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FACOLTÀ DI ECONOMIA
DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO PUBBLICO
DELL’ECONOMIA
CURRICULUM AMMINISTRAZIONE PUBBLICA EUROPEA E
COMPARATA XXV CICLO
LA DISCIPLINA DEI RIFIUTI
TRA NORMATIVA EUROPEA E NORMATIVE
NAZIONALI. SPUNTI DI COMPARAZIONE TRA IL
SISTEMA ITALIANO E IL SISTEMA INGLESE
COORDINATORE CANDIDATO
CHIAR.MO PROF. ROBERTO MICCÙ CHIARA FELIZIANI
TUTOR
CHIAR.MA PROF.SSA PAOLA CHIRULLI
“La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni (…).
Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia di ieri aspettano il carro dello
spazzaturaio. (…) più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di
Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per fare posto alle nuove (…).
Dove portino ogni giorni il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori dalle città, certo; ma
ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano (…).
Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula (…) rinnovandosi ogni giorno la città
conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano
sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i giorni e anni e lustri”.
ITALO CALVINO, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972
I
LA DISCIPLINA DEI RIFIUTI TRA NORMATIVA EUROPEA E NORMATIVE NAZIONALI.
SPUNTI DI COMPARAZIONE TRA IL SISTEMA ITALIANO E IL SISTEMA INGLESE
INDICE
INTRODUZIONE
IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI NELLO SPAZIO GIURIDICO
EUROPEO TRA AMBIENTE, MERCATO E BUONA AMMINISTRAZIONE
CAPITOLO I
TENDENZE EVOLUTIVE DELLA LEGISLAZIONE IN MATERIA DI RIFIUTI TRA DIRITTO
DELL’UNIONE EUROPEA E DIRITTO NAZIONALE. DALL’ASSENZA DELL’EUROPA
ALLA (QUASI) SCOMPARSA DELLO STATO
I.1 Premessa pag. 6
I.2 Le origini. Regolare i rifiuti per tutelare l’igiene urbana e l’ordine
pubblico pag. 9
I.3 L’avvento dell’Europa: i rifiuti tra mercato e ambiente nelle direttive
degli anni Settanta e nel c.d. decreto Ronchi pag. 12
I.4 Il Codice dell’ambiente (d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152) non ferma
“l’inquinamento normativo” pag. 21
I.5 La direttiva rifiuti 2008/98/Ce e la spinta dell’Europa verso
obiettivi di green economy pag. 30
I.6 Il decreto legislativo 3 dicembre 2010 n. 205: ultimo atto di una storia
ancora in fieri pag. 40
I.7 Verso un “diritto per principi” di matrice europea pag. 43
CAPITOLO II
L’ “EUROPEIZZAZIONE” DELLA NOZIONE DI RIFIUTO E DI QUELLE CONTIGUE DI
SOTTOPRODOTTO ED END OF WASTE
II.1 Non c’erano una volta i rifiuti pag. 50
II.2 L’istituto del rifiuto. Dal “tutto rifiuto” … pag. 54
II.3 … al (quasi) niente rifiuto pag. 65
II
II.4 Sottoprodotto ed end of waste pag. 78
II.5 L’ “europeizzazione” della nozione di rifiuto pag. 88
CAPITOLO III
IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI IN ITALIA
III.1 Considerazioni preliminari pag. 92
III.2 Il servizio pubblico pag. 94
III.2.1 La prima stagione. Dalla municipalizzazione alla (ri)scoperta
del mercato pag. 97
III.2.2 La seconda stagione. Il servizio pubblico nella dimensione
europea pag. 114
III.3 L’incerta sorte dei servizi pubblici locali tra apertura al mercato
e ricorso all’in house providing: il caso dei rifiuti pag. 125
III.4 (segue) Dal referendum abrogativo del 2011 alla Legge 17
dicembre 2012 n. 221 pag. 145
III.5 Servizi pubblici (ancora) instabili pag. 162
CAPITOLO IV
IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI IN GRAN BRETAGNA
IV.1 Considerazioni preliminari pag. 165
IV.2 La disciplina giuridica dei rifiuti in Gran Bretagna pag.168
IV.3 La direttiva 2008/98/Ce e le “Waste (England and Wales)
Regulations 2011” pag. 181
IV.4 Il servizio pubblico in Gran Bretagna pag. 190
IV.5 Il servizio pubblico di gestione dei rifiuti. Modalità organizzative pag. 203
III
CAPITOLO V
IL SERVIZIO PUBBLICO TRA UNIONE EUROPEA E STATI MEMBRI.
VERSO LA (RI)SCOPERTA DEI PRINCIPI DI ADEGUATEZZA, DIFFERENZIAZIONE E
AUTONOMIA
V.1 Premessa pag. 218
V.2 La dimensione ambientale del servizio pubblico di gestione
dei rifiuti urbani pag. 220
V.3 La dimensione organizzativa del servizio pubblico di gestione
dei rifiuti urbani pag. 226
V.4 Verso la (ri)scoperta dei principi di adeguatezza, differenziazione
e autonomia pag. 233
V.5 Riflessioni conclusive pag. 241
BIBLIOGRAFIA pag. 246
ELENCO SENTENZE CITATE pag. 275
1
INTRODUZIONE
IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI NELLO SPAZIO
GIURIDICO EUROPEO TRA AMBIENTE, MERCATO E BUONA
AMMINISTRAZIONE
Le continue novità legislative, unitamente ai fermenti giurisprudenziali e, non ultimo,
alla risonanza del dibattito pubblico mostrano la spiccata attualità che il tema dei
servizi pubblici, anche e soprattutto locali, reca ancora oggi nello spazio giuridico
nazionale ed europeo.
A distanza di molti anni dai primi fondamentali contributi dottrinari1, infatti, la
materia de qua continua a connotarsi per uno straordinario dinamismo, ancorché il
fuoco della discussione si sia spostato dalla nozione ad altri profili del servizio
pubblico, tra cui l’organizzazione e le forme di gestione, nonché gli obblighi
connessi alla tutela dell’ambiente che pure sovente si legano a taluni servizi, quale ad
esempio quello di gestione dei rifiuti.
Ad ampliare gli orizzonti ha certamente contribuito, non solo l’accresciuta
complessità della realtà giuridica e del tessuto sociale, ma anche l’(odierna) Unione
europea. Questa, infatti, nel suo progressivo sviluppo è andata sempre più
sovrapponendosi agli Stati membri, dettando discipline tanto puntuali da finire per
condizionare pervasivamente, e sotto molteplici punti di vista, le politiche dagli stessi
intraprese2.
1 V. E. ORLANDO, Prefazione, in ID., Primo Trattato completo di diritto amministrativo, Milano, 1897;
S. ROMANO, Principii del diritto amministrativo, III ed., Giuffrè, Milano, 1912; A. DE VALLES, I
servizi pubblici, in V. E. ORLANDO (a cura di), Primo Trattato completo di diritto amministrativo, cit.. 2 In tal senso, A. ROMANO, Amministrazione, legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. Amm., 1999, 1,
130; nonché ID., La concessione di pubblico servizio, in G. PERICU – A. ROMANO – V. SPAGNUOLO
VIGORITA, La concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995. Inoltre, si veda anche L. DE
LUCIA, Amministrazione transnazionale e ordinamento europeo. Saggio sul pluralismo
amministrativo, Giappichelli, Torino, 2009, il quale sottolinea come “la natura integrata
dell’ordinamento europeo comport[i] una generalizzata necessità di collaborazione tra organi
governativi, giurisdizionali e amministrativi. Collaborazione che, finalizzata al raggiungimento degli
obiettivi stabiliti dal diritto comunitario, è disciplinata, in modo differenziato, per i titolari delle varie
2
Per ciò che concerne i servizi pubblici di rilevanza economica, specie se a
“connotazione ambientale”, come quello di gestione dei rifiuti urbani, detta influenza
può apprezzarsi da una duplice prospettiva: ambientale ed organizzativa. Dal primo
punto di vista, è possibile rilevare come da alcuni anni a questa parte l’Unione
europea abbia virato in maniera decisa verso obiettivi di sviluppo sostenibile legati
alla c.d. green economy. Il che, con precipuo riguardo ai servizi pubblici a rete, ha
fatto sì che le istituzioni abbiano fissato obblighi e standard piuttosto elevati di
sostenibilità, finendo per catalizzare una progressiva trasformazione in chiave
ambientale dei servizi in argomento e, di conseguenza, per imporre agli Stati membri
un costante sforzo di adeguamento. Parimenti, una significativa influenza si è avuta
poi dal punto di vista organizzativo – gestionale, nella misura in cui il servizio
pubblico - quale anello di congiunzione tra il diritto e la scienza economica – a
partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso è stato (ri)considerato
dall’allora Comunità come un ulteriore ed imprescindibile tassello nella costruzione
del mercato unico e, per l’effetto, è stato interessato da significative politiche di
liberalizzazione, volte a scardinare i sistemi monopolistici (ove esistenti) e ad aprire
il settore alla concorrenza.
Come poco sopra anticipato, entrambe queste prospettive sono ben compendiate nel
servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani, a cui il presente studio è dedicato.
L’intento è quello di indagare, in chiave comparata, la reale portata delle
trasformazioni che il diritto europeo ha determinato a livello nazionale per ciò che
concerne entrambi gli aspetti – quello ambientale e quello organizzativo – del
servizio in argomento.
funzioni pubbliche (…)”. E come “a questa struttura costituzionale corrispond[a] il progressivo
emergere di un’unione amministrativa europea”.
3
In virtù di detto obiettivo, e per quanto concerne il primo dei su menzionati profili, lo
studio muoverà dalla ricostruzione della disciplina giuridica nazionale dei rifiuti. Nel
fare ciò, si metterà in luce come risalga a tempi recenti una legislazione che -
abbandonati i meri obiettivi di ordine pubblico e igiene urbana - regoli la materia
ispirandosi a finalità di tutela prettamente ambientale e come la stessa sia
ampiamente tributaria del diritto europeo e della giurisprudenza della Corte di
Giustizia. Il che, per vero, se da un lato non è bastato a garantire alla legislazione
nazionale un elevato livello di organicità; dall’altro lato, ha portato all’emersione,
prima, e alla affermazione, poi, di una serie di principi - quali ad esempio quelli di
prevenzione e di sviluppo sostenibile - capaci di favorire un’ideale reductio ad unum
delle prescrizioni in materia di rifiuti.
Il ruolo determinante dei giudici di Lussemburgo, inoltre, verrà ampiamente
evidenziato anche nel capitolo secondo, deputato alla ricostruzione della nozione di
“rifiuto”. Qui, infatti, lo studio sarà incentrato prevalentemente sull’analisi della
giurisprudenza europea che negli anni ha fatto applicazione delle c.d. direttive rifiuti
al fine di tracciare le linee evolutive lungo cui hanno preso forma e sostanza il
concetto di rifiuto e quelli ad esso contigui di sottoprodotto ed end of waste. In
particolare, si vedrà come la progressiva transizione da un approccio di governance
eminentemente regolatorio ad uno di tipo preventivo si sia accompagnata al
passaggio da un’interpretazione molto lata del concetto di rifiuto, all’idea per cui la
latitudine di quest’ ultimo possa (e, anzi, ove possibile debba) essere erosa dai vicini
sottoinsiemi dei sottoprodotti e dell’end of waste3.
Ricostruiti, nei primi due capitoli, il sistema delle fonti normative e le nozioni
fondamentali della materia de qua, potranno dirsi gettate le basi per affrontare lo
3 In tal senso, per tutti, F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a
cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011.
4
studio della gestione dei rifiuti urbani, quale esempio di servizio pubblico locale. In
altri termini si muoverà dall’analisi del piano ambientale alla disamina di quello più
strettamente regolatorio, dando conto dei moduli organizzativi in uso ai fini
dell’espletamento di tale servizio, alla luce soprattutto delle recenti evoluzioni
legislative e giurisprudenziali. Prima di affrontare i profili di maggiore attualità,
tuttavia, lo studio avrà cura di ricostruire i termini del dibattito dottrinario
sviluppatosi intorno alla nozione di servizio pubblico, nonché – in un secondo
momento - di mettere in luce le trasformazioni che il diritto europeo ha catalizzato in
relazione all’istituto de quo a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso.
Proprio l’analisi di tale ultimo aspetto, infatti, si rivelerà funzionale ad una
riflessione circa l’attuale mutevolezza delle regole e le sue possibili cause.
Orbene, una volta esaminati tanto il profilo ambientale quanto quello organizzativo
del servizio pubblico di gestione dei rifiuti a livello nazionale, si darà spazio alla
comparazione, analizzando – nel capitolo quarto - come detto servizio viene
disciplinato e svolto in Gran Bretagna. L’obiettivo, dunque, è quello di verificare
come tale Paese abbia risposto alle istanze avanzate dall’Europa per ciò che concerne
entrambi i sopra menzionati profili del servizio in argomento.
Infine, da ultimo, si cercherà di ricondurre a sistema le suggestioni emerse nel corso
dell’intera trattazione, specialmente focalizzando l’attenzione sulle analogie e sulle
differenze che intercorrono tra Italia e Gran Bretagna nella materia in questione.
Inoltre, i molti richiami all’Unione europea, unitamente al parallelo tra i due Paesi, si
riveleranno altresì funzionali ad esplorare il tema più generale della reale autonomia
che residua in capo agli Stati Membri nel disciplinare taluni istituti, quale quello dei
servizi pubblici, appunto. D’altra parte, i reiterati (e – come dimostra l’esempio
italiano - sovente controversi) interventi legislativi che da alcuni anni a questa parte
5
hanno interessato la materia de qua al proclamato scopo di adeguare la legislazione
nazionale al diritto europeo, di contro all’esigenza di assicurare servizi pubblici
efficienti e qualitativamente apprezzabili mettono in luce come questi ultimi si
trovino oggi al centro di un’ideale tensione tra istanze contrapposte4. Da un lato,
l’auspicio di una sempre maggiore uniformità normativa; dall’altro, la necessità –
diffusa un po’ in tutta Europa - di garantire un’amministrazione responsabile e
servizi adeguati alle realtà territoriali cui gli stessi sono rivolti, in ossequio ai principi
di differenziazione ed adeguatezza5.
La composizione di tale tensione è con ogni probabilità la sfida maggiore che attende
i servizi pubblici di qui ai prossimi tempi. La stessa, infatti, implica - tra le altre cose
– il bisogno di coniugare le ragioni della concorrenza con quelle della buona
amministrazione, nonché l’opportunità di fare luce sul ruolo spettante alle autonomie
locali nella gestione dei servizi in argomento6. Un ruolo oggi messo (ulteriormente)
in discussione dalla crisi economica che sta interessando in varia misura l’Europa
intera e che ha imposto l’adozione a livello nazionale di politiche di riordino della
spesa pubblica7, le quali in taluni casi sono andate proprio ad incidere sullo spazio
riservato alle autonomie locali nei diversi contesti nazionali.
4 E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, in Dig. disc. pubbl., aggiornamento, Roma, 2012.
5 A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza fra diritto comunitario e modelli
nazionali, in G. FALCON (a cura di), Il diritto amministrativo dei Paesi europei tra omogeneizzazione
e diversità culturali, Cedam, Padova, 2005. Nonché, più di recente, G. PIPERATA, I servizi pubblici
locali, in L. VANDELLI – F. BASSANINI, Il federalismo alla prova: regole, politiche, diritti nelle
Regioni, Il Mulino, Bologna, 2012, 281 e specialmente pagg.284 e ss.. 6 Sul punto, si vedano ad esempio le osservazioni di F. DE LEONARDIS, Prefazione a E. MICHETTI, In
house providing. Modalità, requisiti e limiti. Evoluzione legislativa e giurisprudenziale interna ed
europea anche alla luce del referendum del 12 – 13 giugno 2011, Giuffrè, Milano, 2011; nonché,
prima ancora, l’analisi di L. DE LUCIA, Le funzioni di Province e Comuni nella Costituzione, in Riv.
trim. dir. pubbl., 2005, 1, 23. 7 Al riguardo cfr, inter alia, G. BUCCI, La Banca centrale e il potere economico - monetario, in F.
ANGELINI – M. BENVENUTI (a cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica. Atti
del convegno di Roma, 26 – 27 aprile 2012, Jovene, Napoli, 2012; G. MONTEDORO, Mercato e potere
amministrativo, Ed. Sc., Napoli, 2010, pp. 347 e ss.; R. PEREZ, Autonomia finanziaria degli enti locali
e disciplina costituzionale, in AA. VV., Studi in onore di Alberto Romano, vol. III, Ed. Sc., 2011,
2233.
6
CAPITOLO I
TENDENZE EVOLUTIVE DELLA LEGISLAZIONE IN MATERIA DI RIFIUTI
TRA DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E DIRITTO NAZIONALE.
DALL’ASSENZA DELL’EUROPA ALLA (QUASI) SCOMPARSA DELLO STATO
I.1 PREMESSA
Lo studio dei rifiuti quale species del diritto ambientale, a sua volta branca del diritto
amministrativo, esige una premessa di metodo tesa a mettere in luce come la loro
disciplina giuridica, nonché - ed ancor prima - la stessa nozione, siano l’approdo di
quel “cammino che conduce alla realtà non solo scoprendola, ma addirittura
creandola” 1.
Tutto il diritto ambientale, infatti, “si atteggia fondamentalmente (…) come diritto di
formazione giurisprudenziale: in esso il diritto scritto tende generalmente a venire
dopo, quasi come cristallizzazione di ciò che di volta in volta la giurisprudenza è
andata elaborando”2.
E’ nell’origine eminentemente pretoria dell’istituto de quo, pertanto, che trovano
spiegazione sia il vorticoso mutare della legislazione in tema di rifiuti sia il carattere
animato dei dibattiti che da tempo immemore aleggiano sui coni d’ombra della
materia. Al riguardo, basti porre mente al fatto che, sino ad un recente passato, si è
discusso persino della stessa possibilità di collocare il “settore dei rifiuti nel sistema
1 S. ROMANO, Mitologia giuridica, in Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano, 1947.
2 F. DE LEONARDIS, Trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, in G. ROSSI (a cura di),
Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. L’A. ricorda, infatti, come non sia un caso che
“praticamente tutte le trattazioni di diritto ambientale abbiano inizio non tanto richiamando una o più
norme scritte, ma il famoso caso giurisprudenziale della Fonderia di Trail (cfr. America Journal of
International Law, 1941).
Ex multis, sottolineano il carattere giurisprudenziale del diritto ambientale B. CARAVITA DI TORITTO,
Diritto dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, III ed., 2005; P. DELL’ANNO, Manuale di diritto
ambientale, Cedam, Padova, 2003; F. FONDERICO, La tutela dell’ambiente, in S. CASSESE (a cura di),
Trattato di diritto amministrativo, Parte speciale, vol. II, Giuffrè, Milano, 2003, dove l’autore accorda
alla giurisprudenza “un ruolo di supplenza”.
7
del diritto ambientale”3. Secondo parte della giurisprudenza
4, infatti, la normativa
relativa ai rifiuti altro non era che “un cerchio più ampio di tutela, una sorta di legge
quadro applicabile ad ogni produzione di rifiuti ed alla loro [indistinta] immissione
nell’ambiente” complessivamente inteso. Per converso, alle discipline settoriali,
caratterizzate, ad esempio, dalla riferibilità a singole fattispecie di rifiuti, doveva
riconoscersi natura speciale e derogatoria, “con la conseguenza dell’applicabilità
della normativa sui rifiuti (e dei suoi principi ispiratori) ad ogni fattispecie non
espressamente sottratta ad essa da norme speciali”5 . Tale ricostruzione, tuttavia, non
è stata condivisa dal Giudice delle Leggi, che in più occasioni ha affermato come la
teoria dei “cerchi concentrici di tutela” fosse priva di qualsivoglia fondamento6,
ritenendo – per converso – valevole l’opposto principio della specialità della
normativa sui rifiuti rispetto alle altre prescrizioni in tema di ambiente.
Ciò posto, non può sottacersi neppure come l’attenzione del mondo giuridico per i
rifiuti sia nata da impellenze concrete che nulla o poco avevano a che fare con
l’interesse per la protezione e la tutela dell’ambiente in quanto tale7. In origine,
infatti – vale a dire, quando il settore de quo era appannaggio esclusivo dello Stato -
sono state pestilenze, epidemie e, più in generale, motivi di ordine sanitario a destare
3 P. DELL’ANNO, (voce) Rifiuti, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Giuffrè,
Milano, 2006. 4 C. Cass. pen., S.U., 27 settembre 1995 n. 12310. In dottrina cfr. G. AMENDOLA, Gestione dei rifiuti e
normativa penale, Milano, Giuffrè, 2000. Contra, F. FRACCHIA, I procedimenti amministrativi in
materia ambientale, in A. CORSETTI - R. FERRARA - N. OLIVETTI RASON, Diritto dell’ambiente,
Laterza, Bari, II. ed., 2002. 5 P. DELL’ANNO, (voce) Rifiuti, cit..
6 Cfr., ad ex., C. Cost. ord. 23 giugno 1999 n. 267; C. Cost. 30 marzo 2001 n. 86; C. Cost. 17 maggio
2001 n. 150. 7 B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente, cit.; ma anche P. DELL’ANNO, (voce) Rifiuti, cit., il
quale evidenzia come “la normativa nazionale in materia di rifiuti ha registrato un’evoluzione da
oggetto di rilievo igienico-sanitario a disciplina dotata di autonomia tanto dei principi sostanziali
quanto degli strumenti giuridici impiegati”; e A. MONTAGNA, (voce) Rifiuti (gestione dei), in Enc.
giur. Treccani, 2003, il quale ricorda che “le uniche norme contenenti la valutazione dell’interesse
ambientale [si rinvengono] in alcune disposizioni degli anni ’30, così come era avvenuto nell’altro
settore ambientale della tutela delle acque, in particolare gli artt. 217 e 218 del testo unico delle leggi
sanitarie (r.d. 27 luglio 1934 n. 1265) che prevedevano il divieto di inquinamento del suolo”.
8
l’interesse dei poteri pubblici nei confronti dei rifiuti, così come del resto è avvenuto
per molti settori del diritto ambientale8.
Alla luce di simili dati fattuali, pertanto, deve constatarsi come “dal punto di vista
istituzionale e normativo, la materia dei rifiuti [abbia] conosciuto una rapida
evoluzione nel corso degli ultimi trent’anni”9, catalizzata soprattutto dal diritto
europeo e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Conseguentemente, la
disamina del sistema delle fonti che informano il diritto dei rifiuti deve
necessariamente tenere conto delle prescrizioni provenienti dalle istituzioni europee,
atteso che l’influenza di queste ultime si è rivelata così pervasiva da determinare
profondamente l’assetto dell’intero sistema di gestione dei rifiuti, nonché la nozione
stessa dell’istituto in esame10
.
L’analisi che segue, pertanto, non può che prendere le mosse dalla ricostruzione,
anche in chiave storica, delle fonti normative riferibili alla materia de qua, per poi
giungere (nel capitolo seguente) alla enucleazione della definizione di rifiuto e di
8 Si pensi, ad esempio, all’epidemia di colera che nel 1854 si diffuse nel quartiere londinese di St.
James (cfr. P. HARREMONES & OTH., The precautionary principle in the 20th Century. Late lessons
form early warning, London, Earthscan, 2002). Le autorità sanitarie non sapevano come arginare gli
effetti nefasti dell’emergenza, anche a causa delle scarse conoscenze scientifiche del tempo.
Certamente non potevano immaginare che, come preconizzato dal dottor Jhon Snow, la causa del
colera fosse da ricercare nell’acqua. Il medico, infatti, osservando la realtà, immaginò come la
malattia potesse dipendere da un batterio presente nell’acqua sgorgante da una certa fontana. Ed
effettivamente, una volta posto il divieto di abbeverarsi presso tale fonte, l’epidemia conobbe una fase
recessiva sino alla sua totale scomparsa. In quel caso, dunque, era l’inquinamento delle acque, aspetto
sino a quel momento ignorato dalle autorità pubbliche, ad aver originato il diffondersi del colera.
Infatti, come ricorda F. DE LEONARDIS, Tra precauzione e ragionevolezza, in www.federalismi.it,
2006 “trent’anni dopo, nel 1884, lo studioso Koch dimostrò che effettivamente il colera si diffonde
non per via aerea, come fino ad allora si era creduto, ma attraverso un vibrione contenuto nell’acqua.
Si accertò, quindi, che l’intuizione del dottor Snow era corretta”. 9 B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente, cit.. Analogamente, L. KRAMER, EU environmental
law, Sweet & Maxwell, London, 2011. 10
In tal senso, tra gli altri, J. FLUCK , The term “waste” in EU law, [1994] EELR 79; nonché C.
VERDURE, The europeanization of the definition of waste, paper presentato in occasione del convegno
“Globalization and europeanization of environmental law and policy”, Copenaghen 22-23 marzo
2010.
Inoltre, a titolo meramente esemplificativo, e salvo quanto meglio specificato infra, basti osservare
come l’ultimo intervento in ordine di tempo del legislatore italiano in tema di rifiuti, ossia il d. lgs. 3
dicembre 2010 n. 205 sia stato adottato al fine di recepire la direttiva 98/2008/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti.
9
quelle contigue di sottoprodotto ed end of waste, attorno alle quali il legislatore ha
costruito la disciplina della gestione.
I.2 LE ORIGINI. REGOLARE I RIFIUTI PER TUTELARE L’IGIENE URBANA E L’ORDINE
PUBBLICO
Si è già anticipato come, sino ad un recente passato – ossia fin quando i rifiuti, specie
nella loro dimensione ambientale, rappresentavano una questione tutta interna agli
ordinamenti nazionali - la materia in esame fosse priva di un corpus normativo di
riferimento recante i caratteri dell’organicità e della completezza.
Ed, in effetti, la prima legge nazionale in tema di rifiuti11
, ossia “la L. n. 366 del
1941, che pure era una legge moderna per l’epoca in cui fu emanata e già
individuava i fondamentali interessi pubblici presenti nella materia (…), era tuttavia
limitata alla tematica dei rifiuti urbani, e non aveva avuto, per alcuni punti essenziali,
concreta attuazione. [Viceversa], la disciplina della materia, soprattutto per quanto
riguarda i rifiuti diversi da quelli urbani, restava affidata agli strumenti normativi
secondari e amministrativi previsti per la tutela dell’igiene pubblica a livello
locale”12
.
Emblematico in tal senso è l’art. 1, comma primo, di tale legge a mente del quale “la
raccolta, il trasporto e lo smaltimento (utilizzazione o dispersione distruzione) dei
rifiuti urbani assumono, nei riflessi dell’igiene, dell’economia e del decoro, carattere
di interesse pubblico”.
11
A. MONTAGNA, (voce) Rifiuti (gestione dei), cit., il quale scrive: “la prima fonte normativa per la
gestione dei rifiuti risale ad epoca antecedente alla nascita della Repubblica e si individua nella legge
20 marzo 1941 n. 366, avente ad oggetto la “Raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi
urbani”, che, come si evince dalla rubrica, limitava il proprio ambito di applicazione ai rifiuti di
origine urbana, interessandosi dell’aspetto economico della gestione dei rifiuti e non di quello di
protezione dell’ambiente”. 12
Così B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente, cit.; nonché V. ONIDA, I rifiuti solidi: profili
istituzionali e normativi, in AA.VV., Rischio rifiuti, Legnano, 1988.
10
La ratio di simile formulazione si comprende agevolmente ponendo mente al periodo
storico in cui la legge è stata promulgata. Come osservato dalla dottrina, infatti, al
tempo “la gestione dei rifiuti era funzionale, ancor prima che alla tutela
dell’ambientale, ai profili dell’igiene e della salute pubblica: per ciò stesso essa
prendeva in considerazione i rifiuti prodotti nelle città, con esclusione dei rifiuti che,
nelle campagne, venivano invece trattati direttamente dagli abitanti delle
medesime”13
.
Di conseguenza, non deve stupire il fatto che in più punti della legge emerga
palesemente la preoccupazione del legislatore per la salvaguardia dell’igiene, al fine
essenzialmente di preservare la Nazione da emergenze sanitarie suscettibili di
destabilizzare l’ordine pubblico. Ciò si evince, ad esempio, dalla lettura dell’art. 14
della L. n. 366 del 1941, il quale dispone testualmente che “nello svolgimento di tutti
i servizi contemplati dalla presente legge, devono essere sempre salvaguardati nel
miglior modo l’igiene e il decoro, anche per quanto si riferisce alle condizioni di
lavoro del personale ad essi addetto (…) nei servizi stessi dovranno, inoltre, essere
sempre rispettate le norme vigenti per impedire la moltiplicazione e la
disseminazione delle mosche”.
13
In questo senso G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, in M. P. CHITI - G. GRECO (a cura di),
Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffrè, Milano, 2007.
Ex multis, si tenga presente che ancora intorno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso illustre
dottrina (cfr. M. S. GIANNINI, Ambiente: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici, in Riv. trim dir
pubbl., 1973, 1, 15) leggeva l’ambiente come un “coacervo” di interessi, tra cui in primis quello del
mantenimento dell’igiene urbana. L’A., infatti, scriveva: “nella normativa sull’igiene del suolo, sugli
inquinamenti atmosferici, sulla pulizia delle acque, l’ambiente non è una zona di territorio, ma quelle
località, del territorio, ma anche del mare libero, ove si manifesta un’azione aggressiva dell’uomo
(…). Infine l’elemento caratterizzante è dato dall’azione potenzialmente o attualmente aggressiva
dell’uomo che rende aggressivo un qualche elemento nei confronti dell’uomo: è l’ambiente aggredito
che reagisce aggressivamente (…). Oggi si ritiene eticamente riprovevole aggredire l’ambiente se e in
quanto lo si renda aggressivo; se l’azione umana non producesse questo evento dannoso per le
collettività, l’aggressione dell’ambiente potrebbe provocare rimpianti, o altri fatti emozionali, ma non
interesserebbe la normazione giuridica”.
11
Parimenti, anche la disciplina delle modalità di gestione dei rifiuti urbani, affidata ai
Comuni14
, denota ictu oculi come al tempo l’interesse primario da tutelare fosse
individuato nella salute pubblica. Gli artt. 15 e ss. della legge in commento, infatti,
contengono disposizioni volte chiaramente alla salvaguardia dell’igiene nei centri
abitati. Innanzitutto, si afferma che “i rifiuti interni dei centri di popolazione
agglomerata devono essere raccolti e conservati, fino al momento del trasporto, in
modo da evitare qualsiasi dispersione” ed inoltre “nel caso che a tale fine vengano
adoperati recipienti portatili, questi debbono essere muniti di coperchio a chiusura
ermetica”15
. Non solo, ai sensi dell’art. 17 della medesima legge risultano vietati “il
gettito dei rifiuti ed il temporaneo deposito di essi nelle pubbliche vie e piazze, nei
pubblici mercati coperti e scoperti, e nei terreni pubblici e privati”, mentre a norma
del successivo art. 18 si prescrive che “l'asportazione di tutti i rifiuti esterni ed interni
deve essere effettuata giornalmente”.
Da quanto detto, dunque, è agevole desumere luci ed ombre della L. n. 366 del 1941.
Si evince, infatti, come la disciplina ivi contenuta, benché per certi versi moderna,
fosse tuttavia solo parziale. In altri termini, se non può non apprezzarsi la circostanza
14
Dal punto di vista dell’organizzazione relativa alla gestione dei rifiuti urbani, e salvo quanto si dirà
più diffusamente infra, occorre dar conto del fatto che la L. n. 366 del 1941 individuava una
competenza a livello centrale in capo al Ministero dell’interno. Ai sensi dell’art. 2 della citata legge si
legge, infatti, che “il Ministero dell'interno ha l'alta vigilanza ed il controllo sull'andamento dei servizi
contemplati dalla presente legge nonché di tutti gli altri che, nella materia, hanno carattere
complementare ed accessorio”. A tal fine, dunque, - prosegue l’art. 3 - è istituito, come ripartizione
organica del Ministero dell'interno, un "ufficio centrale per i rifiuti solidi urbani" ed, inoltre, presso il
medesimo Ministero è istituita altresì “la commissione centrale per i rifiuti solidi urbani alla quale
sono conferite le attribuzioni previste dalla presente legge”.
A mente dell’art. 9, invece, la legge prevedeva che “i servizi inerenti alla raccolta, al trasporto ed allo
smaltimento dei rifiuti solidi urbani competono ai comuni, i quali sono tenuti a provvedervi con diritto
di privativa, ai sensi del testo unico approvato con R. decreto 15 ottobre 1925-III, n. 2578, o
direttamente o mediante concessione. [Tuttavia] su proposta del podestà il prefetto può, con suo
decreto, riconoscere, per ogni comune, zone con popolazione non agglomerata, nelle quali il trasporto
dei rifiuti solidi urbani può essere accordato ai singoli privati con speciale autorizzazione del podestà
e sotto l'adempimento delle condizioni indispensabili perché la raccolta, il trasporto e lo smaltimento
dei rifiuti stessi si svolgano in armonia ai principi stabiliti dalla presente legge”. 15
Art. 15 L. n. 366 del 1941 che, sotto la rubrica “della conservazione temporanea e della raccolta dei
rifiuti urbani”, apre il Titolo II della Legge in commento.
12
che il legislatore avesse preconizzato aspetti cruciali della materia dei rifiuti, qual è
ad esempio la suddivisione in fasi della gestione degli stessi, si deve tuttavia
convenire che la legge in commento costituiva una forma “embrionale” di disciplina
dei rifiuti medesimi.
In primo luogo perché la ratio che ispirava il legislatore del 1941 era finalisticamente
molto distante da quella che connota i più recenti interventi normativi16
. Infatti, come
anticipato, lungi dal voler tutelare l’ambiente e preservare l’ecosistema
dall’inquinamento derivante dall’incontrollata produzione di rifiuti, scopo primario
della L. n. 366 del 1941 era porre al riparo la Nazione dall’insorgenza di malattie ed
epidemie, suscettibili di ripercuotersi con effetti nefasti sul decoro e l’ordine
pubblico. Inoltre, a riprova della scarsa attenzione nei confronti del “bene –
ambiente” , la normativa si occupava della gestione dei soli rifiuti urbani, mostrando
noncuranza per le modalità con cui venivano smaltiti i rifiuti nelle zone diverse dai
centri abitati, che quindi ben avrebbero potuto essere gettati nei fiumi o seppelliti
sotto cumuli di terra, trasformandosi così in fonte di inquinamento per le acque ed il
suolo.
I.3 L’AVVENTO DELL’EUROPA: I RIFIUTI TRA MERCATO E AMBIENTE NELLE
DIRETTIVE DEGLI ANNI SETTANTA E NEL C.D. DECRETO RONCHI
Il descritto stato di (sostanziale) vuoto normativo si è protratto molto oltre la fine del
secondo conflitto mondiale, essenzialmente fino a quando il legislatore italiano si è
16
A titolo esemplificativo si osservi l’art. 177 del d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (c.d. Codice
dell’ambiente) come da ultimo modificato per effetto del d. lgs. 3 dicembre 2010 n. 205. La
disposizione, che apre la Parte IV del Codice dedicata ai rifiuti, al primo comma stabilisce in modo
programmatico che “la parte quarta del presente decreto disciplina la gestione dei rifiuti e la bonifica
dei siti inquinati, anche in attuazione delle direttive comunitarie, in particolare della direttiva
2008/98/Ce, prevedendo misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana, prevenendo o
riducendo gli impatti negativi della produzione e gestione dei rifiuti, riducendo gli impatti complessivi
dell’uso delle risorse e migliorandone l’efficacia”.
13
trovato nella condizione di dover recepire i dettami impartiti a livello europeo dalle
istituzioni comunitarie.
Si collocano sul finire degli anni Settanta, infatti, le prime direttive in tema di
rifiuti17
, in attuazione delle quali è stato adottato il d.P.R. 10 settembre 1982 n. 91518
,
oggi abrogato. Tale decreto “attuava puntualmente le prime norme di disciplina dei
rifiuti emanate in sede comunitaria, con riferimento alle singole misure demandate
agli Stati membri”19
, ponendo “al centro della disciplina i principi generali
concernenti lo smaltimento e la classificazione dei rifiuti”20
ed affrontando, “per la
prima volta, il tema della ripartizione delle competenze nazionali in materia di rifiuti
tra i diversi livelli istituzionali di governo”21
.
Dunque, nonostante al tempo la Comunità economica europea non avesse ancora una
puntuale competenza in materia di ambiente22
, questi primi interventi normativi
17
Segnatamente si tratta della direttiva 75/439/Cee del Consiglio del 16 giugno 1975
sull’eliminazione degli oli usati; della direttiva 75/442/Cee del Consiglio del 15 luglio 1975 relativa ai
rifiuti; della direttiva 76/403/Cee del Consiglio del 6 aprile 1976 concernente lo smaltimento dei
policrorodifenili e dei policlorotrifenili; e della direttiva 78/319/Cee del Consiglio del 20 marzo 1978
relativa ai rifiuti tossici e nocivi. In dottrina cfr., inter alia, F. CAPELLI, Portata ed efficacia delle
direttive Cee in materia di rifiuti, in Riv. giur. amb., 1987, 1, 33. 18
Decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915 (in Gazz. Uff., 15 dicembre, n.
343). - Attuazione delle direttive (Cee) numero 75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo
smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e numero 78/319 relativa ai rifiuti tossici e
nocivi. 19
G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit.. 20
C. CORRERA, Smaltimento dei rifiuti solidi urbani e dei rifiuti tossici e nocivi: analisi del d.p.r. n.
915 del 1982, Milano, 1992; F. GIAMPIETRO - P. GIAMPIETRO, Lo smaltimento dei rifiuti: commento al
d.p.r. n. 915/1982, Rimini, 1987; S. VINCIGUERRA, Problemi generali dello smaltimento dei rifiuti
dopo l’attuazione delle direttive comunitarie, in Rass. giur. en. elettr., 1987, 3, 637. 21
Segnatamente, a norma dell’art. 4 d.P.R. n. 915/1982, allo Stato erano riconosciute funzioni
generali di carattere amministrativo; alle Regioni ex art. 6 la “politica di piano” per la gestione dei
rifiuti; infine, agli Enti locali, stando agli artt. 7 e 8, spettavano compiti di tipo eminentemente
gestorio. 22
Il Trattato istitutivo della Comunità economica europea, firmato a Roma nel 1957, non conteneva
alcun riferimento all’ambiente, così come del resto quest’ultimo non riceveva menzione nella
Costituzione italiana del 1942. Ciò si spiega ponendo mente al fatto che la Comunità è nata al fine di
perseguire scopi di carattere eminentemente economico, rispetto ai quali l’ambiente tout court inteso
non costituiva una priorità (cfr. G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, Cedam, Padova, 2010).
Da un punto di vista pratico, precipitato di tale circostanza era la mancanza in capo alla Comunità di
una qualsivoglia competenza in materia ambientale. Di conseguenza, come ricorda la dottrina (M.
RENNA, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2009, 3-4,
649), nel momento in cui - all’inizio degli anni Settanta del ‘900 - emersero le prime problematiche
inerenti all’ambiente “si pose la questione del fondamento sostanziale, del titolo formale e degli
strumenti utilizzabili per l’azione politica e gli interventi normativi di protezione ambientale della
14
“hanno avuto la funzione fondamentale di indurre e stimolare lo Stato italiano ad
emanare le leggi più importanti di disciplina della materia”23
.
In particolare, con la direttiva 75/442/Cee, vera e propria pietra miliare delle fonti in
tema di rifiuti, il Consiglio, facendo leva sugli artt. 100 e 235 del Trattato Cee, da un
lato, ha esortato gli Stati membri al “ravvicinamento delle legislazioni” in materia di
gestione dei rifiuti, al fine di scongiurare il prodursi di situazioni di “disuguaglianza
Comunità” . In proposito va detto che, quanto al fondamento sostanziale, questo fu rinvenuto nell’art.
2 del Trattato Cee norma dal carattere programmatico che, interpretata in chiave evolutiva, si disse
implicare uno “sviluppo armonioso delle attività economiche” compatibile con la salvaguardia
dell’ambiente. Per quel che concerne, invece, il titolo formale, lo stesso fu rintracciato negli originari
artt. 100 e 235 del Trattato Cee, relativi rispettivamente al ravvicinamento delle legislazioni nazionali
e ai c.d. poteri impliciti della Comunità. Sulla base di tali argomenti, dunque, le istituzioni europee
presero a giustificare i propri interventi in materia ambientale affermando come gli stessi fossero
animati dall’“obiettivo di garantire, attraverso l’armonizzazione delle misure di tutela, la realizzazione
e mantenimento d un mercato comune, libero e concorrenziale”. In altri termini, per oltre un decennio
“i provvedimenti normativi adottati erano primariamente diretti a garantire il corretto funzionamento
del mercato e in alcuni casi essi rivelavano un’attenzione maggiore per determinate esigenze
economiche piuttosto che per la tutela dell’ambiente in quanto tale, dando luogo a evidenti soluzioni
di compromesso” (così M. RENNA, Ambiente e territorio, cit.).
La situazione così descritta ha poi conosciuto una svolta nel 1986 in occasione dell’Atto Unico
europeo, quando è stato introdotto nel Trattato Cee un titolo ad hoc in tema di ambiente
(segnatamente, si trattava del Titolo VII, artt. 130R, 130S e 130T), così ponendo fine al problema
relativo al fondamento normativo dell’azione comunitaria in materia ambientale. “All’Atto Unico si
deve quindi l’apertura di una nuova fase del diritto dell’ambiente, caratterizzata da una crescita
inarrestabile, sia quantitativa sia qualitativa, degli interventi normativi comunitari in materia
ambientale, che ha portato l’ambiente, in breve tempo, dall’essere un illustre sconosciuto per le norme
del Trattato a costituire uno dei settori più importanti e sviluppati del diritto amministrativo europeo”.
Successivamente, infatti, tanto con il Trattato di Maastricht quanto con il Trattato di Amsterdam alla
materia ambientale è stato riconosciuto ampio risalto, anche da un punto di vista squisitamente
formale grazie alla riformulazione nel 1997 dell’art. 2 del Trattato Ce, dove ha trovato espressis verbis
menzione l’obiettivo di promuovere “un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il
miglioramento della qualità di quest’ultimo”. Ad oggi, pertanto, anche a seguito dell’adozione della
Carta di Nizza e del Trattato di Lisbona, sembra possibile affermare che “il valore ambiente è
definitivamente assurto a valore in sé dell’ordinamento comunitario, oggetto di tutela diretta in quanto
tale e non più solo di protezione mediata in quanto valore potenzialmente compromettibile con il
processo di crescita”.
In ordine al processo di progressiva affermazione delle competenze comunitarie in materia di
ambiente si rinvia a M. P. CHITI - G. GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo.
Parte speciale, Giuffrè, Milano, 2007; L. KRAMER, EU enviromental law, cit..
Per quel che concerne, invece, il c.d. principio delle competenze attribuite che da sempre orienta
l’azione delle istituzioni europee cfr. L. AZZENA, Il sistema delle competenze dell’Unione europea, in
G. COLOMBINI - F. NUGNES (a cura di), Istituzioni, diritti, economia. Dal Trattato di Roma alla
Costituzione europea, Plus ed., Pisa, 2004; ID., Il sistema delle competenze, in AA. VV., Il Trattato
che adotta una Costituzione per l’Europa, in Foro it., 2005, V, 8; E. CANNIZZARO, Gerarchia e
competenza nel sistema dello fonti dell’Unione europea, in Dir. un. eur., 2005, 4, 651; ID., Esercizio
di competenze comunitarie e discriminazioni “a rovescio”, in Dir. un. eur., 1996, 2, 351; L. DANIELE,
Diritto dell’Unione europea. Sistema istituzionale - ordinamento. Tutela giurisdizionale –
competenze, Giuffrè, Milano, 2008; U. DRAETTA, Le competenze dell’Unione europea nel Trattato di
Lisbona, in Dir. com. e scambi comm., 2008, 3, 680; L. SALTARI, Il riparto di competenze tra
l’Unione europea e gli Stati: ossificazione o fluidità?, in Giorn. dir. amm., 2010, 3, 231; G. TESAURO,
Diritto dell’Unione europea, cit.. 23
B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente, cit..
15
nelle condizioni di concorrenza”, suscettibili di incidere negativamente sul
funzionamento del mercato comune, e dall’altro lato, ha manifestato la necessità di
un’azione della Comunità tesa a raggiungere “con una più ampia regolamentazione”
gli obiettivi della protezione dell’ambiente e del miglioramento della qualità della
vita24
.
A partire da tale momento, quindi, può dirsi abbia preso avvio un “dialogo” tra il
legislatore europeo e quello nazionale, il cui frutto tangibile si identifica nel processo
di normazione, per certi versi ancora in fieri, che ha interessato l’istituto dei rifiuti.
Detto dialogo, peraltro, è divenuto più serrato a partire da quando la Comunità
economica europea ha assunto una vera e propria competenza nella materia
ambientale per effetto delle modifiche che, in occasione dell’Atto Unico Europeo,
sono state apportate al Trattato Cee25
. L’introduzione nel corpus di quest’ultimo di
24
Tali concetti sono palesati expressis verbis nei primi due considerando della direttiva 75/442/Cee, i
quali recano testualmente: “considerando che una disparità tra le disposizioni in applicazione o in
preparazione nei vari Stati membri per lo smaltimento dei rifiuti può creare disuguaglianza nelle
condizioni di concorrenza e avere perciò un 'incidenza diretta sul funzionamento del mercato comune;
che è quindi necessario procedere, in questo settore, al ravvicinamento delle legislazioni previsto
dall'articolo 100 del trattato”; nonché “considerando che appare necessario che tale ravvicinamento
delle legislazioni sia accompagnato da un 'azione della Comunità per raggiungere con una più ampia
regolamentazione uno degli obiettivi della Comunità nel settore della protezione dell'ambiente e del
miglioramento della qualità della vita; che occorre quindi prevedere alcune disposizioni specifiche;
che, non essendo stati previsti dal trattato i poteri d'azione necessari a tal fine, occorre fare ricorso
all'articolo 235”. 25
Come evidenziato alla nota n. 22, retro, si trattava del Titolo VII, artt. 130R, 130S e 130T.
In particolare, si ricorda che ai sensi dell’art. 130 R del Trattato Cee “l'azione della Comunità in
materia ambientale ha l'obiettivo: a) di salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell'ambiente;
b) di contribuire alla protezione della salute umana; c) di garantire un'utilizzazione accorta e razionale
delle risorse naturali.
L'azione della Comunità in materia ambientale e fondata sui principi dell'azione preventiva e della
correzione, anzitutto alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina
paga". Le esigenze connesse con la salvaguardia dell'ambiente costituiscono una componente delle
altre politiche della Comunità.
Nel predisporre l'azione in materia ambientale la Comunità terrà conto: a) dei dati scientifici e tecnici
disponibili; b) delle condizioni dell'ambiente nelle varie regioni della Comunità; c) dei vantaggi e
degli oneri che possono derivare dall'azione o dall'assenza di azione; d) dello sviluppo
socioeconomico della Comunità nel suo insieme e dello sviluppo equilibrato delle sue singole regioni.
La Comunità agisce in materia ambientale nella misura in cui gli obiettivi di cui al paragrafo 1
possano essere meglio realizzati a livello comunitario piuttosto che a livello dei singoli stati membri.
Fatte salve talune misure di carattere comunitario, gli Stati membri assicurano il finanziamento e
l'esecuzione delle altre misure.
Nel quadro delle loro competenze rispettive, la Comunità e gli Stati membri cooperano con i Paesi
terzi e le organizzazioni internazionali competenti. Le modalità della cooperazione della Comunità
16
un Titolo ad hoc in tema di ambiente ha permesso alle istituzioni comunitarie di
intervenire con maggior autorevolezza e “disinvoltura” nella materia de qua e, per
l’effetto, ha segnato l’inizio di quel processo che ha condotto i rifiuti, e più in
generale l’ambiente, ad affrancarsi dall’obiettivo di realizzare un mercato unico e ad
acquisire autonomia rispetto a quest’ultimo.
Sulla base di tali premesse, nel 1991 il Consiglio è intervenuto a modificare la
direttiva 75/442/Cee attraverso la direttiva 91/156/Cee26
, il cui ambito di
applicazione si è da subito rivelato “ampio ed esaustivo, dal momento che l’Allegato
I alla medesima – nell’ambito della descrizione delle categorie di rifiuti – contempla
in maniera indifferenziata i rifiuti raccolti, trasportati, recuperati o smaltiti,
indipendentemente dalla loro natura, provenienza, nocività o pericolosità”27
.
La direttiva, tuttavia, all’art. 2, p. 2, fa salva la possibilità di introdurre attraverso atti
normativi ad hoc “disposizioni specifiche, particolari o complementari a quelle della
presente direttiva per disciplinare la gestione di determinate categorie di rifiuti”. Il
legislatore comunitario, infatti, sin da subito si è mostrato consapevole della
necessità di contemplare, accanto ad una disciplina di carattere generale, altre
previsioni calibrate in base alle peculiarità di determinate tipologie di rifiuti e delle
diverse modalità di gestione e trattamento degli stessi28
. “L’approvazione di direttive
comunitarie a ciò espressamente dedicate tende a conseguire un più elevato livello di
possono formare oggetto di accordi, negoziati e conclusi conformemente all'articolo 228, tra questa e i
terzi interessati”. 26
Si tratta della direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 156, 91/156/CEE, che sostituisce gli artt. da
1 a 12 della direttiva 75/442/Cee aggiungendo agli stessi tre documenti allegati. Sul punto, inter alia,
cfr. F. GIAMPIETRO, Smaltimento e recupero dei rifiuti nella direttiva Cee 156/91: strumenti ed
obiettivi nuovi per il legislatore italiano, in Rass. giur. en. elettr.,1992, 3, 617. 27
In questi termini G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit.. 28
In questo senso cfr. direttiva 78/319/CEE del Consiglio del 20 marzo 1978 relativa ai rifiuti tossici e
nocivi. Sul punto cfr. G. AMENDOLA, I rifiuti. Normativa italiana e comunitaria, Giuffrè, Milano,
1991; M. J. SUESS - J. W. HUISMANS, La gestion des dechets dangereux: principes directeurs et code
de bonne pratique, Copenaghen, 1984; F. ROELANTS DU VIVIER, Les vaisseux du poison. La route des
dechets toxiques, Parigi, 1988.
17
tutela dell’ambiente, in considerazione della specificità del trattamento necessario a
reimpiegare o smaltire tipologie di rifiuti che richiedono il confronto con i più evoluti
processi tecnico-scientifici; tende altresì a disciplinare compiutamente, regolare e
controllare, le attività economiche ed imprenditoriali correlate a specifici processi di
trattamento e gestione”29
, assumendo il carattere della specialità rispetto alla
disciplina di tipo generale. E’ in quest’ottica, dunque, che si spiega - ad esempio -
l’avvento delle direttive 91/689/Cee30
e 94/62/Ce31
, con cui le istituzioni comunitarie
hanno inteso disciplinare rispettivamente il settore dei rifiuti pericolosi, nonché
quello degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggi.
In attuazione di tali importanti direttive europee 32
, nonché all’esito di “un periodo di
travaglio legislativo”33
, in Italia è stato emanato il d. lgs. 5 febbraio 1997 n. 2234
,
meglio noto come decreto Ronchi, dal nome dell’allora Ministro dell’Ambiente. Tale
intervento si inseriva nel quadro dell’esigenza sovrannazionale di garantire il
soddisfacimento degli obiettivi fissati dall’Europa in tema di ambiente, in particolare
per quel che concerne “l’adeguamento dei modelli di consumo e produzione alla
29
Cfr. G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit.. 30
Direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991 n. 689, 91/689/Cee relativa ai rifiuti pericolosi. 31
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 dicembre 1994 n. 62, 94/62/Ce relativa agli
imballaggi e ai rifiuti di imballaggi. 32
Il riferimento, lo si ribadisce, è alle due direttive del 1991 in tema di rifiuti (direttiva del Consiglio
18 marzo 1991 n. 156, 91/156/Cee e direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991 n. 689, 91/689/Cee) e a
quella del 1994 relativa agli imballaggi e ai rifiuti di imballaggi (direttiva del Parlamento europeo e
del Consiglio 20 dicembre 1994 n. 62, 94/62/Ce), in ordine alle quali si rinvia a L. KRAMER - M.
ONIDA, Codice dell’ambiente. Norme comunitarie, Giappichelli, Torino, 2001. 33
Così si legge in A. MONTAGNA, (voce) Rifiuti (gestione dei), cit., il quale ricorda come durante tale
periodo si siano succeduti ben diciotto decreti legge “ed una legge c.d. ponte, intervenuti con
riferimento al testo base, ovvero al d.P.R. n. 915 del 1982”. 34
Il decreto, emanato in attuazione della legge delega 22 febbraio 1994 e pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 15 febbraio1997 n. 38, all’art. 56 ha abrogato la previdente disciplina contenuta nel citato
d. P.R. 10 settembre 1982 n. 915.
Come osservato da parte della dottrina, il c.d. Decreto Ronchi, ha dettato una “normativa ampia (58
articoli e nove allegati) e complessa”, che “per alcuni profili si è posta nel segno della continuità
rispetto alla normativa preesistente, sotto altri aspetti ha invece profondamente innovato la disciplina
della gestione dei ritiuti” (cfr. G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit.).
Per un commento allo stesso cfr. M. BALLETTI, La nuova disciplina dei rifiuti: d.lgs. 5 febbraio 1997
n. 22, attuazione delle direttive n. 91/156/Cee, n. 91/689/Cee; n. 94/62/Ce, Giappichelli, Torino,
1998; F. GIAMPIETRO, Il d.lgs. n. 22/1997 di attuazione delle direttive comunitarie sui rifiuti: le
perduranti situazioni di conflitto con la normativa europea, in Riv. giur. amb., 1997, 3-4, 397.
18
capacità dell’ambiente di sostenerne il peso, specialmente in una visione di lungo
periodo”35
.
Per la prima volta, in un unico testo normativo trovavano la loro compiuta
regolamentazione tutti gli aspetti fondamentali della disciplina giuridica dei rifiuti a
cominciare dall’enunciazione dei principi generali sino ai profili legati alla gestione
degli stessi36
, senza tralasciare questioni quali il riparto di competenze tra i vari
livelli di amministrazione37
e le procedure volte all’ottenimento di autorizzazioni per
realizzare attività di smaltimento o recupero38
.
Peculiarità della nuova normativa era innanzitutto la circostanza di recepire le
definizioni comunitarie di concetti cruciali per la materia de qua, prime tra tutte
quella di “rifiuto”39
e di “smaltimento”, quale “fase residuale della gestione dei
rifiuti”40
, in ragione della “primaria rilevanza assunta dalle azioni di prevenzione
nella produzione dei rifiuti, nonché dai trattamenti diretti al recupero – mediante
riutilizzo e riciclo – dei medesimi”41
. Inoltre il decreto in esame si caratterizzava per
il fatto di esortare al contingentamento della produzione di rifiuti attraverso l’utilizzo
di tecnologie pulite42
; per l’istituzione di un apposito Catasto dei rifiuti “destinato a
35
Cfr. A. MONTAGNA, (voce) Rifiuti (gestione dei), cit., dove si legge: “è noto come la produzione dei
beni e dei servizi che occorrono allo sviluppo [della società], dai trasporti alla sanità, sfruttino le
risorse della terra generando rifiuti e conseguentemente inquinamento. Si tratta dello smaltimento di
miliardi di tonnellate di rifiuti prodotti dalla nostra società dei consumi (basti pensare che solo
nell’Unione europea ogni anno devono essere trattati più di 21 milioni di tonnellate di rifiuti tossici)”. 36
Cfr. Titolo I, artt. 1-17 d. lgs. n. 22/1997. 37
Cfr. Titolo I, artt. 18 e ss. d. lgs. n. 22/1997. L’assetto ivi delineato, peraltro, ha poi trovato
conferma ai sensi dell’art. 85 d. lgs. 31 marzo 1998 n. 112, recante il nuovo trasferimento di funzioni
amministrative dallo Stato alle Regioni ed agli Enti locali. In proposito cfr. A. FERRARA, Commento
all’art. 85, in G. FALCON (a cura di), Lo Stato autonomista: funzioni statali, regionali e locali nel d.
lgs. n. 112 del 1998, Il Mulino, Bologna, 1998. 38
Cfr. Titolo I, artt. 27 e ss. d. lgs. n. 22/1997. In dottrina cfr. A. LOLLI, Autorizzazioni e verifiche
ambientali nel sistema normativo sulla gestione dei rifiuti, in Riv. giur. amb., 1998, 2, 203. 39
Cfr. art. 6, comma primo, lett. a). In proposito cfr. infra Capitolo II. 40
Cfr. art. 5, comma primo, d. lgs. n. 22/1997. 41
M. DI LULLO, Il rifiuto come bene: titolarità e gestione, in Riv. giur. amb., 2001, 3-4, 383. 42
Gli artt. 3 e 4 del d. lgs. n. 22/1997, infatti, sembrano esortare chiaramente alla prevenzione nella
produzione dei rifiuti nonché al recupero degli stessi. In particolare a mente dell’oramai abrogato art.
3, rubricato “prevenzione nella produzione dei rifiuti” si legge:
19
raccogliere i dati concernenti le qualità e le quantità dei rifiuti trattati43
ed, infine, per
l’individuazione di procedure amministrative volte a compendiare gli interessi dei
diversi soggetti operanti nella filiera dei rifiuti44
. Ex multis, come evidenziato da
parte della dottrina, “il decreto Ronchi, conferendo attuazione anche alle direttive sui
rifiuti pericolosi e di imballaggio, non costituisce soltanto fonte di disciplina dei
rifiuti in generale in quanto prevede agli artt. 34 e seguenti anche una serie di
disposizioni che regolano tali particolari categorie di rifiuti”45
.
“Le autorità competenti adottano ciascuna nell'ambito delle proprie attribuzioni iniziative dirette a
favorire, in via prioritaria, la prevenzione e la riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti
mediante:
a) lo sviluppo di tecnologie pulite, in particolare quelle che consentono un maggiore risparmio di
risorse naturali;
b) la promozione di strumenti economici, eco-bilanci, sistemi di ecoaudit, analisi del ciclo di vita dei
prodotti, azioni di informazione e di sensibilizzazione dei consumatori, nonché lo sviluppo del sistema
di marchio ecologico ai fini della corretta valutazione dell'impatto di uno specifico prodotto
sull'ambiente durante l'intero ciclo di vita del prodotto medesimo;
c) la messa a punto tecnica e l'immissione sul mercato di prodotti concepiti in modo da non
contribuire o da contribuire il meno possibile, per la loro fabbricazione, il loro uso o il loro
smaltimento, ad incrementare la quantità, il volume e la pericolosità dei rifiuti e i rischi di
inquinamento;
d) lo sviluppo di tecniche appropriate per l'eliminazione di sostanze pericolose contenute nei rifiuti
destinati a essere recuperati o smaltiti;
e) la determinazione di condizioni di appalto che valorizzino le capacità e le competenze tecniche in
materia di prevenzione della produzione di rifiuti;
f) la promozione di accordi e contratti di programma finalizzati alla prevenzione e alla riduzione della
quantità e della pericolosità dei rifiuti”.
In dottrina, quanto al principio di prevenzione o di azione preventiva si rinvia al recente scritto di F.
DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in AA. VV., Studi in
onere di Alberto Romano, Ed. Scientifica, Napoli, 2011, 2079. Ex multis cfr. D. AMIRANTE, I principi
comunitari di gestione dell’ambiente e il diritto italiano: prime note per un dibattito, in Dir. e
gestione dell’ambiente, 2001, 1, 7; M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente,
Giappichelli, Torino, 20007; P. DELL’ANNO, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale,
Giuffrè, Milano, 2004; ID. Prevenzione dell’inquinamento ambientale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1986,
1, 206; R. FERRARA, I principi comunitari di tutela dell’ambiente, in Dir. amm., 2005, 3, 509. 43
Cfr. art. 48 d. lgs. n. 22/1997 44
Si pensi, ad esempio, agli accordi di programma tra la pubblica amministrazione e i diversi
operatori economici. 45
In questi termini, B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente,. cit.. Sul punto cfr. il Titolo II
del d. lgs. n. 22/1997 che ha riguardo alla gestione dei rifiuti da imballaggio nonché il Titolo III dove
viene regolamentata la gestione di particolari categorie di rifiuti. In quest’ottica, si segnala inoltre la
creazione di Consorzi deputati alla gestione di singole tipologie di rifiuti, quali ad esempio la plastica,
il vetro o gli oli, al fine di assicurare trattamenti mirati (cfr., ad ex. art. 48 d. lgs. n. 22/1997). Ciò si
spiega con la volontà del legislatore nazionale di condividere l’idea comunitaria del rifiuto come
risorsa.
20
Ciò non di meno, il decreto in esame nella sua primigenia versione è stato oggetto di
critiche serrate che hanno indotto il legislatore ad emendarlo più volte46
, senza
tuttavia trovare il plauso della Corte di Giustizia47
. Quest’ultima, infatti, in più di
un’occasione ha giudicato il nostro Stato inadempiente nei confronti delle
prescrizioni impartite dalle istituzioni europee. E’ quanto è accaduto, ad esempio,
con riguardo all’art. 30, comma secondo, del d. lgs. n. 22 del 1997, ritenuto in
contrasto con l’art. 12 della direttiva 75/442/Cee – come modificata dalla direttiva
91/156/Cee – “nella parte in cui consente alle imprese di esercitare la raccolta ed il
trasporto dei rifiuti non pericolosi (…) come attività ordinaria e regolare, senza
sottostare all’obbligo di essere iscritte all’Albo nazionale delle imprese esercenti
servizi di smaltimento dei rifiuti”48
.
Contestualmente, sul fronte europeo sono stati emanati ulteriori atti normativi che
hanno imposto all’Italia un continuo sforzo di adattamento49
. In particolare, il
46
Il riferimento è al d. lgs. 8 novembre 1997 n. 389, c.d. Ronchi bis; L. 9 dicembre 1998 n. 426, c.d.
Ronchi ter; L. 23 marzo 2001 n. 93, c.d. Ronchi quater; nonché alla L. 31 luglio 2002 n. 179, recante
Disposizioni in materia ambientale. 47
Come ricorda P. DELL’ANNO, (voce) Rifiuti, cit., infatti, la disciplina contenuta nel d. lgs. n. 22/1997
“veniva più volte integrata e modificata negli anni successivi [alla sua adozione], mentre la Corte di
Giustizia europea sanzionava ripetutamente ingenui tentativi del nostro legislatore di rendere meno
gravosi gli obblighi degli operatori e di favorire il recupero di energia e di materia dai rifiuti”.
A titolo esemplificativo, si ricorda CGCE 25 novembre 2004, Commissione c. Italia, C-447/03, dove
si legge: “non avendo adottato le misure necessarie per assicurare che i rifiuti stoccati o depositati in
discarica (…) fossero recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare
procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente e non avendo adottato le
disposizioni necessarie affinché il detentore dei rifiuti stoccati o depositati in discarica (…)
consegnassero tali rifiuti ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un’impresa che effettua le
operazioni previste nell’allegato II A o II B della direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE,
oppure provvedessero essi stessi al loro recupero o smaltimento, la Repubblica italiana è venuta meno
agli obblighi su di essa incombenti ai sensi degli artt. 4 e 8 di detta direttiva”. Motivazioni dello stesso
tenore sono poste a fondamento anche delle sentenze CGCE 9 settembre 2004, Commissione c. Italia,
C- 375/02; CGCE 24 ottobre 2002, Commissione c. Italia, C-383/02; CGCE Commissione c. Italia, C-
516/03. 48
CGCE 9 giugno 2005, Commissione c. Italia, C-270/03. 49
A titolo esemplificativo basti ricordare: d. lgs. 13 gennaio 2003 n. 36, Recepimento della Direttiva
31/99/CE relativa alle discariche dei rifiuti; d. lgs. 14 marzo 2003 n. 65, Attuazione delle direttive
1999/45/CE e 2001/60/CE relativa alla classificazione, imballaggio ed etichettatura dei preparati
pericolosi; d. lgs. 24 giugno 2003 n. 182, Attuazione della Direttiva 2000/59/CE relativa agli impianti
portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi e dai residui del carico; d. lgs. 24 giugno 2003 n.
209, Attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai veicoli fuori uso; d.P.R. 15 luglio 2003 n. 254,
Regolamento recante la disciplina della gestione dei rifiuti sanitari a norma dell’art. 24 della L. 31
luglio 2002 n. 179; d.l. 14 novembre 2003 n. 314, Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento
21
recepimento nel nostro ordinamento di una serie di direttive dedicate a singoli aspetti
della gestione dei rifiuti è avvenuto con autonomi provvedimenti normativi, diretti ad
“affiancare” la disciplina generale originariamente contenuta nel d. lgs. n. 22 del
1997, che quindi ben presto ha finito con il perdere valore in termini di completezza
ed esaustività.
I.4 IL CODICE DELL’AMBIENTE (D. LGS. 3 APRILE 2006 N. 152) NON FERMA L’
“INQUINAMENTO NORMATIVO”
Dopo ripetute condanne imposte dalla Corte di Giustizia e, soprattutto, alla luce di
una disciplina legislativa in tema di rifiuti caratterizzata dalla frammentarietà e dalla
disorganicità, il legislatore italiano ha optato per una pressoché totale riforma del d.
lsg. n. 22 del 1997 che difatti è stato abrogato dal Titolo I, Parte IV, d. lgs. n. 152 del
200650
, meglio noto come Testo Unico ambientale o Codice dell’ambiente51
.
e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza, dei rifiuti radioattivi; d. lgs. 11 maggio 2005 n.
133, Recepimento della direttiva 2000/76/Ce in materia di incenerimento dei rifiuti; d. lgs. 25 luglio
2005 n. 1511, Recepimento direttiva 2003/95/Ce relativa alla riduzione dell’uso di sostanze
pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche e per lo smaltimento dei relativi rifiuti. 50
D. lgs. 3 aprile 2006 n. 152, Norme in materia di ambiente, pubblicato in Gazzetta Ufficiale 14
aprile 2006 n. 88. Nello specifico, è all’art. 264 di tale decreto che il legislatore ha disposto
l’abrogazione della previgente normativa come contenuta nel d. lgs. n. 22/1997, specificando tuttavia
che “al fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente
normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto, i provvedimenti attuativi del citato
decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22, continuano ad applicarsi sino alla data di entrata in vigore
dei corrispondenti provvedimenti attuativi previsti dalla parte quarta del presente decreto” (art. 264,
comma 1, lett. i), d. lgs. n. 152/2006).
Per un commento al quale si rinvia a F. GIAMPIETRO (a cura di), Commento al Testo Unico
ambientale, Ipsoa, Milano, 2006; R. GRECO, Codice dell’ambiente, Nel diritto editore, Roma, 2009. In
dottrina cfr. A. L. DE CESARIS, Una nuova disciplina per l’ambiente?, in Giorn. dir. amm., 2007, 1,
123; A. POSTIGLIONE, Il nuovo testo unico in materia ambientale: un quadro generale, in Dir. giur.
agr. amb., 2006, 2, 213. 51
La qualifica di “codice” è stata espressamente affermata dall’art. 3 quater, comma primo, del d. lgs.
n. 152/2006, come introdotto dall’art. 1, comma secondo, del d.lgs. n. 4/2008, e subito fatta propria
dalla Corte Costituzionale in una serie di sentenze (cfr., ad ex., C. Cost. 22 luglio 2009 n. 225; C.
Cost. 23 luglio 2009 nn. 233, 234, 235; C. Cost. 24 luglio 2009 nn. 246, 247, 249, 250, 251; nonché
C. Cost. 30 luglio 2009 n. 254).
Per quel che concerne il tema della codificazione ambientale si rinvia a F. FONDERICO, La muraglia e i
libri: legge delega, testo unico e codificazione del diritto ambientale, in Giorn. dir. amm., 2005, 6,
585; ID, La codificazione del diritto dell’ambiente in Italia: modelli e questioni, in Riv. trim. dir.
pubbl., 2006, 3, 612; ID., L’evoluzione della legislazione ambientale, in Riv. giur. ed., 2007, 2, 97; F.
GIAMPIETRO, Né testo unico né codice dell’ambiente …ma un unico contenitore per discipline
differenziate, in Ambiente & sviluppo, 2006, 5, 405; F. FRACCHIA, Codification and the environment,
in Italian Journal of pubblic law, 2009, 1, 22.
22
Quest’ultimo - rispetto al quale parte della dottrina preferisce parlare di testo
“unificato”52
- è stato emanato in attuazione della L. delega 15 dicembre 2004 n.
30853
che ha conferito al Governo la potestà di adottare uno o più decreti legislativi,
In un’ottica di comparazione con altre esperienze europee cfr. D. AMIRANTE, Codificazione e norme
tecniche nel diritto ambientale. Riflessioni sull’esperienza francese, in Dir. gest. ambiente, 2002, 1, 9;
H. JARASS, Il codice dell’ambiente in Germania, in D. DE CAROLIS - E. FERRARI - A. POLICE (a cura
di), Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Giuffrè, Milano, 2006. 52
In questo senso cfr. F. FONDERICO, La codificazione, cit., il quale ritiene che il d. lgs. n. 152/2006
non può definirsi codice dell’ambiente “non solamente nel senso in cui corrispondono a tale locuzione
le grandi codificazioni moderne: sistemi di valori, prima e ancora più che sistemi di norme, tesi a
delineare l’organizzazione giuridica di un’intera società. Ma neppure può definirsi tale nel senso, più
limitato e corrente, al quale ci si riferisce ragionando delle codificazioni post moderne”. L’A., così
argomentando, individua almeno cinque fattori che ostacolano l’anzidetta assimilazione.
Segnatamente, mancano l’omogeneità del materiale normativo ed un piano del codice, così come
risulta assente una parte generale contenente “le disposizioni di generale applicazione: principi,
definizioni, organi, competenze, situazioni soggettive e istituti trasversali che costituiscono l’elemento
di connessione orizzontale dei vari settori verticali”. Inoltre, risulta carente la “c.d. analisi interna della
normativa che si compendia nella scomposizione e ricomposizione sistematica del materiale
normativo” e, non da ultimo, “difetta l’aspirazione alla completezza”, intesa come esaustiva
trattazione di tutti i profili afferenti ad una determinata materia. Al contempo, però, il decreto in
esame si differenzia anche dal modello del testo unico, giacché di questo mancano tanto i requisiti di
forma quanto quelli di sostanza. Dunque, “non essendo un codice e neppure un testo unico, la
definizione che meglio gli si addice è quella di testo unificato: ed infatti esso è il frutto della mera
unificazione dei vari schemi di decreti che avrebbero dovuto separatamente riordinare i singoli settori
oggetto della delega”.
In senso analogo cfr. A. CELOTTO, Il codice che non c’è: il diritto ambientale tra codificazione e
semplificazione, in www.giustamm.it, 2006; F. FRACCHIA, Lo sviluppo sostenibile, ESI, Napoli, 2010;
F. GIAMPIETRO, Né testo unico né codice, op. cit.; nonché M. RENNA, Semplificazione e ambiente, in
Riv. giur. ed., 2008, 1, 37, il quale scrive: “il d. lgs. n. 152 del 2006, che alcuni identificano in modo
improprio come il "codice dell'ambiente". In realtà (…) il decreto in questione non è affatto un codice
e non è nemmeno un t. u.”.
Per un inquadramento generale in ordine al tema della codificazione, in specie quella c.d. di settore si
rinvia a A. CIOFFI, (voce) “Codificazione” e principi generali (dir. amm.), in Dig. disc. pubbl.
(aggiornamento), UTET, 2010; N. IRTI, “Codici di settore”: compimento della “decodificazione”, in
M. A. SANDULLI (a cura di), Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, Giuffrè, Milano,
2005; B. G. MATTARELLA, (voce) Codificazione, in S. CASSESE (a cura di) Dizionario di diritto
pubblico, Giuffré, Milano, 2006. 53
Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 2004 n. 302 e rubricata “delega al Governo per
il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di
diretta applicazione”.
In proposito, si segnala che tra gli argomenti addotti da parte della dottrina a sostegno della tesi
secondo cui il d. lgs. n. 152/2006 non costituisce propriamente un’opera di codificazione, ve ne è uno
che trova fondamento proprio nella citata Legge di delega. Ricorda, infatti, A. CELOTTO, Il codice che
non c’è, cit., che “la legge di delega [all’art. 1, comma primo] non conferiva al Governo la potestà di
codificare, bensì quella di adottare (…) uno o più decreti legislativi di riordino, coordinamento e
integrazione” delle disposizioni legislative in materia ambientale, “anche mediante la redazione di
testi unici”. Non stupisce, dunque, che, come evidenziato dall’A., “puntualmente il d. lgs. n. 152 del
2006 non si autoqualifica né come codice né come testo unico, ma semplicemente come Norme in
materia ambientale”.
23
anche in forma di testi unici, per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della
legislazione in materia ambientale54
.
Tra i settori interessati, ovviamente, anche quello dei rifiuti che ha trovato la propria
disciplina a norma degli artt. 177 e ss. del d. lgs n. 152 del 200655
. Tuttavia, tra le
critiche che parte della dottrina ha mosso nei confronti di tale opera di
razionalizzazione56
, vi è il fatto che la normativa sui rifiuti non è riuscita a trovare
nel citato decreto la sua unica sedes materiae57
.
54
Per un commento alla L. 15 dicembre 2004 n. 308 cfr. F. GIAMPIETRO, Delega al governo per il t.u.
ambientale: una corsa (inutile?) contro il tempo, in Ambiente, 2005, 2, 105; ID., I criteri direttivi
specifici (?) della legge delega sui testi unici ambientali, in Ambiente, 2005, 3, 205; A. LIGUORI, La
legge delega in materia ambientale: prime considerazioni, in Foro it., 2005, V, 59. 55
Con precipuo riferimento alla materia dei rifiuti, i principi ed i criteri direttivi dettati dalla L. delega
n. 308/2004 sono, tra gli altri: I) assicurare un’efficace azione per l’ottimizzazione quantitativa e
qualitativa della produzione dei rifiuti, finalizzata, comunque, a ridurne la quantità e la pericolosità;
II) semplificare (…) e razionalizzare le procedure di gestione dei rifiuti speciali; III) promuovere il
riciclo e il riuso dei rifiuti, anche utilizzando le migliori tecniche di differenziazione e di selezione
degli stessi, nonché il recupero di energia (…); IV) prevedere i necessari interventi per garantire la
piena operatività delle attività di riciclaggio (…); V) razionalizzare il sistema di raccolta e di
smaltimento dei rifiuti solidi urbani (…); VI) promuovere la specializzazione tecnologica delle
operazioni di recupero e di smaltimento dei rifiuti speciali, al fine di assicurare la complessiva
autosufficienza a livello nazionale; VII) garantire adeguati incentivi e forme di sostegno ai soggetti
riciclatori dei rifiuti e per l’utilizzo di prodotti costituiti da materiali riciclati, con particolare
riferimento al potenziamento degli interventi di riutilizzo e riciclo del legno e dei prodotti da esso
derivati; VIII) definire le norme tecniche da adottare per l’utilizzo obbligatorio dei contenitori di
rifiuti urbani adeguati, che consentano di non recare pregiudizio all’ambiente nell’esercizio delle
operazioni di raccolta e recupero dei rifiuti nelle aree urbane. Ex multis, sul punto cfr. V. CERULLI
IRELLI – G. C. DI SAN LUCA (a cura di), La disciplina giuridica dei rifiuti in Italia, cit.. 56
M. RENNA, Le semplificazioni amministrative (nel decreto legislativo n. 152 del 2006), in Riv. giur.
amb., 2009, 5, 651, ad esempio, rileva come la “complessità normativa [che caratterizza la materia
ambientale] non sia stata affatto eliminata né invero significativamente attenuata con l’approvazione
del d. lgs. n. 152/2006. Diversi i punti deboli che secondo l’A. minano la bontà dell’intervento
legislativo in argomento. Innanzitutto, “la legge di delega n. 308 del 2004 ha lasciato fuori dalla
delegazione legislativa diversi settori di tutela ambientale”, quale ad esempio quello della tutela
paesaggistica. In secondo luogo, tale legge è stata attuata solo in modo parziale, giacché con il d. lgs.
n. 152/2006 “non si è neanche provveduto a disciplinare tutti i settori nei quali la legge n. 308 del
2004 aveva delegato il Governo a riordinare, coordinare e integrare le disposizioni vigenti”. Ex
mutltis, il Governo ha mostrato di voler rinunciare a “percorrere la strada, pur espressamente indicata
dalla legge di delega, di redigere uno o più testi unici di riforma organica della disciplina ambientale”.
Alla luce di tali argomenti, dunque, la dottrina citata osserva che “la fretta con la quale il decreto è
stato confezionato ha condotto all’approvazione di un testo censurabile nel merito, sotto diversi
profili, tra cui quelli del rispetto delle norme e dei principi comunitari e dell’osservanza del nuovo
riparto delle competenze legislative stabilito dalla Costituzione, oltre a quello della conformità con la
legge di delega”.
Ex multis, ID. Semplificazione e ambiente, cit.. nonché A. CELOTTO, Il codice che non c’è, cit., il
quale, intendendo per codice un “atto unitario, organico, coerente, portatore di principi, regolante
fattispecie astratte, con norme tese a durare nel tempo, in maniera da creare un ordinamento
sezionale”, scrive che in Italia “non abbiamo un codice ambientale, dato che – a ben vedere – il
decreto legislativo n. 152 del 2006 non è, in senso stretto, un codice”. A suffragio di tale assunto, l’A.
adduce l’esistenza di “almeno tre argomenti decisivi”: il nomen juris (aspetto relativamente al quale
24
Fuori dai confini del d. lgs. n. 152 del 2006, infatti, “si trovano recepite non solo
numerose direttive concernenti particolari categorie di rifiuti, ma anche diverse
direttive di maggior respiro”58
. Si pensi, ad esempio, alla direttiva 1999/31/CE sulle
discariche, recepita con il d. lgs. 13 gennaio 2003 n. 36; nonché alla direttiva
2000/59/CE, relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi
ed i residui di carico, recepita con il d. lgs. 24 giugno 2003 n. 182; ed, ancora, alla
direttiva 2000/76/CE in tema di incenerimento dei rifiuti, recepita con il d. lgs. 11
maggio 2005 n. 133 e, infine, alla direttiva 2006/21/CE relativa alla gestione dei
rifiuti delle industrie estrattive, recepita con il d. lsg. 30 maggio 2008 n. 11759
.
Ciò non di meno, sembra potersi convenire con quella parte della dottrina incline a
ritenere che “con l’adozione del d. lgs. n. 152/2006 si è avuto un parziale ma
consistente riordino della disciplina vigente in alcuni dei più importanti ambiti del
diritto ambientale, [tra cui proprio quello dei rifiuti], che ha consentito, a seguito di
cfr. nota n. 53, retro); il contenuto normativo, poiché “il testo del c.d. codice è troppo ampio e
dettagliato, senza unitarietà e privo di norme sistematiche o di principio”; ed infine la scarsa stabilità,
dal momento che “il d. lgs. n. 152 non ha mostrato alcuna persistenza, avendo subito in meno di tre
anni una serie cospicua di modifiche”. 57
M. RENNA, Semplificazione e ambiente, cit., secondo cui “è sufficiente riscontrare, per esempio,
come la parte quarta del decreto, relativa alla gestione dei rifiuti, sia colma di rinvii a fonti normative
esterne al medesimo decreto, riguardanti pressoché tutte le regolamentazioni sub-settoriali [inerenti
alla materia de qua], nonché addirittura la disciplina delle discariche e quella dell'incenerimento di
rifiuti, che sono rimaste rispettivamente nel d. lgs. n. 36 del 2003 e nel d. lgs. n. 133 del 2005, anziché
essere inglobate nello stesso d. lgs. n. 152 del 2006. (…) Pertanto, quand'anche si reputasse che il
Governo non avrebbe potuto occuparsi del riordino, del coordinamento e dell'integrazione di
disposizioni legislative non ancora vigenti al momento dell'entrata in vigore della legge di delega,
andrebbe comunque constatato che sarebbe stato ben possibile (…) dettare le disposizioni contenute”
nei decreti legislativi previgenti “insieme a quelle contenute nel d. lgs. n. 152 del 2006, all'interno di
un unico e unitario provvedimento normativo”. 58
M. RENNA, Ambiente e territorio, cit.. 59
Ex multis, non compresa nel d. lgs. n. 152/2006 era anche la direttiva 96/61/CE sulla prevenzione e
la riduzione integrate dell’inquinamento (modificata dalle direttive 2003/35/CE e 2003/87/CE),
recepita in un primo tempo solo parzialmente dal d. lgs. 4 agosto 1999 n. 372 e, successivamente, in
via integrale da parte del d. lgs. 18 febbraio 2005 n. 59.
25
successivi interventi correttivi60
, l’emergere di una embrionale forma di
codificazione”61
.
La bontà di quest’ultima, peraltro, è stata ripetutamente vagliata dalla Corte
Costituzionale che nel solo luglio del 2009 si è pronunciata in proposito con ben
dieci sentenze62
. Benché in tale occasione il casus belli avesse riguardo
essenzialmente al riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni nella materia
ambientale63
, il Giudice delle Leggi ha sfiorato anche aspetti specifici64
della
60
Il riferimento è, in particolare, alle modifiche introdotte dal d. lgs. 16 gennaio 2008 n. 4, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale 29 gennaio 2008 n. 24, recante “Ulteriori disposizioni correttive ed integrative
del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, Norme in materia di ambiente”. 61
Così F. FONDERICO, Corte costituzionale e codice dell’ambiente, in Gior. dir. amm., 2010, 4, 368. 62
Il riferimento è alle sentenze citate alla nota n. 51, retro. 63
Come ricorda parte della dottrina (cfr. F. FONDERICO, Corte costituzionale, cit.), infatti, la Corte
costituzionale è stata “chiamata a giudicare della legittimità costituzionale del d. lgs. n. 152/2006,
impugnato in via principale da numerose Regioni nella sua interezza e nelle sue parti più qualificanti.
[Tuttavia] sebbene la tipologia di giudizio verta su questioni di riparto delle sfere costituzionali di
competenza dello Stato e delle Regioni”, la Corte con le citate sentenze “non realizza soltanto una
tendenzialmente stabile actio finium regundorum tra centro e periferia, ma a tale risultato perviene
sulla base di una preliminare chiarificazione di presupposti (di teoria generale) e nozioni (di diritto
ambientale) che meritano altrettanta considerazione”. Le pronunce del luglio 2009, infatti,
s’impongono all’attenzione perché la Corte, al fine di affermare la legittimità costituzionale del
decreto impugnato e, dunque, la competenza esclusiva del legislatore nazionale a legiferare in materia
ambientale, ricostruisce in via preliminare la nozione di ambiente.
Al riguardo, il leading case è costituito dalla sentenza C. Cost. 22 luglio 2009 n. 225 (rel. Maddalena),
dove “la Corte sembra aver abbandonato la nozione di trasversalità dell’ambiente (…) per addentrarsi
nel sentiero, non privo di insidie della qualificazione dell’ambiente come bene a tutti gli effetti”. Così
F. DE LEONARDIS, La Corte costituzionale sul codice dell’ambiente tra moderazione e disinvoltura, in
Riv. giur. ed., 2009, 7, 1455, il quale osserva come due siano i passaggi essenziali della sentenza,
“costituiti dalla definizione dell’ambiente come bene e dalla distinzione tra definizione e fruizione del
bene stesso”.
Dal primo punto di vista può affermarsi come la sentenza in argomento si ponga in linea di continuità
rispetto a precedenti pronunce (C. Cost. 7 novembre 2007 n. 367; C. Cost. 14 novembre 2007 n. 378;
C. Cost. 14 aprile 2008 nn. 104 e 105; C. Cost. 5 marzo 2009 n. 61. Nonché ancor prima C. Cost. 28
maggio 1987 n. 210, rispetto alla quale cfr. E. PICOZZA, L’ambiente … allo Stato, in Corr. giur., 1987,
925), in cui il Giudice delle Leggi aveva qualificato l’ambiente come bene unitario e materiale rispetto
al quale lo Stato gode di una competenza di tipo esclusivo, con ciò mostrando una chiara inversione di
tendenza rispetto a quanto affermato in altre occasioni dove la Corte aveva parlato di “materia
trasversale “ o “valore”.
Quanto, invece, al secondo aspetto, “la Corte afferma in modo netto che spetta allo Stato la tutela e la
conservazione dell’ambiente mediante la fissazione di livelli di tutela mentre alle Regioni spetta solo
essenzialmente il potere di regolare la fruizione dell’ambiente”. In altri termini, “si ribadisce che lo
Stato deve provvedere a definire il bene ambiente nei suoi contenuti mentre le Regioni devono
occuparsi di come tale bene può e deve essere goduto dal pubblico e dai vari soggetti” (cfr. F. DE
LEONARDIS, La Corte costituzionale, cit.). Tuttavia la Corte non chiarisce se, come sostenuto da
ampia parte della dottrina, in capo alle Regioni residui la potestà di adottare norme più stringenti
rispetto a quelle statali ai fini della tutela dell’ambiente (sul tema si rinvia a M. G. DELLA SCALA, La
circolazione dei rifiuti tra discipline regionali, normativa statale, vincoli costituzionali e principi di
diritto europeo, in Foro amm. CdS, 2009, 2, 356).
26
disciplina contenuta nel d. lgs. n. 152 del 2006, compreso appunto il tema dei
rifiuti65
.
Quanto poi ai contenuti della disciplina giuridica dettata dal d. lgs. n. 152 del 2006, è
possibile affermare come quest’ultimo nella sua Parte IV, accanto a taluni segnali di
continuità rispetto alle disposizioni di cui al d. lgs. 5 febbraio 1997 n. 2266
, presenti
anche significativi elementi di novità. Dal punto di vista dell’organizzazione
Con riguardo alla configurazione dell’ambiente come valore, materia, bene, ecc. da parte della Corte
costituzionale cfr. A. CIOFFI, L’ambiente come materia dello Stato e come interesse pubblico.
Riflessioni sulla tutela costituzionale e amministrativa, a margine di Corte Cost. n. 225 del 2009, in
Riv. giur. amb., 2009, 6, 970; P. DELL’ ANNO, La tutela dell’ambiente come “materia” e come valore
costituzionale di solidarietà e di elevata protezione, in Ambiente & sviluppo, 2009, 7, 585; F.
FRACCHIA, Sulla configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà
ambientale, in Dir. econ., 2002, 1, 215; P. MADDALENA, L’ambiente come valore costituzionale
nell’ordinamento comunitario, in Cons. St., 1999, 4, 675; ID., L’ambiente: prolegomeni per una sua
tutela giuridica, in Riv. giur. amb., 2008, 3-4, 523; ID., La giurisprudenza della Corte costituzionale
in materia di tutela e fruizione dell’ambiente e le novità sul concetto di “materia”, sul concorso di più
competenze sullo stesso oggetto e sul concetto di materie, in Riv. giur. amb., 2010, 5, 685.
Per quel che concerne il riparto di competenze tra Stato e Regioni ante riforma del Titolo V Cost. cfr.
M. CECCHETTI, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2000. Per un
esame di ciò che è accaduto a seguito della L. cost. n. 3/2001 si rinvia, tra gli altri, a M. CECCHETTI,
La disciplina giuridica della tutela dell’ambiente come “diritto dell’ambiente”, in
www.federalismi.it, 2006; G. CORSO - V. LOPILATO (a cura di), Il diritto amministrativo dopo le
riforme costituzionali, Giuffrè, Milano, 2006; F. COSTANTINO, Il Titolo V alla luce della
giurisprudenza costituzionale sulla tutela dell’ambiente, in AA. VV., Studi in onore di Alberto
Romano, vol. III, Ed. Sc., Napoli, 2011, 2233; F. CUOCOLO, Le energie rinnovabili tra Stato e
Regioni. Un equilibrio instabile tra mercato, autonomia e ambiente, Giuffrè, Milano, 2011; F.
ELEFANTE, La materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” e il riparto delle competenze
legislative ed amministrative in materia ambientale tra Stato e Regioni, in AA. VV., Studi in onore di
Vincenzo Atripaldi, Jovene, Napoli, 2010; R. FERRARA, La tutela dell’ambiente fra Stato e regioni:
una “storia infinita”, in Foro it., 2003, 692; F. FONDERICO, Riforma costituzionale e tutela
dell’ambiente, in Ambiente, 2002, 2, 337; F. FRACCHIA, La “materia ambiente” nel testo del Titolo V,
in www.federalismi.it, 2002. Più di recente cfr. P. MADDALENA, La giurisprudenza della Corte, cit.;
ID., La tutela dell’ambiente nella giurisprudenza costituzionale, in Giorn. dir. amm., 2010, 3, 307; ID.,
Come si determina la materia di cui all’art. 117 Cost., in www.federalismi.it, 2008; ID.,
L’interpretazione dell’art. 117 e dell’art. 118 della Costituzione secondo la recente giurisprudenza
costituzionale in tema di tutela e fruizione dell’ambiente, in www.giustizia-amministrativa.it, 2008;
M. RENNA, L’allocazione delle funzioni normative e amministrative, in G. ROSSI (a cura di), Diritto
dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. 64
A titolo esemplificativo, si ricordano C. Cost. 22 luglio 2009 n. 235 in tema di danno ambientale e
C. Cost. 24 luglio 2009 n. 247 sugli imballaggi e le bonifiche, per un commento alle quali cfr. F. DE
LEONARDIS, La Corte costituzionale, cit.. 65
Il riferimento è a C. Cost. 24 luglio 2009 n. 249, dove la Corte – pur mostrando di condividere
l’impianto della pronuncia “capofila” (C. Cost. 22 luglio 2009 n. 225) nell’affermare la competenza
esclusiva dello Stato in materia ambientale – non manca di riconoscere “la lesione di prerogative
regionali” per ciò che concerne l’esercizio della potestà legislativa e regolamentare. Sul punto cfr.
amplius F. DE LEONARDIS, La Corte costituzionale, cit.. 66
Sottolineano questo aspetto G. BOTTINO – R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit.. Volendo esemplificare, si
pensi alla classificazione dei rifiuti in urbani, speciali e pericolosi contenuta nell’art. 184 d. lgs. n.
152/2006 che riproduce il contenuto dell’art. 7 del decreto Ronchi. Ancora, si veda il riparto di
competenze tra Stato, Regioni ed Enti locali in tema di gestione, laddove gli artt. 195 e ss. d. lgs. n.
152/2006 confermano quanto precedentemente previsto ex artt. 18 e ss. d. lgs. n. 22/1997.
27
amministrativa in tema di rifiuti, ad esempio, vengono in rilievo le c.d. Autorità
d’ambito, ossia nuove Autorità dotate di personalità giuridica, previste per la prima
volta dall’art. 201 del d. lgs. n. 152 del 2006, “in relazione alla necessità di gestire su
scale territoriali ottimali determinati servizi pubblici di rilevanza ambientale, quali
(…) il servizio di gestione integrata dei rifiuti”67
. Inoltre, per quel che concerne
l’aspetto funzionale, il legislatore all’art. 208 del d. lgs. n. 152 del 2006 ha previsto
l’autorizzazione unica per la costruzione e la gestione degli impianti di smaltimento e
di recupero, “nella quale sono state accorpate l’autorizzazione alla realizzazione
degli impianti e l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento e di
recupero dei rifiuti”68
, un tempo distinte benché emanabili contestualmente ex art.
27, comma nono, del d. lgs. n. 22 del 1997. Infine, l’art. 209 del Codice
dell’ambiente ha sostanzialmente integrato quanto già previsto nel senso della
semplificazione dall’art. 18 della L. n. 93 del 200169
per quel che concerne il rinnovo
delle autorizzazioni all’esercizio degli impianti di gestione dei rifiuti e il rinnovo
dell’iscrizione all’Albo nazionale gestori rifiuti70
.
67
M. RENNA, Le semplificazioni amministrative, cit., il quale tuttavia si mostra critico nei confronti di
questo nuovo istituto, affermando come con la sua creazione il legislatore del 2006 abbia operato in
senso contrario rispetto all’esigenza di “procedere pure a un disboscamento della selva di Autorità ed
Enti pubblici istituiti appositamente per lo svolgimento di funzioni di tutela dell’ambiente”, nell’ottica
di una razionale redistribuzione delle funzioni amministrative. L’A., infatti, non manca di rilevare che
quanto previsto a norma dell’art. 201 d. lgs. n. 152/2006 rappresenta “una novità assai significativa
rispetto a quanto disposto in precedenza (…) dall’art. 23 del decreto Ronchi”. Per completezza,
occorre poi segnalare che l’art. 2, comma trentotto, della L. 24 dicembre 2007 n. 244 (L. finanziaria
per il 2008), ai fini della riduzione dei costi derivanti da duplicazioni di funzioni, è intervenuta sul
punto. Detta norma “della finanziaria, ha determinato, nella sostanza, un superamento delle
disposizioni del decreto n. 152 sulle Autorità d’ambito prima ancora che avesse inizio la loro
attuazione, costituendo un indubbio segnale positivo nella direzione di una semplificazione
organizzativa in materia di ambiente”. 68
M. RENNA, Le semplificazioni amministrative, cit.. 69
Si tratta della L. 23 marzo 2001 n. 93, rubricata Disposizioni in campo ambientale. 70
Detta disposizione, infatti, ha previsto che al meccanismo dell’autocertificazione previsto dalla
legge del 2001 si possa fare ricorso quando il soggetto interessato sia in possesso, non solo della
certificazione Emas, ma anche della certificazione Ecolabel o dei certificati UNI EN ISO 14001.
Simile previsione, come osservato in dottrina (M. RENNA, Le semplificazioni amministrative, cit.),
costituisce un importante segnale nell’ottica della semplificazione procedimentale, ammissibile,
nonostante l’intrinseca complessità della materia ambientale, poiché nel caso di specie la decisione
semplificata “concerne meri rinnovi di provvedimenti ampliativi già rilasciati, limitatamente ai quali
28
Eppure non sempre i segnali di cambiamento sono stati salutati con favore. Parte
della dottrina, ad esempio, descrive come un “vistoso esempio di complicazione
nell’allocazione delle funzioni amministrative” le previsioni in tema di gestione dei
rifiuti originariamente contenute negli artt. 214 e ss. del d. lgs. n. 152 del 2006. Da
questo punto di vista, infatti, il Codice dell’ambiente nella sua primigenia versione,
innovando rispetto ai previgenti artt. 31 e ss. del d. lgs. n. 22 del 1997, aveva previsto
che le procedure semplificate per l’ottenimento dell’autorizzazione allo svolgimento
delle attività di auto-smaltimento e dell’esercizio delle operazioni di recupero
avvenissero con partecipazione sinergica della Sezione regionale dell’Albo nazionale
dei gestori ambientali e della Provincia competente. Tale assetto, però, è stato dai più
tacciato di essere in contrasto con i principi di efficacia, efficienza ed economicità
che debbono informare l’attività amministrativa, tanto da indurre il legislatore del
200871
a ripristinare lo status quo ante.
D’altro canto, quello appena citato costituisce solo uno dei tanti possibili esempi di
interventi “ortopedici” operati in via legislativa sul corpus del Codice dell’ambiente
con riguardo ai rifiuti. Non può sottacersi, infatti, come la disciplina contenuta nella
Parte IV del d. lgs. n. 152 del 2006, lungi dall’imporsi agli operatori giuridici con il
carattere della stabilità, sia stata più volte emendata tra il 2006 e il 201072
, quando il
si ritiene che ci si possa fidare delle verifiche e dei controlli tecnici effettuati dai certificatori
ambientali”. 71
Per effetto dell’art. 2, commi trentadue e ss, del d. lgs. 16 gennaio 2008 n. 4, infatti, il legislatore è
intervenuto a modificare quanto previsto a norma degli artt. 214, 215 e 216 del d. lgs. n. 152/2006. 72
In proposito si ricorda, innanzitutto, il d. lgs. 8 novembre 2006 n. 284 (G.U. 24 novembre 2006 n.
274) “Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, recante norme
in materia ambientale”, con cui il legislatore ha disposto, da un lato, l’abrogazione dell’art. 207
(“Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti”) e, dall’altro lato, la modifica di parte dell’art.
224, secondo comma, (“Consorzio nazionale imballaggi) del d. lgs. n. 152/2006. Inoltre, il medesimo
decreto all’art. 1, commi primo e secondo, “con disposizioni che non sembrano avere precedenti, ha
previsto una sorta di scaletta degli interventi emendativi da effettuare” (M. RENNA, Semplificazione e
ambiente, cit.).
Successivamente, a quasi due anni di distanza dall’adozione del Codice dell’ambiente, il d. lgs. 16
gennaio 2008 n. 4 -(G.U. 29 gennaio 2008 n. 24) “Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del
decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, recante norme in materia ambientale” – ha comportato una
riforma più incisiva. Nello specifico il legislatore, oltre ad aver modificato e abrogato alcuni articoli
29
d. l. n. 10573
- andando a toccare una norma fondamentale, qual è quella relativa
all’ambito di applicazione della normativa stessa – ha costituito preludio della
riforma più radicale operata sul finire del 2010.
Il descritto proliferare di atti normativi costituisce indubbiamente espressione
tangibile “dell’ipertrofia che caratterizza il diritto dell’ambiente”74
, tanto da indurre
taluno a parlare di un vero e proprio “inquinamento normativo”75
. Parte della
dottrina, infatti, osserva criticamente come il diritto dell’ambiente sia cresciuto “sotto
una pioggia incessante di norme comunitarie, in grande prevalenza direttive, che
troppo spesso il legislatore nazionale ha recepito pedissequamente con decreti
legislativi isolati e scoordianti rispetto alle altre fonti normative”76
. Se si esamina il
rapporto tra le norme interne e quelle di matrice europea, infatti, si apprezza ictu
oculi come le prime altro non facciano che “rincorrere” continuamente le seconde.
L’intero escursus sin qui condotto, d’altra parte, è pervaso da continui riferimenti
agli sforzi compiuti dal legislatore italiano per ottemperare alle prescrizioni dettate
del Codice e ad averne sostituiti integralmente altri – quali, ad esempio, gli artt. 181, 182 e 185 – ha
introdotto ex novo gli artt. 181 bis, 206 bis e 252 bis. Sempre nel 2008, inoltre, la parte IV del Codice
dell’ambiente è stata interessata da altri cinque interventi legislativi, operati rispettivamente con: d. l.
23 maggio 2008 n. 90; d. l. 3 novembre 2008 n. 171; d. lgs. 20 novembre 2008 n. 188; d. l. 29
novembre 2008 n. 185 ed, infine, d. l. 30 dicembre 2008 n. 208. 73
Il d. l. 8 luglio 2010 n. 105 (in G. U. 9 luglio 2010 n. 158), conv. in L. 13 agosto 2010 n. 129,
all’art. 1, comma terzo, ha modificato l’art. 185 d. lgs. n. 152/2006 rubricato “Esclusioni dall’ambito
di applicazione”. Detto decreto, peraltro, era stato preceduto nel 2009 da un ulteriore intervento di
riforma operato con il d. l. 25 settembre 2009 n. 135 (in G. U. 25 settembre 2009 n. 223), conv. in L.
20 novembre 2009 n. 166, che all’art. 13, comma quattro lett. b) ha inserito nell’art. 236 d. lgs. n.
152/2006, rubricato “Consorzio nazionale per la gestione, raccolta e trattamento degli oli minerali
usati”, le lett. l bis); l ter); e l quater). 74
M. RENNA, Le semplificazioni amministrative cit.; nonché, in senso analogo D. AMIRANTE, Il diritto
ambientale italiano e comparato, Jovene, Napoli, 2003; A. CELOTTO, Il codice che non c’è, cit.. 75
L’espressione è riportata da M. RENNA, Le semplificazioni amministrative, cit.. 76
M. RENNA, Le semplificazioni amministrative, cit.. In senso analogo cfr. ID., Semplificazione e
ambiente in G. SCIULLO (a cura di), La semplificazione nelle leggi e nell’amministrazione: una nuova
stagione, Bonomia University Press, Bologna, 2008; R. FERRARA - F. FRACCHIA - N. OLIVETTI
RASON, Diritto dell’ambiente, Laterza, Bari, 2005.
30
dal legislatore europeo77
. Il che – si è visto – ha dato luogo ad una “perniciosa
incertezza sull'affidabilità delle prescrizioni contenute”78
nel Codice dell’ambiente.
I.5 LA DIRETTIVA RIFIUTI 2008/98/CE E LA SPINTA DELL’EUROPA VERSO OBIETTIVI
DI GREEN ECONOMY
In linea di continuità con quella che può definirsi la “storia” della legislazione
nazionale in tema di rifiuti si colloca anche il d. lgs. n. 205 del 2010, ultimo
“importante” intervento normativo operato dall’Italia nella materia de qua. Anche in
questo caso, infatti, le modifiche che il citato decreto ha apportato alla Parte IV del
Codice dell’ambiente trovano la propria ragion d’essere nella necessità dello Stato di
recepire una direttiva, segnatamente la n. 2008/98/Ce79
. Quest’ultima, approvata il 2
ottobre 2008, a seguito di un intenso carteggio tra Consiglio e Parlamento europeo80
,
attiene essenzialmente alla gestione integrata dei rifiuti e va ad incidere in maniera
alquanto significativa sui precetti contenuti nella direttiva 2006/12/Ce81
, la quale a
sua volta aveva modificato la “storica” direttiva 75/442/Cee82
.
Prima di procedere all’esame del d. lgs. n. 205 del 2010, dunque, sembra opportuno
spendere qualche breve considerazione in ordine alla direttiva che esso recepisce, al
fine di indagarne quantomeno la ratio e gli obiettivi.
77
A titolo esemplificativo si ricordano gli atti normativi già menzionati alla nota n. 49 retro. 78
M. RENNA, Semplificazione e ambiente, cit., il quale scrive: “la disorganicità e l’asistematicità della
legislazione ambientale, [in specie per quel che concerne la materia dei rifiuti], vanno ben oltre ciò
che può ritenersi in qualche modo fisiologico a causa della complessità della materia in re ipsa”. 79
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 n. 98, 2008/98/Ce, relativa
ai rifiuti e che abroga alcune direttive, pubblicata in G.U. L. 312 del 22 novembre 2008. In dottrina,
per un commento cfr., inter alia, H. A. NASH, The revised Directive on waste: resolving legislative
tensions in waste management?, in 21 [2009] 1 JEL 139; E. SCOTFORD, The new waste directive –
trying to do it all … an early assessment, in 11 [2009] ELR 75. 80
Tale aspetto è chiaramente sottolineato da H. NASH, Agreement reached on the revised directive on
waste, cit., dove si legge: “nonostante il disaccordo circa gli obiettivi e l’avversione degli Stati
membri in ordine agli obblighi relative alla gestione dei rifiuti, il Parlamento europeo e il Consiglio
hanno raggiunto un compromesso politico nella stesura della Direttiva rifiuti”. 81
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 n. 12, 2006/12/Ce, relativa ai
rifiuti, pubblicata in G.U. L. 114 del 27 aprile 2006. Quest’ultima risulta abrogata a partire dal 12
dicembre 2010, data entro cui gli Stati membri avevano l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie
per conformarsi alla nuova direttiva europea. In dottrina, per un commento cfr., inter alia, E.
SCOTFORD, Trash or treasure: policy tensions in EC waste regulation, in [2007] 3 JEL 367. 82
Direttiva del Consiglio del 15 luglio 1975 n. 442, 75/442/Cee, relativa ai rifiuti.
31
Al riguardo, è possibile osservare come quattro siano gli architravi su cui essa
poggia83
.
Innanzitutto, vera e propria mission della direttiva 2008/98/Ce è promuovere la c.d.
società rifiuti - zero, ossia “aiutare l’Unione europea ad avvicinarsi a una società del
riciclaggio, cercando di evitare la produzione di rifiuti e di utilizzare i rifiuti come
risorse”84
.
Se è vero dunque che - come spiegano alcuni autori - “i rifiuti sono tanto diversi dai
beni da poter essere considerati il loro contrario”, giacché “si tende a disfarsi dei
rifiuti mentre si vuole godere e/o disporre dei beni”85
, con la direttiva in commento il
legislatore europeo sembra esortare a meditare funditus prima declassare un bene a
rifiuto.
83
B. DENTAMARO - F. IERVOLINO, La disciplina comunitaria dei rifiuti vecchia e buona normativa a
confronto, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2010, 1, 359 dove si legge che “i principi ai quali la direttiva
si ispira sono essenzialmente quattro”.
Non stupisce, peraltro, che l’intero impianto della direttiva possa riassumersi nei suoi principi
ispiratori, giacché come ricorda la dottrina “il principio postula un valore, un fine generale” (A.
CIOFFI, (voce) “Codificazione” e principi generali, cit.). Esso, dunque - osserva A. ROMANO,
Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del convegno celebrativo del 150°
anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983 - “s’impone come norma oggettiva
e garantisce all’amministrazione autonomia e discrezionalità”.
In generale, per quel che concerne il ruolo dei principi nell’ordinamento cfr., inter alia, S. BARTOLE,
(voce) Principi generali del diritto, in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986; V. CRISAFULLI, I principi
costituzionali dell’interpretazione ed applicazione delle leggi, in Scritti in onore di Santi Romano,
Padova, 1940; F. MODUGNO, (voce) Principi generali dell’ordinamento, in Enc. giur., XXIV, Roma,
1991; U. RESCIGNO, Sui principi generali del diritto, in Scritti in onore di L. Mengoni, Giuffrè,
Milano, 1995.
Con specifico riferimento ai principi relativi alla pubblica amministrazione cfr., da ultimo, M. RENNA
– F. SAITTA, Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2012. Inoltre cfr. G. DELLA
CANANEA – C. FRANCHINI, I principi dell’amministrazione europea, Giappichelli, Torino, 2010; A.
POLICE, Principi e azione amministrativa, in F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo,
Giappichelli, Torino, 2008; G. SALA, Principi generali “costituzionali” per l’attività amministrativa,
in Annuario AIPDA, Giuffrè, Milano, 2004. 84
Così si legge al considerando n. 28 della direttiva 2008/98/Ce, il quale prosegue affermando: “in
particolare, il Sesto programma comunitario di azione in materia ambientale sollecita misure volte a
garantire la separazione alla fonte, la raccolta e il riciclaggio dei flussi di rifiuti prioritari. In linea con
tale obiettivo e quale mezzo per agevolarne o migliorarne il potenziale recupero, i rifiuti dovrebbero
essere raccolti separatamente nella misura in cui ciò sia praticabile da un punto di vista tecnico,
ambientale ed economico, prima di essere sottoposti a operazioni di recupero che diano il miglior
risultato ambientale complessivo. Gli Stati membri dovrebbero incoraggiare la separazione dei
composti pericolosi dai flussi di rifiuti se necessario per conseguire una gestione compatibile con
l’ambiente”. 85
R. FEDERICI, La nozione di rifiuti: una teoria, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2006, 6, 1951.
32
Dunque, alla luce delle esigenze di tutela ambientale nonché in virtù del principio di
integrazione86
, si palesa l’opportunità di considerare i rifiuti come risorse87
. E ciò a
conferma del fatto che l’ambiente nelle sue molteplici componenti “non solo è
disceso dal diritto internazionale e da quello comunitario al sistema nazionale, ma
tende oggi ad interessare orizzontalmente qualsiasi attività svolta sia da soggetti
pubblici che da soggetti privati”88
, specie quelle di tipo commerciale89
.
Il Sesto Programma europeo di azione ambientale, ad esempio, mostra di volere
“indurre il mercato a lavorare per l’ambiente” dal momento che ha proposto il ricorso
al c.d. approccio non normativo, ossia ad un insieme di azioni tese ad “orientare i
mercati e la domanda dei consumatori verso prodotti e servizi ecologicamente
superiori (…) garantendo che per quanto possibile il prezzo dei prodotti incorpori il
86
In base a tale principio, “le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate
nella definizione e nella attuazione delle politiche e azioni comunitarie”. Esso, inserito in occasione
dell’Atto Unico europeo (art. 130 R del Trattato Ce), con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam
è confluito nell’art. 6 del Trattato Ce. Oggi, invece, a seguito delle modifiche apportate dal Trattato di
Lisbona, lo stesso si trova menzionato a norma dell’art. 130 TFUE. Inoltre, lo stesso è sancito anche
all’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza nel 2000 e oggi,
ex art. 6 Trattato UE (come modificato in occasione di Lisbona) recante “lo stesso valore giuridico
dei Trattati”.
In dottrina cfr. F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente tra Unione europea e WTO, in Dir.
amm., 2004, 3, 513; L. KRAMER, EU enviromental law, cit.; M. WEAIMER, The integration of
environmental protection as a general rule for interpretino community law, in 38 [2001] Com. market
law rev., 1, 159. 87
In particolare, la dottrina (R. FEDERICI, La nozione di rifiuti: una teoria, cit.) puntualizza che le
istituzioni europee chiedono di “assicurare un elevato livello di protezione ambientale e non già di
trasformare artificialmente i rifiuti in non rifiuti”. 88
Così F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit., il quale, osserva che quello che “è stato
definito come il più importante di tutti i principi, [ossia quello di integrazione], prescrive che qualsiasi
attività, tanto più quelle di cura concreta dell’interesse generale posta in essere dalle amministrazioni
comunitarie, e di riflesso anche da quelle nazionali, debba prendere in considerazione la componente
ambientale, misurarsi con essa e integrarla come uno degli elementi inderogabili del bilanciamento di
interessi”. Ex multis cfr. M. C. CAVALLARO, Il principio di integrazione come strumento di tutela
dell’ambiente, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2007, 2, 467. 89
In proposito, da ultimo, R. ROTA, Ambiente e libertà economiche. Principio di integrazione e
bilanciamento di interessi tra ordinamento comunitario e ordinamento interno, in
www.astridonline.it, 2011. Inoltre, prima ancora, cfr. F. CAPELLI, Tutela ambientale e libertà di
circolazione delle merci: due principi a confronto, in Dir. com. sc. int., 2003, 3, 620; M. MONTINI,
Commercio e ambiente: bilanciamento tra tutela ambientale e libera circolazione delle merci nella
giurisprudenza della CGCE, in Dir. com. sc. int., 2002, 2, 429; A. WEALE - A. WILLIAMS, Between
economy and ecology? The single marrket and the integration of environmental policy, in D. JUDGE
(ed.), A green dimension for the EC, Frank Kass, London, 1993.
