DOSSIER SULLA GLOBALIZZAZIONE A CURA DELLA RETE … · Provare a dare una definizione di cosa vuol...

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DOSSIER SULLA GLOBALIZZAZIONE A CURA DELLA RETE LILLIPUT

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DOSSIER SULLA GLOBALIZZAZIONE

A CURA DELLA RETE LILLIPUT

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INDICE Presentazione del lavoro. Rete Lilliput: chi siamo. Cosa vuol dire globalizzazione? Una economia globalizzata: quali problemi?

Globalizzazione e commercio Globalizzazione e finanza Globalizzazione e ambiente

Percorsi per un cambiamento

Strumenti di “desistenza”: Commercio equo Consumo critico Finanza Etica Impronta ecologica

Strumenti di “resistenza”: Acquisti Trasparenti Banche trasparenti e campagna “Banche armate” Tobin Tax Amministrazioni, servizi e ambiente Cancellazione del Debito Una dieta per la WTO Biotecnologie Conclusioni Per approfondire: bibliografia e internet Percorsi didattici

? Temi e problemi della globalizzazione ? La società civile e le nuove sfide della globalizzazione: percorsi

per un cambiamento ? Commercio equo e solidale ? Finanza Etica ? Debito dei Paesi poveri ? Globalizzazione e Ambiente, Risorse e Diritti ? Organizzazione Mondiale del Commercio, Fondo Monetario

Internazionale, Banca Mondiale: chi sono e cosa fanno

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PRESENTAZIONE DEL LAVORO Globalizzazione, una parola che in questi ultimi anni si è sempre più usata, ma di cui non è così semplice capire il senso. Spesso si è sentito dire che la globalizzazione è una cosa che porterà sempre più il mondo verso un futuro migliore per tutti. Altre volte si è sentito dire che è una sorta di mostro da combattere. Difficilmente però i mass media ci hanno messo in condizione di capire che cosa sia, che cosa significhi. Dire che una cosa è bella o è brutta non significa far capire che cosa è. Questo dossier, nel suo piccolo, vuole provare a dare un’idea di cosa significhi globalizzazione, “che tipo” di globalizzazione è in corso nel mondo di oggi, quali sono i principali problemi che crea e quali alcune strade che migliaia di associazioni di tutto il mondo stanno provando a seguire per affrontare questi problemi. Infine vuole fornire un quadro organico dei possibili “percorsi didattici” su queste tematiche che le associazioni operanti a Pavia offrono alle scuole superiori.

RETE LILLIPUT: CHI SIAMO Siamo una rete di persone ed associazioni che si occupano di tematiche legate alla globalizzazione. Probabilmente molti nomi delle realtà che compongono il nodo pavese della Rete Lilliput ti saranno già noti, altri forse meno. Il progetto della “Rete Lilliput per una economia di giustizia” nasce nel 1999, a partire da alcune associazioni e campagne nazionali: Commercio equo e solidale, WWF, campagna Sdebitarsi (la “sezione” italiana di Jubilee2000), Pax Christi, Beati Costruttori di pace, Nigrizia, Manitese e vari altri. L’idea di fondo è quella di costituire appunto una rete (non solo informatica) che colleghi le varie associazioni, campagne e gruppi che in tutt’Italia sono impegnati, ciascuno nel proprio specifico campo, nella lotta “per una economia più giusta”, con particolare accento sui temi legati alla globalizzazione. In tutt’Italia si sono dunque creati i “nodi locali” di questa Rete, che raggruppano le varie associazioni, i gruppi, ma anche le singole persone, che condividono questo impegno. A Pavia fanno parte ad oggi del nodo pavese della Rete Lilliput le seguenti realtà: ACLI, Ad Gentes, Amici dei Boschi, ARCI, AUSER, ATTAC Pavia, Banca Etica, Bilanci di Giustizia, C.A.F.E., Centro DiDi., Coordinamento per il diritto allo studio, Italia-Uganda, Legambiente, Pavia-Senegal, UNICEF, WWF. Un secondo nodo è poi nato attorno ad alcuni gruppi della Lomellina. Perché l’esigenza di collegarsi in Rete.

Scopo della Rete è innanzitutto quello di essere un luogo di condivisione e di crescita per le varie realtà aderenti. In un mondo sempre più globalizzato appare evidente come le varie tematiche siano sempre più strettamente connesse fra di loro: ambiente, debito dei paesi poveri, sfruttamento del lavoro, commercio di armi…: è impossibile affrontarle singolarmente. Proprio per questo è necessaria una “contaminazione dei saperi” fra i vari gruppi. Oltre a questo, obiettivo principale della Rete Lilliput è da un lato quello di informare e sensibilizzare la cittadinanza sulle problematiche ambientali, sui rapporti nord/sud e via dicendo, dall’altro di canalizzare le persone sensibili su iniziative che possano raggiungere anche risultati concreti nella direzione di una economia più giusta.

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COSA VUOL DIRE GLOBALIZZAZIONE ? Provare a dare una definizione di cosa vuol dire globalizzazione non è una cosa semplicissima, e sicuramente è possibile darne ben più di una. E’ ovvio che non stiamo parlando di matematica o di qualcosa di esatto. Una prima cosa da fare è scindere due piani: da un lato che cosa vuol dire il termine globalizzazione, dall’altro “che tipo” di globalizzazione è in atto oggi nel mondo, provare prima a chiarire che cosa significa in senso astratto e in un secondo momento vedere come questo concetto si sta sviluppando concretamente. Proviamo a partire dalla definizione che dà il dizionario della lingua italiana di Devoto-Oli dell’aggettivo globale: “Mondiale, universale. Con particolare riferimento alla nuova dimensione assunta dal pianeta Terra in seguito ai nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, nonché all’affacciarsi di nuove problematiche riguardanti la totalità dei Paesi”. Un punto di partenza utile per capire cosa significa globalizzazione è sicuramente la situazione dei trasporti e delle comunicazioni oggi. A differenza di pochi decenni fa oggi per moltissime persone è possibile da un lato spostarsi rapidissimamente in ogni parte del mondo, dall’altro ricevere informazioni in tempo reale su quanto sta succedendo in ogni angolo del globo. In pratica è come se le distanze, tanto per i trasporti quanto a maggior ragione per le comunicazioni, fossero state fortemente ridotte o praticamente annullate. Questo progresso a sua volta porta a una conseguenza molto semplice, ossia il fatto che tutto il mondo è diventato più interdipendente. Vediamo dunque cosa significa questa parola: “aggettivo. Di entità, fatti o fenomeni che si trovino in rapporto di reciproca dipendenza” (sempre Devoto-Oli). In seguito a questo progresso dunque si può dire che quanto succede in un determinato momento e in un preciso luogo dipende anche da eventi che riguardano il resto del mondo e produce su di essi conseguenze. Si può quindi fornire anche un’altra definizione di globalizzazione, che forse può essere utile a inquadrare in maniera un po’ meno vaga di cosa si tratti: situazione in cui, in seguito al progresso dei mezzi di trasporto e di comunicazione, il mondo è sempre più interdipendente, così che una azione effettuata in un luogo della terra può avere tanto cause quanto effetti su tutto il resto del pianeta. Si potrebbero introdurre tante altre definizioni diverse, ma a questo punto comunque dovrebbe essere chiaro qual è il significato della parola “globalizzazione”. Si tratta di un fenomeno che è conseguenza diretta del progresso, e dovrebbe anche apparire chiaro come di per sé non ha nessuna connotazione positiva o negativa.

Chiarito ora cosa significa globalizzazione dobbiamo però passare a vedere come il mondo oggi è più globalizzato, che tipo di globalizzazione è in atto. Infatti un conto è dire che cosa significhi globalizzazione, un altro è vedere che cosa si fa di questa globalizzazione, come la si usa. Internet può essere usato per scambiare informazioni come per contrabbandare organi, essere interdipendenti può significare lavorare tutti insieme per proteggere l’ambiente o per distruggerlo, vivere in un pianeta globalizzato può significare cercare di garantire gli stessi diritti a tutti gli essere umani così come il contrario. Analizzando che tipo di globalizzazione si sviluppa nel mondo concreto, è ovvio che non bastano più le definizioni; bisogna iniziare a leggere dati, capire da dove nascono e a cosa portano, e via dicendo.

Cercheremo soprattutto di vedere in che modo il mondo si è globalizzato dal punto di vista economico: nel commercio, nella finanza e nell’uso delle risorse naturali del pianeta. Vedremo anche molti dei problemi legati al tipo di globalizzazione in atto. Non in un’ottica di demonizzazione, ma semplicemente perché, se si vuole provare a migliorare – nel nostro piccolo – il mondo in cui viviamo, è dove ci sono dei problemi che dobbiamo agire.

Probabilmente siamo abituati a pensare che l’economia sia qualcosa di incredibilmente complesso e difficile, di cui solo “i tecnici” possono parlare. Un argomento magari noioso, o interessante, a seconda dei punti di vista, ma che comunque non riguarda tutti. Certo, in parte è vero, molte cose sono complesse, ma è altrettanto vero che non stiamo parlando di ingegneria dei materiali, alta matematica o altre questioni

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specialistiche che riguardano solo gli esperti. L’economia è una cosa che riguarda tutti, e molti concetti basilari non sono così complessi, e soprattutto – anche se spesso non ce ne rendiamo conto appieno – ci riguardano direttamente.

Per poter comprendere che tipo di globalizzazione si sta realizzando oggi nel mondo dobbiamo per prima cosa introdurre due concetti molto semplici: liberismo e protezionismo. Molto sinteticamente si può dire che liberismo significa che le merci prodotte in un qualsiasi paese del mondo possono venir vendute ovunque. Viceversa protezionismo significa mettere delle barriere. Fare in modo che in un paese sia favorita la vendita dei prodotti fabbricati in quel paese. Oggi nel mondo si sta realizzando una globalizzazione di tipo decisamente liberista (anche se, per essere precisi, sarebbe storicamente più corretto chiamarla neo-liberista).

E’ una cosa buona o brutta? Proviamo a fare alcuni esempi banali, che possono essere utili per capire una cosa fondamentale, ossia che non è possibile dare delle risposte pregiudiziali e assolute, ed ogni situazione presenta degli aspetti positivi e degli aspetti negativi.

Metà classe faccia finta di essere un paese, chiamiamolo X, e l’altra metà faccia finta di essere un altro paese, Y. Proviamo a vedere un po’ di situazioni diverse.

Esempio 1. Nel paese X tutti quanti coltivano generi alimentari, nel paese Y tutti quanti producono vestiti. Se i due paesi non scambiassero le proprie merci al primo inverno nel paese X morirebbero tutti di freddo. Gli abitanti del paese Y invece non ci arriverebbero neppure al primo inverno, sarebbero già morti di fame molto prima. Sembrerebbe quindi scontata la risposta: evviva il libero scambio che fa tutti più felici! Ma non sempre la realtà è così semplice. Vediamo un altro esempio.

Esempio 2. Nel paese X metà della popolazione è costituita da ottimi agricoltori, l’altra metà produce vestiti, ma non sono molto bravi, fanno vestiti di scarsa qualità e che costano molto. Nel paese Y al contrario metà della popolazione è costituita da agricoltori, che tuttavia non sono molto abili, mentre l’altra metà della popolazione è bravissima a fare vestiti. In una situazione di libero scambio succederebbe che gli agricoltori del paese X sarebbero felicissimi, perché venderebbero i loro prodotti anche nel paese Y, e analogamente sarebbero felici i sarti del paese Y. Al contrario i sarti del paese X farebbero la fame, perché non solo non venderebbero al paese Y, ma non riuscirebbero più a vendere nemmeno ai loro compaesani, e lo stesso succederebbe agli agricoltori del paese Y. Si verrebbe dunque a creare una situazione in cui in entrambi i paesi metà della popolazione sarebbe felice, mentre l’altra metà non se la passerebbe molto bene.

Esempio 3. Nel paese X tutti quanti producono patate e altre materie prime e prodotti semplici, nel paese Y tutti producono macchine, computer, televisori ed altri generi più avanzati. In una situazione di libero scambio cosa succederebbe? Teoricamente tutti potrebbero aver accesso a tutti i prodotti, tanto quelli più semplici quanto quelli più evoluti. Nella realtà però che cosa succede molto spesso? Beh, è semplice: è piuttosto dura che uno con tutta la buona volontà riesca a diventare ricco vendendo patate e comprando computer. Più facilmente riuscirà a malapena a sopravvivere vendendo le sue patate, e limitandosi a sognare il resto, che non potrà mai permettersi. Nelle prossime pagine vedremo in concreto molti aspetti dell’economia globalizzata del mondo di oggi. Questi esempi – anche se banali – sono però fondamentali per capire che non esistono risposte semplici e universali, ma bisogna sempre analizzare le situazioni caso per caso. Per fare un esempio più concreto: una impresa multinazionale che va a produrre in un paese in via di sviluppo talora può essere portatrice di sviluppo, altre volte invece può essere sinonimo di sfruttamento.

