Donne della pasqua, di Anna Maria Vissani

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Un pregevole strumento di riflessione e di meditazione su figure di donne, legate fra loro dal filo rosso della Pasqua di Cristo.

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IL GENIO FEMMINILE NELLA STORIA DEL POPOLO DI DIO

Anna Maria VissaniEmilia SalviMariano Piccotti

DONNEDELLA PASQUA

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© 2011 Editrice Velar24020 Gorle, Bgwww.velar.itISBN 978-88-7135-???-?

Esclusiva per la distribuzione in libreriaElledici10098 Cascine Vica, Towww.elledici.orgISBN 978-88-01-?????-?

Tutti i diritti di traduzione e riproduzionedel testo e delle immagini, eseguiti con qualsiasi mezzo, sono riservati in tutti i Paesi.

I.V.A. assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, 1° comma, lettera C, D.P.R. 633/72 e D.M. 09/04/93.

Progetto grafico, realizzazione e stampa a cura di Editrice Velar, Gorle (BG)

Finito di stampare nel mese di dicembre 2011

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PRESENTAZIONE

20 anni fa il domenicano padre Dalmazio Mongil-lo, nostro carissimo amico, introduceva un piccolo li-bretto su figure di donne vissute alla luce del Mistero Pasquale, edito dal Centro di Spiritualità “Sul Monte”. Riteniamo utilissimo riportare una parte delle sue ri-flessioni, in omaggio all’uomo di scienza e di dolcissi-ma parola, all’uomo dalla parola suadente e umanissi-ma. Scriveva: “Per secoli, nella mentalità corrente, ‘sto-rie di donne’ ha fatto pensare a realtà non degne di at-tenzione, non rilevanti, di cui non è il caso di interes-sarsi: ‘le donne fanno storie’, non scalfiscono la real-tà, non fanno storia. Questa mentalità, indubbiamente di stampo maschile, oggi rende rischioso per un uo-mo parlare delle donne. Non è astratto il timore di es-sere frainteso e sospettato, e per quello che dice e per i motivi che lo inducono a parlare. Eppure non ci si può sottrarre al dovere di farlo, di imparare a comuni-care in verità e dignità, di promuovere un nuovo stile di relazione, di assecondare gli indispensabili processi di purificazione della memoria, condizione prelimina-re per ogni intesa costruttiva.

Quando si percorrono le pagine di questa storia al femminile, quando ci si lascia coinvolgere dall’eloquen-za di tanti eventi, molti di essi autentici ‘fatti di vangelo’, vissuti da donne che hanno aperto nuove vie al cammi-no dell’umanità in tutti i campi della realtà, ci si rende conto di quanto ingiusti siamo stati noi uomini, di Chie-sa e di mondo, quanto lenti ad arrenderci all’evidenza, quanto incapaci di cogliere le dimensioni della femmi-nilità della realtà e, conseguentemente, quanta gioia di vivere abbiamo disatteso e compromesso.

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Sarebbe stato sufficiente pensare che ognuno di noi esiste perché una donna per nove mesi ci ha cresciu-ti nel ventre e per un numero indefinito di giorni e di mesi ha trepidato e vegliato per noi, per vedere la re-altà in altra luce.

È vero che, in genere, alla propria mamma ognuno ha riservato un trattamento speciale: ‘esclusa mia ma-dre’! Non si è pensato che questa valutazione la attua-no quasi tutti e, perciò, tutte le donne, madri per la ge-nerazione o per la rigenerazione, avrebbero meritato a livello di linguaggio, di pensiero, di atteggiamento, una considerazione meno ingiusta e discriminatoria.

Anche se oggi parlare di donne, abbondare in elogi, va diventando di moda, almeno quando ci si esprime in forma ufficiale, non lo è ancora il riconoscimento, ef-fettivo ed affettivo, universale e pacifico, che il maschi-le e il femminile strutturano l’unica e indivisa umanità, sono le due orbite dell’ellisse umana, le realtà che, solo insieme, rendono feconda e amica la convivenza, gio-iosa e degna di essere vissuta la vita. Perdurano molte e profonde situazioni di discriminazione, di autentica emarginazione ed esse resistono a cedere”.

Che cosa è cambiato da allora circa la condizione della donna? Che ne è del “genio femminile” di cui l’u-manità non può fare mai a meno? Cosa è avvenuto di quel “segno dei tempi”, il primo indicato dalla Pacem in Terris, di Papa Giovanni XXIII, nel 1963. Quale cul-tura della donna sta entrando nella mente e nel cuore di tutti noi attraverso i mass-media?

Non possiamo far finta di non vedere e non sapere. Occorre solo indignarci. E veramente!

Le storie descritte in questo volume, si leggono in un crescendo di interesse, sono tutte belle. Nel loro insieme così ben articolato, alimentano la gioia dell’appartenenza alla famiglia umana costruita da persone docili al Miste-ro Divino, trasparenti alla Sua Luce e per questo cariche di attrazione. Esse fanno nascere la nostalgia per una vi-

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ta meno solitaria, meno opaca e alimentano la speran-za in un presente che non è solo del tipo di quello che i media ancora divulgano. Le esperienze di queste donne disincantano le illusioni delle persone che credono che le svolte culturali si attuano in modo automatico e sono frutto di soli cambiamenti esterni.

Un filo sottile sottende queste diverse narrazioni che in gran parte riguardano persone vissute in condizioni di esistenza che sono quelle di tutti noi: la spontaneità con cui ognuna di esse ha realizzato la sua relazione, più o meno esplicita ed intensa, con Dio e con il pros-simo. È questa la sorgente nascosta che alimenta la fe-deltà, la vivacità, la creatività, di queste esistenze non più rare e isolate, e che contestualizza quello sguardo contemplativo che le ha portate a rendere celebrazione l’esistenza quotidiana, a viverla come espressione del-la regalità e della profezia di cui sono dotate per il lo-ro Battesimo. La loro caratteristica comune è essere im-merse nel grande mare dell’amore di Dio e piene di mi-sericordia per la sofferenza umana, fino al dono totale di se stesse, senza calcolo. Capaci di morire ogni gior-no a se stesse per donare vita e luce all’umanità tutta. Proprio come Gesù nella Sua Pasqua!

Questo libro sulle donne, quindi, ci mette in ascol-to di figure femminili belle, forti, coraggiose, ricche di umanità e soprattutto innamorate di Dio. Ci auguriamo che sia letto da un gran numero di persone e susciti in tante donne e in tanti uomini la volontà di operare con fiducia e perseveranza per l’avvento di un mondo ami-co, trasparente e solidale nella giustizia e nella pace.

Vuole essere anche un grazie a tutte le donne che conosciamo e con le quali collaboriamo. Ognuno cer-tamente ne ha attorno diverse che lo hanno fatto vive-re e crescere. Il grazie per loro è lo stesso che ha det-to Giovanni Paolo II nella lettera alle donne che scris-se nel 1995:

“Grazie a te, donna-madre, che ti fai grembo dell’es-sere umano nella gioia e nel travaglio di un’esperienza

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unica, che ti rende sorriso di Dio per il bimbo che vie-ne alla luce, ti fa guida dei suoi primi passi, sostegno della sua crescita, punto di riferimento nel successivo cammino della vita.

Grazie a te, donna-sposa, che unisci irrevocabil-mente il tuo destino a quello di un uomo, in un rap-porto di reciproco dono, a servizio della comunione e della vita.

Grazie a te, donna-figlia e donna-sorella, che porti nel nucleo familiare e poi nel complesso della vita so-ciale le ricchezze della tua sensibilità, della tua intui-zione, della tua generosità e della tua costanza.

Grazie a te, donna-lavoratrice, impegnata in tut-ti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica, politica, per l’indispensabile contributo che dai all’elaborazione di una cultura capace di coniu-gare ragione e sentimento, ad una concezione della vita sempre aperta al senso del ‘mistero’, alla edifica-zione di strutture economiche e politiche più ricche di umanità.

Grazie a te, donna-consacrata, che sull’esempio del-la più grande delle donne, la Madre di Cristo, Verbo in-carnato, ti apri con docilità e fedeltà all’amore di Dio, aiutando la Chiesa e l’intera umanità a vivere nei con-fronti di Dio una risposta ‘sponsale’, che esprime me-ravigliosamente la comunione che Egli vuole stabilire con la sua creatura.

Grazie a te, donna, per il fatto stesso che sei donna! Con la percezione che è propria della tua femminilità tu arricchisci la comprensione del mondo e contribui-sci alla piena verità dei rapporti umani”.

(Giovanni Paolo II)

La comunità del Centro di Spiritualità “Sul Monte”Castelplanio, dicembre 2011

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I PARTESTORIE DALLA BIBBIA

Da Eva a Maria, dalla donna “tratta” dal fianco dell’uomo alla donna che dona i natali al Figlio dell’uomo. Da quella situata fin dall’inizio in stato d’inferiorità, di dipendenza e di sottomissione rispet-to al maschio, e quindi votata all’insoddisfazione, all’invidia, al ricorso all’astuzia – l’arma dei deboli –, alla donna magnifica, allo stesso tempo vergine e ma-dre, intoccabile e prodiga, votata all’estrema discre-zione, alla pazienza, alla dignità di un profondo do-lore. Eva e Maria, le due facce dell’eterno Giano fem-minile: la malvagia e la buona, la subdola e la can-dida, la fallibile e la forte, la funesta e la santa. Ma tra Eva e Maria molti altri volti di donna emergono nel corso dei secoli sfogliando le pagine della Bibbia. E ciascuna è unica, singolare e tuttavia plurale, alme-no complessa, poiché mescola in se stessa più o meno ombra e più o meno luce, astuzia e rettitudine, orgo-glio e coraggio. Ciascuna è unica, nella sua carne e nel suo destino, ma non da sola: la vita di ciascuna di queste donne si svolge, infatti, sempre nel cuore di una comunità dove devono trovare il loro posto, con-solidarlo e assicurarselo, spesso al prezzo di prove e conflitti, come Rachele e Lia; di raggiri a seconda del-la necessità, come Tamar o Betsabea; a volte con du-rezza, come Sara che scaccia Agar. Queste linee oriz-zontali, che strutturano e circoscrivono il palcosceni-co della loro esistenza, vengono tessute sempre attor-

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no a un asse verticale, di una verticalità infinita, al-lo stesso tempo stranissima e intima: Dio. Dio si erge al cuore delle loro esistenze. Sebbene “assente”, non nominato, come nel libro di Ester, egli è là (Est 4,14). Dio rimane in un Altrove immenso, non situabile, e tuttavia prossimo; quando, davanti alla minaccia di sterminio che il ministro Aman fa pesare sul popolo ebraico, Mardocheo si appella alla giovane regina Ester affinché tenti di salvare i suoi, egli evoca questo altro luogo che sottintende Dio. Allora Ester, con il di-giuno e la veglia, scende nel più profondo di se stessa – fino a quell’intimo Altrove dove si trova Dio, e tace – e in quel silenzioso Altrove, che è Dio stesso, attinge la forza per affrontare il re, a rischio della propria vita, al fine di ottenere la grazia per il suo popolo. “Entre-rò dal re malgrado la legge e, se si deve morire, mori-rò!”: così dice sobriamente, poi, forte del pellegrinag-gio che ha appena compiuto nel segreto verso quell’Al-trove sacro, si riveste degli abiti regali per presentarsi al sovrano che ha su di lei e su tutti i suoi, potere di morte o di salvezza. Per le donne della Bibbia, Dio è anzitutto il Dio della Vita, piuttosto che quello della potenza e della vittoria, così come lo concepiscono molto spesso gli uomini, la cui fede resta condiziona-ta dalle loro funzioni di guerrieri. La fede delle don-ne, invece, è irrigata da ciò che costituisce la loro for-za, l’unico potere che gli uomini non possiedono e del quale essi possono spossessarle: la maternità. Quando però gli uomini tentano di privarle di questo potere, per indifferenza o per sfiducia nei loro confronti, esse non disarmano, ma ricorrono a stratagemmi, anche i più pericolosi, come quello messo in atto da Tamar che, dopo due precoci vedovanze, non si rassegna a rimanere infeconda. Vuole a tutti i costi, anche ri-schiando la propria vita, dare alla luce un figlio del sangue di Giuda, affinché il filo delle generazioni non venga interrotto e la posterità sia assicurata. Come Ester, che depone i suoi vestiti di donna che implora e

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supplica e si riveste di magnificenza per scongiurare la minaccia di morte che pesa su di lei e sul suo popo-lo, Tamar cambia i suoi abiti di vedova con quelli di una prostituta, per sedurre il suocero che esercita anch’egli un diritto di vita e di morte sulla sua perso-na. Queste donne non retrocedono davanti ad alcun ostacolo: né la paura, né lo scandalo, né la vergogna le fanno deviare dal cammino che si sono tracciato; “nonostante la legge”, che alle volte può mostrarsi co-sì iniqua, violenta, mortale, vanno dritte a fondo nel-le loro decisioni. La Vita viene prima di tutto. Quan-do invece è il loro stesso corpo che le priva della gioia della maternità, nemmeno allora le donne della Bib-bia vi rinunciano. In questo caso non possono far ri-corso all’astuzia – non si possono manipolare le cose con Dio perciò ricorrono alla preghiera, alla supplica, alla pazienza. Una pazienza ostinata, come quella di Anna, sposa sterile di Elkana, che darà alla luce il profeta Samuele. La loro pazienza, accompagnata da un’ammirabile fiducia, può anche diventare pugna-ce, quando il figlio tanto aspettato e finalmente venu-to al mondo, è precocemente colpito dalla morte. Allo-ra esse ripartono per la guerra contro la notte, il fred-do che attanaglia il cuore e le viscere, contro le oscu-re forze della morte, come la donna di Sunen, che parte per reclamare il “dovuto” presso il profeta Eliseo. Il dovuto della vita rubata a suo figlio, quello stesso che aveva tanto tardato a partorire. Ella esige che Dio, attraverso il suo profeta, mantenga in pieno la sua promessa e le restituisca il dono che le aveva conces-so: che risusciti suo figlio, che le venga concesso di condurlo fino all’età matura di uomo e che la filiazio-ne continui il suo corso attraverso il tempo. Allor-quando, infine, in nome della sopravvivenza del po-polo in pericolo, bisogna che esse passino per l’assas-sinio, non esitano né tremano davanti all’obbligo di uccidere il nemico: così fecero Giuditta e Giaele. Sal-vare la vita, instancabilmente; salvare la tribù, la cit-

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tà, il popolo; proclamare la gloria del Dio d’Israele, Dio dei viventi. Le donne, sempre, elevano il loro sguardo ad altezza di vita e, dunque, con lo stesso slancio, all’altezza di Dio e dell’umanità piena: molto in alto, molto lontano e molto vicino (Sylvie Germain).

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RaabIL FILO ROSSO DELLA LIBERTÀ

Dopo la liberazione dalla schiavitù egiziana e la permanenza di 40 anni nel deserto, Israele, sotto la guida di Giosuè, si appresta a conquistare la terra pro-messa (Palestina). Una tappa importante di questa con-quista è la presa di Gerico, nella cui cornice si collo-ca la storia di Raab (Giosuè 2), qui raccontata in una libera traduzione.

A Gerico, piccolo centro della Palestina, non lontano dal fiume straniero, attraverso varie scorribande mes-se a segno con destrezza, si erano impadroniti di buo-na parte dei territori controllati dai re cananei e proce-devano inesorabilmente verso la città. Li chiamavano Israeliti e non erano neanche molti; ma da quando era-no spuntati dal deserto, la fama della loro invincibilità era rimbalzata con terrore in tutta la valle del Giorda-no. Tanta forza in così poca gente non si era mai vista eppure, stando al racconto di alcuni scampati, usava-no armi talmente rudimentali da sembrare un miracolo che fossero ancora vivi. “Quale sarà il loro segreto?” si chiedeva sbigottita la popolazione di Gerico mentre a piccoli crocchi, commentava la notizia, giunta di recen-te, della disfatta subita da Og e Sicon, due re amorrei

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oltre il fiume. Era ormai risaputo però, che il loro asso nella manica era un dio chiamato JHWH con cui ave-vano stipulato un patto di alleanza e che aveva giura-to di dar loro, per abitarvi, il possesso di tutta la terra di Canaan. Questo Dio, ora, stava realizzando la pro-messa mettendo nelle loro mani, senza quasi combat-tere, l’intera regione. Gerico viveva ormai sotto l’incu-bo di un attacco, imminente. Venti di guerra e di ro-vina si addensavano già nell’aria della sera, portando con sé un leggero senso di vertigine nel tranquillo ca-lare del sole.

LA LUCE DELLA SPERANZADalla terrazza della sua minuscola casa, addossata

alle mura di cinta, bianca come la caligine che si re-spirava all’intorno, Raab, forse la più nota tra le prosti-tute della città, scrutava l’orizzonte con la mano tesa a tettoia per fare ombra agli occhi (davanti la campagna, ampia e deserta, era avvolta da un silenzio quasi irre-ale, attraversata solo dallo stridio di corvi affamati in cerca di preda). Raab si sentiva inquieta e sospesa nel vuoto come quella cordicella di filo rosso, penzolante e scossa dal vento, che aveva legato alla finestra sotto di lei. A quel filo rosso era appesa la sua vita e tutte le sue speranze. A guardarla, poggiata alla parete nei mo-menti di quiete, assomigliava ad un rigagnolo di san-gue appena uscito da una ferita. Sangue di chi e ver-sato per che cosa?

Raab aveva sentito dire che il Dio JHWH aveva sal-vato gli Israeliti dalla schiavitù in Egitto grazie al san-gue di un giovane agnello, sparso sulle porte delle lo-ro case. Era stato il segno potente di un Dio che ama e libera; che è presente tra la sua gente ed è pronto a donare la vita. Chissà se era vero che avrebbe libera-to anche lei? Quella cordicella rossa al posto del san-gue avrebbe forse allontanato la morte del corpo, ma avrebbe potuto sconfiggere quella che Raab si porta-va nel cuore? Guardava se stessa e non vedeva nien-

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te di buono. Eppure quei desideri profondi di liber-tà e infinito che si portava dentro, dovevano pur va-lere qualcosa agli occhi di Dio. Chi se non Lui avreb-be potuto togliere dalla sua spalla quella cesta stracol-ma di lacrime per un passato doloroso e carico di fe-rite e per la solitudine senza uscita in cui le paure l’a-vevano imprigionata? Chi se non lui, avrebbe potuto riconciliarla con se stessa e la vita, dando almeno un senso a quella squallida emarginazione che il mondo le aveva riservato?

Qualunque cosa fosse accaduta, la sua salvezza, or-mai, dipendeva dal colore sanguigno di quei pochi fili intrecciati e dall’amore di un Dio misericordioso che l’a-veva raggiunta e le era penetrato nel fondo dell’anima.

Da dietro le spalle le giungevano intanto gli echi di un febbrile affannarsi di gente intorno a carri e caval-li. I suoi concittadini si apprestavano, in totale autosuf-ficienza, ad affrontare la lotta per un esodo impossi-bile. Mentre si dirigeva verso la scalinata per scendere in casa, Raab lanciò un’occhiata alla catasta degli ste-li di lino addossata alla parete. Era ancora dissestata ma non aveva voglia di metterla in ordine. A due gior-ni dal fatto, ancora, a guardare quel mucchio scom-posto le tremavano le gambe al ricordo di quanto era successo. Al calar della sera, un paio di uomini, si era-no intrufolati non si sa come, dentro la città, eludendo i controlli che le autorità avevano da tempo intensifi-cato. Era sola quando le piombarono in casa. Perché avessero scelto proprio lei lo capiva bene: unico luo-go che li avrebbe accolti senza troppi pregiudizi. Le lo-ro facce abbronzate, i lineamenti marcati e un po’ du-ri, ne tradivano la provenienza. Capì subito che si trat-tava di esploratori Israeliti mandati a perlustrare la zo-na. Per un attimo si sentì come paralizzata ma si rieb-be subito. Un sottile senso di mistero avvolgeva quegli uomini, come se il loro Dio, dopo averli redenti, aves-se potenziato a tal punto la loro natura, da farli sem-brare simili a Lui. Avevano la baldanza di chi lotta per

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grandi ideali, la pacata sicurezza di quelli che si sen-tono amati e appartenenti a Qualcuno insieme ad uno sguardo limpido e fiero nella carica di vita che sprigio-navano. Raab ne rimase colpita. Non ebbe neanche il tempo di chiedere spiegazioni perché le guardie li sta-vano già cercando passando casa per casa, e presto sarebbero venuti da lei. Quasi obbedendo ad un istin-to, spinse i due uomini verso le scale fin sulla terraz-za, dove li nascose sotto la catasta di lino raccolto da poco. Poi ridiscese. Ed ecco poco dopo sopraggiunge-re alcuni soldati. Inventare storie non era mai stato il suo forte ma stavolta le venne spontaneo come l’avesse fatto da sempre. Ammise di averli ospitati ma di aver-li visti partire, poi, prime che le porte della città fos-sero chiuse per la notte. Ai soldati il racconto di Raab sembrò verosimile e partirono all’inseguimento. Allora Raab, chiusa la porta di casa, salì di nuovo in terrazza.

Adesso aveva di fronte i due uomini sconosciuti. Si accoccolò a terra, accanto a loro e cominciò a parlare lentamente con voce calma e sicura, con gli occhi fissi sui loro volti debolmente illuminati dalla luna:

“Ai vostri occhi sono solo una straniera, lo so – dis-se piano – una donna, e persino degna di disprezzo per il mestiere che faccio ma anche voi, come me, ave-te conosciuto l’amara sofferenza di chi si sente rifiuta-to e sfruttato; anche voi siete passati attraverso il buio di notti insonni, quando l’angoscia si fa preghiera e sale verso Dio in una disperata richiesta di aiuto. Il Si-gnore ha ascoltato la voce del vostro lamento quando eravate oppressi dalla schiavitù in Egitto, ed è venuto a ridarvi coraggio. Voi lo avete incontrato quasi senza cercarlo; io invece, l’ho cercato da sempre senza mai trovarlo. Ho conosciuto solo idoli muti a cui mi ero le-gata per riempire il vuoto di una giovinezza brucia-ta prima ancora di cominciare. Da loro mi aspettavo la pace, la pienezza e l’amore che non ho mai avuto, ma mi hanno dato solo un vuoto più grande. Quando ho sentito parlare del Dio vivo e di quello che ha fatto

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per voi, il mio cuore è tornato a sperare. Lui vi ha fatti uscire dall’Egitto prosciugando davanti a voi le acque del Mar Rosso; nei quarant'anni in cui siete stati nel deserto vi ha soccorso in ogni vostra necessità e ora vi sta donando questa terra. Da che mondo è mondo non si è mai visto un Dio che abbia amato così tanto il suo popolo! Sono sicura che per voi darebbe persino il suo sangue e la sua stessa vita. Il mio intimo freme e gioisce di fronte a questi fatti perché qualcosa, dentro, mi dice che questo amore è anche per me. L’ho già sentito scendere, come preannuncio di perdono, sulle mie ferite doloranti, Lasciate, vi prego, che anch’io en-tri dentro questo fiume di misericordia e arrivi fino a Lui che ne è la sorgente. Lasciate che io partecipi alla stupenda avventura che Dio sta facendo vivere al vo-stro popolo, quando conquisterete Gerico, risparmia-te me e la mia famiglia dalla morte”.

UNA NOTTE INDIMENTICABILEAnimato dal coraggio e dall’audacia di questo di-

scorso, uno di loro rispose: “Dalle tue parole, o don-na, sappiamo per certo che Dio non fa preferenze di persone, ma dona la sua grazia a chi lo cerca con cuo-re sincero. Egli ha scavato una breccia dentro di te e vi è entrato. Ora Egli stesso, attraverso le nostre mani ti manda un segno di salvezza: prendi questa cordicella di filo rosso e legala alla finestra. Segnerà per te l’espe-rienza della Pasqua. Tu chiuditi in casa con la tua fami-glia finché Gerico non venga presa. In quella notte Dio stesso combatterà contro la morte e la vincerà; al mat-tino vedrai la luce di un giorno che non avrà mai fine”.

Animata da questa promessa, Raab fece calare con una corda i due uomini dal muro di cinta, poi legò il filo rosso alla finestra.

E ora a due giorni di distanza era ancora lì, presagio di un avvenimento che avrebbe sconvolto la sua storia.

Chiusa in casa, assorta in questi e altri pensieri, Raab aspettava. Fuori intanto le tenebre avanzavano

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finché scese il buio. Quella notte gli Israeliti attacca-rono Gerico. Fu una notte indimenticabile! Sembrò a Raab che non solo le sue ossa ma tutta la terra fosse attraversata da un brivido di terrore; come se la vita e la morte si confrontassero in un terribile duello. Ran-nicchiata in un angolo della stanza, con gli occhi chiu-si e il cuore febbricitante Raab pregò a lungo. E men-tre pregava, quasi all’improvviso, al chiarore delle pri-me luci dell’alba, ormai stanca, cadde a terra.

