DOMENICA LUGLIO MONICA ALI La maledizione di...

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cultura La geografia segreta degli scrittori GALATERIA, MARAINI, DE LUCA, MAZZUCCO, NIFFOI, ARPAIA, VINCI, EVANGELISTI, NOVE la lettura Condottiero dalla Prussia all’Africa STEFANO MALATESTA spettacoli Secondo Casadei, rivoluzionario da ballo MICHELE SERRA e MICHELE SMARGIASSI GERUSALEMME I l bagliore degli incendi nel buio della notte, le fiammate delle esplosioni, le colonne di fumo. Le scene dei bombardamenti su Beirut che vedo adesso, trasmesse dalla Cnn, sul televisore d’una camera d’albergo in Israele, sembrano le stesse di ven- tiquattr’anni fa. Allora ero a Beirut. Ariel Sharon, risali- to dal sud con le sue colonne corazzate, aveva posto l’assedio alla capitale libanese. Martellato da terra e dall’aria senza interruzioni, il settore ovest della città, lì dove s’erano asserragliate le milizie palestinesi di Ara- fat, era ormai un ammasso di macerie. I morti, che già si contavano a centinaia, sarebbero presto diventati mi- gliaia. E infatti, vista dalla terrazza dell’hotel Alexandre dove sul far della notte andavamo con Bernardo Valli a guardare il fuoco dell’artiglieria israeliana, Beirut rie- vocava il celebre titolo di Georges Bernanos: era ap- punto un “grand cimetière sous la lune”. Quando seguo alla televisione i bombardamenti di questi giorni, penso che a Beirut stia accadendo qual- cosa d’assai simile a quel che accade in certi giochi dei bambini: i castelli di sabbia in riva al mare, per esempio, o quel gioco detto delle “costruzioni”. i luoghi Nella Londra di Virginia Woolf MONICA ALI il racconto SANDRO VIOLA I bambini costruiscono un castello di sabbia, o com- pongono con i pezzi delle “costruzioni” una casa, un ponte, una stazione. Ma dopo un po’, senza alcun preavviso, il bambino più nervoso o prepotente di- strugge a calci il castello, butta giù con una manata le “costruzioni” appena finite. E proprio questo è stato il destino di Beirut nell’ultimo trentennio: alcuni costrui- scono — faticosamente, lentamente — e altri d’im- provviso distruggono. Ricordo bene la Beirut uscita nel 1990 da quindici an- ni di guerra civile, sui quali s’erano accavallati tra 1982 e ‘83 i due anni terribili dell’invasione israeliana. I vec- chi lineamenti della città non esistevano più. Dalla Place des Martyres al Grand Sérail, il cuore del- la Beirut cresciuta tra Otto e Novecento, tra il declino ottomano e il Mandato francese, era una tabula rasa. La guerra civile, le artiglierie di sei o sette milizie confes- sionali, più le artiglierie siriane e quelle palestinesi, più i bombardamenti israeliani da terra, dal mare e dal cie- lo, avevano ridotto il vecchio centro ad un’immensa spianata di detriti e polvere. Sparita la bella costruzione turca della Préfecture de poli- ce, scomparse le case ad arcate con gli intonaci ocra o rosa costruite dai capomastri italiani agli inizi del Novecento. (segue nelle pagine successive) con una testimonianza di ELIAS KHURI l’incontro Le metamorfosi di Vinicio Capossela DARIO CRESTO-DINA FOTO AP di Beirut La maledizione I bastoni, ovvero la vanità al potere NATALIA ASPESI La capitale del Libano, appena ricostruita, è di nuovo sotto le bombe. Due voci ne raccontano la tragedia DOMENICA 23 LUGLIO 2006 D omenica La di Repubblica Repubblica Nazionale 25 23/07/2006

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cultura

La geografia segreta degli scrittoriGALATERIA, MARAINI, DE LUCA, MAZZUCCO, NIFFOI, ARPAIA,VINCI, EVANGELISTI, NOVE

la lettura

Condottiero dalla Prussia all’AfricaSTEFANO MALATESTA

spettacoli

Secondo Casadei, rivoluzionario da balloMICHELE SERRA e MICHELE SMARGIASSI

GERUSALEMME

Il bagliore degli incendi nel buio della notte, lefiammate delle esplosioni, le colonne di fumo. Lescene dei bombardamenti su Beirut che vedoadesso, trasmesse dalla Cnn, sul televisore d’una

camera d’albergo in Israele, sembrano le stesse di ven-tiquattr’anni fa. Allora ero a Beirut. Ariel Sharon, risali-to dal sud con le sue colonne corazzate, aveva postol’assedio alla capitale libanese. Martellato da terra edall’aria senza interruzioni, il settore ovest della città, lìdove s’erano asserragliate le milizie palestinesi di Ara-fat, era ormai un ammasso di macerie. I morti, che già sicontavano a centinaia, sarebbero presto diventati mi-gliaia. E infatti, vista dalla terrazza dell’hotel Alexandredove sul far della notte andavamo con Bernardo Valli aguardare il fuoco dell’artiglieria israeliana, Beirut rie-vocava il celebre titolo di Georges Bernanos: era ap-punto un “grand cimetière sous la lune”.

Quando seguo alla televisione i bombardamenti diquesti giorni, penso che a Beirut stia accadendo qual-cosa d’assai simile a quel che accade in certi giochi deibambini: i castelli di sabbia in riva al mare, per esempio,o quel gioco detto delle “costruzioni”.

i luoghi

Nella Londra di Virginia WoolfMONICA ALI

il racconto

SANDRO VIOLAI bambini costruiscono un castello di sabbia, o com-

pongono con i pezzi delle “costruzioni” una casa, unponte, una stazione. Ma dopo un po’, senza alcunpreavviso, il bambino più nervoso o prepotente di-strugge a calci il castello, butta giù con una manata le“costruzioni” appena finite. E proprio questo è stato ildestino di Beirut nell’ultimo trentennio: alcuni costrui-scono — faticosamente, lentamente — e altri d’im-provviso distruggono.

Ricordo bene la Beirut uscita nel 1990 da quindici an-ni di guerra civile, sui quali s’erano accavallati tra 1982e ‘83 i due anni terribili dell’invasione israeliana. I vec-chi lineamenti della città non esistevano più.

Dalla Place des Martyres al Grand Sérail, il cuore del-la Beirut cresciuta tra Otto e Novecento, tra il declinoottomano e il Mandato francese, era una tabula rasa. Laguerra civile, le artiglierie di sei o sette milizie confes-sionali, più le artiglierie siriane e quelle palestinesi, piùi bombardamenti israeliani da terra, dal mare e dal cie-lo, avevano ridotto il vecchio centro ad un’immensaspianata di detriti e polvere.

Sparita la bella costruzione turca della Préfecture de poli-ce, scomparse le case ad arcate con gli intonaci ocra o rosacostruite dai capomastri italiani agli inizi del Novecento.

(segue nelle pagine successive)con una testimonianza di ELIAS KHURI

l’incontro

Le metamorfosi di Vinicio CaposselaDARIO CRESTO-DINA

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TO

AP

di BeirutLa maledizione

I bastoni, ovvero la vanità al potereNATALIA ASPESI

La capitale del Libano,appena ricostruita, è di nuovosotto le bombe. Due vocine raccontano la tragedia

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la copertina

BEIRUT

Sono appena tornato da una scuola trasformata inrifugio per sfollati, l’atmosfera è asfissiante, il cielo cadesulle nostre teste. Il cielo di Beirut non è stato mai cosìgrigio, come se picchiasse sulle teste. Sì… Fu così diecianni fa quando l’aviazione israeliana bombardò il Liba-no, fu così tredici anni fa quando Israele lanciò l’opera-zione chiamata “resa dei conti”. No: era il 1982 quandoIsraele invase il Libano e i suoi carri armati occuparonoBeirut in nome della “pace in Galilea”; mi pare fosse il1978 quando Israele occupò una striscia di territorio alconfine meridionale con l’“operazione Litani’’.

È la quinta invasione israeliana. Stessa scena, stessiodori, la sensazione che il cielo cada sulla terra è la me-desima, non so che legame ci sia tra memoria e pre-sente ma non sono più in grado di distinguere tra loro.Quel che vedo è reale o è solo la memoria che mi assil-la, mi assedia? Quando si perde la capacità di distin-guere tra la memoria e il presente vuol dire che la sto-

ria non ha insegnato niente. È la quinta invasioneisraeliana per conseguire lo stesso obiettivo: allonta-nare i missili dai confini settentrionali. Ma con il pas-sare del tempo la sicurezza è diventata più fragile, i mis-sili che erano di corta gittata e imprecisi nel 1982 arri-vano oggi a Haifa e forse domani a Tel Aviv. Gli israe-liani non si chiedono perché dopo ogni vittoria controi loro nemici, la loro sicurezza si deteriora di più? Nonsarà che la guerra non è la chiave e che la pace va cerca-ta con altri mezzi?

Questa sensazione di ripetitività suscita in me stu-pore, preoccupazione e paura. Il mondo vede quelloche sta accadendo ai palestinesi? Si risveglierà difronte alla trasformazione di un intero popolo in pro-fughi e mendicanti nella propria terra? Qualcuno ve-de come la città di Gaza venga irrigata con il sanguedei suoi figli? Non c’è una sola voce che gridi “basta”?

La mia domanda non è rivolta al mondo, ma almio Paese, che vive la sua tragedia per la quinta vol-ta in tre decenni, una patria piccola diventata il

campo di battaglia scelto dai regimi arabi dittato-riali per confrontarsi con Israele. La mia domandaè per Beirut, che ha aperto le sue braccia al mare daquando è esistita, che ha coltivato nelle sue scuolee università la rinascita culturale araba moderna.Per questa piccola città che la morte non ha fatto ta-cere e che oggi rischia nuovamente di morire.

La città non ha scelta. Non può che resistere conl’amore per la vita. Essa sa che il compito è pesan-te, ma cosa potrà mai fare di diverso, trovandosi al-l’incrocio di questa stupida “guerra di civiltà” di-chiarata da chi è convinto che con la cieca forza sipossano risolvere i problemi più complessi? I bom-bardieri ballano nei cieli delle città e dei villaggi li-banesi al ritmo del fuoco e della morte. Brandellidappertutto. I cadaveri dei bambini duri come il le-gno terrorizzano. Gli israeliani non sanno che lastrada della guerra non porta da nessuna parte, chequesto tipo di guerra non ha un vincitore, perchéessa può soltanto riprodursi e ripetersi?

Bombe su BeirutQuindici anni fa – al termine di quindici anni di guerra civile –il centro della capitale libanese era un’immensa spianata di detritie polvere. La distruzione era totale e sembrava impossibileche quelle strade e quelle piazze sarebbero potute tornare com’eranoprima. Eppure erano risorte. Adesso, ancora una volta, il miracolodella ricostruzione appare come un castello di sabbia...

Oggi come ieri un paesaggio di rovine

Lamentoper la mia città

che brucia

(segue dalla copertina)

Disintegrato il tratto di Bab-Idriss con i café-re-staurant d’imitazione francese (banquettes, ta-voli di marmo, camerieri in giacca nera e grem-biale bianco) che servivano da uffici ai cambiava-lute, ai mediatori, agli importatori-esportatorilevantini.

Raso al suolo il quartier réservé: quel reticolo di lupanari, alber-ghi a ore, piccoli caffè che restavano aperti tutta la notte, dove iletterati libanesi conducevano in visita, perché vi cogliessero ilcolore e gli odori dell’Oriente, i forestieri di passaggio.

La distruzione era tale, così totale, che ancora nel ‘95 non riu-scivo più ad orientarmi. Non c’era più alcun appiglio — quel talealbergo, quel minareto, quel campanile d’una chiesa cattolica ogreco-ortodossa — su cui la memoria potesse affidarsi per rinve-nire un percorso, una topografia. Beirut era ormai uno stermina-to terrain vague», e nei terrains vagues si perde l’orientamento.

Certo, in quella metà dei Novanta si stava già cominciando a ri-costruire. Un po’ al centro e soprattutto sulla corniche, il lungo-

mare dei famosi alberghi beiruttini (il Phoenicia, il Saint Georges)e degli appartamenti di lusso. Ma immaginare che Beirut sarebbetornata più o meno com’era prima della catastrofe, questo sem-brava impossibile.

In quel paesaggio di rovine s’era portati a ricordare, rivivere, ifasti della felix Berytus. I due diversi filoni della leggenda di Bei-rut. Da un lato la città pulsante di traffici, il porto dove attracca-vano i mercantili di mezzo mondo, quel sistema bancario agile,esperto e soprattutto affidabile, che aveva visto passare nei suoiforzieri, tra il ‘65 e il ‘75, mille miliardi di dollari d’allora. E dall’al-tro lato il mito di Beirut detta “la douce”, o anche “la légère”. L’ho-tellerie sfarzosa, la vita notturna, il gioco, i restaurants dove lagrande cucina che gli ottomani avevano portato da Aleppo s’eraancor più raffinata (da El Ajami, per esempio) grazie all’apportofrancese negli anni Venti e Trenta.

In verità, questa seconda faccia della leggenda beiruttina nonm’aveva mai convinto. Che Beirut fosse per i suoi lussi e piaceriuna specie di Montecarlo, e per altri aspetti — la città levantina,cosmopolita, multiconfessionale — un’Alessandria d’Egitto deitempi di E. M. Forster e Lawrence Durrel, pronta a proporsi comecornice sofisticata e debitamente morbosa d’un “Quartetto bei-ruttino”, questa era in gran parte una fandonia. Un mito abbor-

racciato dai più provinciali tra gli europei che vi si trovavano apassare, e soprattutto dalla borghesia cristiano-maronita, la clas-se dominante nel Libano degli anni tra il Mandato francese e laguerra civile del ‘75.

La verità era diversa. I luoghi più celebrati di “Beyrouth la dou-ce”, l’hotel Saint Georges, il Casino du Liban, il night-club La grot-te des pigeons, il roof dell’hotel Phoenicia, le boutique dell’Ham-ra, erano luoghi d’una lampante, patetica cafonaggine. Una vo-liera di pappagalli, dove uomini e donne delle classi più abbienti— e dunque soprattutto maroniti — si sforzavano d’imitare i mo-di di vita europei così come li avevano conosciuti in qualche viag-gio a Parigi o a Ginevra, e dall’assidua lettura di Paris-Match, Ellee Marie Claire. Fatti i conti, per quella borghesia l’Europa consi-steva delle banche ginevrine in cui teneva i propri patrimoni, e diquattro o cinque totem i cui nomi venivano pronunciati col fer-vore dei veri credenti: Dior, Saint Laurent, Hermès, Cartier.

No, il fascino di Beirut non stava in quella “vie parisienne” po-sticcia e petulante. Lo si coglieva seduti ad un caffè all’aperto delvecchio centro o dell’Hamra, osservando negli abiti dei passanti,nei portamenti, nei mestieri, la complessità del mosaico libane-se. Maroniti, greco-cattolici, greco-ortodossi, sunniti, sciiti, dru-si, siriani, armeni, ciprioti. E affascinante era anche l’intreccio

SANDRO VIOLA

ELIAS KHURI

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 LUGLIO 2006

PACE E GUERRANella foto grande: 16 luglio, Nasrallah parla alla tvmentre la periferia sud di Beirut è sotto le bombe

Qui sopra e sotto, vita quotidiana sulla corniche, l’anno scorso

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Così è la violenza che avanza nel Libano oggi.Israele ha rifiutato la logica dello scambio dei pri-gionieri a Gaza, quando i palestinesi hanno cattu-rato un soldato israeliano sul campo di battaglia,in risposta al massacro compiuto dall’esercitoisraeliano sulla spiaggia della città. Allo stesso mo-do rifiuta di scambiare i suoi due prigionieri (cat-turati da Hezbollah, ndr) con quelli libanesi, per-ché segue la stessa logica unilaterale, secondo laquale Hezbollah e Hamas sono terroristi.

A Gaza e in Cisgiordania, Israele non permet-terà ai palestinesi di costruire uno Stato indipen-dente. Offre loro soltanto gabbie e ghetti. In Liba-no la questione assume dimensioni più comples-se: forse l’obiettivo è colpire Hezbollah, il più for-te alleato dell’Iran nell’area mediorientale, perpreparare il terreno al confronto tra Washington eTeheran sul dossier nucleare iraniano?

Cammino per le strade vuote della città, percorroposti che erano fino a ieri pieni di vita e di libertà, non

aspiro se non l’odore dei proiettili. Il mare blu si colo-ra di grigio, la vita si spegne negli occhi.

Il 12 luglio scorso, il giorno dell’inizio della guer-ra, alle rovine romane di Baalbek era in program-ma un appuntamento con Feiruz, la cantante lacui voce ha raccolto le sofferenze dei libanesi e lestorie del loro amore. Tutti gli amici si preparava-no ad andare lì, nella valle della Bekaa, per goderedella voce di Feiruz, diventata parte della loro me-moria e del loro immaginario. Ma il sibilo deiproiettili ha oscurato la voce di Feiruz. La guerra èscoppiata come se avesse anch’essa un appunta-mento, come fosse una vendetta contro quella vo-ce che ha cantato il Libano e la Palestina.

Non dico ad Israele che i bombardieri non potran-no vincere la poesia e la musica. Ma dico che tutte levittorie ottenute dalla sua macchina da guerra sonosoltanto un’illusione costruita dai generali nella lorodisperata battaglia contro la vita, la musica e la lette-ratura. Loro lo sanno, ma continuano a comprarsi

quell’illusione con il sangue delle loro vittime. Feiruzcanterà domani o dopodomani mentre il rombo de-gli aerei cadrà nel dimenticatoio.

Beirut è di nuovo sotto il fuoco. Il sogno dell’in-dipendenza, creato dalle centinaia di migliaia di li-banesi scesi nelle strade della città nel marzo 2005per chiedere la partenza dell’esercito siriano, staper svanire. I libanesi non si sono resi protagonistidi quella rivolta per spianare la strada ai carri ar-mati israeliani affinché distruggano il loro Paese!La loro rivolta chiedeva giustizia e libertà in patria.Essi sanno anche che questa giustizia rimarrà in-completa se non comincia dalla Palestina.

Beirut è in fiamme. Il Libano sa che una nuova di-struzione lo attende nell’era degli sciocchi che rifiu-tano di imparare le lezioni della storia. Noi bruciamonella nostra città e con la nostra città, per dire agli in-vasori che respingiamo la morte e che sapremo rico-struire con le nostre mani.

(traduzione dall’arabo di Samir Al Qaryouti)

delle lingue parlate, l’arabo, il francese, l’inglese e il greco, chetante volte si mischiavano in una stessa frase. Questa era insom-ma Beirut tra gli anni Cinquanta e Settanta, dopo che Alessandriae il Cairo avevano perso col nasserismo la loro fisionomia cosmo-polita: l’ultima, vera città levantina.

Essere levantini, scriveva alla fine dei Quaranta un intellettua-le libanese, Albert Hurani, «significa vivere in due o tre mondi al-lo stesso tempo, senza appartenere veramente ad alcuno di essi.Essere capaci d’adoperare i modi e le forme esteriori che indica-no il possesso d’una certa nazionalità, cultura, religione, ma sen-za veramente possederle». Ma se questi erano i limiti, le ambiguitàdel carattere levantino, uno dei suoi pregi (sinché la guerra civilenon l’azzerò) era la flessibilità del pensiero, un fastidio profondonei confronti delle rigidità ideologiche. Non a caso in certi caffè diBeirut s’incontravano tra loro o con i giornalisti stranieri gli esulipolitici di tutto il mondo arabo. Siriani, egiziani ,marocchini, ira-cheni, libici e yemeniti, ciascuno al proprio tavolo abituale, men-tre ad un tavolo più discosto sedevano, tendendo l’orecchio, gliinformatori del Deuxième bureau libanese.