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GLOBALIZZAZIONE E COMMERCIO Quando si parla di commercio globale vengono subito in mente le cosiddette multinazionali. Vediamo quindi che cosa sono: si tratta di imprese – anche se sarebbe più appropriato dire conglomerati di imprese – che operano non in un solo stato ma in più paesi, spesso decine quando non centinaia. Questo tanto nella fase di produzione quanto in quella di vendita. Capire quanto sia centrale il ruolo assunto in questi ultimi decenni da queste imprese è molto semplice, basta guardarci addosso. Da dove viene gran parte dei prodotti che mangiamo a colazione? Da dove vengono le materie prime dell’automobile con cui andiamo a scuola? E i vestiti che abbiamo indosso, chi li ha fabbricati, e dove? Il nostro modello di cellulare, in quanti altri paesi lo possiamo trovare? Diceva Martin Luther King: “Prima che tu finisca di mangiare la colazione quest’oggi, tu dipenderai da metà del mondo. Non avremo pace sulla terra finché non avremo compreso questo fatto basilare”. E’ dunque semplicissimo vedere il legame fra globalizzazione e commercio. Ed è altrettanto semplice vedere quali sono gli attori principali: poche centinaia di imprese producono gran parte di ciò che consumiamo, tanto noi italiani quanto gli abitanti degli altri paesi.

Un altro concetto importante da considerare, prima di proseguire, è la centralità del ruolo del mercante (e quindi del denaro) nell’economia. E’ un processo che è iniziato sin dal medio evo, e che in questi ultimi decenni ha raggiunto l’apice dello sviluppo. Le imprese multinazionali sono infatti il corrispondente (anche se su scala incommensurabilmente più grande) del mercante medievale. Nel corso della storia l’economia si è lentamente modificata, passando da uno schema merce-denaro-merce, in cui il denaro era dunque un mezzo per vendere e acquistare (vendo qualcosa, che può anche essere il mio lavoro, anche se detto così può sembrare brutto, per procurarmi i soldi per comprare qualcos’altro), ad uno schema denaro-merce-denaro, in cui è la merce lo strumento (spendo dei soldi per acquistare qualcosa al fine di rivenderlo per ottenere altri soldi). Per noi singole persone spesso è ancora oggi valido il primo schema, ossia il denaro è lo strumento con cui acquistiamo il necessario, per l’impresa multinazionale vale lo schema inverso: si investono dei soldi per ricavarne di più.

Si tratta di un concetto fondamentale per provare a capire i legami fra globalizzazione e commercio. Proviamo infatti ora ad entrare più nel dettaglio di questo schema. Quello che dunque tutte le imprese cercano di fare è ridurre i costi ed aumentare i ricavi; nulla di strano, ed è esattamente ciò che fanno anche le multinazionali. Cosa significa, concretamente, ridurre i costi ed aumentare i ricavi? Da un lato significa cercare di diminuire le spese per la manodopera, le materie prime, lo smaltimento dei rifiuti eccetera, dall’altro cercare di vendere il più possibile e/o al prezzo più alto possibile. E’ la normale logica della ricerca del massimo profitto possibile. Il problema è che questa logica è oggi assolutizzata, e spesso cerca di “dominare” qualsiasi altra logica ed eliminare qualsiasi forma di vincolo. Facciamo alcuni esempi estremi: se non ci fossero dei “vincoli” che lo impedissero (banalmente le leggi nazionali ed il diritto internazionale) il modo più semplice di ridurre al minimo i costi della manodopera sarebbe la schiavitù. O ancora, provate a immaginare una centrale nucleare che riduce i costi di smaltimento dei rifiuti lasciando in giro le proprie propri scorie radioattive.

Vediamo ora concretamente come si è globalizzato il mondo per quanto riguarda gli aspetti legati al commercio. Dapprima vedremo come operano le imprese multinazionali, sia per quanto riguarda la fase di produzione sia per quanto riguarda la fase di vendita. Passeremo quindi ad analizzare brevemente come funziona “il grande mercato globale”, ed infine un tipo di commercio particolare, quello dei “servizi”, ossia di tutto ciò che non è una merce fisica, ma è comunque oggetto di commercio: per fare alcuni esempi telecomunicazioni, banche e assicurazioni, acquedotti, istruzione, sanità.

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DELOCALIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE.

Oggi più che in qualsiasi altro periodo storico i prodotti che consumiamo vengono fabbricati in tutto il mondo, o quantomeno utilizzano materie prime provenienti da vari paesi. E’ dunque avvenuto un processo di “delocalizzazione” della produzione, ossia sempre più imprese – principalmente nel tentativo di ridurre i costi - hanno spostato la fase di produzione delle merci che acquistiamo nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. I settori più “globalizzati” sono principalmente tre: agricolo, estrazione delle materie prime in generale e manifatturiero, ossia le attività che richiedono l’utilizzo di molta manodopera.

Agricoltura: in molti paesi del Terzo e Quarto mondo la produzione agricola è già fortemente orientata all’esportazione da vari decenni, ossia dai tempi del colonialismo. Allora si trattava di una situazione imposta con le armi: l’India, per esempio, doveva produrre il cotone necessario alle fabbriche tessili dell’Inghilterra, vari paesi dovevano fornire cacao, caffè, the, spezie e quant’altro era necessario ai paesi colonizzatori ecc. Dunque in questo campo esiste già da tempo una sorta di “globalizzazione”. Oggi non esistono più le colonie, ma dal punto di vista economico la situazione nel campo agricolo non è cambiata di molto. Le multinazionali agro-alimentari operano in due modi: o direttamente, coltivando i prodotti che finiranno sui nostri mercati in immense piantagioni (alcune piantagioni di banane sono più grandi della provincia di Pavia), oppure indirettamente. In questo secondo caso la produzione è lasciata in mano agli agricoltori locali, che vendono il proprio raccolto a un mediatore, che lo vende a un grossista, che a sua volta lo rivende ad un esportatore, che infine lo vende alla multinazionale, che generalmente è l’unico grande cliente, e che quindi ha pieno potere di determinare il prezzo di acquisto. Quale che sia la strada seguita alla fine il risultato è che del prezzo che noi paghiamo per acquistare una banana solamente il 4-5% - nei casi migliori - va a chi l’ha realmente coltivata.

Materie prime: Gran parte delle materie prime necessarie per produrre quanto consumiamo provengono dai paesi in via di sviluppo. Sicuramente viene subito in mente il petrolio (e quindi la benzina e quasi tutti i combustibili, e la plastica), ma anche moltissimi altri minerali e metalli, legname, ed altro ancora. Anche in questo caso l’estrazione e la lavorazione sono concentrate nelle mani di poche imprese multinazionali, che di fatto determinano il prezzo di mercato di queste materie prime. Tanto per i prodotti agricoli che per le altre materie prime in questi ultimi vent’anni si è avuto un continuo crollo dei prezzi, con il risultato che nonostante il Sud del mondo ne esporti enormi quantitativi ciò non è sufficiente per migliorare le condizioni di vita locali. Per fare un esempio: nel 1980 per acquistare una locomotiva serviva il corrispondente della vendita di 12910 sacchi di caffè, nel 1990 per acquistare la stessa locomotiva se ne sarebbe dovuto vendere 4 volte tanto.

Settore manifatturiero: gran parte delle produzioni che richiedono molta manodopera si sono negli ultimi venti anni spostate verso i paesi in via di sviluppo. Lo stesso è successo anche per le produzioni maggiormente inquinanti, che hanno potuto lì trovare legislazioni più permissive. Tendenzialmente la strategia seguita dalle imprese è stata quella di liberarsi completamente da tutto ciò che concerne la produzione fisica di ciò che vendono. Alcuni esempi? La Nike e quasi tutti gli altri marchi dell’abbigliamento sportivo non producono neanche un calzino, non hanno neanche una fabbrica. Lo stesso la Walt Disney: tutti i gadgets, le magliette e quant’altro non sono prodotti direttamente. La strada seguita è quella di appaltare la produzione ad altre imprese, prevalentemente della Corea del Sud o di Taiwan. A loro volta queste imprese subappaltano nuovamente la produzione ad imprese cinesi, filippine, vietnamite, birmane e di altri paesi in cui la manodopera costa ancora meno, le leggi ambientali sono più permissive, la tassazione è più bassa e via dicendo. Il risultato è che in molti stabilimenti birmani si fa uso di lavoro forzato, ossia di veri e propri schiavi, in Cina la settimana lavorativa è anche di 80 ore, non esistono sindacati, ferie, maternità, permessi per malattia né qualsiasi altra forma di tutela, e via dicendo.

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Certo, spostare la produzione nei paesi più poveri potrebbe anche essere un modo per migliorare la loro situazione. In alcuni casi è successo, ad esempio in Corea del Sud. Si tratta tuttavia di casi assai rari, nei quali è stato decisivo il passaggio di conoscenze, principalmente in ambito tecnologico: oggi la Corea e Taiwan sono tra i principali produttori di computer. Purtroppo invece nella stragrande maggioranza dei casi globalizzazione ha significato distruzione delle economie locali, predazione delle materie prime e sfruttamento del lavoro ai limiti dell’inverosimile. Risulta quindi chiaro che non si tratta di demonizzare la globalizzazione, ma piuttosto di riconoscere i problemi legati a questo tipo di globalizzazione e di cercare strade per affrontarli. IL MERCATO GLOBALE.

Vediamo ora come il mondo si è globalizzato dal punto di vista della vendita e del mercato, provando a metterci nei panni di una impresa multinazionale, per vedere che cosa significa mercato globale. Per prima cosa bisogna capire oggi “chi è il mercato”. Sicuramente il miliardo di abitanti dei paesi sviluppati. A questi vanno poi aggiunti circa due miliardi di persone che di certo non vivono come noi, ma hanno comunque qualche soldo in tasca per acquistare qualcosa. I restanti tre miliardi di persone è invece come se non esistesse: non sono utili né ai processi produttivi, né al mercato, perché sono assolutamente nullatenenti. Si pensi alle baraccopoli africane e dell’America Latina o agli indigeni dell’Amazzonia: per l’economia si tratta solo di un inutile peso.

Le imprese multinazionali, come ogni altra impresa, cercano di vendere il più possibile e ai prezzi più alti possibili. Come si traduce questo concretamente? Nei paesi sviluppati questo si può tradurre con il termine “consumismo”. Ossia lo spasmodico tentativo di creare sempre nuovi “bisogni” nei consumatori. Chiamare questi tentativi pubblicità sarebbe oltremodo riduttivo e fuorviante, la pubblicità è solo un piccolo tassello. Si tratta invece di qualcosa di molto più pervasivo: arrivare a rivoluzionare la scala dei valori comuni, secondo il concetto di: “vali tanto quanto hai”. Se non hai l’ultimo modello di telefonino non vali niente, devi avere il vestito firmato, il lettore DVD eccetera. L’ultima versione di Windows (XP, che sta per “Experience”) non è un prodotto utile, è una “esperienza di vita sensazionale”. Non si cerca più di vendere un prodotto per le sue qualità o per la sua utilità, quella che si cerca di vendere è “un’idea, una sensazione, un’esperienza, un sogno”. L’ultimo modello di Nike probabilmente è comodo e utile quanto quello precedente, o quanto una scarpa “non firmata” (spesso addirittura molte scarpe di marche diverse sono prodotte negli stessi stabilimenti in Cina o Malesia). Quello che si vende è “uno stile di vita”. In America addirittura alcuni ragazzi sono arrivati ad uccidere per procurarsi i soldi per comprare l’ultimo modello di “Air Jordan”.

Diverso è invece il discorso per quanto riguarda l’altro mercato, i due miliardi di poveri concentrati prevalente in Asia ed America Latina. Persone che hanno poco, ma che comunque qualcosa possono spendere. Nel mondo globalizzato anche questo Sud del mondo è diventato un mercato appetibile. Principalmente per le imprese che vendono armamenti (dal crollo del muro di Berlino, nel 1989, sino all’11 settembre 2001 le spese militari dei paesi occidentali sono costantemente scese, e a qualcuno le armi bisogna pur venderle, no?), per le imprese edili, quelle cerealicole e, più in generale, quelle che producono generi di basso costo e a larga diffusione (sigarette, alcool, bibite, latte in polvere, cibi confezionati….). Questa liberalizzazione dei mercati (spesso imposta da istituzioni internazionali quali la WTO, in italiano Organizzazione Mondiale del Commercio) ha spesso avuto conseguenze devastanti nei paesi in via di sviluppo, distruggendo la piccola economia locale. Per fare un esempio: un produttore di grano africano non potrà mai competere con i produttori europei o americani, che dispongono di mezzi tecnologici nettamente superiori, nonché di forti sussidi governativi ed incentivi all’esportazione. Sarà quindi costretto a vendere il suo raccolto sottocosto, con il risultato che si indebiterà, spesso al punto di perdere anche la propria terra e la propria casa. Questo è quanto è successo negli ultimi venti anni a milioni di contadini, che sono andati quindi ad affollare le immense baraccopoli che circondano le principali città dei paesi poveri.

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I SERVIZI COME MERCI.

