Donne della libertà

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DANILO CARUSO DONNE DELLA LIBERTà

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Saggio storico di DANILO CARUSO / Palermo, settembre 2012

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DANILO CARUSO

DONNE

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LIBERTà

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Aunque deje en el camino jirones de mi vida, yo sé que ustedes recogerán mi nombre y lo llevarán como bandera a la victoria.

EVA PERÓN

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INTRODUZIONE

uesto saggio è nato dall’idea di offrire in un’unità

d’insieme un ciclo di miei scritti e studi dedicati a

personaggi femminili.

Lo scopo è quello di dare lo spunto alla conoscenza di

personalità e contenuti di rilievo, purtroppo forse poco noti

oltre gli ambiti di cultori.

Si parte in questo percorso con il presentare la collo-

cazione della donna nella grecità antica come figura di par-

tenza di una fenomenologia di esempi che si evolve dialetti-

camente nei secoli per raggiungere la liberazione.

Questa esemplare dialettica dello spirito femminile vuol

rappresentare un modesto contributo al superamento

dell’erronea problematica di genere.

Quello che è stato oggetto di mie analisi e scrittura,

nella circoscrizione della scelta, è scaturito da un genuino

interesse: gli exempla presentati non sono naturalmente e-

saustivi sotto il profilo dell’estensione, ma nella loro inten-

sione ben si innestano e figurano in questo piccolo cammino

di lettura e riflessione.

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1. BREVE ANTROPOLOGIA DEL “DIVERSO” NELL’ANTICA GRECIA

alvolta accennando alle pari op-portunità viene ricordata l’anti-chità greca in modo imperfetto e

approssimativo delineando paragoni so-ciologici che non contribuiscono a una conoscenza storica corretta. La donna e lo schiavo non stavano sullo stesso piano socio-giuridico. Alla schiavitù erano sot-toposti sconfitti in guerra e non Greci: il primo caso godeva di una giustificazione pratica (chi perdeva diveniva proprietà del vincitore), il secondo invece si avva-leva di motivazioni pseudobiologiche (il barbaro era per natura colui che possede-va ridotte facoltà intellettive). Questa visione biologica colpiva anche le donne che erano ritenute di capacità mentali inferiori agli uomini. Per via di questo pregiudizio naturalistico la sorte femmi-nile si accostava a quella dello schiavo dato che erano concepiti come due esseri cui faceva difetto in misura diversa il possesso integrale della razionalità. I ri-dotti in schiavitù erano alla stregua degli animali domestici (senza nessun diritto). Per fare un esempio chiarificatore: lo schiavo incaricato dal padrone di com-mettere un dolo non era imputabile del suo atto, l’unico responsabile era il man-dante. La situazione delle donne era dif-ferente. Avendo come riferimento il con-cetto di minorenne si può dire che il loro status era di perpetua minorità, e non dava perciò adito a diritti di maggiorenni

maschi. Ma non per questo erano ignora-te dalle leggi. La famiglia doveva infatti avere un titolare maschio e alle varie e-venienze si doveva sopperire necessaria-mente (fino al caso limite dell’adozione di un tutore). Un ruolo in cui le donne ave-vano rilevanza è quello del sacerdozio: una sacerdotessa poteva addirittura ac-cedere a teatro con posto riservato, la qual cosa era in assoluto interdetta alla restante popolazione femminile (anche come attrici: le loro parti erano interpre-tate da uomini). Un altro ambito in cui avevano considerazione era quello dei riti funebri: solo loro, dispensatrici di vita, potevano accostarsi all’impurità di un cadavere e curarsi della sua preparazione per il funerale, affrontando il lato finale della morte. Questo accadeva ad Atene, mentre a Sparta a causa del costante im-pegno militare dei maschi erano maturati notevoli spazi di autonomia. Platone, ammiratore dell’ordinamento spartano, ne “La Repubblica” prospettò la libera-zione dai pregiudizi di sorta e parlò di i-struzione anche per le fanciulle e di acces-so al mondo della politica in quanto le donne come appartenenti al genere uma-no partecipavano della razionalità nello stesso grado degli uomini. Il commedio-grafo Aristofane ne “Le donne all’assem-blea” mise in scena un colpo di Stato al femminile ambientato nell’antica Atene la cui dimensione comica è molto indica-

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tiva. Nel divino il femminile si svuotava dei suoi aspetti sostanziali per diventare unicamente questione di forma. Una dea non aveva i presunti limiti intellettivi di una donna, ne manteneva le connotazioni esteriori e vari tratti, ma diveniva un dio al femminile. Nonostante il clima di e-marginazione la grecità antica ha dato testimonianza di alcune donne di grandi qualità: vale la pena menzionare la poe-tessa Saffo che Platone, non a torto, de-finì la decima Musa. Nella visione antica le pratiche omosessuali (si vedano i tiasi, le scuole militari spartane, Atene, etc.) erano un fenomeno attinente alla sfera spirituale dell’individuo, non a quella biologica: l’unione di due persone di ana-logo sesso era qualcosa che si svolgeva al di là dell’ordine biologico, e il suo scopo era appunto un presunto arricchimento spirituale risultato di una particolare a-micizia. Nonostante l’omosessualità fosse considerata una cosa normale (quasi na-turale) dai Greci, a tal punto che quello che leggiamo nel “Simposio” di Platone –

nell’esposizione di Aristofane – è una giu-stificazione della per noi normalità sessu-ale (e non viceversa una giustificazione del “vizio greco”), mai nessun governo – romano, ateniese, o spartano – ha mai elaborato una norma che parificasse una unione di fatto tra omosessuali al norma-le matrimonio tra persone di diverso ses-so. Eppure i Greci ritenevano la per noi inversione un fenomeno molto significa-tivo. La sostanza del loro ragionamento trovava una base nel fatto di distinguere il matrimonio vero (con la facoltà data della procreazione) da un’altra cosa che matrimonio non era (la famiglia normale, diceva Aristotele, è una “società natura-le”): linguisticamente il matrimonio greco (γ μος) prevedeva un γαμ τες (sposo) e una γαμετ (sposa); il termine latino “matrimonium” è derivato da “mater” (madre), è naturalmente impossibile che in una coppia omosessuale qualcuno/a divenga “madre”.

2.1. LA BALLATA DI MULAN

a ballata (di autore anonimo) che narra la storia di Mulan – la cui reale esistenza non è accertata – è

circoscrivibile ai tempi delle dinastie ci-

nesi settentrionali Wei (386-535) e Sui (581-618). Funse da piano di proiezione e coagulo di superstiti simili racconti, che avevano una protagonista sulla falsa riga

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di Mulan ma non necessariamente allo stesso modo chiamata. Nell’arco tempo-rale 316-589 in cui la Cina non godette di unità politica la letteratura delle regioni nordiche, finite sotto il controllo di etnie barbare, sviluppò temi differenti rispetto a quella meridionale: la figura femminile socialmente più autonoma e impegnata alimentò non solo il disorientamento del-la tradizionale visione dei ruoli ma anche forme creative originali. Caso unico vista la sua articolazione (ha cinque sequenze d’azione: vv. 1-16 / 17-32 / 33-42 / 43-58 / 59-62), ne esiste un’elaborazione più bre-ve (44 versi) e diversa, forse precedente, d’ispirazione confuciana. Il nome Mulan (木 兰) significa magnolia (letteralmente: orchidea-di-legno; Mù: legno, làn: orchi-dea), e da Magnolia si presentò in Italia in un’antologia (curata da Giorgia Valen-sin) che aveva un’introduzione di Euge-nio Montale il quale la menzionava. La prima selezione specialistica di poesie ci-nesi pubblicata in Europa fu un’edizione tedesca del 1830; una seconda francese, destinata a lettori più comuni, fu stam-pata nel 1882 in lingua italiana. Esistono tre varianti originarie del cognome della nostra eroina: Wei, Ren, Zhu. Con quest’ultimo è nota in una narrazione in cui quattordicenne si sostituisce al vec-chio genitore malato nell’esercito (che mirava a far fronte a un’invasione di no-madi barbari) travestendosi da uomo. Potrebbe essere promossa grazie ai suoi meriti per volere dell’imperatore Tang Tai Zong, ma rifiuta desiderosa di torna-re a casa. Riceve comunque la possibilità di fregiarsi del cognome Li – originario