Perché è vero, Beirut era tollerante. Corrotta (tutto era in ven-dita: dai favori del presidente della Repubblica alle ballerine te-desche e scandinave del Casino du Liban), ma tollerante. Il solo

esempio di pluralismo tra Rabat e la Mecca. I suoi dieci o dodiciquotidiani, per esempio,erano tutto meno che indipendenti:questo finanziato da un politico ambizioso, quell’altro al soldodei servizi segreti d’un regime arabo, quell’altro ancora tenuto inpiedi dall’ambasciata francese. E tuttavia esprimevano tendenzediverse, ciò che faceva del Libano un unicum rispetto ai regimi delcosiddetto “socialismo arabo”.

Perché “socialismo arabo” significava soprattutto, al Cairo co-me a Bagdad, ad Algeri come a Damasco, potere militare, stampaimbavagliata, e per i giornalisti stranieri censura e restrizioni dimovimento.

Le energie sotterranee, la vitalità di quella Beirut erano stupe-facenti. Nel pieno dell’assedio posto da Sharon, tra la fine giu-gno e il settembre ‘82, col cannone che tuonava non lontano, nelgiardino del Grenier si cenava ancora al lume di candela. Cibisquisiti, servizio perfetto. E nonostante che il Casino du Libanfosse ormai in macerie, ancora si giocava. Con Bernardo Vallis’andava spesso nelle case da gioco allestite in tutta fretta du-rante l’assedio. Black Jack, trente et quarante, baccarat, roulet-te, il gioco andava avanti come se le artiglierie israeliane e le mi-tragliatrici palestinesi stessero sparando, invece che attorno aBeirut, sui gebel di Amman.

Di tanto in tanto andava via la luce, ma nessuno si scompone-va: subito le statuarie croupières americane, profughe dal Casinodu Liban, accendevano sul tavolo da gioco enormi torce a pila. Eil Black Jack continuava.

Solo un’impresa miracolosa avrebbe potuto risollevare Beirutdal precipizio in cui l’avevano gettata la guerra civile e l’invasio-ne israeliana. Ho detto che cosa fosse la città ancora nel ‘95. Alcentro, uno sterminato terrain vague da cui s’alzavano, quandodalla baia veniva un po’ di vento, fitte nubi di polvere. Mentre l’a-spetto dei quartieri meno colpiti (Ashrafieh, per esempio, doveabitavano i cristiani) ricordava per i tanti edifici diroccati, per levoragini da cui spuntavano mozziconi di muri anneriti, un’enor-me fetta di groviera.

Eppure, nel decennio successivo il miracolo s’era avverato.Beirut era stata ricostruita. L’indomabile fiducia dei libanesi

aveva riportato tra le rovine nuove energie, capitali, progetti, at-tese di buoni affari. E man mano, anno dopo anno, la città era ri-sorta. Perciò sgomenta vedere sugli schermi televisivi i bombar-damenti di questi giorni, le ennesime ferite e distruzioni di Beirut.Vedere cioè che ancora una volta il bel castello di sabbia costrui-to con arte e pazienza in riva al mare, è stato d’un tratto preso acalci da un bambino nervoso e prepotente.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 23 LUGLIO 2006

LE DATE

1975

Guerra civileNel ’76 le truppe sirianepartecipanoall’assediodel campo profughipalestinesedi Tal al-Zaatar,che finiscein un massacro

1982

Israele invadedi nuovo il Libano dopouna prima incursionedel suo esercitonel ’78 contro le forzedell’Olp. Le truppedi Sharon, all’epocaministro della Difesa,entrano a Beirut

1989

A Taef, in ArabiaSaudita, un accordochiude la guerracivile. Le truppesiriane si dispieganonella valledella Bekaa. Nel 2000Israele si ritiradal sud del Libano

2005

L’ex premier Haririviene assassinatocon un’autobombaPiazza dei Martiria Beirut è il cuoredi manifestazionicontro la presenzadelle truppe sirianenel Paese, che si ritirano

12 LUGLIO 2006

Hezbollah colpiscea sorpresa lungola “linea blu” tra Libanoe Israele, catturandodue soldati israelianiIsraele rispondebombardandoil Paese e penetrandonel suo territorio

MORTE E LACRIMEDall’alto: 14 luglio, il bombardamento della zona

della chiesa di San Michele; 19 luglio: una donna piangele vittime del bombardamento aereo

L’AUTORE

Elias Khuri,

nato nel 1948,

è uno scrittore libanese

di cui sono state

tradotte in italiano

diverse opere

La pubblicazione

più recente è il romanzo

La porta del sole

(Einaudi 2004)

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l’inchiestaIntrighi finanziari

Da Marcos a Saddam, da Pinochetai dittatori africani, tutti hannocercato di comprarsi il futurocon depositi all’estero. Ma orache la Svizzera ha deciso di farepulizia, nei suoi caveau arrivanoispettori in cerca di conti segreti

BERNA

«L’idea di partenza è questa: laSvizzera non è interessata adavere nelle sue banche capi-tali sporchi», dice Folco Galli

nella sua stanza al dipartimento federale di Giu-stizia. La stanza è ordinatissima, luminosa, puli-ta. Galli sorride e parla a voce bassa. Si potrebbecorreggere: la Svizzera non è più interessata. Falo stesso. Anzi, il senso eccezionale della svoltasta proprio nella differenza. Fra un passato — or-dinato, ma poco pulito e molto ipocrita — e que-

sto presente. La Svizzera hadeciso di spazzare via la pol-vere da sotto i tappeti, diaprire i forzieri che custodi-vano (e custodiscono) le for-tune di dittatori, generalisanguinari e corrotti, presi-denti col vizio della mazzet-ta. E, qui sta l’impresa, di re-stituire questi capitali.

Capirete che non è unoscherzo. È una rivoluzione.Una scelta storica, e anche unlavoro complicato. Prima ditutto, il messaggio lanciato daquesta operazione, che rom-pe con una tradizione secola-re e remunerativa. Le banchesvizzere da sempre hanno ac-colto nei loro caveau capitalidi ogni provenienza, anche lapeggiore, senza fare alcunadistinzione.

Si trattasse degli enormi profitti di Cosa Nostrae delle altre organizzazioni criminali, così comedei tesori nazisti, o dei depositi di vittime dellaShoah, il solo principio da rispettare era quello delsegreto bancario, onorato come fondamentalegaranzia del sistema svizzero. Folco Galli sorridedi nuovo: «Sì, è ancora in circolazione il mito delsegreto bancario. Ma è un mito che, per moltiaspetti, non esiste più». Una favola svanita alme-no dal 1998, quando venne approvata la legge sulriciclaggio di denaro. Il messaggio indirizzato aifilibustieri di tutto il mondo è, appunto, che i lo-ro capitali sporchi non sono più al sicuro. Ognidittatore, presidente, capo di Stato, deve sapereche — un minuto dopo la sua fine politica — an-che il malloppo smette di essere intoccabile, vie-ne sequestrato, e si lavora per restituirlo ai legitti-mi proprietari.

Identificare quali siano, non è faccenda sem-

plice, come vedremo. E anche trovare i modi diuna restituzione sicura. Ma l’operazione pulizia èavviata, è in marcia. Solo l’anno passato, più di500 milioni di dollari frutto della corruzione e del-le ruberie sono stati restituiti. Di questi, la fetta piùgrossa è costituita dai 458 milioni di dollari che fa-cevano parte del tesoro accumulato dal generaleSani Abacha, l’ex dittatore della Nigeria, e che so-no stati restituiti al legittimo governo nigeriano.Serviranno a finanziare progetti di sviluppo, sot-to la supervisione della Banca Mondiale.

L’elenco di personaggi (vivi e morti) le cui for-tune sono sotto sequestro o già restituite è piutto-sto lungo. Oltre al generale Abacha, troviamo il fi-lippino Ferdinand Marcos (il suo è stato il casoapripista, risolto nel ‘98 dopo vent’anni di lavoro),i messicani Carlos e Raul Salinas, l’haitiano Jean-Claude Duvalier, l’attuale presidente angolanoJosé Eduardo dos Santos, l’attuale presidente ka-zako Nursultan Nazarbaev, la pakistana BenazirBhutto, il congolese Mobutu Sese Seko, l’ex-pri-mo ministro ucraino Pavlo Lazarenko, l’ex capodei servizi segreti peruviani Vladimiro Montesi-nos Torres, l’ex presidente del Mali MoussaTraoré. A questi si può aggiungere Andrew Wang,mediatore nell’“affare delle fregate”, le sei navi daguerra vendute dalla francese Thomson al gover-no di Taiwan: 549 milioni di dollari di Wang sonobloccati in Svizzera dal 2001.

La legge anti-riciclaggio del ‘98 permette pro-cedure di sequestro molto rapide ed efficaci. «Haun meccanismo piuttosto sofisticato», spiegaRoberto Balzaretti, attuale capo di gabinetto delministro degli Esteri, e da anni impegnato nelleoperazioni. «La banca deve, in ogni caso, identifi-care il beneficiario dei fondi. Deve essere in gradodi vedere dietro gli schermi». Affidare i depositi aun mediatore finanziario, a un prestanome, a unavvocato o a una società, non garantisce più l’a-nonimato. «La banca, inoltre, deve verificare chele transazioni su un conto rispettino il normaleprofilo. Se io verso abitualmente il mio stipendio,ma all’improvviso deposito somme ingenti senzaapparente giustificazione, la banca ha l’obbligodi avvertire la polizia federale, che ha cinque gior-ni di tempo per decidere se bloccare. Se la transa-zione è particolarmente sospetta, la banca bloccasenza nemmeno avvertire il cliente. Se quellochiama, gli diranno: “Stiamo controllando”».

Dunque, le banche sono obbligate a conoscerechi sta dietro ai conti, e a segnalare sospetti (lesanzioni sono stratosferiche). I sequestri provvi-sori si fanno con una semplice telefonata. Poi co-mincia la trafila più laboriosa. «Si informa l’auto-rità dello Stato estero — dice Galli — e si invita ainoltrare una richiesta di assistenza giudiziaria.Oppure, in senso inverso, si parte da una rogato-

Caccia internazionaleai tesori dei tiranni

Quando il leaderfilippino fuggìad Honolulu,

partirono due aereiUno per la famigliae uno per la “roba”

Ma nella frettasi persero nei corridoidocumenti bancari...

FABRIZIO RAVELLI

L’ex presidente filippinoavrebbe sottrattodai 10 ai 15 miliardi di dollariNel 1998 la Svizzerane ha restituito i capitali:683 milioni di dollariIl 4 maggio 2006una corte d’appello federalenegli Usa ha assegnato35 milioni — depositatiin un conto newyorkese —alle vittime del regime

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 LUGLIO 2006

FERDINAND MARCOS

Sui conti dell’expresidente messicanoe del fratello Raúl sonostati trovati e sequestrati130 milioni di dollariprovenienti soprattuttodal traffico di droga,fiorito nel Paesenegli anni OttantaSono in corso negoziaticon il Messicoper la restituzione

CARLOS SALINAS

L’ex primo ministropachistano e suomarito sono accusatidi atti di corruzionecompiuti negli anniOttanta e NovantaBloccati quattro contisvizzeri su richiestadiretta del Pakistan,nei quali sarebbe nascostoun bottino di 50-80milioni di dollari

BENAZIR BHUTTO

L’ex presidente delloZaire versò su contiin Svizzera e in altri paradisifiscali denari prelevatidalle casse pubbliche:7,7 milioni di dollarifurono sequestratie sono in corso negoziatiper la restituzione al Paeseche nel frattempo è tornatoa chiamarsi Repubblicademocratica del Congo

MOBUTU SESE SEKO

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ria estera. Non devono fornire prove, ma descri-vere i fatti. Noi dobbiamo giudicare se il reato sa-rebbe punibile anche in Svizzera. Serve la doppiapunibilità, sennò niente assistenza. Poi il nostroscopo è fornire mezzi di prova alle autorità estere,che non possono acquisirli in Svizzera. Anche te-stimonianze e documentazione bancaria».

Per la restituzione, bisogna che lo Stato esterodecreti la confisca, e che questa passi in giudica-to. Può essere questione di anni, dipende dall’ef-ficienza del sistema giudiziario del Paese. Ma an-che in questo caso la Svizzera può accelerare: «Sel’origine dei fondi è manifestamente delittuosa,possiamo decidere prima della confisca. Nel ca-so Abacha, per il dipartimento di Giustizia eranotutti delittuosi. Il tribunale federale ha detto: so-lo 40 milioni di dollari. Però, valutando che si trat-tasse di un vero clan criminale, ha ribaltato l’o-nere della prova: è il clan che deve dimostrare l’o-rigine dei denari».

Non è sempre così facile: «Il nostro problema»,spiega Balzaretti, «è avere davanti una richiestalegittima ma non sufficientemente supportata.Quasi sempre, è il caso di Stati con strutture ine-sistenti o sistemi giudiziari inaffidabili. Vedi ilCongo, per esempio. Si finisce sempre per tratta-re con persone ancora meno affidabili degli incri-minati. E per noi non ha senso restituire soldi chenon si sa dove vadano a finire».

Siamo sempre molti passi avanti rispetto alleorigini, a quel caso Marcos che ha aperto la stra-da. L’avvocato ticinese Sergio Salvioni se n’è oc-cupato per vent’anni, in rappresentanza del go-verno filippino. «Il 26 febbraio ‘82 ci fu la cosid-detta rivoluzione di velluto contro Marcos. Il dit-tatore si imbarcò per Honolulu, in tutta fretta».Partirono due aerei, uno per la famiglia e uno perla “roba”: «Caricò gioielli, documenti bancari,pezzi esposti al museo, soldi appena stampatipresi alla zecca. Si trovarono scatole vuote di tut-te le più note gioiellerie del mondo. Scatole diprofumi, e una bottiglia piena da dieci litri. Lecentinaia di scarpe della moglie. Nella fuga, per-sero per i corridoi un po’ di documenti bancari».Corazón Aquino istituì una Commissione per ilBuon Governo, e diede ordine di dare la caccia aisoldi di Marcos.

Molti erano in Svizzera: «Il cervello dell’occul-tamento di fondi era al Credito svizzero di Zurigo.Due vicedirettori un paio di volte all’anno volava-no a Manila e spiegavano come trasferire i soldi inSvizzera. I quattrini, appena arrivati a Zurigo, ve-nivano subito smistati a Vaduz con note di credi-to, e mascherati dietro una serie di anstalten».Dalle Filippine, un procuratore che si chiamavaPedro Yap partì per incontrare l’avvocato Salvio-ni: «Un omino timido, con una piccola borsa pie-

na di documenti. Quelli che avevano trovato spar-si per i corridoi. Abbiamo ricostruito quello cheera possibile».

Ma i fondi non erano sotto sequestro, e Marcosspedì un suo uomo a cercare di prelevarli: «DalCredito svizzero chiamarono il Consiglio federa-le: c’è qui uno con la procura per ritirare i fondi,cosa facciamo? Il Consiglio, cioè il nostro gover-no, era tutto riunito a cena con il presidente dellaFinlandia. Chiesero scusa, si riunirono in un an-golo della sala da pranzo, e deliberarono di con-gelare i fondi». E ancora negli anni successivi, fal-lito quel primo tentativo, vari personaggi equivo-ci si presentarono per reclamare i quattrini, e Sal-vioni dovette fare i salti mortali perché non pren-dessero il volo. «Secondo lemie informazioni, Marcosnel corso della sua carrieraha sottratto dai 10 ai 15 mi-liardi di dollari. Prendeva dal5 al 20 per cento di tangentesu ogni transazione con l’e-stero, pubblica o privata chefosse, dai tax-free shops allapesca delle sardine. I fondiche vennero confiscati quiin Svizzera erano una infimaparte: 375 milioni di dollari».

Salvioni, in quegli anni,ebbe i suoi problemi: «Alloraero considerato una speciedi traditore della patria, per-ché attaccavo le banchesvizzere». E doveva inven-tarsi ogni mossa, perché leg-gi specifiche non ce n’erano:«Ricordo che un giudiceistruttore di Zurigo, la signora Weiss, saputo chenelle Filippine mangiavano i cani, disse: io colla-boro solo se il governo di Manila fa una legge perl’arresto di chi mangia i cani. E così si fece». Il ca-so Marcos si è chiuso nel ‘98, con la restituzionedei capitali, nel frattempo lievitati da 375 a 683 mi-lioni di dollari, grazie all’oculata gestione dellabanche svizzere.

Ora le cose, dopo che la legge è cambiata, mar-ciano un po’ più spedite. Dice Balzaretti: «Daqualche anno stiamo con occhi e orecchie spa-lancate. Magari siamo un po’ lenti, ma poi agia-mo». Nelle banche ci sono ancora, di sicuro, mi-liardi di dollari arraffati da dittatori e filibustierivari. Lentamente, un po’ per volta, gli svizzeriproveranno a restituirli. E poi, fossero solo quat-trini. Alla Georgia hanno reso un trittico del va-lore di circa 2 milioni di dollari. All’Egitto, oltre200 reperti archeologici: c’erano perfino duemummie.

Non si trattadi ritrovare soltantosoldi: alla Georgiaè stato resoun tritticoda due milionidi dollari, all’Egittoun intero museo,comprese perfinoun paio di mummie

IMPERATOREDa sinistra:Bokassaimperatore(Centrafrica,1977);Duvalier(Haiti);Benazir Bhuttoe suo padre(Pakistan);il tesorodei Marcos(Filippine)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 23 LUGLIO 2006

Conti dell’ex dittatorecileno spuntanoun po’ dappertutto:Argentina, Spagna,Isole Vergini britanniche,Gran Bretagna, BahamaseSvizzera, per una stimaapprossimativache supera i 50 milionidi dollari. Centoventicinquei conti correnti apertinelle banche americane

AUGUSTO PINOCHET

Per il dittatore irachenofonti statunitensi parlanodi una fortunache ammonterebbea 33 miliardi di dollari Finora ne sono statiindividuati poco piùdi 4 e mezzo, relativi a contibancari e proprietà in Siria,Libano, Giordaniae Svizzera. Solo 650 milionisono finora rientrati

SADDAM HUSSEIN

Il tesoro dell’ex presidenteindonesiano è stimatotra i 15 e i 35 milionidi dollari. Il processodel 2000 a Giakarta,dove era accusatodi aver sottratto570 milioni di dollaria fondazioni, ha vistoi giudici dichiararlo“non processabileperché malato”

SUHARTO

Condannato per trafficodi droga, l’ex dittatorepanamense è statoanche accusatodal governo di aver rubatodenaro dalle cassedello Stato per 50 milionidi dollari e di averlodepositato in conticorrenti in diversebanche sparseper il mondo

MANUEL NORIEGA

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il raccontoOggetti da museo

Simbolo di sacralità, saggezza, magia, ma anche di vecchiaiae infermità, l’accessorio che nei secoli ha accompagnatoil cammino dell’uomo fa adesso mostra delle sue infinitevarianti artistiche nelle sale di Santa Maria della Scala,a Siena. Una rassegna storica eccezionale che, insiemea un libro, svela misteri e curiosità dell’insegna del comando

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 LUGLIO 2006

NATALIA ASPESI

Piuttosto che andare in girocol soccorrevole bastone, cisono anziani del tipo giova-nile che preferiscono muo-versi a disagio, barcollare erischiare di ritrovarsi a terra

illividiti, come se l’utilissimo attrezzo,col suo aspetto vagamente arcigno,esponesse al pubblico ludibrio un ec-cesso di decrepitezza. Solo i più spirito-si se ne servono in modo civettuolo eimpertinente, attirando signorine il-languidite da tantasapiente disinvol-tura, oppure lousano per scaccia-re con imperiosofastidio chiunquegli si avvicini di nongradito, con gestidegni di monsieurHulot verso la suasignora. Non si co-nosce il percorsoche ha portato ilbastone a finire co-sì, temuto, rifiuta-to, esorcizzato daipiù, privato dellasua autorevolezzae grazia, frivolezza e forza, utilità, sacra-lità e magia: per diventare odioso sim-bolo di vecchiaia e infermità che ap-punto i vegliardi quasi sempre rifiuta-no, certi di tenere per sé il segreto dellaloro fragilità e paura.

