce che l’Italia

sia stata ripetutamente condannata per la mala gestio dei rifiuti in Campania43

.

41

Da ultimo, ad esempio, si ricorda la Comunicazione della Commissione europea 20 dicembre 2011

COM(2011) 900 sui servizi di interesse generale, per un commento alla quale cfr. F. GIGLIONI,

L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse generale, cit. Indicazioni in tal senso, però,

si rinvengono anche nelle discipline di settore, quale - ad esempio – quella relativa ai rifiuti contenuta

nella direttiva 2008/98/Ce. Qui, in particolare, si vedano il VI considerando, dove si legge che

“l’obiettivo principale di qualsiasi politica in materia di rifiuti dovrebbe essere di ridurre al minimo le

conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente”, o

il XXX considerando, a mente del quale “ai fini dell’attuazione dei principi della precauzione e

dell’azione preventiva di cui all’articolo 174, paragrafo 2 del trattato, occorre fissare obiettivi

ambientali generali per la gestione dei rifiuti all’interno della Comunità. In virtù di tali principi, spetta

alla Comunità e agli Stati membri stabilire un quadro per prevenire, ridurre e, per quanto possibile,

eliminare dall’inizio le fonti di inquinamento o di molestia mediante l’adozione di misure grazie a cui

i rischi riconosciuti sono eliminati”. 42

Government Waste Policy Review 2011, p. 11 (www.defra.gov.uk/environment/waste).

43 Sul punto, oltre a rinviare alle indicazioni bibliografiche contenute nella nota n. 28, retro, si ricorda

che l’Italia è stata condannata sia dalla Corte di Giustizia (da ultimo con la sentenza CGUE 4 marzo

2010, Commissione europea c. Italia, C-297/08) per violazione degli artt. 4 e 5 della direttiva

2006/12/Ce che dalla Corte EDU (CEDU 10 gennaio 2010, Di Sarno e a. c. Italia, ric. n. 30765/08)

per violazione degli artt. 8 e 13 della Convenzione europea (al riguardo, sia consentito rinviare a C.

FELIZIANI, Il diritto fondamentale all’ambiente salubre nella recente giurisprudenza della Corte di

Giustizia e della Corte EDU in materia di rifiuti. Analisi di due approcci differenti, in Riv. it. dir.

pubbl. comunit., 2012, 6, 999). Per ciò che riguarda in particolare l’aspetto organizzativo del servizio

de quo, si ricorda che nella pronuncia della Corte di Giustizia, tra le altre cose, è possibile leggere: “In

conformità all’art. 5, n. 1, della direttiva 2006/12, gli Stati membri devono adottare le misure

appropriate per la creazione di una rete integrata ed adeguata di impianti di smaltimento dei rifiuti che

consenta, da un lato, alla Comunità nel suo insieme di raggiungere l’autosufficienza in materia di

smaltimento dei rifiuti e, dall’altro, ai singoli Stati membri di mirare al conseguimento di tale

obiettivo. A tal fine, gli Stati membri devono tener conto del contesto geografico o della necessità di

impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti (p. 61). Per istituire detta rete, gli Stati membri

dispongono di un margine di discrezionalità nella scelta della base territoriale che ritengono adeguata

per conseguire un’autosufficienza nazionale in termini di capacità di smaltimento dei rifiuti, e così

permettere alla Comunità di assicurare essa stessa lo smaltimento dei rifiuti (p. 62). […] allorché uno

Stato membro ha scelto (…) di organizzare la copertura del suo territorio su base regionale, occorre

dedurne che ogni regione dotata di un piano regionale debba garantire, in linea di principio, il

trattamento e lo smaltimento dei suoi rifiuti il più vicino possibile al luogo in cui vengono prodotti”.

Orbene, nel caso di specie la Corte ha osservato che “la Repubblica italiana ha essa stessa operato la

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Infatti, pur riconoscendo che la direttiva rifiuti “non precis[a] il contenuto concreto

delle misure che debbono essere adottate per assicurare che i rifiuti siano smaltiti

senza pericolo per la salute dell’uomo e senza recare pregiudizio all’ambiente”44

, la

Corte di Giustizia ha ritenuto che il persistere di una situazione di grave degrado

ambientale può dirsi sintomatica del fatto che lo Stato ha ampiamente oltrepassato la

soglia del potere discrezionale di cui dispone45

.

La descritta esigenza di assicurare servizi di qualità elevata, per quanto concerne sia

il profilo organizzativo che quello ambientale, porta dunque quasi inevitabilmente a

riscoprire – in Italia così come in Inghilterra – la dimensione locale dei servizi

medesimi, ossia l’ancoraggio di questi ultimi al contesto in cui devono essere

espletati, ai soggetti che ne dovranno usufruire e a quelli che sono chiamati ad

erogarli. In altri termini, all’interno degli Stati membri sembra emergere “oggi,

preponderante, un’esigenza di ragionevolezza e di differenziazione”, vale a dire il

scelta di una gestione dei rifiuti a livello della regione Campania in quanto «ambito territoriale

ottimale»” (p. 69) e che “una carenza importante nella capacità di tale regione di eliminare i suoi

rifiuti è tale da compromettere seriamente la capacità di detto Stato membro di perseguire l’obiettivo

dell’autosufficienza nazionale” (p. 70). Dunque, escludendo che l’ostilità dei cittadini, la criminalità

organizzata e gli inadempimenti contrattuali da parte delle imprese incaricate della costruzione degli

impianti di smaltimento possano costituire cause di forza maggiore, la Corte ha concluso che “la

Repubblica italiana, non essendosi assicurata che (…) detta regione disponesse di un numero di

impianti sufficiente a consentirle di smaltire i suoi rifiuti urbani nelle vicinanze del luogo di

produzione, è venuta meno all’obbligo su di essa incombente di creare una rete adeguata ed integrata

di impianti di smaltimento che le consentissero di perseguire l’obiettivo di assicurare lo smaltimento

dei suoi rifiuti e, di conseguenza, ha violato gli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 5 della

direttiva 2006/12” (p. 88).

44 Così CGUE 4 marzo 2010, Commissione europea c. Italia, cit. p. 96. Relativamente alla violazione

dell’art. 4 della direttiva rifiuti 2006/12/Ce, pertanto, la Corte di Giustizia ha concluso che “gli

elementi addotti dalla Repubblica italiana nell’ambito del presente ricorso, per provare che tale

situazione non ha avuto in pratica alcuna conseguenza o, per lo meno, ha avuto solo minime

ripercussioni sulla salute delle persone, non sono tali da confutare la constatazione secondo cui la

situazione preoccupante di accumulo di rifiuti nelle strade ha esposto la salute della popolazione ad un

rischio certo, in violazione dell’art. 4, n. 1, della direttiva 2006/12” (p. 111). 45

Scrive, infatti, G. GRUNER, Liberalizzazione e autonomie locali, cit. che “in considerazione

dell’importanza di tali servizi nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo

decisivo nella promozione della coesione sociale e territoriale, è riconosciuta ampia discrezionalità

agli Stati membri in ordine alla individuazione dei servizi che intendono assumere come s.i.e.g., con

l’unico limite, sindacabile dalle istituzioni europee, del così detto “errore manifesto”. Laddove un

determinato servizio sia stato legittimamente assunto come s.i.e.g., le autorità pubbliche sono

sostanzialmente libere di scegliere non solo come organizzarlo, ma anche come gestirlo (…)”.

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bisogno di “valorizzare – nel contempo responsabilizzando – l’autonomia territoriale,

ancorando le scelte degli enti locali ad un effettivo rispetto dei principi di efficienza

ed economicità della gestione dei servizi, in vista degli interessi dei cittadini”46

.