appartenente alla famiglia regnante – e del titolo offertole di generale. Alla fine in seguito a un oracolo che prevedeva la di-nastia imperiale al potere spodesta da una donna col suo nome, scoperta la sua identità femminile e ingiustamente accu-sata da calunniatori, al fine di rendere manifesta la sua buona fede, si suicida. Come Wei è conosciuta in altre due leg-gende. La prima la dice nativa di Shan-gqiu e vissuta all’epoca di Wen (primo regnante Sui riunificatore della Cina). In entrambe prende sempre il posto dell’an-ziano padre nella chiamata alle armi per resistere all’invasione. Nella prima cade in combattimento e ottiene un appellati-vo (xiaolie) che onora il suo coraggio e la pietas verso il genitore. Nella seconda, ambientata durante la dinastia Sui, so-stenuta dalle sue eccellenti qualità, rag-giunge il rango di generale, però in con-clusione rifiuta un ulteriore incarico di governo da parte dell’imperatore Yang per fare ritorno al suo villaggio. Qui i vecchi commilitoni scoprono che era una donna. La notizia giunge al sovrano, il quale la vorrebbe includere tra le sue concubine: tuttavia lei contraria si suici-da e riceve postumo l’epiteto di xiaolie. Tale filone sembra aver ispirato la balla-ta: lo dimostrerebbero le tangenze narra-tive. Proveniente dall’abbiente famiglia Ren la dipinge infine una versione d’epo-ca Tang (618-907) che la pone alla testa di un esercito da lei arruolato con risorse familiari, sedante una ribellione nella sua regione. Dei secoli successivi sono altre diverse rielaborazioni di varia natura (che, va detto, misero pure in evidenza

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piccoli aspetti erotici). In particolare un dramma di Xu Wei (1521-1593) contribuì decisamente a far conoscere la nostra co-me Hua Mulan, causando l’abbandono di tutti gli altri nomi e cognomi (hu vor-rebbe dire fiore). Nel 1975 fu dato alle stampe negli USA il romanzo di Maxine Hong Kingston (n. 1940) “La donna guerriero” a ella dedicato. Svariati anche gli adattamenti cinematografici e televi-sivi. Film di produzione cinese: due muti (’27 e ’28) cui hanno fatto seguito altri (’39, ’51, ’56, ’57, ’61), più uno musicale con Ivy Ling Po (n. 1939) del ’64 e quello del 2009 con Zhao Wei (n. 1976). L’attri-ce Zhang Ziyi (n. 1979) sarebbe dovuta essere protagonista in una realizzazione cinoamericana – annunziata nel settem-bre 2010 – arenatasi per mancanza di fi-nanziamenti. Ancora cinese è una serie televisiva in 20 puntate andate in onda su TVB nel 1998 con Mariane Chan (n. 1972), mentre a Taiwan l’anno successivo su CTV è stata trasmessa una nuova serie di 43 episodi con Anita Yuen (n. 1971). Celeberrimo è il film d’animazione della Disney del 1998, che ha avuto un sequel nel 2004. Tra le curiosità degne di cita-zione sono: un cratere di Venere, del dia-metro di 24 km, che porta il nome di Hua Mulan, e il fatto che le furono dedicati tre templi a Yucheng, Bozhou e Huangpi, città che rivendicarono di averle dato i natali. Gli spunti ideali offerti dalla bal-lata sono stati di volta in volta colti e va-lorizzati: la parità tra uomo e donna, il patriottismo strumento di difesa del be-nessere collettivo e individuale. Sullo

sfondo di tutto uno dei temi canonici del-la letteratura cinese: l’allontanamento dalle persone care. Il sistema metrico di una ballata popolare del genere ha soli-tamente versi di cinque o sette caratteri. A ognuno di questi ultimi corrisponde una parola avente nella pronunzia un puntuale andamento sonoro. Esistono quattro toni vocali: ascendente (si-re), discendente-ascendente (la-sol-do), di-scendente (re-sol), piano (re). Gli otto versi iniziali ricalcherebbero un comune schema usato da poeti: i suoni onomato-peici del primo (唧, separati da un avver-bio centrale) provenivano da canti in cui una ragazza sospirava per via del suo spo-salizio reso incerto. L’uso del termine Khan (可 汗) nel v. 10 riconduce alla di-nastia Wei settentrionale: la grande chia-mata alle armi (大 点 兵) potrebbe riferir-si a un momento delle iniziative di difesa da tribù nordiche condotte tra 424 e 451. La triplice ripetizione di caratteri (卷) tra la fine dell’undicesimo verso e il principio del dodicesimo può essere indizio della contaminazione di più fonti. Il richiamo alle Montagne Nere (黑 山) del v. 26 mol-to probabilmente fa riferimento alla cima più orientale dei Monti Yin a est della quale si trovano i Monti Yan (v. 28, 燕 山): la società Wei settentrionale risentì della lingua dei Mongoli presso cui quella serie montuosa era denominata Le dicias-sette montagne nere. I vv. 29-32 sembrano essere un mero ossequio a una consuetu-dine letteraria.

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1. 唧 唧 复 唧 唧

2. 木 兰 户 织

3. 不 闻 机 杼 声

4. 惟 闻 女 叹 息

5. 问 女 何 所 思

6. 问 女 何 所 忆

7. 女 亦 无 所 思

8. 女 亦 无 所 忆

9. 昨 夜 见 军 帖

10. 可 汗 大 点 兵

11. 军 书 十 二 卷

12. 卷 卷 有 爷

13. 阿 爷 无 大 儿

14. 木 兰 无 长 兄

15. 愿 为 市 鞍 马

16. 从 此 替 爷 征

17. 东 市 买 骏 马

18. 西 市 买 鞍 鞯

19. 南 市 买 辔 头

20. 北 市 买 长 鞭

21. 辞 爷 娘 去

22. 暮 宿 黄 河 边

23. 不 闻 爷 娘 唤 女 声

24. 但 闻 黄 河 流 水 声 溅 溅

25. 辞 黄 河 去

26. 暮 宿 黑 山 头

27. 不 闻 爷 娘 唤 女 声

28. 但 闻 燕 山 胡 骑 声 啾 啾

29. 万 里 赴 戎 机

30. 关 山 渡 若 飞

31. 朔 气 传 金 柝

32. 寒 光 照 铁 衣

33. 将 军 百 战 死

34. 壮 士 十 年

35. 来 见 天

36. 天 坐 明 堂

37. 策 勋 十 二 转

38. 赏 赐 百 千 强

39. 可 汗 问 所 欲

40. 木 兰 不 用 尚 书 郎

41. 愿 借 明 驼 千 里 足

42. 送 儿 还 故 乡

43. 爷 娘 闻 女 来

44. 出 郭 相 扶 将

45. 阿 姊 闻 妹 来

46. 户 理 红 妆

47. 小 弟 闻 姊 来

48. 磨 刀 霍 霍 向 猪 羊

49. 开 我 东 阁 门

50. 坐 我 西 阁 床

51. 脱 我 战 时 袍

52. 著 我 时 裳

53. 窗 理 云 鬓

54. 对 镜 贴 花 黄

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55. 出 门 看 伙 伴

56. 伙 伴 皆 惊 惶

57. 行 十 二 年

58. 不 知 木 兰 是 女 郎

59. 雄 兔 脚 扑 朔

60. 雌 兔 眼 迷 离

61. 两 兔 傍 地 走

62. 安 能 辨 我 是 雄 雌

2.2. La ballata di Mulan (versione in italiano a cura di Danilo Caruso) 1. Un sospiro dopo l’altro, 2. Mulan sta tessendo davanti all’uscio. 3. Non si sente il rumore della spoletta, 4. solamente i sospiri della ragazza. 5. Le chiedi: «Cosa pensi?». 6. Le chiedi: «Di cosa hai nostalgia?». 7. «Non penso a niente, 8. non ho nostalgia di nulla. 9. La notte scorsa ho visto le insegne, 10. il Khan sta arruolando una grande forza, 11. la lista dei soldati occupa una dozzina di rotoli, 12. e in ognuno è il nome di mio padre. 13. Non c’è un figlio adulto per lui, 14. Mulan non ha un fratello più grande. 15. Andrò a comprare un cavallo e una sella 16. per combattere al posto di mio padre.» 17. Al mercato dell’est comprò un eccellente destriero, 18. al mercato dell’ovest comprò una sella completa, 19. al mercato del sud comprò le briglie, 20. al mercato del nord comprò una lunga frusta. 21. All’alba salutò i genitori, 22. all’imbrunire si accampò vicino al fiume Giallo. 23. Non ascoltava più la voce chiamante di suo padre e sua madre, 24. sentiva solo l’acqua fluente del fiume [溅 溅, suoni onomatopeici aggiuntivi]. 25. All’alba abbandonò il fiume Giallo, 26. al crepuscolo riposò sulle Montagne Nere.