È probabile che anche gli accaniti col-lezionisti di questo antico oggetto daimille usi, le mille simbologie e le millebellezze, che li conservano gelosamen-

te a decine in teche impenetrabili, esi-bendoli raramente a studiosi, o impre-standoli orgogliosamente a qualchemostra degna di loro (come questa mol-to ricca nel complesso museale di SantaMaria della Scala a Siena, sino al 26 ago-sto), mai ne userebbero uno per quelloche è stato ed è: una comoda estensionedel corpo umano, uno dei primi utensi-li forniti dalla natura, indispensabili apartire dagli ominidi, diventato via viaun segno di minaccia, difesa e coman-do, un emblema di sacralità o laicità, l’u-tile arma per liberare il cammino infe-

stato da rovi oescrementi e pertenere a distanzagli altri, l’attrezzoper radunare ilgregge, l’accesso-rio di massima ele-ganza e nobiltà, ilsimbolo fallico pereccellenza (nonper niente il peneviene chiamato an-che verga) ma an-che l’ironico ac-cenno a impalpa-bili erotismi comenei romanzi e di-pinti di Klossowski.

E chiamandosi bastone, il nodoso pez-zo di legno o la verga sottile, per basto-nare e sferzare, in passato,servi disubbidienti,popolino ribelle,(come Sant’Am-brogio coi pec-catori milane-si), scolari pi-gri (la bac-chetta peda-goga fa parted e l l ’ i c o n o -grafia di San Fi-lippo Neri), e na-turalmente moglifastidiose. Queste ulti-me talvolta ancora adessovengono bastonate pure nel femmini-lizzato Occidente (anche non pochi ma-riti però), mentre nelle scuole tedeschee inglesi lo Stockmeister e il Cane Masterhanno dovuto abbandonare per legge laloro specialità di punitori corporali deipiccini, i primi nel 1923 e i secondinel 1948. Invece Quirino Con-ti, quando lavora come sce-nografo e costumistad’opera, privilegia il ba-stone quale mirabileaccessorio di imperioe seduzione, che dàdisinvoltura anche alpiù impacciato deicantanti, e per sicurez-za li ha messi in mano aun Falstaff e a un signorFord verdiano in stile Ver-meer a Ginevra, ad uno Scarpia ancienregime della Tosca pucciniana a Pisa, eun paio d’anni fa all’opera di Roma algrasso Bartolo delle Nozze di Figaromo-zartiane, su ispirazione dei Codini ro-mani dopo la battaglia di Marengo(1800). Però ne constata il decesso. «Ilfunerale del bastone l’ha decretatoCharlot che deambula incerto in bom-betta e marsina, con quell’anacronisti-co bastoncino di bambù che suscita co-micità e malinconia. Ma la vera fine si èconclusa quando la tarda età ha comin-ciato a perdere autorevolezza, la vec-chiaia è diventata onta e vergogna, e igiovani hanno smesso di portare il ba-stone che non aveva più il potere di con-ferire anche a loro la dignità e l’autoritàdegli anziani, come invece usavano Go-gol o Stendhal prima della celebrità».

Nel mondo internazionale della mo-da si sa che la massima star è l’italianaAnna Piaggi, il solo giornalista cui il Vic-toria & Albert Museum di Londra abbiadedicato una mostra, oltre tutto di gran-de successo. Nessuno ricorda di averlamai vista senza un suo prezioso baston-cino, con testolina di cane dall’occhiopesto, con faccina di Becassine, storicabambola francese, laccato rosso o blu,per piccini Ottocento, da dressage, op-pure di nerbo di bue, di quelli usati perillividire i sederini di orfanelli o collegia-li. Ne ha non sa quanti, come non saquanti cappelli o abiti ha, raccolti in va-ri magazzini, ma è una collezionista par-ticolare: non le importa del loro valore odel loro curriculum, non li utilizza per laloro funzione di appoggio ma le servonoper creare ogni volta una sua storia. «So-no un’astrazione, come il ventaglio, o laborsa, completano in modo leggero unacomposizione, sono il pretesto perun’aneddotica, mi danno un senso di

rassicurazione ed equilibrio nell’atteg-giamento». Racconta come una volta, aParigi, correndo all’aeroporto diretta-mente dall’ultima sfilata senza avere iltempo di cambiarsi, mandò in tilt il me-tal detector che fece un tal frastuono dafar accorrere tutta la polizia del CharlesDe Gaulle: «Indossavo una gonna fattatutta di cerniere lampo, e le vollero apri-re ad una ad una, pensando che nascon-dessero chissà quale crimine. Comeaccessorio quella volta avevoscelto un Alpenstock, conl’anima d’acciaio allun-gabile. Sospettosissi-mi, me lo requisironoe all’arrivo a Milanotra i bagagli ne ricu-perai solo un pez-zo».

Bastoni, Mate-ria Arte Potere si

Ce ne sono di ligneietnici, massonicie marini, ma c’èanche la futile

giannetta tantocara ai dandy

del secolo scorso

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Bastoni, la vanità al potere

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Dischi colorati sovrappostidi bachelite su anima in metalloper il bastone a sinistra(Usa 1930); fusto in legnoricoperto di francobollie pomolo d’ottone per quelloa destra (Francia, fine 1800)

Impugnatura in argentoa forma di troncod’albero su cui poggiaun cervo morente,su fusto ebanizzatoSvezia, primi annidel Novecento

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Tre eleganti sostegni in corno e corda(quello al centro)che risalgonoalla fine dell’Ottocento

Incisioni di simboli sacriper i due bastoni in legno(in basso): a sinistra, il Cristocrocifisso e deposto(Italia, epoca imprecisata);a destra, simulacro del voltodi Gesù e del rosarioFrancia, fine 1800

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intitolano sia la Mostra di Siena che ilbel libro che l’accompagna, a cura di Al-do Gerardi, Renzo Traballesi, AlbertoZina. I 515 bastoni, uno più stupefacen-te dell’altro, arrivano da vari musei e dacollezioni private e data la diversità ericchezza delle loro funzioni, epoche,luoghi di provenienza, storie da raccon-tare, materiale, valore artistico, sonoqui didatticamente divisi con la sapien-za dei grandi studiosi e dei grandi ama-tori. Si imparano tante cose, da igno-ranti, per esempio che i bastoni sonouna cosa complicata, da sconvolgere icollezionisti insaziabili: infatti, parten-do dalla robusta e minacciosa Clava ca-ra ad Ercole sino alla sottile e futile gian-netta prediletta dagli elegantoni dellametà del XIX secolo, possono esseremono o plurifunzionali “con sistemaaccessoriato”. Nel primo caso: di co-mando, massonici, decorativi, erotici,etnici, popolari, marini, religiosi e stori-co-politici. Nel secondo caso: di difesa,professionali, di utilità. L’antiquariolondinese Michael German ricorda cheil suo primo cliente avido di bastoni funel 1973 un imprenditore italiano, pur-troppo deceduto a collezione appenainiziata: ma intanto l’inglese aveva ca-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 23 LUGLIO 2006

IN LIBRERIA

Bastoni. Materia, Arte, Potere è il titolo della mostra in corso a Siena fino al 26 agosto presso il complessodi Santa Maria della Scala (piazza Duomo) che espone516 pezzi storici provenienti da collezioni privatee musei. È già in libreria anche l’omonimo libro-catalogo (Priuli & Verlucca, 2006, 319 pagg., 45 euro),curato da Aldo Gerardi, Renzo Traballesi e AlbertoZina, tre studiosi e collezionisti che da circa vent’annisi occupano dei bastoni in Italia e all’estero.Nel volume, da cui sono tratte le immagini di questepagine, le introduzioni di Paolo Fabbri, semiologo,e Alessandro Falassi, antropologo

non solo perché sempre più preziosodi argenti, ori, avori, malacche, comeracconta nel suo saggio l’antropologoAlessandro Falassi: «Un bastone pote-va contenere bottiglia e bicchiere, salee pepe, forchetta e coltello, schiaccia-noci e cavatappi. Oppure accessori percaccia e pesca come canne, ami e fili,richiami per uccelli, retini da farfalle. Oanche luci e lumi, picconi e piccozze, eancora strumenti ottici, poi fotografi-ci, strumenti musicali e più tardi radio,accessori per scrivere e dipingere, gio-chi vari, dal backgammon ai dadi. Nei

bastoni da passeg-gio per le signore,spesso decorati dieleganti nastri diseta e minute pas-samanerie, pote-vano trovar postocosmetici e profu-mi, sali e medici-nali, ventagli e pa-rure da cucito…».

Secondo Quiri-no Conti, il basto-ne ha avuto perdecenni soprat-tutto un compito:quello di tenere lemani impegnate,

come il ventaglio, come i guanti, perconferire un atteggiamento disinvol-to: oggi, dice, lo ha sostituito il cellula-re, anche come simbolo penico, o di of-fesa e difesa. Basta guardare la pubbli-cità di un telefonino con il duo Dolce &Gabbana abbracciati, quest’ultimo colvolto languidamente ferito dalla nuo-va arma di massa, Appunto l’ennesimotipo di cellulare.

pito l’importanza del nuovo ramo dacommerciare, e iniziò quindi una cac-cia spietata ai bastoni più antichi acces-sibili al mercato privato, e cioè quelli diavorio e di piqué d’argento dalla metàdel XVII secolo, portati come statussymbol nobiliare e professionale (damedici, avvocati, ecc.).

Massima studiosa del bastone, vene-rata dagli specialisti del settore (non pa-re, ma sono una moltitudine), è la si-gnora Catherine Dike, di cui i neofiti, inseguito ad innamoramento per un ba-stone tedesco anni ‘20 che si trasformain carrello porta-spesa o per chi è dianimo violento,quello primo ‘900con pomolo adascia, devono asso-lutamente procu-rarsi almeno unodei suoi tanti pre-ziosi volumi, tipoCane Curiosa, fromGun to Gadget op-pure Les cannes àsystème, un mondefabuleux et mcon-nu. Per secoli, si ca-pisce dalla mostra,il bastone è stato unoggetto esclusivamente maschile, il ba-stone di comando, del capotribù, delfeldmaresciallo, del vescovo, del papa(il pastorale), che infiocchettandosi poidi gemme e ori diventa scettro regale,anche in mano a Napoleone imperato-re in ermellino e corona, ma pure inquelle di signore regali, tipo Elisabetta Ie persino II. Indietreggiando fino allamitologia la Sfinge ci fa una pessima fi-gura, proponendo ad Edipo di risolvereun quiz degno di Amadeus, cioè dei piùscemi, e se non ci riuscirà, ma nessunoè così tonto, dovrà morire. Dunque:«Quale è l’animale che al mattino muo-vesi con quattro zampe, al meriggio condue e al tramonto con tre?». Ovvia ri-sposta pronta, è l’uomo, la cui terzagamba, in vecchiaia, è naturalmente ilbastone. La figuraccia della Sfinge è ta-le che si uccide. Non così Amadeus, perfortuna. La maggior parte dei santi, cau-sa il gregge umano che gli formicola at-torno, sono spesso forniti di verga (sen-za sottintesi) per tenerli insieme qualipecore, il mago, la strega e il direttored’orchestra non mollano la bacchetta, ilgioco e lo sport amano la mazza (da golf,da polo, da cricket, da baseball, ancheda lippa), la stecca da biliardo, l’asta delsalto, il bastone Shaolin cinese, BruceLee e il suo amato bastone doppio concatene: e Fred Astaire in Cappello a ci-lindro (1935) che balla il tip tap col suobastoncino di cristallo attorniato da 24ballerini che lo imitano? Si ricorda connostalgia per i tempi ormai finiti dellagrande couture parigina come Chri-stian Dior, seduto sulla sua poltrona gri-gia e bianca Luigi XVI, circondato dauno staff di una ventina di assistentimuti e adoranti, indicasse a distanza,con un suo bastone, sul corpo-oggettodella sua modella, la pence, il volant, lapiega, la cucitura da correggere. Il ba-stone voluttuario, inutile, cioè privatodella sue vere ragioni, di sostenere e ba-stonare, furoreggiò dalla seconda metàdel Seicento sostituendo definitiva-mente verso la fine del Settecento laspada, proibita per legge.

Le prime dame che osarono munirsidi bastone, per pura necessità, furonole prostitute, che issate su scarpe atrampolo, non avrebbero potuto cam-minare senza un appoggio, o il basto-ne o per le più esibizioniste il Morettoin ghingheri. Ai tempi settecenteschidell’Arcadia, non mancarono sofisti-cate signore che nelle vesti di bucoli-che pastorelle del tipo dipinto da Wat-teau, osavano portare bastoncini in-fiocchettati per accarezzare pecorelleossigenate e con la permanente e tenerlontano spasimanti troppo campestri.Data la sua grazia sempre più futile, ilbastoncino dilagò per tutto l’Ottocen-to persino tra i bambini, e almeno neifilm in costume ottocentesco (anchenel Gattopardo) i gentiluomini in mar-sina entrando in case di stile pompierdepositavano nelle mani di un servito-re canuto e inchinato, cilindro, guantie bastone, come per arrendersi galan-temente alla padrona di casa. Mentre ivecchi film ispirati a Dickens mostranosempre una imperiosa anziana damadal cuore d’oro che incita il suo coc-chiere ad affrettarsi spronandolo sullaschiena con la punta, acuminata, delsuo bastoncino da passeggio. Fu unepoca in cui il bastone perse la testa e

Il “funerale”del nobile sostegno

fu decretatoda Charlot

che deambulavaincerto in bombetta

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Un bastone“animato”con impugnaturain argentoportasigarettecon due compartiUna volta chiusoil pomoloassomigliaa una mazza da golfEuropa, primidel Novecento

I PROTAGONISTIIn alto: Charlie Chaplin,Charlot, con bombetta,marsina e bastoneQui sopra, l’attriceClara Bowin una foto del 1920

Due bastoniche si tramutanoin armi affilate:il primocon impugnaturaa forma di testadi civetta è tedescodel 1880. Con pomoloin corno, invece, quelloa destra (Francia, 1700)

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Da sinistra:l’impugnaturain avoriodel bastoneda capo mastrocontieneun metrodi metalloe il filo a piomboFrancia, fine 1800Nel bastoneerotico(qui accanto)un satiro rapisce una fanciullaL’intarsio, su based’avorio, è statoeseguito a fine Ottocento

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LONDRA

Londra si espande, muta, de-lude; indossa un abito digiorno e un altro di notte;sorride quando splende il

sole e fa le smorfie quando piove. Il pesodella storia è un bagaglio ingombrante,ma in un istante viene messo via. Londraè come un amante in cui ciò che più amiè anche ciò che a volte odi. Dovunque tusia a Londra, pensi: «Ecco il posto, è cosìche è», ma subito provi il disagio di sa-pere che non sei affatto nel posto giusto.

È inutile cercare di cogliere la misuradi Londra. È meglio fare come VirginiaWoolf nei suoi saggi su Londra, scrittiper la rivista Good Housekeeping, e co-gliere i pensieri e i sentimenti, la perce-zione immediata delle cose, così da po-ter dire, come Lily Briscoe in Gita alfaro,sì, ho avuto anch’io la mia visione.

Bighellonando sulle orme di VirginiaWoolf, comincio dalle sponde del Tami-gi, in una giornata calda e senza una nu-vola. Mi siedo su una panchina e leggo:«Non appena ci avviciniamo a TowerBridge, l’autorità della City comincia aimporsi. Le costruzioni si infittiscono esi fanno più elevate. Il cielo sembra cari-co di nuvole più pesanti e purpuree. Lecupole si gonfiano: le guglie della chie-sa, imbiancate dai secoli, si confondonocon le affusolate ciminiere a forma di la-pis delle industrie. Si sente il frastuono ela risonanza di Londra».

Guardo la Londra che ho davanti enon vedo nessuna ciminiera industria-le. Le guglie e le cupole sono umiliatedalle torri di vetro, che splendono di unverde pallido e fumoso. Gli autobus ros-si sono schizzi di colore sul LondonBridge. Le gru, una bianca, una blu, fan-no le loro maestose virate in cantieri lon-tani. Solo il fiume si rifiuta di scintillaresotto il sole e rimane tenacemente, riso-

lutamente marrone.Il trambusto dei Docks descritto da

Virginia Woolf — le navi che giacciono«prigioniere» sotto i magazzini, gli«ignari e vigorosi movimenti degli uo-mini che sollevano e scaricano», i barili,i sacchi e le casse estratti dalla stiva, i car-ri che si urtano nei vicoli stretti per an-dare a scaricare la lana che «i cavalli datiro distribuiscono con grande fatica intutta l’Inghilterra» — è svanito.

Cammino verso Tower Bridge. È unamattina limpida e tranquilla. Da unaparte il fiume, i clipper sul Tamigi mezzipieni di pendolari in ritardo e di turistimattinieri; dall’altra il bagliore dei pa-lazzi adibiti ad uffici. Gli impianti di con-dizionamento ronzano monotoni maqui non c’è nessun «frastuono». Guar-dando le lisce fiancate a specchio delletorri commerciali, penso a questo nuo-vo commercio silenzioso, a come lavorinon visto, contenuto, avvolto da mantidi vetro, camuffato con fontane zampil-lanti e giganteschi arbusti in vaso.

Woolf vede capisquadra in manichedi camicia, marinai della marina mer-cantile, facchini, che lavorano di cor-sa. Oggi corrono solo quelli che fannojogging, stringendo i pugni e le ma-scelle, per conquistare il premio dellaproverbiale carota sempre appesa da-vanti a loro. Un corridore in biciclettacol respiro affannoso passa in un lam-po. Sparsi per l’ampio sentiero, uomi-ni in giacca e cravatta parlano al cellu-lare. Una mano in tasca, una mano al-la testa, sembrano deambulare, manon vanno da nessuna parte, lo sguar-do ciecamente rivolto alla sponda delfiume, disposti sulla tela della città co-me in un Magritte poco noto.

Gli immensi magazzini «totalmenteessenziali e privi di ogni abbellimento»nei cui meandri si addentra la Woolf, so-no colmi di «legname, ferro, cereali, vi-no, zucchero, carta, sego, frutta — di tut-to ciò che la nave ha portato dalle pianu-

i luoghiMetamorfosi urbane

Una giovane scrittrice, espressione della metropoli multietnicadel nuovo secolo, ripercorre le strade descritte negli anni Trentadall’autrice di “Gita al faro”. E trova molte cose cambiatee molte altre in comune tra la città mercantile e operaia dei Dockse quella dei nostri giorni, lustra, consumista, globalizzata

Non si vede nessunaciminiera industrialeLe guglie e le cupolesono umiliatedalle torri di vetro,che splendonodi un verdepallido e fumosoIl trambustodi navi e scaricatori,di sacchi e bariliè svanito

MONICA ALI

Pellegrinaggio nella Londrare, dalle foreste, dai pascoli del mondointero». Pile di avorio bianco e rossastrodi elefanti e mammut suscitano fanta-sticherie sull’ingenuità del commercioe dei manici di ombrello fatti con le zan-ne di una «bestia che vagava nelle fore-ste dell’Asia prima che l’Inghilterra di-ventasse un’isola». La Ivory House, co-struita nel 1854, fu anche usata — comeapprendo da un cartello nero e oro lun-go il sentiero — per immagazzinarviprofumi, anfore e altre merci preziose.«Ai nostri giorni», leggo, «questo edificiodi pregio perfettamente restauratoospita appartamenti di lusso, uffici, ri-storanti e negozi».

Nella vetrina di un’agenzia immobi-liare uno studio apartment, ovvero unmonolocale (si noti che “apartment” siaccompagna sicuramente all’aggettivo“lussuoso”, mentre “flat” va insieme a“popolare”) è messo in vendita a600.000 sterline (circa 875.000 euro,ndt). Non ha camere da letto, ma vantauna palestra per i residenti e servizi diormeggio. Faccio una deviazione versoSt. Katharine’s Dock per vedere se que-sti appartamenti siano fatti d’avorio.Qui tutto è lucido come pietre preziose:i lucenti yacht bianchi bordati di blu, ilfogliame scuro, persino il fiume stessosi trasforma per divenire nero e lucen-te. Attraversando i ponticelli di legnoche spuntano in mezzo, entro in questoporto, ascolto lo sciabordio dell’acquacontro le barche, il sibilo di una pompasu una prua scintillante. Qui si evocanoancora immagini di povertà e di ric-chezza. Perché Londra, in questo mo-do, cospira per farti sentire al tempostesso ricco e povero, il lindo ponticel-lo sollevabile come il lieve gonfiarsi del-l’acqua e il riflusso e il vuoto che neprendono il posto.