Non seppe mai cosa fosse successo veramente! Raccontò solo, più tardi, di aver visto come in un

sogno, un uomo venirgli incontro da lontano. Avvolto di luce splendente, aveva l’aspetto di un Dio guerriero che torna vittorioso dalla battaglia. Era ferito!

Da uno squarcio ampio e profondo aperto nel co-stato fuoriusciva un lungo filo di sangue che spiccava, rosso, sul bianco della pelle. Quel sangue assomiglia-va stranamente alla cordicella rossa che Dio le aveva mandato come segno di salvezza. Fu allora che Raab capì. Era libera!

Quell’uomo chiunque egli fosse, aveva combattu-to per lei e aveva vinto. Una gioia indescrivibile si im-padronì di tutto il suo essere e le rimase dentro anche quando il sogno svanì e poté far festa, completamen-te sveglia, insieme agli Israeliti, ringraziando Dio per quanto aveva operato.

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��terIL RISCHIO DI METTERSI IN MEZZO

Ester era una donna che aveva buoni motivi per potersi ritenere favorita dalla vita. Bella e dal caratte-re aperto e cordiale, aveva conquistato l’ammirazione e la simpatia di tutti. Il re di Persia l’aveva scelta co-me moglie.

Nata da una famiglia ebrea deportata a Babilonia al tempo di Nabucodonosor, era rimasta presto orfana di entrambi i genitori, ma un suo parente, Mardocheo, l’aveva presa con sé amandola come una figlia. Dive-nuta ragazza, quando Assuero si trovò a dover sceglie-re la sua regina, ella suscitò grande ammirazione nel re che la preferì a tutte le altre. E lei, ebrea, andò spo-sa ad un persiano.

Per questo Ester portava un grande peso nel cuo-re: il fasto di cui era circondata non la rendeva felice. Non le piaceva essere moglie di un uomo che la vo-leva al suo fianco solo nelle celebrazioni ufficiali. Una legge vietava alla regina, come a chiunque, pena la morte, di presentarsi al cospetto del re senza esser-vi stata chiamata; ed era già trascorso più di un mese da quando Ester era stata convocata l’ultima volta! L’a-mava Assuero?

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FIDUCIA PIENA NEL DIO DELLA VITAViveva sempre nella stessa sala ornata di preziose

decorazioni, di arazzi bellissimi, di cuscini pregiati e di suppellettili intarsiate; tutto esprimeva grande ric-chezza e potere.

“Ma a cosa vale tutto ciò” – pensava là in quella solitudine – “se ho dovuto anche tacere le mie origi-ni, e la mia appartenenza al popolo che Dio ha scel-to? Nessuno a corte conosce la mia fede, nessuno sa che io non ho mai servito gli dei pagani che questo palazzo adora. Il mio Dio è il Dio del mio popolo, ed è l’Unico”.

Cosa poteva significare agli occhi del Dio della sto-ria quella sua attuale condizione, quell’alternarsi di do-lori e gioia, di solitudine e di favore di cui erano dis-seminati i passaggi della sua vita? Che senso aveva per una serva del Dio di Israele sedere alla destra del re del grande impero di Persia di cui il popolo eletto era divenuto schiavo?

Un giorno mentre stava pensando queste cose una serva le annunciò la visita dell’inviato di Mardocheo. Le fu descritto un uomo affannato il cui volto rivela-va una profonda preoccupazione. Ester lo fece entrare.

Davvero aveva lo sguardo sconvolto: gli occhi spa-lancati a prolungare una sensazione di stupore di fron-te ad un fatto difficile da credere.

“Mia regina, tuo zio e padre Mardocheo mi ha man-dato perché ti informassi delle ultime malvagità del primo ministro Aman” le disse concitato.

Ester si pose una mano sulla fronte e chinò il capo: conosceva bene l’odio che Aman nutriva per suo zio poiché non aveva mai accettato di inchinarsi ai suoi piedi per adularlo.

“Parla! È in pericolo la vita di Mardocheo?”.“Non solo! – rispose – Aman è riuscito a convince-

re il re Assuero della colpevolezza di tutti i deportati e li ha accusati di venir meno all’obbedienza delle leg-gi dell’impero”.

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Assuero infatti era implacabile di fronte ai suoi ne-mici, ed Ester lo sapeva bene. Sedette. Il cuore sembra-va essersi fermato ed il respiro le moriva in gola. L’in-viato un po’ titubante continuò: “Regina, proprio oggi, Aman ha fatto scrivere un decreto che sancisce lo ster-minio di tutto il tuo popolo”.

Ester scolorì, e dopo un lungo silenzio sussurrò tra sé: “Oggi! Il 13 di Nisan!”. “Mardocheo – disse l’inviato – mi manda a dirti che tu faccia qualcosa interceden-do presso il re”.

Ella tacque. E l’inviato non avendo risposta, conti-nuò: “Domani è pasqua ma questa volta non sarà un agnello ad essere immolato. Non ci sarà liberazione per noi: il sangue che si verserà sarà il nostro! Regi-na, dov’è il nostro Dio? Ci ha dimenticati per sempre? Lontani dalla nostra terra, lontani dalle sue promesse. Dov’è la fedeltà di Dio?”.

Ester ascoltava quelle parole di disperazione senza condanna: venivano dal cuore di un uomo che vede-va una realtà terribile, il trionfo dell’ingiustizia e della superbia. Congedò l’inviato raccomandandogli di ave-re fede. Dio avrebbe ancora steso il braccio in favore dei suoi figli.

Appena quell’uomo se ne fu andato, lo sguardo di Ester fissò il cielo che appariva a sprazzi, dalle colon-ne dell’atrio. Era grigio e nuvoloso. Ogni tanto un lam-po ed il suo tuono squarciavano le nubi ed il silenzio della pianura sottostante. Le venne in mente il sogno di cui Mardocheo le aveva parlato: “Un giorno di tene-bre e di caligine si abbatte sul popolo dei giusti”. Quel sogno era stato un presagio.

Copiose lacrime cominciavano a scorrere lungo le sue guance. Mentre le sentiva percorrere il viso fino a bagnarle le labbra, si ricordò anche del resto del so-gno: “Una piccola sorgente che sgorgava al grido di dolore del popolo e che diventava un fiume grande, capace di inondare i nemici”.

“Non può essere tutto finito” pensava e, mentre cer-

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cava di allontanare le domande che le si affacciavano al-la mente, parlava con il suo Dio in un dialogo colmo di fiducia: “Io non ho cercato Assuero… Non ho desidera-to diventare moglie di un pagano… Non mi sono senti-ta una privilegiata a motivo degli onori del mio rango… Anzi, ho sofferto per l’impossibilità di manifestare a cor-te le mie origini. Sono stata presa contro la mia volontà e portata qui… ma il mio popolo non è rimasto fuori, l’ho portato con me e dentro di me… Quale vantaggio ho ottenuto per lui fino ad oggi? Domani si celebrerà la pasqua. Forse l’ultima… Ci sarà ancora un agnello che verserà il suo sangue al posto di quello del popolo?”.

Ester avanzò lentamente lungo l’atrio e raggiunse il cortile da cui poteva vedere meglio il cielo. Nel silen-zio della sera, ormai tarda e cupa, il vento le portava l’eco dei lamenti del popolo. Sentiva le grida che si le-vavano a Dio con tutta forza e che invocavano salvez-za e giustizia. Quei lamenti le ricordavano il belare de-gli agnelli condotti al macello.

Rientrata che fu, Ester percorse il corridoio che la conduceva alla sua stanza e vi entrò. Si tolse gli abiti regali e, indossata una tunica, si accasciò a terra, pro-strata davanti a Dio. Nell’angoscia di una profonda so-litudine aprì il suo cuore all’incontro con l’unico Re e Signore di Israele. Nell’intimo scopriva di non poter leggere quanto stava avvenendo con gli occhi dei pa-gani, e neanche con quelli dell’inviato di Mardocheo. Ciò che stava accadendo non poteva esser paragonato al susseguirsi degli atti di una tragedia: quella, proprio quella che viveva, era la storia d’amore e di misericor-dia che Dio intesseva con il suo popolo.

Respirò profondamente; poi allargò le braccia in at-teggiamento di colei che voleva assumere tutto, sen-tirsi dentro quella vicenda da cui personalmente po-ter trovare scampo. No, non avrebbe taciuto più a suo marito Assuero le sue origini; Ester era stata orfana ma aveva trovato un padre in Mardocheo; era stata povera ed ora conosceva la ricchezza… La memoria di ciò la

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stava conducendo ad una saggezza ispirata. Cominciò a guardare nel suo dolore con gli occhi di Dio.

“Signore Dio, tu da sempre sei salvezza per i po-veri che ricorrono a te quando arriva l’angoscia. Tu ci hai fatto conoscere le tue opere in nostro favore per-ché sempre le ricordassimo e perché imparassimo che Tu sempre intervieni nella storia. In ogni sventura Tu ci hai portato salvezza. La nostra vita con Te è segna-ta da un susseguirsi di pasque, di passaggi: come alla notte succede il giorno, come al cadere del chicco nel-la terra succede la spiga di grano, così fai tu. Tu ci fai passare dalla morte alla vita, come nell’esodo quando, per il sangue dell’agnello, hai salvato i nostri primoge-niti dalla morte e ci hai permesso di attraversare il ma-re. Oggi è un’altra pasqua. E proprio in questi giorni tu passerai ancora per liberarci”.

IL PREZZO DELLA LIBERTÀL’esperienza della vita le aveva insegnato che Dio

non agisce senza la collaborazione di ognuno: aveva scelto Abramo, poi Giuseppe, Mosè… e anche Mardo-cheo.

Chi poteva mettersi adesso tra l’invidia del perfido Aman ed i deportati di Israele se non lei?

Mentre un fiume di dolore e di speranza invadeva il suo cuore, ella con affetto e coinvolgimento totale presentò il popolo a Dio, con una profonda preghiera: “Mio Signore e mio Re: per la tua misericordia io tua serva che non sono ancora divenuta madre, possa ge-nerare a nuova vita il tuo popolo. Nella mia impotenza agisca la tua forza. Io sono sola, ma tu porti con me il peso di questo male. Sono certa che passata la notte, tutto il popolo vedrà sorgere il tuo giorno”.

Passarono alcune ore di angoscia e di fede: lonta-no, alcuni raggi di luce, si facevano spazio nella cappa di nubi. Era ormai mattino.

Ester si fece consegnare le vesti regali e i profumi. Dio avrebbe agito attraverso di lei.

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Accompagnata da due ancelle, rosea e fresca in vol-to, ma colma d’angoscia e con la paura nel cuore, at-traversò l’atrio antistante la sala del trono. Quello spa-zio le sembrò lunghissimo. Compiuto l’ultimo passo si sentiva venir meno e perciò cercò appoggio nel drap-po roseo che adornava gli stipiti della porta. Riprese coraggio e varcò la soglia con passo sicuro. Il suo vi-so era gioioso, come pervaso d’amore.

Vistala avvicinarsi, Assuero si accese di collera e si alzò dal trono con aspetto terribile. Ester ebbe un fre-mito. Ma Dio volse in dolcezza lo spirito del re che sol-levò il suo scettro in segno di benevolenza, pieno d’in-canto: “Che cosa c’è Ester, avvicinati! Tu non devi mo-rire. Qual è la tua richiesta? Fosse anche metà del mio regno, l’avrai”.

La regina, ancora pallida in volto e tremante, non approfittò subito dell’amore che Assuero le aveva di-mostrato. Differì il momento della richiesta ed invi-tò il re ed Aman ad un banchetto che aveva fatto pre-parare. Il re fu felice dell’amore della sposa che aveva affrontato il rischio di morte pur di vederlo. Da par-te sua, Aman si senti ancora più orgoglioso e superbo di partecipare da solo, alla tavola del re e della regina.

Passò il tempo del primo banchetto ed Ester ne bandì un altro senza ancora aver detto nulla. Ricca della sapienza dello Spirito di Dio, Ester aveva intui-to che il male si vince permettendo al bene di passar-ci dentro: perciò ella lasciò a Dio il tempo di passare nel cuore dei suoi due ospiti. Non era per la bellezza di una donna che Assuero avrebbe revocato il decre-to, ma per la conversione del proprio cuore.

L’intuito femminile aveva permesso a questa figlia di Israele di penetrare il segreto del Dio di misericordia: egli opera in favore della giustizia toccando la coscien-za dei singoli e promuovendo la loro conversione. Sta alla libertà di ciascuno compiere poi la propria scelta.

Così Assuero ed Aman passarono un’altra notte nella solitudine della loro coscienza. Crebbe l’odio di

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Aman che pensò come far morire il suo rivale. Ed As-suero riconobbe l’innocenza ed il merito di Mardocheo e del suo popolo.

Quando giunse il giorno del nuovo banchetto, Aman mangiava e beveva compiacendosi della sua gloria. Fu allora che Ester di nuovo espose le sua vita davanti al re e dichiarò: “Io appartengo a quel popolo che Aman vuole sterminare!”.

Anche se Dio aveva già fatto tutto non operò sen-za di lei. Così Ester smascherò le brame di Aman e di-scolpò Mardocheo e i deportati.

Assuero nominò Mardocheo primo ministro al po-sto del suo nemico ed anche il popolo ne ebbe mol-ti vantaggi.

Si era compiuta una nuova pasqua. I giorni che se-guirono furono colmi di letizia: alla rovina ai sostituì l’o-nore, alla disperazione la speranza, alla morte la vita!

Le feste pasquali vedevano rinnovati per tutto Israe-le quei prodigi con cui Dio si era rivelato durante l’eso-do. Un altro passaggio aveva segnato la storia del po-polo e, dentro di esso, quella di una donna.

Ester aveva saputo leggere gli eventi con gli occhi di Dio per scoprirvi la meraviglia sempre nuova che egli vi opera, e mai senza l’aiuto dei suoi fedeli.

Fu così che divenne veramente regina e madre per il suo popolo.

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�utUN’ALLEANZA OLTRE I CONFINI

Rut vive da straniera in Israele, perché moabita, ap-partenente cioè a quel popolo che, secondo la tradizio-ne biblica, aveva avuto origine dall’unione incestuosa della figlia maggiore di Lot con suo padre.

Aveva dunque un’origine impura e vergognosa, se-gno della tradizionale inimicizia di questo popolo ver-so i figli di Israele. Inoltre, erano state proprio le don-ne moabite, secondo il racconto del libro dei Numeri, a trascinare gli Israeliti nelle pratiche idolatriche; per questo in Israele era assolutamente vietato il matrimo-nio con donne di questo paese.

Rut, dunque, è questa donna segnata, già alla sua nascita, dalla vergogna, dall’infamia dell’origine del suo popolo e dal marchio dell’idolatria, tutti elementi che la ponevano in una posizione di radicale scomu-nica agli occhi dell’israelita fedele.

Noemi era una donna ebrea, emigrata con il mari-to da Betlemme di Giuda in terra di Moab a motivo di una carestia. Aveva avuto due figli.

Quando le morì il marito, Noemi si sentì ancor più sola perché non solo rimase vedova ma era straniera in un paese idolatra e ostile.

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Anche i due figli sposarono in seguito due donne del luogo, Orpa e Rut.

Queste due donne, pur vivendo nel loro paese, se-condo la fede di Israele vengono a trovarsi in una si-tuazione di “impurità”, di fronte ai propri mariti e a No-emi, loro suocera. La mescolanza delle razze e delle fe-di non era assolutamente ammessa.

Dopo qualche tempo i due uomini muoiono e ri-mangono insieme e sole le tre donne: Noemi, ormai anziana, Orpa e Rut, giovani e abitanti del luogo, ma ormai segnate da una condizione di impurità rispet-to a Noemi.

“Se il Signore ha visitato di nuovo il mio popolo, per-ché non tornare nella mia terra d’origine?” – pensava tra sé Noemi – Là tutti hanno pane e frutti della terra”.

Così decide di ripartire. Si alza, prende con sé le due nuore e si incammina di nuovo verso il territorio di Giuda, per raggiungere Betlemme.

“Là troverò accoglienza e libertà. A Betlemme, ca-sa del pane, avrò da mangiare!”, continua a ripetere in cuor suo Noemi.

Noemi non si vergogna di chiamare “sorelle” Rut e Orpa. Non teme l’infamia davanti al suo popolo ed è disposta ad accoglierle con sé di fronte alla sua gente in terra d’Israele.

“Quanto amore invade il cuore della nostra suocera e quale fortezza d’animo, per intraprendere un cammi-no verso un orizzonte nuovo! Ma andiamo anche noi volentieri con lei. Non possiamo lasciarla andare sola, perché è parte ormai della nostra vita”, si dicono l’u-na all’altra le due donne. Ma Noemi, arrivata alle por-te della sua terra, rispettosa delle diversità dei popoli e amante della vera libertà, offre loro la possibilità di tor-nare al proprio paese. “Se volete – disse loro – potete tornare tra la vostra gente, nella vostra terra”.

Orpa, dopo un primo rifiuto, decide di tornare, mentre Rut resta e professa la propria adesione perso-nale a Noemi, in un’alleanza fino alla morte davanti al

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Signore, Dio d’Israele. “Non ho dubbi, mia signora. Re-sterò con te e condividerò quanto tu stessa ami. Anche la fede nel tuo Dio!”.

Rut voleva bene a Noemi e l’amava di un affetto as-solutamente libero e gratuito, non richiesto, anzi, di per sé assurdo, inconcepibile, segnato da una certa “follia”.

Per restare con quest’anziana donna in terra stra-niera, essa rinuncia volontariamente alla propria legit-tima vita di donna in seno al suo popolo. Scelta inve-rosimile, follia di un amore che è ricompensa e sco-perta di novità, un amore che basta a se stesso. “Se tu mi accogli in seno alla tua gente, io resterò in ter-ra straniera e camminerò fiduciosa verso quella novi-tà che il tuo Dio mi vorrà presentare”. Così Rut par-lò a Noemi.

Noemi insieme a Rut, la Moabita, sua nuora, venu-ta dalle campagne di Moab, arrivò a Betlemme. La lo-ro entrata in città coincideva con l’inizio della mietitu-ra dell’orzo.

UNA DONNA RICONOSCIUTAFin dalla sua adesione a Noemi, Rut appare come

una donna che sa amare ciò che la vita le presenta e le dona. Proprio attraverso la piena assunzione della sua realtà incontra la benedizione che attraverso di es-sa le è data. Donna umile e decisa; non tenta mai di travalicare la soglia della propria condizione, ma la as-sume pienamente in libertà e ne rivela la ricchezza. El-la fa della propria alterità una premessa di incontro e di comunione.

“Mandami a spigolare il grano, dietro ai mietitori, co-sì conoscerò meglio la tua gente” chiese un giorno Rut a Noemi. Ella sperava di essere ben accolta dagli Israeliti.

Si presenta così, come una donna bisognosa di tro-var grazia. Questo suo bisogno, sa bene che non è un diritto, una pretesa, ma soltanto la speranza di esse-re accolta e riconosciuta come donna aperta al futuro, perché tutto è solo dono.

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Arrivata al campo, udì i canti dei mietitori che rin-graziavano Dio per il dono dei frutti della terra, e fu salutata da tutti come la “ben venuta”. Il campo era di Booz, che appena seppe del suo arrivo le andò incon-tro per accoglierla fra la sua gente.

Con profonda umiltà e tanta gratitudine Rut si pro-strò con la faccia a terra davanti a Booz: “Per qual mo-tivo ho trovato grazia ai tuoi occhi?! Tu ti interessi di me e mi accogli fra la tua gente, senza farmi notare che c’è differenza tra me e te, io che sono una stra-niera e quindi una che non dovrebbe contare nulla ai tuoi occhi?”.

Il cuore di Booz si aprì alla generosità e delicatez-za d’animo di questa donna, disposta a rinunciare a se stessa pur di essere accolta in terra straniera. E lui, uo-mo potente e facoltoso, si commosse per la grazia fem-minile di quella moabita e rispose: “Mi è stato riferito quanto hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito e come hai abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria per venire presso un popolo che prima non conoscevi”.

Booz scopre in lei quel “genio femminile” della donna che non conosce se stessa se non come colei che non si possiede appieno! Nella fedeltà di una rela-zione concreta e quotidiana, infatti, Rut impara a rice-versi e a diventare se stessa. E ciò è possibile perché assume come proprie le condizioni del rapporto che l’altro, con la sua storia, con il suo ambiente culturale e religioso, le offre.

Per questa sua capacità di relazione e di apertura al-la vita, il suo sì iniziale e fiducioso diventa cammino di libertà e di fecondità, per una comunione oltre i confi-ni della propria patria e dei propri desideri.

DONNA DELL’ALLEANZARut lavora tutto il giorno nel campo in cui è stata ac-

colta a spigolare, senza cercare riposo se non proprio quando è tanto stanca. Davanti al cibo che le viene of-

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ferto essa naturalmente ne mangia a sazietà e ne mette da parte gli avanzi. Ogni giorno poi torna a spigolare.

La sua audacia sa accogliere Booz in sé come do-no; e l’apertura all’amore diventa libertà interiore! “Ti ringrazio Dio d’Israele, perché hai guardato quest’umi-le serva e le hai preparato una patria accogliente”. È la preghiera che inizia a fare nel segreto del suo animo.

Noemi, sua suocera, le disse: “Figlia mia, non de-vo io cercarti una sistemazione, così che tu sia felice?”. Rut le rispose: “Farò quanto dici”.

Ancora una volta Rut rivela la sua apertura ad assu-mere tutto ciò che un’alleanza con l’altro richiede. E si affida. Conoscerà Booz, come le aveva suggerito No-emi, e si unirà a lui in matrimonio, accettando di ap-partenere al suo Dio, il Dio d’Israele.

Così metteva in atto la ricchezza della rivelazione del Signore Dio d’Israele, quando disse “se vorrete ascol-tare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sa-rete per me la proprietà tra tutti i popoli” (Esodo 19,5).

Come il popolo d’Israele si era legato al suo Dio, fi-no ad essere “sua proprietà”, così Rut si era legata in alleanza con Noemi, fino ad appartenere allo stesso Dio. Non è sottomissione passiva la sua, ma capacità di relazione oltre le proprie vedute, le proprie tradizio-ni e certezze.

In quel suo sì ad un’appartenenza nuova scopre l’in-finito valore e l’alto prezzo dell’alleanza del Dio d’Isra-ele con il suo popolo. Ella entra in questa nuova ap-partenenza senza esitazione. Sigilla così il suo cammi-no dentro l’esperienza di fede, con un’obbedienza atti-va che le fa vincere ogni vergogna e ogni tipo di esclu-sione dalla comunione con il popolo d’Israele. “Sono pronta ad ogni impegno che la nuova appartenenza mi chiede!”, afferma Rut davanti a Noemi.

La fedeltà a un amore è riconoscibile dalla fedel-tà ad un sì pronunciato all’inizio del cammino, insie-me alla custodia in sé della parola ascoltata e accolta. Rut risponde a Noemi esattamente come il popolo di

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Israele aveva risposto a Mosè quando questi gli aveva proposto l’alleanza con il Signore sulla base delle paro-le della Legge: “Quindi Mosè prese il libro dell’allean-za e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: ‘Quan-to il Signore ha ordinato noi lo faremo e lo eseguire-mo!’” (Esodo 24,7).

L’apertura di questa donna, la sua capacità ad affi-darsi per una fecondità inedita e un impegno coinvol-gente di vita, preannuncia l’estrema fedeltà di Dio per tutta l’umanità.

In una Cena, come segno di banchetto sponsale si realizzerà la piena e nuova fecondità. “Per la vita di tut-ti, io verso e dono il mio sangue – dirà Gesù –. Perché tutti entrino nell’unico rapporto d’amore e di fedeltà con Dio, io accetto la morte in Croce”.

E quella Parola accolta come dono e rivelazione, diventa feconda nel cuore del mondo. Da quell’offer-ta totale di Dio agli uomini nasce la Chiesa, sposa di sangue.

È questa la capacità di alleanza, di chi sa ascolta-re e custodire nel cuore il segreto dell’Altro, il grido del povero che sale a Dio, la proposta misteriosa dello Spirito che opera dal di dentro e chiede totale dispo-nibilità all’amore.

La donna, ogni donna, come Rut, aperta all’amore e alla novità del Regno è capace di entrare nel circui-to vivo di un rapporto di alleanza nuova e totalizzan-te, così da essere feconda di vita. Da questa nuova ap-partenenza nascerà Obed, “il servo”. Obed a sua vol-ta genererà Iesse e Iesse genererà Davide, dalla cui di-scendenza, proprio a Betlemme, sorgerà il Messia, il Servo del Signore.

Il frutto della sua alleanza senza confini fu Obed, che significa “servo”, per significare quel servizio del Signore per il quale il Signore aveva stretto alleanza con il suo popolo quando lo fece uscire dall’Egitto!