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27. Non ascoltava più la voce chiamante di suo padre e sua madre, 28. sentiva solo il fragore dei cavalieri nemici sulle Montagne Yan [啾 啾, suoni ono-

matopeici aggiuntivi]. 29. Le truppe in guerra percorsero grandi distanze, 30. attraversarono passaggi di montagna come se stessero volando. 31. Le raffiche della tramontana portavano il segnale dell’ora fatto dalle sentinelle

notturne, 32. alla luce della luna [寒 光, letteralmente luce fredda] brillavano le armature. 33. Generali morirono in tante battaglie, 34. guerrieri coraggiosi fecero ritorno a casa dopo dieci anni. 35. Al loro ritorno furono ricevuti dal Figlio del Cielo 36. che sedeva nella sala degli splendori. 37. Si concessero dodici promozioni, 38. grandi ricompense si assegnarono a migliaia di uomini valorosi. 39. Il Khan chiese a Mulan cosa desiderasse. 40. «Non ho bisogno di un incarico di governo, 41. desidero una bestia per cavalcare leggermente 42. e tornare finalmente al mio villaggio.» 43. Quando i genitori udirono la figlia ritornare 44. uscirono ad accoglierla fuori delle mura del villaggio appoggiandosi fra di loro. 45. Quando la sorella maggiore la sentì avvicinarsi 46. si truccò di rosso [colore simboleggiante per i Cinesi sorte favorevole e vitalità] e

l’aspettò davanti alla porta. 47. Quando il fratello minore la sentì avvicinarsi 48. affilò il coltello per uccidere maiali e capre. 49. «Apro la porta della mia camera orientale, 50. siedo sul mio letto nella camera occidentale. 51. Mi tolgo l’armatura che portavo in battaglia 52. e mi metto i vestiti del tempo passato.» 53. Vicino alla finestra si accomodò i capelli, 54. davanti allo specchio si adornò con un impasto di fiori gialli. 55. Lei uscì fuori della porta e vide i suoi camerati 56. che rimasero tutti stupiti e perplessi: 57. «Dodici anni siamo stati insieme nell’esercito 58. e nessuno sapeva che Mulan fosse una ragazza.» 59. «Le zampe del coniglio maschio saltellano su e giù, 60. mentre il coniglio femmina ha occhi confusi e sconcertati. 61. Quando due conigli corrono lungo la terra, 62. come puoi capire se io sono maschio o femmina?»

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3. IPAZIA, UNA DONNA MODERNA

andato anche nelle sale cinemato-grafiche italiane il film “Agorà” de-dicato alla storia di Ipazia (figlia del

matematico Teone), filosofa neoplatonica e scienziata (inventò l’aerometro, l’astro-labio, l’idroscopio, il planisfero), ignomi-niosamente uccisa a 45 anni da integrali-sti sedicenti cristiani nel 415 d.C. ad Ales-sandria d’Egitto all’interno di una chiesa dopo avercela portata a forza: «tantum malorum potuit suadere religio». La reli-giosità, che è umana vocazione naturale, nel momento in cui si converte in nevrosi (ossessiva) diviene peggiore dell’«oppio dei popoli», diventa un veleno che di-strugge pure chi vuol servirsene. L’Impe-ro romano dei tempi di Ipazia era in a-vanzata e forte crisi (demografica e spiri-tuale). I Romani intuirono a suo tempo la “pericolosità” sociale del Cristianesi-mo: le persecuzioni dei cristiani vanno viste nell’ottica della guerra preventiva (a loro già nota). Ipazia rimane vittima ingiustificata – ricorda l’Ifigenia lucre-ziana – dell’integralismo che si opponeva al “liberalismo politeista” pagano. Nem-meno gli Ebrei attirarono su di loro un’azione repressiva quale quella subita dai seguaci di Cristo: accadde che il Van-gelo si radicò e diffuse come lo stoicismo e l’epicureismo durante l’Ellenismo. Il vo-lerlo imporre a tutti, costi quel che costi, non fu opera di evangelizzazione: conver-tire poi con la forza e per mezzo di leggi significò solo usare una forma di violenza. La crisi spirituale più che a un risana-

mento portò alla radicalizzazione dello scontro cristiani-pagani: il Cristianesimo fagocitò la filosofia, che non aveva ucciso nessuno, dando un colpo mortale all’im-pero che si era poggiato su un sistema so-ciale più libero. La colpa di tutto ciò non sta naturalmente nel Messaggio evangeli-co (che è un messaggio universale d’amo-re e di pace), risiede nel progetto – non condivisibile – di voler accompagnare qualsiasi monoteismo con un impianto totalitario. Piegare il Vangelo a questa logica produsse un ulteriore elemento di disgregazione. La difesa preventiva dei Romani non era di natura religiosa: si può parlare di “repressione di culti so-cialmente pericolosi”. Il Cristianesimo vinse, ma dalla filosofia prese solo gli strumenti concettuali (nella filosofia e-braica alessandrina si ritrovano i pro-dromi della teologia cattolica). Gesù Cri-sto non avrebbe voluto tutto questo, se fosse rimasto personalmente in terra, e del resto anche lui fu vittima di quello stesso integralismo, stavolta all’interno dell’Ebraismo. Bisogna distinguere nella storia della Chiesa, così come in qualsiasi storia, aspetti positivi e aspetti negativi: tutto quello che va da Ipazia a Giordano Bruno e oltre non può che essere condan-nato. Le persecuzioni dell’inquisizione – qualcuno stima le vittime in dieci milioni, di cui nove solamente le streghe – si con-figurano come “crimini contro l’umani-tà”: non importa l’estensione, è questione di qualità del reato. Queste cose non si

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possono cancellare, ma in questa storia ci sono pure particolari e splendide figure di santi, e non dobbiamo accantonare so-prattutto Gesù Cristo che è morto, come Ipazia, per testimoniare la verità. Gli in-tegralisti di allora erano solo integralisti, non meritano di essere chiamati cristiani. La Chiesa medievale garantì la prosecu-zione della civiltà occidentale e in primis del Cristianesimo “positivo”, e produsse la conservazione del sapere di quel mondo antico che aveva contribuito a demolire. Nessuno è perfetto. L’importante è cor-reggersi. Ipazia è indubbiamente “donna moderna” rispetto ai suoi tempi: definirla donna d’oggi pare riduttivo. Va ben al di là di un’ideale collocazione cronologica a posteriori: la sua virtù, il suo valore, le sue eccezionali capacità la trasfigurano nel patrimonio di crescita dell’umanità. Ella crede nella ragione, il linguaggio u-niversale che Dio ha dato agli uomini, e non viene meno alla sua missione di “a-more-per-il-sapere”. Cade, martire, tra quelli che hanno difeso la pacifica convi-venza nelle diversità, a causa dell’odio, del settarismo, dell’invidia, mali che pre-tendevano di distruggere con la loro irra-

zionale avversione persino i libri delle bi-blioteche, e dunque la cultura, la civiltà, il progresso. Ispiratore del delitto il ve-scovo antisemita Cirillo (successivamente canonizzato); un altro vescovo, invece, Sinesio, rimase devoto e riconoscente ex allievo ipaziano. Come non accostarla d’altro canto, per instaurare un nuovo paragone, al servo di Dio Padre Pino Pu-glisi. La Grazia di Dio, che agisce ovun-que e in modi misteriosi, li avrà accolti entrambi nel paradiso dei beati: con pa-role cariche di pathos, nella rappresenta-zione scenica Il sogno di Ipazia (pregevole opera di Massimo Vincenzi), ella – inter-pretata magistralmente da Francesca Bianco (con l’ottima regia di Carlo Emi-lio Lerici) – ci dice: «E non voltatevi mai indietro a vedere il mio corpo che brucia. Il pensiero non brucia. Io adesso voglio solo salire sul tetto della mia casa a guar-dare le stelle. Mio padre è lassù che mi aspetta. Lo so.»; nessuno potrà mai can-cellare l’immagine divina dal creato: arde sempre la fiamma della verità. Ipazia merita, più che per nemesi, quell’espressi-one agostiniana delle Confessiones: «bel-lezza così antica e così nuova».