Per mille anni il Dock è stato uno sno-do del commercio mondiale e il mondoè ancora qui, in modi diversi. I cibi pro-vengono ancora dai pascoli del mondointero ma, come per miracolo, appaio-no serviti con biancheria di lusso e sor-risi deferenti. Adesso il carico ha presoforma umana, una forma raramente eti-chettata come «preziosa». Gli chef, du-

rante la pausa, si fumano una sigaretta eparlano la propria lingua, il polacco, ilrusso, il portoghese. Un’inserviente del-le pulizie con i guanti di gomma e ilgrembiule a fiori si riposa per un attimoal sole. Un’altra inserviente — anche leidi origine africana — trascina un aspira-polvere da un edificio all’altro. Quandomi fermo per prendere un caffellattefreddo vengo servita da un indiano e pa-go a una ragazza bielorussa.

Il caffè è enorme. Chi potrebbe berlotutto? Ma questa è una città assetata e af-famata, pronta a mangiare e a bere inqualsiasi momento. La Woolf passa daest a ovest senza nemmeno pensare aipasti ma oggi, ad ogni passo, veniamoesortati a sederci subito e mangiare. Va-go su e giù lungo Shad Thames, contan-do i caffè e i ristoranti, ne perdo il contoe ricomincio da capo. Chop House, Ben-gal Clipper, Zizzi, Cantina, Pont de laTour, Pizza Express, Starbucks, caffèsenza nome. In alto stanno le passerel-le di ferro sulle quali i facchini andava-no con i loro carichi dai magazzini delporto a quelli più interni. Adesso han-no mobili da esterno in tek e sono di-pinti in verde antico e grigio antico. Perquanto tutto sia bello e chic, c’è qual-cosa di deprimente in questa strada ri-fatta. La percorro nuovamente su e giùcercando di capire perché. Non riescoa vedere nulla con chiarezza, ho lamente offuscata, come se avesse le ca-taratte. Non mi piace questo mondodegli Starbucks, ma perché? Quale av-venturosa storia mi immagino nell’an-tico mondo operaio dove gli scaricato-ri del porto facevano la fila ai cancellinella speranza di essere assunti per unmezzo turno di duro lavoro? La Com-pagnia delle Indie non era forse piùgrande di Starbucks ai suoi tempi? [...]

La Woolf volge la sua attenzione allechiese e mi metto anch’io a cercare unsantuario. [...] Guardate le mie opere, opotenti, e piangete. Mi affretto lungoCheapside riflettendo sulla transito-rietà di ogni cosa ed entro nei giardini diSt. Paul’s. La cattedrale ormai non so-vrasta più Londra, come diceva il luogocomune ai tempi della Woolf. Qui, però,

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 LUGLIO 2006

PANORAMI Da sinistra, la zona dei Docks trasformata in quartiere per uffici; il ponte di Blackfriars; Tower Bridge, simbolo della capitale britannica

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Oxford Streetha perso un po’del suo spiritodisinvoltoma il suo cuoreè in sostanzaimmutato. Qui regnail commercio velocee dissoluto, l’odoredei fast foodè ovunque; qui a fareacquisti vengono tutti

scomparsa di Virginia Woolf

PADRE BENGALESE, MADRE INGLESE

Nata a Dacca, in Bangladesh, da padre bengalesee madre inglese, Monica Ali vive dal 1971 in GranBretagna. In Italia Marco Tropea ha pubblicato Sette

mari e tredici fiumi (2003), sua opera d’esordio oraanche nelle edizioni tascabili Net (2006), e Alentejo blue

(2006). Il suo primo romanzo, intitolato in linguaoriginale Brick Lane, le è valso la segnalazionedella rivista Granta tra i dieci migliori giovani scrittoribritannici e la selezione per il Booker Prize nel 2003

c’è ancora spazio per respirare. È unaspecie di tenda ad ossigeno. Qui io guar-do in alto e mi rendo conto quanto di ra-do si guardi in su quando si è circondatida edifici molto alti. Più alto è l’edificio,meno si è disposti a farlo, meno la vista ègratificante.

In questo quadro, St. Paul’s sfugge lacittà. I caseggiati di uffici marroni e grigisono tagliati via dall’immagine. La cu-pola bianca ha un perfetto bordo blu.Sulle aiuole tosate, tra gli ippocastani e itigli, i lavoratori si riuniscono per deipic-nic e si sfilano le calze.

L’edificio, ovviamente, conserva lo«splendore» di cui parla la Woolf e la sua«serenità incolore». Per lei, la cattedrale«rivela un carattere straordinariamentesacro, ma nient’affatto misterioso».Questo luogo dove riposano i grandi e ibuoni («Qui la virtù e la grandezza civicasono messe al sicuro») porta la Woolf apensare non a melodie di arpe e a cori ce-lestiali, ma «a solenni camere di consi-glio» e a «splendidi saloni».

Il mistero è tuttora scarso, ma per ra-gioni diverse, oggi. La Heritage Inc. haodorato quel po’ di mistero che era ri-masto. St. Paul’s ha un’identità azienda-le, un colore aziendale (il rosso) e tuttele abbondanti indicazioni sono in varielingue e ben concepite. Sembra, inol-tre, che abbia una voce aziendale cheparla in tono caldo e amichevole, conquel tipo di attenzione al cliente che or-mai ci aspettiamo. «Audioguida di St.Paul’s. Provami!». «Grazie per averci vi-sitato. Vi auguriamo di lasciare la catte-drale ispirati e rinnovati e che un gior-no vi facciate ritorno».

Aspetto dietro a un turista americanoper comprare il biglietto. «È qui che si èsposata Diana? Devo vedere dove si èsposata. Sono nella chiesa giusta?»

Nella navata, attraverso le bocche diaerazione nel pavimento, si sente l’alle-gro vociare di una scolaresca che si lan-cia nella cripta. Il «dignitoso riposo» diNelson e di Wellington e di tutte le altrepersonalità è assicurato, ma ora devonotrovare sistemazioni democratiche.Sotto alla cupola si sta svolgendo unafunzione e c’è un piccolo gruppo di fe-

deli guidato da una donna anziana con icapelli grigi. Mi siedo. Sta pregando perl’Iraq, per l’Iran e per la Terra Santa. Stapregando per la gente in Africa, che sof-fre per le malattie, la fame o la siccità.Spera che faremo un’offerta generosaper la gente del Sudan e ricorda anche gliabitanti della Valle del Reno che hannosofferto a causa delle inondazioni. Ab-biamo così poca acqua, riflette, e loro nehanno troppa. Preghiamo, dice, per idottori e per le infermiere, per gli inse-gnanti e la polizia e anche per i pompie-ri. La lista di persone per cui preghiamosi allarga e diventa intollerabilmentelunga, un compito impossibile. Pre-ghiamo per tutti coloro che lavoranonelle imprese di costruzione. Mi ribello,in modo ingiusto, cattivo; non vogliopregare per tutti quelli che lavorano nel-le imprese di costruzione: che cosa han-no fatto per meritarsi le mie preghiere?Poi ricordo che non prego perché noncredo e mi rendo conto che sotto questomeraviglioso soffitto dorato sono scivo-lata in un altro stato e che dopotutto ilmistero non è stato sconfitto.

Nella cripta gli scolari schivano letombe e stringono i portablocco e i foglidi lavoro. Tutto ciò che vedono li mera-viglia. Impareranno in particolare la«virtù civica» della quale ha scritto laWoolf. Ma rendiamo omaggio ai mortiper altre ragioni; qualcosa che questi ra-gazzini prenderanno per scontato mache sarebbe stato sorprendente in tem-pi passati. In un corridoio esterno c’è unmonumento dedicato a un uomo mor-to nel World Trade Center nel settembredel 2001. Onoriamo, infatti, le vittimecome le generazioni che ci hanno pre-ceduto hanno onorato chi è morto inguerra; a volte, come nel caso di Diana,li trasformiamo in santi.

St. Clement Danes — «quel venerabi-le e grandioso edificio piantato in mez-zo allo Strand» — è umiliato dalla gran-deur architettonica delle Law Courts edella Australia House, i cui cavalli neripotrebbero in qualunque momento im-bizzarrirsi. L’interno di Wren è stato fe-delmente ricreato in modo eccellente,dopo essere stato colpito in pieno du-

rante la guerra. Negli anni Cinquanta lachiesa venne dedicata alla Royal Air For-ce e ogni giorno vengono celebrate mes-se e celebrazioni in memoria dei suoimembri. «Il problema», dice il sagresta-no, «per esser chiari, è che i nostri par-rocchiani stanno morendo uno a uno».Fissa i cherubini sull’abside. «In realtà,sa cosa è ancora peggio? Tutti questi ma-ledetti turisti che vengono qui a chiede-re indicazioni per andare a TempleChurch. Sa, quella del Codice da Vinci».

«Il commercio ci osserva ansiosa-mente per cogliere quali nuovi desideri,quali nuove avversioni comincino a cre-scere in noi». Dai Docks dove arrivano imateriali grezzi fino al «grande nastrosrotolato» di Oxford Street, la Woolf ve-de il consumatore in relazione direttacon il commercio. «Ci si sente impor-tanti, un animale complesso e necessa-rio...». Sembra un’epoca innocente. Cisono voluti tre decenni prima che J.K.Galbraith denunciasse il mito della so-vranità del consumatore.

Quando la Woolf passa attraverso la«vistosità e lo sfarzo» di Oxford Street,vede i negozianti farsi un’energica con-correnza per soddisfare le nostre neces-sità e i nostri desideri, ma nulla di ciò cheessi fanno per creare bisogni materiali.

Mi trovo in un’isola pedonale e mi stu-pisco di come gli autobus e i taxi (gli uni-ci veicoli ora ammessi) possano blocca-re le corsie. È un tributo al potere di at-trazione di questa strada. Osservando iltraffico umano su entrambi i lati michiedo come facciamo a sapere qualidesideri possiamo considerare nostri ese questo abbia o meno importanza.Quella donna con cinque buste dellaspesa e il passo deciso sembra una don-na che non si farà influenzare, una chesa cosa vuole. Gli adolescenti che sispintonano, si inviano sms, gridano, siprecipitano, corrono, mangiano ciam-belle fritte, masticano gomme ameri-cane, alzano il dito, si tengono per ma-

no — non sono degli ingenui. Li seguofino a Selfridge’s, dove si fermano da-vanti alle vetrine. [...]

«Che cazzo vuoi?», dice uno degliadolescenti. «Che cazzo vuoi tu», dicela sua amica.

Nel 1930 i nuovi palazzi di OxfordStreet erano considerati «piuttosto fra-gili», costruzioni che non avrebbero re-sistito a una spinta un po’ vigorosa. In-vece sono solidi; gli edifici degli anniSessanta ce li fanno sembrare ben fatti.L’edificio BHS è tipico. Assomiglia aquelle costruzioni sovietiche che im-provvisamente crollano sotto la pioggiao la neve. Deve contenere una buonapercentuale di cemento ma sembra fab-bricato con il polistirolo marrone.

Forse Oxford Street ha perso un po’del suo spirito disinvolto. Gli imprendi-tori, all’epoca della Woolf (lei li vedevacome futuri duchi e conti), dovevano es-sere più divertenti di tutte le catenecommerciali così pesantemente pre-senti ai giorni nostri. Le tartarughe ven-dute sul marciapiede e i carretti dellafrutta e della verdura purtroppo non so-no più tra noi. Fino a poco tempo fa erapossibile comprare profumi e orologifalsi venduti in valigette, ma ora pare chesiano stati banditi.

Il cuore di questo posto, invece, è insostanza immutato. I moralisti e i raffi-nati disapproverebbero ancora il com-mercio veloce e dissoluto di OxfordStreet. Qui c’è una vivacità che non vuo-le farsi domare. I negozi discount vanta-no occasioni al di sotto delle 5 sterlineper ogni capo d’abbigliamento. I negozidi souvenir sono fieramente pacchiani;l’odore dei fast food è ovunque, la musi-ca alta non pretende di scusarsi. MaLondra è davvero qui, in tutta la sua mi-scela etnica; gli asiatici e gli afro-caraibi-ci hanno anche altri luoghi loro dove an-dare, ma a fare acquisti a Oxford Street civengono tutti. [...]

(traduzione di Luis E. Moriones)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 23 LUGLIO 2006

CITTÀ-MONDO Da sinistra, la meridiana davanti al Tower Bridge; la facciata della cattedrale di St. Paul’s; Oxford Street, meta obbligata dello shopping per londinesi e visitatori da tutto il mondo

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Luoghii

degli

Ogni narratore coltiva dentro di séuna geografia segreta, di cui ha lettoin pagine mai dimenticate oppure

che sa misteriosamente legata alla propria immaginazioneAbbiamo chiesto a otto tra i più noti autori della narrativaitaliana contemporanea di descriverla per i nostri lettori

Iluoghi, si sa, passano, come gli anni; la lette-ratura spesso li rievoca, come un’altra giovi-nezza. La via Bivacco Napoleone, a Cannes, èstata un uliveto fuori le mura, all’epoca in cuil’Imperatore sbarcò per i suoi Cento Giorni, ese lo ricorda Chateaubriand nelle Memorie

d’oltretomba. L’isoletta di Sainte Marguerite, difronte alla costa, era, per Dumas, disabitata, e i pas-si del visconte di Bragelonne (Athos) e di d’Artagnanfacevano frullare le pernici e fuggire i conigli; è lì chegli antichi moschettieri trovano però un piatto d’ar-gento impolverato con una rozza incisione: «Sono ilfratello del re di Francia»: la Maschera di Ferro! Al-l’epoca di Maupassant, già tutto è cambiato: «rienque des Altesses», solo sovrani.

Scott Fitzgerald, nel 1924 della sua prima novellaeuropea, già è nostalgico dei principi russi d’ante-guerra: quando i Rostoff sbarcavano a Cannes, a fine

gennaio, si convocavano dallaNormandia i loro champagnepreferiti, e si lavava a gran sec-chi d’acqua la chiesa russa; inTenera è la notte, le orchestrinedella French Riviera spargeran-no note americane per i caffèdella Croisette. Olio solare, Bu-gatti, capelli alla garçonne epantaloni per le donne del Giar-dino d’Eden, coevo, ma pubbli-cato solo dopo il suicidio d’Er-nest Hemingway, nel 1961. Cipensa Simenon a ritagliare, dalsoggiorno a Cannes del 1955-57, una fetta di Francia primiti-va e eterna, il mercato Forville,la domenica mattina: Emile, ilcuoco, ha deciso di assassinarela moglie, la padrona dell’alber-

go; ma intanto fanno la spesa, sorvegliando severi ipanieri dei pescatori, dove i calamari si agglutinanoin massa vischiosa di un bianco porcellana (Domeni-ca). La Sagan, il 21 giugno 1956, compie 21 anni e puòentrare al casinò Palm Beach di Cannes, un nuovo vi-zio (Avec mon meilleur souvenir). Era l’altr’anno, loscrittore Frédéric Beigbeder scopre che a Cannesnessuno parla di cinema: «Sei stato da Coppola?». «Alfilm?». «Ma no! Alla festa» (L’egoista romantico, 2005).

A Lipari, sotto gli occhi del belga Albert T’Serste-vens le cave di pietra pomice del Monte Peloso an-cora sollevavano una nebbia bianca impalpabile suoperai nudi, «fantasmi d’atleti in una palestra cre-puscolare». Come non invidiare oggi Curzio Mala-parte, che partiva per il confino a Lipari da un portodi Milazzo ingombro di ceste di aranci e limoni, fu-sti di vino e corone di fichi secchi? (Fughe in prigio-ne). Le buganvillee della Piazzetta, chi ci ricorde-rebbe, senza Jean-Paul Sartre, che sono state im-portate tardi, che si sono acclimatate con difficoltà,che rovinano i colori di Capri? «Se ne parla a dentistretti», di quei «fiori untuosi, cardinali, monsigno-ri, con una ricchezza insolente, una voluttà abban-donata» (La regina Albemarle). Roger Peyrefitte, so-gnante sulle rovine di Villa Jovis e gli ozii imperiali— nelle piscine, racconta Svetonio, Tiberio si la-sciava girare tra le gambe «i suoi pesciolini», bimbiaddestrati ad attaccarsi alle sue membra come asucchiar latte a un seno — si indigna che sopra al pa-lazzo di Tiberio abbiano innalzato una statua allaMadonna, in bronzo verdastro: «Almeno, hannoavuto il buon gusto di farle dare le spalle a Capri: co-sì, benedice solo Sorrento» (Dal Vesuvio all’Etna).

Henry James ricorda, della festa di Sant’Antonioad Anacapri, l’odore d’incenso, lo spessore dei fumiin cui i devoti si accalcano. Spesso di un paesaggiosi perde per prima cosa l’aria, come il respiro vastodella Provenza disabitata del Jean Giono del ciclodell’Ussaro. Impregnato di sangue fetido del Matta-toio, il vento di Testaccio nelle Ceneri di Gramsci;eppure la sera si è fatta così quieta, mentre le sara-cinesche calano allegramente, e gli autobus diquartiere grondanti di operai si sgranano; e lui, Pa-solini, cosciente della storia, riuscirà, come tuttiquei miseri semplici che rientrando respirano Ro-ma, a sentir rinascere il mito?

Eppure, dal mitico attacco di Zazie nel metro diQueneau — «Doukipudonktan», ma chi è che puz-za in questo modo? — nulla è cambiato («non èpossibile che facciano la cernita tra i più sudici diParigi»). La sordida incuria dei palazzi staliniani èuna buona metafora della fetida povertà di S. Pie-troburgo dell’età di Dostoevskij; ma per quantoancora? Il mondo nuovo, e il terzo, ci invadono,con la promessa di spazi incontaminati, o autenti-ci, o brulicanti di accattoni esotici. «Macondo eraallora un villaggio di venti case di argilla e di cannaselvatica»…

Scrittori

BRUNO ARPAIA

Fantastica Buenos Aires

«Buenos Aires non ha avuto un inizio né avràmai una fine: io la considero eterna, comel’aria o l’acqua». Esagerato, Borges. Lo era

un po’ meno quando, negli anni Venti del Novecento,della sua città raccontava il torrente Maldonado «ari-do e giallastro», i tramonti sulla pampa visti dagli ar-rabales, descriveva «gli androni affaticati d’ombra» ele «austere casette che appena si avventurano/ schiac-ciate da immortali distanze,/ a perdersi nella profon-da visione/ di cielo e di pianura».

Facile a dirsi, che la Buenos Aires di JorgeLuis Borges non esiste più. E infatti, quandotanti anni fa ci arrivai per la prima volta, lamappa letteraria che avevo in testa non cor-rispondeva alla città reale. E tuttavia, nel ca-so di Borges, bisognerebbe spingersi più ol-tre, dire che la sua città non è mai davveroesistita: luogo letterario, memoria di me-moria altrui, mito, invenzione. Però reale:perché quella città meticcia, quel crogiuolodi razze e di culture, quella città europea

reinventata da un’America latina che sogna New York,disegna il suo vero profilo sui miti che creano i suoi scrit-tori, i poeti del tango, i filosofi di strada che affollano isuoi mille caffè. Un unico dubbio: chissà se oggi, doposette anni di dittatura, dopo un ventennio di neoliberi-smo e dopo il default del 2003, da quella città bellissimaridotta a una rovina smangiata e abbandonata all’incu-ria, affollata da decine di migliaia di nuovi poveri, Bor-ges potrebbe ancora erigere le sue costruzioni fantasti-che, inventare i suoi labirinti, le sue spade, le sue tigri, isuoi specchi misteriosi e perfetti.

