Dott. Marko Zotic: Giovanni Gentile e La Poesia Di Leopardi

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GIOVANNI GENTILE E LA POESIA DI LEOPARDI di Marko Zotic

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Leopardi alla luce dello schema teoretico atttualistico

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GIOVANNI GENTILE E LA POESIA DI LEOPARDI

di Marko Zotic

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Introduzione

L’onda d’urto scatenata dal neoidealismo di Gentile non è entrata

nella cultura italiana senza lasciare il segno, e l’ha fatto passando per vari

canali diversi tra loro, riuscendo tuttavia a mantenere una coerenza

speculativa. L’obiettivo era di trovare l’unità del reale, una sintesi originaria,

una sola categoria trascendentale che inglobi tutto, e l’unità è stata trovata

nel pensiero, nel suo atto di pensare. Quindi tutte le riflessioni che Gentile fa

sulla politica, sulla morale, sulla storia, sull’essere, sulla logica, sulla

grammatica, sulla pedagogia, sulla religione, sulla letteratura e critica

letteraria, sull’estetica in generale, essendo momenti del reale, sono trattate

con lo stesso criterio e metodo, e con gli stessi sviluppi teoretici, perché sono

tutte prodotti dell’atto del pensiero, della sua logica, che è dialettica del

pensare. Molti pensatori, anche di successo, si sono cimentati nello studio

dell’attualismo e nello sviluppare le conseguenze attualistiche nei vari campi

sopra citati. Non in tutti però c’è stata la stessa ricchezza di sollecitazioni e di

sviluppi. In particolar modo mi voglio riferire alla letteratura e al problema

dell’arte. Un diffuso pregiudizio fa trattare questi temi come problemi

marginali in Gentile, invece di esser presi come tratti centrali e fondamentali

della sua filosofia. Per il filosofo, il punto di partenza è stato sempre il

sentimento, che è il momento artistico: l’anima, l’energia del pensiero e

quindi della realtà. Nel suo capolavoro, La teoria generale dello spirito come

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atto puro, Gentile introduce il problema estetico proprio con Leopardi, a

significare l’importanza che ha avuto il poeta Recanatese per il filosofo

siciliano. Lo ha accompagnato per almeno trent’anni, se si pensa che il primo

degli scritti su Leopardi uscì nella Rassegna filosofica della letteratura

italiana di A. D’Ancona nel 1907, mentre si ha una conferenza al Lyceum di

Firenze del 6 aprile 1938. Un problema tutt’altro che marginale. E come

vedremo, Gentile l’ha sempre detto, dedicando una delle sue opere della

maturità (se mi si permette di dir così, La filosofia dell’arte è stata la

chiusura coerente di un cerchio speculativo; assorbendo nella filosofia anche

l’irrazionale, ha reso assolutamente immanente il pensiero), al problema

dell’arte. Le motivazioni che mi hanno portato a fare un lavoro di questo

genere sono proprio il cercar di metter in luce risvolti dell’attualismo che,

apparentemente passati in secondo piano, sono in realtà anche al giorno

d’oggi di fondamentale importanza teoretica. L’obiettivo parallelo è di

entrare nel problema del rapporto filosofia e poesia, ma a questa tematica il

presente lavoro fungerà solo da introduzione. Per quanto riguarda il metodo

di ricerca, naturalmente mi sono basato sulle fonti. Innanzitutto, ho cercato di

dare una struttura base alla tesi, una linea guida generale, fondamentalmente

dividendola in due parti. La prima parte molto tecnica e rigorosamente

attualistica, sostanzialmente segue il discorso de La filosofia dell’arte, la

seconda parte più letteraria, si basa sullo scritto Manzoni e Leopardi. A

questa struttura ossea, maturata dopo lo studio su Leopardi attraverso

l’ausilio del Flora ma soprattutto del De Sanctis (che ha rappresentato una

tappa decisiva della formazione filosofica di Gentile, per il quale era anche

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“il maggior critico che il Leopardi abbia avuto”1), ho aggiunto altre

riflessioni di Gentile a riguardo, che si trovano in altri testi fondamentali e

non, ritrovando in tutti la stessa coerenza filosofica, cosa che ha facilitato il

mio lavoro. Per quanto riguarda la lettura critica secondaria, devo dire che il

materiale rispetto ad altri temi non è abbondato. Nonostante ciò, credo di

aver trovato materiale a sufficienza per questa tesi; e ancora, nonostante ciò,

credo che Gentile sia riuscito almeno in campo letterario, a dare una scossa e

una nuova impronta alla critica leopardiana.

I discorsi sull’arte, come pure quello su Leopardi, sono

coerentemente trattati sulla scia di tutti gli altri, in quell’atto del pensiero, in

quella sintesi dei due momenti antitetici, in quella relazione che fa essere

l’oggetto, l’oggetto del soggetto.

1 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, Firenze 1960, p. 113

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1. Gentile e Leopardi

Mirava il ciel sereno,

le vie dorate e gli orti,

e quindi il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

quel ch’io sentiva in seno.

G. Leopardi, A Silvia

Ben lungi dall’essere una trattazione conclusiva e definitiva,

come già detto, questo lavoro intende analizzare il modo in cui

Giovanni Gentile affronta la poesia di Leopardi ed il problema

dell’arte, e si presenta anche come una prima porta d’accesso ad un

itinerario più lungo, quel più generale rapporto tra poesia e filosofia.

Lo scopo di questo preludio è di vedere come per Gentile l’arte in

generale o quell’originaria se vogliamo, non può mai esser

concretizzata, ovvero l’arte pura è un trascendentale e come tale pura

forma, immediatezza irrealizzabile (perché già realizzata) nella realtà

perché la realtà è la mediatezza del pensare: “L’arte, nella sua

esistenza immediata, non si può conoscere, e sfugge a ogni sforzo che

il pensiero faccia per raggiungerla”2. E ancora: “È immanente alla

coscienza e la trascende, come l’apriori di cui si ragiona nella filosofia

kantiana. Non è esperienza che si possa vivere ma principio

2 G. Gentile, La filosofia dell’arte, Milano 1931, p.119

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trascendentale dell’esperienza artistica”3. Ciò che si concretizza

invece nell’opera d’arte deve essere in qualche misura sempre mediato

perché concreto, quindi reale, e la stessa realtà che lo impone essendo

pensiero in atto, essendo mediatezza. Una delle conseguenze di questo

ragionamento è che l’opera d’arte oltre ad avere una portata

sentimentale e irrazionale, ne ha anche in qualche misura (e non può

che essere così) una razionale e filosofica, ha una portata di verità, di

religiosità e di valore morale. Ma cosa s’intende per mediatezza? Che

significa pensiero? Vedremo che per tentar di rispondere a queste

domande si presenteranno termini come assorbimento dell’alterità,

infinitizzazione, apertura, amore, limite, morte: come cartine al

tornasole di quella paradossalità, che vede realizzarsi nello spirito

l’identità di soggetto e oggetto. È la paradossalità del conoscere, che si

basa sull’identità degli opposti, tra essere e non essere assorbiti

dall’atto del pensiero. Termini ormai estrusati, ma che ci delineano un

campo d’indagine. Ma questo campo d’indagine non è quello di

questa tesi, che come già detto è una porta d’entrata sull’argomento.

Nei capitoli che seguiranno mi limiterò ad un’iniziale delucidazione

sul problema dell’arte in generale per il filosofo siciliano, preparare il

terreno per poi successivamente collocare il pensiero di Gentile su

Leopardi.

Gentile oltre a studi filosofici e storici di carattere generale,

fece un intenso lavoro di rispolveramento e recupero della cultura

italiana, cercando di ridare vigore a personaggi che sembravano aver

3 Ivi, p. 126

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preso la via del dimenticatoio, cercando di liberarli da certi pregiudizi

di provincialismo, o di evidenziare l’importanza degl’intramontabili, o

di reinterpretarli trovando nuove sfaccettature molto interessanti, ed

alcune prima addirittura impensabili. Scrisse ad esempio una storia

della filosofia italiana da Genovesi a Galluppi. Mettere l’accento sulla

cultura italiana era uno dei suoi motti o addirittura doveri in coerenza

anche col suo momento storico, quindi la ripresa di Rosmini e

Gioberti, studi su Dante, su Vico, su Cuoco, su Manzoni, sull’Alfieri e

naturalmente non poteva mancare l’intrigante Leopardi perché,

generalmente si presenta come un maestro di pessimismo e quindi

l’effetto avrebbe potuto essere controproducente: “ed alzare una

cattedra a illustrazione del suo pensiero e della sua poesia può parere

perciò tutt’altro che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire a

vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetticismo e di

allargare il petto ad energici sentimenti di fiducia nelle proprie forze e

ad alte convinzioni di fede nella vita che è chiamato a vivere”4. Ed il

petto, il Leopardi te lo allarga. L’effetto della sua poesia è l’inverso

del suo pensiero. Il dolore, la morte, la noia, il tedio della vita, le

illusioni, l’illegittimità del diletto, l’avversità della natura,

l’inadeguatezza e boria del pensiero: temi che per Leopardi sono la

cruda realtà che la sua anima nobile e sensibile non può tollerare e

sopportare, realtà la quale il Poeta non riesce a superare

speculativamente ma lo fa poeticamente. Il suo spirito è emotivamente

incapace di rimanere rinchiuso tra le sbarre del materialismo e cerca di

4 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, p. 79

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liberarsi. La filosofia materialistica e naturalistica che sfocia nel

pessimismo è per il Recanatese la verità la quale è superata con il suo

sogno, non verità speculativa ma sentimento; il suo petto si apre

perché troppo vibrante è il suo cuore, si apre all’infinito universo e

scopre che in suo sen c’è posto per infiniti universi e altri ancora.