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4. ELEONORA DE FONSECA PIMENTEL

mmanuel Kant, alla vigilia della Ri-voluzione francese, scriveva nel 1784: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo

dallo stato di minorità che egli deve im-putare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […] La pigrizia e la vil-tà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. […] Dopo di averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e di avere con ogni cu-ra impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori della carrozzina da bambini in cui li hanno im-prigionati, in un secondo tempo mostra-no a essi il pericolo che li minaccia qualo-ra cercassero di camminare da soli. […] A questo Illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi». La Marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel incarnò e testimoniò nel secolo dei lumi questa inarrestabile vocazione di crescita della civiltà che si riallacciava alla più pura e radicale ricerca-della-verità-e-della-felicità da cui nell’antichità greca era sor-ta la filosofia (occidentale). Nacque il 13 gennaio 1752 a Roma, all’interno di una nobile famiglia portoghese, da Clemente e Caterina Lopez. Assieme ai familiari si

trasferì nel 1760 a Napoli quando, inter-rottisi i rapporti diplomatici tra Stato della Chiesa e Portogallo, per via della cacciata dei Gesuiti dal territorio lusita-no, i Portoghesi residenti furono espulsi dai domini papali. Guidata da uno zio abate si avviò agli studi umanistico-scientifici ed ebbe modo di conoscere e frequentare personalità del mondo cultu-rale napoletano del tempo, fra i quali Francesco Vargas Macciucca mediante la frequenza del cui salotto letterario entrò sedicenne nell’Accademia dei filaleti (=amanti-della-verità): nel 1768 entrò pu-re nell’altra Accademia dell’Arcadia. Ri-cevette l’apprezzamento da parte di Pie-tro Metastasio con cui manteneva una corrispondenza, il quale aveva letto i suoi esordi poetici iniziati nel ’68 scrivendo un epitalamio (“Il tempio della gloria”) de-dicato a Ferdinando I di Borbone, re del-le Due Sicilie, e a Maria Carolina d’Asburgo (sorella della futura regina di Francia Maria Antonietta). Entrerà in contatto epistolare anche con Goethe e Voltaire (che le compose un sonetto). In questa prima fase filomonarchica la sua poesia continuerà a mettere in risalto tra l’altro personaggi e fatti legati alla casa reale: ad esempio la nascita del principe ereditario Carlo. Del ’77 era invece il “Trionfo della verità” dedicato al primo ministro portoghese autore della prima espulsione europea dei Gesuiti. Il 4 feb-braio 1778 si unì in matrimonio a un no-bile, ufficiale delle truppe borboniche, di

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una ventina d’anni più vecchio di lei, da cui ebbe un figlio (Francesco) morto prematuramente a otto mesi nel ’79. La madre dedicò alla compianta memoria di questo bambino i cinque “Sonetti di Al-tidora Esperetusa [nome assunto all’en-trata nell’Arcadia] in morte del suo unico figlio”. Questo è il terzo: «Sola fra miei pensier sovente i’ seggio, / e gli occhi gra-vi a lagrimar m’inchino, / quand’ecco, in mezzo al pianto, a me vicino / improvviso apparir il figlio i’ veggio. / Egli scherza, io lo guato, e in lui vagheggio / gli usati vezzi e ’i volto alabastrino; / ma come certa son del suo destino, / non credo agli occhi, e palpito, ed ondeggio. / Ed or la mano stendo, or la ritiro, / e accendersi e tremar mi sento il petto / finché il sangue agitato al cor rifugge. / La dolce visione allor sen fugge; / e senza ch’abbia dell’er-ror diletto, / la mia perdita vera ognor sospiro». Ottenne la legale separazione coniugale dall’autoritario Pasquale Tria de Solis, a causa della cui violenza aveva subito un aborto (evento cui dedicò un’ode elegiaca), nel 1786. Grazie alla sua poetica celebrativa dei Borboni conquistò un incarico di bibliotecaria a corte, il che le consentì di superare i disagi in cui ver-sava a seguito della divisione dal marito e della morte del padre (nella cui casa era tornata a vivere nel 1785). La soppres-sione della consuetudine della monarchia borbonica, avvenuta nel 1788, di offrire un tributo feudale annuo al romano pon-tefice, la spinse a scrivere, due anni più in là, con spirito di adesione al giurisdizio-nalismo una traduzione dal latino di un’opera dell’abate Nicolò Caravita (risa-

lente al 1707 e messa all’indice dalla Chiesa nel 1710) in cui si sosteneva che lo Stato non fosse obbligato ad atti di vas-sallaggio nei confronti del Papa: inte-grandola per mezzo di un’introduzione e note di commento, la traduttrice esplicitò il proprio pensiero affermando che «il Regno non è padronato, non è primogeni-tura, non è fedecommesso, non è dote: il Regno è amministrazione e difesa dei di-ritti pubblici della nazione, conservazione e difesa dei diritti privati di ciascun cit-tadino», e perciò non poteva essere inseri-to in meccanismi superati dalla storia e dalla giurisprudenza. Allorché scoppiò la Rivoluzione francese diffuse la costitu-zione del ’91, e dopo la proclamazione della repubblica, il 21 settembre 1792, ebbe contatti con la delegazione transal-pina in visita alla fine di quell’anno nella capitale borbonica (la flotta al cui seguito aveva condotto una dimostrazione nava-le al largo di Napoli) al fine di conseguire un riconoscimento internazionale del nuovo assetto postmonarchico dello Sta-to. Ghigliottinato Luigi XVI il 21 genna-io 1793, in Europa si formò un’ampia co-alizione per muovere guerra alla Francia repubblicana composta da Austria, In-ghilterra, Prussia, Russia, Spagna e da Stati italiani tra cui lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie (entrato nel conflitto il 12 luglio, il 6 giugno del ’96 stipulò una tregua). Le posizioni progres-siste dei reali borbonici – inaugurate dal precedente re Carlo III e particolarmente coltivate, sulla scia del giuseppinismo, dalla regina Maria Carolina d’Asburgo (protettrice degli intellettuali illuministi