33
reale costo ambientale”90
. Del pari, da alcuni anni a questa parte la Corte di Giustizia
- in una nutrita serie di pronunce – ha preso a riconoscere expressis verbis “che vi
possono essere casi in cui la tutela ambientale limita la libertà di circolazione delle
merci”91
, purché siano rispettate talune condizioni92
.
90
Il Sesto Programma di azione ambientale, la cui operatività è prevista per gli anni 2001 – 2010, è
stato adottato con la decisione del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 luglio 2002,
106/2002/Ce (GUCE L 242 del 10 settembre 2002). In dottrina, per un commento, cfr. F. FONDERICO,
Sesto Programma di azione UE per l’ambiente e strategie tematiche, in Riv. giur. amb., 2007, 5, 698.
Evidenzia l’influenza che il Sesto Programma ha esercitato in materia di rifiuti D. POCKLINGTON, The
significance of the proposed changes to the waste framework directive, in [2006] EELR, 1, 175. 91
In questi termini F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit.. L’A., infatti, ricorda come in
materia ambientale la Corte di Giustizia sia stata considerata un “attivista politico” nonché “una fonte
di idee fondamentali del processo di integrazione” (cfr. M. SHAPIRO, The european Cour of Justice, in
A. SBRANCIA (ed.), Euro-politics, The Booking Institute, Washington, 1992; J. WHEILER, Journey to
an unknown destination: a retrospective and perspective of the European Court of Justice in the arena
of political integration, in 31 [1993] Journ. Comm. Market Studies 4, 417.
Tra le prime sentenze, si segnalano in particolare: CGCE, 20 settembre 1988, Commissione c.
Danimarca, C-302/1986; CGCE, 13 luglio 1989, Enichem c. Cinisello Balsamo, C-380/87; CGCE, 25
luglio 1991, Aragonesa de publicidad, C-1/90; CGCE, 9 luglio 1992, Commissione c. Belgio, C-2/90;
CGCE, 13 aprile 1994, Commissione c. Germania, C-131/93; CGCE, 17 maggio 1994, Repubblica
francese c. Commissione, C-41/93; CGCE, 3 dicembre 1998, Bluhme, C-67/97. 92
In CGCE 20 settembre 1988, Commissione c. Danimarca, C-302/1986, ad esempio, la Corte ha
affermato che la tutela dell’ambiente costituisce un’esigenza imperativa in ossequio alla quale è
ammissibile che una disposizione nazionale vada a limitare la libera circolazione delle merci, a patto
che però risultino integrate “tre condizioni: la disciplina nazionale deve applicarsi indistintamente ai
prodotti nazionali e a quello importati; essere necessaria per rispondere ad esigenze imperative del
diritto comunitario; essere proporzionata al fine perseguito”. Nel caso di specie, la Danimarca aveva
adottato una misura, concernente l’obbligo di commercializzare alcuni tipi di bevande in contenitori
riutilizzabili, che secondo la Commissione si poneva in contrasto con l’allora art. 30 del Trattato Cee,
a mente del quale “sono vietate le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di
effetto equivalente”.
In dottrina, cfr. M. MAZZAMUTO, Diritto dell’ambiente e sistema comunitario delle libertà
economiche, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2009, 6, 1571 il quale, esaminando il rapporto tra la tutela
dell’ambiente e le libertà economiche garantite a livello europeo, scrive che la problematicità della
questione ambientale si esprime primariamente nel bilanciamento con altri beni giuridici. In
particolare, l’A. evidenzia come la giurisprudenza della Corte di Giustizia abbia cercato di inquadrare
l’interesse ambientale “nel sistema delle libertà economiche”, a dimostrazione del fatto che non è
“ammissibile alcuna impostazione di unilateralismo ambientalista”. In altri termini, “l’evocazione
dell’interesse ambientale, sempre che in effetti ricorra, non può essere assunto come motivo che
determini un terreno franco per l’intervento pubblico”. Di tutto ciò sono espressione talune pronunce
della Corte di Giustizia in cui il fine della tutela dell’ambiente non è prevalso su altri e diversi
interessi, spesso in ragione del mancato rispetto del principio di proporzionalità. In questo senso cfr.
CGCE, 16 novembre 2000, C-217/99; CGCE, 29 novembre 2001, C-17/00; CGCE, 14 dicembre 2004,
C- 309/02; CGCE, 20 settembre 2007, C-297/05.
In ordine al principio di proporzionalità cfr. da ultimo S. COGNETTI, Principio di proporzionalità.
Profili di teoria generale e di analisi di sistema, Giappichelli, Torino, 2010 e D. U. GALETTA,
Principio di proporzionalità, in M. RENNA – F. SAITTA, Studi sui principi del diritto amministrativo,
Giuffré, Milano, 2012.
Ex multis, cfr. E. CANNIZZARO, Il principio di proporzionalità nell’ordinamento internazionale,
Giuffrè, Milano, 2000; D. U. GALETTA, Dall’obbligo di trasposizione delle direttive all’obbligo di
rispetto del principio di proporzionalità: riflessioni a prima lettura, in Riv. it. dir. pubbl. comunit.,
1997, 1, 89; ID, Il principio di proporzionalità comunitario e il suo effetto si spill over negli
ordinamenti nazionali, in Nuove autonomie, 2005, 2, 541; G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea,
cit.; J. UEDDA, Is the principle of proportionality the european approach? A review and analysis of
34
Inoltre, l’opportunità di vagliare la percorribilità di altre vie prima di disfarsi di un
bene indubbiamente risponde al secondo architrave della direttiva rifiuti, vale a dire
al principio di prevenzione, il quale – essendo collocato al vertice della gerarchia dei
rifiuti ex art. 4 direttiva 2008/98/Ce93
– riveste un ruolo centrale “nella gerarchia
delle modalità di approccio alle problematiche ambientali generate dalla produzione
dei rifiuti”94
.
Anzi, è possibile affermare che la prevenzione – o azione preventiva – costituisce
proprio “il principio ispiratore della disciplina comunitaria dei rifiuti”95
dettata dalla
direttiva in esame. Qui inoltre lo stesso – pur non trovando ancora una vera e propria
definizione96
– vede finalmente “perimetrato” il suo proprium a norma dell’art. 3 n.
12, dove si legge che rientrano nel novero della prevenzione tutte le “le misure,
trade and environment cases before the european Court of Giustice, in 14 [2003] Eur. bus. law. rew.,
5, 557. 93
L’art. 4 della direttiva 2008/98/Ce è rubricato “gerarchia dei rifiuti”. Al comma primo si legge: “la
seguente gerarchia dei rifiuti si applica quale ordine di priorità della normativa e della politica in
materia di prevenzione e gestione dei rifiuti: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c)
riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio recupero di energia, e e) smaltimento”. 94
F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit., il quale evidenzia come la direttiva 2008/98/Ce sia
animata dall’intento di attuare “il passaggio da quella che significativamente è stata considerata come
la società del consumo a quella che, con espressione della medesima direttiva, viene indicata come la
“società del riciclaggio”. Al considerando n. 29, infatti, si legge che “gli Stati membri dovrebbero
sostenere l’uso di materiali riciclati (come la carta riciclata) in linea con la gerarchia dei rifiuti e con
l’obiettivo di realizzare una società del riciclaggio e non dovrebbero promuovere, laddove possibile,
lo smaltimento in discarica o l’incenerimento di detti materiali riciclati”. 95
F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.; nonché E. SCOTFORD, The new waste directive,
cit.. 96
Tale principio, infatti, non ha ancora trovato – quantomeno a livello normativo - una compiuta
definizione, nonostante già da alcuni anni esso trovi frequentemente menzione tanto in atti di diritto
internazionale (cfr. Dichiarazione di Rio) ed europeo (oltre agli atti di diritto derivato, si tenga
presente che la prevenzione è stata inserita nel Trattato Cee già nel 1986 in occasione dell’Atto
Unico europeo), quanto nelle Carte costituzionali (articolo 45 della Costituzione spagnola e articolo
66 della Costituzione portoghese) e negli atti legislativi di numerosi Stati (in Francia la L. 7 aprile
1987 n. 11 (c.d. legge base sull’ambiente) che all’art. 2, comma primo, stabilisce che “le azioni aventi
effetti immediati o futuri sull’ambiente devono essere considerate in via preventiva, riducendo o
eliminando le cause prima di correggere gli effetti di tali azioni o di attività suscettibili di modificare
la qualità dell’ambiente”).
Analogamente – evidenzia la dottrina (F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.) - nel Codice
dell’ambiente italiano “la prevenzione, pur richiamata tra i principi [ex art. 3 ter] e in circa quaranta
articoli (più della metà dei quali i materia di rifiuti e bonifiche), non viene definita specificatamente
nei suoi contenuti”. L’opera di ricostruzione, dunque, per lungo tempo è spettata all’interprete che, a
tal fine, ha potuto avvalersi delle indicazioni desumibili dai contesti normativi in cui il principio
campeggia e, soprattutto, dalla giurisprudenza, in primis della Corte di Giustizia (ad ex. CGCE, 26
aprile 2005, Commissione c. Irlanda, C-494/01) e della Corte europea dei diritti dell’uomo
(significative le pronunce in materia di ambiente, a cominciare da CEDU 9 dicembre 1994 ric. n.
16798/90).
35
prese prima che una sostanza, un materiale o un prodotto sia diventato un rifiuto, che
riducono: a) la quantità dei rifiuti, anche attraverso il riutilizzo dei prodotti o
l’estensione del loro ciclo di vita; b) gli impatti negativi dei rifiuti prodotti
sull’ambiente e sulla salute umana; oppure c) il contenuto di sostanze pericolose in
materiali e prodotti”.
Ciò basta a segnare la distanza tra il principio de quo e quello di precauzione97
,
nonché a percepire come la direttiva in esame sia la prova di un sostanziale
revirement nell’approccio che le istituzioni europee hanno nei confronti dei rifiuti.
L’aver collocato la prevenzione in cima alla gerarchia dei rifiuti, infatti, sta ad
indicare che - a differenza di quanto postulato fino ad un recente passato – obiettivo
prioritario degli Stati membri non deve essere quello di ripristinare lo status quo ante
dopo che un danno si è verificato, poiché al contrario il principio dell’azione
preventiva “prevede l’adozione di misure [atte a] prevenire ogni possibile danno o
deterioramento”98
del bene ambiente.
97
Per quel che concerne il principio di precauzione si rinvia innanzitutto allo studio monografico di F.
DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione del rischio, Giuffrè, Milano, 2005,
dove si legge: “se si considera che le valutazioni che giustificano l’applicazione del principio di
precauzione sono connotate da rischio e incertezza, mentre quelle che consentono l’applicazione del
principio di prevenzione risultano connotate da regole meno elastiche e probabilistiche, non si può
non rimarcare che i due principi corrispondano ciascuno a presupposti differenziati, ovvero che la
precauzione costituisca uno sviluppo o una specificazione della prevenzione”. In senso analogo cfr. D.
AMIRANTE, Il principio precauzionale tra scienza e diritto. Profili introduttivi, cit.; M. CECCHETTI,
Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, cit.; N. DE SADELEER, Enviromental Principles.
From Political slogans to legal rules, OUP, Oxford, 2002; G. MANFREDI, Note sull’attuazione del
principio di precauzione in diritto pubblico, in Dir. pubbl., 2004, 3, 1075; T. MAROCCO, Il principio
di precauzione e la sua applicazione in Italia e in altri Stati membri della Comunità europea, in Riv.
it. dir. pubbl. comunit., 2003, 6, 1233.
Viceversa, per quel che concerne la oramai risalente teoria unificatrice si rinvia a P. DELL’ANNO,
Principi del diritto ambientale, cit., secondo cui il principio di azione preventiva rappresenta una
“mera sub- funzione” del principio di prevenzione. Nonché cfr. B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto
dell’Ambiente,cit.; C. CORDINI, Diritto ambientale comparato, Cedam, Padova, 2002; A. GOSSEMENT,
Le principe de precaution, L’Harmattan, Paris, 2003.
Ex multis, con riguardo al principio in argomento cfr. F. DE LEONARDIS, Tra precauzione e
ragionevolezza, cit.; R. FERRARA, I principi comunitari di tutela dell’ambiente, cit.; H. HOHMANN,
Precautionary legal duties and principles of modern international environmental law: the
precautionary principle: International environmental law between exploitation and protection,
Gratham & Trotman, London, 1994; L. KRAMER, EU enviromental law, cit.; A. KISS - D. SHELTON,
Manual of european enviromental law, Cambridge Univ. Press, Cambridge, 1993. 98
L. KRAMER, EU enviromental law, cit., il quale osserva che “il principio dell’azione preventiva (…)
riveste importanza fondamentale in ogni politica ambientale efficace, perché permette di intraprendere
36
Ciò non di meno, anche il principio “chi inquina paga” costituisce tutt’oggi un
ulteriore pilastro della direttiva 2008/98/Ce, seppure il suo ruolo sia sensibilmente
mutato rispetto alle origini. Questo, introdotto nell’allora Trattato Cee in occasione
dell’Atto Unico Europeo, in realtà è comparso per la prima volta a livello
comunitario in una raccomandazione nel 197599
. Al tempo, nella logica
“mercantilista” della Comunità economica europea, l’avvento di tale principio
sembrò costituire una vera e propria “rivoluzione copernicana”, nella misura in cui lo
stesso appariva idoneo ad incidere su aspetti considerati cruciali, quale ad esempio
quello degli aiuti di stato alle imprese100
.
Il richiamo al contesto storico in cui per la prima volta il principio de quo è emerso,
dunque, appare da solo sufficiente a spiegarne la originaria vocazione economica101
.
In un primo tempo, infatti, la locuzione “chi inquina paga” stava essenzialmente ad
indicare che “i costi dovuti al deterioramento dell’ambiente, il danno da
inquinamento e i costi delle bonifiche non [avrebbero dovuto] essere sostenuti dalla
azioni con anticipo rispetto all’aggravarsi dei problemi”. Esso, inoltre reca “importanti risvolti
economici perché spesso è molto più costoso riparare un danno – sempre che sia possibile bonificare
completamente – piuttosto che evitarlo”. In senso analogo A. KISS - D. SHELTON, Manual, cit.. 99
Il riferimento è alla raccomandazione 75/436/Euratom/CECA/Cee, relativa alle modalità di
applicazione del principio e pubblicata in G.U.C.E. n. L. 144 del 25 luglio 1975, nella quale si legge
che “ le persone fisiche e giuridiche, di diritto pubblico o privato responsabili di inquinamento devono
sostenere i costi delle misure necessarie per evitarlo o per ridurlo”. In realtà, riferimenti al principio de
quo si rinvengono anche in atti precedenti, come ad esempio la comunicazione del 1972 della
Commissione al Consiglio relativa al Primo Programma delle Comunità europee per l’ambiente (in
G.U.C.E. n. C 52 del 26 maggio 1972).
In dottrina cfr. D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit., il quale scrive: “primo
ad affermarsi a livello comunitario il principio chi inquina paga nasconde nella semplicità della sua
formula slogan, (…) una certa ambiguità e notevoli difficoltà di applicazione, soprattutto perché
corrisponde ad una visione dei rapporti fra attività umane ed ambiente sostanzialmente superata”. 100
Per quel che concerne gli aiuti di stato cfr, per tutti, O. PORCHIA, (voce) Aiuti di stato, in Dig. disc.
pubbl. (aggiornamento), UTET, 2010. Sul legame tra politica ambientale e aiuti di stato alle imprese
cfr. F. CAPELLI, Tutela ambientale, cit.; A. COLAVECCHIO, Aiuti di stato, ostacoli al commercio tra
Stati membri ed esigenze di tutela dell’ambiente nella giurisprudenza comunitaria. A proposito della
sentenza Preussenelektra, in Cons. Stato, 2003, II, 869; C. CORDINI, Diritto ambientale comparto, cit.;
F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit.. 101
Tale assunto trova costanti conferme nella dottrina. Oltre a D. AMIRANTE, Il diritto ambientale
italiano e comparato, cit., cfr. M. CECCHETTI, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, cit.;
M. MELI, Le origini del principio chi inquina paga e il suo accoglimento da parte della comunità
europea, in Riv. giur. amb., 1989, 1, 217.
37
società attraverso le imposte, ma da chi ha causato il danno. Per questo non
[dovevano] essere elargiti aiuti statali per pagare i costi delle bonifiche”102
.
Negli anni, tuttavia, detto principio ha finito per essere soggetto ad un ribaltamento
di prospettiva, tale per cui la responsabilità di colui che inquina si impone come
precipitato indefettibile della tutela dell’ambiente e non come grimaldello giuridico
atto unicamente a presidiare la costruzione del mercato unico. Alla luce dell’art. 191,
comma secondo, TFUE, infatti, il principio “chi inquina paga” costituisce una sorta
di ultima ratio non solo perché antieconomico, ma soprattutto perché implica una
tutela per equivalente (ossia la monetizzazione del danno) inidonea a garantire il
ripristino dello status quo ante. Come osservato da parte della dottrina, infatti, risulta
acquisito che “l’ottica del rattoppo ambientale” poggia “su due presupposti oggi non
più condivisibili, quali la percezione delle risorse ambientali come beni
sostanzialmente illimitati o comunque sempre riproducibili, e la capacità del sapere
scientifico e dell’organizzazione sociale di riparare sempre e comunque eventuali
danni”103
.
In definitiva, posto che la scienza ecologica ha sconfessato l’idea della perfetta
fungibilità tra utilità ambientali e utilità economiche, il modello di tutela solamente
successiva dell’ambiente appare oggi “sostanzialmente superato da una più corretta
impostazione della tutela ambientale in senso soprattutto preventivo”104
. Al principio
102
L. KRAMER, EU enviromental law, cit.. 103
In proposito D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit., il quale ricorda che
l’origine del principio chi inquina paga “va individuata sicuramente nella teoria economica, in
particolare nell’idea della necessità di internazionalizzare i costi della tutela ambientale attribuendoli
agli inquinatori”. Ex multis cfr. M. CECCHETTI, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, cit.;
e P. DELL’ANNO, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, cit., il quale sottolinea come già
nel Terzo Programma comunitario di azione ambientale si affermava che “l’addebito dei costi
destinati alla protezione dell’ambiente a chi causa l’inquinamento incita quest’ultimo a ridurre
l’inquinamento provocato dalle proprie attività ed a ricercare prodotti e tecnologie meno inquinanti”. 104
D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit.. Ma anche R. FERRARA, I principi
comunitari, cit., il quale evidenzia che “i principi europei (…) ci ricordano che o le politiche
pubbliche degli odierni sistemi multilivello si prefiggono di attivare forme e strumenti di protezione a
carattere preventivo, capaci coerentemente di operare ex ante, prima che gli eventi dannosi si siano
verificati, oppure non ci sarà che la tutela ex post, a carattere meramente risarcitorio, e che, questa
38
“chi inquina paga” resta dunque una funzione – per così dire – deterrente105
, oltre che
“un ruolo di utile complemento sia nella fase di internazionalizzazione dei costi, sia
come norma di chiusura nei casi in cui l’approccio preventivo fallisca”106
.
Quarto ed ultimo architrave della direttiva 2008/98/Ce è il principio della
responsabilità estesa del produttore107
, la cui aspirazione è quella di costituire “uno
dei mezzi per sostenere una progettazione e una produzione dei beni che prendano
pienamente in considerazione e facilitino l’utilizzo efficiente durante l’intero ciclo di
vita (…) senza compromettere la libera circolazione delle merci nel mercato
interno”108
. A tale principio sembrerebbe dunque spettare il ruolo di tres d’union tra
l’obiettivo di dare vita ad una società del riciclo e quello di improntare la gestione dei
rifiuti al principio di prevenzione, specie nella sua “accezione positiva”109
. Al
stessa, è poca cosa, sostanzialmente consolatoria, e spesso, per giunta, di non agevole realizzazione
sul piano pratico”. 105
Al riguardo, cfr. M. CAFAGNO, Principi e strumenti, cit., dove si legge che “l’imposizione
dell’onere della riparazione è diretta ad influire sulla condotta dei consociati, inducendoli, con la
prospettiva della responsabilità a tener conto, nei rispettivi calcoli di convenienza, dei costi di
ripristino ambientale”. 106
D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit.. 107
L’art. 8 della direttiva 2008/98/Ce, rubricato “responsabilità estesa del produttore” dispone:
“Per rafforzare il riutilizzo, la prevenzione, il riciclaggio e l’altro recupero dei rifiuti, gli Stati membri
possono adottare misure legislative o non legislative volte ad assicurare che qualsiasi persona fisica o
giuridica che professionalmente sviluppi, fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti
(produttore del prodotto) sia soggetto ad una responsabilità estesa del produttore. Tali misure possono
includere l’accettazione dei prodotti restituiti e dei rifiuti che restano dopo l’utilizzo di tali prodotti,
nonché la successiva gestione dei rifiuti e la responsabilità finanziaria per tali attività. Tali misura
possono includere l’obbligo di mettere a disposizione del pubblico informazioni relative alla misura in
cui il prodotto è riutilizzabile e riciclabile.
Gli Stati membri possono adottare misure appropriate per incoraggiare una progettazione dei prodotti
volta a ridurre i loro impatti ambientali e la produzione di rifiuti durante la produzione e il successivo
utilizzo di prodotti e ad assicurare che il recupero e lo smaltimento dei prodotti che sono diventati
rifiuti avvengano in conformità con gli articoli 4 e 13.
Tali misure possono incoraggiare, tra l’altro, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di
prodotti adatti all’uso multiplo, tecnicamente durevoli e che, dopo essere diventati rifiuti, sono adatti a
un recupero adeguato e sicuro e a uno smaltimento compatibile con l’ambiente.
Nell’applicare la responsabilità estesa del produttore, gli Stati membri tengono conto della fattibilità
tecnica e della praticabilità economica nonché degli impatti complessivi sociali, sanitari e ambientali,
rispettando l’esigenza di assicurare il corretto funzionamento del mercato interno. 108
In questi termini il considerando n. 27 della direttiva 2008/98/Ce. 109
Tale espressione è presa in prestito da F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit., il quale
evidenzia come il principio di azione preventiva codificato all’art. 3, comma dodici, della direttiva
2008/98/Ce possa essere declinato secondo due accezioni: una negativa e una positiva. Dal primo
punto di vista, tale principio “postula un intervento a monte del processo di produzione o di consumo
(…) volto a diminuire le quantità di materiali prodotti e immessi in commercio al fine di ottenere un
risparmio delle risorse naturali”. In altri termini, si tratta di “una sorta di invito a produrre di meno o a
39
contempo lo stesso testimonia anche la marcata interazione esistente tra la materia
ambientale e quella economica110
. Non può sottacersi, infatti, come la messa al bando
di un prodotto111
piuttosto che l’imposizione dell’obbligo di conformarsi a
determinati standard nella progettazione di un bene112
, costituiscano misure capaci di
esplicare effetti dirompenti sul piano economico, giacché si risolvono in prescrizioni
che interessano intere filiere produttive. Non è un caso, pertanto, se misure del
genere di quelle citate vengono normalmente introdotte in maniera graduale e, in
ogni caso, facendo (almeno teoricamente) salva la possibilità per gli Stati membri di
valutare aspetti cruciali, quali la fattibilità tecnica e la praticabilità economica.
mettere in commercio di meno”. E’ quello che accede, ad esempio, con le misure di messa al bando di
prodotti ritenuti particolarmente pericolosi per l’ambiente (in proposito cfr. l’art. 1, comma 1130,
della L. 26 dicembre 2006 n. 296 (L. finanziaria per il 2007) che ha previsto, a decorrere dal 1 gennaio
2011, il divieto di commercializzare sacchetti non biodegradabili per l’asporto delle merci, c.d.
shopper. Sul punto cfr. amplius nota n. 111, infra). Quanto, invece, all’accezione positiva, in questo
caso la prevenzione “incoraggia lo sviluppo”, nella misura in cui suggerisce di produrre in modo
diverso. Da tale punto di vista, inoltre, la medesima dottrina evidenzia come il principio di azione
preventiva possa essere ulteriormente scomposto, essendo enucleabili una prevenzione “a monte”
(progettazione ecologica); una prevenzione “durante” (sottoprodotti) ed, infine, una prevenzione “a
valle” (cessazione della qualifica del rifiuto) del processo di produzione. 110
Al riguardo cfr., inter alia, M. CAFAGNO, La cura dell’ambiente tra autorità e mercato, in AA.
VV., Ambiente, attività amministrativa e codificazione. Atti del primo colloquio di diritto
dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2006; F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit.; R. ROTA,
Ambiente e libertà economiche, cit.. 111
Si veda, ad esempio, l’art. 1, comma 1130, della L. 26 dicembre 2006 n. 296 (L. finanziaria per il
2007) che ha previsto, a decorrere, dal 1 gennaio 2011, il divieto di commercializzare sacchetti non
biodegradabili per l’asporto di merci, c.d. shopper. Sul punto, peraltro, si segnala che mutatis
mutandis sul finire degli anni ottanta del secolo scorso il sindaco del comune di Cinisello Balsamo
aveva adottato misure analoghe. Al tempo, tuttavia, la questione oltre a destare grande scalpore era
stata portata al vaglio della Corte di Giustizia (CGCE 13 luglio 1989, Enichem c. Cinisello Balsamo,
C-308/87). 112
Al riguardo cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit., secondo il quale il principio della
responsabilità estesa del produttore, come codificato dall’art. 8 della direttiva 2008/98/Ce, sembra
inteso a realizzare una prevenzione “a monte”, giacché postula “un vero e proprio facere, una
produzione realizzata sulla base di una progettazione ecologica: di prodotti che diventano rifiuti in un
tempo maggiore (prodotti tecnicamente durevoli) , di prodotti i cui componenti sono riutilizzabili (uso
multiplo); di prodotti i cui componenti sono riciclabili; di prodotti comunque ecocompatibili”.
In concreto, ciò può implicare, con riferimento ad alcuni tipi di beni, quali ad esempio i veicoli o i
pneumatici, “la progettazione di un sistema articolato di raccolta dei prodotti “a fine vita”. Al
riguardo, si ricorda che la Corte di Giustizia nel 2007 ha condannato l’Italia per non aver
correttamente recepito la direttiva 2000/53/Ce relativa ai veicoli fuori uso (direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio del 18 settembre 2000 in GUCE 21 ottobre 2000 L 269). Segnatamente, lo
Stato italiano è stato condannato per non aver previsto “ per quanto riguarda i veicoli a motore a tre
ruote, disposizioni volte ad assicurare che gli operatori economici istituiscano sistemi di raccolta di
tutti i veicoli fuori uso e, nella misura in cui sia tecnicamente fattibile, delle parti usate allo stato di
rifiuto, asportate al momento della riparazione di veicoli e ad assicurare un’adeguata presenza dei
centri di raccolta sul territorio nazionale” (CGCE 24 maggio 2007, Rudiger Jager, C-94/05).
40
In definitiva, dall’analisi dei quattro architravi su cui poggia l’ultima direttiva rifiuti
si evince chiaramente come nella materia de qua abbia avuto luogo un vero e proprio
revirement113
, tale per cui il baricentro non è più costituito dagli aspetti strictu sensu
gestori (in specie lo smaltimento), optandosi piuttosto per un intervento a monte in
ossequio al principio di azione preventiva. Ciò del resto si pone in linea con l’attuale
politica europea in materia ambientale, poiché – constatato il “deterioramento dello
stato generale dell’ambiente della Comunità”114
– le istituzioni sembrano aver virato
in maniera decisa verso il perseguimento di un modello di green economy improntato
ai principi dello sviluppo sostenibile115
e della “eco-efficienza”116
.
I.6 IL DECRETO LEGISLATIVO 3 DICEMBRE 2010 N. 205: ULTIMO ATTO DI UNA
STORIA ANCORA IN FIERI
Analizzati i principi su cui è imperniata la disciplina dei rifiuti contenuta nella
direttiva 2008/98/Ce, è ora possibile muovere all’esame delle modifiche che il d. lgs.
n. 205 del 2010 ha apportato alla Parte IV del Codice dell’ambiente al fine
proclamato di conformarsi alle prescrizioni europee.
Poiché infatti – secondo quanto anticipato, e in linea di continuità con la “tradizione
normativa” in tema di ambiente117
– il recente intervento legislativo trova la propria
113
Così F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a cura di), Diritto
dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. 114
F. FONDERICO, Sesto Programma di azione UE per l’ambiente, cit.. 115
Tale aspetto viene evidenziato, ad esempio, in L. KRAMER, EU environmental law, cit.. Inoltre, sul
rilievo del principio dello sviluppo sostenibile, anche nell’ottica della tutela delle generazioni future,
cfr. M. ALLENA – F. FRACCHIA, Globalization, environment and sustainable development, in global,
european and italian perspectives, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011, 3-4, 779; R. BIFULCO – A.
D’ALOIA (a cura di), Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della
responsabilità intergenerazionale, Jovene, Napoli, 2008; F. FRACCHIA, Sviluppo sostenibile e diritti
delle generazioni future, in Riv. quad. dir. amb.,n. 0/2010; ID., Sulla configurazione giuridica unitaria
dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà ambientale, cit.. 116
F. FONDERICO, Sesto Programma di azione UE per l’ambiente, cit.,il quale puntualizza come per
“eco-efficienza” si intenda la volontà di “sganciare l’impatto e il degrado ambientale dalla crescita
economica”. 117
In proposito cfr. F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit., il quale scrive: “dal
sotterraneo piano dei bisogni della società, quello che esprime i principi istituzionali e il ruolo della
stessa amministrazione, l’esigenza di tutela dell’ambiente è andata progressivamente emergendo nei
41
ragion d’essere nella necessità dello Stato di recepire la direttiva poc’anzi esaminata,
l’analisi del d.lgs. n. 205 del 2010 a cui ci si appresta – pur senza voler affrontare
funditus i profili inerenti la gestione, cui è riservato il capitolo III - mira
essenzialmente a verificarne la rispondenza ai principi contenuti nella direttiva rifiuti.
Al riguardo, è possibile innanzitutto apprezzare il fatto che la gestione dei rifiuti,
definita expressis verbis come una “attività di pubblico interesse”118
, deve svolgersi
in ossequio a una serie di principi di conio (anche) europeo. In particolare, ai sensi
del novellato art. 178, d. lgs. n. 152 del 2006, le attività di cui la gestione dei rifiuti
consta debbono essere realizzate “conformemente ai principi di precauzione, di
prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di
cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione,
nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi
inquina paga”119
. La norma, dunque, nella sua prima parte mostra di ratificare
l’operatività nel contesto nazionale dei principi europei di tutela dell’ambiente e, in
particolare, di quelli che nelle pagine precedenti sono stati indicati come i capisaldi
della direttiva 2008/98/Ce.
Ed in effetti da un esame complessivo emerge che gli elementi di novità introdotti
dal d.lgs. n. 205 del 2010 sono prioritariamente orientati al perseguimento dei quattro
vari piani ordinamentali seguendo, almeno nel nostro paese, un percorso diverso da quello
tradizionale. Ed, infatti, generalmente, la tutela di un interesse viene riconosciuta in prima battuta
dagli ordinamenti nazionali e poi ascende negli ordinamenti superiori (diritto comunitario e diritto
nazionale); mentre la tutela ambientale è discesa nell’ordinamento nazionale in gran parte in risposta a
imput provenienti da livelli superiori”. Non a caso, infatti, ancora sul finire degli anni Ottanta del
Novecento, F. G. SCOCA, Tutela dell’ambiente: impostazione del problema dal punto di vista
giuridico, in Quad. reg., 1989, 2, 532 scriveva: “l’ambiente si presenta come una nozione così vicina
ai nostri interessi da sollecitare più le nostre emozioni che non le nostre idee”. 118
Art. 177, comma secondo, d. lgs. n. 152/2006 come modificato dal d. lgs. n. 205/2010. 119
L’art. 178 del d. lgs. n. 152/2006 come modificato dal d. lgs. n. 205/2010 prosegue affermando
che “a tal fine la gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità,
trasparenza, fattibilità tecnica ed economica, nonché nel rispetto delle norme vigenti in materia di
partecipazione e di accesso alle informazioni ambientali”.
42
principi – guida che si è visto informare la direttiva rifiuti e, più in generale, alla
volontà di contribuire a creare una società rifiuti-zero.
Ciò si evince proprio a cominciare dal citato art. 178, dove campeggia l’espresso
richiamo al principio “chi inquina paga” e a quello di prevenzione, le cui definizioni
riproducono testualmente quelle contenute nella direttiva 2008/98/Ce. Inoltre,
l’affinità tra il provvedimento di rango europeo e l’odierna Parte IV del Codice
dell’ambiente trova ulteriore conferma a norma dei successivi artt. 178 bis e 179 del
d. lgs. n. 152 del 2006. Il primo, creato ex novo dal legislatore nel 2010, codifica il
principio della responsabilità estesa del produttore, condividendo in pieno la ratio e
la sostanza della corrispondente previsione europea. Stessa cosa per ciò che concerne
l’art. 179 che, nel dettare i “criteri di priorità nella gestione dei rifiuti”, riproduce
ancora una volta testualmente quanto stabilito dall’art. 4 della direttiva 2008/98/Ce.
In definitiva, il d. lgs. 205 del 2010 – specie per il risalto accordato al principio di
prevenzione - sembra voler confermare l’assunto secondo cui il modo di approcciarsi
alla tematica dei rifiuti ha subito un “capovolgimento della prospettiva”120
. Infatti, se
l’impianto normativo coniato nel 2006 mirava principalmente a regolare la “gestione
del rifiuto, dando per scontato che esso fosse un prodotto necessario e non
eliminabile della società contemporanea, il nuovo approccio è rivolto
fondamentalmente a evitare e/o ridurre drasticamente la formazione del rifiuto”121
.
Al contempo, inoltre, dall’esame di tale decreto trae assoluto conforto l’idea che
“l’esigenza di tutela dell’ambiente è andata progressivamente emergendo nei vari
piani ordinamentali seguendo, almeno nel nostro ordinamento, un percorso diverso
120
Così F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.. 121
F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.. D’altra parte, come sottolineato da G. BOTTINO -
R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, cit., “sta all’intelligenza dell’uomo e dell’ordinamento giuridico
indirizzare i comportamenti umani e la gestione delle cose in senso virtuoso approfittando delle
caratteristiche vantaggiose per ridurre o far scomparire quelle di svantaggio; come quando si riesce a
utilizzare i sottoprodotti”.
43
da quello tradizionale. Ed, infatti, generalmente, la tutela di un interesse viene
riconosciuta in prima battuta dagli ordinamenti nazionali e poi ascende [agli]
ordinamenti superiori (diritto comunitario e diritto internazionale); mentre la tutela
ambientale è discesa nell’ordinamento nazionale in gran parte in risposta ad imput
provenienti da livelli superiori”122
.
I.7 VERSO UN “DIRITTO PER PRINCIPI” DI MATRICE EUROPEA
Nelle pagine che precedono si è cercato di ricostruire il sistema delle fonti in materia
di rifiuti dagli albori, ossia dalla L. n. 366 del 1941, sino ai giorni nostri. Ciò ha
implicato un continuo parallelo tra la legislazione soprannazionale e quella interna.
Uno sguardo attento solo a quest’ultima, infatti, si sarebbe rivelato eccessivamente
“miope”, poiché - come più volte messo in evidenza - l’attuale assetto della
normativa nazionale in tema di rifiuti è ampiamente tributario nei confronti del
diritto europeo123
.
Infatti, nonostante il Trattato Cee, al pari della Costituzione italiana del 1948124
, non
contenesse alcun riferimento all’ambiente, “subito dopo l’entrata in vigore del
Trattato di Roma, ci si rese conto che la creazione di una Comunità Economica
122
F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit.. In senso analogo cfr. J. FLUCK, The term
“waste” in EU law, cit. e C. VERDURE, The europeanization of the definition of waste, cit.. 123
In senso analogo cfr. nota n. 122, retro. 124
Per la ricostruzione del dibattito dottrinale sul ruolo dell’ambiente nella Costituzione italiana cfr.
B. CARAVITA DI TORITTO - A. MARRONE, L’organizzazione costituzionale e l’ambiente, in S. NESPOR
– A. L. DE CESARIS (a cura di), Codice dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 1999; F. FRACCHIA, Sulla
configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà ambientale, cit.;
N. GRECO, La Costituzione dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 1996; P. MADDALENA, L’ambiente
valore costituzionale nell’ordinamento comunitario, cit.; A. POSTIGLIONE, Ambiente: suo significato
giuridico unitario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, 1, 55; A. SIMONCINI, Ambiente e protezione della
natura, Cedam, Padova, 1996. Senza dimenticare che per lungo tempo, più che l’ambiente
propriamente inteso, ciò a cui si è dato rilievo è stato il paesaggio. In proposito cfr. A. CASETTA, La
tutela del paesaggio nei rapporti tra Stato Regione e autonomie locali, in Le Regioni,1984, 4, 431; P.
DE LEONARDIS (a cura di), I valori costituzionali nell’ambiente-paesaggio, Giappichelli, Torino, 1997;
ID., Verso la tutela del paesaggio come situazione oggettiva costituzionale, in Riv. trim. dir. pubbl.,
1988, 2, 535; A PREDIERI, (voce) Paesaggio, in Enc. dir., Milano, 1981; ID. Significato della norma
costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione
(raccolta di saggi), Giuffrè, Milano, 1969; A. M. SANDULLI, La tutela del paesaggio nella
Costituzione, in Riv. giur. ed., 1967, II, 69.
44
Europea, con un mercato comune in cui i confini nazionali non costituivano più delle
barriere economiche, comportava la necessità di meccanismi comunitari volti a
tutelare [anche] l’uomo e l’ambiente”125
. E, se in un primo momento talune misure
mostravano di proteggere l’ambiente solo in via indiretta126
, poiché l’obiettivo
principale era ancora la costruzione di un mercato unico, a partire dall’introduzione
nel Trattato Cee di un Titolo ad hoc127
è sembrato chiaro che l’ambiente costituisce
di per sé un bene meritevole di tutela. Pertanto, da quando le istituzioni comunitarie
hanno iniziato a porre in essere una vera e propria “politica ambientale”, poco alla
volta si è determinata una sorta di ribaltamento della prospettiva, tale per cui anche
all’interno dei confini nazionali l’ambiente non è più stato concepito in una posizione
125
L. KRAMER, EU enviromental law, cit.. 126
Come ricorda parte della dottrina (M. RENNA, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo,
cit.), inizialmente fu sulla base degli artt. 100 e 235 del Trattato Cee che “gli organi comunitari
poterono cominciare ad adottare anche programmi e misure di protezione ambientale al fine di
armonizzare le normative nazionali aventi un’incidenza sul funzionamento del mercato comune”.
Infatti, in mancanza di una espressa competenza nella materia de qua, ma “essendo già chiaro allora
come l’assenza o la presenza, all’interno di uno Stato membro, di una determinata misura di
protezione ambientale, o una sua differente intensità, siano in grado di alterare significativamente
l’uniformità del mercato europeo, gli interventi comunitari diretti a salvaguardare l’ambiente potevano
giustificarsi proprio con l’obiettivo di garantire, attraverso l’armonizzazione delle misure i tutela, la
realizzazione e il mantenimento di un mercato comune, libero e concorrenziale”.
In senso analogo cfr. F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit., il quale sottolinea come,
tanto dal punto di vista del diritto internazionale quanto da quello del diritto comunitario, “le vicende
della relazione commercio – ambiente (…) possono essere ricostruite in tre tappe fondamentali”. In
particolare, per quel che concerne il contesto europeo, l’A. sottolinea che “in una prima fase
l’ambiente, non menzionato dai Trattati, non viene preso in considerazione al fine della limitazione
della circolazione delle merci; in una seconda fase l’elemento ambientale viene riconosciuto dapprima
con i programmi d’azione, poi con le direttive in settori specifici e ancora con le norme dei trattai e le
direttive trasversali; infine vi è la copiosa produzione giurisprudenziale che riconosce in modo chiaro
che vi possono essere casi in cui la tutela ambientale limita la libertà di circolazione delle merci”.
Emblematico di tale evoluzione è, ad esempio, il comportamento della Commissione europea in tema
di divieto di circolazione della automobili non catalitiche. Mentre agli inizi degli anni Ottanta del
secolo scorso, all’esito di una procedura di infrazione, la Germania è stata condannata per aver vietato
la circolazione di determinate auto ritenute foriere di un eccessivo inquinamento dell’aria, a distanza
di pochissimi anni (precisamente nel 1988) la Commissione ha archiviato una procedura di infrazione
analoga (cfr. F. CAPELLI, Tutela ambientale, cit.). 127
Il riferimento è al Titolo VII del Trattato Cee, costituito da tre articoli: 130R, 130S e 130T.
Successivamente, pur restando collocati nell’ambito del Trattato Cee tali articoli sono stati dapprima
spostati nel Titolo XVI (Trattato di Maastricht) e poi, per effetto del Trattato di Amsterdam, essi sono
stati collocati nel Titolo XIX e hanno visto mutare la propria numerazione in artt. 14, a75 e 176. Oggi,
dopo che in occasione di Lisbona il Trattato Ce è stato rinominato Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea, l’ambiente è disciplinato dagli artt. 191 – 193 TFUE.
45
servente rispetto ad altri interessi128
. A dimostrazione di ciò – e in disparte il dibattito
circa l’opportunità di inserire l’ambiente tra i principi fondamentali della nostra
128
“Storicamente”, come ricorda D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit., il
contributo dottrinario che ha originato il dibattito in ordine al concetto di ambiente si deve a Massimo
Severo Giannini. In particolare in M. S. GIANNINI, Ambiente: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici,
cit., l’A. descrive l’ambiente come un “coacervo di situazioni giuridiche”, ossia come il centro in cui
convergono interessi diversi: sanitari, urbanistici e paesaggistici. “Da ciò deriva (…) una prevalenza
dell’aspetto urbanistico della tutela ambientale intesa prevalentemente come pianificazione dei
rapporti uomo/ambiente nel territorio”. In altri termini, in Giannini, così come successivamente in altri
autori (in primis A. PREDIERI, (voce) Paesaggio, cit.; ma anche L. MEZZETTI, La “costituzione
dell’ambiente”, in ID. (a cura di), Manuale di diritto ambientale, Padova, 2001) l’ambiente non rileva
in quanto tale, ma quale mezzo per raggiungere altri fini, individuati, di volta in volta, nella
pianificazione urbanistica piuttosto che nella salubrità delle acque o del territorio. Ed, in effetti, “la
prima sentenza della Corte costituzionale che si è occupata di ambiente è la n. 151 del 1986,
concernente la legittimità costituzionale della legge 431 del 1985, la cosiddetta legge Galasso, la
quale, come è noto, formò un elenco delle zone d’Italia sottoposte per legge al vincolo paesaggistico e
statuì per le Regioni l’obbligo di redigere piani paesaggistici, ovvero dei piani territoriali aventi
valore paesistico ambientale” (P. MADDALENA, La giurisprudenza della Corte Costituzionale in
materia di tutela e fruizione dell’ambiente e le novità sul concetto di “materia”, sul concorso di più
competenze sullo stesso oggetto e sul concorso di materie, cit.; P. STELLA RICHTER, Diritto
urbanistico. Manuale breve, Giuffrè, Milano, 2010).
Ciò non di meno e nonostante oggi sia ancora difficile “definire l’ambiente sul piano giuridico ed
indicare i presupposti giuridici della sua tutela” (P. MADDALENA, L’ambiente, prolegomeni per una
sua tutela giuridica, cit.), il superamento dell’assunto della sua irrilevanza giuridica si deve in gran
parte alla giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr., ad ex., C. Cost. 27 giugno 1986 n. 151; C.
Cost. 28 maggio 1987 n. 210; C. Cost. 30 dicembre 1987 n. 641), “ma soprattutto [al] nuovo testo
della Costituzione italiana che lo menziona espressamente all’art. 117”. Come evidenziato da parte
della dottrina (P. MADDALENA, La giurisprudenza della Corte, cit.), infatti, “dopo la modifica
costituzionale del Titolo V della Parte II della Costituzione, grande rilievo ha avuto la previsione della
materia “ambiente, ecosistema e beni culturali”, come materia di competenza esclusiva dello Stato, là
dove fino a quella data l’intera tutela ambientale era stata costruita sul raccordo fra l’art. 9 e l’art. 32
della Costituzione. Sennonché, a questo punto, l’attenzione della Corte costituzionale si è spostata
dall’oggetto della tutela ambientale alla distribuzione delle competenze fra Stato e Regioni in materia
di ambiente” (più in generale cfr. P. STELLA RICHTER, La nozione di “governo del territorio” dopo la
riforma dell’art. 117 Cost., in Giust. Civ., 2003, 4, 312, il quale a commento dell’assetto delineato dal
legislatore costituzionale nel 2001 osserva che “una disciplina così disorganica non poteva non
innescare un ampio dibattito fra gli interpreti, anche perché essa ha dato immediatamente luogo a un
contenzioso costituzionale tra Stato e regioni di dimensioni preoccupanti. Gli interpreti si sono sin qui
impegnati nel tentativo di definire le varie materie elencate dall'art. 117, cercando di individuare il più
preciso significato di ciascuna d'esse, ma poiché, come si è visto, il problema ha carattere generale e
gli intrecci sono molteplici, è necessario individuare piuttosto un metodo per mettere ordine o quanto
meno una regola generale cui ispirarsi nella soluzione dei singoli problemi”). Emblematica in tal
senso la sentenza n. 225 del 2009 (C. Cost. 22 luglio 2009 n. 225), la quale “esibisce una nozione di ambiente che colpisce per quanto è nuova, importante, diversa” (A. CIOFFI, L’ambiente come materia
dello Stato e come interesse pubblico. Riflessioni sulla tutela costituzionale e amministrativa, a
margine di Corte Cost. n. 225 del 2009, cit.). In tale pronuncia, infatti, la Corte fa derivare il criterio
di riparto della competenza tra Stato e Regioni dalla definizione che gli stessi giudici danno del bene
ambiente. Poiché “la materia è determinata dal fine costituzionale della conservazione e (…) ha per
oggetto specifico il bene materiale, la biosfera”, si afferma che “l’ambiente appartiene in prevalenza al
potere legislativo dello Stato”. Pertanto, “fissando lo Stato il livello d’una tutela piena ed elevata, si
fissa la conservazione del bene e si costituisce un limite inderogabile alla competenza della Regione, e
così la competenza dello Stato diventa esclusiva”. Ex multis, la questione del riparto di competenze tra
lo Stato e le Regioni interessa anche quello specifico aspetto del diritto ambientale che si risolve nella
disciplina dei rifiuti. In proposito cfr. C. Cost. 22 dicembre 2010 n. 373, a commento della quale si
rinvia ad A. RUGGERI, A proposito di (impossibili?) discipline legislative regionali adottate in
sostituzione di discipline statali mancanti, in www.federalismi.it, 2011.
46
Costituzione129
- basti porre mente al fatto che, mentre in passato l’intera tutela
ambientale trovava fondamento “sul raccordo fra l’art. 9 e l’art. 32 della
Costituzione”130
, oggi l’art. 117 Cost., come modificato dalla L. cost. n. 3 del 2001,
contempla espressis verbis “ambiente, ecosistema e beni culturali” come materia di
competenza esclusiva dello Stato131
.
Di simile evoluzione, com’è intuibile, ha beneficiato anche il settore dei rifiuti, in
quanto branca del diritto ambientale. La disamina sin qui condotta, infatti, ha inteso
mettere in luce il cammino che ha portato il legislatore italiano a disciplinare la
gestione dei rifiuti non solo e non tanto al fine di garantire un corretto livello di
igiene ambientale, quanto in vista dell’obiettivo di preservare l’ambiente – e di
riflesso la salute umana – da fenomeni di inquinamento. Nel fare ciò, non si è potuto
prescindere dal constatare come le tappe di simile evoluzione normativa, a partire dal
129
Per una completa ricostruzione del dibattito e per un’analisi delle relative proposte di riforma cfr.
F. DE LEONARDIS, L’ambiente tra i principi fondamentali della Costituzione, in www.federalismi.it,
2004, nonché ID., Trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, cit.. In particolare, l’A., dopo
aver evidenziato come dall’esame delle varie proposte emerga “nuovamente il non sopito problema
della definizione di ambiente”, si sofferma sulla necessità e sull’opportunità di una modifica
costituzionale volta ad inserire l’ambiente tra i principi fondamentali. Quanto alla necessità, si legge:
“dato che nell’ordinamento attuale sono già presenti riferimenti costituzionali per la tutela
dell’ambiente [artt. 2, 9 e 32 Cost.], non sembra astrattamente necessario che vi sia una norma
costituzionale ad hoc”. Diverso il discorso in termini di opportunità. Poiché “il ruolo delle modifiche
costituzionali è anche quello di costituire una sorta di bilancio consuntivo di ciò che il diritto vivente
di per sé già esprime (…), inserendo una disposizione in materia di ambiente nella parte relativa ai
principi fondamentali, la nostra Costituzione si metterebbe al passo con quanto è già avvenuto di
recente in Belgio e in Svizzera e sta avvenendo in Francia, andando ad inserirsi nel novero delle Carte
costituzionali che già da tempo includono l’ambiente tra gli oggetti di tutela espressamente garantiti”. 130
Così P. MADDALENA, La giurisprudenza della Corte, cit.. 131
Art. 117, comma secondo, lett. s). Cost. Sul punto cfr. F. DE LEONARDIS, La Corte costituzionale
sul codice dell’ambiente, cit.; P. MADDALENA, La tutela dell’ambiente nella giurisprudenza
costituzionale, cit.; ID. Come si determina la materia di cui all’art. 117 Cost., cit.
Per quel che concerne, più in generale, la non sempre semplice individuazione pratica del criterio di
riparto delle competenze tra Stato e Regioni ex art. 117 Cost. cfr., tra gli altri, P. STELLA RICHTER, Un
nuovo tipo di sentenza costituzionale: la sentenza creativa, in Giust. Civ., 2003, 4, 608; nonché ID., La
nozione di “governo del territorio” dopo la riforma dell’art. 117 Cost., cit..
47
D.P.R. n. 915 del 1982132
, siano state in gran parte determinate dall’incedere delle
prescrizioni di ascendenza europea133
.
Non di meno, si è anche evidenziato come gli interventi normativi di matrice
eminentemente interna, uniti ai continui sforzi compiuti dal legislatore italiano al fine
di recepire le direttive comunitarie, abbiano dato vita ad “un coacervo talmente
intricato da porre frequentemente l’interprete (…) di fronte a rebus insolubili”134
. Ciò
è tanto vero che, a parere di ampia parte della dottrina, neppure le pretese opere di
sistematizzazione, qual è innanzitutto il Codice dell’ambiente135
, sono state in grado
di produrre risultati soddisfacenti in termini di chiarezza e organicità.
132
Il riferimento è al D.P.R. 10 settembre 1982 n. 915, recante Attuazione delle direttive (Cee) n.
75/442 relativa ai rifiuti , n. 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei
policlorotrifenili e n. 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi. 133
In proposito, oltre ai vari riferimenti contenuti nelle pagine che precedono, cfr., per tutti, F. DE
LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente, cit. 134
Così D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit.. 135
Infatti, come evidenziato nelle pagine che precedono, molte sono le voci che si sono levate a
sostegno della tesi per cui il d.lgs. n. 152 del 2006, lungi dal rappresentare un’opera di codificazione
nel senso ortodosso del termine, si risolve in un “mero contenitore di norme in materia ambientale
disorganico e precario”. In questo senso A. CELOTTO, Il codice che non c’è, cit., il quale osserva come
quella della codificazione appaia essere una “moda” del nostro tempo. Mentre, infatti, agli inizi degli
anni ottanta del secolo scorso, in un’ottica di semplificazione, era invalsa la tendenza alla
delegificazione, questa “con il passaggio al nuovo secolo, ha ceduto il posto ai tentativi di
codificazione: non più grandi codici unitari, ma codici di settore” o testi unici, che nella sostanza sono
ben lontani alle grandi opere di codificazioni che la storia ha conosciuto, a cominciare dall’opera
giustinianea del 534 d.c.. (In senso critico nei confronti taluni tentativi di riordino di atti normativi
anche P. STELLA RICHTER, Una iniziativa normativa improvvida: il testo unico sull’espropriazione
per pubblica utilità, in Foro amm. CdS, 2004, 3, 622 il quale osserva che “il presupposto connaturale
di ogni testo unico è (o meglio, dovrebbe essere) l'esistenza, in una determinata materia, di un assetto
normativo soddisfacente e quindi presumibilmente destinato a durare: in questi casi è certamente utile
semplificare e riordinare le fonti, così cristallizzando la disciplina vigente. L'utilizzazione del testo
unico è invece del tutto controproducente e quindi assolutamente sconsigliabile, se invece alla materia
è ancora necessario mettere mano in modo innovativo. Il che accade pressoché in ogni settore
dell'ordinamento in un'epoca, qual è quella che viviamo, in cui l'accelerazione delle modifiche sociali
ed economiche della società rende necessarie continue modifiche della normativa”).
In particolare, secondo l’A. “ci sono almeno tre argomenti decisivi per negare che il d. lgs. n. 152 del
2006 sia un codice (e, forse, nemmeno un testo unico)”. Innanzitutto, in nomen juris. Benché “l’auto-
qualificazione dell’atto fa fede solo juris tantum (…) il d. lgs. n. 152 del 2006 non si auto-qualifica né
come codice né come testo unico, ma semplicemente come Norme in materia ambientale. In secondo
luogo, il contenuto normativo, giacché “il testo del c.d. codice è troppo ampio e dettagliato, senza
unitarietà e privo di norme sistematiche o di principio”. Ed, infine, la scarsa stabilità, “avendo subito
[quattro] anni una serie cospicua di modifiche”.
48
Stando così le cose, non solo per ciò che concerne l’ambiente tout court inteso, ma
anche con specifico riguardo alla materia dei rifiuti136
, sembrerebbe di essere di
fronte ad un esempio di quello che sul finire degli anni Settanta del secolo scorso
Natalino Irti apostrofava come il fenomeno della “decodificazione”137
. Eppure la
reductio ad unum delle prescrizioni in tema di rifiuti - e più in generale in tema di
ambiente - può essere garantita dal ricorso ai principi (anche questi prevalentemente)
di derivazione europea, da intendere quali “linee-guida per il legislatore e per gli
interpreti [capaci di] costituire, se non il nucleo, almeno un asse centrale attorno al
quale far ruotare le discipline di settore”138
. Ciò è reso possibile dal fatto che il valore
aggiunto dei principi riposa tutto nella loro valenza ordinatoria e sistematica, oltre
che nel fatto di essere emblema del carattere “sociale” della scienza giuridica, nella
misura in cui “essi non splendono di luce propria, la loro luce essendo quella di mille
e mille casi della vita quotidiana”139
.
136
Come evidenziato nelle pagine che precedono, infatti, anche la Parte IV del d. lgs. n. 152/2006 è
stata più volte emendata. 137
N. IRTI, L’età della decodificazione, Giuffré, Milano, 1979; ID., “Codici di settore”: compimento
della “decodificazione”, cit., il quale con tale espressione intendeva definire la perdita di centralità dei
grandi codici tradizionali ( cfr, per tutti il Code Napoléon del 1804) che caratterizza l’epoca moderna. 138
D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit., il quale non a caso sottolinea che
“uno sguardo d’insieme al diritto comparato dell’ambiente degli ultimi anni mostra come i tentativi di
razionalizzazione passino soprattutto per una normazione di principio”.
D’altra parte, la dottrina ci ha insegnato che peculiarità dei principi è quella di assolvere a tre funzioni:
produzione di norme; integrazione di norme, interpretazione di norme (cfr. V. CRISAFULLI, I principi
costituzionali, cit.).
Per dare la misura del ruolo di grande rilievo che i principi rivestono nella materia de qua, si tenga
presente che quando si è discusso in ordine alla possibilità di inserire un riferimento all’ambiente
nell’ambito dei principi fondamentali della Carta costituzionale, la dottrina si è interrogata circa “il
contenuto minimo o massimo della dimensione o dello spessore” che la novella avrebbe dovuto
assumere. In particolare, F. DEL LEONARDIS, L’ambiente tra i principi fondamentali della costituzione,
cit., ha osservato: “dato che nel diritto vivente, non solo nazionale, si è formato un insieme di principi
in materia ambientale, tra i quali devono evidenziarsi particolarmente quelli di integrazione e di
precauzione, è opportuno che tali principi vengano resi palesi”. 139
G. MIELE, Prefazione, in F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, 1911-14, rist. Cedam,
Padova, 1960. In senso analogo S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917; G. ZANOBINI,
Corso di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1958.
Più di recente, cfr. A. ROMANO, Introduzione, in AA. VV., Diritto amministrativo, Monduzzi,
Bologna, 2005, il quale con riguardo alla disciplina dell’amministrazione tout court intesa osserva
come la stessa sia “sì affidata alla legislazione ordinaria, ma anche, e soprattutto per l’essenziale,
direttamente da principi istituzionali; ossia, perfino da un livello più elevato di quello della
Costituzione: che i suoi primi articoli solo riproducono”. E, ancora, cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di
prevenzione, cit., il quale scrive che osservando il diritto positivo, “non si può non notare che sempre
49
Quanto detto sembra da ultimo confermato proprio dal d. lgs. n. 205 del 2010 che,
nel recepire la direttiva rifiuti 2008/98/Ce, mostra di dare ampio risalto ai principi su
cui quest’ultima è imperniata, in primis quello di prevenzione o azione preventiva
che – si è visto - “costituisce ex professo il principio ispiratore della disciplina
comunitaria dei rifiuti”140
.
In definitiva, anche alla luce dei più recenti interventi normativi nella materia de qua,
sembra potersi dire che il diritto dei rifiuti, benché non sia (rectius possa essere)
esclusivamente un “diritto per principi”141
, trovi in questi la propria chiave di lettura.
Con la precisazione che si tratta (in gran parte) di principi di ascendenza europea, a
dimostrazione del fatto che il diritto UE si è esteso ben oltre “i suoi originari ambiti e
le sue originarie finalità legate alla devoluzione [da parte degli Stati membri] della
sovranità in materia economica alla Comunità europea”, così che “da ordinamento
derivato, e quindi autonomo, tende a trasformarsi in un ordinamento originario, e
quindi sovrano”142
.
più spesso veri e propri principi istituzionali, come per es. quello di imparzialità, richiamato dall’art.
97 della Costituzione, trovano collocazione accanto ad altri principi generali di livello ordinario, come
i quattro (economicità, efficacia, pubblicità e trasparenza) espressamente riconosciuti dalla legge
generale sull’azione amministrativa. La grande famiglia dei principi, che trova il suo capostipite nel
principio di ragionevolezza, viene progressivamente riconosciuta dal diritto positivo e comprende, di
volta in volta, nuovi principi che attirano l’interesse della dottrina e della giurisprudenza, come i
principi dell’ordinamento comunitario”. 140
Sul punto si rinvia a quanto affermato nelle pagine che precedono e, più in generale, a F. DE
LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.. 141
L’espressione è presa in prestito da D. AMIRANTE, Diritto ambientale italiano e comparato, cit., il
quale descrive con tale locuzione l’intero diritto ambientale. 142
A. ROMANO, Amministrazione, legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. amm., 1999, 1, 130.
50
CAPITOLO II
L’ “EUROPEIZZAZIONE” DELLA NOZIONE DI RIFIUTO E DI QUELLE
CONTIGUE DI SOTTOPRODOTTO ED END OF WASTE
II.1 NON C’ERANO UNA VOLTA I RIFIUTI
C’è stato un tempo in cui non si buttava via nulla, in cui tutto ciò che risultava
consunto e logoro veniva reimpiegato nella produzione di nuovi oggetti e materiali1.
Così era per la carta, la stoffa, il legno e persino per gli scarti alimentari. Questo
“ciclo vitale” è stato interrotto dal progresso. Si narra, infatti, sia stata la Rivoluzione
Industriale ad aver “inventato i rifiuti”2. Come a dire che, al boom economico è
corrisposto il boom dei rifiuti, secondo un clymax ascendente che dalla fine del
XVIII secolo ha caratterizzato la storia della nostra civiltà sino ai giorni nostri3.
Così oggi “basta entrare in un supermercato per rendersi conto che i due terzi dei
prodotti in esso contenuti sono destinati a diventare in breve tempo rifiuti da
eliminare”4. Ed inoltre, per avere contezza del fenomeno
5 nelle sue dimensioni
complessive, ai rifiuti c.d. urbani occorre aggiungere quelli c.d. speciali – come, ad
esempio, i residui dell’attività edilizia, della produzione di metalli o, ancora,
dell’industria alimentare – nell’ambito dei quali si collocano anche i rifiuti c.d.
1 E. SORI, La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al Primo Novecento, Il Mulino, Bologna,
2001. 2 L. PINNA, Autoritratto dell’immondizia. Come la civiltà è stata condizionata dai rifiuti, Bollati
Boringhieri, Torino, 2011. 3 Notano, infatti, G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, in M. P. CHITI – G. GRECO (a cura di),
Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffré, Milano, 2007, che “la scienza moderna dapprima
si è prefissa lo scopo di ricercare e produrre sempre nuovi beni, per soddisfare i crescenti bisogni e
quindi per soddisfare la crescita dell’umanità. In un certo senso, di pari passo è cresciuta la dannosità
dei rifiuti e non si è pensato subito di porvi rimedio per salvaguardare l’ambiente”. 4 F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a cura di), Diritto
dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. 5 Sul sito www.apat.gov.it è consultabile il rapporto ISPRA 2008, dal quale emergono dati
significativi in tema di rifiuti. In particolare, si apprende che in Italia ogni anno vengono prodotti circa
33 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e ben 135 milioni di tonnellate di rifiuti c.d. speciali, cui
devono aggiungersi i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, c.d. RAEE, e i veicoli fuori
uso.
51
pericolosi, vale a dire quelli in grado di causare danni particolarmente gravi
all’ambiente e alla salute umana ove non correttamente gestiti.
Quanto detto concorre a chiarire perché la società in cui viviamo sia stata apostrofata
“società del consumo”6 e – tenuto anche conto delle perigliose vicende che da quasi
un ventennio affliggono talune realtà italiane7 - lascia al contempo immaginare come
sia da considerare indispensabile una corretta gestione di questo enorme flusso di
oggetti e materiali che, prima facie, chiamiamo indistintamente rifiuti.
Orbene, nelle pagine che precedono si è cercato di ricostruire la loro disciplina
giuridica attraverso l’esame congiunto della legislazione europea e nazionale, attesa
la pregnante influenza che la prima ha da sempre esercitato nei confronti della
seconda, e - nel fare ciò - e’ stata messa in evidenza l’origine in gran parte pretoria
della normativa de qua8. Si è osservato, infatti, come in un primo tempo siano stati
prevalentemente motivi di ordine sanitario a destare l’interesse dei poteri pubblici per
l’istituto in esame e come la rapida evoluzione normativa che negli ultimi trent’anni
6 F. DE LEONARDIS, I rifuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit..
7 Il pensiero corre immediatamente a Napoli e alla Campania, dove a partire dai primi anni Novanta
del secolo scorso si è iniziato a parlare di “emergenza rifiuti”. In particolare, si ricorda (L. BARONI, Lo
sguardo vigile dell’Europa sulla emergenza rifiuti in Campania, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011,
6, 1095) che “l’inizio dell’emergenza rifiuti in Campania è convenzionalmente fatto risalire all’11
febbraio del 1994 quando [con il DPCM 11 febbraio], si dichiara per la prima volta lo stato di
emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti (…) per un iniziale periodo di un anno che poi sarà,
via via, prorogato fino al 2009 quando vi è la formale dichiarazione della fine dell’emergenza”.
In questo lasso di tempo si è fatto ricorso all’istituto del Commissariamento (che in assenza di
apposita previsione legislativa è stato ricondotto nell’alveo degli interventi urgenti in materia di
protezione civile) e al potere di ordinanza extra ordinem, senza peraltro che tali misure si rivelassero
risolutive. Anzi – ricorda la dottrina (C. BASSU, Emergenza rifiuti a Napoli: la doppia faccia della
sussidiarietà, in Riv. giur. amb., 2009, 2, 403) – “i rifiuti continuano ad accumularsi nelle strade di
Napoli e le barricate erette dai cittadini per impedire l’accesso alle discariche assurgono
quotidianamente agli onori della cronaca”. Nel mentre, plurime condanne “fioccano” da parte della
Corte di Giustizia e, da ultimo, anche da parte della Corte Edu (cfr., da ultimo, CGUE 4 marzo 2010,
Commissione v. Italia, C-297/08 e Corte EDU 10 gennaio 2012, Di Sarno e a. v. Italia, ric. n.
30765/08). Ma la strada per che porta alla (vera) fine dell’emergenza sembra ancora in salita.
Ex multis, cfr. L. COLELLA, La governance dei rifiuti in Campania tra tutela dell’ambiente e
pianificazione del territorio. Dalla “crisi dell’emergenza rifiuti” alla “società europea del
riciclaggio”, in Riv. giur. amb., 2010, 2, 493 e M. GNES, L’emergenza nello smaltimento dei rifiuti e
la proposta di istituzione di un’Agenzia per il territorio nel Mezzogiorno, in Riv. giur. mezzogiorno,
2010, 3, 537. 8 F. DE LEONARDIS, Trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, in G. ROSSI (a cura di),
Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011.
52
ha riguardato tale settore sia stata catalizzata in prevalenza dalla giurisprudenza,
specie della Corte di Giustizia9.
Ciò vale altresì per la nozione stessa di rifiuto che, lungi dell’essere una “scatola
vuota”, è stata e continua ad essere riempita di contenuti, prima ancora che per mano
del legislatore, grazie all’opera creatrice dei giudici europei, nonché in parte di quelli
nazionali.
Se è vero, infatti, che nell’ambito della scienza giuridica l’enucleazione di definizioni
costituisce da sempre attività di particolare rilievo, essa diventa “assolutamente
prioritaria in un sistema di regolazione, giacché si rivela prodromica ai fini
dell’individuazione stessa di cosa possa o meno essere regolato”10
.
La materia de qua ne è un chiaro esempio11
. Ed il presente capitolo è volto in modo
precipuo a mettere in luce come la ricerca di una definizione di rifiuto esaustiva,
9 Così B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 2005.; F. DE LEONARDIS,
Trasformazioni, cit., P. DELL’ANNO, Manuale di diritto ambientale, Cedam, Padova, 2003; F.
FONDERICO, La tutela dell’ambiente, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo,
Parte speciale, vol. II, Giuffrè, Milano, 2003. 10
Così I. CHEYNE – M. PURDUE, Fitting definition to purpose: the search for a satisfactory definition
of waste, in 7 [1995] JEL 149 i quali osservano che, nella prassi, le tecniche utilizzate al fine di
enucleare la definizione di istituti giuridici sono solitamente due. Da un lato, si può definire elencando
attività od oggetti che rientrano nella nozione dell’istituto in argomento; dall’altro, è possibile fare
leva sullo scopo della regolazione. Entrambe queste tecniche, tuttavia, presentano degli inconvenienti.
Mentre la prima, infatti, rischia di peccare di rigidità; la seconda per converso rischia di peccare per
vaghezza. La maggior parte dei sistemi di regolazione, allora, adotta un misto di entrambe. Di norma,
infatti, la legge contiene una definizione molto ampia che spetta poi al potere esecutivo circoscrivere.
Esempio di simile approccio si rinviene nel sistema inglese di controllo integrato dell’inquinamento,
laddove la definizione del processo che può essere controllato è così vasta da poter inglobare qualsiasi
processo e il “processo” è definito come “ogni attività portata avanti dalla Gran Bretagna che è
passibile inquinare l’ambiente”. In generale, - proseguono gli autori – “l’obiezione che si può muovere
nei confronti di definizioni così ampie è che esse accordano (seppur implicitamente) eccessivi poteri
all’esecutivo in ordine alla individuazione di quali processi possano essere soggetti a regolazione.
Inoltre, una volta che un atto del parlamento è entrato in vigore solo i giudici possono avere l’ultima
parola nel decretare il senso da attribuire alle parole del testo di legge. Tuttavia, se è ammissibile che
una definizione sia interpretata alla luce degli obiettivi avuti di mira dalla legge, deve esserci però un
limite a tutto ciò”. 11
A dimostrazione di ciò, si veda innanzitutto la Comunicazione della Commissione europea 21
febbraio 2007 n. 59 (COM2007 59 def.) relativa all’interpretazione in materia di rifiuti e sottoprodotti,
dove si legge: “Negli ultimi trent'anni la definizione di "rifiuto" ha assunto una grande importanza in
Europa per tutelare l'ambiente dagli effetti della produzione e della gestione dei rifiuti. Gli oggetti o le
sostanze definite "rifiuti" sono disciplinate dalla normativa comunitaria in materia, al fine di
proteggere la salute umana e l'ambiente. (…) Pur tuttavia, l'interpretazione di questa definizione ha
sollevato non poche questioni. (…) Per rafforzare la certezza del diritto e per facilitare la
comprensione e l'applicazione della definizione di rifiuto, la presente comunicazione intende, da una
53
universale e, per quanto possibile, stabile si caratterizzi per essere
contemporaneamente tanto complessa quanto imprescindibile12
. La complessità
deriva dal fatto che le continue evoluzioni dell’industria, della chimica e, più in
generale, delle scienze rendono necessari costanti sforzi di adattamento al fine di
porre la normativa in questione al riparo dal rischio di una cronica obsolescenza. Al
contempo, tuttavia, il carattere eccessivamente mobile dei confini dell’istituto rischia
di andare a detrimento di quanti aspirino a districarsi tra le nebbie della materia,
atteso che “l’inclusione di una sostanza o oggetto in tale categoria comporta
parte, fornire alle autorità competenti alcuni orientamenti che permettano loro di stabilire, caso per
caso, se determinati materiali costituiscono rifiuti o meno e, dall'altra, informare gli operatori
economici sul modo in cui tali decisioni sono adottate. La comunicazione contribuirà inoltre ad
armonizzare l'interpretazione della legislazione in materia di rifiuti nell'Unione europea”. Si veda,
altresì, il VI Programma di azione comunitaria in materia di ambiente adottato a Johannesburg nel
2002, che propone in chiave programmatica il “miglioramento e una chiarificazione delle definizioni
normative rilevanti, in modo da garantire una maggiore certezza del diritto (ad esempio, le nozioni di
rifiuto e "end of waste")” (F. FONDERICO, Sesto Programma di azione Ue per l’ambiente e strategie
tematiche, in Riv. giur. amb., 2007, 3, 695). Ed, ancora, si veda il preambolo della direttiva
98/20078/Ce. Qui si legge, infatti, che “La direttiva definisce alcuni concetti basilari, come le nozioni
di rifiuto, recupero e smaltimento (…). È pertanto necessario procedere a una revisione della direttiva
2006/12/CE per precisare alcuni concetti basilari come le definizioni di rifiuto, recupero e
smaltimento, per rafforzare le misure da adottare per la prevenzione dei rifiuti, per introdurre un
approccio che tenga conto dell’intero ciclo di vita dei prodotti e dei materiali, non soltanto della fase
in cui diventano rifiuti, e per concentrare l’attenzione sulla riduzione degli impatti ambientali connessi
alla produzione e alla gestione dei rifiuti, rafforzando in tal modo il valore economico di questi ultimi
(…)”.
Inoltre, per ciò che concerne la dottrina, cfr. I. CHEYNE – M. PURDUE, Fitting definition to purpose:
the search for a satisfactory definition of waste, cit.. Qui gli AA. si chiedono cosa renda “speciale” -
da punto di vista definitorio - il problema dei rifiuti rispetto a quello dell’inquinamento. Sul punto gli
stessi ricordano come tradizionalmente in Gran Bretagna il problema dell’inquinamento sia stato letto
come il bisogno di rispondere ad un determinato danno, causato ad esempio da talune emissioni.
Diversamente – si afferma - quella dei rifiuti è questione più ampia. Infatti, mentre l’inquinamento è
sempre causato da rifiuti (in senso lato), viceversa i rifiuti non sempre provocano inquinamento. Ne
deriva che il problema dei rifiuti è il problema del rischio che gli stessi possano causare fenomeni di
inquinamento ove non trattati adeguatamente. La loro gestione, pertanto, comprende una vasta serie di
attività, il che rende difficile enucleare una definizione chiara ed esaustiva di “rifiuto”. 12
Non è un caso, dunque, che l’importanza del tema sia stata avvertita anche fuori dai confini italiani.
Al riguardo (e senza tener conto delle pur autorevoli note a sentenza), cfr. inter alia I. CHEYNE, The
definition of waste in EC law, in 14 [2002] JEL 61; J. FLUCK, The term “waste” in EU law, in [1994]
1 EELR 79; D. POCKLINGTON, Opening Pandora’s Box – the EU Review of the Definition of “waste”,
in [2003] EELR 204; ID., The utility of the concept of “waste”, in 5 [1996] Env. Liability 94; M.
PURDUE – I. CHEYNE, Fitting definition to purpose: the search for a satisfactory definition, cit.; N. DE
SADELEER, New perspectives on the definition of waste in EC law, in [2005] JEEPL, 46; A. SAMUELS,
The legal concept of waste, in 11 [2010] JPL 1391; ID., Waste, in [2004] JPL 1465; S. TROMAS, EC
waste law – a complete mess?, in 13 [2001] JEL 133; C. VERDURE, The Europeanization of the
definition of waste, paper presentato in occasione del convegno “Globalization and europeanization of
environmental law and policy”, Copenaghen 22-23 marzo 2010; D. WILKISON, Time to discard the
concept of waste?, in 1 [1999] ELR 172.
54
importanti conseguenze in ordine alla sua gestione (necessità di autorizzazioni,
obblighi di tracciabilità, aspetti penali, ecc.)”13
.
Orbene, poiché - come osservato nelle pagine che precedono - sono in prevalenza le
prescrizioni di matrice europea ad influenzare le legislazioni nazionali, punto di
partenza per questo studio non può che essere la definizione di rifiuto che si rinviene
nell’ultimo atto normativo generale adottato dalle istituzioni europee nella materia de
qua, ossia la direttiva 2008/98/Ce14
. Qui, infatti, all’art. 3 p. 1 si legge che con
l’espressione rifiuto deve intendersi “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore
si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”15
.
Posto, tuttavia, che tale definizione - oltre ad essere ricognitiva degli esiti raggiunti
negli anni dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia - costituisce il (momentaneo)
approdo della politica europea nella materia de qua, può giovare alla trattazione
ripercorrere le tappe salienti della sua storia. Nelle pagine che seguono, pertanto, si
tenterà di ricostruire – soprattutto grazie all’esame della giurisprudenza (europea, ma
anche nazionale) – le linee evolutive lungo cui è venuta a formarsi la nozione di
rifiuto, unitamente a quelle ad essa “contigue”16
di sottoprodotto ed end of waste.
II. 2 L’ISTITUTO DEL RIFIUTO. DAL “TUTTO RIFIUTO” …
Come è solita ricordare la dottrina – e come evidenziato nelle pagine che precedono -
nonostante l’originaria mancanza nel Trattato Cee di previsioni che potessero
13
F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 14
Come ricordato nelle pagine che precedono, la direttiva 98/2008/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 19 novembre 2008 costituisce in ordine di tempo l’ultimo atto normativo generale
rivolto agli Stati membri che le istituzioni europee hanno adottato in tema di rifiuti. Prima di essa si
ricordano la direttiva 75/442/Cee, che ha costituito il primo atto di intervento specifico in materia,
nonché le successive 91/156/Cee e 2006/12Ce. A esse devono inoltre aggiungersi le direttive relative
a particolari categorie di rifiuti, quali ad esempio quelle in tema di rifiuti pericolosi (direttiva
78/319/Cee e direttiva 91/689/Cee), imballaggi (direttiva 94/62/Cee) o veicoli fuori uso (direttiva
2000/53/Ce). 15
Tale definizione si rinviene identica a norma dell’art. 183, primo comma, lett. a) del Codice
dell’ambiente italiano, d. lgs. n. 152/2006 smi. 16
F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit..
55
fungere da base legale per l’emanazione di atti normativi in materia ambientale, il
Consiglio già a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso ha adottato una serie
di direttive in tema di rifiuti sulla base del combinato disposto degli (allora) artt. 100
e 235 Tr.Cee17
.
Ciò che, invece, raramente si rammenta è il fatto che la prima in ordine di tempo di
tali direttive, oltre a riguardare un aspetto molto settoriale della materia, qual è quello
degli oli usati, è stata emanata per ragioni che poco o nulla avevano a che fare con la
tutela dell’ambiente. Al tempo, infatti, si combatteva la guerra arabo – israeliana e
nel 1973 l’Organizzazione dei Paesi occidentali di petrolio (OPEC) impose un
embargo nei confronti dei Paesi occidentali al fine di indebolire il supporto che
questi ultimi offrivano ad Israele. Secondo parte della dottrina, dunque, la direttiva
75/439/Cee18
non ha rappresentato tanto un tassello della legislazione ambientale
quanto piuttosto una misura di protezione in risposta all’embargo disposto
dall’OPEC19
.
In ogni caso - guardando agli effetti pratici - tale direttiva, proprio in ragione del suo
carattere settoriale e, soprattutto, delle contingenze che ne avevano determinato
l’adozione, non disciplinando in maniera esaustiva la materia de qua lasciava
impregiudicate le legislazioni all’epoca vigenti nei vari Stati membri20
. La
17
Sul punto cfr. M. P. CHITI – G. GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo. Parte
speciale, Giuffrè, Milano, 2007; L. KRAMER, EU environmental Law, Sweet & Maxwell, London,
2011; M. RENNA, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit.,
2009, 3-4, 649; G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea,Cedam, Padova, 2011. Inoltre, si rinvia a
quanto osservato funditus nel primo capitolo del presente lavoro (in particolare cfr. p. I.3, retro). 18
Direttiva del Consiglio del 16 giugno 1975, concernente l’eliminazione degli oli usati (in G.U. L
194 del 27 luglio 1975). 19
In questo senso D. WILKINSON, Time to discard the concept of waste?, cit.. 20
Al riguardo, si segnala che la Germania aveva adottato una legge generale sui rifiuti già nel 1972.
Mentre nel 1973 fu la volta di Danimarca, Belgio e Olanda. Quanto alla Gran Bretagna, invece, il
primo atto legislativo adottato dal Parlamento inglese in materia di rifiuti è stato il “Deposit of
poisonous wastes Act”, del 1972. Tuttavia, trattandosi di una legislazione piuttosto settoriale, peraltro
adottata per offrire una risposta ad una situazione contingente di carattere emergenziale, la stessa
venne abrogata a soli due anni di distanza, quando fu adottato il Control of pollution Act (sul punto
cfr. amplius capitolo IV, infra). Infine, per ciò che concerne l’Italia, si ribadisce come all’epoca
56
disomogeneità normativa e il conseguente rischio di compromettere il funzionamento
del mercato unico spinsero, dunque, la Commissione a mettere mano ad una
disciplina organica dell’istituto21
.
Simili istanze trovarono composizione nella direttiva 75/442/Cee22
, questa sì
dedicata alla materia dei rifiuti complessivamente intesa. E’ qui, pertanto, che si
rinviene la prima definizione europea di “rifiuto” recante carattere generale, laddove
ai sensi dell’art. 1 lett. a) si legge che esso consiste in “qualsiasi sostanza od oggetto
di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi secondo le disposizioni
nazionali vigenti”.
Eppure, nonostante la direttiva aspirasse a dettare un corpus normativo uniforme e,
soprattutto, univoco, il proprium della nozione di rifiuto è parso da subito alquanto
controverso per una serie di ragioni, in primis di “politica economica”.
Al riguardo, infatti, occorre sottolineare come la disciplina dell’istituto dettata dalla
Comunità sia stata accolta in modo (almeno parzialmente) negativo all’interno degli
Stati membri, attesi gli obblighi ivi previsti in termini di gestione dei rifiuti e,
dunque, le ricadute di ordine economico da essa derivanti23
. In particolare, la dottrina
ricorda come profilo controverso sia parso sin da subito quello dell’individuazione
trovasse applicazione la L. n. 366 del 1941, con riguardo alla quale cfr. amplius quanto riportato nel
capitolo I, retro. 21
D. WILKINSON, Time to discard the concept of waste, cit., ricorda come il primo Programma di
azione europeo in materia ambientale (OJ C 112 20.12. 73) non avesse tra i suoi obiettivi quello di
dettare una disciplina ad hoc per i rifiuti. Tuttavia, la circostanza per cui vari Stati membri avevano
adottato normative di settore (tra loro ovviamente non omogenee) che rischiavano di minare
l’armonizzazione del mercato, unitamente alla notificazione alla Commissione di una proposta di
legge francese e del Control of Pollution Act adottato dalla Gran Bretagna, spinsero la Commissione
verso l’elaborazione di una proposta di regolamentazione dei rifiuti. 22
Direttiva del Consiglio del 15 luglio 1975, 75/442/Cee, relativa ai rifiuti in GUCE 25 luglio 1975 n.
194. 23
Sul tema cfr., tra gli altri, L. KRAMER, EU environmental law, cit.; K. MACCORMICK, Towards a
definition of waste in economics: a neo-institutional approach, in Rev. of Social Economy (1986) 44;
D. POCKLINGTON, The utility of the concept of “Waste”, cit., il quale definisce espressamente dette
ricadute come “inevitabili”. Inoltre, più in generale, sul rapporto tra ambiente e libertà economiche
cfr., inter alia, F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente tra Unione europea e WTO, in Dir.
amm., 2004, 3, 513; M. MAZZAMUTO, Diritto dell’ambiente e sistema comunitario delle libertà
economiche, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2009, 6, 1571; M. MONTINI, Commercio e ambiente:
bilanciamento tra tutela ambientale e libera circolazione delle merci nella giurisprudenza della
CGCE, in Dir. com. sc. int., 2002, 3, 429.
57
dell’esatta latitudine della nozione di rifiuto. Meglio - come si avrà modo di leggere
nel proseguo della trattazione - ci si interrogava in ordine alla enucleazione dello
statuto giuridico cui sottoporre i prodotti secondari (in seguito denominati
sottoprodotti)24
- ossia i materiali di scarto risultanti da un processo produttivo che
tuttavia, almeno in astratto, sono suscettibili di essere reimpiegati – sembrando
assolutamente antieconomico (rectius vessatorio) applicare agli stessi il regime
giuridico previsto per i rifiuti25
.
Sotto altro profilo, invece, la definizione di rifiuto contenuta nell’art. 1 lett. a) della
direttiva 75/442/Cee ha fatto sorgere non poche perplessità in relazione al senso da
attribuire al termine chiave disfarsi (dispose). Innanzitutto perché, quest’ultimo,
lungi dall’essere esplicativo del concetto di rifiuto, sembrava a sua volta
presupporlo26
. Ed inoltre perché non era chiaro se l’uso di tale termine postulasse un
accertamento in ordine all’esistenza dell’ “animus dereliquendi” nel detentore della
sostanza od oggetto, ossia un’indagine circa l’esistenza – in colui che si disfa di
qualcosa – di escluderne ogni riutilizzazione economica da parte di terzi. La Corte di
Giustizia, tuttavia, a partire dalla pronuncia resa in relazione al noto caso Vessoso e
Zanetti27
, ha sempre sostenuto che – anche al fine di non pregiudicare la ratio della
direttiva rifiuti28
- “il detentore può essere tenuto, in forza di una norma nazionale, a
disfarsi di una cosa senza per questo avere l’intenzione di escluderne ogni
24
In proposito cfr. L. KRAMER, EU environmental law, cit. nonché F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo
smaltimento alla prevenzione, cit.. 25
Imprescindibile al riguardo il richiamo a CGCE 28 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, C- 206 e 207/88,
vera pietra miliare della giurisprudenza della Corte di Giustizia per ciò che concerne questo specifico
aspetto della materia de qua. Al riguardo, inoltre, cfr. amplius infra. 26
Cfr. art. 1 lett. b) della direttiva 75/442/Cee. 27
CGCE 28 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, C- 206 e 207/88. 28
Al p. 12 della citata sentenza si legge, infatti, che “lo scopo essenziale delle direttive 75/442/ e
78/319, enunciato rispettivamente nel loro terzo e quarto considerando, vale a dire la protezione della
salute umana e dell’ambiente, sarebbe compromesso qualora l’applicazione delle due direttive
dipendesse dall’intenzione del detentore di escludere o no una riutilizzazione economica, da parte di
altre persone, delle sostanze o degli oggetti di cui egli si disfa”.
58
riutilizzazione economica da parte di altre persone”29
. Pertanto – ha concluso la
Corte - “la nozione di rifiuto (…) non presuppone che il detentore che si disfa di una
sostanza o di un oggetto abbia l’intenzione di escluderne ogni riutilizzazione
economica da parte di altre persone”30
.
A ciò si aggiunga, infine, che secondo taluno31
a rendere fallimentare lo sforzo
definitorio operato con la direttiva 75/442/Cee ha concorso la circostanza per cui
quest’ultima sembrava di fatto lasciare spazio a interpretazioni differenti del concetto
di rifiuto tra i diversi Paesi membri della Comunità. La dottrina, infatti, non ha
mancato di sottolineare come non ci fosse una sola direttiva rifiuti, bensì tante quante
le lingue degli Stati membri in cui la stessa era stata tradotta32
. Quasi a voler dire che
(anche) la diversità linguistica ha creato incertezza in ordine alla ortodossa
interpretazione del concetto di rifiuto33
, fino al punto da minare persino la
“sincronia” tra la legislazione europea e il diritto internazionale34
.
29
Cfr. p. 11 della sentenza citata. 30
Cfr. p. 13 della sentenza citata. 31
D. WILKINSON, Time to discard, cit. 32
Tale aspetto, del resto, è stato sottolineato anche dalla giurisprudenza. Si veda, ad esempio, CGCE
29 febbraio 1984, Cilfit c. Ministero della Sanità, C-77/83, in cui si legge “directives are published in
the language of each Member State and each language is equally authentic”. Inoltre, mentre nel testo
redatto in lingua inglese si rinvengono i termini dispose e disposal, nelle altre versioni vengono
sovente utilizzati termini semanticamente distanti. Si guardi, ad esempio, al caso italiano dove
compaiono le parole “disfarsi di” e “smaltimento”. 33
In tal senso cfr. D. WILKINSON, Time to discard, cit.. Inoltre, per un esame delle questioni che la
direttiva rifiuti ha sollevato nell’ordinamento tedesco cfr. J. FLUCK, The therm “Waste”, cit.. 34
Così D. WILKINSON, Time to discard, cit., il quale evidenzia che lungi dall’essere priva di
conseguenze, tale mancanza di univocità semantica, nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso si è
riverberata tanto sul piano delle relazioni esterne della Comunità economica europea, quanto, dal
punto di vista interno, sui rapporti tra i singoli Stati membri e tra questi ultimi e le istituzioni europee.
Dal primo punto di vista, ad esempio, si segnala che nella seconda metà degli anni ottanta del ‘900
l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD) ha iniziato ad occuparsi della
regolazione del traffico internazionale dei rifiuti pericolosi. Ciò conseguentemente ha richiesto
l’elaborazione di una nozione di rifiuto, cui l’OECD è addivenuta nel maggio del 1988. Sempre in
quegli stessi anni, inoltre, sono stati avviati anche i negoziati per le convezioni Basel e Bakamo sui
rifiuti pericolosi. Ebbene è interessante notare come i concetti di rifiuto adottati in ciascuna di queste
occasioni e dalla Comunità economica europee siano tra molto simili, ma non identici. Ciò ha fatto sì
che, come osservato da parte della dottrina.
59
E’ anche in ragione di tale ultimo fattore35
, dunque, che nel 1989 le istituzioni
comunitarie iniziarono a lavorare alla formulazione di una valida proposta di
emendamento della direttiva75/442/Cee, al fine proclamato di “introdurre definizioni
più precise di rifiuto, smaltimento e rifiuto pericoloso”36
.
Così, dopo lunghe trattative, nel maggio del 1991 sulla base dell’art. 130 Tr. Cee,
come inserito in occasione dell’Atto Unico europeo, è stata adottata la direttiva
91/156/Cee37
, che ha emendato la precedente direttiva 75/442/Cee e ha introdotto
una (parzialmente) nuova definizione di rifiuto. Al nuovo art. 1 lett. a), infatti, era
possibile leggere che per rifiuto si intende “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri
nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o
abbia l’obbligo di disfarsi”.
Essenzialmente, dunque, con la direttiva del 1991 il legislatore europeo ha introdotto
il riferimento all’All. I - intitolato “categorie di rifiuti” – che, tuttavia, sembrava
dilatare eccessivamente i confini dell’istituto in esame, stante la valenza
omnicomprensiva della sua ultima voce a tenore della quale costituiva rifiuto “ogni
materiale, sostanza o prodotto che non è contenuto nelle precedenti categorie”38
. Ed,
35
Nota, infatti, la dottrina (L. KRAMER, Casebook on EU Environmental law, Hart Publishing,
Oregon, 2002) che tra le altre ragioni che portarono ad emendare la direttiva del 1975 ce ne erano
anche alcune di carattere internazionale. 36
Così si legge in Com 88 (391) (5. 8. 88) at. 2. 37
Direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/Cee, che modifica la direttiva 75/442/Cee relativa ai
rifiuti, in GUCE 26/3/1991. Per completezza occorre puntualizzare come la direttiva in questione non
sia stato l’unico atto normativo adottato dalle istituzioni europee nella materia de qua dopo la direttiva
del 1975, essa tuttavia e’ il solo atto dedicato all’istituto dei rifiuti complessivamente inteso. In
quell’arco temporale, infatti, furono adottate da parte del Consiglio altre direttive, dedicate tuttavia ad
aspetti più settoriali della materia. Segnatamente si ricordano: direttiva del Consiglio 6 aprile 1976,
76/403/Cee, concernente lo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlotifenili; direttiva del
Consiglio del 20 marzo 1978, 78/319/Cee, relativa ai rifiuti tossici e nocivi; direttiva del Consiglio del
6 dicembre 1984, 84/631/Cee, relativa alla sorveglianza e al controllo all’interno della Comunità delle
spedizioni transfrontaliere di rifiuti pericolosi. 38
Alla lettera Q16 dell’Allegato I alla direttiva 91/156/Cee era possibile leggere testualmente quanto
segue: “any materials, substances or products which are not contained in the above categories”. In
proposito cfr. la posizione critica di S. TROMANS, EC waste law: a complete mess?, cit., il quale
descrive tale locuzione come “one example of courios drafting which perhaps gives EC waste law a
bad name”.
Al contempo, occorre anche ricordare che a distanza di qualche la Commissione con la decisione
94/3/Ce adottò il Catalogo europeo dei rifiuti, nella cui introduzione lo stesso veniva descritto come
60
inoltre, nella versione originale della direttiva - scritta in inglese - il termine
“dispose” (che tecnicamente significa “smaltire”) è stato sostituito con quello di
“discard” (“disfarsi”)39
, benché nella traduzione in italiano questa differenza si sia
persa a vantaggio – ancora una volta – del termine “disfarsi”.
Più nel dettaglio, stando a quanto affermato nel preambolo della direttiva e in
ossequio al disposto dell’art. 13 dell’allora Trattato Cee, le modifiche hanno trovato
la propria ratio nell’obiettivo di assicurare un alto livello di protezione ambientale.
La direttiva, infatti, riconosceva il bisogno di assicurare una terminologia e una
definizione di rifiuto comuni a tutti gli Stati membri, al fine di incrementare
l’efficienza del sistema di gestione dei rifiuti40
, e sottolineava come le difformità tra
le legislazioni dei diversi Paesi potessero incidere negativamente sulla qualità
dell’ambiente ed interferire con il funzionamento del mercato interno41
.
Tuttavia - nonostante le intenzioni e le grandi aspettative - tali emendamenti, lungi
dal sopire il dibattito circa la latitudine ed il proprium della nozione di rifiuto, se
possibile lo hanno accresciuto. La maggior parte della incertezze si sono appuntate
sul senso da attribuire all’All. 1 e sul rapporto di quest’ultimo con il di poco
successivo Catalogo europeo dei rifiuti, nonché soprattutto sul significato del termine
disfarsi (discard). Infatti, benché quest’ultimo costituisse un concetto chiave per la
un elenco non esaustivo di rifiuti, passibile di periodici aggiornamenti e, ove necessario, di revisione.
In ogni caso, va anche detto, che l’inclusione di un materiale nell’Elenco de quo non stava di per sè a
significare che quel materiale fosse sempre un rifiuto. Lo stesso, infatti, doveva altresì soddisfare la
definizione di rifiuto contenuta nella direttiva 91/156/Ce. 39
Nella versione in inglese della direttiva 91/156/Cee si legge infatti: “waste shall mean any substance
or object in the categories set out Annex I which the holder discards or intends or is required to
discard”. Per un analisi di tali termini cfr., inter alia, J. FLUCK, The term “Waste”, cit.. 40
Si vedano in particolare il primo ed il terzo considerando della direttiva in commento, a tenore dei
quali (rispettivamente): “considerando che la direttiva 75/442/Cee ha istituito, a livello comunitario,
una regolamentazione per lo smaltimento dei rifiuti; che, per tenere conto delle esperienze acquisite
nell’applicazione di tale direttiva da parte degli Stati membri, occorre modificare la stessa; che dette
modifiche si basano su un livello elevato di protezione dell’ambiente”; “considerando che, per rendere
più efficace la gestione dei rifiuti nell’ambito della Comunità, sono necessarie una terminologia
comune e una definizione dei rifiuti”. 41
In questo senso, cfr. il quinto considerando della direttiva in esame, dove si legge: “considerando
che una disparità tra le legislazioni degli Stati membri in materia di smaltimento e di recupero dei
rifiuti può incidere sulla qualità dell’ambiente e il buon funzionamento del mercato interno”.
61
comprensione della definizione di rifiuto, il suo significato non era esplicitato dalla
direttiva 91/156/Ce42
.
Di qui la maggior parte delle incertezze di carattere definitorio, e il conseguente
dibattito dottrinario43
, a cui gli Stati membri in prima battuta hanno provato a dare
risposta autonomamente44
, salvo poi esortare ripetutamente la Corte di Giustizia a
prendere una posizione sul punto45
.
42
I. CHEYNE – M. PURDUE, Fitting definition, cit.; K. GETLIFFE, European waste law: has rcent case
law impacted upon the mess?, in 4 [2002] ELR 675; ma anche D. WILKINSON, Time to discard, cit.. 43
Sul punto si svilupparono svariate tesi. Secondo un primo orientamento (I. CHEYNE – M. PURDUE,
Fitting definition, cit.), partendo dall’assunto secondo cui il termine “disfarsi” (discard) ha un
significato più ampio rispetto a “smaltire” (dispose), con esso la Comunità avrebbe inteso ampliare
l’ambito di applicazione della direttiva. Secondo altri (S. TROMANS, Is Frank Kafka alive and well and
working for the Environment Agency? Transfrontier waste shipments and proportionality, in 3 [1990]
JEL, 12), invece, il nuovo lemma sarebbe stato preferito a quello precedentemente in uso al fine di
armonizzare l’applicazione della normativa in tema di rifiuti, posto che quest’ultima ove tradotta in
alcune lingue diverse dall’inglese, tra cui l’italiano, non subì modifiche a seguito dell’entrata in vigore
della direttiva 91/156/Cee. Ancora, altrove (J. FLUCK, The term “waste” in EU law, cit.), facendo leva
sul dato fattuale per cui il termine “discard” si trovava ad essere separato dalle due liste di “disposal
and recovery operations”, si sottolineo’ la necessita’ di addivenire ad una definizione “neutrale” dello
stesso, in base alla quale poter sostenere come “discard” non indicasse tanto l’atto di gettare via una
cosa, quanto piuttosto un’azione capace di mutare l’originaria funzione dell’oggetto. Infine, non
mancò neppure chi (A. WAITE, Crucial need to understand the meaning of waste, in Institute of waste
management, UKELA, 1994), valorizzando la c.d. componente soggettiva della nozione di rifituo,
sottolinearono la circostanza che la nuova terminologia avrebbe sotteso un riferimento alla
condizione psicologica del detentore del bene, nel senso che secondo la direttiva l’intenzione avuta di
mira da tale soggetto avrebbe dovuto rivestire un ruolo cruciale al fine di determinare il significato di
“rifiuto”. 44
D’altra parte, come da taluno osservato (I. CHEYNE – M. PURDUE, Fitting definition, cit.), se è vero
che nel preambolo della direttiva 91/156/Cee veniva expressis verbis manifestato l’intento di
apportare degli emendamenti al fine di enucleare una definizione di rifiuto in grado di incrementare
l’efficienza della gestione dei rifiuti all’interno della Comunità (cfr. in particolare il primo e il terzo
considerando), è chiaro che la scelta del nuovo lemma non potesse che essere preordinata al
raggiungimento di tale finalità e, più in generale, degli obiettivi fatti propri dalla nuova direttiva.
Bisognava tuttavia capire perché il legislatore comunitario avesse scelto di utilizzare proprio il
termine “discard”.
In Gran Bretagna, ad esempio, il Department of the Environment, Transport and the Regions, in un
certo senso minimizzando la questione, ipotizzò che la modifica terminologica potesse essere letta
come il risultato di due fattori concorrenti. Da un lato, la fretta dei membri del Consiglio di adottare la
direttiva in esame e, dall’altro, il dato che nella legislazione inglese del tempo fosse in uso proprio il
termine “discard” (evidenziare che la legislazione in vigore in GB ha influenzato anche la direttiva
rifiuti del 1975). In ogni caso, il cambio di terminologia, lungi dall’essere apostrofato come una mera
questione di forma, suscitò un vivace dibattito dottrinale. 45
Solo tra il 1995 e il 1996, a titolo meramente esemplificativo, si segnalano: CGCE Gallotti e a., C-
75/95; CGCE Rosi, C-26/95; CGCE Mattei e a, cause riunite C-174/95, C-175/95, C-176/95; CGCE
Deodati e Lucchini, C-187/95; CGCE Piccolo, C-331/95; CGCE Corbo, C-332/95; CGCE Miranda,
C-342/95; CGCE Tancredi, C-363/95; CGCE Onorati e Marulli, C-377/95; CGCE Gallotti, C-6/96;
CGCE Iannilli, C-24/96; CGCE Paolantoni, C-34/96; CGCE Commissione v. Spagna, C-107/96;
CGCE Inter-environment Wallonie, C-129/96; CGCE Marchionne, C-189/96; CGCE Alari, C-190/96;
CGCE Beside, C-192/96; CGCE Buchen, 193/96; CGCE Chemische Afvastoffen, C-203/96; CGCE
Commissione c. Francia, C-223/96; CGCE Cordella e Newbold, C-271/96; CGCE Nardi, C-271/96;
CGCE Cipriani, C-272/96; CGCE Terranova, C-273/96; CGCE Pezzola, C-296/96.
62
Tra le pronunce di maggior rilievo, capaci di influenzare sensibilmente anche la
giurisprudenza delle Corti nazionali46
, si ricordano quelle rese nei casi Euro
Tombesi47
e a. ed Inter - Environment Wallonie ASBL c. Regione Wallonne48
.
Nel primo caso, la Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi con riferimento
a ben quattro rinvii pregiudiziali promossi dalle Preture italiane di Terni e Pescara, le
quali per ragioni diverse49
chiedevano ai Giudici di Lussemburgo di chiarire se i
concetti di rifiuto e rifiuto destinato al recupero, contenuti nella direttiva
91/156/Cee, dovessero continuare ad essere letti ed interpretati alla luce della
pregressa giurisprudenza della Corte – vale a dire conformemente a quanto deciso, ad
46
Interessante, a questo proposito, il richiamo al noto caso Mayer Parry Recycling Limited v.
Environment Agency deciso nel 1999 dall’Alta Corte di Inghilterra e Galles. In breve i fatti: Mayer
Parry Recycling Limited (MPR) era una delle maggiori industrie di metalli in Gran Bretagna.
Nell’esercizio della propria attività, la stessa sottoponeva i metalli a svariati processi per poi destinarli
sia al mercato straniero che a quello nazionale. Il nodo gordiano che l’Alta Corte era chiamata a
sciogliere riguardava il se (o fino a che punto) per effetto di simili trasformazioni i materiali trattati
potessero comunque definirsi rifiuti. Nel risolvere il caso – ricorda la dottrina (D. POCKLINGTON, UK
perspectives on the definition of “waste” in EU legislation, in [1999] EELR 72) - “la Corte ha tenuto
conto dell’interpretazione che i giudici di Lussemburgo hanno offerto della nozione di rifiuto [e, in
particolare del termine discard ] nei casi Tombesi e Wallonne”. Per tale via la Corte ha concluso nel
senso che “vige una presunzione per cui tutte le operazioni in esame rientrano nella nozione di
recovery operations di cui all’All. II B della direttiva rifiuti. (…) Pertanto, i materiali sottoposto a
detti trattamenti costituiscono rifiuti”. Inoltre, è interessante notare come secondo la medesima
dottrina detta pronuncia testimonia(va) la crescente competenza dei giudici nazionali di statuire in
ordine a questioni afferenti al diritto europeo senza bisogno di “interpellare” la Corte di Giustizia. E,
ancora, “benché la sentenza de qua valga come precedente solo per le Corti dell’Inghilterra e del
Galles, la sua conformità alla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo (…) farà sì che la stessa si
imponga anche all’attenzione delle giurisdizioni di altri Stati”.
Per un commento alla sentenza cfr. anche S. BELL, Refining the definition of waste, in 1[1999] ELR
283; S. TROMAS, Is Frank Kafka alive and well and working for the Environmental Agency?, cit.. 47
CGCE 25 giugno 1997, Euro Tombesi e a, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94, C-224/95,
per un commento alla quale cfr., inter alia, A. GRATANI, La Corte di Giustizia si pronuncia ancora
sulla incompatibilità della distinzione tra “rifiuto” e “residuo”, in Riv. giur. amb., 1998, 1; M.
PURDUE - A. VAN ROSSEM, The distinction between using secondsry raw materials and the recovery of
waste: the directive definition of waste, in 10 [1998] JEL 117. 48
CGCE 18 dicembre 1997, Inter Environment Wallonie ASBL c. Regione Wallonne, C-129/96, con
riguardo alla quale cfr. A. GRATANI, In pendenza di un termine di trasposizione di una direttiva gli
Stati membri devono astenersi dall’emanare normative nazionali contrastanti con il diritto
comunitario, in Riv. giur. amb., 1998, 3-4, 504. 49
In particolare, Euro Tombesi e Adino Tombesi (C-304/94) sono imputati di aver realizzato senza
autorizzazione una discarica costituita da detriti e ritagli di marmo provenienti dalla lavorazione del
marmo effettuata dalla società Sotema, di cui sono proprietari e legali rappresentanti. Roberto Santella
(C-330/94) è imputato di aver prodotto senza autorizzazione rifiuti tossici e pericolosi, costituiti da
pece proveniente dalle emissioni prodotte dagli elettrofiltri di forni di cottura, destinati ad essere
eliminati mediante incenerimento. Nella causa C-342/94, invece, Giovanni Muzi e Paolo Astori sono
imputati di aver violato il combinato disposto dell’art. 25, n. 1, e dell’art. 6 del DPR n. 915/82,
relativo ai rifiuti speciali denominati “panelli di sansa” (residui di olio di oliva). Infine, nella causa C-
224/95 Anselmo Savini è imputato di aver trasportato senza autorizzazione della Regione Abruzzo
rifiuti speciali prodotti dalla ELIOS Srl e venduti alla SIA srl.
63
esempio, nel caso Vessoso e Zanetti - e se, allo stesso tempo, in queste due
definizioni potessero essere inclusi tutti i materiali che residuano da un ciclo
produttivo [sottoprodotti] e, in caso affermativo, se essi dal punto di vista della
normativa europea fossero soggetti alla disciplina contenuta nella su citata direttiva50
.
Sul punto la Corte, dopo aver ricordato che “per giurisprudenza costante, la nozione
di rifiuto, ai sensi degli artt. 1 della direttiva 75/442, nella sua versione originale,
(…) non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti
suscettibili di riutilizzazione economica”51
, ha concluso affermando che “tale
interpretazione non è messa in discussione [dalla] direttiva 91/156”52
. Pertanto, “la
nozione di rifiuto figurante all’art. 1 della direttiva 75/442, come modificata (…) non
deve essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di
riutilizzazione economica, neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire
oggetto di un negozio giuridico (…)”53
.
Similmente, in Environment Wallonie ASBL c. Regione Wallonne54
, il Consiglio di
Stato belga si è rivolto alla Corte per chiedere se “una sostanza indicata nell’All. I
della direttiva 91/156/Cee (…) che sia inserita, direttamente o indirettamente, in un
processo di produzione industriale, sia un rifiuto ai sensi dell’art. 1, lett. a)” della
direttiva55
.
50
Cfr. pp. 30 e 34 della sentenza citata. 51
Cfr. p. 47 della sentenza citata. 52
Cfr. p. 48 della sentenza citata. 53
Cfr. p. 54 della sentenza citata. 54
CGCE 18 dicembre 1997, Inter Environment Wallonie ASBL c. Regione Wallonne, C-129/96. 55
Cfr. p. 24 della sentenza citata. Inoltre, il giudice a quo ha chiesto alla Corte di chiarire anche se gli
artt. 5 e 189 del Tr Cee “ostino a che gli Stati membri adottino disposizioni in contrasto con la
direttiva 75/442/Cee, come modificata dalla direttiva 91/156/Cee, durante il periodo fissato per la
trasposizione di quest’ultima”. Sul punto, la Corte si è espressa affermando che “l’obbligo di uno
Stato membro di adottare tutti i provvedimenti necessari per raggiungere il risultato prescritto da una
direttiva è un obbligo cogente (…). Nel caso di specie, e in conformità a una prassi corrente, la stessa
direttiva 91/156/Cee stabilisce un termine alla scadenza del quale le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative necessarie a conformar visi devono essere entrate in vigore negli Stati
membri”. Poiché questo termine è diretto, in particolare, a dare agli Stati membri il tempo necessario
all’adozione dei provvedimenti di trasposizione, non si può contestare agli stessi Stati l’omessa
trasposizione della direttiva nel loro ordinamento prima della scadenza di tale termine”. Tuttavia,
64
Nel rispondere a tale quesito, i giudici di Lussemburgo sono partiti dall’assunto per
cui – alla luce delle modifiche introdotte dalla direttiva 91/156/Cee – “l’ambito di
applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine disfarsi”56
.
Ciò premesso, la Corte ha richiamato la propria pregressa giurisprudenza57
e ha
ribadito che “la nozione di rifiuto (…) non deve intendersi nel senso che essa esclude
le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica”58
. Pertanto,
“possono costituire rifiuti, [ai sensi della direttiva, anche] le sostanze che fanno parte
di un processo di produzione”59
.
Dette pronunce, dunque, testimoniano come in un primo tempo la giurisprudenza
(seguita da ampia parte della dottrina60
) fosse incline ad interpretare in senso molto
estensivo la nozione di rifiuto61
“ricomprendendo in essa praticamente ogni tipo di
“durante il termine fissato per la trasposizione agli Stati membri devono adottare i provvedimenti
necessari ad assicurare che il risultato prescritto dalla direttiva sarà realizzato alla scadenza del
termine stesso”. Per tali ragioni, dunque, la Corte conclude nel senso che “dal combinato disposto
degli artt. 5, secondo comma, e 189, terzo comma, del Trattato e dalla stessa direttiva risulta che, in
pendenza di tale termine, essi devono astenersi dall’adottare disposizioni che possano compromettere
gravemente il risultato prescritto dalla direttiva stessa”, con la precisazione che una simile valutazione
è rimessa al giudice nazionale. 56
Cfr. p. 26 della sentenza citata. 57
In particolare, CGCE 28 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, cit.; CGCE 25 giugno 1997, Euro Tombesi
e a, cit. nonché CGCE 10 maggio 1995, Commissione c. Germania, C-422/92, per un commento alla
quale cfr. A. GRATANI, La Corte di Giustizia prende posizione. I “residui” vanno assoggettati alla
disciplina prevista per i rifiuti”, in Riv. giur. amb., 1995, 5, 653 e M. MEDUGNO, Ulteriori spunti da
“oltremanica” sulla nozione di rifiuto, in Riv. giur. amb., 1995, 5, 669. 58
Cfr. p. 31 della sentenza citata. 59
Cfr. p. 32 della sentenza citata. 60
Inter alia, cfr. J. FLUCK, The term “Waste”, cit.; D. POCKLINGTON, The utility of the concept of
“Waste”, cit.. 61
Peraltro, occorre rammentare come le vicende appena esaminate siano note anche per le opinioni
espresse dall’Avvocato Generale Jacobs nel corso dei rispettivi giudizi. In particolare, in relazione al
caso Euro Tombesi egli ha affermato che “il termine rifiuto e il sistema di regolazione dettato dalla
direttiva si estendono sia agli oggetti e materiali che sono smaltiti (disposed of, All. II A) sia a quelli
che sono sottoposti ad operazioni di recupero (recovered, All. II B). In questo modo, il termine
disfarsi contenuto nella definizione di rifiuto ex art. 1, lett a), ha un significato tale da ricomprendere
sia lo smaltimento dei rifiuti che la loro destinazione ad operazioni di recupero. Conseguentemente, la
portata del termine rifiuto dipende dal significato attribuito a siffatte locuzioni” (p. 50). Ciò non di
meno, l’A.G. non ha mancato di sottolineare né il fatto che dette espressioni fossero definite in modo
poco esaustivo nella direttiva (p. 54), né la “circolarità” definitoria esistente tra il concetto di rifiuto e
quello di disfarsi (p. 55). Pertanto, al fine di sbrogliare la matassa, ha suggerito di non fossilizzare
l’attenzione sulla ricerca di una definizione omnicomprensiva , quanto piuttosto di compiere
valutazioni caso per caso. E ha ammesso finanche l’opportunità di lasciare agli Stati membri maggiori
margini di autonomia (p. 56).