V.4 VERSO LA (RI)SCOPERTA DEI PRINCIPI DI ADEGUATEZZA, DIFFERENZIAZIONE E

AUTONOMIA

Se, dunque, c’è stato un tempo in cui – superata la fase di “sostanziale agnosticismo”

dell’Unione europea nei confronti dei servizi pubblici – sembrava che questi ultimi

dovessero essere disciplinati in toto da una normativa unitaria di rango

sovrannazionale, al fine si garantire il pieno esplicarsi delle dinamiche di mercato47

;

oggi sembrerebbe potersi dire che si sta (ri)affermando una diversa tendenza, incline

a tener conto “della eterogeneità dei servizi pubblici locali nei diversi ordinamenti

46

In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 47

A titolo meramente esemplificativo, si ricorda che con nota 26 giugno 2002 la Commissione

europea avviava una procedura di infrazione nei riguardi dello Stato italiano, contestando a

quest’ultimo di non aver assicurato la piena concorrenza nel settore dei servizi pubblici. Nella nota, tra

le altre cose, si leggeva infatti: “la Commissione constata che il quadro normativo introdotto

dall’articolo 35 della legge 448/2001 continua a consentire numerose ipotesi di affidamento diretto del

servizi pubblici locali oggetto di tale disposizione, senza il rispetto dei più volte richiamati principi di

pubblicità e di messa in concorrenza e, laddove applicabili, delle norme di pubblicità e di

partecipazione delle direttive 92/50/CEE e 93/38/CEE. Se da un lato, infatti, il testo del nuovo

paragrafo 5 dell’articolo 113 del D. lgs. 267/2000 prevede la regola generale dell’affidamento

dell’erogazione dei servizi di rilevanza industriale attraverso l’espletamento di gare con procedure ad

evidenza pubblica, d’altro lato occorre sottolineare che tale principio non è stato introdotto

dall’articolo 35 della legge 448/2001 per quanto concerne l’affidamento della gestione di reti, impianti

e altre dotazioni patrimoniali in caso di separazione fra le due attività. In secondo luogo la legge in

discorso fa salvi, per la durata del periodo transitorio da essa previsto, gli affidamenti diretti effettuati

in passato in violazione del diritto comunitario. In terzo luogo l’articolo 35 in questione prevede un

regime derogatorio ai principio della concorrenza per il mercato nel settore del servizio idrico

integrato. Infine gli affidamenti diretti, senza il rispetto di alcuna forma di messa in concorrenza

costituiscono, ai sensi del paragrafo 15 del menzionato articolo 35, la regola generale in materia di

gestione dei servizi pubblici definiti “privi di rilevanza industriale”. In definitiva, dunque, la

Commissione in tale occasione ha ritenuto che “la Repubblica Italiana, adottando le disposizioni di cui

all’articolo 35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 ed, in particolare, ai suoi commi 1 (nella parte

relativa al nuovo paragrafo 4 dell’articolo 113 del Decreto legislativo n. 267/2000), 2, 3, 4, 5 e 15, ha

violato gli obblighi che Le incombono in virtù della direttiva 92/50 CE e della direttiva 93/38/CEE ed

altresì in virtù degli articoli 43 e seguenti e 49 e seguenti del Trattato CE”.

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234

nazionali”48

. Infatti, non solo – si osserva – “l’apertura alla concorrenza non può

prescindere dalla garanzia dell’universalità”49

, ma la necessità di garantire servizi

accessibili e di qualità elevata, tanto dal punto di vista dell’efficienza quanto da

quello della sostenibilità ambientale, lascia (ri)affiorare all’interno degli Stati

membri un bisogno di differenziazione (oltre che, ovviamente, di adeguatezza) e,

dunque, in ultima analisi di autonomia50

.

Orbene, se l’adeguatezza postula l’idoneità organizzativa dell’amministrazione a

garantire l’esercizio delle funzioni ad essa conferite e se con il termine

differenziazione si ha riguardo all’opportunità di “allocare le funzioni amministrative

in considerazione delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche,

territoriali e strutturali degli enti riceventi”51

, allora il concetto di autonomia deve

48

Così A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza fra diritto comunitario e modelli

nazionali, in G. FALCON (a cura di), Il diritto amministrativo dei Paesi europei tra omogeneizzazione

e diversità culturali, Cedam, Padova, 2005. Qui si legge, infatti, che “in tutti i Paesi europei

l’aggregazione economica ha favorito l’affermazione di baricentri centralistici rispetto a servizi che

originariamente erano locali: molti servizi sono diventati così grandi servizi (si pensi ai servizi

dell’energia (....) e della raccolta e smaltimento dei rifiuti)”. Tuttavia – prosegue Travi – non possiamo

sottacere che “le varietà nazionali rispecchiano una varietà di tradizioni. Fra esse è certamente centrale

il radicamento dei poteri locali, che è decisive per la stretta relazione che si instaura fra le

amministrazioni e i servizi alle rispettive comunità. In questo quadro il servizio locale “minore”

diventa sempre più un ambito ancorato alla disciplina istituzionale delle amministrazioni locali”.

Più in generale, una critica nei confronti di detti “baricentri centralistici” si rinviene in G. BUCCI, Stato

democratico – sociale e “bonapartismo mercatista”, in G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI,

Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, vol. V,

Jovene, Napoli, 2009, dove si legge: “le decisioni che riguardano la collettività sono assunte da vertici

lontano privi di legittimazione democratica e l’area delle scelte affidate alla politica e alla

partecipazione effettiva dei cittadini – lavoratori (art. 3, secondo comma, Cost.) si riduce

progressivamente. Gli Stati sono avviluppati in reti transnazionali ed appaiono dipendenti dal risultati

politici conseguiti a seguito di trattative svolte in condizioni di distribuzione asimmetrica del potere.

Devono, pertanto, adattarsi alle limitazioni imperative dei mercati deregolati ed accettare una

diseguaglianza crescente nella distribuzione del prodotto sociale”. 49

E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 50

Non a caso, in proposito, M. RENNA, I principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, in

M. RENNA – F. SAITTA, Principi del diritto amministrativo, cit., scrive: “non si può pensare di

valorizzare l’autonomia degli enti locali, senza al contempo preoccuparsi di assicurare l’efficace e

l’efficienza dell’amministrazione; si tratterebbe altrimenti, a ben vedere, di una finta valorizzazione,

tale addirittura da nuocere all’autonomia locale”. 51

In tal senso M. RENNA, I principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, cit., che – a sua

volta – cita le definizione di adeguatezza e differenziazione contenute, rispettivamente, nell’art. 4,

terzo comma, lett. g) ed h) della L. n. 59 del 1997.

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intendersi qui in senso relazionale52

ed istituzionale, vale a dire come “capacità di un

soggetto pubblico di avere un proprio indirizzo politico–amministrativo,

individuando autonomamente gli interessi da perseguire e godendo di propria

capacità finanziaria ed organizzativa”53

.

Al riguardo, preme osservare come – diversamente da quanto rilevato per i profili

strettamente ambientali della materia de qua – si registri una sensibile divergenza tra

Italia e Gran Bretagna. Infatti, benché quest’ultima, salvo sparuti tentativi di riforma,

abbia conosciuto un modello di governo piuttosto centralizzato, caratterizzato dalla

“pratica indisponibilità da parte del Local Government dell’autonoma

determinazione delle modalità organizzative necessarie al perseguimento degli

interessi pubblici della comunità locale”54

, di recente si sono registrati alcuni

significativi fermenti di cambiamento. In particolare, per ciò che concerne il servizio

di gestione dei rifiuti urbani il Governo ha sottolineato l’opportunità di riequilibrare

le responsabilità tra l’Environment Agency e le autorità locali – che del servizio sono

52

Tra le molteplici accezioni di autonomia, qui interessa quella messa in luce da A. ROMANO, (voce)

Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. disc. pubbl., UTET, 1987 che, muovendo dal “piano della

teoria generale” e assumendo la “prospettiva essenzialmente giuridica della teoria istituzionale”,

descrive tale istituto come “una situazione all’interno di un rapporto, di una relazione. Più

brevemente, l’autonomia come rapporto, come relazione”.