E sarà segno che ogni alleanza per essere fecon-da di futuro ha bisogno della profezia e dell’intuizio-

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ne della donna, che sa guardare in avanti e oltrepas-sare i propri confini.

Infatti Rut, la moabita, si inserisce nella discenden-za dei figli di Abramo, nella comunità dell’Alleanza, come erede della benedizione e donna che prepara la via al Messia.

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�aria di �etaniaL’INTUIZIONE DEL FUTURO

Betania! Casa dei poveri o casa dell’amicizia. Un vil-laggio situato vicino Gerusalemme, a est del monte de-gli Ulivi, a 3 chilometri circa dalla capitale.

Lì Simone il lebbroso possedeva una casa, dove po-teva ospitare gli amici e fare festa. Questa volta l’amico è Lui: Gesù di Nazaret (Marco 14). Prima di raggiunge-re Gerusalemme, la città del grande sacrificio e della speranza infinita di Dio per l’umanità, il Maestro e Si-gnore accetta l’invito a pranzo. È il suo stile: condivi-dere gioie e dolori, festa e tristezze con quell’umani-tà per la quale sta per donare la vita. È infatti la vigilia della sua passione. Nessuno conosce il segreto evento che Gesù porta in cuore, neppure Simone che lo ave-va invitato con gioia e amicizia, ancor meno gli apo-stoli che stanno a tavola con lui.

IL CORAGGIO DI CHI AMAIn quella grande sala adornata a festa, piena di uo-

mini che consumano il pasto, entra una donna, come un raggio di luce. Senz’altro una che cercava la vita: forse una messaggera della salvezza, colei che portava in cuore un segreto. Stringeva tra le mani un vasetto prezioso, contenente un profumo molto costoso. Pro-

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fumo d’un odore particolarmente piacevole, che per conservarsi doveva essere sigillato in vasi preziosi, co-me l’alabastro. Profumo di donna quindi! Subito i di-scepoli puntano gli occhi, come sbalorditi, su quell’og-getto. Conoscevano l’alto valore di quel profumo. Il lo-ro pensiero corre ai poveri da sfamare: “Si potrebbe venderlo e il ricavato darlo a chi non ha da vivere”.

Quel profumo non è una frode, ma garantito-auten-tico nardo, importato senza dubbio da lontani paesi (si ricava infatti dalle radici e dalle foglie radicali d’una pianta che cresce sui fianchi dell’Himalaya).

“Come può una donna entrare nella stanza del ban-chetto?! Chi è costei? Perché disturba il maestro?” si dico-no l’un l’altro gli intimi di Gesù. Ma lei che ascolta il lin-guaggio dell’amore e non presta orecchio ai calcoli trop-po freddi degli uomini, si avvicina senza timore al Ma-estro, come sposa che riconosce la voce del suo sposo.

Rompe il vasetto e versa sulla testa di Gesù il nardo profumato. Tutta la stanza acquista una fragranza nuova.

C’è chi ha visto questo gesto come la sposa che con-sacra il suo sposo Messia e Profeta. Ora la regina e il suo re diventano sposi nel gesto dell’unzione sacerdotale.

Chissà cosa pensa Simone, l’amico che si era degnato di offrire ospitalità e un pranzo così ricco!? Non avrebbe mai pensato in cuor suo di compiere un gesto di spreco. Forse quel banchetto era ben calcolato nella sua mente. Gli apostoli non erano pronti a salutare il loro signore come Messia, neppure allora che stavano salendo insie-me a Gerusalemme. Eppure lo avevano professato con le labbra, pochi giorni prima. I loro cuori sono ancora presi dalla bramosia della gloria, i loro occhi vedono so-lo l’apparenza, incapaci di entrare nel cuore della storia. Occorre l’intuito della donna per conoscere i segreti dei cuori e precedere gli eventi.

L’AMORE NON HA PREZZOChe fare di quello spreco di nardo purissimo? Per

lei è un gesto di offerta e un annuncio di morte glo-

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riosa. “Perché non vendere e distribuire, piuttosto che ungere e profumare un uomo?” si dicono l’un l’altro i commensali. Ciò che per lei è dono e profezia, per gli altri è spreco e follia. L’amore rischia di apparire steri-le agli occhi di chi calcola con l’intelligenza e giudica la vita a partire dal profitto. Anzi quella perdita supe-ra trecento denari!

Il malcontento divide la fraternità del banchetto. Gli uomini puntano il dito sulla donna, perché non han-no il coraggio di giudicare la disponibilità del Maestro.

Infatti parlano in cuor loro. Non osando essere volgari si rinchiudono sui loro sentimenti e diventa-no segreti.

Chi ama non ha paura di fare gesti incomprensibili, ma dettati dal cuore: si apre a un futuro ricco di novi-tà: “Ha compiuto un’opera buona, perché infastidirla?”. Questa donna annuncia la morte e la resurrezione del Messia, e accede alla profezia.

“I poveri li avrete sempre con voi, la mia presen-za scomparirà”. Gesù sta andando alla morte: fra due giorni verrà consegnato e poi crocifisso. Nessuno riu-scirà a partecipare a quell’evento sconcertante se non chi ha già sperimentato l’amore e ha accolto la salvez-za. Sarà la donna, colei che “vede” e annuncia con la sua stessa vita, come fece la Madre sotto la Croce del Figlio, ad entrare e dare l’annuncio che quella morte è gloriosa. Proprio in vista della sepoltura essa ha com-piuto quel gesto e nel cuore di un banchetto. Proprio lì attorno alla tavola di Simone svela il grande mistero: Gesù è sacrificato simbolicamente nel pane e nel vi-no di quel pranzo. Egli è già morto, perché l’umanità ha maturato la sua consegna. La donna precede quel-la morte, giunge in tempo, intuisce, compie l’unzione. Non attende, come d’uso, di farlo sul suo corpo mor-to, ma ora che è vivo, per dichiarare che egli risorge-rà. È la Pasqua. La rivincita della vita che passa attra-verso il “genio femminile” della donna, anche dentro le sfide di morte.

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I discepoli non partecipano a questo annuncio pro-fetico, non si elevano al di sopra degli smorti calco-li della vita ordinaria. È la Chiesa di sempre: santa e peccatrice.

UN INVITO ALLA RADICALITÀAl compiersi della sua Pasqua, il Signore risorto

chiede ad ognuno di noi di deciderci per il dono del-la vita fino allo “spreco” per Lui o per la conservazio-ne di essa fino alla sterilità della morte. Come la pri-ma Chiesa, così ogni comunità cristiana, è chiamata a scegliere la logica dell’amore, superare i calcoli sterili della vita troppo ordinaria e affidare la vita solo a Dio.

Comprendere oggi quanto ha fatto quella donna, significa imparare a perdere la vita per Lui, nel cuore delle grandi o piccole sfide di una società che calcola e confida solo nel guadagno umano.

Le generazioni parleranno di lei e del suo gesto (e noi lo stiamo facendo) perché alla donna Dio da sem-pre affida “l’uomo” per generarlo a una speranza nuo-va: la salvezza nella morte gloriosa del Crocifisso.

Ancora oggi donne coraggiose e pienamente inse-rite nella storia sono chiamate a farsi voce profetica di un futuro di pace e di riconciliazione, mediante l’intu-ito e l’amore senza calcoli. Esse sono presenze profeti-che di un mondo nuovo: quel mondo che l’uomo e la donna insieme sono chiamati a sognare per ricondur-re l’umanità ai piedi del Crocifisso glorioso. Ma ciò è possibile nella misura in cui tutti siamo disposti a do-nare la vita e a lasciarci trasformare dal Sangue di Cri-sto, fiume di misericordia e di salvezza, in creature nuove e coraggiose.

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�aria di �a�dalaAPERTA ALLA NOVITÀ DI DIO

In un giardino, all’alba di una giornata di primave-ra, giunge all’epilogo l’itinerario di Gesù tra gli uomi-ni. Là dove la terra produce frutti e fiori colorati, la lu-ce della conoscenza incomincia lentamente a penetra-re. E una donna è il faro nel passaggio dall’oscurità al progressivo chiarore. Ella, abituata a lavorare di not-te, questa volta si sveglia di buon mattino, attraversa la città per recarsi al sepolcro ed esprimere le sue premu-re per Colui che ha amato in modo originale.

E lei è la prima creatura ad aver visto il Risorto. A lei è stato affidato di accogliere e di riferire il mistero: Cristo ha sconfitto la morte.

Come mai a una donna? Il mistero della rinascita è troppo difficile da contenere e quindi da esprimere. Se l’uomo non si affida all’Anima, alla forza intuitiva del-la femminilità, non entra nel mistero della vita nuova. Maria di Magdala è un tipo d’Anima particolarmente sensibile e attenta. Da lei erano usciti sette demoni, os-sia la pienezza del male.

LA RICERCA APPASSIONATACorre al sepolcro il desiderio della felicità, il biso-

gno di essere amata. Ella che rifugge le delusioni nelle

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feste effimere, cerca Colui che può dare una risposta certa e duratura al suo animo assetato di vita.

Si china, vede due angeli, ma continua a piangere:“Ma chi ha tirato via quella enorme pietra? Dove

hanno posto l’amato del mio cuore? Dove cercare la vita che non è più visibile ai miei occhi?”.

Si sente dire nel cuore: perché cerchi fuori di te Colui che ti abita e ti cerca? Non è qui! È difficile riconosce-re la voce dell’interiorità. Forse qualcuno da fuori ten-ta di distoglierla dalla ricerca ansiosa del suo Signore? “Se l’hai portato via tu, fratello o sorella che rimprove-ri la mia sensibilità, dimmi almeno dove lo hai posto!”.

“Maria”! Il Risorto chiama per nome colei che ap-passionatamente lo cerca, per restituirla a se stessa, nella sua identità di figlia e di donna.

La sensibilità femminile si risveglia e abbraccia la vita. Vuole toccare il frutto dell’amore per amare più intensamente e personalmente… Ma questa volta de-ve mantenere la distanza: “Non toccarmi!”. Ormai el-la dovrà toccare la vita nel cuore dei fratelli. È la nuo-va maternità che è chiamata ad esercitare nel mondo.

“Va’ Maria! Vai da coloro che ancora sono duri di cuore e non hanno compreso il segreto dell’amore vi-vo. Va’ e di’ loro che mi troveranno dove vivono, sof-frono e amano”.

Trasformata e invasa dalla vita risorta si reca dai di-scepoli. “Ho visto il Signore!”. La donna non insegna, non spiega con mille ragionamenti il mistero: comu-nica un’esperienza unica, irrepetibile, ineffabile. È l’in-contro personale. In ogni uomo è posta questa capaci-tà di incontro e di trasformazione! Ognuno di noi vie-ne rigenerato mediante l’accettazione del farsi figlio della madre, recando nel cuore quel principio femmi-nile che solo fa riconoscere la vita dalla morte, la lu-ce dalle tenebre.

Da questa storia nasce un appello all’uomo.Uomo di questo tempo, di ogni tempo decidi tu se

farti figlio della madre e muovere i tuoi passi attraver-

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so le strade del mondo, recando nel cuore la vita nuo-va perché risorta!

Tocca a te dire a tutti che terra e cielo sono di nuo-vo ricongiunti, che Dio ci aspetta là dove un’anima ap-passionata lo cerca, là dove l’amore deve nascere, là dove la vita soffre e muore portando con sé la speran-za del futuro.

Tocca a te annunciare che ormai è Pasqua sempre! A te che hai sperimentato la Vita che vince.

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II PARTEDONNE NELLA STORIA

1.IL MEDIOEVO

Nel 1988, in occasione dell’Anno Mariano, il Beato Giovanni Paolo II ha scritto una Lettera Apostolica in-titolata Mulieris dignitatem, trattando del ruolo prezio-so che le donne hanno svolto e svolgono nella vita del-la Chiesa. “La Chiesa – vi si legge – ringrazia per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel cor-so della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le na-zioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito San-to elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speran-za e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità fem-minile” (n. 31).

Anche in quei secoli della storia che noi abitual-mente chiamiamo Medioevo, diverse figure femminili spiccano per la santità della vita e la ricchezza dell’in-segnamento.

“Anche oggi – afferma Papa Benedetto XVI – la Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate e lai-che, che alimentano nelle anime il pensiero per Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cri-stiana verso vette sempre più elevate” (Udienza Gene-rale, 24 novembre 2010).

La storia della Chiesa nel Medioevo è caratterizzata dalla presenza di molte donne cristiane che partendo dalla dimensione spirituale della loro vita hanno mol-

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to lavorato per il bene della Chiesa ed hanno recato un influsso benefico anche alla società, inserendosi con coraggio anche nelle vicende della politica. In questo modo anche se il fine primo ed ultimo della loro vita è stato quello dell'unione intima con Cristo, con un for-te accento della mistica sponsale, attraverso la via del Vangelo e della sequela di Cristo, tuttavia si sono pro-digate ampiamente nell’esercizio della carità ed hanno avuto un ruolo importante nella cosa pubblica.

Obbligate dalle circostanze, fedeli al loro genio fem-minile, concreto e pacifico, ma spesso investite da una grande missione ecclesiale, sono diventate protagoni-ste della vita della Chiesa, profetesse ed ammonitrici del clero e dei Papi, come è il caso di Brigida di Sve-zia e di Caterina di Siena; esse non hanno indietreg-giato davanti ai potenti di questo mondo, diventan-do così a partire dalla loro comunione con Dio, perso-ne che hanno invocato la riforma e l’unità nella Chie-sa ed hanno pacificamente lottato per evitare le guer-re e costruire la pace.

Sarebbe lunga la lista delle Sante medievali che hanno influenzato la storia della Chiesa e la costru-zione dell’Europa. Giovanni Paolo II nella sua Lettera Mulieris dignitatem (n. 27) ricorda fra le donne orien-tali Olga di Kiev, e fra le occidentali Matilde di Tosca-na, Edwige di Slesia e Edwige di Cracovia, Elisabetta di Turingia, Brigida di Svezia, Giovanna D’Arco; oltre a Caterina da Siena che ha meritato il riconoscimento di Dottore della Chiesa. Ma la lista potrebbe essere mol-to più lunga e dovrebbe comprendere Agnese di Pra-ga, Ildegarda di Bingen, Gertrude di Helfta, Matilde di Magdeburg e Matilde di Hackenborn, alle quali biso-gna aggiungere le grandi sante della tradizione fran-cescana, quali Chiara di Assisi e Angela da Foligno. Il coraggio di queste donne è tanto più da ammirare se pensiamo alla mentalità antifemminista dell’epoca, alla diffidenza viscerale degli uomini contro le donne, alla quale non sfugge neppure il grande Tommaso d’Aquino

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che oltre alle teorie della donna come “uomo mancato” aggiunge anche l’osservazione che essendo la donna solo ausiliaria dell’uomo per la procreazione, “per ogni altra opera egli trova un migliore aiuto in un altro uo-mo che nella donna” (Summa Theologiae, I, q. 42, a.1). Spesso sarà a questi pregiudizi che si ispireranno an-che i dotti della Chiesa e i potenti di questo mondo per non ascoltare la voce di Dio che si faceva sen-tire potente attraverso la parola di queste donne. Donne coraggiose di riconciliazione e di unità per la costruzione dell’Europa, molte sante medievali, ponen-dosi come riformatrici, predicatrici e destinatarie di divine visioni, incontrarono tante gravi difficoltà nel farsi accettare dalla comunità ecclesiale, ma andaro-no avanti fino all’umiliazione, all’ironia, come nel ca-so di Ildegarda, di Caterina e di tante altre. Tutte testi-moni del Mistero Pasquale di Cristo vissuto e incarna-to nella loro storia personale e comunitaria.

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Ilde�arda di Bin�enAUDACE IN BATTAGLIA

Ildegarda di Vendersheim, nata nel 1098, a Bermer-sheim vor der Höhe (Germania), da una famiglia del-la piccola nobiltà locale, a otto anni viene mandata nel monastero benedettino di Disibodenberg, perché rice-va da Jutta, figlia del conte di Spanheim, monaca e ba-dessa, una formazione all’altezza della sua posizione sociale. L’intelligenza acuta e vivace, abbinata ad un’ac-centuata capacità di osservazione, e un profondo ap-prezzamento per la cultura in generale, permettono al-la bambina di acquisire, nel tempo, una discreta com-petenza in vari campi del sapere: dalla teologia alla fi-losofia, dalle scienze naturali alla linguistica, alla mu-sica, alla poesia…

La sua fede, già vivida nell’infanzia e rafforzata dall’esperienza monastica, la spinge appena adolescen-te, a scegliere di consacrarsi totalmente a Dio e diven-ta monaca.

Alla morte di Jutta, nel 1136, è nominata “abbatis-sa”. In questo ruolo imprime un forte impulso spiritua-le e culturale alla vita della comunità, continuando a vivere, con la semplicità di sempre, la vita quieta e vi-vace del monastero.

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“UNA PIUMA ABBANDONATA AL VENTO DELLA FIDUCIA DI DIO”!

La storia cambia quando inizia a scrivere e rendere pubbliche le “visioni” che l’accompagnano fin dall’in-fanzia e che lei racconta nella prima opera intitola-ta Scivias, “conosci le vie”. Nell’introduzione a questo scritto, Ildegarda spiega come è stata spinta a questo passo, da una misteriosa voce, proveniente da una lu-ce bellissima, che durante una visione le diceva: “O fragile creatura umana… racconta e scrivi ciò che vedi e ascolti”. Ci tiene però a precisare che le visioni non sono dovute ad alterati stati di coscienza, ma come lei stessa dice, “le ho ricevute mentre ero sveglia, con la mente attenta e limpida, attraverso i sensi interiori, in luoghi aperti, secondo la volontà di Dio”.

Che si tratti di una particolare illuminazione dello Spirito, lo capiamo dal testo seguente:

“Avvenne nell’anno 1141 dall’incarnazione di Cristo, quando avevo quarantadue anni e sette mesi, che una luce infuocata, fortissima e abbagliante, scendendo dal cielo che si era aperto, infiammò tutto il mio cervello e mi riempì di calore il cuore e il petto: era simile ad una fiamma che non brucia ma scalda, come fa il so-le quando colpisce qualcosa con i suoi raggi. E, subi-to, fui in grado di interpretare i libri, il Salterio, il Van-gelo, e gli altri libri cattolici, l’Antico e il Nuovo Testa-mento…”.

Lo Spirito le permette di penetrare a fondo il sen-so delle Scritture e di condensarne il nucleo in poten-ti immagini simboliche, secondo l’uso del tempo, mu-tuate dagli stessi testi biblici e dalla natura. È perfetta-mente consapevole che la rivelazione delle “visoni”, la espone ad una platea che esprimerà un giudizio e per questo vorrebbe sottrarsi. Ma non può farlo: Dio stes-so lo chiede e a Lui si abbandona.

Da questo momento, Ildegarda sarà “una piuma ab-bandonata al vento della fiducia di Dio”, come essa stessa si definirà.

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LA TRINITÀ DA CUI TUTTO NASCELe sue visioni contengono una sorta di reinterpre-

tazione in chiave trinitaria di tutta la storia della sal-vezza, espressa sotto forma di simboli ed immagini. Le virtù sono personificate e come tali si esprimono.

Nella meditatio di Ildegarda, il Padre è il Dio creato-re che dà vita a tutte le cose e le dispone in armonia. Il Figlio parla attraverso Caritas, personificata in sembian-ze femminili mentre si presenta come “Sposa e amante del Signore, innamorata e raccolta nell’amplesso divino”. Dio dona a Caritas molti gioielli “perché l’ama grande-mente ed ella vuole un bacio da Lui e a Lui obbedisce”.

Lo Spirito si presenta come “Tuono della Voce at-traverso la quale nascono tutte le creature” e dice: “Do impulso alle cose con il mio alito… come ragione so-no alla radice di tutto”.

Dalla Trinità nasce la creazione e, in essa, l’essere umano “è l’opera compiuta di Dio perché Dio si cono-sce attraverso di Lui, per lui ha creato le altre creature e a lui ha concesso per amore la ragione”. In questa ope-ra compiuta di Dio, la donna appare come “forma spe-culativa” dell’uomo e in quanto tale, sua pari.

La potenza divina, “rotonda perfezione della mi-sura”, come fuoco illumina il cosmo circondandolo a mo’ di ruota.

LA CENTRALITÀ DELL’ATTO REDENTIVO DI CRISTO

Se la visione che Ildegarda ha del cosmo sottolinea la sua bellezza, quella del peccato si manifesta con ter-mini che ne indicano il sovvertimento: nuvole nere che si addensano, i venti diventano puzzolenti, il verde del-la vitalità sbiadisce… gli umori di cui sono fatte le cre-ature si scombinano e l’armonia viene deturpata. Ma Dio non rimane a guardare.

La carità, attraverso il Figlio, opera la redenzione a fa-vore della creatura umana, descritta come, “pecora del Signore” caduta nel fango del peccato. Interessante in

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questo contesto, la reinterpretazione ildegardiana dell’at-to redentivo: “Quando l’Agnello di Dio fu appeso sulla croce, gli elementi tremarono, perché il nobilissimo Fi-glio della Vergine era stato ucciso nel corpo dalle mani degli uomini, e nella sua morte felice, la pecora è stata riportata ai pascoli della vita. Infatti, l’antico persecutore, dopo aver visto che dovette lasciare libera quella pecora a causa del sangue dell’Agnello innocente, che lo stesso Agnello aveva versato nella remissione dei peccati, allo-ra riconobbe per la prima volta chi fosse quell’Agnello… Mentre l’uomo venne sollevato dalla morte, l’inferno aprì le sue porte e satana gridava: ‘Ahimè! ahimè! Chi mi aiu-terà?’. Ma anche la schiera dei diavoli fu colta da grande turbamento: infatti, quando videro che le anime a loro fedeli venivano trascinate via, si resero conto di quanto fosse grande quella potenza, a cui non avrebbero potuto resistere insieme al loro principe. Così l’uomo fu portato al di là dei cieli, perché Dio apparve nell’uomo e l’uomo in Dio, grazie all’opera di Gesù Cristo”.

La salvezza continua nel tempo quando l’essere umano modella la sua vita sulle virtù, in modo parti-colare sulla carità e l’umiltà.

“Perciò chi voglia avere la meglio sul diavolo, si munisca dell’arma dell’umiltà. Lucifero, infatti, la teme molto e davanti ad essa si nasconde come un serpente in una caverna, perché se essa lo prende, lo fa a pez-zi molto facilmente, come se fosse una cordicella pri-va di ogni valore”.

LA VIRIDITASIldegarda è anche un medico poiché studia le pro-

prietà delle erbe e le seleziona. Ma in lei, spiritualità e medicina sono strettamente connesse dal concetto di viriditas. Per viriditas Ildegarda intende l’effetto dell’e-nergia vitale che il Soffio divino ha impresso nella cre-azione e che si manifesta, oltre che nel verde della ve-getazione, nel creato e nell’essere umano, a livello fi-sico e spirituale. Il peccato rovina la viriditas; la prati-

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ca delle virtù, ricompone l’unità tra microcosmo e ma-crocosmo. L’arte medica, quella del tempo, utilizza le proprietà delle piante per rianimare la viriditas, e ri-dare salute, prosperità e bellezza alla creazione intera.

LA BELLEZZA FEMMINILEIl monachesimo femminile ha sempre mortificato la

bellezza femminile, considerata ostacolo nel cammi-no verso la santità. Ildegarda, invece è di diverso pare-re. La badessa di Andernach le scrive sconcertata: “Ci è giunto all’orecchio qualcosa a proposito di un’usan-za del vostro monastero certamente non comune: che cioè nei giorni festivi, durante il salterio, le sorelle sie-dono nel coro con i capelli sciolti e si ornano di un ve-lo di seta bianca, il cui orlo arriva fino a terra. Porta-no sul capo corone dorate e lavorate, nelle quali sono armonicamente intrecciate su entrambi i lati e sul re-tro delle croci e sulla fronte un’immagine dell’Agnel-lo. Sembra inoltre che le sorelle si ornino anche le di-ta con anelli d’oro. Tutto questo nonostante il primo pastore della Chiesa lo abbia proibito con esortazioni, dicendo che le donne devono comportarsi costuma-tamente, senza capelli intrecciati, oro e perle, né pre-ziose vesti”. Ildegarda, senza scomporsi, le risponde: “Nello Spirito Santo le vergini sono spose della santità e dell’aurora della verginità. Perciò devono avvicinarsi al sommo sacerdote come olocausto gradito a Dio. Per questo motivo spetta alla vergine indossare una veste luminosamente bianca”. Non è forse questa veste bian-ca l’abito della schiera dei beati dell’Apocalisse? Non rappresenta il segno luminoso del mistero della vergi-nità che vigila nell’attesa della redenzione finale?”.

IL RUOLO DELLA MUSICA NELLA LODE A DIOLa musica e il canto hanno una grande importanza

nella spiritualità di Ildegarda di Bingen; lei stessa ha scritto molte composizioni musicali per la preghiera.