Al tempo, tuttavia, detto approccio non ha mancato di suscitare scalpore tra gli studiosi che lo hanno
tacciato di essere un po’ “inconsistente” nella misura in cui lo stesso faceva del termine “rifiuto un
65
fattispecie”62
, così da scongiurare il rischio - si legge nella maggior parte delle
sentenze – di tradire la ratio della direttiva, vale a dire gestire i rifiuti evitando il
prodursi di pregiudizi per la salute umana e l’ambiente. Erano questi, d’altra parte,
gli anni in cui il perno della disciplina dei rifiuti era considerato lo smaltimento
poiché si presupponeva che i rifiuti fossero un “prodotto ineliminabile della
società”63
.
II.3 … AL (QUASI) “NIENTE RIFIUTO”
Il quadro poc’anzi tracciato ha preso, tuttavia, a mutare agli inizi del nuovo
millennio. Infatti, benché la Corte di Giustizia avesse dato vita ad un filone
giurisprudenziale piuttosto univoco nel considerare quello di rifiuto come un istituto
a “maglie larghe”, nel 2000 - pronunciandosi in relazione al caso ARCO64
- la stessa
ha (almeno in parte) mitigato la perentorietà del proprio decennale orientamento.
In tale circostanza, il Consiglio di Stato dei Paesi Bassi ha compiuto, nei confronti
della Corte di Giustizia, due rinvii pregiudiziali in relazione a questioni sorte
nell’ambito di altrettanti giudizi, relativi a due provvedimenti amministrativi
concernenti sostanze destinate ad essere utilizzate come combustibile nell’industria
cementifica o per produrre energia elettrica.
Più nel dettaglio, nel primo caso (C-418/97), la società ARCO aveva chiesto al
Ministro dell’ambiente l’autorizzazione per trasportare in Belgio un certo
quantitativo di LUWA-bottoms (prodotti derivati dal processo di fabbricazione
mero appellativo da utilizzare per ogni oggetto destinato ad operazioni di smaltimento e recupero”.
Così D. WILKINSON, Time to discard, cit.. Ex multis, per un commento al c.d. “teorema Jacobs” cfr.
M. PURDUE, The distinction between, cit.; I. CHEYNE, The definition of waste in EC law, cit.; A. VAN
ROSSEM, The distinction between, cit.. 62
F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit., il quale sottolinea che
“qualcuno ha icasticamente osservato che prevaleva il partito del c.d. tutto rifiuto”. 63
F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 64
CGCE 15 giugno 2000, ARCO Chemie Nederland Ltd, cause riunite C-418/97 e C-419/97, per un
commento alla quale J. TIEMAN, The broad concept of waste and the case of ARCO-Chemie and Hees-
EPON, in [2000] EELR 327.
66
seguito dalla ARCO e destinati ad essere utilizzati come combustibili nell’industria
del cemento). Poiché “l’autorità competente ha dichiarato di non opporsi alla
progettata esportazione di detti rifiuti [solo] sino al 1 febbraio 1996”65
, l’azienda ha
proposto un ricorso dinanzi al giudice amministrativo basco. Quest’ultimo, dovendo
in sostanza stabilire se il trasferimento di LUWA-bottoms in Belgio rientrasse
nell’ambito di applicazione del regolamento CEE 1 febbraio 1993 n. 259, si è chiesto
se detti materiali costituissero o meno dei rifiuti. Pertanto, si è rivolto alla Corte di
Giustizia domandando se “dalla semplice circostanza che sui LUWA-bottoms viene
eseguita un’operazione menzionata nell’allegato II B della direttiva [rifiuti] discenda
che l’operazione consiste nel disfarsi di tali sostanze e che, pertanto, esse vanno
considerate rifiuti (…)”66
.
Nel secondo caso (C-419/97), invece, la Epon - società che produce energia elettrica
nei Paesi Bassi - aveva chiesto l’autorizzazione per modificare il funzionamento di
una centrale elettrica. Segnatamente, voleva utilizzare trucioli di legno provenienti
dal settore edilizio come combustibile per generare energia. “Per motivi analoghi a
quelli citati nell’ambito della causa C-418/97, il Consiglio di Stato ha deciso di
sospendere il procedimento” e di chiedere alla Corte “se dalla semplice circostanza
che viene eseguita sui trucioli di legno un’operazione menzionata nell’allegato II B
della direttiva [rifiuti] discenda che l’operazione consiste nel disfarsi di tali sostanze
e che pertanto esse vanno considerate rifiuti (…)”67
.
Una volta disposta la riunione dei ricorsi, la Corte ha risolto entrambe le questioni in
senso analogo. Vale a dire: dopo aver ricordato che “l’ambito di applicazione della
65
Cfr. p. 14 della sentenza citata. 66
Cfr. p. 20 della sentenza citata. 67
Cfr. p. 32 della sentenza citata.
67
nozione di rifiuto dipende dal significato del termine disfarsi”68
, i giudici di
Lussemburgo hanno concluso che “dal semplice fatto che su una sostanza (….)
venga eseguita un’operazione menzionata nell’allegato II B della direttiva non
discende che l’operazione consiste nel disfarsene e che, pertanto, detta sostanza vada
considerata un rifiuto (…)”69
. Infatti – prosegue la Corte – “l’effettiva esistenza di un
rifiuto ai sensi della direttiva va accertata alla luce del complesso di circostanze,
tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne
l’efficacia”70
.
In altri termini, la Corte mostra di prendere (almeno parzialmente) le distanze
dall’idea per cui tutto costituisce rifiuto, esortando l’interprete a compiere una
valutazione caso per caso, pur nel necessario rispetto degli obiettivi di tutela fissati
dalla direttiva71
e, dunque, ponendo la debita attenzione nei confronti del fattore
“rischio”72
.
68
Cfr. pp. 36 e 52 della sentenza citata. 69
Cfr. p. 51 della sentenza citata. 70
Cfr. p. 88 della sentenza citata, dove inoltre si legge che: “le circostanze che una sostanza utilizzata
come combustibile sia il residuo di un processo di produzione di un’altra sostanza, che non sia
ipotizzabile nessun altro uso di tale sostanza se non lo smaltimento, che la composizione della
sostanza non sia idonea per l’uso che ne viene fatto o che tale uso debba avvenire in particolari
condizioni di precauzione per l’ambiente possono essere considerate indizi del fatto che il detentore
della sostanza stessa se ne disfa ovvero ha deciso o ha l’obbligo di disfarsene ai sensi dell’art. 1, lett.
a), della direttiva”. 71
In un passo della sentenza, infatti, la Corte afferma che “l’ambito di applicazione della nozione di
rifiuto dipende dal significato del termine disfarsi. Conformemente alla giurisprudenza della Corte,
tale termine va interpretato tenendo conto delle finalità della direttiva”. A questo proposito, la Corte
ricorda che il terzo considerando precisa che “ogni regolamento in materia di smaltimento dei rifiuti
deve essenzialmente mirare alla protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi
della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti. Occorre del resto
sottolineare che, ai sensi dell’art. 130 R, n. 2, del Trattato Ce, la politica della Comunità in materia
ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata sui principi, in particolare, della precauzione
e dell’azione preventiva” (pp. 36-39). E, ancora, “va infine precisato che, in mancanza di disposizioni
comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti
nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario.
Potrebbe pregiudicare l’efficacia dell’art. 130 R del Trattato e della direttiva l’uso, da parte del
legislatore nazionale, di modalità di prova come le presunzioni iuris et de iure che abbiano l’effetto di
restringere l’ambito di applicazione della direttiva escludendone sostanze, materie o prodotti che
rispondono alla definizione del termine “rifiuti ai sensi della direttiva” (pp. 41-42). 72
Così dicendo, dunque, i giudici di Lussemburgo mostrano anche di confermare quell’indirizzo
incline ad accordare un certo rilievo al fattore rischio. In tal senso cfr. CGCE 5 ottobre 1999, Lirussi e
Bizzarro, C-175/98, per un commento alla quale cfr. M. MONTINI, Deposito temporaneo e deposito
preliminare di rifiuti: le precisazioni della Corte di Giustizia, in Riv. giur. amb., 2000, 2, 271. In tale
68
Questo indirizzo ha poi trovato conferma in una lunga serie di pronunce dove la
Corte - pur ribadendo che il termine disfarsi e il concetto di rifiuto non possono
essere interpretati restrittivamente per “non pregiudicare l’effetto utile della
direttiva”73
- ha finito per escludere la natura di rifiuto con riguardo, ad esempio, ai
detriti di una miniera (Avesta Polarit)74
, al coke da petrolio prodotto da una raffineria
occasione, il pretore di Udine si era rivolto in via pregiudiziale alla Corte chiedendole: a) lumi sulla
corretta interpretazione dei concetti di deposito temporaneo e deposito preliminare di rifiuti; b)
chiarimenti circa il se le autorità nazionali fossero tenute a vegliare sul rispetto degli obblighi di tutela
ambientale previsti dall'articolo 4 della direttiva 75/442, anche in relazione ad operazioni di deposito
temporaneo non qualificabili come operazioni di gestione dei rifiuti ai sensi della normativa
comunitaria. Orbene, l’A. ricorda come con riguardo alla prima questione “la Corte conclude (…) che
la nozione di deposito temporaneo si differenzia da quella di deposito preliminare di rifiuti, in quanto
avviene in una fase temporale necessariamente precedente a questa e non può quindi essere in alcun
modo considerato una operazione di gestione dei rifiuti ai sensi della direttiva (…)”. Tuttavia –
afferma la Corte in merito alla seconda questione – “nei limiti in cui i rifiuti, anche temporaneamente
depositati, possano provocare rilevanti danni all’ambiente (…) le disposizioni dell’art. 4 della direttiva
si applicano anche all’operazione di deposito temporaneo”, anche se questa tecnicamente non rientra
tra le operazioni di smaltimento e di recupero di rifiuti, in quanto logicamente precedente. La
soluzione offerta dalla Corte, dunque, evidenzia l’A., “deve essere letta alla luce del concetto
comunitario di effetto utile invocato dalla Commissione CE nel caso di specie, ai sensi del quale gli
Stati membri nell'attuazione della direttiva 75/442 devono adottare idonee misure per evitare che le
imprese possano fare un uso abusivo della deroga prevista dalla direttiva in tema di deposito
temporaneo, a danno dell'ambiente”. Le cautele previste dall’art. 4 della direttiva rifiuti, infatti,
trovano chiaramente la propria ratio nel principio di precauzione. 73
Simile affermazione ricorre costante in pressoché tutte le pronunce qui citate. In particolare, in
CGCE 18 aprile 2002, Palin Granit Oy, C-9/00, la Corte amministrativa suprema della Finlandia –
investita di un ricorso avverso l’autorizzazione ambientale rilasciata dal Consiglio del Consorzio
all’impresa Palin Gratit Oy per lo sfruttamento di una cava di granito – ha chiesto ai giudici di
Lussemburgo di chiarire se i detriti provenienti dalla cava fossero o meno rifiuti. Orbene, in un passo
della sentenza si legge che “il verbo "disfarsi" deve essere interpretato alla luce della finalità della
direttiva 75/442 che, ai sensi del terzo `considerando', è la tutela della salute umana e dell'ambiente
contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei
rifiuti, ma anche alla luce dell'art. 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia
ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione
e dell'azione preventiva. Ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso
restrittivo (…). Nel caso specifico, la questione di stabilire se una determinata sostanza sia un rifiuto
deve essere risolta alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva
75/442 ed in modo da non pregiudicarne l'efficacia”. Proprio per tali ragioni, dunque, la Corte ha
ritenuto che l’argomento in base al quale il luogo di deposito dei detriti provenienti dallo sfruttamento
di una cava non costituisce una discarica, bensì un deposito di materiali riutilizzabili (qualora tali
detriti siano suscettibili di essere utilizzati per lavori di riporto o per la costruzione di porti e
frangiflutti), “non può bastare per escludere che i detriti siano considerati rifiuti” (p. 28). Il riutilizzo,
infatti, non sembra sicuro ed è prevedibile solo a lungo termine. Pertanto, “il detentore di detriti
derivanti dallo sfruttamento di una cava di pietra, depositati a tempo indeterminato in attesa di un
possibile utilizzo, si disfa o ha deciso di disfarsi di tali detriti i quali devono, di conseguenza, essere
qualificati come rifiuti” (p. 39). 74
Il riferimento è a CGCE 11 settembre 2003, Avesta Polarit Chrome Oy, C-114/01. Nell’ambito di
un giudizio promosso dalla Avesta Polarit Oy (azienda gestore di una miniera che produce in via
principale cromo) per l’annullamento dell’autorizzazione condizionata concessale dal Centro
regionale dell’ambiente per la Lapponia, la Corte amministrativa suprema della Finlandia ha operato
un rinvio pregiudiziale, chiedendo alla Corte di pronunciarsi circa l’interpretazione degli artt. 1,
comma primo, lett. a) e 2, n. 1, lett. b) della direttiva rifiuti. Più nel dettaglio il giudice a quo ha
69
e ivi reimpiegato (Saetti e Frediani)75
o, ancora, al colaticcio proveniente da una
azienda suinicola (Commissione europea c. Regno di Spagna)76
.
chiesto di stabile se i “se – alla luce di una serie di fattori indicati nel provvedimento di rinvio - i
detriti derivanti dall'estrazione di minerale nello sfruttamento di una miniera e/o la sabbia di scarto
risultante dall'arricchimento del minerale stesso vadano considerati rifiuti” (p. 30). Al riguardo la
Corte, dopo aver richiamato il caso Palin Granit, ha affermato che con tutta evidenza “detriti
provenienti dall'attività estrattiva, che non si configurano come produzione principale derivante dallo
sfruttamento di una cava di granito, rientrano, in via di principio, nella categoria dei residui
provenienti dall'estrazione e dalla preparazione delle materie prime di cui al punto Q 11 dell'allegato I
della direttiva 75/442” (p. 33). Tuttavia, nel caso concreto occorre verificare se residui del genere
debbano essere qualificati come rifiuti per il motivo che il loro detentore se ne disferebbe o avrebbe
l'intenzione o l'obbligo di disfarsene, ai sensi dell'art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442”
(p. 35). Orbene, “a questo riguardo, occorre distinguere, da una parte, i residui che sono utilizzati
senza trasformazione preliminare nel processo di produzione per assicurare un necessario
riempimento delle gallerie e, dall'altra, gli altri residui” (p. 36). Solo i primi
“non possono essere considerati come sostanze di cui il detentore si disfi o abbia intenzione di
disfarsi, poiché, invece, esso ne ha bisogno per la sua attività principale”, a meno che – ovviamente –
tale utilizzo sia vietato per ragioni di sicurezza o di tutela dell’ambiente”. 75
A tal proposito cfr. CGCE 14 gennaio 2004, Saetti e Frediani, C-235/02, per un commento alla
quale cfr. E. POMINI, “Pet-coke” e nozione di rifiuto: la Corte di Giustizia in linea con la scelta di
esclusione già operata dal legislatore italiano, in Riv. giur. amb., 2004, 3, 425. In tale circostanza, il
GIP di Gela, nell’ambito di un procedimento penale a carico di M. A. Saetti e A. Frediani
(rispettivamente direttore ed ex direttore della raffineria di petrolio di Gela, indagati per non aver
rispettato la legislazione in materia di rifiuti), ha sollevato dinanzi alla Corte di Giustizia bene quattro
questioni preliminari vertenti sugli artt. 1, comma primo, lett. a) e f); 2, n. 1, lett. b) e 4 della direttiva
rifiuti. Nello specifico, alla Corte è stato chiesto di chiarire: a) se il coke da petrolio sia o meno
rifiuto?; b) se l’uso del coke come combustibile costituisca attività di recupero?; c) se il coke usato
come combustibile possa essere escluso dall’applicazione della normativa sui rifiuti?; d) se un utilizzo
entro certi limiti e secondo certe condizioni sia sufficiente ad assicurare il rispetto dell’art. 4 della
direttiva? Al riguardo, dopo aver richiamato la pronuncia Palin Granit e dopo aver compiuto
un’analisi analoga a quella svolta in relazione al caso ARCO, la Corte ha statuito che “il detentore di
detriti o di sabbia di scarto (…), provenienti dallo sfruttamento di una miniera, [normalmente] si disfa
o ha intenzione o l'obbligo di disfarsi di tali sostanze, che devono essere qualificate, di conseguenza,
come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, salvo che [come nel caso di specie] il detentore li utilizzi
legalmente per il necessario riempimento delle gallerie della detta miniera e fornisca garanzie
sufficienti sull'identificazione e sull'utilizzazione effettiva delle sostanze destinate a tale effetto” (p.
43). 76
Sul punto cfr. CGCE 8 settembre 2005, Commissione c. Regno di Spagna, C- 416/02. In tale
fattispecie, la Commissione ha chiesto alla Corte di condannare la Spagna sul presupposto che
quest’ultima ha permesso che carogne e colaticcio provenienti da un’azienda suinicola venissero
scaricati nell’ambiente in violazione della direttiva rifiuti. In particolare – si legge al p. 85 – “la
Commissione sostiene che l'azienda in questione produce rifiuti in grande quantità, in particolare
colaticcio e carogne, e che tali rifiuti, in mancanza di una normativa comunitaria specifica relativa alla
loro gestione, sono disciplinati dalla direttiva 75/442. Ebbene, tale azienda opererebbe senza
l'autorizzazione richiesta ai sensi dell'art. 9 di tale direttiva e i detti rifiuti (…) verrebbero scaricati
senza controlli sui terreni vicini, in spregio agli obblighi in materia di ricupero o smaltimento oggetto
dell'art. 4 della stessa direttiva. Infine, la detta azienda non sarebbe stata oggetto di alcun adeguato
controllo periodico da parte delle competenti autorità, in violazione dell'art. 13 della detta direttiva”. Ciò posto, la Corte esamina partitamente le due fattispecie, vale a dire quella del colaticcio e quella
delle carogna. Quanto al primo, “dai documenti del fascicolo risulta che tale colaticcio viene utilizzato
come fertilizzante agricolo (…). La persona che dirige lo stabilimento in esame non cerca quindi di
disfarsene, cosicché tale colaticcio non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442”. Né,
d’altra parte, “La circostanza che nel catalogo europeo dei rifiuti, tra i "rifiuti provenienti da
produzione (…) in agricoltura", compaiano le "feci animali, urine e letame (comprese le lettiere
usate), effluenti, raccolti separatamente e trattati fuori sito", (…) è tale da porre nuovamente in dubbio
questa conclusione. Tale menzione generica degli effluenti d'allevamento non prende, infatti, in
70
Inoltre, sentenza dopo sentenza, i giudici di Lussemburgo hanno anche enucleato
delle “linee guida” (rectius, “indizi”77
) utili ad orientare l’interprete nel labirinto dei
rifiuti. In particolare, oltre a sottolineare la necessità di interpretare il termine disfarsi
alla luce della ratio della direttiva e dell’art. 174 n. 2 del (allora) Trattato Ce78
, la
Corte ha ripetutamente ritenuto determinante il “criterio derivante dalla natura o
meno di residuo di produzione di una sostanza, [nonché] il grado di probabilità di
riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare”79
.
Ex multis, la stessa è arrivata ad affermare che, in mancanza di indicazioni puntuali
da parte della direttiva circa i criteri per individuare la volontà del detentore di
disfarsi di un bene o sostanza, “gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità
considerazione le condizioni in cui i detti effluenti vengono utilizzati”. Per quel che concerne, invece,
le carogne, il governo spagnolo nella propria difesa ha sostenuto che esse “sarebbero "già coperte da
un'altra normativa" e sarebbero pertanto escluse dall'ambito di applicazione di tale direttiva, in
conformità all'art. 2, n. 1, lett. b), sub iii)” della stessa. Ed, in effetti, scrive la Corte “per quanto
riguarda le carogne in esame, il legislatore comunitario ha adottato un'"altra normativa" (…). La
direttiva 90/667riguarda infatti, in particolare, la gestione di tali carogne come rifiuti. Essa fissa norme
precise applicabili alla detta categoria di rifiuti, prescrivendo in particolare che essi siano sottoposti a
trasformazione presso stabilimenti riconosciuti o eliminati mediante incinerazione o sotterramento”.
E, ancora, “le disposizioni della direttiva 90/667disciplinano l'impatto ambientale del trattamento delle
carogne e, grazie al loro grado di precisione, impongono un livello di protezione dell'ambiente almeno
equivalente a quello prescritto dalla direttiva 75/442. Esse costituiscono pertanto, contrariamente a
quanto sostenuto dalla Commissione nella sua replica, un'"altra normativa" che disciplina questa
categoria di rifiuti e che permette di considerare che tale categoria è esclusa dall'ambito di
applicazione della detta direttiva, senza che sia necessario valutare se anche la normativa nazionale
invocata dal governo spagnolo sia costitutiva di simile "altra normativa". Ne consegue, quindi, che a
giudizio della Corte “la direttiva 75/442non è dunque applicabile alle carogne in esame” (p. 103). 77
E’ la stessa Corte di Giustizia a parlare di “indizi” in molte delle sue pronunce. Cfr., ad esempio,
CGCE, Saetti e Frediani, cit.. In dottrina, per un’analisi esaustiva di tali criteri nonché dei “casi
limite” affrontati dalla Corte di Giustizia, cfr. N. DE SADELEER, New perspectives on the definition of
waste in EC law, in 1 [2005] JEEPL 46 e prima ancora L. KRAMER, The distinction between product
and waste in Community law, in 2 [2003] Env. Liability, 3. 78
Oltre alla già citata sentenza resa in relazione al caso Palin Granit Oy, cfr. CGCE 10 maggio 2007,
Thames Water Utilities Limited, C-252/05, dove la Corte è stata invitata a pronunciarsi sulla natura di
rifiuto delle acque reflue scaricate sul territorio della contea di Kent. Qui, infatti, al p. 27 si legge che
“l'espressione disfarsi non va interpretata solo alla luce delle finalità della direttiva 75/442 (…) bensì
anche alla luce dell'art. 174, n. 2, CE. (…). Pertanto, il termine disfarsi non può essere interpretato
restrittivamente”. Per completezza, si segnala che sul problema delle acque reflue (questa volta nella
città di Londra) è recentemente intervenuta CGUE 18 ottobre 2012, Commissione europea c. Regno
Unito, C-301/10, per un commento alla quale cfr. A. GRATANI, No allo scarico dei reflui nel Tamigi.
Dopo la condanna UE due nuovi tunnel per reflui nel 2020, in Riv. giur. amb., 2013, 1, 71. 79
Così già al p. 37 di Palin Granit Oy, cit.. Non a caso, in un passaggio precedente della stessa
sentenza si legge che “né il fatto che alcuni detriti siano oggetto di un'operazione di trattamento
prevista dalla direttiva 75/442, né la circostanza che essi siano riutilizzabili consentono di stabilire se
tali detriti siano o meno rifiuti ai sensi della direttiva 75/442. Altre considerazioni risultano, invece,
più rilevanti”.
71
di prova (…), purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario”80
.
Nonché, addirittura ad ammettere la possibilità che – a certe condizioni81
- la materia
de qua sia regolata da una normativa diversa dalla direttiva rifiuti82
, finanche non di
rango europeo bensì nazionale83
.
80
In questi termini si legge al p. 44 della sentenza CGCE 18 dicembre 2007, Commissione europea c.
Italia, C- 194/05. In tale circostanza, la Commissione ha chiesto alla Corte di condannare l’Italia sulla
base dell’assunto per cui quest’ultima – avendo escluso, mediante legge, la natura di rifiuti di una
serie di materiali e sostanze - sarebbe venuta meno agli obblighi sulla stessa incombenti per effetto
della direttiva rifiuti. Nello specifico, la Commissione ha sostenuto che l’art. 1, comma diciannove, L.
443/2001 ha escluso dall’ambito di applicazione della normativa nazionale in materia di rifiuti terre e
rocce da scavo, esorbitando i limiti in proposito fissati dalla Corte. Sul punto, i giudici di
Lussemburgo hanno osservato che nonostante dalle disposizioni controverse sembrerebbe potersi
desumere in via presuntiva che il detentore non voglia disfarsi delle terre e delle rocce da scavo, in
realtà “non può esistere alcuna presunzione generale in base alla quale un detentore di terre e rocce da
scavo tragga dal loro riutilizzo un vantaggio maggiore rispetto a quello derivante dal mero fatto di
potersene disfare. Pertanto, (…) è giocoforza constatare che tali disposizioni finiscono per sottrarre
alla qualifica di rifiuto, ai sensi dell'ordinamento italiano, taluni residui che invece corrispondono alla
definizione sancita dall'art. 1, lett. a), della direttiva”. 81
La questione è stata affrontata dalla Corte già a partire dal caso Avesta Polarit Oy. Qui, infatti, alla
Corte è stato chiesto di specificare se la locuzione “altra normativa” di cui all’art. 2, n. 1, lett. b) si
riferisca unicamente alla normativa comunitaria o se, piuttosto, con detta espressione “possa intendersi
anche la normativa nazionale, come talune disposizioni della legge mineraria e del decreto finlandese
sui rifiuti” (p. 30). Sul punto i giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che non si possa escludere che
“i termini altra normativa, figuranti all’art. 2, n. 1, lett. b), della direttiva 75/442, riguardino anche, a
certe condizioni, normative nazionali” (p. 49). Al contempo, però, hanno anche puntualizzato che “per
essere considerata come altra normativa (…) una legislazione nazionale non deve semplicemente
riguardare le sostanze o gli oggetti in questione (…) ma deve contenere disposizioni precise che
organizzano la loro gestione come rifiuti, ai sensi dell’art. 1, lett. d), della detta direttiva” (p. 52).
D’altronde, “un livello di protezione dell’ambiente sensibilmente differente a seconda che taluni siano
gestiti nell’ambito della direttiva 75/442 e altri fuori di tale ambito potrebbe pregiudicare gli obiettivi
della Comunità nel settore dell’ambiente come definiti all’art. 174 CE, e più in particolare gli obiettivi
di cui alla stessa direttiva 75/442. Pertanto una legislazione nazionale del genere deve perseguire gli
stessi obiettivi di questa direttiva e raggiungere un livello di tutela dell’ambiente almeno equivalente a
quello che risulta dai provvedimenti di applicazione di questa, anche se le modalità adottate dalla detta
legislazione nazionale si discostano da quelle previste dalla direttiva 75/442” (p. 59). 82
Oltre al già citato caso Avesta Polarit Oy, cfr. in particolare CGCE 10 maggio 2007, Thames Water
Utilities Ltd, C-252/05, dove alla Corte viene chiesto di chiarire se le acque reflue provenienti dal
sistema fognario siano dei rifiuti e se le stesse siano escluse dall’ambito di applicazione della direttiva,
potendosi applicare alle stesse la direttiva 91/271. In proposito, dopo aver chiarito che dette acque
costituiscono rifiuti (p. 29), la Corte si sofferma sulla seconda questione ricordando innanzitutto che
“l’art. 2, n. 1, lett. b) IV, della direttiva 75/442 esclude dalla propria sfera di applicazione le acque
reflue (...) a condizione, tuttavia, che dette acque siano già contemplate da altra normativa”. Con tale
espressione si possono intendere anche disposizioni nazionali, purché non siano riferite ad una
sostanza in particolare, bensì dovendo le stesse “contenere disposizioni precise che ne organizzano la
gestione come rifiuti”. Infatti – prosegue la Corte – “affinché una legislazione comunitaria o nazionale
possa essere considerata altra normativa, essa deve contenere disposizioni precise che organizzano la
gestione dei rifiuti e garantire un livello di tutela dell’ambiente almeno equivalente a quello che risulta
dalla direttiva 75/442 e, segnatamente, dagli artt. 4, 8 e 15 della direttiva stessa” (p. 34). Pertanto,
poiché “la direttiva 91/271 non garantisce un siffatto livello di tutela” (p. 35), essa non può trovare
applicazione nel caso di specie. 83
Sul punto cfr. CGCE, Avesta Polarit Oy, cit., dove peraltro al p. 60 si legge che “nella causa
principale, spetterà eventualmente al giudice del rinvio (…) assicurarsi che le disposizioni alternative
della legge mineraria invocate a tal fine portino (…) ad un livello di protezione dell’ambiente ad un
72
Il progressivo distacco dall’idea che tutto costituisce rifiuto, oltre ad essere stato
ribadito dalla giurisprudenza successiva84
, ha poi trovato conferma anche a livello
legislativo, sia nella direttiva 2006/12/Ce85
sia - da ultimo - nella direttiva
2008/98/Ce86
.
livello di protezione almeno equivalente” a quello garantito dalla direttiva rifiuti. A tal proposito,
inoltre, la Corte raccomanda di tenere in debita considerazione il IV considerando della direttiva
91/156/Ce, dove si legge che “ai fini di un’elevata protezione dell’ambiente è necessario che gli Stati
membri, oltre a provveder in modo responsabile allo smaltimento e al recupero dei rifiuti, adottino
misure intese a eliminare la formazione dei rifiuti promuovendo le tecnologie pulite e i prodotti
riciclabili e riutilizzabili, tenuto conto delle attuali e potenziali possibilità del mercato per i rifiuti
recuperati”.
Cfr., altresì, CGCE 11 novembre 2004, Niselli, C-457/02. Qui la Corte è stata investita di un rinvio
pregiudiziale proposto dalla Procura di Terni, nell’ambito di un procedimento penale a carico di
Antonio Niselli, imputato del reato consistente nell’aver svolto una attività di gestione dei rifiuti senza
previa autorizzazione. Nella sentenza si legge che la direttiva 75/442/Cee così come modificata nel
1991 è stata recepita dall’Italia con il d. lgs. n. 22/1997 (c.d. decreto Ronchi), che per la gestione di
alcuni tipi di rifiuti esige una autorizzazione amministrativa, il cui difetto è sanzionato penalmente.
Dopo l’avvio del procedimento penale, tuttavia, il governo italiano ha adottato il d. lex 8 luglio 2002
n. 138 (conv. in L. n. 178/2002), recante – all’art. 14 – l’interpretazione autentica della definizione di
rifiuto. Il Tribunale di Terni, dunque, “si interroga in sostanza in merito all'"interpretazione autentica"
della nozione di rifiuto fornita dall'art. 14 del decreto legge n. 138/02, che potrebbe essere in contrasto
con la direttiva 75/442. Secondo tale interpretazione, i fatti addebitati al sig. {Niselli} non
costituirebbero più reato in quanto i rottami ferrosi posti sotto sequestro erano destinati al riutilizzo e
quindi non potrebbero più essere qualificati come rifiuti. Tuttavia, nell'ipotesi in cui tale
interpretazione fosse incompatibile con la direttiva 75/442, il procedimento penale dovrebbe
proseguire sulla base dell'imputazione formulata” (p.22). Orbene, la Corte sul punto risponde che “la
direttiva 75/442 non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di
disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale. In mancanza di disposizioni
comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti
nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi l'efficacia del diritto comunitario” (p. 34).
Tuttavia, “qualora l'interpretazione esposta dal giudice a quo fosse applicata nel senso che una
sostanza o un materiale di cui ci si disfi in un modo diverso da quelli menzionati negli allegati II A e
II B alla direttiva 75/442 non costituisce un rifiuto, essa restringerebbe anche la nozione di rifiuto
quale risulta dall'art. 1, lett. a), primo comma, della detta direttiva” (p. 38). Pertanto, “La prima
questione deve essere risolta dichiarando che la definizione di rifiuto contenuta nell'art. 1, lett. a),
primo comma, della direttiva 75/442 non può essere interpretata nel senso che essa ricomprenderebbe
tassativamente le sostanze o i materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di
recupero menzionate negli allegati II A e II B della detta direttiva, oppure in elenchi equivalenti, o il
cui detentore abbia l'intenzione o l'obbligo di destinarli a siffatte operazioni” (p. 40). 84
A titolo esemplificativo, cfr. CGCE 24 giugno 2008, Comune di Mesquer c. Total France Sa e Total
International Ltd, C- 188/07; CGCE 22 dicembre 2008, Commissione europea c. Italia, C-283/2006.
85
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti del 5 aprile 2006, 2006/12/Ce, in
GUCE 24 aprile 2006 n. 114. Per un commento alla quale cfr., inter alia, D. POCKLINGTON, The
significance of the proposed changes to the waste framework directive, in [2006] EELR 75; E.
SCOTFORD, Trash or treasure: policy tensions in EC waste regulation, in 3 [2007] JEL 367. 86
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008,relativa ai rifiuti e che
abroga la direttiva 2006/12/Ce, 2008/98/Ce. Per un commento alla quale cfr., inter alia, H. A. NASH,
The revised Directive on waste: Resolving legislative tensions in waste management?, in 21 [2009]
JEL 139; E. SCOTFORD, The new waste directive – Trying to do it all … An early assessment, 11
[2009] ELR 75.
73
Quanto alla prima, parte della dottrina87
ha osservato come essa, nulla (o poco)
innovando, abbia svolto un ruolo prettamente ricognitivo degli esiti sino a quel
momento raggiunti in via pretoria. Tra i profili di continuità si annovera specialmente
la definizione di rifiuto che, ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 2006/12/Ce,
continua ad essere descritto come “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle
categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o
l'obbligo di disfarsi”88
.
Nel 2006, dunque, il legislatore europeo non solo non ha emendato detta definizione,
ma non ha neppure colto l’occasione per esplicitare il significato del termine disfarsi.
Tuttavia, quella che secondo taluno ha rappresentato un’occasione mancata, secondo
altra lettura alquanto suggestiva è stata la conferma del fatto che “nel tentativo di
appianare le incertezze correlate ai suoi termini e alla sua applicazione, la direttiva
dovesse essere soggetta ad un’interpretazione” tesa a vagliarne prevalentemente le
finalità89
.
In particolare, è stato osservato come sovente la stessa Corte di Giustizia abbia
sottolineato che il termine disfarsi - e, dunque, anche il concetto di rifiuto - dovesse
essere letto muovendo dalla ratio della direttiva, vale a dire proteggere la salute
umana e l’ambiente dagli effetti nocivi dei rifiuti90
. E come, per l’effetto, la stessa nel
87
In particolare, cfr. E. SCOTFORD, Trash or treasure, cit.. 88
Tale definizioni si ritrovava identica nel Codice dell’ambiente italiano all’art. 183, nonché
nell’ambito della legislazione inglese. 89
Così E. SCOTFORD, Trash or treasure, cit, nonché - prima di lei - anche I. CHEINE, The definition of
waste in EC law, in [2002] JEL 61; D. POCKLINGTON, How sustainable is the concept of waste?, in
[2002] EWL, 33; D. WILKINSON, Time to discard, cit.. 90
Cfr. ad esempio, CGCE Palin Granit Oy, cit.; nonché CGCE, Niselli, cit., dove al p. 32 si legge:
“L'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del verbo "disfarsi". Esso
deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442, che, ai sensi del suo terzo
considerando', è la tutela della salute umana e dell'ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del
trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei rifiuti, ma anche alla luce dell'art. 174, n. 2,
CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di
tutela ed è fondata in Particolare sui principi della precauzione e dell'azione preventiva”.
74
tempo abbia preso le distanze dall’idea che tutto costituisce rifiuto91
. Pertanto,
secondo tale filone di pensiero, nel tentativo di delineare l’esatta latitudine del
concetto di rifiuto e, più in generale, gli obiettivi perseguiti dalla legislazione
europea nella materia de qua è dal principio di prevenzione che bisognerebbe
muovere92
.
Infatti, se in origine l’attenzione delle istituzioni era incentrata sulla gestione dei
rifiuti ed in specie sull’attività di smaltimento (funzione di regolazione), negli anni
hanno preso corpo politiche volte ad evitare la formazione stessa dei rifiuti o, quanto
meno, a favorirne, il recupero93
. In altri termini, si è assistito ad un graduale
sovvertimento della gerarchia dei rifiuti. Di ciò vi sarebbe una timida traccia già
nella direttiva 2006/12/Ce, laddove nei considerando si legge, che “è auspicabile
favorire il recupero dei rifiuti e l'utilizzazione dei materiali di recupero come materie
prime per preservare le risorse naturali (...)”94
e che “ai fini di un'elevata protezione
dell'ambiente è necessario che gli Stati membri, oltre a provvedere in modo
responsabile allo smaltimento e al recupero dei rifiuti, adottino misure intese a
91
Ciò - si è visto – è accaduto a partire dal caso ARCO. Così, ad esempio, in CGCE, Niselli, cit. la
Corte al p. 40 e ss afferma che “il fatto che una sostanza utilizzata sia un residuo di produzione
costituisce, in via di principio, un indizio dell'esistenza di un'azione, di un'intenzione o di un obbligo
di disfarsene ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442 (…)”. “Può tuttavia ammettersi
un'analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di
fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un
residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di "disfarsi” (…) ma che essa
intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza
operare trasformazioni preliminari”. Osserva la Corte, infatti, che “un'analisi del genere non contrasta
con le finalità della direttiva 75/442 in quanto non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle
disposizioni di quest'ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti,
beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti,
indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa
applicabile a tali prodotti”. 92
E. SCOTFORD, Trash or treasure, cit., la quale scrive: “quando una sostanza o un oggetto esorbita
dalla definizione di rifiuto, ciò è indice del fatto che quest’ultimo non è stato generato; quando invece
una sostanza o un oggetto rientra nella definizione vuol dire che è stato posto in essere il meccanismo
di regolazione volto a minimizzare il rischio di inquinamento”. Ex multis, sottolinea l’importanza del
principio di prevenzione nella materia de qua anche F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla
prevenzione, cit. nonché ID., Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in
AA.VV., Studi in onore di Alberto Romano, Ed. Sc., Napoli, 2011, 2079. 93
In tal senso cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti,
cit.. 94
Così al considerando n. 5 della direttiva in commento.
75
limitare la formazione dei rifiuti promuovendo in particolare le tecnologie "pulite" e i
prodotti riciclabili e riutilizzabili (…)”95
.
Ciò non di meno, è stato altresì evidenziato come paradossalmente la direttiva de qua
abbia dettato puntuali prescrizioni solo con riferimento alla regolazione di quegli
oggetti e materiali che sono già rifiuti e non abbia fissato misure ad hoc al fine di
promuovere quello che, stando ai suoi considerando ed alla giurisprudenza della
Corte di Giustizia, sembrerebbe essere il suo obiettivo prioritario, ossia la
prevenzione nella formazione dei rifiuti96
. Tuttavia, tale antinomia secondo taluno
potrebbe risolversi (ancora una volta) in via interpretativa, attingendo alla direttiva
stessa e ai principi che questa postula. In particolare quello di correzione alla fonte, il
quale dovrebbe informare la gerarchia dei rifiuti e, per l’effetto, implicare che le
politiche tese a prevenire la formazione dei rifiuti abbiano la priorità rispetto alle
politiche volte a disciplinarne lo smaltimento97
.
Il passo in avanti che la direttiva 2006/12/Ce non ha avuto il “coraggio” di fare98
è
stato, invece, compiuto dalla successiva direttiva rifiuti, la 2008/98/Ce99
, che mira
95
Così al considerando n. 6 della direttiva in commento. 96
E. SCOTFORD, Trash or treasure, cit.. Peraltro la “timidezza” con cui la direttiva 2006/12/Ce ha
fatto leva sul principio di prevenzione si è riverberata anche nelle legislazioni nazionali. Per ciò che
concerne l’Italia – e secondo quanto affermato nel capitolo che precede – ad esempio, la dottrina non
ha mancato di evidenziare come l’impianto del d. lgs. n. 152/2006 mirasse ancora a regolare “la
gestione del rifiuti, dando per scontato che esso fosse un prodotto necessario e non eliminabile della
società contemporanea (…)” (F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.). 97
E. SCOTFORD, Trash or treasure, cit..Sul punto si v. quanto stabilito dall’art. 3 della direttiva
2006/12/Ce, dove al p. 1 si legge che “gli Stati membri adottano le misure appropriate per
promuovere: a) in primo luogo, la prevenzione o la riduzione della produzione e della nocività dei
rifiuti, in particolare mediante: i) lo sviluppo di tecnologie pulite, che permettano un maggiore
risparmio di risorse naturali; ii) la messa a punto tecnica e l’immissione sul mercato di prodotti
concepiti in modo da non contribuire o da contribuire il meno possibile, per la loro fabbricazione, il
loro uso o il loro smaltimento, ad incrementare la quantità o la nocività dei rifiuti e i rischi di
inquinamento; iii) lo sviluppo di tecniche appropriate per l’eliminazione di sostanze pericolose
contenute nei rifiuti destinati ad essere recuperati. (…)”. 98
Come si è cercato di mettere in evidenza in queste pagine, la direttiva 2006/12/Ce dal punto di vista
contenutistico era essenzialmente incentrata sulla funzione di regolazione (cfr., in particolare, gli artt.
4 e 8, nonché gli artt. 9 – 14). Essa, infatti, dava vita ad uno schema regolatorio per la gestione dei
rifiuti congegnato in modo tale da minimizzare il suo impatto sull’ambiente e sulla salute umana.
Tuttavia, la stessa direttiva ha dato vita ad una tensione di cui pure si è cercato di dire. Mentre la
maggior parte delle sue disposizioni riguardavano la gestione di materiali classificati come rifiuti, essa
aveva tra i suoi obiettivi quello di prevenire la produzione dei rifiuti.
76
espressis verbis ad aiutare l’Unione europea ad avvicinarsi ad una società del riciclo,
“cercando di evitare la produzione di rifiuti e di utilizzare [questi ultimi] come
risorse”100
.
Qui, innanzitutto, si rinviene finalmente una nuova definizione di rifiuto, priva del
controverso riferimento all’allegato I. All’art. 3, p. 1, n. 1 si legge, infatti, che
costituisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia
l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”101
. Ed, inoltre, accanto alla definizione di rifiuto
pericoloso102
, è stata inserita per la prima volta anche quella di rifiuto organico, nel
cui ambito rientrano i “rifiuti biodegradabili di giardini e parchi, rifiuti alimentari e
di cucina prodotti da nuclei domestici, ristoranti, servizi di ristorazione e punti
99
Nei considerando si legge, infatti, che “l’obiettivo principale di qualsiasi politica in materia di rifiuti
dovrebbe essere di ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei
rifiuti per la salute umana e l’ambiente. La politica in materia di rifiuti dovrebbe altresì puntare a
ridurre l’uso di risorse e promuovere l’applicazione pratica della gerarchia dei rifiuti (p.6). Pertanto, si
afferma che “è (…) necessario procedere a una revisione della direttiva 2006/12/Ce per precisare
alcuni concetti basilari come le definizioni di rifiuto, recupero e smaltimento, per rafforzare le misure
da adottare per la prevenzione dei rifiuti, per introdurre un approccio che tenga conto dell’intero ciclo
di vita dei prodotti e dei materiali, non soltanto della fase in cui diventano rifiuti, e per concentrare
l’attenzione sulla riduzione degli impatti ambientali connessi alla produzione e alla gestione dei rifiuti,
rafforzando in tal modo il valore economico di questi ultimi. Inoltre, si dovrebbe favorire il recupero
dei rifiuti e l’utilizzazione dei materiali di recupero per preservare le risorse naturali. Per esigenze di
chiarezza e leggibilità, la direttiva 2006/12/CE dovrebbe essere abrogata e sostituita da una nuova
direttiva”. 100
Così si legge al considerando n. 28 della direttiva 2008/98/Ce. Inoltre, al successivo p. 40 si legge
che “per migliorare le modalità di attuazione delle azioni di prevenzione dei rifiuti negli Stati membri
e per favorire la diffusione delle migliori prassi in questo settore, è necessario rafforzare le
disposizioni riguardanti la prevenzione dei rifiuti e introdurre l’obbligo, per gli Stati membri, di
elaborare programmi di prevenzione dei rifiuti incentrati sui principali impatti ambientali e basati sulla
considerazione dell’intero ciclo di vita dei prodotti e dei materiali. Tali misure dovrebbero perseguire
l’obiettivo di dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali connessi alla produzione di
rifiuti”. 101
Tale definizione si ritrova identica nell’art. 183, comma primo, lett. a) del Codice dell’ambiente
italiano come modificato dal d. lgs. n. 105/2010.
Sul punto, la dottrina (F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.) nota che
“in tale nozione sono presenti due elementi: uno di carattere oggettivo (qualsiasi sostanza o oggetto) e
uno di carattere soggettivo (di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi). Con
riferimento al primo elemento, si evidenzia che, per il diritto italiano, possono essere considerati rifiuti
solo beni mobili (…). In relazione al requisito soggettivo, si pensi che un qualsiasi oggetto è
suscettibile di divenire rifiuto: se getto nel cestino una bella mela, questa si trasforma in un rifiuto, pur
non avendone le caratteristiche oggettive, per il solo fatto che ho inteso disfarmene”. Al riguardo,
infatti, R. FEDERICI, A proposito di cose che non sono beni: sottosuolo e rifiuti, in Rass. dir. civ.,
2001, 2, 330 scrive: “il legislatore lascia però spazio al soggetto (…) di trattare come rifiuti cose che
altri, conservandole, potrebbero legittimamente considerare come beni”. 102
All’art. 3, p. 1, n. 3 il rifiuto pericoloso viene descritto come quel “rifiuto che presenta una o più
caratteristiche pericolose di cui all’allegato III”.
77
vendita al dettaglio e rifiuti simili prodotti dagli impianti dell’industria
alimentare”103
.
In secondo luogo, la volontà di far sì che l’Europa si spogli delle vesti di “società del
consumo” trova concretamente riscontro nella gerarchia dei rifiuti, che pone al primo
posto la prevenzione e relega ad ultima ratio lo smaltimento104
. Il nuovo approccio,
in sostanza, “è rivolto fondamentalmente ad evitare e/o ridurre drasticamente la
formazione del rifiuto”105
, con ciò dando luogo a quello che parte della dottrina ha
definito come un vero e proprio “capovolgimento di prospettiva”106
.
L’abbandono dell’idea per cui tutto costituisce rifiuto, inoltre, è stata ulteriormente
confermata dal fatto che il legislatore europeo, sulla scia di quanto deciso negli anni
dalla Corte di Giustizia, agli artt. 5 e 6 della direttiva 2008/98/Ce ha codificato per la
prima volta gli istituti del sottoprodotto e della materia prima seconda (o end of
waste). D’altra parte, conformemente a quanto previsto dal Sesto Programma
europeo di azione ambientale107
, già nei considerando il legislatore - mosso dalla
volontà di eliminare qualsivoglia “confusione tra i vari aspetti della definizione di
rifiuto [anche al fine di poter applicare] procedure appropriate, se del caso, ai
sottoprodotti che non sono rifiuti, da un lato, e ai rifiuti che cessano di essere tali,
103
Così all’art. 3, p. 1, n. 4. 104
Cfr. l’art. 4 della direttiva in esame, dove si legge: “La seguente gerarchia dei rifiuti si applica
quale ordine di priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti:
a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il
recupero di energia; e e) smaltimento. (…)”. 105
F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit.. Non a caso, infatti, il legislatore europeo all’art. 3
p. 12 della direttiva in esame ha rivolto agli Stati membri l’invito ad incentivare l’adozione di “misure
prese prima che una sostanza, un materiale o un prodotto sia diventato rifiuto”. Lo stesso, inoltre,
specifica come tali misure debbano essere rivolte a ridurre: “a) la quantità dei rifiuti, anche attraverso
il riutilizzo dei prodotti o l’estensione del loro ciclo di vita; b) gli impatti negativi dei rifiuti prodotti
sull’ambiente e la salute umana; oppure c) il contenuto di sostanze pericolose in materiali e prodotti”. 106
Così F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione, cit. il quale evidenzia come in questo modo il
legislatore europeo mostri di voler portare a compimento “un percorso iniziato quasi quarant’anni fa
che è passato attraverso varie tappe: in un primo momento l’attenzione del legislatore si concentrava
fondamentalmente sullo smaltimento del rifiuto [cfr. art. 1 direttiva 75/442/Cee], successivamente la
prevenzione, anche se in modo assai timido iniziava a farsi strada nelle direttive, in alcune risoluzioni
del Consiglio (…); infine la prevenzione sembra aver conquistato il ruolo di principio primario sulla
scena dei modelli di azione a livello comunitario”. 107
In proposito cfr. F. FONDERICO, Il IV Programma di azione UE per l’ambiente, cit..
78
dall’altro”108
– ha sottolineato l’opportunità di addivenire ad una definizione di detti
istituti. Pertanto, oggi può dirsi che l’insieme dei rifiuti risulta “limitato e intaccato
da [questi due] contigui sottoinsiemi” e che “nel continuo scontro tra i partiti del
tutto rifiuto e del niente rifiuto si è pervenuti ad una posizione mediana”109
.
II. 4 SOTTOPRODOTTO ED END OF WASTE
Come più volte sottolineato, quello della definizione di rifiuto è stato da sempre il
problema dell’individuazione dell’esatta latitudine di tale nozione110
. Si è avuto
modo di osservare, infatti, come già nel risalente caso Vessoso e Zanetti111
alla Corte
di Giustizia venne chiesto di chiarire il discrimen tra rifiuti e prodotti secondari
(rectius, sottoprodotti)112
.
In effetti, nell’ambito di un processo produttivo sovente vengono involontariamente
ad esistenza prodotti secondari che possono - ma non necessariamente devono -
essere riutilizzati nello stesso o in altro ciclo di produzione. Tra gli “innumerevoli”113
esempi, si pensi al siero di latte o al truciolato derivato dal legno, piuttosto che al
coke da petrolio. Come anticipato, con riferimento ad essi “il problema principale era
dato dal fatto che agli operatori economici era invisa l’idea che tali sottoprodotti
dovessero rientrare nella nozione di rifiuto e che nella gestione degli stessi fosse
108
Così si legge al considerando n. 18 della direttiva in commento. 109
In tal senso F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 110
Così, tra gli altri, N. DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit., dove si legge:
“al fine di evitare le forche caudine della disciplina dei rifiuti (…) alcuni operatori economici non
hanno esitato a qualificare i loro residui di produzione come prodotti o come sottoprodotti”. 111
CGCE, Vessoso e Zanetti, cit.. 112
In tale circostanza, infatti, il giudice a quo ha chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire anche se
l’art. 1 della direttiva 75/442/Ce e l’art. 1 della direttiva 78/319/Ce (sui rifiuti tossici) “vadano intesi
nel senso che nella nozione giuridica di rifiuto debbano essere comprese anche le cose, di cui il
detentore si sia disfatto, suscettibili però di riutilizzazione economica (…)”. 113
F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit..
79
necessario ottemperare agli obblighi previsti dalle disposizioni contenute nella
direttiva”114
rifiuti.
Orbene, inizialmente, la Corte di Giustizia - sul presupposto che il detentore tende di
prassi a disfarsi di detti prodotti secondari - ha strenuamente sostenuto che essi
dovessero essere soggetti alla disciplina giuridica dettata per i rifiuti. Così, la stessa
per anni si è mostrata salda nel ritenere che “la nozione di rifiuto (…) non deve
intendersi nel senso che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione
economica”115
e che, pertanto, “una normativa nazionale la quale adotti una
definizione della nozione di rifiuto escludente [tali] sostanze o oggetti non è
compatibile” con la normativa europea116
. Ciò in quanto “lo scopo essenziale delle
direttive 75/442 e 78/319 (…) vale a dire la protezione della salute umana e
dell’ambiente, sarebbe compromesso qualora l’applicazione delle due direttive
dipendesse dall’intenzione del detentore di escludere o no una riutilizzazione
economica, da parte di altre persone, delle sostanze o degli oggetti di cui egli si
disfa”117
.
114
Così L. KRAMER, EU Environmental Law, cit.. Del pari, N. DE SADELEER, New perspectives on the
definition of waste, cit.. 115
CGCE, Vessoso e Zanetti, cit., p. 9. 116
CGCE, Commissione europea c. Germania, cit., p. 22. Inoltre, ai pp. 23 e 25 della medesima
sentenza, la Corte prosegue affermando che “questa conclusione non è rimessa in discussione né dalle
modifiche apportate alla prima [75/442] di tali due direttive dalla direttiva 91/156 (…) né dalla
abrogazione della seconda [78/319], operata anch’essa dalla direttiva 91/689 (…). Si deve pertanto
constatare che, escludendo talune categorie di rifiuti riciclabili dall’ambito di applicazione della sua
normativa relativa allo smaltimento dei rifiuti, la Repubblica federale di Germania è venuta meno agli
obblighi che ad essa incombono in forza delle direttive 75/442 e 78/319”. 117
CGCE, Vessoso e Zanetti, cit., p. 12. Ex multis, simile linea di pensiero è stata confermata, ad
esempio, in CGCE, Euro Tombesi, cit. dove al p. 54 si legge che “la nozione di rifiuti (…) non deve
essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di riutilizzazione economica,
neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire oggetto di un negozio giuridico (…)”. Ancora,
in CGCE, Inter-Environment Wallonie, cit., pp. 28 e 34, si afferma che “l’elenco delle categorie di
rifiuti di cui all’allegato I (…) e le operazioni di smaltimento e di recupero enumerate agli allegati II A
e II B (…) indicano che la nozione di rifiuto non esclude in via di principio alcun tipo di residui, di
prodotti di scarto e di altri materiali derivanti da processi industriali. (…) [Dunque] il mero fatto che
una sostanza sia inserita, direttamente o indirettamente, in un processo di produzione industriale non
la esclude dalla nozione di rifiuto (…)”.
80
Tuttavia - come si è avuto modo di anticipare – sin dal caso ARCO la Corte di
Giustizia è sembrata stemperare il rigore del proprio orientamento118
e a partire dalla
sentenza resa in occasione del successivo caso Palin Granit la stessa ha preso “ad
operare la distinzione tra i residui di produzione (…) e i sottoprodotti”119
. Mentre i
primi devono essere considerati veri e propri rifiuti, poiché consistono in oggetti o
sostanze che “non sono ricercate in quanto tali al fine di un possibile utilizzo
ulteriore”120
; i secondi sono dei prodotti e come tali sfuggono alla disciplina giuridica
dettata per i rifiuti. Infatti – ha ritenuto la Corte - i sottoprodotti, pur non costituendo
il fine primario di un ciclo produttivo, sono oggetti o sostanze che l’impresa “intende
sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo
successivo, senza operare trasformazioni preliminari”121
.
Di qui i giudici di Lussemburgo hanno proseguito puntualizzando le condizioni che
devono ricorrere perché si possa parlare di sottoprodotti. In particolare, per un certo
periodo di tempo e in una serie piuttosto nutrita di pronunce122
, la Corte ha
118
CGCE, ARCO, cit.. In un passo della pronuncia, infatti, si legge che “l’effettiva esistenza di un
rifiuto ai sensi della direttiva va accertata alla luce del complesso di circostanze, tenendo conto della
finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia” (p. 88). 119
F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit., ma anche – in senso critico - N.
DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit.. Del pari, nella successiva sentenza
Avesta Polarit Chrome, la Corte - dopo aver affermato che “detriti e sabbia di scarto che risultano da
operazioni di arricchimento del minerale (…) costituiscono residui provenienti dall’estrazione e dalla
preparazione delle materie prime di cui al punto Q11 dell’allegato I della direttiva 75/442” – ha
sostenuto che “rimane da esaminare se residui del genere debbano essere qualificati come rifiuti [o
come sottoprodotti]. (…) A questo riguardo, occorre distinguere, da una parte, i residui che sono
utilizzati senza trasformazione preliminare nel processo di produzione per assicurare un necessario
riempimento delle gallerie e, dall’altra, gli altri residui”. Si apprezza così che, mentre “i primi sono
utilizzati come materia nel processo industriale minerario propriamente detto e non possono essere
considerati come sostanze di cui il detentore si disfi o abbia intenzione di disfarsi” (p. 37), “per quanto
riguarda i residui la cui utilizzazione non è necessarie nel processo di produzione per riempire le
gallerie, essi devono, in ogni caso, essere considerati nel loro complesso come rifiuti” (p. 40). 120
F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 121
CGCE, Palin Granit, cit. p. 34. Al successivo p. 35, inoltre, si legge che “la differenza tra prodotti
e rifiuti sta nell’assenza di operazioni di trasformazione preliminare e nella certezza del riutilizzo
senza recare pregiudizio all’ambiente”. Per l’effetto, “non vi è alcuna giustificazione per assoggettare
alle disposizioni [della direttiva rifiuti], che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero
dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti,
indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa
applicabile a tali prodotti”. 122
Inter alia, cfr. CGCE, Avesta Polarit Chrome, cit.; CGCE, Niselli, cit.; CGCE, Saetti e Frediani,
cit.; CGCE, Commissione c. Italia, cit..
81
costantemente ribadito che costituisce condicio sine qua non per l’esistenza di un
sottoprodotto a) la certezza del riutilizzo b) nel medesimo processo produttivo c) in
assenza di qualsiasi tipo di trasformazione preliminare123
. In Commissione europea
c. Italia, ad esempio, si legge che la possibilità di considerare una sostanza o un
oggetto come sottoprodotto “deve essere limitata alle situazioni in cui il riutilizzo di
un bene, di un materiale o di una materia prima (…) non è semplicemente eventuale
bensì certo, non richiede una trasformazione preliminare e interviene nel corso del
processo di produzione o di utilizzazione”124
.
Peraltro, se in un primo tempo - secondo la Corte di Giustizia - il riutilizzo doveva
avvenire esclusivamente nell’ambito del medesimo processo produttivo che aveva
generato il prodotto de quo, successivamente la nozione di sottoprodotto è stata
interpretata in maniera più estensiva, così da ricomprendere l’ipotesi in cui un
oggetto o materiale venga utilizzato (dall’impresa che lo ha prodotto ma) in un ciclo
di produzione diverso e persino il caso in cui lo stesso sia utilizzato da soggetti
terzi125
. In tal senso appare emblematica la pronuncia resa in relazione alla nota
vicenda della petroliera Erika126
. Qui, infatti, i giudici di Lussemburgo hanno
123
In tal senso cfr. CGCE, Avesta Polarit Chrome, cit. In dottrina, per un’analisi puntuale di tali
condizioni cfr. N. DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit.,il quale sottolinea
come secondo la Corte di Giustizia dette condizioni debbano essere “interpretate restrittivamente”. 124
Così si legge al p. 46 di CGCE, Commissione europea v. Italia, cit.. 125
Sul punto cfr. N. DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit., il quale scrive che
non è necessario che sia “il produttore stesso ad ri-usare la sostanza o il prodotto”. Essendo piuttosto
sufficiente che tale ri-uso avvenga effettivamente nell’ambito di un processo di produzione, in disparte
lo specifico operatore economico che riutilizza il sottoprodotto. 126
CGCE, Grande sezione, 24 giugno 2008, Comune di Mesquer c. Total France SA e Total
International Ltd, C- 188/07, per un commento alla quale cfr. G. LANDI, Il caso Erika arriva alla
Corte di Giustizia, ovvero un caso di interpretazione estensiva della nozione di rifiuto servito su un
piatto d’argento, in Riv. giur. amb., 2008, 4, 985. Più nel dettaglio, nel dicembre del 1999 “la
petroliera Erika, noleggiata dalla Total International Ltd per trasportare olio pesante (…) affondava al
largo della costa atlantica francese sversando parte del suo carico in mare”. Il Comune di Mesquer ha
proposto ricorso dinanzi al Tribunale competente chiedendo che le società riparassero i danni
all’ambiente provocati dai rifiuti sversati. Il giudizio è giunto sino in Cassazione, dove il giudice ha
ritenuto di compiere un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. “La prima domanda posta da
giudice francese – ricorda l’A. - riguarda l’elemento oggettivo della direttiva rifiuti, se cioè l’olio
pesante possa o meno essere classificato come rifiuto. La Corte risponde affermando che una sostanza
come l’olio pesante che viene venduto come combustibile, non può di per sé costituire un rifiuto (…)
nei limiti in cui è sfruttata o commercializzata a condizioni economicamente vantaggiose e può essere
82
ritenuto che l’olio pesante accidentalmente sversato in mare in seguito ad un
naufragio – e, dunque, miscelato ad acqua, sabbia, sedimenti - costituisca un rifiuto e
non un sottoprodotto, (semplicemente) poiché lo stesso “non può più essere sfruttato
o commercializzato senza preliminari operazioni di trasformazione”.
L’insieme di queste pronunce, inoltre, ha indubbiamente orientato il legislatore
europeo, che seguendo la via tracciata dalla Corte di Giustizia è giunto ad elaborare
la definizione di sottoprodotto contenuta nell’art. 5 della direttiva 98/2008/Ce127
e
poi recepita dagli Stati membri128
. Questa in effetti - benché a tutt’oggi non manchi
effettivamente utilizzata come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di
trasformazione”. Diversamente, richiamando un proprio precedente (CGCE 7 settembre 2004, Van de
Walle e a., C-1/03), la Corte osserva che “idrocarburi accidentalmente sversati in mare costituiscono
sostanze che il loro detentore non aveva l’intenzione di produrre e delle quali egli si disfa, ancorché
involontariamente, in occasione del loro trasporto. L’olio pesante nel caso di specie deve pertanto
essere qualificato come rifiuto ai sensi della direttiva rifiuti”. 127
Sul punto, cfr. inter alia, P. GIAMPIETRO, Quando un residuo produttivo va qualificato
sottoprodotto (e non rifiuto) secondo l’art. 5 della direttiva 2008/98/Ce, in www.ambientediritto.it,
2008; ID., Rifiuti, prodotti, MPS nella nuova direttiva Ce, in www.ambientediritto.it, 2008; H. A.
NASCH, Thereviseted directive on waste: resolving the legislative tensions on waste managment?, cit..
128 Benché in questo caso il legislatore italiano avesse anticipato quello europeo, disciplinando i
sottoprodotti all’art. 183, primo comma, lett. n) del Codice ambiente, lo stesso è poi dovuto
intervenire nuovamente al fine di recepire la definizione contenuta nell’art. 5 direttiva 98/2008/Ce. E’
così che nel 2010 è stato introdotto l’art. 184 bis nel corpo de d. lgs. n. 152/2006, dove si legge che
costituisce sottoprodotto “qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) la
sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il
cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o
l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di
utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato
direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d)
l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i
requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a
impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana” (p.1). In proposito, cfr. F. DE
LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit., il quale scrive: “la nuova definizione di
sottoprodotto appare particolarmente importante dal momento che sono stati chiariti due punti
fondamentali: a) il sottoprodotto non deve necessariamente essere utilizzato nel corso dello stesso
processo di produzione ma può essere utilizzato anche in un processo di produzione successivo; b) il
sottoprodotto non deve necessariamente essere utilizzato dallo stesso produttore ma può essere
utilizzato anche da terzi”. Al contempo, tuttavia, la stessa ha dato adito anche ad alcune perplessità,
specie per quanto concerne il senso dell’espressione “ulteriore trattamento diverso dalla normale
pratica industriale” di cui alla lettera c), sub. In mancanza di indicazioni puntuali da parte del
legislatore, la dottrina (G. GAVAGNIN, La normale pratica industriale nell’interpretazione della
Cassazione: chiarezza non ancora fatta, in Riv. giur. amb., 2012, 5, 745) ricorda come si siano
formati due orientamenti. Uno, restrittivo, secondo cui “l’espressione utilizzato direttamente
signific[a] utilizzato tal quale e, conseguentemente (…) il trattamento consentito [deve] essere meno
ampio di un recupero che per sua natura può riguardare soltanto un rifiuto” (in tal senso cfr. G.
AMENDOLA, Il quarto decreto correttivo della normativa sui rifiuti, primi appunti: in particolare
sull’ambito di applicazione, in www.industrieambiente.it, 2010; V. PAONE, I sottoprodotti e la
83
di sollevare talune perplessità129
- ha una valenza prettamente ricognitiva degli esiti
raggiunti dalla giurisprudenza. Vi si legge, infatti, che “una sostanza od oggetto
derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è la [sua]
produzione (…) può non essere considerato rifiuto ai sensi dell’articolo 3, punto 1
[della direttiva medesima], bensì sottoprodotto soltanto se sono soddisfatte” le
condizioni sopra descritte, ossia quelle elaborate negli anni dalla Corte di
Giustizia130
.
Un discorso analogo può farsi con riguardo all’istituto dell’ end of waste, o materia
prima seconda, che consiste in un oggetto o materiale il quale, dopo essere stato
normale pratica industriale: una questione spinosa, in Amb. sviluppo, 2011). L’altro, invece, incline a
“sostenere la necessità di non circoscrivere eccessivamente la portata dell’espressione normale pratica
industriale e, al tempo stesso, di non abbracciare qualsiasi operazione comunemente inserita in un
ciclo produttivo (in tal senso cfr. L. PRATI, I sottoprodotti dopo il recepimento della direttiva
2008/98/Ce, in Riv. giur. amb., 2011, 549, ma anche di recente - a commento di C. Cass. pen. 10
maggio 2012 n. 17435 - A. MURATORI, Sottoprodotti: la Suprema Corte in difesa del sistema
Tolemaico?, in Amb. sviluppo, 2012, 7, 605).
129 Per completezza, occorre infatti precisare come in ordine al proprium delle descritte condizioni
non manchino tutt’ora talune perplessità. Ad esempio, con riguardo alla dibattuta questione della
“certezza del riutilizzo” cfr. di recente E. POMINI, Il punto sui sottoprodotti: la certezza del riutilizzo,
in Riv. giur. amb., 2012, 5, 753. L’A., commentando la sentenza TAR Puglia, Lecce, II, 25 maggio
2012 n. 932, si sofferma ad esaminare un passaggio del dispositivo in cui i giudici amministrativi
affermano la necessità che il riutilizzo sia “preventivamente programmato dal produttore nell’ambito
di un processo produttivo”. In proposito, posto che né il legislatore nazionale né quello comunitario
offrono spunti utili a chiarire cosa debba intendersi per certezza del riutilizzo, l’A. suggerisce di
muovere “da quanto precisato dalla Commissione UE nella propria comunicazione del 21 febbraio
2007 (COM2007 59)”, senza peraltro dimenticare di tenere in debita considerazione la direttiva
98/2008/Ce. Questa, in particolare, “non contempl[a] espressamente il requisito dell’integralità del
riutilizzo dei residui”. Pertanto, “non appare strettamente aderente al nuovo dettato normativo quanto
statuito dal TAR Puglia (…) laddove annovera tra gli elementi la cui assenza determina la qualifica
come rifiuti dei materiali in questione anche il mancato riutilizzo integrale”. Viceversa, secondo l’A.,
“la soluzione da preferire sembra essere quella di non richiedere la necessaria integralità del riutilizzo
dei residui di produzione, sempre a condizione che sia dimostrata una gestione degli stessi del tutto
simile a quella degli altri prodotti, che dovrebbe comprendere anche la possibilità, in caso di mancata
vendita, di poter smaltire i sottoprodotti non riutilizzati come rifiuti”. 130
Il p. 1 dell’art. 5 direttiva 98/2008/Ce prosegue elencando dette condizioni: “a) è certo che la
sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzata/ o; b) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzata/o
direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; c) la
sostanza o l’oggetto è prodotta/o come parte integrante di un processo di produzione e d) l’ulteriore
utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti
pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti
complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.
84
sottoposto a talune operazioni di recupero, smette di esser qualificabile come
rifiuto131
.
Infatti, anche in ordine alla enucleazione del proprium di tale istituto, molta parte
l’ha avuta la Corte di Giustizia che con la propria giurisprudenza è andata via via
definendo le condizioni al ricorrere delle quali un rifiuto cessa di essere tale132
. Tra
queste, innanzitutto, la necessità che un oggetto sia sottoposto ad un’operazione di
recupero, compresi il riciclo e la preparazione per il riutilizzo. Ma anche il fatto che,
in relazione ad esso, sussista un mercato o una domanda e, soprattutto, che l’utilizzo
di tale (nuovo) oggetto non comporti danni all’ambiente né alla salute umana.
Non a caso, dunque, nella pronuncia resa in relazione al caso ARCO - vera pietra
miliare nella “storia” dell’end of waste – la Corte ha affermato che “un oggetto può
continuare ad essere considerato rifiuto [escludendo, quindi, la possibilità di rientrare
nel regime derogatorio previsto per le materie prime seconde] se dall’operazione di
recupero esso non risulta come analogo ad una materia prima, con le stesse
caratteristiche e la capacità di essere usato alle stesse condizioni di protezione
ambientale”133
.
131
Sul punto cfr., inter alia, D. POCKLINGTON, The Changing importance of “recovery” and
“recycling” processes in EU waste management law, in [2000] EELR, 272; ID., Opening Pandora’s
Box – the EU review of the definition of “waste”, in [2003] EELR, 204. 132
Al riguardo, cfr. N DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit.. 133
Così al p. 96 della sentenza CGCE, ARCO, cit.. Sul punto, cfr. I. CHEYNE, The definition, cit.,
secondo cui ciò starebbe a significare che “il rischio di danni all’ambiente [appare] alla Corte essere
elemento rilevante al fine di decidere se una sostanza (già classificata come rifiuto) [sia] o meno
ancora tale dopo essere stata sottoposta ad operazioni di recupero”. In senso critico, tuttavia, cfr. K.
GETLIFFE, European waste law, cit., la quale osserva che, così statuendo, la Corte sembra applicare
in modo eccessivamente estensivo il principio di precauzione.
Ex multis, cfr. un caso che ha interessato la giurisprudenza inglese, Castle Cement c. Environment
Agency [2001] 2 EWHC Admin 224 (per un commento cfr. H. KEELE, When does waste cease to be
waste, in [2001] ELR 3). Qui la vicenda involgeva dei rifiuti “lavorati” per fare combustibile da
utilizzare nell’industria del cemento. Mentre il ricorrente sosteneva che il combustibile non fosse un
rifiuto ai sensi della direttiva, poiché esso costituiva l’equivalente di una materia prima;
l’Environment Agency, di contro, affermava che la combustione di combustibile rappresentava parte
di un processo di recupero. Orbene, il giudice interno chiamato a dirimere la questione ritenne che il
combustibile costituisse un rifiuto e ciò sulla base di due argomenti tratti proprio dalla sentenza
ARCO. Innanzitutto, si disse, l’atto della combustione doveva essere visto come un chiaro atto di
“discarding” ed, inoltre, solo opinando in tal senso poteva essere garantita l’effettività della direttiva.
In particolare, a tale ultimo proposito l’organo giudicante affermò come la produzione di Cemful fosse
85
Al pari di quanto è accaduto per l’istituto del sottoprodotto, anche l’orientamento
della giurisprudenza di Lussemburgo in materia di end of waste è stato accolto dal
legislatore europeo, il quale ha “cristallizzato” detti criteri nell’ultima direttiva rifiuti
(e, successivamente, gli stessi hanno fatto breccia negli ordinamenti nazionali134
).
Qui, infatti, all’art. 6, p. 1, si legge che “taluni rifiuti specifici cessano di essere tali
ai sensi dell’articolo 3, punto 1 [della direttiva medesima], quando siano sottoposti a
un’operazione di recupero, incluso il riciclo, e soddisfino criteri specifici da
elaborare conformemente” ad una serie di condizioni. Vale a dire: “a) la sostanza o
l’oggetto è comunemente utilizzata/o per scopi specifici; b) esiste un mercato o una
domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti
tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti
applicabili ai prodotti; e d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a
impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”135
.
“potenzialmente dannosa per l’ambiente”, il che di per sè poteva ritenersi motivo sufficiente a
ricondurre tale pratica nel novero di quelle attività nei cui confronti doveva trovare applicazione la
direttiva, “a meno di non voler minare proprio l’effettività di quest’ultima”.
134 Per ciò che concerne l’Italia, il riferimento è all’art. 184 ter del d.lgs. n. 152/2006 come modificato
nel 2010. Tale articolo, sotto la rubrica “cessazione della qualifica di rifiuto”, al p. 1 dispone infatti
che: “Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il
riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle
seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici; b) esiste
un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti
tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; d)
l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla
salute umana”. Per ciò che concerne, invece, la Gran Bretagna le “Waste (England and Wales)
Regulations 2011”, Parte I. Reg.3, compiono un rinvio direttamente alla direttiva e alle definizioni ivi
contenute.
135 L’art. 6 della direttiva 98/2008/Ce prosegue affermando che “I criteri includono, se necessario,
valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente
della sostanza o dell’oggetto.
Le misure intese a modificare elementi non essenziali della presente direttiva, completandola, che
riguardano l’adozione dei criteri di cui al paragrafo 1 e specificano il tipo di rifiuti ai quali si
applicano tali criteri, sono adottate secondo la procedura di regolamentazione con controllo di cui
all’articolo 39, paragrafo 2. Criteri volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale dovrebbero
essere considerati, tra gli altri, almeno per gli aggregati, i rifiuti di carta e di vetro, i metalli, i
pneumatici e i rifiuti tessili.
I rifiuti che cessano di essere tali conformemente ai paragrafi 1 e 2 cessano di essere tali anche ai fini
degli obiettivi di recupero e riciclaggio stabiliti nelle direttive 94/62/CE, 2000/53/CE, 2002/96/CE e
86
Una lettura d’insieme di tali condizioni consente, tra le altre cose, anche di
apprezzare la differenza – invero non sempre agevole136
– tra l’istituto de quo e
quello del sottoprodotto. Come osservato dalla dottrina, infatti, mentre quest’ultimo
“non è mai diventat[o] rifiuto”137
e il suo riutilizzo oltre a dover essere certo non
presuppone operazioni di trasformazione, l’end of waste era un rifiuto ma, “a seguito
di trattamenti vari, [ritorna] ad essere un prodott[o] utilizzabil[e] e con un valore
economico sul mercato”138
.
In questi stessi termini, del resto, si è sempre espressa anche la giurisprudenza, sia
quella della Corte di Giustizia139
sia – di riflesso – quella nazionale. A tale ultimo
riguardo, si veda - ad esempio - quanto deciso recentemente dal Tribunale di Brescia.
Nel 2009 quest’ultimo è stato chiamato a pronunciarsi in merito alla qualifica di
alcuni rottami ferrosi acquistati da presunti commercianti e, quindi, ceduti a terzi per
2006/66/CE e nell’altra normativa comunitaria pertinente quando sono soddisfatti i requisiti in materia
di riciclaggio o recupero di tale legislazione.
Se non sono stati stabiliti criteri a livello comunitario in conformità della procedura di cui ai paragrafi
1 e 2, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di
essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile. Essi notificano tali decisioni alla
Commissione in conformità della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22
giugno 1998 che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle
regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, ove
quest’ultima lo imponga”. 136
Cfr., ad esempio, i considerando nn. 8 ed 11 della direttiva 98/2008/Ce .
Inoltre, in dottrina cfr. H. KEELE, When does cease to be waste?, cit.; F. VANETTI, Rifiuti metallici o
materie prime seconde?, in Riv. giur. amb., 2010, 5, 816. Ma anche F. FONDERICO, Sesto programma
di azione UE per l’ambiente e “strategie tematiche”, in Riv. giur. amb., 2007, 5, 696, che scrive:
“l'orientamento, nel solco tracciato dal Sesto Programma, sarebbe quello di fornire un quadro
regolatorio stabile, anche al fine di garantire al mondo imprenditoriale sufficienti certezze giuridiche
sui tempi di ammortamento degli investimenti necessari e non incidere negativamente sulla
competitività dell'economia europea.
Le proposte vanno da una razionalizzazione dell'esistente quadro legislativo, con l'introduzione di
aggiustamenti di tipo incrementale, fino all'istituzione di nuovi assetti.
Quali esempi del primo genere, si possono citare la strategia in materia di rifiuti e quella in materia di
inquinamento atmosferico. Nel caso dei rifiuti, in particolare, i principali interventi riguarderanno un
miglioramento e una chiarificazione delle definizioni normative rilevanti [quale, ad esempio quella di
end of waste], in modo da garantire una maggiore certezza del diritto”. 137
F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 138
F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 139
Si veda, ad esempio, CGCE Niselli, cit., per un commento alla quale cfr. A. L. DE CESARIS,
Nozione di rifiuto: l’Italia perde il pelo ma non il vizio, in Riv. giur. amb., 2005, 2, 275 e A.
NATALINI, Rifiuti, la Corte europea boccia l’Italia, in Dir. giust., 2004, 50.
87
il loro recupero o riutilizzo, senza tuttavia che tali commercianti fossero muniti delle
necessarie autorizzazioni per la gestione di simili rifiuti140
.
Orbene, dopo aver richiamato un illustre precedente della Corte di Giustizia141
, i
giudici del Tribunale hanno osservato che "i rottami ferrosi effettivamente
potrebbero perdere la qualificazione di rifiuto, per assumere quella di "materie
prime secondarie" in presenza di determinate circostanze la cui dimostrata
sussistenza conduce all'applicazione di quello che, a tutti gli effetti, può essere
definito un regime derogatorio (…)”142
.
Di qui, dunque, i giudici hanno colto l’occasione per chiarire nuovamente il confine
tra end of waste e sottoprodotto. Nello specifico, si ribadisce che, mentre le materie
prime seconde si risolvono in materiali derivanti da un'operazione di riutilizzo,
riciclo o recupero di rifiuti, “ossia sono il prodotto commerciabile di un rifiuto
trattato” ; i sottoprodotti, invece, non sono mai stati rifiuti e si risolvono in materiali
immediatamente riutilizzabili, vale a dire senza bisogno di alcun preventivo
trattamento143
.
Tutto ciò premesso, il Tribunale conclude escludendo che nel caso de quo il rottame
possa essere liberamente commercializzato come materia prima secondaria, giacché
lo stesso non è stato sottoposto ad un trattamento di tipo preventivo. In caso contrario
- vale a dire qualora fosse possibile un immediato uso dello stesso senza alcun
trattamento preliminare - esso potrebbe essere qualificato come sottoprodotto.
140
Tribunale Brescia 22 dicembre 2009 n. 1198, per un commento alla quale cfr. F. VANETTI, Rifiuti
metallici o materie prime seconde?, cit.. 141
Il riferimento è precisamente al sopra citato caso ARCO. 142
In particolare – si legge nella nota di F. VANETTI, Rifiuti metallici o materie prime seconde?, cit.. –
“colui che commercia il rottame, per poterlo qualificare materia prima secondaria, dovrebbe provare
(i) la sua provenienza, (ii) le sue caratteristiche specifiche o gli eventuali trattamenti subiti e, quindi,
(iii) la rispondenza a determinate specifiche per il suo riutilizzo” 143
Così del resto si legge in F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit., ma
anche in E. POMINI, Rifiuti, residui di produzione e sottoprodotti alla luce delle linee guida della
Commissione CE, della (proposta di) nuova direttiva sui rifiuti e della riforma del decreto legislativo
152/2006: si attenua il divario tra Italia ed Unione Europea?, in Riv. giur. amb., 2008, 2, 355.
88
II. 5 L’ “EUROPEIZZAZIONE” DELLA NOZIONE DI RIFIUTO
La disamina sin qui condotta consente di apprezzare la parabola vissuta dalla nozione
di rifiuto dagli anni Settanta del secolo scorso sino ai giorni nostri. L’intento, d’altra
parte, era quello di fornire una visione di insieme dei mutamenti occorsi nella
materia de qua dal punto di vista definitorio a partire da quando le istituzioni europee
hanno preso ad interessarsi dei rifiuti, con ciò finendo per influenzare
pervasivamente anche le legislazioni nazionali144
.
Innanzitutto, si è visto come i rifiuti siano “tipici” dell’età moderna145
e come fino a
non molto tempo fa essi fossero considerati una sorta di prodotto ineliminabile
dell’odierna società146
. Per tale ragione, ab origine l’attenzione delle istituzioni
europee – e, di riflesso, quella degli Stati membri147
- si è concentrata essenzialmente
in ordine alla loro gestione148
. Di conseguenza, al risalto dato ai profili regolatori
della materia de qua, in un primo tempo si è accompagnata una interpretazione molto
lata del concetto di rifiuto. Ciò al fine dichiarato – si legge nella giurisprudenza della
Corte di Giustizia - di proteggere l’ambiente e la salute umana149
.
Simile indirizzo, tuttavia, ha immediatamente incontrato lo sfavore degli operatori
economici che, “nell’intento di sfuggire alle Forche Caudine della disciplina dei
144
Non a caso parte della dottrina (C. VERDURE, The europeanization of the definition of waste, paper
presentato al convegno “Globalization and europeanization of environmental law and policy”,
Copenhagen, 22 – 23 marzo 2010) ha parlato di “europeizzazione” della definizione di rifiuto. In
senso analogo, benché con riguardo all’ambiente in generale cfr. F. DE LEONARDIS, La disciplina
dell’ambiente, cit.. 145
In tal senso L. PINNA, Autoritratto dell’immondizia, cit. ed E. SORI, La città e i rifiuti, cit., ma
anche R. FEDERICI, Rifiuti, cit.. 146
Così F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. Nonché D. POCKLINGTON,
The utility of the concept of waste, cit., il quale scrive: “la produzione di rifiuti è una conseguenza
inevitabile di pressoché tutte le operazioni e le attività essenziali per il funzionamento dell’odierna
società”. 147
Si ribadisce che il diritto europeo ha pervasivamente influenzato i diritti nazionali (anche) nella
materia de qua. Non a caso, già nel 1994 parte della dottrina (J. FLUCK, The term “waste” in EU law,
cit.) scriveva: “il diritto europeo sta enormemente influenzando il diritto degli Stati membri. E ciò vale
anche per il diritto ambientale (…)”. 148
In tal senso F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.; J. FLUCK, The
term “waste”, cit.. 149
Cfr., ad esempio, CGCE Vessoso e Zanetti, cit., in particolare il p. 12.
89
rifiuti, (…) non hanno esitato a qualificare i loro residui [di produzione] come
prodotti o come sottoprodotti”150
. Anche in ragione di ciò151
, dunque, la Corte di
Giustizia è stata ripetutamente esortata a chiarire la “latitudine” del concetto di
rifiuto152
. Per tale via, a partire dal caso ARCO153
la stessa ha finito con il mitigare la
rigidità del proprio pregresso orientamento e, poco alla volta, ha precisato i contorni
di altri due istituti, il sottoprodotto e l’end of waste154
.
Al contempo - preso atto del fatto che “i risultati raggiunti dalla politica ambientale
comunitaria erano stati nel complesso modesti, evidenziando un lento ma inesorabile
deterioramento dello stato generale dell'ambiente della Comunità"155
, e che ancora
agli albori del nuovo millennio “i progressi nel cambiare le tendenze economiche e
sociali nocive per l'ambiente sono stati scarsi”156
- l’approccio regolatorio, volto
prioritariamente alla gestione dei rifiuti ha dovuto cedere il passo ad un approccio di
tipo preventivo, volto cioè ad evitare (o, per lo meno, a limitare) la produzione stessa
dei rifiuti157
.
Come si è avuto modo di rilevare, di ciò vi è traccia sia nella direttiva 12/2006/Ce
sia, soprattutto, nella direttiva 98/2008/Ce158
. Questa, in particolare, si prefigge
l’obiettivo di fare dell’Europa una società a “rifiuti zero” e, a tal fine, pone al vertice
150
In questi termini, N. DE SADELEER, New perspectives on the definition of waste, cit.. 151
Si è visto in fatti che quello del confine tra rifiuto e sottoprodotto, pur trattandosi di una delle
questioni più controverse, non è stata la sola. Sul punto cfr. amplius quanto riportato nelle pagine che
precedono. 152
Si vedano le pronunce variamente richiamate nel testo, a partire da CGCE, Vessoso e Zanetti, cit.. 153
CGCE, ARCO, cit.. 154
Quanto al primo, cfr., inter alia, CGCE, Avesta Polarit, cit.; CGCE, Saetti e Frediani, cit.; CGCE,
Commissione europea v. Regno di Spagna, cit.. Per ciò che concerne, invece, la materia prima
seconda o end of waste cfr. CGCE, ARCO, cit., nonché CGCE, Niselli, cit.. 155
Così F. FONDERICO, Sesto Programma di azione UE per l’ambiente e “strategie climatiche”, cit.,
parlando a proposito del V Programma . 156
Così F. FONDERICO, Sesto Programma di azione UE per l’ambiente e “strategie climatiche”, cit.. 157
Sul punto cfr. amplius F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit; ID,
Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, cit.. 158
In proposito, cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e novità normative in materia di
rifiuti, cit.; E. SCOTFORD, Trasch or treasure, cit.; nonché ID., The new waste directive, cit..
90
della gerarchia dei rifiuti proprio il principio di prevenzione o azione preventiva159
.
Inoltre, conformemente a tale logica, la stessa disciplina per la prima volta gli istituti
del sottoprodotto e dell’end of waste160
, “cristallizzando” così le indicazioni dettate
negli anni dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Alla luce della disamina sin qui condotta, dunque, è possibile osservare innanzitutto
come negli anni le istituzioni europee abbiano disciplinato in maniera alquanto
dettagliata la materia dei rifiuti, finendo per influenzare sensibilmente le legislazioni
nazionali al punto tale da far parlare di una vera e propria “europeizzazione” della
nozione di rifiuto161
.
In secondo luogo, si è potuto apprezzare come tale disciplina abbia assunto dei
contenuti tali da affrancare l’istituto dei rifiuti dagli obiettivi primariamente connessi
con la costruzione del mercato unico, per abbracciare politiche eminentemente volte
alla tutela dell’ambiente. Su tutti, si pensi al ruolo oggi accordato al principio di
prevenzione nell’ambito della gerarchia dei rifiuti.
Infine, bisogna altresì evidenziare come per effetto di simile revirement lo spazio dei
rifiuti sia stato progressivamente “eroso” dall’espandersi di quello dei sottoprodotti e
delle materie prime seconde, al punto che – come osservato da parte della dottrina –
oggigiorno “la definizione di rifiuto, secondo la prospettiva europea, si potrebbe
(provocatoriamente) definire residuale (più che complementare) rispetto” a tali
159
Cfr. art. 4 della direttiva 2008/98/Ce. In dottrina cfr. F. DE LEONARDIS, I rifiuti, cit., che parla di un
capovolgimento di prospettiva. 160
Si tratta, rispettivamente, degli artt. 5 e 6 della direttiva 2008/98/Ce. Recepiti pedissequamente in
Italia negli artt. 184 bis e ter del Codice dell’ambiente come modificato nel 2010. E recepiti, altresì, in
Inghilterra che alla Reg. 3 delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011” rinvia addirittura alle
definizioni contenute nella direttiva rifiuti. 161
Così C. VERDURE, The Europeanization of the definition of waste, cit.. Ciò, peraltro è comprovato
dal fatto che le definizioni di rifiuto (e oggi anche quelle di sottoprodotto ed end of waste) sono
recepite in modo pedissequo negli Stati membri.
91
concetti162
. In altri termini, tanto a livello europeo quanto a livello nazionale, si è
passati da una politica del “tutto rifiuto” ad una del “(quasi) niente rifiuto”.
162
G. GAVAGNIN, La “normale pratica industriale” nell’interpretazione della Cassazione, cit..
92
CAPITOLO III
IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI IN ITALIA
III.1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Nei capitoli che precedono si è dato corso, da un lato, alla ricognizione delle fonti in
materia di rifiuti e, dall’altro lato, alla ricostruzione della relativa nozione e di quelle
contigue di sottoprodotto ed end of waste. Entrambe queste analisi sono state svolte
avendo riguardo non solo del contesto giuridico nazionale ma anche, e soprattutto, di
quello europeo, attesa la pregnante influenza che quest’ultimo esercita sul primo1. In
questo modo si è cercato di tracciare le linee tendenziali lungo cui negli anni si è
evoluto il sistema e, per l’effetto, è stato messo in risalto il fatto che alcuni dei
passaggi più significativi sono stati catalizzati dalla giurisprudenza, specie quella
della Corte di Giustizia2.
Parimenti importante si vedrà essere il ruolo del diritto europeo e della
giurisprudenza anche con riferimento ai profili inerenti alla gestione dei rifiuti
urbani, quale esempio di servizio pubblico locale, tema che si intende affrontare in
questa sede. In particolare, nelle pagine che seguono si proverà a dare conto dei
moduli organizzativi in uso ai fini dell’espletamento di tale servizio pubblico, alla
luce soprattutto delle recenti evoluzioni legislative3 e giurisprudenziali
4 che hanno
interessato l’istituto negli ultimi anni. E, nel fare ciò, non ci si potrà esimere dal
compiere ampi riferimenti all’Europa, posto che i cambiamenti che da almeno due
decenni hanno interessato la materia dei servizi pubblici (anche locali) sono stati in
larga parte orientati proprio dalle politiche dell’Unione in tema di costruzione del
1 In tal senso, cfr. per tutti A. ROMANO, Amministrazione, legalità e ordinamenti giuridici, in Dir.
amm.,1999, 1, 130. 2 Si veda in particolare quanto detto con riguardo alla perimetrazione della nozione di rifiuto, nonché
all’emersione, prima, e all’affermazione, poi, degli istituti del sottoprodotto e dell’end of waste. Al
riguardo, cfr. inter alia CGCE 28 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, C- 206 e 207/88; CGCE 25 giugno
1997, Euro Tombesi e a., cause riunite C-304/94; CGCE 15 giugno 2000, ARCO Chemie Nederland
Ltd, cause riunite C-418/97 e C-419/97; CGCE 8 settembre 2005, Commissione c. Regno di Spagna,
C-416/02. 3 Il riferimento è, in particolare, agli interventi legislativi succedutisi nel biennio 2011-2012: il d. l. 13
agosto 2011 n. 138 convertito nella L. 14 settembre 2011 n. 148; la L. 12 novembre 2011 n. 183 ed,
infine, il d. l. 24 gennaio 2012 n. 1 convertito nella L. 24 marzo 2012 n. 27. 4 Da ultimo si ricorda Corte Cost. 20 luglio 2012 n. 199, in relazione alla quale cfr. amplius infra.
93
mercato unico e implementazione della concorrenza5, nonché in taluni casi – come
ad esempio quello dei rifiuti – dalla legislazione europea in tema di ambiente6.
Preliminarmente, tuttavia, è d’uopo ricostruire nei suoi termini più generali l’istituto
del servizio pubblico, sia nella dimensione nazionale che in quella locale, a
cominciare dalle origini sino ai giorni nostri, ciò quanto meno al fine di meglio
contestualizzare il tema della presente indagine e cogliere il proprium dell’istituto7.
Nel presente capitolo, dunque, muovendo dalla Legge sulle municipalizzazioni del
1903 si cercherà di ripercorrere le tappe dell’evoluzione normativa che ha interessato
l’istituto e di vedere come la fisionomia dello stesso – specie in settori peculiari,
quale quello dei rifiuti - sia mutata per effetto dell’irrompere sulla scena giuridica di
un nuovo attore: l’Unione europea. Di qui l’attenzione si incentrerà sulle
problematiche connesse ai più recenti interventi legislativi al fine di comprendere
quanto la mutevolezza delle regole che negli ultimi venti anni sembra aver
caratterizzato il settore de quo sia dipesa dall’influenza che l’UE esercita sugli Stati
membri e quanto, invece, la stessa si ricolleghi - come molti sono propensi a
ritenere8 - alla mancanza di un disegno organico da parte del legislatore nazionale.
5 Al riguardo, cfr. innanzitutto F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa: cura
dell’interesse generale e autonomia privata nei nuovi modelli di amministrazione, Cedam, Padova,
2000. Inoltre, cfr. E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, in S. MANGIAMELI (a
cura di), I servizi pubblici locali, Giappichelli, Torino, 2008, la quale osserva che “l’incidenza del
diritto europeo sulla disciplina dei pubblici servizi, nazionali e locali, non è più suscettibile di essere
posta in discussione (…)”; nonché M. CLARICH, Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza:
l’esperienza italiana e tedesca a confronto, in Riv. trim. dir. pubbl., 2003, 1, 91, dove si legge: “Il
diritto europeo ha rappresentato un fattore di cambiamento epocale anche nel settore dei servizi
pubblici. (…) La costituzione economica europea ha richiesto [infatti] una revisione del nostro
ordinamento molto più ampia di quella imposta” ad altri Paesi, come ad esempio la Germania. 6 Infatti, come si avrà modo di sottolineare nel proseguo della trattazione, nel tempo la legislazione
europea in materia di ambiente è diventata così pervasiva da influenzare sensibilmente anche
l’organizzazione di quei servizi pubblici (anche locali) che recano indubbi punti di contatto con la
materia (acqua, energia e , ovviamente, i rifiuti), ponendo in capo ai gestori dei servizi medesimi una
serie di obblighi alquanto stringenti per ciò che concerne la sostenibilità e la compatibilità ambientale. 7 Da ultimo, sottolinea l’ importanza dello studio delle fonti per la migliore comprensione degli istituti
“odierni” P. MADDALENA, I beni comuni nel diritto romano: qualche valida idea per gli studiosi
odierni, in www.federalismi.it, 2012. 8 Rinviando per maggiori approfondimenti a quanto si dirà più avanti, basti qui fare riferimento, da
ultimo, a G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi pubblici
locali. Alla ricerca del filo di Arianna, in www.giustamm.it, 2011; e S. STAIANO, I servizi pubblici
locali nel decreto-legge n. 138 del 2011. Esigenze di stabile regolazione e conflitto ideologico
immaginario, in www.federalismi.it, 2011 dove si legge: “ora, è un fatto che oggi gli eventi premono
con forza inedita; e che ciò consiglierebbe di agire nella consapevolezza delle esigenze di riordino,
razionalizzazione, coerente ricomposizione di molti ambiti del sistema normativo (…) bandendo gli
ideologismi che hanno estenuato la vicenda legislativa dei servizi pubblici, dei quali sono ancora assai
carenti la regolazione e il controllo, in un tempo in cui regolazione e controllo sono il vero nocciolo
della questione”.
94
III.2 IL SERVIZIO PUBBLICO
Quello del servizio pubblico è un istituto antico (e tuttavia – si vedrà - ancora
straordinariamente attuale per il suo essere perennemente in fieri9) se si pensa che sul
finire dell’800, uno dei padri del diritto amministrativo italiano metteva già in luce il
“fatto materiale e innegabile, dell’immane moltiplicazione di servizi pubblici” i
quali, dunque, erano gioco forza divenuti oggetto di studio da parte de “la scienza
amministrativa”10
.
In realtà di servizio pubblico si era iniziato a parlare ancora prima, quando alcuni
Stati c.d. “a regime borghese” avevano disposto la statizzazione dei servizi postali11
,
ma fu indubbiamente con la fine dello Stato monoclasse e l’avvento dello Stato
pluriclasse che si assistette a “l’espansione dei servizi pubblici”12
. Di lì in poi, infatti,
ha preso avvio quel cammino che ha portato all’affermazione nella realtà giuridica e,
prima ancora in quella sociale, della c.d. amministrazione di servizio, per cui
9 Scrive, infatti, L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno all’autonomia, il
rispetto della disciplina europea, la finalizzazione alle aspettative degli utenti, in Giur. it., 2013, 3,
678; “si tratta di materia viva nella realtà e nell’ordinamento, che non può essere lasciata senza
spiegazioni”. Ciò può essere percepito, innanzitutto, da un esame dei molteplici interventi legislativi
che, specie negli ultimi anni, hanno interessato l’istituto de quo. Ma si può anche osservare come alla
base di tale “mutevolezza” vi sia il fatto (fisiologico) che inevitabilmente i bisogni avvertiti come
necessari da una comunità variano nel tempo e che rispetto a quegli stessi bisogni “vi è una
responsabilità ultima degli enti territoriali di tutela della persona e di soddisfacimento dei bisogni
essenziali. Ciò [che peraltro] è conforme all’ordinamento comunitario” (G. ROSSI, Diritto pubblico e
diritto privato nell’attività della pubblica amministrazione: alla ricerca della tutela degli interessi, in
Dir. pubbl., 1998, 3, 661). 10
In questi termini V. E. ORLANDO, Prefazione al Primo Trattato completo di diritto amministrativo,
Milano, 1897. 11
Al riguardo cfr. M. S. GIANNINI, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Il Mulino,
Bologna, 1986, il quale ricorda come detta statizzazione, disposta “nel periodo tra il primo quarto e la
metà del secolo XIX” (in Italia si ebbe nel 1862), fosse stata determinata essenzialmente dal
malcontento relativo al regime precedentemente in vigore. “Con le gestioni commesse a privati –
infatti – i piccoli centri non erano serviti, il servizio si erogava disordinatamente; i prezzi erano
eterogenei, diversi, spesso esosi; non vi era garanzia del segreto epistolare”. 12
Così M. S. GIANNINI, Il pubblico potere, cit.. Qui si legge, in particolare, che lo Stato monoclasse,
anche detto Stato censitario o borghese, “fu quello Stato che per eccellenza seguì i principi ideologici
e politici del liberalismo politico e del liberismo economico”. Dunque “l’ideologia che dominava la
classe di potere nello Stato ottocentesco era nel senso (…) dell’assolutizzazione del principio di libera
iniziativa. (…) Esso – ricorda l’A. – aveva valore in positivo, ossia come garanzia della libertà di
impresa, e in negativo, ossia come rimozione di ostacoli all’esplicazione libera dell’iniziativa
economica, e quindi come astensione dei pubblici poteri da interventi limitativi della medesima (…)”.
Pertanto, in applicazione di siffatto principio, “lo Stato monoclasse distrusse grandissima parte di ciò
che avevano costruito gli Stati dei precedenti periodi” e, ad esempio, “furono dismesse tutte le
imprese in mano pubblica, statali e locali”. Ciò non di meno, fu ammessa una serie sempre più nutrita
di eccezioni (quale, ad ex., la statizzazione del servizio postale) introdotte “per ragioni di
miglioramento della condizione umana”, le quali “contengono in sé una forza dirompente, che porterà
alla fine dello Stato borghese”. Sul finire dell’800, infatti, “le amministrazioni della tradizione, dello
Stato e degli enti territoriali sono divenute amministrazioni che in prevalenza gestiscono servizi
pubblici”, ossia un insieme di attività non riconducibili alla nozione di “funzioni” (le sole un tempo
ritenute di competenza dello Stato). “Da allora la nozione entra in circolo, ma resta fra quelle più
tormentate”.
95
“all’attività amministrativa tipica mediante esercizio di poteri si [è] affiancata, in
termini sempre più consistenti, l’attività di prestazione di servizi ai cittadini”13
.
Con la diffusione di tale istituto, inoltre, ha preso le mosse anche la ricerca di una
definizione giuridica capace di illustrarne esaustivamente il proprium. Tuttavia,
quella di servizio pubblico costituisce ancora oggi una “fortunosa espressione”14
tanto suggestiva quanto sprovvista di una nozione unanimemente condivisa o,
secondo alcuno, “giuridicamente rilevante”15
e ciò, probabilmente, in ragione di una
serie di circostanze concomitanti.
Innanzitutto – si è detto in dottrina - il fatto che “il concetto di servizio pubblico
comprend[a] una quantità di istituti e rapporti l’uno profondamente diverso
dall’altro”16
. In secondo luogo, la circostanza per cui l’espressione “servizio
13
La riflessione si deve ad A. ROMANO, Il cittadino e la pubblica amministrazione, in AA. VV., Il
diritto amministrativo degli anni ’80, Atti del XXX Convegno di Varenna, Giuffrè, Milano, 1987. Ma
considerazione analoga si rinviene anche in E. SCOTTI, Il pubblico servizio. Tra tradizione nazionale e
prospettive europee, Cedam, Padova, 2003. 14
L’espressione si deve a M. NIGRO, L’edilizia popolare come servizio pubblico, in Riv. trim. dir.
pubbl., 1957, 2, 118.
Considerazioni pressoché analoghe si rinvengono in tutte le trattazioni che abbiano riguardo
dell’istituto in argomento. Tra gli altri si ricordano: R. ALESSI, Le prestazioni amministrative rese ai
privati, Milano, Giuffrè, 1956, il quale evidenzia come “le nozioni di servizio pubblico siano tante
quanti gli autori che se ne occuparono” e F. BENVENUTI, Appunti di diritto amministrativo. Parte
generale, IV ed., Cedam, Padova, 1959, secondo cui “è questa [addirittura] una espressione priva di
un valore giuridico esatto e che è mutuata dalla scienza economica”. Più di recente, inoltre, cfr. F.
MERUSI, (voce) Servizio pubblico, in Nss. D. I., XVII, Torino, 1970; F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni di
diritto pubblico dell’economia, Giappichelli, Torino, 2007; R. VILLATA, Sulla nozione di pubblico
servizio con particolare riguardo alla sua rilevanza penalistica, in ID., I servizi pubblici. Temi e
problemi, Giuffrè, Milano, 2003. 15
In questo senso cfr. R. VILLATA, La pubblica amministrazione e i servizi pubblici, in Dir. amm.,
2003, 3, 493, dove si legge: “esiste oggi una nozione di pubblico servizio, unitariamente considerato,
che si possa dire giuridicamente rilevante? Giuridicamente rilevante nel senso che una volta ricondotta
a siffatta nozione una determinata attività ne segua l’applicabilità di una ben definita ed omogenea
disciplina di diritto sostanziale con eventuali riflessi sul piano del processo. Ciò in quanto parrebbe
non revocabile in dubbio l’assunto che in tanto è consentito porsi il problema dei rapporti tra pubblica
amministrazione e servizio pubblico in quanto sia stabilito in che cosa il servizio pubblico consista”.
Tuttavia, altra parte della dottrina (L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno
dell’autonomia, il rispetto della disciplina europea, la finalizzazione alle aspettative degli utenti, cit.)
osserva che “la complessità e la natura multiforme del concetto, comunque, non legittimano
l’abbandono della discussione sulla nozione, per abbracciare l’idea della sua insignificanza – o,
almeno, irrilevanza – giacché bisogni e domande individuali, attività d’impresa, poteri ed
organizzazioni pubbliche restano definite da quel concetto, disciplinate le attività che vi
corrispondono, i rapporti giuridici che ne derivano e le controversie giurisdizionali che possono
seguirne; si tratta di materia viva nella realtà e nell’ordinamento, che non può essere lasciata senza
spiegazioni”. 16
Così S. ROMANO, Principii del diritto amministrativo, III ed., Giuffrè, Milano, 1912, ma
considerazioni analoghe si rinvengono anche in A. DE VALLES, I servizi pubblici, in V. E. ORLANDO (a
cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo, cit., di dove si legge: “l’espressione
servizio pubblico è usata dalla pratica in un significato globale, che non corrisponde al significato
particolare del sostantivo e dell’attributo: ed anzi, se vi è tanta varietà di opinioni sul concetto di
pubblico servizio, ciò dipende dal fatto che, se è incerto l’attributo, il sostantivo è preso volta a volta
in tutti i suoi significati, facendone derivare una nozione diversa dell’idea complessiva”.
96
pubblico” è stata mutuata dalla scienza economica ha prodotto i disagi normalmente
connessi a questo genere di innesti17
. E ancora, il fatto che la disciplina giuridica
relativa all’istituto de quo “si muove in un’area che non costituisce esclusivo
appannaggio del diritto pubblico o del diritto privato, ma che fa applicazione delle
norme desunte dall’una o dall’altra branca (…) [ha] contribuito a porre in
discussione alcuni dei capisaldi della più antica dottrina (e giurisprudenza)
pubblicistica, come la tradizionale distinzione fra atti d’imperio e atti di gestione”18
.
A ciò si aggiunga, infine, che i contorni stessi dell’istituto sono mutati di pari passo
con il mutare della legislazione che lo ha interessato, il che ha fatto sì - in definitiva -
che la ricerca di una definizione esaustiva del concetto di servizio pubblico (e, per
l’effetto, di servizio pubblico locale) si sia intrecciata con la “storia” della sua
Infine, più di recente, cfr. P. CIRIELLO, (voce) Servizi pubblici, in Enc. giur., Roma, 1990 il quale
osserva che quella di servizio pubblico “è un’espressione che il legislatore è venuto via via
adoperando in un numero ormai rilevante di casi senza fornire (…) delle indicazioni univoche e
concordanti atte a consentire una ricostruzione sistematica in termini di diritto positivo”. L’A., infatti,
ricorda come la locuzione “servizio pubblico” sia presente, ad. ex., nell’art. 43 Cost.; negli artt. 358 e
330 c.p., nonché nella L. 29 marzo 1903 n. 103. 17
Sul punto cfr., innanzitutto, A. POLICE, Spigolature sulla nozione di “servizio pubblico locale”, in
Dir. amm., 2007, 1, 79, dove si legge: “la legge sulle municipalizzazioni del 1903, infatti, faceva
riferimento esclusivamente ad un concetto economico di servizio, come di attività idonea a fornire
delle prestazioni ai cittadini, per il soddisfacimento di bisogni ritenuti necessari. Come si vede, la
disorganicità della elencazione delle attività e l’uso del termine servizi pubblici in senso prettamente
economico rendevano assai difficile individuare una compiuta definizione di tale nozione sul piano
giuridico”. E, ancora, come ricorda F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit., ad un certo punto si è
diffusa una corrente dottrinale che negava al servizio pubblico il valore istituto giuridico, ritenendo
piuttosto che detta nozione fosse indicativa di “un’attività economica incidente in via diretta sulla
collettività e che, sotto il profilo giuridico, rileva per legittimare l’inizio di un procedimento giuridico
che ha per fine il mutamento dei titolari dell’attività stessa”. Infine, cfr. G. CAIA, I servizi pubblici, in
L. MAZZAROLLI E A., Diritto amministrativo, Monduzzi, Bologna, 2005, il quale evidenzia come, sotto
l’influenza degli economisti, una certa corrente di pensiero ha preso a leggere l’amministrazione come
“soggetto distributore di utilità al gruppo sociale”, finendo in tal modo per accedere ad una concezione
eccessivamente lata di servizio pubblico (cfr. L. DUGUIT, Les trasformationes du droit public, Parigi,
1913). Siffatta ricostruzione dell’istituto in esame, tuttavia, è stata criticata da altra parte della dottrina
proprio per l’ampiezza della nozione di servizio pubblico. In particolare, si v. R. ALESSI, Le
prestazioni amministrative rese ai privati, cit., il quale lamentava il fatto che detta teoria facesse
“coincidere, praticamente, la produzione di servizi pubblici con l’intera attività amministrativa [poiché
si è formata] nel campo della scienza economica e finanziaria la quale intende i servizi pubblici in
modo del tutto generico, vale a dire come ogni forma di attività di un ente pubblico diretta a
soddisfare i bisogni pubblici”. 18
Così P. CIRIELLO, (voce) Servizi pubblici, cit.. In senso analogo F. DE LEONARDIS, Soggettività
privata e azione amministrativa, cit., il quale osserva che “non solo non vi è antinomia tra esercizio di
funzione pubblica e moduli di diritto privato, ma (…), addirittura, la cura dell’interesse generale in
alcuni casi e anche nei settori riservati fino a pochi anni fa a soggetti pubblici, può essere garantita a
migliori condizioni attraverso l’utilizzazione di strumenti di diritto privato”. Pertanto, “l’azione
amministrativa (…), in quanto orientata alla migliore soddisfazione dei bisogni dei cittadini, deve
svolgersi attraverso i mezzi di volta in volta più idonei, adeguati ed economici per il conseguimento
dei relativi risultati, mezzi, questi, molto spesso appartenenti all’universo dell’autonomia privata”.
97
disciplina normativa19
, da alcuni anni a questa parte resa ancora più articolata
dall’innesto nel diritto interno di norme di derivazione europea20
.
Nelle pagine che seguono, pertanto, si cercherà di ricostruire i momenti salienti di
questa storia, fino ad approdare ai tempi attuali, dove i servizi pubblici – specie nella
loro dimensione locale – sono al centro di una tensione tra “istanze contrapposte” la
cui auspicabile composizione secondo attenta dottrina “costituisce l’attuale
condizione, non solo italiana, del servizio pubblico locale e definisce la cifra della
sua instabilità, in termini di transizione verso un approdo ancora non ben
delineato”21
.
III.2.1 LA PRIMA STAGIONE. DALLA MUNICIPALIZZAZIONE ALLA (RI)SCOPERTA
DEL MERCATO
Come in parte anticipato, in Italia i primi atti normativi che hanno riguardato i servizi
pubblici si collocano tra la fine del XIX secolo e gli inizi del secolo successivo.
Risalgono, infatti, rispettivamente al 1862 e al 1865 l’istituzione del monopolio
postale e l’introduzione del regime concessorio nel settore ferroviario, mentre è del
1903 la L. 29 marzo n. 103 sulla c.d. municipalizzazione dei servizi pubblici locali22
.