DACIA MARAINI

Fiumi, mari, laghi

Sono nata sotto un segno d’acqua e l’acqua èsempre stata per me una compagnia familiare.Le mie case le ho sempre scelte vicino ai fiumi,

o in riva al mare. Ho praticato anche i laghi ma conmeno slancio. I fiumi sono le mie acque preferite pervia di quel loro correre serpentino in mezzo alle ter-re più diverse, per quella loro capacità di scompari-re e riapparire, spargersi e ritirarsi con poetica ir-ruenza. E non parlo solo del Tevere che conosco tan-to bene o dell’Arno che mi ha vista nascere, ma di

quei fiumi lontani che mi hanno fatto trat-tenere il fiato per l’emozione durante lemie grandi letture adolescenziali. Credoche come si legge da ragazzi non si leggapiù da adulti. Io continuo a leggere rispar-miando sul tempo, rubando i minuti allagiornata, rileggo molto i classici e oggi so-no più colpita dalle emozioni strutturali elinguistiche. Ma come leggevo da ragaz-za, dimenticando di mangiare e di bere,purtroppo non mi succede più.

Ho talmente amato e sognato la Neva di Dostojev-skji e di Gogol, l’ho talmente immaginata nelle sue li-macciosità mattutine, nelle sue ombre e nei suoi ri-flessi, l’ho talmente annusata nei suoi odori nottur-ni che quando sono capitata la prima volta a Pietro-burgo e ho visto il fiume vivo e luminoso davanti aimiei occhi sono rimasta lì incantata aspettando divedere il torvo Raskolnikov che veniva giù frettolo-so, tutto preso dai suoi tetri pensieri. E sul ponte del-la zarina Caterina ho visto il piccolo e tronfio Kova-lev che mi veniva incontro senza naso.

Raccontandole terre dell’animasenza inizio né fine

DARIA GALATERIA

La via di Chateaubriandl’isolotto di Dumas

il lungomare di Fitzgeraldil mercato di Simenonil porto di Malaparte

la piazzetta di Sartre...

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 LUGLIO 2006

IL DISEGNO

Nella pagina, particolari

di “Tavoli di lavoro”,

di Tullio Pericoli

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ERRI DE LUCA

Monte Epomeo

L’isola è poca, meno dell’Elba, più di Ca-pri, ma la sua cima spicca a maggiordistanza. A quasi ottocento metri un

terrazzo di tufo si sporge sui boschi di castagni.Nei giorni schietti l’orizzonte si sposta di cen-to chilometri.

Salivo da ragazzo alle celle scavate nelle pie-tre da monaci forniti di piccone. Un oste guer-cio le aveva trasformate in stanze. Salivano co-mitive notturne per gustare l’alba e si faceva-

no servire bucatini al sugo di coniglioe vino rosso dell’isola, denso come ilsangue. L’oste veniva a svegliarmi peraiutarlo in cucina. Dal finestrone hovisto le mie prime albe ai vetri, men-tre lavavo i piatti sparecchiati. Altrealbe ai vetri mi aspettavano dentroun’officina, con la mani inzuppated’altri grassi.

Da quella cima di montagna d’I-schia, Monte Epomeo, ho saputo che

il più vasto orizzonte si ottiene da un puntostretto, poco spazio per starci dritto in piedi.La cima dell’isola mi ha fornito acconto dimontagne solenni, raggiunte con più affannoe più fervore.

Ho saputo lassù che esistono solitudini spa-ziose che allargano il respiro, una solitudinesudata da reintegrare col vino dei muti. Invecedi una chitarra metteva in mano un quadernoe una penna. Mi è stata maestra l’isola e il suomonte.

MELANIA G. MAZZUCCO

L’isola incantata

Amo le isole. Sono ossessionata dalla geografiadella solitudine, e perciò fin dall’infanzia hodivorato ogni scrittura che mi consentisse di

abitare un’isola. Le isole, difese dal mare, a debita di-stanza dai porti, mi offrivano e mi offrono ancora lapiù convincente immagine della lontananza e delladiversità. Sulle isole inoltre, fin dalla notte dei tem-pi, abitano le maghe e i reietti, gli dei e gli eroi. Amol’isola di Filottete e quella di Calipso, l’isola del teso-ro e l’isola del giorno dopo, le isole incantate di Mel-

ville, l’isola dei ragazzini di Golding e l’i-sola di Robinson Crusoe. Ma più di tutto,forse, amo un’isola domestica e vicina, eperò remota e inafferrabile: l’isola incan-tata di Arturo, ovvero la Procida di ElsaMorante. Isola di pescatori, giardini e or-ti segreti, muri e conventi dirupati dovetutto è già successo. Ma anche isola di esi-lio, nostalgia di fuga e prigionia: l’erga-stolo borbonico a picco sulle rocce, dallecui slabbrate mura ancora oggi sembra

provenire un disperato grido di libertà. Morante sipremurò di informare i lettori de L’isola di Arturoche, benché esistesse effettivamente un’isola di no-me Procida, la Procida di cui parlava lei non esistevase non nelle pagine del romanzo. E così è la lettera-tura. La Procida di Elsa Morante — e nostra — è unacontrada immaginaria, reale e favolosa come quelledei sogni. Cinquant’anni dopo, ci abita ancora —mai cresciuto, mai invecchiato — il ragazzo Arturoe ci abitiamo — mai cresciuti, mai invecchiati — an-che noi.

SALVATORE NIFFOI

Microcosmo sardo

Non c’è niente di esotico in quello che scrivo. Lamia commedia umana è vissuta in diretta. Quile suggestioni sono reali, non c’è niente di fin-

to, io non sono avulso dal mio contesto, io ho radicidi carne e riesco a scrivere solo qui. Quando vado ingiro prendo appunti, mi fermo se vedo un paesaggioche mi piace, ma la materia prima è questo mio mi-crocosmo barbaricino, un francobollo di terra doveindago sulle vite e sulle vicende di un mondo picco-lissimo. Sono tremila anime, però ci sono tutti quei

romanzi che uno in una vita non può im-maginarsi di scrivere perché non neavrebbe il tempo. Ci sono tutti gli intrecci,tutte le trame, tutti i limiti, tutte le con-nessioni. Per raccontare il proprio mondobisogna leggere tanto anche degli altrimondi per arrivare a scoprire che da Den-ver a Canicattì a Pechino si punta sempresulle antiche verità, le verità primordialiche la tecnologia e la globalizzazione nonfotteranno mai. Parlo molto di morte, di

violenza, cose che ci sono sempre state e che fannoparte di quel bagaglio animalesco, anfibio che le so-vrastrutture culturali non hanno mai dominato be-ne. Insisto nel parlare di quelle antiche verità che inBarbagia rimangono antiche come le canne al ven-to di Grazia Deledda che il progresso può solo muo-vere e piegare. L’amore, l’onore, la pietà, il sacrificio.In Sardegna c’è questa differenza, è una terra di fron-tiera alla McCarthy. Il paesaggio fa ancora la diffe-renza. Quando descrivo il mio mondo descrivo ciòche vedo. E a volte scrivo per non piangere.

SIMONA VINCI

Nel delta immenso

In questo luogo che abita la mia immaginazione,il cielo è piatto e bianco e l’orizzonte stermina-to. È il delta immenso di un grande fiume. C’è

sabbia, aria immobile che ristagna tra le canne dibambù. Ci sono i bambini che giocano nella piana:sono figli di contadini, e sono nudi, magri, hannoaddosso i segni della fame. C’è il fasto e la miseriadelle colonie, grandi patii di ville bianche con ter-razze, cancellate, parchi. Un traghetto lentissimo.La luce gialla e malata delle pianure, l’odore dolce

e mortuario di gelsomino e acqua di fiu-me. La musica jazz che arriva dalle festenelle Residenze dei Funzionari delle Co-lonie. La prima volta che ho letto La digasul Pacifico di Marguerite Duras, avevoforse tredici anni e quei luoghi non mihanno più abbandonata, anche se nellarealtà non ci sono mai stata. Forse, quel-la lontanissima pianura del Mekong so-miglia alla mia pianura padana, e ilMekong stesso somiglia al mio fiume, il

Po’. Le zanzare, i contadini, i canti delle mondine,l’estenuazione di certe estati, i bambini tutti nudiche si lanciano nel fiume tra i canneti. Adesso, Sai-gon si chiama Ho Chi Minh City. Cholon, il quartie-re dell’appartamento dove si incontravano l’A-mante Cinese e la bambina ne L’amante, è una Chi-natown scintillante di luci al neon. Ma dietro gliscuri serrati di qualche guest-house, sicuramenteun amante cinese e una ragazzina stanno ancoradistesi ad ascoltare il rumore della strada là fuori. Ea piangere per un amore impossibile.

VALERIO EVANGELISTI

Messico teatro tragicoQuando noi italiani diciamo Messico, ci vengo-

no alla mente deserti, cactus e uomini baffuticol cappellone e una coperta colorata usata a

mo’ di mantello. In realtà questa visione, che ci è sta-ta imposta dal cinema e dalla pubblicità, corrispon-de parzialmente solo al nord del Paese. Il vero Mes-sico, nella sua enorme estensione, ha paesaggi mol-to più variegati, che comprendono tanto montagnealtissime imbiancate di neve che foreste, laghi, ca-scate, zone paludose, praterie immense, fino ai pae-

saggi dolci della costa. Vi si godono o sof-frono tutte le temperature, dal freddo in-tenso al caldo tropicale. Tutto ciò il mo-derno turista ormai lo conosce. Percepi-sce anche come simili caratteristiche fac-ciano del Messico un luogo ideale per unromanzo di avventure. Più difficile da co-gliere è l’impasto di tenerezza e violenzache si nasconde tanto nella natura chenella società messicana. L’anima indige-na, sparita da buona parte dell’America

centrale, in Messico sopravvive quasi intatta. Ciò si-gnifica che a slanci di umanità straordinari possonosuccedere, quasi senza preavviso, accessi di furore;e che l’allegria apparente non è mai priva di un velodi malinconia. Octavio Paz descrisse tutto ciò in uncapolavoro della letteratura mondiale: Il labirintodella solitudine. Solo chi intenda il senso di questotitolo potrà parlare del Messico e dei messicani concognizione di causa. Il paese apparentemente menoadatto alla tragedia ne è invece un teatro naturale,perché tragica è, in fondo, l’anima di chi lo abita.

ALDO NOVE

I deserti del letterato

Iluoghi letterari che amo di più sono i desertilisergici di Manganelli. Mi fanno venire inmente le opere, quasi di un Manganelli attua-

lizzato, di Mark Ryden, quello dei teletubbies de-pressi in lande desolate e della bambina che pre-ga la Barbie. C’è un’opera, Dall’Inferno, che spri-giona forse più di tutte le altre la visionarietà pae-saggistica di Manganelli. Come un discepolo im-pazzito di Niels Bohr, a metà tra la fisica quanti-stica e l’inquietudine di William Burroughs, il

luogo descritto in Dall’Inferno c’è e nonc’è, e dentro e fuori, e qua e là. E fa pau-ra. Al suo confronto, Stephen King è ras-sicurante. Come diceva Roland Barthesa proposito di Verne, c’è uno sfondoborghese a rassicurare. In Manganellic’è una metafisica rivoltante che comeun organismo si muove in un territoriodelimitato da se stesso. Oltre ogni limi-te, anche quello kafkiano. In Manganel-li non c’è individuo. Non si sa dove si è,

non si sa chi si è. Manganelli sfila il mondo comeun guanto e ci scaraventa nel vuoto assoluto diun’esplosione atomica densa di ritagli di cose e dianime, quelli che Enzensberger, nel suo L’affon-damento del Titanic, chiamava «vorticosi souve-nir». Mi piace l’idea di vivere in un mondo che èscoppiato, infinitamente relativo. È come la Rete,che Manganelli, internauta prima dell’avventodel web, ha reso ontologia. Il blog di un blog dovetutto è lecito, il terrore dell’assoluta libertà appa-rente che ha perno nel vuoto.

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 LUGLIO 2006

la letturaCondottieri

In patria ebbe accoglienze trionfali. Quando,anni dopo, Hitler gli propose di collaborare,rispose che la cosa era “biologicamenteimpossibile”. Malgrado l’insulto, fu risparmiato

All’inizio degli anni Sessan-ta, quando il governo fe-derale tedesco si decise apagare le pensioni agliascari che sotto le bandie-re dell’Impero tedesco

nella Prima guerra mondiale avevanocombattuto magnificamente contro gliinglesi nell’Africa orientale (Tanganyka,oggi Tanzania), l’iniziativa sembrò unapresa in giro. Nessuno di quei poverettiaveva conservato una qualsiasi carta chepotesse provare l’arruolamento avve-nuto quasi mezzo secolo prima. Ma Paulvon Lettow Vorbeck, l’orgoglioso gene-rale prussiano — aveva più di no-vant’anni — che aveva trasformato ilcorpo nella più efficiente, elastica e leta-le struttura militare indigena che abbiamai combattuto in Africa, suggerì di as-segnare la pensione a chi sapesse anco-ra eseguire la complicata, difficile seriedi esercizi con il fucile che il regolamen-to dell’epoca imponeva e che lui stessoaveva raccomandato come una sorta dipreliminare spettacoloso nell’addestra-mento complessivo, di una durezza pa-ragonabile a quello applicato oggi ai ma-rines.

Si svolse allora una scena piuttostocommovente, con i vecchi ascari che ri-facevano alla perfezione tutti gli esercizi,senza mai sbagliare un passo, ma al rit-mo lento e un po’ stanco della loro età.Poi si misero tutti a cantare Aia Safari, illoro inno che li aveva accompagnati intante battaglie, in onore del loro anticocomandante.

La storia fece il giro della Germania e igiornali rispolverarono la leggenda divon Lettow Vorbeck, l’unico comandan-te tedesco che aveva sempre battuto gliinglesi ovunque li avesse incontrati. An-che l’unico ad aver occupato un territo-rio sotto sovranità inglese invadendo laRhodesia, un’altra delle sue celebrateimprese. Il generale, allora colonnello, siera arreso dopo l’armistizio firmato inEuropa, mentre stava continuando avincere. I suoi ascari, che non capivano,con le lacrime agli occhi si inginocchia-rono davanti a lui per chiedergli di conti-nuare la guerra. Ma Lettow Vorbeck, cheera prima di tutto un ufficiale prussianoal servizio del suo sovrano, al quale lo le-gava un patto d’onore indissolubile —anche se il Kaiser era già andato in esilio— si presentò al campo nemico. Lo ac-colsero con un rispetto mai tributato anessun ufficiale tedesco,concedendogli di tenerecon sé le sue armi.

Dopo l’apertura delCongresso di Parigi, con iquattro Grandi occiden-tali che parlavano di pacema pensavano al bottinoe a come castigare la Ger-mania, il colonnello ave-va ricevuto la “Croix pourle merite”, la più alta ono-rificenza tedesca al valo-re, e con questa al colloaveva sfilato a cavallo aBerlino sotto i tigli dellafamosa passeggiataomonima, salutato co-me un eroe dagli abitantidi una città impaurita daitentativi rivoluzionari einsurrezionali e devasta-ta dall’inflazione. Il solotedesco durante tutta laPrima guerra mondialeal quale era stata concessa la spettacola-re dimostrazione.

Con il tempo la sua immagine si erasbiadita, forse perché il generale non eracarattere da coltivare amicizie utili e nonera tipo da risparmiarsi una battuta. Uo-mo di destra, ma non così reazionariocome lo era la maggior parte deglijunker, aveva schiacciato con le suetruppe i moti spartachisti ad Amburgo,aveva partecipato ad un putsch e perquesta ragione aveva dovuto rassegnarele dimissioni dall’esercito. Ma anni piùtardi, ad un Hitler sicuro di averlo dallasua parte aveva fatto rispondere che ri-fiutava un’unione «biologicamente im-possibile»: una risposta insultante e co-me tale rischiosissima, che gli sarebbepotuta costare cara. Era già abbastanzanoto che gli africani, nei suoi battaglioni,era stati trattati nello stesso identico mo-do dei tedeschi, avevano mangiato lostesso cibo, avevano goduto degli stessiprivilegi ed erano stati sottoposti aglistessi doveri. Se ci fosse stato un altro alsuo posto, i nazisti non avrebbero esita-to ad eliminarlo brutalmente. Ma Hitleraveva un debole per due soldati che sierano distinti quando lui era caporale:Ernst Junger, l’autore di Tempeste d’ac-

ciaio, e Lettow Vorbeck, che venne ri-sparmiato. Quarant’anni dopo, duranteuna sua visita privata in Africa orientale,i suoi ascari gli corsero incontro, orga-nizzando un’accoglienza quale nessuneuropeo ha mai avuto in terra d’Africadal tempo di Scipione l’Africano.

Quello che colpiva, conoscendo Let-tow per la prima volta, era un insolito mi-sto di eleganza inguantata alla prussia-na, un po’ rigida — almeno sembrava —in questioni di principio, che si trasfor-mava al momento opportuno in un’im-prevedibile realismo e un rigore, a volteuna pedanteria militareschi che scom-parivano, per fare posto ad una fenome-nale fantasia inventiva quando la tatticaimparata alla scuola di guerra doveva ve-nire applicata sul campo. La sua fama digentiluomo si era allargata a personag-gio di grande umanità dopo che avevafirmato un proclama col quale promet-teva la libertà agli europei fatti prigionie-ri se questi avessero dato la loro parolad’onore di non alzare più le armi control’esercito tedesco fino al termine dellaguerra. Nessuno, in Africa o in Europa, inquei tempi di acuto e penoso nazionali-smo, aveva mai osato spingersi cosìavanti nella direzione di un civile com-portamento. Era diventato così popola-re persino tra i coloni inglesi del Kenya,pessimi coltivatori di caffè come di qual-siasi altra cosa, ma indubbiamente do-tati di fair play, che quando Karen Blixenne scrisse in Out of Africa, una delle gran-di memorie del secolo, riportando le lo-ro conversazioni, la censura inglese ta-gliò ogni riferimento al generale. Va be-ne il fair play, ma non esageriamo. Innessuna altra parte della Terra il leoneinglese aveva subito tante umiliazionicome le aveva subite in Tanganyka. Ilmodulo tattico-strategico dell’Imperoinglese era stato simile a quello romano.Si può perdere qualche battaglia, si vin-ce sempre la guerra. E così gli inglesi neidecenni passati avevano subito sangui-nose sconfitte sul campo da popoli cosìdiversi come gli zulu, i maori, i sikh, gli af-ghani, ma alla fine avevano vinto tutte leguerre, con l’eccezione di quella contro

STEFANO MALATESTA

IMPRESELa paginaè illustratada due disegnioriginalidi GipiQui sopra,un ritrattodi Paulvon LettowVorbeckall’epocadelle sue gestain Tanganyka

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 23 LUGLIO 2006

Generale e guerriglierodalla Prussia al Tanganyka

La leggenda dell’ufficiale prussiano Paul von LettowVorbeck . Fu inviato in Africa durante la Prima guerramondiale col compito impossibile di tenervi impegnatoil maggior numero di soldati britannici: non venne maisconfitto e ottenne dal nemico onori senza precedenti

indigeni particolarmente testar-di: gli americani. In Tanganyka avevanoperso tutti gli scontri e stavano perden-do o almeno subendo la guerra.