Scopre così la sua grandiosità, la sua natura spirituale, ma non al

livello concettuale. La coscienza per lui è la stessa sensibilità, non la

coscienza vera e propria che è il superamento della sensibilità come

direbbe Gentile. Da qui la duplicità e l’effetto inverso. Lo storico della

letteratura De Sanctis nel suo saggio critico Schopenhauer e Leopardi.

Dialogo tra A e D, afferma: “Leopardi produce l’effetto contrario a

quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare:

non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la

gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto”.5

Desiderio acceso anche nel petto di Gentile, molto ben curante della

sensibilità e della delicatezza del Poeta, ha cercato di rimettere in

moto quelle sensazioni e di salvaguardarle, anche criticando coloro

che in maniera troppo tecnica e analitica hanno svolto studi

leopardiani. Questo è il metodo dell’empirismo direbbe lui.

L’approccio deve essere diverso, bisognerebbe far rivivere le

emozioni, avere un’esperienza quanto più diretta possibile con l’opera

e non limitarsi ai semplici dati empirici, storici o bibliografici;

considerare la totalità dell’opera e non spezzettarla come fosse un

gioco ad incastri per poi rimetterli assieme a piacere. Non fatto, ma

5 F. De Sanctis, Saggi critici, Roma-Bari 1974, vol. II, p.159

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mettere in atto il quale ha in sé il fatto, che viene superato nel divenire

dell’atto stesso.

Ed ecco il Leopardi, la sua duplicità gli funge da motore di

un’inesauribile fonte d’angoscia; ma quanto più è profondo il buco

nella sua anima, tanto più in alto ella si eleva sublimando in una

poeticità eccelsa. È il Cantore degli idilli, si rispecchia nella “pudica

delicatezza della sua anima sensibilissima, che cerca i luoghi solinghi

e i silenzi della notte dove il suo canto possa spandersi in una religiosa

elevazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito; dove il pastore

possa interrogare la luna, e l’uomo stare a fronte della natura, e

ragionare tra sé e sé de’ più gelosi segreti del suo cuore”6: orgoglioso

della sua solitaria grandezza, della religiosa austerità del suo spirito

tormentato dal mistero del dolore universale e dalla voce esile e

tremante di commozione. Poeta ma anche filosofo? Si può considerare

l’opera del Recanatese anche un’opera di filosofia? Teorico del

pessimismo o descrittore di stati d’animo? Si sostiene che i suoi Canti

siano un’opera poetica mentre le Operette morali un’opera filosofica.

A riguardo dimostreremo ciò che è stato detto in precedenza

sull’inattualità e attualità dell’arte, della sua originarietà ontologica (e

perciò formale), del proprio valore come intuizione e sentimento, sulla

teoreticità e sull’eticità (attuale, concreta, reale). E in conclusione, i

termini amore e morte, termini chiave nella poesia leopardiana: tra

loro gioca un ruolo interessante il concetto di limite e di apertura. La

morte come l’amore libera dai limiti, hanno a che fare entrambi con

6 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, p. 83

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un’apertura. Ma la morte è anche un limite invalicabile, quindi ha in

sé una duplicità contraddittoria, perché toglie e pone il limite.

Attualisticamente la morte assoluta non può essere realizzata, perché

significherebbe la morte del pensiero del Soggetto trascendentale che

è eterno, assorbe tutta la realtà e con essa anche il tempo, ed essendo

aldilà del tempo non ha ne inizio ne fine, ma è eterno. “Il pensiero

nella sua attualità, o come Io universale, contiene, e però supera, non

solo la spazialità della pura natura, ma anche la temporalità del puro

accadere naturale. Il pensiero è di là dal tempo, eterno. Il tempo infatti

è forma di ciò che pensiamo, e però del pensiero come pensato nella

sua astratta oggettività. Quando quel che pensiamo lo guardiamo

nell’atto del pensarlo, tutti i punti del tempo, distinti e successivi, si

fondono e contraggono in un punto unico e immoltiplicabile”.7 Quindi

non si potrà dire la morte del pensiero ma la morte nel pensiero:

perché proprio questa duplicità che toglie e pone il limite ci annuncia

il pensiero stesso nella sua libertà creatrice, nel suo infinitizzarsi,

perché proprio l’identità degli opposti mantiene il divenire, o meglio,

questa identità è la base del divenire. “A = non A. Infatti ogni atto di

pensiero è negazione di un atto di pensiero: un presente in cui muore il

passato; è quindi unità di questi due momenti”.8 La morte non assoluta

ma relativa della realtà, dei corpi degl’io empirici, delle leggi fisiche,

delle leggi in generale: in quanto leggi sono già state pensate, quindi

conchiuse in un limite, fatti e di conseguenza già consumati, morti.

Già morti, invece chi costantemente muore vive, e vivrà perché ha in

7 G. Gentile, L’atto del pensare come atto puro, Firenze 1937, p. 25, estratto di una serie di comunicazioni fatte alla Biblioteca filosofica nell’inverno 1911. 8 Ivi, p.19

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sé la morte assorbita nel suo morire, ovvero vivere. L’opera d’arte più

d’ogni altra cosa prodotta dalla volontà umana è vicina alla morte,

perché come nel sogno il pensiero cala a livello di vigilanza, cala

quindi la mediatezza verso l’immediatezza, che è formalità priva di

contenuto e quindi di coscienza e perciò di volontà, tutta consumata

nella sua logica, priva di vita. Ma come già detto prima, l’arte pura è

inattuale e perciò l’opera d’arte non sarà mai mera formalità senza

contenuto e sia in maniera rudimentale che originaria è portatrice di

valore, poiché viene sempre attuata da una volontà autocosciente che

vive nella realtà concreta.

2. Giovanni Gentile e la filosofia dell’arte

2.1 . Il problema dell’arte

Nel 1931 esce La filosofia dell’arte e si legge nella prefazione

che il problema estetico è stato sempre innanzi al pensiero di Gentile

dal 1909 con i saggi Arte e religione, Il Sentimento e Le forme

assolute dello spirito. In realtà lo era già dal 1896 con lo scritto Arte

sociale, che rappresenta un momento fondamentale della formazione

del filosofo di Castelvetrano, avviato all’acquisizione della nozione di

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sintesi a priori attraverso la lezione del De Sanctis. In Arte e religione

c’è il primo tentativo di concettualizzare e giustificare l’arte in quanto

“forma soggettiva dell’attività spirituale”9, e come vedremo, il

soggetto senza alcuna relazione con l’oggetto è un’astrazione: “L’arte

così intesa non esiste né può esistere, quasi realtà spirituale, che sia

arte pura e nulla più”10. Contro l’arte pura inesistente, viene messa

l’arte e la sua relazione con la religione, come il soggetto con

l’oggetto, più avanti avremo modo di approfondire. Nella memoria su

Il sentimento, l’arte diventa sinonimo di sentimento il quale poi si dice

che è immediatezza soggettiva e si conclude con il concetto di

“inattualità del sentimento”11 che è dunque quello dell’“inattualità

dell’arte pura”12. Ne Le forme assolute dello spirito scrive il filosofo

che, la distinzione storica delle forme arte, religione, filosofia è falsa,

come è falsa la distinzione storica tra natura e spirito. Il problema si

presenta anche nella Teoria dello spirito come atto puro del 1920,

dove Gentile si rifà proprio a Leopardi per introdurre il concetto

dell’arte e si chiede sul rapporto e sulla differenza tra filosofia e

poesia. Nella prima sostanzialmente (avremo modo di approfondire

più avanti) il reale è il reale assoluto, tutto ciò che si può pensare, la

seconda è anch’essa un mondo, ma un “mondo che è il mondo

dell’artista”.13 La filosofia dell’arte è la ripetizione critica e più

approfondita dell’attualismo dal punto di vista del problema dell’arte,

problema fondamentale perché è il primo momento della sintesi di un

9 G. Gentile, Introduzione alla filosofia, Milano-Roma 1933, p.153 10 Ivi, p.160 11 Ivi, p.46 12 Ivi, p.59 13 G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze 1944, p.210

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sistema come quello gentiliano che fa della coerenza uno dei suoi

punti forti.