In ordine al principio di autonomia si vedano, inter alia, anche R. BIFULCO, Art. 5, in R. BIFULCO – A.

CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006, 132 e F.

MANGANARO, Il principio di autonomia, in M. RENNA – F. SAITTA, Principi del diritto

amministrativo, Giuffrè, Milano, 2012. Inoltre, tra i “classici” cfr. G. BERTI, Art. 5, in G. BRANCA (a

cura di), Commentario della Costituzione, I, 1975, 277; M. S. GIANNINI, (voce) Autonomia (teoria

generale e diritto pubblico), in Enc. dir., IV, Milano, 1959; ID., Autonomia, Riv. trim. dir. pubbl.,

1951, 852; T. GROPPI – M. OLIVETTI (a cura di), La Repubblica delle autonomie, Giappichelli, Torino,

2003; G. MIELE, Principi di diritto amministrativo, Cedam, Padova, 1953; S. ROMANO, Autonomia, in

ID., L’ordinamento giuridico, Firenze, 1946; R. PEREZ, Autonomia finanziaria degli enti locali e

disciplina costituzionale, in AA. VV., Studi in onore di Alberto Romano, vol. III, Ed. Sc., 2011, 2233;

G. ZANOBINI, Caratteri particolari dell’autonomia, in AA. VV., Studi di diritto pubblico in onore di

O. Ranelletti, Padova, 1931, II, 391. 53

In tal senso F. MANGANARO, Il principio di autonomia, cit., il quale ricorda come “gli studi della

seconda metà del Novecento [abbiano svelato] l’insufficienza della tradizionale teoria che radica

l’unità statale nell’uniformità organizzativa della pubblica amministrazione”. Di qui, l’attività

amministrativa - letta “come soddisfacimento dei bisogni sociali collettivi”- è stata configurata come

“amministrazione differenziata sul territorio, poiché le collettività locali esprimono esigenze diverse,

non omologabili in un paradigma normativo ed organizzativo unitario”. Ciò non toglie, tuttavia,

l’opportunità di ricercare adeguati strumenti di coordinamento tra i vari livelli di Governo, come

evidenziato da L. CUOCOLO, La tutela della salute tra neoregionalismo e federalismo. Profili di diritto

interno e comparato, Giuffrè, Milano, 2005, spec. pag. 262 e ss.. 54

L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, in Dir. pubbl. comp. eur., 2001, 788.

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titolari – favorendo una maggiore cooperazione tra gli stessi soggetti55

, al fine di

garantire un servizio efficiente e di qualità elevata.

Viceversa nel nostro Paese, benché – specie dopo la riforma del Titolo V Cost. nel

2001 – l’ordinamento costituzionale riconosca e valorizzi (almeno formalmente) le

autonomie locali, di fatto si ha una situazione di stallo per ciò che concerne il reale

riparto delle competenze legislative e amministrative tra centro e periferia. Di ciò v’è

traccia nella copiosa giurisprudenza del Giudice delle Leggi circa l’actio finium

regundorum ex art. 117 Cost. in materia di ambiente56

e concorrenza57

(pertugio,

quest’ultimo, attraverso cui il legislatore statale tenta di regolare i servizi pubblici),

nonché, per quanto qui rileva, soprattutto nell’instabilità normativa che da alcuni

anni caratterizza i servizi pubblici locali. Come si è cercato di mettere in luce nelle

pagine che precedono, infatti, a partire dall’adozione dell’art. 23 bis del d. l. n. 112

del 2008 il legislatore italiano è sembrato voler comprimere “la libertà di scelta degli

enti locali in ordine alle modalità di gestione dei servizi in esame, al fine –

consentito, ma non imposto, dall’ordinamento europeo – di realizzare [la] massima

concorrenzialità per il mercato”58

. Tale “frenesia” normativa, unita al tentativo di

55

Sul punto si veda la “Government Waste Policy Review”, specialmente pagg. 37 – 38. 56

Al riguardo si rinvia, senza pretesa alcuna di esaustività, a A. CIOFFI, L’ambiente come materia

dello Stato e come interesse pubblico. Riflessioni sulla tutela costituzionale e amministrativa a

margine di Corte Cost. n. 225 del 2009, in Riv. giur. amb., 2009, 6, 970; F. COSTANTINO, Il Titolo V

alla luce della giurisprudenza costituzionale sulla tutela dell’ambiente, in AA. VV., Studi in onore di

Alberto Romano, vol. III, Ed. Sc., Napoli, 2011, 2233; L. CUOCOLO, Le energie rinnovabili tra Stato e

Regioni. Un equilibrio instabile tra mercato, autonomia e ambiente, Giuffrè, Milano, 2011, spec. pag.

23 e ss.; F. ELEFANTE, La materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” e il riparto delle

competenze legislative ed amministrative in materia ambientale tra Stato e Regioni, in AA. VV., Studi

in onore di Vincenzo Atripaldi, Jovene, Napoli, 2010; F. DE LEONARDIS, La Corte costituzionale sul

codice dell’ambiente tra moderazione e disinvoltura, in Riv. giur. ed., 2009, 7, 1455; F. FRACCHIA, La

“materia ambiente” nel testo del Titolo V, in www.federalismi.it, 2002; P. MADDALENA, La

giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di tutela e fruizione dell’ambiente e le novità sul

concetto di “materia”, sul concorso di più competenze sullo stesso oggetto e sul concetto di materia,

in Riv. giur. amb., 2010, 5, 685; M. RENNA, L’allocazione delle funzioni normative e amministrative,

in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. 57

Sul punto, da ultimo, C. Cost. 20 luglio 2012 n. 200 in Giur. it. 2013, 3, 674 con nota di G. CORSO,

La liberalizzazione dell’attività economica non piace alle Regioni. Nota alla sentenza della Corte

cost. n. 200/2012. 58

Così G. GRUNER, Liberalizzazioni e autonomie locali, cit..

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ridurre i margini di autonomia degli enti locali, è per giunta ulteriormente esasperata

con riguardo al profilo organizzativo del servizio di gestione dei rifiuti urbani, stante

l’incerta sorte delle Autorità d’ambito e i dubbi, a tutt’oggi solo in parte chiariti,

circa i loro succedanei.

Con riguardo a questa sostanziale “involuzione del sistema” italiano, tuttavia, si

sottolinea come il problema giuridico di fondo attenga – al di là delle apparenze –

alla individuazione di quale sia, in forza dei principi costituzionali, l’ente territoriale

che deve ritenersi competente”59

ad assumere le scelte di tipo gestionale ed

organizzativo. Il referendum del 2011 ha mostrato che, stando alla volontà popolare,

dette scelte spettano agli enti locali. E benché il legislatore abbia provato ad ignorare

l’opinione dei cittadini, la Corte costituzionale nel luglio del 2012 ha inteso riportare

un po’ di ordine, dichiarando l’illegittimità dell’art. 4 del d. l. n. 138 del 2011 e

ammonendo “che la tutela della concorrenza è soltanto una competenza legislativa;

certo particolarmente forte, ma non a tal punto da imporsi – di per sé – su

qualsivoglia altro bene pure costituzionalmente garantito”60

, quale l’autonomia di

Regioni ed enti locali in ordine all’offerta dei servizi pubblici locali.