Di antica famiglia prussiana, LettowVorbeck prima di essere nominatocapo di tutte le forze tedesche delTanganyka, aveva avuto espe-rienze piuttosto movimentate trarivoluzioni e insurrezioni: era sta-to in Cina al tempo dei Boxer, nel-l’Africa del Sud a sopprimere lerivolte degli Ottentotti e avevacomandato un repartod’assalto dei marines.Presso lo Stato maggioretedesco dovevano esserein molti ad avere unagrande fiducia nel suoattivismo e nella sua for-za di carattere, perché lasua semplice missionesi proponeva uno sco-po quasi impossibile:drenare sul fronte afri-cano più forze nemi-che possibili, per sot-trarle alfronte oc-cidenta-le. Aven-do a dispo-sizione tre-cento soldatitedeschi e quat-tordicimila ascarimalnutriti, che fino ad al-lora avevano combattutomediocremente. Circon-dato da ogni parte da Paesiostili, senza poter sperare inrifornimenti dalla madrepa-tria, Lettow Vorbeck sembravadestinato ad essere spazzatovia rapidamente. Invece riuscìa resistere per oltre quattro an-ni, contro forze che andavanocrescendo in rapporto direttocon le loro sconfitte. Quandoqualcuno a Londra fece iconti, si accorse che oltretrecentomila soldati a varie

riprese erano stati mandati in Tan-ganyka, guidata da centotrenta ge-nerali: il fior fiore degli imbecilli,come disse un famoso militare an-

glosassone. Ma se si vanno a consultare

i testi anglosassoni, è abba-stanza impressionante il to-no di sufficienza adottatonei riguardi del brillantetedesco, rispetto allo scio-glimento in deliquio neiconfronti di un’impresasimile, ma molto menogloriosa da uno strettopunto di vista militare: lacampagna degli hasce-miti nell’Hejaz, consi-gliati da T. E. Lawrence.È curioso che proprio gliinglesi, così attenti a ri-valutare la guerriglia di

fronte alla guerra

tradizionale, abbiano vistoin Tanganyka solo uno scon-

tro molto minore, condottoalla prussiana quasi da un ni-

potino di von Molte, il vincitoredi Sedan. Senza rendersi contoche era la prima volta che qual-cuno razionalizzava una formadi guerra lasciata all’improvvi-sazione e all’impeto del mo-

mento, dissipando quell’alo-ne di incertezza che essa sitrascinava dietro e dandole

come un decalogo. Se veramente c’eraqualcosa di autenticamente prussianoin Lettow Vorbeck, questo riguardavamolto più il modo scientifico, da scienzaprussiana alla von Humboldt, con cuiaveva affrontato la situazione di estremaprecarietà e debolezza in cui si trovava eattraverso l’intelligente sfruttamento diogni possibile espediente era riuscito atrasformare la debolezza in una forza.

Era stata la scienza che aveva fatto ca-pire al colonnello che la chiave di tuttostava nell’ambiente: addomesticato inEuropa, mentre in Africa continuava adessere selvaggio, imprevedibile e poten-te. Un Paese allagato per due o tre mesida piogge senza fine, composto da areesemidesertiche e da giungle, con le mon-tagne più alte del continente, le savanepiù estese, gli animali selvaggi più nu-merosi, che ogni anno si muovevano inimmense migrazioni, non era l’idealeper far manovrare un esercito classico,con carriaggi e il resto. La natura stupen-da dal punto di vista del paesaggio ma

primitiva per tutto il resto, compor-tava anche la presenza di un’infi-nità di malattie endemiche molto

pericolose, che stazionavano daquella parte come dote portata dall’ho-mo sapiens sapiens.

Prima della guerra il comandante te-desco aveva battuto in lungo e in largoil Paese, raccogliendo una massa im-mensa di informazioni fornite da colo-ni tedeschi magari non così eccentrici espiritosi come i coloni inglesi, ma piùaffidabili e molto più precisi. Ora sape-vano come difendersi dalle malattie,quali erano gli animali più commesti-bili, in quale stagione si potevano pian-tare con successo alcuni tipi di piante equali no. Aveva capito che in Africa pervincere bisognava non avere la natura

nemica e a questa regola si era adegua-to. I decessi per malattie infettive furo-no molto più alti presso le truppe ingle-si che per quelle tedesche e si poteva es-sere certi che gli ascari non sarebberomai morti di fame anche se lontani cen-tinaia di chilometri dalle loro basi. Il lo-ro addestramento era servito a farnenon solo buoni marciatori e buoni tira-tori, ma degli atleti nel verso senso del-la parola, capaci di sopportar faticheche altri non avrebbero sopportato. Di-visi in piccoli gruppi, ognuno munito diuna mitragliatrice che veniva nascostae camuffata così bene da diventare ilterrore degli indiani che non capivanomai da quale parte gli sparassero con-tro, erano stati addestrati a sopravvive-re con quello che trovavano lungo lastrada e con quello che rubavano al ne-mico, armi comprese. Costituivanouna forza estremamente elastica, velo-ce nei trasferimenti e fulminea nell’at-tacco perché non dovevano dipendereda nessun rifornimento e avevano unagrande autonomia di comando.

Era come se il colonnello tedesco fos-se diventato, nello stesso tempo, un me-teorologo, un geologo, un chimico, uncoltivatore, un medico, un allenatore,un geografo, uno zoologo, oltre che uncapo. La sua conoscenza del terreno; tut-ti i trucchi che adoperava nei combatti-menti — simile in questo al grande Su-bodai, il famoso generale di GengisKhan, considerato il più grande tattico ditutti i tempi — dai mascheramenti ai tra-sferimenti sotto la copertura delle man-drie di erbivori durante la grande migra-zione annuale; l’avere sotto mano unatruppa ammirevole per prontezza ed ef-

ficacia; l’uso accorto e letale delle mitra-gliatrici, sempre piazzate nei punti stra-tegici; lo sfruttamento geniale di qual-siasi risorsa: tutto ciò lo aveva portato aun tale livello che gli stessi coloni inglesilo consideravano imbattibile e impren-dibile. È facile immaginare lo sbigotti-mento dei britannici quando si viderobombardare dai cannoni dell’incrocia-tore Königsberg, intrappolato all’inter-no del Tanganyka, che il comandanteaveva fatto smantellare e portare centi-naia di chilometri distante.

Nessuna delle grandi campagne chegli anglosassoni, insieme con i loro al-leati, continuavano a lanciare di anno inanno ebbe mai qualche speranza di suc-cesso. Sembrava che più grande fossel’attacco, più rovinosa risultasse lasconfitta. Molti anni più tardi un suogrande amico-nemico, il genero boeroSmuts, diventato poi presidente del SudAfrica, che nel 1916 era stato a capo diuna di queste offensive, fallita come tut-te le altre, venne a sapere che il vecchiogenerale si trovava in imbarazzanti ri-strettezze economiche e che il governodi Bonn non aveva alcuna intenzione diprovvedere. Qualche mese più tardi algenerale arrivò una lettera in cui los’informava che per meriti non precisa-ti il governo sudafricano aveva appro-vato una pensione in suo favore. Anco-ra una volta Lettow Vorbeck aveva bat-tuto un record, sicuramente unico: rice-vere una pensione dal nemico che ave-va battuto quasi mezzo secolo prima.

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Nato cento anni fa e chiamato Secondo, fu in realtà il capostipitedi una dinastia artistica. Musicista di genio, fondòun’orchestra e inventò una tradizione

che importava nei ritrovi di paese ritmi e sonoritàdell’America. Oggi la sua terra e la tv lo celebrano

tezzato il suo biografo Leandro Castella-ni. Ma il titolo spetta di diritto a un altroromagnolo, più oscuro e dimenticato:Carlo Brighi detto Zaclèn, che alla finedell’Ottocento rinunciò al posto di pri-mo violino nelle orchestre d’oltralpe perportare, Robin Hood del pentagramma,il valzer al popolo. Per il piccolo AurelioCasadei (detto Secondo perché secon-dogenito, e perché in Romagna il tuo ve-ro nome lo pronuncia solo il prete al bat-tesimo, poi scompare misteriosamen-te) era un mito. Babbo Richéin, un po’ dimalavoglia, e mamma Ernesta, più con-vinta, s’erano rassegnati alla passione diquel bambino che scappava dalla suacasa di Sant’Angelo, nell’entroterra diRimini, per andare a origliare le orche-strine sulle aie e nelle stalle. Il vicino dicasa, liutaio, aveva fatto il resto. E a solisedici anni Secondo ebbe la sua primascrittura come violinista, per poi met-tersi in proprio, nel ‘28, con la sua Or-chestra Casadei.

Ma guardiamoli, in rigida posa per ilfotografo, quegli orchestrali in tight epapillon, schierati con clarini, cornettee perfino un banjo. Dov’è il folclore,dov’è la romagnolità? Se non sapessimodi chi si tratta, potremmo prenderli peruna coeva band bianca di New Orleans,tipo Bix Beiderbecke. Nel suo centesimocompleanno, mentre la Romagna lo fe-steggia con un’infinità di concerti, biso-gna finalmente dare a Secondo quel cheè di Secondo, e riconoscere che nella ge-nialità con cui ha letteralmente inventa-to una tradizione c’è più Duke Ellingtonche Johann Strauss. Chi aveva mai bal-lato, in Romagna, al suono dei sax? Li in-trodusse Casadei, assieme alla batteria,che nelle sagre paesane degli anni Tren-ta faceva più o meno lo stesso scandalo-so effetto di quando Bob Dylan salì sulpalco del Newport Folk Festival imbrac-ciando una chitarra elettrica. E ascoltia-moli, i pesanti dischi di bachelite a 78 gi-ri incisi in quegli anni e resuscitati con

meticoloso affetto dalla Casadei Sono-ra, la casa discografica della figlia Ric-carda: sono pieni di one-step, di fox-trot, oltre che di valzer e mazurche.«Babbo ascoltava tutta la musica», con-ferma Riccarda, «e la amava tutta». Ne-gli anni Sessanta tornò a casa con un lpstraniero, «Questi Beatles hanno scrittouna bella canzoncina», e mise in reper-torio Yellow Submarine. L’anno primadi morire, il 1970, invitato al Festivalbar,tornò incuriosito, «C’era un giovanotto,un po’ scontroso ma bravo, si chiamaBattisti, Lucio Battisti». «La sua, la chia-mava solo musica romagnola», insisteRiccarda, «ma non la considerava di-versa da tutte le altre». Liscio, parola checominciò a sentire tardi, non gli piace-va: «Io i ballerini li faccio volare, micastrisciare per terra».

Ma quale liscio, infatti. Casadei il ri-voluzionario ha fatto sobbalzare la mu-sica italiana e forse anche l’Italia stessa.La sua carriera iniziò, nel 1922, assiemea quella di un altro celebre romagnolo,Benito Mussolini. Ma il figlio del sarto diSant’Angelo fece l’opposto del figlio delfabbro di Predappio. Politica non nemasticava: di famiglia vagamente so-cialista, se una volta rischiò il manga-nello delle squadracce fu per sbaglio,cercavano il fratello Dino che aveva ap-peso in casa una foto di Matteotti. No,l’antifascismo preterintenzionale diCasadei stava nelle sue note per nienteimperiali, nello zum-pa-pa che non po-trebbe mai ritmare una sfilata militare,nei versi che raccontavano un mondopacificato, antiretorico, gentile, altroche poeti navigatori e guerrieri. Le don-ne dei suoi testi non erano solide figlia-trici di soldati da offrire in olocausto, magiovinette amanti della vita e molto,molto monelle. Dicono che il Duceascoltò, un giorno, un concerto di Casa-dei, e che gli piacque: se è vero, non fugranché perspicace. Più attente le suo-re, che alla piccola Riccarda sussurrava-

«Pizaréin», sussurravaSecondo Casadei alsuo chitarrista, al se-

colo Giovanni Fantini, «stasera bsògnadéj», bisogna darci dentro. Glielo dicevatutte le sere. «Bisogna dargli nelle gam-be, tirarli su da sedere, levarli da poggia-ti al muro». Uomo più pacioso e inoffen-sivo del maestro Secondo non ce n’era.Abiti bianchi, scarpe bianche, panama,baffetti alla clarghèibol modellati sullacurva del suo lieve sorriso perenne: ungentiluomo da palcoscenico. Ma col vio-lino in spalla come un moschetto, era uncombattente. Questione di vita o di mor-te. Non sua: lui poteva anche fare il sartocome suo padre, l’aveva anche fatto, su-bito dopo la Liberazione, quando di bal-lare nessuno aveva voglia, e per sfamarela famiglia andava con la valigia a farerammendi a domicilio. Ma la “sua” mu-sica sarebbe morta davvero, per inedia edisprezzo, e questo non riusciva a man-darlo giù. E allora «bsògna déj» e spinge-re col “didietro”: perché Secondo l’ave-va ben chiaro che il clarino può ricama-re i suoi merletti, la fisarmonica può tur-binare i suoi volteggi, ma chi schiodadavvero i piedi dei ballerini è la retroviadel palco, la chitarra, la batteria, il basso.

L’aveva impara-to dagli americani.Proprio loro, lacausa dei suoi di-spiaceri. Per via diquel boogie-woo-gie che le ragazzec’impazzivano, e iragazzi ancora dipiù con tutto quelsollevarsi di gonnee baluginar di sot-tovesti e il resto. Equando lui provavaad attaccare, nondico un valzer, maperfino una polkache pure è bella agi-tata anche lei, giùfischi, doveva pre-cipitosamente ri-piegare su Glenn Miller. Ma se fosse sta-to un tipo rinunciatario, Secondo Casa-dei non avrebbe neppure cominciatol’avventura che lo portò ad essere il pa-dre riconosciuto della musica romagno-la, quella che tutti (tranne lui) hannosempre chiamato liscio. Allora Secondoinsisteva. Piazzava ogni tanto un Danu-bio bludi paravento, «fischieranno micaanche Strauss», poi una sua mazurchet-ta appena camuffata dai sax urlanti.

Alla fine vinse lui. “L’uomo che scon-fisse il boogie”: lo chiama così, oggi, unfilm che racconta la sua vita, iniziataproprio cent’anni fa. Liberatore dallamusica dei liberatori. Ma dipingerlo co-sì e basta, come uno sciovinista, un tra-dizionalista, un nazionalista, è fargli iltorto più grande. Secondo Casadeisconfisse gli americani perché li capiva,li amava, perché la sua musica fu rivolu-zionaria come il jazz, sospetta come ilblues, trascinante come il soul.

“Lo Strauss della Romagna”, l’ha bat-

MICHELE SMARGIASSI La parola liscionon gli piaceva:“Io i ballerinili faccio volare,mica strisciare”

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L’uomo che feceballare il popoloal suono del sax

CasadeiIlprimo

VIOLINISTAL’OrchestraCasadeiin una fotodel 1957:Secondo èin primo piano,dietro di luila cantanteA destra, gli inizi,nel 1927:Secondo èal violino,con pianofortee sassofonoL’annosuccessivoil complessocresceràe prenderà il nomeche conservaancor oggi

SAVIGNANO

SUL RUBICONE

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no accigliate: «Tuo padre fa il mestieredel diavolo». Dov’erano finiti i balli castidei nonni, galoppe e monferrine, balli digruppo, quasi senza contatto fisico?Quei nuovi balli di coppia, i terribili tan-ghi stretti stretti, mentre qualcuno, nelcamaròn (la balera dei poveri) abbassa-va le lampade a carburo, e le mamme colbatticuore salivano sulle sedie a cercarenel buio le figlie perdute, quei balli sen-suali erano pericolosi per la moralità.«Poi babbo andò a suonare per la par-rocchia, e anche le suore battevano iltempo coi piedi».

Rivoluzionario, Secondo lo fu anche

perché di caporchestra come lui non sene erano mai visti. Scriveva le parti su mi-sura per i suoi solisti: come Duke Elling-ton distingueva Harry Carney da JohnnyHodges, così Secondo non avrebbe maiaffidato a Tugnàz lo stesso assolo di Poià-li, il mago del clarinaccio in do (strumen-to che esiste solo in Romagna, il clarinoclassico è in si bemolle), analfabeta mu-sicale ma capace di suonare qualsiasi co-sa dopo averla ascoltata, e dopo un bic-chiere di sangiovese. Dalle big band ame-ricane importò la prima cantante donnae il primo cantante di colore, ma soprat-tutto i leggii e le divise. Andava al cinema,a vedere i musical, solo per copiare. Poi acasa, cuciva. Tutti in marsina bianca, an-che nelle feste campestri: Secondo nonsopportava certi musicisti strapazòn,trasandati, veri avanzi di balera.

Aveva capito che per diventare grandibisogna sembrare grandissimi. La Lan-cia Lambda comprata usata dal Vaticano(quando le altre orchestre andavano an-cora a suonare in bicicletta) costava unpatrimonio, ma con il carrello al seguitoe il nome dipinto sulla fiancata facevauna figura da star. Marketing musicale,

altro che folclore. Aveva capito i media,usò i più moderni a disposizione, prima ildisco, poi la radio: e quando la Rai di Ber-nabei, sospettosa di ogni regionalismo,lo snobbò, lui si rivolse a Radio Capodi-stria, stesso rifugio dei teddy boysin cercadi proibiti rock’n’roll.

Fu proprio quella radio off-shore a re-galargli il colpo grosso: nel 1954 comin-ciò a trasmettere un «valzerino» che Se-condo aveva tenuto di riserva, e poi inci-so solo perché mancava il solista di unaltro pezzo. Lo aveva intitolato Casettamia, ma il direttore della Fonit Cetra, Di-no Olivieri, gli suggerì: «Lei è romagno-lo, maestro, la chiami Romagna mia». ASecondo brillarono gli occhi: aveva in-tuito tutto. Che era il momento giustoper creare la sigla della nostra “East coa-st”, l’inno nazionale della Romagna nonpiù anarchica e brigante ma accoglien-te e solare come un ombrellone, la co-lonna sonora del boom economico gua-dagnato in fabbrica e speso nelle pen-sioncine della Riviera, l’equivalentenordico di ‘O sole mio. Oggi è la quartacanzone italiana più ascoltata nel mon-do, dopo ‘O sole mio, appunto, Quandoquando e Volare. Ultima traduzione, unmese fa, in bielorusso. Un meccanismodi sapiente semplicità, nostalgia in mi-nore e gioia in maggiore, testo finto naïfin plastici decasillabi e ottonari, insom-ma un mix irresistibile per il manovalecome per l’avvocato e anche di più. Do-po una visita pastorale di Giovanni Pao-lo II a Ravenna, il cardinal Casaroli te-lefonò allarmato al vescovo Tonini: «Macosa avete fatto al Papa? Canta tutto ilgiorno Romagna mia...».

Nella villetta con la ringhiera di me-tallo e i nani musicisti in giardino, a Sa-vignano sul Rubicone, comprata coiproventi di quel valzerino innocente,Secondo continuò fino alla fine a scrive-re, nel minuscolo studio ingombro ditarghe, medaglie, souvenir. In piedi tut-ta la notte, tormentato dal diavolo deltre-quarti, ad aggiungere spartiti allecentinaia della sua lunga carriera, nuo-vi ballabili da suonare assieme al nipoteRaul, l’erede designato di un genere che,nonostante qualche segno di crisi, non èancora tramontato. «Riccarda, ho il maldi testa da tante musiche che ci sonodentro», rideva con sua figlia, «se succe-de così a me, come faceva Mozart?».

La sua composizione“Romagna mia”è la quarta canzoneitaliana più ascoltatain tutto il mondo

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 23 LUGLIO 2006

Il liscio è un mistero acustico. E antropologico. Ci sono momenti chequelle volute saltellanti di clarini e ottoni, quei “rattarattarà” stolta-mente allegri, ti suonano come il grado supremo del pacchiano in

musica. Giustamente eseguiti da musici in gilet argentato, con il sussi-dio di cantanti che si chiamano quasi sempre Luana e Sabrina.

Preso da altre bande mentali, o forse solo con diverso umore, il liscioinvece seduce per qualche sua perversione orientale, mezzo gitana: wal-zer e polke rubati dalle case dei signori e trascinati nella polvere di qual-che ballo di rione, e involgariti dal pernacchio stentoreo di qualche ot-tone suonato troppo forte, dal batter di tacchi forsennato di ballerini po-polari, gli anziani impomatati, le ragazzuole un poco soprappeso, mabelle sane.