Ma adesso entriamo nel merito. L’attività del pensiero

nell’attualismo ha sempre la stessa forma di una posizione di sé (e

visto che si basa sull’uguaglianza di teoria e prassi, di conoscere e

fare, il concetto di autoposizione viene sostituito da quello di autoctisi

ed in questa filosofia possono essere considerati dei sinonimi) che

passa attraverso la negazione di sé. Proprio qui, proprio in questo

passaggio vi è la dialettica gentiliana, che alle origini si presentò come

una riforma della dialettica hegeliana, ma con l’intento di negarla:

perché considera ogni dialettica oggettiva come una dialettica del

pensato, alla quale vuole sostituire una dialettica del pensare.14 Questo

pensare passa in ogni caso attraverso un pensato (l’atto passa

attraverso il fatto), ma come il dio dello Scoto Eriugena che corre e si

fa attraverso le cose raccolte dalla mente umana.15 Nello spirito quindi

c’è una sola forma concreta, quella dell’atto del pensiero e non ce ne

sono altre. Ci sono però tre momenti che si possono separare

idealmente, ma nessuno è isolabile in concreto perché la concretezza

vi è solo nella sintesi dell’atto del pensiero. Questi tre momenti, che

hanno valore reale solo nella loro sintesi, sono precisamente il

momento soggettivo ossia quello dell’io particolare, che corrisponde

alla mera coscienza di sé; oggettivo ovvero l’alterità: la negazione

della coscienza di sé; e infine quello Soggettivo che è l’Io

trascendentale: fusione e superamento dei due momenti precedenti. La

14 per un approfondimento vedi: G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, in Opere, vol. XXVII. 15 In questa concezione la circolazione della vita divina implica necessariamente una caduta divina perché Dio si riveli a se stesso. Il passaggio attraverso il mondo fa parte del processo del “farsi” divino.

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loro immediatezza viene fusa nella mediatezza del pensare. “E se il

suo principio è l’immediato che si risolve nella mediazione della

sintesi, ebbene questa mediazione è la vita dell’immediato: quella vita

che è tutta in tutto l’organismo e in ogni singolo organo”.16 Questa è la

realtà, l’unione mediata e continua nell’atto del pensiero di io e altro

(non io), soggetto e oggetto. La realtà è Soggettiva: non c’è solo

soggetto o solo oggetto, ma la loro sintesi, la quale non è immediata

perché altrimenti i due momenti non sarebbero superati, ma

mediazione continua, sforzo continuo del soggetto d’assorbimento

(conoscenza) dell’oggetto che è il suo limite, la sua morte; c’è

un’infinitizzazione o immortalizzazione continua, la realtà è nel

processo. “Tanto, si può dire, si realizza, quanto si infinitizza, se ci è

concesso di usare questa barbara parola. E l’atto onde il pensiero si

attua ed esiste, è sempre un cancellare una finitezza, e infinitizzarsi”.17

Qual è il ruolo dell’arte in questo discorso? I due momenti

logicamente (che per Gentile sono meramente formali) precedenti18

alla sintesi, ossia soggettivo e oggettivo, nell’attualismo per il quale la

verità ha valore puntuale (è l’atto e nient’altro) e quindi tende a

sciogliere e identificare tutto nella sintesi spirituale, equivalgono ad io

e noi (altro), ma noi possiamo anche dire ad essere e non essere,

aperto e chiuso, infinito e limitato, oppure conosciuto e non

conosciuto, ed infine ciò che ora ci interessa, arte e religione (per

16 G. Gentile, La filosofia dell’arte, p. 162 17 Ivi, p. 73 18 Formali perché astratti, non sono reali presi separatamente perché la realtà è la loro sintesi. Analizzati logicamente non sono più atto ma fatto: ed il fatto è fatto, già consumato nella sua logica, non vive ne muore, ma è già morto. In più il significato della parola “precedente” assolutamente non va inteso in senso cronologico (perché il tempo è contenuto non contenente del pensiero) ma logico: i fatti anche se presi separatamente, hanno senso solamente nella fusione sintetica nel divenire dello spirito.

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semplificazione li chiameremo primo e secondo momento della

sintesi). L’arte è quindi il momento soggettivo, immediatezza. È

l’immediata conoscenza dell’io, dell’essere; è immediata conoscenza

in generale: intuizione e sentimento. Estratta dalla sintesi e quindi

isolata, presa per sé togliendo momentaneamente il termine antitetico,

l’arte ha a che fare con l’infinito essere senza limiti (quindi senza non

essere e divenire), con l’infinita onniscienza immediata, con una

libertà illimitata, con un’apertura totale e definitiva ovvero, la morte.

Tutto fermo, non c’è divenire, presi separatamente i due momenti

dello spirito assumono lo stesso significato: soggetto/oggetto,

essere/non essere, aperto/chiuso, arte/religione significano vuoto

assoluto. Perché come c’insegna il kantismo, le categorie

trascendentali senza l’esperienza sono vuote formalità. E l’esperienza

è possibile solo nel divenire: solo se non ho qualche cosa, posso

desiderare di averla; solo se un valore ha una certa difficoltà di

conquista ha un certo valore, solo se non conosco qualcosa, posso

desiderare di conoscere. Solo nella sintesi dialettica la realtà, la verità,

la morale, il senso stesso hanno senso. Ed è questo l’atto del pensiero,

ed è spirito perché fondamento e contenitore universale. “Il pensiero

assolutamente attuale è universale per la sua stessa necessità. […] La

sola universalità pensabile è quella del nostro atto di pensiero”.19 La

base è il suo divenire che è il divenire. Ecco spiegate le difficoltà di

definizione dell’arte che incontrano le estetiche, perché nel definirla

appunto la si de-finisce, la si isola analiticamente e la si estrae dallo

19 G. Gentile, L’atto del pensare come atto puro, pp. 21-22

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spirito ed essendo l’arte un trascendentale, diventa vuota astrazione.

L’arte assoluta, l’atto immediato e incondizionato del creare è

un’illusione, perché il concreto essendo sintesi degli opposti, essendo

mediazione fa sì che l’atto artistico sia sempre condizionato e

mediato. “Non può esistere, perché se il soggetto è il momento iniziale

del ritmo spirituale, questo momento è momento del ritmo, in cui

soltanto è reale. Chi comincia, comincia in quanto continua:

cominciare è continuare; un punto iniziale, che non sia se non un

punto solo, non c’è se non per effetto di analisi ideale. L’arte che

esiste, e riempie di sé la storia e il cuore degli uomini, è sempre arte e

altro: un tutto dunque, che è più che arte, ma vale come arte perché

l’elemento estetico vi prevale tanto da risolvere in sé e assorbire il

resto, rispetto all’analisi ideale con cui, astraendo da ogni altro

elemento, noi formuliamo un giudizio estetico”.20 L’artista quindi è

relativamente libero, ma come detto prima, l’arte assoluta nella realtà

è un’illusione, ma l’illusione come il sogno, è vera finché il sogno

dura, l’artista è relativamente libero nella realtà, ma dentro questo

sogno lo è assolutamente e può così manifestare la sua infinita

creatività. Il suo essere infinito si può manifestare, ma al risveglio

torna a far i conti con la realtà. Realtà alla quale spesso gli artisti si

sentono estranei, proprio perché sentendosi esseri liberi non riescono a

concepire la presenza simultanea della negazione della libertà. E

restano nel sogno, con il quale tentano di superare il reale. Quanto più

il sogno manifesterà la loro libertà, tanto più il risveglio sarà

20 G. Gentile, Introduzione alla filosofia, pp. 160-61

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traumatico e questa sensazione in seguito darà lo stimolo ad alzare

ulteriormente il livello poetico del sogno. La poesia sta proprio qua,

nella ricerca dell’apertura e dell’immediatezza nella realtà (con il

risultato la creazione di qualcosa di nuovo) che a questi occhi

sensibilissimi pare soltanto chiusa ed è sì mediata.