La globalizzazione in atto oggi ha un’altra caratteristica importante di cui tenere conto, ossia che pone l’economia prima e al di sopra di qualunque altra cosa. Come accennavamo prima si tratta prima di tutto di un discorso culturale, ossia il denaro oggi è al centro della nostra vita, più di quanto lo sia mai stato nella storia. Politica, diritti, società, cultura, scienza, tutto viene dopo. All’ottica del “tutto è merce” non sfuggono neanche i servizi pubblici. Come al solito non si tratta di demonizzare in assoluto questo fatto, ma bisogna valutare di caso in caso. Vediamo due esempi: 1) Fino ad alcuni anni fa in Italia la telefonia era un servizio pubblico, gestito dallo stato e con costi fissati da questo. Oggi tale servizio è passato ai privati, risponde alle leggi del mercato. E non si può certo dire che sia una tragedia, anzi, la cosa ha avuto effetti positivi. 2) Nel 2000 in Bolivia il governo aveva deciso di privatizzare la gestione degli acquedotti, affidandola a privati che hanno subito quadruplicato le tariffe. In un’ottica di mercato nulla di strano, perché le nuove tariffe erano appena sufficienti per coprire i costi di gestione dell’acquedotto. Non si trattava quindi neanche di una operazione effettuata per ottenere chissà quali profitti, era l’aumento minimo per mettersi in condizione di coprire le spese. Nel giro di poche settimane il governo è stato costretto a tornare sui suoi passi da una vera e propria rivolta popolare. Infatti oltre il 50% della popolazione non era in grado di pagare la bolletta e quindi sarebbe rimasto senza acqua potabile.

La filosofia del “tutto è merce, e tutto deve stare sotto la logica del mercato” sta oggi portando a un processo di privatizzazione dei servizi che soprattutto nei paesi in via di sviluppo ha conseguenze devastanti. Basti pensare che in parecchie decine di Stati istruzione e sanità, quando non la stessa acqua potabile, non sono più diritti da garantire, ma semplici “merci” a cui può accedere solo chi ha i soldi per comprarle. MA AI PAESI POVERI, QUESTA GLOBALIZZAZIONE STA BENE?

Gran parte dei governi dei paesi in via di sviluppo non solo accettano questo tipo di globalizzazione, ma fanno addirittura a gara fra di loro per essere “i primi della classe”. Bisogna però ricordarsi che, soprattutto in questi paesi, non è detto che una cosa che vada bene per i governi vada altrettanto bene per la popolazione. In molti paesi africani oltre l’80% della popolazione non può permettersi cure mediche di base, mentre esistono invece cliniche specializzate all’avanguardia, che assorbono gran parte delle spese per la Sanità. Analogamente mancano scuole primarie gratuite, ma spesso esistono collegi e università. Se si visita il centro di Nairobi sembra di essere a New York, mentre in periferia si estendono sterminate baraccopoli. Molti governi fanno a gara fra di loro ad offrire le condizioni più vantaggiose alle multinazionali per venire a produrre nei loro paesi: de-tassazione quasi assoluta, piena libertà di inquinare l’ambiente e di sfruttare il lavoro. Questo sia per ricevere l’appoggio (politico, militare ed economico) dei paesi ricchi, sia per ottenere “valuta pregiata”, ossia dollari, euro, yen. Valuta pregiata che è fondamentale per varie ragioni, più o meno nobili: 1) in molti paesi del Sud la corruzione è un cancro endemico che sembra impossibile da sconfiggere. Dare mano libera alle imprese spesso significa anche riceverne “i ringraziamenti”. Ad esempio si stima che l’ex dittatore del Congo Mobutu abbia sottratto una fortuna del valore di alcuni miliardi di dollari, e di certo non in valuta locale (di quella proprio non sapeva cosa farsene). 2) per acquistare merci dall’estero – tanto strumenti agricoli quanto carri armati o gioielli - servono dollari o altre valute “forti”. 3) i dollari sono indispensabili per pagare le rate del debito estero. Quasi tutti i paesi in via di sviluppo sono infatti pesantemente indebitati, e devono quindi fare di tutto per procurarsi la valuta necessaria a ripagare tale debito ai governi ed alle banche occidentali. Di questo comunque parleremo molto meglio fra poco, affrontando l’argomento “Globalizzazione e finanza”.

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GLOBALIZZAZIONE E FINANZA Come abbiamo già accennato, oggi al centro dell’economia vi è sempre di più il denaro, e non tanto ciò che si produce. In queste pagine vogliamo analizzare due questioni fondamentali: la prima è il problema del debito dei paesi in via di sviluppo, la seconda è il tema della “finanziarizzazione dell’economia”. Apparentemente potrebbe sembrare che si tratti di due temi in qualche modo astratti, “da economisti”. In realtà però non è assolutamente così: vedremo infatti che si tratta di questioni che, almeno in termini generali, sono facilmente comprensibili, ed inoltre hanno un’enorme importanza concreta. I rapporti finanziari fra nord e sud del mondo e più in generale nel cosiddetto mercato globale sono elementi importantissimi da considerare per capire le cause di numerosi problemi reali, che investono milioni di persone in tutto il mondo. IL DEBITO DEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO.

Cosa significa debito estero. E’ il debito che uno Stato ha nei confronti di altri Stati, istituzioni internazionali o banche private. Trattandosi di prestiti e debiti internazionali nella stragrande maggioranza vengono concessi e riscossi in dollari.

Come è nato. Verso la metà degli anni ‘70 le banche occidentali hanno attraversato un momento di enorme disponibilità di liquidità, erano piene di soldi da prestare. La ragione di ciò fu la crisi petrolifera del 1973: in seguito ad essa il prezzo del petrolio quadruplicò, portando nelle casse delle multinazionali petrolifere e dei paesi produttori – e da queste nelle banche - enormi quantitativi di dollari. L’attività di qualsiasi banca – pena la sua stessa sopravvivenza - è quella di prestare il denaro che raccoglie. La ricerca di nuovi clienti spinse quindi le banche a cercare in tutti i modi di prestare denaro ai paesi in via di sviluppo. Da parte loro anche questi paesi erano ben felici di accettare prestiti: il tasso di interesse era basso, ed inoltre sarebbe potuto essere un ottimo modo per finanziare il proprio sviluppo. Fra il 1975 e il 1985 il debito dei paesi in via di sviluppo si è decuplicato, raggiungendo quota 1200 miliardi di dollari nel 1985. Purtroppo però le cose non sono andate come previsto, ed il debito non solo non ha portato sviluppo, ma si è invece trasformato in un macigno al collo delle economie dei paesi più poveri. Le responsabilità di ciò vanno ricercate tanto al Sud, fra chi riceveva quei prestiti, quanto al Nord.

Le principali cause della crisi del debito sono due: il modo in cui sono stati spesi questi soldi ma soprattutto l’aumento vertiginoso dei tassi di interesse. Vediamole ora più nel dettaglio.

Come sono stati spesi questi prestiti. Gran parte di questi prestiti non sono stati utilizzati per far progredire il paese bensì per altri fini molto meno nobili. Circa il 20% è finito in tangenti, tanto ai governi del Sud quanto ai direttori e ai funzionari delle banche e dei governi del Nord. Un altro 30% dei prestiti erogati è stato vincolato all’acquisto di armi (ossia: ti presto i soldi a patto che li utilizzi per comprarmi questa partita di armi). Altre volte i prestiti servivano a sostenere regimi dittatoriali “amici”. Il resto infine troppo spesso è stato speso per progetti faraonici ed infrastrutture inutili alla maggior parte della popolazione.

La “congiuntura” internazionale. Fra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta sono successi due fatti che hanno portato il debito dei paesi in via di sviluppo ad “esplodere” in maniera incontrollabile. Il primo è l’aumento dei tassi di interesse. Da una media del 5% nella metà degli anni settanta i tassi di interessi sono in molti casi diventati superiori al 30%. Negli stessi anni, fra il 1978 ed il 1980, il dollaro è aumentato di valore in maniera spropositata: il suo valore è raddoppiato nei confronti del marco e della sterlina, quadruplicato nei confronti della lira (da 600 lire a 2200 lire) ed addirittura decuplicato rispetto alle valute di molti paesi in via di sviluppo. Questo ha fatto sì che il peso degli interessi sul debito diventasse decisamente insostenibile, con il risultato che gli interessi non pagati si andavano ad assommare al debito precedente, in una spirale impressionante.

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Per capire meglio questo meccanismo, proviamo a fare un esempio.

La “crisi” del debito. Nel 1982 il Messico, seguito a ruota da molti altri paesi, dichiarò che non era più in grado di pagare il suo debito. Questo gettò nel panico la finanza internazionale. Molte banche, che avevano prestato cifre ingenti a questi paesi, sarebbero fallite, e sarebbe stato un durissimo colpo per tutta l’economia mondiale. Per cercare di salvare la situazione intervenne quindi il Fondo Monetario Internazionale (FMI), prestando nuovo denaro ai paesi indebitati, in modo che potessero ripagare le banche, ma allo stesso tempo imponendo a questi paesi una radicale riforma delle loro economie, i cosiddetti “programmi di aggiustamento strutturale”. La filosofia di fondo del FMI è: se uno stato ha un debito da pagare, deve impostare la sua economia in modo da procurarsi i dollari necessari. Concretamente come? Le linee indicate sono: 1) Se uno stato ha bisogno di soldi, per prima cosa deve spendere meno di quello che incassa. Quindi da un lato deve aumentare le tasse, dall’altro tagliare il più possibile la spesa pubblica. 2) Deve destinare tutta la produzione e le terre migliori all’esportazione, in modo da poter usare i dollari ricavati da queste esportazioni per ripagare il debito. 3) Quando possibile deve vendere direttamente terre e imprese a società estere, in modo da poter ripagare i debiti con i dollari incassati (è così che si sono create molte delle piantagioni di cui parlavamo prima). 4) Sempre al fine di esportare di più, deve svalutare ulteriormente la propria moneta e tagliare i salari, in modo che le merci prodotte siano più competitive. 5) Deve invogliare gli investimenti stranieri, che portano valuta pregiata. Quindi le tasse non andranno aumentate alle imprese straniere, che anzi vanno favorite in ogni modo. 6) Deve aumentare i tassi di interesse, in modo da incoraggiare i prestiti allo stato e rimpinguarne quindi le casse.

I risultati di vent’anni di piani di aggiustamento strutturale. In decine di paesi i tagli alla spesa pubblica hanno significato la distruzione di qualsiasi sistema di assistenza sanitaria o di istruzione pubblica. Destinare le terre all’esportazione o venderle ha portato a dipendere completamente dagli aiuti esterni per tutto quanto sia necessario al mercato locale. I salari in molti casi sono scesi al di sotto del necessario per vivere. L’aumento dei tassi di interesse ha bloccato qualsiasi possibile sviluppo dell’economia locale (come fai a chiedere un prestito per avviare una qualsiasi attività se poi devi restituirlo con il 30% annuo di interessi?). Il colmo del danno è che queste misure – come recentemente ammesso dallo stesso FMI - non hanno portato a risolvere il problema, che si è anzi aggravato. Teoricamente esportare di più serve a incassare più dollari e quindi ripagare il debito, ma il FMI impone la stessa strategia a tutti i paesi debitori, che quindi entrano in concorrenza fra di loro. Quindi, se i paesi che fanno a gara ad esportare di più sono moltissimi, per effetto di questa concorrenza spietata si ottiene il risultato opposto. Da vent’anni infatti i prezzi di materie prime e prodotti agricoli sono in costante calo. Un esempio: nel 1988 i paesi in via di sviluppo hanno esportato quasi 4 milioni di tonnellate di caffè, per un valore di 9 miliardi di dollari. Due anni dopo ne hanno esportate 4,6 milioni di tonnellate, per un valore di 6,5 miliardi di dollari.

Proviamo a considerare un ipotetico prestito di 1000 dollari ricevuto nel 1973 dall’Italia (allora 1000 dollari equivalevano a 600.000 lire) con tasso d’interesse del 5%, e osserviamo quale sarebbe stata la sua evoluzione:

Anno Interessi annui in dollari Interessi annui in lire

1973 50 ( tasso 5%) 30.000 (1$=600 lire) 1979 300 ( tasso 30%) 300.000 (1$=1000 lire) 1980 300 ( tasso 30%) 660.000 (1$=2200 lire)

Come si può vedere, il mutamento delle regole del gioco fa sì che i soli interessi annui diventino superiori all’intero ammontare del prestito, rendendo di fatto impossibile il ripagamento del debito.

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Alcuni dati sul debito. Per finire vediamo alcuni dati sul debito e sui suoi effetti, dati che ci fanno capire come non si tratti di un problema astratto ma assai concreto e dalle proporzioni devastanti.

? Nel 1992 il debito estero dei paesi in via di sviluppo ammontava a circa 1500 miliardi di $, tanti quanti ne sono stati versati tra l’82 e il ‘91 come interessi.

? Gli interessi pagati nel solo 1998 ammontano a 296 miliardi di dollari (circa 600 milioni di miliardi di lire).Oggi il debito ammonta ad oltre 2500 miliardi di dollari.

? Mediamente per ogni dollaro ricevuto ne restituiscono 3 come interessi sul debito, con il risultato che oggi è il Sud del mondo a finanziare il Nord.

? Il debito dei 41 paesi più poveri e indebitati è cresciuto del 7,4% l’anno a partire dal 1980, mentre le economie solo dell’1,1% l’anno.

? Il Mozambico spende in interessi 10 volte di più che in assistenza sanitaria. ? Lo Zambia spende 5 volte di più in interessi sul debito che per l’istruzione. ? Secondo stime delle Nazioni Unite 19.000 bambini muoiono ogni giorno per via delle riduzioni

della spesa sanitaria imputabili alla morsa del debito.

FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA.