Più in generale, può dirsi che lo studio sin qui condotto ha mostrato come si stia

palesando l’opportunità che gli Stati membri e – all’interno di questi ultimi – gli enti

territoriali, tornino a valorizzare la propria capacità decisionale e quei margini di

autonomia che ancora sono di loro pertinenza, al fine di “adeguare l’organizzazione

pubblica all’assetto sociale”61

in cui gli stessi sono chiamati ad operare. Parte della

dottrina, infatti, ha osservato che l’uniformità normativa di per sé non è

necessariamente sinonimo di eguaglianza. Al contrario, la stessa rischia sovente di

59

Così G. GRUNER, Liberalizzazioni ed autonomie locali, cit.. 60

In questi termini, G. GRUNER, Liberalizzazioni ed autonomie locali, cit.. 61

Così F. BENVENUTI, Per una nuova legge comunale e provinciale, in Scritti giuridici, II, Giuffrè,

Milano, 2006, 1747 e ss..

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dare adito a una sostanziale irresponsabilità62

e a “effettive disuguaglianze

nell’esercizio della funzione e nella gestione dei servizi”63

, come testimoniato dal

caso emblematico della lunga “emergenza rifiuti” in Campania.

D’altra parte, la spinta verso una maggiore differenziazione e verso una più marcata

valorizzazione del ruolo degli enti locali nell’organizzazione dei servizi pubblici non

sembra di principio osteggiata dall’Unione europea, né alla stessa sembrano opporsi

le ragioni connesse alle esigenze di tutela ambientale.

Dal primo punto di vista, si deve osservare come l’UE – pur cercando di promuovere

l’integrazione tra i diversi regimi giuridici nazionali – non abbia mai negato a priori

il proprio favor nei confronti degli enti locali64

. Anzi, con specifico riguardo al

settore in argomento, parte della dottrina rileva come “proprio il rispetto per le

competenze degli enti locali [sia] alla base dell’approccio dell’Unione europea ai

62

In M. RENNA, I principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, cit., ad esempio, si legge:

“la circostanza che tali principi nel nostro ordinamento siano ancora ampiamente inattuati costituisce,

evidentemente, un importante fattore di deresponsabilizzazione, nonché causa di inefficacia e di

inefficienza, della pubblica amministrazione”. 63

In tal senso M. D’ORSOGNA, Principio di eguaglianza e differenziazioni possibili nella disciplina

delle autonomie territoriali, in F. MANGANARO E A. (a cura di), Principi generali del diritto

amministrativo ed autonomie territoriali, Giappichelli, Torino, 2007. Analogamente, cfr. F. ASTONE E

A., Le disuguaglianze sostenibili dei sistemi autonomistici multilivello, Giappichelli, Torino, 2006; D.

D’ORSOGNA, Note su uguaglianza e differenziazione nella discipline delle autonomie territoriali, in

AA.VV., Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, vol. II, Attività, organizzazione, servizi, Cedam,

Padova, 2007, 299; A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza fra diritto comunitario

e modelli nazionali, cit., il quale osserva come sia insensato pretendere di ridurre ad unità ciò che è

ontologicamente diverso. Inoltre – a suffragio della propria tesi – l’A. porta taluni esempi mutuati

dalle esperienze di altri Paesi. Si legge, dunque, che “l’esperienza francese mostra (...) che il diritto

nazionale della concorrenza, nell’ambito dei servizi locali a carattere economico, può svolgere un

ruolo incisive, anche senza la necessità di richiamare il diritto comunitario con tutte le sue ragioni di

omogeneizzazione fra i Paesi dell’Unione. In Inghilterra l’approccio fondato su una verifica rigorosa

dell’efficienza nella gestione del servizio sembra aver prodotto un analogo equilibrio fra le aspettative

degli enti locali e gli operatori private: anche in questo caso lo svolgimento è stato estraneo al diritto

comunitario”. 64

Al riguardo si veda il recentissimo lavoro di N. RANGONE – J. ZILLER (a cura di), Politiche e

regolazioni per lo sviluppo locale sostenibile. Il Patto dei Sindaci, ES, Napoli, 2013. Inoltre, cfr. inter

alia C. IAIONE, Le società in house. Contributo allo studio dei principi di auto-organizzazione e auto-

produzione degli enti locali, II ed., Jovene, Napoli, 2012; V. PARISIO, Europa delle autonomie locali e

principio di sussidiarietà: “la Carta europea delle autonomie locali”, in Foro amm., 1995. 9, II,

2124; E. PICOZZA, I servizi pubblici locali e le loro forme di gestione con riguardo al regime di diritto

comunitario, nazionale e regionale, in N. rass. lgg., 1995, 1005; A PIOGGIA, Servizi pubblici e

autonomia locale: i limiti del diritto interno e del diritto comunitario, in Riv. giur. quad. pubbl. serv.,

1999, 103; F. PIZZETTI, Le autonomie locali e l’Europa, in Le Regioni, 2002, 5, 935.

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servizi pubblici locali”65

. In tal senso sembrano deporre – ad esempio – l’art. 14

TFUE66

, così come il Protocollo sui Servizi d’interesse generale67

e la direttiva

2006/123/Ce68

, nonché – ancor più di recente – la Comunicazione della

Commissione europea sulla qualità dei servizi di interesse generale69

.

Quest’ultima, in particolare, conferma la nuova linea di indirizzo della Commissione,

“più attenta alla dimensione sociale e alla differenziazione disciplinare tra Stati

membri e tra servizi”, come traspare anche dal nuovo Atto per il mercato unico

approvato agli inizi del 201170

. Da un’analisi complessiva, infatti, emerge che la

Comunicazione sembra riconoscere un maggiore spazio di autonomia in capo agli

Stati membri, sulla base dell’assunto per cui “la realizzazione del mercato unico non

dipende esclusivamente dal rispetto delle regole di concorrenza, ma anche

65

Così E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 66

L’art. 14 TFUE (già art. 16 TCe, introdotto in occasione del Trattato di Amsterdam) dispone che

“fatti salvi l’articolo 4 del trattato sull’Unione europea e gli articolo 93, 106 e 107 del presente

trattato, in considerazione dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei

valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e

territoriale, l’Unione e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di

applicazione dei trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in

particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti. Il Parlamento

europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti e secondo la procedura legislativa ordinaria,

stabiliscono tali principi e fissano tali condizioni, fatta salva la competenza degli Stati membri, nel

rispetto dei trattati, di fornire, fare conseguire e finanziare tali servizi”. 67

Il Protocollo n. 26 al Trattato di Lisbona relativo ai servizi di interesse generale afferma – tra le altre

cose - che i “valori comuni dell’Unione” nella materia de qua comprendono: “il ruolo essenziale e

l’ampio potere discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e

organizzare servizi di interesse economico generale il più vicini possibile alle esigenze degli utenti; la

diversità tra i vari servizi di interesse economico generale e le differenze delle esigenze e preferenze

degli utenti che possono discendere da situazioni geografiche, sociali e culturali diverse; un alto

livello di qualità, sicurezza e accessibilità economica, la parità di trattamento e la promozione

dell’accesso universale e dei diritti dell’utente”. 68

La Direttiva 2006/123/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai

servizi nel mercato interno “lascia impregiudicata la libertà per gli Stati membri di definire (…) quali

essi ritengano essere servizi di interesse generale (…) e a quali obblighi specifici essi debbano essere

soggetti (…)”. 69

Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e

sociale europeo e al Comitato delle Regioni, 20 dicembre 2011 COM (2011) 900. Una disciplina di

qualità per i servizi di interesse generale in Europa, per un commento alla quale cfr. F. GIGLIONI,

L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse generale, cit., il quale puntualizza come

“gli effetti meramente dichiarativi che si riconducono a tale atto non [debbano] tuttavia indurre a

sottovalutarne la portata”. 70

Così F. GIGLIONI, L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse generale, cit., il quale

richiama la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato

economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, L’Atto per il mercato unico, COM(2011)

206.