Intuizione e sentimento: sono due termini che coincidono con

l’idea d’arte fin qua esposta. “Il sentimento è il momento soggettivo,

immediato, dello spirito: ma, lungi dall’essere qualche cosa di passivo,

è la stessa attività del soggetto nel suo prorompere, nel suo essere

immediato, ossia nella ricchezza infinita di tutte le energie, alla cui

manifestazione si assisterà nello svolgimento della vita dello

spirito”.21 Ma anche l’intuizione è alla base dello spirito perché

anch’essa è l’essere immediato e fondamento del conoscere: “quel

punto di partenza da cui muove ogni uomo che operi, parli o pensi; e

non può operare, parlare o pensare se non come quel che egli è, e in

quanto prima di tutto, egli, comunque c’è. L’intuizione insomma è il

sentimento, e si identifica col soggetto nella sua immediata

posizione”.22 E con essi si vede ancora meglio come non abbia nessun

senso l’estrazione analitica dall’unità dello spirito dei due suoi

elementi opposti. L’intuizione senza l’oggetto alla quale si rivolge è

intuizione di che cosa? E lo stesso vale per il sentimento, senza di ciò

che si sente che valore ha? Non ha nessun valore. Il valore è nella

sintesi, e soltanto nella sintesi. Per conchiudere coerentemente ciò che

è stato esposto fin qua, possiamo dire che il soggetto preso di per sé,

21 G. Gentile, La filosofia dell’arte, p. 114 22 Ibidem

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coincidendo col momento artistico è sentimento, intuizione, essere,

apertura in generale. Ciò concretamente vuol dire che il soggetto è

sempre aperto ad un oggetto, ad un’alterità con l’intento di assimilarla,

e l’assimila continuamente: questo processo che è il darsi dell’essere

che si apre al non essere immanenti nel pensiero è l’atto del pensare

che è autocoscienza. Al contrario, il momento artistico preso solo di

per sé non è atto ma fatto: da qui l’inattualità dell’arte, ma presa nella

sintesi è mediata con qualcosa d’altro, questa mediazione è il pensiero

in atto, quindi l’arte in atto non potrà che essere mediazione.

“Giacché, per essere esatti, la poesia, se non si vuol fissare come

un’astrazione inesistente, ma si vuol cogliere nella sua vita reale

(come la poesia di Petrarca e di Leopardi), non è pura e semplice

poesia; è anch’essa pensiero, che investendo il sentimento lo forma e

variamente lo atteggia secondo il procedimento della tecnica: ne fa

parola, colore, linea, nota, concetto, sistema”.23

2.2. Attualità e inattualità dell’arte

L’arte esistente non è pura arte. Nel concreto non esiste un

qualcosa prodotto dal volere umano che è arte assoluta, apertura

totale, puro sentimento, amore infinito, libertà incondizionata, perché

23 G. Gentile, Memorie italiane, Firenze 1936, p. 260

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come abbiamo visto prima, presi separatamente dallo spirito, questi

momenti ideali sono solamente mere astrazioni, formalità prive di

contenuto. E allora cos’è quell’oggetto a cui andiamo incontro quando

guardiamo un’opera d’arte? Quando incontriamo un quadro, una

poesia, una canzone, cosa abbiamo dinanzi agli occhi? Bisogna stare

attenti, perché anche ciò che abbiamo empiricamente davanti potrebbe

essere fuorviante dal discorso fin qua fatto. Dal punto di vista

empirico quando guardiamo ad esempio una poesia, rischiamo di fare

di nuovo l’errore di prima, in altre parole di astrazione. Perché anche

in questo caso ci troviamo di fronte ad un qualcosa di fatto, ma la

verità è nell’atto. E allora come proseguire? Quale strada bisogna

intraprendere? Innanzi tutto, l’opera d’arte è un unicum, quindi un

approccio analitico può essere utile solamente se riferito alla sintesi.

Empiricamente l’opera d’arte, essendo fatto, è alla stregua del primo

momento della sintesi, quindi innanzi tutto è l’essere immediato. Ma

di che cosa? È l’essere immediato della sintesi già fatta, del mediato

già concretizzato. Il mediato s’immedia di nuovo (mi scuso per le

barbarie, ma reputo utile l’assidua ripetizione di questi vocaboli

perché credo possano rendere meglio l’idea ai miei fini teoretici). È un

miscuglio d’arte, religione e filosofia, ma non è più un pensare ma un

pensato. La realtà non è l’essere ma il divenire che ingloba e supera

essere e non essere. La realtà è un qualcosa di più dell’essere. Allora

l’approccio ad un’opera d’arte dovrebbe rompere l’immediatezza

dell’opera, farla vivere, mettere in moto le emozioni, sentimenti e

pensieri che ne stanno chiusi dentro, insomma bisognerebbe mettere in

Page 21: Dott. Marko Zotic: Giovanni Gentile e La Poesia Di Leopardi

21

atto l’opera bloccata nel fatto. “E qui bisogna che l’estetica compia

questo passo: non sentimento passivo e attiva intuizione, ma quella

stessa intuitività, o immediatezza spirituale, dialetticamente animata e

libera, che è l’attività pura del pensiero come tale. Muto, cieco, in

quanto immediato; ma luminoso, parlante in quanto vivo della vita

dialettica dello spirito”.24 Ciò equivale a dire che per far vivere l’opera

d’arte bisogna pensarla e la sua vita sta nell’atto del pensiero: cioè,

presentandosi empiricamente come un fatto, bisogna assorbirne

l’alterità (che sta dentro l’opera, è il secondo momento della sintesi,

come detto prima, l’arte pura è inconcretizzabile) riscoprendola così

nell’atto. “Il sentimento si esprime; ma la sua attuale espressione non

è più sentimento, bensì pensiero (più che sentimento). Pensiero, in

quanto sintesi di soggetto e oggetto, o quella compiuta vita del primo

che acquista coscienza di sé, e si fa perciò insieme soggetto e oggetto

come due in uno. La quale sintesi è storia, in quanto il pensiero, il

concetto, la filosofia, rimane piantata al suolo dell’esistente mediante

il sentimento”.25 Questo approccio noi lo chiameremo critica, che è

anch’essa sintesi continua di due momenti. Il primo è quello

dell’analisi del contenuto, dello stile, della tecnica, storia delle idee,

dei costumi, ecc. Nel secondo il critico s’immedesima nel sentimento,

che non potrà mai descrivere (perché il sentimento descritto è

concetto, non più sentimento), questa sensazione indescrivibile è

l’arte: lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno. Il terzo

momento è l’esposizione del sentimento, in altre parole concetto, il

24 Gentile, La filosofia dell’arte, p. 201 25 Ibidem, parentesi mie

Page 22: Dott. Marko Zotic: Giovanni Gentile e La Poesia Di Leopardi

22

quale non è arte ma opera d’arte, perché il sentimento è preponderante

rispetto al secondo momento e tende a scioglierlo. E’ un’opera d’arte

nuova, risultata dall’immedesimazione da parte del critico nell’artista,

ed il critico è diventato proprio quell’artista, perché portatore del

sentimento trascendentale, Umanità infinita che si trova in tutti noi,

che è la condizione di possibilità di questa immedesimazione. “E

allora il critico, se egli veramente s’è immedesimato con quel

sentimento e chiuso in quello stato di grazia che non gli consenta più

distrazioni ed erramenti, ritrova in sé la potenza creatrice del poeta; e

rivede il suo mondo in quanto questo via via gli sorge d’avanti come

per miracolo rievocato dalla sua medesima interiore potenza, ed entra

nella terza e definitiva fase del suo lavoro: l’esposizione dell’opera

d’arte, che non è un prosaico riassunto, analitico ed esplicativo, ma

commossa creazione”.26 L’opera d’arte così viene ripensata, ed in

questo atto viene sempre nuovamente reinterpretata e ricreata, perché

l’atto del pensiero crea sempre qualcosa di nuovo (tranne nel caso del

plagio). In questa circolazione ermeneutica sta la salvaguardia

dell’arte nell’opera d’arte, che oltre ad avere il secondo momento della

sintesi ne ha anche il primo. Questa soggettività, ovvero sentimento,

n’è la base, il punto di partenza di tutto e rimane sempre, anche aldilà

dei tempi. I due momenti dell’opera vanno fusi nella sintesi, la forma

(soggetto) e il contenuto (oggetto) s’inverano nella Forma (Soggetto).

Ma questo processo non finisce mai sennò ci ritroveremmo di nuovo

di fronte ad un fatto e alla totale stagnazione. Il sentimento arde

26 Ivi, p. 285, corsivo mio

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23

sempre nel tentativo di attuare la sua infinità: pensare in questo modo

l’opera d’arte significa tenere sempre accesa la fiamma dell’arte. Ma

questa fiamma non si spegnerà mai, è l’infinita energia del soggetto

che vuole universalizzarsi, questo come primo momento è la base

universale che fuori della sintesi non ha senso, ma dentro di essa si:

nella sua infinità continuamente minacciata, trova sempre la forza di

reagire (da qui il carattere di arte liberatrice dal dolore, di catarsi, di

consolazione; come il balsamo che viene messo sulle ferite). Questo

sentimento universale e infinito, che cerca costantemente di attuarsi, è

dentro ad ognuno di noi. Se la intendiamo in questi termini, l’opera

d’arte è l’opera dello spirito: non vi è all’interno solo un uomo, ma

l’intera Umanità in tutti i suoi aspetti e manifestazioni.