Il significato che ella attribuisce al canto e alla mu-

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sica, si evince da una lettera che scrive ai prelati di Ma-gonza, per protestare contro la proibizione, inflitta da questi, a lei e alle sue monache, di accostarsi ai sacra-menti e di salmodiare cantando, a causa del rifiuto del-la badessa di dissotterrare e di buttare fuori dal cimite-ro del monastero un defunto, ivi sepolto, che pure es-sendo stato scomunicato, prima di morire si era penti-to e aveva ricevuto i sacramenti.

Ildegarda ricorda ai suoi interlocutori che i salmi e i canti, composti dai profeti sotto l’ispirazione dello Spi-rito Santo, sono “da cantarsi per accendere la devozio-ne dei fedeli” e gli strumenti musicali arricchiscono i canti con vari suoni “affinché gli uomini si rammentas-sero della dolce lode della quale Adamo prima della caduta gioiva in Dio insieme agli angeli… e anche per invitare l’umanità a questa dolce lode. Questo lo fece-ro in modo che gli stessi ascoltatori sollecitati e allena-ti… da aspetti esteriori… fossero istruiti su realtà inte-riori”. Ma il diavolo, avendo capito che l’essere umano, “attraverso quest’arte si sarebbe trasformato sino a re-cuperare la dolcezza dei canti della patria celeste”, non ha mai smesso di ostacolare quest’opera.

Il monito conclusivo rivela bene il carattere ildegar-diano: “Per questo, voi e tutti i prelati, dovete sempre stare bene attenti prima di chiudere con un decreto la bocca ai cori che cantano le lodi a Dio”.

PROFETESSA DELLA GERMANIA Ildegarda, ormai all’apice della fama, forte dell’ap-

provazione di Bernardo di Clairvaux e del Papa, sen-te fortemente la responsabilità di occuparsi della rivi-talizzazione della fede della Chiesa.

Con la semplice scorta di due monache e uno stal-liere attraversa a periodi alterni l’intera regione del Me-no. Le tappe di questo percorso sono i monasteri fem-minili e maschili, che Ildegarda si impegna a riforma-re. Ella stessa ne fonda due: quello di Bingen (dove lei si trasferisce nel 1147) e quello di Eibingen, nel 1165.

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Ma non si limita solo a questo. La sua predicazione investe la società civile, le piazze, i mercati, le chiese ed è rivolta ai nobili, agli alti prelati e a tutto il popolo. La sua fama cresce e molte persone le scrivono, com-preso l’imperatore Federico Barbarossa. Lei risponde in modo schietto e deciso, proponendo a tutti il modello di vita appreso dal Vangelo.

Giovanni Paolo II, nelle lettera che scrisse in occa-sione dell’ottocentesimo anniversario della morte di Il-degarda, la definisce, a ragione: “Profetessa della Ger-mania”.

CORAGGIOSA NELLE BATTAGLIEIldegarda, “Colei che è audace in battaglia”, secon-

do il significato etimologico del termine, si dimostra in molte situazioni all’altezza del nome che porta.

Che fosse battagliera, lo dimostra la sua capacità di tenere testa allo strapotere di chierici e regnanti, con il solo coraggio di una fede chiara e luminosa.

E forse non è un caso che la sua vita, segnata da una salute costantemente malferma, che ne mette spes-so a rischio la sopravvivenza, abbia raggiunto, cosa ab-bastanza insolita a quel tempo, la veneranda età di 81 anni. Muore infatti il 17 settembre 1179 e viene sepol-ta nel monastero di Rupertsberg in un ricco mausoleo. Durante la Guerra dei Trent’anni, per salvarlo dalla di-struzione, i monaci benedettini portarono con se le re-liquie nella cappella del priorato di Bingen dove ripo-sano ancora oggi.

UNA SANTA MAI CANONIZZATAIldegarda fu acclamata santa a furor di popolo. Ma

il processo di canonizzazione avviato da Papa Grego-rio IX, una cinquantina di anni dopo la sua morte, non è stato mai completato.

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�n�ela da �oli�noSPOSA DI DIO-UOMO PASSIONATO

La biografia della beata Angela da Foligno gravita in-torno a tre date approssimative, quella della nascita, del-la “conversione mistica” e della morte. Nacque nella cit-tadina umbra, intorno all’anno 1248. Della sua giovinez-za non si conosce praticamente nulla se non il fatto che si sposò e visse una vita, a suo dire, “selvaggia, adultera e sacrilega”. Sicuramente di famiglia agiata, ebbe più figli e una vita morale molto spigliata. Non mancarono gravi colpe culminate in una serie di confessioni e di comu-nioni sacrileghe. Intorno all’’anno 1285 il suo cammino di fede iniziò di nuovo, attraverso il sacramento della Pe-nitenza celebrato nella chiesa cattedrale di S. Feliciano a Foligno, quando si confessò dal cappellano del vescovo.

Dopo la morte del marito, dei figli e della madre, provata dal dolore, che affrontò con grande forza d’a-nimo, ridiede vigore alle radici della sua fede quando scoprì il senso di quello che stava vivendo, nella pas-sione che Cristo aveva vissuto per amore. La svolta mi-stica, favorita da un pellegrinaggio ad Assisi nel 1291, segnò una svolta decisiva nella sua vita. Nello stesso anno entrò a far parte del Terz’ordine francescano in cui emise i voti religiosi.

Fu durante questo viaggio ad Assisi che Angela fece

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sconcertanti ed esaltanti esperienze mistiche, di cui fu stupito testimone anche il suo parente e confessore, il B. Arnaldo da Foligno: questi, temendo si trattasse di fenomeni dovuti a suggestioni demoniache, le impo-se di dettargli le sue esperienze interiori. Il bisogno di far luce sulle profondità di quest’anima squassata dal-la grazia, diede così origine al Liber, uno dei più pre-ziosi libri sull’ esperienza mistica di un’anima partico-larmente favorita da Dio.

Il passaggio dalla conversione all’esperienza mistica, da ciò che si può esprimere all’inesprimibile, avvenne attraverso la contemplazione del Crocifisso: il “Dio-uo-mo passionato” divenne il suo “maestro di perfezione”. Da quel momento il suo obiettivo sarà, tendere ad una perfetta “somiglianza” con Lui, mediante purificazioni e trasformazioni sempre più profonde e radicali. In ta-le stupenda impresa Angela mise tutta se stessa, anima e corpo, senza risparmiarsi in penitenze e tribolazioni, desiderando di morire con tutti i dolori sofferti dal Dio-uomo crocifisso pur di essere trasformata totalmente in Lui: “O figli di Dio, – raccomandava – trasformatevi to-talmente nel Dio-uomo passionato, che tanto vi amò da degnarsi di morire per voi di morte ignominiosissima e del tutto ineffabilmente dolorosa e in modo penosissi-mo e amarissimo. Questo solo per amor tuo, o uomo!”. Questa identificazione comportava anche vivere ciò che Gesù aveva vissuto: povertà, disprezzo, dolore, perché “attraverso la povertà temporale l’anima troverà ricchez-ze eterne; attraverso il disprezzo e la vergogna otterrà sommo onore e grandissima gloria; attraverso poca pe-nitenza, fatta con pena e dolore, possederà con infinita dolcezza e consolazione il Bene Sommo, Dio eterno” .

DALLA CONVERSIONE ALL’UNIONE MISTICA CON IL CRISTO CROCIFISSO, ALL’INESPRIMIBILE!

Un cammino altissimo, il cui segreto è la preghiera costante: “Quanto più pregherai tanto maggiormente

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sarai illuminato; quanto più sarai illuminato, tanto più profondamente e intensamente vedrai il Sommo Be-ne, l’Essere sommamente buono; quanto più profon-damente e intensamente lo vedrai, tanto più lo ame-rai; quanto più lo amerai, tanto più ti diletterà; e quan-to più ti diletterà, tanto maggiormente lo comprende-rai e diventerai capace di capirlo. Successivamente ar-riverai alla pienezza della luce, perché capirai di non poter comprendere” .

Scrive il suo confessore: “La fedele allora mi disse: Ho avuto questa divina rivelazione: «Dopo le cose che avete scritto, fa’ scrivere che chiunque vuole conserva-re la grazia non deve togliere gli occhi dell’anima dalla Croce, sia nella gioia sia nella tristezza che gli conce-do o permetto»”. Ma in questa fase Angela ancora “non sente amore”; ella afferma: “L’anima prova vergogna e amarezza e non sperimenta ancora l’amore, ma il do-lore” , ed è insoddisfatta.

Angela sentiva di dover dare qualcosa a Dio per ri-parare i suoi peccati, ma lentamente comprendeva di non aver nulla da darGli, anzi di “essere nulla” davanti a Lui; capiva che non sarebbe stata la sua propria vo-lontà a darle l’amore di Dio, perché questa può solo darle il suo “nulla”, il “non amore”. Come ella dirà: so-lo “l’amore vero e puro, che viene da Dio, sta nell’ani-ma e fa sì che riconosca i propri difetti e la bontà di-vina […] Tale amore porta l’anima in Cristo e lei com-prende con sicurezza che non si può verificare o esser-ci alcun inganno. Insieme a questo amore non si può mischiare qualcosa di quello del mondo”.

Non rimane che aprirsi solamente e totalmente all’a-more di Dio, che ha la massima espressione in Cristo e per questo pregava così: “O mio Dio fammi degna di conoscere l’altissimo mistero, che il tuo ardentissimo e ineffabile amore attuò, insieme all’amore della Trinità, cioè l’altissimo mistero della tua santissima incarnazio-ne per noi. […]. Oh incomprensibile amore! Al di sopra di quest’amore, che ha fatto sì che il mio Dio si è fatto

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uomo per farmi Dio, non c’è amore più grande”. Tut-tavia, Angela avvertiva nel cuore le ferite del peccato; anche dopo una Confessione ben fatta, si sentiva per-donata ma ancora affranta dal peccato, libera e con-dizionata dal passato, assolta ma bisognosa di peni-tenza. E anche il pensiero dell’inferno l’accompagnava perché quanto più l’anima progredisce sulla via della perfezione cristiana, tanto più si convince non solo di essere “indegna”, ma di essere meritevole dell’inferno.

Ed ecco che, nel suo cammino mistico, Angela af-ferrò la realtà centrale, quella più profonda: ciò che la salverà dalla sua “indegnità” e dal “meritare l’inferno” non sarà la sua “unione con Dio” e il suo possedere la “verità”, ma Gesù crocifisso, “la sua crocifissione per me”, il suo amore.

Nell’ottavo passo, dei trenta descritti nella sua “au-tobiografia spirituale”, ella dice: “Ancora però non ca-pivo se era bene maggiore la mia liberazione dai pec-cati e dall’inferno e la conversione a penitenza, oppure la sua crocifissione per me”. E’ l’instabile equilibrio fra amore e dolore, avvertito in tutto il suo difficile cam-mino verso la perfezione. Proprio per questo contem-plava di preferenza il Cristo crocifisso, perché in tale visione vedeva realizzato il perfetto equilibrio: in croce c’è l’uomo-Dio, in un supremo atto di sofferenza che è un supremo atto di amore.

In questi “trenta passi” Angela dettò in dialet-to umbro, poi messo in un limpido latino scolastico dal suo amanuense, quanto avveniva nella sua ani-ma, dal momento della conversione al 1296, quando tali manifestazioni mistiche si fecero più frammenta-rie e lasciarono campo a nuove manifestazioni spiri-tuali, in particolare quella della “ maternità spiritua-le “ che raccolse intorno alla “Lella da Foligno” un vero cenacolo di anime desiderose di perfezione. A loro la beata inviava numerose lettere e per loro re-digeva anche le Istruzioni salutifere. La povertà, l’u-miltà, la carità, la pace erano i suoi grandi temi: “Lo

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sommo bene dell’anima è pace verace e perfetta... Chi vuole dunque perfetto riposo, istudisi d’amare Idio con tutto cuore, perciò che in tale cuore abita Idio, il qua-le solo dà e può la pace dare”.

Angela da Foligno morì il 4 gennaio 1309, come è scritto in uno dei diversi codici manoscritti del “Liber” e venne da sempre venerata con il titolo di Beata e Magistra Theologorum, ossia Maestra dei Teologi, per-ché in vita attorno a lei si era raccolto un Cenacolo di figli spirituali, tra i quali si annovera Ubertino da Ca-sale. Il suo corpo riposa nella Chiesa di San Francesco e Santuario della Beata Angela a Foligno.

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�ertrude di �el�taFERITA D’AMORE

Santa Gertrude, grande mistica tedesca del XIII se-colo, con la sua vita e il suo pensiero ha inciso in mo-do straordinario sulla spiritualità cristiana. Di grande statura culturale e profondità evangelica, questa donna si distingue per eccezionale talento naturale e straordi-nari doni di grazia; la sua profonda umiltà alimenta in lei lo zelo per la salvezza del prossimo, così come la sua intima comunione con Dio nella contemplazione, si esplicita nella prontezza nel soccorrere i bisognosi.

Nasce il 6 gennaio del 1256, festa dell’Epifania. Pur non essendo figlia di nobili, proviene da una famiglia benestante. All’età di cinque anni, nel 1261, entra nel monastero cistercense di Helfta, in Sassonia, dove ri-ceve una accurata educazione dalla grande Matilde di Magdeburgo, maestra di spiritualità e di bello scrivere. A giudicare dall’eleganza del testo poetico della Lux divinitatis, opera in cui Gertrude narra le sue espe-rienze mistiche, si può ben dire che sia stata una allie-va attenta e profittevole. Alla scuola di Matilde, perso-naggio capace di incidere profondamente sulla vita di molte giovani, attratte dalla sua spiritualità fortemente mistica, la ragazza, almeno fino ad un certo punto del-la sua vita, non sembra particolarmente interessata a

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curare la propria interiorità. Alcune fonti biografiche, le attribuiscono addirittura momenti di vita “dissipata”.

LA CONVERSIONE INTERIORE

A 26 anni, lo scenario interiore di Gertrude cam-bia radicalmente perché il Signore, “più lucente di tut-ta la luce, più profondo di ogni segreto, cominciò dol-cemente a placare quei turbamenti che aveva acceso nel mio cuore”. Si sente chiamata a passare “dalle co-se esterne alla vita interiore e dalle occupazioni terre-ne all’amore delle cose spirituali”. Comprende di esse-re stata lontana da Lui, chiusa nei suoi interessi intel-lettuali, di essersi dedicata con troppa avidità agli stu-di liberali, alla sapienza umana, trascurando la scienza spirituale e privandosi del gusto della vera sapienza. Il Signore la conduce ora al monte della contemplazio-ne, dove lei stessa lascia il vecchi stile di vita per assu-merne uno nuovo.

Una mutazione che sorprende molti, e che lei stessa attribuisce a una visione, seguita poi da altri fenome-ni eccezionali come estasi, stigmate, e misteriose ma-lattie che anziché fiaccola la stimolano, spingendola a momenti di stupefacente attivismo. Gertrude vorrebbe vivere in solitudine questa avventura dello spirito, ma non sempre può: le voci corrono, arriva molta gente al monastero, per confidarsi, interrogarla, o semplice-mente per vederla.

Lei accoglie tutti e specialmente chi è più disorien-tato. Gli sta a cuore soprattutto la divulgazione del cul-to per l’umanità di Gesù Cristo, tradotta nell’immagi-ne popolarissima del Sacro Cuore. Per raggiungere le persone che non possono recarsi al monastero, si affi-da alla scrittura e lo fa con l’eleganza che è frutto dei suoi studi. DA LETTERATA A TEOLOGA

Tramite una assidua e attenta lettura dei libri sacri che riesce a procurarsi, riempie il suo cuore di utili e

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dolci espressioni della Sacra Scrittura. Questa ricchez-za spirituale unita alle competenze acquisite nelle di-scipline scolastiche la preparano a diventare “apostola”, nel modo richiesto dai tempi. A chi viene a consultar-la riserva una parola ispirata ed edificante mentre con i testi scritturistici più adatti chiude la bocca agli op-positori e confuta opinioni errate.

Geltrude si dedica anima e corpo al servizio del-la chiesa diffondendo le verità di fede anche tramite la scrittura, e lo fa con chiarezza e semplicità, grazia e persuasività, tanto da guadagnarsi la stima e l’am-mirazione di teologi e persone religiose. Con l’esem-pio e la parola è capace di suscitare un grande fervore tra la gente. Alla regola monastica, già esigente in fat-to di ascesi, aggiunge penitenze personali che lei pra-tica con tale devozione e abbandono in Dio da susci-tare in chi la incontra la consapevolezza di essere alla presenza del Signore.

Dio le dona la doppia consapevolezza di essere sta-ta chiamata e di essere strumento della sua grazia. I doni che ha ricevuto sono molti, ma due le sono par-ticolarmente cari:

“Le stimmate delle tue salutifere piaghe che mi im-primesti, quasi preziosi monili, nel cuore, e la pro-fonda e salutare ferita d’amore con cui lo segnasti. Tu mi inondasti con questi Tuoi doni di tanta beatitudi-ne che, anche dovessi vivere mille anni senza nessu-na consolazione né interna né esterna, il loro ricor-do basterebbe a confortarmi, illuminarmi, colmarmi di gratitudine. Volesti ancora introdurmi nell’inestima-bile intimità della tua amicizia, aprendomi in diversi modi quel sacrario nobilissimo della tua Divinità che è il tuo Cuore divino […]. A questo cumulo di bene-fici aggiungesti quello di darmi per Avvocata la san-tissima Vergine Maria Madre Tua, e di avermi spes-so raccomandata al suo affetto come il più fedele de-gli sposi potrebbe raccomandare alla propria madre la sposa sua diletta”.

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UNA TEOLOGIA AFFETTIVAGli scritti di Gertrude attingono molte immagini dai

testi biblici. La sua opera rivela una esperienza teolo-gica che mette al centro il rapporto personale col mi-stero di Dio attraverso l’opera di Cristo presente e vis-suta nella celebrazione liturgica quotidiana. Gertrude scrive quello che vive e quello che “vede” nella litur-gia, nella Scrittura e nella preghiera. La teologia che ci trasmette in forma di preghiere è la sua interioriz-zazione personale dei misteri della fede e l’espressio-ne simbolica della bellezza ineffabile di Dio. In lei il concetto di Dio come amore è strettamente legato alla sua esperienza interiore di affettività e quello che ne scaturisce è una vera e propria teologia “affettiva”, in cui il Dio Trinità è bellezza, luce e soprattutto amo-re. Lo Spirito conduce l’uomo verso la contemplazione del mistero della salvezza rivelato in Gesù come gra-zia. Tutto questo si ritrova nella sua prima opera dal titolo Il Messaggero della divina misericordia. Una se-conda opera, Gli Esercizi Spirituali, contiene sette me-ditazioni ispirate alla vita liturgica e monastica che, iniziando dalla memoria del Battesimo e della con-versione, terminano con il tema dell’unione di amore sponsale con Dio nella professione. Gertrude esorta il lettore ad utilizzarle per iniziare un itinerario di fe-de che conduca all’unione con Dio. Il carattere poeti-co-affettivo, fortemente emotivo di queste meditazio-ni, che rispecchiano la personalità di chi scrive, han-no come effetto quello di commuovere l’anima uma-na e predisporla ad una risposta amorosa al Dio amo-re. Simboli, immagini bibliche e metafore, largamen-te utilizzati, esprimono meglio di qualsiasi linguaggio razionale, la grandezza del mistero di Dio che la santa presenta in modo del tutto personale in linea con la sua esperienza umana.I simboli della luce e del fuo-co, del canto e della danza, le esperienze sensoriali del vedere, ascoltare, sentire, toccare, gustare, il lin-guaggio affettivo dell’abbraccio e del bacio, compon-

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gono una sorta di vocabolario dell’interiorità attraver-so cui questa mistica comunica l’anelito dell’anima a congiungersi con Dio.

Così si esprime nelle Rivelazioni: “Nella notte san-tissima, in cui, con la discesa della dolce rugiada della divinità, per tutto il mondo i cieli hanno stillato mie-le, l’anima mia, come vello irrorato sull’aia della co-munità, si dedicò, attraverso la meditazione, ad esse-re presente e, applicandosi alla devozione, ad offrire il proprio servizio a quel parto eccelso in cui la Ver-gine generò, come un raggio, il Figlio vero Dio e ve-ro uomo. Come nel guizzo di una subitanea illumina-zione, essa comprese che le veniva offerto ed era da lei ricevuto un tenero bimbo appena nato, in cui sen-za dubbio si celava il dono sommo e perfetto, quello vero e migliore in assoluto. Mentre l’anima mia lo te-neva in sé, di colpo sembrò trasformarsi tutta nel suo stesso colore, se tuttavia può dirsi ‘colore’ ciò che non si è in grado di paragonare a nessun aspetto visibile. Allora la mia anima percepì in modo ineffabile il sen-so di quelle soavi parole: Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28), mentre sentiva di tenere in sé il Diletto disce-so in lei e si rallegrava che non le mancasse la gradi-ta presenza dello Sposo dalle piacevolissime carezze. Per questo essa sorseggiava con insaziabile avidità ta-li parole a lei offerte da Dio come una coppa di mie-le: “Come io sono la figura della sostanza di Dio Pa-dre nella divinità, così tu sarai la figura della mia so-stanza nella natura umana, accogliendo nella tua ani-ma divinizzata quanto proviene dalla mia divinità, al-lo stesso modo in cui l’aria riceve i raggi del sole; pe-netrata fino al midollo dalla forza di questo legame, tu divieni capace di un’unione più familiare con me”.

E ancora negli Esercizi Spirituali: “O luce serenis-sima della mia anima, e mattino luminosissimo, sorgi ormai in me, e comincia a risplendere a me in modo tale che nella tua luce io veda la luce(Sal 35,10) e gra-zie a te la mia notte si converta in giorno! O mio ca-

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rissimo Mattino, tutto ciò che tu non sei, per amore dell’amore tuo possa io stimarlo come niente e vani-tà.. Vieni a visitarmi fin dal primo albore del mattino (Is 40,17), perché io mi trasformi tutta quanta imme-diatamente in te… Saluta il Dio che ti ama con que-ste parole, leggendo il salmo celeste: “Ti esalterò, Dio, mio re…”( Sal 144,1). Mio re e mio Dio, amore che sei Dio e gioia, a te canta con esultanza la mia anima e il mio cuore. Tu sei la vita della mia anima, mio Dio, Dio vivo e vero, fonte di luci eterne, e la luce del tuo dolce volto è stata impressa su di me, benché inde-gna; il mio cuore desidera salutarti, lodarti, magnifi-carti e benedirti! A te offro il fior fiore delle mie for-ze e dei miei sensi come olocausto di una nuova lode e di un intimo rendimento di grazie… Tu sei, mio Si-gnore, la mia speranza, tu la mia gloria, tu la mia gio-ia, tu la mia beatitudine. Tu sei la sete del mio spirito. Tu la vita della mia anima. Tu il giubilo del mio cuore. Dove mai potrebbe condurmi il mio stupore, al di so-pra di te, Dio mio? Tu sei il principio e il compimento di ogni bene e in te è la dimora di tutti coloro che in-sieme si rallegrano. Tu sei la lode del mio cuore e del-la mia bocca. Tu scintilli tutto nella primaverile piace-volezza del tuo gaio amore. La tua eminentissima di-vinità ti magnifichi e ti glorifichi, poiché tu sei la fonte della luce perpetua e la sorgente della vita... A te can-tino con gioia tutte le stelle del cielo, che per te brilla-no con gioia e, chiamate ad un tuo cenno di coman-do, sono sempre pronte al tuo servizio. A te cantino con gioia tutte le mirabili opere tue, tutte quelle che abbraccia l’immenso cerchio del cielo, della terra e de-gli abissi, e ti dicano quella perpetua lode che, sgor-gando da te, rifluisce in te, sua origine. A te canti con gioia il mio cuore e la mia anima, con tutta la sostan-za della mia carne e del mio spirito, sprizzando dall’e-nergia di tutto l’universo. A te, dunque, dal quale, per il quale e nel quale sono tutte le cose, a te solo onore e gloria nei secoli. Amen.”

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DESIDERIO DI AMORENel settimo Esercizio del suo libro, quello della pre-

parazione alla morte, santa Gertrude scrive: “O Ge-sù, tu che mi sei immensamente caro, sii sempre con me, perché il mio cuore rimanga con te e il tuo amo-re perseveri con me senza possibilità di divisione e il mio transito sia benedetto da te, così che il mio spiri-to, sciolto dai lacci della carne, possa immediatamen-te trovare riposo in te. Amen.”

Conclude la sua vicenda terrena il 17 novembre del 1301 o 1302, all’età di circa 46 anni.

Questa grande mistica ci fa comprendere, ancora oggi, che il centro di una vita felice, di una vita ve-ra, è l’amicizia con Gesù. E questa amicizia si impara nell’amore per la Parola di Dio, nella generosità verso gli altri, nell’amore per la preghiera liturgica, in par-ticolare nella Celebrazione Eucaristica, nella fede pro-fonda, nell’amore per Maria…

In modo da conoscere sempre più realmente Dio stesso, la vera felicità e la meta della nostra vita.