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dall’efficacia [e dalla qualità] dei servizi”71

. In definitiva, può dirsi avvalorata l’idea

per cui le differenziazioni nazionali non costituiscono una minaccia per

l’integrazione europea se restano entro i limiti definiti dall’ordinamento europeo, ma

anzi sono uno strumento aggiuntivo di governo per il miglioramento della loro

efficacia e anche per lo sviluppo competitivo del sistema”72

.

Quanto, poi, alle esigenze connesse con la tutela del bene ambiente – profilo che,

come evidenziato nelle pagine che precedono, interessa ampiamente molti servizi

pubblici – neppure queste sembrerebbero valere da sole ad escludere la capacità degli

Stati membri e dei governi locali di provvedere ad organizzare con margini di

autonomia quei servizi che recano una spiccata connotazione ambientale, tra cui in

particolare quello di gestione dei rifiuti urbani.

Nonostante, infatti, si affermi spesso che “delle questioni ambientali (…) si debbano

occupare in primis le amministrazioni di livello internazionale” o sovrannazionale73

,

parte delle dottrina osserva come, viceversa, tanto il diritto positivo quanto la

71

In tal senso, di nuovo, F. GIGLIONI, L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse

generale, cit., che prosegue scrivendo: “tali cambiamenti vanno nella direzione di attribuire

complessivamente maggiore autonomia alle pubbliche amministrazioni, dotandole di ampia

discrezionalità anche nel gestire i rapporti con i soggetti privati per la fornitura di servizi pubblici. I

servizi di interesse generale diventano così occasione per gli Stati membri di impostare politiche

economiche attive, preordinate al perseguimento di interessi generali che allentano la rigida

osservanza delle regole di concorrenza se questo appare giustificato dalla natura e dalla qualità del

servizio”. 72

Ancora F. GIGLIONI, L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse generale,

cit.,secondo cui dal documento in esame emerge che la “la differenziazione nazionale non solamente è

tollerata, ma ampliata e ricercata. (…) Date le implicazioni culturali, sociali e di tradizioni giuridiche

che sono insite nei servizi di interesse generale, l’UE si prefigge di utilizzare gli Stati membri per

conseguire i propri obiettivi lì dove un intervento di omogeneizzazione, quale potrebbe derivare

dall’estensione delle regole dei contratti di appalto e del divieto di aiuti di stato, produrrebbe un

effetto opposto a quello desiderato. E’ una forma di integrazione che si base sull’esaltazione della

differenziazione: gli Stati differenziano, privilegiandoli, gli operatori che si rendono disponibili a

perseguir missioni di utilità generale che non sceglierebbero secondo un criterio di convenienza

economica e l’UE sostiene le differenziazioni delle discipline nazionali di questo tipo per conseguire

obiettivi che non sarebbe in grado di raggiungere attraverso le vie tradizionali”. 73

Sul punto cfr. M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente, Giappichelli, Torino,

2007; P. DELL’ANNO, Modelli organizzativi per la tutela dell’ambiente, in Riv. giur. amb., 2005, 5,

975; R. FERRARA, L’organizzazione amministrativa dell’ambiente: i soggetti istituzionali, in R.

FERRARA E A. (a cura di), Diritto dell’ambiente, Laterza, Bari, 2005; M. RENNA, L’allocazione delle

funzioni normative e amministrative, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli,

Torino, 2011; A. ROMANO TASSONE, Stato, Regioni ed enti locali nella tutela dell’ambiente, in Dir.

amm., 1993, 1, 107.

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giurisprudenza attribuiscano ai governi locali un ruolo “di assoluto rilievo”74

. Si

pensi – solo per citare alcuni dei documenti più recenti – alla Carta di Lipsia sulle

città europee e sostenibili75

o al Sesto Programma europeo di azione ambientale76

o,

ancora, al Patto dei Sindaci77

. Ma anche alla stessa direttiva rifiuti 2008/98/Ce, la

quale afferma che l’intervento dell’Unione nella materia de qua si giustifica in base

al principio di sussidiarietà e in ogni caso deve rispondere al canone della

proporzionalità ex art. 5 TUE78

. Per tale ragione, dunque, la stessa – tra le altre cose

– ammette la possibilità che “gli Stati membri conserv[i]no approcci differenti in

relazione alla raccolta dei rifiuti domestici” e, di conseguenza, sottolinea

l’opportunità che gli obiettivi preordinati alla realizzazione di una società “rifiuti-

zero” “tengano conto dei diversi sistemi di raccolta dei vari Stati membri”79

.

V.5 RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dunque, sembra possibile rimarcare

come, alla sostanziale omogeneità normativa tra Italia e Gran Bretagna per ciò che

74

In questi termini, F. DE LEONARDIS, Politiche e poteri dei governi locali nella tutela dell’ambiente,

in Dir. amm., 2012, 4, 775, il quale osserva: “per il diritto internazionale generale i governi locali si

pongono come uno degli attori istituzionali fondamentali in materia di ambiente”; così come “la

centralità del ruolo e delle politiche locali in materia di tutela dell’ambiente emerge in modo

accentuato anche dall’analisi del diritto europeo a partire dai programmi di azione ambientale”.

Diversamente, è nel diritto interno che “i rapporti tra competenze amministrative degli enti locali e

dello Stato in materia di ambiente sono stati caratterizzati da un continuo altalenare tra momenti in cui

lo Stato veniva considerato l’unico attore protagonista delle politiche di tutela dell’ambiente a

momenti più “corali” in cui ad esso si accompagnavano anche gli altri attori (appunto gli enti locali)”.

Tuttavia – rileva l’A. – “gli enti locali assieme alle amministrazioni citate e alla società civile (…)

compongono un sistema plurilivello che riesce ad assicurare una tutela effettiva secondo quanto

affermano peraltro gli artt. 3 ter e 3 quinquies del codice dell’ambiente, solo ed esclusivamente se

tutte le componenti interagiscono armonicamente”. 75

A. MASSERA (a cura di), Diritto amministrativo e ambiente, Ed. sc., Napoli, 2012. 76

Per un esame del quale si rinvia a F. FONDERICO, Sesto Programma di azione UE per l’ambiente e

strategie tematiche, in Riv. giur. amb., 2007, 5, 698. 77

In proposito cfr. amplius il recente lavoro di N. RANGONE – J. ZILLER (a cura di), Politiche e

regolazioni per lo sviluppo locale sostenibile. Il Patto dei Sindaci, cit.. 78

Direttiva 2008/98/Ce, considerando n. 49. 79

Direttiva 2008/98/Ce, considerando n. 41.

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concerne la disciplina della dimensione ambientale del servizio di gestione dei rifiuti

urbani, faccia da contraltare una sensibile differenza di impostazione per ciò che,

invece, attiene alla gestione e all’organizzazione del servizio de quo e allo spazio

che, da tale punto di vista, è lasciato al livello di governo locale. Nelle pagine che

precedono, infatti, si è cercato di mettere in evidenza come, di contro al favor

recentemente registrato in Inghilterra, si riscontrino reiterati tentativi del legislatore

italiano di comprimere gli spazi di autonomia costituzionalmente riservati alle

Regioni e agli enti locali nella gestione dei servizi pubblici locali.

Ciò non di meno, sembra legittimo ipotizzare come allo stato attuale, in Italia, la

scarsa valorizzazione dei principi di differenziazione, adeguatezza ed autonomia sia

dovuta, più che ai vincoli e ai limiti (im)posti dal diritto europeo su quello nazionale,

alla mancanza di un disegno politico organico e coerente. O, in altri termini, alla

“sostanziale discontinuità e ciclicità con”80

cui gli enti locali sono stati coinvolti, con

compiti di vera responsabilità, nella amministrazione di taluni settori cruciali, quali

sono – ad esempio – quello ambientale81

e quello dei servizi pubblici82

(che con il

primo – si è visto – sovente si interseca).