Tirando le fila di ciò che è stato esposto qua sopra, diciamo

che l’opera d’arte è immortale, giacché è immortale lo spirito che la

concretizza; come pure è immortale il sentimento dell’opera d’arte. E

questo sentimento non può essere solamente di un singolo uomo,

individuo empirico e particolare, in verità è il sentimento

dell’Umanità. Proprio perché c’è questa Umanità che accomuna tutti

gli uomini di tutti i tempi e le loro opere d’arte, quindi che va oltre i

limiti del tempo, l’arte è immortale e impersonale.

“La verità è che l’uomo non fa altro che pensare; e tutta la sua

vita è pensiero. Pensa, sia che questo pensiero prenda corpo in parole,

in note musicali, in linee e figure, e colori e pietre e marmi, sia che

incida nel sistema della natura e dei rapporti tra gli uomini con le sue

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azioni”.27 Nelle forme in cui si realizza lo spirito c’è sempre un uomo

che pensa, che ha un problema e cerca di risolverlo. E lo risolve

realizzando un’autocoscienza nella sintesi del soggetto con l’oggetto

del soggetto. “In questa sintesi noi troveremo sempre per necessità

assoluta, tutti e tre gli elementi della sintesi: il soggetto, l’oggetto e la

loro relazione. Nella relazione è il pensiero; ma dentro la relazione c’è

l’oggetto, e c’è prima di tutto il soggetto. E se questo mancasse, la

relazione che viene di lì non ci potrebbe piovere dal cielo. Così ogni

uomo è uomo, cioè pensiero; ma è prima di tutto artista, che è come

dire che ha un’anima, e lo dimostra pensando”.28 In oltre, ogni opera

umana ha a che fare con l’arte, perché essendo umana, ha in sé un

soggetto e quindi un sentimento. Ma nell’opera d’arte a differenza

delle altre, prevarica il fattore estetico, quello sentimentale, soggettivo

che supera l’iniziale antiteticità del secondo momento ricercando non

la mediatezza e quindi la concettualizzazione, ma andando incontro

all’immediatezza, all’originarietà ontologica. È l’indebolimento del

pensiero, per arrivare all’apertura originaria. Il pensiero dell’artista nel

suo mondo poetico è meno pensiero di quello della vigilia, è tutto

preso nel lasciarsi andare, diminuendo l’attrito dialettico, lasciando

espandere senza confini se stesso, la sua anima che è sentimento. Ed

in questo mondo l’artista può realizzare l’infinità del suo essere,

l’illimitata creatività derivatagli dall’infinita energia della propria

natura in quanto anima. Questo mondo è paragonabile al sogno, in

entrambi il pensiero è afflosciato e indebolito ed in entrambi il

27 Ivi, p. 216 28 Ibidem, corsivo mio

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25

soggetto è libero da limiti, negazioni, imposizioni e condizioni (solo

che nel sogno non si sente questa libertà, la conseguenza è che il

sogno può diventare un incubo). Quanto più l’artista riuscirà ad aprirsi

al sentimento, tanto più sarà poetica la sua opera. Ma l’opera d’arte

non è mai solo arte e nient’altro, per quanto rudimentale, afflosciato,

indebolito, de-mediato che sia, è sempre un prodotto del pensiero.

Perché c’è sempre qualcosa d’altro che si oppone, da assorbire, che

dunque condiziona. Quindi quell’assoluta apertura e libertà dell’artista

è già realizzata, ma come sogno, come fantasia, non come realtà che è

invece un continuo realizzarsi della libertà tramite la mediazione del

pensiero. Ma da questi sogni scaturiscono nella realtà quelle

particolari opere, che hanno la caratteristica di aver ridotto ai minimi

termini (ai confini del mondo reale) la mediatezza, e ai massimi quelli

dell’immediatezza. “Ammesso infatti che l’arte consista in questa

espressione o elaborazione di primo grado che lo spirito faccia del suo

oggetto, niun dubbio che fin dal grado più elementare di siffatta

elaborazione si richieda il linguaggio. Ma, una volta ricondotta l’arte

alla più pura soggettività, allora lingua mortal non dice quel che si

prova in questa soggettività. Per aver l’espressione bisogna superare la

semplice soggettività dei tempi muti, di cui favoleggia il Vico. E

venire alla consapevolezza, che è autocoscienza (ovvero la realtà)”.29

Diamo un’occhiata a questo confine: un passo a destra poniamo il

primo livello di autocoscienza (quindi di realtà e di Umanità), ed un

passo a sinistra l’essere, l’apertura assoluta. L’opera d’arte sta qua, sul

29 Ivi, p.228, corsivo e parentesi miei.

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primo gradino dell’autocoscienza, e noi la guardiamo e dietro di lei

c’è l’essere: ovvero, la vuota astrazione delle categorie, non c’è

divenire, non c’è articolazione, quindi non c’è il pensiero e tanto meno

la realtà. L’opera d’arte, è quindi un caso limite, è sul confine della

realtà, ma come primo passo nell’autocoscienza è anche portatrice di

una specie d’intuizione di verità; e poiché, “mal che vada”, sta in ogni

caso nell’autocoscienza, quindi nell’Umanità, ha necessariamente una

religiosità ed una moralità. Religiosità in quanto c’è sempre e solo

sintesi dello spirito, ma anche valore morale perché espressione

dell’Umanità: il sentimento infinito viene a definirsi, a delinearsi, a

produrre concretamente valori morali. Essendo spirito l’opera d’arte è

portatrice di una fusione idealmente eterogenea, oltre che d’arte

(perché è inattuale), di religione, morale e di quella prima verità che è

la conseguenza della sua particolare vicinanza ontologica. Questa

verità originaria è quasi un’intuizione immediata, un’appercezione, ma

ho detto bene, è quasi. Ciò che è reale è mediato, l’immediato è solo

formale e astratto. Insomma, questa prima verità è già pensiero perché

già autocoscienza, ma essendo particolarmente vicino all’immediato,

il pensiero è debole, quasi addormentato come nel sogno. Ma come

nel sogno questa prima verità c’è, e per l’artista è tutto il suo mondo,

esattamente come chi sogna, il sogno è tutta la verità, ma per noi vigili

è ancora una verità bambina, sentimento che deve crescere nel

pensiero, deve concettualizzarsi. Questa verità bambina che si trova

nell’opera d’arte, noi la chiameremo fantasia. “Il sentimento infatti è,

come la fantasia corpulenta del Vico, il punto di partenza dello spirito;

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27

e sempre che l’uomo si può dire all’inizio della sua giornata, che sarà

tutta fatica del pensiero, prevale ancora in lui la forza del sentire non

ancora domata dalla disciplina della riflessione e dell’analisi”.30 È il

punto di partenza della creazione di novità ed essendo spirito si trova

in tutte le opere e i trattati umani (tranne nelle copie o plagi, che però

non sono opere ma referenti dell’opera, si sostituiscono ad essa e ne

fanno le veci, sono la prova nel molteplice di una sola originalità),

apre la prima porta di una nuova via: “La porta dello spirito è sempre

il sentimento”.31

L’opera d’arte è quell’opera che va alla ricerca dell’arte che è

la morte del pensiero, de-mediare per arrivare all’immediatezza, la

quale non raggiungerà mai; ma nel farlo si manifesta concretamente

nella sua essenza come un morire: l’inattualità dell’arte come

profonda essenza della sua attualità. Morendo vive, va verso la morte

senza raggiungerla, ma in questo modo si concretizza e fa diventare

reale l’opera, carica di Umanità, di sentimento, di spiritualità;

morendo vive nell’opera. Questo vale in linea di principio, ma nel

mondo empirico non tutte le opere sono uguali, e nel nostro caso,

quello del Leopardi, ci troviamo di fronte alla poesia e alla prosa. Nel

primo caso è facile rispondere che è un’opera d’arte; nel secondo,

invece, si usa dire (specialmente delle Operette morali) che è un’opera

di riflessione speculativa a tal punto che, il periodo di composizione

della maggior parte delle Operette (che va dal 1822 al ‘26), quello

delle esperienze fuori di Recanati, dell’“acerbo vero”, è

30 Ivi, p. 224 31 Ivi, p. 228

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soprannominato il periodo del silenzio poetico. Ma in conformità a

come abbiamo ragionato fin qua, diremo che l’opera di Leopardi non

va analizzata a pezzi, la sua opera è un tutto indivisibile, e tolta la

poesia abbiamo una filosofia priva di un sistema: senza poesia non

abbiamo Leopardi. Non tutte le opere d’arte sono uguali, ma tutte si

caratterizzano per la preponderanza dell’elemento estetico (il primo

momento della sintesi) e se è vero ciò, diremo che la prosa di Leopardi

è un’opera d’arte, perché all’interno vi prevale la poesia in quanto

pregna di sentimento. L’analisi può sempre intervenire a scomporre

gli elementi; ma finché s’insiste nell’analisi, l’anima si ritrae e sottrae.