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�hiara d’�ssisiAMICA FEDELE

Nel famoso recital “Forza venite gente” c’è una can-zone dedicata all’amicizia di Chiara e Francesco. È in-titolata “Posso dire amore a tutti”. Chiara canta: “Pos-so dire ‘amore’ a tutti, posso dire amore a Dio ma non posso più dire ‘amore mio’ a te. Perché mio non è più niente e un amore mio non c’è e non posso più dirti ‘amore mio’. Perché? Perché?”.

E Francesco risponde: “Chiara, Chiara no. Se ti aves-si sarei ricco più di un re. E tu lo sai la ricchezza non è fatta più per me”. E Chiara ancora: “Con le mani ac-carezzare di un lebbroso posso il viso ma non posso più carezzare il tuo, perché? La tua sposa, la rinuncia, forse è bella più di me. Tu dai tutto a Lei, a me nulla dai, perché? perché?”.

È un testo che allude alla fatica di passare dall’amore a due all’amicizia, o amore grande. Questa parola non c’è. E infatti il canto sembra rimpiangere la relazione d’a-more esclusivo. L’amicizia è una cosa più profonda.

Lo ha annunciato anche il Papa Benedetto XVI in una catechesi del mercoledì e precisamente il 15 set-tembre 2010. Dopo aver raccontato la vita di Chiara, contemporanea di San Francesco, e donna coraggiosa e ricca di fede, capace di dare un decisivo impulso per

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il rinnovamento della Chiesa… e aver ricordato che era destinata come tutte le ragazze ad “un matrimonio con qualche personaggio di rilievo, Chiara, a 18 anni, con un gesto audace ispirato dal profondo desiderio di se-guire Cristo e dall’ammirazione per Francesco, lasciò la casa paterna e, in compagnia di una sua amica, Bona di Guelfuccio, raggiunse segretamente i frati minori presso la piccola chiesa della Porziuncola. Era la sera della Do-menica delle Palme del 1211. Nella commozione gene-rale, fu compiuto un gesto altamente simbolico: mentre i suoi compagni tenevano in mano torce accese, Fran-cesco le tagliò i capelli e Chiara indossò un rozzo abito penitenziale. Da quel momento era diventata la vergi-ne sposa di Cristo, umile e povero, e a Lui totalmente si consacrava. Come Chiara e le sue compagne, innume-revoli donne nel corso della storia sono state affascina-te dall’amore per Cristo che, nella bellezza della sua Di-vina Persona, riempie il loro cuore”.

Tutta la spiritualità di Chiara è di tono nuziale. Dice in una sua lettera: “Amandolo [Gesù] siete casta, toccan-dolo, sarete più pura, lasciandovi possedere da lui sie-te vergine. La sua potenza è più forte, la sua generosità più elevata, il suo aspetto più bello, l’amore più soave e ogni grazia più fine. Ormai siete stretta nell’abbraccio di lui, che ha ornato il vostro petto di pietre preziose… e vi ha incoronata con una corona d’oro incisa con il se-gno della santità” (Lettera prima: FF, 2862).

E San Francesco è per lei un amico fraterno. Affer-ma il Papa: “L’amicizia tra questi due santi costituisce un aspetto molto bello e importante. Infatti, quando due anime pure ed infiammate dallo stesso amore per Dio si incontrano, esse traggono dalla reciproca ami-cizia uno stimolo fortissimo per percorrere la via della perfezione. L’amicizia è uno dei sentimenti umani più nobili ed elevati che la Grazia divina purifica e trasfi-gura”. Diventare un solo spirito, attraverso lo scambio di affetti spirituali è non solo possibile, ma importan-te anche per quanti vivono oggi sulla via della consa-

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crazione. Non è solo l’esperienza di Chiara e France-sco, ma anche quella di Teresa d’Avila e Giovanni del-la Croce, di Francesco di Sales e Giovanna di Chantal, e di molti altri in tempi anche più recenti.

È proprio nel Medioevo che nasce un trattato fa-moso L’amicizia spirituale di Aelredo di Rievaulx, con espressioni significative anche per noi: “Gli amici de-vono essere semplici, comunicativi, arrendevoli e ap-passionati delle medesime cose”. “Nell’amico si devo-no provare quattro cose. La fedeltà, l’intenzione, il cri-terio e la pazienza. Per sempre ama chi è amico: anche se rimproverato, anche se offeso, anche se messo sul fuoco, sempre ama”. Ma di più la relazione vuole esse-re condivisione dei beni spirituali, i beni della grazia. E questo richiede la sapienza che è dono dello Spirito. La distinzione tra natura e grazia non è divisione. La grazia non sostituisce la natura, ma la assume e la sal-va, e, in una persona consacrata, la eleva.

San Bernardo commentando il testo iniziale del Cantico dei Cantici afferma: “Il bacio spirituale… è un sentimento del cuore; non è un congiungere le labbra, ma un fondere gli spiriti e lo Spirito di Dio rende tutto casto e vi intride con la sua presenza il gusto delle re-altà celesti. Non troverei sconveniente chiamare que-sto bacio il bacio di Cristo…” (Libro II, 26).

Quello che il canto del recital afferma di vero è che tra Francesco e Chiara non ci poteva essere possesso reciproco, come tra due sposi. Madonna povertà era la loro sposa. E l’amicizia spirituale è proprio il contrario del possesso; è apertura all’amore e insieme comunio-ne di spiriti, in Cristo, lo Sposo.

Il distacco dai beni garantiva e garantisce anche la libertà interiore della relazione di amicizia.

Era questa la caratteristica dei francescani e anche di Chiara. Aveva ottenuto da Papa Gregorio IX o, proba-bilmente, già da Papa Innocenzo III, il cosiddetto Pri-vilegium Paupertatis. In base ad esso, Chiara e le sue compagne di San Damiano, non potevano possedere

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nessuna proprietà materiale. Si trattava di un’eccezio-ne veramente straordinaria rispetto al diritto canoni-co vigente. Era concesso in quel tempo, perché erano apprezzati i frutti di santità evangelica riconosciuti nel modo di vivere di Chiara e delle sue sorelle. Ciò mo-stra come anche nei secoli del Medioevo, il ruolo delle donne non era secondario, ma considerevole.

Nel vivere la relazione con il Signore, anche attra-verso la relazione di amicizia spirituale con Francesco, Chiara portava anche tutte le altre virtù che correda-no la Sposa di Cristo. Nel convento di San Damiano, Chiara praticò in modo eroico le virtù che dovrebbe-ro contraddistinguere ogni cristiano: l’umiltà, lo spiri-to di pietà e di penitenza, la carità. Pur essendo la su-periora, ella voleva servire in prima persona le suore malate, assoggettandosi anche a compiti umilissimi: la carità, infatti, supera ogni resistenza e chi ama com-pie ogni sacrificio con letizia. Ella scrive: “Sì, è ormai chiaro che l’anima dell’uomo fedele, che è la più gran-de di tutte le creature, è resa dalla grazia di Dio più grande del cielo… Medita e contempla e brama di imi-tare Cristo. Se con Lui soffrirai, con Lui regnerai; se in compagnia di Lui morirai sulla croce della tribolazio-ne, possederai con Lui le celesti dimore nello splendo-re dei santi, ed il tuo nome sarà scritto nel Libro della vita e diverrà famoso tra gli uomini… Da quando ho conosciuto la grazia del Signore nostro Gesù per mez-zo di quel suo servo Francesco, nessuna pena mi è sta-ta molesta, nessuna penitenza gravosa, nessuna infer-mità mi è stata dura”. A se stessa morente: “Va’, perché colui che t’ha creata, ti ha santificata, e sempre guar-dandoti come una madre suo figlio, ti ha amata con tenero amore”.

Al centro c’era la fede nella presenza reale dell’Euca-ristia. Confinata a letto per tanti anni a causa di una ma-lattia, ricamò con maestria finissimi corporali per ador-nare gli altari di varie chiese di Assisi e dintorni. Famo-so poi è rimasto l’episodio, narrato da un testimone,

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dell’allontanamento dei Saraceni dal monastero. Quan-do arrivarono gli invasori chiamarono Chiara. Ella andò alla porta del refettorio e fece portare la cassetta con-tenente l’Eucaristia, si prostrò davanti e piangendo im-plorò: “Signore, guarda tu queste tue serve, perché io non le posso guardare”. Si udì una voce di grande soa-vità che disse: “Io ti difenderò sempre”. Poi Chiara im-plorò la stessa grazia per la città. La voce rispose: “La città patirà molti pericoli, ma sarà difesa”. Ed i Saraceni se ne andarono. La possiamo definire “donna dell’inter-cessione”, capace di mettersi in mezzo.

Venne proclamata santa due anni dopo la sua mor-te dal Papa Alessandro IV nel 1255.

Nella Bolla era scritto: “Quanto è vivida la poten-za di questa luce e quanto forte è il chiarore di que-sta fonte luminosa. Invero, questa luce si teneva chiusa nel nascondimento della vita claustrale e fuori irradia-va bagliori luminosi; si raccoglieva in un angusto mo-nastero, e fuori si spandeva quanto è vasto il mondo. Si custodiva dentro e si diffondeva fuori. Chiara infatti si nascondeva; ma la sua vita era rivelata a tutti. Chia-ra taceva, ma la sua fama gridava” (FF, 3284).

La vita buona del Vangelo, che viene riproposta co-me itinerario educativo per il decennio 2010-2020 dal-la CEI, è ben rappresentata da questi santi. È la forza dell’amore attinto dal Vangelo e dalla relazione con il Signore che può trasformare, umanizzando e elevan-do il sistema di relazioni messe in crisi da un profon-do cambiamento di cultura.

Da una preghiera di benedizione composta da San-ta Chiara per le sue consorelle, percepiamo ancora la forza dell’amore “materno”, un amore fortemente spiri-tuale: “Vi benedico nella mia vita e dopo la mia mor-te, come posso e più di quanto posso, con tutte le be-nedizioni con le quali il Padre delle misericordie bene-disse e benedirà in cielo e in terra i figli e le figlie, e con le quali un padre e una madre spirituale benedis-se e benedirà i suoi figli e le sue figlie spirituali. Amen”.

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�ar�herita d’Oin�t SUL LETTO DELLA CROCE

Tra le tante sante di nome Margherita, che la storia della chiesa registra, Margherita d’Oingt è forse la me-no famosa, ma non certo perché manca qualcosa al-la sua santità.

Di lei si sa solo che apparteneva ad una famiglia no-bile, che era nata nei paraggi di Lione, in Francia, che già nel 1288 era priora della Certosa di Poleteins e che morì l’11 febbraio 1310.

Laddove la cronologia fatta di date sembra essere molto lacunosa e non ci permette di ricostruire in det-taglio la sua vita, la sua spiritualità ci rivela invece il suo ricco mondo interiore da cui è possibile attingere a pie-ne mani la testimonianza di una fede viva e autentica.

Al contrario di quanto succedeva nel suo tempo, quando le figlie di nobili signori abbracciavano la vita monastica per salvaguardare gli interessi materiali o il prestigio della famiglia, questa Margherita, abbracciò la vita certosina per seguire veramente Gesù sulla strada aperta da San Bruno.

UNA STORIA D’AMOREAl centro dell’esperienza spirituale di questa mona-

ca campeggia la figura di Cristo.

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Al fondo della sua vita di contemplativa, sta una forte consapevolezza di essere profondamente amata da Cristo e di essere chiamata a lasciarsi coinvolgere da Lui in un'appassionata storia d’amore: “Bel dolce Signore, quando penso alle speciali grazie che mi hai fatto per tua sollecitudine: innanzi tutto, come mi hai custodita fin dalla mia infanzia, e come mi hai sot-tratta dal pericolo di questo mondo e mi hai chiama-ta a dedicarmi al tuo santo servizio, e come mi hai provvista in tutte quelle cose che mi erano necessa-rie per mangiare, bere, vestire e calzare, (e lo hai fat-to) in tal modo che non ho avuto occasione di pen-sare in tutte queste cose che alla tua grande miseri-cordia”. Sentirsi amata, suscita nel suo cuore, il desi-derio di corrispondere a tanto amore: “Dolce Signore, tutto ciò che hai compiuto, per amore mio e di tutto il genere umano, mi provoca ad amarti, ma il ricor-do della tua santissima passione dona un vigore sen-za eguali alla mia potenza d’affetto per amarti. È per questo che mi sembra […] di aver trovato ciò che ho così tanto desiderato: non amare niente altro che te o in te o per amore tuo”.

GESÙ DOLCE MADRE Il carattere di Margherita appare dolce e solare. Dal

modo come parla della sua famiglia si capisce che, in quel contesto, essa sente di essere stata amata. La figu-ra materna è spesso associata a sentimenti di tenerez-za e di accoglienza. Questa felice esperienza familiare, le facilita l’accoglienza dell’amore che Dio dona gratui-tamente a piene mani e le apre la strada della piena re-alizzazione di se in Cristo Gesù.

Nelle sue meditazioni, l’amore di Gesù assume, in modo quasi naturale, le caratteristiche di quella dol-cezza materna, di cui Margherita ha fatto esperienza, e per cui le riesce spontaneo rivolgersi a Gesù con que-ste parole: “Dolce Signore tu sei mia madre e più che madre”.

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Gli affetti familiari hanno un ruolo importante nel-la sua vita, ma l’amore di Gesù è così forte da mettere in ombra tutto ciò che una creatura può desiderare in questo mondo: “Dolce Signore, io ho lasciato mio pa-dre e mia madre e i miei fratelli e tutte le cose di que-sto mondo per tuo amore; ma questo è pochissimo, poiché le ricchezze di questo mondo non sono che spine pungenti; e chi più ne possiede più è sfortunato. E per questo mi sembra di non aver lasciato altro che miseria e povertà; ma tu sai, dolce Signore, che se io possedessi mille mondi e potessi disporne a mio piaci-mento, abbandonerei tutto per amore tuo; e quand’an-che tu mi dessi tutto ciò che possiedi in cielo e in ter-ra, non mi riterrei appagata finché non avessi te, per-ché tu sei la vita dell’anima mia, né ho né voglio ave-re padre e madre fuori di te”.

Questa scelta di lasciarsi coinvolgere nel dinamismo d’amore, chiede la totale purificazione del cuore e la necessità di radicarsi totalmente in esso. E Margherita accetta, per amore, anche questa sfida.

IL “PARTO” DELLA PASQUALa storia della salvezza è principalmente una storia

d’amore che si manifesta pienamente nella Pasqua del “bel dolce caro Signore Gesù Cristo”; per questo Mar-gherita si sente amata gratuitamente al di la di ogni li-mite umano.

Per Margherita è proprio nel mistero pasquale che si manifesta più chiaramente il ruolo materno di Ge-sù che fa uscire dal suo grembo la vita nuova della re-denzione, partorita nel dolore delle doglie. In questa metafora “materna”, la Croce è il letto del parto, su cui si consuma il travaglio:

“La madre che mi portò in grembo, soffrì fortemen-te, nel darmi alla luce, per un giorno o per una not-te, ma tu, bel dolce Signore, per me sei stato tormen-tato non una notte o un giorno soltanto ma per più di trent’anni […]; quanto amaramente hai patito a causa

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mia per tutta la vita! E allorché giunse il momento del parto, il tuo travaglio fu tanto doloroso che il tuo san-to sudore divenne come gocce di sangue che scorre-vano per tutto il tuo corpo fino a terra”.

Il donarsi totale di Gesù per amore, è sottolinea-to dalla sua disponibilità a “concedersi” alla sofferen-za, fino a lasciarsi aprire il costato perché il suo san-gue redentivo possa fluire come un grande ruscello e formare una strada:

“Tu sei stato deposto sul duro letto della croce, in modo tale da non poterti muovere o girare o agitare le tue membra così come suol fare un uomo che patisce un grande dolore, poiché sei stato completamente ste-so e ti sono stati conficcati i chiodi […] e […] sono sta-ti lacerati tutti i tuoi muscoli e le tue vene. […] Ma tut-ti questi dolori […] ancora non ti bastavano, tanto che volesti che il tuo fianco venisse squarciato dalla lancia così crudelmente da far sì che il tuo docile corpo fos-se del tutto arato e straziato; e il tuo prezioso sangue sgorgava con tanta violenza da formare una larga stra-da, quasi fosse un grande ruscello”.

Margherita è consapevole, ancora una volta, che su questa strada sono invitati tutti coloro che desiderano lasciarsi travolgere dall’amore che si fa Sangue perché è vita donata.

GESÙ NEL CUORE E NELLA VITAMargherita è una donna molto pratica, intenta a

mille occupazioni e a risolvere innumerevoli problemi connessi con la vita quotidiana del monastero.

Ma in tutto questo pullulare di vita, essa è anima-ta dalla consapevolezza che la redenzione di Cristo ha operato una gratuita e sostanziale riunificazione tra il mondo umano e il mondo divino e che anche nel pri-mo si può sperimentare la gioia di essere stati innalza-ti al livello del secondo.

Il desiderio che ogni essere umano ha di arriva-re alla felicità piena e gioiosa, è stato realizzato già su

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questa terra dall’amore redentivo di Cristo. E Marghe-rita che lo sperimenta nella gioiosità della vita di ogni giorno, può vedere in visione, il Cristo glorioso, da cui si sente profondamente amata, risplendere luminoso tra gli angeli e i santi che lo contemplano.

UNA DONNA COLTAMargherita, donna colta, conosce bene la cultura

del suo tempo e scrive in latino senza difficoltà. Essa è anche ricordata come una tra le più importanti scrittri-ci francesi, perché alcune sue opere scritte in franco-provenzale, sono annoverate tra i primi testi di cui si ha traccia di scrittura in questa lingua.

Ma la sua cultura non è fine a se stessa, perché il li-bro per eccellenza, il cui contenuto è da incidere nel proprio cuore, è Cristo e il Cristo nella sua passione salvifica. È Lui infatti il protagonista delle opere in cui questa monaca raccoglie la sostanza della sua spiritua-lità: Pagina meditationum (Libro di meditazioni), scrit-to in latino nel 1286, e lo Speculum.

Nello Speculum, scritto in lingua provenzale nel 1294, Margherita, riferendosi a se stessa in terza per-sona dice che la grazia di Dio “…aveva inciso nel suo cuore la santa vita che Dio Gesù Cristo condusse sulla terra, i suoi buoni esempi e la sua buona dottrina. El-la aveva messo così bene il dolce Gesù Cristo nel suo cuore che le sembrava perfino che questi le fosse pre-sente e che tenesse un libro chiuso nella sua mano, per istruirla”.

In quest’opera, sono narrate tre visioni. In una di queste, ella vede il Cristo con un libro chiuso in ma-no. Quando il libro si apre, si vedono solo due pagine che brillano come se fossero uno specchio. Nel libro-specchio, ella contempla lo splendore della Trinità. In esso appare, infatti, un luogo grande e bellissimo, nel quale risplende: “una gloriosissima luce che si divide in tre parti, come in tre persone; ma non vi è bocca d’uomo capace di parlarne”.

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A questa luce bellissima, Margherita aspira con tutta l’anima e la santità della sua vita testimonia, agli esseri umani di tutti i tempi, che è possibile realizzare ogni desiderio di pienezza, quando si è disposti a lasciarsi travolgere dall’amore gratuito di Cristo Gesù.

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�aterina da �ienaRIVESTITA DEL SANGUE DI CRISTO

Il secolo in cui visse Caterina Da Siena – il quat-tordicesimo – fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa, dell’ Italia e dell’ Europa intera. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non ces-sa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversio-ne e rinnovamento. Caterina è una di queste, che an-cora oggi ci parla e ci sospinge a camminare con co-raggio verso la santità per essere in modo sempre più pieno discepoli del Signore.

Nata a Siena, nel 1347, in una famiglia molto nume-rosa, morì a Roma, nel 1380. All’età di 16 anni, spin-ta da una visione in cui le si manifestò san Domeni-co, entrò nel Terz’Ordine Domenicano, nel ramo fem-minile detto delle Mantellate. Rimanendo in famiglia, confermò il voto di verginità fatto privatamente quan-do era ancora adolescente, si dedicò alla preghiera, al-la penitenza, alle opere di carità, soprattutto a benefi-cio degli ammalati.

In una visione che mai più si cancellò dal cuore e dalla mente di Caterina, la Madonna la presentò a Ge-sù che le donò uno splendido anello, dicendole: “Io, tuo Creatore e Salvatore, ti sposo nella fede, che con-

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serverai sempre pura fino a quando celebrerai con me in cielo le tue nozze eterne” . Quell’anello rimase vi-sibile solo a lei. In questo episodio straordinario co-gliamo il centro vitale della religiosità di Caterina e di ogni autentica spiritualità: il cristocentrismo. Cristo è per lei lo sposo, a cui è legata in un rapporto di inti-mità, di comunione e di fedeltà. Egli è il bene, amato sopra ogni altro bene.

Questa unione profonda con il Signore è illustrata da un altro episodio della vita di questa insigne misti-ca: lo scambio del cuore. Secondo Raimondo da Ca-pua, che scrive e trasmette le confidenze ricevute da Caterina, il Signore Gesù le apparve con in mano un cuore umano rosso splendente, le aprì il petto, ve lo introdusse e disse: “Carissima figliola, come l’altro gior-no presi il tuo cuore che tu mi offrivi, ecco che ora ti do il mio, e d’ora innanzi starà al posto che occupava il tuo”. Caterina ha vissuto veramente le parole di san Paolo, “… non vivo io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Tra i tanti doni che Caterina ha ricevuto dal suo Sposo amabile c’è anche quello delle lacrime.

Le lacrime esprimono una sensibilità squisita e pro-fonda, capacità di commozione e di tenerezza. Non pochi Santi hanno avuto il dono delle lacrime, rinno-vando l’emozione di Gesù stesso, che non ha trattenu-to e nascosto il suo pianto dinanzi al sepolcro dell’ami-co Lazzaro e al dolore di Marta e Maria, e alla vista di Gerusalemme, nei suoi ultimi giorni terreni. Secondo Caterina, le lacrime dei Santi si mescolano al Sangue di Cristo, di cui ella ha parlato con toni vibranti e con im-magini simboliche molto efficaci: “Abbiate memoria di Cristo crocifisso, Dio e uomo (…). Ponetevi per obiet-to Cristo crocifisso, nascondetevi nelle piaghe di Cristo crocifisso, annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso”

Da santa Caterina apprendiamo la scienza più su-blime: conoscere ed amare Gesù Cristo e la sua Chie-sa. Nel Dialogo della Divina Provvidenza, ella, con un’immagine singolare, descrive Cristo come un pon-

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te lanciato tra il cielo e la terra. Esso è formato da tre scaloni costituiti dai piedi, dal costato e dalla bocca di Gesù. Elevandosi attraverso questi scaloni, l’anima pas-sa attraverso le tre tappe di ogni via di santificazione: il distacco dal peccato, la pratica della virtù e dell’amo-re, l’unione dolce e affettuosa con Dio.

Attorno ad una personalità così forte e autentica si andò costituendo una vera e propria famiglia spiritua-le. Si trattava di persone affascinate dall’autorevolezza morale di questa giovane donna di elevatissimo livel-lo di vita, e talvolta impressionate anche dai fenomeni mistici cui assistevano, come le frequenti estasi. Mol-ti si misero al suo servizio e soprattutto considerarono un privilegio essere guidati spiritualmente da Caterina. La chiamavano “mamma”, poiché come figli spirituali da lei attingevano il nutrimento dello spirito.

Anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate e laiche, che alimentano nelle anime il pen-siero per Dio, rafforzano la fede della gente e orienta-no la vita cristiana verso vette sempre più elevate.

“Figlio vi dico e vi chiamo – scrive Caterina ri-volgendosi ad uno dei suoi figli spirituali, il cer-tosino Giovanni Sabatini –, in quanto io vi partori-sco per continue orazioni e desiderio nel cospet-to di Dio, così come una madre partorisce il figlio”. Al frate domenicano Bartolomeo de Dominici era solita indirizzarsi con queste parole: “Dilettissimo e carissimo fratello e figliolo in Cristo dolce Gesù”. Da santa Caterina apprendiamo la sublime arte di ama-re con coraggio, in modo intenso e sincero, Cristo e la Chiesa. Chiunque può far proprie le parole della san-ta che leggiamo nel Dialogo della Divina Provviden-za, a conclusione del capitolo che parla di Cristo-pon-te: “Per misericordia ci hai lavati nel Sangue, per mi-sericordia volesti conversare con le creature. O Pazzo d’amore! Non ti bastò incarnarti, ma volesti anche mo-rire! … O misericordia! Il cuore mi si affoga nel pensa-

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re a te: ché dovunque io mi volga a pensare, non tro-vo che misericordia”.

