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Il SSN e il cittadino La domanda di salute e le risposte del SSN Nel delineare l’articolazione generale dei vari settori del Servizio Sanitario Nazionale, e quindi le risposte che vengono offerte ai bisogni di salute dei cittadini, è bene premettere alcune considerazioni che riguardano le trasformazioni che la salute degli italiani ha subito negli ultimi anni: l’evoluzione demografica, così come le mutate condizioni economiche e sociali della popolazione, hanno portato il sistema sanitario ad adeguarsi, non solo dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi, ma anche da quello normativo. Il progresso compiuto dalla medicina, sia nella diagnostica che nella terapia, le nuove tecnologie, hanno permesso di allungare sensibilmente la vita media della popolazione e di migliorarne la qualità. I tassi di mortalità si sono ridotti, l’attesa di vita è aumentata ed è sensibilmente cresciuta la popolazione anziana; allo stesso tempo sono aumentate le cosiddette “malattie del benessere”, come l’obesità o il disagio mentale. In modo parallelo, è cresciuta la consapevolezza dei cittadini rispetto ai propri bisogni e alle possibilità di miglioramento del proprio stato di salute e ciò ha consentito di dare un’importanza sempre maggiore al fattore della prevenzione. La sanità in rapporto alla popolazione Secondo gli ultimi dati ISTAT la popolazione italiana è in costante crescita. Il 1 gennaio 2006 la popolazione italiana residente (compresi gli stranieri) era composta da 58.751.711 unità (28.526.888 donne e 30.224.823 uomini). Dodici mesi prima i residenti erano 58.462.375, quindi circa 300mila unità in meno. Aumenta anche il numero delle “presenze” degli stranieri (con cittadinanza non italiana) che risultano essere il 4,5% del totale dei residenti, per lo più bambini tra 0 e 15 anni (20%) e giovani tra i 20 e i 39 anni (48,6%). Cresce anche l’invecchiamento della popolazione: gli italiani con più di 65 anni rappresentano il 20% della popolazione e in particolare i grandi anziani - con più di 90 anni di età - sono circa 500mila. I dati relativi all’anzianità della popolazione italiana residente sono sensibilmente superiori a quelli di altri paesi dell’Unione Europea dove in nessun caso si arriva a sfiorare il numero di 130 anziani per ogni 100 ragazzi con età fino a 14 anni, quota superata dall’Italia già all’inizio degli anni duemila. La spesa sanitaria cresce anche naturalmente in relazione con l’aumento dell’età. Invecchiando, le persone si ammalano di più, si complicano le malattie croniche, aumentano i consumi sanitari e le spese mediche. Questo dato di fatto crea motivi di preoccupazione per l’evoluzione della spesa sanitaria se si guarda alle previsioni demografiche che segneranno l’Italia nei prossimi cinquant’anni. Secondo l’ISTAT, nel 2050 la popolazione italiana avrà subito una diminuzione di 4,7 milioni di abitanti, rispetto al 2005, e le persone anziane costituiranno il 34% del totale. Su 52 milioni di abitanti, i vecchi saranno ben 18 milioni. Di conseguenza, la spesa per assistere gli anziani nel 2050 potrebbe assorbire i 2/3 del budget del Servizio Sanitario Nazionale.

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Il SSN e il cittadino

La domanda di salute e le risposte del SSN

Nel delineare l’articolazione generale dei vari settori del Servizio Sanitario Nazionale, e quindi le risposte che vengono offerte ai bisogni di salute dei cittadini, è bene premettere alcune considerazioni che riguardano le trasformazioni che la salute degli italiani ha subito negli ultimi anni: l’evoluzione demografica, così come le mutate condizioni economiche e sociali della popolazione, hanno portato il sistema sanitario ad adeguarsi, non solo dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi, ma anche da quello normativo.

Il progresso compiuto dalla medicina, sia nella diagnostica che nella terapia, le nuove tecnologie, hanno permesso di allungare sensibilmente la vita media della popolazione e di migliorarne la qualità. I tassi di mortalità si sono ridotti, l’attesa di vita è aumentata ed è sensibilmente cresciuta la popolazione anziana; allo stesso tempo sono aumentate le cosiddette “malattie del benessere”, come l’obesità o il disagio mentale. In modo parallelo, è cresciuta la consapevolezza dei cittadini rispetto ai propri bisogni e alle possibilità di miglioramento del proprio stato di salute e ciò ha consentito di dare un’importanza sempre maggiore al fattore della prevenzione.

La sanità in rapporto alla popolazione

Secondo gli ultimi dati ISTAT la popolazione italiana è in costante crescita. Il 1 gennaio 2006 la popolazione italiana residente (compresi gli stranieri) era composta da 58.751.711 unità (28.526.888 donne e 30.224.823 uomini). Dodici mesi prima i residenti erano 58.462.375, quindi circa 300mila unità in meno. Aumenta anche il numero delle “presenze” degli stranieri (con cittadinanza non italiana) che risultano essere il 4,5% del totale dei residenti, per lo più bambini tra 0 e 15 anni (20%) e giovani tra i 20 e i 39 anni (48,6%).