3. La filosofia e poesia di Giacomo Leopardi

3.1. Le Operette morali

“Ma l’arte è la forma della soggettività o, come si dice anche,

dell’individualità immediata dello spirito: per cui nel Leopardi non va

cercato un pensiero filosofico, un concetto del mondo, ma il

sentimento del Leopardi, e cioè la sua personalità, il Leopardi stesso

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che dà vita concreta ed anima ad un mondo – che è pure un sistema di

idee”.32

Per la rappresentazione in sintesi del destino del genere umano

e per il suo formale distacco dal resto dell’opera, possiamo

considerare la Stoia del genere umano come prologo delle Operette. È

una storia mitica e poetica dell’umana infelicità; come essa sia

cresciuta col crescere della civiltà. Il Leopardi sviluppa temi classici e

fantasie, adattando in un’allegoria il sentimento più che una dottrina:

l’umana incontentabilità, il rimpianto di una felicità ormai troppo

remota, felicità che si ripresenta anche nel periodo della scienza fredda

e scende come un balsamo a regalare un po’ di conforto. Infelicità

trionfante su di uno stato sempre nascente di benessere. Il Timandro

invece ne era inizialmente il prologo, che successivamente subì uno

spostamento. Togliendo entrambi (è un’operazione che fa Gentile)

balzano agl’occhi le diciotto operette intermedie, che si distribuiscono

in tre gruppi di sei ciascuno: un corpo solo, un’anima sola che passa

attraverso tre ritmi; anzi è un ritmo unico, è la sua stessa anima che

muta in stati d’animo diversi, nel tentativo di trovare una risposta, un

sollievo ai propri tormenti.

Ercole va da Atlante per farlo riposare dopo tanta fatica e si

addossa il peso della Terra, la quale gli sembra molto più leggera e

silenziosa della volta scorsa. Ed Atlante interviene con testuali parole,

con lo stesso grido de La sera del dì di festa, “è già gran tempo che il

mondo finì di fare ogni moto e ogni romore sensibile: e io per me

32 G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, p. 212

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30

stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di

giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e pensava come e in che

luogo lo potessi seppellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre”33:

Ecco è fuggito

il dì festivo, ed al festivo giorno

volgar succede, e se ne porta il tempo

ogni umano accidente. Or dov’è il suono

di quei popoli antichi? Or dov’è il grido

de’ nostri famosi, e il grande impero

di quella Roma, e l’armi, e il fragorio

che n’andò per terra e l’oceano?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

il mondo, e più di lor non si ragiona.34

Silenzio e morte. È questo il tema del primo gruppo delle

Operette, il Leopardi si trova di fronte alla morte e al nulla, al vuoto

della vita non più degna di essere vissuta. La Moda spiega alla sorella

germana, la Morte, che per favorirla, agli uomini ha mandato in disuso

e dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al benessere del

corpo e dell’anima, la vita stessa è diventata più morta che viva, è il

secolo della morte. Dunque il secolo delle macchine, che daranno il

cambio all’uomo: è la fine dell’umanità. La fine dell’amicizia,

dell’amore, degli ideali dell’uomo magnanimo e insomma, la

ricchezza è l’unico vero bene, come si dice nel Sallustio, l’operetta

che successivamente è stata tolta dall’autore: “Gli uomini per ottenerla

33 G. Leopardi, Operette morali, Milano 1969, p. 67 34 G. Leopardi, La sera del dì di festa, in Canti, Cernusco s/N (MI) 1996, pp. 40-41

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sono pronti a dare in ogni occasione la patria, la libertà, la gloria e

l’onore”35. Uno Gnomo mandato da Sabazio, l’eterno Dioniso, a

sincerarsi delle condizioni della terra e dell’uomo, incontra un Folletto

il quale gli dice che gli uomini ormai sono tutti morti. Morto l’uomo; e

“le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e

procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse

fatto e mantenuto per loro soli”36. L’uomo credeva che tutte le cose

del mondo fossero fatte solo per lui; come il Folletto crede che fossero

fatte per i Folletti e lo Gnomo per gli Gnomi, ma “ora che ei sono tutti

spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono

stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla

navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi. E le stelle e i

pianeti non mancano di nascere e tramontare, e non hanno preso le

gramaglie”.37 La natura non si commuove all’autosterminio

dell’uomo. Il principio della perdizione, della fine, è lo svegliarsi

dell’intelligenza. La natura è amica solo a chi sta contento della vita

spontanea. Farfanello invocato da Malambruno lo conferma: l’uomo

non potrà mai riconquistare col pensiero la dilettosa piaggia di un

tempo. La vita è un bisogno di un diletto infinito che non potrà mai

esistere, giacché nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che

appaghi il nostro desiderio naturale. Quindi sentire la vita è infelicità,

e se il vivere è sentire, il non vivere è meglio del vivere. Siamo alla

conclusione del primo gruppo delle Operette: la vita non ha valore

perché è senso che ha bisogno del diletto infinito, ma lo sente com’è,

35 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, p. 123 36 G. Leopardi, Operette morali, p. 89 37 Ivi, p. 91

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finito e limitato, e dunque sempre pregno di amarezza e dolore. Il

buco nel cuore infinito dell’anima non sarà mai colmato. Il

proseguimento delle Operette, in conformità a queste premesse, non

può che portare a questa conclusione: il tedio della vita. Ed è questa la

scoperta di ciò che si è andato a cercare nel Dialogo della Natura e

un’Anima: la vita vacua che è la vita piena di ozio e di tedio, è peggio

della morte che è senza senso. “…l’eccellenza delle anime importa

maggiore intensione della loro vita; la qual cosa importa maggior

sentimento dell’infelicità propria; che è come se io dicessi maggiore

infelicità”38; l’uomo essendo di tutti i viventi il più perfetto, è dunque

il più infelice. Ecco il poeta di nuovo di fronte alla morte, che

all’inizio poteva sembrare una colpa dei degeneri nipoti, ma stavolta

pare un destino necessario e inevitabile: la rinuncia all’umanità per

essere liberati dal dolore. La Luna convince la Terra che il linguaggio

degli uomini e relativo solo al loro stato, non ha nessun significato al

di fuori di esso: è privo di fondamento in natura ciò che gli uomini

considerano pregio, e non trovandolo, riconoscono la mera illusione.

Prometeo dunque perde la scommessa fatta con Momo nella nona

operetta: l’uomo avrebbe dovuto essere l’essere perfetto ed invece si

dimostrò selvaggio e incivilito tra antropofagi e suicidi per tedio della

vita. Paga la scommessa e vede a Londra uno sciagurato che uccise

prima i propri figli e poi se stesso, era ricco e stimato a corte, ma è

caduto in disgrazia per il “tedio della vita”. Il Metafisico nega che la

felicità sia vivere, la vera felicità è la morte, morte nella coscienza

38 Ivi, p. 99

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dell’uomo che non conosce altra realtà che non sia natura. Ma non è

pura morte, puro decesso; è la morte nella coscienza umana, quella

sentita, perché si manifesta mentre si è in vita, ossia dolore, tedio,

vuoto interiore. È questa la morte della quale si prende coscienza nella

prima parte, ed è malattia, è il tormento segreto di Torquato Tasso che

ne ragiona col Genio nell’undicesima operetta. L’uomo è prigioniero

della natura, è immerso nella noia che è come l’aria: riempie tutti gli

spazi e non vi è vuoto alcuno. Il vuoto che sentiamo è la malattia, non

è vuoto ma pieno della soffocante tristezza del tedio. L’uomo è

veramente infelice, nell’ultimo dialogo del gruppo tra l’Islandese e la

Natura dove quest’ultima dice che la vita dell’intero universo è un

circolo perpetuo di dolore e distruzione, egli le chiede il perché: “Ma

poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a

poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun

filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima

dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo

compongono?”39 - Si sa come finisce, c’è un doppio finale con sfondo

ironico: prima di aver la risposta l’Islandese muore mangiato dai leoni

che stavano morendo di fame, oppure muore insabbiato diventando un

mausoleo. L’uomo con la sua vita che è sentire poiché ha un’anima,

non ha posto nella natura la quale è il tutto. Perciò l’uomo soffre, la

vita è sofferenza, angosciante e profonda tristezza. Ma le operette non

finiscono così: “M’avveggo ora bene che, spente che siano le passioni,

non resta negli studi altra fonte e fondamento di piacere che una vana

39 Ivi, p. 154

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34

curiosità, la soddisfazione della quale ha pur molta forza di dilettare:

cosa che per l’addietro, finché mi è rimasta nel cuore l’ultima scintilla,

io non potevo comprendere”.40 Il sentimento che rinasce di fronte alla

negazione della verità speculativa ha impedito a Leopardi di fermarsi,

perché sente costantemente e oscuramente questa difficoltà, che non è

stata superata nella prima parte. Il tedio, le disgrazie, servono di

consolazione e riaccendono l’entusiasmo, rappresentano soltanto la

morte, ma gli rendono almeno momentaneamente la vita perduta:

mondo di morti in cui sembra di vivere. Ecco la gloria! Siamo arrivati

all’ultimo gruppo delle operette tracciato dal Gentile. È il premio della

grandezza dei grandi infelici che si rendono conto di questa realtà.