Caterina soffrì tanto, come molti Santi. Qualcuno pensò addirittura che si dovesse diffidare di lei al pun-to che, nel 1374, sei anni prima della morte, il capi-tolo generale dei Domenicani la convocò a Firenze per interrogarla. Le misero accanto un frate dotto ed umile, Raimondo da Capua, futuro Maestro Generale dell’Ordine. Divenuto suo confessore e anche suo “fi-glio spirituale”, scrisse una prima biografia completa della Santa.

Prima di morire, a 33 anni, Caterina disse: “Parten-domi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia”.

Fu canonizzata nel 1461.

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DONNE NELLA STORIA 2. XIX E XX SECOLO

Il Diciannovesimo e Ventesimo secolo segnano un periodo storico che registra, in occidente, tante espe-rienze di santità femminile, spesso collegate alla fonda-zione di istituti religiosi di vita apostolica o opere assi-stenziali a favore dei più poveri. Si tratta di donne che si distinguono per la loro appassionata adesione a Cri-sto e per una generosità fattiva, di donazione di sé. In questo contesto si colloca la figura di Santa Maria De Mattias, mistica ed apostola, fondatrice di una Con-gregazione, quella delle Adoratrici del Sangue di Cri-sto, che avvia un movimento di cambiamento socia-le attraverso una capillare opera di evangelizzazione e promozione umana, finalizzata alla conversione di popolazioni fortemente imbarbarite.

All’interno di questa tendenza, emerge poi, un filo-ne più dichiaratamente mistico, da cui si distinguono singolari figure di donne, spesso molto diverse tra loro, ma accomunate da una fede entusiasta e da scelte co-sì radicali, da sfociare in un dare la vita nel senso let-terale del termine. Lungo tutto l’arco del Novecento, si assiste ad una progressiva emancipazione delle donne, soprattutto da un punto di vista culturale, che, a livel-lo professionale, le porta a oltrepassare soglie di luoghi lavorativi, fino a quel momento preclusi al sesso fem-minile, come le università, in qualità di docenti (Edith Stein), come medici in ambulatori (Gianna Beretta Molla), nel mondo intellettuale, come filosofe e scrittri-

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ci. Abbiamo scelto alcuni nomi di donne famose, come esempio di innalzamento della condizione femminile, che parlano però anche di santità, a cui, in alcuni ca-si, sono giunte dopo una lunga ricerca di Dio, sfocia-ta in una conversione. Si tratta di cambiamenti in cui il passaggio dall’ateismo pratico alla fede, è avvenuto nella lotta, sostenuta da una costante ricerca di senso.

C’è poi, un’altra categoria di donne, spesso madri, che trovandosi di fronte ad un difficile discernimento, hanno scelto di morire, piuttosto che sopprimere la vi-ta che portavano in grembo. E tutto questo come con-clusione naturale di una scelta di fede fatta a mon-te, nutrita quotidianamente e vissuta con coerenza fi-no alla fine.

In questa sezione, vogliamo offrire un saggio della ricchezza spirituale e umana di alcune di queste figure di donne e di sante, che hanno da dire molto al mondo sempre più scristianizzato della nostra epoca storica. Le proponiamo come testimoni di un cristianesimo che entra nella vita e guida le scelte di ogni giorno; come imitatrici di Cristo, nell’attraversare, da protagoniste attive, il mistero di morte e risurrezione, inscritto nella ferialità; come compagne di viaggio di tanti viandan-ti in cerca di umanità, di senso e di fede. Esempi che, se vogliamo, possono ridare lucentezza ai colori della nostra vita, sbiaditi dalla routine quotidiana, e far ri-fiorire la speranza che santi ci possiamo diventare tut-ti. Basta lasciarsi trascinare dal Signore Gesù, nel di-namismo del suo amore.

Come hanno fatto queste donne.

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�aria �e �attiasSPOSA DEL CROCIFISSO

Un periodo storico tormentato da profonda crisi so-ciale e religiosa, il 1800, in cui la moralità cede il po-sto alla dispersione, l’educazione dei giovani alle scor-ribande e alle fughe dall’arruolamento militare, la don-na alla segregazione e sottomissione all’uomo.

Nello Stato Pontificio, dell’Italia centrale, Vallecorsa è un piccolo paese posto su di un colle roccioso della Ciociaria. I suoi abitanti vivono nella paura e nell’odio quotidiani. Nell’humus della violenza del tempo e del sangue umano sparso per vendetta, cresce Maria De Mattias, nata nel 1805, come un fiore primaverile sot-to la neve invernale.

VERSO GRANDI ORIZZONTI DI VITAAdolescente, sensibile e aperta alla grazia divina,

spesso si affaccia alla finestra della sua camera e scru-ta l’orizzonte lontano. Il sole si nasconde presto dietro le rocciose montagne che circondano il suo paese, e nel crepuscolo si sente stretta da un’angoscia mortale. Vor-rebbe fare qualche cosa per quei giovani nascosti sulle montagne, per le ragazze segregate in casa, per quanti anelano alla salvezza operata dal Sangue di Cristo. Guar-da lontano e sussurra con voce tremante: “è impossibi-

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le per una donna attraversare i sentieri tra queste dure rocce! Quanto vorrei correre là dove la sofferenza e l’i-gnoranza rendono l’uomo e la donna schiavi della pre-potenza della politica e dell’indifferenza della Chiesa!”.

I pastori intanto tornano a casa, dopo una giorna-ta di pascolo dei loro greggi; è l’ora del calar del so-le. Vorrebbe lei uscire e chiedere loro cosa hanno vi-sto su quelle colline, in mezzo ai boschi e quanto san-gue è stato sparso in quella giornata. Ma una donna non può uscire di sera e intrattenersi con gli uomini.

In Maria crescono insieme il desiderio di annuncio e l’angoscia della morte: è l’inizio della sua pasqua. In-fuocata d’amore per il suo Signore, si vede costretta a dimorare tra le pareti domestiche, in attesa di poter di-ventare missionaria per le strade del mondo. Quell’o-rizzonte che scruta ogni sera le sembra sempre più chiuso e gli alberi dei boschi circostanti più minaccio-si. “Debbo andare; non posso più restare chiusa a pen-sare a me stessa! La forza del Sangue di Cristo corre nelle mie vene e non mi dà pace!”.

DENTRO IL GRANDE FIUMENel suo cuore si nasconde un desiderio infuoca-

to di misericordia, come una vena d’acqua sotterranea che esige di farsi strada tra le rocce per iniziare il suo corso giù nella valle e rientrare pian piano nell’alveo del grande fiume. Maria già sa che il fiume dell’uma-nità, dove desidera immergere la sua persona, è mel-moso, carico di detriti e di peccato; ella contempla il costato aperto del suo Signore e vede scorrere torren-ti di forza divina del Sangue di Cristo Crocifisso nella storia del suo tempo.

Con la delicatezza di giovane, amante della vita, as-siste a uccisioni e vede scorrere sangue umano lungo i vicoli sassosi di Vallecorsa. Nella sua stanza continua a sognare di poter uscire di casa e attraversare i peri-colosi boschi che circondano il suo piccolo paese, per incontrare giovani, uomini e donne assetati di pace e

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bisognosi di essere rigenerati alla vita. Lacrime ama-re solcano il suo viso di fronte all’impotenza dell’esse-re donna, segregata tra le mura domestiche, ma prote-sa a viaggiare, predicare, consolare e a frapporsi come sposa di Sangue fra le parti in conflitto.

La particolare forza interiore del Sangue di Cristo si fa strada nel suo cuore come fonte zampillante e la ren-de docile alla voce del suo Sposo Crocifisso. Si fa co-raggio e con il desiderio di una missionaria, a 29 anni esce dalla sua casa e attraverso la porta principale del suo paesetto – detta Missoria – inizia il suo corso co-me piccolo ruscello d’acqua limpida e si dirige verso le vallate della Ciociaria. La sorgente acquista pian piano la forma di un torrente fino a diventare un fiume che scorrendo lungo le terre aride dell’umanità, sempre più dispersa, acquista una straordinaria lunghezza.

Parte Maria, benedetta dal padre Giovanni, e porta in cuore una segreta speranza che le deriva dalla forza del Sangue dell’Agnello Pasquale. Quell’Agnello Croci-fisso e glorioso abita ormai il suo animo e plasma la sua mente, da quando, adolescente, ascoltava le predi-che di Gaspare Del Bufalo ai piedi del grande crocifis-so della missione nella sua parrocchia.

Mentre si avvia su di un mulo con le poche cose che può portare con se, verso Acuto, emergono dalla sua memoria le dolci parole del missionario: “Dio nel-la sua infinita misericordia ha voluto salvare l’umani-tà lavandola con il Sangue del suo Figlio crocifisso”.

Queste ed altre parole, divenute ormai convinzione e tormento, le feriscono il cuore di compassione e la spingono a non temere i pericoli della traversata. Anzi con un coraggio che le deriva solo dalla grazia divina e con decisa volontà percorre anche di notte i sentie-ri di montagna, non badando alle derisioni dei soldati appollaiati tra i cespugli che costeggiano le montagne.

Da quel momento il rigagnolo di vita, diventato un fiume di speranza, accoglie sangue versato per vendet-ta e detriti dell’umanità ferita dall’odio, senza paura di

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sporcarsi le mani e di macchiare la sua reputazione di donna, perché sa di essere lavata e salvata dal Sangue divino che scorre insieme all’acqua melmosa della sto-ria. Immersa in questo fiume si lascia trascinare, obbe-dendo a quel percorso che Dio le traccia ogni giorno, per raggiungere le comunità dell’Istituto, da lei fonda-to nel 1834, delle Adoratrici del Preziosissimo Sangue e ogni altro luogo che la chiama a dare una risposta concreta di vita.

LA VIA DEL SANGUELe intuizioni femminili, la passione d’amore per la

salvezza “del caro prossimo”, la vitalità e l’intelligen-za della giovane vallecorsana erano tanti rigagnoli che dovevano rientrare nell’unico alveo della Volontà di Dio, altrimenti sarebbero state come acque disperse nelle campagne della tormentata Ciociaria.

“Sentii dirmi che le grazie a me concesse, non era-no per me sola, ma per aiuto di altre anime… Sentivo dei forti impulsi, che se volevo trovare la calma… mi dovevo dare al servizio di Dio e a una vita somiglian-te a Gesù Cristo”.

Un fiume di acqua melmosa e di Sangue salvifico capace di levigare le rocce più appuntite, di sanare i cuori più induriti anche di uomini di Chiesa! Tutti co-loro che avrebbero accettato di entrarvi dentro, avreb-bero contribuito a fecondare paesi e campagne desti-nati a produrre frutti di riconciliazione e di pace. Uo-mini e donne, giovani e fanciulli del suo tempo ven-gono ricondotti all’unica sorgente di grazia e di mise-ricordia, dalla parola e dalla presenza oblativa di que-sta donna che matura all’ombra della Croce tra i rivi scorrevoli del Divin Sangue.

Non avrebbe potuto immergersi in questo Sangue di vita se non avesse appreso l’arte dell’ascoltare la vo-ce del suo Signore e non avesse trascorso lungo tem-po inginocchiata ai piedi del Crocifisso della cappella della prima casa, come sposa adorna per il suo Sposo.

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Tra quei rivi di vita, Maria si lascia levigare e di quel sangue riempie il suo animo, come di nuova forza di-vina, per essere ogni giorno più trasformata in don-na coraggiosa, educatrice alla pace. Sa di essere desti-nata a correre nel grande fiume della misericordia di Dio, spesso incuneato tra le pericolose rocce e i tor-tuosi sentieri dell’umanità. Il percorso è sempre carico di speranza, perché teso verso quell’alleanza d’amore che Dio da sempre ha promesso a coloro che si lascia-no lavare dal Sangue dell’Agnello.

Ai piedi della croce, fissando lo sguardo al Costato aperto del Crocifisso, anela, come cerva assetata, alla fonte zampillante della salvezza e beve, ripetendo: “Il suo Sangue è nostro”, e con San Paolo “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me!”.

Maria non indica se stessa alle giovani che chiedo-no di seguirla, non confida sulle sue forze umane di fronte agli uomini e alle donne che vogliono risalire la china e ritrovare la sorgente, non presenta semplice-mente le sue intuizioni di donna coraggiosa alla Chie-sa troppo ripiegata su stessa, ma a tutti addita il Croci-fisso. È la chiamata a ritornare all’origine della salvez-za, dove la fonte perenne della redenzione operata da Cristo zampilla per la vita eterna.

L’amore anela alla fonte e genera nuova vita. Ella in-tuisce infatti ben presto, che “il nascente istituto Iddio lo vuole per il bene di tutta la Chiesa… e un giorno si vedranno cose belle a gloria di esso”.

Maria muore a 61 anni, il 20 agosto 1866. Le sue se-guaci sanno ancora oggi che la loro esistenza deve es-sere completamente immersa, ogni giorno, nel grande fiume della misericordia divina. Tutte con un'identità pasquale segnata dal Sangue dell’Agnello.

Verrà canonizzata da Giovanni Paolo II il 18 mag-gio del 2003.

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�dith �teinTRASFORMATA DALL’AGNELLO

“La chiesa desidera ringraziare la santissima Trinità per il ‘mistero della donna’ e per ogni donna, per ciò che costituisce l’eterna misura della sua dignità femmi-nile, per le ‘grandi opere di Dio’ che nella storia delle generazioni umane si sono compiute in lei”. Così scrive Giovanni Paolo II, nella Mulieris Dignitatem.

Basta gettare uno sguardo sul secolo appena passa-to per rendersi conto di quanto sia vera l’ultima parte di questa affermazione.

Edith Stein, ad esempio, è uno dei casi più eclatan-ti di come Dio opera cose grandi in chi accoglie, come grembo aperto, il dono della sua salvezza.

Nata a Breslavia, il 12 ottobre 1891, da una famiglia di ebrei ortodossi, crebbe in un ambiente che, sebbe-ne fedele alla scrupolosa osservanza del rituale rab-binico, non esercitò su di lei alcuna pressione religio-sa. Fu la genuina fede della madre, invece, a modella-re l’interiorità della piccola Edith, che ricordando quel periodo racconta: “In casa nostra non esistevano prin-cipi educativi; per sapere come comportarci, leggeva-mo nel cuore di nostra madre come in un libro aperto. La mamma ci insegnava l’orrore del male. Quando di-

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ceva: ‘è peccato’ quel termine esprimeva il colmo del-la bruttezza e della cattiveria e ci lasciava sconvolti”.

I suoi successi scolastici non alterarono la sua indo-le modesta e comprensiva. Ragazza dotata di notevo-le intelligenza, avida di conoscere, Edith terminò bril-lantemente gli studi secondari e si iscrisse all’universi-tà. Approdata allo studio della filosofia, entrò a contat-to con la nuova corrente fenomenologica di Husserl, di cui fu prima allieva e poi assistente, e quindi con i collaboratori del filosofo. A quel tempo, Edith, in fatto di religione era piuttosto indifferente pur continuando, senza convinzione, la pratica della religione ebraica. Lei stessa riconosce di essere stata atea fino ai 21 anni. Lo studio della fenomenologia, la portò a frequentare i corsi di Max Scheler, tornato da poco al cristianesi-mo. Di lui Edith scrive: “Per me come per altri, la sua influenza andò molto al di là del dominio filosofico… traboccava di idee cristiane, e sapeva esporle in modo brillante, con forza e persuasione. Per me questa fu la rivelazione di un universo fino allora totalmente sco-nosciuto… Caddero così le barriere del razionalismo… e mi trovai d’un tratto di fronte al mondo della fede”.

Furono queste testimonianze di cristianesimo esi-stenziale a farla capitolare, insieme a due avvenimenti che mutarono la rotta della sua vita.

L’INCONTRO CON LA CROCENel 1917, la giovane vedova del filosofo Reinach,

morto in guerra, si rivolse a Edith perché l’aiutasse a classificare gli scritti del marito in vista di una pubbli-cazione. Edith avendo visto la felicità dei due sposi, si aspettava di trovare l’amica schiacciata dal dolore; tro-vò, invece una donna che pur straziata dalla prova, di-mostrava una serenità che la sconvolse. La Stein, poco tempo prima della morte, confidò ad un sacerdote: “Fu quello il mio primo incontro con la Croce, con quella forza divina che la Croce dà a coloro che la portano. Per la prima volta, mi apparve visibilmente la Chiesa,

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nata dalla passione del Cristo e vittoriosa sulla morte. In quel momento stesso la mia incredulità cedette, il giudaismo impallidì ai miei occhi, mentre si levava nel mio cuore la luce del Cristo”. Un’altra esperienza signi-ficativa risale all’estate del 1921. Trovandosi una notte da sola in una casa di amici, le capitò di fare una let-tura interessante. Ecco come la racconta: “Presi casual-mente un libro in biblioteca, portava il titolo Vita di Santa Teresa narrata da lei stessa. Cominciai a leggere e non potei più lasciarlo finché non ebbi finito. Quan-do lo chiusi mi dissi ‘questa è la verità’”.

La mattina seguente procuratasi un catechismo e un messale, cominciò da sola la propria istruzione. Quan-do ritenne di essere pronta chiese il Battesimo che le fu accordato il 1º gennaio 1931. Era approdata!

Incontrando vecchi amici, Edith si scontra con l’in-comprensione; questo la porta ad una considerazione: “Ad ogni incontro mentre la discussione si rivela più impotente, con maggiore urgenza mi s’impone la ne-cessità dell’olocausto personale”.

Nel 1931 fu ospite, per un certo tempo, delle Bene-dettine di Friburgo. Una di quelle suore racconta: “Par-lava poco, ma ogni sua parola andava a segno perché nasceva dalle profondità del silenzio e della preghiera. Come dimenticare lo sguardo così grave, indicibilmen-te doloroso ch’ella dava al Crocifisso, il Re dei Giudei, quando leggeva, attraverso il disegno degli eventi, l’an-nuncio di una persecuzione razziale sempre più vio-lenta. Un giorno l’ho sentita mormorare: ‘Quanto do-vrà soffrire il mio popolo, prima di convertirsi!’ E, rapi-do come il lampo mi attraversò il pensiero: ‘Edith si of-fre a Dio per la conversione di Israele’”. Ben presto, la giovane convertita sentì sempre più forte il desiderio di una vita tutta dedita alla preghiera e alle cose di Dio.

SPOSA DELL’AGNELLONel 1933 lo realizzò facendosi carmelitana, dopo

che l’inasprirsi dell’antisemitismo aveva posto fine al-

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la sua attività di conferenziera e docente. La decisione di entrare in convento non fu compresa dalla famiglia Stein; la scelta del Carmelo era vista come una fuga dalla persecuzioni di cui era fatta oggetto la comunità ebraica. Ma la decisione di Edith aveva ben altri mo-tivi: sentiva che questa scelta era la maniera di adem-piere quel destino che già in modo oscuro presagiva.

Nel giorno della sua professione, la domenica di Pasqua dell’anno 1935, confesserà ad una novizia che la interrogava, che si sente diventata sposa dell’Agnel-lo. A questo punto le tappe della sua crescita spiritua-le e le vicende storiche del popolo d’Israele si fondo-no; la sua personale via della Croce diventa prepara-zione a portare la croce del popolo ebraico quale vit-tima di espiazione. Sentiva che il destino del suo po-polo era anche il suo. Così scrive nel 1938: “Ho pensa-to che tutti quelli che capiscono che tutto questo è la Croce di Cristo dovrebbero prenderla su di sé in nome di tutti”. L’anima illuminata dallo Spirito, può giunge-re all’offerta della propria vita per la salvezza di altri: questo è proprio ciò che fece Edith Stein.

Scriveva ad un’allieva: “Esiste una chiamata a patire con Cristo e per questo a collaborare con lui alla sua opera di redenzione… La sofferenza portata in unio-ne col Signore, è sua sofferenza, per questo è feconda. Questo è il principio su cui si fonda la vita di tutti gli ordini religiosi: attraverso una libera e gioiosa sofferen-za, intercedere per i peccatori e collaborare alla reden-zione dell’umanità”. E fu questo che Edith fece, diven-tando così “sacrificio perfetto gradito a Dio”.

Trasferita per motivi di sicurezza dal monastero di Colonia a quello di Echt, in Olanda, fu arrestata dalla Gestapo il 2 agosto 1942. Nei vari campi di concentra-mento che attraversò, fu l’angelo consolatore soprattut-to dei bambini trascurati dalle madri, inebetite dal do-lore. In una lettera di questo periodo, inviata al Carme-lo di Echt, si legge: “Sono contenta di tutto. Si può ac-quistare una Scientia Crucis solo se si comincia a sof-

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frire veramente del peso della Croce Ne ho avuto l’in-tima convinzione fin dal primo istante e dal profondo del cuore ho detto: ‘Ave Crux spes mea’”.

Edith Stein morì in una camera a gas del campo di Auschwitz il 9 agosto 1942. Come Agnello Immolato! Per la salvezza del suo popolo e del mondo.

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�aïssa �aritain LA MISTICA CHE UNISCE

50 anni fa, il 4 novembre 1960, moriva a Parigi Raïs-sa Maritain.

Il filosofo Jacques Maritain nel volume Ricordi e ap-punti, descrive così la grandezza umana e spirituale della moglie: “L’aiuto e l’ispirazione della mia amata Raïssa hanno permeato tutta la mia vita e tutta la mia opera. Se in quel che ho fatto vi è qualcosa di buono, a lei, dopo che a Dio, lo debbo. L’irradiazione del suo amore e il puro fervore della sua sapienza, la sua for-za d’animo e la benedizione di Dio sulla sua preghiera e sulle sue sofferenze hanno illuminato i miei giorni”.

Paolo VI amava questa scrittrice e mistica e il filo-sofo suo marito. Amava molto la sintesi del loro pen-siero raccolto nel saggio Umanesimo integrale. Ancora una proposta illuminante per questa epoca di diffici-lissima e travagliata antropologia.

Raïssa era un’ebrea russa. Nata a Rostov in Russia il 12 settembre 1883 da famiglia ebrea praticante, Raïssa Oumançoff si trasferisce in Francia e si iscrive alla Sor-bona, alla facoltà di Scienze. È lì che Raïssa incontra nel 1901 il giovane Jacques Maritain. Da allora la cop-pia diventa inscindibile. Nel 1904 i due si sposano ci-vilmente, ma nello stesso anno aderiscono al cattolice-

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simo. La via della spiritualità l’ha portata alla conver-sione. Basta pensare che a incidere è stata la lettura del Catechismo spirituale del gesuita Jean-Joseph Surin.

E venne anche per loro il tempo della crisi, provo-cata da una cultura che li convince dell’assenza dal mondo di qualsiasi finalità trascendente, con le so-le luci dello scetticismo e del relativismo a illuminare un universo che appare ai loro occhi malvagio e cru-dele: decidono di trovare l’assoluto che cercano, o di darsi la morte.

La svolta nella loro esistenza avviene proprio gra-zie ad amici e pensatori capaci di speranza (Péguy, Bergson e Léon Bloy) che ai loro occhi additano una prospettiva nuova, rispetto allo scetticismo e al nichi-lismo imperante. E giunge l’incontro con la persona di Gesù Cristo. La conversione avviene nel 1905, quando Raïssa si ammala gravemente. L’esperienza della ma-lattia e, insieme, della preghiera la avvicina, con Jac-ques, definitivamente a Dio. L’11 giugno 1906 entram-bi ricevono il Battesimo cattolico. Un altro grave epi-sodio di salute che colpisce Raïssa nel 1907 confer-ma nei due Maritain la fede in Dio. Negli anni Dieci, la lettura delle opere di San Tommaso d’Aquino di-svela loro quanto era stato negato dalla Sorbona. Le pubblicazioni di Jacques diventano numerose; Raïssa è accanto al marito nel suo lavoro di riflessione. Ini-ziano in questo periodo le frequentazioni e le amici-zie dei Maritain con gli esponenti della cultura loro contemporanea.

Il 2 ottobre 1912 i due coniugi fanno voto di casti-tà nella cattedrale di Versailles, voto che resterà segre-to anche agli amici più intimi. “Anche in questa scel-ta vi è tutta la grandezza dei Maritain – osserva lo stu-dioso Piero Viotto già docente di psicologia alla Catto-lica e autore per Città Nuova di un bel Dizionario del-le opere di Raïssa Maritain – Può esistere una vita mi-stica per coniugati, lo testimonia anche il loro libro Vi-ta di Preghiera. Sono rimasto affascinato dalla ‘relazio-

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ne intellettuale’ dei Maritain, ‘amore coniugale’ testi-moniato dalle osservazioni, correzioni e integrazioni di Raïssa ai manoscritti di Jacques. Per capire l’intensità di questo sodalizio basti pensare che l’opera maggiore di Jacques I gradi del sapere ha per sottotitolo la frase ‘distinguere per unire’, che è un’intuizione di Raïssa”.