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anche iscritti alla massoneria) – avevano lasciato il posto a una preventiva condot-ta di conservazione antirepubblicana. Ta-le indirizzò trovò la de Fonseca sul ver-sante opposto, di chi aveva appreso le notizie d’Oltralpe fiduciosamente con un sentimento di partecipazione. Il 16 otto-bre 1793 Maria Antonietta venne giusti-ziata. E nel maggio del ’94 fallì a Napoli una cospirazione rivoluzionaria. Numero-si sospetti si addensarono su di lei: cosic-ché, perso il posto di bibliotecaria a corte nel 1797, un anno più tardi, il 5 ottobre, a conclusione di una perquisizione domici-liare l’arrestarono, traducendola al carce-re della Vicaria, per averla trovata in possesso dell’Enciclopedia curata da Di-derot e D’Alembert, e incolpandola di partecipare e di dar luogo nella propria abitazione a incontri sovversivi. Dalla galera provò a mettersi in contatto con il rappresentante diplomatico portoghese, ma il tentativo non andò in porto perché scoperto dall’inquisizione cattolica. Nell’agosto del 1798 si costituì una se-conda coalizione internazionale antifran-cese formata da Austria, Turchia, Regno delle Due Sicilie e Russia. Pochi giorni prima di Natale la corte borbonica, al-larmata dall’avvicinarsi dei Francesi (impegnati militarmente in Italia già dal settembre del ’92), dopo aver invaso i Napoletani il 26 novembre la Repubblica romana, si trasferì su una nave dell’am-miraglio Nelson a Palermo. La de Fonse-ca riottenne la libertà (con tutti gli altri carcerati di ogni risma) quando il prole-tariato napoletano (composto dai cosid-detti lazzari) si sollevò nel gennaio

dell’anno successivo, istigato dai monar-chici e dagli ecclesiastici reazionari – e poi armato dal viceré Francesco Pignatelli (secondo le istruzioni del re) per resistere all’invasore giacobino – e assalì la prigio-ne in cui era detenuta. Fu dunque am-messa nel comitato costituitosi a guida di un progetto istituzionale repubblicano appoggiato da borghesi e nobili progressi-sti che sollecitava l’intervento militare francese allo scopo di porre fine alla di-sordinata insurrezione popolare, la quale aveva obbligato l’arcivescovo della capi-tale a consentire una processione delle reliquie del santo patrono Gennaro, invo-cante protezione proprio dai Francesi in arrivo. I quali, superando l’esercito bor-bonico sotto il comando dell’Austriaco von Mack e la resistenza dei lazzari, giun-sero a Napoli il 23, dopo che i repubbli-cani, fra cui la de Fonseca, tra il 19 e il 20 gennaio 1799 avevano preso la strategica fortezza di Sant’Elmo; di fronte al cui spiazzo il 21, piantato l’albero della liber-tà, fu solennemente proclamata la «Re-pubblica Napoletana una ed indivisibile» (circostanza nella quale lei lesse nella pubblica esultanza un suo “Inno alla li-bertà” – andato perso – composto nel corso della sua recente prigionia). Il 24 il generale Championnet, che guidava i Francesi, rese omaggio al patrono, che – si disse poi – aveva fatto un miracolo d’approvazione della loro presenza scio-gliendo il suo sangue non appena questi erano arrivati. La de Fonseca giudicò i-nadeguato il disinteresse del nuovo go-verno verso tali risvolti religiosi degli e-venti: non sostenne un abuso della credu-

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lità popolare di contro alla negativa criti-ca illuministica della religione, bensì l’op-portunità di innescare un meccanismo di avvicinamento tra la base proletaria e la nuova classe dirigente repubblicana favo-rito da una partecipazione personale di quest’ultima ai riti religiosi, che segnasse una discontinuità con la tradizione di as-senza del monarca alla processione del patrono. Durante il periodo della repub-blica diede vita al Monitore napoletano, un periodico a stampa che diresse, di cui furono pubblicati 35 numeri tra il 2 feb-braio e l’8 giugno del ’99 (usciva di mar-tedì e di sabato), che fu un obiettivo e in-dipendente veicolo d’informazione sopra le vicende della Repubblica partenopea. Benedetto Croce così si espresse al ri-guardo: «Il Monitore va rapido e diritto, tutto assorto nelle questioni essenziali ed esistenziali, che si affollarono in quei po-chi mesi, i quali, per intensità di vita, valsero parecchi anni». Critica in merito agli eccessi della Rivoluzione francese (il cosiddetto Terrore), una delle sue aspira-zioni fu quella di raggiungere a scopo pe-dagogico la base popolare ignorante e a-nalfabeta (proponendo ad hoc l’uso del dialetto), soggetta all’azione di fattori ambientali e processi sociali dell’ancien régime che producevano reazioni favore-voli ai sostenitori della monarchia, effetti collaterali che a suo avviso erano da sra-dicare attraverso la diffusione di una cor-retta conoscenza degli avvenimenti. A servizio di ciò fu pure il suo sostegno a la sua partecipazione al progetto della sala d’istruzione pubblica (luogo e occasione di discussione). Lei, che posteriormente alla

liberazione aveva voluto sopprimere la preposizione nobiliare “de” dal proprio cognome, nel Monitore in tal modo e-sprimeva la sua amareggiata riflessione: «Qual biasimevole contrasto opponete ora Voi a’ vostri avoli de’ tempi del gran Masaniello! Senza tanto lume di dottrine e di esempj, quanti ora ne avete, diè Na-poli le mosse, proseguirono i vosti avoli, insorsero da per tutto contra il dispoti-smo, gridarono la Repubblica, tentarono stabilir la democrazia, e per solo ragione-vole istinto reclamarono i diritti dell’Uo-mo. Ora proclamano l’uguaglianza, e la democrazia i nobili, la sdegnano le popo-lazioni!». Quasi tutti i soldati francesi presenti sul territorio napoletano nel maggio del ’99 furono costretti dal conte-sto delle movimentate vicende di quell’e-poca a spostarsi in Alta Italia, di fatto abbandonando l’appena nata repubblica alla sua debolezza. Infatti di lì a poco, sostenute dall’azione inglese di bombar-damento navale costiero, sopraggiunsero nella capitale il 13 giugno le rozze e sel-vagge milizie di popolo – denominate e-sercito della santa fede – raccolte dal «car-dinale mostro (come lo definì la de Fon-seca)» Fabrizio Ruffo di Bagnara che era stato incaricato di riprendere il controllo dei domini continentali. Alla marchesa repubblicana, che aveva trovato riparo a Castel Sant’Elmo, si era prospettata la possibilità dell’esilio: tuttavia col ritorno del governo dei Borboni (che avevano avuto modo di avere fra le mani il suo periodico) a luglio la parola data, pure nei confronti di altri al momento della resa dei repubblicani, non fu mantenuta,

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eccettuati i Francesi, a causa dell’ammi-raglio Nelson e degli Inglesi che li appog-giavano (primo ministro borbonico era ormai da qualche anno John Acton). E, con questi, venne incarcerata: fu preleva-ta dalla nave che l’avrebbe portata in salvo. Nel processo intentatole fu emessa a suo carico il 17 agosto una sentenza di condanna all’impiccagione per tradimen-to, di cui ella chiese – iusto iure (di nobil-tà, riconosciuto nel 1778), che le fu inde-bitamente negato – la commutazione del-la forma in decapitazione mediante scure. Intorno alle 14:00 del 20 agosto nella piazza del mercato di Napoli, preso un caf-fè e dette le parole di Enea «Forsan et haec olim meminisse iuvabit (Forse un giorno farà piacere ricordare anche questi avvenimenti; Eneide I, 203)», salì sul pa-tibolo dove fu uccisa ultima insieme ad altri sette condannati (tra cui un princi-pe, un duca, un vescovo e un sacerdote semplice). Il suo cadavere rimase esposto fino a sera al macabro scherno della be-stiale ignoranza dei più, i quali avrebbero preteso che prima di morire inneggiasse al re e da cui provengono questi versi di

dubbio gusto: «’A signora ’onna Lionora / che cantava ’ncopp’ ’o triato [=sopra il teatro], / mo’ abballa mmiez’ ’o Mercato. / Viva ’o papa santo / ch’ha mannato ’e cannuncine / pe’ caccià li giacubine. / Vi-va ’a forca ’e Mastu Dunato! / Sant’Antonio [scelto patrono alternativo al filofrancese san Gennaro] sia priato [=pregato]!»; versi ai quali replicò il can-tante Eugenio Bennato, due secoli dopo, con un brano dal titolo “Donna Eleono-ra”. La salma fu infine tumulata in una vicina chiesa intitolata a Santa Maria di Costantinopoli, che verrà successivamen-te abbattuta facendo così perdere le trac-ce dei suoi resti. Vincenzo Cuoco la ricor-dò con parole di esaltazione nel suo “Sag-gio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”. È del 1986 un romanzo di Vin-cenzo Striano, “Il resto di niente”, da cui è stato tratto un film (2004), a lei dedica-to. Ferdinando I dispose nel 1803 la di-struzione di tutti gli atti dei processi con-tro i repubblicani del ’99, processi trami-te i quali furono attuate 121 esecuzioni capitali.