Dunque Leopardi nella tredicesima operetta cerca la realtà di questa

gloria, l’anima sensibilissima e grande, e dunque infelice, è destinata

alla gloria oppure è soltanto un’illusione? Ne Il Parini ovvero della

gloria si dilegua anche questa speranza, la gloria appare come una

mèta irraggiungibile. Quindi non si può fare nemmeno un monumento

della propria infelicità. Dolce morte liberatrice! E questo che si

apprende dalle Mummie di Ruysch, le quali si svegliano per un quarto

d’ora e cantano:

Sola nel mondo eterna, a cui si volve

Ogni creata cosa,

In te, morte, si posa

Nostra ignuda natura;

Lieta no, ma sicura

Dall’antico dolor. Profonda notte

40 G. Leopardi, Epistolario, Firenze 1907, vol. I, pp. 547-48

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35

Nella confusa mente

Il pensier grave oscura;

Alla speme, al desio, l’arido spirito

Lena mancar si sente:

Così d’affanno e di temenza è sciolto,

E l’età vote e lente

Senza tedio consuma.41

È una vita senza sentimento, è la sicurezza che un giorno

saremo liberati dal dolore. Ma prima che ciò avvenga, come vivere?

Come l’Ottonieri, il filosofo socratico. Pacata magnanimità e bonaria

ironia, intendere senza pregiudizi e senza illusioni, far di necessità

virtù. È il vivere da filosofi, oppure come Cristoforo Colombo:

navigare, sfidando il rischio e far la guerra al tedio, finché la morte

non ci liberi. E arriva la gioia: L’elogio degli uccelli. La carica poetica

di questa prosa è notevole, il risveglio della tenerezza e sensibilità allo

spettacolo della natura. Proprio come dice il Gentile: “ Lirica

stupenda, sgorgatagli dal pieno petto, al guizzo d’una immagine lieta e

ridente”.42 E dunque il Gallo silvestre che riaccende la speranza nella

perenne ciclicità del divenire, oltre che la morte ed il tedio, ci sarà

sempre una giovinezza e quindi una speranza: la vita mortale ritorna

sempre dalla notte al mattino, la speranza non muore. Non muore il

sentimento, ovvero finché si è in vita ci sarà sempre, poiché la vita è

prima di tutto sentimento. In quest’eterna ciclicità s’inserisce anche la

penultima operetta del nostro lavoro, il Frammento apocrifo di

Stratone da Lampsaco (non uscì nell’edizione milanese del 1827, che

41 G. Leopardi, Operette morali, pp. 195-96 42 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, p. 137

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36

sarebbe la prima, neppure in quella fiorentina del ’34, ma appena nel

’45 in quella lemonnieriana pubblicata dal Ranieri). La materia è

eterna, rispetto alla quale non solo l’uomo ma anche la Terra sono

destinati a sparire. Tutto ciò che prende forma dalla materia alla fine si

disgregherà, e rimarrà soltanto la materia che si presenterà sotto altre

forme. Questa è la dottrina che Leopardi esprime per bocca di

Stratone, e si avverte un sentimento particolare intorno ad essa, ardita

e triste dottrina, che se non è angosciante o di sfida, rivela l’orgoglio

dell’anima che indaga. E siamo arrivati all’epilogo. Il Dialogo di

Timandro ed Eleandro nella prima edizione delle Operette fu messo al

ventesimo posto, ossia l’ultimo. Dunque nell’edizione milanese del

1827 fu messo come epilogo, in ogni modo non mutò più posizione,

rimase sempre ventesimo anche nell’edizione fiorentina del ’34, ma

terzultimo perché successivamente si aggiunsero altre due operette (Il

Copernico ed il Dialogo di Plotino e di Porfirio); e nell’edizione del

Ranieri quintultimo, che contiene venticinque operette. Timandro è un

ottimista, stima l’uomo e ha fede nell’umanità e nel suo progresso,

critica le dottrine disperate e si oppone al pessimismo dell’autore il

quale è rappresentato da Eleandro. Ma quest’ultimo, si difende

dicendo che non è l’odio che lo spinge, ma l’amore per la verità e

l’intolleranza d’ogni simulazione e dissimulazione. Ma gran danno

ricevono quegli uomini che arrivano alla conoscenza della verità e

perciò esalta il sentimento e quelle fantasie che sono sì illusioni, ma

che danno senso alla vita. La verità fa inorridire, ma ci si eleva al di

sopra dell’universale, e non freddamente. Quindi le parole chiavi sono

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sentimento, amore e cuore: “Sono nato ad amare, ho amato, e forse

con tanto affetto quanto può cadere in un’anima viva”.43 Ed è questa

l’anima di Leopardi, si sente in queste parole; era incline ad amare, ed

anche quando la fredda ragione lo nega, sentiam il sen vibrar ed

aprirsi il petto, si apre il cuore del Poeta di una sensibilità profonda,

delicata e soave. Ogni alto senso e tenero affetto destato dal

sentimento non sarà spiegabile nel mondo della natura dell’Islandese

od in quello della scienza, ma non sarà per questo ignorato, alienato

dal cuore; anzi, ben lungi dall’essere estraniato, questo amore è lo

stesso cuore che batte, che palpita travolto dal mare del sentimento ed

arriva fino in gola, il petto esplode in un’apertura inconcepibile, in una

sensazione indescrivibile. Questo sentimento è amore, è Amore

figliuolo di Venere, l’unico dio a farsi avanti in favore degli uomini

nella prima operetta. Ma solo a coloro che “…fossero sottoposti

all’imperio della Verità”.44 Questo Amore dà “piuttosto verità che

rassomiglianza di beatitudine e restaura tutta la vita umana”.45 Il poeta

reagisce freddamente allo spettacolo dell’acerbo vero e inorridisce, ma

la sua anima è riscaldata dal beneficio divino, dall’amore. Leopardi è

cosciente di quest’infinità che si trova nel cuore, questo sconfinato

universo è l’umanità che è sentimento. E possiamo concludere come

dice Gentile: “Questa coscienza dell’umana grandezza e sovranità

sulla trista natura il Leopardi non smarrì mai; ed è l’anima di tutta la

sua poesia, in cui queste Operette rientrano”.46

43 G. Leopardi, Operette morali, p. 273 44 Ivi, p. 63 45 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, p. 148 46 Ivi, p. 149

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C’è una forma di speculazione filosofica nelle Operette, anche

perché è necessario che ci sia, come abbiamo visto nei capitoli

sull’attualismo. Questa verità che si presenta davanti al Poeta nega il

suo essere infinito, lo fa angosciare e soffrire. Nel subirla però, si

rende conto di quest’infinità che è la sua origine ed essenza, la triste

verità lo carica di amore, perché si rende conto di essere sentimento

infinito. Il Poeta esprime la sua anima, il suo spirito originario, e

questo sentimento deborda come un fiume in piena sopra il secondo

momento della sintesi. La profonda religiosità è dovuta a ciò: si viene

a identificare con l’arte stessa, perché essendo negazione viene

travolta dal sentimento che la ingloba. Il pensiero in questo modo,

rispetto a quello filosofico corrente, è intessuto di soggettività, di

artisticità. La mediatezza del pensiero cala verso l’immediatezza: ed

ecco il sogno. Le Operette morali sono un sogno, quindi non possono

essere considerate se non all’interno di questa visione: c’è una verità

bambina, c’è una forte religiosità e valore morale, ma sono opera

d’arte; la sensibilità ed il sentimento lo denotano più dello stile e della

tecnica. Esce lo stato d’animo di Leopardi più del suo pensiero, la sua

verità è letteralmente travolta da un oceano che è la sua anima

infinitamente sensibile, sempre e profondamente commossa.