Cresce anche l’invecchiamento della popolazione: gli italiani con più di 65 anni rappresentano il 20% della popolazione e in particolare i grandi anziani - con più di 90 anni di età - sono circa 500mila. I dati relativi all’anzianità della popolazione italiana residente sono sensibilmente superiori a quelli di altri paesi dell’Unione Europea dove in nessun caso si arriva a sfiorare il numero di 130 anziani per ogni 100 ragazzi con età fino a 14 anni, quota superata dall’Italia già all’inizio degli anni duemila.

La spesa sanitaria cresce anche naturalmente in relazione con l’aumento dell’età. Invecchiando, le persone si ammalano di più, si complicano le malattie croniche, aumentano i consumi sanitari e le spese mediche. Questo dato di fatto crea motivi di preoccupazione per l’evoluzione della spesa sanitaria se si guarda alle previsioni demografiche che segneranno l’Italia nei prossimi cinquant’anni.

Secondo l’ISTAT, nel 2050 la popolazione italiana avrà subito una diminuzione di 4,7 milioni di abitanti, rispetto al 2005, e le persone anziane costituiranno il 34% del totale. Su 52 milioni di abitanti, i vecchi saranno ben 18 milioni. Di conseguenza, la spesa per assistere gli anziani nel 2050 potrebbe assorbire i 2/3 del budget del Servizio Sanitario Nazionale.

L’uso dei servizi sanitari cresce progressivamente con l’aumentare dell’età. Attualmente, la popolazione con oltre 60 anni di età assorbe, infatti, la grande maggioranza delle prestazioni sanitarie: l’87% dei ricoveri in ospedale, il 69% dei farmaci e il 51% delle prestazioni specialistiche.

La salute in cifre

Il Ministero della Salute ha diffuso recentemente gli ultimi dati statistici riferiti alla incidenza delle patologie cardiovascolari, delle neoplasie, del diabete, delle affezioni respiratorie, di quelle reumatiche, delle malattie mentali. I dati evidenziano come le malattie cardiovascolari siano sempre al primo posto tra le cause di mortalità e di morbilità della popolazione.

In Italia, ogni 14 minuti circa, una persona muore di infarto acuto del miocardio (IMA) mentre ne muoiono sette ogni ora per ictus cerebrale.

Inoltre, è da segnalare che lo scompenso cardiaco colpisce notevolmente la popolazione anziana: vi sono circa tre milioni di persone affette da tale patologia. E proprio lo scompenso cardiaco è al primo posto in assoluto tra le cause di ricoveri ospedalieri.

Per le neoplasie si calcola che annualmente ne vengano diagnosticate oltre 250mila (nuovi casi) di natura maligna ed ogni anno si registrano 940mila ricoveri per tali affezioni.

Il diabete rappresenta un problema sanitario per le persone di tutte le età con un maggiore coinvolgimento per le classi economicamente più svantaggiate. Questa malattia è in costante aumento tanto che gli esperti parlano di una vera e propria “epidemia mondiale di diabete”.

Le malattie respiratorie prevalenti sono l’ asma e la bronchite cronica che colpiscono più del 20% della popolazione con età superiore ai 65 anni. Le malattie respiratorie rappresentano la terza causa di patologia cronica, mentre la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) è la quarta causa di morte nel mondo industrializzato.

L’ OMS (Organizzazione Mondiale delle Sanità) indica poi nelle malattie reumatiche la prima causa di dolore e disabilità in Europa e precisa che esse rappresentano la metà delle affezioni croniche che colpiscono persone al di sopra dei 65 anni.

Infine, la tutela della salute mentale continua ad essere oggetto di attenzione prioritaria nella programmazione degli interventi sociali e sanitari nei Paesi industrializzati ed anche in Italia vi è un aumento della prevalenza di disturbi mentali con diversi gradi di disabilità e di sofferenze individuali e dei relativi costi economici.

I livelli essenziali di assistenza

La definizione dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) costituisce nel nostro Paese un punto di svolta determinante per il sistema sanitario, in quanto rappresenta la risposta del Servizio Sanitario Nazionale alla domanda di salute degli italiani.

Definiti con DPCM del 29/11/2001, i LEA sono l’insieme di tutte le prestazioni, servizi e attività che i cittadini hanno diritto ad ottenere dal Servizio Sanitario Nazionale, prestazioni che devono essere garantite in condizione di uniformità, ovvero a tutti e su tutto il territorio nazionale, indipendentemente quindi dal reddito e dal luogo di residenza, in tempi adeguati alle condizioni cliniche.

La necessità di definire con precisione tutti i LEA da garantire ai cittadini era già contenuta nel decreto legislativo n.502 del 1992, in cui si stabiliva che, all’interno del Piano sanitario nazionale, dovessero essere definiti “livelli essenziali e uniformi di assistenza”. Tale esigenza veniva poi

riconfermata con il decreto legislativo n.229 del 1999, che ne offriva una definizione più dettagliata, sia pure in controluce, dal momento che definiva i possibili contenuti dei fondi integrativi (ossia quelle risorse destinate a coprire prestazioni aggiuntive, non comprese nei livelli essenziali di assistenza).