80

Così F. DE LEONARDIS, Politiche e poteri dei governi locali nella tutela dell’ambiente, cit., il quale

osserva come detta ciclicità contrapponga “a quella continuità che si è, invece evidenziata a livello di

diritto internazionale ed europeo”. Allo stesso tempo, l’A. ricorda altresì che “all’attribuzione di nuovi

spazi agli enti locali osta, oltre che il diritto positivo, anche una serie di criticità che si sono

manifestate nella prassi delle azioni adottate a livello locale: non si può negare, in altre parole, che le

politiche e i governi locali (…) risentono in modo maggiore di quelle statali (…) della prossimità della

politica (è il fenomeno definito come di “cattura del regolatore”). Ciò in molti casi (ma - è bene

sottolinearlo – non in tutti) produce situazioni di stallo, di incapacità di decidere e posta a soluzioni

assolutamente inefficaci come dimostra il modo in cui viene trattata la questione rifiuti in Campania o

nella città di Roma”. Più in generale sulle funzioni di Province e Comuni dopo la riforma del Titolo V

della Costituzione, cfr. L. DE LUCIA, Le funzioni di Province e Comuni nella Costituzione, in Riv.

trim. dir. pubbl., 2005, 1, 23. 81

In proposito, cfr. A. ROMANO TASSONE, Stato, Regioni ed enti locali nella tutela dell’ambiente, cit.,

che nel 1993 scriveva: “l’attenzione del legislatore (e dell’opinione pubblica) per i problemi

ambientali e l’attuazione del Titolo V della Carta costituzionale sono pressoché coeve nel nostro

ordinamento. Il processo di formazione dello stato regionale e la crescita, quantitativa e qualitative,

della tutela ambientale sono andati dunque di pari passo, e ciò non soltanto sotto il profilo temporale,

ma anche e soprattutto per il loro reciproco intrecciarsi”. E, ancora, a proposito di quello che sarebbe

potuto cambiare per effetto della L. n. 142/1990: “le competenze degli enti locali nella tutela

dell’ambiente potrebbero peraltro vedere un rapido incremento, ove si desse attuazione al disposto del

comma 1 dell’art. 3 della L. n. 142/1990, ai sensi del quale ferme restando le funzioni che attengono

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A tale ultimo riguardo, se nel presente momento storico la strada verso la

valorizzazione dei governi locali può sembrare ancora più perigliosa, attesa la crisi

economica e le plurime istanze di riordino delle autonomie locali83

diffuse un po’ in

tutta Europa84

; dall’altro lato, non manca neppure chi guarda con fiducia al futuro.

ad esigenze di carattere unitario nei rispettivi territori, le regioni organizzano l’esercizio delle

funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province. (…) Si apre, forse, una

stagione di fervore autonomistico, che potrebbe condurre, nel campo della tutela dell’ambiente come

in ogni altro settore, ad una rivalutazione del ruolo degli enti locali, ad opera delle leggi regionali di

redistribuzione delle funzioni. Il condizionale è però d’obbligo, qui come non mai”. 82

Sul punto, inter alia, G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi

pubblici locali. Alla ricerca del filo di Arianna, in www.giustamm.it, 2011 e, più di recente, L. R.

PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno dell’autonomia, il rispetto della disciplina

europea, la finalizzazione alle aspettative degli utenti, in Giur. it., 2013, 3, 678 e ss., che scrive: “la

legislazione nazionale in materia di servizi pubblici, in passato, presentava vari difetti, dall’eccesso di

dettaglio alla continua modificazione; tra questi, il principale era forse dato dalla imprecisa

composizione dei modelli, sicché il nostro legislatore invece di identificare un modello chiaro e

conservarlo nel tempo (…) proponeva mediazioni (spesso non felici) tra modelli differenti, in un

tessuto normativo fitto di eccezioni e, quindi, sempre eccessivamente dettagliato – eccesso di dettaglio

che motivava frequenti modifiche parziali e ripensamenti”. 83 Al riguardo si vedano le considerazioni espresse da G. PIPERATA, I poteri locali: da sistema

autonomo a modello razionale e sostenibile?, in Ist. del federalismo, 2012, 3, 503, il quale rileva

come l’attuale crisi economica consenta di “registrare gli effetti che stanno producendo recessione,

crolli di importanti mercati e rischio di insolvenza di alcuni Stati, in particolar modo generando

profonde trasformazioni nelle società nazionali, ma soprattutto nelle loro istituzioni (…)”. Si assiste,

infatti ad “un profondo processo di ripensamento dell’articolazione istituzionale interna dello Stato,

imposto dalla forza delle cose (…), ma soprattutto dalle istanze internazionali o comunitarie come

contropartita agli aiuti concessi o alle novità introdotte negli impianti ordina mentali delle istituzioni

europee (si pensi ad esempio, al c.d. fiscal compact). Uno dei settori maggiormente interessati da tali

trasformazioni è il governo locale. Qui, la crisi economica sembra aver amplificato criticità già

presenti (…), giustificando interventi legislativi diretti a rivedere gli assetti esistenti, fino al punto da

mettere in discussione gli stessi fondamenti di quelle istituzioni”. Tuttavia, precisa l’A., non si tratta di

un fenomeno solo italiano, bensì di una “tendenza presente in tutto lo scenario europeo, anche se

interessa i singoli Stati con differente intensità. Nel nostro Paese, come in altri che presentano

difficoltà simili, i tratti sono più marcati, in quanto la risposta alla crisi impone decisioni anche drastiche”. Nello specifico, in Italia, “la necessità di contenere la spesa pubblica ha riportato in auge la

riflessione sull’utilità delle province e, in generale, sugli enti intermedi tra comuni e regioni”.

Per ciò che concerne la “sorte” dei diritti sociali e la risposta del diritto alla crisi economica, si rinvia

senza pretesa di esaustività a G. BUCCI, La Banca Centrale e il potere economico monetario, in F.

ANGELINI – M. BENVENUTI (a cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica. Atti

del Convegno di Roma, 26 – 27 aprile 2012, Jovene, Napoli, 2012; I. CIOLLI, Le ragioni dei diritti e il

pareggio di bilancio, Aracne, Roma, 2011; F. COVINO, La fiscalità di vantaggio degli enti territoriali

tra art. 81 della Costituzione e federalismo fiscale, in Quad. cost., 2012, 3, 621; G. LO CONTE, Il

pareggio di bilancio in Costituzione. L’organismo indipendente di monitoraggio della finanza

pubblica, in Giorn. dir. amm., 2012, 10, 938; G. NAPOLITANO, Crisi economica e strabismo

amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2013, 3, 221; ID., La nuova governance economica europea: il

meccanismo di stabilità e il fiscal compact, in Giorn. dir. amm., 2012, 5, 461; R. PEREZ E A., La legge

di stabilità per il 2013, in Giorn. dir. amm., 4, 2013, 347; G. PITRUZZELLA, Chi governa la finanza

pubblica in Europa, in Quad. cost., 2012, 1, 9; G. M. SALERNO, Dopo la norma costituzionale sul

pareggio del bilancio: vincoli e limiti dell’autonomia finanziaria delle Regioni, in Quad. cost., 2012,

3, 563.

Per ciò che concerne il tema delle autonomie territoriali ed, in specie, il riordino della Province si

rinvia, inter alia, a F. COVINO, Le autonomie territoriali, in F. ANGELINI – M. BENVENUTI (a cura di),

Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, Jovene, Napoli, 2012; F. FABRIZZI, La

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Commentando la neo introdotta legislazione italiana sui servizi pubblici (vale a dire

la L. 17 dicembre 2012 n. 221), ad esempio, parte della dottrina ha osservato come la

necessità di conseguire gli “obiettivi di qualità e diffusione dei servizi nell’interesse

degli utenti” – raggiungibile solo mediante una adeguata organizzazione del servizio

– possa di principio trovare soddisfazione nella previsione in base alla quale “le

funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica,

compresi quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani (…) siano esercitate

unicamente dagli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e

omogenei”, che dovrebbero garantire “una maggiore aderenza ai fatti (la natura del

servizio, la conformazione fisica delle aree da servire, la struttura industriale

dell’attività, ecc.) ed agli obiettivi (la soddisfazione della pretesa dell’utente)”85

.