Il problema del debito è fondamentale per comprendere i rapporti fra Nord e Sud del mondo. Un altro aspetto egualmente importante da vedere è la cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia”. Fino a pochi decenni fa la stragrande maggioranza degli investimenti era legata a qualcosa di concreto: investo 200 milioni per comprare un bar, o per acquistare una piantagione di cocco e via dicendo. Oggi invece oltre il 95% delle operazioni finanziarie (compravendita di azioni e titoli o dei cosiddetti “prodotti derivati”, cambi di valute) non è legato ad alcun investimento concreto. Non si comprano più delle azioni per diventare proprietario di qualcosa, le si comprano solamente per rivenderle ad un prezzo maggiore. Si tratta di operazioni puramente speculative, che spesso sono causa di veri e propri disastri finanziari. Nell’ultimo decennio sono numerosi gli esempi; per citare soltanto gli ultimi: la crisi del Sud-Est asiatico (‘96-‘97), quella della Russia (‘98), e nel 2002 quella argentina. Ma senza andare lontano solo pochi anni fa è stata la stessa valuta italiana, la lira, a essere vittima di un attacco speculativo, che ci ha costretti ad uscire per alcuni mesi dal Sistema Monetario Europeo (in qualche modo il predecessore dell’Euro) ed è costato allo Stato (e quindi alle nostre tasche) parecchie decine di migliaia di miliardi.

Cosa sono queste “crisi finanziarie”. Facciamo due semplici esempi per provare a capire a grandi linee di cosa si tratta. 1) Supponiamo che all’improvviso chi gestisce grandi fondi di investimento non voglia più avere euro, e li cambi tutti in dollari. La legge della domanda e dell’offerta farebbe crollare il valore dell’euro, con il risultato che tutti gli europei sarebbero più poveri, comprare all’estero sarebbe carissimo, eventuali debiti in valute estere diventerebbero più grandi e così via. Questo è quanto successo alcuni anni fa alla lira. 2) Nel 2000, stando alle quotazioni di borsa, la banca BIPOP valeva più della FIAT. Provate a chiedere alla famiglia Agnelli se è d’accordo nel fare cambio, cedere la FIAT in cambio di BIPOP. E’ un chiaro esempio di come spesso una cosa sia l’economia “reale” ed un’altra i giochi speculativi. Un esempio di crisi finanziaria è quello che è successo nel 2002 in Argentina. All’improvviso tutti gli investitori internazionali hanno ritirato i propri soldi dal paese, causando la chiusura di numerosissime imprese (e conseguente disoccupazione) e lasciando l’intero paese senza denaro, scatenando la crisi di cui probabilmente avrete sentito parlare per parecchio tempo nei telegiornali e sui giornali.

Paradisi fiscali. Un altro problema legato alla facilità con cui oggi viaggia il denaro è quello dei paradisi fiscali. Si tratta di piccoli paesi che offrono alle imprese che vi hanno sede detassazione quasi totale ed assoluta riservatezza, ossia la garanzia che nessuno potrà scoprire chi è il proprietario dell’impresa. Si stima che “passando” da questi paesi ogni anno vengano riciclati svariati miliardi di dollari di “denaro sporco”, oltre a venir evase tasse per cifre ancora maggiori.

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GLOBALIZZAZIONE E AMBIENTE Che l’uomo ha un impatto enorme sull’ambiente dovrebbe essere evidente a tutti. Vorremmo ora brevemente provare a vedere nell’ordine: 1) Quali sono le maggiori problematiche ambientali oggi. 2) Quanto grandi siano le ripercussioni dei danni ambientali tanto nel presente quanto nei confronti delle generazioni future. 3) Come la globalizzazione neoliberista abbia influito sull’acuirsi di queste problematiche. Le maggiori problematiche ambientali di oggi.

Deforestazione. Si tratta di un problema in realtà non nuovo. Oggi nel mondo ogni 3 secondi viene deforestata un’area grande quanto un campo da calcio. Una superficie inferiore a rispetto a vent’anni fa, ma solo perché ormai sta terminando la “materia prima”: basti pensare che oggi l’Amazzonia è ridotta a circa il 7% della sua estensione originale.

Desertificazione. Il deserto (principalmente quello del Sahara, ma non solo) avanza ad un ritmo impressionante. Le cause sono molte: l’eccessivo sfruttamento dei terreni circostanti, i mutamenti climatici, l’esaurimento delle scarse risorse idriche circostanti. Gli ultimi dati dicono che in Africa, per colpa della desertificazione, ogni anno sparisce il 3,5% della terra fertile.

Effetto serra, piogge acide e buco dell’ozono. Negli ultimi decenni ha assunto poi una dimensione sempre più rilevante l’inquinamento atmosferico. Si stima che nei prossimi decenni, a causa dell’emissione dei cosiddetti “gas serra” (principalmente derivanti dagli idrocarburi, ossia dai tubi di scappamento delle nostre automobili, dal riscaldamento delle abitazioni e dalle ciminiere delle fabbriche), la temperatura media della Terra possa aumentare anche di 3-4 gradi, con conseguenze inimmaginabili.

Rifiuti. Un altro problema che assume sempre maggior rilevanza è quello dei rifiuti, tanto solidi quanto liquidi. L’impatto sempre crescente dell’uomo sul pianeta si traduce anche in un moltiplicarsi dei rifiuti prodotti, che si ammassano tanto in discariche (regolari e non) quanto nei fiumi e nei mari.

Emergenza acqua. Anche se ai nostri occhi non appare forse così evidente, dal momento che viviamo in una regione estremamente fortunata sotto questo punto di vista, quello dell’acqua potabile è oggi uno dei principali problemi ambientali, e sempre più lo diventerà in futuro. L’80-90% delle risorse idriche vengono utilizzate per l’irrigazione, e di queste circa il 60% si perde per evaporazione; solo il 3,5% circa dell’acqua disponibile viene consumato per usi domestici. L’agricoltura intensiva, che rappresenta il metodo di produzione agricola più diffuso su scala mondiale, necessita di ingenti quantitativi d’acqua, che aumentano ulteriormente nelle monocolture e nelle coltivazioni a forte dipendenza chimica; inoltre gli attuali metodi d’irrigazione comportano un enorme spreco, con serie conseguenze per quanto riguarda la salinizzazione, la desertificazione e l’impoverimento dei terreni. Un altro problema è che oltre un terzo delle acque industriali di rifiuto viene immesso nei bacini idrici senza alcun trattamento di depurazione, e molte legislazioni nazionali rispondono a ciò semplicemente aumentando i limiti di tollerabilità delle sostanze nocive disciolte nell’acqua. Infine la cattiva manutenzione delle reti idriche comporta perdite in percentuali anche superiori al 60% nel percorso tra la fonte e gli utenti. Clima e società: problemi di oggi e per il futuro.

La deforestazione pone già oggi molti seri problemi. Un primo problema è la perdita di biodiversità: sono migliaia le specie animali e vegetali che si sono estinte in questi ultimi decenni, e sempre più ecosistemi sono a rischio. Altro problema rilevante è quello del deterioramento del suolo: sempre maggiore è la superficie “urbanizzata” e quindi improduttiva. La deforestazione è spesso anche causa di mutamenti climatici regionali che portano alla desertificazione. Infine contribuisce in maniera pesante all’aumento dell’effetto serra. E’

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infatti risaputo che le foreste sono “il polmone” della terra, sono loro che assorbono gran parte dell’anidride carbonica che produciamo in maniera sempre crescente. Deforestazione, desertificazione, esaurimento delle risorse idriche e conseguenti carestie sono fonte poi di un altro problema sociale che sta assumendo dimensioni sempre crescenti, ossia quello dei “profughi ambientali”. Ogni anno milioni di persone sono costrette ad abbandonare la propria terra: già oggi i profughi ambientali hanno superato in numero i profughi di guerra.

Per capire l’entità del problema, limitiamoci a considerare il solo problema dell’acqua. Attualmente, nel mondo, 1,4 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, mentre sono circa 2,5 miliardi quelli che non hanno accesso alle strutture igieniche elementari. Tali dati sono destinati a peggiorare: le previsioni più accreditate parlano, per il 2020, di 3 miliardi di individui non raggiunti dalla rete idrica. A determinare questo peggioramento non concorre esclusivamente l’aumento demografico, ma anche una serie di fattori di natura politica, economica e culturale che, negli ultimi decenni, hanno determinato un progressivo deterioramento sia quantitativo che qualitativo delle risorse idriche. Globalizzazione e ambiente.

Mai nella storia quanto oggi l’ambiente subisce l’impatto dell’attività umana. In economia oggi esiste una sorta di imperativo categorico: crescita. La borsa deve crescere, il prodotto interno lordo (PIL) deve crescere, bisogna rilanciare i consumi, aumentare la produzione e via dicendo. Una sorta di “mito dello sviluppo illimitato”. Il problema è che questo ragionamento, teoricamente possibile se si parla di denaro, è privo di fondamento quando si parla di economia concreta, di beni materiali.

La Terra non cresce, ha dei suoi limiti fisici ben determinati: è in grado di assorbire una certa quantità di anidride carbonica, una quantità limitata di rifiuti e via dicendo, le risorse idriche si rigenerano con i loro ritmi così come tutte le altre risorse naturali. Oggi in molti settori abbiamo già superato ampiamente la “capacità di carico” del pianeta. Purtroppo globalizzazione oggi non significa quasi mai decidere insieme come restare entro questi limiti, ma significa piuttosto liberalizzare e globalizzare la possibilità di sfruttare le risorse naturali e di emettere rifiuti. Anche le risorse ambientali oggi sono considerate una merce, e sono quindi regolate dalle logiche del libero mercato globale. Petrolio, legname, minerali, qualsiasi risorsa viene sfruttata semplicemente in base alle richieste del mercato, senza tenere in alcun conto i limiti fisici da rispettare per non danneggiare in maniera irreparabile il pianeta.

Un caso particolarmente emblematico è quello dell’acqua potabile. Probabilmente nel nostro immaginario crediamo che l’acqua sia una risorsa tendenzialmente inesauribile e di facile reperibilità; purtroppo, come abbiamo appena accennato, non è così. L’eccessivo sfruttamento ha determinato il progressivo assottigliamento delle risorse idriche mondiali. Come conseguenza di ciò (semplice legge del mercato: se l’offerta diminuisce, il prezzo sale e quindi la merce vale di più) l’acqua è diventata una merce preziosa, da controllare, gestire, acquistare, vendere ecc. Gli organismi internazionali (principalmente Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione Mondiale del Commercio) negli ultimi anni hanno dato il via ad un programma di privatizzazione globale della gestione dell’acqua, inserita in un regime di libera concorrenza. In pratica si è verificata quella che è stata chiamata “petrolizzazione dell’acqua”.

Ora, sicuramente è vero che vanno combattuti gli sprechi e bisogna aumentare sensibilmente l’efficienza nella gestione dell’acqua, ma considerare l’acqua come una merce qualsiasi è senza dubbio una cura di gran lunga peggiore del male. Trattandosi di un diritto inalienabile non dovrebbe neanche lontanamente essere ipotizzabile l’idea che può avere l’acqua potabile solo chi può permettersela. Non è un caso che in Bolivia su questo tema sia scoppiata una rivolta (vedi pag. 9): senza acqua banalmente non si vive.

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PERCORSI PER UN CAMBIAMENTO Fino a questo punto abbiamo visto una panoramica dei principali problemi legati al modello economico ed alla concezione di sviluppo oggi predominanti. Vogliamo ora provare a vedere alcuni possibili strumenti per cercare di risolvere o quanto meno limitare questi problemi. Lo scopo non è solo quello di mostrare le iniziative e i canali attraverso cui migliaia di associazioni italiane (ma anche del resto del mondo) cercano di affrontare queste problematiche, ma è anche quello di cercare di sfatare una preoccupazione che presumibilmente è presente in tutti noi, ossia che di fronte a problemi tanto grandi noi non possiamo fare niente. Nulla di più falso. E’ vero, siamo piccoli, possiamo incidere poco, ma qualcosa possiamo fare. Ciascuno di noi da solo può fare poco, ma vedremo come, se siamo in tanti a prenderci a cuore questi problemi e a cercare di affrontarli, i risultati arrivano e sempre più arriveranno. Semplificando, possiamo individuare due “categorie” di possibili azioni per un cambiamento, vale a dire “azioni di desistenza” e “azioni di resistenza”. La parola “desistenza” vuole indicare la strategia del “sottrarre spazio” ai meccanismi economici tradizionali, desistere nel senso di levare il nostro sostegno ai processi iniqui che generano le problematiche che abbiamo visto nelle pagine precedenti, optando invece per l’utilizzo di strumenti e logiche radicalmente diversi. Creare delle “nicchie” di economia alternativa, degli strumenti che consentano di effettuare tanti piccoli gesti quotidiani secondo principi di giustizia. Sono i percorsi di alternativa che vedremo fra poco: commercio equo e solidale, consumo critico, finanza etica, riduzione dell’impronta ecologica individuale. La parola “resistenza” vuole invece indicare il tentativo di cambiare e migliorare le regole del gioco, cercare di porre dei freni ai meccanismi di questo sistema economico che più causano sfruttamento ed ingiustizia. Campagne di pressione sulle imprese multinazionali che si comportano peggio, campagna per la cancellazione del debito estero, riforma delle istituzioni internazionali, introduzione di regole comuni (e soprattutto rispettate) in campo ambientale e via dicendo. Si tratta di due percorsi fra di loro complementari: non è pensabile né saggio credere che si possano sostituire le multinazionali con il commercio equo o più in generale che gli strumenti “alternativi” possano sostituire l’economia tradizionale. Sono invece utilissimi appunto come alternativa “etica” e come “pungolo” per spingere al miglioramento il sistema economico tradizionale, per costringerlo ad affrontare i problemi che genera. Strumenti di “Desistenza” e di “Resistenza”, una breve panoramica.