Di lì in poi con una serie di atti legislativi, intervenuti tra il 1905 e la fine degli anni
19
Non a caso in F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2010, si legge
che “la tematica dei servizi pubblici sembra dunque essere caratterizzata da una tensione definitoria di
matrice prettamente dottrinaria che, nella costante ricerca di conferme, trova smentite ed elabora
correttivi sulla base degli interventi legislativi e delle concrete soluzioni giurisprudenziali, secondo un
riparto di attribuzioni che appare tacitamente definito e che fa da contrappeso, almeno sul fronte
dell’ordinamento interno, ad un atteggiamento prudente del legislatore verso una esplicita e compiuta
definizione della categoria”. Del pari cfr. G. CAIA, I servizi pubblici, cit., il quale scrive: “la
ricostruzione del concetto di servizio pubblico è stata così influenzata da un quadro ordinamentale
privo di univocità ed alquanto incerto, il che spingeva (giustamente) alla ricerca di elementi
sistematici per una considerazione unitaria del servizio pubblico”. 20
Scrive, infatti, F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni, cit.: “l’individuazione del concetto di servizio
pubblico è oggi resa incerta anche dal confluire, nel diritto interno, delle disposizioni che il diritto
comunitario dedica alla categoria dei servizi di interesse economico generale e, più in generale, dai
concetti e dalla terminologia che ricorrono negli atti normativi e nella giurisprudenza comunitaria”. 21
In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, in Dig. disc. pubbl. (aggiornamento),
UTET, 2012 la quale individua dette istanze contrapposte nell’ “aprire i mercati alla concorrenza e
alla libera iniziativa, anche sociale, dei privati; tutelare gli utenti e garantire l’universalità dei servizi;
organizzare servizi efficienti e di qualità elevata; contenere la spesa pubblica; assicurare, specie in
corrispondenza dei diritti fondamentali, livelli minimi di prestazioni uniformi sul territorio nazionale
ed europeo e nel contempo rispettare la specificità e le autonomie locali, aprirsi a nuovi modelli di
democrazia partecipativa, fondati sul coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali pubblici e
nella gestione delle attività di interesse generale”. 22
L. 29 marzo 1903 n. 103 (in G.U. 29 marzo 1903), Assunzione diretta dei pubblici servizi da parte
dei Comuni. Ad essa fece seguito il R.D. 15 ottobre 1925 n. 2578 (in G.U. 4 marzo 1925 n. 4), recante
Approvazione del testo unico della legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei
comuni e delle province.
98
’30 dello stesso secolo, fu disposta la nazionalizzazione di pressoché tutti i servizi
pubblici23
e il relativo regime giuridico risultò ben presto sostanzialmente completo,
tanto da rimanere “immutato per mezzo secolo”24
.
Per quel che concerne la disciplina giuridica, in quel momento storico il servizio
pubblico si connotava per la presenza concomitante della c.d. riserva originaria (o
esclusiva) e della gestione pubblica. Con la prima espressione si vuol indicare la
riserva in capo al soggetto pubblico di una determinata attività che,
conseguentemente, si dice essere attività riservata e “produce l’effetto di privare tutti
i soggetti privati della legittimazione ad assumere la qualità di imprenditore nel
settore”25
in questione. Dal punto di vista gestionale, invece, inizialmente accadeva
che lo Stato, per il tramite di un proprio organo, si occupasse direttamente
dell’attività riservata. Questo modello c.d. di gestione diretta fu utilizzato, ad
esempio, con riferimento alle Ferrovie dello Stato e ai servizi telefonici, gestiti
rispettivamente da un’azienda autonoma del Ministero dei trasporti e dall’azienda di
Stato del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni. Solo in un secondo
momento, invece, si sono diffusi il modello della gestione indiretta, vale a dire
23
Risalgono, infatti, al 1905 e al 1909 la nazionalizzazione, rispettivamente, del trasporto ferroviario e
del trasporto automobilistico di linea; mentre al 1907 quella dei servizi telefonici, la cui disciplina
venne parzialmente rivista a distanza di circa un ventennio. Successivamente, si è avuta la regolazione
del trasporto marittimo e di quello aereo; mentre nel 1936 è stato adottato un codice postale e delle
telecomunicazioni.
Per ciò che concerne il fenomeno della nazionalizzazione - con cui si intende (M. STIPO, (voce)
Nazionalizzazione, in Enc. Giur., XXIII, Roma, 1990 “l’acquisizione o il trasferimento della titolarità
e della gestione delle imprese private ad enti pubblici imprenditoriali, cioè a persone giuridiche
(pubbliche) che esercitano attività economiche organizzate con una potenziale finalità di profitto con
gli stessi caratteri dell’impresa privata (…)” - cfr., inter alia, A. DI MAJO, L’avocazione delle attività
economiche alla gestione pubblica o sociale, in Tratt. dir. comm., I, Padova, 1977; F. GALGANO,
Commento all’art. 43 Cost., in Comm. Cost., Bologna, 1982; M. S. GIANNINI, Diritto pubblico
dell’economia, Il Mulino, Bologna, 1998; G. GUARINO, Scritti di diritto pubblico dell’economia,
Giuffré, Milano, 1970; V. OTTAVIANO, (voce) Impresa pubblica, in Enc. Dir., XX, Milano, 1970; A.
PREDIERI, (voce) Collettivizzazione, in Enc. dir., VII, Milano, 1960; V. SPAGNUOLO VIGORITA, (voce)
Nazionalizzazione (disciplina interna), in Nss. D.I., XI, Torino, 1965. 24
Così G. NAPOLITANO, I servizi pubblici, in S. CASSESE (a cura di), La nuova costituzione
economica, Laterza, Bari, 2012, il quale ricorda come “l’unica grande riforma attuata dopo l’entrata in
vigore della Costituzione è la nazionalizzazione della produzione, del trasporto e della distribuzione
dell’energia elettrica, disposta da una legge del 1962”. 25
Cfr. G. NAPOLITANO, I servizi pubblici, cit., il quale evidenzia anche come detto connotato del
servizio pubblico abbia poi trovato la propria “consacrazione” nell’art. 43 della Carta costituzionale, a
mente del quale, “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante
espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti
determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di
energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. In senso
analogo cfr., inter alia, S. CASSESE, Legge di riserva e articolo 43 della Costituzione, in Giur. it,
1960, 6, 1332; F. GALGANO, Commento all’art. 43, cit.; A. MASSERA, Partecipazioni statali e servizi
di interesse pubblico, Il Mulino, Bologna, 1978; A. PREDIERI, (voce) Collettivizzazione, cit..
99
l’utilizzo a fini gestori di un ente pubblico all’uopo preposto26
, e lo strumento della
concessione27
, in virtù della quale “l’attività riservata è attribuita, con provvedimento
dello Stato, a società per azioni, che svolgono in forma imprenditoriale il servizio,
ma nella veste di concessionari e, quindi, non in quanto imprenditori retti dal
principio di libertà di iniziativa economica privata”28
.
26
Emblematici, al riguardo, il caso del servizio pubblico di fornitura dell’energia elettrica a partire dal
1962, anno in cui è stato istituito l’ENEL, e quello delle Ferrovie dello Stato a partire dalla metà degli
anni Ottanta. 27
Quello della concessione di pubblico servizio è un istituto giuridico che ha conosciuto alterne
“fortune”. Ricorda, infatti, A. ROMANO, La concessione di un pubblico servizio, in A. ROMANO E A.,
La concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995, come per un certo periodo di tempo esso
sia stato in certa misura oscurato da un istituto affine (ancorché non identico), quello della
concessione di costruzione di opere pubbliche. Tuttavia, a partire dai primi anni Novanta del secolo
scorso – vale a dire in concomitanza con il fenomeno delle liberalizzazioni - la concessione di
pubblico servizio ha visto aumentare la propria importanza, sia economica che pratica. Ciò in quanto –
ricorda l’A. -“l’affidamento in concessione dei pubblici servizi è un modo del loro esercizio che
appare particolarmente consono a quello che sembra essere lo spirito che in questi anni ha preso il
sopravvento: contrario alla riserva, e comunque all’imputazione all’amministrazione di attività che
siano organizzate economicamente in forma imprenditoriale, o che possano, o che, al limite,
addirittura debbano così esserlo”. A dare nuova linfa all’istituto della concessione, inoltre, ha
indubbiamente contribuito il crescente interesse che, sul finire del XX secolo, l’ordinamento europeo
ha mostrato nei confronti dei servizi pubblici (cfr. F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione
amministrativa, cit.). Infatti, essendo quello de quo un istituto sostanzialmente sconosciuto a gran
parte degli Stati membri, si è posta la necessità di chiarire il discrimen tra lo stesso e il contratto
pubblico: “non va dimenticato che l’art. 90 del Trattato Cee (…) [pone] in generale il principio della
libertà di concorrenza attraverso la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi. A questa
regola la disciplina della concessione di pubblico servizio dovrà prima o poi conformarsi” (E. Casetta,
Introduzione, in op. ult. cit.). E’ per tale via, dunque, che l’UE ha finito per mutare il volto all’istituto
della concessione di cui oggi la legislazione italiana evidenzia la natura contrattuale (F. GOISIS,
Concessioni di costruzione e gestione di lavori e concessioni di servizi, in www.ius-publicum.com,
2011).
In dottrina, per un esame più approfondito della concessione sono imprescindibili i richiami a S.
ROMANO, Corso di diritto amministrativo, III ed., Padova, 1937, che affronta in particolare il
problema della giurisdizione sugli atti posti in essere dai privati concessionari di pubblici servizi;
nonché a G. MIELE, Ente pubblico e concessione di servizi pubblici, in Foro amm., 1942, ora in ID.,
Scritti giuridici, Milano, 1987, e O. RANELLETTI, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni,
in Scritti giuridici scelti, Jovene, Napoli, 1992. Inoltre, cfr. anche R. CAVALLO PERIN, La struttura
della concessione di servizio pubblico locale, Giappichelli, Torino, 1998; M. D’ALBERTI, (voce)
Concessioni amministrative, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988; ID., Le concessioni
amministrative. Aspetti della contrattualità delle pubbliche amministrazioni, Jovene, Napoli, 1981; D.
SORACE – C. MARZUOLI, (voce) Concessioni amministrative, in Dig. disc. pubbl., III, Torino, 1989.
Più di recente, invece, cfr. F. DE LEONARDIS, Atti (e regole) dei soggetti concessionari, in Dir. amm.,
2008, 3, 557; F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, cit.. 28
In questi termini G. NAPOLITANO, I servizi pubblici, cit., che prosegue affermando: “esse
acquisiscono la qualifica di imprenditore in virtù di un provvedimento autoritativo e singolare, che
conferisce loro il compito di svolgere l’attività di impresa con esclusione di altri.
Corrispondentemente, l’attività della concessionaria è sottoposta all’indirizzo e al controllo del
concedente”. Prima di lui, coglieva il proprium dell’istituto in argomento E. CASETTA, Introduzione,
cit., il quale scriveva: “si configuri come si vuole la concessione (…) il proprium di essa viene in
genere individuato nella possibilità, conferita dall’amministrazione ad un altro soggetto pubblico o
privato, di esercitare potestà ad essa sola spettanti e che senza un’investitura da parte
dell’amministrazione non potrebbero venire esercitate (potestà per lo più ritenute pubbliche). Ove
cadesse la premessa, ossia ove l’attività del privato non sia peculiare alla pubblica amministrazione,
cadrebbe la stessa ragion d’essere della concessione”.
100
Per ciò che riguarda nello specifico il settore dei rifiuti, occorre poi ribadire come
risalga a quegli anni - precisamente, al 194129
- la prima legge nazionale ad essi
dedicata. In proposito, si è già anticipato che la L. n. 366, lungi dall’essere orientata
alla tutela dell’ambiente, era ispirata eminentemente dalla finalità di preservare
l’igiene pubblica e il decoro delle città. La stessa, pertanto, aveva riguardo della
gestione dei soli rifiuti urbani, mentre la disciplina degli altri rifiuti restava affidata
agli strumenti normativi secondari e amministrativi previsti per la tutela dell’igiene
pubblica a livello locale30
, al punto che - di fatto - quelli prodotti nelle campagne
erano addirittura demandati alla “cura” della popolazione31
.
A mente della citata legge, soggetti preposti alla gestione dei rifiuti erano i Comuni,
salvo sussistere una competenza centrale in capo al Ministero dell’interno32
. All’art.
2, infatti, era possibile leggere che quest’ultimo “ha l’alta vigilanza ed il controllo
sull’andamento dei servizi contemplati dalla presente legge nonché di tutti gli altri
che, nella materia, hanno carattere complementare ed accessorio”. A tal fine, dunque,
il successivo art. 3 prevedeva l’istituzione, come partizione organica del Ministero
dell’interno, di “un ufficio centrale per i rifiuti solidi urbani alla quale sono conferite
le attribuzioni previste dalla presente legge”.
A livello locale, invece, l’art. 9 affermava che “i servizi inerenti alla raccolta, al
trasporto ed allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani competono ai comuni, i quali
sono tenuti a provvedervi con diritto di privativa, ai sensi del testo unico approvato
con R. D. 15 ottobre 1925 n. 2578, o direttamente o mediante concessione. [Tuttavia]
su proposta del podestà, il prefetto può, con suo decreto, riconoscere, per ogni
comune, zone con popolazione non agglomerata, nelle quali il trasporto dei rifiuti
solidi urbani può essere accordato ai singoli privati con speciale autorizzazione del
Ex multis cfr. S. CASSESE, Partecipazioni pubbliche ed enti di gestione, Milano, Franco Angeli, 1962;
A. MASSERA, Partecipazioni statali e servizi di interesse pubblico, cit.. 29
Si tratta della L. 20 marzo 1941 n. 366 recante “Raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi
urbani”. Come ricordato da B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino
2005 detta legge “era tuttavia limitata alla tematica dei rifiuti urbani”, mentre “la disciplina della
materia, soprattutto per quanto riguarda i rifiuti diversi da quelli urbani restava affidata agli strumenti
normativi secondari e amministrativi previsti per la tutela dell’igiene pubblica a livello
locale(regolamenti locali e in generale altri atti delle autorità locali a tutela dell’igiene pubblica). Ex
multis, cfr. cap. I. 30
Così B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, cit.; nonché V. ONIDA, I rifiuti solidi: profili
istituzionali e normativi, in AA.VV., Rischio rifiuti, Legnano, 1988. 31
Sul punto cfr. amplius G. BOTTINO – R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, in M. P. CHITI – G. GRECO (a cura
di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffrè, Milano, 2007. 32
Come evidenziato da B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, cit., “solo nel 1977, con la
seconda fase dei trasferimenti di funzioni alle regioni,veniva configurato, per la prima volta, un settore
di competenze relativo alla materia dei rifiuti sia urbani sia industriali (art. 101 del d.P.R. n. 696 del
1977).
101
podestà e sotto l’adempimento delle condizioni indispensabili perché la raccolta, il
trasporto e lo smaltimento dei rifiuti stessi si svolgano in armonia ai principi stabiliti
dalla presente legge”. Vale a dire in modo tale da assicurare l’igiene e l’ordine
pubblico nelle città33
.
Tornando ad un discorso più generale, occorre evidenziare come il descritto assetto
abbia caratterizzato i servizi pubblici (anche nella loro dimensione locale) per tutto il
tempo della “vecchia costituzione economica”34
, vale a dire fino ai primi anni
Novanta del secolo scorso, quando ha preso avvio la fase delle liberalizzazioni e
delle privatizzazioni su spinta, principalmente, dell’allora Comunità economica
europea. Tuttavia, se è vero che la disciplina giuridica dell’istituto in esame ha
vissuto per oltre mezzo secolo una fase di sostanziale stabilità, è altrettanto vero che
proprio nel corso di quel lungo periodo si collocano le pietre miliari della riflessione
dottrinaria in merito alla nozione, alla natura e al proprium, tutt’altro che pacifici, dei
servizi pubblici.
Storicamente, è possibile affermare che “l’esigenza di elaborare una definizione di
servizio pubblico (…) si pose alla dottrina italiana a fronte della necessità di dare una
connotazione più precisa ad attività peculiari che, pur estranee al tradizionale
concetto di funzione, fossero comunque riconducibili alla P.A.”35
. Detto in altri
33
Sul punto cfr. B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, cit.. A titolo esemplificativo, si
ricorda che l’art. 15 della legge in esame, sotto la rubrica “della conservazione temporanea e della
raccolta dei rifiuti urbani”, prevedeva che “i rifiuti interni dei centri di popolazione agglomerata
devono essere raccolti e conservati, fino al momento del trasporto in modo da evitare qualsiasi
dispersione” e “nel caso che a tal fine vengano adoperati recipienti portatili, questi debbono essere
muniti di coperchio a chiusura ermetica”. 34
L’espressione è presa in prestito da S. CASSESE, La nuova costituzione economica, Laterza, Bari,
2012. 35
In questi termini cfr. F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit..
Per ciò che concerne la distinzione tra funzione amministrativa e servizio pubblico, cfr., innanzitutto,
F. BENVENUTI, Funzione amministrativa, procedimento e processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 1,
1; G. MIELE, Pubblica funzione e pubblico servizio, in Arch. giur., 1933, p. 181; ID. (voce), Servizio
pubblico, in Enc. giur. it. Treaccani, Roma, 1936; nonché G. ZANOBINI, Corso di diritto
amministrativo, Milano, 1958, dove si legge che “mentre la funzione indica l’esercizio di una potestà
pubblica, intesa come una sfera di capacità specifica dello Stato, (…) i servizi rappresentano invece
altrettante attività, materiali, tecniche, spesso di produzione industriale, poste a disposizione dei
singoli per aiutarli nel conseguimento delle loro finalità”. Più di recente, cfr. E. CASETTA, (voce)
Attività amministrativa, in Dig. disc. pubbl., II, Torino, 1987; nonché G. CAIA, I servizi pubblici, cit.,
dove si legge che “per il diritto amministrativo la funzione amministrativa ed il servizio pubblico non
sono due nozioni contrapposte, ma due nozioni differenti che esprimono momenti diversi e non
coincidenti (e tuttavia integrabili e combinabili tra di loro) dell’attività amministrativa nel suo
complesso. (…) la prima è propria di un tipo di attività dell’Amministrazione espressiva di potere e
che è esclusiva di essa, la seconda identifica una serie di attività di tipo logicamente eterogenee e
coordinate nell’ambito, appunto, del servizio pubblico. In sostanza – prosegue l’A. - il servizio
pubblico è un modello più o meno composito di attività amministrativa, distinguibile soprattutto per i
connotati organizzativi. Così, per una descrizione figurativa dei due istituti, sembra possibile dire che
102
termini, si avvertì il bisogno di “individuare una categoria comune sotto la quale
ricomprendere una parte dell’attività amministrativa, non autoritativa, che andava
diffondendosi in modo esponenziale in ragione dell’assunzione di nuovi compiti da
parte dello Stato (…)”36
.
In ragione di ciò, “nelle prime trattazioni organiche del diritto amministrativo,
[comparve] l’articolarsi della definizione dei fini dello Stato per lo più in base alla
distinzione tra attività meramente patrimoniale (per lo più relativa alla gestione dei
beni), attività giuridica (avente ad oggetto la realizzazione dei fini essenziali di
conservazione attraverso l’intervento imperativo nella sfera del diritto individuale) e
attività sociale (volta a promuovere il benessere, la cultura, l’equilibrio e la pace
della società e comprendente, tra le altre, anche le attività che verranno poi
qualificate di servizio pubblico)”37
. E nel fare ciò si evidenziava il fatto che, mentre
quella di funzione amministrativa ha valenza verticale, mentre quella di servizio pubblico riveste
valenza orizzontale”. 36
Così F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit.. Del pari, F. MERUSI, (voce) Servizio
pubblico, cit., il quale scrive: “il profilo della teoria del servizio pubblico che interessò gli studiosi
italiani fu quello organico-materiale, perché offriva la possibilità di classificare sulla base di un
concetto giuridico unitario una parte dell’attività non autoritativa della pubblica amministrazione,
attività che si andava estendendo con l’assunzione da parte dello Stato e degli enti pubblici minori di
nuovi compiti sociali ed economici, e di spiegare nel contempo il sempre più vasto fenomeno della
disciplina pubblica di attività economiche imputabili a soggetti privati, realizzato attraverso lo
strumento formale della concessione amministrativa”. E ancora cfr. E. SCOTTI, Il pubblico servizio,
cit., la quale osserva come “sul piano storico, l’esigenza di una sua compiuta nozione giuridica, sia
stata avvertita allorché lo Stato moderno si è assunto su larga scala il compito d’intervenire nei
rapporti sociali volgendo le proprie energie a favorirne il miglioramento. In tale svolta – che sul piano
istituzionale ha segnato il passaggio dallo Stato di diritto allo Stato sociale – alle tradizionali attività
svolte dai pubblici poteri per adempiere a funzioni essenzialmente conservative, si sono affiancati,
com’è noto, nuovi ambiti di azione di tipo prevalentemente non autoritativo, preordinati all’utile dei
singoli membri della collettività. Di tale evoluzione non ha mancato di risentirne la sistematica del
diritto amministrativo che in quel tempo veniva elaborata”. 37
Così E. SCOTTI, Il pubblico sevizio, cit.. Per completezza, si segnala che la categoria dei servizi
pubblici c.d. sociali è stata di recente al centro dell’attenzione di parte della dottrina (A. POLICE,
Spigolature, cit.), la quale osserva che “in mancanza di una nozione giuridica unitaria e precisa di
servizio sociale, un utile apporto è fornito dal disposto del comma 1 dello stesso art. 22 della legge n.
142 del 1990 (…) che, accanto ai servizi produttivi, prevede i servizi che hanno per oggetto attività
rivolte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile della società”. Di qui,
il Consiglio di Stato, sez. V, 12 agosto 1998 n. 1262 è giunto ad affermare “che il profilo funzionale
dei servizi pubblici sociali pone in evidenza un collegamento concettuale con la definizione di Stato
sociale, che (…) compendia le prestazioni della Pubblica Amministrazione rivolte, in via diretta e
concreta, alla tutela e allo sviluppo del benessere dei singoli. Ciò in linea con gli obiettivi di fondo
posti dagli artt. 2 e 3 Cost.”. La citata dottrina ha poi evidenziato come siffatta definizione sia stata poi
recepita dal legislatore all’art. 128 del d. lgs. 31 marzo 1998 n. 112 e come, dunque, quella dei servizi
pubblici sociali finisca per “costituire una categoria unitaria, l’unica suscettibile di contrapporsi a
quella dei servizi di rilevanza economica. (…) Nel servizio sociale dovrebbero intendersi
estensivamente compresi tutti quei servizi che abbiano ad oggetto la soddisfazione dei bisogni primari
della persona costituzionalmente tutelati, tali da giustificare una disciplina speciale rispetto a quella
generale ispirata alla promozione della concorrenza”.
Ex multis, sul tema cfr. F. GIGLIONI, Osservazioni sull’evoluzione della nozione di “servizio
pubblico”, in Foro amm., 1998, 2265; A. POLICE – W. GIULIETTI, Servizi pubblici, servizi sociali e
mercato: un difficile equilibrio, in Servizi pubblici e appalti, 2004, 831.
103
l’attività giuridica era rivolta alla “conservazione dell’ordinamento giuridico”38
,
l’attività sociale aveva “come scopo la produzione di effetti politico-sociali, per
quanto al loro raggiungimento si arrivi attraverso applicazioni del diritto”39
.
Un simile bisogno di sistematizzazione delle attività riconducibili alla pubblica
amministrazione divenne ancora più impellente a seguito dell’entrata in vigore della
legge 29 marzo 1903 n. 103 sulle municipalizzazioni, il cui art. 1 qualificava come
servizio pubblico una serie molto eterogenea di diciannove attività che andavano
dalla costruzione di acquedotti sino allo “stabilimento e relativa vendita di semenzai
e vivai di viti ed altre piante arboree e fruttifere”40
. Dunque, alla luce del carattere
variegato delle fattispecie ivi contemplate, si pose il problema di chiarire se detta
elencazione recasse carattere tassativo o, piuttosto, meramente esemplificativo e,
quindi, se i Comuni potessero assumere la gestione di attività non menzionate
dall’art. 1 ma comunque qualificabili come servizi pubblici. “Detto altrimenti,
occorreva individuare un criterio che si ponesse come identificativo della categoria
ed elaborare, pertanto, una nozione più generale”41
.
38
G. ZANOBINI, (voce) Amministrazione pubblica, in Enc. dir., II, Milano, 1958. 39
A. DE VALLES, I servizi pubblici, cit.. Più di recente, E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., scrive:
“dell’attività sociale veniva posto in rilievo il carattere contingente della sua pubblicità, derivante
dallo spontaneo interessamento dello Stato a scopi di sua non necessaria pertinenza”. 40
Detto articolo fu poi recepito nel T.U. sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei
comuni e delle province approvato con il R.D. 15 ottobre 1925 n. 2578, cit.. Sul punto, è interessante
la lettura offerta da G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali in trasformazione, Cedam, Padova, 2010, il
quale scrive: “se si riconduce la legge sulla municipalizzazione alla costituzione economica dello
Stato liberale, questo ambito potenzialmente dilatabile tende immediatamente a restringersi e ad
ordinarsi secondo canoni precisi. Da questo punto di vista è facile avvedersi di come la formulazione
del legislatore del 1903 (…) costituisce un’applicazione di diversi principi e fosse pienamente in linea
con la costituzione economica dello Stato liberale”. In particolare, l’A. individua detti principi in: il
carattere generale dell’interesse pubblico che “strutturalmente costituisce un limite per l’estensione
della nozione”; il fallimento del mercato, ossia “la constatazione dell’impossibilità per l’impresa
privata di assolvere, in regime concorrenziale di efficienza economica, il suo compito di migliore
veicolo di allocazione delle risorse”; il principio dell’equilibrio finanziario, per cui “i ricavi derivanti
dall’esercizio dei servizi pubblici municipalizzati dovevano essere in grado di assicurare la copertura
dei costi di gestione”. 41
In questi termini F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit. e ID., La concessione come
strumento di gestione dei servizi pubblici, in Le concessioni di servizi pubblici, Rimini, 1988, dove
l’A. sottolinea il carattere meramente esemplificativo dell’elencazione contenuta nell’art. 1 della L. n.
103/1903.. Ex multis, cfr. M. SEVERO GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, cit., dove si legge:
“da una parte, un ben scarso ausilio poteva provenire da un esame delle diverse fattispecie
considerate, restando oscuro il motivo per cui il legislatore avesse incluso nell’elencazione, ad
esempio, la produzione ma non la vendita del pane, inserendovi invece la vendita del ghiaccio;
dall’altra, non si rendeva nemmeno possibile sostenere che “l’attività produttiva diveniva pubblico
servizio dopo municipalizzata, perché la domanda investiva non le attività municipalizzate, bensì
quelle municipalizzabili, non cioè la gestione ma la decisione circa l’azione del pubblico potere –
nella specie comunale – nel campo dell’economia”. E ancora, cfr. A. POLICE, Spigolature, cit., il quale
scrive: “l’art. 1 della legge individuava come oggetto della municipalizzazione 19 servizi, in via di
elencazione esemplificativa. Si trattava di attività e servizi di natura e rilevanza diversa (…); mancava
però una nozione generale di servizio pubblico in senso giuridico”.
104
Fu in questi anni, pertanto, che maturò quella riflessione dottrinale che condusse alla
formulazione della concezione soggettiva o, nella sua “primigenia espressione”,
nominalistica di servizio pubblico, che “considerava come elemento qualificante del
servizio pubblico la sua imputabilità ad un soggetto pubblico”. A differenza di
quanto accadde in Francia42
, tuttavia, “da noi prevalse l’idea che non fosse il servizio
pubblico il fondamento dello Stato, ma lo Stato il fondamento della pubblicità del
servizio (…). Comune, infatti, agli autori dell’epoca è l’affermazione che di servizi
pubblici possa parlarsi solo quando lo Stato o altro ente pubblico li ha dichiarati tali
e li ha inclusi nelle proprie finalità”43
. Tesi, quest’ultima, che indubbiamente trovava
conforto nel regime giuridico dettato dal legislatore con riferimento alle attività
costituenti servizi pubblici, posto che – come poc’anzi evidenziato – di dette attività
lo Stato era anche il gestore, direttamente o indirettamente44
.
Ciò non di meno, stentava ancora ad emergere il proprium del servizio pubblico, vale
a dire quel quid che consentisse di teorizzare un istituto dotato di una propria
specificità, sia strutturale che funzionale, e soprattutto di distinguerlo “tanto dalle
42
Accenni alle vicende che hanno interessato l’istituto del servizio pubblico in Francia si rinvengono,
ad ex., in F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit.; E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.. Quest’ultima,
in particolare scrive: “in Francia l’ampliamento delle funzioni dello Stato determinò l’affiancarsi
prima e il sostituirsi poi della nozione di service public a quella di piussance publique nel definire
l’ambito di applicazione del diritto pubblico e della giurisdizione amministrativa; sino a configurare
quale nuovo fondamento e nuovo fine dello Stato e della sua autorità, il rendere servizi ai cittadini”. Si
trattava, dunque, di una definizione amplissima alla quale – ricorda l’A. – aderirono anche autorevoli
studiosi italiani, quali Stati Romano e Federico Cammeo. “Tuttavia mancando [in Italia] una
giurisprudenza come quella francese, o una normativa idonee a dare un qualsivoglia rilievo giuridico
ad una simile nozione, essa finiva per esaurire la sua validità sul piano della teoria dello Stato e
dell’individuazione di un nuovo fondamento della pubblicità e del potere pubblico. (…) Per tali
ragioni la nostra maggioritaria dottrina è giunta per altre vie (…) ad elaborare la nozione giuridica di
servizio pubblico della quale si avvertì, contrariamente a quanto avvenuto in Francia, l’estraneità
rispetto alla naturale attività pubblica”.
Ex multis, per un esame dell’attuale assetto del servizio pubblico in Francia cfr. H. WOLLMANN – G.
MARCOU, The provision of public services in Europe. Between State, Local Government and Market,
Cheltenham – Northampton, 2010. 43
In questi termini E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., la quale richiama G. ZANOBINI, L’esercizio
privato delle funzioni pubbliche, in V.E. ORLANDO, Trattato di diritto amministrativo, vol. II., Società
Editrice Libraria, Milano, 1920. L’A., inoltre, prosegue osservando: “sembrava d’altro canto
confortare tali soluzioni il modo allora comune d’intendere i fenomeni giuridici pubblici, secondo il
quale poteva ritenersi fattore determinante della pubblicità soltanto il collegamento con lo Stato,
manifestato e concretizzato nell’appartenenza del servizio alla sfera soggettiva dell’amministrazione”.
Per una ricostruzione del modo in cui veniva inteso al tempo il concetto di Stato cfr. V. E. ORLANDO,
Principi del diritto amministrativo, cit.; O. RANELLETTI, Diritto pubblico e privato nell’ordinamento
giuridico italiano, in Riv. it. dir. piubbl., 1946, 1, 12; ID., Il concetto di pubblico nel diritto, in Riv. it.
sc. giur., 1905.
Per una lettura “temperata” del nesso tra Stato e servizio pubblico cfr. E. PRESUTTI, Istituzioni di
diritto amministrativo, Messina, 1931; S. ROMANO, Il diritto pubblico italiano, Milano, 1914. 44
In tal senso cfr. E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit..
105
altre attività dei soggetti pubblici, quanto dalle analoghe attività svolte da soggetti
privati”45
.
Il passo in avanti fu compiuto dal De Valles46
, il quale per primo mise in luce
“quell’elemento essenziale della nozione, di carattere oggettivo, che non verrà mai
più negato: il consistere in prestazioni erogate a favore del pubblico”47
. Senza
rinnegare il profilo dell’inerenza allo Stato, infatti, l’illustre autore chiarì che “il
servizio pubblico [si risolve nel] servizio per il pubblico”48
. Non a caso, allora, la
dottrina ha evidenziato come due siano stati i cardini della teoria del De Valles, vale
a dire “l’imputabilità diretta o indiretta, dell’attività allo Stato o ad un ente pubblico e
la destinazione dell’attività a favore degli amministrati”49
.
Questa, dunque - in sintesi - la prospettiva originaria. Soggettiva “per l’attenzione
prestata al soggetto pubblico cui imputare l’attività espressione del servizio
medesimo e nominalistica in virtù di quello specifico atto necessario a dichiarare
come tale il servizio pubblico”50
, vale a dire l’atto legislativo o amministrativo. La
stessa, tuttavia, non ha mancato di essere posta in discussione e, anzi, è possibile
affermare come di qui altri autori abbiano successivamente preso le mosse
nell’intento di affinare la nozione di servizio pubblico e di meglio puntualizzarne il
proprium.
In particolare, poiché secondo taluno la teoria elaborata dal De Valles finiva per
focalizzarsi “sul fatto che il servizio deve essere prestato al cittadino uti singuli”51
,
uno dei primi aspetti sui quali la dottrina ha concentrato la propria attenzione “è stato
il concetto di pubblico, trasposto dal soggetto alla collettività che di quel servizio
45
Così E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit. .
46 Il riferimento è ad A. DE VALLES, I servizi pubblici, cit..
47 In questi termini E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., la quale precisa come “prima di tale riflessione
[ossia quella compiuta dal De Valles] non si rinviene alcun chiarimento del concetto di servizio
pubblico idoneo a distinguerlo dal generico perseguimento di interessi pubblici istituzionalmente
affidati ad un soggetto pubblico”. Diversamente, secondo la ricostruzione operata dal De Valles si
chiarisce che il servizio pubblico consiste in “un’attività qualificata dalla causa – intesa come scopo
diretto o primario – di soddisfare l’interesse privato che lo Stato ha elevato ad interesse pubblico per
modo che con l’attuazione di quello si attua questo. Un’attività, in altri termini, non libera ma
vincolata nel fine di provvedere all’interesse collettivo che il servizio è inteso a soddisfare”. 48
A. DE VALLES, I servizi pubblici, cit.. Successivamente, in senso conforme cfr. F. BENVENUTI,
Appunti di diritto amministrativo, Cedam, Padova 1987; M. S. GIANNINI, Lezioni di diritto
amministrativo, Roma 1960; E. PRESUTTI, Istituzioni di diritto amministrativo italiano, II ed., Roma,
1917. 49
Così F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit., dove si legge che, di conseguenza, il servizio
pubblico veniva descritto come “un’attività imprenditoriale imputabile, direttamente o indirettamente
allo Stato, volta a fornire prestazioni ai singoli cittadini”. 50
In questi termini F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit.. 51
Così F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit..
106
fruisca, uti singuli o uti universi, a seconda della tipologia del servizio, delle
modalità e delle condizioni di utilizzo”52
. Nasceva così la teoria di Alessi delle c.d.
prestazioni rese ai privati53
, la cui peculiarità sta proprio nell’accento posto sul
rapporto che lega tra di loro il soggetto erogatore del servizio e l’utente del
medesimo54
.
E, ancora, alcune critiche si appuntarono anche sul concetto di “prestazione”. Si
disse, infatti, che se esso da un lato rappresentava il tratto peculiare della
ricostruzione del De Valles, al contempo lo stesso ne costituiva “anche il punto
debole, almeno come elemento per costruire giuridicamente l’istituto del pubblico
servizio. Una volta stabilito, dal punto di vista soggettivo, che titolare del servizio
pubblico in senso proprio può essere soltanto lo Stato o un privato concessionario,
l’aspetto organizzativo perde rilievo, tanto più che non presenta dati tipizzabili al di
fuori della concessione o della gestione diretta”55
.
Sempre in senso critico, inoltre, si mise in evidenza il fatto che di fronte “al
moltiplicarsi dei casi di interessamento dello Stato ad attività e fini ad esso prima
estranei”56
il principio nominalistico rischiava di non essere risolutivo, poiché offriva
un criterio identificativo del servizio pubblico valido solamente ex post. “Mancava,
in sintesi, una soluzione che consentisse di descrivere ex ante la categoria
riassumendo le caratteristiche necessarie per ascrivere una specifica attività nel
novero dei servizi pubblici”57
. E ciò proprio in un momento in cui si osservava “che
determinate attività, aventi caratteristiche materiali perfettamente simili ai servizi
pubblici imputabili alla pubblica amministrazione, erano poste in essere da privati e
sottoposte ad una disciplina pubblicistica non basata su di un provvedimento
52
In questi termini F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit.. 53
R. ALESSI, Le prestazioni rese ai privati, cit.. 54
Sul punto cfr. F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit.; nonché P. CIRIELLO, (voce) Servizio
pubblico, cit., il quale riferendosi all’opera di Alessi scrive: “avendo [egli] individuato nella
prestazione amministrativa l’oggetto del pubblico servizio, finì con lo spostare la propria attenzione
sull’analisi del rapporto giuridico che si instaura tra il destinatario della prestazione e il titolare del
servizio medesimo: rapporto disegnato, quanto meno nel suo nucleo essenziale, sulla falsariga del
rapporto obbligatorio di tipo privatistico”. 55
In questi termini, F. MERUSI, (voce) Servizio pubblico, cit.. 56
Così M. NIGRO, L’edilizia economica popolare come servizio pubblico, cit.. 57
F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, cit.. Qui si legge, inoltre, che “la sola natura del
soggetto (…) non sembrava poter essere l’unico elemento discriminante fra il servizio pubblico e
un’analoga attività svolta dal soggetto privato, per questa via, ogni attività economica affidata alla p.a.
avrebbe potuto potenzialmente essere qualificata come servizio pubblico, mentre più complessa
sarebbe stata la classificazione di attività svolte da privati e ben riconducibili, al di là del dato
soggettivo, nella categoria allo studio”.
107
dell’Amministrazione pubblica”58
e per dette attività si coniava la definizione di
“servizi pubblici impropri”59
. La progressiva diffusione di tali servizi, unitamente
agli altri sopra citati fattori, ha condotto, quindi, parte della dottrina60
a ricercare
“nuove modalità attraverso cui l’ordinamento configura quell’assunzione pubblica
del servizio che è ritenuta denominatore comune di tutti i servizi pubblici”61
.
I vari tentativi di affinare la teoria soggettiva, superando l’impostazione prettamente
nominalistica e rendendola in certa misura più duttile, specie per ciò che concerne il
profilo di imputazione del servizio pubblico all’amministrazione, hanno tuttavia fatto
sì che la dottrina finisse per dilatare la prospettiva iniziale tanto da preparare il
terreno per il suo stesso superamento62
. Questo processo, inoltre, fu certamente
favorito dall’avvento della Costituzione italiana la quale, secondo attenta dottrina,
recava in sé i germi per la costruzione di una teoria oggettiva dei servizi pubblici63
.
Una teoria cioè che, essenzialmente, ha spostato il fuoco dal profilo dell’imputazione
del servizio a quello della sua disciplina e della sua destinazione a fini sociali,
58
Così A. POLICE, Spigolature, cit.. 59
In tal senso A. DE VALLES, I servizi pubblici, cit.. 60
In particolare, cfr. M. S. GIANNINI, Osservazioni sulla disciplina della funzione creditizia, in Scritti
in onore di S. Romano, Padova, 1939, dove l’A. ha sostenuto che l’attività bancaria fosse qualificabile
come servizio pubblico in considerazione della riferibilità della funzione e dell’attività creditizia alla
Stato. Inoltre, cfr. G. BERTI, La pubblica amministrazione come organizzazione, Cedam, Padova,
1968; M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966;
ID., L’edilizia popolare come servizio pubblico, cit.. 61
In questi termini E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., la quale prosegue precisando che “la
prospettiva sistematica di fondo, da cui tali elaborazioni muovono, è caratterizzata dalla prioritaria
importanza riconosciuta, nella lettura dei fenomeni giuridici pubblici, al momento organizzativo e alla
funzione di indirizzo e garanzia dell’attività di amministrazione sostanziale”. Per poi concludere nel
senso che “a prescindere dalla con divisibilità delle conclusioni raggiunte dalla dottrina in esame con
riguardo alle ipotesi specificamente considerate, ad essa deve riconoscersi il particolare merito di aver
ricercato la sostanza del fenomeno del servizio pubblico prescindendo da schemi formali
pregiudizialmente assunti come modelli di riferimento universalmente validi e di aver offerto un
interessante suggerimento sul piano del metodo: quello di procedere alla verifica se quando il diritto
pubblico attragga certa attività e certi soggetti nella sua orbita … non si esprima una forma nuova di
assunzione pubblica che si affianchi alle forma tradizionali, consentendo di individuare i tratti
essenziali del servizio pubblico”. 62
In questo senso cfr. R. CAVALLO PERIN, Comuni e province nella gestione dei servizi pubblici,
Jovene, Napoli , 1993 ed E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.; nonché A. POLICE, Spigolature, cit., il
quale osserva come fu “il progressivo articolarsi e diffondersi [dei c.d. servizi pubblici impropri] ad
aver spinto la dottrina a fornire una precisazione della nozione di servizio pubblico in senso
oggettivo”. 63
Sottolineano questo profilo, tra gli altri, G. CAIA, I pubblici servizi, cit. e A. POLICE, Spigolature,
cit., il quale ricorda come nell’opinione di Pototsching “la configurazione nell’art. 43 Cost. dei servizi
pubblici essenziali quali fattispecie di legittima assunzione autoritativa di attività produttive, porta a
constatare con evidenza che per aversi un pubblico servizio non è necessaria la sua gestione da parte
dello Stato o di altro ente pubblico (come sosteneva invece la richiamata teoria soggettiva)”.
108
arrivando ad affermare che “la qualificazione del servizio pubblico attiene ad una
particolare destinazione dell’attività economia”64
.
In particolare, l’accento fu posto sugli artt. 43 e 41, comma 3, Cost.65
, dalla cui
lettura congiunta è sembrato possibile evincere che “pubblici servizi non sono solo le
attività attratte alla soggettività dello Stato ex art. 43 Cost. (e gestite dallo stesso o
affidate a propri concessionari) ma anche quelle indirizzate a fini sociali attraverso
programmi o controlli, secondo il disposto dell’art. 41, comma 3, Cost.”66
. In altri
64
Così U. POTOTSCHNIG, I pubblici servizi, Milano, 1964, in particolare cfr. pag. 59. Per un’analisi del
pensiero dell’illustre autore si veda anche la rilettura in chiave attuale offerta da D. SORACE, La
riflessione giuridica di Umberto Pototching: “I servizi pubblici”, in Dir. pubbl., 2002, 2, 583. Qui si
legge, innanzitutto: “l’A. segnala la singolare scarsa attenzione prestata al tema nel momento in cui
egli scrive e nota come vi sia una contraddizione soltanto apparente tra questa disattenzione e lo
sviluppo dei compiti di benessere dello Stato, dal momento che sono state proprio la moltiplicazione
di queste attività non tradizionali dello Stato e la diversa disciplina giuridica di attività private
socialmente rilevanti a metter in crisi la concezione dello Stato e quindi a rendere inapplicabili e
infecondi istituti e principi modellati in armonia con quella concezione. D’altra parte, secondo l’A., la
nozione di servizio pubblico che poteva dedursi dalla dottrina era da considerarsi insufficiente perché
oscillante tra una definizione diretta a trovare la distinzione tra quella nozione e quella di pubblica
funzione ed una qualificazione generica e imprecisa, di sapore nominalistico, idonea soltanto a
distinguere servizi pubblici da servizi privati o meglio da servizi non pubblici”. 65
Sul punto, cfr. D. SORACE, La riflessione giuridica, cit., il quale ricorda: “è dunque
l’insoddisfazione, ad un tempo, per l’approccio nominalistico e per la teoria del rapporto di
prestazione che spinge Pototsching a tentate di formulare una nuova teoria, a base della quale egli
sceglie di porre la Costituzione, individuandovi il punto di partenza nell’art. 43. (…) Dal momento
che esso legittima il trasferimento allo Stato o a enti pubblici di imprese che si riferiscono a servizi
pubblici (essenziali), ciò significa che certe attività sono da considerare servizi pubblici anche se non
appartengono allo Stato o ad enti pubblici. (…) Così stando le cose il principio nominalistico non è
più sostenibile”. E, allora, alla domanda “a quale diverso criterio occorre rifarsi? La risposta (…)
viene reperita da Pototschnig ancora nella Costituzione, e precisamente nel co. 3 dell’art. 41”.
Più di recente, si veda la lettura dei due articoli della Carta costituzionale offerta da F. TRIMARCHI
BANFI, Organizzazione economica ad iniziativa privata e organizzazione economica ad iniziativa
riservata negli articoli 41 e 43 della Costituzione, in Pol. Dir., 1992, 1, 3; nonché quanto della stessa
A. affermato con riguardo all’art. 43 Cost. in Lezioni, cit.., dove si legge che “quando l’art. 43
consente che la legge riservi ad alcuni soggetti le attività relative a servizi pubblici essenziali,
l’aggettivo pubblici non qualifica i servizi in relazione ad una preesistente spettanza a soggetti
pubblici. La pubblicità, intesa come appartenenza a soggetti pubblici, non è un dato che preesiste alla
decisione di riservare i servizi ai soggetti elencati nell’art. 43; la pubblicità in senso soggettivo si
realizzerà per effetto della legge che riserva l’attività a soggetti pubblici. Nell’art. 43 la pubblicità è,
dunque, una qualità che precede il regime giuridico dell’attività: i servizi pubblici, nella norma in
esame, sono servizi per il pubblico”. E ancora: “Affinché la riserva sia consentita, occorre, secondo
l’art. 43, che i servizi pubblici siano essenziali. La qualità di servizio essenziale rimanda ad un
giudizio che riguarda il tipo di bisogno che deve essere soddisfatto, nella sua relazione con il livello di
soddisfacimento offerto dal mercato. (….) l’espressione servizi pubblici essenziali è [dunque]
impiegata, nell’art. 43 Cost., in un’accezione pre-giuridica, che rinvia ai bisogni ai quali i poteri
pubblici ritengono opportuno provvedere.” Infine, si evidenzia che è nel momento in cui la legge ne
dispone la riserva che “le attività divengono servizi pubblici in senso soggettivo, cioè pertinenti al
soggetto pubblico che ne è riservatario. Si può concludere allora che, ai sensi dell’art. 43 Cost., sono
servizi pubblici quelli che i poteri pubblici possono riservare alla propria responsabilità”. 66
In questi termini E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.. Ex multis, cfr. G. CAIA, I servizi pubblici, cit.,
il quale evidenzia come uno dei profili peculiari della teoria oggettiva sia rappresentato dall’aver
enfatizzato la circostanza “che la Costituzione parli, come possibile oggetto di riserva originaria o di
trasferimento a fini di utilità generale, di imprese o categorie di imprese, che si riferiscono a servizi
pubblici essenziali, richiamo che indurrebbe ad ammettere l’esistenza anche di servizi pubblici
essenziali esplicati da imprese non (ancora) riservate e non trasferite in mano pubblica, potendo
109
termini, finiva per perdere rilievo la fisionomia del soggetto che eroga il servizio,
mentre acquistava importanza la finalità cui il servizio è preordinato atteso che
“come i privati, anche lo Stato viene a perseguire in questo caso fini che lo
sopravanzano, in quanto imputabili all’organizzazione politica, economica e sociale
del Paese”67
.
Ciò non di meno, il fatto che - secondo la ricostruzione operata da Pototsching -
rientrasse nella nozione di servizio pubblico ogni “attività economica di cui la legge
abbia determinato programmi e controlli per indirizzarla e coordinarla a fini
sociali”68
, fece sì che i contorni dell’istituto si dilatassero tanto da indurre taluno a
lamentare la perdita di specificità della relativa nozione69
. In particolare, ciò che
appariva alquanto sfumato era il confine tra servizio pubblico e mera attività
imprenditoriale ex art. 41 Cost. ogni qual volta non veniva sufficientemente
valorizzata l’esistenza di “uno specifico dovere giuridico di fornire determinate
prestazioni alla collettività secondo standard determinati”70
.
Per questa via, dunque, si giunse a recuperare il principio fondante della teoria
soggettiva e a ribadire la necessaria inclusione dei fini di utilità sociale nei compiti
gravanti istituzionalmente sulla pubblica amministrazione. Solo gli enti esponenziali
di collettività territoriali, infatti, - si disse – possono “costituire il centro
d’imputazione subiettivo del servizio pubblico, perché solo ad essi compete di
assumere le scelte relative alla cura degli interessi della comunità territoriale, rispetto
ai quali un ruolo fondamentale assume la decisione circa quali servizi assumere e
inoltre tali imprese continuare ad essere gestite legittimamente da soggetti privati. In sostanza, la tesi
dei servizi pubblici in senso oggettivo si basa sul dato che, ai sensi dell’art. 43 Cost., essi sarebbero
tali anche prima della riserva e trasferimento dell’impresa” 67
Così U. POTOTSCHING, I pubblici servizi, cit.. Inoltre, cfr. G. CAIA, I servizi pubblici, cit., il quale
osserva che “questa nozione si definisce, appunto, oggettiva perché in essa perde valore la natura della
figura soggettiva che espleta o che predispone il servizio”. E, ancora, cfr. E. SCOTTI, Il pubblico
servizio, cit., dove si legge che “l’imputazione del servizio allo Stato-amministrazione, come fattore
della sua pubblicità, cede dunque il campo all’imputazione dello stesso alla società civile
(l’organizzazione politica, economica e sociale del Paese) e ai suoi fini, quale risvolto della presenza
di una disciplina funzionalizzante idonea a superare il principio di libertà d’iniziativa privata”. 68
U. POTOTSCHING, I pubblici servizi, cit.. 69
In questo senso cfr., innanzitutto, E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., nonché prima ancora G. CAIA,
La disciplina dei servizi pubblici, cit.; M. S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano,
1981; F. MERUSI, Servizi pubblici instabili, Bologna, 1990; M. NIGRO, L’edilizia popolare ed
economica, cit.. 70
In tal senso E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.; nonché A. POLICE, Spigolature, cit., dove si legge:
“seguendo l’impostazione della teoria c.d. oggettiva, però, si perveniva al risultato di ricondurre alla
nozione di servizio pubblico una serie di situazioni non omogenee e (…) scarsa era l’utilità di una
categoria di servizi pubblici tanto ampia da comprendere accanto ad attività economiche pubbliche,
assunte ed organizzate da un soggetto pubblico direttamente, anche ogni forma di possibile attività
economica privata, sol che ricadesse in uno dei tanti piani o programmi di settore della legislazione”.
110
secondo quali modalità gestirli, in vista del raggiungimento del miglior grado di
benessere collettivo”71
.
In altri termini, il bisogno di definire compiutamente l’istituto in esame e di meglio
tracciarne il confine “rispetto alle attività di impresa dei pubblici poteri, distinte
dall’esercizio di un servizio pubblico, e all’iniziativa economica dei soggetti privati”
fece sì che i successivi studi tornassero a individuare “il nucleo essenziale
dell’istituto nella autoritativa determinazione di quelle scelte di gestione (…)
necessarie ad assicurare alla collettività il conseguimento degli specifici benefici
sottesi alla stessa istituzione del servizio pubblico”72
.
Può infatti osservarsi come, muovendo da questa idea condivisa, nei successivi
contributi della dottrina siano stati rivalutati tanto il profilo organizzativo73
e
normativo74
quanto – soprattutto - l’aspetto della necessaria titolarità pubblica del
servizio, atteso che, essendo quest’ultimo finalisticamente orientato a soddisfare un
bisogno della collettività, “l’attribuzione ai privati addirittura della titolarità del
servizio non sarebbe [sembrava essere] neppure immaginabile”75
. Detta prerogativa,
71
Così E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.. In senso analogo cfr. R. CAVALLO PERIN, Comuni e
province nella gestione dei servizi pubblici, cit.; I. MARINO, Servizi pubblici e sistema autonomistico,
Giuffrè, Milano, 1986; A. ROMANO, La concessione di pubblico servizio, cit.. 72
In questi termini E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., la quale prosegue affermando: “è in tal modo
emerso con chiarezza il ruolo fondamentale dei principi di doverosità e di funzionalizzazione delle
attività agli interessi dei destinatari al fine di caratterizzare in senso obiettivo e sostanziale il concetto
di servizio e di distinguerlo, (…), dalle attività imprenditoriali espressive della libera iniziativa
economica, pubblica e privata”. E ancora: “non si nega oramai più l’importanza dell’aspetto
normativo, né di quello organizzativo, né del riferimento soggettivo all’amministrazione giacché si
riconosce come tutti questi aspetti concorrano in misura coessenziale alla definizione dell’istituto:
secondo le diverse impostazioni sistematiche l’accento viene posto ora sull’uno ora sull’altro profilo,
onde individuare il fattore originario e determinante della pubblicità dell’istituto e soprattutto il suo
legame - e il tipo di legame – con l’amministrazione”. Inoltre, in senso analogo cfr. S. CATTANEO,
(voce) Servizi pubblici, in Enc. dir., vol. XLII; nonché A. POLICE, Spigolature, cit., dove si legge: “la
più recente dottrina e giurisprudenza, pertanto, hanno affermato che il servizio pubblico può aversi
solo in rapporto ad attività che il soggetto pubblico, attraverso l’uso dei poteri di cui dispone,
legislativi ed amministrativi, fa e considera proprie, nell’ambito dei compiti istituzionali; attività non
implicanti l’esercizio di poteri autoritativi, ma quello di altri poteri, tra cui quelli di diritto privato”. 73
Al riguardo cfr., innanzitutto, G. CAIA, La disciplina dei servizi pubblici,cit. secondo il quale il
servizio si caratterizza quale “modello di organizzazione tipizzato concernente la prestazione di
utilità”; nonché G. BERTI, La pubblica amministrazione come organizzazione, cit; G. GUARINO,
Pubblico ufficiali e incaricato di pubblico servizio,in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, 1, 11. 74
Si veda, ad ex., C. CAIANIELLO, (voce) Concessioni. Diritto amministrativo, in Noviss. Dig. It.,
Torino 1981. 75
Così A. ROMANO, La concessione di un pubblico servizio, cit., per il quale la titolarità è indice della
“soggettivizzazione in un ente pubblico dell’interesse collettivo che il servizio deve soddisfare”; ma in
senso analogo cfr. anche R. CAVALLO PERIN, Comuni e Province nella gestione di servizi pubblici,
cit.. Con precipuo riferimento al profilo della titolarità, inoltre, si segnala quanto osservato da E.
SCOTTI, Il pubblico servizio, cit.: “rispetto alle precedenti ricostruzioni ciò che muta è in primo luogo
l’impostazione: la titolarità viene ora considerata non più il fattore che determina la pubblicità
obiettiva dell’istituto, ma, secondo un processo logico inverso e più vicino alla teoria francese del
service public, il suo necessario risvolto soggettivo”.
111
tuttavia, si spiega – e qui sta il punto di rottura con la primigenia formulazione della
teoria soggettiva – non nell’ottica del potere, da intendersi come potere di scegliere
se erogare un determinato servizio, bensì in ragione del fatto che “titolarità del
servizio significa pertinenza istituzionale dello stesso ad una determinata
amministrazione pubblica”76
. In altri termini, se è vero che un certo servizio
(pubblico) può essere gestito anche da soggetti privati, è altrettanto vero che il
profilo della titolarità “non può che avere un riferimento soggettivo esclusivamente
pubblico” e, dunque, affinché si possa parlare di “servizio (soggettivamente)
pubblico (…) ciò che rileva è che l’attività relativa si inserisca istituzionalmente nel
novero delle misure attuative dei compiti della pubblica amministrazione”77
.
Da quanto detto, dunque, sembra possibile evincere come gli studi che negli anni
hanno interessato l’istituto de quo abbiano preso le mosse dalle due originarie scuole
di pensiero per poi riattualizzarne di volta in volta i predicati78
. In questo modo, è
giunta a maturazione l’idea secondo cui la contrapposizione tra i due modi (oggettivo
e soggettivo) di intendere il servizio pubblico “si rivela in larga parte falsa e
fuorviante: poiché l’uno implica l’altro”79
. E’ stato evidenziato, infatti, come
entrambi i profili concorrano alla definizione dell’istituto in esame, poiché “il criterio
oggettivo è utile (…) per operare una compiuta descrizione dei tratti salienti del
carattere pubblico del servizio. (…) [E] Il criterio soggettivo è invece necessario per
76
G. CAIA, L’organizzazione dei servizi pubblici, cit.; ma cfr. anche A. ROMANO, La concessione di
un pubblico servizio, cit., dove si parla de la “soggettivizzazione in un ente pubblico dell’interesse
collettivo che il servizio deve soddisfare”. 77
Così A. POLICE, Spigolature, cit.. Tale aspetto, inoltre, è ampiamente affrontato anche in F. DE
LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, cit.. 78
Oltre al “recupero” della tesi soggettiva poc’anzi citato, si v. anche quanto sostenuto da D. SORACE,
La riflessione giuridica, cit.. L’A., infatti, scrive: “orbene proprio dal lavoro di Pototsching si possono
oggi attingere alcune idee di fondo per riprendere a ragionare, in termini giuridici, sul tema dei servizi
pubblici (…). Non voglio dire con questo che il libro di Pototsching sia nella sua interezza attuale e
condivisibile, ma credo si possa dire che alcuni aspetti per i quali è stato criticato possono essere oggi
valutati in tutt’altro modo e che non soltanto l’idea di fondo (…) ma anche una gran parte delle sue
attente e approfondite elaborazioni sono ancora oggi di grande attualità e, soprattutto, forniscono una
preziosa indicazione di metodo per ricerche che proprio la situazione attuale rende nuovamente
impellenti”. In particolare, Sorace ritiene che – pur con qualche accorgimento interpretativo - il
contributo di Pototsching si sposi bene con l’intervento pubblico nell’economia così come concepito a
livello europeo. Si legge, infatti, che: “(…) anche lo svolgimento di un’attività che costituisce servizio
pubblico può essere esercizio della libertà d’iniziativa economica privata. L’intervento dello Stato
(…) è un intervento ordinamentale e non organizzativo (…). In tal modo la concezione oggettiva dei
servizi pubblici che viene proposta appare perfettamente compatibile con la disciplina comunitaria
della materia e ben può essere posta alla base, con qualche lieve attenuazione del suo oggettivismo
puro, dell’aggiornamento dei modelli concettuali sei servizi pubblici economici”. 79
In questo senso A. ROMANO, Profili della concessione di pubblici servizi, cit.. Analogamente,
inoltre, cfr. G. CAIA, I servizi pubblici, cit.; F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione
amministrativa, cit. e F. G. SCOCA, La concessione, cit..
112
distinguere tali servizi dalle comuni attività economiche esercitate
dall’Amministrazione pubblica”80
. Mentre nessuno dei due di per sé è effettivamente
“in grado di inquadrare il fenomeno nella sua complessità”81
.
Il raggiungimento di questa nuova consapevolezza, inoltre, secondo alcuni può
essere letto come il preludio di uno sviluppo ulteriore, vale a dire la separazione
concettuale tra la titolarità del servizio e il suo profilo gestorio82
. Sul finire dello
scorso secolo, infatti, attenta dottrina ha precisato come quest’ultimo attenga
elusivamente “all’erogazione del servizio e all’adozione delle concrete scelte
operative e funzionali che a questa più immediatamente ineriscono, che sono più
direttamente condizionate da fattori di carattere economico”83
. In altri termini, si
evidenziava il nesso stringente che lega la gestione dei pubblici servizi alla materia
economica e, dunque, in qualche misura si anticipava quello che si è rivelato essere il
leit motif della “nuova costituzione economica”84
. Vale a dire il fatto che, a partire
dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, molte delle scelte di tipo gestorio hanno
finito per essere pervasivamente governate da criteri di matrice economica introdotti
soprattutto dalle istituzioni europee al fine ultimo di costruire un mercato unico e
80
Così A. POLICE, Spigolature, cit., il quale dal primo punto di vista (ossia sotto il profilo oggettivo)
evidenzia che “le prestazioni nella quali i servizi pubblici da concedere si risolvono, devono essere
offerte rivolte al pubblico (e non all’Amministrazione). [Poiché] l’aggettivo pubblico attribuito al
sostantivo servizio acquista qui il significato di a disposizione del pubblico. [Ed inoltre] ulteriore tratto
oggettivo è che il servizio pubblico deve vivere sul mercato”. Per ciò che concerne il profilo
soggettivo, invece, si sottolinea che “il fattore che differenzia il servizio pubblico da una attività anche
oggettivamente analoga è la valutazione effettuata dalla Pubblica Amministrazione sulla doverosità
del porre tale servizio a disposizione dei cittadini”. 81
In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit., la quale prosegue osservando che “la
più valida soluzione al problema definitorio è senz’altro derivata dall’aver superato l’antitesi tra
nozione oggettiva e soggettiva; e dall’aver rappresentato il servizio quale necessaria intersezione di
una oggettiva doverosità e di un necessario risvolto soggettivo pubblico: la titolarità pubblica del
servizio e, cioè, il suo legame con un soggetto pubblico garante nei confronti dell’utenza della
prestazione dei servizi”. 82
E. SCOTTI, Il pubblico servizio, cit., secondo cui “ciò che consente di operare tale scissione è l’aver
ricondotto in via essenziale alla titolarità non tanto il potere di esercitare l’attività, quanto piuttosto la
spettanza dell’interesse collettivo cui il servizio è preordinato e il compito di garantirne la
soddisfazione”. Più di recente, ID., (voce) Servizi pubblici locali, cit., dove si legge “la titolarità del
servizio costituisce dunque una funzione pubblica, latu sensu politica, che implica interpretare i
bisogni della collettività e definire quali di essi siano meritevoli di soddisfazione e come”. 83
Così in A. ROMANO, La concessione di un pubblico servizio, cit., il quale scrive: “l’ente pubblico
titolare del servizio non ne può essere anche gestore, almeno finché operi in tale sua qualità”. In senso
analogo cfr. anche D. SORACE, Pubblico e privato nella gestione dei servizi pubblici locali mediante
società per azioni, in Riv. it. dir. pubb. comunit., 1997, 1, 51 dove si rinviene la distinzione tra
provider (fornitore) e producer (produttore) di servizi pubblici; nonché E. SCOTTI, Il pubblico
servizio, cit., dove si legge: “in una complessiva considerazione dell’istituto devono dunque ricondursi
l’attività di gestione (e la sua titolarità) al momento dell’esercizio del servizio, e la titolarità del
servizio al momento della direzione e del controllo”. 84
L’espressione è presa in prestito da S. CASSESE, La nuova costituzione economica, cit..
113
favorire lo sviluppo della piena concorrenza85
. Il che con riguardo ad alcuni dei
servizi “maggiori”, qual è ad esempio quello dei rifiuti, ha portato allo “stemperarsi
del carattere locale, in un quadro più ampio di competenze e relative
responsabilità”86
.
In proposito si ricorda, ad esempio, come agli inizi degli anni Ottanta in Italia venne
adottato il d.P.R. 10 settembre 1982 n. 915 al fine di dare attuazione ad una serie di
direttive che alcuni anni prima la (allora) Comunità economica europea aveva
emanato in materia di rifiuti87
. Queste prime direttive, adottate quando ancora le
istituzioni non avevano una specifica competenza di in materia di ambiente88
, erano
preordinate al raggiungimento degli originari obiettivi della Comunità, vale a dire la
creazione di un mercato unico e la garanzia delle libertà fondamentali a ciò
funzionali. Non a caso, infatti, la prima (e più importante) di queste direttive, la
75/442/Cee, esortava gli Stati membri al “ravvicinamento delle legislazioni” in
materia di gestione dei rifiuti, al fine di scongiurare il prodursi di situazioni di
“disuguaglianza nelle condizioni di concorrenza”, suscettibili di incidere
85
Sul punto cfr. amplius il p. seguente. Per il momento sia sufficiente rinviare alle considerazioni
espresse da F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, cit. e G. MONTEDORO,
Mercato e potere amministrativo, Ed. Sc., Napoli, 2010, nonché all’analisi svolta da M. CLARICH,
Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza, cit., dove è possibile leggere: “Il diritto europeo
ha rappresentato un fattore di cambiamento epocale anche nel settore dei servizi pubblici. (…) La
Costituzione italiana del 1948 ha, com’è noto, una matrice composita (…). I limiti all’espansione della
presenza pubblica diretta e indiretta nell’economia sono stati, se non inesistenti, comunque, assai
ridotti”. Basti pensare che “l’art. 41 della costituzione, soprattutto il comma 3, ha rappresentato la
base giuridica idonea a legittimare, con l’avallo della Corte costituzionale, interventi dirigistici” e che
“lo stesso art. 43 (…) non ha posto alcun limite significativo al nostro legislatore”. Dunque, sembra
possibile affermare che “la Costituzione italiana ha eretto difese assai deboli all’intervento pubblico
nell’economia. I servizi pubblici nazionali sono stati per lo più esercitati in regime di monopolio
legale ex art. 43 della Costituzione. Inoltre, sotto il profilo organizzativo, l’attività veniva svolta talora
direttamente dallo Stato o dagli enti locali (gestioni interne o in economia), talora attraverso aziende-
organo (statali e municipalizzate), talora da enti pubblici separati dallo Stato ma assoggettati a poteri
di indirizzo e controllo diretto (enti pubblici economici), talora da soggetti privati in regime di
concessione amministrativa”. Da ciò, quindi, secondo l’A. è facile intuire perché “la costituzione
economica europea [abbia] richiesto una revisione del nostro ordinamento” molto ampia. 86
In questi termini, E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit. la quale osserva: “in relazione ai
servizi maggiori o grandi servizi, tendenzialmente identificabili con i servizi a rete (energia, acqua,
rifiuti, trasporti), si assiste, ormai da tempo, all’affermazione di baricentri centralistici, espressi da
specifiche discipline di settore per lo più di matrice europea e da un’intensa applicazione delle regole
di concorrenza (…). Mantengono invece carattere pienamente locale i servizi locali minori e quelli
sociali, che presentano limitate incidenze sul mercato interno (…); ancorché nell’ultimo decennio si
sia tentato di omologarli ai grandi servizi attraverso una disciplina generale che ha fatto una rigorosa e
indifferenziata applicazione dei principi di concorrenza a tutti i servizi locali (…)”. 87
Come evidenziato nel capitolo I, si trattava delle direttive adottate dalle istituzioni europee a partire
dagli anni ’70 del Novecento. Su tutte cfr. la direttiva 75/442/Cee. 88
In ordine all’evoluzione delle competenze dell’Unione europea in materia di ambiente cfr. Capitolo
I, retro.
114
negativamente sul funzionamento del mercato comune”89
. Per l’effetto, tra i vari
aspetti affrontati dal decreto con cui l’Italia ha inteso recepire dette direttive vi era
anche quello del riparto di competenze tra i diversi livelli di Governo. In particolare,
si riconoscevano allo Stato funzioni generali di carattere amministrativo (art. 4), alle
Regioni la competenza in ordine alla c.d. politica di piano per la gestione dei rifiuti
(art. 6), mentre agli enti locali venivano attribuiti compiti di tipo eminentemente
gestorio (artt. 7 – 8)90
.
Iniziava, dunque, a farsi strada l’idea – in gran parte condizionata da una lettura
fuorviata della normativa europea - che, al fine di garantire l’armonizzazione tra le
legislazioni dei diversi Stati membri, il baricentro decisionale dovesse spostarsi dal
livello di governo locale a quello statale, ossia lo stesso livello che di norma assume
le scelte di politica economica che servono a “segnare la rotta” del sistema Paese. E
ciò nonostante l’Europa non avesse affatto espresso la propria “ostilità” nei confronti
delle autonomie locali.
III.2.2 LA SECONDA STAGIONE. IL SERVIZIO PUBBLICO NELLA DIMENSIONE
EUROPEA
L’inizio della seconda stagione dei servizi pubblici può farsi idealmente coincidere
con il periodo compreso tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del
secolo scorso, quando – anche su spinta dell’allora Comunità europea91
- ha preso
89
Cfr. il primo considerando della direttiva 75/442/Cee, dove era possibile leggere testualmente
“considerando che una disparità tra le disposizioni in applicazione o in preparazione nei vari Stati
membri per lo smaltimento dei rifiuti può creare disuguaglianza nelle condizioni di concorrenza e
avere perciò un’incidenza diretta sul funzionamento del mercato comune; che è quindi necessario
procedere, in questo settore, al ravvicinamento delle legislazioni previsto dall’art. 100 del Trattato
(…)”. 90
Con particolare riguardo al ruolo delle autonomie locali nella gestione dei servizi pubblici sul finire
del secolo scorso cfr., inter alia, V. PARISIO, Europa delle autonomie locali e principio di
sussidiarietà: la “Carta europea delle autonomie locali”, in Foro amm., 1995, 9, II, 2124; A.
PIOGGIA, Servizi pubblici e autonomia locale: i limiti del diritto interno e del diritto comunitario, in
Riv. giur. quadr. pubbl. servizi, 1999, 1, 103; N. RANGONE, I servizi pubblici, Il Mulino, Bologna,
1999 91
Sul punto, per tutti, cfr. G. BUCCI, Implicazioni dei rapporti tra ordinamento giuridico italiano ed
ordinamento comunitario sul ruolo della Banca d’Italia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1998, 1, 93
(specialmente pagg. 135 e ss.); E. PICOZZA, L’incidenza del diritto comunitario (e del diritto
internazionale) sui concetti fondamentali del diritto pubblico dell’economia, in Riv. it. dir. pubbl.
comunit., 1996, 1, 239, nonché G. MONTEDORO, Mercato e potere amministrativo, cit., 27 e ss.
115
avvio un processo di generale ripensamento dell’intervento pubblico
nell’economia92
.
Essenzialmente, i tratti salienti di questa nuova fase si risolvono nell’avvento delle
liberalizzazioni, benché a volte le stesse si siano rivelate più formali che
sostanziali93
; nella globalizzazione e ri-espansione della c.d. lex mercatoria, poiché
“il diritto dei mercati (…) è prodotto dalle grandi imprese, soprattutto
multinazionali”94
e, non da ultimo, nella presenza sempre più pervasiva della
92
In proposito, P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione. Dalla
specialità del soggetto alla rilevanza della funzione, Cedam, Padova, 2005, parla di un “progressivo
mutamento del rapporto tra Stato e mercato, che ha determinato un ripensamento, ancorché in via di
interpretazione adeguatrice, della c.d. Costituzione economica, ispirato ad un ampliamento della
libertà di iniziativa economica dei privati e a una conseguente riduzione delle sfere di azione riservate
ai pubblici poteri”. Scrive, infatti, F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, cit.,
che “sempre più spesso l’esercizio della pubblica funzione viene affidato a soggetti con personalità
giuridica di diritto privato, società di capitali, fondazioni o associazioni – che, in alcuni casi, derivano
dalla privatizzazione di enti pubblici e, in altri, sono invece costituiti ad hoc per la cura di interessi
generali – o, anche a persone fisiche”. E ciò – prosegue l’A. - fa si che si diffondano “a macchia
d’olio, non solo nell’ordinamento italiano, ciò che la dottrina più risalente indicava come zona grigia,
al confine tra pubblico e privato” (cfr. S. PUGLIATTI, (voce) Diritto pubblico e privato, in Enc. dir.,
XII, 1964).
Provando ad andare a fondo della questione, è possibile osservare come secondo attenta dottrina
questa nuova stagione rechi radici profonde. In M. D’ALBERTI, Poteri pubblici, mercati e
globalizzazione, Il Mulino, 2008 si legge, infatti, che “una fase di particolare interesse si è aperta dagli
anni Ottanta del Novecento. Con il declino delle soluzioni diverse dall’economia di mercato e con il
consolidarsi della globalizzazione degli scambi, è sembrata entrare in crisi la stessa idea
dell’intervento dei poteri pubblici nell’economia, ancor più che agli inizi dell’Ottocento, e si sono
prospettati grandi mutamenti nel rapporto fra istituzioni pubbliche e mercati”. C’è stato - ricorda l’A.
- chi ha parlato della fine degli interventi pubblici; chi della rinascita della lex mercatoria e chi, infine,
ha continuato a vedere spazi per l’azione pubblica nell’economia. Vi è però “un dato comune: la
percezione che si sia in presenza di una svolta fondamentale nel rapporto fra economia e pubblici
poteri”. 93
Per liberalizzazione – scrive G. CORSO, (voce) Liberalizzazione amministrativa ed economica, in S.
CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 2006 – “s’intende la possibilità di
svolgere attività economiche prima inammissibili a causa dell’esistenza di monopoli legali o di
accedere a mercati caratterizzati in precedenza da robuste barriere all’ingresso”. Il procedimento,
alquanto articolato, prevede innanzitutto “un provvedimento amministrativo che elimina il monopolio
legale e trasforma (o prevede la trasformazione de) il vecchio monopolista da ente pubblico o da
azienda pubblica in società per azioni: da qui la possibilità per le imprese private di entrare nel
relativo mercato e la possibilità per i privati di acquistare le azioni della [novella] società (…). E’ per
questo che il processo di liberalizzazione è strettamente legato al processo di privatizzazione”. Ciò
non di meno, il fatto che un settore risulti formalmente liberalizzato non implica ipso facto che lo
stesso risulti essere tale anche da un punto di vista sostanziale. E’ stato affermato (F. TRIMARCHI
BANFI, Lezioni, cit.), infatti, come “la liberalizzazione delle attività [sia] solo un passo verso la
concorrenza che non fa venir meno le ragioni della regolazione”, ossia di quelle misure volte a
correggere i fallimenti di mercati non ancora perfettamente concorrenziali.
Ex multis, sul tema cfr. P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione, cit.,
nonché F. DE LEONARDIS, Legalità, autonomie e privatizzazioni, in Dir. amm., 2000, 2, 241. 94
Così M. D’ALBERTI, Poteri pubblici, cit.. Sul punto cfr. anche F. GALGANO, Lex mercatoria, Il
Mulino, Bologna, V ed., 2010; N. IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Bari, 2006,
nonché G. DELLA CANANEA, I pubblici poteri nello spazio giuridico globale, in Riv. trim. dir. pubbl.,
2003, 1, 1, dove si legge. “da più parti si afferma che è in atto una dequotazione complessiva del ruolo
degli Stati, a fronte del pervasivo e penetrante dominio esercitato dai poteri privati sulle inferenze dei
mercati. In effetti, le più aggiornate trattazioni delle relazioni internazionali mettono in luce la
crescente importanza delle imprese multinazionali (…). In sede sociologica, si è anche rilevato che le
116
Comunità, oggi Unione, europea, che ha finito per assumere la regia delle scelte di
politica economica (ma non solo) degli Stati membri, compresa l’Italia95
. Secondo
taluno, tuttavia, detti fattori non hanno “causato né l’abbandono né il declino degli
interventi pubblici” nell’economia. Al contrario, la regolazione costituisce ancora
una realtà e, mentre secondo alcuni la stessa reca “oggi un’identità completamente
nuova rispetto al passato”96
, altri evidenziano come vi sia invece “una grande
continuità storica” poiché gli strumenti regolatori tradizionali sembrano coesistere
con i nuovi, pur nel segno di importanti trasformazioni97
.
imprese multinazionali non si limitano ad avvalersi delle norme statali più favorevoli in vista dei
propri interessi, bensì concorrono a creare le regole del mercato (…). Nell’ottica più propriamente
giuridica, si è detto che l’impero della legge è eroso dalla nuova lex mercatoria, in cui il contratto (in
particolare, la categoria dei contratti uniformi, assume un ruolo fondamentale nella creazione dei
precetti destinati a regolare gli assetti di interessi”. 95
Come si legge in M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale: evoluzione normativa e
profili ricostruttivi, in Dir. pubbl., 1998, 3, 981 nella materia de qua “causa diretta o indiretta
dell’evoluzione è il diritto comunitario che ha ristretto l’area dell’esenzione dalle regole della
concorrenza dei servizi d’interesse generale pur prevista in astratto dall’art. 90 del Trattato Ce e che
sempre più spesso rompe categorie concettuali che costituiscono altrettanti dogmi della nostra
dottrina”. E, ancora lo stesso A. in uno scritto più recente (Servizi pubblici e diritto europeo della
concorrenza, cit.) osserva come in Europa “le imprese pubbliche hanno vissuto a lungo indisturbate in
una sorta di cono d’ombra della politica europea della concorrenza. Solo nell’ultimo ventennio la
Commissione ha riscoperto ed applicato con rigore le disposizioni in tema di aiuti di Stato e le regole
in tema di concorrenza ala settore dei pubblici servizi. Le direttive di liberalizzazione dei servizi
(specie quelle in materia di telecomunicazioni e di energia elettrica e gas) hanno innescato un
processo di revisione profonda degli assetti normativi nazionali. Nell’esperienza italiana,
l’impalcatura dello Stato imprenditore è venuta progressivamente meno in gran parte sotto la spinta
del diritto comunitario ed è stata sostituita con le nuove architetture, peraltro non ancora consolidate,
dello Stato regolatore (…).
In senso sostanzialmente analogo cfr., inter alia, R. CAVALLO PERIN, I principi come disciplina
giuridica del pubblico servizio tra ordinamento interno ed ordinamento europeo, in Dir. amm., 2000,
1, 41; F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, cit; G. NAPOLITANO, I servizi
pubblici, cit.; E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit. ed ID., Servizi pubblici locali e
ordinamento comunitario, cit.. 96
Cfr. M. D’ALBERTI, Poteri pubblici, cit. e i riferimenti bibliografici ivi citati. L’A. evidenzia come
secondo alcuni studiosi i caratteri della “nuova” regolazione economica si riassumono nel rifiuto delle
pianificazioni; nella rinuncia sostanziale alla imprese pubbliche a favore delle privatizzazioni; nel
superamento di forme di regolazione dettagliata a beneficio di una disciplina c.d. per standard e
principi; nonché, nella diffusione delle Autorità indipendenti. Di questo avviso sembrerebbe essere M.
CLARICH, Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza, cit., il quale nell’ambito delle “novità
strutturali derivanti dal passaggio dallo Stato gestore allo Stato regolatore” include: a) la “comparsa di
nuovi soggetti regolatori e [l’]eclissi delle vecchie forme di gestione dei servizi pubblici”, alludendo
rispettivamente alla nascita delle autorità indipendenti e alla scomparsa degli enti pubblici economici;
b) l’ “abbandono degli strumenti di regolazione tradizionali a favore di strumenti più compatibili con
la libertà di impresa e con la garanzia della par condicio concorrenziale”; c) i “procedimenti per
l’esercizio dei poteri normativi di competenza delle autorità di regolazione”, poiché “nei servizi
pubblici soggetti a rapida evoluzione tecnologica e di mercato, il legislatore non può far altro che
stabilire per legge pochi principi e criteri generali delegando alle autorità di regolazione amplissimi
poteri normativi”; d) l’emersione di “una trama più complessa di relazioni giuridiche verticali e
orizzontali; ed, infine, e) il sorgere di “nuovi tipi di conflitti per i quali vengono introdotte sempre più
di frequente forme di risoluzione delle controversie alternative alla giurisdizione”. 97
Così M. D’ALBERTI, Poteri pubblici, cit., secondo cui “l’ampia diffusione degli strumenti
consensuali e persuasivi, delle privatizzazioni, delle misure basate su standard, dei regolatori
indipendenti, non ha assolutamente comportato – a tutt’oggi – l’abbandono delle programmazioni,
117
Certo è che per quanto concerne nello specifico l’istituto in esame, l’avvento della
“nuova costituzione economica” ha portato con sé una serie di importanti novità a
cominciare dal profilo normativo. Se, infatti, fino agli anni Ottanta si era registrata
una sostanziale immobilità legislativa, “il rilancio dell’obiettivo di una piena
integrazione e di un mercato unico europeo (…) ha imposto il riconoscimento delle
libertà di circolazione e di concorrenza anche in settori fino a quel momento
riservati”98
e, dunque, ha comportato l’adozione di una serie di atti normativi tanto a
livello europeo99
che, conseguentemente, nazionale100
.
degli strumenti cogenti e sanzionatori, delle imprese in mano pubblica, dei regolatori legati al
governo. Coesistono, in definitiva strumenti vecchi e nuovi di regolazione pubblica dell’economia.
(…) Non vi sono, dunque, né interruzioni, né metamorfosi radicali della regolazione pubblica dei
mercati nell’età contemporanea. Vi sono, tuttavia, non poche trasformazioni rispetto al passato”. In
specie – osserva l’A. – a) si rafforza l’onere delle autorità pubbliche di giustificare le regole di
disciplina dei mercati; b) si riduce la discrezionalità amministrativa nell’attuazione delle regole; c) si
afferma il primato del diritto della concorrenza sulle regolazioni pubbliche di settore; d) si formano
interrelazioni sempre più consistenti fra regolazioni economiche nazionali e ultranazionali. 98
Così G. NAPOLITANO, Servizi pubblici, cit.. Sul punto cfr. anche quanto evidenziato da M. CLARICH,
Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza, cit. e da G. M. RACCA, I servizi pubblici
nell’ordinamento comunitario, in G. PERICU – A. ROMANO – V. SPAGNUOLO VIGORITA (a cura di), La
concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995, secondo la quale “è opinione diffusa che la
nozione di servizio pubblico e le sue peculiari forme di gestione siano state per lungo tempo utilizzate
come schermo giuridico per consentire la sopravvivenza di privilegi e di mercati protetti di cui gli
Stati membri della Comunità europea hanno giovato per resistere all’integrale applicazione delle
norme del Trattato”. 99
In proposito G. M. RACCA, I servizi pubblici, cit., osserva: “ciò che interessa la Comunità europea
sono gli effetti che le varie forme di gestione dei servizi pubblici possono avere sul mercato, in
relazione al perseguimento degli obiettivi comunitari. (…) Tuttavia l’ostacolo all’armonizzazione di
questo settore deriva soprattutto dalla difformità dei modelli giuridici di gestione delle attività
riconducibili fra i servizi pubblici nei vari paesi membri”. Inizialmente, dunque, l’ordinamento
comunitario si è limitato “ad imporre a tutti i soggetti (…) l’applicazione di procedure concorsuali
vincolate per l’aggiudicazione di appalti a terzi”. A titolo esemplificativo, si pensi alla direttiva del
Consiglio 90/531/Cee del 17 settembre 1990, relativa alle procedure di appalto degli enti erogatori di
acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti operanti nel settore
delle telecomunicazioni, per un commento alla quale cfr. E. PICOZZA, Appalti pubblici di servizi. Un
set di regole verso la liberalizzazione, in Comm. Internaz., 1991, 501.
Più di recente, in G. NAPOLITANO, Servizi pubblici, cit., si legge che: “si sono susseguiti regolamenti e
direttive che hanno disposto, almeno in parte, la liberalizzazione del trasporto aereo e marittimo, delle
telecomunicazioni, del trasporto ferroviario, dell’elettricità, delle poste, del gas naturale. La maggior
parte di tali norme è stata adottata sulla base dell’[odierno] art. 114 del TFUE. La norma prevede
l’adozione da parte del Consiglio (e ora anche del Parlamento europeo) di misure relative al
ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che
hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno. I diversi servizi pubblici,
quindi, sono stati considerati alla stregua di altrettanti mercati e sottoposti a una disciplina uniforme a
livello europeo. La liberalizzazione di questi settori, prodotta dal diritto comunitario e recepita quindi
nell’ordinamento interno, ha comportato la limitazione e, in alcuni casi, l’integrale soppressione del
precedente regime di riserva e monopolio legale (…)”. Pertanto, dal punto di vista europeo, i servizi
pubblici si trovano oggi ad essere assoggettati alle norme dettate in materia di concorrenza a
cominciare dagli artt. 101 e ss. del TFUE. 100
In senso parzialmente critico cfr. M. CLARICH, Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza,
cit., dove si legge che l’ordinamento italiano è stato segnato da “una revisione profonda della
legislazione nazionale e dell’assetto organizzativo dei poteri pubblici, non accompagnata, però, come
ci si sarebbe aspettati, da una revisione organica della Costituzione volta a modificare le disposizioni
rilevanti per il diritto pubblico dell’economia espungendo quelle obsolete” (In ordine alle incertezze
118
Prima di passare ad analizzare questi ultimi, tuttavia, può essere utile ricostruire -
ancorché per sommi capi - i capisaldi della politica europea nella materia de qua. Nel
fare ciò, occorre muovere dal ricordare come, benché ab origine la Comunità non
avesse alcuna competenza specifica nei riguardi dei servizi pubblici, la stessa si sia
avvicinata a questi ultimi legiferando in materia di mercato interno. Per tale via, se
ne è occupata dapprima marginalmente, vedendo negli stessi un’eccezione al pieno
operare della concorrenza, e poi “nobilitandoli”, in ragione del loro essere preordinati
alla soddisfazione di bisogni di carattere generale, tanto da coniare la categoria dei
servizi di interesse economico generale.101
Più nel dettaglio, perno dell’azione europea è stato ed è l’art. 106 TFUE (un tempo
art. 86 del TCe), il quale al comma primo sancisce la regola generale, secondo cui
“gli Stati membri non emanano, né mantengono nei confronti delle imprese
pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura
contraria alle norme dei trattati, (…)”. Mentre al comma secondo mitiga la cogenza
di detta regola, prevedendo che “le imprese incaricate della gestione di servizi di
interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte
alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui
l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di fatto o di diritto,
della specifica missione loro affidata. (…)”.
relative al riconoscimento del rilievo costituzionale della libertà di concorrenza cfr. C. cost. 7 ottobre
1999 n. 384, con commento di A. PACE, La Corte disconosce il valore costituzionale della libertà di
concorrenza?, in Giur. cost., 1999, 2965). Ciò non di meno, l’A. non manca di rintracciare importanti
segnali di cambiamento anche all’interno della Carta costituzionale, laddove “per un verso (…) è in
atto in via interpretativa un’opera di ibernazione del comma 3 e di contemporaneo risveglio del
comma 1 dell’art. 41 (…). Per altro verso, in occasione della revisione del titolo V della Costituzione
ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 200 n. 3 (…) ha fatto ingresso nell’art. 117, comma 2,
lett. e) la tutela della concorrenza, inserita tra le materie riservate alla competenza esclusiva dello
Stato”. Inoltre, il fatto che nell’elenco, alla lett. m), sia inclusa anche la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale, secondo l’A. rappresenta “riferimento indiretto ai servizi pubblici e, in
particolare, al loro contenuto di universalità che costituisce uno dei collanti del modello europeo di
società”. Ecco, allora, che gli argomenti poc’anzi menzionati, unitamente al richiamo ai vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario di cui all’art. 117, primo comma, Cost., portano l’A. ha
concludere nel senso che “quasi per eterogenesi dei fini, la riforma del Titolo V della Costituzione
potrebbe dunque esplicare effetti ben oltre l’ambito dei rapporti tra centro e periferia, investendo i
rapporti tra Stato e mercato”. 101
Sul punto cfr. D. SORACE, I servizi “pubblici” economici nell’ordinamento nazionale ed europeo
alla fine del primo decennio del XX secolo, in Dir. amm., 2010, 1, 8; nonché E. SCOTTI, (voce) I
servizi pubblici locali, cit.. Inoltre cfr. F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa,
cit., dove si legge: “(…) viene emergendo il nuovo concetto di servizio universale, relativo alle
posizioni di vantaggio che devono essere comunque assicurate ad destinatari delle prestazioni e che
impone la rilettura della concezione tradizionale di servizio pubblico. L’insieme di tali evoluzioni
[pertanto] sembra richiedere una riconsiderazione globale del tema dell’esercizio di attività
amministrativa da parte dei soggetti privati”.
119
Orbene, per lungo tempo il portato dell’art. 106 TFUE è stato svilito o – secondo
taluno – addirittura mistificato102
- dalla giurisprudenza che ha finito per legittimare
quell’orientamento incline ad interpretare estensivamente il citato comma secondo e
a riconoscere, per tale via, un ampio margine di discrezionalità in capo agli Stati
membri nella individuazione di settori esenti dalle regole della concorrenza. In altri
termini, per un lungo periodo l’eccezione l’ha fatta da padrone prevaricando,
sostanzialmente, la regola generale.
E’ solo sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso che si è assistito al revirement,
“allorché la Comunità ha abbandonato l’atteggiamento di sostanziale agnosticismo
circa le scelte nazionali concernenti l’istituzione e l’organizzazione dei servizi
pubblici, per dare attuazione, anche in tali ambiti, alla decisione di sistema del
Trattato CE relativa all’instaurazione di un’economia di mercato aperta e in libera
concorrenza”103
. Di lì in avanti, infatti, il rapporto regola – eccezione di cui
all’odierno art. 106 TFUE è stato letto dalla giurisprudenza, in primis quella della
Corte di Giustizia, in chiave “ortodossa” con conseguente ribaltamento della
prospettiva un tempo dominante.
E’ possibile affermare, dunque, come - dopo anni di pressoché totale indifferenza -
le istituzioni europee abbiano posato lo sguardo sul settore dei servizi pubblici,
intendendo questi ultimi come un ulteriore tassello utile alla costruzione del mercato
unico104
. A partire da Amsterdam105
, tuttavia, e ancor più in concomitanza con
l’adozione della Carta di Nizza106
, la prospettiva sembra essere ulteriormente mutata
102
M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale, cit.. 103
Così E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit.. 104
Cfr. rif. Direttive anni ‘90. 105
Si v. E. SCOTTI, (voce) I servizi pubblici locali, cit., dove l’A. evidenzia come, quella sorta di
competenza concorrente di Stati membri ed UE che negli anni si era nei fatti creata, sia stata poi
consacrata dal Trattato di Amsterdam, in quello che un tempo era l’art. 16 TCe (oggi art. 14 TFUE), il
quale “attribuisce all’Unione un’esplicita competenza, da condividersi con gli Stati membri, in materia
di servizi di interesse generale”. L’articolo citato, infatti, dispone che “in considerazione
dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni
dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, l’Unione e
gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione dei
Trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolare
economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti. Il Parlamento europeo e il
Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono
tali principi e fissano tali condizioni, fatta salva la competenza degli Stati membri, nel rispetto dei
trattati, di fornire, fare eseguire e finanziare tali servizi”. 106
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (anche detta Carta di Nizza) è stata
proclamata dai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione il 7 dicembre
2000 a Nizza e pubblicata, nella sua versione originaria (successivamente adattata nel 2007), in GUCE
C 364 del 18 dicembre 2000. Il documento, dal valore giuridico allora incerto, ha rappresentato un
passo decisivo nel cammino dell’Europa verso un pieno riconoscimento dei diritti fondamentali. Oggi
120
o, per meglio dire, ampliata. Oggi, infatti, la dottrina non manca di evidenziare la
“duplice rilevanza dei servizi pubblici nell’ordinamento europeo: da un lato essi,
qualora abbiano una dimensione latu sensu economica, rilevano come segmenti di
“mercato interno” da liberalizzare e da restituire ai suoi legittimi attori, cioè le
imprese, pubbliche o private, in regime di concorrenza e nel rispetto delle regole e
della libertà di mercato (…)”107
. Mentre, “per altro verso il servizio pubblico e la sua
efficienza, accessibilità, elevata qualità, vengono considerati fattori di importanza
fondamentale per la qualità della vita dei cittadini europei nonché per l’ambiente e
la competitività delle imprese europee”108
.
Esempio paradigmatico di tale evoluzione è offerto proprio dal servizio relativo alla
gestione dei rifiuti, atteso che, da alcuni anni a questa parte, non sembra più
revocabile in dubbio il fatto che l’Europa abbia preso a considerare detto servizio
pubblico, non tanto per le utilità che può arrecare al mercato interno, quanto piuttosto
per i suoi riflessi sul benessere collettivo”109
, compreso il profilo della salute.
la stessa, in virtù dell’art. 6 TUE come modificato in occasione di Lisbona, reca lo stesso valore
giuridico dei Trattati, tanto da far parlare di una sorta di “costituzionalizzazione” dei diritti
fondamentali nell’ordinamento UE. In dottrina, per ciò che concerne il ruolo e il valore della Carta di
Nizza prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (anche con riguardo al suo rapporto con
l’obiettivo del mercato unico) cfr., inter alia, G. AZZARITI, Il valore della Carta dei diritti
fondamentali nella prospettiva della costruzione europea: dall’Europa dei mercati all’Europa dei
diritti, in S. LABRIOLA, Ripensare lo Stato, Milano, 2003; R. BIFULCO E A., L’Europa dei diritti.
Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Il Mulino, Bologna, 2001; M. P.
CHITI, La Carta europea dei diritti fondamentali: una carta di carattere funzionale, in Riv. trim. dir.
pubbl., 2002, 1; S. RODOTÀ, La Carta come atto politico e documento giuridico, in A. MANZELLA – P.
MELOGRANI – E. O PACIOTTI – S. RODOTÀ (a cura di), Riscrivere i diritti in Europa, Introduzione alla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Il Mulino, Bologna, 2001. Per un’analisi del ruolo
della Carta dopo Lisbona cfr., da ultimo, S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari, 2012.
Inoltre cfr. M. CARTABIA, I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona: verso nuovi equilibri?, in
Giorn. dir. amm., 2010, 2, 223; L. DANIELE, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e
Trattato di Lisbona, in Dir. un. eur., 2008, 3, 655; N. PARISI, Funzione e ruolo della Carta dei diritti
fondamentali nel sistema delle fonti alla luce del Trattato di Lisbona, in Dir. un. eur., 2010, 3, 653. 107
Così E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit.. 108
In questi termini ancora E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., la quale
richiama i contenuti del Libro Bianco sui servizi di interesse generale del 2004, COM (2004) 374. 109
E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., la quale prosegue osservando: “è
del resto oramai evidente che tale complessa rilevanza europea del servizio pubblico sia alla base della
sempre più frequente attrazione alla sfera istituzionale comunitaria anche delle scelte, certamente non
quelle di livello locale, volte a definire non solo gli assetti di mercato, ma anche le specifiche esigenze
generali rilevanti a livello europeo e con esse il regime giuridico di base idoneo a realizzare il
contemperamento tra tali istanze e le libertà economiche”. Ex multis, cfr. C. IANNELLO, I servizi
pubblici locali dal pluralismo organizzativo al monopolio privato. Riflessioni circa il rapporto tra le
recenti riforme in materia di servizi pubblici locali e l’ordinamento europeo, in Rass. dir. pubbl. eur.,
2011, 1, 99 il quale parla dei servizi pubblici come di un “pilastro del [odierno] modello europeo di
società” e prosegue evidenziando come “il Trattato di Lisbona, che riconosce un ruolo importante ai
servizi di interesse generale [cfr. art. 1 Prot. 26], rappresenti la codificazione, a livello di diritto
primario, del uovo equilibrio raggiunto dall’ordinamento sovrannazionale su tale questione”.
121
Emblematiche, al riguardo, le direttive rifiuti 2006/12/Ce110
e 2008/98/Ce111
. In
quest’ultima, ad esempio, la protezione della salute umana e la tutela dell’ambiente
vengono elevati ad obiettivo principale112
, tanto da condizionare pervasivamente le
modalità di gestione dei rifiuti poste in essere a livello nazionale. All’articolo 13,
infatti, si legge che “gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che
la gestione dei rifiuti sia effettuata senza danneggiare la salute umana” e senza recare
pregiudizio all’ambiente. Di riflesso, parimenti rilevante è anche l’importanza
crescente che, nella materia de qua, la giurisprudenza sembra attribuire al nesso tra
ambiente e salute. Da ultimo, infatti, si segnala che la Corte di Giustizia113
,
pronunciandosi nel 2010 nell’ambito di un ricorso per infrazione che vedeva parte
resistente l’Italia, ha riconosciuto come quest’ultima, “avendo omesso di adottare
piani efficienti per la gestione dei rifiuti [in Campania], abbia violato gli artt. 4 e 5
della direttiva 2006/12/Ce” e come, di conseguenza, la stessa abbia creato una
situazione di pericolo per l’ambiente e la salute umana114
.
Orbene, tutto ciò premesso e premessa la descritta competenza concorrente
dell’Unione europea e degli Stati membri nel settore de quo115
, occorre altresì
puntualizzare come, nonostante l’Unione riconosca l’afferenza dei servizi pubblici
110
Si tratta della Direttiva 2006/12/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 sui
rifiuti. In particolare si v. il secondo considerando nonché gli artt. 4 e 5. 111
Direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai
rifiuti. 112
Al considerando n. 6 si legge che “l’obiettivo principale di qualsiasi politica in materia di rifiuti
dovrebbe essere di ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei
rifiuti per la salute umana e l’ambiente (…)”. Al considerando n. 49, poi, è scritto che “poiché
l’obiettivo principale della presente direttiva, vale a dire la protezione dell’ambiente e della salute
umana, non può essere realizzato in misura sufficiente dagli Stati membri e può dunque (…) essere
realizzato meglio a livello comunitario, la Comunità può intervenire in base al principio di
sussidiarietà sancito dall’art. 5 del trattato (…)”. E, infine, all’art. 1 si afferma che “la presente
direttiva stabilisce misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana prevedendo o riducendo gli
impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti, riducendo gli impatti complessivi
dell’uso delle risorse e migliorandone l’efficacia”. 113
Il riferimento è a CGCE 4 marzo 2010, Commissione c. Italia, C-297/08, per un commento alla
quale sia consentito rinviare a C. FELIZIANI, The Duty of Member States to Guarantee the Right to a
Healthy Environment: A Consideration of European Commission v Italy (C-297/08), in JEL, 24 3
(2012), 535 – 546. 114
Cfr., in particolare, pp. 111- 112 della pronuncia citata. 115
Infatti, come osservato da E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit., benché “a livello europeo
la materia dei servizi pubblici non rientri tra le competenze (né esclusive né concorrenti)
originariamente attribuite alla Comunità. (…) L’Unione si è occupata dei servizi di interesse
economico generale (SIEG) europei e cioè di quei servizi, alcuni dei quali (anche) locali, caratterizzati
da una chiara dimensione comunitaria e per questo sottoposti a specifiche discipline di settore. (…)
Tale assetto, che ha di fatto dato vita ad una competenza concorrente dell’Unione in materia di servizi
di interesse economico generale, ha poi trovato un’espressa ratifica nel Trattato. L’art. 14 del TFUE
attribuisce infatti all’Unione un’esplicita competenza, da condividersi con gli Stati membri, in materia
di servizi di interesse generale”.
122
anche locali al mercato interno, “non si rinviene tuttavia una disciplina europea della
concorrenza applicata ai servizi pubblici locali, né atti d’inquadramento generale”116
.
Le scelte che li riguardano, dunque, paiono potersi ritenere demandate alle autorità
locali, almeno fin quando “non emergano altrimenti interessi generali europei: in tali
ipotesi la disciplina europea giunge a riguardare anche l’an e il quomodo del servizio
pubblico locale, sia pur in maglie rispettose del principio di sussidiarietà”117
.
Di qui spiegato il bisogno di allineamento della disciplina nazionale con gli standard
fissati a livello europeo, il quale tuttavia è reso indubbiamente più complesso dalla
distanza di significato che caratterizza determinati concetti nel diritto
sovrannazionale e in quello interno. Benché, infatti, rispetto ad essi si tenti sovente
un’opera di assimilazione, “in ambiti come quello dei servizi pubblici, occorre tenere
presente che i concetti del diritto comunitario sono costruiti secondo una logica
propria, che è dettata dalla ricerca di un punto di equilibrio tra lo scopo di aprire i
mercati alla concorrenza e la salvaguardia delle prerogative degli Stati per
l’attuazione delle proprie politiche”118
. Non solo, dunque, le locuzioni sono diverse
ma spesso ciò che muta è il significato intrinseco di determinate espressioni. Infatti,
mentre “il diritto comunitario costruisce i propri concetti a partire dal significato
economico che alcuni fatti assumono dal punto di vista delle condizioni di
concorrenza che il diritto intende promuovere o preservare, nell’elaborazione dei
concetti del diritto amministrativo interno, l’interesse si appunta, invece, sulla
116
In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 117
Così E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 118
In questi termini F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni, cit., nonché F. DE LEONARDIS, Soggettività privata
e azione amministrativa, cit., dove si legge: “nell’ordinamento comunitario, significativamente, non si
rintracciano definizioni di pubblica amministrazione in senso soggettivo o di servizio pubblico con i
caratteri profilati propri degli schemi tradizionali, apparendo tale ordinamento, piuttosto portatore di
un diverso assetto concettuale a geometria variabile. Invero ad esso non interessa tanto definire in
astratto e a priori il concetto di Stato e/o di pubblica amministrazione, quanto assicurare, nel fluire dei
rapporti economico-istituzionali, il rispetto dei principi di concorrenza: ciò consente, di volta in volta,
di inquadrare o meno un singolo soggetto nella nozione. In tale sistema, conseguentemente, sarà vano
ricercare un concetto di Stato tipico, formale e assorbente (…). E ciò – sembra di poter sottolineare –
vale anche per i concetti di organismo di diritto pubblico, impresa pubblica, diritti speciali ed
esclusivi, servizi di interesse generale economici e non economici (…)”. Pertanto – conclude l’A. -
attribuendo a dette nozioni “un effetto utile, ossia il contenuto più adeguato per il conseguimento hic
et nunc degli obiettivi della normativa di cui si tratti, la giurisprudenza della Corte di Giustizia va
offrendo, per parte sua, un efficace contributo alla rivisitazione dei concetti fondamentali del sistema
del diritto amministrativo”. Inoltre sul tema cfr. E. CANNADA BARTOLI, Nozione di impresa pubblica
ai sensi dell’art. 90 del Trattato istitutivo del Mercato Comune europeo, in Riv. dir. ind., 1993, 1, 34;
J. A. MORENO MOLINA, Le distinte nozioni comunitarie di pubblica amministrazione, in Riv. it. dir.
pubbl. comunit., 1998, 4, 587; e più di recente G. DELLA CANANEA, La “lingua dei diritti” nel dialogo
tra le corti nazionali ed europee: permanenze o discontinuità?, in Dir. amm., 2010, 1, 85.
123
particolare qualità del potere pubblicistico e sulla posizione giuridica dei singoli nella
relazione con il potere”119
.
Ciò basta forse a spiegare perché, come osservato da parte della dottrina120
, il diritto
europeo non ha fornito utili elementi per chiudere definitivamente il dibattito interno
sulla dimensione oggettiva o soggettiva in cui ascrivere il servizio pubblico, né per
chiarire il rapporto che intercorre tra quest’ultimo e i servizi pubblici locali.
A tale ultimo proposito, infatti, si evidenzia come, in mancanza di una definizione
puntuale121
, l’istituto del servizio pubblico locale abbia inevitabilmente risentito del
dibattito dottrinario che ha interessato la più generale figura del servizio pubblico,
rispetto al quale la dottrina non ha mancato di chiedersi se tra i due istituti esista o
meno un rapporto di genus a species.
Orbene, la risposta a tale interrogativo è stata da alcuni trovata nell’art. 112 TUEL,
dove si legge che “gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze,
provvedano alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione
di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo
economico e civile delle comunità locali”122
. Commentando tale disposizione, parte
119
Ancora F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni, cit., la quale prosegue affermando: “la diversità dei criteri
ordinatori dei rispettivi concetti può determinare fraintendimenti, quando la terminologia del diritto
comunitario confluisce nel diritto interno”. Inoltre, “ il peculiare carattere dei concetti del diritto
comunitario nei settori qui considerati, si riflette nella tecnica seguita per l’applicazione dei concetti
medesimi, sia nei procedimenti amministrativi – nei quali le autorità comunitarie fanno uso di quei
concetti – sia nel processo davanti ai giudici comunitari. [Infatti] la finalità cui rispondono le nozioni
del diritto comunitario indirizza le autorità che fanno uso di quelle nozioni ad una verifica del fatto
intesa a determinarne gli effetti economici, sotto il profilo cui la nozione dà rilevanza giuridica. (…)
L’analisi economica dà concretezza al ragionamento giuridico: ai concetti astratti (…) si sostituisce
l’indagine diretta a misurare gli effetti economici delle determinazioni, per poi metterli a confronto
con il parametro normativo, a sua volta interpretato nella sua portata economica”. Ex multis, sulle
particolarità della nozione di servizio pubblico fatta propria dal diritto dell’Unione europea, anche in
relazione agli obiettivi di integrazione economica cfr. A. ARENA, La nozione di servizio pubblico nel
diritto dell’integrazione economica. La specificità del modello soprannazionale europeo, Ed. Sc.,
Napoli, 2011. 120
In proposito R. VILLATA, Pubblica amministrazione e servizi pubblici, cit.. Ma anche M.
DELSIGNORE, L’ambito di applicazione: la nozione di servizio pubblico locale a rilevanza economica,
in R. VILLATA (a cura di), La riforma dei servizi pubblici locali, Giappichelli, Torino, 2011. 121
Al pari del servizio pubblico, infatti, neppure l’istituto del servizio pubblico locale ha mai trovato
compiuta definizione nel nostro ordinamento. Dunque, né nella legge sulle municipalizzazioni del
1903, dove “l’uso del termine servizi pubblici [era] in senso prettamente economico”, né in quelle
successive è possibile rinvenire una definizione capace di chiarire il proprium dell’istituto. Al
momento, pertanto, il punto di riferimento è rappresentato dall’art. 112 TUEL dove, sostanzialmente e
salvo il più generale riferimento agli enti locali (anziché ai Comuni e alle Province), è confluita la
definizione di cui alla precedente legge di riordino delle autonomie locali del 1990 (con riferimento
all’art. 22 L. n. 142/1990 cfr. R. CAVALLO PERIN, Comuni e Province nella gestione dei servizi
pubblici, cit.. 122
Al riguardo, in senso critico cfr. A. POLICE, Spigolature, cit., dove si legge che “tale previsione, se
fornisce una chiara indicazione di che cosa debba intendersi per servizio, non dà alcun indizio per la
determinazione del significato del termine pubblico, che è invece l’elemento qualificante dell’intera
124
della dottrina ha evidenziato, innanzitutto, come l’assunzione dei servizi pubblici
locali sia “rimessa ad autonome valutazioni degli enti locali, in relazione ai differenti
contesti socio-economici e territoriali” e come a tal fine una attività debba “incidere
in via diretta sulla comunità, perché rispondente ad esigenze essenziali o diffuse di
una determinata collettività locale”123
. Di qui l’impressione che dal punto di vista
oggettivo “la nozione di servizio pubblico locale costiuisc[a] una specificazione della
nozione generale, [solo] con un ambito più ristretto della prima”124
. Inoltre, per ciò
che concerne il profilo soggettivo, “resta centrale la decisione di istituire il servizio e
la previa valutazione, effettuata dall’ente territoriale, sulla doverosità del porre tale
servizio a disposizione della collettività locale”125
. Pertanto, “si conferma che la
nozione di servizio pubblico locale costituisce una specificazione della nozione
generale e si differenzia da quest’ultima proprio per il fatto che l’istituzione del
servizio viene decisa dall’ente locale che ne assume la titolarità”126
.
operazione definitoria della locuzione servizio pubblico” anche, e forse a maggior ragione, nella sua
dimensione locale. Ex multis, cfr. M. DELSIGNORE, L’ambito di applicazione, cit., dove si legge:
“nella L. n. 142/1990 e poi anche con il TUEL, la delimitazione della nozione di servizio pubblico
assume tratti assai meno precisi (…). La definizione, talmente ampia da abbracciare qualsiasi attività,
finisce per riconoscere piena autonomia – e quindi anche piena responsabilità politica – in capo al
comune e all’ente locale, salvo non esista l’indicazione del legislatore quanto all’obbligatorietà del
servizio”. L’A. inoltre ricorda che “la giurisprudenza spiega la generalità della disposizione di cui
all’art. 112 TUEL quale conseguenza della genericità dei fini che fanno capo all’ente locale”. In
proposito cfr. Cons. Stato, V, 13 dicembre 2006 n. 7369, secondo cui “quel che rileva è perciò la
scelta politico-amministrativa dell’ente locale di assumere il servizio, al fine di soddisfare in modo
continuativo obiettive esigenze della collettività”. 123
In questo senso A. POLICE, Spigolature, cit. , il quale osserva altresì che “il ruolo degli enti locali
come interpreti primari dei bisogni e delle esigenze delle rispettive comunità sembra in piena sintonia
con la volontà di valorizzazione del sistema autonomistico agli effetti di cui agli artt. 5, 118 Cost.”. 124
Così A. POLICE, Spigolature, cit., che precisa: “per espressa previsione normativa, infatti, questa
particolare species di servizio pubblico è limitata alle sole attività che sono rivolte a realizzare fini
sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, sempre che esse rientrino
nell’ambito delle competenze dell’ente territoriale che le assume”. 125
In questi termini ancora A. POLICE, Spigolature, cit., il quale puntualizza: “si parla di assunzione
del servizio pubblico, di quell’atto di autonomia con il quale, accertata la utilità collettiva di una
determinata prestazione (la sua doverosità), l’ente locale competente assume su di sé la titolarità del
compito-servizio. La discrezionalità degli enti locali in tali deliberazioni deve trovare un proprio
limite di estensione in diversi ordini di elementi. Il primo legato al contesto istituzionale nel quale si
svolge l’azione dell’ente territoriale, il secondo è di carattere interno e attiene alle modalità che
debbono accompagnare l’assunzione della decisione. (…) In altri termini, non ogni servizio, non ogni
attività, solo perché assunta dall’ente pubblico diventa perciò stesso pubblico servizio: occorre una
giustificazione oggettiva alla pubblicità del servizio”.
In giurisprudenza cfr., ad ex., Cons. Stato, V, 14 dicembre 1988 n. 818 e Cons. Stato, VI, 12 marzo
1990 n. 374, dove al tal fine viene valorizzato il ruolo della motivazione con la quale la quale la PA
deve suffragare la propria scelta in ordine all’assunzione di un determinato servizio. 126
In questo senso cfr. A. POLICE, Spigolature, cit., ma anche M. DELSIGNORE, L’ambito di
applicazione, cit.; F. G. SCOCA, La concessione come strumento di gestione dei servizi pubblici, cit.;
ed, infine, recentemente C. MARZUOLI, Gli enti territoriali e la scelta del modello per la gestione dei
pubblici servizi locali, in Munus, 2011, 1, 69 dove il servizio pubblico locale viene definito come:
“quella prestazione che il potere pubblico (locale, nel caso) ritiene debba esssere messa a disposizione
dei cittadini, in adempimento di uno specifico obbligo costituzionale o in attuazione di una autonoma
125
Come si è avuto modo di osservare, dunque, la ricerca del significato e della sfera
dogmatica in cui collocare l’istituto in commento, anche nella sua dimensione locale,
si è svolta in un terreno tutto interno, atteso che – a detta di molta parte della
dottrina127
- le categorie elaborate dal diritto europeo non hanno aggiunto nulla al
dibattito. Le cose cambiano (seppur solo in parte), invece, se dal profilo definitorio si
passa a quello organizzativo, poiché “in relazione ai servizi “maggiori” o “grandi
servizi”- tendenzialmente identificabile con i servizi a rete [compresi i rifiuti] - si
assiste ormai da tempo all’affermazione di baricentri centralistici, espressi da
specifiche discipline di settore per lo più di matrice europea e da un’intensa
applicazione delle regole di concorrenza”128
.