Provincia. Analisi dell’ente locale più discusso, Jovene, Napoli 2012; ID., Soppressione delle

Province e manovra finanziaria. Profili politici, costituzionali, sociali e storici di un errore sventato,

in www.federalismi.it, 2010; F. MANGANARO – M. VIOTTI, La Provincia negli attuali assetti

istituzionali, in www.federalismi.it, 2012; P. VERONESI, Morte e temporanea resurrezione delle

province: non si svuota così un ente previsto in Costituzione, www.forumcostituzionalisti.it, 2012; G.

VESPERINI, Le nuove Province, in Giorn. dir. amm., 2012, 2, 272; L. VANDELLI, Crisi economica e

trasformazioni del governo locale,in Libro dell’anno del Diritto, Treccani, 2011. 84 In proposito, si segnala che neppure la Gran Bretagna è estranea a simili fermenti. Con riguardo alle

più recenti tendenze in materia di governo locale ivi registrate cfr., per tutti, N. MCGARVEY, Inter -

Municipal Cooperation: The United Kingdom Case, in Ist. del federalismo, 2012, 3, 523. 85 Così L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno dell’autonomia, il rispetto della

disciplina europea, la finalizzazione alle aspettative degli utenti, cit., dove si legge anche che “una

legislazione – come l’attuale – che individua i fini cui l’organizzazione deve tendere ed identifica i

parametri di legalità da rispettare, sembra adeguata a governare una realtà complessa, che presenta

differenze non piccole tra servizio e servizio quanto a struttura industriale, capitalizzazione,

profittabilità, diffusione; altrettante difformità, pur nel medesimo servizio, si riscontrano tra le diverse

aree del Paese”. Ex multis, si veda F. DE LEONARDIS, Prefazione a E. MICHETTI, In house providing.

Modalità, requisiti e limiti. Evoluzione legislativa e giurisprudenziale interna ed europea anche alla

luce del referendum del 12 – 13 giugno 2011, Giuffrè, Milano, 2011, dove con precipuo riguardo alle

modalità di gestione dei servizi in argomento, si legge: “sarebbe auspicabile che la scelta tra la

gestione diretta, da parte degli enti locali, di tali servizi o, piuttosto, l’affidamento degli stessi ad

operatori privati fosse il frutto non tanto di opzioni ideologiche, come tali controvertibili, bensì di

un’attenta analisi che tenga conto, nei vari contesti di riferimento, dei pro e dei contro di entrambi i

modelli di gestione, e che porti a optare per quello che, non in astratto, ma in concreto, appaia meglio

in grado di assicurare un buon livello di qualità del servizio, in uno con una tariffa accessibile sì a

tutti, ma al contempo in grado di coprire interamente i costi del servizio stesso, senza ulteriori aggravi

– di cui oggi non si avverte certo la necessità – per la finanza pubblica nazionale. Non si tratta, invero,

di cadere nei due eccessi opposti del “panpubblicismo”, per cui tutti i servizi alla persona debbono

essere necessariamente ricondotti ai pubblici poteri, né, tantomeno, del “panprivatismo”, per cui il

mercato rappresenta la soluzione di ogni male. Si tratta, piuttosto, di scegliere “un vestito su misura”,

e tale operazione presuppone quell’attenta attività di ponderazione e di bilanciamento di interessi, che

costituisce il cuore dell’azione amministrativa”. Soluzione che – prosegue l’A. - appare sicuramente in

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Ed, in effetti, lo studio sin qui condotto mostra come quella dell’aderenza del

servizio alla realtà, geografica, sociale e – non ultimo – politica, in cui lo stesso deve

essere svolto, sia un’esigenza avvertita non solo in Italia ma anche in Gran Bretagna.

In altri termini, la direttrice lungo cui la materia de qua si sta muovendo sembra

essere quella della valorizzazione “della eterogeneità” nella disciplina dei servizi

locali, che “riflette i modi diversi, nei diversi Paesi, di percepire la soglia, superata la

quale una certa attività assume un significato particolare: esprime una missione che

la qualifica come servizio”86

.

Ne deriva che se de jure condendo questa linea di tendenza si consoliderà, tanto in

Italia e in Gran Bretagna quanto negli altri Stati membri, potremmo forse a buon

diritto concludere nel senso che il diritto amministrativo, almeno per ciò che

concerne i servizi pubblici, specie locali, ha (ri)scoperto l’importanza dei principi di

adeguatezza, differenziazione ed autonomia, virando così verso una maggiore

responsabilizzazione dei soggetti pubblici che dei servizi conservano la titolarità e

verso un più elevato livello di tutela degli utenti, pur nel doveroso rispetto dei limiti

derivanti dall’appartenenza all’Unione europea.

linea con le indicazioni provenienti dall’ordinamento comunitario, che, se da un lato non impone

l’affidamento ai privati dei “servizi di interesse economico generale”, riconoscendo il principio di

autonomia e di autorganizzazione dell’ente locale, dall’altro è pur sempre caratterizzato da un netto

favor per i principi di concorrenza “per il mercato” e “nel mercato”. Ne discende che la scelta di

ricorrere all’affidamento in house potrà dirsi veramente rispettosa dei principi cardine su cui poggia

l’ordinamento europeo, e quindi anche il nostro, solo a patto che venga presa a seguito di un’attenta

analisi dei vari contesti di riferimento, e con un’adeguata e puntuale motivazione che – in un’ottica di

assoluta trasparenza – dia conto delle ragioni che giustificano l’esclusione dei privati dalla

concorrenza per un determinato mercato”.

86 In questi termini, A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza fra diritto comunitario

e modelli nazionali, cit., il quale indica detta eterogeneità come una componente fondamentale

dell’identità nazionale da preservare. Si legge, infatti, “bisogna dare all’Europa ciò che è dell’Europa,

e non cadere nella tentazione di un paneuropeismo, che rispecchierebbe una sorta di principio di

sussidiarietà capovolto, per il quale la giustificazione dell’intervento dell’Unione sarebbe l’incapacità

dei singoli Paesi di risolvere i loro problemi nazionali”. Viceversa, “la garanzia della concorrenza nei

servizi pubblici locali [così come la garanzia dell’efficienza e della qualità del servizio medesimo] è

innanzitutto un problema che deve impegnare il legislatore nazionale (…)”.