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5. SIMONE WEIL

imone Weil ebbe la ventura da viva di essere quasi unicamente conosciu-ta per i tratti caratteriali della sua

ferma coerenza di principi pratici. La sua profonda e significativa figura è salita alla ribalta per le opere a partire dal se-condo dopoguerra. Nacque da una fami-glia benestante di origine ebrea il 3 feb-braio 1909 a Parigi (ebbe un fratello af-fermato matematico). Già all’epoca del liceo mostrò un’inclinazione alla ricerca filosofica. Studiò all’École normale supé-rieure: fu allieva dei filosofi Emile Char-tier (Alain) e René Le Senne; dopo la lau-rea insegnò filosofia alle scuole superiori femminili (1931-38). Per via del suo im-pegno in dimostrazioni antitotalitarie fu sottoposta a spostamento di cattedra. Come insegnante si mostrò aperta alle esigenze delle studentesse, lavorando gra-tuitamente più del dovuto e rimettendoci del proprio. Riguardo a un efficace ap-prendimento teorizzò i primati della di-sinteressata-attenzione-verso-l’oggetto-di-studio e del piacere-della-conoscenza. Le basi della sua analisi filosofica si im-piantano nella cornice di uno spirituali-smo che dava risalto al concetto di “vo-lontà” (effort, sforzo). Il suo pensiero at-traversò due momenti di sviluppo: il pri-mo, che risentiva del clima storico della Rivoluzione bolscevica, fu caratterizzato più da interessi politico-sociali, quello successivo fu connotato da un’impronta mistico-religiosa. La sua matrice politica iniziale fu di sinistra radicale (ospiterà

Trotzkij profugo, e non prenderà mai la tessera di alcun partito). Riallacciandosi fortemente all’insieme sociale di prove-nienza cercò di mettere in atto le sue idee con la personale condotta, trascurando la pubblicazione di opere in vita (diede alle stampe degli articoli, firmandosi con uno pseudonimo, e poche poesie; tutto il cor-pus weiliano sarà pubblicato postumo). Il suo spirito di carità la portò a lasciare temporaneamente la carriera d’insegnan-te, sollecitata dalla sua volontà di condi-videre la vita proletaria operaia, e così nel ’34 entrò in uno stabilimento Re-nault, abbandonato l’anno successivo, dopo otto mesi, a causa di una pleurite (fece la fresatrice): in quel periodo devol-se il grosso dei suoi guadagni ai disoccu-pati. Da quell’esperienza prese forma il saggio “Riflessioni sulle cause della liber-tà e dell’oppressione”. Secondo l’autrice nel sistema capitalista l’origine delle spe-requazioni sta più al di là della questione della proprietà: sta nella dicotomia “la-voro intellettuale / lavoro manuale”. «Il lavoro non viene più eseguito con la co-scienza orgogliosa di essere utile, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero della sorte». L’aspetto settoriale della produzione provoca l’as-servimento a questo tipo d’organizza-zione e fa smarrire all’uomo la sua speci-fica dimensione complessiva nel frazio-namento specialistico. Benché secondo lei non sia possibile raggiungere un’assoluta

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liberazione, l’ideale della libertà è il ter-mine cui tendere asintoticamente: l’in-consapevolezza individuale e l’appiat-timento generale, che maturano in segui-to alla presenza di poderosi apparati pro-duttivi anche in quelle società in cui è in-tervenuta una modificazione rivoluziona-ria, possono essere contrastati dall’inten-to di riavvicinare e combinare le mansio-ni creative e quelle di attuazione, e con-temporaneamente ponendo il ruolo del lavoro alla base del vivere umano. Ele-menti di questa analisi hanno anticipato contenuti del sindacalismo unitario della Repubblica sociale italiana e del pensiero di Herbert Marcuse (“L’uomo a una di-mensione”). L’essere umano vive una scissione interiore in cui i lati spirituali e intellettuali sono alienati provocando di-sagio. La Weil sottolinea la soggettività dell’uomo, che deve essere rivitalizzata di fronte al suo stato passivo funzionale; perciò ella rivolse anche delle obiezioni ai gruppi marxisti, patrocinatori di una ri-voluzione inautentica e di uno Stato an-tidemocratico, e a chi ambiva a un cam-biamento non preceduto da un intenso impegno pratico a migliorare le cose. Pur essendo pacifista prese parte nel ’36 alla guerra civile spagnola al servizio dell’anar-chica Colonna Durruti (rimasta ustionata a un piede dovette far ritorno in patria). La svolta in direzione di un interesse mi-stico-esistenziale risale al ’37, quando al-largò l’orizzonte del suo pensiero alla fede nel Cristianesimo cattolico: non è suffi-ciente la sola volontà umana a risanare la frattura tra realtà concreta e realtà idea-le, la passione di Cristo ricompone tutto.

Ella però sino alla fine mantenne una prospettiva speculativa di apertura uni-versalistica verso le altre religioni, non escluse dal contatto della Grazia, e rifiutò l’idea del battesimo, e di entrare nel cor-po della Chiesa, che accusava di essere stata nei secoli un sistema di potere tota-litario e persecutorio, che nella sua rigida circoscrizione lascia fuori della prospetti-va della salvezza una considerevole parte di storia e di umanità. «Il problema della fede non si pone affatto. Finché un essere umano non è stato conquistato da Dio, non può avere fede, ma solo una semplice credenza; e che egli abbia o no una simile credenza, non ha nessuna importanza: infatti arriverà alla fede anche attraverso l’incredulità. La sola scelta che si pone all’uomo è quella di legare o meno il pro-prio amore alle cose di quaggiù». Nella visione omerica della guerra (“L’Iliade o il poema della forza”, manoscritto del ’39) la filosofa francese rileva un senti-mento di equanimità nei confronti dei contendenti, sentimento che attribuisce all’intera Grecità. Questa società antica al cospetto della pulsione distruttiva, ge-neratrice di lutti e rovine, replicava con le eccellenze dell’animo (le virtù). Simone Weil ricollega, tramite il comune spirito di pietà davanti alla sorte umana, tale schema al Cristianesimo, in cui la subor-dinazione alla forza, che sfugge al con-trollo dell’uomo, è combattuta dall’azio-ne della Grazia. L’umanità è stata e ri-mane indistintamente vittima della vio-lenza, tuttavia peggiore è l’infelicità cau-sata dalla percezione del necessario allon-tanamento di Dio dal creato per dargli

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spazio di vita in quanto diverso da Lui. «Dio crea se stesso e si conosce perfetta-mente allo stesso modo in cui noi co-struiamo e conosciamo miserevolmente degli oggetti fuori di noi. Ma prima di tutto Dio è amore. Prima di tutto Dio ama se stesso. Quest’amore, quest’amici-zia in Dio è la Trinità. Tra i termini uniti da questa relazione di amore divino, c’è qualcosa di più che una vicinanza: c’è vi-cinanza infinita, identità. Ma a causa del-la creazione, dell’incarnazione e della passione, è anche una distanza infinita. La totalità dello spazio, la totalità del tempo interpongono il loro spessore e pongono una distanza infinita fra Dio e Dio». In un’ottica impregnata dall’ereti-co rifiuto cataro della realtà materiale, la scoperta dell’apparente insignificanza della storia, carica dei suoi mali, può di-sorientare l’uomo, tuttavia in essa egli può trovare il luogo per procedere al di-sallontanamento dal divino, quella decrea-zione (presentante suggestioni eckhartia-ne, e induistiche da “Il canto del beato”) in cui l’io si annichilisce a vantaggio dell’ingresso di Dio: amarLo e ritornare a Lui sono gli scopi del progetto creativo divino, «essere nulla per essere al proprio vero posto nel tutto». Poiché Dio si ma-nifesta nell’ordine naturale, la natura da cui trae ispirazione l’arte può essere vei-colo di moralità nella testimonianza che la presenza del bello dà a favore dell’at-tuabilità dell’ideale. La Weil individuò il fondatore del pensiero mistico in Occi-dente in Platone (“Dio in Platone” del ’40) giudicandolo un precursore di punti che saranno poi della teologia cristiana: il