III.3 L’INCERTA SORTE DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI TRA APERTURA AL MERCATO
E RICORSO ALL’IN HOUSE PROVIDING: IL CASO DEI RIFIUTI
Se, dunque, per effetto delle scelte di politica economica (e non solo129
) operate
dall’Europa i servizi pubblici c.d. nazionali sono stati interessati da una sostanziale
riscrittura del loro regime giuridico, “indiretto è [stato] invece l’intervento
comunitario nella materia dei servizi pubblici locali” poiché, almeno teoricamente, in
questo settore “l’azione delle istituzioni europee si arresta a livello di principio”130
,
scelta politica dell’istituzione rappresentativa della popolazione di riferimento”. In giurisprudenza cfr.,
inter alia, Cons. Stato, V, 13 dicembre 2006 n. 7369. 127
In tal senso, inter alia, A. POLICE, Spigolature, cit.; E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e
ordinamento comunitario, cit.; R. VILLATA, Pubblica amministrazione e servizi pubblici, cit.. 128
In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit., la quale richiama A. TRAVI, Servizi
pubblici e tutela della concorrenza fra diritto comunitario e modelli nazionali, in G. FALCON (a cura
di), Il diritto amministrativo dei Paesi Europei tra omogeneizzazione e diversità culturali, Cedam,
Padova, 2005. Inoltre, cfr. S. CASSESE, La signoria comunitaria sul diritto amministrativo, in Riv. it.
dir. pubbl. comunit., 2002, 2, 291. 129
Si pensi, in particolare, alla legislazione europea in materia ambientale e agli obblighi da essa
derivanti in capo ai soggetti gestori di taluni importanti servizi pubblici, quali quello di gestione dei
rifiuti o quello idrico. Sul punto cfr. nota n. 6, retro nonché amplius E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici
locali, cit.. 130
E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., la quale sottolinea come ab
inizio rispetto agli stessi si fosse affermata “l’estraneità all’ambito di rilevanza europeo” (cfr., ad ex.,
CGCE 9 settembre 1999, Ri. San., C- 108/98). Al contempo, però, l’A. puntualizza: “ma, in ossequio
al principio di sussidiarietà, l’azione delle istituzioni europee si arresta a livello di principio; a tale
livello tende ad affermare i limiti essenziali derivanti dai principi e dalle regole del mercato e, in
particolare di concorrenza, riconoscendo la responsabilità delle autorità pubbliche locali di definire gli
obblighi e le funzioni di servizio pubblico e di garantire che gli operatori svolgano i compiti che sono
stati loro affidati. La definizione dell’equilibrio tra missioni di interesse generale e applicazione delle
regole di mercato viene in tale modo demandata rispettivamente al legislatore nazionale e regionale
nonché all’autonomia organizzativa degli enti locali (…)”. Ex multis cfr. C. IANNELLO, I servizi
pubblici locali dal pluralismo organizzativo al monopolio privato, cit., dove l’A. si interroga sul “se, e
in quale misura, il diritto europeo riguardi anche il settore dei servizi pubblici locali” e su “quale sia il
126
mentre l’individuazione della disciplina puntuale è rimessa agli Stati membri e,
ovviamente, agli enti locali131
. Il che, tuttavia, non esime affatto le autorità nazionali
dalla ricerca di un tendenziale equilibrio (o, meglio, conformità) tra la disciplina
interna e i dictat europei, specie per ciò che concerne il profilo gestorio dei servizi
pubblici locali132
come testimoniato, peraltro, anche dal caso dei rifiuti133
.
grado di condizionamento”? Nel rispondere a detti quesiti, l’A. muove dal constatare come in dottrina
sia stato autorevolmente sostenuto “che le norme del trattato non trovino applicazione alle ipotesi di
servizi pubblici locali”, poiché gli stessi generalmente “non hanno un consistente valore economico”.
Tesi, quest’ultima, apparentemente corroborata da una certa giurisprudenza della Corte di Giustizia
(CGCE 9 settembre 1999, C-108/98) e dalla circostanza per cui la direttiva servizi 123/2006/Ce, c.d.
Bolkestein, non si applica al settore dei servizi pubblici locali. Tuttavia – prosegue l’A. – “la tesi
dell’indifferenza (…) non convince” così come sarebbe una forzatura affermare “che il fenomeno dei
servizi pubblici locali è, in quanto tale, oggetto di interesse dell’ordinamento europeo”. Piuttosto,
bisogna convenire che “il diritto europeo adotta delle nozioni che si presentano come trasversali
rispetto alla dicotomia locale/nazionale, come ad esempio quella di servizio di interesse economico
generale (…) dunque, quando è intervenuto in materia di servizi pubblici si è sempre interessato del
servizio in sé considerato, poco importandosi del livello di governo cui era affidata la responsabilità
all’interno di ogni singolo stato membro”. 131
In senso critico cfr. G. CAIA, I servizi pubblici locali di rilevanza economica (liberalizzazioni, de
regolazioni ed adeguamento alla disciplina comunitaria), in AA.VV., Scritti in onore di Franco
Pugliese, ESI, Napoli, 2010. In particolare, l’A. lamenta il fatto che le riforme legislative intervenute
negli ultimi dieci anni non hanno tenuto in debita considerazione il ruolo delle P.A. laddove, invece,
“la necessità dell’adeguata considerazione per il ruolo delle Pubbliche amministrazioni deriva dalla
innegabile circostanza che esse devono cogliere, sintetizzare ed interpretare i bisogni dei cittadini e la
conseguente domanda di prestazioni di utilità, anche sotto il profilo delle relative modalità, quantità e
qualità”. Più nello specifico, sembra svilito il ruolo del principio di sussidiarietà. L’A., infatti, scrive
che “molti servizi pubblici sono disciplinati dalla legge come servizi pubblici locali. E ciò accade (…)
per la loro diretta rilevanza rispetto agli interessi delle popolazioni insediate sul territorio e rispetto
allo sviluppo (benessere) delle medesime. (…) Tale persistente configurazione è dunque importante
perché testimonia il valore del principio di sussidiarietà verticale (…)”. Tuttavia alcuni recenti
interventi legislativi “fanno sorgere il dubbio che per i servizi pubblici locali la rilevanza della
sussidiarietà venga svuotata da prescrizioni superiori ed esterne, che si impongono (…) come
indicazione dettagliata (e senza alternative) delle modalità e condizioni per l’organizzazione di questi
servizi pubblici, non tenendosi dunque neppure conto dei numerosi e vari presupposti di diritto e di
fatto e cioè delle diversificate situazioni, che sono sorte nel tempo e che sono oggi presenti nei vari
contesti locali (…)”. Da ciò discende, dunque, quello che l’A. indica come uno dei problemi cruciali
nella disciplina dei servizi pubblici locali, vale a dire il mancato rispetto dei criteri di differenziazione
ed adeguatezza.
Sul tema inoltre cfr., inter alia, V. PARISIO, Europa delle autonomie locali, cit.; A. PIOGGIA, Servizi
pubblici e autonomia locale, cit.; E. PIZZETTI, Le autonomie locali e l’Europa, in Le Regioni, 2002, 5,
935; A. SCRIMALI, Il Parlamento europeo e la promozione delle autonomie locali negli Stati membri
dell’Unione europea, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2005, 5, 899. 132
Al riguardo cfr. E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., dove si legge:
“l’armonizzazione del regime dei servizi pubblici locali con il diritto europeo dei mercati pone
numerose questioni relative soprattutto ai profili organizzativi. Molti sono i problemi che il prisma
comunitario evidenzia, quali quelli relativi alla legittimità di diritti speciali ed esclusivi e alle modalità
di affidamento (…) al ruolo regolatorio del Comune (…). In tale scenario la questione maggiormente
sentita attiene oggi alla seguente opzione: quali margini di autonomia organizzativa residuano in capo
all’ente locale nella scelta delle modalità di gestione dei servizi che intende assicurare? E’ doveroso il
ricorso al mercato (c.d. esternalizzazione o outsourcing) o l’ente locale può far ricorso – e in quali
limiti – alla c.d. autoproduzione dei servizi attraverso il modello del c.d. in house providing, o a forme
istituzionali ibride, pubblico-private (la società mista), secondo un modello di partenariato pubblico
privato che la Commissione europea sembra legittimare?”. Ex multis, cfr. E. SCOTTI, Organizzazione
pubblica e mercato società miste, in house providing e partenariato pubblico privato, in Dir. amm.,
2005, 4, 915.
127
A tale ultimo riguardo rileva, innanzitutto, il distinguo, un tempo a noi sconosciuto,
tra servizi recanti rilevanza economica e servizi privi di tale rilievo134
; ma soprattutto
il susseguirsi di interventi legislativi, volti essenzialmente a chiarire “quali margini di
autonomia organizzativa residuano in capo all’ente locale nella scelta delle modalità
di gestione dei servizi che intende assicurare ai cittadini”135
. E, dunque, in questo
133
Sul punto si v. quanto affermato nel Capitolo I in riferimento al rapporto tra direttive europee e
normativa interna di recepimento. Inoltre, si ponga mente alla nota questione della “crisi dei rifiuti” in
Campania e alle sentenze di condanna per “mala gestio” adottate dalla Corte di Giustizia nei confronti
dello Stato italiano (in specie, cfr. CGCE 4 marzo 2010, Commissione europea c. Italia, C-297/08 e,
prima ancora, CGCE 26 aprile 2007, Commissione europea c. Italia, C-135/05). 134
Sul tema cfr. M. DELSIGNORE, L’ambito di applicazione, cit., dove si legge innanzitutto che la
distinzione è stata mutuata dall’allora art. 86, comma secondo, TCe dove era possibile leggere: “…”.
Ad oggi, inoltre, il medesimo distinguo appare di fondamentale importanza dopo la pronuncia C.
Cost. 27 luglio 2004 n. 272 (in Foro it., 2004, I, 2594 con note di S. BENINI, F. FRACCHIA e A.
TRAVI), dove la Consulta ha affermato la legittimità “dell’intervento del legislatore statale solo
laddove lo stesso sia riconducibile alla tutela della concorrenza, intesa come materia trasversale;
[mentre] laddove manchi la rilevanza economica la disciplina statuale recede di fronte ad una diversa
disciplina regionale”. Al contempo, l’A. non manca di evidenziare la mutevolezza di detto criterio “in
relazione all’evoluzione degli assetti, degli equilibri, della tecnologia nel singolo settore”, ecc. Per
questa ragione, tanto la Commissione europea quanto la giurisprudenza nazionale hanno più volte
sottolineato “la necessità della ricostruzione in via interpretativa della nozione di servizio pubblico
locale di rilevanza economica, mancando una disposizione normativa che ne fornisca una definizione
esaustiva. (…) così occorre verificare in concreto se l’attività da espletare presenti o meno il connotato
della redditività, anche solo in via potenziale”. Detta verifica, peraltro, prosegue l’A. diviene ancora
più imprescindibile con riguardo all’in house (come disciplinato per effetto dell’art. 23 bis d. l. 25
giugno 2008 n. 112, cfr. infra), poiché il ricorso a detta forma di gestione appare possibile “solo se il
servizio è fuori mercato o comunque in situazione di possibile fallimento del mercato”.
Ex multis, cfr. A. POLICE, Spigolature, cit. per il nesso tra “rilevanza economica” e art. 2082 c.c., dove
si rinviene una definizione di imprenditore, ed E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.; nonché F.
FRACCHIA, I servizi pubblici e la retorica della concorrenza, in Foro it., 2011, V, 106, il quale scrive:
“una volta qualificata un’attività come servizio pubblico, permane poi il problema di accertarne la
rilevanza economica, presupposto per l’applicazione della normativa statale: la sent. 325/10 della
Corte Costituzionale (…) ha cura di chiarire che spetta allo Stato definire i criteri per l’applicazione
della relativa disciplina (tali caratteri, si noti, esibirebbero un carattere oggettivo), laddove a livello
comunitario la valutazione circa la natura economica e imprenditoriale di un’attività è svolta caso per
caso”. Soluzione quest’ultima accolta anche dal Consiglio di Stato, V, 10 settembre 2010 n. 6529 in
materia di refezione scolastica, dove si legge che “occorre far ricorso ad un criterio relativistico, che
tenga conto delle peculiarità del caso concreto, quali la consueta struttura del servizio, le concrete
modalità del suo espletamento, i suoi specifici connotati economico-organizzativi, la natura del
soggetto chiamato ad espletarlo, la disciplina normativa del servizio”. 135
In questi termini E. SCOTTI, Servizi pubblici locali, cit.. Per una ricostruzione dei fattori che hanno
condotto all’emersione del problema cfr. G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali in trasformazione,
Cedam, Padova, 2010, dove si legge “il volano dell’apertura del settore dei servizi pubblici alle regole
della concorrenza è stato inizialmente la modifica di trattamento riservato alle imprese in mano
pubblica, in particolare a seguito della lettura via via più restrittiva della clausola derogatoria a favore
delle imprese richiamate dal par. 2 dell’art. 86 del Trattato Ce – imprese incaricate della gestione di
servizi di interesse economico generale – categoria nella quale rientrano le imprese pubbliche” ch
erogano i servizi pubblici. Si è trattato in ogni caso di un processo, per così dire, “a tappe” e
fortemente dipendente dal modo di intendere i servizi pubblici. In particolare – ricorda l’A. – il
“modello neo feudale” cui si era giunti nel periodo compreso tra gli anni ’70 e ’80 del novecento
“entra in collisione con la prospettiva del completamento del mercato [unico], delineata dal Libro
Bianco del 1985 (…) dunque, dalla prima metà degli anni ’80, le Istituzioni comunitarie hanno
iniziato a controllare non solo la compatibilità dell’esercizio dei diritti esclusivi con il diritto
comunitario ma la stessa ammissibilità della loro istituzione ed attribuzione. (…) Il revirement è poi
chiaramente esplicitato nella Direttiva 90/531/Cee, con la quale si estendono ai settori
128
senso ad avvicinarsi alla logica di concorrenzialità cara all’Unione europea136
. Con
l’avvertenza che in molti casi – quale, ad esempio, quello dei rifiuti – la
composizione del quadro normativo di riferimento da alcuni anni a questa parte
richiede il coordinamento, non solo tra diritto europeo e diritto interno, ma anche –
nell’ambito di quest’ultimo – tra disciplina generale (ossia quella relativa ai servizi
pubblici locali tout court intesi) e disciplina di settore, qual è quella da ultimo
positivizzata nel Codice dell’ambiente137
. Da ciò discende che la disamina del
relativo apparato normativo, cui si darà corso nelle pagine che seguono, dovrà essere
svolta avendo riguardo di ambedue i piani.
Orbene, dando inizio a tale analisi, occorre innanzitutto ribadire che in base a quanto
previsto dalla L. n. 103 del 1903 nel settore dei servizi pubblici locali si era delineata
una situazione di monopolio legale, poiché la legislazione “consentiva ai Comuni di
assumere la titolarità del servizio in esclusiva con provvedimento amministrativo di
competenza del consiglio comunale”138
. In senso analogo – si è visto – la L. n. 366
del 1941 per ciò che riguardava la gestione dei rifiuti urbani139
.
precedentemente esclusi le regole e le procedure comunitarie per l’aggiudicazione degli appalti
pubblici”. Tuttavia – si legge nel saggio citato – “la liberalizzazione dei servizi pubblici a rete ha
avuto, almeno inizialmente, effetti limitati sui servizi pubblici locali”. Tanto che alcuni importanti
servizi di pubblica utilità, come la raccolta dei rifiuti e il trasporto pubblico locale, hanno potuto
continuare ad essere organizzati dagli Stati membri in monopoli legali, più o meno estesi, ed alle
imprese che vi operavano potevano continuare ad essere attribuiti diritti esclusivi senza contrasto con
il diritto comunitario”. A ciò si aggiunga che “in alcuni casi i servizi pubblici locali sono stati
considerati al di sotto della soglia di rilevanza comunitaria in quanto la loro attività non incideva sugli
scambi tra gli Stati membri”. 136
Come osservato da C. IAIONE, Le società in-house. Contributo allo studio dei principi di auto-
organizzazione e auto-produzione degli enti locali, II ed., Jovene, Napoli, 2012 a partire dalla metà
degli anni Novanta, a livello europeo, il tema dei servizi di interesse economico generale è stato
interessato da una serie di interventi normativi e regolamentari. Innanzitutto, “in occasione
dell’approvazione del Trattato di Amsterdam è stato introdotto l’art. 16 del Trattato Ce che riconosce
il carattere fondamentale dei servizi di interesse economico generale in relazione ai valori comuni
dell’Unione europea e all’obiettivo della coesione sociale e territoriale”. Inoltre, solo nel biennio 2003
– 2004 le istituzioni hanno adottato molteplici documenti programmatici nella materia de qua.
Innanzitutto, - ricorda l’A. - nel 2003 la Commissione europea ha presentato il Libro Verde sui servizi
di interesse generale [COM(2003)270] seguito, nel 2004, dal Libro Bianco sui servizi di interesse
generale [COM(2004)374]. Sempre nel 2004, inoltre, “è stata pubblicata una Proposta di direttiva
europea relativa ai servizi nel mercato interno, cioè a tutti i servizi che costituiscono un’attività
economica ai sensi dell’art. 49 del Trattato CE” [COM(2004)2]. Infine, ancora nello stesso anno, la
Commissione ha reso pubblico il Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto
degli appalti pubblici e delle concessioni [COM(2004)327]. 137
A titolo meramente esemplificativo, si osserva che all’art. 1, primo comma, del c.d. Decreto
Ronchi era possibile leggere: “Il presente decreto disciplina la gestione dei rifiuti, dei rifiuti
pericolosi, degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggi, fatte salve le disposizioni specifiche particolari
o complementari, conformi ai principi del presente decreto, adottate in attuazione di direttive
comunitarie che disciplinano la gestione di determinate categorie di rifiuti”. 138
Così G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali, cit.. 139
Si veda quanto più diffusamente affermato nel capitolo I.
129
Simile assetto ha poi trovato sostanziale conferma nella legge sull’ordinamento delle
autonomie locali del 1990140
, con cui il legislatore ha previsto (almeno teoricamente)
una pluralità di forme di gestione dei servizi pubblici locali e ha affidato
all’autonomia di ciascun Comune e Provincia la scelta delle modalità organizzative
da adottare141
. All’art. 22, comma primo, infatti, era possibile leggere che “i Comuni
e le Province, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedano alla gestione dei
servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di bei ed attività rivolte a
realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità
locali”. Mentre al successivo comma 3 era scritto che “i Comuni e le Province
possono gestire i servizi nelle seguenti forme: a) in economia, quando per le modeste
dimensioni o per le caratteristiche del servizio non sia opportuno costituire una
istituzione o un’azienda; b) in concessione a terzi, quando sussistano ragioni
tecniche, economiche o di opportunità sociale; c) a mezzo di azienda speciale, anche
per la gestione di più servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale; d) a mezzo
di istituzione, per l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale; e) a
mezzo di società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico
locale costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio (…)”142
.
In definitiva, con la disposizione da ultimo citata, il legislatore aveva voluto sancire
una “trasformazione non traumatica del modello di impresa locale verso tipologie di
diritto comune” e, nello specifico, verso il modello della società di capitali a
prevalente capitale pubblico143
. Nei fatti, tuttavia, l’intento riformatore era frustrato
140
Il riferimento è alla L. 8 giugno 1990 n. 142. Per ciò che concerne la disciplina dei servizi pubblici
locali nel vigore della L. n. 142/1990 cfr., inter alia, M. CAMMELLI, I servizi pubblici
nell’amministrazione regionale, in Le Regioni, 1992, 1, 19; R. CAVALLO PERIN, Comuni e province
nella gestione dei servizi pubblici, cit.; E. PICOZZA, I servizi pubblici locali e le loro forme di gestione
con riguardo al regime di diritto comunitario, nazionale e regionali, in N. rass. lgg., 1995, 1005. 141
A. LOLLI – J. BERCELLI, I servizi pubblici ambientali (acqua e rifiuti) in Italia. Novità normative, in
www.ius-publicum.com, 2011. 142
Sul punto cfr. G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali, cit., il quale osserva come il legislatore del
1990 abbia “mantenuto il monopolio legale (…) senza intaccare il precedente regime giuridico della
riserva legale di attività a favore degli Enti locali”. Ed inoltre, “la normativa successivamente emanata
per alcuni settori [tra cui quello dello smaltimento dei rifiuti] indubbiamente accentuava tali
caratteristiche di potenziale transizione verso un regime concorrenziale , senza però realizzarlo, se non
parzialmente”. 143
Al riguardo, cfr. l’analisi di P. ROSSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali nell’art. 23 bis
della legge 133/2008, in G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali, cit.. Inoltre, cfr. E. SCOTTI,
Organizzazione pubblica e mercato: società miste, in house providing e partenariato pubblico
privato, cit., la quale a proposito del recente “atteggiarsi dei rapporti tra amministrazione” osserva che
“alla tradizionale separazione tra interessi pubblici e mercato (…) va infatti oggi sostituendosi una più
sottile e talvolta non chiara commistione. Lo attesta il diffondersi, anche a fronte di funzioni o compiti
pubblici, di un modelli organizzativo pensato per lo svolgimento in comune dell’impresa: la società”.
130
dalla previsione della possibilità per l’ente locale di affidare direttamente (dunque,
senza previo espletamento della gara) il servizio alla S.p.A. di cui era azionista di
maggioranza. In tal modo, infatti, non solo non si favoriva una concorrenza nel
mercato, ma neppure si realizzava una vera concorrenza per il mercato144
.
Tale disciplina valeva anche per il servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani, a
cui ha continuato ad applicarsi anche dopo il 1997, ossia quando è entrato in vigore il
decreto Ronchi145
, adottato dal legislatore italiano al fine di dare attuazione a tre
importanti direttive emanate alcuni anni prima dalle istituzioni europee146
.
Come anticipato, grazie a tale decreto per la prima volta tutti gli aspetti relativi alla
disciplina del servizio in esame hanno trovato compiuta regolamentazione all’interno
di un unico testo legislativo. Più nel dettaglio, la gestione dei rifiuti veniva
In senso fortemente critico cfr. V. DOMENICHELLI, I servizi pubblici locali tra diritto amministrativo e
diritto privato (a proposito del “nuovo” art. 113 del TUEL), in Dir. amm., 2002, 2, 311, il quale a
posteriori evidenzia: “chi pensava di risolvere i problemi dei servizi pubblici locali (inefficienza, anti-
economicità, influenza politica, ecc.), innestando il modello societario nel piccolo mondo antico delle
aziende speciali (…) si deve essere ricreduto, quanto meno sulla semplicità dell’operazione. Le
società è espressione portatrice di propri valori, non necessariamente coincidenti con quelli del diritto
amministrativo e dei soggetti che vi operano (…). Il legislatore, dapprima, ha cercato di regolare tale
impianto di diritto privato nel corpo del diritto pubblico, introducendo discipline mediatorie fra le
diverse esigenze (…)”. Tuttavia – prosegue l’A. – la scelta compiuta “non è stata chiarissima, incerta
fra il mantenimento dei servizi pubblici nell’alveo degli enti locali ancorché in veste di azionisti e la
definitiva dismissione dei servizi pubblici a vantaggio del mercato”. Sta di fatto che “l’ente locale
azionista è venuto invero a soffrire di una crisi identità, diviso fra le concrete (e consuete) esigenze e
finalità di erogare il servizio ai cittadini e quelle nuove (ma meno concrete) di accrescere il valore
della sua partecipazione societaria”.
Più in generale, sul tema dell’attività amministrativa svolta in forma societaria cfr., innanzitutto, P.
CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione, cit. e F. DE LEONARDIS,
Soggettività privata e azione amministrativa, cit.. Inoltre cfr. anche A. ANDREANI, Questioni nuove
nella recente legislazione in tema di società di capitali con partecipazione degli enti locali, in Dir.
amm., 1995, 2, 245; M. CAMMELLI, Le società a partecipazione pubblica. Comuni, Province e
Regioni, Rimini, 1989; E. CANNADA BARTOLI, Servizi pubblici locali mediante società per azioni, in
Giur. it., 1996, I, 493; F. LUCIANI, La gestione dei servizi pubblici locali mediante società per azioni,
in Dir. amm, 1995, 275; F. A. ROVERSI MONACO, Società con partecipazione minoritaria degli enti
locali e gestione dei servizi pubblici, in AA. VV., Studi in onore di Vittorio Ottaviano, Milano, 1993. 144
Al riguardo cfr. G. DI GASPARE, Servizi pubblici locali, cit., il quale scrive che “un processo di
riforma delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali che espressamente manifesti una
dichiarata preferenza per il mercato, immediatamente impone di confrontarsi con due possibili macro
modelli di introduzione di dinamiche concorrenziali: da un lato quello della concorrenza nel mercato
e dall’altro lato quello della concorrenza per il mercato. Nella sostanza - puntualizza l’A. - il
meccanismo è il seguente: quando non è possibile la concorrenza nel mercato, perché il servizio non
può essere svolto da una pluralità di operatori in competizione tra loro, deve farsi luogo alla
competizione per il mercato, nella quale più operatori si contendono la gestione di un unico servizio”. 145
Si tratta del d. lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 (G.U. 15 febbraio 1997 n. 38) che ha abrogato la
disciplina contenuta nel d.P.R. 10 settembre 1982 n. 915. Ampi riferimenti alla disciplina giuridica del
servizi di igiene urbana come disciplinato dal decreto Ronchi si rinvengono in A. VIGNERI, La
gestione dei rifiuti nel nuovo codice ambientale, in Astrid – Rassegna, 34/2006. 146
Nello specifico – e come già ricordato nel capitolo I - si tratta di due direttive del 1991 in tema di
rifiuti (direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 156, 91/156/Cee e direttiva del Consiglio 12 dicembre
1991 n. 689, 91/689/Cee) e di una direttiva del 1994 relativa agli imballaggi e ai rifiuti di imballaggi
(direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 dicembre 1994 n. 62, 94/62/Ce).
131
qualificata, secondo tradizione, come “attività di pubblico interesse” (art. 2) e per
tale si intendeva “la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti,
compreso il controllo di queste operazioni nonché il controllo delle discariche e
degli impianti di smaltimento dopo la chiusura” (art. 3)147
.
Inoltre, se dal punto di vista delle forme di gestione del servizio il decreto Ronchi
non innovava rispetto alla disciplina generale, poiché lo stesso compiva ampi rinvii
alla sopra menzionata Legge di riordino delle autonomie locali, soluzioni del tutto
peculiari venivano imposte con riguardo al profilo organizzativo.
La grande novità del decreto Ronchi, infatti, “era rappresentata dall’obbligo imposto
ai Comuni di organizzare dett[o] servizi[o] non più isolatamente l’uno dall’altro, ma
mediante forme di cooperazione di area vasta, di dimensione sovra-comunale”148
. Più
nel dettaglio, al fine di assicurare una gestione maggiormente rispondente ai principi
dell’efficienza e dell’economicità, l’art. 23 del decreto Ronchi aveva previsto che “la
gestione dei rifiuti urbani [venisse] attuata secondo ambiti territoriali ottimali (ATO)
[corrispondenti alle Province, e] finalizzati al superamento della frammentazione
delle gestioni e alla razionalizzazione dimensionale delle medesime”149
.
Come presumibile, tale assetto organizzativo recava dei riflessi anche per ciò che
concerne il riparto di competenze. Ed, infatti, i sensi dell’art. 18 del decreto Ronchi,
allo Stato spettavano “funzioni di indirizzo e coordinamento” e alle Regioni – in virtù
del successivo articolo 19 - “la predisposizione, l’adozione e l’aggiornamento,
sentiti Province e Comuni, dei piani regionali di gestione dei rifiuti di cui all’art. 22”
(lett. a), nonché “la regolamentazione delle attività di gestione dei rifiuti, ivi
compresa la raccolta differenziata dei rifiuti urbani (…)” (lett. b). Da ultimo, i
Comuni “effettuano la gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo
147
Al riguardo, cfr. C. IAIONE, Le società in house, cit., il quale scrive: “il fulcro della normativa non
risiede più nello smaltimento dei rifiuti, bensì nella loro gestione. Nell’ambito del nuovo contesto
normativo lo smaltimento dei rifiuti diventa, infatti, una fase residuale delle loro gestione la quale si
compone di quattro distinti momenti principale (…). La raccolta, il trasporto, il recupero e lo
smaltimento diventano, così, fasi della gestione e non più fasi dello smaltimento, come avveniva con
il d.P.R. n. 915/1982 (…)”. 148
A. LOLLI – J. BERCELLI, I servizi pubblici ambientali (acqua e rifiuti), in Italia. Novità normative,
cit.. 149
Così C. IAIONE, Le società in house, cit.. All’art. 23, comma primo, d. lgs. n. 22/1997, infatti, era
possibile leggere che “salvo diversa disposizione stabilita con legge regionale, gli ambiti territoriali
ottimali per la gestione dei rifiuti urbani sono le Province. In tali ambiti territoriali ottimali le Province
assicurano una gestione unitaria dei rifiuti urbani e predispongono piani di gestione dei rifiuti, sentiti i
Comuni, in applicazione degli indirizzi e delle prescrizioni del presente decreto”. Ex multis, cfr. A.
PIETROBON, Problemi ed interessi sull’ambito ottimale del servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani,
in AA. VV., Interessi pubblici nella disciplina delle public companies, enti privatizzati e controlli,
Giuffré, Milano, 2000; C. SAN MAURO, Il servizio pubblico locale: strumenti, organizzazione,
gestione, Cedam, Padova, 2003.
132
smaltimento in regime di privativa nelle forme di cui alla legge 8 giugno 1990 n. 142
e dell’art. 23” (art. 21, comma primo). Inoltre gli stessi “disciplinano la gestione dei
rifiuti urbani con appositi regolamenti che, nel rispetto dei principi di efficienza,
efficacia ed economicità, stabiliscono in particolare: a) le disposizioni per
assicurare la tutela igienico-sanitaria in tutte le fasi della gestione dei rifiuti urbani;
[e] b) le modalità del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani (…)”.
Parte della dottrina, dunque, ha osservato come con riguardo alle competenze il d.
lgs. n. 22 del1997 abbia tentato di “incoraggiare un approccio globale alla questione
rifiuti che si riveli in grado di realizzare un forte coinvolgimento degli enti locali”150
,
in primis dei Comuni. E’ a questi ultimi, infatti, che in base al decreto Ronchi
spettava la titolarità del servizio, venendosi così a configurare – secondo taluno - di
fatto “un monopolio legale in favore degli stessi soggetti pubblici”151
.
Tornando ad assumere un punto di vista più generale, occorre osservare come la
situazione di tendenziale chiusura verso una concorrenza effettiva non sia mutata
neanche con l’entrata in vigore del d. lgs. 18 agosto 2000 n. 267, meglio noto come
Testo Unico degli Enti locali152
che, nella versione originaria, non solo recepiva de
plano (all’art. 112) la “classica” definizione di servizio pubblico locale, ma neppure
innovava in punto di disciplina per quel che concerne l’organizzazione153
.
150
In tal senso cfr. C. IAIONE, Le società in house, cit., nonché R. GUBELLO, La riforma dei servizi
pubblici locali – Art. 35 L. 28 dicembre 2001 n. 448 (legge finanziaria 2002), in Nuove leggi civ., n.
1-2/2003. 151
Così C. IAIONE, Le società in house, cit. e R. GUBELLO, La riforma dei servizi pubblici locali, cit..
Gli AA. tuttavia non mancano di evidenziare come il profilo della titolarità debba essere distinto da
quello della materiale erogazione dello stesso. Infatti, mentre la prima compete “sempre ed
esclusivamente al Comune, (…) la seconda può essere attuata nei modi fissati dall’art. 113 del d. lgs.
n. 267/2000”. Ciò significa che “il Comune rimane il solo ed unico responsabile dello svolgimento del
servizio pubblico nei confronti della collettività di riferimento. Al soggetto erogatore, quando diverso
dalla Pubblica Amministrazione, spetta invece il compito di effettuare le operazioni materiali di
erogazione del servizio nelle forme e secondo le modalità stabilite dalla legge (…)”.
In giurisprudenza cfr., inter alia, Cons Stato, V, 19 febbraio 2004, n. 679, che ha ritenuto legittimo, ai
sensi dell’art. 113, comma quinto, lett. c) d. lgs. n. 267/2000, “l’affidamento diretto dell’erogazione
del servizio di igiene urbana, conferito a società a capitale interamente pubblico partecipata da due
Comuni e da una società a capitale totalmente pubblico” (per un commento cfr. F. PIETROSANTI,
Sull’affidamento diretto dell’erogazione di un servizio pubblico locale, in Foro it., 2004, 4, III, 193). 152
Per tutti cfr. R. CAVALLO PERIN – A. ROMANO (a cura di), Commentario breve al testo unico sulle
autonomie locali, Cedam, Padova, 2006. 153
D’altra parte, va anche detto che – secondo quanto evidenziato da parte della dottrina (G.
PIPERATA, I servizi pubblici locali, in www.astridonline.it, 2004) – l’intento del legislatore di dettare
una disciplina “omnicomprensiva” risultava di fatto frustrato dalla presenza di molteplici discipline di
settore, quale ad esempio quella relativa ai rifiuti.
133
Simile assetto è stato dapprima censurato dalla Commissione europea, che nel 2000
ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano154
, e poi
riformato in chiave (asseritamente) pro-concorrenziale dal legislatore nazionale con
l’art. 35 della L. 28 dicembre 2001 n. 448155
(senza, tuttavia, riuscire a tacitare i
rilievi critici avanzati dalle istituzioni europee156
). In particolare, quest’ultimo venne
definito da parte della dottrina un “terremoto”157
, nella misura in cui ha riscritto
l’(allora) art. 113 TUEL introducendo disposizioni delle quali si percepiva “la portata
dirompente sugli assetti (…) dei servizi pubblici locali e sulle linee di evoluzione [al
tempo] in atto. (…) Proprietà esclusiva delle reti e degli impianti in capo agli enti
locali e principio della concorrenza nella scelta del gestore del servizio [erano] i due
cardini della riforma”158
, che tuttavia – forse anche a causa dei numerosi punti critici
che la caratterizzavano159
- non raggiunse i risultati sperati160
.
154
La procedura ha avuto inizio con la lettera di messa in mora dell’8 novembre 2000 [n. SG (2000)
D/108243] e aveva specifico riguardo alla disciplina di cui all’art. 22 L. n. 142/1990 il cui contenuto
era poi stata trasfuso nel successivo TUEL adottato nel 2000. 155
Si trattava di un articolo inserito nella Legge finanziaria per il 2002 e rubricato “Norme per la
gestione dei servizi pubblici locali”. Per un commento allo stesso cfr., innanzitutto, A. TRAVI, La
riforma dei servizi pubblici locali (art. 35 L. 28 dicembre 2001 n. 448), in Nuove leggi civ., 2003, 3 e
ss.; nonché, inter alia, L. BENVENUTI, Discrezionalità amministrativa e gestione dei servizi pubblici
locali, in Dir. reg., 2002, 2331; V. DOMENICHELLI, I servizi pubblici locali tra diritto amministrativo e
diritto privato, cit; M. DUGATO, I servizi pubblici degli enti locali, in Giorn. dir. amm., 2002, 2, 218;
R. GUBELLO, La riforma dei servizi pubblici locali, cit.; M. SINISI, La tutela della concorrenza
nell’affidamento del servizio e nella scelta del partner privato ai sensi dell’art. 35, l. n. 448 del 2001,
in Foro amm. – Tar, 2003, 2015. Inoltre cfr. L. R. PERFETTI, I servizi pubblici locali. La riforma del
settore operata dall’art. 35 della L. 448/2001 ed i possibili profili evolutivi, in Dir. amm., 2002, 4,
575 che scrive: “si tratta di un intervento di riforma che, già dalla constatazione della sede prescelta
(la legge finanziaria), denuncia un intento occasionale. Chi guardi ai lavori parlamentari ed
all’insieme del tessuto normativo, troverà a stento l’intenzione di un disegno razionale di riforma ed,
anzi, la sensazione complessiva è quella di una disciplina affrettata, incompleta (…). E’, quindi
seriamente da dubitarsi che (…) si sia innanzi ad un disegno coerente ed omogeneo”. Lo stesso A.,
peraltro, non manca di evidenziare come l’art. 35 recasse i germi di una vera liberalizzazione, benché
gli stessi fossero stati “maldestramente” celati dal legislatore. Si legge, infatti, che “per quel che
emerge dall’art. 35, L. n. 448 del 2001, lo svolgimento dell’attività di pubblico servizio locale è libera
ed è svolta in regime di autorizzazione dai soggetti titolari di reti private ovvero in forza
dell’aggiudicazione della gara ad evidenza pubblica per l’ottenimento del diritto ad utilizzare, in
esclusiva (parziale o totale), le dotazioni di proprietà di un soggetto pubblico o di un’impresa
pubblica. E’ questa l novità più significativa (…) Si ritiene ragionevolmente di poter argomentare che
l’attività di servizio pubblico locale venga svolta secondo il regime di cui all’art. 41, comma 3, Cost.”.
Di conseguenza – conclude l’A. – “credei si possa dire che l’art. 35, L. 448 n. 2001 delinea un
modello ampiamente oggettivista” giacché “è il mercato a prestare il servizio pubblico e nessuna
riserva monopolista è posta a vantaggio dell’ente pubblico”. 156
Si ricorda, infatti, che con nota del 26 giugno 2002 la Commissione europea avviava una procedura
di infrazione nei riguardi dello Stato italiano, contestando a quest’ultimo di non aver assicurato – con
l’adozione dell’art. 35 L. 448/2001 - la piena concorrenza nel settore dei servizi pubblici. 157
Così V. DOMENICHELLI, I servizi pubblici locali tra diritto amministrativo e diritto privato, cit.. 158
In questo senso V. DOMENICHELLI, I servizi pubblici locali tra diritto amministrativo e diritto
privato, cit.. Ex multis, cfr. C. IAIONE, Le società in-house, cit., il quale sottolinea che l’art. 35
“stabiliva il principio del conferimento della titolarità del servizio a società di capitali individuate
attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica, quale unica modalità di
erogazione del servizio da svolgere in regime di concorrenza (per il mercato)”.
134
Anche per questa ragione, nel 2003 il legislatore è intervenuto nuovamente nella
materia de qua con il d. l. 30 settembre 2003 n. 269161
, il cui art. 14 è andato a
modificare nuovamente il disposto dell’art. 113 TUEL. In particolare, oltre a
introdurre il distinguo tra servizi di rilevanza economica e servizi privi di detta
In giurisprudenza cfr., inter alia, Cons. Stato, V, 16 marzo 2005 n. 1074 con cui i giudici di Palazzo
Spada hanno affermato l’illegittimità dell’affidamento diretto a società partecipata del servizio di
raccolta e trasporto dei rifiuti urbani che avvenga senza il previo espletamento di una procedura ad
evidenza pubblica, atteso che – secondo la sezione – non può dubitarsi del carattere industriale del
servizio de quo alla luce “della rilevante organizzazione di uomini e mezzi e dell’impiego di capitale
che esso richiede, nonché della complessità del processo di gestione e trattamento dei rifiuti”.
Inoltre cfr. anche Cons. Stato, V, 6 giugno 2003 n. 2380; TAR Lombardia, III, 8 aprile 2003 n. 994;
TAR Lombardia, III, 29 agosto 2001 n. 5163. 159
Al riguardo cfr. L. R. PERFETTI, I servizi pubblici locali, cit., il quale tra “le principali deficienze
della disciplina” ha indicato: a) “il problema della compatibilità con il diritto comunitario e i dubbi di
legittimità del rinvio al regolamento”; b) l’insufficienza degli strumenti regolatori, quali la gara,
l’autorizzazione per l’esercizio dell’attività e il contratto di servizio; c) il rischio di conflitti tra più
livelli di governo; d) il fatto che il legislatore avesse dettato una disciplina speciale per le società
quotate; ma soprattutto e) “la scarsissima considerazione dei diritti dei cittadini quanto alla disciplina
dei servizi pubblici locali. Poiché si è convinti del fatto che i servizi pubblici siano funzionali alla
protezione ed al pieno godimento dei diritti, non si può trascurare come, invece, il legislatore
nazionale abbia del tutto ignorato la sostanza ed il contenuto del pubblico servizio per concentrarsi
solamente sui profili di carattere organizzativo”. 160
Come ricorda P. ROSSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali, cit., sulla scia del mai
approvato d.d.l. Vigneri, la ratio della riforma “era costituita dall’auspicato superamento del sistema
monopolistico degli affidamenti diretti alle società miste nell’ottica di un’apertura dei servizi locali
quantomeno ad una concorrenza per il mercato (…)”. Essa “aveva l’indubbio merito di fondare la
disciplina dei servizi pubblici locali sul principio della tutela della concorrenza, imponendo, al
contempo, un riposizionamento ai poteri locali, chiamati ad assolvere non più al ruolo di gestore del
servizio, bensì di autorità di regolazione, indirizzo e vigilanza. (…) Tuttavia, il modello competitivo
privilegiato dal legislatore era, come si è detto, quello della concorrenza per il mercato: le imprese
competono non direttamente sul mercato, bensì per ottenere dall’ente locale l’affidamento di un
servizio avente le caratteristiche del monopolio naturale. Peraltro (…) il nuovo regime continuava a
consentire numerose ipotesi di affidamento diretto” e “l’ampiezza delle deroghe faceva riemergere
una prospettiva di lunga sopravvivenza per il regime di affidamento diretto che in principio si
dichiarava di voler superare. Il che aveva (…) anche indotto la Commissione UE ad estendere la
procedura d’infrazione già attivata in relazione al regime previgente anche all’art. 35”. 161
D. l. 30 settembre 2003, conv. con modificazioni nella L. 24 novembre 2003 n. 326 e recante
“Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”.
Al riguardo, cfr. L. DE LUCIA, Le funzioni di Province e Comuni nella Costituzione, in Riv. trim. dir.
pubbl., 2005, 1, 23; M. DUGATO, La disciplina dei servizi pubblici locali, in Giorn. dir. amm., 2004, 1,
121 e ss.. Inoltre, cfr. anche L. AMMANNATI, Sulla inattualità della concorrenza nei servizi pubblici
locali, in Giorn. dir. amm., 2004, 8, 906; F. MERUSI, Cent’anni di municipalizzazione: dal monopolio
alla ricerca della concorrenza, in Dir. amm., 2004, 1, 49; G. NAPOLITANO, Dieci anni di riforme
amministrative. I servizi pubblici, in Giorn. dir. amm., 2004, 7, 804; S. VARONE, Servizi pubblici e
concorrenza, Giappichelli, Torino, 2004; nonché C. IAIONE, Le società in-house, cit., il quale a
proposito delle ragioni che indussero il legislatore italiano ad operare una nuova riforma, osserva che
con l’art. 14 d.l. 269/2003 “il legislatore ha inteso adeguare la normativa interna sui servizi pubblici
locali alle norme dettate dal Trattato CE in materia di servizi di interesse generale . Ciò al fine di
indurre la Commissione europea a non dar seguito al procedimento di infrazione comunitaria
preannunciato nei confronti dell’Italia con la lettera di formale messa in mora del 26 giugno 2002
[Nota della Commissione europea, 26 giugno 2002, n. C(2002)2329 in
www.dirittodeiservizipubblici.it].
135
rilevanza162
, il decreto ha inciso sensibilmente in ordine alla disciplina giuridica dei
servizi pubblici locali, benché non nella direzione di una vera apertura alla
concorrenza quanto piuttosto in quella di una “controriforma”. Come osservato da
parte della dottrina, infatti, il citato art. 14 ha “non solo rivitalizzato l’originario
schema dell’affidamento diretto a società mista, ma [ha] anche introdotto
l’affidamento in house”163
, così come interpretato dalla Corte di Giustizia nella
celeberrima sentenza Teckal164
. E ciò nei fatti si è tradotto “nel sostanziale
depotenziamento del principio della gara, che non costituiva più la via obbligata per
l’affidamento del servizio, ma diventava soltanto una delle possibili soluzioni
organizzative a disposizione dell’Ente locale”165
.
In quella occasione, infatti, il comma quinto dell’art.113 del TUEL è stato
interamente riscritto ed è stata prevista una triplice alternativa per ciò che concerne la
gestione del servizio, ammettendosi che lo stesso potesse essere affidato: “a) a
società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad
evidenza pubblica; b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio
privato venga scelto attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza
pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in
materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità
competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche; c) a società a capitale
162
All’art. 14 lett. a), infatti, si leggeva: “nella rubrica le parole “rilevanza industriale” sono sostituite
dalle seguenti: “di rilevanza economica”. Detto distinguo è dunque andato sostituire quello tra servizi
aventi rilevanza industriale e servizi privi di tale rilevanza. 163
Così P. ROSSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali, cit.. 164
Si tratta della sentenza CGCE 18 novembre 1999, Teckal, C-107/98, per un commento alla quale
cfr., inter alia, G. GRECO, Gli affidamenti “in house” di servizi e forniture, le concessioni di pubblico
servizio e il principio della gara, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2000, 6, 1416; R. IANNOTTA, Nota a
Corte di Giustizia – 18 novembre 1999 (Causa C. 107/98), in Foro amm., 2001, 4, 309 .
Con riferimento a quello che ai più è parso essere un recepimento de plano, cfr. in senso critico F.
CINTIOLI, I servizi pubblici locali tra perentoria privatizzazione e incerta liberalizzazione. Note
sull’art. 23 bis, in www.giustamm.it, 2009, dove si legge: “il punto più censurabile (…) sta nel fatto
che, recependo in norma di legge una decisione della Corte di Giustizia riferibile ad una fattispecie
peculiare e perciò non assumibile a paradigma (il notissimo caso Teckal), si è visibilmente
compromesso il giusto equilibrio degli interessi in gioco. Con questo atipico affidamento diretto (ad
una società di veste privata, ma costituente articolazione dell’ente pubblico), l’ente locale mantiene sì
il potere di gestione, ma lo esercita in forme tali da non assumere la responsabilità politica che
dovrebbe conseguirne e da eludere troppo spesso quei vincoli di attuazione dell’imparzialità e del
buon andamento che presidiano l’azione amministrativa”. 165
In tal senso P. ROSSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali, cit.. Del pari cfr. F. CINTIOLI, I
servizi pubblici locali tra perentoria privatizzazione e incerta liberalizzazione, cit., il quale scrive:
“avendo lasciato agli enti locali la possibilità di scegliere, per i servizi di rilevanza economica, tra
l’affidamento a privati mediante gara, l’affidamento diretto a società mista a capitale pubblico-privato
e l’affidamento diretto a società in house, si sono create le premesse perché anche la concorrenza per
il mercato restasse pressoché una formula vuota. (…) Tale equiparazione (insieme ad una disciplina
transitoria che ha favorito fenomeni di cristallizzazione delle situazioni preesistenti), ha
sostanzialmente reso possibile l’azzeramento di ogni prospettiva di liberalizzazione nel settore”.
136
interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale
sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri
servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con
l'ente o gli enti pubblici che la controllano”.
Le tre modalità gestionali, dunque, venivano poste dal legislatore del 2003 “sullo
stesso piano”, essendo la scelta rimessa all’ente locale “in relazione alla maggiore
adeguatezza nei casi di specie”166
. Tuttavia le stesse sono tra di loro alquanto diverse.
Infatti, la prima “si basa su di un meccanismo di concorrenza per il mercato,
incentrato su di una procedura concorsuale di selezione del gestore e finalizzato
all’esternalizzazione del servizio ed alla parziale liberalizzazione del mercato di
riferimento”167
; la seconda implica una partnership tra soggetti pubblici e operatori
privati; ed, infine, l’ultima – c.d. in house - sottende “la volontà di interiorizzare il
servizio, in quanto consiste nell’affidamento diretto dell’attività di erogazione ad un
soggetto societario con capitale interamente di origine pubblica e legato agli enti di
riferimento da un rapporto di delegazione interorganica”168
.
Indubbiamente, delle tre soluzioni, è quella descritta da ultimo che ha suscitato
maggiori interrogativi finendo per porsi al centro del dibattito, sia dottrinario169
che
166
In tal senso G. CAIA, I servizi pubblici locali di rilevanza economica, cit., il quale precisa che
“ovviamente, la scelta doveva avvenire sulla base dei principi generali, da tempo elaborati dalla
giurisprudenza: necessità di preliminare di una relazione che confronti i risultati economici
prevedibilmente derivanti dalle varie possibili forme di gestione tenendosi conto della qualità del
servizio erogato e del diverso grado di efficienza nello svolgimento attraverso l’uno e l’altro
strumento, mediante un calcolo dettagliato dei costi e benefici di ciascuno di essi (Cons. Stato, sez.
VI, 12 marzo 1990 n. 374). 167
Così G. PIPERATA, (voce) Servizi pubblici locali, in S. CASSESE ( a cura di), Dizionario di diritto
pubblico, Giuffrè, Milano, 2006. 168
In questo senso cfr. G. PIPERATA, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 169
Nella vastità dei contributi offerti dalla dottrina al tema dell’in house si segnalano, senza pretesa
alcuna di esaustività: D. CASALINI, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house,
Jovene, Napoli, 2003; R. CAVALLO PERIN – D. CASALINI, L’in house providing: un’impresa
dimezzata, in Dir. amm., 2006, 1, 51; M. CAPANTINI, Contratto di servizio e affidamenti in house, in
Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2004, 4, 801; A. CLARIZIA, La Corte suona il de profundis per l’in-house,
in www.giustamm.it, 2005; G. GRECO, Imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, affidamenti
in house: ampliamento o limitazione della concorrenza?, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2005, 1, 61;
C. IAIONE; Le società in house, cit.; ID., Gli equilibri instabili dell’in house providing fra principio di
auto-organizzazione e tutela della concorrenza. Evoluzione o involuzione della giurisprudenza
comunitaria?, in Giust. civ., 2006, 1, 12; A. MASSERA, L’“in house providing”: una questione da
definire, in Giorn. dir. amm., 2004, 8; 849; G. MARCHEGIANI, Alcune considerazioni in tema di diritto
comunitario concernente le concessioni e i cd “affidamenti in house”, in Foro it., 2004, 4, I, 945; ID.
Gli affidamenti in house e la sindrome del cavallo a dondolo. Sentenze a confronto, in
www.giustamm.it, 2004; M. MAZZAMUTO, Brevi note su normativa comunitaria e in house providing,
in Dir. un. eur., 2001, 2-3. 337; G. MONTEDORO, Mercato e potere amministrativo, cit., pp. 147 e ss.;
E. SCOTTI, Organizzazione pubblica e mercato: società miste, in house providing e partenariato
pubblico privato, cit.; ID., Le società miste tra in house providing e partenariato pubblico privato:
osservazioni a margine di una recente pronuncia della Corte di Giustizia, in Foro amm. CdS, 2005, 3,
666; R. URSI, Brevi osservazioni sui presupposti dell’approvvigionamento “in house” di servizi
137
giurisprudenziale170
. Non fosse altro perché il ricorso all’in house, ossia “il fatto che
un ente pubblico partecipi o controlli il soggetto incaricato dell’esecuzione di un
contratto di appalto, ovvero preposto alla gestione del servizio, priva quest’ultimo
della sua autonomia”171
e finisce per risolversi nel ricorso ad un sistema di
autoproduzione e, dunque – almeno prima facie - in una sostanziale chiusura nei
confronti del mercato.
Senza entrare funditus nell’esame dell’istituto, sia sufficiente osservare che la
fattispecie - plasmata principalmente dalla Corte di Giustizia172
– si fonda sul c.d.
pubblici locali alla luce del nuovo testo dell’art. 113, 5 comma, lett. c), del testo unico sugli enti
locali, in Foro it., 2004, III, 193; ID., Le società per la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza
economica tra outsourcing e in house providing, in Dir. amm., 2005, 1, 179. 170
Al riguardo, parte della dottrina (C. IAIONE, Le società in-house, cit.), evidenzia come l’attenzione
della giurisprudenza amministrativa italiana si sia appuntata principalmente sul requisito del
“controllo analogo”, assumendo – quanto meno agli inizi – un atteggiamento più flessibile di quello
della Corte di Giustizia. “Il dibattito giurisprudenziale interno si è incentrato sulla sufficienza o meno
del controllo societario (e dei diversi strumenti ad esso funzionali) esercitabile dall’ente locale sulle
società in house”, dovendosi tuttavia distinguere “le decisioni nelle quali il giudice amministrativo è
stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’affidamento diretto a società unicomunali (…) da
quelle nelle quali la fattispecie aveva ad oggetto l’affidamento diretto del servizio a società multi
comunali (…)”. Infatti, mentre nel primo caso i giudici sono stati chiamati a pronunciarsi sulla
“sufficienza degli ordinari strumenti di diritto societario per la sussistenza di una relazione in house”,
nel secondo caso “si tratta di stabilire se il controllo analogo sulla società partecipata da più enti locali
debba [necessari mento] essere congiunto (…)”. Tra le sentenza del primo gruppo cfr. inter alia Cons.
Stato V, 18 settembre 2003 n. 5316 nonché Cons. Stato, V, 3 febbraio 2005 n. 272, che ha ritenuto le
società unicomunali a prevalente capitale pubblico consistere in moduli organizzativi “altrenativ[i]
alle aziende specializzate costituite dagli enti locali”. Invece, rientrano nel secondo gruppo ad esempio
Cons. Stato, V, 6 maggio 2002 n. 2418 (rispetto alla quale cfr. G. CAIA, La società a prevalente
capitale pubblico come formula organizzativa di cooperazione tra Comuni, in Foro amm. CdS, 2002,
5, 1232); Cons. Stato, V, 25 giugno 2002 n. 3448; Cons. Stato, V, 6 febbraio 2003 n. 637; Cons. Stato,
V, 19 febbraio 2004 n. 679 (in ordine alla quale cfr. L. R. PERFETTI, L’affidamento diretto di servizi
pubblici locali a società partecipate dai Comuni, tra amministrazione indiretta e privilegi extra
legem, in Foro amm. CdS, 2004, 9, 1160). 171
In questi termini C. IAIONE, Le società in-house, cit.. 172
Al riguardo, le prime pronunce della Corte di Giustizia in tema di in house risalgono alla fine degli
anni Novanta del secolo scorso. Si tratta, nello specifico, di CGCE 10 novembre 1998, BFI Holding
BY c. Gemente Arnhem e a., C-360/96; CGCE 9 settembre 1999, RI.SAN c. Comune di Ischia, C-
108/98 e, soprattutto, di CGCE 18 novembre 1999, Teckal c. Comune di Viano, C-107/98, vera pietra
miliare in materia poiché in tale occasione la Corte ha “coniato” la massima in base alla quale
“l’applicazione delle direttive comunitarie [in materia di evidenza pubblica] può essere esclusa nel
caso in cui l’ente locale eserciti sul soggetto un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi
e realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti locali che la controllano”.
Nel 2003, tuttavia, in occasione del caso Commissione europea c. Regno di Spagna (CGCE 8 maggio
2003, C-349/97) la Corte è sembrata voler correggere il “tiro” allorché ha ritenuto integrati “gli
elementi strutturali del rapporto di delegazione organica, anche se parti del rapporto erano, da un lato,
enti territoriali e, dall’altro, un organismo tecnico di derivazione statale. In altri termini non si è
ritenuto necessario verificare l’esistenza di un vero e proprio controllo gerarchico” (C. IAIONE, Le
società in-house, cit.). Il 2005, poi, ha segnato l’avvio di una nuova stagione in tema di in house,
poiché a partire da CGCE 11 gennaio 2005, Stadt Halle, C-26/03 i giudici di Lussemburgo hanno dato
vita ad un orientale mento piuttosto restrittivo, affermando che “la relazione in house non può
sussistere tra enti locali e società dai medesimi controllate ove si tratti di società il cui capitale sia
detenuto anche da soggetti privati”. Soluzione quest’ultima ribadita anche in CGCE 10 novembre
2005 Commissione europea c. Repubblica d’Austria, C-29/04 e in CGCE 18 gennaio 2007, Jean
Auroux c. Commune de Roanne, C-220/05, nonché nell’ipotesi di società solo “potenzialmente mista”
138
rapporto di delegazione interorganica173
il quale, a sua volta, si configura quando a)
l’ente pubblico esercita sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui
propri servizi interni e b) la società realizza la parte più importante della propria
attività con l’ente pubblico che la controlla. La stessa, inoltre, secondo quella dottrina
intenta a valorizzare (ancorché non indiscriminatamente174
) la scelta per
l’autoproduzione dei servizi pubblici, “trova fondamento nel principio di auto-
(cfr. CGCE 21 luglio 2005, Co,na.me c. Comune di Cingia dé Botti e Padania Acque SpA, C-231/03).
Con la pronuncia CGCE 13 ottobre 2005 Parking Brixen Gmbh, C-458/03, infine, la giurisprudenza
della Corte nella materia de qua ha preso un nuovo corso, atteso che l’attenzione dei giudici si è
appuntata prioritariamente “sulle condizioni e i limiti di utilizzo delle c.d. società in house in senso
stretto, cioè delle società a totale partecipazione pubblica locale”. Nell’ambito di questo nuovo filone
si segnalano anche: CGCE 6 aprile 2006, Anav c. Comune di Bari e a., C-410/04; CGCE 11 maggio
2006, Carbotermo SpA e a. c. Comune di Busto Arsizio, C-340/04, CGCE 19 aprile 2007, Trasga, C-
295/05.
In dottrina, per un esame della giurisprudenza europea cfr. inter alia D. CASALINI, Appalti pubblici e
organizzazione in house: un caso spagnolo, in Foro amm. CdS, 2003, 12, 3544; C. E. GALLO,
Disciplina e gestione dei servizi pubblici economici: il quadro comunitario e nazionale nella più
recente giurisprudenza, in Dir. amm., 2005, 2, 351; G. GRECO, Gli affidamenti in house di servizi e
forniture, le concessioni di pubblico servizio e il principio della gara, cit.; A. MASSERA, L’in house
providing, cit.; L. R. PERFETTI, Pubblico servizio, capacità di diritto privato e tutela della
concorrenza. Il caso del facility management, in Riv. it. dir. pubb. comunit., 2002, 1, 177. Con
specifico riguardo al caso Stadt Halle cfr. innanzitutto E. SCOTTI, Le società miste tra in house
providing e partenariato pubblico privato: osservazioni a margine di una recente pronuncia della
Corte di Giustizia, cit.; nonché A. CLARIZIA, Il privato inquina: gli affidamenti in house solo a società
a totale partecipazione pubblica, in www.giustamm.it, 2005; R. DE NISCOLIS, La Corte si pronuncia
in tema di tutela nella trattativa privata, negli affidamenti in house e a società miste, in Urb. app.
2005, 2, 295. Con riguardo al caso Parking Brixen cfr. A. CLARIZIA, La Corte suona il de profundis,
cit; A. COLAVECCHIO, Gli affidamenti in house a “future” società miste, in www.giutamm.it, 2005; F.
GOISIS, I giudici comunitari negano la “neutralità” delle società di capitali (anche se) in mano
pubblica totalitaria e mettono in crisi l’affidamento in house di servizi pubblici locali, in Riv. it. dir.
pubbl. comunit., 2005, 6, 1912; G. F. FERRARI, Parking Brixen: Teckal da totem a tabù, in Dir. pubbl.
comp. eur., 2006, 1, 271; G. PIPERATA, L’affidamento in house nella giurisprudenza del giudice
comunitario, in Giorn. dir. amm., 2006, 2, 133; R. URSI, La Corte di Giustizia stabilisce i requisiti del
controllo sulle società “in house”, in Foro it., 2006, 2, 79. 173
L’espressione è stata utilizzata per la prima volta dall’Avvocato generale A. La Pergola nelle
conclusioni presentate il 19 febbraio 1998, nella causa BFI Holding BV c. Gemeente Arnhem e a., C-
360/96 ed è stata successivamente ripresa dall’Avvocato generale G. Cosmos nelle conclusioni
presentate il 1 luglio 1999 in relazione al più noto caso Teckal srl c. Comune di Viano, C-107/98, dove
si legge: “se un Comune, nel quadro di una migliore organizzazione interna dei prorpi servizi, ha
affidato la fornitura ad uno dei propri uffici di uno di tali servizi, questo significherebbe che ci si trova
di fronte ad una forma di delegazione interorganica che non fuoriesce dalla sua sfera amministrativa”.
Sul punto, in dottrina, cfr. C. IAIONE, Società in house, cit., “la delega interorganica in quanto esclude
la terzietà fra i soggetti del rapporto in house apre un varco alla possibilità di procedere con
affidamento diretto. Pertanto il rapporto che si viene a instaurare si configura in termini di relazione
organizzativa fra soggetti appartenenti entrambi alla sfera amministrativa”, vale a dire come una
vicenda “interna alla PA” (M. MAZZAMUTO, Brevi note, cit.). 174
Inter alia, si sono interrogati sui limiti cui deve soggiacere il ricorso all’autoproduzione,
rinvenendoli di volta in volta nel principio di proporzionalità, in quello di sussidiarietà orizzontale o
nella necessità di un’efficace allocazione delle risorse: R. CAVALLO PERIN, I principi come disciplina
giuridica del pubblico servizio fra ordinamento interno e ordinamento costituzionale, cit.; L. DE
LUCIA, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità, Giappichelli, Torino, 2002; G.
GRECO, Imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, affidamenti in house, cit.; A. PERICU,
Impresa e obblighi di servizio pubblico, Giuffrè, Milano, 2001; S. VARONE, Servizi pubblici e
concorrenza, cit.; G. F. FERRARI, Servizi pubblici locali ed interpretazione restrittiva delle deroghe
alla disciplina dell’aggiudicazione concorrenziale, in Dir. pubbl. comp. eur., 2005, 3, 837.
139
organizzazione amministrativa” degli enti locali, il quale sembrerebbe vantare anche
un ancoraggio a livello europeo e segnatamente nel principio di autonomia
istituzionale175
.
La disciplina poc’anzi descritta ha trovato applicazione anche nei riguardi del
servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani, atteso che il Codice (o Testo Unico)
dell’ambiente (d. lgs. n. 152 del 2006176
) quanto alle modalità di gestione del servizio
compiva (e compie tuttora) un rinvio alle norme contenute nel TUEL177
.
Segnatamente, all’art. 202 era possibile leggere che “l'Autorità d'ambito aggiudica il
servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani mediante gara disciplinata dai principi
e dalle disposizioni comunitarie, in conformità ai criteri di cui all'articolo 113,
comma 7, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (…)”, dunque non
escludendo affatto la possibilità di ricorrere alla c.d. autoproduzione178
; mentre il
175
In tal senso C. IAIONE, Le società in house, cit., il quale aggiunge “la libertà di autoproduzione, in
quanto componente essenziale dell’autonomia organizzatoria dei singoli apparati istituzionali, non si
pone in insanabile contrasto con la disciplina comunitaria”. Ciò in quanto “il favor per l’apertura dei
mercati alla libera concorrenza non comporta una totale chiusura dell’ordinamento comunitario verso
l’intervento diretto in economia da parte degli enti pubblici, soprattutto se questo risulta
maggiormente coerente con la tutela del cittadino utente”. Dunque – prosegue l’A. – alla stregua del
diritto “costituzionale” comunitario, il contrasto tra l’interesse all’apertura dei mercati, da un lato, e i
valori sociali e le prerogative delle autonomie locali, dall’altro, può risolversi anche con il sacrificio
del primo” laddove ciò sia giustificato da “ragioni obiettive di tutela dell’interesse generale” e tenuto
conto che il “principio di auto-organizzazione è riconosciuto [dall’art. 6, n. 1 della] Carta europea
delle autonomie locali”. Ex multis, cfr. C. E. GALLO, Disciplina e gestione dei servizi pubblici
economici: il quadro comunitario e nazionale nella più recente giurisprudenza, cit.; L. M. DIEZ
PICAZO, Il principio di autonomia istituzionale degli Stati membri dell’Unione europea, in Quad.
cost., 2004, 3, 865; A. PIOGGIA, Servizi pubblici e autonomia locale: i limiti del diritto interno e del
diritto comunitario, cit; F. PIZZETTI, Le autonomie locali e l’Europa, cit.; E. SCOTTI, (voce) Servizi
pubblici locali, cit., A. SCRIMALI, Il Parlamento europeo e la promozione delle autonomie locali negli
Stati membri dell’Unione europea, in Riv. it. dir pubbl. comunit., 2005, 5, 916. Inoltre, con precipuo
riguardo alla Carta europea delle autonomie locali cfr. V. PARISIO, Carta europea delle Autonomie
locali e principio di sussidiarietà, in F. ROVERSI MONACO (a cura di), Sussidiarietà e pubbliche
amministrazioni, Maggioli, Rimini, 1997; ID., Europa delle autonomie locali e principio di
sussidiarietà: la “Carta europea delle Autonomie locali”, cit.; A. PADRONO, La “Carta europea
dell’autonomia locale”: un pilastro nella costruzione dell’Europa unita, in Quad. reg., 1989, 1, 28. 176
Secondo quanto anticipato, si tratta del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, recante Norme in materia
ambientale (G.U. 14 aprile 2006 n.88), adottato in base alla L. delega 14 dicembre 2004 n. 308,
Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia
ambientale e misure di diretta applicazione. Come diffusamente spiegato nel Capitolo I, tale decreto è
stato più volte emendato anche per ciò che concerne la parte relativa ai rifiuti. A tal proposito, si
segnala il d. lgs.3 dicembre 2010 n. 205 (in G.U. 10 dicembre 2010 n. 288) con cui il legislatore
italiano ha inteso recepire la direttiva 2008/98/Ce la quale, a sua volta, ha abrogato la precedente
direttiva 2006/12/Ce. Ai fini che qui interessano, tuttavia, occorre segnalare come le modifiche
apportate alla parte IV del T.U. dell’ambiente abbiano lasciato impregiudicato il rinvio al TUEL per
quanto concerne la scelta delle modalità di affidamento del servizio di gestione dei rifiuti. 177
Più in generale, l’intero decreto era pervaso da rinvii a fonti esterne con ciò ingenerando dubbi
circa la “bontà” o, meglio, l’utilità del lavoro di codificazione compiuto dal legislatore. Sul punto cfr.
M. RENNA, Semplificazione e ambiente, cit. nonché più in generale quanto osservato nel Capitolo I,
retro. 178
In tal senso cfr. C. IAIONE, Le società in house, cit.. Diversamente, A. TRICARICO, La gestione
integrata dei rifiuti. Dall’entrata in vigore del Codice dell’ambiente alla bocciatura della c.d.
140
successivo art. 203 chiariva che “i rapporti tra le Autorità d'ambito e i soggetti
affidatari del servizio integrato sono regolati da contratti di servizio” e dettava per
quest’ultimo uno schema tipo.
Inoltre il T.U. del 2006, pur recando notevoli segni di continuità con il precedente
decreto Ronchi, non ha mancato di prevedere anche delle importanti novità con
riguardo al profilo organizzativo del servizio de quo. In particolare, si ricorda la
previsione - all’art. 201 - delle citate Autorità d’ambito “in relazione alla necessità di
gestire su scale territoriali ottimali determinati servizi pubblici di rilevanza
ambientale, quali (….) il servizio di gestione integrata dei rifiuti”179
. Detta Autorità
consiste in un ente pubblico dotato di personalità giuridica, costituito in ciascun
Ambito territoriale ottimale, al quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente e
al quale trasferiscono le proprie competenze in materia di gestione integrata dei
rifiuti180
. In altri termini, secondo l’assetto delineato dal legislatore nel 2006, alle
Regioni spetta la regolamentazione in via generale delle attività di gestione e
l’individuazione degli Ambiti territoriali ottimali (ATO), mentre l’organizzazione,
l’affidamento e la verifica circa il corretto espletamento del servizio sono di
competenza delle Autorità d’ambito, strutture consortili cui partecipano gli Enti
locali, le quali sono chiamate anche a stilare il c.d. Piano d’ambito sulla base delle
linee guida dettate dalle Regioni.
In sintesi – osserva la dottrina - la disciplina relativa ai rifiuti contenuta nel Codice
dell’ambiente mirava a porre in primo piano il ruolo delle Autorità d’ambito e delle
Regioni, “superando il precedente sistema, caratterizzato da importanti competenze
seconda liberalizzazione, in www.giustamm.it, 2011, evidenzia come secondo parte della dottrina “il
Codice dell’ambiente avesse ammesso una sola modalità di affidamento del servizio: ritenendo
sussistente, nel settore dei rifiuti, un mercato dove operano soggetti economici, il legislatore - si
diceva - “è intervenuto a tutela di quel mercato, e, in definitiva della concorrenza, creando per i
rifiuti una disciplina di settore diversa rispetto a quella ordinaria. Lo stesso comma 1 dell’art. 202
contiene dei criteri di selezione del gestore (l’ammontare del corrispettivo offerto) che non sono
pertinenti ad un rapporto in house, ma lo sono se si tratta di selezionare un soggetto terzo, pubblico o
privato”. In senso analogo, inoltre –ricorda l’A. – sembravano deporre anche Cons. Stato, V, 13
febbraio 2009 n. 824 e C. Cost. 4 dicembre 2009 n. 314. 179
Così M. RENNA, Le semplificazioni amministrative (nel decreto legislativo n. 152 del 2006), in Riv.
giur. amb., 2009, 5, 651, il quale ricorda altresì come la Legge finanziaria per il 2008 sia intervenuta
sul punto determinando, “nella sostanza, un superamento delle disposizioni del decreto n. 152 sulle
Autorità d’ambito prima ancora che avesse inizio la loro attuazione (…)”. 180
A. LOLLI – J. BERCELLI, I servizi pubblici ambientali (acqua e rifiuti) in Italia. Novità normative,
cit., che scrivono: “ tali nuovi enti sono stati dotati di una propria sede, di un proprio personale, mezzi
e strumenti. Ciò ha determinato in molte realtà nuovi costi e nuove spese per i Comuni”.
141
in capo ai Comuni e alle Province, e lasciando comunque in vita una forte ingerenza
statale (in particolare mediante il meccanismo della fissazione di linee guida)”181
.
Tale assetto, tuttavia, come si avrà modo di illustrare tra breve, è stato sin da subito
oggetto di “ripensamenti” da parte del legislatore che – vuoi in ragione delle
vicissitudini normative che hanno interessato la disciplina generale sui servizi
pubblici locali contenuta nel TUEL, vuoi in ragione della crisi economica, che ha
imposto una rimodulazione delle politiche di spesa anche a livello locale – già nel
2008 ha paventato “il superamento delle disposizioni sulle Autorità d’ambito”182
.
Tornando alla disciplina generale, va detto che, dopo alcuni interventi di portata
abbastanza circoscritta183
, tappa di assoluto rilievo nella storia dei servizi pubblici
locali è stata segnata dall’avvento dell’art. 23 bis d.l. 25 giugno 2008 n. 112184
con
cui il legislatore ha apportato (ulteriori) modifiche all’art. 113 TUEL e, più in
generale, è sembrato compiere una “scelta univoca (…) a favore della concorrenza
per il mercato”185
. In particolare, alla proclamata finalità di un “adeguamento alla
disciplina comunitaria”, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 23 bis “i modelli di
gestione dei servizi pubblici locali non sono più posti dal legislatore nazionale, sullo
stesso piano. La gestione esternalizzata e la dismissione delle partecipazioni
pubbliche locali sono dichiarate mezzo ordinario (…), mentre la gestione diretta è
181
In tal senso A. TRICARICO, La gestione integrata dei rifiuti, cit., la quel prosegue puntualizzando:
“Tuttavia, non si può non tener conto del fatto che, sino all’inizio delle attività da parte del gestore
individuato dall’Autorità d’ambito secondo le modalità previste dall’art. 202, i Comuni continueranno
a gestire i rifiuti urbani e i rifiuti assimilati avviati
allo smaltimento. Inoltre, è evidente che i diversi Comuni che compongono l’Ato non possono non
sentirsi coinvolti dal rilevante processo di trasformazione in atto, dovendo - oggi come in futuro -
essere sempre più propositivi rispetto alle scelte dell’Autorità in materia di pianificazione generale,
definizione dei fabbisogni, modalità di erogazione dei servizi, individuazione di adeguate forme di
gestione (eventuale perimetrazione di sub-ambiti, modalità di affidamento dei servizi ad uno o più
gestori, modello di calcolo della tariffa unitaria di servizio, modalità di riscossione della tariffa,
controllo della corretta erogazione dei servizi previsti nei contratti)”. 182
M. RENNA, Le semplificazioni amministrative (nel decreto legislativo n. 152 del 2006), cit.. 183
Si segnalano, in particolare, l’art. 4, comma, della L. 24 dicembre 2003 n. 350; l’art. 1, comma 48,
della L. 15 dicembre 2004 n. 308 e l’art. 15 del d. l. 4 luglio 2006 n. 223 conv. nella L. n. 248/2006. 184
Il d. l. 25 giugno 2008 n. 112, recante “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria” è stato poi convertito nella L. 6
agosto 2008 n. 133. Peraltro – ricorda P. ROSSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali, cit. –
“il d.l. 25 giugno 2008 n. 112 (…) non contemplava norme di riordino dei servizi pubblici locali.
Nell’iter di conversione, il Governo ha inserito, con un emendamento, l’art. 23 bis, recante norme di
Servizi pubblici locali a rilevanza economica”. 185
Così F. CINTIOLI, I servizi pubblici locali tra perentoria privatizzazione e incerta liberalizzazione,
cit., dove si legge: “la scelta univoca, che era mancata, a favore della concorrenza per il mercato quale
forma ordinaria (e principale) di affidamento dei servizi pubblici, sembra comunque oggi comparire a
chiare lettere nell’ordinamento ed effettivamente è enunciata nella nuova disposizione: “… avviene in
via ordinaria …”. Così come è sin da principio manifesta la volontà legislativa di fortemente limitare
gli affidamenti diretti in house”.
142
disciplinata come soluzione in deroga, ammessa solo in situazioni eccezionali”186
. Al
comma terzo dell’art. 23 bis si leggeva, infatti, che solo “per situazioni eccezionali
che a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e
geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace
e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire a società a capitale
interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti
dall’ordinamento comunitario per la gestione in house”. E ciò anche qualora il
servizio in questione fosse stato quello di igiene urbana187
.
A distanza di qualche mese, inoltre, il legislatore è intervenuto nuovamente
sull’istituto in commento con l’art. 15 del d. l. 25 settembre 2009 n. 135, poi
convertito nella L. 20 novembre 2009 n. 166188
. La “riforma della riforma”189
ha
186
In questi termini cfr. G. CAIA, I servizi pubblici locali di rilevanza economica, cit., il quale
prosegue osservando criticamente: “eppure , la giurisprudenza comunitaria non aveva mai affermato
che le gestioni dirette non sono conformi ai principi europei”. Anzi, in CGCE 10 settembre 2009, Sea,
C-573/07, i giudici di Lussemburgo hanno affermato che “un’autorità pubblica ha la possibilità di
adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti,
amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non
appartenenti ai propri servizi”. Del pari, l’A. ricorda che il Consiglio di Stato già nel 1998 (Cons. St.,
V, 23 aprile 1998 n. 477) aveva osservato che “l’esternalizzazione dei servizi pubblici non rappresenta
un obbligo per le Pubbliche amministrazioni competenti, potendo esse provvedere con
l’autoproduzione (gestione diretta o, secondo l’odierna terminologia, in house providing). [Pertanto],
quanto richiamato dimostra già che le soluzioni oggi introdotte rientrano semplicemente nelle facoltà
del legislatore italiano e non attengono ad un recepimento di regole comunitarie”.
In senso solo formalmente ma non anche sostanzialmente critico cfr. P. ROSSI, La nuova disciplina dei
servizi pubblici locali, cit., dove con riferimento all’art. 23 bis, comma primo, si legge: “il tenore
letterale della citata previsione appare quantomeno inesatto, poiché i servizi pubblici locali
tradizionalmente non sono oggetto dell’ordinamento comunitario, stante la marginalità geografica del
loro mercato di riferimento; peraltro anche da ultimo il Trattato di Lisbona ha ribadito, all’art. 2 del
Protocollo 26, che i servizi di interesse generale rientrano nella piena discrezionalità regolatoria e
gestionale dei singoli Stati membri. Ciò non toglie che la scelta discrezionale del legislatore italiano di
ancorare la disciplina sui servizi pubblici locali ai principi comunitari relativi ai servizi di interesse
generale, appaia quanto mai ragionevole, anche avuto riguardo alle numerose procedure di infrazione
che la disciplina nazionale italiana ha subito per la sua non conformità al sistema concorrenziale di
libero mercato delineato dalla Costituzione economica europea”. 187
Scrive, infatti, A. TRICARICO, La gestione integrata dei rifiuti, cit.: “l’art. 23 bis del d. l. 112/2008,
definendo una nuova disciplina dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, imponeva principi
omogenei, applicabili trasversalmente ai vari settori, soprattutto con riferimento al profilo
dell’affidamento. E, a spazzare ogni residuo di dubbio, in ordine al rapporto tra normativa speciale e
generale aveva provveduto il tanto atteso Regolamento attuativo, il cui art. 12 alla lettera c) del
comma 1, abrogava espressamente il citato art. 202 ad eccezione della parte in cui assegna all’Autorità
d’ambito il compiuto di affidare la gestione del servizio dei rifiuti”. 188
Il d.l. 25 settembre 2009 n. 135 recava “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi
comunitari e per l’esecuzione delle sentenze della Corte di Giustizia europea” e il suo art 15 era
rubricato “Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza
economica”.
A commento della riforma, oltre alla bibliografia richiamata infra, si segnala D. AGUS, I servizi
pubblici locali e la concorrenza, in Giorn. dir. amm., 2010, 5, 464, il quale in particolare evidenzia il
favor pro concorrenziale che trapela dall’intervento legislativo del 2009. Nel commento si legge,
infatti, che: “una mal celata diffidenza verso logiche di mercato sembra pervadere gli interventi
normativi che hanno avuto la finalità di liberalizzare il settore dei servizi pubblici locali. Tali
143
avuto essenzialmente l’obiettivo di chiarire alcuni dubbi interpretativi connessi alla
prima versione dell’art. 23 bis e ha maggiormente circoscritto il suo raggio di
operatività, escludendone l’applicabilità in una serie per nulla risibile di settori, quali
la distribuzione di energia elettrica, il trasporto ferroviario regionale e le farmacie
comunali. Come evidenziato da parte della dottrina, questa delimitazione “non è, di
per sé, un fattore negativo (perché non sempre è opportuno o utile ricondurre ad
un’unica categoria tutti i regimi di diversificate attività che pure presentano alcuni
caratteri comuni), ma è tuttavia segno di una indefinizione della disciplina
complessiva”190
, poiché – tra le altre cose - non viene chiarito il rapporto tra norme
generali e norme di settore che, dunque, non scompaiono191
.
Per ciò che concerne più da vicino il profilo della gestione, inoltre, permane la
distinzione tra modalità ordinarie ed eccezionali di affidamento del servizio, ma le
stesse sono state ulteriormente precisate. In particolare, al comma secondo del
riscritto art. 23 bis le lettere a) e b) descrivono le ipotesi di conferimento in via
ordinaria, avendo riguardo rispettivamente di imprenditori o società “individuati
mediante procedure competitive ad evidenza pubblica” (lett. a)) e di società di
capitali a partecipazione mista pubblico-privata (lett. b)). Peraltro, con riferimento a
tale seconda eventualità, va detto che l’affidamento alle c.d. società miste è stato
subordinato al ricorrere di tre presupposti: i) che la gara per l’individuazione del
socio privato si svolga secondo procedure ad evidenza pubblica nell’osservanza dei
principi di cui alla lett. a); ii) che detta gara abbia ad oggetto, oltre alla qualità di
interventi, infatti, (…) sono stati caratterizzati da incompletezza e hanno spesso lasciato una o più vie
di fuga per ritornare al passato”. Diversamente, il d.l. 112/2008 e ancor più la L. n. 166/2009 segnano
“un punto positivo nel lento e laborioso processo di affermazione dei principi concorrenziali in questo
delicato settore”. 189
In questi termini F. CINTIOLI, I servizi pubblici locali tra perentoria privatizzazione e incerta
liberalizzazione, cit., il quale prosegue individuando i contenuti della riforma. In particolare: a) “si
sono puntualizzati i (piuttosto eterogenei, in verità) al momento esclusi dal suo spettro applicativo
(…)”; b) “si è inclusa la società mista tra i casi di gestione legittima del servizio”; c) “si è meglio
delineata la tipologia dell’in house, la cui eccezionalità è stata confermata e sostanzialmente
rafforzata”; d) “sono stati eliminati gli interventi delle autorità di regolazione, lasciando solo il parere
preventivo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (…); e) “è stato introdotto, per via
legislativa, quel regime transitorio che la fonte regolamentare non era riuscito a prevedere”. 190
Così G. CAIA, I servizi pubblici locali di rilevanza economica, cit., il quel prosegue preconizzando:
“la rilevata incompletezza della attuale disciplina di legge sui servizi pubblici locali di rilevanza
economica e la conseguente circostanza che non si è ancora pervenuti ad un assetto finale delle
riforme, che pure il legislatore insiste a voler introdurre (seppur secondo linee che mutano in brevi
lassi di tempo), lascia presagire ulteriori e forse prossimi interventi normativi”. 191
Al riguardo cfr. M. DELSIGNORE, L’ambito di applicazione, cit., dove si legge: “L’aspirazione a
dettare una normativa generale resta tale: i settori esclusi sono tanti e tali da non permettere di
affermare l’esistenza di una disciplina trasversale sui servizi pubblici locali. (…) Le esclusioni
comportano l’applicazione di regimi settoriali diversi, che non rispondono alla medesima logica”.
144
socio, anche l’attribuzione di compiti operativi connessi alla gestione del servizio
(c.d. gara a doppio oggetto); ed, infine, iii) che al socio privato faccia capo una
partecipazione non inferiore al 40 per cento192
.
Quanto all’affidamento in house, invece, questo in virtù del d. l. n. 135 del 2009 ha
assunto la foggia di “un’eccezione sempre più … eccezionale”193
. Come osservato da
parte della dottrina, infatti, il nuovo comma terzo dell’art. 23 bis sembra
circoscrivere ulteriormente le possibilità di ricorso a detto modello gestionale. Sia
perché utilizza l’espressione “situazioni eccezionali”, anteponendola alla descrizione
delle “peculiari caratteristiche”; sia perché consente l’affidamento unicamente in
favore di società a capitale interamente pubblico locale, subordinatamente ad
un’indagine volta al riscontro del fallimento del mercato; sia, infine, perché
contempla espressamente la necessità che tali società posseggano i requisiti imposti
dall’ordinamento comunitario per la gestione in house (…)”194
.
Ovviamente di fronte ad un sistema il cui baricentro è così nettamente sbilanciato a
favore dell’esternalizzazione dei servizi pubblici, le reazioni della dottrina e, in parte,
192
Sul punto cfr. S. TARULLO, Il restyling nella gestione dei servizi pubblici locali: osservazioni
minime sull’art. 23 bis del D.L. 112/08 come riformato dal D.L. 135/09, in www.giustamm.it, 2009, il
quale prosegue osservando: “probabilmente la strada intrapresa è virtuosa, ma merita di essere
puntellata con qualche certezza in più, tenendo conto della connotazione di monopolio naturale che
caratterizza i servizi locali erogati attraverso infrastrutture e reti e della conseguente soppressione di
ogni spazio di scelta in capo ai destinatari”. In particolare, l’A. afferma in senso critico che “la
rivisitata lett. b) del comma 2 non chiarisce la sorte della società mista difforme, per tale intendendosi
quella che non rispetti la soglia del 40 per cento di partecipazione del privato ovvero non riconduca a
quest’ultimo compiti effettivamente operativi”.
Ex multis sulle società miste dopo la riforma del 2009 cfr. S. VALAGUZZA, Gli affidamenti a terzi e a
società miste, in R. VILLATA (a cura di), La riforma dei servizi pubblici locali, cit.. 193
Così S. TARULLO, Il restyling nella gestione dei servizi pubblici locali, cit.. Inoltre cfr. V. PARISIO,
Forma privatistica e sostanza pubblicistica: modello societario e gestione dei servizi pubblici locali,
in www.giustamm.it, 2012, dove si legge: “a dimostrazione dell’atteggiamento di aperta ostilità
dimostrata dal legislatore, si prevedeva che l’ente locale verificasse l’impossibilità di mettere sul
mercato il servizio e adottasse un’apposita delibera con analitica motivazione circa le ragioni che non
rendevano possibile l’apertura al mercato (il fallimento del mercato) e, contestualmente veniva
richiesto un parere all’Antitrust, da rilasciare entro sessanta giorni”. 194
In questi termini S. TARULLO, Il restyling nella gestione dei servizi pubblici locali, cit., il quale
evidenzia “che la novella reca in sé una potenzialità di evoluzione ermeneutica esplicitamente legata a
futuri arresti della Corte di Giustizia. Tale riflessione dimostra una volta di più il carattere osmotico
che ha oggi assunto il rapporto tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario; carattere tale
per cui le nozioni del diritto comunitario rilevanti per il diritto interno devono essere ormai
interpretate ed applicate (anche dai giudici italiani) in sintonia con gli orientamenti dei giudici
lussemburghesi”. Per altro la disciplina dell’in house di cui al descritto comma terzo dell’art. 23 bis si
completa da quanto previsto al successivo comma quarto. A mente del quale – ricorda l’A. – l’ente
affidante deve dare “adeguata pubblicità alla scelta , motivandola in base ad un’analisi di mercato” e,
contestualmente, deve trasmettere “una relazione contenente gli esiti della predetta verifica
all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per acquisirne il parere”. Ex multis, per
un’analisi della disciplina dell’in house a seguito della riforma del 2009 cfr. F. GOISIS, L’in house
nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali, in R. VILLATA (a cura di), La riforma dei servizi
pubblici locali, cit..
145
anche della giurisprudenza non potevano che essere altrettanto nette195
. Si è, infatti,
registrata una chiara divisione tra quanti, “liberalizzatori”196
, hanno salutato con
favore la riforma, vedendo nella stessa un possibile volano verso un sistema più
marcatamente concorrenziale, e chi, viceversa, ha creduto di dover prendere le
distanze da quanto positivizzato dal legislatore, rinvenendo nelle nuove norme il
germe di un possibile scollamento tra il servizio pubblico e il contesto in cui lo stesso
deve essere espletato197
. Insomma, come a voler dire che la concorrenza non è
tutto198
e che sarebbe auspicabile il riconoscimento di una maggiore autonomia in
capo agli enti locali nella “definizione delle modalità di gestione dei servizi”, senza
limitare la stessa alla mera “scelta tra le forme predeterminate dal legislatore”199
.
III.4 (SEGUE) DAL REFERENDUM ABROGATIVO DEL 2011 ALLA LEGGE 17 DICEMBRE
2012 N. 221
La questione, peraltro, lungi dall’essere relegata al mero bizantinismo accademico ha
presto assunto le sembianze del dibattito pubblico, dal momento che il tema della
195
Inter alia cfr. Cons. Stato, V, 26 gennaio 2011 n. 552 che, a fronte del descritto assetto normativo,
ha ritenuto legittima la scelta di procedere alla gestione diretta in economia di un servizio pubblico,
rigettando di conseguenza la tesi di “un vincolo assoluto a rivolgersi all’esterno”. 196
Così F. CINTIOLI, I servizi pubblici locali tra perentoria privatizzazione e incerta liberalizzazione,
cit.. 197
In particolare, cfr. M. DELSIGNORE, L’ambito di applicazione, cit., dove si legge che “il servizio
pubblico locale, in particolare, evoca, ancor più del servizio pubblico tout court, il ruolo
dell’Amministrazione, locale appunto, nel mettere a disposizione del cittadino utente quell’attività
qualificata come servizio pubblico. L’elemento della titolarità, intesa quale scelta in capo all’ente
locale di qualificare l’attività di pubblico servizio, è essenziale e ineliminabile”. 198
Sul punto particolarmente significativa la posizione di F. FRACCHIA, I servizi pubblici e la retorica
della concorrenza, cit., il quale a proposito della “fibrillazione normativa” che da oltre un decennio
caratterizza la materia dei servizi pubblici locali nonché a proposito della oramai nota pronuncia C.
Cost. 17 novembre 2010 n. 325, afferma che “il valore della concorrenza non è il filtro teorico che
consente di catturare compiutamente l’essenza del fenomeno dei servizi pubblici. (…) Guardando con
fissità a questo valore, che, tra l’altro, neppure compare in modo espresso in Costituzione nell’art. 41,
infatti, a tacere del fatto che per definizione si trascurano i servizi non a rilevanza economica,
sfuggono porzioni essenziali dell’istituto e, in particolare, rimane in ombra il rapporto con gli utenti.
(…) Ancora una volta, la soluzione ricercata per risolvere un problema peculiare di competenza
legislativa statale (si ricorda, infatti, che nella citata pronuncia la Corte costituzionale si è pronunciata
in ordine alla legittimità dell’art. 23 bis, come modificato nel 2009. Più nello specifico, il Giudice
delle Leggi ha dichiarato infondata la questione ritenendo che la disciplina dei servizi pubblici locali
rientri nella materia della tutela della concorrenza e, dunque, nella competenza esclusiva dello Stato ex
art. 117 Cost.) rischia di appiattire lungo una sola dimensione un quadro normativo molto più
complesso e articolato, impedendo di coglierne la profondità”. Pertanto, “è forse giunto il momento di
separare i temi e di isolare la specificità dei servizi pubblici, chiarendo con cura che la concorrenza
non è l’unico obiettivo dell’istituto, ma è uno dei problemi da esso intercettato e, al più, si configura
come uno strumento utilizzabile per risolvere questioni peculiari”. 199
Così E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit..
146
gestione dei servizi pubblici locali è stato oggetto nel 2011 di un referendum
abrogativo e, successivamente, di un (ennesimo) intervento legislativo200
.
In particolare, all’esito delle consultazioni svoltesi nel giugno del 2011, l’art. 23 bis è
stato abrogato201
e, per l’effetto, nell’agosto dello stesso anno il Governo ha adottato
il d. l. n. 138/2011202
, il cui art. 4 reca “Disposizioni di adeguamento della disciplina
dei servizi pubblici locali all’esito referendario ed alla normativa comunitaria”. Detto
articolo, è intervenuto “in parte a reintrodurre le disposizioni sancite dal d. P. R. 168
200
In proposito, nella vastità dei contributi dottrinari si segnalano: E. FURNO, La never ending story
dei servizi pubblici locali di rilevanza economica tra aspirazioni concorrenziali ed esigenze sociali:
linee di tendenza e problematiche aperte alla luce del d.l n. 138/2011, convertito nella L. n. 148/2011,
in www.giustamm.it, 2011; A. LUCARELLI, Primissime considerazioni a margine degli artt. 4 e 5
decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011 e relativo impatto sui servizi pubblici locali, in
www.rivistaaic.it, 2011; D. MASETTI, La nuova (?) disciplina dei servizi pubblici locali dopo il
referendum abrogativo del 12-13 giugno 2011, in www.giustamm.it, 2011; V. PARISIO, Forma
privatistica e sostanza pubblicistica: modello societario e gestione dei servizi pubblici locali, cit.; L.
PERFETTI, La disciplina dei servizi pubblici locali ad esito del referendum ed il piacere
dell’autonomia locale, in Giorn. dir. amm., 2011, 9, 484; G. PIPERATA, Il cammino lento e incerto dei
servizi pubblici locali dalla gestione pubblica al mercato liberalizzato, in Munus, 2011, 1, 42; I.
RIZZO, La disciplina dei servizi pubblici locali dopo il referendum, in Urb. e app., 2011, 8, 899; P.
SABBIONI, Il ripristino della disciplina abrogata con referendum: il caso dei servii pubblici locali di
rilevanza economica, in Forum di quaderni costituzionali, 2011; F. TRIMARCHI BANFI, Procedure
concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto dell’Unione e nella Costituzione (all’indomani della
dichiarazione di illegittimità delle norme sulla gestione dei servizi pubblici economici), in Riv. it. dir.
pubbl. comunit., 2012, 5, 669; C. VOLPE, Appalti pubblici e servizi pubblici. Dall’art. 23 bis al
decreto legge manovra di agosto 2011 attraverso il referendum: l’attuale quadro normativo, in
www.giustamm.it, 2011. 201
Peraltro unitamente all’art. 154, primo comma, del d. lgs. n. 152/2006, meglio noto come Codice
dell’ambiente. L’abrogazione è stata disposta con i d. P.R. 18 luglio 2011 n. 113 e n. 116 (in G.U. 20
luglio 2011 n. 167) e ha avuto quale effetto la caducazione del regolamento attuativo dell’art. 23 bis,
ossia il d. P.R. 168 del 2010. Per ciò che concerne le conseguenze che l’esito del Referendum ha
prodotto sul settore dei rifiuti cfr. A. TRICARICO, La gestione dei rifiuti, cit., la quale afferma che tutto
ciò si traduceva: “nell’esclusione della reviviscenza dell’art. 202 del d.lgs. 152/200657; nella
sopravvivenza della disciplina abrogata con riguardo ai rapporti sorti in precedenza, attesa l’efficacia
ex nunc dell’abrogazione; nella permanenza della possibilità di avvalersi della “gara pubblica” per la
scelta del gestore, considerato che, pur non rappresentando più il modello ordinario imposto per
espressa volontà legislativa, non avrebbe potuto essere esclusa nell’ambito di un settore, qual è quello
dei rifiuti, in cui è dimostrata l’esistenza di un mercato concorrenziale e di operatori economici
altamente specializzati; nella opportunità di ricorrere all’affidamento in house, che, pur non essendo
più qualificabile come derogatorio, avrebbe comunque richiesto un’adeguata motivazione, attesi i
limiti tratteggiati dalla Comunità Europea (partecipazione pubblica totalitaria, controllo analogo ed
attività prevalente), ma anche quelli interni fissati dalla giurisprudenza della Corte dei Conti in
materia di partecipazione degli Enti locali in società di diritto privato; nell’eliminazione dell’obbligo
di addurre la sussistenza di caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del
contesto di riferimento tali da non consentire un efficace ed utile ricorso al mercato, sottoponendo la
congruità di tale valutazione al parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (…)”. 202
Il decreto 13 agosto 2011 n. 138, rubricato “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione
finanziaria e per lo sviluppo” (GU 13 agosto 2011 n. 133) è stato poi convertito nella L. 14 settembre
2011 n. 148 (in G.U. 16 settembre 2011 n. 216). Sul punto cfr. in senso critico V. PARISIO, Forma
privatistica e sostanza pubblicistica, cit., la quale afferma che “il legislatore è intervenuto per colmare
un vuoto normativo che, in realtà, non sussisteva, in quanto trovano diretta applicazione i principi
europei. La gestione in house providing era dunque pienamente ammissibile [per il solo fatto
dell’abrogazione dell’art. 23 bis], a condizione che fossero rispettati i soli requisiti posti dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia (…)”.
147
del 2010 ed, in parte, a modificarne il contenuto, non senza dare adito a dubbi
interpretativi”203
.
Innanzitutto, per ciò che concerne l’ambito applicativo, la nuova disciplina in ragione
dell’esito referendario non trovava applicazione nei riguardi del servizio idrico
integrato204
, oltre che negli altri casi già esclusi dall’(abrogato) art. 23 bis205
. La
203
In questi termini A. AZZARITI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dopo il referendum:
le novità e le conferme della legge 148/2011, in Ist. del federalismo, 2011, 3, 531, dove si legge: “la
norma ha suscitato dubbi di legittimità costituzionale, da un lato, in relazione al divieto di formale e
sostanziale ripristino della normativa abrogata discendente dagli artt. 5 e 75 Cost.,
nell’interpretazione resa dal giudice costituzionale, e, dall’altro, in relazione ai principi di autarchia ed
autodeterminazione degli enti locali nello svolgimento delle funzioni di affidamento dei servizi
pubblici locali, discendenti dagli artt. 5, 114, 118 Cost.”.
Quanto al primo profilo, si anticipa sin d’ora che la Corte costituzionale nel luglio del 2012 ha
ritenuto illegittimo l’art. 4 d. l. n. 138 del 2011 per violazione dell’art. 75 Cost.. Secondo parte della
dottrina (G. MONTEDORO – L. TRETOLA, La liberalizzazione dei servizi pubblici locali dopo la nuova
“riforma” del decreto “Cresci Italia” 2012, in www.giustamm.it, 2012), tuttavia, tale esito poteva
ritenersi in qualche modo preconizzato dalle sentenze con cui il Giudice della Legge si era
pronunciato in ordine all’ammissibilità dei quesiti referendari (Corte cost. 26 gennaio 2011 n. 24. In
dottrina cfr. A. LUCARELLI, I servizi pubblici locali verso il diritto pubblico europeo dell’economica,
in Giur. Cost., 2001, 1, 247 e ss.), dove si legge: “… all’abrogazione dell’art. 23 bis, da un lato non
conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo; dall’altro, conseguirebbe
l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria”. Dunque, secondo la
medesima dottrina, all’esito delle consultazioni popolari avrebbe dovuto trovare immediata
applicazione l’art. 106 TFUE, da cui deriva anche l’ammissibilità della gestione in house nel rispetto
dei criteri fissati dalla giurisprudenza europea. 204
Non è passato inosservata, infatti, la circostanza che la consultazione popolare del giugno 2011 si è
imposta all’attenzione della società tutta come “referendum sull’acqua”, benché in realtà il quesito
avesse riguardo dell’intera categoria dei servizi pubblici locali. In proposito, dunque, D. BALDAZZI, La
sentenza n. 199 del 2012: tra intentio del Comitato promotore e tutela della volontà referendaria, in
Quad. cost., 2012, 4, 871 sottolinea come la vicenda de qua sia emblematica del “cortocircuito che si
può instaurare tra il rispetto delle prerogative del Comitato promotore e la tutela della volontà
referendaria oggettiva”. “La normativa adottata successivamente al referendum, in realtà, sembrava
corrispondere proprio alla intentio dei promotori, perché effettivamente sottraeva le modalità di
affidamento del SII alla disciplina generale dei servizi pubblici locali (…) la Consulta la pone però
ugualmente nel nulla, poiché rileva che essa riproduce – anche testualmente – la disposizione
abrogata”. Da ciò l’A. desume che “l’assenza di un rapporto di rappresentanza diretta tra promotori ed
elettori e la mancanza di una motivazione esplicita della richiesta di abrogazione impediscono di
interpretare l’iniziativa secondo il significato attribuitole dai promotori, quando tale significato non
corrisponde alla ratio oggettiva del quesito”. Detto in altri termini, “la volontà popolare deve (…)
essere difesa dalle interferenze del legislatore, ma anche dalle possibili strumentalizzazioni del
Comitato promotore”. 205
Sul punto cfr. S. STAIANO, I servizi pubblici locali nel decreto-legge n. 138 del 2011. Esigenze di
stabile regolazione e conflitto ideologico immaginario, cit., dove si legge: “la soluzione -
comprensibilmente mossa da intenti di opportunità politica - non è del tutto lineare. Infatti, le
conseguenze dell’esito positivo del referendum abrogativo (…) consistono nell’applicazione
immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (…). Ora, l’art. 4 del d. l. n. 138 del
2011 ripercorre, sotto molti profili, l’impianto dell’abrogato art. 23 bis del d. l. n. 112 del 2008,
prevedendo, tuttavia, in luogo delle “situazioni eccezionali” alla luce delle quali il terzo comma di tale
disposto consentiva l’affidamento in house, un diverso modo per limitare - sensibilmente – il ricorso
a tale modello di gestione dei servizi, consistente nella previsione di una soglia di valore. Se tale
soluzione fosse conforme all’esito referendario, lo sarebbe anche per il servizio idrico integrato,
sicché la previsione specifica a questo riferita (l’aggiunta nell’elenco dei settori esclusi) non
apparirebbe necessitata, ben potendo anche il servizio idrico integrato essere assoggettato al generale
quadro regolativo comunitario. (…) E la previsione dell’art. 4, d. l. n. 138 del 2011 potrebbe apparire
un modo per eludere la volontà referendaria (…) la quale non sembra consentire un trattamento in
148
stessa, dunque, si applicava “a tutti gli altri servizi pubblici di rilevanza economica,
tra cui quelli aventi un’apposita disciplina settoriale, come il servizio gestione rifiuti
ed il trasporto pubblico locale, e quelli privi di una propria regolamentazione di
settore, come i servizi cimiteriali, illuminazione pubblica (…)”206
.
Quanto, invece, al profilo gestionale, l’art. 4 prevedeva la possibilità di ricorrere
alternativamente all’affidamento: a) a società, in qualsiasi forma costituite, a mezzo
di gara e nel rispetto dei principi comunitari e nazionali in materia di contratti
pubblici; b) a società miste pubblico-private, dove il socio privato detiene (almeno) il
40% delle quote e viene selezionato con una gara c.d. a doppio oggetto207
; c) diretto a
società in house, purché siano rispettati i requisiti del controllo analogo e
dell’attività prevalente e purché il servizio abbia un valore economico non eccedente
la soglia massima di 900 mila euro. In sostanza, il legislatore del 2011 ha eliminato il
netto distinguo tra modelli ordinari e ipotesi eccezionali, poiché la possibilità di
ricorrere all’in house providing è stata subordinata “unicamente al mancato
raggiungimento di una determinata soglia economica, in assenza dei presupposti
sostanziali e procedurali precedentemente previsti”208
. Il che, tuttavia, da più parti, è
stato ritenuto un limite comunque troppo stringente all’autoproduzione209
, specie in
ragione di quello che era stato l’esito referendario.
malam partem, quanto all’autonomia di scelta del modello di gestione, per i servizi pubblici a
rilevanza economica diversi dal servizio idrico integrato”. 206
Così A. AZZARITI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dopo il referendum, cit., la quale
prosegue sottolineando come “in relazione alla prima tipologia di servizi [quelli oggetto di una
disciplina ad hoc], va osservato che l’attuale norma non contiene un’espressa clausola di prevalenza
rispetto alla normativa di settore così come, invece, disponeva l’art. 23 bis, comma 1, in deroga al
principio generale lex posterior generalis non derogat priori specialis”. 207
Come evidenzia S. STAIANO, I servizi pubblici locali nel d. l. n. 138 del 2011, cit., “è consentita la
società mista pubblico-privata, purché siano svolte procedure competitive a evidenza pubblica sia per
la scelta del socio privato (per una quota non inferiore al quaranta per cento) sia per l’attribuzione “di
specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio (art. 4, c. 12)”. 208
In questi termini A. AZZARITI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dopo il referendum,
cit.. L’A. inoltre ricorda come nella primigenia versione del d. l. n. 138 del 2011 la possibilità di
ricorrere all’affidamento diretto fosse subordinata allo svolgimento da parte dell’ente locale di un’
istruttoria (da effettuarsi a mezzo di un’analisi di mercato da trasporre in una c.d. delibera quadro)
tesa a comprovare il fallimento del mercato in un determinato settore. Tuttavia “la disposizione, così
formulata, avrebbe imposto all’ente locale una prova disagevole, implicante uno studio approfondito
delle esternalità di produzione e consumo, delle situazioni di monopolio e delle possibilità regolative
dei servizi, con notevoli difficoltà di adeguamento per gli enti locali minori”. Pertanto, “in sede di
conversione tale inciso è stato abolito, introducendo, in sostituzione, l’obbligo meno stringente per
l’ente locale di motivare le ragioni della decisione e i benefici per la comunità locale derivanti dal
mantenimento di un regime di esclusiva del servizio, ora previsto dall’art. 4, comma 2, della legge
148/2011”. Ex multis, sull’argomento cfr. S. STAIANO, I servizi pubblici locali nel decreto legge n.
138 del 2011, cit., in particolare pp. 5 e 6. 209
Ad esempio, evidenziano il carattere stringente delle misure pro-concorrenziali introdotte dal
legislatore dopo il referendum, M. CAPANTINI, La sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012:
i servizi pubblici locali dopo la decisione della Corte costituzionali, in Quad. cost., 2012, 4, 868 ed E.
149
Il (solo apparente) revirement legislativo, dunque, ha indotto ad interrogarsi – ancora
una volta - circa il ruolo dell’in house e il grado di autonomia riconosciuto agli enti
locali, specie in rapporto a quello che, stando alla lettera della legge, sembrava essere
l’obiettivo primo della (ennesima) riforma, vale a dire la tutela della concorrenza210
.
Al riguardo, preme osservare come, nonostante sia la dottrina “classica”211
sia un
certo filone giurisprudenziale212
abbiano costantemente evidenziato l’inerenza agli
enti locali delle scelte gestorie dei servizi pubblici locali, gli interventi legislativi
SCOTTI (voce) Servizi pubblici locali, cit., che scrive: “la discposizione abrogata è stata poi riproposta
con previsioni peraltro ancor più limitative, rafforzate da misure di coazione dirette e indirette, quali
poteri sostitutivi e misure premiali”. Ancor più critico, E. FURNO, Le tortuose vie dei servizi pubblici
locali di rilevanza economica tra legislatore, referendum e Corte costituzionale: palla al centro?, in
www.giustamm.it, 2012, il quale sottolinea come le “poche novità introdotte dall’art. 4 (…)
accentuavano la drastica riduzione (rectius, impossibilità in concreto se non per i c.d. servizi
innominati) delle ipotesi di affidamento diretto dei servizi pubblici locali, prevedendo vincoli ancor
più stringenti, e/o la sottrazione, dall’ambito di applicazione della stessa disposizione, del servizio
idrico integrato, trattandosi per la restante parte di sostanziale (e non solo formale) riproduzione della
disciplina già abrogata in via referendaria”. Estremamente interessanti, infine, le considerazioni
sviluppare da F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto
dell’Unione e nella Costituzione, cit., la quale scrive: “le previsioni della legislazione statale in tema
di gestione in house sono (o meglio erano) più restrittive di quelle del diritto europeo, ma quelle che il
giudice costituzionale presenta come ulteriori condizioni, poste dalla legge statale affinché fosse
consentita la gestione in house, non sono propriamente tali”. Infatti, mentre “le condizioni della
gestione in house secondo il diritto europeo sono coerenti con le ragioni che richiedono che,
dovendosi scegliere tra una pluralità di interessi si proceda con gara (…) Al contrario, le restrizioni
introdotte dalla legge statale miravano a ridurre la possibilità di ridurre la possibilità di ricorrere alla
gestione in house, fermi restando i caratteri della figura organizzativa come disegnata dal diritto
europeo”. In altri termini, “il diritto interno lasciava inalterate le condizioni che identificano la
fattispecie della gestione in house, e semplicemente ne vietata l’impiego, salvo casi eccezionali.
[Dunque, esso] non procedeva più avanti sulla strada segnata dal diritto europeo, ma procedeva
piuttosto per una strada diversa”. 210
In ordine al “valore” della concorrenza, oltre alle sopra richiamate riflessioni di F. FRACCHIA, I
servizi pubblici e la retorica della concorrenza, cit., cfr. G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo,
cit., il quale osserva come da alcuni anni “si era diffusa in Italia l’idea, del tutto infondata, che
l’ordinamento dell’U. E. avesse posto il mercato come una sorta di Grund norm alla quale tutte le altre
dovevano piegarsi”. 211
Cfr., ad ex., U. BORSI, Le funzioni del Comune italiano, in V. E. ORLANDO (a cura di), Primo
trattato completo di diritto amministrativo, II, Milano, 1915. Inoltre, più di recente cfr. E. SCOTTI,
(voce) Servizi pubblici locali, cit.. 212
Per ciò che concerne la giurisprudenza nazionale cfr., a titolo esemplificativo, Cons. Stato, V, 23
aprile 1998 n. 477, dove si legge che “la tutela comunitaria del mercato non interferisce sino a
disconoscere ai singoli apparati istituzionali ogni margine di autonomia organizzativa nell’approntare
la produzione e l’offerta dei servizi e delle prestazioni di rispettiva competenza”. Ma anche Corte
Cost. 27 luglio 2004 n. 272 che - nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’allora art. 113,
comma settimo, secondo e terzo periodo del TUEL - da un lato, ha affermato che la fissazione dei
principi fondamentali in materia di servizi pubblici economici rientra nella competenza legislativa
esclusiva dello Stato ex art. 117, comma secondo, lett. e); ma, dall’altro lato, ha posto dei limiti alla
potestà legislativa dello Stato ritenendo che la stessa non possa tradursi in una eccessiva compressione
dell’autonomia regionale e locale nella materia de qua. Ex multis, per ciò che concerne la
giurisprudenza comunitaria, cfr. CGCE, Grande sezione, 9 giugno 2009, C-480/06 dove si legge che
“un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico su si essa incombenti mediante
propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi
e che può farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche” poiché “il diritto comunitario
non impone in alcun modo alle autorità pubbliche di ricorrere ad una particolare forma giuridica per
assicurare in comune le loro funzioni di servizio pubblico”.
150
occorsi negli ultimi anni “sembrano ispirati, alternativamente, all’estensione ovvero
alla compressione dell’autonomia organizzativa degli enti locali”213
. Ebbene, in tale
contesto - secondo parte della dottrina - la riforma operata con la legge n. 148 del
2011 non lasciava intravedere chiaramente quali spazi di autonomia residuassero in
capo agli enti locali, specie in ragione del fatto che il legislatore aveva nuovamente
tipizzato in maniera piuttosto dettagliata i possibili moduli organizzativi dei servizi
pubblici locali, ricalcando nella sostanza quanto previsto dall’originaria versione
dell’art. 23 bis214
.