Argomento Strumenti di “Desistenza” Strumenti di “Resistenza”

Commercio ? Commercio equo (p. 16) ? Consumo critico (p. 17) ? Acquisti Trasparenti (p. 20)

Finanza ? Finanza Etica (p. 18) ? Banche Trasparenti (p. 21) ? Banche Armate (p. 21) ? Tobin Tax (p. 22)

Ambiente ? Impronta ecologica (p.19) ? Amministrazioni, Servizi e Ambiente (p. 23)

Generale ? Cancellazione del Debito (p. 24) ? Una dieta per la WTO (p. 25) ? Biotecnologie (p. 26)

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COMMERCIO EQUO E SOLIDALE Il commercio equo e solidale è un canale di acquisto alternativo per gran parte dei generi alimentari e artigianali che provengono da quei paesi che vengono eufemisticamente definiti “in via di sviluppo”. Nasce per dare una risposta ad una precisa necessità di molti gruppi di artigiani e contadini di quei paesi: trovare dei canali di vendita che gli permettano di portare avanti la loro attività e di vivere dignitosamente. In Africa, Asia ed America Latina gruppi di contadini ed artigiani si sono da tempo organizzati in piccole associazioni o cooperative, con lo scopo da un lato di evitare di perdere la terra e finire a lavorare come braccianti in qualche latifondo, dall’altro di organizzarsi per riuscire a vendere i propri prodotti a un prezzo dignitoso. Il commercio equo nasce in Olanda oltre 30 anni fa, con lo scopo di acquistare ad un prezzo equo i prodotti di queste cooperative e rivenderli qui in Europa. In Italia è presente da circa 15 anni. Si tratta di una rete di associazioni non a fini di lucro che gestiscono le cosiddette “Botteghe del mondo”, ossia negozi in cui è possibile comprare questi prodotti. Non si tratta di una forma di beneficenza o di assistenzialismo, ma di una nuova forma di scambio solidale, in cui nessuna delle parti viene defraudata o sfruttata.

COMMERCIO EQUO: I CRITERI 1. Si scelgono gruppi di produttori con scarse possibilità di accesso al mercato tradizionale e gestiti in maniera democratica. 2. Nessuna discriminazione razziale o di altro tipo nella scelta dei produttori ed all’interno dei loro gruppi. 3. Rispetto dell’ambiente e protezione dei diritti umani, in particolare di donne e bambini, rispetto dei metodi di produzione tradizionali che favoriscono lo sviluppo economico e sociale. 4. Con i produttori si creano relazioni stabili e di lunga durata. 5. Si acquista direttamente da tali gruppi, evitando le speculazioni degli intermediari. 6. Il prezzo equo è calcolato in base al costo delle materie prime e della manodopera, ed in modo da permettere il mantenimento della famiglia, evitando così il lavoro minorile. 7. Prefinanziamento, ossia pagamento anticipato della merce. In questo modo si evita che i produttori siano costretti ad indebitarsi per comprare le materie prime. 8. Trasparenza dei prezzi, informando il consumatore sulla composizione del prezzo di ciò che acquista, in particolare sul prezzo effettivo ottenuto dal produttore.

I NUMERI - In Italia sono presenti circa 380 Botteghe del mondo, in Europa quasi 4000. - Sono presenti sia generi alimentari (caffè, cacao, miele, zucchero, the..) sia artigianato (cestini, vasi, bicchieri, borse, portafogli, incensi, saponi…). - Si stima che i produttori che riescono a vendere i loro prodotti tramite i canali del commercio equo e solidale siano circa 1 milione, numero che sale a circa 6 milioni contando anche le loro famiglie.

A PAVIA

Nella nostra provincia sono presenti tre botteghe di commercio equo: Ad Gentes – via Teodolinda, 16 – Pavia. CAFE – corso Garibaldi, 22 – Pavia Macondo – corso Garibaldi, 44 - Vigevano

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CONSUMO CRITICO Ovviamente il commercio equo è solo uno strumento parziale, non esiste una “alternativa” per tutto ciò di cui abbiamo quotidianamente bisogno. Per spiegare cosa significa “consumo critico” proviamo per prima cosa a ragionare su quali sono i fattori che ci influenzano nel momento in cui scegliamo di comprare qualcosa. Sicuramente tutti quanti guardiamo il prezzo. Se vogliamo fare un buon acquisto anche la qualità, ad esempio non è bello comprare una scarpa che dopo due mesi è da buttare. Probabilmente ci sono poi altri fattori: la pubblicità, la moda, più in generale se quello che stiamo comprando “ci piace”. C’è però una cosa a cui difficilmente guardiamo, ossia la “storia” del prodotto. Certo, se ci chiedessero: “secondo te quella scarpa è nata su questo scaffale?” risponderemmo sicuramente di no, ma di fatto per noi è come se fosse così. Non siamo abituati a chiederci qual è la sua storia, è una domanda talmente insolita che probabilmente suona strana soltanto a sentirsi. Consumo critico significa imparare a far rientrare anche la sua storia fra i criteri in base a cui preferiamo un oggetto a un altro. Si tratta di imparare ad aprire gli occhi ed assumerci le nostre responsabilità: se compriamo un pallone fatto sfruttando il lavoro minorile, col nostro acquisto noi avalliamo tale comportamento, contribuiamo a far sì che sia possibile. Non chiedercelo e non pensarci sicuramente può essere utile per non farci sentire in colpa, ma di certo non a cambiare le cose. Forma estrema di consumo critico è il boicottaggio, ossia la decisione di non acquistare i prodotti di aziende che si comportano particolarmente male (ad esempio che violano i diritti umani, sfruttano il lavoro minorile o altro).

UN ESEMPIO: LA CAMPAGNA DEL MONTE Un esempio lampante di come i consumatori possono agire per tentare di modificare il comportamento delle imprese è sicuramente la campagna sulla Del Monte, svoltasi nel corso del 2000. Del Monte produce in una piantagione in Kenya (a Thika, per la precisione) ananas in scatola che poi vende in Italia, principalmente attraverso i supermercati COOP. In seguito a segnalazioni di una organizzazione per i diritti umani keniota si è venuto a sapere (e verificato) che le condizioni di lavoro in questa piantagione erano a dir poco sconcertanti, sotto vari punti di vista. Il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, una associazione di Pisa, ha quindi organizzato una campagna di pressione per far cambiare i metodi di gestione della piantagione. Migliaia di consumatori italiani hanno mandato delle cartoline sia alla Del Monte Italia sia alla COOP, chiedendo a quest’ultima di esigere da parte di Del Monte il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori nelle piantagioni come condizione per continuare ad acquistarne i prodotti. Questa forma di pressione nel giro di pochissimi mesi ha convinto Del Monte internazionale, onde evitare un boicottaggio e soprattutto un grosso danno di immagine, a cambiare l’intera direzione della piantagione in Kenya e ad accettare in pieno le richieste della campagna.

UNA GUIDA PER GLI ACQUISTI Per sapere come si comportano le varie imprese esiste una “Guida al Consumo Critico”, che analizza il comportamento di quasi tutte le principali imprese.

Trasporto e Tasse

5%

Pubblicità8,5%

Progettazione11%

Margine del

Marchio13,5%IVA

20%

Margini distribuzio

ne30%

Altri costi produzione

1,6%SALARI

0,4%

Margine Fabbrica

2%Materie prime8%

PREZZO DI UN PAIO DI SCARPE DA GINNASTICA

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FINANZA ETICA Abbiamo appena parlato di commercio equo e solidale e di consumo critico. Proviamo a fermarci un attimo a riflettere: qual è lo spirito di fondo di questi ragionamenti? Quale la considerazione fondamentale che sta alla base? In breve: aprire gli occhi, imparare a non dare nulla per scontato, capire come molti dei gesti che compiamo tutti i giorni senza pensarci (comprare un paio di scarpe piuttosto che di patatine, ad esempio) NON sono gesti “neutri”, vanno fatti con la necessaria consapevolezza. Lo stesso ragionamento si può applicare anche al campo della finanza, ai soldi. Tutti voi o avete già un conto corrente in banca, o lo avrete nei prossimi anni. O magari avete da parte dei buoni postali che vi hanno regalato i parenti da piccoli. I vostri genitori probabilmente avranno qualche assicurazione, o quote in un qualche fondo di investimento. E via dicendo. Ora, proviamo a porci una domanda simile a quella che ci siamo posti parlando di consumo critico: che cosa fa la banca con i nostri soldi? Anche questa probabilmente è una domanda talmente strana che “suona male” solo a sentirsi. Quando dobbiamo decidere che cosa fare dei nostri risparmi, che cosa siamo abituati a chiedere alla banca o all’istituto in cui vogliamo depositarli? Sicuramente quanto ci fruttano. Magari consideriamo anche i servizi che ci offrono, la comodità della sede, se gli impiegati ci sembrano cortesi, ma quando mai ci chiediamo a chi andranno realmente a finire i nostri soldi, a chi li daranno? Siamo abituati a non pensarci, ma ciò non toglie che – anche se indirettamente – siamo corresponsabili di quello che verrà fatto con i nostri risparmi. Ci piacerebbe sapere che sono stati usati per finanziare la vendita di armi in qualche conflitto? Probabilmente no, ma è un problema che non ci poniamo. Si tratta dunque di acquisire questa consapevolezza e agire di conseguenza. Quali sono alcuni dei principali “problemi” delle banche tradizionali? Semplificando si può dire che: 1) Principalmente finanziano chi ha già e non chi ha realmente bisogno, infatti si possono ottenere prestiti solo se si hanno delle precise garanzie patrimoniali (una casa da ipotecare, uno stipendio fisso ecc.). 2 ) Le banche per lo più sono mosse solo dall’ottica della ricerca del massimo profitto, con il risultato che in moltissimi casi finanziano imprese o effettuano operazioni che mai e poi mai vorremmo fossero fatte coi nostri soldi. 3) Mancano nella maniera più assoluta di trasparenza, ed è dunque impossibile sapere come hanno impiegato il nostro denaro.

Analogamente a quanto fatto con il commercio equo e solidale, si sono dunque creati da alcuni anni altri strumenti finanziari che cercano di offrire delle alternative a questo sistema. Due esempi molto importanti sono le M.A.G. e la Banca Popolare Etica. Le prime M.A.G. (Mutua Auto Gestione) sono sorte oltre 20 anni fa. Si tratta di cooperative finanziarie non a fini di lucro, che con le quote di capitale versate da chi si associa finanziano progetti in vari settori: cultura, ambiente, cooperazione internazionale, assistenza ad anziani, tossicodipendenti o disabili, micro-credito a chi vuole aprire nuove attività in qualche modo “socialmente utili”. Negli ultimi anni è nata poi una vera e propria banca “alternativa”, la Banca Popolare Etica. Si tratta di una banca a tutti gli effetti: si può aprire un conto corrente, avere bancomat e carta di credito, operare via internet e quant’altro. La differenza sta nei criteri secondo cui opera: 1) Non si finanzia solo chi ha una casa da ipotecare o altro, ma anche chi ha solo delle buone idee e voglia di fare 2) Si finanziano solo imprese e progetti in qualche modo “socialmente utili” 3) Massima trasparenza. Chiunque infatti può vedere, anche sul sito internet della Banca, l’elenco di tutte le realtà e progetti finanziati.

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IMPRONTA ECOLOGICA Un ragionamento simile a quello fatto per i consumi (parlando di commercio equo e di consumo critico) e per il denaro (finanza etica) si può fare anche per quanto concerne l’ambiente. Come abbiamo accennato esiste purtroppo una sorta di “mito dello sviluppo illimitato”: che il PIL deve crescere è un dogma, e non cresce mai abbastanza, i consumi vanno obbligatoriamente rilanciati. Anche il termine “sviluppo sostenibile” per lo più viene interpretato secondo questi schemi mentali, con ragionamenti del tipo: “l’economia deve crescere, bisogna produrre di più, rilanciare i consumi, ma cerchiamo di fare in modo che questo danneggi l’ambiente il meno possibile”. Ora, questa visione va completamente ribaltata. Non c’è nessuna ideologia dietro questa affermazione, solo la fisica ed un briciolo di buon senso. Esistono dei precisi limiti, che ci sono imposti dal mondo su cui viviamo. Limiti che riguardano tanto le risorse che possiamo utilizzare quanto i rifiuti che possiamo produrre. Bisogna quindi iniziare a ragionare in maniera opposta: possiamo prelevare tot risorse, produrre tot rifiuti, vediamo quindi come lavorare al meglio restando entro questi limiti. Hai idea di cosa succederebbe se i cinesi o gli indiani si mettessero tutti ad andare in macchina come noi italiani? Forse diremmo che si sono sviluppati, ma da lì a vent’anni al massimo tutte le volte che apriremo la bocca o il naso per respirare, per non parlare dei mutamenti climatici, avremo decisamente poco di cui gioire.