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INDICE DELLE SENTENZE

SENTENZE E ORDINANZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA

CGCE 23 ottobre 1974, Commissione europea c. Transocean Marine Paint

Association , C-17/74

CGCE 29 febbraio 1984, Cilfit c. Ministero della Sanità, C-77/83

CGCE 20 settembre 1988, Commissione europea c. Danimarca, C-302/86

CGCE 13 luglio 1989, Enichem c. Cinisello Balsamo, C-380/87

CGCE 20 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, C- 206 e 207/88

CGCE 25 luglio 1991, Aragonesa de publicidad, C-1/90

CGCE 9 luglio 1992, Commissione europea c. Belgio, C-2/90

CGCE 13 aprile 1994, Commissione europea c. Germania, C-131/93

CGCE 17 maggio 1994, Commissione europea c. Repubblica francese, C-41/93

CGCE 10 maggio 1995, Commissione europea c. Germania, C-422/92

CGCE 12 settembre 1996, Gallotti e a., C-75/95

CGCE 5 giugno 1997, Commissione europea c. Spagna, C-107/96

CGCE 5 giugno 1997, Commissione c. Francia, C-223/96

CGCE 25 giugno 1997, Euro Tombesi e a,. C-304, 330, 342/95 e 224/95

CGCE 18 dicembre 1997, Inter Evironment Wallonie ASBL c. Regione Wallone, C-

129/96

CGCE 25 giugno 1998, Beside, C-192/96

CGCE 25 giugno 1998, Chemische Afvastoffen, C-203/96

CGCE 10 novembre 1998, BFI Holding BY c. Gemete Arnhem e a., C-360/96

CGCE 3 dicembre 1998, Bluhme, C-67/97

CGCE 9 settembre 1999, Ri. San. c. Comune di Ischia, C-108/98

CGCE 5 ottobre 1999, Lirussi e Bizzarro, C-175/98

CGCE 18 novembre 1999, Teckal c. Comune di Viano, C-107/98

CGCE 15 giugno 2000, ARCO, C-418 e 419/97

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CGCE 16 novembre 2000, Commissione europea c. Belgio, C-217/99

CGCE 29 novembre 2001, De Coster, C-17/00

CGCE 18 aprile 2002, Palin Granit Oy, C-9/00

CGCE 8 maggio 2003, Commissione europea c. Regno di Spagna, C-349/97

CGCE 11 settembre 2003, Avesta Polarit Chrome Oy, C-114/01

CGCE 14 gennaio 2004, Saetti e Frediani, C-235/02

CGCE 11 novembre 2004, Niselli, C-457/02

CGCE 14 dicembre 2004, Commissione europea c. Germania e a., C-309/02

CGCE 11 gennaio 2005, Stadt Halle, C-26/03

CGCE 26 aprile 2005, Commissione europea c. Irlanda, C-494/01

CGCE Co.na.me c. Comune di Cingia dè Botti e Padania acque SpA, C-231/03

CGCE 8 settembre 2005, Commissione c. Regno di Spagna, C-416/02

CGCE 13 ottobre 2005, Parking Brixen Gmbh, C-458/03

CGCE 10 novembre 2005, Commissione europea c. Repubblica d’Austria, C-29/04

CGCE 6 aprile 2006, Anav c. Comune di Bari e a., C-410/04

CGCE 11 maggio 2006, Carbotermo SpA e a. c. Comune di Busto Arsizio, C-340/04

CGCE 18 gennaio 2007, Jean Auroux c. Commune di Roanne, C-220/05

CGCE 19 aprile 2007, Trasga, C-295/05

CGCE 26 aprile 2007, Commissione europea c. Italia, C-135/05

CGCE 10 maggio 2007, Thames Water Utilities Limited, C- 252/05

CGCE 24 maggio 2007, Rudiger Jager, C- 94/05

CGCE 7 settembre 2007, Van de Walle e a., C-1/03

CGCE 20 settembre 2007, Commissione europea c. Paesi Bassi, C-297/05

CGCE 18 dicembre 2007, Commissione europea c. Italia, C-194/05

CGCE 24 giugno 2008, Comune di Mesquer c. Total France, C-188/07

CGCE 17 luglio 2008, Comune di Mantova, C-371/05

CGCE 13 novembre 2008, Coditel Brabant SA c. Comune d’Uccle, C-324/07

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277

CGCE 22 dicembre 2008, Commissione europea c. Italia, C-283/06

CGCE 9 giugno 2009, Commissione europea c. Germania, C-480/06

CGCE 10 settembre 2009, Sea srl c. Comune di Ponte Nossa, C-573/07

CGUE 4 marzo 2010, Commissione europea c. Italia, C- 297/08

CGUE 18 ottobre 2012, Commissione europea c. Regno Unito, C-301/10

CGCE 29 novembre 2012, Econord SpA c. Comune di Cagno e Comune di Varese c.

Comune di Solbiate , C-182/11 e 183/11

SENTENZE DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

Corte EDU 9 dicembre 1994, Lopez Ostra c. Spagna, ric. n. 16798/90

Corte EDU 10 gennaio 2012, Di Sarno e a c. Italia, ric. n. 30765/08

SENTENZE E ORDINANZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

C. Cost. 27 giugno 1986 n. 151

C. Cost. 28 maggio 1987 n. 210

C. Cost. 30 dicembre 1987 n. 641

C. Cost., ord., 14 gennaio 1997 n. 9

C. Cost., ord., 23 giugno 1999 n. 267

C. Cost. 7 ottobre 1999 n. 384

C. Cost. 30 marzo 2001 n. 86

C. Cost. 17 maggio 2001 n. 150

C. Cost. 1 ottobre 2003 n. 303

C. Cost. 28 giugno 2004 n. 196

C. Cost. 27 luglio 2004 n. 272

C. Cost. 14 ottobre 2005 n. 383

C. Cost. 7 novembre 2007 n. 367

C. Cost. 14 novembre 2007 n. 378

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278

C. Cost. 14 aprile 2008 n. 104

C. Cost. 14 aprile 2008 n. 105

C. Cost. 5 marzo 2009 n. 61

C. Cost. 22 luglio 2009 n. 225

C. Cost. 23 luglio 2009 n. 233

C. Cost. 23 luglio 2009 n. 234

C. Cost. 23 luglio 2009 n. 235

C. Cost. 24 luglio 2009 n. 246

C. Cost. 24 luglio 2009 n. 247

C. Cost. 24 luglio 2009 n. 249

C. Cost. 24 luglio 2009 n. 250

C. Cost. 24 luglio 2009 n. 251

C. Cost. 30 luglio 2009 n. 254

C. Cost. 4 dicembre 2009 n. 314

C. Cost. 3 novembre 2010 n. 325

C. Cost. 22 dicembre 2010 n. 373

C. Cost. 26 gennaio 2011 n. 24

C. Cost. 5 marzo 2012 n. 22

C. Cost. 23 febbraio 2012 n. 35

C. Cost. 2 aprile 2012 n. 80

C. Cost. 20 luglio 2012 n. 199

C. Cost. 20 luglio 2012 n. 200

SENTENZE E ORDINANZE DEL CONSIGLIO DI STATO E DEI TAR

Cons. Stato, V, 14 dicembre 1988 n. 818

Cons. Stato, VI, 12 marzo 1990 n. 374

Cons. Stato, V, 23 aprile 1998 n. 477

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279

Cons. Stato, V, 12 agosto 1998 n. 1262

TAR Lombardia, Milano, III, 29 agosto 2001 n. 5163

Cons. Stato, V, 6 giugno 2003 n. 2380

TAR Lombardia, Milano, III, 8 aprile 2003 n. 994

Cons. Stato, V, 19 febbraio 2004 n. 679

Cons. Stato, V, 16 marzo 2005 n. 1074

Cons. Stato, V, 13 dicembre 2006 n. 7369

Cons. Stato, V, 13 febbraio 2009 n. 824

Cons. Stato, V, 10 settembre 2010 n. 6529

Cons. Stato, V, 8 febbraio 2011 n. 854

Cons. Stato, V, 26 gennaio 2011, n. 552

TAR Puglia, Lecce, II sez., 25 maggio 2012 n. 932

SENTENZE E ORDINANZE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

C. Cass., SS. UU., pen., 27 settembre 1995 n. 12310

C. Cass., pen., 10 maggio 2012 n. 17435

SENTENZE CORTI INGLESI

House of Lords, 13 ottobre1983, Davy c. Spelthorne

High Court, 9 novembre 1998, Mayer Parry Recycling Limited c. Environment

Agency

Court of Appeal – Administrative Court, 14 marzo 2001, Castle Cement c.

Environment Agency

Supreme Court of the United Kingdom, 9 novembre 2011, Brent London Borough

Council and a. c. Risk Management Partners Limited