Insomma che cosa sia davvero il liscio io non lo so. Non l’ho mai capi-to davvero. E quando, una ventina di anni fa, divampò il gran dibattito senelle feste dell’Unità erano più giusti i cantautori oppure il liscio, mi paredi essermi astenuto, perché ogni volta che sentivo il liscio uscire da qual-che radio privata cambiavo frequenza, ma ogni volta che vedevo popoloattorno alle orchestrine, specie le magnifiche coppie seniores che vol-teggiavano impettite e leggere, a decine, sfiorandosi ma mai urtandosi,capivo che quella musica era profondamente loro. Musica di operai e dimassaie, di pensionati e di segretarie, musica di territorio e di indigeni in-ventata e scritta e interpretata da loro stessi nei loro quartierini coi gera-ni proprio come oggi il rap nei quartieracci con la coca, o proprio comeieri certe rumbe da lungomare nei Caraibi. Mi spedirono anche a fare lacronaca dei campionati italiani di liscio, sotto un tendone in mezzo aicampi da qualche parte tra Mantova e Reggio, ci misi due ore a trovarlo epareva di essere nella puszta. Fu una cosa sublime. Dovete immaginarviuna ventina di Moire Orfei (le maestre di ballo), riveritissime, e centinaiadi cadetti tra gli otto e i quindici anni coi pantaloni neri attillati e la giac-chetta a fior di culo, con le dame tutte vestite con gonnellini e corpetti ditutti i colori del mondo tranne quelli normali. E scarpe lucide, brillantina,ombretti grevi sopra sguardi appena puberi, nonni vestiti da festa oppu-re padri in tuta da ginnastica con le mani gonfie di lavoro.

La velocità vorticosa dei movimenti dei ballerini faceva pensare piùalla prestanza atletica che alla coreografia. Mi impressionò specialmen-te, nella mazurca (o nella polka?) la gambetta che si alza all’indietro escalcia, in una specie di scalpitio selvatico, robusto, non molto estetico,segno che il liscio non si perde nelle bellurie e nelle mollezze borghesi, illiscio è una musica che si rivolge direttamente ai garretti.

Chissà, piuttosto, se non sia in qualche modo rimediabile la tragediavera delle canzoni “alla Casadei”, che sono, da sempre, i testi. Anni lucedai tanghi e dalle milonghe, da certi calipsi malinconici (la musica po-polare ha spesso parole eccellenti), per non dire dalle canzoni napoleta-ne, anche le meno “letterate”. Che bella cosa è na jornata ‘e soleè un ver-so bellissimo, e vale dieci volte l’intero testo (orribile) di Romagna mia.Ci vorrebbe qualche paziente scrittore di versi che, piegandosi umil-mente alle esigenze del “rattarattarà”, provasse a onorare la musica po-polare romagnola come merita. La Romagna ha grandi poeti come Bal-dini. Il liscio è ancora in cerca di autore.

Un mistero musicaleNote che suonano pacchiane eppure seducono

MICHELE SERRA

GIACCA NERAL’orchestraCasadeiin una foto del 1947Intorno, dischie spartitidel maestro

GLI APPUNTAMENTI

L’uomo che sconfisse

il boogie è il titolodel film documentariodi Davide Cocchidedicato a SecondoCasadei che andràin onda sul canalesatellitare HistoryChannelil 2 agosto alle 22Gli eventi organizzatinelle provincedi Forlì-Cesena, Riminie Ravennaper il centenariodella nascitaculminerannocon un Gran Galàa Savignanosul Rubicone il 27 luglio

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i saporiMenù d’Europa

Terra di eccellente tradizione culinaria, la Catalognaè diventata l’epicentro dell’alta gastronomia mondialenonché un grande laboratorio di ricerca per gli chefche hanno scalato la classifica delle guide dei ristorantiIl segreto di tanto successo? Mille ricette che coniuganosemplicità mediterranea ed estro internazionale

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 LUGLIO 2006

FideuaNella rivisitazione catalana

della paella valenciana,

il riso viene sostituito

con degli spaghettini tagliati

corti (fideua, o fideos

in castigliano). Molto

apprezzata anche

la versione di mariscos

ai frutti di mare e crostacei

ZarzuelaSuperzuppa di pesce

che ha il nome della “danza

lirica”. I pesci vengono fritti

singolarmente, così come

la cipolla. Nella pentola,

si mescolano anche pesto di

mandorle, prezzemolo,

aglio, e le cozze al vapore,

prima di gratinare

PicadaSalsa-base della cucina

catalana, con la xamfaina

e l’allioli , ha come

protagonista le mandorle,

tostate e pestate

con i pinoli. Mentre si

emulsiona con extravergine,

si aggiungono prezzemolo,

zafferano e cannella

Pan con tomateIl pa amb tomàquet

(o pantumaca) è alla base

di antipasti e spuntini

Il pane appena raffermo

va passato in forno

sfregato con pomodori

e condito con olio e sale

Si serve con prosciutto,

salame, formaggi, alici

itinerari

Testimone storica della cucina mar

y mont della regione, la Gerunda romana,nata alla confluenza di due fiumi, tra costae colline, vanta una grande tradizionegastronomica. A caratterizzarla, la fusionecon piatti provenzali, pirenaici, valenciani

DOVE DORMIRECIUTAT DE GIRONA Nord 2Tel. 0034-972.483038Camera doppia da 135 eurocolazione inclusa

DOVE MANGIARECAN ROCAContrada Taialà 42Tel. 0034-972.205119Chiuso domenica, menù da 25 euro

DOVE COMPRARECARNISSERIA PINEDA Calle St. Joan Bosco 86 Tel. 0034-972.207283

GironaUn sognante borgo di pescatori, ritrovostorico di ribelli e routard di tutto il mondo, diventato famoso per la dimora di Salvator Dalí, nella vicina baia di Portlligat. La secolare produzionedi acciughe è di qualità assoluta

DOVE DORMIREPLAYA SOLPianc 3Tel. 0034-972.258100Camera doppia da 112 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREES BALUARD Riba Nemesio Llorens 2Tel. 0034-972.258183 Senza chiusura estiva, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREPESCHERIA MEDINA PARRA Calle Cartitat Serinyana 14Senza telefono

CadaquésConcluso l’anno da città mondiale della gastronomia, gli addetti ai lavori già si interrogano sulla cucina che verràPerché qui, come in nessun altro luogo,tradizione e innovazione si rincorronopromuovendo un’offerta varia e altissima

DOVE DORMIREBANYS ORIENTALSCalle Argenteria 37Tel. 0034- 93.2688460Camera doppia da 105 eurocolazione inclusa

DOVE MANGIARECOUREPassatge Marimón 20 Tel. 0034-93.2007532Chiuso lunedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREMERCAT DE LA BOQUERIARambla 89Tel. 0034- 93.3182584

Barcellona

Il catalano Francesc Sosa gestisce un’azienda di prodottiper pasticceria, che serve oltre 1.500 ristoranti spagnoli. Tiene corsidi tecnologia dei sapori e memoria gustativa a BarcellonaÈ un appassionato conoscitore della cucina popolare

Mare e montil’inventiva

degli oppostiLICIA GRANELLO

In principio fu El Bulli, il ristorante-laboratorio che ha fatto del-la Catalogna l’epicentro dell’alta cucina mondiale. Succedevavent’anni fa. Fino ad allora in Italia l’aggettivo catalano in ver-sione gastronomica si accoppiava a una zuppa di crostacei, al-la crema cotta, e al mitico pan con tomate, termine valido pertutti i menù spagnoli, ma che milioni di turisti hanno imparato

a conoscere come pa amb tomàquet sulle spiagge della Costa Brava.Poi venne Ferran Adrià, che aveva mandato a memoria i testi sacri

della cucina regionale, ma — fulminato dalla teoria del grande cheffrancese, Jacques Maximin, sulla necessità di creare e non copiare —aveva deciso di inventare una cucina diversa, «dove l’unico limite perlo chef, una volta acquisita una tecnica perfetta, fosse la sua fantasia».

Da allora, la cucina catalana ha subito evoluzioni e accelerazioni in-credibili, che l’hanno fatta crescere nelle classifiche dei gourmet, tan-to da indurre il boss delle guide Michelin Jean-Luc Naret a preconiz-zare una Guida Rossa monodedicata alla Catalogna. Del resto, nellasola Barcellona le “stelle” assegnate sono 11 (più del doppio di Mila-no), mentre nel raggio di una manciata di chilometri si contano tre su-perlocali tristellati, Bulli, Sant Pau, Racó de can Fabes, destinati a di-ventare quattro in novembre, con la promozione annunciata dellostrepitoso Celler de can Roca.

El mar y la tierra, dicono i castigliani. Mar i mont, chiosano nell’en-clave catalana. Proprio come in Sicilia, carne e pesce sono le stelle po-lari di una cucina che da sempre ha scelto di non scegliere tra botifar-ra e anxoves, llonganissa e bacalao, assemblando proteine, tanto di-verse e apparentemente in contrasto, con i gusti mediterranei — er-be, verdure, oli, vini — miscelati alle spezie.

Su questa cucina “calda”, popolare e sensuale, Vasquez Montalbanha costruito uno dei suoi libri più amati. Nelle Ricette immorali, i piat-ti catalani diventano irresistibili strumenti di seduzione. E poco con-ta il lusso delle materie prime. Anzi, la gastronomia povera è conside-rata uno stimolo prezioso, se è vero che Adrià ha realizzato ricette in-dimenticabili con il grasso del prosciutto crudo, la pelle del pollo, la li-sca dell’acciuga, giù giù fino alle orecchie di coniglio reinventate a cial-da croccante… Tutti frammenti di gusto esposti alla Boqueria, il me-raviglioso mercato di Barcellona, di fronte al quale Adrià ha aperto ilsuo atelier di ricerca: «Per avere a portata di mano i migliori prodottidella mia terra». E nelle pause del lavoro va a trovare i suoi amici di Pi-noxo, storico banco dove un pa ambtomàquetnon si nega a nessuno.Tanto meno al più famoso cuoco del mondo.

cucina

Catalana

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 23 LUGLIO 2006

Crema de San JosefLa crema catalana

viene preparata il 19 marzo

(San Giuseppe)

Le donne cucinano

il dolce e lo servono

in coppette di terracotta,

caramellando lo zucchero

con un ferro rotondo

incandescente

EscalivadaIl trionfo delle verdure

mediterranee passa

dal forno, dove si

arrostiscono cipolle,

peperoni e melanzane

Una volta raffreddate,

si sbucciano e si tagliano

a listelle. Condite con olio

e sale, si servono tiepide

EmpanadillasLa ricetta dei tortelli catalani

è a base di acqua,

burro, olio bolliti

con aggiunta di uova

La sfoglia viene farcita

con salsiccia, verdure,

pesce, formaggi locali

(Brossat e Matò). Si friggono

e si mangiano caldi

RomescoSalsa tipica di Tarragona

e di origine gitana, tanto

celebre da vantare veri

specialisti , i romescaires,

che la propongono in molte

varianti. Alla frutta secca –

mandorle, nocciole –

si uniscono olio, aglio

e peperoni piccanti

BotifarraLlonganissa

EscudellaEsqueixada

Suquet de peixAlbergìnies

Boles de PicolatAnxovesAmanidaCarbassò

SalsicciaSalameMinestra di cavoloBaccalà con peperonata

Zuppa di pesceMelanzanePolpette al pomodoroAcciugheInsalataZucchine

Glossario

I migliori annidella nostra vita

La nuova stagione dei cuochi

JOAN ROCA

La cucina che mi ha nutrito ha sapo-ri storici: tenerezza, dedizione, pa-zienza. Sono fondamenti che conti-

nuano a vivere nella trasmissione che av-viene da una generazione all’altra. Mi in-teressa il peso della storia e lo stato evolu-tivo della cucina, che cambia, che si adat-ta e che io ho imparato ad apprezzare damia madre e da mia nonna.

La cucina catalana, oggi, sta vivendo ungrande momento, probabilmente il mi-gliore della sua storia. Il culto della ga-stronomia, l’influenza mediatica, il rigo-re tecnico, la facilità nell’ottenere le ma-terie prime da ogni angolo del mondo,l’incontro con la singolarità (in mezzo atanta globalizzazione), l’influenza vitaledei grandi cuochi che hanno infrantovecchi modelli, Ferran, soprattutto; Fer-ran, amico e mago ammirato, un genioindiscutibile.

La rivoluzione gastronomica, non cre-do che sia una cosa di territori: FerranAdriá ha segnato un prima e un poi nellagastronomia d’avanguardia, ma è anchevero che la sua area d’influenza si è vistafavorita dalla sua esplosione inventiva.Comunque, la Catalogna ha sempre sa-puto sfruttare le risorse gastronomichenel corso della sua storia.

A nessuno può sfuggire che questa ter-ra fu pioniera nella nobile arte scritta del-la gastronomia: il Libre de Sent Sovi, il Li-bre del Coch di Robert de Nola, cuoco an-che del re di Napoli, nel secolo XVI, che giàdimostra la ricchezza di sfumature spe-ziate di questa cucina vicina ai porti me-diterranei... A Barcellona come a Venezia,Napoli, Genova, giungevano i primi pro-fumi della calda cannella, il pepe, lo zen-zero.

La Catalogna ha indicato la strada ga-stronomica abbeverandosi a tante in-fluenze. È una cucina ricettiva che assor-be gli ingredienti nel corso del tempo edecheggia le sue meraviglie climatiche e lasua diversità geografica. È una cucina chesi muove in diversi paesaggi, come dice-va il noto scrittore catalano Josep Plà: «Lacucina è il paesaggio nella casseruola».

Oggi, la Catalogna si sente sicura, forte,viva, grata. Il corso della storia le ha datouna dimora solida, il tempo vissuto l’haarricchita e ha saputo adattare e far suoiprodotti che le erano assolutamenteestranei nella cucina antica e medievale.Il pomodoro, ormai imprescindibile inCatalogna con tutte le sue varianti, daquello crudo, pa amb tomàquet (pane epomodoro), a quello cotto, alla base del-la cucina catalana sofregit (pomodorosoffritto con cipolla), e la melanzana, og-gi indiscutibile nella escalivada (verdurearrostite servite fredde con olio d’oliva), ilpeperone nella xanfaina, l’aglio nell’al-lioli e suoi derivati e nella picada, una sal-sa che riassume il carattere agglutinanteed esaltatore di sapori della nostra riccacucina. Il cioccolato, anch’esso portatodalle Americhe, dà un sapore barocco al-le picadas in una combinazione di dolce esalato che crea un marchio singolare, pa-trimonio della nostra cucina.

Sicuramente, questa combinazione didolce e salato, come anche quella di ma-re e montagna, aprono la strada alla li-bertà creativa. Sono due pilastri concet-tuali che spalancano le porte all’immagi-nazione, alla diversità, al gioco, all’inte-grazione di elementi diversi che dannosolidità all’evoluzione innovatrice.

Viviamo in un’epoca brillante, in cui unFerran Adrià, accompagnato da un’équi-pe incredibile, porta avanti il carro del-l’innovazione gastronomica non solo ca-talana, ma mondiale.

Che cos’è cambiato in Catalogna? C’ètanta gente che pensa in libertà, sapendodi avere un passato con grandi radici cul-turali. Grazie a chi si proietta verso il futu-ro lasciandosi aiutare dalla tecnica, dal-l’innesto della scienza nella nobile artedella cucina, dalla ricerca a livello di strut-ture, dall’apprezzamento dei prodottipiù umili e dalla ricerca dell’emozione aldi sopra di tutto, oggi possiamo parlare diun nuovo movimento culinario in Cata-logna.

Come dice Pau Arenós, autore del libroLos genios del fuego, autentico manifestoculinario, la tecno-emozione è il sapersfruttare la tecnologia per suscitare la piùprofonda emozione. Come se la cucinafosse poesia. E come disse il letterato: unapoesia non si finisce, si abbandona.

L’autore è chef patron, con i fratelliJosep e Jordi, del “Celler de Can Roca”,

due stelle Michelin a Girona(traduzione di Luis E. Moriones)

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le tendenzeDesign da tavola

È tempo di drink, alcolici e non, da gustare insieme agli amici,nel calice colorato, nel classico boccale o nel più raffinato tumblerPerché anche l’aperitivo o il dopocena d’estate possono trasformarsiin occasione per mostrare l’oggetto più antico del mondo. Magarigriffato o soffiato a bocca da uno dei grandi maestri vetrai

A CIASCUNO IL SUOPer non confonderei bicchieri durantegli affollati aperitivi

in piedi, i calicidi Geneviève Lethu

OCCASIONI SPECIALIDalla tradizione argentiera

di Giovanni Raspini un calicedalla lavorazione complessa:

vetro “plissettato”e stelo preziosissimo

COPPIA DI MODAGucci e Martini,

quintessenza trendy perchi è sensibile alle modeIl bicchiere che esibisce

l’ambita doppia G

Le Casalinghe disperate bevono dasole. Ma poche cose sono più ma-linconiche di un drink solitario chespesso è lo spettro che terrorizza ilbenessere americano: non si con-tano i newyorkesi che, prima delle

sei del pomeriggio, si proibiscono di conceder-si anche solo mezzo flute di champagne. Per for-tuna in Italia si preferisce sempre più spesso sor-seggiare insieme o, in alternativa, non bere. Ebere insieme è diventata ormai una febbre chetrasforma le città in formicai di gente che bruli-ca dall’happy hour all’aperitivo, dalla cena al-l’after hour, le labbra che alternano di continuola parola e il bicchiere. La consuetudine sidiffonde rapidamente e si allunga dal pomerig-gio alla tarda notte. Ed è proprio questo poteredi occupare il tempo che ne fa una tendenza. Insé, l’abitudine non è infatti una novità.

Nel Simposio di Platone, stiamo parlando del

IV secolo avanti Cristo, bere e parlare diventanole armi di una sfida oratoria sul tema dell’amo-re, anche perché nell’antica Grecia molti crede-vano che una moderata ebbrezza — talvoltaneanche tanto moderata— potesse condurre a luci-de intuizioni, precluse allasobrietà. Con tanta storia egloria alle spalle, è inevita-bile che i momenti dedica-ti al bere sociale siano sem-pre più definiti e differen-ziati. E le differenze non ri-guardano solo quando sibeve, ma anche che cosa sibeve e in quali bicchieri. Inuna giornata sempre piùserrata intorno all’orario di lavoro, con la pausapranzo a rischio di estinzione, si finisce per sta-re con la compagna, gli amici e i figli nell’ultimoquarto quotidiano, dalle diciotto alle ventiquat-tro. Sei ore o poco più su cui si compie un im-

portante investimento emotivo. Il bicchiere di-venta così il catalizzatore che scatena tempestechimico-affettive, apre e chiude liaisons senti-mentali e storie di sesso, scongiura crisi coniu-

gali oppure ne decretal’eutanasia, sostiene l’esilefilo della comunicazionetra genitori e figli che siostinano, o almeno cosìsembra, a usare codici di-versi. I momenti del beresono sostanzialmente tre:prima di cena, cena e do-pocena, cui si può aggiun-gere il quarto, occasionale,spesso nei fine settimana,delle feste, dei party, delle

bibite fra amici. Declinati all’interno di questi momenti, e

distinti per bevande, si affollano i bicchieri,che diventano oggetti iperspecializzati, dal-l’elevato contenuto tecnico, come i bicchieri

da vino di Riedel e di Bormioli Rocco, di raffi-nata fattura o il bicchiere da sake di Lalique oCubik di Villeroy&Boch, di spudorati conno-tati ludici: i pois di Ichendorf, le citazioni di di-segni infantili della serie Kids Leonardo. Equalche volta, inventano o reinventano inchiave trasgressiva, spesso per premiare i gio-chi cromatici. Come interpretare diversa-mente, infatti il flute colorato di Philippe De-shouliers, che impedisce di valutare le sfuma-ture e le nuances dello champagne, o i bic-chieri da vino a tinte forti, dove l’esteta delladegustazione, privo di humour, si rifiuterà dibere, e che invece l’eclettico proporrà agliamici, magari per fare del vino che offre lorouno scherzoso indovinello. E i gentiluominiche amano farsi asservire dalle mode, adesso,possono scegliere il calice verde di Christofleper bere a piccoli sorsi l’assenzio e passare ilpomeriggio a discutere sui suoi colori possibi-li: ovviamente il verde, ma anche il giallo, il vio-la, o la più lucida e spartana trasparenza.