Dal 1923 al 1939, vivono a Meudon, nei pressi di Parigi. Sono gli anni delle grandi amicizie con Jean Cocteau, Pierre Reverdy, Réginald Garrigou-Lagrange, Nicolas Nabokov, Charles Journet, Étienne Gilson, Gi-no Severini, Charles Henrion, François Mauriac (alcu-ni fra i molti). Al 1935 risale la pubblicazione delle pri-me poesie di Raïssa.

Dal 1939 al 1944, Raïssa è costretta dagli sviluppi bellici e dalle sue origini giudaiche, prima a trasferir-si negli Stati Uniti con Jacques, poi a stabilirvisi. Sono gli anni dell’amicizia con Marc Chagall. Raïssa si occu-pa di poesia, contemplazione mistica, arte. Al termi-ne della guerra, Jacques è nominato ambasciatore di Francia presso la Santa Sede. Raïssa segue il marito in questa nuova avventura. Nasce l’amicizia con mons. Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI. Nel 1949, i Maritain lasciano il Vaticano, dopo le dimissio-ni di Jacques dall’incarico, e tornano negli Stati Uniti, a Princeton (NJ). Raïssa è sempre al fianco del marito e si occupa di filosofia e critica dell’arte, poesia, liturgia.

Durante una vacanza in Francia, nel settembre 1960 Raïssa è colpita da emorragia cerebrale. Assistita da Jacques, muore il 4 novembre dello stesso anno. Le esequie vengono celebrate a Parigi. La salma è inuma-ta a Kolbsheim, in Alsazia, dove dal 1973 riposano an-che le spoglie mortali di Jacques.

MA CHI È ANCORA RAÏSSA? Il marito diceva di lei “fiamma ardente”, quando

la vedeva animare le riunioni dei circoli tomistici, do-ve erano presenti alcuni grandi pensatori della cultu-ra francese.

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Ed è proprio il pensiero di San Tommaso che li ha condotti dentro questi luoghi luminosi. Lei, Raïssa, ha scoperto per prima Tommaso, attraverso i domenica-ni che la guidavano spiritualmente (es. Réginald Gar-rigou Lagrange).

E ciò che attirava la passione di Raïssa era proprio la lettura di alcuni capitoli della Summa Teologica e la meditazione del Vangelo di Giovanni.

È solo dopo la morte che emerge la grandezza spiri-tuale di Raïssa, quando vennero pubblicati i suoi diari. Afferma il card. Cottier: “È emersa ancora di più la sua grandezza, testimoniata dai diari, dal bellissimo com-mento al Padre Nostro, dalle sue poesie. E non è un caso se dopo la sua morte, Maritain rivelerà tutto quel-lo che aveva ricevuto dalla consorte. Mi viene spesso in mente quello che diceva il grande domenicano Jean De Menasce: Raïssa è stato in fondo il filtro nella rilet-tura dei manoscritti, il ‘punto di equilibrio’ del pensie-ro di Jacques Maritain”.

Dai suoi diari emerge la sua anima.

Mio Dio, son qui davanti a Temi prostro davanti a Te.Adoro la tua grandezza.La mia miseria è immensa.Abbi pietà di me.Il tuo spirito dimori in me.In me viva lo Spirito Santo.L’amore del Figlio e del Padreperché io t’ami e Tu mi ami.Mio Dio il mio cuore sia purola mia intenzione sia rettail mio corpo sia casto.Mio Dio nessuno abbia a soffrire per colpa mia.La tua Verità m’illuminila tua Volontà sia fatta. Amen

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E ancora, nel suo diario scrive: “Accettare tutto co-me proveniente da Dio. Fare tutto per Dio. Offrire tutto a Dio. E cercare con ardore la perfezione della Carità e l’amore della Croce. Dio vuole che gli si offra quan-to c’è d’essere e di bellezza in ogni cosa e in ogni af-fetto. La fede è stata attaccata in nome dell’Intelligen-za. Oggi è in nome dell’Intelligenza che bisogna difen-derla. Noi non abbiamo il diritto di giudicare la voca-zione del prossimo dal carattere della nostra. Sappia-mo che Dio è amore e la nostra fiducia in Dio è la no-stra luce. Sotto il tuo sguardo provo un indicibile sen-so di fiducia, Dio mio, non perché il mio cuore sia pu-ro! Ma perché il tuo sguardo è buono. Una sola forza può ancora opporsi alla follia generale: l’intelligenza il-luminata dalla fede”.

Un dato particolare di questa complessa figura fu coniugare la fede cattolica come costitutiva dell’identi-tà ebraica. “Penso spesso alle sue intuizioni spirituali sul mistero della Croce – è la riflessione del cardinale Cottier – per come ha vissuto il dramma di Israele inte-riormente. A mio giudizio la sua testimonianza, soprat-tutto durante la Shoah, è stata un’offerta simile a quel-la di Edith Stein, pur non essendo arrivata anche lei al martirio. Se Jacques ha scritto cose così importanti sul mistero d’Israele, lo si deve all’influenza di Raïssa”. Ma a rimanere vivo e teso è il filo rosso che lega i coniu-gi Maritain nella loro ricerca filosofica e spirituale, co-me pure nella vita ordinaria.

Dopo la morte di Raïssa, Jacques si fa editore dei suoi scritti. Quello che fa impressione è il debito che post mortem il grande Maritain ha per sua moglie. In un certo senso Raïssa è stata la “Beatrice” del grande pensatore francese.

I DONI MISTICIUn’eredità, quella di Raïssa Maritain, da rileggere

anche per i suoi doni mistici. “Messaggio portante del-la sua spiritualità è stato quello di portare la contem-

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plazione per le strade. Maritain recupererà questo con-cetto nel Contadino della Garonna. Lei stessa proget-tava di scrivere su questo importante tema, ma non poté farlo a causa della malattia. Per lei la contempla-zione non dev’essere solo di tipo intellettuale, o solo appannaggio dei grandi ordini contemplativi, ma può essere fruibile da tutti i cristiani nella loro vita di ogni giorno. In un certo senso questa intuizione ha antici-pato la lezione del Concilio Vaticano II” (Nora Ghiglia Possenti).

In sintesi la testimonianza dell’intera sua vita fu quella della presenza amorevole che si fa prossima alle esistenze, alle storie personali, alla storia stessa dell’umanità ferita.

Con la sua poesia e, più in generale, la sua opera e la sua vita, Raïssa ha cercato di scoprire e utilizza-re ogni bellezza presente nel mondo, così come ogni miseria, per alimentare l’amore nei confronti di Dio. Sempre ha guardato agli uomini e alla civiltà del suo tempo con comprensione, simpatia, lucidità. In Raïs-sa c’è una meravigliosa compenetrazione di intuizio-ne poetica, riflessione filosofica ed esperienza mistica. Si potrebbe a ragione affermare che il suo è stato uno sguardo “sensibile” sulla realtà, attento a ricondurre ogni cosa nella contemplazione divina.

E perciò all’unità tra gli uomini e con Dio. Unità che non ha volato sopra la condizione umana, ma dentro: è sempre in dialogo con coloro che incontra, con i de-sideri, le aspirazioni, le gioie e le sofferenze dei suoi interlocutori, esponenti della cultura contemporanea.

Sulla poesia della moglie, ebbe a scrivere, nella pre-sentazione a Poèmes et essais di Raissa, Jacques Mari-tain: “Un canto il cui ritmo, per diverso che sia, s’im-pone sempre all’orecchio con una rara precisione, vie-ne da qualcosa di più profondo di un flusso puramen-te psichico delle impressioni e delle immagini. L’incon-scio che libera è l’inconscio dello spirito nella sua sor-gente. Tutto vi è necessario e tutto vi è libero. Non un

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qualche astratto disegno di perfezione, ma una fedel-tà delicata, una attenzione amorosa, a queste mani in-visibili da cui l’anima riceve tutto, impone una traspa-renza, una precisione e una discrezione singolare alla melodia che emana dal sangue e dallo spirito. Ciò che sembra tipico qui, è da una parte la musicalità, espres-samente considerata come un elemento essenziale del-la poesia, dall’altra la nitidezza con cui la forma attua-lizza in ogni poema la sua unità vitale”.

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�imone �eilSOLIDALE CON LA SVENTURA UMANA

“Se per ipotesi assurda morissi senza aver commes-so gravi colpe, e tuttavia al momento della morte ca-dessi in fondo all’inferno, sarei ugualmente debitrice verso Dio, di una gratitudine infinita, per la sua infini-ta misericordia, proprio per la mia vita terrena e que-sto, sebbene io sia un oggetto così mal riuscito”. Così scriveva Simone Weil nel 1942.

L’anno dopo, esule in Inghilterra, ormai distrutta dalla malattia e ancor più dal dolore per le ferite che la guerra stava infliggendo all’umanità, si spegneva, sola e lontana da casa in un anonimo sanatorio del Kent. Aveva appena trentaquattro anni.

Quelle poche righe quasi nascoste in un contesto più ampio, sono il punto di arrivo di un’esistenza che, dopo morte lotte e tormenti, approda al vero senso della realtà, ormai illuminata dalla fede. Il suo impat-to con la vita fin da adolescente le fece scoprire quan-to profondo fosse il “buco nero” della sventura umana. Tra i tanti mali della società del tempo, la situazione degli operai nelle fabbriche fu quella che la interpellò più profondamente, poiché in quei luoghi l’ingiustizia e lo schiacciamento della persona si potevano toccare con mano. E lei, donna gracile e malaticcia, ma dal ca-

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rattere forte e battagliero, si spogliò della sicurezza del-la condizione borghese e scese tra i poveri.

Lavorò nelle fabbriche di Parigi, sua città natale, una tra gli operai eppure così diversa in quel suo ac-canirsi nella lotta politica, nelle rivendicazioni sinda-cali, e nel voler lottare con tutte le forze contro le in-giustizie. Era sempre convinta che aiutare il prossimo a riacquistare dignità “è come battezzarlo”. Con sguardo penetrante e lucida intelligenza guardò dentro la situa-zione umana come si guarda dentro la propria anima e aprì il cuore all’accoglienza. Sentì la disperazione di un’umanità che si avvilisce sotto una pesante schiavitù dove la speranza svanisce piano piano. L’esperienza di fabbrica fu per Simone un atto di incarnazione nell’in-felicità umana, fino a toccare il fondo della sofferenza, laddove si accorge che “Dio è assente, più assente di un morto… durante questa assenza non c’è più nien-te da amare”. La sua vocazione fu quella di condivide-re tutto questo.

“Il dolore diffuso sulla superficie della terra mi oppri-me e mi ossessiona – scriveva in un écrite de Londres – al punto da annullare le mie facoltà e non posso recu-perarle se non ho anche io una larga parte di pericolo e di sofferenza”. Fino a dichiararsi impotente: “Provo una sofferenza che aumenta senza fine per l’incapacità in cui sono di pensare insieme nella verità la sventura umana, la perfezione di Dio e il legame fra le due cose”.

L’INFINITA POTENZA DI DIONel 1935 un’esperienza significativa orientò il suo

mondo interiore verso una dimensione più spirituale. In un misero paesino del Portogallo, dove si trovava in vacanza, assistette, una sera di luna piena, alla proces-sione del Santo Patrono. Gli antichi canti che le mogli dei pescatori, in riva al mare, cantavano passando di barca in barca la colpirono profondamente per la loro “tristezza straziante”. Raccontando l’episodio, lei, ebrea, che aveva conosciuto nelle officine la tremenda real-

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tà di una moderna schiavitù del lavoro così conclude-va: “Là, improvvisamente ebbi la certezza che il cristia-nesimo è per eccellenza la religione degli schiavi; che gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro”. Le si spalancava davanti l’orizzonte della fede. Ad Assisi, l’anno dopo, affascinata dalla figura di San Francesco e dalla bellezza della Porziuncola, la piccola cappella ro-manica di Santa Maria degli Angeli, sentì dentro qual-cosa che la spinse ad inginocchiarsi davanti alla poten-za di Dio. Era la prima volta e segnò una tappa impor-tante. Ancora, nel 1937, a Solesmes dalla Domenica del-le Palme al Martedì di Pasqua seguì le funzioni della Settimana Santa. “L’inaudita bellezza del canto e delle parole” diedero un significato persino alle violente emi-cranie che la martoriavano. Fu un momento di grazia nella vita di Simone tanto da farle dire più tardi: “Quel-la esperienza mi ha permesso di comprendere meglio la possibilità di amare l’amore divino attraverso la sof-ferenza. Durante queste funzioni era naturale che en-trasse in me una volta per tutte il pensiero della passio-ne del Cristo”. E ancora: “[il Cristo] ingiuriato, maltrat-tato… non ha considerato l’uguaglianza con Dio come una preda. Egli si è spogliato. Si è fatto obbediente fino alla morte. È questo che mi costringe a credere”. Da al-lora il mondo della sventura umana assume per lei un nuovo volto di speranza. “I condannati” di tutti i tem-pi, potevano sentirsi legati al Crocifisso da “un legame fraterno tutto speciale, poiché egli è il condannato per eccellenza”. “Bisognerebbe riunire i condannati in no-me di Cristo condannato, per insegnar loro che grave-mente colpevoli o no, la loro infelicità, che li accomuna a Cristo nella sofferenza, li prepara in modo particola-re, se ne fanno buon uso, ad assomigliargli”.

VICINA ALLA CROCE DI CRISTOA questo punto un’immagine inedita si affaccia alla

mente di Simone: su uno spoglio Golgota, spunta mo-desta ma luminosa, accanto a quella di Cristo, la croce

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del buon ladrone. È il simbolo di un’esperienza perso-nale arrivata ormai al suo punto di maturazione: può unire insieme in una mirabile sintesi la propria soffe-renza, l’angoscia dell’umanità e la vicinanza amorosa del Dio incarnato. In quell’uomo senza identità lei stes-sa si riconosce in un modo tutto particolare. Di lui di-ce: “Essersi trovato al fianco di Cristo nella sua stessa situazione, durante la crocifissione, mi sembra un pri-vilegio molto più invidiabile di essergli stato alla destra nella sua gloria”. Infatti, posto fuori dall’istituzione, ma vicino al Crocifisso, può con lui con-patire e con-divi-dere la propria sofferenza e quella dell’umanità. Ed è precisamente questo il privilegio che Simone ha sco-perto di aver raggiunto.

Il suo programma di vita già impegnata, acquista uno stile totalmente nuovo: come Cristo anche lei si immedesima in quella umanità avvolta dal buio della ingiustizia, fino a voler scomparire. “Ho un fondamen-tale bisogno, credo di poter parlare di vocazione, di passare tra gli uomini e i diversi ambienti umani con-fondendomi con essi… scomparendo fra loro per far sì che si mostrino quali sono… Desidero conoscerli co-me sono per amarli così come sono”.

Il suo genio di donna amante della vita e della pie-na libertà, la spinge a desideri nuovi di donazione tota-le, per riportare l’uomo e la società verso la luce, fino a gridare “se sapessi sparire, ci sarebbe davvero unio-ne perfetta tra Dio e la terra sulla quale io cammino”.

Questa è la sua pasqua: partecipazione alla Pasqua di Cristo sperimentata nel suo essere donna capace di entrare nel cuore dell’umanità ferita. Una pasqua vis-suta dentro una storia di conflitti e di lotte. In quel buio del Venerdì Santo Simone Weil ha intravisto la lu-ce della resurrezione, versando il sangue della libertà e della speranza senza confini.

La redenzione è sempre questa lotta tra l’afflizione e la luce, tra la schiavitù e la libertà, perché l’umanità ritrovi se stessa nell’amore del Crocifisso risorto.

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�ianna �eretta �ollaMORIRE PER AMORE

“Ciascuno deve prepararsi ad essere donatore di vi-ta”, aveva scritto Gianna, un giorno, sul suo diario. E per lei donare la vita significava prendersene cura ad ogni costo.

Alla quarta maternità provò una gioia immensa, perché le sue preghiere erano state esaudite. Gene-rare figli era per lei la più bella esperienza dell’amo-re di Dio.

Ma la gioia si tramutò in croce quando nel settem-bre 1961, al secondo mese della nuova gravidanza, le fu diagnosticato un voluminoso fibroma all’utero per cui era necessaria l’asportazione chirurgica. Pur sa-pendo il rischio che correva, non mise minimamente in discussione la continuazione della gravidanza. Af-frontò l’operazione, chiedendo ai medici di fare del tutto per salvare il nascituro e si affidò al Dio provvi-dente. Il bambino fu salvo e la gravidanza continuò. Arrivarono i giorni del parto. Gianna si affidò come sempre alla provvidenza di Dio, con l’animo pronto a dare la sua vita, se fosse stato necessario.

Al marito disse con fermezza che, se ci si fosse tro-vati nella necessità di scegliere, la vita della creatura che aveva in grembo doveva essere salvata ad ogni

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costo: era più piccola, più debole e doveva avere la precedenza sulla sua stessa vita.

Perché questa decisione? Perché fin dall’adolescen-za aveva imparato a stimare e amare la vita come do-no di Dio. Nelle sue prime esperienze spirituali aveva già promesso al Signore che non l'avrebbe mai tradi-to e che non si sarebbe mai chiusa di fronte alle pro-ve, neanche se ci fosse stato bisogno di offrire tutto.

UNA FEDELTÀ SENZA REMOREPer tutti, come per lei, le decisioni grandi della vita

sono sempre il traguardo di un lungo cammino di fe-deltà e di amore, di una corsa che è passata attraverso il quotidiano di una vita ordinaria. Quello di Gianna è stato un quotidiano vissuto in modo “straordinario”, che l’ha condotta a una conclusione eroica.

È una “legge” ormai: ogni pasqua deve essere prepa-rata con scelte e gesti di fedeltà giornaliera; ogni pas-saggio più o meno doloroso che feconda la vita, chie-de una cosciente partecipazione che non si improvvi-sa in un atto finale, ma diventa culmine di una storia.

Il 20 aprile 1962, Venerdì Santo, Gianna fu ricove-rata all’ospedale dove si cercò, senza successo, di farla partorire per via naturale. Fu qui che raggiunse il cul-mine tutto il suo coraggio e la sua fede nel Dio del-la Vita. Una fede che nasce dal Crocifisso e soltanto a Lui si appoggia. Una fede feconda, capace di generare la vita con l’accettazione della propria morte. È la fe-de pasquale: non può esserci resurrezione e vita senza passare per il Venerdì Santo e la croce. Anche Gianna sapeva bene che la maturità di una persona si misura nella capacità di soffrire e morire per amore.

IL SÌ DEFINITIVOAlcuni giorni prima del parto aveva detto al marito

Pietro: “Se dovete decidere fra me e il bimbo, nessuna esitazione: scegliete, e lo esigo, il bimbo. Salvate lui”».

L’indomani, nel grande silenzio del Sabato Santo,

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nasceva, con parto cesareo, una bimba: Gianna Ema-nuela. Quel giorno, preludio della Pasqua, vide sboc-ciare una vita dal sacrificio prolungato di una madre. L’amore infatti non ha prezzo. “Se il chicco di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; se muore, pro-duce molto frutto”. Colei che ama la vita, non ha paura di morire, perché ama il suo Dio e confida in Lui, che certamente la salverà dalla morte eterna.

Davanti al Crocifisso di quel Venerdì Santo c’è chi grida al mondo: “Ecco la donna!” Ecco la madre! Esau-dita dal suo Signore diviene segno di vita per tutti.

“Desideravi tanto un altro bambino, hai pregato e hai fatto pregare perché il Signore ti esaudisse. Il Si-gnore ti esaudì, ma questa grazia divina ti avrebbe chiesto l’offerta della tua vita. E tu lo hai fatto” – scri-verà più tardi il marito.

La passione d’amore va vissuta fino in fondo. An-che lei con Gesù nel Getsemani, sperimentò tutto il dramma dell’agonia quando, per il sopraggiungere di una peritonite settica, le sue condizioni si aggravarono.

Mentre la cristianità celebrava la gioia della Pasqua, Gianna bevve il calice amaro della sofferenza, tra feb-bre sempre più elevata, vomito e forti dolori addomi-nali. La situazione si fece disperata, fino a quando non ci fu più niente da fare: la morte era inevitabile.

Sua sorella Virginia ebbe il compito di prepararla: “Coraggio, Gianna, Papà e Mamma sono in Cielo che ti aspettano: sei contenta di andarvi?”.

Visse gli ultimi giorni in un silenzioso dialogo d’a-more con il Crocifisso. Pregava i medici di non sotto-porla all’azione degli stupefacenti, per essere coscien-te fino in fondo nel suo martirio d’amore.

La mattina del 28 aprile, Sabato in Albis, nella sua casa potè finalmente dire con Gesù: Tutto è compiuto. Padre nelle tue mani raccomando l’anima mia.

Chiudeva gli occhi su questa terra, fattasi buia, per riaprirli alla luce nuova della Vita piena in Cristo. Ave-va solo 39 anni e sei mesi.

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Del Crocifisso essa è, oggi, certamente un’icona, su quel nuovo calvario. Essa è il segno vivo della possi-bilità di amare fino alla fine. L’umanità fragile e aman-te della vita è capace per dono di Dio di dare la vi-ta. Tra tutte coloro che cercano un senso pieno al lo-ro ruolo di donna e di madre, essa è un faro che indi-ca la Pasqua come realizzazione piena dell’essere don-na nel mondo.

E la Pasqua è quella stessa di Cristo: la vita è vera, quando è maturata nella fede e nella oblatività croci-fissa del dono di sé.

Quando è donata fino a morire per amore!

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�ristina �ellaLA SOFFERENZA AMICA

Una storia sconcertante e incomprensibile a molti: una ragazza di 26 anni muore di cancro avendo rinun-ciato a curarsi per non danneggiare la vita del terzo fi-glio che stava aspettando. I giornali danno rilievo alla vicenda. La gente esprime pareri diversi ma rimane co-munque pensierosa.

Cristina Cella era una giovane donna come tante; amava la famiglia, il mondo, la vita. Nella sua biografia non c’è nulla di straordinario; nulla, se non la fede forte in un Dio da cui si sa amata e a cui si dona totalmente. Già nell’85, con la generosità dei suoi 16 anni, scriveva nel diario: “Signore, credo che Tu vuoi solo la mia felici-tà! Fa’ di me ciò che Tu vuoi. Voglio credere che ciò che Tu sceglierai e mi indicherai, sarà la via per arrivare alla gioia piena. Voglio fidarmi di Te, appoggiarmi a Te, an-che se so di soffrire, di rimanere spesso nel dubbio…”.

“Era una ragazza semplice, serena”, dice di Cristina chi l’ha conosciuta. Cresciuta a Cinisello Balsamo (MI), dove vive la sua famiglia, dopo il matrimonio, avvenu-to nel 1991, si trasferì a Carpanè, piccolo paese veneto ai piedi del Brenta. Aveva incontrato il marito Carlo nell’85, durante una vacanza a Valstagna, dove vivono i nonni materni, e insieme avevano realizzato il sogno di una fa-

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miglia unita con tanti bambini. Infatti, nel dicembre ’91 nasce Francesco, seguito due anni dopo da Lucia.

IL TEMPO DELLA PROVA In questa vita ordinaria di sposa, madre, studentessa

universitaria, ad un certo punto compare lo spettro della malattia. Il tumore, apparso per la prima volta nell’esta-te dell’87, curato e guarito si ripresenta proprio durante i primi mesi della sua terza gravidanza. Ora Cristina de-ve scegliere tra la sua vita e quella del bambino. Non ha esitazioni: rinuncia alla cure. Quel figlio era troppo im-portante. È una scelta che colpisce e sorprende anche chi le sta vicino da sempre. Dice la madre: “Conoscevo la sua fedeltà al Signore, il suo cammino cominciato fin da quando era giovanissima, la sua disponibilità anche alla vita consacrata. Ma non pensavo che si fosse donata così completamente. Sapevo chi era, eppure sono rima-sta stupita. Come madre è stata per me un esempio: ha accettato i figli come una benedizione”. Dopo la nasci-ta del bambino, ha cominciato subito la radioterapia, e con essa, il calvario negli ospedali. Soffriva molto; sape-va di dover morire e non ha mai perso la serenità, non ha mai perso il sorriso.

All’ospedale di Bassano del Grappa, Cristina ha scrit-to un biglietto che è come un testamento: “Signore, Tu sei così buono che hai voluto riempirmi di gioia, e nep-pure la sofferenza mi è nemica, perché tutto quello che viene da te non è altro che bene, amore. Comincio ad amare questa sofferenza, mi sta diventando amica, per-ché mi sta portando a Te. Ti amo Gesù. Vorrei gridarlo a tutti questo amore che sento e sento che anche Tu mi vuoi un bene immenso”. E cinque giorni prima di mo-rire ripeteva: “Sono ancora qui in tua compagnia Signo-re, dove Tu mi vuoi da sola per parlare al mio cuore. Ho paura ma non tanta, perché ti sento, percepisco la tua presenza silenziosa ma reale. Ci sei, ci sei. Sei qui al mio fianco. Non parli, ma sussurri al mio cuore dolci parole che mi fanno gioire”. E ancora: “Vorrei Signore sentirti

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indispensabile come l’aria che respiro… Signore accre-sci la mia fede, fammi sentire la tua presenza d’amore… Tu solo mi riempi, senza di Te c’è il vuoto”.