Sul punto, se nessun chiarimento è emerso dalle riforme che, tra la fine del 2011215
e
i primi mesi del 2012216
, hanno interessato l’istituto de quo, maggiori indicazioni si
213
In questi termini A. AZZARITI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dopo il referendum,
cit.. Infatti, osserva l’A., mentre “l’apparato regolatorio delineato dal previgente art. 113 TUEL, come
modificato dall’art. 14 del d. l. n. 268/2003, (…) era incentrato sulla sostanziale equiordinazione ed
alter natività dei modelli organizzativi previsti, tra cui l’in house providing (…), diversamente, la
riforma attuata dal decreto Ronchi, attraverso l’indicazione tassativa delle forme di gestione dei
servizi pubblici locali e riconduzione del modulo organizzativo in house providing ad un ambito
derogatorio, preclude all’ente locale ogni determinazione in ordine alla scelta di rivolgersi al mercato
o gestire in proprio il servizio”. E, ancora, “la consultazione referendaria del 12 e del 13 giugno 2011
ed il successivo intervento normativo avutosi con la legge 148/2011 hanno rimesso in discussione i
principi in precedenza affermati. A fronte dell’abrogazione referendaria dell’art. 23 bis, sembra
riespandersi l’autonomia organizzativa degli enti locali nelle scelte dei modelli di gestione”. In senso
analogo cfr. anche G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi
pubblici locali. Alla ricerca del filo di Arianna, cit., il quale scrive: “ciò che colpisce (…) è l’assenza
di coordinate coerenti di medio-lungo periodo, che è alla base della contraddittorietà delle politiche
legislative; l’autonomia degli enti locali non è mai stata tanto enfatizzata quanto,
contemporaneamente, compressa”. 214
In tal senso cfr. A. AZZARITI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dopo il referendum,
cit., dove si legge: “si pone il dubbio se, a fronte della disciplina introdotta dall’art. 4 della legge
148/2011, residuino spazi di autonomia per gli enti locali in ordine all’utilizzo di forme di gestione
non codificate. Si pensi, ad esempio, alla gestione in economia” o alle c.d. non profit utilities, in
ordine alla quale C. IAIONE, L’alba del giorno dopo nei servizi pubblici locali, in www.labsus.org,
2011, scrive: “si tratta di un modello organizzativo, generalmente di diritto privato, che (i) coinvolge
nella proprietà o, quantomeno, nella titolarità di un SPL tutti gli stakeholders e, quindi, in primis i
cittadini; (II) non prevede una distribuzione integrale degli utili prodotti ai diversi soci, bensì il loro
reimpiego quasi esclusivo per il potenziamento/ammodernamento delle infrastrutture e/o per il
miglioramento della qualità del servizio. Sotto il primo profilo, si tratta di formule gestorie nelle quali
i cittadini non sono più meri utenti perché, anche se con gradazioni diverse, vengono coinvolti nella
gestione dei servizi. (…) Sotto il secondo profilo, in una NPU i ricavi tariffari vengono utilizzati
anzitutto per coprire i costi operativi e i costi del capitale di debito (…). L’utile netto d’impresa,
invece, no viene destinato alla distribuzione di dividendi se non sotto forma di sconto sulle tariffe
praticate ai cittadini”. 215
L’art. 4 della L. n. 148 del 2011, infatti, è stato modificato a pochi mesi dalla sua entrata in vigore
dall’art. 9 della L. 12 novembre 2011 n. 183 (c.d. Legge di stabilità per il 2012). Al riguardo cfr. A.
LUCARELLI, La sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 e la questione della inapplicabilità del
patto di stabilità interno alle s.p.a. in house e alle aziende speciali, in www.federalismi.it, 2012. 216
Nel gennaio del 2012 il legislatore è intervenuto nuovamente nella materia de qua con l’art. 25 del
d. l. 24 gennaio 2012 n. 1(c.d. decreto Cresci Italia), successivamente convertito in L. 24 marzo 2012
n. 27, per un’analisi del quale cfr. G. MONTEDORO – L. TRETOLA, La liberalizzazione dei servizi
pubblici locali, cit.. In particolare, l’art. 25 - rubricato “Promozione e concorrenza dei servizi pubblici
locali” – ha inciso sull’impianto del d. l. n. 138 del 2011 a) introducendo un art. 3 bis recante “ambiti
territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali”; b) integrando
151
evincono dalla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale. Quest’ultima,
infatti, nel luglio del 2012 si è pronunciata in ordine alla legittimità dell’art. 4 d. l. n.
138 del 2011 rispetto all’art. 75 Cost.217
, ritenendo come “una norma legislativa che
quanto previsto a norma dell’art. 4 ed, infine, ha modificato in parte l’art. 114 TUEL, introducendo il
comma 5 bis “secondo cui anche le aziende speciali e le istituzioni sono assoggettate al patto di
stabilità interno”. Più nel dettaglio, per ciò che concerne l’art. 3 bis il legislatore ha inteso “in primo
luogo, determinare l’accelerazione della costituzione di ambiti territoriali ottimali di dimensioni
adeguate per una organizzazione più efficiente dei servizi”. Inoltre, lo stesso articolo introduce “la
previsione secondo cui le società in house sono assoggettate al patto di stabilità interno, secondo
quanto disporrà un decreto ministeriale (…): a tal fine, sarà l’ente locale o l’ente di governo locale
dell’ambito o del bacino a vigilare sul rispetto dei derivanti vincoli da parte di dette società in house”.
Infine, la legge Cresci Italia ha inciso sull’art. 4 prevedendo l’obbligo per l’ente pubblico “di operare a
monte una valutazione sulla presenza o meno delle condizioni per una liberalizzazione di un servizio
(di cui ha preventivamente determinato i contenuti degli obblighi di servizio pubblico e universale),
scegliendo se optare per l’attuazione di una concorrenza nel mercato o per il mercato”. Inoltre
“all’esito della verifica l’ente adotta una delibera quadro che illustra l’istruttoria compiuta ed
evidenzia, per i settori sottratti alla liberalizzazione, i fallimenti del sistema concorrenziale e,
viceversa, i benefici per la stabilizzazione, lo sviluppo e l’equità all’interno della comunità locale
derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio”. Infine, vengono descritte le
modalità di affidamento del servizio da erogare in diritto di esclusiva e si prevede che il conferimento
della gestione possa avvenire: a) “in favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite
individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica (…)”; b) in favore di società miste
pubblico-private; c) “in deroga a quanto previsto dai commi 8, 9, 10, 11 e 12 se il valore economico
del servizio oggetto dell’affidamento è pari o inferiore alla somma complessiva di 200.000 euro annui,
l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico che abbia i requisiti
richiesti dall’ordinamento europeo per la gestione cosiddetta in house”. Sul punto, i primi commenti
evidenziano “qualche perplessità su una norma che non tiene conto del possibile diverso
dimensionamento dell’ente locale (trattando allo stesso modo enti locali di piccole e grandi
dimensioni), ma soprattutto fortemente limitativa dell’applicabilità della fattispecie in house, al di là
della prospettata residualità della stessa”.
Ex multis, cfr. G. PIPERATA, La disciplina dei servizi pubblici locali negli ultimi interventi legislativi
di stabilità economica, in Giorn. dir. amm., 2012, 1, 23; C. VIVANI, La nuova disciplina dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica: la concorrenza tra liberalizzazioni e diritti di esclusiva, in
Urb. e app., 2012, 1, 39. Più in generale, per un inquadramento del decreto Cresci Italia nell’ambito
delle politiche nazionali ed europee in tema di semplificazione cfr. P. LAZZARA, Principio di
semplificazione e situazioni giuridico-soggettive, in Dir. amm., 2011, 4, 679. 217
Il riferimento è a Corte cost. 20 luglio 2012 n. 199 per un commento alla quale cfr., inter alia, D.
BALDAZZI, La sentenza n. 199 del 2012: tra intentio del Comitato promotore e tutela della volontà
referendaria, cit.; M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012: i servizi pubblici locali dopo la
decisione della Corte costituzionali, cit.; E. FURNO, Le tortuose vie dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica tra legislatore, referendum e Coste costituzionale: “palla al centro”, cit.; A.
LUCARELLI, La sentenza della Corte costituzionale 199/2012, cit; L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi
pubblici locali: il ritorno dell’autonomia, il rispetto della disciplina europea, la finalizzazione alle
aspettative degli utenti, cit.; P. SABBIONI, La sentenza n. 199 del 2012: una sentenza coraggiosa, forse
troppo, in Quad. cost., 2012, 4, 874; nonché F. GIGLIONI, Il rilancio dell’in house providing, in
www.labsus.org, 2012. Qui si legge che i ricorsi, proposti da varie regioni italiane, erano tesi ad
evidenziare diversi profili di illegittimità, ma “la Corte ha considerato ammissibili solo quelli
vertenti sul rispetto dell’art. 75 Cost. che disciplina l’istituto del referendum abrogativo. Pur
trattandosi quest’ultima di norma che attiene al riparto di competenze, la Corte considera ammissibili
questi ricorsi giacché una lesione dell’autonomia e delle potestà delle regioni, ma anche degli enti
locali sul piano regolamentare, è rinvenibile dalla disciplina contestata” (in senso conforme cfr., ad
ex., C. Cost. n. 303/2003; n. 196/2004; 383/2005; nonché più di recente C. Cost. nn. 22 e 80 del
2012). Tuttavia, in senso fortemente critico cfr. M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit., dove
l’A. osserva che “le lesioni potenziali, denunciate dalle Regioni e riconosciute dalla Corte,
sembrerebbero riferirsi a potestà legislative e a competenze regolamentari locali francamente difficili
da apprezzare. L’art. 4, infatti, aveva prevalentemente ad oggetto i profili della materia “SPL” relativi
alle forme di gestione e all’affidamento degli stessi. Profili che, per espressa giurisprudenza
152
riproponga nella sostanza una norma abrogata attraverso consultazione referendaria
[sia] incostituzionale per violazione dell’art. 75 Cost., nel caso in cui,
successivamente all’abrogazione, né il quadro politico, né le circostanze di fatto
siano tali da giustificare un effetto di vanificazione della volontà popolare”218
. In altri
termini – a parere della Corte – mentre “l’esito referendario (…) ha automaticamente
prodotto un effetto di espansione dei poteri regionali e locali”219
, l’art. 4 del d. l. n.
138 del 2011 ha sensibilmente limitato questi ultimi, subordinando di fatto la
possibilità di ricorrere all’in house providing al rispetto di vincoli (forse) ancor più
stringenti di quelli contemplati dalla norma abrogata220
.
costituzionale (v. sent. 272/04), possono essere disciplinati non dalle Regioni ma solo dallo Stato
(…)”. Pertanto, secondo l’A. – “se per un verso l’esito del Referendum non può essere ignorato dal
legislatore, d’altro canto esso non dovrebbe avere l’effetto di appiattire la competenza statale nel
campo dei SPL su quel minimo inderogabile di concorrenzialità imposto dal diritto UE”. 218
In proposito, tuttavia, D. BALDAZZI, La sentenza n. 199 del 2012, cit., scrive: “il tema dei rapporti
fra consultazione referendaria e legislazione successiva è stato spesso oggetto di ricostruzioni
dottrinali assolutamente divergenti fra loro. E’ controverso, infatti, se sussista effettivamente in capo
al legislatore un divieto di reintrodurre la norma abrogata in via referendaria, e quali siano il
fondamento teorico e la durata di un simile vincolo; controversa è inoltre l’identificazione dei rimedi
per fare fronte alle eventuali violazioni legislative. Fino ad oggi, una conferma dell’esistenza di tale
limitazione era rintracciabile soltanto in un obiter dictum contenuto nell’ordinanza n. 9 del 1997, con
la quale la Corte aveva dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzioni proposto dal Comitato
promotore del referendum abrogativo in materia di finanziamento pubblico ai partiti” (per un
commento a tale ordinanza cfr. G. FERRI, Il divieto di ripristino della normativa abrogata dal
referendum e la discrezionalità del legislatore, in Giur. cost., 1997, 1, 55; R. PINARDI, Riflessioni a
margine di un obiter dictum sulla costituzionalità delle leggi successive all’abrogazione referendaria,
in Giur. cost., 1997, 1, 65).
Ex multis sul tema cfr., tra gli altri, G. AZZARITI, Referendum, leggi elettorali e Parlamento: la forza
delle decisioni referendarie nei sistemi di democrazia rappresentativa, in Giur. cost., 1995, 1, 88; P.
CARNEVALE, La Corte e il referendum: un nuovo atto, in Giur. cost., 1993, 10, 2259; L. CUOCOLO,
Referendum e altri strumenti di democrazia diretta, in G. F. FERRARI (a cura di), Atlante di diritto
pubblico comparato, UTET, Milano, 2010, 267; M. LUCIANI – M.VOLPI (a cura di) Referendum,
Laterza, Bari, 1992; A. PACE, F. A. ROVERSI MONACO, F. G. SCOCA, Le conseguenze giuridiche dei tre
referendum sul nucleare, in Giur. cost., 1987, 3092; S. PANUNZIO, Esperienze e prospettive del
referendum abrogativo, in AA. VV., Attualità e attuazione della Costituzione, Laterza, Bari, 1979;
ID., Chi è il custode del risultato abrogativo del referendum?, in Giur. cost., 1997, 8, 1983; G. M.
SALERNO, Il referendum, Cedam, Padova, 1992; ID., Alcune considerazioni in tema di effetti
consequenziali del referendum di principio in materia elettorale, in Giur. it., 1996, IV, 29. Inoltre, per
una ricostruzione delle varie posizioni espresse dalla dottrina cfr. il recente contributo di E. FURNO, Le
tortuose vie dei servizi pubblici locali, cit.,il quale con riguardo alla sentenza in esame scrive: “la
Corte, seppur in modo sbrigativo, riconosce e giustifica l’esistenza di un vincolo derivante
dall’abrogazione referendaria, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in
una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia
rappresentativa, mostrando così di condividere la pari ordinazione gerarchica tra referendum e legge
(…)”. 219
F. GIGLIONI, Il rilancio dell’in house providing, cit.. 220
In senso critico, tuttavia, cfr. M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit., il quale evidenzia
che anche a seguito del referendum in capo allo Stato residuava un certo margine di apprezzamento,
“margine che, riteniamo, dovrebbe poter ancora essere utilizzato dal legislatore statale, anche dopo il
Referendum, seppur in modo diverso da quanto fatto con l’art. 4. E che, data l’esclusività della
legislazione statale in tema di concorrenza, non può considerarsi oggi aggredibile dalle Regioni (…).
Inoltre – prosegue l’A. – “ la sentenza in commento restituisce una disciplina dei SPL ancora una
volta stravolta. L’intenzione di dare stabilità e certezza normativa al settore, di aprirlo alla
153
Con il proprio dictum, dunque, la Corte sembrerebbe spingere il legislatore a
ripensare l’approccio seguito negli ultimi anni “tutto teso, anche se con risultati
contraddittori e nella sostanza confusi, a privilegiare il ricorso al mercato e alla
concorrenza”221
e a restringere i margini di autonomia degli enti locali in tema di
autoproduzione dei SPL. Infatti, benché - come statuito dallo stesso Giudice delle
Leggi nel 2004222
– lo Stato sia competente a legiferare nella materia de qua alla luce
dell’art. 117, comma secondo, lett. e) Cost.223
, ciò non di meno lo stesso è chiamato
ad operare in maniera equilibrata sì da far “salva l’autonomia, anch’essa di livello
concorrenza, di attrarvi investimenti esteri, s’infrange, al momento sul divieto di contravvenire alla
volontà popolare espressa col Referendum 2011”. 221
F. GIGLIONI, Il rilancio dell’in house providing, cit.. 222
Il riferimento è a C. Cost. 27 luglio 2004 n. 272, dove la Corte definisce la concorrenza come una
“materia funzione, che si dispone in modo trasversale rispetto alla ripartizione delle materie tra Stato e
Regioni, e che ha l’attitudine di sovrapporsi ad ogni altro ambito materiale, anche di spettanza
regionale, in virtù della finalità pro-concorrenziali perseguita”. Sul punto cfr. L. DE LUCIA, Le funzioni
di Province e Comuni nella Costituzione, cit., il quale scrive: “la Corte ha affermato che la disciplina
dei servizi pubblici locali non rientra tra le funzioni fondamentali, giacché la gestione dei predetti
servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente
locale, potendo invece rientrare nell’ambito della materia tutela della concorrenza”. Il risultato –
prosegue l’A. – “appare, almeno in parte, conforme al nuovo assetto costituzionale, mentre non risulta
pienamente persuasivo l’iter argomentativo seguito. Infatti (…) un conto è stabilire quali prestazioni
devono essere necessariamente erogate (o, comunque, assicurate) da province e comuni in favore della
collettività; altro conto è evidentemente la disciplina delle modalità di erogazione. Orbene, il primo
aspetto rientra sicuramente tra le funzioni fondamentali ed è pertanto di competenza statale (…); il
secondo, salvo che non attenga alla tutela della concorrenza o ai livelli essenziali delle prestazioni,
può anche rientrare nella competenza legislativa regionale concorrente”. Infine, “profilo ancora
diverso è quello relativo alle forme di organizzazione del servizio”. Queste, infatti, in caso di servizio
recante rilievo economico, possono essere disciplinate dalla legge statale poiché in tale eventualità si
rinviene un nesso tra l’organizzazione del servizio e la tutela della concorrenza. 223
In proposito si veda quanto affermato in senso critico da F. TRIMARCHI BANFI, Procedure
concorrenziali e regole di concorrenza, cit.. Qui, l’A. muove dal constatare come il termine
“concorrenza assum[a] significati diversi secondo il contesto nel quale è impiegata. Nell’art. 117 Cost.
essa designa il principio ordinatore dell’economia di mercato, quello stesso principio che si legge
nell’art. 119 TFUE. (…) Nel diritto europeo, invece, sono regole di concorrenza “le regole raccolte
nel capo primo del titolo settimo del Trattato”. A livello interno – prosegue l’A. - i dubbi sorgono
allorché ci si chieda “se l’aggiudicazione dei contratti pubblici mediante procedure di gara rientri nella
nozione di tutela della concorrenza” ex art. 117 Cost. “ La risposta della giurisprudenza costituzionale
è affermativa; ma vi sono ragioni per dubitare della correttezza di questa risposta. (…) I mercati dei
contratti pubblici sono mercati artificiali, creati e amministrati allo specifico scopo di controllare
l’imparzialità delle amministrazioni aggiudicatrici. Per questa ragione è difficile configurare la
concorrenza che si svolge in questo tipo di mercati come regola che tutela la concorrenza nel senso
dell’art. 117 Cost. (…)”. In altri termini, “oggetto della tutela assicurata dalle procedure di gara è la
parità di trattamento degli operatori economici da parte delle autorità, e questo specifico oggetto non
giustifica l’assimilazione delle procedure concorrenziali alle regole dell’economia di concorrenza. E
tanto meno ciò potrebbe essere giustificato alla luce del diritto europeo, che (…) distingue con
chiarezza le procedure concorrenziali, predisposte a fini controllo sull’imparzialità delle autorità
amministrative, dalle regole di concorrenza che sono dettate per il corretto funzionamento dei
mercati”. Di conseguenza, l’A. dubita della correttezza del percorso ermeneutico compiuto dalla Corte
costituzionale nella pronuncia in argomento allorquando la stessa richiama un proprio precedente (C.
Cost. n. 325/2010, per un commento alla quale cfr. L. CUOCOLO, La Corte costituzionale “salva” la
disciplina statale sui servizi pubblici locali, in Giorn. dir. amm., 2011, 5, 484) per concludere nel
senso che “la gestione a mezzo terzi è una regola di concorrenza nel senso dell’art. 106, comma
secondo, TFUE”.
154
costituzionale, di regioni ed enti locali per l’offerta dei servizi pubblici locali”224
.
D’altra parte, una soluzione di tal fatta non sembra porsi neppure in contrasto con la
politica delle istituzioni europee, atteso che “il rispetto delle competenze degli enti
locali è alla base dell’approccio dell’Unione europea ai servizi pubblici locali”225
, in
ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza226
, e che l’in
house è istituto tuttora pacificamente ammesso nell’ordinamento europeo, ancorché
subordinatamente al rispetto di talune condizioni227
.
224
F. GIGLIONI, Il rilancio dell’in house providing, cit.. Con riguardo alle più recenti prese di
posizione della Corte costituzionale in relazione al riparto di competenze legislative tra Stato e
Regioni cfr., da ultimo, F. BENELLI, Recenti tendenze della giurisprudenza costituzionale sul riparto
per materie tra Stato e Regioni e sul declino del principio di leale collaborazione (nota a C. cost. 23
febbraio 2012 n. 35, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Calabria
n. 4 del 2011 in materia di tracciabilità dei flussi finanziari), in Le Regioni, 2012, 3, 624. Qui l’A.
osserva che “all’indomani della riforma costituzionale del Titolo V, la Corte costituzionale aveva
avviato un’importante opera di reinterpretazione del nuovo riparto di competenze (…) orientata verso
l’esaltazione di un sistema di relazioni tra Stato e Regioni di tipo policentrico”, il cui perno era
rappresentato dal principio di leale collaborazione. Diversamente, “la sentenza in commento sembra
ispirata a una diversa filosofia. (…) non viene negata la natura trasversale della materia di cui all’art.
117, secondo comma, lett. h). Ciò che muta rispetto alla giurisprudenza precedente, infatti, sono le
conseguenze che l’esercizio di questa materia ha sugli spazi di autonomia regionale”. Infatti, mentre
un tempo la natura trasversale di una materia era “espressione di una relazione biunivoca da leggersi
in chiave di reciprocità”, nella sentenza citata “il principio di leale collaborazione nonché i requisiti
della proporzionalità ed adeguatezza (…) non sono neppure evocati”. Sembra dunque essere in atto –
conclude l’A. - un processo di ridefinizione dei rapporti tra Stato e Regioni secondo un “disegno che
appare poco soddisfacente dell’autonomia regionale”. 225
Così E. SCOTTI, (voce) I servizi pubblici locali, cit., la quale prosegue osservando: “quanto alle
politiche di concorrenza, sin verso la fine degli anni ’90, si è addirittura escluso che i mercati locali
potessero considerarsi mercati rilevanti ai fini dell’intervento della comunità”. Proprio in riferimento
al settore dei rifiuti, infatti, nel 1999 la Corte di Giustizia “a proposito di una controversia concernente
l’organizzazione da parte del Comune di Ischia del servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani, ha
ritenuto che la deroga alle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento e alla libera
prestazione dei servizi, prevista all’art. 55 del Trattato, eventualmente in combinato disposto con
l’art. 66 del Trattato, non si applica in una situazione nella quale gli elementi sono tutti confinati
all’interno di un solo Stato membro e che, pertanto, non presenta alcun nesso con una delle situazioni
considerate dal diritto comunitario nel settore della libera circolazione delle persone e dei servizi”.
Ex multis, con riguardo al favor dell’Europa per le autonomie locali cfr. tra gli altri V. PARISIO,
Europa delle autonomie locali e principio di sussidiarietà, cit.; A. SCRIMALI, Il Parlamento europeo e
la promozione delle autonomie locali, cit.; nonché recentemente F. DE LEONARDIS, Politiche e poteri
dei governi locali nella tutela dell’ambiente, in Dir. amm., 2012, 4, 775. 226
A dimostrazione del favor dell’Unione europea nei riguardi delle autonomie locali, cfr., inter alia,
il Protocollo sui servizi di interesse generale che riconosce “il ruolo essenziale e l’ampio potere
discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e organizzare servizi
di interesse economico generale (…); nonché la direttiva 2006/123/Ce relativa ai servizi nel mercato
interno, la quale “lascia impregiudicata la libertà, per gli Stati membri di definire (…) quali essi
ritengano essere i servizi di interesse economico generale (…) e a quali obblighi specifici essi
debbano essere soggetti (…)”. 227
Tra le pronunce più recenti della Corte di Giustizia in materia di in house si segnalano CGCE 29
novembre 2012, Econord Spa c. Comune di Cagno e Comune di Varese c. Comune di Solbiate, cause
riunite C- 182/11 e C-183/11, che affronta la questione del c.d. “in house frazionato” (cfr. E. FURNO,
SPA pubblica ed affidamento diretto: la Corte di Giustizia rifinisce “l’in house frazionato” in una
sentenza foriera di conseguenze, in www. giustamm.it, 2012); CGCE 10 settembre 2009, Sea srl c.
Comune di Ponte Nossa, C-573/07; CGCE 13 novembre 2008, Coditel Brabant SA c. Comune
d’Uccle, C- 324/07; CGCE 17 luglio 2008, Comune di Mantova, C-371/05.
155
Ciò non di meno, una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 d. l. n.
138 del 2011 restano aperte questioni tutt’altro che marginali228
, anche in relazione
alla gestione dei rifiuti urbani229
. In primis, quella della normativa applicabile alla
materia de qua, ossia “dei limiti che il legislatore statale incontra nella futura
regolazione della materia”230
.
Al riguardo, nella varietà delle tesi prospettate, taluno ha ritenuto plausibile una
automatica riespansione dell’autonomia decisionale degli enti locali in merito alla
scelta dei moduli di gestione dei servizi pubblici, con conseguente possibilità di un
ricorso generalizzato all’in house231
.
Altri, per contro, hanno escluso la reviviscenza delle norme già abrogate dall’art. 23
bis, optando piuttosto per l’applicabilità “della disciplina di settore non toccata [dalla
sentenza della Consulta], della normativa e dei principi generali dell’ordinamento
europeo, nonché di quelli affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e di
quella nazionale”232
.
Altrove poi si è sostenuto che, nelle more di un intervento legislativo che “non
implichi un’apertura decisa alla concorrenza, penalizzando, quasi fino ad annullarla,
228
Si veda ad esempio quanto evidenziato da M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit, dove si
legge: “scompaiono norme (commi 19-27) che, sebbene figlie dell’art. 23 bis, non attengono
all’apertura alla concorrenza, bensì alla scissione tra la proprietà delle società di SPL e la loro
regolazione, e che, pertanto, sarebbe stato forse opportuno salvare [secondo un approccio selettivo];
(…) si creano vuoti normativi nel settore dei rifiuti (che trovava nell’art. 4 la disciplina di riferimento
per l’affidamento) e in altri servizi quali mense, trasporti scolastici, servizi cimiteriali, servizi di
illuminazione, ecc.” 229
Sul punto cfr. A. TRICARICO, La gestione dei rifiuti, cit., in particolare pag. 20 e ss. 230
In tal senso F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto
dell’Unione e nella Costituzione, cit., la quale prosegue specificando che “i limiti ai quali ci si
riferisce sono quelli (negativi) che derivano dalla volontà popolare, e quelli (positivi) che si
impongono al legislatore, in osservanza dei vincoli del diritto europeo”. 231
In tal senso sembra orientato F. GIGLIONI, Il rilancio dell’in house providing, cit.. Interessanti sul
punto anche le osservazioni di L. R. PERFETTI, La disciplina dei servizi pubblici locali ad esito del
referendum e il piacere dell’autonomia locale, cit. nonché quelle – in chiave possibilista - di E.
SCOTTI, (voce), Servizi pubblici locali, cit., la quale scrive: “potrebbe dunque riaprirsi la strada per un
ripensamento di fondo in materia di servizi pubblici locali, al momento (ri)consegnate all’autonomia
degli enti locali”. 232
Così C. VOLPE, La “nuova normativa” sui servizi pubblici locali di rilevanza economica. Dalle
ceneri ad un nuovo effetto “Lazzaro”. Ma è vera resurrezione?, in www.giustamm.it, 2013, il quale
evidenzia come dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 si venga a creare una
situazione analoga a quella determinatasi in esito al referendum abrogativo del giugno 2011. Pertanto,
se - come affermato dalla stessa Corte nella sentenza n. 24 del 2011 [relativa alla ammissibilità del
referendum] - “all’abrogazione dell’art. 23 bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza
delle norme abrogate da tale articolo; dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata
nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (…)”. Del pari, all’azzeramento della
normativa contenuta nell’art. 4 del d.l. n. 138/2011 (…) consegue un effetto di semplificazione; con
conseguente applicazione” della normativa europea e di quella nazionale non inficiata dalla pronuncia
di incostituzionalità. In senso analogo cfr. anche F. LUCIANI, “Pubblico “ e “privato” nella gestione
dei servizi economici locali in forma societaria, in www.giustamm.it, 2012.
156
l’ipotesi in house233
, dovessero trovare applicazione l’art. 3 bis d. l. n. 138 del 2011 e
l’art. 76, comma settimo, d. l. n. 112 del 2008234
.
Secondo altri, infine, dalla lettera della pronuncia appena rammentata sarebbe stato
possibile desumere che l’emananda disciplina avrebbe dovuto “riprodurre la regola
del passato, purché (…) accompagnata dalla previsione che la rende derogabile nel
caso in cui la gestione a mezzo terzi risulti incompatibile con la missione del servizio
pubblico”235
. Detto altrimenti, fermo il divieto di affidamento diretto del servizio, il
legislatore avrebbe dovuto riconoscere la possibilità di ricorrere all’in house nei casi
di cui all’art. 106, comma secondo, TFUE. Tuttavia, la medesima dottrina ha preso le
distanze da simile opzione ermeneutica, riconoscendo come “il punto critico” della
sentenza n. 199 del 2012 stia nel fatto che con essa la Corte costituzionale ha
mostrato di ravvisare “nel diritto europeo il divieto di gestire direttamente i servizi
pubblici di rilevanza economica, a meno che sussistano le condizioni per le deroghe
ammesse dall’art. 106, c. 2 TFUE” e ciò nonostante si tratti di “un’interpretazione
che non trova riscontro in sentenze del giudice europeo, e che incontra ostacoli nel
testo stesso dell’art. 106 TFUE”236
.
233
Di questa opinione M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit., il quale scrive “la sentenza in
commento restituisce una disciplina dei SPL ancora una volta stravolta. L’intenzione di dare stabilità e
certezza normativa al settore, di aprirlo alla concorrenza, di attrarvi investimenti esteri, s’infrange, al
momento, sul divieto di contravvenire ala volontà popolare espressa col Referendum 2011. (…) allo
stato attuale, la scomparsa dell’art. 4 implica per gli EELL la possibilità di trattenere/creare gestioni in
house osservando le sole regole dell’ordinamento comunitario, delineate dalla giurisprudenza della
CGCE (…) L’esternalizzazione/privatizzazione dei servizi, tuttavia, ancorché non più imposta,
dovrebbe permanere come facoltà che gli EELL possono attuare in forza della propria autonomia
organizzativa e nel rispetto, anche in questo caso, dei dettami del diritto UE. 234
Il primo – osserva M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit. - “per i soli servizi a rete (idrici
compresi) prevede, in breve: l’individuazione, da parte delle Regioni, degli ambiti ottimali (ATO) per
ciascun servizio e degli enti deputati ad amministrarli unitariamente; (…) l’assoggettamento delle
società in house alle regole sul patto di stabilità interno (…); meccanismi finanziari premiali (in base
al concetto di virtuosità) per gli enti territoriali di ATO in cui i servizi siano esternalizzati con gara”.
In secondo, invece, alla luce delle modifiche allo stesso apportate dall’art. 20, comma nove, d. l. n.
98/2011, prevede che “il personale delle società affidatarie dirette di SPL [venga] computato per il
calcolo delle spese di personale che determina la possibilità o meno per gli EELL di effettuare
assunzioni”. Ex multis, sottolinea la perdurante applicabilità del citato art. 3 bis anche C. VOLPE, La
“nuova normativa” sui servizi pubblici locali di rilevanza economica.,cit.. 235
F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto dell’Unione e
nella Costituzione, cit.. 236
Così F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto
dell’Unione e nella Costituzione, cit., dove si legge: “nel linguaggio del diritto europeo si parla spesso
di apertura dei mercati degli appalti pubblici alla concorrenza. (…) Questo linguaggio non implica,
tuttavia, l’assimilazione dell’obbligo di procedere con gara alle regole di concorrenza in senso
proprio, giacché l’apertura di questi mercati alla concorrenza comunitaria è prescrizione che ha come
specifica finalità la garanzia della non discriminazione delle imprese secondo la nazionalità (art. 12),
del diritto di stabilimento (art. 43) e della libertà di prestazione dei servizi (art. 49) – ora artt. 18, 49 e
56 TFUE. (…) l’affidamento senza procedura concorrenziale rientra nel divieto posto dall’art. 86,
comma primo, poiché un simile affidamento viola gli artt. 43 CE o 49 CE o ancora i principi di parità
157
Al di là delle diverse opzioni teoriche paventate dalla dottrina, il legislatore è
intervenuto sul punto con il d. l. 18 ottobre 2012 n. 179, convertito in L. 17 dicembre
2012 n. 221, il cui art. 34 detta la nuova disciplina dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica. Qui, in particolare, i commi che interessano sono il 20, il 23 ed
il 27. Il primo prevede che “(…) l’affidamento del servizio [sia] effettuato sulla base
di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante”. Tale relazione,
da stilare sia in caso di esternalizzazione che in caso di ricorso all’in house, deve
dare conto a) delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento
europeo per la forma di affidamento prescelta; b) dei contenuti specifici degli
obblighi di servizio pubblico e servizio universale. E ciò è bastato ad instillare in
parte della dottrina il dubbio se, così dispondendo, il legislatore abbia voluto
affermare “l’equiordinazione dei modelli di affidamento” e fare dell’in house un
“modello alternativo alla gara”237
.
di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (C-410/2004). Nessun riferimento alle regole
di concorrenza, e soprattutto nessun riferimento al secondo comma” dell’art. 106 TFUE. Dunque –
prosegue l’A. – “i principi di non discriminazione secondo la nazionalità e di parità di trattamento, e le
libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi devono essere garantiti quando si danno circostanze
nelle quali l’amministrazione aggiudicatrice si trova nella condizione di compiere una scelta. Quando
la scelta è esclusa, perché l’affidatario fa parte dell’organizzazione (in senso ampio) della stessa
amministrazione aggiudicatrice, manca il presupposto perché trovino applicazione le norme che
presidiano i diritti delle imprese, e l’indizione della gara cessa di essere necessaria. Questa è la
sostanza della ben nota giurisprudenza europea sull’in house providing”. D’altra parte – si ribadisce -
“il diritto europeo non si interessa ai modelli organizzativi che gli Stati membri adottano per la
gestione dei servizi pubblici (…) ciò che conta per il diritto dell’Unione è che, se la gestione è affidata
a terzi, questi soggetti siano scelti con modalità che garantiscano la parità di trattamento (…)”. Ne
deriva che “l’indagine approfondita che il giudice europeo esige riguardo all’effettiva sussistenza delle
condizioni in presenza delle quali si configura l’in house providing non è indice di sfavore per questa
figura organizzativa; si tratta piuttosto della ragionevole preoccupazione di evitare che la gestione in
house sia una mera apparenza, che permette di eludere la procedura concorrenziale”. 237
Così C. VOLPE, La “nuova normativa” sui servizi pubblici locali di rilevanza economica, cit., il
quale - alla luce di una serie di argomenti, tra cui il fatto che “l’affidamento in house senza gara
costituisce pur sempre un’eccezione alle direttive comunitarie che vanno interpretate restrittivamente”
– ritiene che “alla domanda andrebbe data risposta negativa, dato che la gara costituisce pur sempre la
modalità principale di scelta del soggetto a cui affidare la gestione del servizio. (…) Ma allora se così
è – prosegue l’A. – che bisogno c’è di motivare sul ricorso all’evidenza pubblica – previa gara
normale o gara a doppio oggetto (per la costituzione della società mista) – rispetto all’affidamento in
house? E’ vero semmai il contrario”. A tale obiezione, si potrebbe tuttavia rispondere assumendo il
punto di vista di altra parte della dottrina (F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di
concorrenza nel diritto dell’Unione e nella Costituzione, cit.), la quale evidenzia che non è corretto
parlare dell’in house con una vera e propria eccezione alle regole della concorrenza. “A ben vedere,
l’eccezione all’applicazione del metodo di gara per assegnare gli incarichi è apparente: in realtà essa
sviluppa la logica del metodo medesimo, poiché procede dalla constatazione che sono assenti le
ragioni che giustificano la gara. (…) Il termine eccezione descrive il fenomeno nel suo aspetto
esteriore (…) Ma, se si ha presente la ragione della procedura concorsuale, vale a dire l’esistenza di
una scelta dell’amministrazione della quale deve essere garantita l’imparzialità, ci si rende conto che
la presunta eccezione risponde alla stessa ratio della regola. Non c’è da scegliere e quindi non c’è
materia di gara”.
158
Il successivo comma 23, invece, inserisce nell’art. 3 bis del d. l. n. 138 del 2011 –
rimasto vigente anche dopo la pronuncia della Corte costituzionale - un comma
primo bis che va a ridefinire un aspetto molto importante della materia de qua, vale a
dire il ruolo oggi spettante agli enti locali. Qui si legge, infatti, che “le funzioni di
organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, compresi
quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani, di scelta della forma di gestione, di
determinazione delle tariffe all’utenza (…), di affidamento della gestione e relativo
controllo, sono esercitate unicamente dagli enti di governo degli ambiti o bacini
territoriali ottimali (…)”, individuati ai sensi del comma primo dello stesso art. 3 bis.
Infine, il comma 27 – introdotto in sede di conversione del d. l. n. 179 del 2012 –
elimina uno dei limiti all’in house che erano stati previsti dall’art. 4, comma ottavo,
del d. l. n. 95 del 2012, ossia il fatto che il servizio oggetto dell’affidamento dovesse
avere un “valore economico pari o inferiore a 200 mila euro annui”238
. Ciò in quanto
la disposizione, marginalizzando di fatto la possibilità di ricorrere a detto modulo
gestorio, “non era più conforme ai contenuti della sentenza della Corte costituzionale
n. 199/2012”239
.
In definitiva, dal quadro d’insieme delle più recenti vicissitudini – vale a dire dalla
declaratoria di illegittimità dell’art. 4 d. l. n. 138 del 2011 e dalla successiva
disciplina legislativa dettata sul finire del 2012 – sembrerebbe possibile evincere,
innanzitutto, che il ruolo degli enti locali in materia di servizi pubblici ne sia uscito
rafforzato (o, quantomeno, non ulteriormente indebolito)240
. In tal senso parrebbe
238
Letteralmente l’art. 4, comma ottavo, del d. l. 6 luglio 2012 n. 95 convertito con modificazione
dalla L. 7 agosto 2012 n. 135 recava: “a decorrere dal 1 gennaio 2014 l’affidamento diretto può
avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti
dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house e a condizione che il
valore economico del servizio o dei beni oggetti dell’affidamento sia complessivamente pari o
inferiore a 200.000 mila euro annui”. 239
Così C. VOLPE, La “nuova normativa” sui servizi pubblici locali di rilevanza economica, cit., il
quale puntualizza come “in mancanza dell’intervenuta soppressione normativa non si sarebbe potuto
che seguire un’interpretazione costituzionalmente orientata, nel senso di escludere l’applicazione del
limite dei 200.000 euro all’in house quanto meno per i servizi pubblici locali di rilevanza economica”. 240
In proposito si veda quanto osservato da L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il
ritorno all’autonomia, il rispetto della disciplina europea, al finalizzazione alle aspettative degli
utenti, cit., secondo cui: con il d. l. 18 ottobre 2012 n. 179 conv. in L. 17 dicembre 2012 n. 221
“l’ordinamento nazionale (…) non opera alcuna scelta di modello (…) ma rinvia alla scelta che
dell’uno o dell’altro concretamente si compia da parte dell’ente affidante”. Ciò non di meno –
prosegue l’A. – “sembra rilevante osservare come la scelta tra i diversi modelli non sia libera, ma
dovrà essere compiuta alla luce di alcuni principi (…); si intende fare riferimento alle finalità indicate
dal comma 20 [dell’art. 34 L. n. 221/2012], vale a dire il rispetto della disciplina comunitaria e la
parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e l’adeguata informazione alla collettività di
riferimento”. Inoltre, “dal punto di vista degli obiettivi da perseguire viene – correttamente – meno il
riferimento alla concorrenza come ad un valore in sé, per declinarsi nei due profili della parità tra le
159
deporre sia la presa di posizione della Consulta sia il nuovo comma 1 bis introdotto
nell’art. 3 bis del d. l. n. 138 del 2011 dall’art. 34, comma 23, d. l. 18 ottobre 2012 n.
179. Né tale considerazione potrebbe dirsi smentita dall’obbligo di motivazione
imposto dal comma 20 del citato art. 34, posto che lo stesso sembra piuttosto ispirato
al principio di trasparenza nonché ai canoni dell’efficienza, efficacia ed economicità
dell’azione amministrativa.
In secondo luogo, il fatto che le modalità di gestione dei servizi pubblici locali non
siano più disciplinate dettagliatamente, sembrerebbe postulare – per quanto non
espressamente previsto dal legislatore nella L. 17 dicembre 2012 n. 221 - un rinvio
de plano ai principi che informano la normativa (e la giurisprudenza) europea,
secondo quanto auspicato da ampia parte della dottrina241
.
Infine, la circostanza che siano caduti i limiti ancora di recente previsti con riguardo
all’uso del modulo in house (primo tra tutti, quello relativo al valore economico del
servizio), lascerebbe intendere che permane un qualche spazio per l’autoproduzione
da parte degli enti locali e che la “corsa” alla esternalizzazione nell’ottica della
completa liberalizzazione abbia assunto un ritmo più lento242
.
imprese ed economicità della gestione, che sono – invece – da mettere in relazione con la pretesa
dell’utente del servizio a godere del miglio servizio possibile alle condizioni più abbordabili;
l’organizzazione del servizio, quindi, trova finalmente la sua direzione corretta, vale a dire quella del
riferimento a chi dei servizi debba usufruire e la tutela della concorrenza vede chiarita la sua
strumentalità alla migliore organizzazione del servizio, ancora nell’interesse dell’utente”. 241
Per tutti cfr. L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno all’autonomia, il
rispetto alla disciplina europea, la finalizzazione alle aspettative degli utenti, cit., che scrive: “la
pronunzia di incostituzionalità dell’art. 4 d. l. 13 agosto 2011 n. 138 determina il venire meno della
sua efficacia fin dall’origine, sicché il regime applicabile ai servizi pubblici locali (…) è solo quello
che discende dalla diretta applicazione delle disposizioni costituzionali e comunitarie rilevanti [salvo
gli effetti già prodotti e stabilizzatisi]”; nonché F. LUCIANI, “Pubblico” e “privato” nella gestione dei
servizi economici locali in forma societaria, cit.; e C. VOLPE, La “nuova normativa” sui servizi
pubblici locali di rilevanza economica. Dalle ceneri ad un nuovo effetto “Lazzaro”, cit.. 242
Sul punto cfr., ancora una volta, quanto affermato da L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici
locali: il ritorno all’autonomia, il rispetto alla disciplina europea, la finalizzazione alle aspettative
degli utenti, cit., a parere del quale “(…) l’organizzazione del servizio (…) trova finalmente la sua
direzione corretta, vale a dire quella del riferimento a chi dei servizi debba usufruire e la tutela della
concorrenza vede chiarita la sua strumentalità alla migliore organizzazione del servizio, ancora
nell’interesse dell’utente. (…) Dunque, il modello di riferimento smette di essere cercato in una scelta
organizzativa, per dirigersi verso l’adeguatezza al fatto (al tipo di servizio, alla rimuneratività della
gestione, all’organizzazione del mercato, alle condizioni delle infrastrutture e reti), alle disposizioni
comunitarie – coerenti a quelle costituzionali – ed all’interesse della comunità degli utenti – che
costituisce la vera sfida della disciplina”. Ex multis, si veda anche quanto osservato , prima dell’ultimo
intervento legislativo, da M. CAPANTINI, La sentenza n. 199 del 2012, cit., dove si legge: “quali che
siano le mosse del legislatore, vanno però sottolineati due aspetti “amministrativi” che cospirano
comunque per uno sviluppo liberale del settore dei SPL. In primo luogo, anche se si tornasse ad un
assetto simile a quello dell’art. 113 TUEL, la scelta di ciascun ente locale di ricorrere all’in house, per
essere legittima, dovrebbe sempre essere motivata a priori, in base ad un’analisi che metta in luce i
vantaggi/svantaggi comparativi tra le varie soluzioni possibili (come affermato, per ovvie ragioni di
buon andamento dell’azione amministrativa, anche da recente giurisprudenza del Consiglio di Stato,
160
Ovviamente, le vicende normative e giurisprudenziali sin qui descritte si sono
riverberate anche sul servizio di gestione dei rifiuti urbani, quale esempio di servizio
pubblico locale a rilevanza economica. Anzi, per completezza, occorre segnalare
come quest’ultimo negli ultimi anni sia stato posto sotto il “fuoco incrociato” di
plurimi tentativi di riforma. Non solo, infatti, tale istituto – stante il rinvio che Codice
dell’ambiente compie all’art. 113 TUEL - ha risentito della querelle circa le modalità
di affidamento del servizio, ma lo stesso è stato oggetto di ulteriori tentativi di
riforma per ciò che concerne la sua organizzazione.
Più nel dettaglio, si ricorda come il legislatore dapprima con la legge finanziaria per
il 2008243
e poi, in maniera apparentemente più decisa, con la L. n. 42 del 2010244
abbia disposto la soppressione delle Autorità d’ambito. In particolare, secondo tale
ultimo provvedimento l’attività di dette Autorità sarebbe dovuta cessare a decorrere
dal 27 marzo 2011, mentre nelle more le Regioni avrebbero dovuto attribuire le
funzioni un tempo conferite alle Autorità ad altri enti non meglio specificati.
Tuttavia, poiché la norma era ispirata dalla finalità di contenimento della spesa da
parte degli enti locali e dalla volontà di favorire una maggiore semplificazione
amministrativa - eliminando i c.d. enti intermedi - è plausibile credere che, in virtù
della stessa, le funzioni un tempo spettanti alle Autorità d’ambito dovessero essere
attribuite alle Province o, ancor più probabilmente, ai Comuni. Soluzione
quest’ultima che, pur nel silenzio del legislatore, sembrava confortata dai richiami ai
principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza contenuti nel comma 186 bis
dell’art. 2 della Legge finanziaria per il 2010.
n. 854/11)”. (…) “In secondo luogo, alcune norme adottate nell’ultimo anno a contorno della
disciplina dell’art. 4 (…) dovrebbero avere l’effetto, in una con la contrazione della finanza pubblica,
di disincentivare gli EELL dal costituire/mantenere gestioni dirette in perdita, in house comprese
(…)”. 243
M. RENNA, Le semplificazioni amministrative (nel decreto legislativo n. 152 del 2006), cit.. 244
Si tratta della L. 26 marzo 2010 n. 42 di conversione del d. l. 25 gennaio 2010 n. 2, recante
“Interventi urgenti concernenti enti locali e regioni”. L’art. 1, comma primo, di tale legge ha inserito il
comma 186 bis all’art. 2 della Legge finanziaria per il 2010 (L. 23 dicembre 2009 n. 191) e
disponendo così la soppressione delle Autorità d’ambito entro un anno dalla approvazione della legge
medesima (vale a dire, entro il 27 marzo 2011). Testualmente si legge: “Decorso un anno dalla data
di entrata in vigore della presente legge, sono soppresse le Autorita' d'ambito territoriale di cui agli
articoli 148 e 201 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni. Decorso lo
stesso termine, ogni atto compiuto dalle Autorità d'ambito territoriale è da considerarsi nullo. Entro
un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni attribuiscono con legge le
funzioni già esercitate dalle Autorita', nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza. Le disposizioni di cui agli articoli 148 e 201 del citato decreto legislativo n.152 del 2006
sono efficaci in ciascuna regione fino alla data di entrata in vigore della legge regionale di cui al
periodo precedente. I medesimi articoli sono comunque abrogati decorso un anno dalla data di
entrata in vigore della presente legge”.
161
Ciò non di meno, nella realtà è accaduto che con una serie di provvedimenti – quali il
d. l. n. 225 del 2010 (c.d. decreto Milleproroghe 2011245
), il d.p.c.m 25 marzo
2011246
ed, infine, il d. l. n. 216 del 2011247
, lo stesso legislatore ha disposto la
ultravigenza delle Autorità d’ambito per tutto il 2012.
Inoltre, come anticipato nelle pagine che precedono, proprio quando detto termine
stava per spirare è intervenuta la L. 17 dicembre 2012 n. 221 che, all’art. 34, detta la
nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. In particolare, il
comma 23 di detto articolo è andato in parte a modificare l’art. 3 bis del d. l. n. 138
del 2011, recante “Ambiti territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento
dei servizi pubblici locali”. Quest’ultimo – per quanto qui di pertinenza - al comma
primo ribadisce innanzitutto che spetta alla Regioni organizzare, contemperando le
ragioni della concorrenza con quelle della tutela ambientale, “lo svolgimento dei
servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, definendo il perimetro degli
ambiti o bacini territoriali ottimali [la cui dimensione, almeno di regola non deve
essere inferiore a quella del territorio provinciale248
] (…) e istituendo o designando
245
Si tratta del d. l. 29 dicembre 2010 n. 225, convertito con L. 26 febbraio 2011 n. 10 recante
“Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di
sostegno alle imprese e alle famiglie” in G.U. n. 47 del 26 febbraio 2011. 246
D.p.c.m. 25 marzo 2011, recante “Ulteriore proroga di termini relativa al Ministero dell’ambiente e
della tutela del territorio e del mare”, in G.U. 31 marzo 2011 n. 74. Qui, in particolare, nella tabella
allegata si legge che i termini di cui all’art. 2, comma 186 bis, della L. 26 dicembre 2009 n. 191 sono
ulteriormente prorogati fino al 31 dicembre 2011. Detta proroga – si puntualizza nella motivazione –
“intende assicurare l'indispensabile continuità nell'erogazione dei servizi pubblici locali e
nell'esercizio delle relative funzioni pubbliche, poiché l'abrogazione delle Autorità d'Ambito ad opera
dell'articolo 2, comma 186-bis della legge 191/2009, coinciderebbe temporalmente con le prime
applicazioni delle disposizioni in tema di affidamento del servizio pubblico locale recate dall'articolo
23-bis del Dl 112/2008, rendendo, in caso di intempestività delle leggi regionali di attribuzione delle
funzioni delle Ato ad altri soggetti, del tutto critiche le procedure di affidamento stesse. La cessazione
delle Ato senza che le Regioni siano intervenute, inoltre, bloccherebbe di fatto l'operatività del
predetto articolo 23-bis, giacché renderebbe del tutto controvertibile l'identità del soggetto legittimato
all'affidamento dei servizi di cui trattasi. La proroga garantisce un ulteriore periodo transitorio, utile al
passaggio delle funzioni dalle Ato ai nuovi soggetti individuati dalle Regioni, nonché
all'apprestamento di opportune iniziative di coordinamento in tal senso". 247
Il riferimento è a d. l. 29 dicembre 2011 n. 216, convertito in L. 24 febbraio 2012 n. 14 recante
“Proroga di termini previsti da disposizioni legislative”, in G.U. 27 febbraio 2012 n. 48. In particolare,
l’art. 13, rubricato “Proroga dei termini in materia ambientale”, al comma secondo recita: “il termine
di cui all’art 2, comma 186 bis, della legge 23 dicembre 2009 n. 191, e successive modificazioni,
come prorogato ai sensi dell’art. 1, commi 1 e 2, del d. l. 29 dicembre 2010 n. 225, convertito con
modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011 n. 10, e dal DPCM 25 febbraio 2011, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 74 del 31 marzo 2011 è prorogato al 31 dicembre 2012”. 248
L’art. 3 bis del d. l. n. 138/2011, al comma primo, prevede altresì che “Le regioni possono
individuare specifici bacini territoriali di dimensione diversa da quella provinciale, motivando la
scelta in base a criteri di differenziazione territoriale e socio-economica e in base a principi di
proporzionalità, adeguatezza ed efficienza rispetto alle caratteristiche del servizio”.
162
gli enti di governo degli stessi, entro il termine del 30 giugno 2012”249
. Il successivo
comma 1 bis, poi, prova a fare chiarezza prevedendo in maniera apparentemente
tassativa che “le funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di
rilevanza economica, compresi quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani, di
scelta della forma di gestione, di determinazione delle tariffe all'utenza per quanto di
competenza, di affidamento della gestione e relativo controllo sono esercitate
unicamente dagli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e
omogenei istituiti o designati ai sensi del comma 1 del presente articolo”.
Nei fatti, dunque, il legislatore statale ha demandato ancora una volta alle Regioni il
compito di organizzare su base territoriale la gestione del servizio in esame, benché
nel rispetto delle indicazioni impartite dal livello di governo centrale250
.
III. 5 SERVIZI PUBBLICI (ANCORA) INSTABILI
Volendo a questo punto della trattazione ricondurre ad unità le considerazioni sin qui
formulate, preme innanzitutto ribadire come da alcuni anni a questa parte i servizi
pubblici, anche nella loro dimensione locale, stiano vivendo un “processo di
trasformazione”251
apparentemente senza fine che fa degli stessi un istituto connotato
da grande instabilità252
. Detto processo è stato, ed è tuttora, indubbiamente
249
Il comma primo dell’art. 3 bis del d. l. n. 138/2011 continua prevedendo che “(…) Fermo restando
il termine di cui al primo periodo del presente comma [ossia, il 30 giugno 2012] che opera anche in
deroga a disposizioni esistenti in ordine ai tempi previsti per la riorganizzazione del servizio in ambiti,
è fatta salva l'organizzazione di servizi pubblici locali di settore in ambiti o bacini territoriali ottimali
già prevista in attuazione di specifiche direttive europee nonché ai sensi delle discipline di settore
vigenti o, infine, delle disposizioni regionali che abbiano già avviato la costituzione di ambiti o bacini
territoriali in coerenza con le previsioni indicate nel presente comma. Decorso inutilmente il termine
indicato, il Consiglio dei Ministri, a tutela dell'unità giuridica ed economica, esercita i poteri
sostitutivi di cui all'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, per organizzare lo svolgimento dei
servizi pubblici locali in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, comunque tali da consentire
economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l'efficienza del servizio”. 250
Peraltro, giova ribadire quanto evidenziato alla nota 249, supra, vale a dire che il nuovo art. 3 bis
del d. l. n. 138 del 2011 come modificato dalla L. 221 del 2012, al comma primo, fa salva
“l’organizzazione di servizi pubblici locali di settore in ambiti o bacini territoriali ottimali già prevista
in attuazione di specifiche direttive europee nonché ai sensi delle discipline di settore vigenti o, infine,
delle disposizioni regionali che abbiano già avviato la costituzione di ambiti o bacini territoriali in
coerenza con le previsioni indicate nel presente comma”. Al riguardo, pertanto si segnalano ad
esempio: Legge Regione Emilia Romagna 23 dicembre 2011 n. 23; Legge Regione Marche 25 ottobre
2011 n. 18; Legge Regione Piemonte 24 maggio 2012 n. 7; Legge Regione Sicilia 9 gennaio 2013 n.
3; Legge Regione Veneto 31 dicembre n. 52. 251
Così P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione, cit., nonché prima
ancora, e per tutti, F. MERUSI, Servizi pubblici instabili, Il Mulino, Bologna, 1990. 252
Di recente tra coloro che hanno evidenziato questo aspetto si ricordano innanzitutto E. SCOTTI,
(voce) Servizi pubblici locali, cit., che parla di dei servizi pubblici come di un istituto in transizione
“verso un approdo ancora non ben delineato”, nonché F. FRACCHIA, I servizi pubblici e la retorica
163
catalizzato dall’Unione europea, atteso che “le forme dell’intervento pubblico
nell’economia sono [sempre più] significativamente influenzate dal diritto
comunitario”253
.
Ciò posto, occorre tuttavia evidenziare come la situazione di profonda incertezza che
aleggia sui molti coni d’ombra della materia non sia esclusivamente imputabile alle
influenze del diritto europeo. Al contrario, infatti, ciò che da più parti si lamenta è “la
mancanza [già a livello nazionale] di parametri istituzionali e culturali
sufficientemente definiti”254
. In altri termini, di un solido inquadramento sistematico,
posto che il vorticoso mutare della legislazione può essere letto come la prova di un
andamento ondivago e della mancanza di un progetto organico, capace di comporre
con coerenza le molte istanze che ruotano attorno all’istituto del servizio pubblico255
.
Emblematico in proposito, il profilo del ruolo delle autonomie locali nella gestione
dei servizi pubblici – quel è ad esempio quello di igiene urbana256
- e nella scelta
delle relative modalità di affidamento257
. Aspetto in ordine al quale legislatore,
della concorrenza, cit.; G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi
pubblici locali, cit.; C. VOLPE, Servizi pubblici locali e legge di stabilità 2012. Il dinamismo
normativo continua, in Foro amm. CdS., 2011, 11, 3549. 253
In questi termini F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni, cit.; ma anche E. PICOZZA, Il diritto pubblico
dell’economia nella prospettiva dell’integrazione europea, cit.. Per ciò che concerne nello specifico
l’istituto in esame, cfr. F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, cit., nonché E.
SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., la quale osserva che “l’incidenza del
diritto europeo sulla disciplina dei servizi pubblici, nazionali e locali, non è più suscettibile di essere
posta in discussione; e ciò sia che si tratti di servizi di rilevanza economica, sia che si abbia riguardo
ad attività prive di tale rilevanza. Gli interventi delle istituzioni europee hanno radicalmente cambiato
il volto dei servizi pubblici, rendendoli permeabili a logiche (quelle della concorrenza e del mercato)
tradizionalmente estranee alle attività pubbliche e al buon andamento e all’efficienza dell’azione
amministrativa". 254
Così G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi pubblici locali,
cit.. 255
Non è un caso, dunque, se in dottrina a commento delle recenti vicende legislative si leggono
espressioni quali “fibrillazione normativa” (F. FRACCHIA, I servizi pubblici e la retorica della
concorrenza, cit.) o “dinamismo normativo” (C. VOLPE, Servizi pubblici locali e legge di stabilità
2012, cit.) o, ancora, “disciplina instabile” (E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.) piuttosto che
“ tormentata via” (F. MERUSI, La tormentata via della concorrenza nei servizi pubblici locali, in
Munus, 2011, 2, 425), “tortuose vie” (E. FURNO, Le tortuose vie dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica, cit.) e “cammino lento e incerto” (G. PIPERATA, Il cammino lento e incerto dei servizi
pubblici locali dalla gestione pubblica al mercato liberalizzato, cit.). 256
Sul punto, da ultimo, cfr. A. TRICARICO, La gestione integrata dei rifiuti. Dall’entrata in vigore del
Codice dell’ambiente alla bocciatura della c.d. seconda liberalizzazione (Osservazioni a Corte
costituzionale 199 del 2012), cit.. 257
Come osservato da F. DE LEONARDIS, Prefazione a E. MICHETTI, In house providing. Modalità,
requisiti e limiti. Evoluzione legislativa e giurisprudenziale interna ed europea anche alla luce del
referendum del 12 – 13 giugno 2011, Giuffrè, Milano, 2011, “l’esito dei quesiti referendari di cui
sopra dimostra con tutta evidenza come l’idea di un sistema di fornitura di tali servizi incentrato,
principalmente, sui meccanismi concorrenziali non sia stata ancora pienamente accettata in Italia (e
forse nemmeno in molti degli altri paesi europei). Le ragioni di questa “avversione” per il privato e
“predilezione” per il pubblico, che sembrano entrambe profondamente radicate nel tessuto sociale
italiano, sono certamente molteplici. Le più “nobili” si rifanno all’esigenza di garantire ad ogni
164
giurisprudenza e cittadini sono sembrati assumere posizioni tra loro anche molto
distanti, come dimostrato dalle “alterne fortune” vissute (ancora di recente)
dall’istituto dell’in house258
. Il che, peraltro, oltre a minare la certezza del diritto e
alcuni principi cardine dell’azione amministrativa259
– in primis quello di buon
andamento – rischia di avere sensibili ricadute sul sistema economico e sul livello
occupazionale del Paese, nonché sui rapporti giuridici di quest’ultimo con gli altri
Stati membri dell’UE260
.
Ad oggi, dunque, sembra possibile affermare che i servizi pubblici in Italia sono
ancor più “instabili” di quanto Fabio Merusi non li ritenesse essere oltre vent’anni
fa261
. E la ragione di ciò sembrerebbe doversi ricondurre più alla mancanza di una
politica legislativa univoca ed organica che non alle ingerenze dell’Unione europea
nella materia de qua. Anzi, il dubbio che potrebbe legittimamente avanzarsi è che
talvolta l’Europa finisca per fungere da alibi per le tante contraddizioni della nostra
legislazione.
individuo la possibilità di usufruire dei servizi pubblici essenziali, a prezzi accessibili per tutti, e
assicurando al contempo un elevato livello di qualità del servizio stesso. (…) La realtà, tuttavia, ha
spesso smentito le aspettative. (…) Ciò induce, allora, a chiedersi se dietro l’“avversione” per i
meccanismi concorrenziali e la “predilezione” per il pubblico non si nascondano in realtà altre, e
sicuramente meno “nobili”, motivazioni”. 258
Il riferimento è ai reiterati tentativi del legislatore di marginalizzare le possibilità di ricorso a tale
istituto da parte degli enti locali (cfr., solo di recente, l’art. 23 bis d. l. n. 112 del 2008, come
modificato nel 2009; il d. l. n. 1/2012, c.d. decreto liberalizzazioni e l’art. 4 d.l. n. 138 del 2011), al
risultato della consultazione popolare nonché alla parola della Corte costituzionale che, pur non
osteggiando la spinta alla liberalizzazione dei servizi pubblici locali (cfr. C. Cost. n. 325/2010, in
ordine alla quale cfr. L. CUOCOLO, La Corte costituzionale “salva” la disciplina statale sui servizi
pubblici locali, cit. e più di recente anche C. Cost. n. 200/2012, per un commento alla quale cfr. G.
CORSO, La liberalizzazione dell’attività economica non piace alle Regioni, in Giur. it., 2013, 3, 673;
E. FURNO, La Corte “salva” la liberalizzazione della attività economiche, ma “boccia” la
soppressione automatica delle norme incompatibili per violazione dell’autonomia regionali, in
www.giustamm.it, 2012), con la sentenza n. 199 del 2012 sembra aver voluto lanciare un monito
affinché ciò avvenga cum grano salis. Come opportunamente sottolineato da E. SCOTTI, (voce) Servizi
pubblici locali, cit., “l’apertura alla concorrenza non può prescindere dalla garanzia della universalità
che, come si è visto, costituisce il nucleo imprescindibile dei servizi pubblici locali e che non può
ritenersi di per sé surrogata dall’operare (eventuale) delle dinamiche di mercato”. 259
Si veda sul punto ancora una volta E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit. la quale osserva
che “emerge oggi, preponderante, un’esigenza di ragionevolezza e di differenziazione: sia per settori
che per realtà territoriali. Si domanda così, da più parti e secondo diverse prospettive, di valorizzare –
nel contempo responsabilizzando – l’autonomia territoriale, ancorando le scelte degli enti locali ad un
effettivo rispetto dei principi di efficienza ed economicità della gestione dei servizi, in vista degli
interessi dei cittadini”. 260
Tale aspetto è chiaramente messo in evidenza, ad esempio, da M. CAPANTINI, La sentenza n. 119
del 2012, cit.; S. STAIANO, I servizi pubblici locali nel d.l. n. 138 del 2011, cit.. 261
Il riferimento è, chiaramente, a F. MERUSI, Servizi pubblici instabili, cit..
165
CAPITOLO IV
IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI
IN GRAN BRETAGNA
IV.1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Dopo aver ricostruito – rispettivamente nei capitoli I e III - il sistema delle fonti in
materia di rifiuti e le modalità di gestione del relativo servizio pubblico in Italia,
appare ora opportuno dedicare spazio alla comparazione1, analizzando come detto
servizio viene disciplinato e svolto in Gran Bretagna2.
In proposito, si sottolinea come più ragioni hanno deposto nel senso di scegliere
quest’ultimo Paese come tertium comparationis. Da un lato, la spiccata attenzione
delle istituzioni britanniche nei confronti dell’ambiente3 unitamente all’attualità che
1 Sino a questo momento, infatti, il parallelo è stato svolto prevalentemente tra Italia e Unione
europea, al fine di verificare come la prima abbia risposto alle istanze, sia di tipo ambientale (cfr.
recepimento delle direttive rifiuti) sia di tipo pro-concorrenziale (cfr. apertura di determinati servizi
pubblici al mercato), avanzate dalla seconda. Solo nel secondo capitolo sono state compiute delle
brevi “incursioni” nell’ordinamento britannico con l’intento di approfondire il delinearsi in quel
contesto della nozione di rifiuto e di quelle contigue di sottoprodotto ed end of waste. In dottrina, si
ricordano inter alia D. POCKLINGTON, Opening Pandora’s Box – the EU Review of the Definition of
“waste”, in [2003] EELR 204; ID., UK perspectives on the definition of “waste” in EU legislation, in
[1999] EELR 72; ID., The utility of the concept of “waste”, in 5 [1996] Env. Liability 94; E.
SCOTFORD, Trash or treasure: policy tensions in EC waste regulation, in 3 [2007] JEL 367, ID., The
new waste directive – Trying to do it all … An early assessment, 11 [2009] ELR 75; D. WILKINSON,
Time to discard the concept of waste?, in 1 [1999] ELR 172.
Inoltre, per quel che concerne l’opportunità di uno studio comparato in materia di servizi pubblici cfr.
G. MORBIDELLI, Introduzione: i servizi pubblici locali in Europa, in Dir. pubbl. comp. eur., 2001, 783
e ss., il quale sottolinea come ciò sia funzionale a vedere i servizi pubblici “al di là del nostro
ordinamento patrio: e ciò sia al fine di offrire il contributo della comparazione al dibattito (…) sia
anche per offrire dei criteri di interpretazione delle stesse norme comunitarie, che sovente sono
mutuate da specifici istituti di ordinamenti degli Stati membri (…) e pertanto non possono essere
comprese senza tener conto dell’humus in cui sono nate e sono state coltivate”. 2 Con l’avvertenza che, nelle pagine che seguiranno, si procederà all’analisi della disciplina giuridica
del servizio di gestione dei rifiuti urbani vigente in Inghilterra, atteso che le normative attualmente in
vigore nelle altre regioni del Regno Unito si rifanno sostanzialmente a quest’ultima salvo che per
piccole disposizioni di dettaglio. 3 La dottrina (D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, Sweet & Maxwell, 2011), infatti,
osserva che molta parte della legislazione “pionieristica” in materia ambientale ha avuto origine in
Gran Bretagna e ciò sia prima che dopo l’inserimento – nel 1986 - nel Trattato Ce di un capo ad hoc
per ciò che concerne le competenze della (allora) Comunità in materia ambientale. A titolo
esemplificativo, l’A. ricorda che la Gran Bretagna si è posta in una posizione di avanguardia con
riguardo a tematiche quali la responsabilità del produttore e l’end of waste. Inoltre, la stessa è leader
per ciò che concerne l’uso di strumenti economici (in specie, tasse ed incentivi) in materia ambientale.
166
il tema dei rifiuti riveste in detto contesto4; dall’altro il valore che dal punto di vista
metodologico reca il confronto tra un sistema giuridico di civil law ed uno di
common law5.
Con particolare riferimento al settore dei rifiuti, inoltre, si segnala che risale al 1974 il “Control of
Pollution Act” (COPA), con il quale – tra le altre cose – è stato istituito un sistema di autorizzazione
per l’attività di smaltimento dei rifiuti. Benché tale sistema non si sia rivelato esente da criticità,
preme rilevare che lo stesso è stato preso a modello non solo da molti Stati membri, ma anche dalla
stessa Comunità europea. Una chiara influenza del modello tracciato nel COPA, infatti, si rinveniva
nella prima direttiva rifiuti 75/442/EEC. Sul punto amplius cfr. S. BELL – D. MCGILLIVRAY,
Environmental Law, Oxford, 2008, nonché quanto osservato nel proseguo della trattazione. 4 Per avere una prima idea di quanto il tema dei rifiuti sia considerato attuale in Gran Bretagna si veda
il sito ufficiale del Departement for Environment, Food and Rural Affairs (DEFRA) del Governo
inglese (www.defra.gov.uk/environment/waste) ed i molti materiali ivi pubblicati, anche a scopo
meramente divulgativo.
Si tenga presente, inoltre, quanto affermato già in passato da parte della dottrina. Nel 1991, ad
esempio, N. ATKINSON, The Regulatory Lacuna: Waste Disposal and the clean Up of Contaminated
Sites, in 2 [1991] JEL 265, scriveva: “Ogni anno in Inghilterra e Galles milioni di tonnellate di rifiuti
sono prodotti dagli abitanti dell’isola (…). Recentemente, tuttavia, è aumentata la consapevolezza
riguardo i danni all’ambiente che possono derivare da uno scorretto smaltimento dei rifiuti, così come
è aumentata la preoccupazione riguardo gli ingenti costi che ciò può comportare sia per le presenti che
per le future generazioni”. 5 In specie, tale confronto è particolarmente “avvincente” se operato in relazione a profili afferenti al
diritto amministrativo, attesa “la scarsa determinatezza che tuttora connota la nozione di diritto
amministrativo nell’ordinamento inglese”. Attenti studiosi (P. CHIRULLI, Attività amministrativa e
sindacato giurisdizionale in Gran Bretagna. Dal locus standi alla justiciability, Giappichelli, Torino,
1996), infatti, hanno rilevato come sul finire del secolo scorso “la dottrina inglese [mostrasse] ancora
qualche perplessità verso una chiara distinzione tra diritto privato e diritto pubblico”. La stessa cosa –
ricorda l’A. – si aveva in giurisprudenza. “Si consideri quanto affermato sul punto da Lord
Wilberforce nella decisione sul caso Davy c. Spelthorne, [1984] 1 A. C. 276: le espressioni “diritto
privato” e “diritto pubblico” sono recentemente state importate nel diritto inglese da paesi che, a
differenza del nostro, hanno sistemi separati di diritto privato e di diritto pubblico. Non v’è dubbio che
essere siano utili definizioni a fini descrittivi. In questo paese esse debbono tuttavia essere utilizzate
con cautela, giacché, tipicamente, il diritto inglese si incentra non sui principi, ma sui rimedi”.
Andando ad indagare le cause di tale stato delle cose, l’A. sottolinea che “Manifesto dell’avversione
della dottrina inglese ottocentesca nei confronti della nozione di diritto amministrativo” è
indubbiamente l’opera di A. V. DICEY, Introduction to the study of the law of the constitution, VIII
ed., Liberty Fund, Indianapolis, 1994. “Essa ciò non di meno costituisce tuttora (…) l’indispensabile
punto di partenza di ogni analisi tesa a cogliere le tappe più significative dell’emersione e dello
sviluppo di quella serie di principi e di istituti (…) cui solo recentemente è stata riconosciuta natura
pubblicistica ma le cui matrici storiche, culturali ed ideologiche sono da ricercare, tuttavia, proprio nel
pensiero di quegli autori ottocenteschi, primo fra tutti A.V. Dicey, che asserivano di non conoscere
altro diritto se non l’ordinary law of the land”. Al riguardo, infatti, si osserva che la teoria
costituzionale di Dicey, imperniata sui principi della Parlamentary sovereignty e dalla rule of law,
portava al “totale disconoscimento dell’esistenza di un terso potere, esecutivo, posto fra quello
legislativo e quello giudiziario. Importante corollario di questa affermazione era la dicotomia tra
diritto e amministrazione, in base alla quale se si riconosceva la supremazia del primo non poteva
riconoscersi rilevanza alla seconda e viceversa. (…) La dialettica private-pubblica
amministrazioneveniva interamente ricondotta sotto l’applicazione unitaria dell’ordinary law of the
land, demandata alle corti ordinarie che la amministravano con gli strumenti previsti per le
controversie tra privati”.
Ex multis cfr., innanzitutto, A.V. DICEY, The development of administrative law in England, in The
law quarterly review, 1915, 148. Più di recente, inoltre, cfr. G. GORLA, Interessi e problemi della
comparazione con la “commn law”, in ID., Diritto comparato e diritto comune europeo, Giuffrè,
Milano, 1981; C. HARLOW – R. RAWLING, Law and administration, Wiedenfeld&Nicolson, London,
1984; C. HARLOW, “Public” and “Private” Law: a Definition without Distinction, in The Modern
167
L’obiettivo che in questa sede si intende perseguire, dunque, è quello di verificare
come la Gran Bretagna abbia risposto alle istanze avanzate dall’Europa nella materia
de qua, sia dal punto di vista della tutela ambientale sia dal punto di vista della
organizzazione del servizio pubblico di gestione dei rifiuti. In altri termini, dopo aver
esaminato le trasformazioni che il diritto UE ha innescato nell’ordinamento italiano
sotto entrambi i profili poc’anzi menzionati6, l’intento è ora quello di passare a
valutare se – ed eventualmente come – le prescrizioni di matrice europea abbiano
influito nel contesto giuridico di un altro Stato membro, qual è appunto la Gran
Bretagna7.
Per tale via sarà, dunque, possibile giungere a tracciare un parallelo tra i due Paesi,
ma anche formulare talune considerazioni in ordine al tema, ben più generale, delle
modalità con cui le istituzioni europee operano al fine di creare – non tanto e non più
solo un mercato unico, quanto piuttosto - un ordinamento giuridico unitario8.
Law Review, 1980, 241; J. D. B. MITCHELL, The causes and effects of the absence of a system of
public law in the United Kingdom, in Public Law, 1965, 96; L. SCARMAN, The development of
administrative law: obstacles and opportunities, in Public Law, 1991, 490. 6 Si vedano in proposito le considerazioni sviluppate nei capitoli I e III, retro.
7 Sull’argomento, ancorché in termini più generali, si segnalano le riflessioni di J. USHER, The
Reception of General Principles of Community Law in the United Kingdom, in Eur. Buss. Law. Rew.,
2006, 489. Qui si legge che “il tipo di influenza più ovvia si è avuto allorché a livello interno sono
stati sviluppati dei rimedi ad hoc per non incorrere in violazioni del diritti comunitario, laddove –
peraltro – in molti casi le corti della Gran Bretagna hanno persino anticipato gli indirizzi della Corte di
Giustizia”. A titolo esemplificativo, infatti, l’A. ricorda come l’influenza del diritto inglese sia
chiaramente ravvisabile nella giurisprudenza della Corte di Giustizia sul diritto ad essere ascoltati
(cfr. CGCE 23 ottobre 1974, Transocean Marine Paint Association c. Commission, C-17/74). E
ancora: “si può osservare un notevole parallelismo tra il diritto inglese e il diritto comunitario con
riguardo allo sviluppo di certi principi (…) e tecniche interpretative, qual è, ad esempio,
l’interpretazione teleologica”.
Sul punto cfr. anche L. DE LUCIA, Amministrazione transnazionale e ordinamento europeo. Saggio sul
pluralismo amministrativo, Giappichelli, Torino, 2009; D. OSBORN, The Impact of EC Environmental
Policies on UK Public Administration, in L. KRAMER (a cura di), European Environmental Law,
Ashgate, 2003, il quale evidenzia come “l’impatto non sia stato unidirezionale”, poiché “nonostante il
tardivo avvento sulla scena, il contributo del Regno Unito all’emergente politica comunitaria [in
materia ambientale] è stato fondamentale”, anche in ragione della posizione di forza - dal punto di
vista dell’esperienza scientifica ed amministrativa - da cui la Gran Bretagna muoveva. 8 Al riguardo, cfr. A. ROMANO, Amministrazione, legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. amm., 1999,
1, 130, il quale osserva come nel tempo il diritto europeo si sia esteso ben oltre “i suoi originari
ambiti e le sue originarie finalità legate alla devoluzione della sovranità in materia economica alla
Comunità europea”, così che “da ordinamento derivato, e quindi autonomo, tende a trasformarsi in un
ordinamento originario, e quindi sovrano”.
168
In definitiva, si cercherà di sviluppare talune considerazioni circa l’influenza che
l’Unione europea esercita in ordine alle politiche nazionali al fine di valutare se,
quanto meno con precipuo riguardo al settore in esame, l’oramai indiscussa primautè
del diritto UE9 sia effettivamente in grado di garantire l’omogeneità delle discipline
nazionali e, soprattutto, se (o fino a che punto) quest’ultima sia sempre la soluzione
da preferire o se, piuttosto, talvolta non sia meglio “governare per differenza”10
,
specie al fine di garantire l’adeguatezza della normativa al contesto cui la stessa deve
applicarsi11
.
IV.2 LA DISCIPLINA GIURIDICA DEI RIFIUTI IN GRAN BRETAGNA
Se – come molti sostengono12
– specie a partire dagli anni Novanta del secolo scorso,
la maggior parte della legislazione del Regno Unito in materia ambientale ha avuto
“origine” in Europa, ciò è particolarmente vero per quel che concerne i rifiuti e la
loro gestione13
. A titolo esemplificativo si ricorda, infatti, che due pietre miliari della
legislazione britannica di rango primario, quali il “Waste Management Licensing
Regulations” del 1994 e l’“Environmental Act” del 1995, sono state adottate
Ex multis, cfr. D. WYATT, The Growing competence of the European Community, in Eur. Bus. Law.
Rew., 2006, 483, il quale ritiene che quattro siano – in particolare – i fattori che hanno contribuito
all’espansione delle competenze dell’UE negli ultimi trent’anni: 1) il Trattato Cee aveva uno scopo
ampio; 2) detto trattato è stato interpretato estensivamente da parte delle istituzioni europee e 3) degli
Stati membri; inoltre 4) negli anni sono state apportate modifiche (ampliative) molto significative,
specie dal punto di vista delle competenze. 9 Sul principio del “primato” o della primazia del diritto europeo sui diritti nazionali cfr., inter alia, M.
P. CHITI, Diritto amministrativo europeo, Giuffrè, Milano, 2011; P. CRAIG, EU Law. Text, Materials
and Cases, Sweet & Maxwell, London, 2011; G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, Cedam,
Padova, 2010. 10
L’espressione è presa in prestito da F. GIGLIONI, Governare per differenza. Metodi europei di
coordinamento, ETS, Pisa, 2012. 11
In questo senso, di recente, E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, in Dig. disc. pubbl.,
aggiornamento, 2012; nonché prima ancora A. TRAVI, Servizi pubblici e tutela della concorrenza fra
diritto comunitario e modelli nazionali, in G. FALCON (a cura di), Il diritto amministrativo dei Paesi
Europei tra omogeneizzazione e diversità culturali, Cedam, Padova, 2005. 12
Cfr., inter alia, D. OSBORN, The Impact of EC Environmental Policies on UK Public
Administration, cit.; S. TROMAS, EC Waste Law – A complete mess?, in 13 [2001] JEL 133. 13
Così D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit..
169
principalmente al fine di recepire nell’ordinamento interno le previsioni dettate dalla
(allora) Comunità in tema di rifiuti.
Ciò non di meno, e a differenza di quanto si è detto con riguardo all’Italia14
, la
“storia” del diritto inglese nella materia de qua ha radici ben più antiche ed
“autonome”, tanto da indurre più d’uno a parlare di una legislazione di
avanguardia15
. Al riguardo, occorre innanzitutto sottolineare come l’essere stata
teatro della Rivoluzione industriale abbia fatto sì che la Gran Bretagna già nel XIX
secolo iniziasse ad interessarsi al problema dei rifiuti16
, ancorché – al pari di quanto
accaduto in Italia alcuni anni dopo17
- in un primo tempo ciò fosse principalmente
14
Si veda in proposito quanto ricordato nel capitolo I. Sul punto in dottrina, cfr. inter alia B.
CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’Ambiente, Il Mulino, Bologna, III ed. 2005; P. DELL’ANNO, (voce)
Rifiuti, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 2006. 15
In particolare cfr. D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 16
Estremamente interessante, al riguardo, la ricostruzione operata da L. PINNA, Autoritratto
dell’immondizia. Come la civiltà è stata condizionata dai rifiuti, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.
Qui si legge, infatti: si potrebbe “pensare che la rivoluzione industriale abbia portato ricchezza e
benessere quasi istantaneamente (…). Naturalmente niente è più lontano dal vero”. E “la storia di
Londra, la capitale della prima nazione a entrare nella rivoluzione industriale, è in proposito molto
interessante. All’inizio del settecento Londra aveva circa 600.000 abitanti e (…) era ancora una città
pestilenziale. (…) Ma all’alba dell’Ottocento Londra contava 900.000 abitanti. Evidentemente
l’aumento era avvenuto grazie all’immigrazione (…). Come è facile immaginare, con il rapido
aumento degli abitanti e la conseguente comparsa di bidonville e slum, la situazione della città
pestilenziale non poteva che peggiorare. Il sistema fognario di Londra era primitivo: canalette lungo le
strade, canali, fossi, ruscelli affluenti del Tamigi, e qualche abbozzo di fognatura sotterranea per
drenare le acque piovane dalle strade cittadine. Le case avevano un pozzo nero per raccogliere le
deiezioni. (…) A questi guai si aggiunsero, come un potentissimo colpo di maglio due “innovazioni”
tecnologiche. I nuovi acquedotti e, soprattutto, il WC. (…) Il risultato di questo insieme infernale di
innovazione tecnologica, città pestilenziale e scarse conoscenze medico-biologiche sarà l’esplosione
di ripetute e gravissime epidemie di colera” (cfr. il caso della fontana di Broad Street, cap. I retro). Al
riguardo, l’autore ricorda che “nel suo famoso rapporto An Inquiry into the Sanitary Conditions of the
Labouring Population of Great Britain del 1842, [lo scienziato] Chadwick sosteneva che migliorare le
condizioni sanitarie e la salute della classe operaia era nell’interesse dello Stato. Sia perché la
produttività del lavoro (meno assenze) sarebbe aumentata, sia perché ci sarebbe stato un minor
numero di malati a carico del bilancio pubblico. I principali nemici erano quindi il tanfo e l’aria
viziata creata dalle stanze sovraffollate, dai vicoli stretti con catapecchie addossate le une alle altre
nelle bidonville, dalla mancanza di spazi verdi, e ovviamente dai liquami e dai rifiuti allo stato libero”.
Ecco allora che, a distanza di poco più di un decennio, nel 1875 con il Public Health Act Londra
conobbe per la prima volta il dustbin, ossia il secchio dell’immondizia. “Stavano nascendo i primi
servizi di nettezza urbana”. 17
Si veda quanto ricordato nel capitolo I con riguardo alla genesi della L. 20 marzo 1941 n. 366.
Inoltre, in dottrina, cfr. tra gli altri G. BOTTINO - R. FEDERICI, (voce) Rifiuti, in M. P. CHITI – G.
GRECO (a cura di) Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffrè, Milano, 2007; A. MONTAGNA,
(voce) Rifiuti (gestione dei), cit..
170
legato all’esigenza di assicurare un elevato livello di igiene nelle città18
. Le Autorità
locali, infatti, sin dal 1848 in forza del “Public Health Act” (poi sostituito dal
“Sanitary Act” del 1866) sono state dotate di specifici poteri in relazione alla
necessità di prevenire e gestire l’accumulo di rifiuti nocivi lungo le strade e negli
spazi pubblici. “Le disposizioni ivi contenute, dunque, hanno costituito la base per
quello che oggi è lo Statutory nuisance control [benché] il loro essere orientate
prioritariamente alla tutela dell’igiene pubblica, piuttosto che dell’ambiente, [sia]
parso da subito evidente”19
.
Inoltre, parte della dottrina evidenzia come a rendere in un certo senso “pionieristica”
la legislazione inglese in materia di rifiuti, abbia concorso in maniera determinante
anche il rilievo che la proprietà reca da sempre nell’ordinamento di common law.
Come da taluno sottolineato, infatti, il rapporto tra i rifiuti e la loro gestione, da un
lato, e il diritto di proprietà, dall’altro lato, è stato sensibilmente caratterizzato dal
cosiddetto fenomeno NIMBY20
. A quest’ultimo, dunque, si lega la grande mole di
contenzioso relativa alla costruzione degli impianti connessi con il ciclo dei rifiuti,
quali ad esempio le discariche, i centri per la raccolta e il riciclo dei rifiuti o ancora
18
In tal senso S. BELL – D. MCGILLIVRAY, Environmental Law, cit. ed E. COCKAYNE, Hubbub: Filth,
Noise and Stench in England, Yale University Press, 2007. Ma anche L. PINNA, Autoritratto
dell’immondizia, cit., il quale ricorda come vicende analoghe hanno caratterizzato anche altri Paesi,
quale ad esempio la Francia. “Anche Parigi ebbe la sua estate di passione: il Grande Puzzo del 1880”.
Nella capitale francese, infatti, “la stragrande maggioranza dei pozzi neri delle abitazioni non era
collegata alle fogne”. Ma “la calda estate del 1880 fece ovviamente ripensare tutto il sistema di
smaltimento dei rifiuti fognari” e “anche per i rifiuti solidi (…) la crescita delle città peggiorò la già
difficile situazione e costrinse a ripensare le primitive misure di “nettezza urbana”. (…) La svolta
epocale, per Parigi, avvenne nel 1884, quando il prefetto della Senna di allora, Eugene Poubelle,
emise un’ordinanza con cui obbligava tutte le case, i negozi, le botteghe a dotarsi di bidoni metallici
con coperchio dentro i quali mettere le immondizie. I bidoni dovevano essere poi esposti in
determinate ore sulla strada, dove venivano svuotati da un apposito servizio” di nettezza urbana. 19
Così si legge in AA.VV. Environmental Law, ButterWorths Lexisnexis, 2002. 20
Il fenomeno Nimby, acronimo di “not in my back yard”, lega assieme il tema della tutela della
proprietà privata e quello della partecipazione alle decisioni recanti impatto ambientale. In dottrina,
sotto il primo profilo cfr., per tutti A. LAYARD, Planning and Environment at a Crossroad, in 3 [2002]
JEL 2002 401 e D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit., in specie pp. 271 e ss..
Quanto al secondo profilo, tra i contributi più recenti si segnalano: E. ETERMIRE, Public Access to
Environmental Information Held by Private Companies, in 12 [2012] ELR 1 7; M. LEE, Population
and the Environment, in 13 [2011] ELR 2 81; O. W. PEDERSON, Price and Partecipation: the UK
Before the Aarhus Convention’s Compliance Commitee, in 14 ELR 2 [2011] 115.
171
gli inceneritori21
, poiché sovente essi si collocano al crocevia tra la dimensione
ambientale ed il pieno godimento del diritto di proprietà22
.
Come anticipato, tuttavia, e similmente a quanto avvenuto in Italia, solo in un
secondo momento la legislazione britannica in materia di rifiuti ha assunto come
scopo primario quello della tutela dell’ambiente. In tal senso, il primo atto legislativo
– in ordine cronologico - specificatamente dedicato ad arginare gli effetti negativi
che i rifiuti sono in grado di produrre dal punto di vista dell’inquinamento è stato
adottato nel 1972 in modo del tutto fortuito23
. Infatti, a seguito della scoperta di una
ingente quantità di cianuro abbandonato all’aperto in una vallata e in ragione del
panico diffusosi tra la popolazione, per il timore dei danni alla salute e all’ambiente
che potevano derivare da tale rifiuto pericoloso, il Governo inglese si vide costretto a
prendere urgentemente dei provvedimenti e adottò il “Deposit of Poisonous Waste
Act”.
Quest’ultimo, dunque, ha costituito una sorta di misura ad hoc assunta per rispondere
ad uno specifico stato di emergenza, dato dal deposito illegale di sostanze pericolose
(salvo, tuttavia, aspirare ad avere un’applicazione pratica ben al di là del singolo caso
di specie). Questa circostanza, unitamente al fatto di contenere una definizione di
21
Inter alia, tale aspetto viene evidenziato in AA.VV., Environmental Law, cit.; S. TROMAS, EC
Waste Law – a Complete Mess?, cit.. 22
Cfr. nota n. 19, retro. Inoltre, occorre anche evidenziare come tali questioni si leghino anche al tema
del diritto al rispetto della vita privata e familiare e (soprattutto) del diritto alla salute. A tale proposito
appare emblematica la giurisprudenza della Corte EDU sviluppatasi intorno all’art. 8 CEDU a partire
dal noto caso Lopez Ostra c. Spagna. (Corte EDU 9 dicembre 1994, Lopez Ostra c. Spagna, ric.
16798/90). Dopo di allora si ricordano, inter alia, Corte EDU 9 giugno 1998, McGinley c. Regno
Unito, ric. n. 21825/93; Corte EDU 19 febbraio 1998, Guerra e a. c. Italia, ric. n. 14967/89; Corte
EDU 8 luglio 2003, Hatton c. Regno Unito, ric. n. 36022/97; Corte EDU 2 novembre 2006,
Giacomelli e a. c. Italia, ric. n. 59909/00; Corte EDU 6 luglio 2009 Tatar c. Romania, ric. n.
67021/01; nonché, da ultimo, Corte EDU 10 gennaio 2012, Di Sarno e a c. Italia, ric. n. 30765/08.
In dottrina, cfr. A. MASSERA, Diritto amministrativo e ambiente. Materiali per uno studio introduttivo
dei rapporti tra scienze istituzioni e diritto, ES, Napoli, 2011; E. RUOZZI, La tutela dell’ambiente
nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, ESI, Napoli, 2011ed, infine, sia consentito
rinviare a C. FELIZIANI, Il diritto fondamentale all’ambiente salubre nella recente giurisprudenza
della Corte di Giustizia e della Corte EDU in materia di rifiuti. Analisi di due approcci differenti, in
Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2012, 6, 999. 23
Così in AA. VV., Environmental Law, cit..
172
“rifiuto” piuttosto circoscritta24
, ha fatto sì che il “Deposit of Poisonous Act”
rivelasse uno scarso grado di effettività, tanto da indurre il legislatore ad abrogarlo a
soli due anni di distanza dalla sua entrata in vigore. Ciò non toglie, però, che lo
stesso abbia segnato l’avvio della moderna legislazione britannica in materia di
rifiuti. Moderna in duplice senso: sia perché orientata, a differenza del passato, al
perseguimento di obiettivi profondamente connessi alla tutela dell’ambiente25
e sia
perché calata in una dimensione che negli anni sarebbe diventata sempre più
europea26
.
Come anticipato, nel 1974 il “Deposit of Poisonous Act” è stato abrogato e sostituito
dal “Control of Pollution Act” (COPA) il quale, oltre a poggiare su basi più solide27
,
aveva uno spettro applicativo molto più vasto, sia in ragione della definizione di
rifiuto28
ivi contenuta sia in virtù delle attività connesse al ciclo dei rifiuti che lo
stesso ambiva a regolare29
. In particolare, con il COPA il legislatore ha introdotto per
la prima volta un sistema di controlli molto stringente, tale per cui prima di poter
depositare i rifiuti in una discarica o bruciarli in un inceneritore era necessario che gli
interessati ottenessero un’apposita autorizzazione da parte della amministrazione
competente30
.
24
Il testo del documento è consultabile al seguente indirizzo:
http://www.legislation.gov.uk/ukpga/1972/21/pdfs/ukpga_19720021_en.pdf. 25
D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 26
D. OSBORN, The Impact of EC Environmental Policies on UK Public Administration, cit.. 27
Non ultimo in ragione del fatto che, come ricorda parte della dottrina (D. POCKLINGTON, The Law of
Waste Management, cit.), in questo caso non si trattava di atto legislativo “emergenziale” (…). 28
Nel Control of Pollution Act, il legislatore al S. 30 affermava che rientrava nella nozione di rifiuto:
“any substance which constituted a scarp material or an effluent or other unwanted substance arising
from the application of any process; and any substance or article which required to be disposed of as
being broken, worn out, contaminated or otherwise spoiled”. 29
In questo senso, D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 30
In AA.VV., Environmental Law, cit. si parla addirittura di una “domestic statutory devolution”
poiché in virtù del COPA il numero dei rifiuti soggetti a controllo crebbe in modo esponenziale.
173
Benché il sistema regolatorio così come congegnato non fosse esente da criticità31
, lo
stesso ha avuto però il merito di costituire un esempio per molti altri Stati membri e
finanche per la stessa Comunità europea. La dottrina, infatti, non manca di
evidenziare come una chiara eco del “Control of Pollution Act” sia ravvisabile
addirittura nella prima direttiva rifiuti che – non a caso – è stata adottata nel 1975,
ossia l’anno successivo all’entrata in vigore del COPA32
.
Nel 1989, tuttavia, quest’ultimo è stato messo seriamente in discussione da parte di
un’apposita commissione istituita presso la Camera dei Comuni33
, la quale notava
come mai nelle inchieste sino a quel momento svolte in relazione a problemi di
carattere ambientale fosse stato ravvisato un così alto tasso di scetticismo riguardo la
legislazione in vigore e l’operato del Governo, sia a livello centrale che locale34
. In
tale occasione, dunque, si fece il punto su quelli che, in quindici anni, si erano
rivelati essere i punti deboli del “Control of Pollution Act”35
e si decise di provare a
porre rimedio agli stessi con l’adozione di un nuovo atto legislativo. E’ così che nel
1990 ha visto la luce l’ “Environmental Protection Act”.
Inizialmente, tuttavia, la distanza tra quest’ultimo e il suo predecessore non è
sembrata molto marcata, stanti talune analogie non di poco conto. La nuova
31
In particolare, in S. BELL – D. MCGILLIVRAY, Environmental Law, cit., si legge che il COPA recava
le seguenti criticità: a) mirava in via prioritaria a disciplinare, attraverso stringenti controlli, la fase del
deposito dei rifiuti, piuttosto che la loro gestione; b) mancava una guida strategia alla gestione dei
rifiuti; c) c’era un’eccessiva sovrapposizione in punto di responsabilità tra i diversi livello di governo;
d) mancavano strumenti coercitivi in grado di assicurare il rispetto delle prescrizioni ivi contenute. 32
Sul punto cfr. S. BELL – D. MCGILLIVRAY, Environmental Law, cit., nonché D. POCKLINGTON, The
Law of Waste Management, cit.. Quest’ultimo, in particolare, evidenzia come l’influenza della
legislazione Britannica sia ravvisabile con riguardo alla definizione di rifiuto contenuta nella prima
direttiva rifiuti. 33
Si tratta della House of Commons Environment Committee Investigation che all’esito del proprio
lavoro elaborò un apposito report. 34
Il testo del report a cui si fa riferimento è riportato in AA.VV., Environmental Law, cit., dove si
legge anche: “sembra che a partire dal 1974 ci sia stata la mancanza di una guida a livello di governo
centrale e di legislazione”. 35
Tra questi, in particolare: “l’inadeguatezza della base normativa (…); la scarsa attenzione accordata
dalle istituzioni al tema dei rifiuti (…); la mancanza di un apparato burocratico e operativo
sufficientemente qualificato; la mancanza di una vera e propria industria dello smaltimento dei rifiuti;
l’assenza di un piano efficace per la riduzione dei rifiuti e il loro riciclo” (AA.VV. Environmental
Law, cit.).
174
legislazione, infatti, oltre a riprodurre la definizione di rifiuto contenuta nel COPA36
,
ne ricalcava la disciplina anche per ciò che concerne altri importanti profili della
materia, quale ad esempio la regolamentazione dei rifiuti pericolosi.
Al contempo, però, si registravano anche alcune interessanti novità. Innanzitutto
l’“Environment Protection Act” si differenziava dal COPA per il fatto di avere un
ambito applicativo molto più ampio, interessando la pressoché totalità delle attività
relative alla gestione dei rifiuti37
. Inoltre, da un lato, un “duty of care” veniva
imposto per la prima volta in capo a tutti i soggetti operanti, a qualsivoglia titolo,
nella filiera dei rifiuti38
; e, dall’altro lato, il novero delle attività sottoposte a
preventiva autorizzazione risultava notevolmente ampliato39
.
Avendo cercato di sopperire, almeno nelle intenzioni, a quelle che in passato erano
state ritenute essere le criticità del COPA40
, sembrava che la novella legislazione
potesse aspirare ad avere un certo grado di stabilità. Tuttavia, al pari di quanto
avvenuto in Italia41
, simile assetto regolatorio - calibrato su esigenze (quasi)
prettamente interne - ha dovuto misurarsi con l’imporsi in modo sempre più deciso
dell’Europa. A solo un anno di distanza dall’entrata in vigore dell’ “Environmental
Protection Act”, infatti, l’avvento della direttiva 91/156/Cee42
ha fatto sorgere la
necessità di apportare ulteriori modifiche sia al regime delle autorizzazioni che alla
36
Cfr. nota n. 28, retro. 37
D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 38
D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 39
Come osservato da parte della dottrina, detto sistema autorizzatorio ha costituito un elemento chiave
nella regolazione dei rifiuti in Gran Bretagna. Lo stesso, tuttavia, non deve essere considerato
isolatamente almeno per due ragioni. Innanzitutto perché, in certa misura, esso trae origine (o quanto
meno ispirazione) da disposizioni di rango internazionale ed europeo. In secondo luogo perché lo
stesso ha operato unitamente a misure ad esso sia pre-esistenti (quali ad esempio quelle dettate dal
diritto urbanistico) che susseguenti (AA.VV., Environmental Law, cit.). 40
Cfr. nota n. 31, retro. 41
Si veda la ricostruzione della legislazione nazionale operata nel capitolo I, a partire dal Decreto del
Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915 (in G. U., 15 dicembre, n. 343) - Attuazione
delle direttive (Cee) numero 75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo smaltimento dei
policlorodifenili e dei policlorotrifenili e numero 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi. 42
Come ricordato nei capitolo I e II, si tratta della direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 156,
91/156/CEE, che sostituisce gli artt. da 1 a 12 della direttiva 75/442/Cee aggiungendo agli stessi tre
documenti allegati.
175
definizione di rifiuto43
. Per tale ragione nel 1994 sono state adottate le “Waste
Management Licensing Regulations”, che hanno modificato in parte
l’“Environmental Protection Act”, mentre l’anno successivo è stato emanato
l’“Environment Act”.
Quest’ultimo, in particolare, ha segnato una tappa molto importante nella storia della
legislazione britannica in materia di rifiuti avendo introdotto una serie di novità
alquanto significative. Tra le più importanti, si ricorda il fatto che l’ “Environment
Act” ha gettato le fondamenta per la “costruzione” dell’istituto della responsabilità
del produttore44
; lo stesso, inoltre, ha introdotto l’obbligo di controlli con riguardo ai
terreni contaminati e alle miniere abbandonate45
ed, infine, ha previsto una vera e
propria strategia per il recupero e lo smaltimento dei rifiuti in Inghilterra e in
Galles46
.
A ciò si aggiunga, poi, che ampia parte dell’ “Environment Act” era dedicata
all’istituzione e alla regolamentazione di una nuova autorità di regolazione,
43
La direttiva 91/156/Cee all’art. 1 lett. a) stabiliva che per rifiuto dovesse intendersi “qualsiasi
sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o
abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. 44
In proposito, si sottolinea come, ancor prima dell’avvento della direttiva 91/156/EEC, la dottrina
inglese avvertisse una serie di difficoltà connesse alla applicazione delle consolidate regole della
responsabilità civile alla materia de qua. In N. ATKINSON, The Regulatory Lacuna: Waste Disposal
and the Clean Up of Contaminated Sites, cit., ad esempio si legge: “I tradizionali principi di Common
Law si sono sempre rivelati sufficienti per regolare le relazioni tra soggetti in materia proprietaria e
ciò anche quando un soggetto aveva subito un danno derivante dal deposito dei rifiuti. (…) Ciascuno
dei tradizionali strumenti opera principalmente per tutelare gli interessi del proprietario ed è basato
sulla regola per cui “sic utero suo ut alienum non laedus”. Tutto ciò, però, comporta non poche
difficoltà per il ricorrente nel caso di danno derivante da deposito di rifiuti. (…) Alla luce delle
difficoltà sperimentate dai ricorrenti in azioni di questo tipo, che variano per natura e peculiarità nei
diversi Stati membri, la Comunità europea ha proposto di introdurre una direttiva che imponga in
ciascuno Stato sui produttori di rifiuti la responsabilità sui propri rifiuti (…)”.
Ex multis, cfr. K. BENTIL, Environmental Suits before the Courts – Prospects for Pressure Groups, 3
JPEL 2 [1981] 324; C. GEARTY, The Place of the Private Nuisance Action and the Modern Law of
Torts, 14 Cambridge Law Journ., 2 [1989] 214; A. OGUS – G. M. RICHARDSON, Economics and
Environment: A Study of Private Nuisance, in 36, Cambridge Law Journ. [1977] 1 84; A. J. WAITE,
Private Civil Litigation in the Environment, in Land Management and Environmental Law Review,
1989, 113. 45
Parte V. 46
Parte II, artt. 57 – 60.
176
l’Environment Agency47
, avente il compito di operare, “mediante un approccio
integrato”, alla gestione del bene ambiente48
. La sua creazione, benché non
rappresentasse una novità assoluta in Gran Bretagna49
, si poneva indubbiamente in
linea con le prescrizioni dettate a livello europeo, giacché a partire dal 1991 la
direttiva rifiuti ha fatto obbligo agli Stati membri di individuare autorità preposte alla
elaborazione e messa a punto di piani strategici per la gestione dei rifiuti50
.
Nel complesso, è possibile affermare che la legislazione introdotta intorno alla metà
degli anni Novanta, al fine di recepire la direttiva 91/156/Cee, si è caratterizzata per
il fatto di poter vantare un certo grado di stabilità, giacché la stessa è stata applicata
per oltre un quinquennio senza che si rendesse necessario l’intervento di rilevanti
emendamenti51
. Le cose sono decisamente cambiate, invece, con l’inizio del nuovo
secolo. A partire dal 2000, infatti, a livello normativo sono stati periodicamente
47
Più nello specifico, l’Environment Act aveva previsto l’istituzione dell’Environment Agency in
Inghilterra ed in Galles, mentre in Scozia il regolatore prese il nome di Scottish Environmental
Protection Agency (SEPA). 48
E. GALLAGHER, The Environment Agency, in 3 JPEL [1996] 6. Qui si legge: “una nuova
Environment Agency è stata investita della responsabilità di rendere effettiva la legislazione
ambientale in Inghilterra e Galles. (…) L’idea peraltro non è totalmente nuova. Già negli anni settanta,
infatti, una proposta di questo genere era stata avanzata dalla Royal Commission. Spinte in questo
senso si ebbero poi anche nel 1984 e portarono, tre anni più tardi, alla creazione de Her Majesty’s
Inspectorate of Pollution (HMIP), la quale ebbe il merito di introdurre nella gestione del bene
ambiente il concetto di controllo integrato dell’inquinamento”. A distanza di cinque anni, inoltre,
un’agenzia ad hoc venne creata con riguardo alla gestione dei fiumi e prese il nome di National Rivers
Authority (NRA). L’agenzia istituita nel 1991, dunque, “ha riunito le due istituzioni appena
menzionate e le ben 86 autorità di regolazione locali che regolano il deposito e il trasporto di rifiuti”.
Al contempo, l’autore evidenzia come il compito attribuito all’agenzia, vale a dire quello di giungere
alla adozione di soluzioni ottimali per l’ambiente complessivamente inteso, non fosse affatto facile.
L’agenzia, infatti, non può assumere delle decisioni a sostegno di un profilo della materia ambientale
e che vadano contemporaneamente a detrimento di un altro profilo. “Solo per fare un esempio, non è
corretto dimettere un inceneritore per ridurre l’inquinamento dell’aria se i materiali un tempo smaltiti
mediante tale impianto poi vengono gettati indiscriminatamente nelle acque del fiume”. 49
Cfr. ultima nota, retro. E. GALLAGHER, The Environment Agency, cit. peraltro evidenzia che
“l’obiettivo di una gestione integrata del bene ambiente non è il solo motivo alla base della creazione
dell’Environment Agency. Di fondo, infatti, vi sarebbe anche la volontà del governo inglese di dare
corso ad un processo di c.d. deregulation. L’intento, in altri termini, è quello di dare vita ad una
organizzazione con cui le industri e gli altri operatori economici possano agevolmente rapportarsi”. 50
Si vedano al riguardo gli artt. 6 e 7 della direttiva 91/156/Cee, dove si legge: “Gli Stati membri
stabiliscono o designano l’autorità o le autorità competenti incaricate di porre in atto le disposizioni
della presente direttiva” (art. 6). E ancora: “(…) le autorità competenti di cui all’art. 6 devono
elaborare quanto prima uno o più piani di gestione dei rifiuti che contemplino fra l’altro: tipo, quantità
ed origine dei rifiuti da recuperare oda smaltire; requisiti tecnici generali; tutte le disposizioni
particolari per rifiuti di tipo particolare; i luoghi o impianti adatti per lo smaltimento (…)”. 51
Per ciò che riguarda lo stato della legislazione al tempo vigente in Italia cfr. capitolo I, retro.
177
adottati provvedimenti recanti “Waste Strategy”52
. Di prassi, si tratta di un atto
legislativo per ciascuna regione del Regno Unito53
, i quali nel complesso sono andati
a costituire il piano di gestione dei rifiuti dell’intera Nazione. Tra questi, merita
particolare attenzione quello denominato “Waste Strategy for England 2007”54
,
adottato (anche) al fine di recepire nell’ordinamento interno la direttiva rifiuti
2006/12/Ce55
.
Dall’esame di detta strategia, ciò che emerge è innanzitutto il fatto che la stessa
mostra di essere ispirata a quella che oggi, a livello europeo, è la consolidata nozione
di gerarchia dei rifiuti, al vertice della quale si colloca la prevenzione56
. Ciò si riflette
in ambiziosi obiettivi per quanto concerne la riduzione dei rifiuti domestici, da
(circa) 22 milioni di tonnellate nel 2000 a (circa) 15 milioni di tonnellate nel 2010; e
si riflette altresì nell’espressa volontà di ridurre del 45% la produzione complessiva
di rifiuti entro il 2020. A questo ultimo riguardo, peraltro, appare molto interessante
il fatto che il documento sottolinei non solo i benefici economici derivanti dal
52
Il primo in ordine di tempo è stato il Waste Strategy 2000 for England and Wales, adottato dal
Department of Transport, Environment and the Regions (DETR). 53
Al riguardo, si segnalano: National Waste Strategy for Wales (2002); National Waste Strategy for
Scotland (2003); Waste Management Strategy for Nrthern Ireland (2006); Waste Strategy for England
(2007). 54
Dal punto di vista strutturale, la Waste Strategy 2007 consta di otto capitoli e svariate appendici. Il
capitolo primo costituisce un’introduzione al nuovo piano di azione; mentre i capitoli due e tre
riguardano più da vicino la regolazione. Il capitolo quattro concerne gli obiettivi in tema di materiali,
prodotti e settori. Successivamente si affronta il tema delle azioni di governo per promuovere gli
investimenti e l’uso di risorse pubbliche (capitolo cinque), nonché quello dei progetti a livello sia
nazionale che locale per un approccio coordinato alla crescita e agli investimenti (capitolo sei). Da
ultimo, il capitolo sette intercetta i temi del coinvolgimento dei privati e delle organizzazioni nello
svolgimento dei servizi de quibus, nonché quello della promozione di una sorta di educazione civica al
tema dei rifiuti; mentre il capitolo otto identifica gli indicatori e gli obiettivi per monitorare i progressi
fatti (o ancora da fare). 55
Si tratta della direttiva 2006/12/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 relativa
ai rifiuti. In proposito cfr. amplius quanto riportato nei capitoli I e II, retro. 56
Al riguardo cfr. J. ADSHED, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, in 10 ELR 1
[2008] 46 – 51, la quale evidenzia come nel 2007 il governo inglese ritenesse vitale il fatto che la
regolazione dei rifiuti fosse calibrata anche in base ai rischi ambientali e a quelli per la salute.
Pertanto, la “waste strategy” prevedeva che le misure di regolazione fossero volte ad incoraggiare la
prevenzione e, non ultimo, l’impiego dei rifiuti come risorsa. Con riferimento all’importanza che il
principio di prevenzione riveste in materia di rifiuti cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e
novità normative in tema di rifiuti, in AA. VV., Studi in onore di Alberto Romano, Ed. Sc., Napoli,
2012, 2079; ID., I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a cura di), Diritto
dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011.
178
raggiungimento di simili obiettivi, ma soprattutto la necessità di coinvolgere l’intera
società nel perseguimento degli stessi affinché si creino i presupposti per una
responsabilità ambientale condivisa57
. In altri termini, diversamente da quanto
registrato in Italia58
, emerge chiaramente il dato per cui il Governo inglese già nel
2007 sembrava puntare sul fattore educativo – culturale come strumento per
conseguire importanti risultati in punto di sostenibilità ambientale.
Per ciò che concerne gli obiettivi strategici, la “Waste Strategy” mostra come cinque
fossero gli aspetti ritenuti cruciali dal Governo inglese nel 2007: a) ridurre il
dispendio di risorse naturali nella filiera produttiva; b) spezzare il nesso tra crescita
economica e aumento dei rifiuti; c) riutilizzare o riciclare un maggior numero di
prodotti; d) incrementare la produzione di energia mediante impiego dei rifiuti ed,
infine, e) limitare l’uso delle discariche.