Uno strumento utile per iniziare a ragionare in questa prospettiva può ad esempio essere quello della “impronta ecologica”, un indicatore che ci permette di calcolare “quanto pesiamo sul mondo”. Per capire di cosa si tratta proviamo ad immaginare di mettere una città sotto una gigantesca cupola trasparente, che lascia entrare la luce solare ma non lascia passare nient’altro. E’ facile capire che in pochi giorni gli abitanti di questa città farebbero una brutta fine, l’unico dubbio è se morirebbero prima di fame o di sete, soffocati dai gas o sommersi dai rifiuti. Proviamo allora ad allargare questa cupola, di modo che contenga non solo la città, ma anche una certa area di “terreni produttivi”. Cosa dobbiamo mettere sotto questa cupola affinché gli abitanti all’interno vivano in una situazione di sostenibilità? Serviranno dei campi e dei pascoli, per produrre il cibo necessario, delle foreste, sia per fornire la carta ed il legname sia soprattutto per assorbire l’anidride carbonica, e via dicendo. Definiamo impronta ecologica della città la superficie di terra che è stato necessario mettere sotto la cupola per far sì che il “sistema cupola” sia sostenibile, ossia possa durare nel tempo. Questo ragionamento si può ripetere anche a livello di singolo individuo, con un ragionamento del tipo: quanta natura consumo? Esistono delle apposite tabelle che convertono i nostri consumi in aree di natura necessarie per fornire le materie prime e l’energia e per assorbire i rifiuti. Parlando di consumo critico abbiamo imparato a guardare “la storia” di ciò che acquistiamo, l’impronta ecologica può essere uno strumento per vederne anche “il peso”, che impatto ha sull’ambiente.

Alcuni dati sull’impronta ecologica. Se proviamo a dividere la superficie produttiva del pianeta per il numero dei suoi abitanti, scopriamo che mediamente ogni persona avrebbe diritto ad avere una impronta ecologica di 1,7 ettari. Oggi l’impronta ecologica media del mondo è invece di 2,3 ettari pro capite, ossia circa il 30% in più. Questo indica che già oggi abbiamo oltrepassato i limiti: utilizziamo più risorse e produciamo più rifiuti di quanto il pianeta possa sostenere.

IMPRONTA ECOLOGICA PRO-CAPITE DI ALCUNI PAESI (in ettari)

USA 9,6

Australia 6,9

Olanda 5,7

Francia 5,3

Italia 4,2

Brasile 2,2

Cina 1,6

India 0,8

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ACQUISTI TRASPARENTI Quando acquistiamo un qualsiasi prodotto ci viene detto quanto costa, se si tratta di generi alimentari o medicinali ci viene poi detta la composizione, cosa c’è dentro. Quella che non ci viene mai raccontata è la sua storia, dove e in che condizioni è stato prodotto. Abbiamo parlato di consumo critico, ma per poter essere consumatori critici è ovviamente indispensabile avere le informazioni necessarie. Oggi questo è possibile solo in seguito a lunghe indagini. La stesura e l’aggiornamento della guida al consumo critico (una sorta di manuale che racconta i comportamenti di alcune centinaia di imprese) è costata e costa tuttora una fatica incredibile, un lavoro quasi da 007. Una battaglia importante da portare avanti è il tentativo di imporre alle imprese di essere trasparenti, di fornire ai consumatori anche questo tipo di informazioni. Nel 1999 è stata condotta una campagna, che purtroppo non ha finora avuto buon esito, per chiedere che per legge le imprese, oltre al bilancio economico, siano tenute a presentare anche un bilancio socio-ambientale, ossia fornire una serie di informazioni: se producono direttamente ciò che vendono o subappaltano la produzione ad altre imprese, in che condizioni lavorano i dipendenti dei loro stabilimenti o di quelli che producono per loro conto, che impatto ha sull’ambiente la loro produzione e via dicendo.

Le richieste della campagna erano tre: ? Che le imprese di una certa dimensione venissero obbligate a redigere annualmente un rapporto sugli aspetti sociali ed ambientali della loro produzione, sia per quanto riguarda le fasi della produzione da loro direttamente gestite, sia per quanto riguarda quelle gestite da altri fornitori, in particolare se ubicati in paesi a medio o basso reddito. ? Che venisse istituita una Autorità di vigilanza pubblica, con il compito di verificare la completezza e la veridicità di tali rapporti e di denunciare pubblicamente eventuali violazioni, da parte delle aziende, delle principali convenzioni internazionali su dignità del lavoro, ambiente, diritti umani ecc. ? Che venisse istituito un marchio di qualità sociale da attribuirsi alle imprese che – sottoponendosi a controlli - dimostrassero di rispettare, direttamente e indirettamente, i fondamentali diritti dei lavoratori in tutto il mondo.

La campagna si era concretizzata nella presentazione di una petizione, firmata da 160mila cittadini italiani, e di un disegno di legge che prevedeva queste misure. Purtroppo il disegno di legge non è mai arrivato ad essere discusso dal Parlamento.

Si tratta tuttavia di una battaglia centrale e sicuramente da riprendere. E’ infatti fondamentale che le imprese siano tenute a fornire ai consumatori anche queste informazioni, e non solo quelle legate al prezzo ed alla qualità. Ciò principalmente per le multinazionali: non per ragioni ideologiche, ma semplicemente perché per tali imprese – operando anche in paesi in via di sviluppo - è oggettivamente più semplice violare i diritti umani, dei lavoratori e dell’ambiente, senza poi contare che le loro stesse dimensioni comportano una maggiore responsabilità nel determinare le condizioni di vita di milioni di persone.

Perché si possa aver successo è ovviamente fondamentale che cresca la sensibilità dei consumatori su questi temi. Si tratta quindi innanzitutto di una battaglia culturale: far sì che questa richiesta di trasparenza diventi patrimonio comune.

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BANCHE TRASPARENTI Si può seguire la stessa logica della campagna Acquisti Trasparenti anche passando dal mondo dei consumi a quello della finanza. Analogamente alle altre imprese le banche sono tenute a presentare ogni anno il bilancio, ossia le informazioni sulla loro “salute” economica. Nei confronti dei clienti sono poi tenute a fornire informazioni sulle condizioni che offrono (quale interesse corrispondono sui conti correnti, quali sono i servizi disponibili e via dicendo). Analogamente alle imprese commerciali, tuttavia, non sono in alcun modo obbligate a dire come fanno ad avere quei bilanci, e cosa ci sta dietro le condizioni che offrono. Non esiste infatti nessuna legge che le obblighi a farci sapere che cosa fanno con i nostri risparmi. I nostri soldi avranno finanziato una partita di armi o qualcosa di socialmente utile? Non ci è dato saperlo. Analogamente alla campagna Acquisti Trasparenti è quindi fondamentale chiedere che anche le banche siano trasparenti, ossia che vengano obbligate a fornire ai clienti tutta una serie di informazioni su ciò che fanno con i loro risparmi. Non si tratta di andare contro la privacy: ovviamente nessuno ha in mente di chiedere ad una banca di dire se il signor Mario Rossi si è indebitato per comprare la casa. Si tratta invece di chiedere quanto la banca finanzi in generale i singoli cittadini e quanto le imprese. E soprattutto imprese di quali settori, e per quali progetti. CAMPAGNA “BANCHE ARMATE” Le uniche operazioni che sfuggono al velo di segretezza che riveste l’operato delle banche sono quelle relative all’esportazione di armi. Questo perché esiste una legge (n° 185, del 1990), che obbliga le banche a richiedere una autorizzazione per effettuare tale tipo di operazioni. Ogni anno il Governo relaziona in Parlamento su questo tipo di operazioni ed esistono quindi dati pubblici incontrovertibili su quanto ogni banca è coinvolta in tale tipo di operazioni. Banco di Roma, BNL, San Paolo IMI, Cariplo, Comit…, quasi tutti i principali gruppi bancari sono presenti in questa lista. Da alcuni anni è in corso nei confronti di queste banche una campagna di pressione, denominata “Banche Armate”. In pratica si invitano i risparmiatori a scrivere alla propria banca chiedendole di sospendere la propria attività in questo campo. Sono già migliaia le persone che lo hanno fatto, e stanno arrivando i primi risultati. Unicredito, il secondo gruppo bancario in Italia (dopo Intesa BCI) ha già dichiarato pubblicamente, nel 2001, che non effettuerà più tale tipo di operazioni, ed altre banche stanno seriamente riflettendo se seguire la stessa strada. Ovviamente se si otterranno risultati o meno dipenderà soprattutto dal grado di sensibilità al tema da parte dei risparmiatori. Le banche, come qualsiasi altra impresa, decidono in base alle preferenze dei loro clienti, ed è quindi compito di questi ultimi far pressione affinché tengano sempre in maggior conto l’eticità dei finanziamenti che erogano.

COME INFORMARSI E COSA FARE CONCRETAMENTE.

? Se vuoi sapere qualcosa su come la tua banca investe i tuoi risparmi, esiste una Guida al risparmio responsabile (EMI, giugno 2002), che – analogamente a quanto fa la Guida al consumo critico per le imprese – analizza il comportamento dei principali gruppi bancari italiani. La puoi trovare in vendita presso le botteghe di commercio equo e solidale.

? Sempre presso le botteghe di commercio equo puoi anche trovare la lista delle “Banche Armate”, con tutti i dati su quante operazioni hanno effettuato – e di che entità - legate all’esportazione di armi, ed un fac-simile di lettera da spedire alla tua banca. Questi dati sono disponibili anche su file, si possono richiedere per e-mail al nodo pavese della Rete Lilliput, [email protected]

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TOBIN TAX Lo scopo delle banche e delle attività finanziarie sino a pochi anni fa è stato quello di mettere in contatto chi aveva dei risparmi con chi aveva bisogno di finanziamenti per realizzare qualche progetto. In qualche modo quindi la finanza era una sorta di “motore” per l’economia reale: tanto meglio funzionava la finanza tanta più linfa arrivava al sistema produttivo, nel bene e nel male (nel bene e nel male perché ovviamente dipende dall’utilizzo che veniva fatto di questi finanziamenti, se per realizzare qualcosa di socialmente utile o di dannoso). Come abbiamo già accennato parlando di Globalizzazione e Finanza oggi invece oltre il 95% delle operazioni finanziare non è legato ad alcun investimento concreto, è pura speculazione: un continuo acquistare e vendere azioni (e prodotti derivati) o valute per guadagnare sulle variazioni dei prezzi e dei cambi. Oggi il ruolo della finanza si è ribaltato, molto spesso va addirittura in contrasto con quello della “economia reale”, ossia tutto ciò che è legato a qualcosa di concreto (apertura di nuove imprese, diminuzione della disoccupazione ecc.). Questo per due ragioni: 1) è molto più conveniente investire i propri soldi in operazioni speculative piuttosto che nel finanziare qualche impresa o progetto concreto, che ovviamente offrono margini di guadagno in tempi molto più lunghi. Di conseguenza si levano risorse all’economia reale. 2) l’instabilità che crea questo flusso speculativo: abbiamo già visto alcuni esempi di crisi speculative parlando di Globalizzazione e Finanza.

Un altro elemento fondamentale da prendere in considerazione è il seguente: il reddito derivante dal lavoro viene tassato, ed analogamente vengono tassate le imprese. Non viene invece tassato il guadagno derivante da operazioni speculative: se guadagno dei soldi cambiando euro in dollari e viceversa, nell’operazione di cambio non pago nulla di tasse, così come se acquisto o vendo delle azioni.

Una idea che circola da tempo per provare a correggere questa situazione, mettendo un granello di sabbia negli ingranaggi della speculazione, in modo da riportare la finanza ad un rapporto più stretto con l’economia reale, è quella di introdurre la cosiddetta Tobin Tax. La proposta è quella di introdurre una tassa minima (ad esempio dello 0,1%) sulle transazioni finanziarie. Questa tassa non danneggerebbe in alcun modo le operazioni finanziarie legate a qualcosa di concreto (se devo cambiare 1000 euro in dollari per andare in vacanza, non vengo certo danneggiato da una tassa di 1 euro, o analogamente se devo cambiare un milione di dollari in euro per acquistare una impresa, non sono certo un problema i mille euro di tassa), mentre porrebbe un freno alle operazioni puramente speculative. Se infatti cambio ogni due ore euro in dollari e viceversa per giocare sulle oscillazioni fra le due valute, pago questa tassa ogni due ore.

I risultati sarebbero molteplici: 1) Porre un freno all’instabilità – e relative crisi - legata alla speculazione. 2) Favorire gli investimenti su progetti concreti rispetto a quelli speculativi 3) Correggere l’attuale situazione in cui i redditi da capitale, a differenza di quelli derivanti dal lavoro, non sono tassati. 4) Ottenere risorse (il gettito fiscale proveniente dalla tassa) per progetti di sviluppo.

Gli strumenti tecnici perché tale tassa sia applicabile esistono, in quanto già da parecchi anni tutti i principali mercati finanziari registrano qualsiasi transazione. Si tratta tuttavia di una scelta che non può fare uno Stato da solo, quantomeno dovrebbe essere effettuata a livello di Unione Europea. E dovrebbe essere accompagnata da un maggior controllo e monitoraggio dei cosiddetti “paradisi fiscali”, in modo da evitare che possano servire da canale per evitare tale tipo di tassazione.