rapporto tra Dio e l’amore, e il suo inter-vento salvifico, per mezzo della Grazia, nella storia dell’uomo (che si aggiunge alle virtù). Scoppiata la seconda guerra mondiale, dopo l’occupazione tedesca del-la Francia, lasciò Parigi e si trasferì a Marsiglia: a causa della legislazione raz-ziale della Repubblica di Vichy non poté insegnare nelle scuole. Lavorò alla raccol-ta dell’uva. Presa ripetutamente di mira dalle forze dell’ordine subì vari interroga-tori ma non l’arresto. Nel ’42 con i fami-liari si trasferì negli USA, per poi pron-tamente ritornare in Inghilterra, spinta dal suo desiderio di opporsi alle ideologie totalitarie. Operò nel comitato “France libre”. Morì per le complicazioni di una tubercolosi il 24 agosto 1943 ad Ashford dopo un’esistenza di autentica partecipa-zione al disagio (soffriva di mal di testa e praticava digiuni per solidarietà). Altre opere di Simone Weil: “Cinque lettere a uno studente”, “I catari e la civiltà medi-terranea”, “Il chicco di melagrana”, “I-sraele e i Gentili”, “L’amicizia pura”, “L’amore di Dio”, “L’attesa di Dio”, “L’ombra e la grazia”, “La condizione operaia”, “La conoscenza soprannatura-le”, “La fonte greca”, “La Grecia e le in-tuizioni precristiane”, “La prima radice”, “Lettera a un religioso”, “Lezioni di filo-sofia”, “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”, “Oppressione e libertà”, “Pensieri disordinati sull’amore di Dio”, “Primi scritti filosofici”, “Professione di fede”, “Progetto di una formazione di in-fermiere di prima linea”, “Quaderni”, “Sul colonialismo”, “Sulla scienza”, “Ve-nezia salvata”.

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6.1. NOOR INAYAT KHAN

a storia dell’impavida principessa Noor Inayat Khan, che lottò con-tro la barbarie nazista, è una fulgi-

da pagina di impegno a difesa della liber-tà e della giustizia. Pronipote dell’ultimo re musulmano in India, nacque a Mosca, al Cremlino, il primo gennaio 1914. Era figlia di Hazrat Inayat Khan, un musici-sta e maestro religioso che era stato invi-tato alla corte dello Zar per far conoscere il sufismo: una corrente mistica all’inter-no dell’Islam che persegue l’unione con Dio (anche attraverso esperienze mistiche stimolate dalla musica), l’introspezione interiore e la separazione dalla mondani-tà. Sua madre, Meena Ray Baker, un’A-mericana del New Mexico, aveva cono-sciuto Hazrat negli USA: convertitasi all’Islamismo col nome di Begum Sharaia Ameena, i due si sposarono a Londra nel 1913 (lei fu diseredata dai familiari che non approvavano). Ebbe tre fratelli: Claire, Vilayat, Hidayat. Nel 1916 la sua famiglia si trasferì in Inghilterra e poi nel 1921 in Francia, nelle vicinanze di Parigi, in una casa regalata da un ricco sosteni-tore olandese delle dottrine sufiche del padre (morto il 5 febbraio 1927 dopo es-sere ritornato da pochi mesi in India). Noor studiò psicologia infantile alla Sor-bona di Parigi, musica al conservatorio imparando a suonare l’arpa e il pianofor-te (compose delle opere musicali). Fu scrittrice: collaborò a riviste, autrice di poesie, e racconti per bambini da leggere su radio Parigi. Il suo libro “Venti rac-

conti Jataka” venne stampato in Inghil-terra nel ’39. In quell’anno, con la sorella, frequentò un corso per diventare infer-miera, e interruppe il suo fidanzamento con un compagno del conservatorio poi-ché il previsto matrimonio fu respinto dai familiari. In seguito all’invasione nazista nel ’40, con la famiglia, tranne il fratello Hidayat, lasciò la Francia per l’Inghil-terra. Di convinzioni pacifiste, ereditate dal padre, decise tuttavia, assieme al fra-tello Vilayat (arruolatosi nella marina), di partecipare alla lotta contro il nazi-smo. Il 19 novembre del ’40 entrò nella Women’s auxiliary air force assumendo il nome di Nora Baker (divenne operatrice di collegamento radiofonico con gli aerei militari) e nel ’43 nello Special operations executive. Nonostante i suoi superiori non la ritenessero perfettamente idonea a un’attività in territorio nemico, per via della conoscenza del francese e della peri-zia nella radiofonia nella notte tra il 16 e il 17 giugno ’43 fu, prima donna, paraca-dutata nella Francia occupata, col nome in codice di Madeleine e con la falsa iden-tità di Jeanne-Marie Regnier, per svolge-re il compito di operatrice di radio clan-destina nella rete d’informazione parti-giana con sede nella zona di Parigi. Una settimana dopo gli agenti di questa rete cominciarono a essere tutti arrestati. La principessa Noor pur rischiando decise di non far ritorno in Inghilterra e di rimane-re a sostenere da sola le operazioni radio-foniche. Il 13 ottobre a causa di uno

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spregevole tradimento venne catturata: davanti all’appartamento parigino in cui alloggiava aveva notato un paio di uomi-ni, essendo andati via dopo che si era messa al riparo entrò in casa dove però l’attendevano altri per arrestarla (le tro-varono le trascrizioni annotate dei mes-saggi inviati e ricevuti, cosa fatta per un’istruzione mal interpretata: il che con-sentì ai Tedeschi di mantenere in modo fittizio l’attività al fine di prendere altri agenti inviati). Durante il periodo di car-cerazione a Parigi cercò di fuggire infrut-tuosamente due volte. La prima il giorno stesso dell’arresto: chiese di andare in ba-gno da dove senza manette fuggì sul tetto dell’edificio non trovando ulteriore via di fuga; la seconda a fine novembre in col-laborazione con altri due detenuti: evasi dalle celle furono catturati. Essendosi ri-fiutata di sottoscrivere un impegno d’onore a non tentare di scappare più, il 27 novembre fu trasferita in un carcere nei pressi di Karlsruhe, dove rimarrà in stato di isolamento, con mani e piedi le-gati fra di loro, fino al 12 settembre del ’44. Portata nel campo di concentramen-to di Dachau fu uccisa il 13, dopo essere stata violentemente picchiata, con un colpo d’arma da fuoco alla nuca da un ufficiale delle SS, Friedrich Wilhelm Ruppert, poi condannato all’impiccagio-ne dagli Alleati come criminale di guerra nel maggio del ’46. Un testimone del suo

omicidio riferì nel ’58 che ella non mostrò segni di paura sino alla fine, mantenendo un altissimo contegno, la sua ultima pa-rola fu: «Liberté!». Non diede mai infor-mazioni al nemico di nessun tipo. Fu uc-cisa assieme ad altre tre donne combat-tenti del SOE: Yolande Beekman, Eliana Plewman, Madeleine Damerment (quest’ultima era stata paracadutata co-me lei dopo il suo arresto). I cadaveri fu-rono inceneriti in un forno crematorio, vicino al quale oggi una lapide rievoca queste uccisioni. Le sono stati conferiti in Inghilterra la Croce di san Giorgio (la più alta onorificenza civile, concessa sola-mente ad altre tre donne; gazzetta uffi-ciale inglese del 5-4-1949, qualche giorno dopo morì la madre), la Menzione milita-re, e il cavalierato dell’Ordine dell’Impero britannico (marzo ’44); in Francia la Croce di guerra 1939-1945. Ogni 14 luglio, anni-versario della presa della Bastiglia, una banda musicale militare la ricorda suo-nando davanti alla casa in cui trascorse la giovinezza a Suresnes (dove è stata appo-sta una lapide in sua memoria). È ricor-data inoltre nel monumento inglese a Va-lençay intitolato The Spirit of Partnership nella lista di 104 agenti caduti, e da una lapide alla Scuola di agricoltura di Gri-gnon che recita: «À la mémoire de NOOR INAYAT KHAN dite MADELEINE, George Cross, Croix de guerre, Héroïne de la résistance, 1914-1944.».