Dice di lei il marito: “Cristina ha sempre dato tutto quello che poteva dare, anche nelle piccole cose. Nei suoi ultimi giorni di vita, dal fondo della sofferenza, la sua incessante preghiera, si fa intercessione: ‘Ti affido il mio papà Signore. Insegna al suo cuore che soffrire con Te è dolce, che ogni croce con Te è leggera, perché se te la doniamo, sei Tu che la porti, non più noi. Insegna-gli ad amarti e anche il dolore più grande diverrà per lui gioia. Proteggi e sostieni la mia mamma: quanto chie-di al suo cuore di mamma! Falle capire che con Te nul-la è sprecato’”.

Cristina ha capito il valore salvifico della Croce di Cri-sto e si associa ad essa.

“Sofferenza: una parola che nessuno vorrebbe speri-mentare. Eppure Tu, Signore, hai voluto che io provassi minimamente ciò che hai provato Tu, quando noi uomi-ni ti abbiamo ucciso. Grazie, perché ho finalmente capi-to quanto Tu mi ami profondamente trattandosi da ami-ca prediletta. Non ti ho chiesto di allontanare da me la sofferenza, ma solo di viverla come Tu volevi, perché so-lo la tua volontà conta; la nostra di uomini è troppo cor-rotta dall’egoismo, dalla paura, dallo scoraggiamento. Tu che sei vicino ai più sofferenti, aiutali e confortali come hai fatto con me donando loro una guarigione spirituale prima ancora che fisica. Grazie, ho fiducia in Te”.

Cristina se n’è andata il 22 ottobre del 1995, senza rimpianti.

UNA VITA VISSUTA IN PIENEZZAPochi giorni prima, al suo parroco che la esortava a

fare una novena per la sua guarigione, rispondeva: “Per-ché devo pretendere di guarire? Che cosa ho io in più o di diverso da tanti altri che muoiono quando vengono colpiti da questo male? La mia vita l’ho vissuta in pieno: ho avuto una famiglia che mi ha voluto bene, ho passa-

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to una giovinezza serena, ho avuto la gioia di essere per tre volte mamma cosa posso avere o chiedere di più?”.

“La comunità di Carpanè ha tanto pregato per ottenere la guarigione di Cristina – dice don Teodano – ma il mi-racolo lo ha fatto lei che ha lasciato pace e serenità nel-le persone che l’hanno conosciuta”. La sua è stata una le-zione d’amore che sconvolge i criteri imposti dal mondo e ha fatto cambiare prospettiva anche al marito Carlo: “La sofferenza è stata solo una grazia – afferma –; la sofferen-za è una buona maestra. L’ho imparato da poco, solo sei, sette mesi fa grazie a Cristina. Sapeva che nella sua vita poteva dare di più e non poteva accontentarsi di tutto il bene che fino a quel momento aveva donato. Non cam-bierei niente di quello che è successo, i momenti di gioia e quelli di sofferenza. Il nostro cammino è stato un cam-mino di fede e abbiamo compreso che c’è una spropor-zione infinita tra il tempo che ci è dato qui e l’eternità che ci aspetta. Il Signore l’ha scelta perché era disponibile, in-sieme a lei ha scelto anche tutti noi. Nella sua lunga sof-ferenza ha sempre accettato tutto, certamente aveva vo-glia di vivere e di ritornare insieme alla sua famiglia, ma si è messa nelle mani del Signore, perché sapeva che solo in Lui c’è il vero Amore, sapeva che lui avrebbe fatto tut-to per il suo bene, per il bene di tutta la famiglia e per il bene di tutte le persone che l’hanno conosciuta”.

“Una mistica – dice il parroco don Teodato – ave-va questa capacità di guardare al di là, questa profon-dità che mi stupiva. Ha speso la sua vita per fare quel-lo che Dio vuole”.

Veramente l’affidamento di Cristina è stato totale. Da giovane adolescente, proiettata verso il futuro, chiede-va: “Signore, indicami la strada: non importa se mi vuoi mamma o suora, ciò che importa realmente è che faccia solo e sempre la tua volontà”.

L’AMORE PIÙ GRANDEIl Signore le ha mostrato la strada percorsa da Lui

stesso, quella della donazione di sé fino a dare la vita.

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E la gioia che provava nel farlo, è tutta condensata nella lettera che ha lasciato al suo terzo figlio: è un inno alla vita e all’Amore, quello con la A maiuscola.

“Caro Riccardo,tu devi sapere che non sei qui per caso. Il Signo-

re ha voluto che tu nascessi nonostante tutti i problemi che c’erano. Papà e mamma, puoi ben capire, non era-no molto contenti all’idea di aspettare un altro bambi-no, visto che Francesco e Lucia erano molto piccoli. Ma quando abbiamo saputo che c’eri, ti abbiamo amato e voluto con tutte le nostre forze. Ricordo il giorno in cui il dottore mi disse che diagnosticavano ancora un tumo-re all’inguine. La mia reazione fu quella di ripetere più volte ‘Sono incinta! Sono incinta! Ma io dottore, sono in-cinta!’. Per far fronte alla paura di quel momento ci ven-ne data una forza smisurata di volontà di averti. Mi op-posi con tutte le mie forze al rinunciare a te, tanto che il medico capì tutto e non aggiunse altro.

Riccardo, sei un dono per noi. In quella sera, in mac-china di ritorno dall’ospedale, quando ti muovesti per la prima volta, sembrava che tu mi dicessi: “Grazie, mam-ma che mi vuoi bene”. E come non potremo non voler-tene? Tu sei prezioso, e quando ti guardo e ti vedo cosi bello, vispo, simpatico. Penso che non c’è sofferenza al mondo che non valga la pena per un figlio. Il Signore ha voluto colmarci di gioia: abbiamo tre bambini stupendi, che se Lui vorrà, con la sua grazia potranno crescere co-me Lui vuole. Non posso che ringraziare Dio perché ha voluto farci questo dono grande, che sono i nostri figli”.

Oggi, in un tempo in cui la vita sta diventando un va-lore relativo, questa giovane donna ci ricorda che sem-pre la vita è un dono incommensurabile; e proprio per-ché è dono prezioso, è qualcosa da donare.

“Padre, Ti offro: la mia gioia come canto di lode, il mio cuore come casa che ti accoglie; la mia vita per-ché tu vi compia il Tuo volere”.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

All’interno della narrazione della vita e dell’esperienza “pa-squale” delle sante donne del Medioevo e del XIX-XX secolo, con-tenute in questo libro, sono state riportate espressioni e manife-stazioni mistiche, tratte da diari, lettere o opere teologico-spiri-tuali delle stesse. Le abbiamo virgolettate, senza riportare la fon-te, per facilitare la lettura e rendere il profilo più scorrevole, qua-si a mo’ di autobiografia.

Qui di seguito citiamo le principali opere, antologie o auto-biografie delle singole figure. Da esse abbiamo tratto le citazioni riportate nel testo.

ILDEGARDA DI BINGENIldegarda dI BIngen, Il libro delle opere divine, Mondado ri, 2003.anne KIng-lenzmeIer, Ildegarda di Bingen. La vita e l’opera,

Gribaudi, 2004.lucIa TancredI, Ildegarda. La potenza e la grazia, Cit tà Nuova,

2009.

ANGELA DA FOLIGNOIl Libro della Beata Angela da Foligno, Edizioni San Paolo, 1990.angela da FolIgno, Lettere e pensieri… (collana “Scrittori di Dio”),

Edizioni San Paolo, 1998.

GERTRUDE DI HELFTAgerTrude dI HelFTa, L’Araldo del divino amo re: Libro II. Diario

spirituale, Edizioni San Paolo, 2008.gerTrude dI HelFTa, Le rivelazioni, Cantagalli Edizioni, 1994.gerTrude dI HelFTa, Esercizi spirituali, Glossa Edizioni, 2006. Dio della mia vita. Preghiere di santa Gertrude di Helfta,

Monache Benedettine di Civitella S. Paolo, Edizioni San Paolo, 2006.

CHIARA D’ASSISIFonti francescane, Editrici Francescane, 2004

MARGHERITA D’OINGTmargHerITa d’oIngT, Scritti spirituali, Meditazione V, 100, Edizioni Paoline, 1997.

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di Maria Cecilia Del Volto Santo, Edizioni San Paolo, 1998.

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Pensiero,1995. raïSSa marITaIn, Senza dimora, Mondadori, Milano 2000.Il diario di Raïssa, Morcelliana, Brescia 2000.

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GIANNA BERETTA MOLLAgIanna BereTTa molla, Il tuo grande amore mi aiuterà a essere

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Mocellin raccontata attraverso le testimonianze di chi l’ha cono sciuta, Edizioni San Paolo, 2009.

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APPENDICE

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LA SAPIENZA DEI DUEDon Ernesto Menichelli

Don Ernesto Menichelli è stato un nostro carissimo ami-co e fratello nello Spirito. Con lui abbiamo condiviso mol-te intuizioni spirituali, molti desideri e una aperta visione della Chiesa. È stato un accanito studioso della Bibbia. Lo studio, la riflessione spirituale, la Lectio Divina… sono sta-te per lui la “via maestra” per donare a quanti incontrava il “tesoro nascosto” della Rivelazione Divina.

Questa ricerca “La sapienza dei due” ha voluto donar-cela come frutto di un’intesa reciproca e amicale. È morto nell’anno 2005, ed è sepolto nel piccolo cimitero del mona-stero di Camaldoli (AR).

Vedo il discorso sulla donna come premessa per re-cuperare il vero discorso sulla coppia, perché Dio ha po-sto il segreto della ricchezza umana nel due e non nell’u-no. Dice il Siracide: “Tutte le cose sono doppie, l’una di fronte all’altra, Egli nulla fece di incompleto; l’una com-pleta la bontà dell’altra; chi finirà di contemplare la Sua gloria?” (42,24-25) “Di fronte al male c’è il bene e davan-ti alla morte la vita, cosi davanti al pio c’è il peccatore. Guarda così a tutte le opere dell’Altissimo, due a due l’u-na davanti all’altra” (33,14-15).

L’affermazione del Siracide “Tutte le cose sono dop-pie” sancisce il principio della dualità come fondamen-to della creazione. Tutto il creato è fondato sul duplice aspetto di tutte le cose ai fini di un’integrazione qualifi-cante, perché “l’una completa la bontà dell’altra”.

L’UNO è semplice per sé e quindi non può non esse-re assoluto e perfetto. Il DUE è segno della prima divi-sione (creatura-Creatore; bianco-nero; maschile-femmi-nile; materia-spirito); quella prima radicale divisione da cui provengono tutte le altre. Quindi il DUE è simbolo di conflitto, di opposizione, ma anche di richiamo reci-proco. Esso indica quindi l’equilibrio realizzato o le la-tenti minacce di reciproca esclusione; come tale può es-

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sere segno e principio di un’evoluzione creatrice, o co-me segno e principio di un’involuzione disastrosa: il due è la Cifra primordiale della scelta. Da esso infatti pro-viene ogni dialettica, ogni sforzo, ogni lotta, ogni movi-mento, ogni progresso; ma anche ogni catastrofe. Infatti non c’è cammino né progresso che non si sviluppi den-tro una dinamica di opposizione e di confronto. Il DUE esprime dunque un antagonismo che da latente divie-ne manifesto.

Le prime pagine della Genesi mettono a fronte Dio e l’uomo, Caino ed Abele, l’uomo e la natura: nasce una storia con una miriade di esplosioni di vita e di morte. Si pensi all’attuale problema ecologico: l’equilibrio del-la natura cammina sul fragile binario del dualismo vi-ta/morte; e lo squilibrio attuale non consiste in una pre-valenza della morte sulla vita, quanto piuttosto sul fatto che sia sballato il rapporto di reciprocità: la morte stessa è frutto di una prevaricazione in questo rapporto.

Nel piano di Dio invece la dualità si pone come sti-molo ad una crescita di ciò che è diviso, cioè limitato e creaturale: chi è collocato dentro il limite cerca una cre-scita rapportandosi all’altro: “L’una di fronte all’altra”. Es-sere a fronte richiama il testo della Genesi e ci ricondu-ce alla prima coppia umana.

Dice infatti la Genesi: “Non è bene che l’uomo sia so-lo: voglio fargli UN AIUTO che gli sia di fronte” (Gene-si 2,18). Dopo una lunga serie di “e Dio vide che era co-sa buona”, all’improvviso si scopre la prima “cosa non buona”: la solitudine dell’uomo. Cosa vuol dire l’essere solo? Gli antichi maestri di Israele dicevano: esser solo vuol dire essere “senza aiuto, senza allegria, senza be-nedizione, senza espiazione, senza pace, senza vita, sen-za completamento”: la solitudine diminuisce l’immagine di Dio; la mancanza di un referente alla pari toglie alla creatura umana quel rapporto duale che stimola e pu-rifica: la creatura umana è un “verbo” interscambiabile, è dialogica per sua struttura costituzionale. E Dio cre-andole un referente dialogico, lo chiama “ezer/aiuto”. Il

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vocabolo esprime un’azione allo stato attivo e perma-nente; si dovrebbe tradurre l’aiutante”; ed è un termine che la Bibbia usa spesso per indicare un aiuto che per-mette di sfuggire ai grandi pericoli che minacciano l’esi-stenza. Ora il pericolo mortale per l’uomo è la solitudi-ne, evocatrice del deserto sterile e senza vita. Per que-sto Dio vuol dare all’uomo un aiuto/alleato che gli sia all’altezza. Applicato al rapporto uomo/donna, ezer vuol dire che i due sono un grido reciproco di aiuto e di sal-vezza. Inoltre questo grido di salvezza trova la sua rispo-sta nel fatto che nell’altro esso evoca ciò che ciascuno dei due è: la donna fa essere l’uomo più completamente ciò che è, e viceversa. Ed appena l’uomo vede la donna la chiama “osso più che le mie ossa”: una dualità che si pone a fronte per un’unità, una divisione che si ricom-pone nell’essere a fronte.

La creazione della donna è per l’uomo la scoperta del partner nel quale si incarna l’ultima espressione del-la creatività di Dio, nella quale Dio dona ciò che è: dialo-go amoroso. L’infinita e misteriosa comunione trinitaria si rivela nel dialogo amoroso della coppia umana. Ecco allora che, riassumendo i racconti delle origini la Gene-si dice “Maschio e femmina li creò, e li chiamò Adam” (Genesi 5,2). Adam è al singolare, quindi l’attribuzione di “uomo” è data alla coppia e non al maschio; l’uomo perfetto è in una dualità dialogante da pari a pari. L’A-dam realizza una complementarietà che unisce, qualifi-ca e conduce alla perfezione. La perfezione della crea-tura infatti è nel frutto, e dall’Adam nasce un bimbo so-lo quando maschio e femmina sono “una sola carne”.

L’incontro di Benedetto con Scolastica, narrato da San Gregorio, è molto significativo alla luce di quanto sopra: nella mente dello scrittore sembra che si voglia dire che Benedetto non giunge alla santità finché non incontra e non accoglie la lezione “di colei che l’amò di più”. Sco-lastica è per Benedetto colei che fa scoprire l’amore co-me tenerezza di Dio, come ultimo fronte dell’esperien-za di Dio, dell’esperienza della santità di Dio. Infatti so-

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lo dopo questo incontro Benedetto ha la visione della luce folgorante di Dio.

Ancora una volta dobbiamo annotare che l’amore umano/sponsale non è separabile dall’amore teologa-le. La dualità come dialogo amoroso anima tutto l’infi-nito spazio dell’uomo, dalle cellule più periferiche del suo corpo all’abisso più profondo del suo spirito. Le di-scussioni e le polemiche socio/politiche ci hanno por-tato verso una visione quasi esclusivamente sociologica del rapporto uomo/donna. Noi siamo stati defraudati di quest’incanto che la luce del mistero dell’amore di Dio ha sempre gettato sulla coppia umana; e questa è dive-nuta un teorema di rapporti giuridici: legge sul divorzio, legge sull’aborto, legge sulle adozioni, legge sulla spar-tizione dei beni, ecc. Dio ha seminato prati di fiori dal profumo incantato e a perdita d’occhio, ma noi abbia-mo preferito i fiori finti, fatti con gli stampi e senza pro-fumo, per via di certe allergie da polline. Stiamo ruban-do l’anima alla creazione, togliendole la poesia e la mi-stica. Tagore invece cantava cosi:

Dammi il supremo conforto dell’amore, questa è la mia preghiera.Il conforto che mi permetterà di parlare,agire, soffrire secondo la tua volontà, e di abbandonare ogni cosa per non essere lasciato a me stesso.Fortificami nei pericoli,onorami con la tua sofferenzaaiutami a percorrere i cammini difficili del sacrificio quotidiano.

Dammi la suprema confidenza dell’amore, questa è la mia preghiera.La confidenza nella vita che sfida la morte, che cambia la debolezza in forza, la sconfitta in vittoria.Innalzami, perché la mia dignità, accettando l’offesa, disdegni di renderla.

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L’INCONTRO DI GESÙ CON LE DONNESant’Ippolito di Roma, martire

Di Ippolito esegeta (vissuto tra il II e III secolo), dedi-to alla meditazione delle Scritture, riportiamo un bellissi-mo brano di un’opera importante per l’esegesi patristica: il Commento al Cantico dei cantici.

L’autore, esaltando la nuova Eva redenta dal Cristo, ri-cupera al positivo la figura femminile e la presenta come inseparabile dal Risorto e annunciatrice della buona no-vella ai discepoli.

“CHI CERCATE?”Contemplate il mistero nuovo che lì si è compiu-

to; così dice la sposa: Lo cercavo e non l’ho trovato, le sentinelle della città invece hanno trovato me (Ct 3,2-3). Chi altri erano coloro che l’hanno trovata se non gli angeli che sedevano lì? E quale città custodivano se non la nuova Gerusalemme, il corpo di Cristo? Le sen-tinelle della città invece hanno trovato me. Le donne chiedono: Avete forse visto il diletto dell’anima mia? (Ct 3,3). Ma quelli risposero: Chi cercate? Gesù Naza-reno? Ecco è risuscitato (Mc 16,6). E un poco mi allon-tanai da loro (Ct 3,4). E non appena si allontanarono si fece loro incontro il Salvatore (cf Gv 20,14). Allora si compiva ciò che fu detto: e come un poco mi allon-tanai da loro, ho trovato il diletto dell’anima mia (Ct 3,4). Il Salvatore rispose e disse: Marta, Maria, e quel-le esclamarono: “Rabbunì, che significa: mio Signore” (Gv 20,16).

“L’HO TROVATO E NON LO LASCERÒ”

Ho trovato il mio amore e non lo lascerò, poiché al-lora abbracciandogli i piedi gli si stringe e lui rimpro-verandola dice: Non mi toccare perché ancora non so-no asceso al Padre mio (Gv 20,17). Ma lei gli si strinse e ripeteva: Non ti lascerò finché non ti introdurrò nel

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mio cuore, non ti lascerò finché non ti introdurrò nella casa di mia madre e nei tesori di chi mi ha concepito (Ct 3,4): nel seno le si univa la carità di Cristo e non vo-leva essere rimossa. Per questo gridando dice: L’ho tro-vato e non lo lascerò. Oh donna beata, che si attaccò ai suoi piedi per poter volare in cielo! Questo gli andava-no dicendo Marta e Maria. Il mistero di Marta era pre-figurato da Salomone: non permettiamo che tu voli via. Ascendi al Padre e offri una nuova vittima: offri Eva e non sbaglierà più, ma ormai ardentemente si stringe-rà all’albero della vita! Ecco mi sono stretta alle ginoc-chia, non come fune che può essere spezzata, ma ai piedi di Cristo mi sono stretta. Non gettarmi sulla ter-ra così che non pecchi: fammi salire in cielo. Oh don-na beata, che non voleva essere separata da Cristo! Per questo dice: Come mi allontanai, trovai il diletto dell’a-nima mia (Ct 3,4). Prendimi, o mio cuore, uniscimi allo spirito, rafforzami, perfezionami perché possa essere unita anche al corpo celeste: unisci questo mio corpo al corpo celeste. Bevi come vino, prendi, fallo giunge-re al cielo come nuova bevanda mescolata, perché la donna segua colui che ella vuole e perché non pecchi più, lei che non è più insidiata al calcagno, non pren-de più dall’albero della scienza, ma per mezzo della croce è fatta vincitrice. Accogli Eva, cosicché non par-torisca più con lamenti, perché sono stati cacciati via i dolori, i gemiti, la tristezza. Accogli Eva che cammina nella consacrazione, accoglila e riconosci questo dono che è offerto al Padre: offri Eva come nuova, non più come spogliata. Ormai non ha più la foglia di fico co-me veste, ma è rivestita dallo Spirito Santo, poiché ha rivestito la buona veste, che non si corrompe. Né el-la stringeva Cristo spogliato: infatti sebbene le bende giacessero nel sepolcro (cf Gv 20,7), non era nudo. An-che Adamo all’inizio non era nudo: si era rivestito di una nuova veste di impeccabilità, mansuetudine e in-corruttibilità della quale fu spogliato, una volta sedot-to: ma ora di nuovo ne è rivestito.

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“ANDATE E ANNUNCIATE”E dopo ciò gridando, la sinagoga confessa la fede

per mezzo di queste donne: a noi danno buona testi-monianza, loro che erano fatte apostoli degli aposto-li, mandate da Cristo. A loro per prime gli angeli di-cevano: Andate e annunciate ai discepoli. Vi prece-de in Galilea: lì lo vedrete (Mc 16,7). Affinché gli apo-stoli non dubitassero se fossero state inviate dagli an-geli, lo stesso Cristo si fece incontro agli apostoli, sì che le donne fossero apostoli di Cristo e riscattassero con l’obbedienza la caduta della vecchia Eva. Quindi, udendo con obbedienza appare apostolo perfetto. O nuove consolazioni! Eva diviene apostolo. Viene com-preso l’inganno del serpente ed Eva non pecca più: poiché ha avuto finalmente in odio quello a cui una volta guardò e considera nemico colui che l’ha sedot-ta attraverso la concupiscenza. Ormai non la sedurrà più l’albero della seduzione: ecco è allietata dall’albero della vita e confessando Cristo ha gustato l’albero del-la vita. È fatta degna del bene e ha desiderato cibo in-corruttibile. Ormai non avrà più sete né più offrirà agli uomini cibo corruttibile; ha ricevuto l’incorruttibilità. È unita ed è un aiuto, poiché Adamo prende Eva in spo-sa. O valido aiuto, tu che hai portato la buona novella a tuo marito! Infatti le donne hanno annunciato ai di-scepoli la buona novella. E loro pensarono che si era-no sbagliate e la causa del dubbio era l’abitudine di Eva di annunciare l’inganno e non la verità. Quale mai è questo nuovo annuncio di risurrezione, o donna? E per questo le ritennero ingannate. E perché non sem-brassero ingannatrici ma veridiche, in quel tempo Cri-sto si manifestò a loro e disse: Pace a voi (Lc 24,36; Gv 20,19.21.26), insegnando: “Io che sono apparso a que-ste donne le ho volute mandare da voi come apostoli: di qui la sinagoga è in pace e la Chiesa è glorificata”.

(IPPOLITO, Commento al Cantico dei Cantici 25,5-10traduzione dalla lingua armena di Elena Prinzivalli)

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INDICE

PRESENTAZIONE ..................................................................3

I PARTESTORIE DALLA BIBBIA ........................................................7

Raab: Il filo rosso della libertà ........................................... 11Ester: Il rischio di mettersi in mezzo .................................. 17Rut: Un’alleanza oltre i confini ...........................................24Maria di Betania: L’intuizione del futuro ........................... 31Maria di Magdala: Aperta alla novità di Dio ......................35

II PARTEDONNE NELLA STORIA1. IL MEDIOEVO .................................................................39

Ildegarda di Bingen: Audace in battaglia ...........................42Angela da Foligno: Sposa di Dio-Uomo Passionato ..........49Gertrude di Helfta: Ferita d’amore .....................................54Chiara d’Assisi: Amica fedele .............................................. 61Margherita d’Oingt: Sul letto della Croce ...........................66Caterina Da Siena: Rivestita del sangue di Cristo ..............72

DONNE NELLA STORIA2. XIX E XX SECOLO ..........................................................77

Maria De Mattias: Sposa del Crocifisso ..............................79Edith Stein: Trasformata dall’Agnello .................................84Raïssa Maritain: La mistica che unisce ...............................89Simone Weil: Solidale con la sventura umana...................96Gianna Beretta Molla: Morire per amore .........................100Cristina Cella: La sofferenza amica .................................. 104

Nota bibliografica .............................................................. 109

APPENDICE ....................................................................... 111La sapienza del due ........................................................... 112L’incontro di Gesù con le donne ...................................... 116

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