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AMMINISTRAZIONI, SERVIZI E AMBIENTE Impronta ecologica: uno strumento anche per le amministrazioni.

L’impronta ecologica può essere uno strumento utile non solo a livello individuale, ma anche per le Amministrazioni locali e per il Governo. Per cercare di rientrare nei limiti della sostenibilità è infatti fondamentale che anche le politiche pubbliche cambino prospettiva, introducendo una sorta di “contabilità ambientale”, ed effettuando le loro scelte politiche anche in quest’ottica. L’impronta ecologica potrebbe essere un valido strumento da tenere in considerazione anche quando si fissano dei criteri per delle gare di appalto, nei più svariati campi. Facciamo un esempio: costruire una centrale termoelettrica da un punto di vista economico costa probabilmente meno che puntare su altre forme di energia “pulite” (solare, eolico, biomasse o quant’altro). Se proviamo a ragionare in termini di impronta ecologica ovviamente il ragionamento si ribalta. Oggi purtroppo questo secondo tipo di “contabilità” è praticamente inesistente. O analogamente quando si parla di mobilità, di trasporto merci, di sistemi di riscaldamento e quant’altro: esiste un costo economico, ma anche un costo ambientale. E’ importante che le scelte vengano effettuate contabilizzando anche questo secondo tipo di costo. Diritto all’acqua

Parlando di globalizzazione e ambiente (vedi pag. 10) abbiamo parlato del problema dell’acqua potabile. Abbiamo visto come l’abuso e gli sprechi (sistemi di irrigazione non efficienti, massiccio uso di acqua potabile nelle industrie anche dove non sarebbe necessario, perdite nelle reti di distribuzioni) abbiano portato ad una sensibile riduzione delle scorte idriche del pianeta. Abbiamo poi visto come le istituzioni internazionali, rispondendo alla logica del “tutto è merce” stiano spingendo verso la privatizzazione dell’acqua potabile, cosa che se da un lato potrebbe portare alla riduzione degli sprechi, dall’altro creerebbe dei problemi ancora maggiori, ossia il trasformare l’acqua da un diritto universale da garantire a chiunque a una merce da vendere a chi può permettersela. Nel 2000 si è costituito il “Comitato Internazionale per il Contratto Mondiale sull’acqua”, ossia una coalizione di associazioni, organizzazioni non governative e studiosi. Scopo di questo Comitato è da un lato di ribadire la natura inalienabile, individuale e collettiva del diritto all’acqua e conseguentemente la difesa o il ristabilimento della proprietà pubblica delle risorse idriche, dall’altra ricercare soluzioni alternative all’attuale modello di gestione, che non appare adeguato a contrastare gli sprechi e l’abuso di questa preziosa risorsa. Un esempio potrebbe essere l’introduzione di un nuovo criterio di tariffazione a tre livelli: 1-piano dell’accesso/diritto: garantire 40 litri giorno/persona gratuiti per usi domestici; 2-piano dell’uso ulteriore: tassazione progressiva individuale per la quantità d’acqua utilizzata oltre ai 40 litri/persona quotidiana, tenendo conto della finalità dei diversi usi, dei contesti territoriali e di altri parametri significativi; 3- piano dell’abuso: divieto e corrispondente penalizzazione a partire da un livello di abuso definito dal legislatore competente. Tanto in questa pagina quanto nella sezione “Globalizzazione e Ambiente” ci siamo concentrati molto, a titolo di esempio, sul tema dell’acqua. Ovviamente discorsi analoghi si potrebbero fare anche per le altre risorse naturali, cercando di studiare vie che consentano da un lato un accesso minimo garantito a chiunque a queste risorse, dall’altro ne prevengano lo sfruttamento oltre i limiti di sostenibilità del pianeta.

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CANCELLAZIONE DEL DEBITO Dal 1996 è in corso una campagna mondiale (Jubilee2000), che chiede la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo più poveri e pesantemente indebitati.

Perché si chiede la cancellazione. Le ragioni sono di varia natura. 1) Buona parte dei debiti sono stati contratti da regimi dittatoriali e quindi non legittimi, con il risultato che le popolazioni di quei paesi si ritrovano a dover pagare un debito che non hanno mai contratto né goduto (nel diritto internazionale tale debito si chiama “odioso”) 2) Se provassimo a ricalcolare il debito in qualsiasi valuta diversa dal dollaro scopriremmo che in molti casi sarebbe già stato ripagato, e più di una volta. Come abbiamo infatti visto l’aumento spropositato del debito è dovuto in buona parte all’aumento di valore del dollaro, che ha portato ad avere interessi talora superiori al 100% annuo. Interessi che qui in Italia definiremmo senza ombra di dubbio usurai. 3) Non è moralmente accettabile richiedere il ripagamento del debito se questo comporta delle misure che vanno a ledere la dignità della vita umana, quando non la vita stessa. In Italia esistono delle leggi sulla bancarotta: se una persona si indebita non per questo perde il diritto all’assistenza sanitaria, o all’istruzione per i propri figli. Abbiamo invece visto come il debito dei paesi poveri comporti anche tutte queste conseguenze.

Cosa hanno fatto le istituzioni. Da tempo Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale si sono resi conto che molti dei paesi più poveri non saranno mai in condizione di ripagare i loro debiti. La linea che hanno adottato è quella di concedere a questi paesi delle riduzioni del debito e dei tempi di restituzione più lunghi, a patto però che ristrutturassero la loro economia in maniera da riuscire a ripagare il più possibile, ossia seguissero i piani di aggiustamento strutturale di cui abbiamo già parlato. Dopo venti anni di questa politica oggi anche queste istituzioni sono costrette ad ammetterne il fallimento.

Cosa chiede la campagna Jubilee2000. Le principali richieste della campagna sono due: la cancellazione totale dei debiti dei 52 paesi più poveri ed indebitati e l’istituzione di un organismo di arbitrato internazionale – indipendente dalle nazioni e dalle istituzioni creditrici - per quanto riguarda i debiti degli altri paesi. Per quanto concerne i paesi più poveri qualsiasi misura che non sia la cancellazione totale sarebbe assolutamente inutile. Proviamo a fare un esempio: se una persona guadagna 2 milioni al mese ed ha un debito di 50 miliardi, averne cancellato il 30 o il 50% non gli cambia nulla, in qualsiasi caso non sarà mai in grado di ripagarlo; avere 25 o 50 miliardi di debito per lui sarà esattamente la stessa cosa. La seconda richiesta è invece motivata dalla necessità di avere un “arbitro” che possa decidere in modo equo. Oggi infatti per quanto riguarda i prestiti internazionali si ha l’anomala situazione in cui coincidono le figure di chi fa le regole e di una delle due parti in gioco, ossia il creditore.

Quanto ci costerebbe questa cancellazione. Una prima risposta che possiamo dare è semplicemente “zero”. Si tratta di cancellare un credito, non di dare dei soldi. Il “costo” è dunque solo un mancato recupero, non una vera spesa. Per poter valutare bene questo mancato incasso dobbiamo prima introdurre i concetti di valore nominale e valore reale. Il valore nominale del debito è il valore sulla carta, rivedendo l’esempio precedente i 50 miliardi. Il valore reale è invece il valore di mercato di questo debito. Supponi di avere in mano la cambiale dell’esempio precedente. Hai in mano un credito che sulla carta vale 50 miliardi, ma sai benissimo che non riuscirai mai a riscuotere quelle cifra, il valore reale della tua cambiale è di gran lunga inferiore. Ora, il valore reale del debito verso l’Italia dei 52 paesi indebitati più poveri non è una cifra così incredibile, vista dalla nostra prospettiva: si tratta di circa 5 miliardi di euro. Praticamente cancellarlo significherebbe rinunciare a riscuotere 4 euro all’anno per 20 anni per ogni italiano, una cifra di certo non proibitiva.

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UNA DIETA PER LA WTO L’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), nata nel 1994, è probabilmente oggi l’istituzione internazionale più importante, forse più delle stesse Nazioni Unite. Questa affermazione è motivata da due ragioni: i settori di competenza –sempre più numerosi - della WTO e soprattutto il potere vincolante delle decisioni di questa istituzione, che è dotata di “tribunali” interni inappellabili, ossia funzionari che hanno il potere di decidere sulle dispute fra vari Stati (più spesso in realtà fra imprese e Stati, molti sarebbero gli esempi in proposito).

La WTO ha il compito di fissare le regole in un numero svariato di settori: commercio internazionale, investimenti, agricoltura, standard fitosanitari, servizi, proprietà intellettuale. In un’epoca in cui l’economia è sempre più globalizzata fissare delle regole in questi campi è senza dubbio fondamentale; nella situazione attuale esistono tuttavia problemi di varia natura.

1) Quali regole? I principali attori in questi settori (ad eccezione di alcuni tipi di servizi, quali istruzione e sanità, in alcuni paesi) sono le imprese, multinazionali e non. La WTO non fissa regole a cui questi soggetti devono attenersi, si rivolge invece agli Stati, fissando una serie di non-regole che devono rispettare. Non-regole nel senso che sono volte non a regolamentare questi settori, quanto invece a sancire come non debbano esserci regole. Per fare alcuni esempi: non devono esserci barriere al commercio, non devono esserci restrizioni agli investimenti stranieri, non devono esserci controlli sui capitali, non si può impedire l’accesso al mercato di merci straniere, a prescindere da come e dove siano prodotte (ad esempio: se l’Italia decidesse che le merci ottenute sfruttando il lavoro minorile non possono essere importate, potrebbe essere citata presso i tribunali della WTO e perderebbe la causa).

2) Le regole non sono uguali per tutti. Mentre molti paesi ricchi riescono a mantenere misure protezionistiche nei settori in cui più avrebbero da temere la concorrenza di altri paesi, ai paesi in via di sviluppo viene imposta la completa liberalizzazione dei mercati, con risultati spesso disastrosi per le loro economie locali, che non possono reggere il confronto. C’è poi da considerare che non sempre il concetto di liberismo, inteso come lasciar fare alle imprese ciò che vogliono, coincide con il concetto di libero mercato, perché spesso si vengono a creare situazioni in cui pochissime imprese hanno il potere di fare ciò che vogliono: quando ci sono mille contadini che vogliono vendere il caffè ed un solo acquirente, non si può certo parlare di concorrenza, sarà l’acquirente a fissare il prezzo che preferisce.

3) Tutto è merce. Un altro problema è l’estensione delle competenze della WTO in settori che andrebbero trattati diversamente: un conto è parlare di commercio di telefonini, un altro parlare di sanità o di acqua potabile. Non tutto può essere affrontato secondo la filosofia del “lasciate libere le imprese di fare ciò che vogliono e tutto andrà per il meglio”.

4) Non sottostà ad altre “regole”. Un altro problema è che la WTO non è inserita nel sistema delle Nazioni Unite, e dunque i suoi accordi e le sue regole non sono sottoposte ad altri tipi di “regole” che dovrebbero essere prioritarie, quali quelle riguardanti i diritti umani (prima fra tutte la Dichiarazione Universale) e l’ambiente. Al contrario gli accordi della WTO sono vincolanti ed esistono tribunali che possono punire chi non li rispetta, questo anche nei casi in cui tali accordi vanno in palese contrasto con il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente (un esempio che abbiamo visto è il caso della privatizzazione dell’acqua potabile).

Appare dunque quanto mai inevitabile esigere: 1) una “cura dimagrante” per la WTO, far sì che si occupi solo di commercio, e non di settori che andrebbero regolamentati secondo criteri diversi. 2) Che le sue regole siano conformi e rispettino i principali trattati delle Nazioni Unite. Questo ovviamente comporterebbe un drastico cambiamento di linea nella WTO, in quanto dovrebbe iniziare a fissare anche delle regole per le imprese, e non solo delle “non regole” per gli Stati.

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BIOTECNOLOGIE Un altro tema molto di attualità è quello delle biotecnologie. E’ un tema che tocca tanti settori: salute, ambiente, agricoltura, diritti di proprietà, commercio internazionale. Proviamo innanzitutto a capire – a grandi linee - di cosa si tratta. Nel corso della storia l’uomo ha compiuto continui miglioramenti nel campo dell’agricoltura, tanto nelle tecniche e negli strumenti di coltivazione (si pensi all’invenzione dell’aratro, alla rotazione delle culture, fino ad arrivare ai nostri giorni all’introduzione di una serie di macchinari quali trattori, mietitrebbia ed altri ancora) quanto nella selezione dei semi da coltivare. Un aspetto fondamentale dell’agricoltura è infatti l’individuazione delle qualità migliori di piante, e nel corso della storia si sono avuti enormi progressi anche in questo campo, progressi che principalmente sono frutto di incroci fra vari tipi di piante. Oggi la scienza ci ha messo in grado di operare secondo una modalità assolutamente nuova: siamo infatti in grado di agire direttamente sui geni delle piante, ossia possiamo introdurre (o togliere) dei frammenti di DNA. Per fare un esempio: sono state create delle fragole particolarmente resistenti al freddo introducendo nel loro DNA alcuni geni propri del merluzzo.

Senza voler demonizzare questo tipo di operazioni, vediamo però quali sono alcuni dei problemi che può generare l’utilizzo di questi Organismi Geneticamente Modificati (OGM) nell’agricoltura.