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6.2. Il bufalo paziente (dall’opera letteraria della principessa Noor Inayat Khan) Un bufalo grande come un gigante con cor-na possenti si era addormentato sotto un albero. Due occhietti birichini sbirciarono attraverso i rami e una piccola scimmia disse: «Conosco un bufalo vecchio e buono, che sta dormendo sotto l’albero, ma non ho paura di lui né lui ha paura di me.». E così saltò dal ramo sul dorso del bufalo. Il bufalo aprì gli occhi e vedendo la scimmia che danzava sul suo fianco, li richiuse come se sulla sua schiena ci fosse soltanto una farfalla. La scimmia mascalzona tentò al-lora un altro stratagemma. Saltando sulla testa del bufalo tra le due grandi corna e af-ferrando le punte cominciò a dondolarsi, come se fosse su un albero. Ma il bufalo non sbatteva neppure le palpebre. «Che cosa posso escogitare per far arrabbiare il mio buon amico?», pensava. E mentre il bufalo stava mangiando nel campo, calpestava l’erba ovunque lui pascolava. E il bufalo, semplicemente andò via. Un altro giorno la scimmia birichina prese un bastone e con quello colpì le orecchie del bufalo poi, men-tre lui stava passeggiando, si sedette sul suo dorso come un eroe, tenendo il bastone nella

sua mano. Ma nonostante tutto il bufalo non emise nemmeno un mormorio, sebbene le sue corna fossero forti e possenti. Ma un giorno, mentre la scimmia era seduta sul suo dorso, apparve una fata. «Un grande essere sei tu, o bufalo», disse, «ma conosci poco la tua forza. Le tue corna possono but-tare giù gli alberi e le tue zampe potrebbero frantumare le rocce. Leoni e tigri hanno paura di avvicinarsi a te. La tua forza e la tua bellezza sono conosciute in tutto il mon-do, e tuttavia tu passeggi con una stupida scimmia sulla schiena. Un colpo delle tue corna la trapasserebbe e un colpo della tua zampa la schiaccerebbe. Perché non la butti a terra e la finisci con questo gioco?». «Que-sta scimmia è piccola», rispose il bufalo, «e la Natura non le ha dato molto cervello. Perché dovrei punirla? Inoltre, perché do-vrei farla soffrire soltanto perché io possa essere felice?». A questo punto la fata sorri-se e con la sua bacchetta magica scacciò la scimmia. E fece un incantesimo sul gran bufalo così che nessuno potesse più farlo soffrire, e da allora visse per sempre felice.

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7.1. A EVA PERÓN

Salve madonna dal biondo chignon, 1 benefattrice dei descamisados. 2 Parlavi dal balcone di Perón 3 alla gran folla di aficionados: 4 tutti rivolti in un coro amico. 5 Speranza di una popolazione, 6 dopo l’arcobaleno un nemico 7 oscuro ti strappò alla nazione. 8 Immenso della gente il dolore. 9 E il cielo divenne grigio, sordo: 10 pioggia, lacrime ormai era finita. 11 Nessuno allora più gridava Evita. 12 Però la fiamma del tuo ricordo 13 accesa rimarrà nel nostro cuore. 14

sonetto: rime ABAB ABAB ABC CBA metro: endecasillabo Ho composto questo sonetto nel 1998. Per un approfondimento storico sulla figura di Evita e dell’ideologia del giustizialismo peronista rinvio a questi miei studi (i primi tre pubblicati dalla testata editoriale romana InStoria: due sul mensile online e l’altro sulla rivista monografica a stampa; il quarto è un mio saggio): http://www.instoria.it/home/fondazione_eva_peron.htm http://www.instoria.it/home/giustizialismo_peronista.htm LA FONDAZIONE “EVA PERÓN” su InStoria (primavera 2012) - n. 17 InArgen-

tina (pagg. 13-17) LA MORTE DELLE IDEOLOGIE, Palermo dicembre 2011 (in questo merito: pagg.

21-30) Qui mi limiterò a integrare il testo delle sufficienti note esplicative.

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v. 1 – Evita (1919-1952) è entrata nella storia, non solo dell’Argentina, come una portabandiera degli umili (abanderada de los humildes). Caratteristica tra le sue pettinature quella con i capelli raccolti sulla nuca. v. 2 – Durante le prime due presidenze di Juan Domingo Perón (1946-55), la sua fondazione stette al centro di un’azione, in parte anche internazionale, di sostegno ai più bisognosi. vv. 3-5 – Il balcone della Casa Rosada (palazzo presidenziale a Buenos Aires) rappresentò un palcoscenico di suoi di-scorsi a cui interveniva una marea di gen-te acclamante. v. 7 – Il cosiddetto viaggio dell’arcobaleno, in Europa nel 1947, fu un giro ufficiale di Eva Perón che toccò anche l’Italia. vv. 7-8 – Hanno un particolare enjam-bement sintagmatico. Il «nemico oscu-ro»: il tumore all’utero che ne causò la morte. vv. 10-11 – Evita scomparve il 26 luglio, periodo invernale nell’emisfero australe. v. 12 – Questo verso si ricollega all’agget-tivo «sordo» del v. 10: non si udivano più le gioiose acclamazioni.

vv. 13-14 – Con sentimento di affettuoso rispetto gli Argentini sinceri e tutti quan-ti hanno ammirato e condividono il suo ideale di giustizia sociale ricordano oggi Evita. Nel sistema delle rime la quartina d’aper-tura ha l’iniziale (chignon-Perón) che mo-stra la coppia presidenziale di fronte ai descamisados-aficionados: altro accosta-mento che si fonde in maniera integrale per divenire folla relazionato al preceden-te. Il passaggio dal 4° verso, ultimo di questa quartina, al 5°, primo della suc-cessiva, tramite i due punti d’interpun-zione, dilata e rende l’ampiezza di questa coralità di gente festosa. La seconda quar-tina ha coppie di rime differenti: una an-titetica (amico-nemico), l’altra analogica (popolazione-nazione). La rima baciata dei vv. 11-12 è il perno concettuale delle due terzine, in cui le altre (sordo-ricordo, dolo-re-cuore) compaiono a guisa di onde che si irradiano in uno stagno, gettato un sasso, allargandosi circolarmente e alla fine ac-quetandosi.

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7.2. A Eva Perón (versione in spagnolo a cura di Danilo Caruso)

Ave madonna del rubio moño,

bienhechora de los descamisados.

Hablabas desde el balcón de Perón

a la gran muchedumbre de aficionados:

todos dirigidos en un coro amisto.

Esperanza de una población,

después del arcoiris un enemigo

oscuro te arrancó de la nación.

Inmenso de la gente el dolor.

Y el cielo se volvió gris, sordo:

lluvia, lágrimas ya era acabada.

Nadie entonces ya gritaba Evita.

Pero la llama de tu recuerdo

encendida quedará en nuestro corazón.

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Indice

Introduzione pag. 1

1. Breve antropologia del “diverso” nell’antica Grecia pag. 2

2.1. La ballata di Mulan pag. 3

2.2. La ballata di Mulan (versione in italiano a cura di Danilo Caruso) pag. 7

3. Ipazia, una donna moderna pag. 9

4. Eleonora de Fonseca Pimentel pag. 11

5. Simone Weil pag. 16

6.1. Noor Inayat Khan pag. 19

6.2. Il bufalo paziente pag. 21

7.1. A Eva Peron pag. 22

7.2. A Eva Peron (versione in spagnolo) pag. 24

Bibliografia dei brani tradotti contenuti nel saggio volti da autore diverso

Scritti di filosofia politica, La Nuova Italia, 1967

Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, a cura di

Giancarlo Gaeta, Adelphi 1983

Simone Weil, L'amore di Dio, traduzione di G. Bissaca e A. Cattabiani, Borla, Torino

1968

Simone Weil, L'ombra e la grazia, traduzione di F. Fortini, Bompiani, Milano 2002

http://www.movimentosufi.com/storie%20di%20NoorIlBufaloPazG64.htm

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Palermo

settembre 2012