Di questi, se alcuni hanno rappresentato da sempre un punto cardine della politica
inglese in materia di rifiuti59
, ve ne sono altri che, invece, costituiscono importanti
novità per il contesto britannico e che, almeno in parte, sono stati “instillati”
dall’Europa. Il riferimento è, in particolare, all’utilizzo dei rifiuti come fonte da cui
trarre energia. Al riguardo si evidenzia, infatti, che agli inizi del 2007 secondo le
statistiche solo il 10% dei rifiuti urbani venivano sfruttati come fonte per la
produzione di energia, mentre il Governo puntava a che detta percentuale potesse
crescere sino al 25% entro il 2020. Perché un obiettivo di tal fatta potesse realizzarsi,
era chiaro che lo sviluppo del relativo mercato costituiva un fattore cruciale. Per
questa ragione, le istituzioni nel 2007 si sono offerte di supportate il lavoro del
57
In proposito, cfr. J. ADSHED, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit.. 58
In Italia, infatti, l’idea per cui anche il singolo cittadino può contribuire alla gestione della cosa
pubblica – nel caso di specie il bene ambiente – costituisce un’acquisizione piuttosto recente, legata
agli studi relativi al principio di sussidiarietà orizzontale, introdotto all’art. 118, ult. comma, Cost in
occasione della riforma del Titolo V della Costituzione operata nel 2001. Al riguardo, per tutti, cfr. G.
ARENA, Cittadini attivi. Un altro modo di pensare l’Italia, Laterza, Bari, 2011. 59
Il riferimento è, in particolare, all’obiettivo di ridurre l’uso discariche. Cfr., per tutti, D.
POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit..
179
“Waste and Resources Action Programme” (WRAP), specie focalizzando gli sforzi
su taluni materiali - come, ad esempio, il legno - la maggior parte del quale di prassi
veniva gettato in discarica, perdendo quindi l’opportunità di essere sfruttato come
ricorsa60
.
In termini generali, va detto che dal punto di vista pratico il raggiungimento di
risultati concreti in tutti i suddetti settori è stato perseguito mediante l’uso congiunto
di incentivi e misure di regolazione. Più nel dettaglio, si evidenzia che l’obiettivo del
Governo di raggiungere importanti traguardi per ciò che concerne il riciclo e il
compostaggio dei rifiuti domestici è stato perseguito, da un lato, dotando le autorità
locali della facoltà di elargire incentivi ai privati “virtuosi” e, dall’altro lato,
mediante la pubblicazione di appositi protocolli volti ad educare la popolazione alla
corretta gestione dei rifiuti, specie chiarendo quando un rifiuto cessa di essere tale61
.
Inoltre, in virtù dell’intenzione del Governo di accordare priorità a taluni materiali -
sulla base del presupposto per cui gli stessi rappresentano “rifiuti chiave” e, dunque,
devono essere oggetto di politiche ad hoc – sono state proposte una serie di misure
volontarie che vanno ad incidere positivamente sull’istituto della responsabilità del
produttore ed – ancora - è stata istituita un’apposita Unità Prodotti e Materiali con il
compito di monitorare l’intero ciclo di vita di taluni prodotti al fine di implementare
la loro compatibilità ambientale62
.
Bisogna poi aggiungere che, oltre ai suddetti obiettivi, la “Waste Strategy” del 2007
aveva anche quello di incoraggiare e promuovere nuovi progetti per la realizzazione
60
Sul punto, cfr. J. ADSHEAD, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit.. 61
Sul punto, cfr. J. ADSHEAD, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit., la quale
ricorda anche che Defra e l’Environment Agency hanno pubblicato una guida volta ad orientare gli
utenti nella interpretazione della nozione di rifiuto. 62
Sul punto, cfr. J. ADSHEAD, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit..
180
di infrastrutture utili a migliorare il sistema di gestione dei rifiuti63
. Detto obiettivo è
stato perseguito attraverso la messa in atto di un programma volto, da un lato, ad
incrementare commesse ed investimenti per dar vita a grandi infrastrutture in tempi
rapidi ed a costi contenuti e, dall’altro lato, cercando di far sì che detti progetti
fossero conformi alle linee guida dettate a livello nazionale per la realizzazione delle
grandi opere, in modo da agevolare il rilascio dei permessi di costruire64
.
Da ultimo, si evidenzia inoltre come, al fine di realizzare tali programmi, il Governo
abbia riconosciuto in via generale la necessità di assicurare il coordinamento tra i
diversi livelli di governo e non solo65
. Pieno supporto, pertanto, è stato assicurato alle
autorità locali, nonché ai soggetti privati a vario titolo impegnati nella filiera dei
rifiuti. Inoltre gli organismi locali, quali ad esempio le “Regional Development
Agencies”, sono state esortate a lavorare di concerto con le istituzioni e, soprattutto,
con le organizzazioni del terzo settore66
.
63
Al momento delle consultazioni avviate nel 2006 al fine di elaborare la “waste strategy” in parola,
una delle maggiori preoccupazioni riguardava la capacità stessa della Gran Bretagna di poter
concretamente avviare il piano di azione che si stava stilando attesa la carenza di infrastrutture.
Preoccupazioni nascevano inoltre dal fatto che gli investimenti in tale settore erano da sempre molto
scarsi. La parte V della “Waste Strategy”, pertanto, contiene una serie di prescrizioni con cui il
Governo spera di poter invertire il descritto trend. In sostanza, lo scopo è quello di stimolare nuovi
investimenti in infrastrutture destinate al trattamento dei rifiuti e stimolare il mercato a fare uso di
prodotti costruiti con materiali riciclati. 64
Sul punto, cfr. J. ADSHEAD, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit.. Qui si
legge inoltre che il piano del Governo per lo sviluppo delle infrastrutture poggiava su alcune
organizzazioni ed iniziative già esistenti oltre che su altre più recenti. Tra le tante si ricordano:
WRAP, il Waste Infrastructure Development Programme (WIDP), il Waste Implementation
Programme e il Business Resource Efficiency and Waste Programme volto a fornire indicazioni e
supporto alle autorità locali e a stimolare la crescita del mercato. Al contempo, si evidenzia anche
come lo sviluppo delle infrastrutture in argomento sia tematica intimamente connessa con quella della
pianificazione urbanistica, anch’essa peraltro interessata – al tempo - da un “vento” di riforma come
dimostra l’adozione nel 2007 del Libro Bianco intitolato “Planning for a Sustainable Future”. 65
A titolo esemplificativo si pensi, infatti, al ruolo dell’Environment Agency. Sul punto cfr., per tutti,
D. POCKLINGTON, The Law of Waste Managment, cit.. 66
Sul punto, cfr. J. ADSHEAD, The Waste Strategy for England 2007: Is It Deliverable?, cit., la quale
ricorda altresì che la piena realizzazione di quella che allora era la nuova strategia è stata guidata dal
Defra-led Strategy Board, che si è assunto anche il compito di monitorare i riscontri pratici della
riforma sul medio – lungo periodo.
181
IV.3 LA DIRETTIVA 2008/98/CE E LE “WASTE (ENGLAND AND WALES)
REGULATIONS 2011”
Al di là della bontà delle soluzioni fatte proprie dalla “Waste Strategy 2007”,
l’avvento nel 2008 della nuova direttiva rifiuti ha “costretto” la Gran Bretagna – al
pari di tutti gli altri Stati membri dell’Unione europea67
– a mettere nuovamente
mano alla propria legislazione. Così, al fine di recepire la direttiva 2008/98/Ce, il
Parlamento nel 2011 ha adottato le “Waste (England and Wales) Regulations
2011”68
. Queste ultime, entrate in vigore il 29 marzo del 2011, sono state
successivamente emendate - a distanza di un solo anno - nella parte relativa alla
organizzazione e gestione della raccolta differenziata dei rifiuti domestici e di quelli
industriali o commerciali, “al fine di imporre un generale dovere di raccogliere
separatamente carta, metallo, plastica e vetro a partire dal 1 gennaio 2015”69
. Al
contempo, con detto emendamento, il Parlamento ha inteso altresì imporre in capo
alle autorità competenti il (correlato) dovere di predisporre le infrastrutture
necessarie perché la raccolta differenziata sia effettivamente realizzata. Il tutto
puntualizzando come tali obblighi operino solo laddove detta modalità di raccolta
risulti necessaria “al fine di facilitare o incrementare il recupero [dei rifiuti] e purché
la stessa risulti praticabile sotto il profilo tecnico, ambientale ed economico”70
.
In termini generali, le “Waste (England and Wales) Regulations 2011” si articolano
in undici Parti (o sezioni). Dopo una Parte prima contenente informazioni generali,
quali - ad esempio - quelle relative all’ambito di applicazione, il testo mostra di
accordare ampio spazio agli aspetti più prettamente gestionali della materia. Al
riguardo, emerge innanzitutto che, conformemente alle indicazioni impartite
67
Si veda in proposito quanto osservato nel capitolo I con riguardo all’Italia. 68
Il documento nella sua interezza è consultabile al sito www.defra.gov.uk/environment/waste. 69
In tal senso è stato riscritto il punto 13 del The Waste (England and Wales) Regulations 2011. Al
riguardo, cfr. www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation. 70
Sul punto cfr. ancora www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation.
182
dall’Europa nella direttiva 2008/98/Ce, il principio di prevenzione costituisce anche
in Gran Bretagna la “regola aurea” in tema di gestione dei rifiuti71
. Infatti, non solo
la Parte seconda è specificatamente dedicata ai “Programmi di prevenzione dei
rifiuti”, ma il principio in esame trova posto anche nelle Parti quarta e quinta
rubricate, rispettivamente, “Waste prevention programmes and waste management
plants. General provision” e “Duties in relation to waste management and improved
use of waste as a resource”. La Parte terza, “cuore” della disciplina, è poi dedicata ai
piani di gestione dei rifiuti e trova un ideale completamento nella successiva Parte
sesta – che chiude la disciplina degli aspetti più strettamente gestionali della materia
– rubricata “Duties of planning authorities”. Le sezioni che seguono sono dedicate,
nell’ordine, ai depositi in mare dei rifiuti72
; all’obbligo di registrazione dei soggetti
che a vario titolo operano nella filiera dei rifiuti73
; al trasporto di questi ultimi74
e ai
profili sanzionatori della materia75
. Da ultimo, si hanno le disposizioni finali76
.
In un’ottica comparata, ossia volendo porre a raffronto la disciplina in esame e il d.
lgs. n. 205 del 2010, con cui l’Italia ha inteso recepire la medesima direttiva, è
possibile compiere talune riflessioni sia in punto di forma che di sostanza.
Sotto il primo profilo, va dato atto innanzitutto del fatto che la legislazione inglese in
materia di rifiuti – rispetto a quella italiana77
- si caratterizza per una maggiore
linearità. Non solo, infatti, i rifiuti in Gran Bretagna non sono stati “vittime” del
tumultuoso succedersi di previsioni legislative che, specie a partire dagli anni
Novanta del secolo scorso, ha caratterizzato la storia dell’istituto in esame nel nostro
71
Per ciò che concerne il rilievo accordato al principio in argomento dalla legislazione italiana cfr.
quanto riportato nel capitolo I, retro nonché le riflessioni formulate da F. DE LEONARDIS, I rifiuti:
dallo smaltimento alla prevenzione, cit. e ID., Principio di prevenzione, cit.. 72
Parte VII, Reg. 21 – 23. 73
Parte VIII, Reg. 24 – 34. 74
Parte IX, Reg. 35. 75
Parte X, Reg. 36 – 45. 76
Parte XI, Reg. 46 – 48. 77
Si vedano in proposito i rilievi compiuti nel capitolo I, retro.
183
Paese78
, ma le norme di riferimento appaiono lineari nella forma e chiare nella
sostanza, pur non essendo prive dei dovuti rinvii a fonti esterne79
.
D’altronde, quello di rendere intellegibile ai più il senso profondo della normativa in
esame è intento di cui lo stesso Governo inglese non fa affatto mistero. Così si
spiegano, ad esempio, gli strumenti di ausilio creati per guidare gli operatori
economici e i privati cittadini nei meandri della materia e fugare quei dubbi che
rischiano di far smarrire “la retta via” a coloro i quali quotidianamente si trovano a
maneggiare a vario titolo i rifiuti. Questa la ratio, tra l’altro, della “Legal Definition
of Waste Guidance” consultabile sul sito internet del Ministero dell’ambiente80
e
rivolta principalmente “agli operatori economici e a tutte quelle organizzazioni che
quotidianamente si trovano a dover assumere decisioni circa la natura o meno di
rifiuto di determinate sostanze o materiali”81
. Infatti - si legge sul sito del Ministero –
se è vero che in molti casi la decisione può essere presa sulla base del semplice senso
comune, senza bisogno di ausili particolari, è altrettanto vero che sovente la stessa si
presenta quanto mai complessa. E’ ciò che accade, ad esempio, quando una sostanza
o un oggetto reca valore economico o è passibile di un successivo utilizzo o, ancora,
quando un oggetto è stato completamente riciclato tanto da non costituire più un
rifiuto in senso stretto. “Lo scopo delle linee guida è proprio quello di far sì che
anche in casi difficili come questi venga presa la decisione corretta”82
.
Al contempo, e sempre da un punto di vista eminentemente formale, occorre anche
osservare come, a differenza di quanto previsto dal legislatore italiano nel Codice
78
Al riguardo cfr., inter alia, D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, cit.. 79
In proposito cfr. D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. Per completezza, infatti,
occorre evidenziare che l’atto legislativo da ultimo esaminato non esaurisce l’intera disciplina dei
rifiuti. Al riguardo, si ricorda in particolare che sono attualmente vigenti anche: “The Environmental
Permitting for Waste”, “The Hazardous Waste Regulations” e “The Waste Shipment Regulations”. 80
La Legal Definition of Waste Guidance è consultabile sul sito del Ministero dell’ambiente
all’indirizzo: www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation/eu-framework-directive. 81
Questo l’obiettivo che il Governo inglese intende perseguire con il documento in parola. 82
Così si legge sul sito del Ministero www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation/eu-
framework-directive.
184
dell’ambiente (come emendato dal d.lgs. 205 del 201083
), le “Waste (England and
Wales) Regulations 2011” non dedichino particolare spazio alle definizioni84
. Ciò
non perché la Gran Bretagna abbia elaborato soluzioni proprie e peculiari con
riguardo alle nozioni cardine della materia (rifiuti, sottoprodotto, ecc.), bensì perché
– salvo marginali eccezioni - il legislatore inglese ha recepito in modo così
pedissequo la direttiva 2008/98/Ce da ritenere sufficiente un generale rinvio alle
definizioni contenute in quest’ultima85
. Nella Parte prima, Reg. 3 (2) si legge, infatti,
che “tutte le espressioni ed i termini utilizzati, ma non definiti, [nel presente
provvedimento] e che sono contenuti anche nella direttiva rifiuti hanno, ai presenti
fini, lo stesso significato che recano nella direttiva”. Così è, dunque, per la
fondamentale nozione di “rifiuto”, per quelle contigue di “sottoprodotto” ed “end of
waste” – di cui si è detto diffusamente nel capitolo secondo del presente lavoro -
nonché per quelle altrettanto importanti di “produttore” e “detentore”, ecc..
La circostanza per cui, dal punto di vista definitorio, l’atto legislativo con cui la Gran
Bretagna ha inteso recepire la direttiva rifiuti finisca per “appiattirsi” su quest’ultima,
senza pervenire a soluzioni in alcun modo peculiari o innovative, trova poi
prevedibile conferma anche per ciò che concerne l’indicazione dei principi cardine
della materia. Qui, infatti, a maggior ragione il Parlamento ha dovuto prestare ascolto
ai dictat provenienti dall’Europa, atteso che lo strumento utilizzato da quest’ultima
per regolare la materia de qua è proprio una direttiva, ossia un atto legislativo che
vincola gli Stati membri in ordine agli obiettivi da realizzare e che, a tal fine, fornisce
delle linee guida, ossia indica i principi cui tutti i destinatari dovranno attenersi
83
D. lgs. 3 dicembre 2010 n. 205 (G.U. 10 dicembre 2010 n. 288), recante Disposizioni di attuazione
della direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai
rifiuti e che abroga alcune direttive. 84
Sul punto cfr. la sola Reg. 3 contenuta nella Parte I. 85
Probabilmente in tale senso il fattore linguistico ha inciso in maniera determinante.
185
all’atto del recepimento86
. Non deve stupire, quindi, - ma anzi rientra per così dire
nelle “regole del gioco”87
– il fatto che, al pari di quanto accaduto in Italia88
, nelle
“Waste (England and Wales) Regulations 2011” il legislatore abbia accordato
particolare risalto al principio di prevenzione, ponendo costantemente in evidenza il
fatto che lo stesso si colloca al vertice della gerarchia dei rifiuti89
.
L’importanza di detto principio, inoltre, viene ribadita ed enfatizzata anche nei molti
documenti recanti valore esplicativo che il Governo ammette alla libera
consultazione sul proprio sito internet90
. Così, ad esempio, alla voce “Introducing the
Waste Hierarchy” si legge che “molti operatori economici non hanno la
consapevolezza dell’impatto che i rifiuti hanno sulle loro attività. [Ma] Poiché la
domanda di materie prime cresce in tutto il mondo e, di riflesso, crescono anche i
relativi costi, è importante che [gli stessi] prestino attenzione alla gerarchia dei
rifiuti”. Al riguardo – è scritto nel documento - l’articolo 4 della direttiva 2008/98/Ce
indica cinque step, ordinati a seconda dell’impatto che determinate attività sono
suscettibili di avere sull’ambiente. “La prevenzione, poiché offre i migliori risultati
in termini di compatibilità ambientale, si colloca al vertice della gerarchia, seguita in
ordine discendente dalla preparazione per il riutilizzo, il riciclo, il recupero e lo
smaltimento”91
. In via esemplificativa, inoltre, si puntualizzano quali sono i gesti
86
Con riguardo alle peculiarità e al valore della direttiva quale atto legislativo dell’Unione europea
cfr., per tutti, G. GAJA – A. ADINOLFI, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Laterza, Bari,
2012; G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, cit.. 87
Nel senso che lo strumento della direttiva è funzionale a garantire l’omogeneità della disciplina
giuridica nei diversi Stati membri dell’Unione europea. Sul punto, oltre alla dottrina richiamata alla
nota precedent,. si veda anche P. CRAIG – G. DE BURCA, EU Law, cit.. 88
Si vedano in proposito le osservazioni formulate nel capitolo I, retro. 89
Cfr., inter alia, Reg. 12, 15 e 35. 90
Per completezza, si segnala che nel 2012 il Governo ha dato vita a una consultazione pubblica al
fine di elaborare delle linee guida in ordine alla gerarchia dei rifiuti. I termini della consultazione sono
spirati il 30 giugno del 2012 e, al momento, un team di esperti è al lavoro per esaminare i materiali
raccolti e stilare una relazione ufficiale al riguardo, la cui pubblicazione è attesa per i primi mesi del
2013.
186
quotidiani mediante i quali è possibile mettere in pratica la “filosofia” che è alla base
della gerarchia dei rifiuti. Si legge, quindi, che mentre la prevenzione si realizza
“impiegando il minor numero possibile di materie prime nella realizzazione dei
prodotti industriali; conservando gli oggetti più a lungo e riutilizzandoli, nonché
facendo minor uso di sostanze e materiali pericolosi” per l’ambiente; l’abbandono in
discarica e il ricorso agli inceneritori sono attività che costituiscono smaltimento e,
dunque, devono rappresentare l’ultima ratio.92
Ancora, sempre a titolo esemplificativo, è possibile sottolineare come il costante
richiamo alla ratio che governa la direttiva 2008/98/Ce - e più in generale all’Europa
- sia presente anche in un altro documento, reso pubblico agli inizi del 2012 e recante
“Government Review of Waste Policy in England 2011”93
. Qui, infatti, si legge
innanzitutto che nella preparazione del documento, “il Governo ha esaminato tutte le
opzioni in campo, riconoscendo che i riferimenti normativi più importanti in materia
di rifiuti provengono (proprio) dall’Europa ed è ad essi che bisogna attenersi”94
.
Pertanto – è scritto nel proseguo del documento – “nel guidare [la gestione de] i
rifiuti in cima alla gerarchia, dobbiamo far sì che la Gran Bretagna rispetti gli
obblighi sulla stessa gravanti e raggiunga gli obiettivi fissati dall’UE”95
.
Peraltro, se è vero che da un punto di vista formale la legislazione inglese è densa di
richiami all’Europa, è altresì vero che l’influenza di quest’ultima non si arresta alle
mere declamazioni di principio, finendo al contrario per incidere fortemente anche
nella sostanza delle norme approvate dal Parlamento nel 2011.
91
Così si legge nella pagina web consultabile all’indirizzo
www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation/waste-hierarchy. 92
Così si legge nella pagina web consultabile all’indirizzo
www.defra.gov.uk/environment/waste/legislation/waste-hierarchy. 93
Anche questo documento è liberamente consultabile al sito www.defra.gov.uk/enviroment/waste. 94
Così si legge nell’introduzione alla “Goverment Review of Waste Policy in England 2011”, pag. 2. 95
Così si legge nell’Executive Summary della “Goverment Review of Waste Policy in England
2011”, pag. 5.
187
Anzi, da questa seconda angolazione è possibile osservare come nel cammino della
Gran Bretagna verso la realizzazione di una “società del riciclo”, l’Europa funga per
così dire da motore trainante. Ciò si evince chiaramente dall’esame delle “sfide”96
che il Governo inglese si prefigge di vincere di qui al 2020. Tra queste vi è,
innanzitutto, quella di puntare ad incrementare le misure volte alla prevenzione dei
rifiuti, poiché un approccio di tipo preventivo “è il modo migliore per ottenere
risultati dal punto di vista della sostenibilità ambientale”97
. Ma non solo. E’ provato,
infatti, che prevenendo la formazione dei rifiuti è possibile anche garantire un
risparmio di spesa sia in capo ai privati, consumatori o produttori che siano, sia in
capo alle pubbliche autorità preposte alla gestione dei rifiuti98
.
In secondo luogo, il Governo ritiene di dover aiutare le comunità locali nello
sviluppo e nella messa in pratica di soluzioni ottimali per la raccolta e, più in
generale, per la gestione dei rifiuti sia domestici che provenienti da attività
produttive. Ciò in quanto – si legge nella nota esplicativa del 2011 - “è cruciale
raggiungere il giusto equilibrio tra qualità del servizio, ambiente e costi, tendendo in
considerazione elementi quali la convenienza e la frequenza della raccolta, nonché la
qualità dei materiali riciclabili raccolti”99
.
Correlativamente, si afferma anche l’intento di continuare ad aumentare la
percentuale di rifiuti riciclati, al fine dichiarato di “raggiungere, entro il 2020, la
soglia del 50% fissata dalla direttiva 2008/98/CE con riguardo ai rifiuti
96
Non è una “licenza” stilistica. Il Governo usa espressamente il termine “challenger” al posto dei più
consueti “targets” e “goals”. 97
Così si legge nella Government Waste Policy Review 2011, p. 10
(www.defra.gov.uk/environment/waste). 98
Così si legge sempre nello stesso passaggio della Government Waste Policy Review 2011, p. 10
(www.defra.gov.uk/environment/waste). 99
Così si legge nella Government Waste Policy Review 2011, p. 11
(www.defra.gov.uk/environment/waste).
188
domestici”100
. Tra le modalità di “reimpiego” dei rifiuti, poi, spicca quella della
produzione di energia101
, così da dare vita ad una politica volta ad incrementare
sensibilmente la produzione di energie da fonti rinnovabili, secondo quanto auspicato
anche a livello europeo102
.
Ancora, dando corso ad un’esigenza da sempre fortemente avvertita in Gran
Bretagna103
, nonché conformandosi ancora una volta alla ratio e agli obiettivi della
direttiva 2008/98/Ce, il Governo manifesta chiaramente l’intento di ridurre in modo
drastico entro il 2020 la percentuale di rifiuti da destinare alle discariche104
. Inoltre –
e, in un certo senso, per l’effetto - si afferma la volontà di contrastare efficacemente
la gestione illegale dei rifiuti così da minimizzare i danni che questi ultimi sono
suscettibili di arrecare, in primis, all’ambiente e alla salute umana105
, ma anche alla
vita e all’economia delle comunità locali106
.
100
Così ancora nella Government Waste Policy Review 2011, p. 11
(www.defra.gov.uk/environment/waste). 101
Inter alia, cfr. P. M. CONNOR, UK Renewable Energy Policy: a Review, in RSER 7 [2003] 65 – 82;
S. O. NEGRO - F. ALKEMADE – M. O. HEKKERT, Why Does Renewable Energy Diffuse so Slowly? A
Review of Innovation System Problems, in RSER 16 [2012] 3836 – 3846; B. WOODMAN – C.
MITCHELL, Learning from Experience? The Development of Renewables Obligation in England and
Wales 2002 – 2010, in Energy Policy 39 [2011] 3914 – 3921. 102
Sul tema, oggi di grande attualità, si segnalano: P. D. CAMERON, Legal Aspects of EU Energy
Regulation. Implementing the New Directives on Electricity and Gas Across Europe, OUP, Oxford,
2005; F. DI CRISTINA, L’attuazione del “terzo pacchetto” e il nuovo assetto dei mercati energetici, in
Giorn. dir. amm., 2011, 9, 925; L. KRAMER, EU Environmental Law, cit.; S. QUADRI, L’evoluzione
della politica energetica comunitaria con particolare riferimento al settore dell’energia rinnovabile,
in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011, 3-4, 839. 103
Cfr., per tutti, D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 104
Così sempre nella “Government Waste Policy Review 2011”, p. 11
(www.defra.gov.uk/environment/waste). 105
Cfr. gli artt. 12 e 13 della direttiva 2008/98/Ce, dove si legge: “Gli Stati membri provvedono
affinché, quando non sia effettuato il recupero a norma dell’art. 10, p. 1, i rifiuti siano sottoposti a
operazioni di smaltimento sicure che ottemperino alle disposizioni di cui all’art. 13 in relazione alla
protezione della salute umana e dell’ambiente” (art. 12). E ancora: “Gli Stati membri prendono le
misure necessarie per garantire che la gestione dei rifiuti sia effettuata senza danneggiare la salute
umana, senza recare pregiudizio all’ambiente e, in particolare: a) senza creare rischi per l’acqua,
l’aria, il suolo, la flora o la fauna; b) senza causare inconvenienti da rumori od odori e c) senza
danneggiare il paesaggio o i siti di particolare interesse” (art. 13). In giurisprudenza, sulla pericolosità
dei rifiuti per l’ambiente e la salute umana cfr. CGCE 20 marzo 2010, Commissione c. Italia, C-
297/08. 106
Emblematica, al riguardo, la nota (e già menzionata) vicenda della c.d. “emergenza rifiuti” a
Napoli, il cui inizio “è convenzionalmente fatto risalire all’11 febbraio 1994 quando, con il Decreto
del Presidente del Consiglio dei Ministri [DPCM 11 febbraio 1994, in G.U. n. 35 del 12 febbraio
1994], si dichiara per la prima volta lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella
189
In definitiva, dall’esame dei traguardi che la Gran Bretagna si è impegnata a tagliare
nel corso dei prossimi anni, emerge chiaramente l’influenza dell’Europa107
. La
politica “per obiettivi” poc’anzi illustrata, infatti, trova senza dubbio il proprio punto
di riferimento nella gerarchia dei rifiuti, che viene apostrofata dallo stesso Governo
inglese come “una guida alla gestione sostenibile dei rifiuti, oltre che un obbligo da
rispettare”108
. L’intento di fondo è, pertanto, quello di consacrare il passaggio entro il
2020 da una società “dell’usa e getta” ad una imperniata su “un’economia zero-
rifiuti” e nel percorrere questo cammino non sembra che la Gran Bretagna mostri
resistenze rispetto ai dictat impartiti dall’Europa, probabilmente condividendo l’idea
che i rifiuti costituiscono un tassello importante nella costruzione del più ampio
mosaico della green economy.
Regione Campania, per un iniziale periodo di un anno che poi sarà, via via, prorogato fino al 2009
quando vi è la formale dichiarazione della fine dell’emergenza [d.lex 30 dicembre 2009 n. 195, conv.
in L. 26 febbraio 2010 n. 26 in G.U. n. 48 del 27 febbraio 2010]” (L. BARONI, Lo sguardo vigile
dell’Europa sulla “emergenza rifiuti” in Campania, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011, 5, 1095). Di
qui il costante ricorso, da parte dei vari soggetti all’uopo preposti, ai poteri commissariali straordinari
al fine gestire l’emergenza, i quali tuttavia non si sono rivelati realmente utili a traghettare la Regione
Campania fuori dall’emergenza rifiuti, tanto che l’Italia è stata condannata più volte da parte della
Corte di Giustizia (cfr. CGCE 26 aprile 2007, Commissione c. Italia, C-135/05 e CGCE 4 marzo
2010, Commissione c. Italia, C-297/08).
In dottrina, sul tema dell’emergenza rifiuti in Campania cfr. G. ARENA, Se c’è il commissario
straordinario non possono esserci i cittadini attivi, in www.labsus.org, 2010; C. BASSU, Emergenza
rifiuti a Napoli: la doppia faccia della sussidiarietà, in Riv. giur. amb., 2009, 2, 403; L. COLELLA, La
governance dei rifiuti in Campania tra tutela dell’ambiente e pianificazione del territorio. Dalla
“crisi dell’emergenza rifiuti” alla “società europea del riciclaggio”, in Riv. giur. amb., 2010, 2, 493;
M. NGNES, Le ordinanze di protezione civile per fronteggiare l’emergenza nel settore dello
smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania, in Riv. giur. mezzogiorno, 2008, 2, 537; A.
LUCARELLI, Il governo dei rifiuti in Campania. Il jolly dell’emergenza in un coacervo di
irresponsabilità ed inefficienze, in www.federalismi.it; L. VIOLA, L’emergenza rifiuti approda davanti
al giudice amministrativo, tra effetto n.i.m.b.y. e analisi economica del diritto, in www.giustamm.it. 107
Ciò – lo si è visto nel capitolo I, retro –emerge anche dall’esame della legislazione italiana, benché
in questo caso la sensazione che trapela sia più quella di una rassegnata sottomissione (anche alla luce
delle molte condanne impartite all’Italia sulla scorta di altrettante procedure di infrazione sollevate
dalla Commissione europea, cfr., ad ex. la poc’anzi citata CGCE 20 marzo 2010, Commisione c.
Italia, C-297/08) che non di una consapevole condivisione di intenti. 108
Questi i termini in cui si esprime il Governo inglese nell’Executive Summary alla Government
Waste Policy Review del 2011 (www.defragov.uk/environment/waste).
190
IV. 4 IL SERVIZIO PUBBLICO IN GRAN BRETAGNA
La descrizione di quelli che, in base alle “Waste (England and Wales) Regulations
2011”, sono gli obiettivi che informano l’attuale politica inglese in materia di rifiuti
consente di traghettare il discorso verso le modalità di gestione del relativo servizio
pubblico in quel dato Paese. L’accento posto sulle “esigenze delle comunità locali”
così come la diffidenza nei confronti dello smaltimento in discarica, infatti, sono
esempi di obiettivi programmatici che – secondo quanto recentemente auspicato dal
Governo - dovranno tradursi in altrettante azioni concrete e, per l’effetto, finiranno
con il contribuire a delineare la fisionomia del servizio di gestione dei rifiuti.
Ciò posto, prima di entrare funditus nel merito della questione, è d’uopo ricostruire
brevemente – al pari di quanto fatto con riguardo all’Italia109
- l’istituto del servizio
pubblico nei suoi termini generali. Qui la prima sorpresa. Al riguardo, infatti, si
osserva come, nonostante quella di public service (e ancor più quella di public
utilities110
) sia espressione da tempo invalsa nella lingua inglese111
, la stessa abbia -
secondo i più - una valenza meramente descrittiva112
, tenuto anche conto che essa
109
Al riguardo si rinvia a quanto osservato nel capitolo III ed in particolare nei pp. II.2.1 e II.2.2,
retro. 110
Al riguardo, L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, in Dir. pubbl. comp. eur.,
2001, 788 e ss. puntualizza che public services “individuano servizi a contenuto marcatamente sociale,
non necessariamente, ed anzi spesso privi di rilevanza economico imprenditoriale (ad es. sanità o
scuola, ma anche, secondo un’accezione comune nell’ordinamento britannico, la pianificazione
urbanistica e la regolazione edilizia), mentre [le public utilities] si limitano alle attività a carattere
commerciale o industriale relative alla produzione di servizi destinati ad un consumo di massa, spesso
attraverso i c.d. sistemi a rete (telecomunicazioni, poste, gas, acqua, energia)”. 111
Ancor più frequente, tuttavia, è - nel contesto giuridico anglosassone (Regno Unito e USA) l’uso
dell’espressione public utilities. Quest’ultima, si legge in H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision
of Public Services in Europe. Between State, Local Government and Market, Edward Elgar ed., 2010,
è espressione che “si incentra sulla dimensione industriale del servizio e sull’idea dei doveri gravanti
in capo alle pubbliche autorità, benché i servizi siano generalmente offerti dalle imprese sulla base del
mercato”. 112
In D. MINUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali: Regno Unito e Italia a confronto,
cit., si legge che “con l’espressione in lingua inglese, infatti, non ci si riferisce soltanto alle attività di
carattere economico - imprenditoriale che nell’ordinamento italiano sono qualificate come servizi
pubblici di rilevanza economica, bensì anche alle attività di carattere sociale e persino amministrativo,
attribuite ed esercitate da pubblici poteri”. In senso analogo anche L. BONECHI, Il servizio pubblico
locale in Gran Bretagna, cit., nonché I. HARDEN, The Contracting State, Open University Press,
Bristol, 1992, che parla genericamente di “services performed directly for citizens”.
191
non è supportata alla base da studi di teoria generale113
. Il che, dunque, finisce per
segnare una prima marcata antinomia tra l’Italia (e la Francia114
) e la Gran
Bretagna115
.
Ciò non di meno, come anticipato, la realtà inglese - al pari di quella di molti altri
Stati membri dell’UE, tra cui proprio l’Italia e la Francia – sin dal XIX secolo ha
costituito terreno fertile per l’emersione, prima, e la diffusione, poi, dei servizi
pubblici “in senso materiale”116
, intesi cioè “semplicemente” come servizi erogati in
favore dei cittadini117
. Più nello specifico, va detto che qui “l’individuazione delle
caratteristiche del servizio pubblico è stata, in genere, affrontata da un punto di vista
funzionale (…). Il criterio che viene tradizionalmente utilizzato per distinguere i
servizi pubblici dalle attività private consiste in una scelta politica di spettanza del
Parlamento di Westminster: l’attività è privata se la sua esistenza attiene
113
In questo senso G. MARCOU, I servizi pubblici tra regolazione e liberalizzazione: l’esperienza
francese, inglese e tedesca, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2000, 1, 342. Qui si legge: “servizi pubblici
in senso materiale esistono in tutti i paesi europei. Però l’idea del servizio pubblico come una nozione
giuridica di base si riscontra solo nel diritto pubblico francese” e in quello italiano. In tal senso, la
posizione del Regno Unito è del tutto peculiare. “Non esiste [infatti] nessuna teoria giuridica dello
Stato nella Common Law. Per il diritto inglese, lo Stato è un concetto del diritto internazionale; la
Common Law si riferisce alla Corona”. Dunque, “l’amministrazione pubblica è regolata nel quadro
della prerogativa reale oggi esercitata dal governo (…) e non esiste nessuna autorità pubblica che non
trae la sua fonte dal Parlamento. In questo contesto le espressioni servizio pubblico, ovvero servizio di
interesse economico generale (…) non possono avere nessun senso. La parola public service non è
usata nella lingua giuridica, e ha solo un senso descrittivo. Public service indica la funzione pubblica,
ovvero la sua deontologia (ethics of the public service). Si possono trovare nel diritto inglese istituti
simili alle organizzazioni di servizio pubblico degli altri paesi, però senza una concezione generale, e
senza principi comuni. Anzi esistono numerosi esempi di franchises: cioè un diritto speciale conferito
a un soggetto) che furono stabiliti con uno scopo d’interesse generale: nell’esercizio della prerogativa
reale si possono citare le università, o lo sfruttamento di una via pubblica; la giurisprudenza ha
riconosciuto dopo il secolo XVII che quando una proprietà privata è adibita a un interesse pubblico,
non è più soltanto un diritto privato, e così, per esempio, colui che sfrutta un impianto adibito all’uso
del pubblico e occupa una posizione di monopolio deve applicare una tariffa ragionevole”. Fino ai
primi anni del ‘900, inoltre, il diritto privato è stato “lo strumento più usato per la determinazione dei
servizi rispondenti ai bisogni pubblici: costruzione e sfruttamento di canali, di ferrovie, di serbatoi, a
beneficio di persone private o degli enti locali”. 114
In proposito cfr. quanto osservato nel capitolo III, retro. In dottrina cfr., per tutti, F. MERUSI, (voce)
Servizio pubblico, cit. ed E. SCOTTI, Il pubblico servizio, Cedam, Padova, 2003. 115
Sul punto cfr. T. PROSSER, The Limits of Competition Law. Markets and Public Services, OUP,
Oxford, 2004, specialmente p. 96 e ss., il quale sottolinea come lo studio in termini giuridici dei
servizi pubblici sia tradizionalmente più diffuso nell’Europa continentale che non in Gran Bretagna.
Per contro, qui è da tempo invalso il concetto di “etica” del servizio pubblico, concetto elaborato da
una commissione parlamentare ad hoc. 116
Così G. MARCOU, I servizi pubblici tra regolazione e liberalizzazione, cit.. 117
T. PROSSER, The Limits of Competition Law. Markets and Public Services, cit..
192
essenzialmente alla sovranità del consumatore nel mercato (…); l’attività deve,
invece, essere qualificata come servizio pubblico se essa è posta in essere in virtù di
una decisione pubblica autoritativa”118
. Da ciò consegue che l’ordinamento inglese
“riconosce natura di public service a qualsiasi servizio la cui esistenza e consistenza
qualitativa e quantitativa dipenda da una decisione pubblica e non dal fisiologico
formarsi della domanda e dell’offerta sul mercato”119
. Il discrimen, pertanto, è tra
consumer sovereignty e authoritative decision, laddove solo in questo secondo caso
si è di fronte ad un servizio pubblico.
A tale assetto, peraltro, si legano a cascata una serie di conseguenze120
. Dal punto di
vista normativo, ad esempio, i servizi pubblici storicamente non hanno trovato “né
una disciplina unitaria né una norma generale attributiva delle competenze e neppure
disposizioni volte a porre i principi fondamentali del servizio”. Ciò in quanto,
nell’esperienza britannica, l’istituto in commento è stato disciplinato mediante
“singoli Acts del Parlamento che istituiscono e disciplinano in base a principi affini,
ma a norme non certo identiche, ogni singolo settore di attività”121
. Inoltre, dal punto
di vista sostanziale, fino a quando il diritto europeo non ha imposto la necessità di
definire il contenuto del servizio universale, raramente gli atti di normazione
118
D. MINUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali: Regno Unito e Italia a confronto, cit.,
il quale prosegue puntualizzando: “ciò comporta che i contenuti della prestazione fornita all’utente
siano determinati, nel primo caso, da un contratto tra consumatore e impresa esercente l’attività
(contratto che rappresenta, da un punto di vista giuridico, l’incontro tra domanda e offerta individuali);
nel secondo caso, dalle decisioni discrezionali della pubblica amministrazione”. 119
L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit., il quale scrive: “la dottrina
britannica si è interrogata, più che sugli elementi formali della nozione, sulla possibilità di qualificare
il servizio “pubblico” per distinguerlo da quello “privato” (…). La chiave con cui in Gran Bretagna si
è tradizionalmente cercato di interpretare il fenomeno (…) ha fatto leva non sull’analisi delle attività
oggetto del servizio, sui fini con esso perseguiti o sulla natura del gestore; piuttosto ha messo a fuoco i
procedimenti di istituzione e il livello di allocazione delle decisioni che giustificano e spiegano
l’esistenza obiettiva del servizio nella realtà economico-sociale (...)”. Dunque, “l’elemento che
qualifica il servizio in senso pubblicistico, distinguendolo da quello privato, è unicamente il fatto che
la sua istituzione sia stata determinata non già dalle scelte dei consumatori sul mercato bensì da una
decisione politica dell’autorità. Con l’ulteriore conseguenza che i contenuti della prestazione fornita
all’utente vengono ad essere determinati in un caso, attraverso il contratto, dall’incontro della
domanda e dell’offerta del servizio e, nell’altro, dalle decisioni discrezionali della pubblica
amministrazione”. 120
Per un esame delle stesse cfr. L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.. 121
L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit..
193
primaria indicavano gli obiettivi e gli interessi pubblici che il servizio era chiamato
ad assicurare, essendo la fissazione degli stessi demandata prevalentemente alla
discrezionalità dell’amministrazione122
.
Quanto al soggetto preposto alla istituzione ed alla erogazione del servizio, così
come nel nostro Paese, anche lì molto è dipeso da scelte di politica nazionale e,
prima ancora, dal peculiare assetto costituzionale123
. In particolare, occorre ricordare
che, all’atto di ripartire sul territorio le funzioni amministrative, la Gran Bretagna - a
differenza della maggior parte degli Stati dell’Europa continentale, tra cui l’Italia -
non ha adottato il sistema delle prefetture coniato da Napoleone124
. Infatti, in virtù di
quello che la dottrina definisce come un vero e proprio “pregiudizio” nei confronti
dei “localismi”125
, si è cercato di mantenere un controllo di tipo centralizzato, salvo
prevedere a livello regionale uffici strettamente dipendenti dal Governo centrale e
privi di qualsiasi forma di coordinamento reciproco126
. Da un punto di vista pratico,
“l’inesistenza di una autonomia costituzionalmente garantita e la soggezione degli
122
Ciò secondo parte delle dottrina – P. CRAIG, Constitution, property and regulation, Pubbl. Law,
1991, 538 - si spiega in ragione della fisionomia che l’istituto de quo ha assunto nei diversi momenti
storici e del regime giuridico a cui lo stesso è stato sottoposto, in ossequio alle politiche dettate dal
governo nazionale (ad ex., nazionalizzazioni, liberalizzazioni, ecc.). 123
In generale, per ciò che concerne la “storia” costituzionale della Gran Bretagna cfr. il fondamentale
contributo di A. V. DICEY, Introduzione allo studio del diritto costituzionale. Le basi del
costituzionalismo inglese, Il Mulino, Bologna, 2003; ma anche A. BIONDI, Principio di supremazia e
“Costituzione” inglese, in www.forumcostituzionale.it e P. CARROZZA – A. DI GIOVINE – G. F.
FERRARI (a cura di), Diritto costituzionale comparato, Laterza, Bari, 2013.
Nell’economia del presente lavoro, invece, sia sufficiente ricordare che l’odierno Regno Unito si è
formato nel corso dei secoli per effetto di progressive annessioni di territori un tempo autonomi. Nel
corso di questa lunga fase di progressivo sviluppo, il Paese si è retto in forza di un Governo unico e
centrale (c.d. the Crown in Parliament) basato sul principio della sovranità parlamentare, ma ciò non è
bastato a garantire realmente la reductio ad unum delle diverse realtà (sul punto cfr., amplius, R.
ROSE, Understanding the United Kingdom, Longman, London, 1982). La Scozia, ad esempio, sin
dalla sua annessione nel 1707, ha conservato importanti differenze rispetto all’Inghilterra, per ciò che
concerne in particolare il sistema legale, quello scolastico e l’organizzazione del Governo sul
territorio. Ciò significa – evidenzia la dottrina – che l’espressione “governo unitario” con riguardo al
Regno Unito deve essere intesa quanto meno “in senso relativo” (H. WOLLMANN – G. MARCOU, The
Provision of Public Services in Europe, cit.). 124
Sul punto cfr. amplius, P. CARROZZA – A. DI GIOVINE – G. F. FERRARI (a cura di), Diritto
costituzionale comparato, cit.. 125
L. J. SHARPE, Regionalism in the United Kingdom. The role of social federalism, in H. WOLLMANN
- E. SCHROTER, Comparing Public Sector Reform in Britain and Germany, Ashgate, 2000. 126
J. A. CHANDLER, Local Government Today, III ed., Manchester University Press, 2001.
194
enti locali alla legge del Parlamento per quanto attiene non solo la determinazione
delle funzioni, ma addirittura la stessa esistenza e dimensione territoriale degli enti,
[hanno comportato] la pratica indisponibilità da parte del Local Government
dell’autonoma determinazione delle modalità organizzative necessarie al
perseguimento degli interessi pubblici della comunità locale”127
. Ne deriva, dunque,
che – come osservato da parte della dottrina – “la locuzione servizio pubblico locale
se trasposta nell’ordinamento inglese finisce” per perdere ogni connotazione
eminentemente giuridica e assume una valenza omnicomprensiva, “idonea cioè ad
individuare in modo indistinto tutti i servizi forniti alla collettività locale a
prescindere dalla distribuzione delle competenze (…)”128
.
Solo nel 1997, il neo eletto governo laburista, ha intrapreso la strada di un radicale
cambiamento, sostenendo un progetto di devolution nei confronti di Scozia, Galles ed
Irlanda del Nord il cui risultato finale è stato (rectius, voleva essere) quello di mutare
“la natura” del sistema costituzionale inglese, poiché ha fatto della Gran Bretagna –
almeno sulla carta - “uno Stato quasi – federale”129
. Tuttavia, da un punto di vista
pratico, il cambiamento è parso sensibilmente frenato dalle resistenze registrate
proprio a livello regionale130
. Il processo di decentramento, dunque, nei fatti ha avuto
un decorso “estremamente asimmetrico” da regione a regione: mentre la Scozia ed il
Galles hanno assunto un assetto quasi - federale, le altre regioni hanno continuato ad
127
L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.. 128
L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.. 129
Così H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit., nonché D.
WILSON – C. GAME, Local Government in the United Kingdom, Palgrave Macmillan, IV ed., 2006. 130
La dottrina, infatti, ricorda che il governo centrale ha provato a sostenere la nascita di assemblee
regionali, quale pre-condizione per una devolution sostanziale. Si è dunque pensato di sottoporre
questa proposta a referendum nelle diverse regioni. Tuttavia, dopo che - nel novembre del 2004 - il
primo di questi referendum ha dato esito negativo, il governo ha abbandonato l’idea di svolgere la
medesima consultazione popolare nelle altre regioni (H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of
Public Services in Europe, cit., nonché D. WILSON – C. GAME, Local Government in the United
Kingdom, cit.).
195
essere entità amministrative tese ad implementare, nei contesti locali, le politiche
promosse a livello centrale131
.
Dal punto di vista dell’organizzazione e dei compiti concreti riservati alle autorità
locali in tema di servizi pubblici, va detto che, dopo il “Municipal Corporation Act”
del 1835, le grandi riforme dell’età moderna sono avvenute nel 1888 e nel 1894. E’
allora, infatti, che è stata creata la struttura a “due corsie” che ha rappresentato la
base per il modello vittoriano di auto-governo locale132
.
In ossequio a detto impianto organizzativo, se da un lato costituiva consolidato
principio quello secondo cui le autorità locali potevano esercitare solo quei poteri
loro espressamente conferiti dal Parlamento, dall’altro lato le stesse hanno finito ben
presto per essere investite di un gran numero di funzioni, tra cui spiccano quelle
correlate all’erogazione dei servizi sociali e di molti servizi pubblici, quali la
fornitura di acqua ed energia nonché proprio la gestione dei rifiuti133
.
Le funzioni, dunque, erano ripartite tra centro e periferia secondo uno schema
binario. Mentre il governo centrale aveva un ruolo di indirizzo politico ed era
competente per le questioni di alta amministrazione (si pensi, ad esempio, alla
politica estera o al commercio), le autorità locali erano chiamate a sbrigare le
incombenze considerate di ordinaria amministrazione. Nel fare ciò, tuttavia, le stesse
godevano di rilevanti margini di autonomia, non ultimo perché – ricorda la dottrina –
sin dal 1835 alle stesse era stato attribuito il potere di imporre nuove tasse al fine di
coprire le spese legate all’amministrazione134
.
Orbene, anche per ciò che concerne i servizi pubblici e, più in generale, il ruolo delle
autonomie territoriali, quella che nella manualistica viene normalmente descritta
131
In tal senso ancora H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit.. 132
Amplius, cfr. D. WILSON – C. GAME, Local Government in the United Kingdom, cit.. 133
Sul punto cfr., amplius, M. HILL, Understanding Social Policy, Oxford, VII ed., 2003. 134
Così H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit..
196
come l’età dell’oro ha imboccato una fase di declino a partire dagli anni Tenta del
‘900. Da quel momento, infatti, il modello sin qui descritto è stato riconsiderato e,
per l’effetto, sottoposto a radicali cambiamenti sia dal punto di vista funzionale che
organizzativo. In particolare, al pari di quanto avvenuto in Italia135
, gli anni Quaranta
del secolo scorso sono stati teatro di una decisa fase di nazionalizzazione.
La vera svolta al riguardo è arrivata dopo la fine del secondo conflitto mondiale,
quando il Governo ha virato in maniera molto decisa verso un modello di c.d.
welfare state. In conseguenza di ciò le amministrazioni locali hanno perso la gran
parte delle loro competenze e prerogative, che furono avocate direttamente allo Stato
centrale o trasferite in capo ad organismi strettamente dipendenti da quest’ultimo136
.
A titolo esemplificativo, si ricorda che nel 1947 è stato nazionalizzato il servizio
elettrico, secondo un programma che ha trovato il proprio completamento dieci anni
più tardi137
. E, ancora, ad un anno di distanza è stato istituito il Servizio Sanitario
Nazionale, recante il compito di provvedere a tutti gli aspetti inerenti la salute dei
cittadini, con la sola eccezione dell’igiene urbana, sulla quale hanno continuato a
vigilare le autorità locali. Infine, sempre nel 1948, la responsabilità per i servizi
135
Come ricordato nel capitolo III, retro, in Italia dopo la L. 29 marzo 1903 n. 103 sulla c.d.
municipalizzazione dei servizi pubblici locali, con una serie di atti legislativi – intervenuti tra il 1905 e
la fine degli anni Trenta del ‘900 – è stata disposta la nazionalizzazione di pressoché tutti i servizi
pubblici, vale a dire “l’acquisizione o il trasferimento della titolarità e della gestione delle imprese
private ad enti pubblici imprenditoriali, cioè a persone giuridiche (pubbliche) che esercitano attività
economiche organizzate con una potenziale finalità di profitto con gli stessi caratteri dell’impresa
privata (…)” (M. STIPO, (voce) Nazionalizzazione, in Enc. Giur., XXIII, Roma, 1990). Sul punto cfr.,
inter alia, A. DI MAJO, L’avocazione delle attività economiche alla gestione pubblica o sociale, in
Tratt. dir. comm., I, Padova, 1977; F. GALGANO, Commento all’art. 43 Cost., in Comm. Cost.,
Bologna, 1982; M. S. GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, Il Mulino, Bologna, 1898; G.
GUARINO, Scritti di diritto pubblico dell’economia, Giuffré, Milano, 1970; V. OTTAVIANO, (voce)
Impresa pubblica, in Enc. Dir., XX, Milano, 1970; A. PREDIERI, (voce) Collettivizzazione, in Enc.
Dir., VII, Milano, 1960; V. SPAGNUOLO VIGORITA, (voce) Nazionalizzazione (disciplina interna), in
Nss. D.I., XI, Torino, 1965. 136
Sul punto cfr. H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit.. 137
Nel 1947 l’Electricity Act trasferì i poteri e le strutture sino a quel momento spettanti ad una
pluralità di soggetti sparsi nel territorio ad una singola industria facente capo allo Stato centrale. Mentre dieci anni più tardi, venne creato il Central Electricity Generating Board allo scopo di dar vita
ad un sistema unico per la produzione e la trasmissione dell’energia in tutto in territorio britannico.
197
socio-assistenziali è stata attribuita ad un ente all’uopo creato e denominato
“National Assistance”.
Contemporaneamente, tuttavia, i compiti delle autorità locali hanno vissuto una fase
di espansione in settori quali l’educazione e l’edilizia popolare. Dunque – evidenzia
la dottrina – le stesse sono passate dall’essere produttori di public utlilities
(elettricità, gas, acqua) ad essere principalmente soggetti erogatori dei c.d. servizi
sociali, supportando e rafforzando la politica adottata al riguardo dal governo
centrale138
.
Per ciò che concerne, invece, le modalità di gestione ed affidamento di tali servizi,
occorre ricordare come tradizionalmente le autorità locali fossero solite provvedervi
direttamente, mediante proprie unità organizzative funzionali. In sostanza il modello
gestorio era quello di un in house providing ante litteram, laddove si parlava di
“Direct labour organisations” o di “Direct service organisations” “a seconda che il
servizio consistesse [rispettivamente] nella realizzazione o manutenzione di un’opera
o nella prestazione di un servizio”139
.
Sul finire degli anni Settanta, tuttavia, quando il partito conservatore guidato da
Margaret Thatcher ha assunto la guida del Paese, la tradizione del ricorso
all’affidamento in house è stata superata a favore di una maggiore apertura alla
concorrenza. E’ in questa direzione, infatti, che si sono posti sia il “Compulsory
Competitive Tendering”140
che i “Local Government Acts”141
, i cui principi pro-
concorrenziali sono stati generalizzati a tutti i servizi pubblici erogati dagli enti locali
138
Sul punto cfr., amplius, J. A. CHANDLER, Local Government Today, Manchester University Press,
2001. 139
D. MINIUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali, cit.. 140
In proposito, D. MINIUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali, cit., ricorda che si
trattava di “una procedura di confronto concorrenziale introdotta con il Local Government Planning
and Land Act del 1980 che si applicava, tuttavia, solo alle attività di costruzione e di manutenzione del
patrimonio edilizio le quali, secondo le categorie del diritto continentale, non potevano essere
nemmeno considerate [propriamente] un servizio pubblico”. 141
Sul punto cfr. amplius M. RADFORD, Competitions rules: the Local Government Act 1988, in
Modern Law Rev., 51 [1988], 747.
198
nel 1993 con le “Regulations” adottate dal Secretary of State142
. In ossequio a tale
assetto normativo, dunque, l’ente locale che decideva di non esternalizzare un
servizio era tenuto ad espletare una procedura di confronto concorrenziale, il cui
scopo non era quello di selezionare il contraente quanto piuttosto quello di verificare
preventivamente l’efficienza, l’economicità e l’efficacia dell’autoproduzione del
servizio attraverso “un confronto fra organizzazione amministrativa e mercato”143
.
Detto sistema ha trovato applicazione per circa un ventennio. Ciò non di meno, lo
stesso fu oggetto di svariate critiche da parte della dottrina britannica144
, la quale - tra
le altre cose – mostrava forti perplessità in ordine alla (eccessiva) compressione
dell’autonomia degli enti locali e rimarcava come, per effetto delle citate riforme,
l’Inghilterra fosse stata trasformata da Paese “unitario de-centralizzato a Paese
altamente centralizzato”145
.
Anche per questa ragione, dunque, il governo laburista che dal 1997 assunse la guida
del Paese ha cercato di imprimere una svolta, introducendo un sistema di
incentivazione dell’efficienza e dell’economicità dei servizi fondato su principi
142
In proposito cfr. L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.; P. VINCENT-JONES,
The Regulation of Contractualisation in Quasi-markets for Public Services, in Pub. Law, 1999, 314;
K. WALSH, Competitive Tendering for Local Authority Services: Initial Experiences, HMSO, London,
1991. 143
Così L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit., il quale puntualizza: “(…) con
il Compulsory Competitive Tendering l’ente locale è stato obbligato a verificare ogni volta la
maggiore o minore convenienza ad “esternalizzare” il servizio o, viceversa, a mantenerne l’esercizio
diretto”. Tuttavia, l’A. ricorda che “nessuna norma dettava, in un primo momento, i criteri cui
l’amministrazione locale avrebbe dovuto attenersi nell’ambito dell’iter valutativo, implicitamente
riconoscendo ad essa un’ampia discrezionalità non solo amministrativa ma anche politica. (…) Ciò ha
quindi indotto il legislatore britannico all’emanazione degli Statutory Instruments”, la cui ratio “è
infatti volta alla riduzione dell’ambito di discrezionalità, attraverso la minuziosa disciplina del
procedimento e alla consequenziale sottoposizione delle Local Authorities al rigido controllo e alla
soggezione a penetranti poteri coercitivi sia di verifica che di intervento sulle singole scelte in
concreto effettuate. 144
In particolare, T. PROSSER, The Limits of Competition Law. Markets and Public Services, cit.;
nonché P. VINCENT-JONES, The Regulation of Contractualisation in Quasi-markets for Public
Services, il quele ricorda che gli aspetti criticati riguardavano l’eccessiva riduzione della
discrezionalità di scelta degli enti locali; l’eccessivo formalismo e la rigidità delle procedure nonché la
grande mole di contenzioso derivata dalla copiosa proliferazione normativa. 145
L’espressione si deve a G. JONES, Local Government in Great Britain, in J. J. HESSE, Local
Government and Urban Affairs in International Perspective, Nomos, 1991.
199
diversi: il “Best Value Regime” di cui al “Local Government Act” del 1999146
. Tale
sistema è stato “concepito come strumento teso non solo a garantire l’efficienza e
l’economicità in sé ma soprattutto l’efficacia e la qualità del servizio, con l’obiettivo
di politica legislativa di rivitalizzazione della democrazia locale (...)”147
. Per tale
ragione, “il potere di intervento demandato al Governo, pur rimanendo assai esteso
ed incisivo, prende adesso forma in modo da non sopprimere la discrezionalità
politico-amministrativa di valutazione e di scelta dei singoli enti”148
.
146
L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.. Più nel dettaglio, qui si legge che
“con la nuova normativa si è cercato di restituire alle amministrazioni locali almeno parte della
autonomia e della libertà di scelta che le riforme conservatrici degli anni ’80 avevano loro tolto, senza
rinunciare all’obiettivo dell’efficienza del servizio e della proficuità della spesa. La principale
differenza di approccio risiede nella sostituzione, alle rigide e dettagliate regole procedimentali
proprie del Competitive Tendering, di un principio generale di consultazione, controllo e autonoma
determinazione di standard che le autorità locali hanno l’obbligo di adottare nello stabilire i
Performance Plans e le direttive di gestione. Allo stesso modo, sotto il profilo istituzionale, molti
poteri di intervento del Secretary of State sono stati soppressi e le funzioni di controllo trasferite ad
una apposita Audit Commission”.
Sul passaggio da un modello all’altro cfr. amplius R. FOOTITT, From Competitiv Tendering to Best
Value for Local Government Services, in Riv. trim dir. pubbl., 1999, 2, 515; G. GOSETTI, Il nuovo
welfare locale: dal Compulsory Competitive Tendering al Best Value Regime, in Le Regioni, 2007, 1,
209; C. PAINTER, Public Service Reform From Thatcher to Blair: A Third Way, in Parliamentary
Affairs, 52 [1999] 94. 147
In questi termini L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit., che prosegue: “in
questa prospettiva, la preferenza a priori a favore del mercato come criterio di verifica dell’efficienza
amministrativa propria del Competitive Tendering è superata da una valutazione [prognostica] sulla
maggiore efficienza del soggetto erogatore. Il settore privato non è ritenuto di per sé preferibile alla
gestione in house allo stesso modo in cui non esiste alcuna ragione che consenta di escludere a priori
la necessità di sottoporre al confronto concorrenziale la gestione di un determinato servizio o di
affidarlo all’esterno”. Ex multis, T. PROSSER, The Limits of Competition Law. Markets and Public
Services, cit., il quale sottolinea come il nuovo modello introdotto nel 1999 volesse caratterizzarsi per
il fatto di accordare alle autonomie locali una maggiore flessibilità e discrezionalità nella ricerca del
Best Value, definito al p. 3 (1) del Local Government Act come un complesso di accorgimenti “to
secure continuous improvement in the way in which its functions are exercised, having renard to a
combination of economy, efficiency and effectiveness”. 148
Ancora L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit., il quale ricorda che “le
amministrazioni locali sono (…) tenute ad effettuare annualmente un Review delle funzioni, sulla base
anche delle specificazioni impartite a livello governativo (…)”. Mentre, “il Secretary of State ha perso
gran parte della sua capacità di condizionare le scelte delle amministrazioni locali. Il suo ruolo è ora
quello di provvedere, anzitutto, alla elaborazione di Performance Indicators, tenendo conto dei
suggerimenti provenienti dalla Audit Commission destinati all’obiettiva valutazione dell’esercizio
delle funzioni da parte delle amministrazioni nonché di specifici Performance Standards da accingere
in relazione ad essi. (...) nel caso in cui ritenga che l’amministrazione locale non abbia raggiunto gli
obiettivi o non si sia conformata ai requisiti richiesti, il Secretary of State interviene con le istruzioni
vincolanti (…). Solo che il contenuto di tali provvedimenti non incide più sui contenuti delle singole
azioni intraprese dall’ente e, raramente, con sanzioni in senso stretto”. Ex multis, cfr. P. VINCENT –
JONES, Central-Local Relations under the Local Government Act 1999: a New Consensus?, in The
Modern Law Review [2000] 1 84.
200
Al contempo, inoltre, non bisogna dimenticare come sul finire del secolo scorso la
fisionomia dei servizi pubblici locali abbia iniziato ad essere sensibilmente
influenzata dal diritto europeo, che – tra le altre cose - ha portato alla ribalta il
concetto di “public procurement”. Infatti, mentre “durante la prima fase della
costruzione europea, la Comunità ha praticamente ignorato i servizi pubblici”149
,
finendo per avallare una lettura eccessivamente ampia della clausola ex art. 106 p. 2
TFUE che – in determinati casi, si è visto – consente di derogare alle regole della
concorrenza150
, a partire da un certo momento si è palesata l’antinomia concettuale
tra l’obiettivo di creare un mercato unico e l’idea di poter lasciar fuori da
quest’ultimo proprio il settore dei i servizi pubblici151
.
Già nei primi anni Novanta del ‘900, dunque, la Gran Bretagna si è trovata stretta tra
due forze. Quella centripeta, incline a restituire ampi margini di autonomia agli enti
149
In questi termini G. MARCOU, I servizi pubblici tra regolazione e liberalizzazione, cit., il quale
prosegue ricordando come il Trattato di Roma nella sua primigenia versione non menzionasse affatto i
servizi pubblici, “salvo che nell’articolo 77, a proposito della politica comune dei trasporti e
nell’articolo 90, attraverso una parola misteriosa, i servizi di interesse economico generale. Lo scopo
del trattato era, in un primo tempo, sopprimere progressivamente le barriere nazionali alla libera
circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi; perciò durante questa tappa i servizi
pubblici non furono molto toccati dalla formazione del mercato comune. La cosa essenziale era che la
concorrenza potesse svilupparsi tra tutte le imprese nell’ambito del mercato comune; l’applicazione
delle regole della concorrenza necessitava soltanto una chiara distinzione tra l’impresa e lo stato, e una
definizione ampia dell’impresa da cui scaturisse che ogni attività economica avrebbe dovuto essere
sottomessa alle regole del diritto comunitario della concorrenza. Tuttavia, quest’indirizzo, seguito
dalla Commissione e dalla Corte di Giustizia, portava a sottomettere lo stesso alle regole della
concorrenza i servizi pubblici che [si estrinsecavano] in un’attività economica”. Sul punto, cfr.
amplius capitolo III, retro. 150
In proposito cfr. F. GIGLIONI, L’accesso al mercato nei servizi pubblici di interesse generale,
Giuffrè, Milano, 2008; G. MONTEDORO, Mercato e potere amministrativo, Ed. Sc., Napoli, 2010; E.
SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, in S. Mangiameli (a cura di), I servizi
pubblici locali, Giappichelli, Torino, 2008. Nonché ancor più di recente la lettura dell’art. 106 TFUE
offerta da F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto
dell’Unione e nella Costituzione (all’indomani della dichiarazione di illegittimità delle norme sulla
gestione dei servizi pubblici economici), in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2012, 5, 723. 151
In dottrina, si segnala la posizione di chi – G. MARCOU, I servizi pubblici tra regolazione e
liberalizzazione, cit.- ritiene che detto conflitto sia emerso con maggior chiarezza con l’avvento
dell’Atto unico europeo, “che mirava alla formazione del mercato unico attraverso un’armonizzazione
del quadro giuridico in tutti i campi nei quali la diversità delle regole giuridiche vi faceva ostacolo.
Questo conflitto – prosegue l’A. – ha anche posto in evidenza le diverse concezioni esistenti riguardo
al ruolo dello Stato e allo scopo dei servizi pubblici negli Stati membri. Queste differenze si riflettono
in una certa misura nelle direttive europee, che sempre risultano frutto di compromessi, nonché nei
diversi modi con cui ogni Stato ha dovuto adattare il suo sistema giuridico e le sue istituzioni per
integrare il contenuto delle direttive medesime”.
201
locali e quella centrifuga, volta ad aprire (ancor di più) il sistema dei servizi pubblici
al mercato e alla concorrenza. Le riforme attuate negli anni Ottanta, tuttavia, avevano
(forse) irrimediabilmente “intaccato l’idea tradizionale dell’amministrazione locale
come organismo autosufficiente ed integrato (…)”152
, al punto tale che –
complessivamente – non è erroneo ritenere che la spinta liberalizzatrice dell’Europa
abbia avuto la meglio153
, secondo alcuni persino a scapito di altri valori – in primis la
solidarietà – che pure costituiscono l’essenza del servizio pubblico154
.
Più in generale, è possibile osservare come a partire da un certo momento le
istituzioni europee abbiano preso a riscrivere la “Costituzione economica”155
,
inducendo gioco forza gli Stati membri, tra cui ovviamente la Gran Bretagna e
l’Italia156
, a ripensare il proprio modello economico. Il che, ad esempio, nel nostro
152
Così L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit.; ma anche P. CRAIG,
Constitution, Property and Regulation, cit.. 153
In L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, cit., ad esempio, si legge che “infine
la progressiva sottrazione delle competenze degli enti locali è avvenuta con la creazione da parte del
Governo di distinte agenzie, e cioè di enti che possono essere indifferentemente pubblici e controllati
dal Governo o privati ma da esso dipendenti almeno sotto il profilo finanziario. (…) Un esempio
emblematico di questa mutazione di sistema è rappresentato dal servizio di raccolta dei rifiuti.
L’Environmental Protection Act 1990 ha infatti in un primo moment imposto all’ente locale la
separazione interna tra funzioni di regolazione e funzioni operative, Queste ultime sono state poi
affidate sulla base dell’Environmet Act 1995 ad una Environmental Agency, un ente di nomina
esclusivamente governativa”. E, ancora, “questi organi agiscono quali acquirenti di servizi per conto
degli utenti nei confronti di operatori del settore in base a procedimenti di competitive tendering e cioè
ad un confronto concorrenziale. Le agenzie sono soggette ad un penetrante controllo da parte del
Governo, sia per quanto attiene alla disponibilità di risorse che per tutto ciò che concerne
l’imposizione di standard di rendimento e il controllo sul loro rispetto. Allo stesso tempo esse
costituiscono organi di regolazione in modo almeno improprio in quanto a loro volta impongono
standard ai fornitori, controllano ed hanno il potere di agire in modo da pretenderne il rispetto”.
Ex multis, cfr. T. PROSSER, The Limits of Comptetition Law. Markets and Public Services, cit., il quale
osserva come, anche dopo le riforme attuate dal governo laburista a partire dal 1997, la concorrenza
abbia continuato ad essere fortemente incoraggiata. Inoltre, ID., Public Utilities, in www.ius-
publicum.com, 2011, dove si legge: “the public utilities in the UK are different from those in many
other countries. They had been publicly owned, but under the Thatcher and Major Governments from
1979-1997 were privatized; now the only substantial enterprises in public ownership are the Royal
Mail and Scottish Water, and the former is now being prepared for privatization. Government has not
retained any shareholdings in the privatized enterprises, and regulation takes place through the
independent regulatory authorities (…)”. 154
E’ questa la lettura offerta, tra gli altri da T. PROSSER, The Limits of Comptetition Law. Markets
and Public Services, cit.; ID., Regulation and Social Solidarity, in Journal of Law and Society 33
[2006] 3 364.
156
Come ampiamente messo in luce nel capitolo che precede (cfr., in particolare, p. III.2.2), a partire
dai primi anni ’90 del secolo scorso in Italia (ma non solo) ha preso avvio un generale ripensamento
dell’intervento pubblico nell’economia, anche su spinta della (allora) Comunità europea, che ha
202
Paese157
ha significato prendere le distanze dall’idea - fino a quel momento
largamente dominante - dell’impresa pubblica e, soprattutto, dei monopoli. Tuttavia,
“la risposta alla sfida posta dall’apertura alla concorrenza nell’ambito comunitario [è
dipesa] sempre, in ogni Paese, dal sistema giuridico esistente” e non ultimo, per ciò
che qui ci riguarda, dalla concezione di servizio pubblico ivi invalsa158
. E’ proprio
tale aspetto, dunque, che – come si è cercato di evidenziare già nelle pagine che
precedono – contribuisce a rendere attuali lo studio dei servizi pubblici e l’indagine
sui relativi modelli di gestione degli stessi, nonché sul quantum di spazio lasciato al
libero mercato e alla concorrenza159
.
determinato l’abbandono delle politiche monopolistiche a vantaggio di una marcata liberalizzazione di
molti settori. Sul punto cfr., inter alia, S. CASSESE (a cura di), La nuova costituzione economica,
Laterza, Bari, 2012; P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione. Dalla
specialità del soggetto alla rilevanza della funzione, Cedam, Padova, 2005; G. CORSO, (voce)
Liberalizzazione amministrativa ed economica, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto
pubblico, Giuffrè, Milano, 2006; F. DE LEONARDIS, Legalità, autonomie e privatizzazioni, in Dir.
amm., 2000, 2, 241; E. PICOZZA, L’incidenza del diritto comunitario (e del diritto internazionale) sui
concetti fondamentali del diritto pubblico dell’economia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1996, 1, 239.
157
Cfr. amplius quanto osservato nel capitolo III, retro. Ex multis, cfr. per tutti R. CARANTA, (voce)
Intervento pubblico nell’economia, in Dig. disc. pubbl., (aggiornamento), 2000; nonché F. MERUSI, La
disciplina pubblica delle attività economiche nei 150 anni dell’Unità d’Italia, in Diritto e società,
2012, 1, 93. 158
In questo senso ancora G. MARCOU, I servizi pubblici tra regolazione e liberalizzazione, cit., il
quale prosegue affermando che “queste diverse concezioni [di servizio pubblico] si ritrovano nelle
differenze tra gli stessi Paesi nei modi di trascrizione del diritto comunitario e nell’adattamento del
sistema giuridico nazionale al nuovo ambito”.
In tal senso appare particolarmente interessante la recente pronuncia in materia di in house resa di
recente dalla Corte Suprema del Regno Unito (Supreme Court of the United Kingdom 9 November
2011, Brent London Borough Council and a. c. Risk Management Partners Limited) giacché la stessa
– specie se messa a raffronto con C. cost. 3 novembre 2010 n. 325 – “costituisce un importante indice
di come la più autorevole corte britannica interpreti i rapporti esistenti tra Unione europea e Regno
Unito in materia di affidamento di servizi pubblici locali”. Qui, infatti, la Corte Suprema ha affermato
che “l’eccezione Teckal si applica a tutti gli Stati membri dell’Unione in quanto policy europea;
pertanto, non pare potersi applicare in maniera differenziata da Stato a Stato. (…) La Corte
costituzionale italiana, invece, statuì che lo Stato può introdurre dei requisiti più rigorosi rispetto a
quelli imposti dal diritto europeo e ritenne, pertanto, esistente, in capo allo Stato, un margine di
discrezionalità piuttosto ampio. E’ evidente, dunqeu, lo iato esistente tra gli ordinamenti delle due
Corti” (D. MINIUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali: Regno Unito e Italia a confronto,
cit.). 159
Sottolineano tale aspetto della materia H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public
Services in Europe, cit.. Ex multis cfr. M. REESE – H.J. KOCH, Public Waste Management Services in
the Internal Market – and the Interpretation of Article 106 TFEU, in 8 JEEPL [2011] 1 23. Qui gli
AA. sviluppano una riflessione attorno ad una questione attualmente molto dibattuta (anche) in
Germania, vale a dire “fino a che punto in base al diritto dell’Unione europea sia possibile apportare
restrizioni al mercato della raccolta dei rifiuti domestici, affidando lo svolgimento di tale servizio a
soggetti pubblici, come avviene in molti altri Stati membri”. Questione da cui - evidenziano gli AA. –
derivano interrogativi circa il rapporto tra la disciplina dei servizi pubblici (rectius servizi di interesse
203
IV. 5 IL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI RIFIUTI. MODALITÀ ORGANIZZATIVE
Questa indagine, calata nel contesto della Gran Bretagna con precipuo riguardo al
servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani, fa emergere due dati di fondo. Il
primo – in qualche modo anticipato nelle pagine che precedono – è il fatto che la
gestione dei rifiuti, un tempo chiaramente orientata ad assicurare l’igiene pubblica,
nel XIX secolo ha invece virato in modo deciso verso obiettivi più marcatamente
legati alla tutela dell’ambiente. Il che si è riverberato anche sui profili inerenti il
servizio de quo, nella misura in cui – ad esempio – il Governo si è risolto a
marginalizzare il ricorso alle discariche e agli inceneritori, privilegiando attività
come il riciclo, il recupero e – prima ancora – quelle volte alla prevenzione stessa dei
rifiuti.
Il secondo dato che emerge in maniera chiara è poi quello costituito dal fatto che, per
effetto della normativa europea e dell’esigenza di conformarsi ad essa, anche il
servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani è stato aperto al mercato, salvo
riscoprire – specie negli ultimi tempi – l’importanza delle autorità locali come
crocevia in cui le istanze ambientali, le ragioni economiche e i diritti dei cittadini
possono trovare idonea composizione160
. Infatti, senza contravvenire alla logica che
informa la politica europea nella materia de qua – ma, anzi, secondo recenti letture in
assoluta conformità ad essa161
- in Gran Bretagna il ruolo delle autorità locali negli
generale) e il diritto europeo della concorrenza”, specie alla luce delle prescrizioni contenute nell’art.
106 TFUE. 160
Sulla necessità di ricercare tale composizione cfr. in particolare T. PROSSER, The Limits of
Competition Law. Markets and Public Services, cit., il quale osserva che mercati e diritto sono
cresciuti enormemente in importanza e visibilità negli ultimi decenni. Tuttavia, oggigiorno uno dei
maggiori problemi del diritto consiste nel capire come poter conciliare i valori del mercato con i diritti
dei singoli e la solidarietà sociale e, prima ancora, come poter fronteggiare la tensione tra gli stessi.
Nel settore dei servizi pubblici, in particolare, la spinta verso la creazione di mercati competitivi si
pone in contrasto con il valore della solidarietà sociale che, invece, è coessenziale allo scopo primo
del servizio pubblico. 161
In tal senso, per tutti, F. DE LEONARDIS, Politiche e poteri dei governi locali nella tutela
dell’ambiente, in Dir. amm., 2012, 4, 775, dove si legge: “in molte trattazioni si afferma la dimensione
globale della tutela dell’ambiente come una sorta di tratto distintivo del diritto ambientale (…).
Sottolineando l’effetto ascendente di tale tutela si evidenzia che delle questioni ambientali (…) si
204
ultimi anni è stato sensibilmente “rivitalizzato”162
. Le stesse, pertanto, di recente
hanno ri-preso ad occupare anche in tale Paese una posizione cruciale per ciò che
concerne lo sviluppo di politiche e buone prassi inerenti la gestione dei rifiuti163
. E
ciò, peraltro, senza manifestare eccessive resistenze nel collaborare con l’autorità di
regolazione del settore (l’Environment Agency) né tantomeno nel coinvolgere
soggetti privati, bensì – di fatto – accordando sovente a questi ultimi una parte attiva
nella messa in atto del servizio medesimo164
.
Orbene, se del primo aspetto si è (almeno in parte) già detto illustrando gli obiettivi
fatti propri dalla “Waste Strategy 2007” e, da ultimo, dalle “Waste (England and
Wales) Regulations 2011”, con cui la Gran Bretagna ha recepito la direttiva
2008/98/Ce, il secondo profilo deve essere analizzato in questa sede.
Al riguardo, appare d’uopo prendere le mosse dallo studio dei soggetti
tradizionalmente coinvolti nella gestione dei rifiuti, per poi passare ad illustrare il
modello delineato dal legislatore nel 2011.
Come anticipato nelle pagine che precedono, pietra miliare nella disciplina
dell’aspetto gestorio-organizzativo del servizio de quo è l’“Environmental Protection
Act” del 1990, il quale individuava tre autorità ad hoc: le a) Waste Regulation
Authorities, le b) Waste Disposal Authorities, ed infine le c) Waste Collection
Authorities, alle quali devono poi aggiungersi anche i Waste Disposal Contractors.
debbano occupare in primis le amministrazioni di livello internazionale e poi, via via, a scendere
quelle dei livelli inferiori (…)”. Viceversa – puntualizza l’A. – “il ruolo delle politiche e dei poteri dei
governi locali nella tutela dell’ambiente è di assoluto rilievo e non solo per le questioni minute ma
anche per quelle di ambito più generale (…)”. D’altra parte, “la centralità del ruolo e delle politiche
locali in materia di tutela dell’ambiente emerge in modo accentuato anche dall’analisi del diritto
europeo a partire dai programmi di azione ambientale”. 162
In questi termini H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit.. 163
Così, ancora, H. WOLLMANN – G. MARCOU, The Provision of Public Services in Europe, cit.. 164
Sul punto cfr. quanto si dirà amplius infra. Per il momento sia sufficiente il rinvio alle linee guida
consultabili all’indirizzo www.defragov.uk/environment/waste.
205
Quanto alle prime, l’ “Enviormental Protection Act” aveva attribuito loro il compito
di svolgere funzioni amministrative e di regolazione a livello regionale, benché nel
rispetto di quanto previsto a livello nazionale, ad esempio, dal “Town and Country
Planning Act”165.
. Per effetto dell’ ”Environment Act” del 1995, tuttavia, le stesse
sono state “assorbite” da due agenzie recanti carattere nazionale: l’ “Environment
Agency”, competente limitatamente ai territori dell’Inghilterra e del Galles e la
“Scottish Environment Protection Agency” (SEPA)166
, cui invece spetta l’esercizio
delle medesime prerogative con riguardo alla Scozia. Dunque, a partire dalla metà
degli anni Novanta del secolo scorso, il compito di stilare programmi per la gestione
dei rifiuti ha preso ad essere svolto su scala nazionale dalle Agenzie all’uopo create e
non più a livello regionale dalle “Waste Regulations Authorities” (WRAs)167
.
Le “Waste Disposal Authorities” (WDAs), invece, sono responsabili per ciò che
concerne lo smaltimento dei rifiuti generati nelle aree territoriali di rispettiva
competenza e raccolti dalle “Waste Collection Authorities” (WCAs). Il loro compito,
tuttavia, sovente viene svolto dai “Waste Disposal Contractors” (WDCs) che, a loro
volta, possono sostanziarsi in una società interamente privata oppure in una sorta di
longa manus dell’Autorità di smaltimento, vale a dire in una società creata e
controllata da quest’ultima168
.
165
Il primo documenti in materia di pianificazione urbanistica in Gran Bretagna risale al 1909 (c.d.
“Housing, Town, Planning Act”), ma è solo con il “Town and Country Planning Act” del 1947 che è
stato instituito un sistema omogeneo per tutto il territorio. Attualmente la legislazione urbanistica in
Inghilterra e in Galles è basata sul “Town and Country Planning Act” del 1990 che ha consolidato le
precedenti previsioni normative. Amplius sul nesso tra urbanistica e gestione dei rifiuti cfr. D.
POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 166
Amplius cfr. il sito istituzionale dell’Agenzia: http://www.sepa.org.uk/. 167
La dottrina , inoltre, evidenzia che alle Agenzie è stato trasferita la competenza circa il rilascio
delle autorizzazioni allo svolgimento di attività connesse con la gestione dei rifiuti, anch’essa un
tempo spettante alle WRAs. 168
In questi termini D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. Ai sensi dell’EPA s.
30(5), i Waste Disposal Contractors, sono definiti come “la persona che nell’ambito di un’attività
imprenditoriale raccoglie, conserva, tratta o smaltisce rifiuti”. Dal punto di vista della forma giuridica,
può trattarsi alternativamente: a) “di una società costituita, per tutti o anche per uno solo [dei sopra
menzionati] scopi, dalla WDA; oppure b) “di una società costituita, per tutti o anche per uno solo [dei
sopra menzionati] scopi, da altri soggetti in accordo tra loro o separatamente”. La fattispecie evoca,
206
Più nello specifico, competono alle WDAs le seguenti attività: quella di predisporre
le infrastrutture necessarie per lo smaltimento dei rifiuti raccolti dalle WCAs e quella
di attrezzare spazi ad hoc per il deposito, da parte dei cittadini, dei rifiuti
domestici169
. Inoltre le stesse autorità hanno la facoltà di contribuire alle spese
sostenute dai produttori di rifiuti commerciali o industriali per l’approvvigionamento
e la manutenzione di impianti finalizzati al trattamento dei rifiuti prima che gli stessi
siano raccolti170
.
Spetta, invece, alle WCAs il compito di raccogliere i rifiuti domestici prodotti nelle
rispettive aree di competenza, a meno che – secondo la Autorità - l’abitazione sia
situata in un luogo così isolato o inaccessibile da comportare dei costi per
l’espletamento del servizio irragionevolmente alti171
. Resta fermo, in ogni caso, che
non può essere pretesa la corresponsione di alcun prezzo per la raccolta dei rifiuti
domestici, a meno che non sia diversamente previsto nei Regolamenti predisposti dal
Segretario di Stato. Alle WCAs, poi, compete anche la raccolta dei rifiuti c.d.
commerciali,172
laddove ciò sia richiesto da coloro che occupano immobili adibiti a
tali scopi. La stessa cosa vale con riguardo ai rifiuti industriali173
, previo consenso
espresso dalla WDA competente per area. Tuttavia, a differenza di quanto detto con
riguardo ai rifiuti domestici, in ambedue i casi poc’anzi menzionati colui il quale
richiede la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti è tenuto a corrispondere all’Autorità
competente un prezzo, espressamente definito “ragionevole” dal legislatore174
.
dunque, l’istituto dell’in house, in ordine al quale – oltre ai riferimenti compiuti nel capitolo III, retro
– cfr. il recente contributo di D. MINUSSI, Affidamento in house di servizi pubblici locali: Regno Unito
e Italia a confronto, in Dir. pubbl. comp. eur., 2012, 4, 1661. 169
Con riferimento a detti spazi, gli stessi devono essere: facilmente accessibili e deve essere
assicurata la possibilità di usufruirne ad orari ragionevoli. Inoltre l’uso degli stessi da parte dei
residenti non deve essere subordinata al pagamento di alcun corrispettivo. 170
D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 171
D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 172
Cfr. http://www.defra.gov.uk/statistics/environment/waste/wrfg03-indcom/. 173
Cfr. http://www.defra.gov.uk/statistics/environment/waste/wrfg03-indcom/. 174
D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit..
207
Inoltre, entrambe le WCAs e le WDAs hanno compiti specifici per ciò che concerne
le attività connesse con il riciclo dei rifiuti. In particolare, spetta alle seconde il
potere di stringere accordi con i Waste Disposal Contractors per ciò che concerne
l’uso, la vendita o altre forme di smaltimento dei rifiuti raccolti in una certa area175
.
Orbene, è sul descritto impianto organizzativo che – da ultimo – si sono andate ad
inserire le “Waste (England and Wales) Regulations 2011”, adottate al fine di
recepire nell’ordinamento inglese la direttiva 2008/98/Ce. Ciò che ictu oculi colpisce
dal raffronto tra i due atti è la sostanziale omogeneità di contenuti ed obiettivi,
secondo uno schema che – peraltro – si è visto essere identico anche in Italia176
. Non
solo, infatti, anche il legislatore inglese ha preso definitivamente le distanze dall’idea
che i rifiuti siano oggetti di cui occorre disfarsi, mostrando piuttosto di far propria la
visione dei rifiuti come risorse o entità di cui prevenire la formazione177
, ma lo stesso
è anche sembrato condividere gli obiettivi fissati a livello europeo con riguardo ai
profili inerenti l’organizzazione del servizio pubblico178
.
175
D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 176
Si veda in proposito quanto osservato nel capitolo I, retro. In dottrina, per tutto F. DE LEONARDIS, I
rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. 177
Cfr. le linee guida consultabili sul sito http://www.defra.gov.uk/environment/waste/. Inoltre sul
principio di prevenzione e sulla sua applicazione nel settore dei rifiuti, cfr. F. DE LEONARDIS,
Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, cit.. 178
A titolo esemplificativo, si pensi ai principi di autosufficienza e prossimità.
Al riguardo, l’art. 16 della direttiva 2008/98/Ce stabilisce: “1.Gli Stati membri adottano, di concerto
con altri Stati membri qualora ciò risulti necessario od opportuno, le misure appropriate per la
creazione di una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento dei rifiuti e di impianti per il
recupero dei rifiuti urbani non differenziati provenienti dalla raccolta domestica, inclusi i casi in cui
detta raccolta comprenda tali rifiuti provenienti da altri produttori, tenendo conto delle migliori
tecniche disponibili. (…) 2.La rete è concepita in modo da consentire alla Comunità nel suo insieme di
raggiungere l’autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti nonché nel recupero dei rifiuti di cui al
paragrafo 1 e da consentire agli Stati membri di mirare individualmente al conseguimento di tale
obiettivo, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di impianti specializzati per
determinati tipi di rifiuti. 3.La rete permette lo smaltimento dei rifiuti o il recupero di quelli
menzionati al paragrafo 1 in uno degli impianti più vicini, grazie all’utilizzazione dei metodi e delle
tecnologie più idonei, al fine di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute
pubblica. 4.I principi di prossimità e autosufficienza non significano che ciascuno Stato membro
debba possedere l’intera gamma di impianti di recupero finale al suo interno”.
Del pari, nella Parte I.4 dell’Allegato 1 alle “The Waste (England and Wales) Regulations 2011” si
legge: che costituisce obiettivo fondamentale quello di “1.costruire una rete integrata e adeguata di
impianti di smaltimento dei rifiuti e di impianti per il recupero dei rifiuti urbani non differenziati
provenienti dalla raccolta domestica, inclusi i casi in cui detta raccolta comprenda tali rifiuti
provenienti da altri produttori, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili. 2.La rete deve essere
208
La direttiva 2008/98/Ce, infatti, ancor più delle precedenti ha posto in capo agli Stati
membri degli obblighi molto stringenti per quanto concerne i piani per la gestione dei
rifiuti, i programmi di prevenzione e l’uso dei rifiuti come risorsa179
, che la Gran
Bretagna ha dato prova di recepire in maniera alquanto puntuale180
.
In particolare, quanto all’elaborazione dei piani e programmi di cui al Capo V della
direttiva rifiuti181
, le “Waste (England and Wales) Regulations 2011” individuano
nelle figure del Secretary of State e dei “Ministers” le “autorità competenti”182
con
riguardo, rispettivamente, ai territori dell’Inghilterra e del Galles183
.
Pertanto, ai sensi della reg. 4, spetta innanzitutto a tali soggetti stabilire entro il 12
dicembre 2013 uno o più programmi recanti misure di prevenzione, vale a dire
“misure da adottare prima che una sostanza, un materiale o un prodotto diventi
rifiuto, al fine di ridurre a) la quantità [complessiva] di rifiuti; b) gli impatti negativi
costruita in modo tale da consentire all’UE nel suo insieme di raggiungere l’autosufficienza nello
smaltimento e nel recupero dei rifiuti domestici e in modo tale da consentire alla Gran Bretagna di
mirare al conseguimento di tale obiettivo, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di
impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti. 3. La rete permette lo smaltimento dei rifiuti o il
recupero di quelli domestici in uno degli impianti più vicini grazie all’utilizzazione dei metodi e delle
tecnologie più idonei, al fine di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute
pubblica. 4. Questo paragrafo non richiede che l’insieme completo delle infrastrutture in questione sia
collocato in Inghilterra o in Galles né in entrambi”. 179
Sul punto, oltre al capo V della direttiva 2008/98/Ce all’uopo dedicato, cfr. ad ex. il considerando
n. 40 dove si legge che “per migliorare le modalità di attuazione delle azioni di prevenzione dei rifiuti
negli Stati membri e per favorire la diffusione delle migliori prassi in questo settore, è necessario
rafforzare le disposizioni riguardanti la prevenzione dei rifiuti e introdurre l’obbligo, per gli Stati
membri, di elaborare programmi di prevenzione dei rifiuti incentrati sui principali impatti ambientali e
basati sulla considerazione dell’intero ciclo di vita dei prodotti e dei materiali. Tali misure dovrebbero
perseguire l’obiettivo di dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali connessi alla
produzione di rifiuti”. In dottrina, cfr. inter alia F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e novità
normative in materia di rifiuti, cit.; H. A. NASH, The revised Directive on waste: Resolving legislative
tensions in waste managment?, in 21 [2009] JEL 139; E. SCOTFORD, The new waste directive – Trying
to do it all … An early assessment, 11 [2009] ELR 75; ID. , Trash or treasure: policy tensions in EC
waste regulation, in 3 [2007] JEL 367. 180
Cfr., in particolare, la Parte V delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”,
espressamente rubricata “Duties in relation to waste management and improved use of waste as a
resource”. 181
Si tratta, segnatamente, degli artt. 28 – 33 della direttiva 2008/98/Ce. 182
Reg. 3, delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. 183
Sul punto cfr. D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit..
209
che i rifiuti sono suscettibili di produrre sull’ambiente e sulla salute umana; c) il
contenuto di sostanze pericolose nei materiali e nei prodotti”184
.
Pur non essendo necessario che dette misure siano “coniate” ex novo - ben potendo le
stesse essere già in uso - ciò che rileva invece è il fatto che, dal punto di vista dei
contenuti, detti piani siano compatibili con l’obiettivo generale di proteggere
l’ambiente e la salute umana, prevenendo o riducendo gli effetti negativi connessi
alla produzione e gestione dei rifiuti e che gli stessi facciano applicazione della
gerarchia dei rifiuti. Gli stessi, inoltre, devono contribuire a “spezzare il legame tra
crescita economica e impatti ambientali associati alla produzione dei rifiuti”185
.
Del pari, ai sensi della Parte terza delle “Waste (England and Wales) Regulations
2011”, compete alle suddette autorità anche adottare i piani per la gestione dei rifiuti,
conformemente a quanto previsto dall’art. 28 della direttiva 2008/98/Ce186
. Al reg. 7
(1), infatti, si legge che “l’autorità competente deve assicurare che ci siano uno i più
piani contenenti politiche [ad hoc] per la gestione dei rifiuti in Inghilterra e in
Galles”, in modo tale che l’intero territorio risulti “coperto”187
. Dal punto di vista dei
contenuti, poi, le Parti II e III dell’All. 1 riproducono pedissequamente quanto
stabilito dalla direttiva. Vi si legge, infatti, che i piani in questione devono contenere
innanzitutto “un’analisi della situazione della gestione dei rifiuti esistente in
Inghilterra o in Galles, nonché le misure da adottare per migliorare dal punto di vista
ambientale la preparazione per il riutilizzo, il riciclo, il recupero e lo smaltimento dei
184
Reg. 4. delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. In senso analogo, cfr. art. 29
direttiva 2008/98/Ce, rubricato “Programmi di prevenzione dei rifiuti”. 185
Reg. 5 (a) e (b) delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. Inoltre cfr. l’art. 29 direttiva
2008/98/Ce. 186
L’art. 28 della direttiva 2008/98 Ce, rubricato “Piani di gestione dei rifiuti”, al p. 1 stabilisce che
“gli Stati membri provvedono affinché le rispettive autorità competenti predispongano, a norma degli
articoli 1, 4, 13 e 16, uno o più piani di gestione dei rifiuti. Tali piani coprono, singolarmente o in
combinazione tra loro, l’intero territorio geografico dello Stato membro interessato”. I successivi pp. 3
e 4, poi, indicano rispettivamente gli elementi che i piani in questione “contengono” e quelli che gli
stessi “possono contenere”. 187
Reg. 8 (1) delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”.
210
rifiuti, unitamente ad una valutazione del modo in cui i piani contribuiranno
all’attuazione degli obiettivi e delle disposizioni della direttiva”188
. Ancora,
costituiscono elementi essenziali del piano le indicazioni relative a: “a) il tipo, la
quantità e la fonte dei rifiuti prodotti nel territorio, i rifiuti che saranno
prevedibilmente spediti da o verso la Gran Bretagna e una valutazione
dell’evoluzione futura dei flussi di rifiuti; (…) d) informazioni sufficienti circa i
criteri di riferimento per l’individuazione dei siti e la capacità dei futuri impianti di
smaltimento o dei grandi impianti di recupero, se necessario (…)”189
. Mentre, sono
eventuali le informazioni che, tenuto conto del livello e della estensione geografica
dell’area oggetto di pianificazione, si riferiscano a: a) aspetti organizzativi connessi
alla gestione dei rifiuti, inclusa una descrizione della ripartizione delle competenze
tra i soggetti pubblici e privati che provvedono alla gestione dei rifiuti (…); c)
campagne di sensibilizzazione e diffusione di informazioni destinate al pubblico in
generale o a specifiche categorie di consumatori; (…)”190
.
L’autorità competente, inoltre, ha il dovere ogni sei anni – o se necessario anche
prima – di rivedere ciascun programma di prevenzione nonché il piano nazionale di
gestione dei rifiuti, ben potendo però nel frattempo apportare le modifiche ritenute
necessarie191
. Nel fare ciò, dette autorità devono comunque assicurare il
188
Al riguardo si veda l’identico tenore dell’art. 28, p. 2 della direttiva 2008/98/Ce. Qui, infatti, si
legge che “i piani di gestione dei rifiuti comprendono un’analisi della situazione della gestione dei
rifiuti esistente nell’ambito geografico interessato nonché le misure da adottare per migliorare una
preparazione per il riutilizzo, un riciclaggio, un recupero e uno smaltimento dei rifiuti corretti dal
punto di vista ambientale e una valutazione del modo in cui i piani contribuiranno all’attuazione degli
obiettivi e delle disposizioni della presente direttiva”. 189
All. 1, Parte II (6). Inoltre sempre nella Parte II è stabilito che i piani in argomento devono
contenere indicazioni puntuali per quanto concerne le politiche in tema di: rifiuti da imballaggio (7);
raccolta differenziata dei rifiuti (8); rifiuti organici (9); riutilizzo (10); preparazione per il riutilizzo e
obiettivi di riciclo (11). 190
All. 1, Parte III (12). 191
Così è previsto dal Reg 10 (1) delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”, in chiaro
ossequio a quanto stabilito ai sensi dell’art. 30 della direttiva 2008/98/Ce. Quest’ultimo, infatti,
rubricato “Valutazione e riesame dei piani e dei programmi” al p. 1 dispone che “Gli Stati membri
211
coinvolgimento e la partecipazione dell’“Environment Agency” nonché dei
rappresentanti delle amministrazioni locali e dell’industria192
. Al riguardo, la Parte
IV dell’All. 1 stabilisce che non appena possibile - una volta stilati i piani o le
proposte di modifica degli stessi - le autorità competenti devono: a) inviare una copia
degli stessi agli organi consultivi, vale a dire il Natural England e la Historic
Buildings and Monuments Commission per ciò che concerne l’Inghilterra e il
Countryside Council per il Galles; b) informare coloro i quali, secondo le medesime
autorità i) potrebbero essere interessate dal programma o ii) vantano un interesse in
relazione ad esso; c) rendere edotti, anche mediante ricorso a mezzi informatici, i
“public consultees” di cui le autorità vogliono conoscere l’opinione in merito al
piano o al programma; d) invitare i suddetti soggetti a esprimere la propria opinione
entro un tempo ragionevole. Inoltre, le autorità competenti sono tenute a conservare
nei rispettivi uffici una copia dei piani e dei programmi in questione e a mettere la
stessa a disposizione di quanti vogliano prenderne visione193
.
Infine, prima che la decisione venga assunta, il Secretary of State o la Scottish
Environment Protection Agency devono prendere in considerazione le opinioni
espresse. Mentre, una volta adottata la determinazione finale, alle stesse è fatto
provvedono affinché i piani di gestione e i programmi di prevenzione dei rifiuti siano valutati almeno
ogni sei anni e, se opportuno, riesaminati ai sensi degli articoli 9 e 11”. 192
Reg.11 delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. La regola sulla partecipazione trova
un limite in taluni casi, qual è in particolare quello di piani o programmi volti a fronteggiare stati di
emergenza nazionale. In ogni caso essa è stabilita in ossequio a quanto previsto dall’art. 31 della
direttiva 2008/98/Ce, il quale sotto la rubrica “partecipazione del pubblico” stabilisce che: “gli Stati
membri provvedono affinché le pertinenti parti interessate e autorità e il pubblico in generale abbiano
la possibilità di partecipare all’elaborazione di piani di gestione e dei programmi di prevenzione dei
rifiuti e di accedervi una volta ultimata la loro elaborazione, come previsto dalla direttiva 2003/35/Ce
o, se del caso, dalla direttiva 2001/42/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001,
concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente. Essi
pubblicano i piani e programmi su un sito web pubblicamente accessibile”. Ex multis, cfr. D.
POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 193
All. 1, Parte IV (14).
212
obbligo di informare i soggetti che hanno preso parte alla consultazione della
decisione medesima e delle ragioni sulle quali essa si basa194
.
Sempre in ossequio a quanto previsto dalla direttiva 2008/98/Ce, le “Waste (England
and Wales) Regulations 2011” impongono, in capo tutti coloro che operano a vario
titolo nella filiera dei rifiuti, l’obbligo di adottare tutte le misure disponibili – e
ragionevoli in base alle circostanze del caso - per fare applicazione della gerarchia
dei rifiuti”195
. E’ fatta salva, tuttavia, la possibilità di non seguire pedissequamente
l’ordine imposto dalla gerarchia qualora ciò consenta di “ottenere i migliori risultati
dal punto di vista ambientale e dove ciò sia giustificato dal modo in cui è stato
concepito il ciclo di vita del prodotto e dall’impatto che lo stesso è suscettibile di
avere sul sistema di gestione dei rifiuti complessivamente inteso”196
. Tutto ciò
ovviamente - precisa la dottrina - deve avvenire conformemente ad una serie di
principi, quali quelli di precauzione e di sostenibilità, di fattibilità tecnica ed
economica; di risparmio delle risorse e tenendo conto dell’impatto complessivo
sull’ambiente, la salute, l’economia e più in generale sulla società197
.
In relazione a ciò, la Reg. 13 prevede che, a partire dall’1 gennaio 2015, le aziende e
le imprese che raccolgono carta, metalli, plastica o vetro assicurino la raccolta
differenziata di tali rifiuti laddove ciò sia: a) fattibile dal punto di vista tecnico,
economico ed ambientale ed b) appropriato al fine di raggiungere gli standard di
qualità stabiliti per il riciclo nei diversi settori198
. Pertanto, quando le WCAs
194
All. 1, Parte IV (15). 195
Reg. 12 delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. 196
D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 197
D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 198
In proposito si veda il Capo II direttiva 2008/98/Ce “Requisiti generali”, ed in particolare l’art. 11
rubricato “Riutilizzo e riciclaggio” dove si legge che “1. gli Stati membri adottano le misure
necessarie per promuovere il riutilizzo dei prodotti e le misure di preparazione per le attività di
riutilizzo, in particolare favorendo la costituzione e il sostegno di reti di riutilizzo e di riparazione,
l’uso di strumenti economici, di criteri in materia di appalti , di obiettivi quantitativi o di altre misure.
Gli Stati membri adottano misure intese a promuovere il riciclaggio di alta qualità e a tal fine
213
predispongono gli strumenti per la raccolta di detti materiali hanno l’obbligo di
assicurarsi che gli stessi siano idonei a raccogliere separatamente carta, plastica,
vetro, ecc.199
.
Orbene, la descritta conformità tra quanto stabilito dalla direttiva 2008/98/Ce e le
prescrizioni contenute nelle “Waste (England and Wales) Regulations 2011” trova
ulteriore conferma – se necessario - nelle linee guida stilate dal Governo inglese a
supporto della nuova legislazione. Come evidenziato nelle pagine che precedono,
infatti, la “Government Waste Policy Review”200
enuncia gli obiettivi che il Governo
intende perseguire al fine di realizzare una società “rifiuti zero”. Ciò richiede
l’acquisizione di una nuova consapevolezza da parte sia dei soggetti pubblici che dei
privati cittadini, nei confronti del tema “rifiuti”, secondo quanto stabilito (anche) a
livello europeo. E, per l’effetto, si prevedono “benefici non solo in termini di
ambiente più salubre e climate change, ma anche per ciò che concerne la
competitività delle (…) imprese”201
nell’ottica di un avvicinamento ai target della
c.d. green economy.
Nel perseguire simili obiettivi appare chiaro che il Governo intende muoversi lungo
il sentiero tracciato dall’Unione europea con la direttiva 2008/98/Ce. Ciò si evince,
innanzitutto, dal continuo richiamo alla gerarchia dei rifiuti e dal costante monito ad
istituiscono la raccolta differenziata dei rifiuti, ove essa sia fattibile sul piano tecnico, ambientale ed
economico e al fine di soddisfare i necessari criteri quantitativi per i settori di riciclaggio pertinenti
(…). 2. Al fine di rispettare gli obiettivi della presente direttiva e tende verso una società europea del
riciclaggio con un alto livello di efficienza delle risorse, gli Stati membri adottano le misure necessarie
per conseguire I seguenti obiettivi: a) entro il 2020, la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio di
rifiuti quali, come minimo, carta, metallici, plastica e vetro provenienti da nuclei domestici, e
possibilmente di altra origine, nella misura in cui tali flussi di rifiuti sono simili a quelli domestici,
sarà aumentata complessivamente almeno al 50% in termini di peso; entro il 2020 la preparazione per
il riutilizzo, il riciclaggio e altri tipi di recupero di materiale, incluse operazioni di colmatazione che
utilizzano i rifiuti in sostituzione di altri materiali, di rifiuti da costruzione e demolizione non
pericolosi, escluso il materiale allo stato naturale definito alla voce 170504 dell’elenco dei rifiuti, sarà
aumentata almeno al 70% in termini di peso. (…)”. In dottrina cfr. amplius D . POCKLINGTON, The
Law of Waste Management, cit.. 199
Reg. 13 (3) delle “Waste (England and Wales) Regulations 2011”. 200
Consultabile sul sito www.defra.gov.uk. 201
Così si legge nel documento recante “Government Waste Policy Review”, pag. 10 in
www.defra.gov.uk.
214
un uso sostenibile dei materiali202
, ma anche dagli ampi riferimenti all’opportunità di
considerare i rifiuti come risorse, specie ai fini della produzione di energia203
, e dalla
conseguente riluttanza nei riguardi del deposito in discarica204
.
Infine, nell’economia del presente lavoro, appare d’uopo approfondire anche un
aspetto ulteriore, qual è quello del ruolo che le amministrazioni locali hanno in tema
di gestione dei rifiuti. Al riguardo, sembra opportuno evidenziare in via preliminare
che, formulando talune considerazioni sul più ampio tema della regolazione, il
Governo inglese ha sottolineato come quest’ultima comprenda la ricerca di uno
spazio per riequilibrare le responsabilità tra l’autorità di regolazione, l’ “Environment
Agency”, e le autorità locali e per favorire una maggiore cooperazione tra gli stessi
soggetti. Ciò sulla base dell’assunto per cui quei regolatori che operano isolatamente
possono raggiungere risultati solo parziali, mentre condividendo informazioni e
saperi è possibile individuare più facilmente i profili da correggere e garantire un
maggior risultato in termini di tutela degli investimenti, soddisfacimento dei bisogni
delle comunità locali e, non ultimo, protezione dell’ambiente205
.
Pertanto, benché il servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani competa
fattivamente alle autorità locali - le sole in grado di sviluppare detto servizio in modo
202
In tal senso cfr. “Government Waste Policy Review”, in particolare pagg. 20 e ss. Sul punto, in
dottrina, cfr. F. DE LEONARDIS, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, cit.. 203
In proposito cfr. “Government Waste Policy Review” pagg. 62 e ss. In dottrina, cfr., innanzitutto,
L. KRAMER, EU Environmental Law, cit.; nonchè i contributi di P. M. CONNOR, UK Renewable
Energy Policy: a Review, cit.; S. O. NEGRO - F. ALKEMADE – M. O. HEKKERT, Why Does Renewable
Energy Diffuse so Slowly? A Review of Innovation System Problems, cit.; B. WOODMAN – C.
MITCHELL, Learning from Experience? The Development of Renewables Obligation in England and
Wales 2002 – 2010, cit.. 204
Si vedano le pagg. 69 e ss. del documento recante “Government Waste Policy Review”. Ex multis,
in dottrina cfr. D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 205
Così si legge nella “Government Waste Policy Review” alle pagg. 37-38. Riflessioni in certa
misura analoghe si rinvengono in G. ARENA, Introduzione all’amministrazione condivisa, in Studi
parlamentari e di diritto costituzionale 1997, 117, 29-65; nonché in T. PROSSER, The Limits of
Competition Law. Markets and Public Services, cit.. Inoltre, per ciò che concerne più in generale il
tema della trasparenza amministrativa, nella varietà dei contributi dottrinali, sia sufficiente rinviare a
G. ARENA (voce) Trasparenza amministrativa, in Enc. Giur. XXXI (aggg.), Roma, 1995; F.
MANGANARO, L’evoluzione del principio di trasparenza amministrativa, in www.astrid-online.it,
2009; F. MERLONI E A. ( a cura di), La trasparenza amministrativa, Giuffrè, Milano, 2008.
215
tale da rispondere efficacemente alle esigenze delle comunità locali206
- “il Governo
ritiene che il lavoro congiunto possa migliorare l’efficienza della raccolta e la qualità
del servizio erogato in modo pratico e conveniente”207
. Di conseguenza il governo
centrale si dice pronto a lavorare di concerto con le amministrazioni locali (“local
councils”) al fine di incrementare la frequenza della raccolta e rendere più semplice il
riciclo dei rifiuti208
, sull’esempio di quanto già fatto nel 2009 quando venne costituita
la “Waste Collection Commitment”209
.
Al contempo, sembra altresì diffusa nell’ordinamento inglese la convinzione per cui
è necessario che si crei una sinergia tra autorità locali e famiglie (o, più in generale,
privati cittadini). Le prime, infatti, “devono lavorare insieme a queste ultime e non
contro di loro”, sulla base dell’assunto per cui – in un’ottica di lungo periodo -
orientare in senso virtuoso le azioni dei singoli è molto più efficace che imporre
controlli e sanzioni210
. Per questo motivo, nella “Government Waste Policy Review”
si evidenzia l’opportunità di coinvolgere la società civile nella gestione dei rifiuti
affinché “i problemi [comuni] si trasformino in opportunità [comuni]”211
.
206
Sull’opportunità di allocare la gestione servizi pubblici locali al livello degli enti locali al fine di
rispondere alle esigenze delle comunità territoriali, cfr. per tutti E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici
locali, cit.. Inoltre, sulle potenzialità e sul ruolo che gli enti locali dovrebbero avere (anche in Italia) in
settori cruciali per il benessere della collettività, quale l’ambiente, cfr. F. DE LEONARDIS, Politiche e
poteri dei governi locali nella tutela dell’ambiente, cit., dove si legge: “gli enti e le autorità locali
sono protagonisti necessari ed imprescindibili delle politiche di tutela dell’ambiente assieme alle
amministrazioni internazionali (…), alle amministrazioni europee (…) e alle amministrazioni
nazionali (…). Gli enti locali assieme alle amministrazioni citate e alla società civile (…)
compongono un sistema plurilivello che riesce ad assicurare una tutela effettiva, secondo quanto
affermano peraltro gli artt. 3 ter e 3 quinquies del Codice dell’ambiente, solo ed esclusivamente se
tutte le componenti interagiscono armonicamente”. 207
Così si legge nella “Government Waste Policy Review” pag. 43. 208
In tal senso cfr. “Government Waste Policy Review” pag. 43, pp. 122-123. 209
Cfr. ancora “Government Waste Policy Review” pag. 43, p. 125. 210
Così si legge nella “Government Waste Policy Review” pag. 44. Il documento, inoltre, prosegue
affermando che “l’esercizio dei poteri, anche sanzionatori, in capo alle autorità locali deve bilanciare
il bisogno di rispettare le libertà dei singoli con la necessità di sanzionare e reprimere le condotte che
hanno un impatto negativo sulla vita di comunità”. 211
In proposito cfr. amplius la “Government Waste Policy Review” pag. 52. Tale aspetto, inoltre,
sembra potersi collegare a quel filone dottrinario incline a valorizzare il principio di sussidiarietà
orizzontale ex art. 118, ult. c., Cost. come leva per costruire un modello di amministrazione condivisa.
In proposito cfr., innanzitutto, a G. ARENA, Cittadini attivi, cit.. Inoltre cfr. anche G. ARENA E A. (a
cura di), Il valore aggiunto. Come la sussidiarietà può salvare l’Italia, Carocci, Roma, 2010; F.
216
In proposito, inoltre, è interessante notare come il Governo sembri consapevole del
fatto che “se si vuol spingere gli individui a tenere comportamenti corretti, è
necessario dare loro il buon esempio”212
. Di conseguenza le amministrazioni locali
sono esortate ad incoraggiare e valorizzare best practices, quali ad esempio le
iniziative di “Recyclebank” che assicurano incentivi e premi (ad ex., nella forma di
buoni sconto) a quei cittadini che riciclano oggetti e materiali213
.
In definitiva, emerge l’idea che nel settore de quo il lavoro sinergico di più soggetti,
pubblici e privati, possa rivelarsi in grado di produrre risultati maggiori, quanto meno
in termini qualitativi. Al contempo, inoltre, si ha l’impressione che il baricentro si
stia progressivamente spostando dal livello di governo centrale a quello periferico.