Salute. La stragrande maggioranza degli OGM non crea alcun tipo di problema di salute nel breve periodo. Non si può assolutizzare, perché esistono alcuni casi di allergie anche piuttosto gravi, ma in generale non è questa la cosa che preoccupa maggiormente. Più incerti invece gli effetti a lungo termine. Con ogni probabilità gran parte delle varietà di OGM non comporteranno seri problemi, l’incognita è: sarà così per tutte? Avere la certezza che tutti gli OGM che oggi appaiono innocui lo siano anche a lungo termine non è possibile.

Ambiente. Un altro problema è legato al loro impatto sull’ambiente. Con ogni probabilità (in alcuni casi sta già succedendo) l’introdurre delle varietà vegetali così radicalmente diverse in natura comporterà dei cambiamenti nell’ecosistema. Batteri e animali, stando a stretto contatto con queste varietà, si modificheranno. Non è neanche da escludersi un passaggio di questi frammenti di DNA aggiuntivi a specie diverse, anche fra vegetali e animali. L’ecosistema è una realtà complessa, e la sua evoluzione non è prevedibile in maniera esatta. Proviamo a fare un esempio: negli ultimi decenni nei paesi industrializzati è aumentato in maniera considerevole l’utilizzo di antibiotici. In conseguenza a ciò molti batteri sono diventati più resistenti agli antibiotici stessi.

La proprietà del seme. I primi due tipi di problemi sono sicuramente quelli a cui noi siamo più abituati a guardare. Esiste tuttavia un altro aspetto da considerare, ossia quello della proprietà del seme. Non si tratta di un aspetto secondario, anzi, tutt’altro, è forse il problema più grave. Fino ad oggi non è mai esistita una proprietà sui semi, ogni agricoltore era libero di conservare una parte del suo raccolto per riseminarla l’anno successivo. Per le sementi OGM non è più così, vanno necessariamente acquistate. Si viene dunque a creare una dipendenza dalle imprese che vendono questi semi. Se hai utilizzato sementi OGM l’anno successivo sei costretto ad acquistare nuovamente i semi, non potendo utilizzare parte del tuo raccolto a questo scopo. Oggi tali sementi vengono vendute a prezzi molto bassi; da un lato per aumentarne la diffusione, dall’altro perché i cibi geneticamente modificati non riscuotono molto successo da parte dei consumatori. Nel momento in cui tale situazione dovesse cambiare, e la maggior parte della produzione agricola fosse di tipo OGM, ovviamente aumenterebbe la richiesta di sementi, e di conseguenza anche il prezzo, con il risultato che chi non potrà permettersele non avrà più cosa coltivare.

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CONCLUSIONI In questo dossier, dopo la prima sezione dedicata a comprendere cosa significa globalizzazione e “come” oggi il mondo è globalizzato, abbiamo voluto evidenziare anche come la globalizzazione ci coinvolge direttamente – anche se spesso non ce ne rendiamo conto – nelle nostre scelte quotidiane. Abbiamo infatti detto che globalizzazione significa interdipendenza, e abbiamo poi visto concretamente come acquistare un prodotto, mettere dei soldi in banca e via dicendo ha effettivamente conseguenze e ripercussioni in luoghi anche lontani. La globalizzazione in sé – abbiamo detto – è una conseguenza del progresso, non è né positiva né negativa, però comporta delle responsabilità. Nel momento in cui addirittura i nostri gesti quotidiani più semplici hanno ripercussioni così forti, è chiaro che vivere in un mondo globalizzato implica assumersi le proprie responsabilità, agire con piena consapevolezza di ciò che si sta facendo. Abbiamo visto – principalmente nella prima parte del dossier – “come” il mondo oggi è globalizzato. E questa non è più una conseguenza diretta del progresso, decidere “cosa fare” di questa globalizzazione, come gestirla, è un’altra scelta: si può globalizzare la difesa dei diritti dell’uomo e dell’ambiente così come lo sfruttamento, sta a noi la responsabilità di far sì che vinca il primo tipo di globalizzazione e non il secondo. Analizzando come il mondo si sta globalizzando oggi ci siamo soffermati su una serie di problemi di vario genere. Come abbiamo già detto non si tratta di demonizzare questo tipo di globalizzazione che è in atto oggi. Esprimere giudizi trancianti sarebbe stupido, anche questa globalizzazione ha degli aspetti positivi. Purtroppo ne ha anche molti negativi, e - come abbiamo visto – decisamente non trascurabili. Ci siamo concentrati su questi ultimi proprio perché è quanto mai importante guardare realmente in faccia i problemi che comporta, in modo da trovare nuove strade che non li producano più, o quantomeno che li limitino decisamente.

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PER APPROFONDIRE: BIBLIOGRAFIA…. Rapporti Nord/Sud Centro Nuovo Modello di Sviluppo, “Nord/Sud: predatori, predati e opportunisti”, 1997, EMI Uno sullo sfruttamento del lavoro Naomi Klein, “No Logo”, 2001, Baldini&Castoldi (su multinazionali, politiche del logo e consumismo) Debito dei paesi poveri Alberto Castagnola, “Cancellare il debito. Danni, responsabilità e meccanismi del debito estero”, 2000, EMI Comportamenti delle imprese e delle banche Centro Nuovo Modello di Sviluppo, “Guida al consumo critico”, 2001, EMI Centro Nuovo Modello di Sviluppo, “Guida al risparmio responsabile”, 2002, EMI Commercio equo e solidale Andrea Reina, “Un mercato diverso”, 1998, EMI Impronta ecologica Mathis Wackernagel e William E. Rees, “L’impronta ecologica”, 2000, Edizioni Ambiente Finanza Etica Yunus, “Il banchiere dei poveri”, 1998, Feltrinelli Percorsi per un cambiamento Andrea Saroldi, “Giusto Movimento”, 1997, EMI

….. E SU INTERNET Un sito per partire: www.retelilliput.org . In particolare ricchissime le sezioni documenti, con materiale sulle varie tematiche, bibliografia e links ad altri siti, tutte suddivise per argomenti. Altri siti di associazioni che si occupano delle tematiche trattate: Finanza etica: www.bancaetica.com oppure www.mag2.it Commercio Equo: www.assobdm.it (l’associazione delle botteghe italiane di commercio equo) Ambiente: www.legambiente.it oppure www.wwf.it Manitese: www.manitese.it (all’interno del sito anche la campagna Acquisti Trasparenti) ATTAC (campagna per la Tobin Tax): www.attac.it Debito dei paesi poveri: www.sdebitarsi.org Campagna StopWtoRound: www.retelilliput.org/stopwto

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PERCORSI DIDATTICI In questa breve sezione elenchiamo una serie di percorsi didattici che le associazioni della Rete Lilliput hanno approntato per le scuole superiori.

Di quasi tutti i temi trattati sono infatti state date solo poche linee sommarie, come è inevitabile che sia, vista l’ampiezza e la complessità dell’argomento. I percorsi didattici che qui di seguito presenteremo hanno lo scopo di approfondire le singole tematiche. Questo dossier è stato pensato in maniera tale da poter essere utilizzato sia come sussidio didattico da parte dei docenti che volessero trattare direttamente queste tematiche, sia come base su cui poter inserire alcuni interventi di approfondimento da parte delle varie associazioni. I docenti che volessero avere le copie necessarie del presente dossier al fine di utilizzarlo come sussidio didattico possono farne richiesta allo sportello Scuola-Volontariato (Lele Rozza C/O Centro Servizi Volontariato della Provincia di Pavia c.so Garibaldi 57/a tel. 0382/27714, fax 0382/307484, e-mail [email protected]). Sempre il suddetto sportello svolge la funzione di raccordo fra scuole e docenti che vogliono realizzare un percorso didattico e le associazioni di riferimento per il percorso scelto. Gli interventi nelle scuole verranno svolti dalle associazioni a carattere gratuito, così come la distribuzione dei dossier e di altro materiale agli studenti delle classi coinvolte. ALCUNE INDICAZIONI SUI PERCORSI DIDATTICI Il percorso 1) è propedeutico ai percorsi 2), 5) ed in particolare 7), ma più in generale è utile anche per tutti gli altri ed è dunque consigliabile effettuarlo prima (al limite riducendo il tempo ad 1 ora). Il percorso 2), analogamente al percorso 1), è di carattere più generale rispetto ai cinque successivi, che sono più specifici su singole tematiche. Tutti i percorsi prevedono l’indicazione di riferimenti bibliografici e materiale in rete utili per approfondire. E’ anche possibile studiare percorsi di lavoro di vario genere per le classi coinvolte (ricerche su internet, giochi di simulazione, realizzazione di sondaggi su vari tematiche).

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1) Temi e problemi della globalizzazione. Tempo previsto: 2 ore (consecutive). Strumentazioni: lavagna, in aula. Argomento: spiegazione e approfondimento della prima parte di questo dossier: cosa vuol dire globalizzazione, protezionismo e liberismo, una panoramica sull’economia mondiale, rapporti nord/sud del mondo, globalizzazione e problematiche connesse (sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, diritti umani).

2) La società civile e le nuove sfide della globalizzazione: strumenti per un cambiamento. Tempo previsto: 2 ore (non necessariamente consecutive). Strumentazioni: lavagna, in aula. Argomento: la seconda parte di questo dossier: elenco ragionato degli strumenti individuali e collettivi che ognuno di noi ha a disposizione per concorrere al superamento dei meccanismi di ingiustizia causati dal modello economico neoliberista. Scopo principale è quello di vincere il legittimo timore di non poter far nulla di fronte a problemi tanto grandi e di far maturare la consapevolezza dell’importanza del proprio impegno concreto.

3) Commercio equo e solidale. Tempo previsto: simulazione didattica (2 o 3 ore) + lezione frontale (2 ore)

Simulazione 1: “Il gioco degli scambi commerciali”. Tempo previsto: 2 ore (consecutive) Strumentazioni necessarie: lavagna luminosa. Descrizione: si suddivide la classe in 5-6 gruppi, e ad ognuno viene consegnata una busta con alcuni oggetti, con i quali sono invitati a costruire determinate forme di banconote allo scopo di arricchirsi. La distribuzione ineguale delle buste consente di sperimentare alcune situazioni della realtà economica e sociale. A seguire viene infatti il cosiddetto dopo-gioco, in cui i ragazzi, terminato il momento ludico, sono invitati a riflettere su quello che è successo, a verificare i punti di contatto con la realtà e a rintracciare, benché in modo semplificato, la complessità dei rapporti Nord-Sud del pianeta e le ragioni che portano sempre più ad allargarsi il divario di ricchezza tra le due parti del mondo.

Simulazione 2: “Che scarpe mi metto?” Tempo previsto: 3 ore (consecutive) Strumentazioni necessarie: lavagna, in aula.

Descrizione: si suddivide la classe in 5-6 gruppi. Il gioco si basa sulla simulazione di un tribunale dove un’importante multinazionale viene accusata di mancato rispetto dei diritti umani in un paese del Sud del mondo dove possiede fabbriche. Ogni gruppo partecipa con ruoli differenti alla simulazione che prevede al termine anche una sentenza sulla base delle legislazioni internazionali. La successiva riflessione consente un’analisi del ruolo delle multinazionali, dei meccanismi della globalizzazione e dell’importanza delle convenzioni internazionali a difesa dei diritti umani.

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Lezione frontale Tempo previsto: 2 ore (consecutive)

Strumentazioni: lavagna, in aula. Argomento: partendo dai rapporti tra nord e sud del mondo illustrare il commercio equo e solidale attraverso i suoi criteri di base, i suoi attori, i luoghi in cui nasce e in cui arriva. Comparazione del commercio equo con il mercato “tradizionale”, come leggere le etichette dei prodotti.

4) Finanza etica. Tempo previsto: 1 ora. Strumentazioni: lavagna, in aula. Argomento: far comprendere come il denaro che mettiamo in banca non resta fermo, ma ci può rendere complici di sfruttamento e di ingiustizia piuttosto che di crescita e promozione umana. Presentazione di strumenti finanziari alternativi (Banca Etica, M.A.G.) 5) Debito dei Paesi poveri. Tempo previsto: 3 ore (2 ore consecutive + 1 ora). Strumentazione: nel primo incontro videoproiettore per la visione di un filmato, per il secondo incontro aula con lavagna. Argomento: Primo incontro: le ragioni storiche del Debito Estero, il ruolo delle organizzazioni internazionali, le conseguenze del debito sull’economia e sulla società dei paesi indebitati. Secondo incontro: dati sul debito dei paesi poveri, cancellazione del debito: quali i problemi e le obiezioni, cosa è stato fatto e cosa resta da fare.

6) Globalizzazione e Ambiente, Risorse e Diritti. Tempo previsto: 2 ore (non necessariamente consecutive). Strumentazioni: lavagna, in aula. Argomento: consumo di risorse e produzione di rifiuti, lo stato attuale del pianeta e le maggiori problematiche ambientali, presentazione dell’impronta ecologica e di possibili politiche di riduzione dell’impatto ambientale. Il caso dell’acqua potabile: risorsa da tutelare e diritto da garantire.

7) Organizzazione mondiale del commercio, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale: chi sono e cosa fanno. Tempo previsto: 2 ore (consecutive). Strumentazioni: lavagna, in aula. Argomento: seminario di approfondimento sulle istituzioni internazionali: loro storia, di cosa si occupano oggi e rapporto con le agenzie delle Nazioni Unite.

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