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 LUGLIO 2006

AURELIO MAGISTÀ

Il bere è diventatoun fenomeno socialema è anche cresciutoil piacere di scegliereil contenitore perfetto

SOTTO MENTITE SPOGLIEMalgrado forma e colore

particolari, sono flûte creatiper lo champagne

Di Philippe Deshoulièresper Haussmann

PREVEDIBILE TÊTE À TÊTEAperitivo per due

Si comincia così, con i flûtein cristallo e argentoprogettati da Adam

D. Tihany per Christofle

ADESSOOSSIGENAZIONE Il decanterperfettamentetrasparenteper valutare il coloredel vino, ha il tappodiffusoreche ne acceleral’ossigenazioneDi Blomus

LEGGEREGEOMETRIEVetro soffiatoper il flûtedella collezioneGlamourdi DominoParticolarità:bocca e basehanno formaovale

Bicchieri Voglia di brindarenella forma giusta

Aperitivo

VINO MA CON BRIOChe contengano un bianco o un rosso,è indifferente. I calici Gallery dipingono

ogni vino a tinte pastello. Di Geneviève Lethu

Cena

ORE LIETE IN COMPAGNIANel nome, una promessa:“happy hour” preludeai brindisi tutti insiemeIl calice da vino biancoè prodotto da Guzzini

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«Trasparean come festuche in vetro». Così ap-paiono a Dante le anime dei traditori nell’ulti-mo canto dell’Inferno. Condannate ad una ine-

sorabile visibilità che illumina la loro colpa. Rendendolaassolutamente trasparente.

E del mistero della trasparenza il vetro è al tempo stes-so il mezzo e il simbolo. Proprio perché rende visibile ciòche altrimenti resterebbe nascosto. Come la colpa dei tra-ditori. E come il vino nel boccale. Lo dice la parola stessavitrum, che deriva dal latino videre, e significa letteral-mente «ciò che permette di vedere attraverso». È questo ilsegreto del vetro, la sua capacità di dissimulare se stessoconsentendo di guardare ciò che sta al di là.

Una dissimulazione che si identifica con la lunga storiadel vetro, con il suo cammino progressivo verso l’invisibi-lità. Dalla trasparenza sporca e opaca delle bottiglie che imaestri vetrai siriani cominciarono a soffiare millecin-quecento anni prima di Cristo, alla traslucenza quasi im-materiale dei nostri cristalli senza riflesso. Una distanzasimile a quella che separa il suono carico di impurità dei

primi dischi, pesantemente carichi di materia, dalla pu-rezza cristallina dei Cd.

È proprio grazie alla sua trasparenza che il vetro è dasempre emblema, di chiarezza, di visibilità, di moralità.Insomma di virtù “specchiate”. Basti pensare a quellache Gilles Deleuze chiamava l’immagine-cristallo, ovve-ro l’idea di una visibilità totale che influenza profonda-mente l’arte, la morale e la politica del nostro tempo. Dal-le architetture diafane di Mies Van Der Rohe e di BrunoTaut al Grande Vetro di Marcel Duchamp, fino alla tra-sparenza esibita dei moderni santuari del potere. Comeil cosiddetto Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, dove igiochi delle diplomazie internazionali si svolgono sottogli occhi del mondo, almeno in apparenza. In ossequio aquell’imperativo della trasparenza che è la vera cifra del-la modernità. E del suo spirito politico che di parole co-me glasnost (trasparenza) — che negli anni Ottanta fu ilmantra della perestroika sovietica — ha fatto una delleicone della democrazia. La cui superiorità sta tutta nelrendere visibile ciò che prima era nascosto nei meandri

oscuri di un potere opaco. Insomma la trasparenza è uno stato superlativo del-

la visione. Perché non si arresta alla superficie ma ne at-traversa il corpo, dando la sensazione di una miglior co-noscenza e soprattutto di una superiore intelligenza.Come accade con quei calici sottili di cristallo purissi-mo che ci fanno riconoscere fino in fondo tutte le qua-lità di un vino, e non semplicemente il suo colore. La vi-sione diventa così l’acceleratore di tutti gli altri sensi.Impedisce all’olfatto e al gusto di brancolare nel buio,di diventare ottusi. Come capita invece quando bevia-mo in un bicchiere colorato. Quella semiopacità ciconfonde, manda fuori strada in un sol colpo le nostrepapille e le nostre pupille.

E non è per caso che un genio come Mozart tocchi ilmassimo della trasparenza musicale nei pezzi per glassharmonica, lo strumento inventato nel 1761 da Benja-min Franklin, fatto proprio di bicchieri di cristallo. Conquesta materia diafana Amadeus compie una grandemagia. Ci fa ascoltare il suono della luce.

E con il vetro l’uomo imparò a guardare aldilà delle coseIl mistero della trasparenza da Dante Alighieri alla glass harmonica del geniale Mozart

MARINO NIOLA

NON SOLO LATTEAnche i bambini, piccolidittatori delle famiglie

di oggi, pretendono bicchierisu misura. Ci ha pensato

Leonardo con la serie Kids

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 23 LUGLIO 2006

SQUADRATO CON FASCIAApparenza semplice

ma lavorazione artigianale:fascia in pasta di vetrocolorata nel bicchiere

Cubik di Villeroy&Bosch

TRAMONTO D’AMBRADue gli elementi distintivi

del bicchiere VorticeBormioli Rocco:

l’altezza fuori categoriae l’intenso color ambra

SAKE DELLA SAGGEZZACreato apposta per il sake,riporta una civetta, simbolo

della saggezza, dotenecessaria al buon bere

Una raffinatezza di Lalique

OCEANICO BLUPer i long drink estivi, che devono prima di tutto

dissetare, il capiente bicchiere Ocean,distribuito da Caraiba per Spiegelau

Dopocena

Party

PIC NIC SULL’ERBAPer antichi déjeuner

sur l'herbe o moderni pic nic,il bicchiere con decori

a motivi cachemiredi Sia, anche bianco o rosa

AMICI MIEIUn whisky

e due chiaccherecon gli amici

è il classico ritodel dopocena

Megliocon il tumbler

antiscivolodi Bormioli Rocco

AMARO PER TENDENZAVerde come l’assenzio,che è tornatoda qualchetempo di gran moda,il calice lavoratoa stelo lungoRoemer di Christofle

FLÛTESpecialeper champagnee spumanti secchiPermettedi osservareil perlage

Ma per gli spumantidolci è megliousare la coppa

BALLONSi usa per servirei grandi distillatida meditazionetipo cognac,calvados, brandyLa formaè pensataper non disperdernei profumi

TUMBLERNella versione bassa(di formato medio)si servono i drinkcon ghiacciocome il whiskye soda. Il tumbleralto è ideale per doppio whiskye long drink

TULIPANOPrende il nomedal fiore di cuicopia la formaÈ adatto ai vinibianchi leggeri,ma nel formatopiù grandeè perfetto ancheper la birra Pils

POUSSE CAFÉUsato per lo piùper servirela vodka,può essere utilizzatoper distillati e liquorisecchi o dolci, tipolimoncello. Ancheper amari da gustarefreddi

SHORT DRINKA forma di conorovesciatocon piccolo stelo:è la coppa short

drink più notacome bicchiere“da Martini”Per bevandemiscelate corte

MENTA DI NOTTEIl bicchiereper mojitodi Riedelricorda l’ecodelle lunghe notticubane passatea danzarea ritmo di salsa

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 LUGLIO 2006

l’incontroArtisti fuori schema

MILANO

Non vedevo Capossela daitempi dell’album Canzo-ni a manovella. Più o me-no cinque anni fa. Era sta-

to un incontro fugace, quasi senza pa-role, davanti all’imbarazzo di un ascen-sore che tardava a raggiungere il piano.Era una notte dopo San Siro, avevanogiocato non so più quale partita di pal-lone e per Vinicio il calcio è sempre co-me Natale.

Lui stava con la schiena appoggiata aun muro, vestito di scuro come il buiofuori nel quale il suo spirito di clandesti-no forse sperava di andare a nasconder-si in fretta. Indossava un mezzo cilindronero schiacciato sulla testa, una giaccadi due misure più ampia e lo sguardo dichi, come dice una delle sue ultime can-zoni, aveva appena fatto un tuffo a piedipari nella vasca del Campari. Ne erauscito miracolosamente vivo e pieno diincanto. Lo ricordavo non grasso, mapaffuto sì, come quei giovani uominiche la routine arrotonda prematura-mente perché hanno smesso di insegui-re qualcosa o qualcuno, anche soltantose stessi. Oggi lo ritrovo prosciugato.Magro, più lungo della sua statura, labella faccia da hidalgo affilata come unalama, i capelli un po’ più radi lanciati co-me torpedini nell’aria. I suoi occhi sonointelligenti. Sono occhi tristi e buoni.Parla con un certo affanno, come se il re-spiro fosse affaticato dal peso dei pen-sieri che è costretto a trasportare.

È in atto in lui una trasformazione, unadelle tante. Questa, appare chiaro, è unadi quelle che lo stanno consumando. «Sidice che ogni ventinove anni si ricomin-cia da capo…». La sua cabala è troppostramba per illudersi di ricomporre lasciarada dei numeri e delle date. Bisognaaccontentarsi di sapere che è giunto ilmomento. E basta. Capossela ha qua-rant’anni. «L’età in cui si inizia a non fa-re. Dopo i quarant’anni ci si può final-mente risparmiare qualcosa e occupar-si solo delle cose che ci interessano dav-vero. Gli eroi della mia gioventù si butta-

dal quale farsi permeare, dove lasciarsicrescere la muffa addosso, e dal qualepuoi tornare indietro con le tavole dellalegge o con due locuste. Ma come va a fi-nire è sinceramente la cosa meno im-portante».

Bob Dylan canta Black Diamond Bay.La verità è che Capossela non può fuggi-re da sé. E infatti eccolo ammettere cheforse è stato proprio lui il maggiore osta-colo a una vita diversa. Prendiamo, peresempio, il mezzo del viaggio. L’auto-mobile. «Ho una vecchia Saab 900 de-cappottabile del ‘94 che ha sempre sulrosso le spie della benzina e della tempe-ratura. Mi affeziono alle cose, mi piace ri-pararle e quando mi allontano definiti-vamente da loro non riesco a raggiun-gerne delle altre». Ci sono uomini spez-zati che nessuno ripara più e che parto-no per viaggi di soli ritorni. Cercano unposto, sempre lo stesso, accarezzano or-me di persone uniche al mondo transi-tate come comete, quindi impossibili daincontrare una seconda volta nell’arcocorto di una vita. Sono uomini dolenti ericchi. Consapevoli che non ci può esse-re una vita senza dolore.

Bob Dylan canta Sara. I vecchi già losanno e anche gli alberghi tristi, cantainvece Capossela. «La sofferenza piùgrande che la vita infligge agli uomini èla separazione durante il loro percorsoesistenziale. Separazione dalle perso-ne, dai luoghi, dalle età. È una ferita che

vano in imprese che mi terrorizzavano.Erano sulla fiamma. Con la mano sulfuoco parlavano del fuoco. Grandi viag-gi, matrimoni, figli. E magari a trent’an-ni avevano già mandato tutto a puttane.Io me ne stavo a casa, buono buono. Misentivo inadeguato, tagliato fuori. Ho unamico, Giorgio Bettinelli, che ha giratotutti i continenti in Vespa. Da un po’ ditempo penso a lui con invidia perché ionon ho dedicato la mia vita all’andare,ma all’artificio. Mi mancano tutte le stra-de che non ho percorso. Sarebbe ora cheseguissi la legge del mio benzinaio. Ungrande saggio. Mi raccomanda sempredi ricordare che la vita ci ingravida e lastrada ci adotta».

In strada c’è stato anche questa matti-na, era la strada del suo quartiere. È rien-trato all’alba da un concerto. Ha fatto laspesa: un melone, pomodorini, pro-sciutto crudo, una focaccia «per ungersiun po’ le mani», qualche bottiglia diOberdorfer «perché la birra è diurna». Ilvino, immagino, notturno. Caposselaabita dietro la Stazione centrale di Mila-no. Via Scarlatti, primo piano. È una ca-sa d’ombra e di arredi sghembi, non si af-faccia su grattacieli, mari, guglie e ma-donnine. La sua unica vista sono le voci.Voci straniere che arrivano dai balconivicini attraverso una tenda verde solle-vata per metà. Ci vuole poco per scopri-re il trucco della poesia, l’orizzonte lon-tano sulla linea del quale si distende unpanorama all’apparenza così angusto. IlMedio Oriente, l’Africa, la Cina. Serve so-lo un po’ di orecchio. Su una parete delsuo studio — vecchio tavolo tarmato, te-levisore abbandonato sul pavimento,maschere, mostri e semidei che occhieg-giano da diverse altitudini — ha appesola mappa dell’Impero romano all’apicedella sua gloria. Anche quello era il mon-do. Nei giorni scorsi ha saccheggiato unsopravvissuto negozio di vinile e com-prato un nuovo giradischi Marantz persostituire il caro estinto della Technics.

Sono le due del pomeriggio, la focac-cia unge le dita e Bob Dylan canta Ro-mance in Durango. Capossela indossauna camicia scozzese a quadri rossi e blue una canottiera bianca da muratore conqualche buco sulla pancia. Proprio unacanotta infeltrita da muratore, non diDolce e Gabbana. «Ogni stagione ha lasua musica», dice. «Se la mia prossimastagione sarà quella della partenza, co-me tanto mi auguro, e se significherà la-sciarsi alle spalle qualcosa, allora sce-glierò i Rolling Stones, Dylan, Mark Ri-bot, Howlin’ Wolf. Li terrò con me. Mi hasempre affascinato la frontiera.Quand’ero piccolo il mio mito dei fu-metti era Ken Parker di Berardi e Milaz-zo. Mi riconoscevo nelle sue avventure,incarnava il mio immaginario ideale.Più tardi ho inseguito le affinità paesag-gistiche che uniscono la tragedia greca,il niente sotto il sole di Edipo, e il cinemawestern, ma anche gli sterpi sassosi del-le periferie romane. Sono un visionarioche ha bisogno di un suo deserto per es-sere più virilmente visionario, un luogo

resta aperta tutta la vita e che potrà gua-rire solo con il riposo, soltanto allora ladistanza si colmerà. Non so dare unadefinizione univoca alla parola dolore.Credo sia una forza d’attrito, la resi-stenza dell’uomo ai cambiamenti. Ildolore viene provocato da una frattura,dalla non coincidenza di qualcosa, è ilnostro essere incapaci di armonizzarela discontinuità».

I dolori di Capossela galleggiano comerimpianti tra i flutti della memoria. Luidice che a volte sono balene che vengo-no su a respirare poi si inabissano percentinaia di chilometri. Risalgono es’immergono in continuazione. L’amo-re, per esempio. L’amore lo ha fatto spo-sare. Una volta. Sembra tanto tempo fa.Non è andata bene. Davanti al suo silen-zio si può soltanto immaginare. «Dove-vo diventare migliore per lei e grazie a lei,non ci sono riuscito. Oppure ha sempli-cemente ragione chi sostiene che la vitaè bellissima, poi ci si sposa». L’amore ungiorno lo ha preso per mano e l’ha ac-compagnato a Milano dopo Hannoverdov’è nato e Scandiano dov’è cresciutoragazzo. Il disamore, o l’amore che restain forma diversa ma non per questo me-no struggente, lo tiene ancorato qui, trala Padania e l’Africa, nell’illusione di unaltro ritorno che probabilmente non av-verrà. «Hanno deciso per me l’inelutta-bilità di una passione e l’ineluttabilità diun’assenza. In età adulta le richieste neiconfronti dell’amore diventano più po-tenti e anche più annichilenti. Più alta èla vetta più ci fa male il tonfo».

Mi viene in mente ancora una sua stro-fa. Ma resta monca. A un certo punto ri-cordo che dice: la polvere sul cuore. Vini-cio mi viene in aiuto: «La polvere è il sim-bolo concreto della nostra caducità. Il la-voro della polvere è l’unico che non co-nosce soste. Tutto nasce e muore nellapolvere. E nessuno ricorda i nomi dei pri-mi né di quelli che verranno. La vita mi hadato un dono e in cambio mi ha chiestodi pagarle pedaggio. Mi ha riempito la te-sta di cose da raccontare e come con-trappasso mi ha diviso in una moltitudi-ne, mi ha frammentato in tante persone.Così cerco di curarmi degli altri, ma miaccorgo che si tratta di una cura limitata».

Dylan canta Hurricane. Caposselaracconta dell’amicizia. «È il sentimentoche ha occupato più posto nella mia esi-stenza fino ad adesso. L’amicizia è em-patia, è simpatia, è riconoscimento. Puòlimitarsi a un episodio più o meno lungooppure diventare un lusso quando rie-sce ad assumere una dimensione epicacome quella di Robert De Niro e JamesWoods in C’era una volta in America diSergio Leone. E durare dall’infanzia allamorte». Chi meglio di un pittore di sol-datini di piombo poteva incarnare l’epi-ca di Capossela? Eppure è così, il suoamico del cuore pittura le divise di fan-ti e granatieri, di lanzichenecchi e ge-nerali. Tutto Napoleone in un bottone.«Nel suo mestiere è il più bravo dell’u-niverso. Due qualità su tutte: la gran-dezza in una miniatura e un matrimo-

nio un po’ più serio del mio». Dylan canta Isis. Capossela preferisce

scrivere che cantare. Per due anni, nel2003-2004, fino a quando da Feltrinelli èuscito il suo libro Non si muore tutte lemattine— un multistrato, lo definisce lui— non ha fatto concerti. «Io sono unoscrittore, divento un cantante quandoavverto il bisogno di dare una formapubblica ai miei versi. Ho pensato che ungiorno non canterò più. Il mio desideriopiù grande e anche un po’ mancato è diavere un barrio dove anche le stelle sullecase dei miei vecchi mi diranno: fermatiqui. Sono fantasmi che ho così forte-mente immaginato che li ritrovo anchese non esistono».

Il suo viaggio è ipnosi, gli piacciono leombre cinesi e le porte a vetri degli anniSessanta dentro le quali ciascuno vedeciò che preferisce immaginare. È la Bib-bia senza Terra promessa. È Ulisse sen-za la sua Itaca. Viaggia per tornare, manon sa ancora qual è il luogo che lo staaspettando. Dylan canta One more cupof coffee. Capossela conferma che nelsuo futuro vorrebbe un po’ più di realtà eun destino normale, ma i suoi fantasmibuoni continuano a tirarlo verso i lorolenzuoli e le sue visioni. «Il mio prossimolavoro sarà nelle terre delle mie origini, lavalle dell’Ofanto. Si chiameràIl disco del-la Cupa, saranno canzoni buie, agresti eselvatiche. Di volpi, di lune e di sortilegi».

Più tardi, si vedrà. «L’importante è sa-pere che la biga è meglio del pulpito, chei profeti sono sempre a portata di manoe che i mariachi si possono ancora in-gaggiare a prezzi ragionevoli quando silitiga con la propria donna o ci si ubriacamale». A vent’anni si è malati di realismo,diceva Pasolini, a quaranta si è più visio-nari e si ha maggior pudore nell’abban-donarsi alla malinconia delle cose per-dute, delle case non edificate, dei figlinon partoriti, degli alberi che non si so-no piantati. «Oggi tutto è una famiglia»,dice Capossela, «anche quattro naufra-ghi su una zattera». Il ragazzo dal cerchiospezzato forse tra ventinove anni, maga-ri prima, ricomincerà da capo ancorauna volta. E forse, finalmente, smetteràdi costruire i suoi muri sulla sabbia peravere a tiro l’onda. O forse no.

La sofferenzapiù grandeè la separazioneDalle persone,dai luoghi, dalle etàÈ una ferita che restaaperta e che guariscesolo col riposo

Il cantante-poeta di “Canzonia manovella” sta conoscendouna delle sue tante trasformazioni:“Dopo i quarant’anni”, dice,“ci si può finalmente occupare solo

di quello che ci interessa”Vorrebbe “andare”,percorrere strade, maammette che forse è statoproprio lui il maggioreostacolo a una vitadiversa. Poi annunciail suo prossimo lavoro:

“Sarà nelle terre delle mie originiCanzoni buie, agresti e selvatiche, di volpi, di lune e di sortilegi”

DARIO CRESTO-DINA

Vinicio Capossela

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