Dall’esame dei recenti atti normativi, infatti, si evince che le autorità locali finiscono
sempre più spesso per fungere da snodo e da raccordo tra le istanze europee e
nazionali, da un lato, e la società civile, dall’altro lato. Spetta ad esse, dunque,
approntare un servizio pubblico di gestione dei rifiuti che coniughi opportunamente
apertura al mercato e tutela dell’ambiente con i bisogni e i diritti dei singoli. Per
questo motivo è essenziale che le stesse abbiano le capacità, le competenze ed i
mezzi per assicurare servizi efficienti e qualitativamente apprezzabili, rispettando
altresì il principio di economicità e garantendo un alto livello di sostenibilità
ambientale. In tal senso, dunque, è particolarmente interessante notare come il
Governo inglese proprio di recente si sia impegnato a rimuovere quegli ostacoli di
ordine burocratico che, frapponendosi alla quotidiana azione amministrativa,
GIGLIONI, Subsidiarity cooperation: a new type of relationship between public and private bodies
supported by the EU law, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2010, 2, 485; ID., Il principio di sussidiarietà
orizzontale nel diritto amministrativo e la sua applicazione, in Foro amm. CdS, 2009, 10 2909. Infine,
con precipuo riguardo al nesso tra sussidiarietà orizzontale e servizi pubblici locali cfr. F. GIGLIONI,
Servizi pubblici locali, sussidiarietà e mercato, in www.labsus.org, 2008 e C. IAIONE, L’energia dei
cittadini dei servizi pubblici locali, in www.labsus.org, 2013. 212
In tal senso cfr. La “Government Waste Policy Review” pag. 45. 213
Così si legge nella “Government Waste Policy Review” pag. 45, in specie p. 137.
217
rischiano in concreto di frenare il cammino verso una gestione dei servizi pubblici
efficiente e più vicina ai cittadini214
.
214
Si veda in proposito la “Government Waste Policy Review” pag. 46 e ss., in particolare pp. 143 –
145. In dottrina cfr., per tutti, C. GRAHAM, Socio-economic Rights and Essential Services: A New
Challenge for the Regulatory State, in D. OLIVER – T. PROSSER – R. RAWLING, The Regulatory State:
Constitutional Implications, OUP, Oxford, 2010; T. PROSSER, The Limits of Competition Law.
Markets and Public Services, cit.. Simili istanze, inoltre, traspaiono anche nei contributi di attenta
dottrina italiana. Sul punto, per tutti, cfr. E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit..
218
CAPITOLO V
IL SERVIZIO PUBBLICO TRA UNIONE EUROPEA E STATI MEMBRI.
VERSO LA (RI)SCOPERTA DEI PRINCIPI DI ADEGUATEZZA,
DIFFERENZIAZIONE E AUTONOMIA
V.1 PREMESSA
Lo studio sin qui condotto ha inteso indagare il servizio pubblico di gestione dei
rifiuti urbani sotto una duplice lente: quella ambientale e quella più “classicamente”
amministrativa, vale a dire involgente l’organizzazione e l’erogazione del servizio
pubblico tout court inteso. Nello specifico, muovendo dall’assunto per cui da alcuni
anni a questa parte l’ordinamento europeo “sempre più si sviluppa e si afferma”
sovrapponendosi e condizionando gli ordinamenti interni1, nelle pagine che
precedono si è inteso guardare all’an e al quomodo delle trasformazioni che il diritto
europeo ha catalizzato o, se del caso, imposto a livello nazionale per ciò che
concerne entrambi i su menzionati profili del servizio in argomento.
La chiave di lettura, dunque, è quella dei rapporti tra ordinamento dell’Unione
europea e Stati membri, ma alla luce ancora debole dei principi di differenziazione
ed adeguatezza. Se, infatti, in molti concordano sul fatto che tra i due livelli di
1 In questi termini, A. ROMANO, La concessione di un pubblico servizio, in G. PERICU – A. ROMANO –
V. SPAGNUOLO VIGORITA, La concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995, specialmente
pp. 12 e ss., dove l’A. prosegue osservando che “si ha la sensazione che troppo spesso il dato del
diritto comunitario, o di quello nazionale che lo recepisce, venga considerato isolatamente: così che
l’attenzione si concentra sulla singola direttiva, su quel che sono il suo oggetto esplicito, i limiti della
sua applicabilità che ne conseguono, e i suoi contenuti così come sono letteralmente desumibili.
Mentre, ormai, il diritto comunitario complessivamente considerato costituisce già un ordinamento, e
u ordinamento corposo, consistente e rigoglioso: con tutte le implicazioni che dalla sua definizione
come tale derivano. In particolare: con la possibilità, ma anche con la necessità, di individuare i suoi
principi generali, e addirittura la sua natura intrinseca. Con ben più feconde potenzialità ricostruttive:
con la possibilità di utilizzare tali suoi principi e tale sua natura, per ordinare a sistema le sue norme
scritte, eventualmente colmandone le lacune. E per profilarne linee di sviluppo che, in quanto di
realizzazione degli uni e dell’altra, appaiono prevedibili e ragionevoli.
Più di recente, ha evidenziato la natura complessa ed “integrata” dell’ordinamento europeo, sia dal
punto di vista sostanziale che processuale, in L. DE LUCIA, Amministrazione transnazionale e
ordinamento europeo. Saggio sul pluralismo amministrativo, Giappichelli, Torino, 2009 e ID., I
ricorsi amministrativi nell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, in Riv. trim. dir. pubbl., 2013,
2, 323.
219
governo si sia instaurata da tempo una proficua dialettica, tale per cui gli stessi
finiscono con l’influenzarsi reciprocamente2, resta solo parzialmente esplorato il
tema della reale autonomia che residua in capo agli Stati membri nel disciplinare
taluni istituti – quale, ad esempio, i servizi pubblici – e dell’opportunità di
valorizzare detta autonomia per garantire un’amministrazione “più vicina” al
contesto in cui la stessa è chiamata ad operare3.
Orbene, volendo sviluppare alcune considerazioni in ordine a tale aspetto, sembra
innanzitutto opportuno individuare qualche “punto fermo” sulla base dello studio sin
qui condotto. A tal fine, si ricorda come nelle pagine che precedono il servizio
pubblico di gestione dei rifiuti urbani sia stato indagato avendo riguardo ad entrambi
i profili sopra menzionati, vale a dire quello ambientale e quello gestorio. E come
tale analisi sia stata compiuta in chiave comparata, ossia ponendo mente al modo in
cui il servizio in questione è disciplinato ed erogato tanto in Italia quanto in Gran
Bretagna. Ne consegue che, per “fare ordine” tra le molteplici suggestioni emerse
dallo studio, le osservazioni che a breve si cercherà si formulare saranno volte a
ricondurre “a sistema” analogie e differenze della disciplina giuridica e
dell’organizzazione di detto servizio nei due Paesi secondo lo schema “binario” sin
qui utilizzato.
2 Inter alia, G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, Cedam, Padova, 2010.
3 Un’indagine in tal senso si rinviene, da ultimo, in F. GIGLIONI, Governare per differenza. Metodi
europei di coordinamento, ETS, Pisa, 2012, il quale nella propria ricerca ha adottato la prospettiva “di
verificare – sul piano dei principi e, soprattutto, delle regole – la possibilità di governare l’esigenza di
integrazione con l’esistenza delle differenze nazionali, puntando non tanto alla riduzione o alla
neutralizzazione di queste ultime, ma alla loro enfatizzazione”. Inoltre, prima ancora, cfr. L. TORCHIA,
Il Governo delle differenze. Il principio di equivalenza nell’ordinamento europeo, Il Mulino, Bologna,
2006. Infine, sottolinea l’opportunità di valorizzare il principio di differenziazione nella
organizzazione dei servizi pubblici locali A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza
fra diritto comunitario e modelli nazionali, in G. FALCON (a cura di), Il diritto amministrativo dei
Paesi europei tra omogeneizzazione e diversità culturali, Cedam, Padova, 2005.
220
V.2 LA DIMENSIONE AMBIENTALE DEL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI
RIFIUTI URBANI
Prendendo le mosse dalla dimensione ambientale del servizio pubblico di gestione
dei rifiuti urbani, occorre per prima cosa riconoscere come sia oramai fortissima, da
tale punto di vista, l’influenza dell’Unione europea. Tanto in Italia quanto in Gran
Bretagna, infatti, molta parte dell’attuale disciplina giuridica del servizio de quo
consta di prescrizioni di derivazione europea. In entrambi i Paesi, infatti, la materia
dei rifiuti è disciplinata da norme di settore – gli artt. 177 e ss. del d. lgs. n. 152 del
2006 s.m.i. per l’Italia e le “Waste Regulations 2011” per Inghilterra e Galles – che
non fanno mistero del fatto di essere state adottate in recepimento della direttiva
2008/98/Ce, la cui ratio – si è visto – riposa nella volontà di realizzare una società
“rifiuti-zero”. E ciò conformemente a quella che è stata indicata essere la linea
evolutiva dell’intero diritto ambientale, il cui sviluppo è stato e continua ad essere
catalizzato principalmente dal diritto europeo e (in certi ambiti, ancora prima) dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia4.
In particolare, per ciò che concerne i rifiuti si è visto come la legislazione abbia
“conosciuto una rapida evoluzione [solamente] nel corso degli ultimi trent’anni”5.
C’è stato un tempo, infatti, in cui né l’Europa né gli Stati membri si occupavano dei
rifiuti, specie in relazione ad obiettivi di tutela puramente ambientale. La prima
perché, fino all’entrata in vigore dell’Atto Unico europeo, non aveva una specifica
competenza in materia di ambiente6. I secondi perché “storicamente” a livello
nazionale la regolamentazione dei rifiuti era finalizzata in prevalenza ad arginare i
4 Sul diritto ambientale come diritto a formazione prevalentemente giurisprudenziale cfr. F. DE
LEONARDIS, Trasformazioni della legalità nel diritto ambientale in G. ROSSI (a cura di), Diritto
dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011; ma anche B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente,
Il Mulino, Bologna, 2005 e P. DELL’ANNO, Manuale di diritto ambientale, Cedam, Padova, 2003. 5 In tal senso B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto dell’ambiente, cit..
6 Sul punto cfr., per tutti, L. KRAMER, EU Environmental Law, Sweet & Maxwell, London, 2011; M.
RENNA, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2009, 3-4,
649.
221
problemi di ordine pubblico derivanti da pestilenze ed epidemie7. Ciò – come
evidenziato nelle pagine che precedono – vale persino per la Gran Bretagna,
nonostante molti sottolineino il carattere “avanguardistico” della legislazione inglese
in materia di ambiente e finanche di rifiuti8. Infatti, se è vero che l’essere stata teatro
della Rivoluzione industriale ha portato detto Paese ad interessarsi del problema dei
rifiuti già nel XIX secolo, è altrettanto vero che – al pari di quanto accaduto in altre
realtà, tra cui quella italiana – tale interesse era motivato dalla volontà di assicurare
un alto livello di igiene nelle città, specie in quelle dove maggiore era la
concentrazione di fabbriche.
Solo in un secondo momento, dunque, l’allora Comunità ha preso ad interessarsi ai
rifiuti9. E sebbene la ragione di fondo fosse legata più alla costruzione del mercato
unico10
che alla tutela dell’ambiente, gli Stati membri si sono trovati nella condizione
di dover recepire le c.d. direttive rifiuti11
. Da lì in poi tra i due livelli di governo ha
7 Per ciò che concerne l’Italia si veda la L. 20 marzo 1941 n. 366 al cui art. 1, comma primo, si legge
che “la raccolta, il trasporto e lo smaltimento (utilizzazione o dispersione distruzione) dei rifiuti urbani
assumono, nei riflessi dell’igiene, dell’economia e del decoro, carattere di interesse pubblico”. In
dottrina cfr., per tutti, M. S. GIANNINI, Ambiente: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici, in Riv. trim.
dir. pubbl., 1973, 1, 15 e più di recente F. DE LEONARDIS, Trasformazioni della legalità nel diritto
ambientale, cit..
Del pari, per ciò che concerne la Gran Bretagna è stato osservato che, nonostante già nel XIX abbia
iniziato ad interessarsi ai rifiuti, i primi atti legislativi avevano come obiettivo principale quello di
assicurare un elevato livello di igiene nelle città. Tale situazione, inoltre, si è protratta ancora fino ai
primi anni Settata, posto che il Deposit of Poisonous Waste Act fu adottato nel 1972 per far fronte ad
uno stato di emergenza dato dall’abbandono illegale di rifiuti pericolosi. Sul punto cfr. S. BELL – D.
MCGILLIVRAY, Environmental Law, OUP, Oxford, 2008. 8 Per tutti, D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, Sweet & Maxwell, London, 2011.
9 Facendo leva sugli articoli 100 e 235 del Trattato Cee, relativi rispettivamente al ravvicinamento
delle legislazioni nazionali e ai c.d. poteri impliciti, negli anni Settanta del ‘900 l’allora Comunità
economica europea adottò le prime direttive in materia di rifiuti. Si trattava, come ampiamente
ricordato nelle pagine che precedono, della direttiva 75/439/Ce; della direttiva 75/442/Cee; della
direttiva 76/403/Cee ed, infine, della direttiva 78/319/Cee. 10
In proposito, si ricorda che con la direttiva 75/442/Cee il Consiglio esortava innanzitutto gli Stati
membri al “ravvicinamento delle legislazioni” in materia di gestione dei rifiuti, al fine di scongiurare
il prodursi di situazioni di “disuguaglianza nelle condizioni di concorrenza”, suscettibili di incidere
negativamente sul funzionamento del mercato comune. In dottrina, tra gli altri, cfr. D. WILKINSON,
Time to discard the concept of waste?, in ELR, 1[1999] 2 172. 11
L’Italia, ad esempio, ha recepito le direttive comunitarie degli anni Settanta con il D. P. R. 10
settembre 1982 n. 915. Sul punto, in dottrina cfr. F. CAPELLI, Portata ed efficacia delle direttive Cee
in materia di rifiuti, in Riv. giur. amb., 1987, 1, 33. Quanto alla Gran Bretagna, invece, la dottrina è
solita ricordare come le direttive citate, ed in particolare la direttiva 75/442/Cee, traessero ispirazione
dalla legislazione britannica. Qui, infatti, nel 1974 era stato emanato il Control of Pollution Act
222
preso avvio un intenso dialogo12
in cui molta parte l’ha avuta la Corte di Giustizia.
Sono stati, infatti, prevalentemente i giudici europei a riempire di contenuti la
nozione di rifiuto e, per l’effetto, a delineare i contorni di quelle contigue di
sottoprodotto ed end of waste 13
, talvolta persino provando a “mediare” tra i rigidi
dictat imposti dalle istituzioni europee e le istanze emerse a livello nazionale14
.
E così alle prime direttive degli anni Settanta hanno fatto seguito, nell’ordine, le
direttive 91/156/Cee15
e 2006/12/Ce16
, nonché – da ultimo – la direttiva 2008/98/Ce17
(oltre a molti atti tesi a disciplinare singoli aspetti della materia de qua), secondo un
clymax ascendente che ha visto la legislazione diventare sempre più attenta ai profili
eminentemente ambientali della materia. Se è vero, infatti, che ab origine i rifiuti
venivano presi in considerazione come ulteriore tassello del mercato unico e, dunque,
l’approccio adottato dalle istituzioni era prevalentemente regolatorio18
, nel tempo -
(COPA) che abrogava e sostituiva il Deposit of Poisonous Act adottato solo due anni prima. Al
riguardo cfr. amplius D. POCKLINGTON, The Law of Waste Management, cit.. 12
A ben vedere, tuttavia, si potrebbe dire che in un certo senso tale dialogo sia iniziato ancora prima
se è vero – come evidenziato nelle pagine che precedono – che la prima direttiva rifiuti, la
1975/442/Cee reca una chiara eco del “Control of Pollution Act” adottato dalla Gran Bretagna nel
1974. 13
Sul punto, per tutti, F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a
cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. 14
Come ricordato nel capitolo II, infatti, sin da subito gli Stati membri si sono interrogati circa l’esatta
latitudine della nozione di rifiuto, ossia – più nello specifico – sull’individuazione di uno statuto
giuridico cui sottoporre i prodotti secondari. Emblematiche in tal senso, ad esempio, le pronunce
CGCE 28 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, C-206 e 207/88; CGCE 25 giugno 1997, Euro Tombesi e a.,
C-304/94; CGCE 15 giugno 2000, ARCO, C- 418/97 e C-419/97; CGCE 14 gennaio 2004, Saetti e
Frediani, C-235/02. 15
Direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 156, 91/156/Cee, per un esame della quale si rinvia a
quanto ricordato, specialmente, nei capitoli I e II del presente lavoro e ai riferimenti bibliografici ivi
richiamati, tra cui in particolare F. GIAMPIETRO, Smaltimento e recupero dei rifiuti nella direttiva Cee
156/91: strumenti ed obiettivi nuovi per il legislatore italiano, in Rass. giur. en. elettr., 1992, 3, 617 . 16
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 n. 12, 2006/12/ce, relativa ai
rifiuti. Anche i questo caso cfr. quanto ricordato amplius nei capitoli che precedono. In dottrina, cfr.
per tutti E. SCOTFORD, Trash or treasure: policy tensions in EC waste regulation, in [2007] 3 JEL 367. 17
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 n. 98, 2008/98/Ce, relativa
ai rifiuti e che abroga alcune direttive. Sul punto si rinvia alla disamina compiuta nei capitoli che
precedono e ai riferimenti bibliografici ivi richiamati. In questa sede, dunque, sia sufficiente
menzionare il contributo di E. SCOTFORD, The new waste directive – trying to do it all … an early
assessment, in 11 [2009] ELR 1 75. 18
Per molto tempo, infatti – sulla base dell’assunto per cui i rifiuti sarebbero “un prodotto
ineliminabile della società” – cardine della disciplina giuridica dei rifiuti dettata dall’Europa è stato lo
smaltimento. A ciò si legava, pertanto, un’interpretazione giurisprudenziale della nozione di rifiuto
molto ampia, tale da ricomprendere “praticamente ogni tipo di fattispecie” (F. DE LEONARDIS, I rifiuti:
223
così come la vocazione (quasi) esclusivamente economica dell’Unione europea si è
stemperata19
, del pari – gli stessi sono stati ampiamente riconsiderati nella loro
dimensione ambientale.
Non a caso, dunque, l’ultima direttiva rifiuti consacra quello che parte della dottrina
ha definito come un vero e proprio revirement20
, giacché il baricentro appare ora
definitivamente spostato dall’aspetto strictu sensu gestorio, ossia lo smaltimento, a
quello della prevenzione ex ante. Il principio di prevenzione (o azione preventiva)21
,
infatti, oltre ad essere posto al vertice della gerarchia dei rifiuti ex art. 4 direttiva
2008/98/Ce, costituisce uno degli architravi su cui poggia l’intero impianto
normativo varato dalle istituzioni europee22
. Di riflesso – si è osservato – anche Italia
dallo smaltimento alla prevenzione, cit.). In giurisprudenza, cfr. ad esempio CGCE 25 giugno 1997,
Euro Tombesi e a., cause riunite C-304/094, C-330/94, C-342/94, C-224/95, nonché CGCE 18
dicembre 1997, Inter Environment Wallonie ASBL c. Regione Wallonne, C-129/96. 19
Ampia parte della dottrina, infatti, sottolinea come da alcuni anni a questa parte nel dibattito
giuridico europeo il mercato tout court inteso abbia perso un po’ della propria centralità per fare posto
ad altri temi, tra cui in particolare quello dei diritti fondamentali. Segnale tangibile di questo (quanto
meno parziale) cambiamento di prospettiva sarebbe il riconoscimento della natura giuridica vincolante
della Carta di Nizza sancito dall’art. 6 TUE, come modificato in occasione di Lisbona (in proposito
cfr., inter alia, L. DANIELE, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e Trattato di Lisbona,
in Dir. Un. Eur., 2008, 3, 665; N. PARISI, Funzione e ruolo della Carta dei diritti fondamentali nel
sistema delle fonti alla luce del Trattato di Lisbona, in Dir. Un. Eur., 2009, 3, 653; J. ZILLER, I diritti
fondamentali tra tradizioni costituzionali e “costituzionalizzazione” della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, in Dir. Un. Eur., 2011, 2, 539). Sull’argomento si rinvia, senza
pretesa alcuna di esaustività, a M. CARTABIA, L’universalità dei diritti umani nell’età dei “nuovi
diritti”, in Quad. cost., 2009, 3, 537; P. CRAIG – G. DE BURCA, The Evolution of EU Law, OUP,
Oxford, 2011; nonché ancor più di recente a S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari, 2012,
il quale scrive che “il passaggio dall’Europa dei mercati all’Europa dei diritti [è parso] ineludibile,
condizione necessaria perché l’Europa [potesse] raggiungere la piena legittimazione democratica”. 20
F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, cit.. Segnale estremamente
importante di questo “capovolgimento di prospettiva” è dato anche dal fatto che il legislatore europeo
agli artt. 5 e 6 della direttiva 2008/98/Ce ha codificato per la prima volta gli istituti del sottoprodotto e
della materia prima seconda (e end of waste). Pertanto – osserva la medesima dottrina – oggi può dirsi
che l’insieme dei rifiuti risulta “limitato e intaccato da [questi] due contigui sottoinsiemi” e che “nel
continuo scontro tra i partiti del tutto rifiuti e del niente rifiuti si è pervenuti ad una posizione
mediana”. 21
Per un esame del principio in argomento si rinvia in particolare a F. DE LEONARDIS, Principio di
prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in AA.VV., Studi in onore di Alberto Romano,
Ed. Sc., Napoli, 2011, 2079.
22
Come si è cercato di illustrare diffusamente nel capitolo I del presente lavoro, la direttiva rifiuti
2008/98/Ce poggia essenzialmente su quattro architravi, vale a dire: la promozione di una società
rifiuti-zero; il principio di prevenzione o azione preventiva (cfr. in particolare l’art. 3 n. 12); il
principio “chi inquina paga” ed, infine, il principio della responsabilità estesa del produttore. Ex
multis, sul punto cfr. B. DENTAMARO – F. IERVOLINO, La disciplina comunitaria dei rifiuti, vecchia e
nuova normativa a confronto, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2010, 1, 359 .
224
e Gran Bretagna hanno modificato le rispettive legislazioni ponendo l’accento su tale
principio. Infatti, così come l’art. 178 del Codice dell’ambiente, dopo le modifiche
apportate dal d. lgs. n. 205 del 2010, dispone che le attività di cui la gestione dei
rifiuti consta devono essere realizzate “conformemente” al principio di prevenzione
(nonché a quelli di precauzione, sostenibilità, proporzionalità, responsabilizzazione e
cooperazione), le “Waste Regulations 2011”, oltre ad essere interamente pervase da
continui richiami al principio de quo, dedicano allo stesso addirittura l’intera Parte II.
Più in generale, è d’uopo osservare come la valorizzazione - a livello tanto europeo
che nazionale - del principio di prevenzione, da un lato, si ponga in linea con
l’attuale politica europea in tema di ambiente che, da alcuni anni a questa parte,
appare dichiaratamente orientata al perseguimento di obiettivi di sviluppo
sostenibile23
; mentre, dall’altro lato, lasci intendere che il diritto dell’ambiente – ed
in specie quello dei rifiuti – pur non essendo (o, almeno, non esclusivamente) un
diritto per principi, può trovare in questi ultimi la propria chiave di lettura24
. Il che, si
è visto, risulta particolarmente funzionale in quei casi, quale ad esempio quello
italiano, in cui la necessità di conformarsi alle prescrizioni europee, unitamente al
proliferare della normazione interna, ha dato vita ad un coacervo così intricato che
23
In tal senso, su tutti, L. KRAMER, EU Environmental Law, cit.. Più in generale, in ordine al principio
dello sviluppo sostenibile, anche in relazione alla questione della tutela delle generazioni future, si
rinvia a R. BIFULCO – A. D’ALOIA (a cura di), Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo
sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, Jovene, Napoli, 2008; F. DE LEONARDIS, Tutela
delle generazioni future e organismi preposti alla tutela, in V. PARISIO (a cura di), Diritti interni,
diritto comunitario e principi soprannazionali, Giuffrè, Milano, 2009; F. FRACCHIA, Il principio dello
sviluppo sostenibile, in M. RENNA – F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo,
Giuffrè, Milano, 2012; ID., Sviluppo sostenibile e diritti delle generazioni future, in Riv. quad. dir.
amb., 2010; ID., Sulla configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost e doveri di
solidarietà ambientale, in Dir. eco., 2002, 1, 215; G. ZAGREBELSKY, Nel nome dei figli. Se il diritto ha
il dovere di pensare al futuro, in La Repubblica del 2 dicembre 2011, 55. 24
In tal senso, per tutti, cfr. D. AMIRANTE, Il diritto ambientale italiano e comparato, Jovene, Napoli,
2003, nonché più di recente, a commento della direttiva rifiuti 2006/12/Ce, E. SCOTFORD, Trash or
treasure, cit.. Più in generale, sulla valenza (per così dire) ordinatrice dei principi cfr. G. MIELE,
Prefazione, in F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, 1911 -14, rist. Cedam, Padova, 1960; A.
ROMANO, Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del convegno celebrativo del 150°
anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983; ID., Introduzione, in Diritto
amministrativo, Moduzzi, Bologna, 2005. Infine, più di recente, A. CIOFFI, (voce) “Codificazione” e
principi generali (dir. amm.), in Dig. disc. pubbl. (aggiornamento), UTET, 2010.
225
neppure le pretese opere di sistematizzazione della materia sono valse a restituire alla
legislazione un adeguato livello di organicità25
. Parimenti, tuttavia, il ruolo dei
principi non può essere sottovalutato neppure in quegli ordinamenti, qual è quello
inglese, in cui la legislazione si connota per una sostanziale linearità. Anche qui,
infatti, essi recano una valenza ordinatoria ed unificante, giacché forniscono la
chiave di lettura delle previsioni di legge e, per l’effetto, le riportano “a sistema”.
D’altronde, in termini complessivi, è possibile osservare come, specie negli ultimi
anni, la legislazione europea in materia di rifiuti (e, in generale, di ambiente) sia
diventata sempre più puntuale, imponendo di conseguenza agli Stati membri un
costante sforzo di adeguamento al fine di realizzare quelli che, a livello
sovrannazionale, sono stati individuati essere gli obiettivi programmatici. Non a
caso, dunque, gli atti normativi interni con cui Italia e Gran Bretagna hanno inteso
recepire la direttiva 2008/98/Ce, ossia il d. lgs. n. 205 del 2010 e le “Waste
Regulations 2011”, mostrano di condividere detti obiettivi e affermano la volontà dei
governi nazionali di impegnarsi al fine di realizzare una società “rifiuti-zero”.
Da ciò deriva che molti servizi pubblici a rete26
, in primis proprio quello relativo alla
gestione dei rifiuti urbani, hanno subito – quanto meno a livello di principio – una
25
Il riferimento è, chiaramente, al d. lgs. n. 156 del 2006, meglio noto come Codice dell’ambiente o
Testo Unico ambientale, da taluno definito persino come “un mero contenitore di norme in materia
ambientale disorganico e precario” (A. CELOTTO, Il Codice che non c’è: il diritto ambientale tra
codificazione e semplificazione, in www.giustamm.it, 2006). Sul punto, cfr. amplius i riferimenti
bibliografici riportati nel capitolo I del presente lavoro, tra cui si segnalano in particolare F.
GIAMPIETRO, Né testo unico né codice dell’ambiente … ma un unico contenitore di discipline
differenziate, in Ambiente & Sviluppo, 2006, 4, 405; M. RENNA, Semplificazione e ambiente, in Riv.
giur. ed., 2008, 1, 37. 26
Si pensi al servizio di distribuzione dell’energia elettrica e del gas nonché al servizio idrico. In
dottrina, per ciò che concerne il primo, si rinvia senza pretesa alcuna di esaustività al recente volume
di G. NAPOLITANO – A. ZOPPINI (a cura di), Annuario del Diritto dell’energia 2013. Regole e mercato
delle energie rinnovabili, Il Mulino, Bologna, 2013, nonché ai contributi di M. DE FOCATIIS - A.
MAESTRONI (a cura di), Libertà d’impresa e regolazione del nuovo diritto dell’energia, Giuffrè,
Milano, 2011 e di S. QUADRI, L’evoluzione della politica energetica comunitaria con particolare
riferimento al settore dell’energia rinnovabile, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011, 3-4, 839.
Con riguardo al servizio idrico, invece, si vedano inter alia i recenti contributi di P. CAROZZA, Vizi
privati, pubbliche virtù?, in Dir. pubbl. comp. eur., 2012, 3, 664 e di E. BOSCOLO, La disciplina
226
trasformazione in chiave “ambientale”, con la fissazione di elevati standard di
sostenibilità, nonché l’imposizione di una serie per nulla risibile di obblighi, in capo
tanto all’amministrazione (che del servizio conserva in ogni caso la titolarità) quanto
al soggetto gestore27
, il cui mancato rispetto è motivo di censura da parte della
Commissione europea e della Corte di Giustizia28
.
V.3 LA DIMENSIONE ORGANIZZATIVA DEL SERVIZIO PUBBLICO DI GESTIONE DEI
RIFIUTI URBANI
L’imposizione da parte dell’Europa di tali obblighi, dunque, ha finito per contribuire
a ridisegnare la fisionomia del servizio pubblico in esame, conferendo allo stesso una
più spiccata connotazione ambientale. Al contempo, la spinta ad una maggiore
pubblicistica delle acque tra pubblicità, tutela ecologica e distribuzione universale, in Dir. pubb.
comp. eur., 2012, 3, 682. Di quest’ultimo A., inoltre, si veda amplius Le politiche idriche nella
stagione di scarsità. La risorsa comune tra demanialità custodiale, pianificazioni e concessioni,
Giuffrè, Milano, 2012. 27
Sulla scissione pratica (e prima ancora concettuale) tra titolarità e gestione del servizio pubblico,
cfr. E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, Dig. disc. pubbl. aggiornamento, 2012. Inoltre,
sottolineano il fatto che la titolarità del servizio sia necessariamente di “pertinenza istituzionale” della
pubblica amministrazione, G. CAIA, L’organizzazione dei servizi pubblici locali. Figure, regime e
caratteristiche, in Foro amm., 1991, 3167; A. ROMANO, La concessione di un pubblico servizio, in A.
ROMANO E A. (a cura di), La Concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995; P. STELLA
RICHTER, Dall’ente pubblico all’ente a legittimazione democratica necessaria, in Foro amm. CdS,
2002, 3001. 28
In proposito appare quanto mai emblematica la nota (e già citata) vicenda dell’ “emergenza rifiuti in
Campania”, il cui inizio – ricorda la dottrina (L. BARONI, Lo sguardo vigile dell’Europa sulla
“emergenza rifiuti in Campania, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2011, 6, 1095) è “convenzionalmente
fatto risalire all’11 aprile 1994 quando, con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
[DPCM 11 febbraio 1994, in G.U. n. 35 del 12 febbraio 1994], si dichiara per la prima volta lo stato di
emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania, per un iniziale periodo di
un anno che poi sarà via via prorogato fino al 2009 quando vi è la formale dichiarazione della fine
dell’emergenza [d. lex 20 dicembre 2009 n. 195, conv. in L. 26 febbraio 2010 n. 26 in G.U. n. 48 del
27 febbraio 2010]”. In ordine a tale questione si ricordano, inter alia, CGCE 26 aprile 2007,
Commissione c. Italia, C-135/05 e CGCE 4 marzo 2010, Commissione c. Italia, C-297/08.
Per un esame della vicenda e delle problematiche ad essa relative cfr. funditus G. ARENA, Se c’è il
commissario straordinario non possono esserci i cittadini attivi, in www.labsus.org; C. BASSU,
Emergenza rifiuti a Napoli: la doppia faccia della sussidiarietà, in Riv. giur. amb., 2009, 2, 403; L.
COLELLA, La governance dei rifiuti in Campania tra tutela dell’ambiente e pianificazione del
territorio. Dalla “crisi dell’emergenza rifiuti” alla “società europea del riciclaggio”, in Riv. giur.
amb., 2010. 3-4, 493; M. GNES, Le ordinanze di protezione civile per fronteggiare l’emergenza nel
settore dello smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania, in Riv. giur. mezzogiorno, 2008, 2, 433;
A. LUCARELLI, Il governo dei rifiuti in Campania. Il jolly dell’emergenza in un coacervo di
irresponsabilità ed inefficienze, in www.federalismi.it, 2011; L. VIOLA, L’emergenza rifiuti approda
davanti al giudice amministrativo, tra effetto n.i.m.b.y. e analisi economica del diritto, in
www.giustamm.it, 2008.
227
sostenibilità del servizio ha inciso anche sulla dimensione organizzativa, nella misura
in cui – ad esempio – gli obblighi di servizio pubblico si sono arricchiti di nuovi
contenuti29
. E ciò tanto in quei Paesi, qual è l’Italia, in cui l’istituto de quo costituisce
un topos del diritto amministrativo, quanto in quelle realtà – come, ad esempio,
quella inglese – in cui i servizi pubblici sono intesi prevalentemente in “senso
materiale”, vale a dire come servizi erogati in favore dei cittadini, senza che a ciò si
accompagnino studi di teoria generale.
Per tale via, dunque, i due piani – quello ambientale e quello
organizzativo/gestionale – hanno finito per confondersi, almeno in taluni casi. Infatti,
nonostante i servizi pubblici locali di rilevanza economica non siano mai stati
espressamente interessati da normative europee di diritto derivato, ad essi si
applicano innanzitutto i principi dei Trattati in materia di servizi di interesse
economico generale (SIEG), vale a dire gli artt. 14 e 106 TFUE, nonché il protocollo
n. 26 al TFUE30
. Inoltre, nei confronti degli stessi trovano altresì applicazione quei
principi e quelle regole che attengono a materie – quale l’ambiente – che pure sono
di competenza (ancorché non esclusiva) dell’Unione europea e che si pongono in
rapporto di stretta correlazione con i servizi de quibus. Dunque, se è vero che, “nella
loro essenza di missioni di interesse generale, i servizi pubblici locali sono
29
Sottolineano questo aspetto, tra gli altri, E. BONELLI, Amministrazione governance e servizi pubblici
locali. Tra Italia e Unione europea, Giappichelli, Torino, 2008; N. RANGONE, I servizi pubblici
nell’ordinamento comunitario, in Giorn. dir. amm., 2005, 5, 433; E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e
ordinamento comunitario, in S. MANGIAMELI (a cura di), I servizi pubblici locali, Giappichelli,
Torino, 2008; nonché F. GIGLIONI, Le garanzie degli utenti dei servizi pubblici locali, in Dir. amm.,
2005, 2, 353; ID., Le carte di pubblico servizio e il diritto alla qualità delle prestazioni dei pubblici
servizi, in Pol. del dir., 2003, 2, 405 e, ancor più di recente, ID., L’integrazione per differenziazione
dei servizi di interesse generale, in Giorn. dir. amm., 2012, 6, 538. 30
In tal senso G. GRUNER, Liberalizzazione e autonomie locali, in AA.VV., Atti del Convegno
“Liberalizzare o regolamentare: il diritto amministrativo di fronte alla crisi”, Copanello 29 e 30
giugno 2012, il quale ricorda anche come la stessa Corte costituzionale nella nota pronuncia C. Cost.
17 novembre 2010 n. 325 abbia chiarito che i SIEG hanno “contenuto omologo” ai servizi pubblici
locali di rilevanza economica.
Ex multis, escludono la possibilità e finanche l’opportunità di una disciplina generale di rango europeo
dei servizi pubblici locali F. GIGLIONI, L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse
generale, cit. ed A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza fra diritto comunitario e
modelli nazionali, cit., il quale ammonisce di non cadere nell’errore del “paneuropeismo”.
228
tendenzialmente estranei all’intervento delle istituzioni europee”, la presenza – come
nel caso dei rifiuti – di “interessi generali europei” ha portato la disciplina
soprannazionale “a riguardare anche l’an e il quomodo del servizio pubblico
locale”31
.
In proposito, è d’uopo ricordare come ab origine la Comunità europea non avesse
una competenza specifica nella materia de qua e come per lungo tempo la stessa
abbia mostrato una sostanziale indifferenza nei confronti dei servizi pubblici,
legittimando – più o meno consapevolmente – una lettura mistificata32
dell’odierno
art. 106 TFUE.
Ciò non di meno, a partire dagli anni Ottanta e, ancora di più, dai primi anni Novanta
del secolo scorso - vale a dire da quando, su spinta della Comunità33
, a livello
nazionale ha preso avvio quel processo di generale ripensamento dell’intervento
pubblico nell’economia34
di cui si è detto nelle pagine che precedono - le istituzioni
31
In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. Al riguardo appare ancora una volta
emblematica la vicenda dell’emergenza rifiuti in Campania, cfr. nota n. 28, retro. 32
In tal senso M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale: evoluzione normativa e profili
ricostruttivi, in Dir. pubbl., 1998, 3, 981. In proposito, cfr. anche E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici
locali, cit., la quale scrive: “è noto che a livello europeo la materia dei servizi pubblici non rientri tra
le competenze (né esclusive né concorrenti) originariamente attribuite alla Comunità. La maggior
parte degli interventi comunitari in materia di servizi pubblici, che ha condotto alla liberalizzazione
dei principali servizi pubblici nazionali e all’individuazione di principi giuridici funzionali
all’introduzione della concorrenza, si è infatti fondata sulla competenza in materia di mercato interno.
E ha preso le mosse da una concezione residuale del servizio pubblico quale eccezione, limitata e
marginale, all’operare delle regole di concorrenza secondo quanto previsto dal § 2 dell’art. 106
TFUE”. 33
Emblematiche, al riguardo, le osservazioni di G. GUARINO, Pubblico e privato nella economia. La
sovranità tra Costituzione ed istituzioni comunitarie, in Quad. cost., 1992, 1, 21, dove si legge: “con
la sottoscrizione del Trattato CE, si è accettato in modo irreversibile come principio istituzionale
quello del mercato e veniamo a constatare che tale principio, a seguito dell’apertura comunitaria del
sistema, provoca il graduale ma inesorabile smantellamento sia dei poteri nei quali il principio
dell’economia mista si esprimeva, sia delle istituzioni cui l’esercizio di tali poteri aveva dato vita”. 34
In proposito, scrive R. CARANTA, Intervento pubblico nell’economia, in Dig. disc. pubbl.,
aggiornamento, UTET, 2000, “tra i tratti caratterizzanti l’ultimo decennio un posto rilevante merita
senz’altro la progressiva riduzione del ruolo e modificazione delle funzioni dello Stato – e, più in
generale, dei pubblici poteri – nel governo dell’economia. In particolare, appaiono recessive la forma
dell’intervento diretto nell’economia attraverso l’assunzione di attività imprenditoriali, nonché l’idea
stessa di direzione e pianificazione dell’economia (…). Si affermano, invece, tecniche di regolazione
del mercato, come la disciplina antitrust (…)”. Inoltre, “l’ultimo decennio ha visto l’effettivo
trasferimento di alcuni dei poteri in questione ad autorità sovrannazionali, le quali hanno posto sotto il
loro controllo ulteriori potestà pubblicistiche (…); molti istituti sono semplicemente venuti meno,
consentendo la riespansione della libertà del mercato”. Alla luce di tali avvenimenti, dunque, l’A.
229
europee hanno “scoperto” i servizi pubblici35
, riconoscendo loro (quasi
improvvisamente) un ruolo di prim’ordine nella costruzione del mercato unico36
. Il
osserva come la “giuridica legittimità” degli stessi vada “innanzitutto valutata alla luce delle
disposizioni economiche contenute all’interno della nostra Costituzione e, segnatamente degli artt. 41
e seguenti del testo costituzionale”, ossia quella che viene normalmente indicata come “Costituzione
economica”.
Sul punto, oltre a rinviare a quanto più diffusamente osservato nel capitolo III del presente lavoro, si
ricordano senza pretesa di esaustività P. BILANCIA, Modello economico e quadro costituzionale,
Giappichelli, Torino, 1996; S. CASSESE (a cura di), La nuova Costituzione economica, Laterza, Bari,
2012; R. MICCÙ, Lo Stato regolatore e la nuova Costituzione economica: paradigmi di fine secolo a
confronto, in P. CHIRULLI – R. MICCÙ (a cura di), Il modello europeo di regolazione. Atti della
giornata di studio in memoria di Salvatore Cattaneo, Jovene, Napoli, 2011; E. PICOZZA, L’incidenza
del diritto comunitario (e del diritto internazionale) sui concetti fondamentali del diritto pubblico
dell’economia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1996, 1, 239; C. PINELLI, I rapporti economico sociali
fra Costituzione e Trattati europei, in C. PINELLI – T. TREU (a cura di), La Costituzione economica:
Italia, Europa, Bologna, 2010; M. RAMAJOLI, La regolazione amministrativa dell’economia e la
pianificazione economica nell’interpretazione dell’art. 41 della Costituzione, in Dir. amm., 2008, 1,
121; F. TRIMARCHI BANFI, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, Giappichelli, Torino, 2007; ID.,
Organizzazione economica ad iniziativa privata e organizzazione economica ad iniziativa riservata
negli articoli 41 e 43 della Costituzione, in Pol. Dir., 1992, 1, 3.
Infine, evidenziano tale aspetto con precipuo riguardo all’attività amministrativa e ai servizi pubblici
E. BRUTI LIBERATI – F. DONATI (a cura di), La regolazione dei servizi economici di interesse generale,
Giappichelli, Torino, 2010; P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione.
Dalla specialità del soggetto alla rilevanza della funzione, Cedam, Padova, 2005; F. DE LEONARDIS,
Soggettività privata e azione amministrativa, Cedam, Padova, 2000; L. DE LUCIA, La regolazione
amministrativa dei servizi di pubblica utilità, Giappichelli, Torino, 2002. 35
Si pensi all’emersione delle categorie di servizio universale e di servizio di interesse economico
generale. Detto revirement, peraltro, ha trovato forma nell’art. 16 TCe (oggi art. 14 TFUE) introdotto
nel 1997 in occasione del Trattato di Amsterdam, il quale attribuisce all’Unione europea una
competenza concorrente in materia di servizi di interesse generale. Sul punto, cfr. inter alia R.
CAVALLO PERIN, I principi come disciplina giuridica del pubblico servizio tra ordinamento interno e
ordinamento europeo, in Dir. amm., 2000, 1, 41; M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale:
evoluzione normativa e profili ricostruttivi, cit.; F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione
amministrativa, cit.; L. DE LUCIA, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità, cit.;
D. SORACE, I servizi “pubblici” economici nell’ordinamento nazionale ed europeo alla fine del primo
decennio del XX secolo, in Dir. amm., 2010, 1, 8. 36
Di qui il collegamento con il tema della concorrenza. Al riguardo, va detto che – di principio –
l’interesse dell’Unione europea per i servizi pubblici ha inciso primariamente nel senso di scardinare i
sistemi monopolistici (ove esistenti) e, dunque, aprire i servizi al mercato. Per contro, le istituzioni
europee non si sono mai espresse nel senso di escludere il “pubblico” dalla gestione di determinati
servizi, mostrandosi piuttosto abbastanza neutrali nei riguardi della natura (pubblica o privati) del
soggetto gestore (sul punto, per tutti, P. CHIRULLI, Autonomia pubblica e diritto privato
nell’amministrazione. Dalla specialità del soggetto alla rilevanza della funzione, cit., spec. pp. 87 e
ss.; F. GIGLIONI, L’accesso al mercato nei servizi di interesse generale. Una prospettiva per
riconsiderare liberalizzazione e servizi pubblici, Giuffrè, Milano, 2008; E. SCOTTI, Il pubblico
servizio. Tra tradizione nazionale e prospettive europee, Cedam, Padova, 2003). In ogni caso, è
nell’ambito di tale tematica che viene abitualmente inquadrata la questione della gestione c.d. in house
dei servizi pubblici. Sul punto - oltre a rinviare all’analisi e ai riferimenti bibliografici riportati nei
capitoli che precedono - per ciò che concerne la Gran Bretagna, si veda la pronuncia resa di recente
dalla Supreme Court of the United Kingdom 9 November 2011, Brent London Borough Council and
a. c. Risk Management Partners Limited, con nota di D. MINUSSI, Affidamento in house di servizi
pubblici locali: Regno Unito e Italia a confronto, in Dir. pubbl. comp. eur., IV, 2012. Per quanto
concerne l’Italia, invece, si vedano inter alia le recenti sentenze C. Cost. 3 novembre 2010 n. 325 (su
cui, tra gli altri, L. CUOCOLO, La Corte costituzionale “salva” la disciplina statale sui servizi pubblici
locali, in Giorn. dir. amm., 2011, 5, 484) e C. Cost. 20 luglio 2012 n. 199 (su cui, tra gli altri, L. R.
PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno dell’autonomia, il rispetto della disciplina
230
che – come osservato da parte della dottrina – con riguardo ad alcuni servizi
“maggiori”, tra cui proprio i rifiuti, ha determinato lo “stemperarsi del carattere
locale, in un quadro più ampio di competenze e relative responsabilità”37
.
Nell’ultimo quindicennio, tuttavia, la prospettiva ha subito un ulteriore
ampliamento38
, posto che è stata sempre più valorizzata la dimensione “sociale” dei
servizi pubblici39
. Efficienza, accessibilità, qualità del servizio, infatti, sono assurti al
rango di valori imprescindibili e di fattori fondamentali “per la qualità della vita dei
cittadini europei nonché per l’ambiente e la competitività delle imprese europee”40
.
europea, la funzionalizzazione alle aspettative degli utenti, in Giur. it., 2013, 3, 679). Inoltre, per una
lettura critica della pronuncia da ultimo citata e, più in generale, dell’inquadramento della
problematica dell’in house nell’ambito della concorrenza intesa in senso europeo cfr. F. TRIMARCHI
BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto dell’Unione europea e nella
Costituzione (all’indomani della dichiarazione di illegittimità delle norme sulla gestione dei servizi
pubblici economici), in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2012, 5, 723. 37
In tal senso E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 38
Sulla necessità di una costante rivisitazione della disciplina dei servizi di interesse generale da parte
dell’Unione europea F. GIGLIONI, L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse generale,
cit., che imputa detto bisogno “all’intrinseca quota di politicità che (...) caratterizza” la disciplina in
questione e che al contempo osserva anche come “la periodica necessità di tornare a riconsiderare i
servizi di interesse generale rappresent[i] però anche l’indizio di una problematicità che è collegata
all’incertezza del quadro disciplinare, avvertita tanto dagli Stati membri quanto dagli operatori”. In
senso analogo, inoltre, F. TRIMARCHI BANFI, Considerazioni sui “nuovi” servizi pubblici, in Riv. it.
dir. pubbl. comunit., 2002, 5, 950. 39
Sul punto, tra gli altri, L. DE LUCIA, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità,
cit.; F. GIGLIONI, Le garanzie per gli utenti, in S. MANGIAMELI (a cura di), I servizi pubblici locali,
Giappichelli, Torino, 2008; M. RAMAJOLI, La tutela degli utenti nei servizi pubblici a carattere
imprenditoriale, in Dir. amm., 2000, 2, 383; nonché E. BONELLI, Amministrazione governance e
servizi pubblici locali, cit.. Quest’ultimo, in particolare, osserva: “la questione che viene in luce è
proprio quella della portata economica e della natura sociale del settore dei servizi pubblici locali.
Indubbiamente le attività di erogazione dei servizi in oggetto sono attività di grande rilievo
economico, che potrebbero anche essere svolte da privati con fini di lucro (…). Accanto a questo
contenuto [economico], le medesime attività presentano una rilevanza sociale che è altrettanto
indiscutibile; la distribuzione sul territorio di risorse fondamentali addirittura per la sopravvivenza
umana (l’acqua potabile, per indicarne una) condizione l’accesso dei cittadini al primo diritto umano,
cioè al diritto alla vita (…). La stretta ed indissolubile connessione fra l’erogazione dei servizi in
questione e l’accesso ai diritti umani e sociali [,pertanto,] non può essere ignorata, anche a fronte del
contenuto economico delle attività in cui la prestazione del servizio si sostanzia”. 40
Così E. SCOTTI, Servizi pubblici locali e ordinamento comunitario, cit., ma anche E. BONELLI,
Amministrazione governance e servizi pubblici locali, cit.; e F. GIGLIONI, L’integrazione per
differenziazione dei servizi di interesse generale, cit.. In proposito, peraltro, si ricorda che in
occasione del Trattato di Amsterdam è stato introdotto l’art. 16 TCe dove si sottolinea il ruolo che i
servizi di interesse economico generale rivestono si fini della coesione sociale e territoriale, e che
l’art. 36 della Carta di Nizza (oggi recante valore giuridico vincolante ex art. 6 TUE) sollecita
l’Unione a riconoscere e rispettare l’accesso ai servizi di interesse economico generale, così come
disciplinato dalle legislazioni nazionali (A. LUCARELLI, Art. 36. Accesso ai servizi di interesse
economico generale, in R. BIFULCO – M. CARTABIA – A. CELOTTO (a cura di), L’Europa dei diritti, Il
Mulino, Bologna, 2001).
231
Su questi valori l’Europa pone sempre più spesso l’accento41
, spingendo
conseguentemente gli Stati membri ad innalzare il livello qualitativo dei servizi
anche locali, compreso quindi quello di gestione dei rifiuti. Da un lato, dunque, non è
un caso se – ad esempio – nel documento varato dal Governo inglese e denominato
“Government Waste Policy Review 2011” si afferma la necessità di aiutare le
comunità locali nello sviluppo e nella messa in pratica di soluzioni consone ad
un’ottimale gestione dei rifiuti, al fine di “raggiungere il giusto equilibrio tra qualità
del servizio, ambiente e costi (…)”42
. Mentre, dall’altro lato, non stupisce che l’Italia
sia stata ripetutamente condannata per la mala gestio dei rifiuti in Campania43
.
41
Da ultimo, ad esempio, si ricorda la Comunicazione della Commissione europea 20 dicembre 2011
COM(2011) 900 sui servizi di interesse generale, per un commento alla quale cfr. F. GIGLIONI,
L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse generale, cit. Indicazioni in tal senso, però,
si rinvengono anche nelle discipline di settore, quale - ad esempio – quella relativa ai rifiuti contenuta
nella direttiva 2008/98/Ce. Qui, in particolare, si vedano il VI considerando, dove si legge che
“l’obiettivo principale di qualsiasi politica in materia di rifiuti dovrebbe essere di ridurre al minimo le
conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente”, o
il XXX considerando, a mente del quale “ai fini dell’attuazione dei principi della precauzione e
dell’azione preventiva di cui all’articolo 174, paragrafo 2 del trattato, occorre fissare obiettivi
ambientali generali per la gestione dei rifiuti all’interno della Comunità. In virtù di tali principi, spetta
alla Comunità e agli Stati membri stabilire un quadro per prevenire, ridurre e, per quanto possibile,
eliminare dall’inizio le fonti di inquinamento o di molestia mediante l’adozione di misure grazie a cui
i rischi riconosciuti sono eliminati”. 42
Government Waste Policy Review 2011, p. 11 (www.defra.gov.uk/environment/waste).
43 Sul punto, oltre a rinviare alle indicazioni bibliografiche contenute nella nota n. 28, retro, si ricorda
che l’Italia è stata condannata sia dalla Corte di Giustizia (da ultimo con la sentenza CGUE 4 marzo
2010, Commissione europea c. Italia, C-297/08) per violazione degli artt. 4 e 5 della direttiva
2006/12/Ce che dalla Corte EDU (CEDU 10 gennaio 2010, Di Sarno e a. c. Italia, ric. n. 30765/08)
per violazione degli artt. 8 e 13 della Convenzione europea (al riguardo, sia consentito rinviare a C.
FELIZIANI, Il diritto fondamentale all’ambiente salubre nella recente giurisprudenza della Corte di
Giustizia e della Corte EDU in materia di rifiuti. Analisi di due approcci differenti, in Riv. it. dir.
pubbl. comunit., 2012, 6, 999). Per ciò che riguarda in particolare l’aspetto organizzativo del servizio
de quo, si ricorda che nella pronuncia della Corte di Giustizia, tra le altre cose, è possibile leggere: “In
conformità all’art. 5, n. 1, della direttiva 2006/12, gli Stati membri devono adottare le misure
appropriate per la creazione di una rete integrata ed adeguata di impianti di smaltimento dei rifiuti che
consenta, da un lato, alla Comunità nel suo insieme di raggiungere l’autosufficienza in materia di
smaltimento dei rifiuti e, dall’altro, ai singoli Stati membri di mirare al conseguimento di tale
obiettivo. A tal fine, gli Stati membri devono tener conto del contesto geografico o della necessità di
impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti (p. 61). Per istituire detta rete, gli Stati membri
dispongono di un margine di discrezionalità nella scelta della base territoriale che ritengono adeguata
per conseguire un’autosufficienza nazionale in termini di capacità di smaltimento dei rifiuti, e così
permettere alla Comunità di assicurare essa stessa lo smaltimento dei rifiuti (p. 62). […] allorché uno
Stato membro ha scelto (…) di organizzare la copertura del suo territorio su base regionale, occorre
dedurne che ogni regione dotata di un piano regionale debba garantire, in linea di principio, il
trattamento e lo smaltimento dei suoi rifiuti il più vicino possibile al luogo in cui vengono prodotti”.
Orbene, nel caso di specie la Corte ha osservato che “la Repubblica italiana ha essa stessa operato la
232
Infatti, pur riconoscendo che la direttiva rifiuti “non precis[a] il contenuto concreto
delle misure che debbono essere adottate per assicurare che i rifiuti siano smaltiti
senza pericolo per la salute dell’uomo e senza recare pregiudizio all’ambiente”44
, la
Corte di Giustizia ha ritenuto che il persistere di una situazione di grave degrado
ambientale può dirsi sintomatica del fatto che lo Stato ha ampiamente oltrepassato la
soglia del potere discrezionale di cui dispone45
.
La descritta esigenza di assicurare servizi di qualità elevata, per quanto concerne sia
il profilo organizzativo che quello ambientale, porta dunque quasi inevitabilmente a
riscoprire – in Italia così come in Inghilterra – la dimensione locale dei servizi
medesimi, ossia l’ancoraggio di questi ultimi al contesto in cui devono essere
espletati, ai soggetti che ne dovranno usufruire e a quelli che sono chiamati ad
erogarli. In altri termini, all’interno degli Stati membri sembra emergere “oggi,
preponderante, un’esigenza di ragionevolezza e di differenziazione”, vale a dire il
scelta di una gestione dei rifiuti a livello della regione Campania in quanto «ambito territoriale
ottimale»” (p. 69) e che “una carenza importante nella capacità di tale regione di eliminare i suoi
rifiuti è tale da compromettere seriamente la capacità di detto Stato membro di perseguire l’obiettivo
dell’autosufficienza nazionale” (p. 70). Dunque, escludendo che l’ostilità dei cittadini, la criminalità
organizzata e gli inadempimenti contrattuali da parte delle imprese incaricate della costruzione degli
impianti di smaltimento possano costituire cause di forza maggiore, la Corte ha concluso che “la
Repubblica italiana, non essendosi assicurata che (…) detta regione disponesse di un numero di
impianti sufficiente a consentirle di smaltire i suoi rifiuti urbani nelle vicinanze del luogo di
produzione, è venuta meno all’obbligo su di essa incombente di creare una rete adeguata ed integrata
di impianti di smaltimento che le consentissero di perseguire l’obiettivo di assicurare lo smaltimento
dei suoi rifiuti e, di conseguenza, ha violato gli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 5 della
direttiva 2006/12” (p. 88).
44 Così CGUE 4 marzo 2010, Commissione europea c. Italia, cit. p. 96. Relativamente alla violazione
dell’art. 4 della direttiva rifiuti 2006/12/Ce, pertanto, la Corte di Giustizia ha concluso che “gli
elementi addotti dalla Repubblica italiana nell’ambito del presente ricorso, per provare che tale
situazione non ha avuto in pratica alcuna conseguenza o, per lo meno, ha avuto solo minime
ripercussioni sulla salute delle persone, non sono tali da confutare la constatazione secondo cui la
situazione preoccupante di accumulo di rifiuti nelle strade ha esposto la salute della popolazione ad un
rischio certo, in violazione dell’art. 4, n. 1, della direttiva 2006/12” (p. 111). 45
Scrive, infatti, G. GRUNER, Liberalizzazione e autonomie locali, cit. che “in considerazione
dell’importanza di tali servizi nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo
decisivo nella promozione della coesione sociale e territoriale, è riconosciuta ampia discrezionalità
agli Stati membri in ordine alla individuazione dei servizi che intendono assumere come s.i.e.g., con
l’unico limite, sindacabile dalle istituzioni europee, del così detto “errore manifesto”. Laddove un
determinato servizio sia stato legittimamente assunto come s.i.e.g., le autorità pubbliche sono
sostanzialmente libere di scegliere non solo come organizzarlo, ma anche come gestirlo (…)”.
233
bisogno di “valorizzare – nel contempo responsabilizzando – l’autonomia territoriale,
ancorando le scelte degli enti locali ad un effettivo rispetto dei principi di efficienza
ed economicità della gestione dei servizi, in vista degli interessi dei cittadini”46
.
V.4 VERSO LA (RI)SCOPERTA DEI PRINCIPI DI ADEGUATEZZA, DIFFERENZIAZIONE E
AUTONOMIA
Se, dunque, c’è stato un tempo in cui – superata la fase di “sostanziale agnosticismo”
dell’Unione europea nei confronti dei servizi pubblici – sembrava che questi ultimi
dovessero essere disciplinati in toto da una normativa unitaria di rango
sovrannazionale, al fine si garantire il pieno esplicarsi delle dinamiche di mercato47
;
oggi sembrerebbe potersi dire che si sta (ri)affermando una diversa tendenza, incline
a tener conto “della eterogeneità dei servizi pubblici locali nei diversi ordinamenti
46
In questi termini E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 47
A titolo meramente esemplificativo, si ricorda che con nota 26 giugno 2002 la Commissione
europea avviava una procedura di infrazione nei riguardi dello Stato italiano, contestando a
quest’ultimo di non aver assicurato la piena concorrenza nel settore dei servizi pubblici. Nella nota, tra
le altre cose, si leggeva infatti: “la Commissione constata che il quadro normativo introdotto
dall’articolo 35 della legge 448/2001 continua a consentire numerose ipotesi di affidamento diretto del
servizi pubblici locali oggetto di tale disposizione, senza il rispetto dei più volte richiamati principi di
pubblicità e di messa in concorrenza e, laddove applicabili, delle norme di pubblicità e di
partecipazione delle direttive 92/50/CEE e 93/38/CEE. Se da un lato, infatti, il testo del nuovo
paragrafo 5 dell’articolo 113 del D. lgs. 267/2000 prevede la regola generale dell’affidamento
dell’erogazione dei servizi di rilevanza industriale attraverso l’espletamento di gare con procedure ad
evidenza pubblica, d’altro lato occorre sottolineare che tale principio non è stato introdotto
dall’articolo 35 della legge 448/2001 per quanto concerne l’affidamento della gestione di reti, impianti
e altre dotazioni patrimoniali in caso di separazione fra le due attività. In secondo luogo la legge in
discorso fa salvi, per la durata del periodo transitorio da essa previsto, gli affidamenti diretti effettuati
in passato in violazione del diritto comunitario. In terzo luogo l’articolo 35 in questione prevede un
regime derogatorio ai principio della concorrenza per il mercato nel settore del servizio idrico
integrato. Infine gli affidamenti diretti, senza il rispetto di alcuna forma di messa in concorrenza
costituiscono, ai sensi del paragrafo 15 del menzionato articolo 35, la regola generale in materia di
gestione dei servizi pubblici definiti “privi di rilevanza industriale”. In definitiva, dunque, la
Commissione in tale occasione ha ritenuto che “la Repubblica Italiana, adottando le disposizioni di cui
all’articolo 35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 ed, in particolare, ai suoi commi 1 (nella parte
relativa al nuovo paragrafo 4 dell’articolo 113 del Decreto legislativo n. 267/2000), 2, 3, 4, 5 e 15, ha
violato gli obblighi che Le incombono in virtù della direttiva 92/50 CE e della direttiva 93/38/CEE ed
altresì in virtù degli articoli 43 e seguenti e 49 e seguenti del Trattato CE”.
234
nazionali”48
. Infatti, non solo – si osserva – “l’apertura alla concorrenza non può
prescindere dalla garanzia dell’universalità”49
, ma la necessità di garantire servizi
accessibili e di qualità elevata, tanto dal punto di vista dell’efficienza quanto da
quello della sostenibilità ambientale, lascia (ri)affiorare all’interno degli Stati
membri un bisogno di differenziazione (oltre che, ovviamente, di adeguatezza) e,
dunque, in ultima analisi di autonomia50
.
Orbene, se l’adeguatezza postula l’idoneità organizzativa dell’amministrazione a
garantire l’esercizio delle funzioni ad essa conferite e se con il termine
differenziazione si ha riguardo all’opportunità di “allocare le funzioni amministrative
in considerazione delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche,
territoriali e strutturali degli enti riceventi”51
, allora il concetto di autonomia deve
48
Così A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza fra diritto comunitario e modelli
nazionali, in G. FALCON (a cura di), Il diritto amministrativo dei Paesi europei tra omogeneizzazione
e diversità culturali, Cedam, Padova, 2005. Qui si legge, infatti, che “in tutti i Paesi europei
l’aggregazione economica ha favorito l’affermazione di baricentri centralistici rispetto a servizi che
originariamente erano locali: molti servizi sono diventati così grandi servizi (si pensi ai servizi
dell’energia (....) e della raccolta e smaltimento dei rifiuti)”. Tuttavia – prosegue Travi – non possiamo
sottacere che “le varietà nazionali rispecchiano una varietà di tradizioni. Fra esse è certamente centrale
il radicamento dei poteri locali, che è decisive per la stretta relazione che si instaura fra le
amministrazioni e i servizi alle rispettive comunità. In questo quadro il servizio locale “minore”
diventa sempre più un ambito ancorato alla disciplina istituzionale delle amministrazioni locali”.
Più in generale, una critica nei confronti di detti “baricentri centralistici” si rinviene in G. BUCCI, Stato
democratico – sociale e “bonapartismo mercatista”, in G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI,
Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, vol. V,
Jovene, Napoli, 2009, dove si legge: “le decisioni che riguardano la collettività sono assunte da vertici
lontano privi di legittimazione democratica e l’area delle scelte affidate alla politica e alla
partecipazione effettiva dei cittadini – lavoratori (art. 3, secondo comma, Cost.) si riduce
progressivamente. Gli Stati sono avviluppati in reti transnazionali ed appaiono dipendenti dal risultati
politici conseguiti a seguito di trattative svolte in condizioni di distribuzione asimmetrica del potere.
Devono, pertanto, adattarsi alle limitazioni imperative dei mercati deregolati ed accettare una
diseguaglianza crescente nella distribuzione del prodotto sociale”. 49
E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 50
Non a caso, in proposito, M. RENNA, I principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, in
M. RENNA – F. SAITTA, Principi del diritto amministrativo, cit., scrive: “non si può pensare di
valorizzare l’autonomia degli enti locali, senza al contempo preoccuparsi di assicurare l’efficace e
l’efficienza dell’amministrazione; si tratterebbe altrimenti, a ben vedere, di una finta valorizzazione,
tale addirittura da nuocere all’autonomia locale”. 51
In tal senso M. RENNA, I principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, cit., che – a sua
volta – cita le definizione di adeguatezza e differenziazione contenute, rispettivamente, nell’art. 4,
terzo comma, lett. g) ed h) della L. n. 59 del 1997.
235
intendersi qui in senso relazionale52
ed istituzionale, vale a dire come “capacità di un
soggetto pubblico di avere un proprio indirizzo politico–amministrativo,
individuando autonomamente gli interessi da perseguire e godendo di propria
capacità finanziaria ed organizzativa”53
.
Al riguardo, preme osservare come – diversamente da quanto rilevato per i profili
strettamente ambientali della materia de qua – si registri una sensibile divergenza tra
Italia e Gran Bretagna. Infatti, benché quest’ultima, salvo sparuti tentativi di riforma,
abbia conosciuto un modello di governo piuttosto centralizzato, caratterizzato dalla
“pratica indisponibilità da parte del Local Government dell’autonoma
determinazione delle modalità organizzative necessarie al perseguimento degli
interessi pubblici della comunità locale”54
, di recente si sono registrati alcuni
significativi fermenti di cambiamento. In particolare, per ciò che concerne il servizio
di gestione dei rifiuti urbani il Governo ha sottolineato l’opportunità di riequilibrare
le responsabilità tra l’Environment Agency e le autorità locali – che del servizio sono
52
Tra le molteplici accezioni di autonomia, qui interessa quella messa in luce da A. ROMANO, (voce)
Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. disc. pubbl., UTET, 1987 che, muovendo dal “piano della
teoria generale” e assumendo la “prospettiva essenzialmente giuridica della teoria istituzionale”,
descrive tale istituto come “una situazione all’interno di un rapporto, di una relazione. Più
brevemente, l’autonomia come rapporto, come relazione”.
In ordine al principio di autonomia si vedano, inter alia, anche R. BIFULCO, Art. 5, in R. BIFULCO – A.
CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006, 132 e F.
MANGANARO, Il principio di autonomia, in M. RENNA – F. SAITTA, Principi del diritto
amministrativo, Giuffrè, Milano, 2012. Inoltre, tra i “classici” cfr. G. BERTI, Art. 5, in G. BRANCA (a
cura di), Commentario della Costituzione, I, 1975, 277; M. S. GIANNINI, (voce) Autonomia (teoria
generale e diritto pubblico), in Enc. dir., IV, Milano, 1959; ID., Autonomia, Riv. trim. dir. pubbl.,
1951, 852; T. GROPPI – M. OLIVETTI (a cura di), La Repubblica delle autonomie, Giappichelli, Torino,
2003; G. MIELE, Principi di diritto amministrativo, Cedam, Padova, 1953; S. ROMANO, Autonomia, in
ID., L’ordinamento giuridico, Firenze, 1946; R. PEREZ, Autonomia finanziaria degli enti locali e
disciplina costituzionale, in AA. VV., Studi in onore di Alberto Romano, vol. III, Ed. Sc., 2011, 2233;
G. ZANOBINI, Caratteri particolari dell’autonomia, in AA. VV., Studi di diritto pubblico in onore di
O. Ranelletti, Padova, 1931, II, 391. 53
In tal senso F. MANGANARO, Il principio di autonomia, cit., il quale ricorda come “gli studi della
seconda metà del Novecento [abbiano svelato] l’insufficienza della tradizionale teoria che radica
l’unità statale nell’uniformità organizzativa della pubblica amministrazione”. Di qui, l’attività
amministrativa - letta “come soddisfacimento dei bisogni sociali collettivi”- è stata configurata come
“amministrazione differenziata sul territorio, poiché le collettività locali esprimono esigenze diverse,
non omologabili in un paradigma normativo ed organizzativo unitario”. Ciò non toglie, tuttavia,
l’opportunità di ricercare adeguati strumenti di coordinamento tra i vari livelli di Governo, come
evidenziato da L. CUOCOLO, La tutela della salute tra neoregionalismo e federalismo. Profili di diritto
interno e comparato, Giuffrè, Milano, 2005, spec. pag. 262 e ss.. 54
L. BONECHI, Il servizio pubblico locale in Gran Bretagna, in Dir. pubbl. comp. eur., 2001, 788.
236
titolari – favorendo una maggiore cooperazione tra gli stessi soggetti55
, al fine di
garantire un servizio efficiente e di qualità elevata.
Viceversa nel nostro Paese, benché – specie dopo la riforma del Titolo V Cost. nel
2001 – l’ordinamento costituzionale riconosca e valorizzi (almeno formalmente) le
autonomie locali, di fatto si ha una situazione di stallo per ciò che concerne il reale
riparto delle competenze legislative e amministrative tra centro e periferia. Di ciò v’è
traccia nella copiosa giurisprudenza del Giudice delle Leggi circa l’actio finium
regundorum ex art. 117 Cost. in materia di ambiente56
e concorrenza57
(pertugio,
quest’ultimo, attraverso cui il legislatore statale tenta di regolare i servizi pubblici),
nonché, per quanto qui rileva, soprattutto nell’instabilità normativa che da alcuni
anni caratterizza i servizi pubblici locali. Come si è cercato di mettere in luce nelle
pagine che precedono, infatti, a partire dall’adozione dell’art. 23 bis del d. l. n. 112
del 2008 il legislatore italiano è sembrato voler comprimere “la libertà di scelta degli
enti locali in ordine alle modalità di gestione dei servizi in esame, al fine –
consentito, ma non imposto, dall’ordinamento europeo – di realizzare [la] massima
concorrenzialità per il mercato”58
. Tale “frenesia” normativa, unita al tentativo di
55
Sul punto si veda la “Government Waste Policy Review”, specialmente pagg. 37 – 38. 56
Al riguardo si rinvia, senza pretesa alcuna di esaustività, a A. CIOFFI, L’ambiente come materia
dello Stato e come interesse pubblico. Riflessioni sulla tutela costituzionale e amministrativa a
margine di Corte Cost. n. 225 del 2009, in Riv. giur. amb., 2009, 6, 970; F. COSTANTINO, Il Titolo V
alla luce della giurisprudenza costituzionale sulla tutela dell’ambiente, in AA. VV., Studi in onore di
Alberto Romano, vol. III, Ed. Sc., Napoli, 2011, 2233; L. CUOCOLO, Le energie rinnovabili tra Stato e
Regioni. Un equilibrio instabile tra mercato, autonomia e ambiente, Giuffrè, Milano, 2011, spec. pag.
23 e ss.; F. ELEFANTE, La materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” e il riparto delle
competenze legislative ed amministrative in materia ambientale tra Stato e Regioni, in AA. VV., Studi
in onore di Vincenzo Atripaldi, Jovene, Napoli, 2010; F. DE LEONARDIS, La Corte costituzionale sul
codice dell’ambiente tra moderazione e disinvoltura, in Riv. giur. ed., 2009, 7, 1455; F. FRACCHIA, La
“materia ambiente” nel testo del Titolo V, in www.federalismi.it, 2002; P. MADDALENA, La
giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di tutela e fruizione dell’ambiente e le novità sul
concetto di “materia”, sul concorso di più competenze sullo stesso oggetto e sul concetto di materia,
in Riv. giur. amb., 2010, 5, 685; M. RENNA, L’allocazione delle funzioni normative e amministrative,
in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. 57
Sul punto, da ultimo, C. Cost. 20 luglio 2012 n. 200 in Giur. it. 2013, 3, 674 con nota di G. CORSO,
La liberalizzazione dell’attività economica non piace alle Regioni. Nota alla sentenza della Corte
cost. n. 200/2012. 58
Così G. GRUNER, Liberalizzazioni e autonomie locali, cit..
237
ridurre i margini di autonomia degli enti locali, è per giunta ulteriormente esasperata
con riguardo al profilo organizzativo del servizio di gestione dei rifiuti urbani, stante
l’incerta sorte delle Autorità d’ambito e i dubbi, a tutt’oggi solo in parte chiariti,
circa i loro succedanei.
Con riguardo a questa sostanziale “involuzione del sistema” italiano, tuttavia, si
sottolinea come il problema giuridico di fondo attenga – al di là delle apparenze –
alla individuazione di quale sia, in forza dei principi costituzionali, l’ente territoriale
che deve ritenersi competente”59
ad assumere le scelte di tipo gestionale ed
organizzativo. Il referendum del 2011 ha mostrato che, stando alla volontà popolare,
dette scelte spettano agli enti locali. E benché il legislatore abbia provato ad ignorare
l’opinione dei cittadini, la Corte costituzionale nel luglio del 2012 ha inteso riportare
un po’ di ordine, dichiarando l’illegittimità dell’art. 4 del d. l. n. 138 del 2011 e
ammonendo “che la tutela della concorrenza è soltanto una competenza legislativa;
certo particolarmente forte, ma non a tal punto da imporsi – di per sé – su
qualsivoglia altro bene pure costituzionalmente garantito”60
, quale l’autonomia di
Regioni ed enti locali in ordine all’offerta dei servizi pubblici locali.
Più in generale, può dirsi che lo studio sin qui condotto ha mostrato come si stia
palesando l’opportunità che gli Stati membri e – all’interno di questi ultimi – gli enti
territoriali, tornino a valorizzare la propria capacità decisionale e quei margini di
autonomia che ancora sono di loro pertinenza, al fine di “adeguare l’organizzazione
pubblica all’assetto sociale”61
in cui gli stessi sono chiamati ad operare. Parte della
dottrina, infatti, ha osservato che l’uniformità normativa di per sé non è
necessariamente sinonimo di eguaglianza. Al contrario, la stessa rischia sovente di
59
Così G. GRUNER, Liberalizzazioni ed autonomie locali, cit.. 60
In questi termini, G. GRUNER, Liberalizzazioni ed autonomie locali, cit.. 61
Così F. BENVENUTI, Per una nuova legge comunale e provinciale, in Scritti giuridici, II, Giuffrè,
Milano, 2006, 1747 e ss..
238
dare adito a una sostanziale irresponsabilità62
e a “effettive disuguaglianze
nell’esercizio della funzione e nella gestione dei servizi”63
, come testimoniato dal
caso emblematico della lunga “emergenza rifiuti” in Campania.
D’altra parte, la spinta verso una maggiore differenziazione e verso una più marcata
valorizzazione del ruolo degli enti locali nell’organizzazione dei servizi pubblici non
sembra di principio osteggiata dall’Unione europea, né alla stessa sembrano opporsi
le ragioni connesse alle esigenze di tutela ambientale.
Dal primo punto di vista, si deve osservare come l’UE – pur cercando di promuovere
l’integrazione tra i diversi regimi giuridici nazionali – non abbia mai negato a priori
il proprio favor nei confronti degli enti locali64
. Anzi, con specifico riguardo al
settore in argomento, parte della dottrina rileva come “proprio il rispetto per le
competenze degli enti locali [sia] alla base dell’approccio dell’Unione europea ai
62
In M. RENNA, I principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, cit., ad esempio, si legge:
“la circostanza che tali principi nel nostro ordinamento siano ancora ampiamente inattuati costituisce,
evidentemente, un importante fattore di deresponsabilizzazione, nonché causa di inefficacia e di
inefficienza, della pubblica amministrazione”. 63
In tal senso M. D’ORSOGNA, Principio di eguaglianza e differenziazioni possibili nella disciplina
delle autonomie territoriali, in F. MANGANARO E A. (a cura di), Principi generali del diritto
amministrativo ed autonomie territoriali, Giappichelli, Torino, 2007. Analogamente, cfr. F. ASTONE E
A., Le disuguaglianze sostenibili dei sistemi autonomistici multilivello, Giappichelli, Torino, 2006; D.
D’ORSOGNA, Note su uguaglianza e differenziazione nella discipline delle autonomie territoriali, in
AA.VV., Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, vol. II, Attività, organizzazione, servizi, Cedam,
Padova, 2007, 299; A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza fra diritto comunitario
e modelli nazionali, cit., il quale osserva come sia insensato pretendere di ridurre ad unità ciò che è
ontologicamente diverso. Inoltre – a suffragio della propria tesi – l’A. porta taluni esempi mutuati
dalle esperienze di altri Paesi. Si legge, dunque, che “l’esperienza francese mostra (...) che il diritto
nazionale della concorrenza, nell’ambito dei servizi locali a carattere economico, può svolgere un
ruolo incisive, anche senza la necessità di richiamare il diritto comunitario con tutte le sue ragioni di
omogeneizzazione fra i Paesi dell’Unione. In Inghilterra l’approccio fondato su una verifica rigorosa
dell’efficienza nella gestione del servizio sembra aver prodotto un analogo equilibrio fra le aspettative
degli enti locali e gli operatori private: anche in questo caso lo svolgimento è stato estraneo al diritto
comunitario”. 64
Al riguardo si veda il recentissimo lavoro di N. RANGONE – J. ZILLER (a cura di), Politiche e
regolazioni per lo sviluppo locale sostenibile. Il Patto dei Sindaci, ES, Napoli, 2013. Inoltre, cfr. inter
alia C. IAIONE, Le società in house. Contributo allo studio dei principi di auto-organizzazione e auto-
produzione degli enti locali, II ed., Jovene, Napoli, 2012; V. PARISIO, Europa delle autonomie locali e
principio di sussidiarietà: “la Carta europea delle autonomie locali”, in Foro amm., 1995. 9, II,
2124; E. PICOZZA, I servizi pubblici locali e le loro forme di gestione con riguardo al regime di diritto
comunitario, nazionale e regionale, in N. rass. lgg., 1995, 1005; A PIOGGIA, Servizi pubblici e
autonomia locale: i limiti del diritto interno e del diritto comunitario, in Riv. giur. quad. pubbl. serv.,
1999, 103; F. PIZZETTI, Le autonomie locali e l’Europa, in Le Regioni, 2002, 5, 935.
239
servizi pubblici locali”65
. In tal senso sembrano deporre – ad esempio – l’art. 14
TFUE66
, così come il Protocollo sui Servizi d’interesse generale67
e la direttiva
2006/123/Ce68
, nonché – ancor più di recente – la Comunicazione della
Commissione europea sulla qualità dei servizi di interesse generale69
.
Quest’ultima, in particolare, conferma la nuova linea di indirizzo della Commissione,
“più attenta alla dimensione sociale e alla differenziazione disciplinare tra Stati
membri e tra servizi”, come traspare anche dal nuovo Atto per il mercato unico
approvato agli inizi del 201170
. Da un’analisi complessiva, infatti, emerge che la
Comunicazione sembra riconoscere un maggiore spazio di autonomia in capo agli
Stati membri, sulla base dell’assunto per cui “la realizzazione del mercato unico non
dipende esclusivamente dal rispetto delle regole di concorrenza, ma anche
65
Così E. SCOTTI, (voce) Servizi pubblici locali, cit.. 66
L’art. 14 TFUE (già art. 16 TCe, introdotto in occasione del Trattato di Amsterdam) dispone che
“fatti salvi l’articolo 4 del trattato sull’Unione europea e gli articolo 93, 106 e 107 del presente
trattato, in considerazione dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei
valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e
territoriale, l’Unione e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di
applicazione dei trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in
particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti. Il Parlamento
europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti e secondo la procedura legislativa ordinaria,
stabiliscono tali principi e fissano tali condizioni, fatta salva la competenza degli Stati membri, nel
rispetto dei trattati, di fornire, fare conseguire e finanziare tali servizi”. 67
Il Protocollo n. 26 al Trattato di Lisbona relativo ai servizi di interesse generale afferma – tra le altre
cose - che i “valori comuni dell’Unione” nella materia de qua comprendono: “il ruolo essenziale e
l’ampio potere discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e
organizzare servizi di interesse economico generale il più vicini possibile alle esigenze degli utenti; la
diversità tra i vari servizi di interesse economico generale e le differenze delle esigenze e preferenze
degli utenti che possono discendere da situazioni geografiche, sociali e culturali diverse; un alto
livello di qualità, sicurezza e accessibilità economica, la parità di trattamento e la promozione
dell’accesso universale e dei diritti dell’utente”. 68
La Direttiva 2006/123/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai
servizi nel mercato interno “lascia impregiudicata la libertà per gli Stati membri di definire (…) quali
essi ritengano essere servizi di interesse generale (…) e a quali obblighi specifici essi debbano essere
soggetti (…)”. 69
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e
sociale europeo e al Comitato delle Regioni, 20 dicembre 2011 COM (2011) 900. Una disciplina di
qualità per i servizi di interesse generale in Europa, per un commento alla quale cfr. F. GIGLIONI,
L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse generale, cit., il quale puntualizza come
“gli effetti meramente dichiarativi che si riconducono a tale atto non [debbano] tuttavia indurre a
sottovalutarne la portata”. 70
Così F. GIGLIONI, L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse generale, cit., il quale
richiama la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato
economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, L’Atto per il mercato unico, COM(2011)
206.
240
dall’efficacia [e dalla qualità] dei servizi”71
. In definitiva, può dirsi avvalorata l’idea
per cui le differenziazioni nazionali non costituiscono una minaccia per
l’integrazione europea se restano entro i limiti definiti dall’ordinamento europeo, ma
anzi sono uno strumento aggiuntivo di governo per il miglioramento della loro
efficacia e anche per lo sviluppo competitivo del sistema”72
.
Quanto, poi, alle esigenze connesse con la tutela del bene ambiente – profilo che,
come evidenziato nelle pagine che precedono, interessa ampiamente molti servizi
pubblici – neppure queste sembrerebbero valere da sole ad escludere la capacità degli
Stati membri e dei governi locali di provvedere ad organizzare con margini di
autonomia quei servizi che recano una spiccata connotazione ambientale, tra cui in
particolare quello di gestione dei rifiuti urbani.
Nonostante, infatti, si affermi spesso che “delle questioni ambientali (…) si debbano
occupare in primis le amministrazioni di livello internazionale” o sovrannazionale73
,
parte delle dottrina osserva come, viceversa, tanto il diritto positivo quanto la
71
In tal senso, di nuovo, F. GIGLIONI, L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse
generale, cit., che prosegue scrivendo: “tali cambiamenti vanno nella direzione di attribuire
complessivamente maggiore autonomia alle pubbliche amministrazioni, dotandole di ampia
discrezionalità anche nel gestire i rapporti con i soggetti privati per la fornitura di servizi pubblici. I
servizi di interesse generale diventano così occasione per gli Stati membri di impostare politiche
economiche attive, preordinate al perseguimento di interessi generali che allentano la rigida
osservanza delle regole di concorrenza se questo appare giustificato dalla natura e dalla qualità del
servizio”. 72
Ancora F. GIGLIONI, L’integrazione per differenziazione dei servizi di interesse generale,
cit.,secondo cui dal documento in esame emerge che la “la differenziazione nazionale non solamente è
tollerata, ma ampliata e ricercata. (…) Date le implicazioni culturali, sociali e di tradizioni giuridiche
che sono insite nei servizi di interesse generale, l’UE si prefigge di utilizzare gli Stati membri per
conseguire i propri obiettivi lì dove un intervento di omogeneizzazione, quale potrebbe derivare
dall’estensione delle regole dei contratti di appalto e del divieto di aiuti di stato, produrrebbe un
effetto opposto a quello desiderato. E’ una forma di integrazione che si base sull’esaltazione della
differenziazione: gli Stati differenziano, privilegiandoli, gli operatori che si rendono disponibili a
perseguir missioni di utilità generale che non sceglierebbero secondo un criterio di convenienza
economica e l’UE sostiene le differenziazioni delle discipline nazionali di questo tipo per conseguire
obiettivi che non sarebbe in grado di raggiungere attraverso le vie tradizionali”. 73
Sul punto cfr. M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente, Giappichelli, Torino,
2007; P. DELL’ANNO, Modelli organizzativi per la tutela dell’ambiente, in Riv. giur. amb., 2005, 5,
975; R. FERRARA, L’organizzazione amministrativa dell’ambiente: i soggetti istituzionali, in R.
FERRARA E A. (a cura di), Diritto dell’ambiente, Laterza, Bari, 2005; M. RENNA, L’allocazione delle
funzioni normative e amministrative, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli,
Torino, 2011; A. ROMANO TASSONE, Stato, Regioni ed enti locali nella tutela dell’ambiente, in Dir.
amm., 1993, 1, 107.
241
giurisprudenza attribuiscano ai governi locali un ruolo “di assoluto rilievo”74
. Si
pensi – solo per citare alcuni dei documenti più recenti – alla Carta di Lipsia sulle
città europee e sostenibili75
o al Sesto Programma europeo di azione ambientale76
o,
ancora, al Patto dei Sindaci77
. Ma anche alla stessa direttiva rifiuti 2008/98/Ce, la
quale afferma che l’intervento dell’Unione nella materia de qua si giustifica in base
al principio di sussidiarietà e in ogni caso deve rispondere al canone della
proporzionalità ex art. 5 TUE78
. Per tale ragione, dunque, la stessa – tra le altre cose
– ammette la possibilità che “gli Stati membri conserv[i]no approcci differenti in
relazione alla raccolta dei rifiuti domestici” e, di conseguenza, sottolinea
l’opportunità che gli obiettivi preordinati alla realizzazione di una società “rifiuti-
zero” “tengano conto dei diversi sistemi di raccolta dei vari Stati membri”79
.
V.5 RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dunque, sembra possibile rimarcare
come, alla sostanziale omogeneità normativa tra Italia e Gran Bretagna per ciò che
74
In questi termini, F. DE LEONARDIS, Politiche e poteri dei governi locali nella tutela dell’ambiente,
in Dir. amm., 2012, 4, 775, il quale osserva: “per il diritto internazionale generale i governi locali si
pongono come uno degli attori istituzionali fondamentali in materia di ambiente”; così come “la
centralità del ruolo e delle politiche locali in materia di tutela dell’ambiente emerge in modo
accentuato anche dall’analisi del diritto europeo a partire dai programmi di azione ambientale”.
Diversamente, è nel diritto interno che “i rapporti tra competenze amministrative degli enti locali e
dello Stato in materia di ambiente sono stati caratterizzati da un continuo altalenare tra momenti in cui
lo Stato veniva considerato l’unico attore protagonista delle politiche di tutela dell’ambiente a
momenti più “corali” in cui ad esso si accompagnavano anche gli altri attori (appunto gli enti locali)”.
Tuttavia – rileva l’A. – “gli enti locali assieme alle amministrazioni citate e alla società civile (…)
compongono un sistema plurilivello che riesce ad assicurare una tutela effettiva secondo quanto
affermano peraltro gli artt. 3 ter e 3 quinquies del codice dell’ambiente, solo ed esclusivamente se
tutte le componenti interagiscono armonicamente”. 75
A. MASSERA (a cura di), Diritto amministrativo e ambiente, Ed. sc., Napoli, 2012. 76
Per un esame del quale si rinvia a F. FONDERICO, Sesto Programma di azione UE per l’ambiente e
strategie tematiche, in Riv. giur. amb., 2007, 5, 698. 77
In proposito cfr. amplius il recente lavoro di N. RANGONE – J. ZILLER (a cura di), Politiche e
regolazioni per lo sviluppo locale sostenibile. Il Patto dei Sindaci, cit.. 78
Direttiva 2008/98/Ce, considerando n. 49. 79
Direttiva 2008/98/Ce, considerando n. 41.
242
concerne la disciplina della dimensione ambientale del servizio di gestione dei rifiuti
urbani, faccia da contraltare una sensibile differenza di impostazione per ciò che,
invece, attiene alla gestione e all’organizzazione del servizio de quo e allo spazio
che, da tale punto di vista, è lasciato al livello di governo locale. Nelle pagine che
precedono, infatti, si è cercato di mettere in evidenza come, di contro al favor
recentemente registrato in Inghilterra, si riscontrino reiterati tentativi del legislatore
italiano di comprimere gli spazi di autonomia costituzionalmente riservati alle
Regioni e agli enti locali nella gestione dei servizi pubblici locali.
Ciò non di meno, sembra legittimo ipotizzare come allo stato attuale, in Italia, la
scarsa valorizzazione dei principi di differenziazione, adeguatezza ed autonomia sia
dovuta, più che ai vincoli e ai limiti (im)posti dal diritto europeo su quello nazionale,
alla mancanza di un disegno politico organico e coerente. O, in altri termini, alla
“sostanziale discontinuità e ciclicità con”80
cui gli enti locali sono stati coinvolti, con
compiti di vera responsabilità, nella amministrazione di taluni settori cruciali, quali
sono – ad esempio – quello ambientale81
e quello dei servizi pubblici82
(che con il
primo – si è visto – sovente si interseca).
80
Così F. DE LEONARDIS, Politiche e poteri dei governi locali nella tutela dell’ambiente, cit., il quale
osserva come detta ciclicità contrapponga “a quella continuità che si è, invece evidenziata a livello di
diritto internazionale ed europeo”. Allo stesso tempo, l’A. ricorda altresì che “all’attribuzione di nuovi
spazi agli enti locali osta, oltre che il diritto positivo, anche una serie di criticità che si sono
manifestate nella prassi delle azioni adottate a livello locale: non si può negare, in altre parole, che le
politiche e i governi locali (…) risentono in modo maggiore di quelle statali (…) della prossimità della
politica (è il fenomeno definito come di “cattura del regolatore”). Ciò in molti casi (ma - è bene
sottolinearlo – non in tutti) produce situazioni di stallo, di incapacità di decidere e posta a soluzioni
assolutamente inefficaci come dimostra il modo in cui viene trattata la questione rifiuti in Campania o
nella città di Roma”. Più in generale sulle funzioni di Province e Comuni dopo la riforma del Titolo V
della Costituzione, cfr. L. DE LUCIA, Le funzioni di Province e Comuni nella Costituzione, in Riv.
trim. dir. pubbl., 2005, 1, 23. 81
In proposito, cfr. A. ROMANO TASSONE, Stato, Regioni ed enti locali nella tutela dell’ambiente, cit.,
che nel 1993 scriveva: “l’attenzione del legislatore (e dell’opinione pubblica) per i problemi
ambientali e l’attuazione del Titolo V della Carta costituzionale sono pressoché coeve nel nostro
ordinamento. Il processo di formazione dello stato regionale e la crescita, quantitativa e qualitative,
della tutela ambientale sono andati dunque di pari passo, e ciò non soltanto sotto il profilo temporale,
ma anche e soprattutto per il loro reciproco intrecciarsi”. E, ancora, a proposito di quello che sarebbe
potuto cambiare per effetto della L. n. 142/1990: “le competenze degli enti locali nella tutela
dell’ambiente potrebbero peraltro vedere un rapido incremento, ove si desse attuazione al disposto del
comma 1 dell’art. 3 della L. n. 142/1990, ai sensi del quale ferme restando le funzioni che attengono
243
A tale ultimo riguardo, se nel presente momento storico la strada verso la
valorizzazione dei governi locali può sembrare ancora più perigliosa, attesa la crisi
economica e le plurime istanze di riordino delle autonomie locali83
diffuse un po’ in
tutta Europa84
; dall’altro lato, non manca neppure chi guarda con fiducia al futuro.
ad esigenze di carattere unitario nei rispettivi territori, le regioni organizzano l’esercizio delle
funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province. (…) Si apre, forse, una
stagione di fervore autonomistico, che potrebbe condurre, nel campo della tutela dell’ambiente come
in ogni altro settore, ad una rivalutazione del ruolo degli enti locali, ad opera delle leggi regionali di
redistribuzione delle funzioni. Il condizionale è però d’obbligo, qui come non mai”. 82
Sul punto, inter alia, G. ROSSI, Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi
pubblici locali. Alla ricerca del filo di Arianna, in www.giustamm.it, 2011 e, più di recente, L. R.
PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno dell’autonomia, il rispetto della disciplina
europea, la finalizzazione alle aspettative degli utenti, in Giur. it., 2013, 3, 678 e ss., che scrive: “la
legislazione nazionale in materia di servizi pubblici, in passato, presentava vari difetti, dall’eccesso di
dettaglio alla continua modificazione; tra questi, il principale era forse dato dalla imprecisa
composizione dei modelli, sicché il nostro legislatore invece di identificare un modello chiaro e
conservarlo nel tempo (…) proponeva mediazioni (spesso non felici) tra modelli differenti, in un
tessuto normativo fitto di eccezioni e, quindi, sempre eccessivamente dettagliato – eccesso di dettaglio
che motivava frequenti modifiche parziali e ripensamenti”. 83 Al riguardo si vedano le considerazioni espresse da G. PIPERATA, I poteri locali: da sistema
autonomo a modello razionale e sostenibile?, in Ist. del federalismo, 2012, 3, 503, il quale rileva
come l’attuale crisi economica consenta di “registrare gli effetti che stanno producendo recessione,
crolli di importanti mercati e rischio di insolvenza di alcuni Stati, in particolar modo generando
profonde trasformazioni nelle società nazionali, ma soprattutto nelle loro istituzioni (…)”. Si assiste,
infatti ad “un profondo processo di ripensamento dell’articolazione istituzionale interna dello Stato,
imposto dalla forza delle cose (…), ma soprattutto dalle istanze internazionali o comunitarie come
contropartita agli aiuti concessi o alle novità introdotte negli impianti ordina mentali delle istituzioni
europee (si pensi ad esempio, al c.d. fiscal compact). Uno dei settori maggiormente interessati da tali
trasformazioni è il governo locale. Qui, la crisi economica sembra aver amplificato criticità già
presenti (…), giustificando interventi legislativi diretti a rivedere gli assetti esistenti, fino al punto da
mettere in discussione gli stessi fondamenti di quelle istituzioni”. Tuttavia, precisa l’A., non si tratta di
un fenomeno solo italiano, bensì di una “tendenza presente in tutto lo scenario europeo, anche se
interessa i singoli Stati con differente intensità. Nel nostro Paese, come in altri che presentano
difficoltà simili, i tratti sono più marcati, in quanto la risposta alla crisi impone decisioni anche drastiche”. Nello specifico, in Italia, “la necessità di contenere la spesa pubblica ha riportato in auge la
riflessione sull’utilità delle province e, in generale, sugli enti intermedi tra comuni e regioni”.
Per ciò che concerne la “sorte” dei diritti sociali e la risposta del diritto alla crisi economica, si rinvia
senza pretesa di esaustività a G. BUCCI, La Banca Centrale e il potere economico monetario, in F.
ANGELINI – M. BENVENUTI (a cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica. Atti
del Convegno di Roma, 26 – 27 aprile 2012, Jovene, Napoli, 2012; I. CIOLLI, Le ragioni dei diritti e il
pareggio di bilancio, Aracne, Roma, 2011; F. COVINO, La fiscalità di vantaggio degli enti territoriali
tra art. 81 della Costituzione e federalismo fiscale, in Quad. cost., 2012, 3, 621; G. LO CONTE, Il
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pubblica in Europa, in Quad. cost., 2012, 1, 9; G. M. SALERNO, Dopo la norma costituzionale sul
pareggio del bilancio: vincoli e limiti dell’autonomia finanziaria delle Regioni, in Quad. cost., 2012,
3, 563.
Per ciò che concerne il tema delle autonomie territoriali ed, in specie, il riordino della Province si
rinvia, inter alia, a F. COVINO, Le autonomie territoriali, in F. ANGELINI – M. BENVENUTI (a cura di),
Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, Jovene, Napoli, 2012; F. FABRIZZI, La
244
Commentando la neo introdotta legislazione italiana sui servizi pubblici (vale a dire
la L. 17 dicembre 2012 n. 221), ad esempio, parte della dottrina ha osservato come la
necessità di conseguire gli “obiettivi di qualità e diffusione dei servizi nell’interesse
degli utenti” – raggiungibile solo mediante una adeguata organizzazione del servizio
– possa di principio trovare soddisfazione nella previsione in base alla quale “le
funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica,
compresi quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani (…) siano esercitate
unicamente dagli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e
omogenei”, che dovrebbero garantire “una maggiore aderenza ai fatti (la natura del
servizio, la conformazione fisica delle aree da servire, la struttura industriale
dell’attività, ecc.) ed agli obiettivi (la soddisfazione della pretesa dell’utente)”85
.
Provincia. Analisi dell’ente locale più discusso, Jovene, Napoli 2012; ID., Soppressione delle
Province e manovra finanziaria. Profili politici, costituzionali, sociali e storici di un errore sventato,
in www.federalismi.it, 2010; F. MANGANARO – M. VIOTTI, La Provincia negli attuali assetti
istituzionali, in www.federalismi.it, 2012; P. VERONESI, Morte e temporanea resurrezione delle
province: non si svuota così un ente previsto in Costituzione, www.forumcostituzionalisti.it, 2012; G.
VESPERINI, Le nuove Province, in Giorn. dir. amm., 2012, 2, 272; L. VANDELLI, Crisi economica e
trasformazioni del governo locale,in Libro dell’anno del Diritto, Treccani, 2011. 84 In proposito, si segnala che neppure la Gran Bretagna è estranea a simili fermenti. Con riguardo alle
più recenti tendenze in materia di governo locale ivi registrate cfr., per tutti, N. MCGARVEY, Inter -
Municipal Cooperation: The United Kingdom Case, in Ist. del federalismo, 2012, 3, 523. 85 Così L. R. PERFETTI, Il regime dei servizi pubblici locali: il ritorno dell’autonomia, il rispetto della
disciplina europea, la finalizzazione alle aspettative degli utenti, cit., dove si legge anche che “una
legislazione – come l’attuale – che individua i fini cui l’organizzazione deve tendere ed identifica i
parametri di legalità da rispettare, sembra adeguata a governare una realtà complessa, che presenta
differenze non piccole tra servizio e servizio quanto a struttura industriale, capitalizzazione,
profittabilità, diffusione; altrettante difformità, pur nel medesimo servizio, si riscontrano tra le diverse
aree del Paese”. Ex multis, si veda F. DE LEONARDIS, Prefazione a E. MICHETTI, In house providing.
Modalità, requisiti e limiti. Evoluzione legislativa e giurisprudenziale interna ed europea anche alla
luce del referendum del 12 – 13 giugno 2011, Giuffrè, Milano, 2011, dove con precipuo riguardo alle
modalità di gestione dei servizi in argomento, si legge: “sarebbe auspicabile che la scelta tra la
gestione diretta, da parte degli enti locali, di tali servizi o, piuttosto, l’affidamento degli stessi ad
operatori privati fosse il frutto non tanto di opzioni ideologiche, come tali controvertibili, bensì di
un’attenta analisi che tenga conto, nei vari contesti di riferimento, dei pro e dei contro di entrambi i
modelli di gestione, e che porti a optare per quello che, non in astratto, ma in concreto, appaia meglio
in grado di assicurare un buon livello di qualità del servizio, in uno con una tariffa accessibile sì a
tutti, ma al contempo in grado di coprire interamente i costi del servizio stesso, senza ulteriori aggravi
– di cui oggi non si avverte certo la necessità – per la finanza pubblica nazionale. Non si tratta, invero,
di cadere nei due eccessi opposti del “panpubblicismo”, per cui tutti i servizi alla persona debbono
essere necessariamente ricondotti ai pubblici poteri, né, tantomeno, del “panprivatismo”, per cui il
mercato rappresenta la soluzione di ogni male. Si tratta, piuttosto, di scegliere “un vestito su misura”,
e tale operazione presuppone quell’attenta attività di ponderazione e di bilanciamento di interessi, che
costituisce il cuore dell’azione amministrativa”. Soluzione che – prosegue l’A. - appare sicuramente in
245
Ed, in effetti, lo studio sin qui condotto mostra come quella dell’aderenza del
servizio alla realtà, geografica, sociale e – non ultimo – politica, in cui lo stesso deve
essere svolto, sia un’esigenza avvertita non solo in Italia ma anche in Gran Bretagna.
In altri termini, la direttrice lungo cui la materia de qua si sta muovendo sembra
essere quella della valorizzazione “della eterogeneità” nella disciplina dei servizi
locali, che “riflette i modi diversi, nei diversi Paesi, di percepire la soglia, superata la
quale una certa attività assume un significato particolare: esprime una missione che
la qualifica come servizio”86
.
Ne deriva che se de jure condendo questa linea di tendenza si consoliderà, tanto in
Italia e in Gran Bretagna quanto negli altri Stati membri, potremmo forse a buon
diritto concludere nel senso che il diritto amministrativo, almeno per ciò che
concerne i servizi pubblici, specie locali, ha (ri)scoperto l’importanza dei principi di
adeguatezza, differenziazione ed autonomia, virando così verso una maggiore
responsabilizzazione dei soggetti pubblici che dei servizi conservano la titolarità e
verso un più elevato livello di tutela degli utenti, pur nel doveroso rispetto dei limiti
derivanti dall’appartenenza all’Unione europea.
linea con le indicazioni provenienti dall’ordinamento comunitario, che, se da un lato non impone
l’affidamento ai privati dei “servizi di interesse economico generale”, riconoscendo il principio di
autonomia e di autorganizzazione dell’ente locale, dall’altro è pur sempre caratterizzato da un netto
favor per i principi di concorrenza “per il mercato” e “nel mercato”. Ne discende che la scelta di
ricorrere all’affidamento in house potrà dirsi veramente rispettosa dei principi cardine su cui poggia
l’ordinamento europeo, e quindi anche il nostro, solo a patto che venga presa a seguito di un’attenta
analisi dei vari contesti di riferimento, e con un’adeguata e puntuale motivazione che – in un’ottica di
assoluta trasparenza – dia conto delle ragioni che giustificano l’esclusione dei privati dalla
concorrenza per un determinato mercato”.
86 In questi termini, A. TRAVI, Servizi pubblici locali e tutela della concorrenza fra diritto comunitario
e modelli nazionali, cit., il quale indica detta eterogeneità come una componente fondamentale
dell’identità nazionale da preservare. Si legge, infatti, “bisogna dare all’Europa ciò che è dell’Europa,
e non cadere nella tentazione di un paneuropeismo, che rispecchierebbe una sorta di principio di
sussidiarietà capovolto, per il quale la giustificazione dell’intervento dell’Unione sarebbe l’incapacità
dei singoli Paesi di risolvere i loro problemi nazionali”. Viceversa, “la garanzia della concorrenza nei
servizi pubblici locali [così come la garanzia dell’efficienza e della qualità del servizio medesimo] è
innanzitutto un problema che deve impegnare il legislatore nazionale (…)”.
246
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Association , C-17/74
CGCE 29 febbraio 1984, Cilfit c. Ministero della Sanità, C-77/83
CGCE 20 settembre 1988, Commissione europea c. Danimarca, C-302/86
CGCE 13 luglio 1989, Enichem c. Cinisello Balsamo, C-380/87
CGCE 20 marzo 1990, Vessoso e Zanetti, C- 206 e 207/88
CGCE 25 luglio 1991, Aragonesa de publicidad, C-1/90
CGCE 9 luglio 1992, Commissione europea c. Belgio, C-2/90
CGCE 13 aprile 1994, Commissione europea c. Germania, C-131/93
CGCE 17 maggio 1994, Commissione europea c. Repubblica francese, C-41/93
CGCE 10 maggio 1995, Commissione europea c. Germania, C-422/92
CGCE 12 settembre 1996, Gallotti e a., C-75/95
CGCE 5 giugno 1997, Commissione europea c. Spagna, C-107/96
CGCE 5 giugno 1997, Commissione c. Francia, C-223/96
CGCE 25 giugno 1997, Euro Tombesi e a,. C-304, 330, 342/95 e 224/95
CGCE 18 dicembre 1997, Inter Evironment Wallonie ASBL c. Regione Wallone, C-
129/96
CGCE 25 giugno 1998, Beside, C-192/96
CGCE 25 giugno 1998, Chemische Afvastoffen, C-203/96
CGCE 10 novembre 1998, BFI Holding BY c. Gemete Arnhem e a., C-360/96
CGCE 3 dicembre 1998, Bluhme, C-67/97
CGCE 9 settembre 1999, Ri. San. c. Comune di Ischia, C-108/98
CGCE 5 ottobre 1999, Lirussi e Bizzarro, C-175/98
CGCE 18 novembre 1999, Teckal c. Comune di Viano, C-107/98
CGCE 15 giugno 2000, ARCO, C-418 e 419/97
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CGCE 16 novembre 2000, Commissione europea c. Belgio, C-217/99
CGCE 29 novembre 2001, De Coster, C-17/00
CGCE 18 aprile 2002, Palin Granit Oy, C-9/00
CGCE 8 maggio 2003, Commissione europea c. Regno di Spagna, C-349/97
CGCE 11 settembre 2003, Avesta Polarit Chrome Oy, C-114/01
CGCE 14 gennaio 2004, Saetti e Frediani, C-235/02
CGCE 11 novembre 2004, Niselli, C-457/02
CGCE 14 dicembre 2004, Commissione europea c. Germania e a., C-309/02
CGCE 11 gennaio 2005, Stadt Halle, C-26/03
CGCE 26 aprile 2005, Commissione europea c. Irlanda, C-494/01
CGCE Co.na.me c. Comune di Cingia dè Botti e Padania acque SpA, C-231/03
CGCE 8 settembre 2005, Commissione c. Regno di Spagna, C-416/02
CGCE 13 ottobre 2005, Parking Brixen Gmbh, C-458/03
CGCE 10 novembre 2005, Commissione europea c. Repubblica d’Austria, C-29/04
CGCE 6 aprile 2006, Anav c. Comune di Bari e a., C-410/04
CGCE 11 maggio 2006, Carbotermo SpA e a. c. Comune di Busto Arsizio, C-340/04
CGCE 18 gennaio 2007, Jean Auroux c. Commune di Roanne, C-220/05
CGCE 19 aprile 2007, Trasga, C-295/05
CGCE 26 aprile 2007, Commissione europea c. Italia, C-135/05
CGCE 10 maggio 2007, Thames Water Utilities Limited, C- 252/05
CGCE 24 maggio 2007, Rudiger Jager, C- 94/05
CGCE 7 settembre 2007, Van de Walle e a., C-1/03
CGCE 20 settembre 2007, Commissione europea c. Paesi Bassi, C-297/05
CGCE 18 dicembre 2007, Commissione europea c. Italia, C-194/05
CGCE 24 giugno 2008, Comune di Mesquer c. Total France, C-188/07
CGCE 17 luglio 2008, Comune di Mantova, C-371/05
CGCE 13 novembre 2008, Coditel Brabant SA c. Comune d’Uccle, C-324/07
277
CGCE 22 dicembre 2008, Commissione europea c. Italia, C-283/06
CGCE 9 giugno 2009, Commissione europea c. Germania, C-480/06
CGCE 10 settembre 2009, Sea srl c. Comune di Ponte Nossa, C-573/07
CGUE 4 marzo 2010, Commissione europea c. Italia, C- 297/08
CGUE 18 ottobre 2012, Commissione europea c. Regno Unito, C-301/10
CGCE 29 novembre 2012, Econord SpA c. Comune di Cagno e Comune di Varese c.
Comune di Solbiate , C-182/11 e 183/11
SENTENZE DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Corte EDU 9 dicembre 1994, Lopez Ostra c. Spagna, ric. n. 16798/90
Corte EDU 10 gennaio 2012, Di Sarno e a c. Italia, ric. n. 30765/08
SENTENZE E ORDINANZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
C. Cost. 27 giugno 1986 n. 151
C. Cost. 28 maggio 1987 n. 210
C. Cost. 30 dicembre 1987 n. 641
C. Cost., ord., 14 gennaio 1997 n. 9
C. Cost., ord., 23 giugno 1999 n. 267
C. Cost. 7 ottobre 1999 n. 384
C. Cost. 30 marzo 2001 n. 86
C. Cost. 17 maggio 2001 n. 150
C. Cost. 1 ottobre 2003 n. 303
C. Cost. 28 giugno 2004 n. 196
C. Cost. 27 luglio 2004 n. 272
C. Cost. 14 ottobre 2005 n. 383
C. Cost. 7 novembre 2007 n. 367
C. Cost. 14 novembre 2007 n. 378
278
C. Cost. 14 aprile 2008 n. 104
C. Cost. 14 aprile 2008 n. 105
C. Cost. 5 marzo 2009 n. 61
C. Cost. 22 luglio 2009 n. 225
C. Cost. 23 luglio 2009 n. 233
C. Cost. 23 luglio 2009 n. 234
C. Cost. 23 luglio 2009 n. 235
C. Cost. 24 luglio 2009 n. 246
C. Cost. 24 luglio 2009 n. 247
C. Cost. 24 luglio 2009 n. 249
C. Cost. 24 luglio 2009 n. 250
C. Cost. 24 luglio 2009 n. 251
C. Cost. 30 luglio 2009 n. 254
C. Cost. 4 dicembre 2009 n. 314
C. Cost. 3 novembre 2010 n. 325
C. Cost. 22 dicembre 2010 n. 373
C. Cost. 26 gennaio 2011 n. 24
C. Cost. 5 marzo 2012 n. 22
C. Cost. 23 febbraio 2012 n. 35
C. Cost. 2 aprile 2012 n. 80
C. Cost. 20 luglio 2012 n. 199
C. Cost. 20 luglio 2012 n. 200
SENTENZE E ORDINANZE DEL CONSIGLIO DI STATO E DEI TAR
Cons. Stato, V, 14 dicembre 1988 n. 818
Cons. Stato, VI, 12 marzo 1990 n. 374
Cons. Stato, V, 23 aprile 1998 n. 477
279
Cons. Stato, V, 12 agosto 1998 n. 1262
TAR Lombardia, Milano, III, 29 agosto 2001 n. 5163
Cons. Stato, V, 6 giugno 2003 n. 2380
TAR Lombardia, Milano, III, 8 aprile 2003 n. 994
Cons. Stato, V, 19 febbraio 2004 n. 679
Cons. Stato, V, 16 marzo 2005 n. 1074
Cons. Stato, V, 13 dicembre 2006 n. 7369
Cons. Stato, V, 13 febbraio 2009 n. 824
Cons. Stato, V, 10 settembre 2010 n. 6529
Cons. Stato, V, 8 febbraio 2011 n. 854
Cons. Stato, V, 26 gennaio 2011, n. 552
TAR Puglia, Lecce, II sez., 25 maggio 2012 n. 932
SENTENZE E ORDINANZE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
C. Cass., SS. UU., pen., 27 settembre 1995 n. 12310
C. Cass., pen., 10 maggio 2012 n. 17435
SENTENZE CORTI INGLESI
House of Lords, 13 ottobre1983, Davy c. Spelthorne
High Court, 9 novembre 1998, Mayer Parry Recycling Limited c. Environment
Agency
Court of Appeal – Administrative Court, 14 marzo 2001, Castle Cement c.
Environment Agency
Supreme Court of the United Kingdom, 9 novembre 2011, Brent London Borough
Council and a. c. Risk Management Partners Limited