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3.2. La poesia di Leopardi

Il Leopardi dunque non è soltanto il poeta degli idilli, è anche

Tristano ed Eleandro; Filippo Ottonieri, Colombo, Copernico, il gallo

silvestre. “È insomma il Leopardi pacato e placato nel sentimento

solenne e religioso del dolore e del mistero e della vanità dell’opera

umana, e pur raccolto nell’intima soavità dell’amore, onde gli uomini

vincono ogni travaglio e gustano una beatitudine divina, ancorché

confusa a certo mistico senso del proprio dissolvimento nella vita

universale”.47 È questa la poesia di Leopardi: la superiore soluzione

del contrasto fatta dal sentimento; la prosa o la poesia, i Canti,

Operette morali, Epistolario, Zibaldone, i problemi di morale,

patriottici, filosofici, esistenziali, o il motivo dell’idillio che vi risuona

all’interno, sono solo elementi del dramma. L’idillio è in ogni modo

alla base della poesia leopardiana, è la sua prima forma, e per renderci

conto del suo significato, di come lo intese Leopardi, rileggiamo

l’Infinito; ma prima ripensiamo A Silvia:

Mirava il ciel sereno,

le vie dorate e gli orti,

e quindi il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

quel ch’io sentiva in seno.48

47 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, p. 187: commemorazione tenuta il 29 giugno 1927 nell’Aula Magna del Palazzo Comunale di Recanati, e pubblicata nel fascicolo giugno-luglio dello stesso anno del periodico Educazione fascista. 48 G. Leopardi, Canti, p. 70

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Invece Leopardi l’ha detto, e si trova tra le parole della stessa

poesia, è l’infinito sentimento che non si lascia definire, ma si fa

catturare dalla poesia, tutta pregna dell’anima del Poeta, e si fa sentire,

è questa l’arte:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è dolce in questo mare.49

Il principio della perdizione è il pensiero, perché con la

riflessione ci si stacca e ci distingue dalla natura. Nel Canto notturno

il pastore dice al gregge:

Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,

tu se’ quieta e contenta;

e gran parte dell’anno

senza noia consumi in quello stato,

Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,

49 Ivi, pp. 37-38

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e un fastidio m’ingombra

la mente, ed uno spron quasi mi punge

sì che, sedendo, più che mai son lunge

da trovar pace o loco.50

Il pensiero e l’ingegno come origine del dolore, finché non

sorgono il pastore s’identifica col gregge e non può domandar nulla

alla luna:

questo viver terreno,

il patir nostro, il sospirar, che sia;

che sia questo morir, questo supremo

scolorar del sembiante,

e perir dalla terra, e venir meno

ad ogni usata, amante compagnia;51

Il pensiero ti stacca dalla vita, ti fa sentire la vanità del tutto

senza trovar mai pace: bisognerebbe scioglierlo nella natura. Ma senza

pensiero non c’è grandezza. Ma qui ne abbiamo due di pensieri: uno è

il momento idillico, che “sente e che crede nell’amore e nella virtù;

che sente e crede nella bellezza della natura e della vita; che spera e

apre l’animo alla gioia delle illusioni, che tali si dimostreranno al

cimento della esperienza, ma che la natura stessa risusciterà sempre

dal fondo del cuore umano a rendere amabile o almeno sopportabile la

50 Ivi, pp. 89-90 51 Ivi, pp. 86-87

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vita”52; e un altro che si prende beffe di quello, lo irride e demolisce

gettandolo nello sconforto e nell’angoscia. Il primo è il pensiero del

fanciullo, del sognatore, della giovinezza, del mattino. La sera invece

è comparabile con la vecchiaia. Più si fa esperienza nella vita e quindi

si pensa, più la speranza si dilegua: il vero si fa sempre più acerbo.

Quanto più il sogno è dolce, tanto più il risveglio sarà traumatico.

Quanto più il primo, tanto più il secondo: ed in questo rapporto sta la

poesia, ecco l’importanza dell’idillio nell’arte di Leopardi. Il dolore è

dunque sempre presente, e viene sempre cantato in tutti gli idilli,

grandi e piccoli, e nelle Operette, in tutta la sua arte; ma il sentimento

deborda, nel cuore trova posto l’infinito. Questo pensiero è gioia e

dolore:

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel; consorte

ai lugubri miei giorni,

pensier che innanzi a me sì spesso torni.53

Il pensiero è dolore, ma che sana le sue ferite con l’arte che vi

ha all’interno: il pensiero pieno di torpore e sollievo che assopisce e

apre il sentimento. “E così ogni cosa che riscaldi la fantasia e rapisca e

sottragga alla realtà dolorosa, libera l’uomo dalla sua pena e lo

consola. - Occupar l’animo, dice il povero Leopardi, e non soddisfar il

52 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, p. 191 53 G. Leopardi, Il pensiero dominante, in Canti, p. 98

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desiderio, ch’è impossibile, ma per una parte quasi distrarlo e

riempirgli la gola con la focaccia di Cerbero insaziabile: questo è il

miglior effetto del piacere umano.- E questo è pure il piacere o

l’incanto prodotto dall’arte, liberatrice e consolatrice per eccelenza”.54

Ed il Poeta sente lo stesso infinito, quel mare in cui gli è dolce il

naufragar, all’interno del suo pensiero e ne celebra la grandezza:

Come solinga è fatta

la mente mia d’allora

che tu quivi prendesti a far dimora!

Ratto d’intorno intorno al par del lampo

gli altri pensieri miei

tutti si dileguàr. Siccome torre

in solitario campo,

tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

Che divenute son, fuor di te solo,

tutte l’opre terrene,

tutta intera la vita al guardo mio!

Che intollerabil noia

gli ozi, i commerci usati,

e di vano piacer la vana spene,

allato a quella gioia,

gioia celeste che da te mi viene!55

Angoscia e gioia, dolore e speranza, freddezza e calore: tutto

in un solo cuore che palpita, freme di commozione, in quest’unione di

opposti è situata la Poesia di Leopardi, è la sua stessa anima.

54 G. Gentile, Frammenti di estetica e di teoria della storia, Firenze 1992, pp. 233-34 55 G. Leopardi, Canti, pp. 99-100

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Conclusione

Lo studio di Gentile sulle Operette morali è del 1916, e lo

spirito attualistico balza subito agl’occhi perché tenta di precisare

l’unità del pensiero leopardiano; e c’è anche una matrice

desanctissiana con l’intento di estrarre il contenuto dalla forma

astratta, per metterlo nella sua corretta e concreta espressione di

contenuto formato. Gentile parte subito con un esame cronologico, ma

l’intenzione è l’opposto: superare i riscontri cronologici per cogliere

l’unità delle Operette. L’unità del pensiero di Leopardi non è una

conquista a cui si giunge con l’assemblaggio di varie parti, l’esame dei

particolari rompe l’unità dell’opera d’arte e a maggior ragione quella

delicatissima e sublime del Recanatese. C’è un ritmo solo nell’animo

di Leopardi, che si esplica in tre momenti i quali, non sono per Gentile

solo quelli che fondano lo spirito dei tre gruppi delle Operette, ma che

caratterizzano invece tutto il pensiero leopardiano, che è poesia. C’è

dunque una spontaneità organica, proprio perché “composte tutte di

seguito in un anno di lavoro felice, furono dall’autore considerate parti

di un solo tutto”.56 Le Operette aggiunte in seguito alla prima edizione

non aggiungono nulla di nuovo alla fisionomia fondamentale. Quindi

c’è il primo momento che è quello di una riflessione amara, poi quello

della presa di coscienza di un pessimismo radicale ed in fine una piena

ripresa morale. Secondo Gentile la vera poesia di Leopardi e quindi il

56 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, p. 114

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vero Leopardi è quello del terzo momento, non in senso cronologico

ma logico-dialettico attualistico, ed è questa l’unità dello spirito del

Poeta. Gentile cerca di mettere la poesia al suo giusto posto, che non è

solo scolastico e accademico, riservata ad un’ elitte ristretta e destinata

ad uno studio tecnico dei particolari; anzi, per essere valorizzata e

salvaguardata veramente come poesia il suo posto è tra gli uomini,

tutti gli uomini, ciò che conta della poesia è il sentimento che è

proprio dell’Umanità. I Canti, come le Operette morali, non sono una

voce ermetica destinata agli addetti ai lavori, ma la voce del cuore.

Gentile cerca l’unità spirituale in campo teoretico ma anche in quello

letterario, e la trova. L’affermazione filosofica del suo neoidealismo,

quella critica ed estetica s’incontrano tutte nei medesimi punti. La

continua sintesi originaria degli opposti è la realtà, mentre i suoi

momenti sono ideali, astratti, non reali se presi singolarmente.

Nell’attualismo l’unità è il pensare, nella critica la creazione

commossa, in Leopardi l’amor vitae, sempre drammaticamente

minacciato dall’acerbo vero, ma il cuore non smette mai di battere, ed

il sentimento supera i limiti verso l’infinito.

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INDICE

INTRODUZIONE 3 1. GENTILE E LEOPARDI 6 2. GIOVANNI GENTILE E LA FILOSOFIA DELL'ARTE 2.1. Il problema dell'arte 12 2.2. Attualità e inattualità dell'arte 19 3. LA FILOSOFIA E POESIA DI GIACOMO LEOPARDI 3.1. Le Operette morali 28 3.2. La poesia di Leopardi 39 CONCLUSIONE 44 BIBLIOGRAFIA 46