Infine, in virtù dell’Accordo Stato-Regioni dell’agosto 2001 e con il supporto dell’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali, si è arrivati all’approvazione, tramite un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del novembre 2001, del provvedimento di definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza che, così definiti, costituiscono, nel loro insieme, un quadro di riferimento nazionale omogeneo per l’offerta dei servizi sanitari, in termini quantitativi ma anche qualitativi, naturalmente in relazione a predeterminate risorse economiche.

Con la definizione dei LEA si supera il precedente orientamento del sistema sanitario che prevedeva di utilizzare i livelli di assistenza per determinare una quota di spesa pro-capite, quale risultanza della divisione del monte di risorse disponibile per il numero degli assistiti.

Il punto di svolta costituito dai LEA consiste nel fatto che, con il provvedimento citato, si passa da una logica secondo la quale tutti gli italiani hanno diritto alla stessa “quota di spesa sanitaria” a quella per la quale tutti gli italiani hanno diritto a ricevere le stesse “prestazioni”. Questa impostazione rappresenta, nel panorama internazionale, un elemento di novità che contraddistingue certamente il sistema sanitario italiano.

L’obiettivo del legislatore nell’individuare i livelli di assistenza è stato, infatti, quello di connotare il Servizio Sanitario Nazionale come un sistema universale e solidale, in grado di rispettare la dignità della persona umana, di rispondere al bisogno di salute dei cittadini, di garantire equità di accesso all’assistenza, qualità delle cure, appropriatezza delle prestazioni erogate rispetto alle specifiche esigenze e di economicità delle risorse.

Vale la pena di soffermarsi su alcune di queste caratteristiche per meglio comprendere la natura del provvedimento.

Sono livelli “essenziali”, e non livelli “minimi” in quanto racchiudono tutte le prestazioni, tutte le attività che lo Stato, in relazione al grado di sviluppo sociale e culturale in cui si trova la società italiana, considera così importanti da non poter essere negati ai cittadini.

Con essenziale si intende quindi non il razionamento delle prestazioni (livelli minimi) ma piuttosto l’impegno a garantire le cure appropriate, basate su prove di efficacia (evidence based) in grado di evitare gli sprechi e con la massima attenzione rivolta al paziente.

A questo proposito è bene sottolineare che la definizione dei livelli nasce da un accordo stipulato in sede di Conferenza Stato-Regioni e quindi le Regioni, nell’erogare l’assistenza sanitaria, non possono escludere autonomamente prestazioni contenute nei Lea, mentre possono definire livelli “ulteriori” di assistenza non compresi nei livelli.

Ogni amministrazione regionale, infatti, può decidere come applicare i livelli essenziali di assistenza, nel rispetto dei principi formulati a livello nazionale, ma gode anche di notevole autonomia sia per quanto riguarda la programmazione, sia per quanto riguarda l’allocazione delle risorse.

Sono livelli “uniformi”, in quanto devono essere forniti a tutti i cittadini senza distinzione di reddito, di territorio di residenza (dalle città metropolitane alle isole minori), di religione, di etnia, di grado di istruzione, di atteggiamento individuale nei confronti della salute o altro.

Viene così garantito il principio di equità del Servizio Sanitario Nazionale, di uguaglianza nell’accesso ai servizi e alle cure contenuto nella legge n.833/78.

Visti in quest’ottica, i Livelli Essenziali di Assistenza costituiscono una vera e propria sfida: da una parte pongono le Regioni, che li devono erogare in modo uniforme, di fronte ad una rinnovata responsabilità nella gestione del proprio territorio nonché al rispetto del principio di sussidiarietà e di solidarietà e dall’altra richiedono un alto livello di vigilanza da parte della popolazione, per verificare l’effettiva responsabilità politica per quanto attiene alla tutela della salute e alla organizzazione dei servizi sanitari.

I contenuti dei LEA

L’elenco delle prestazioni garantite dal Servizio Sanitario Nazionale contenuto nel decreto di definizione dei LEA prevede praticamente tutte le voci che hanno rilevanza per la tutela della salute e viene, per comodità, suddiviso in tre grandi aree (prevenzione, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera) ripartite come segue.

Prevenzione

Assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro, che comprende tutte le attività di prevenzione rivolte alla collettività e ai singoli (tutela dagli effetti dell’inquinamento, dai rischi infortunistici negli ambienti di lavoro, sanità veterinaria, tutela degli alimenti, profilassi delle malattie infettive,vaccinazioni e programmi di diagnosi precoce, medicina legale).

Assistenza distrettuale

Comprende tutte le attività e i servizi sanitari e sociosanitari diffusi capillarmente sul territorio, dalla medicina di base all’assistenza farmaceutica, dalla specialistica e diagnostica ambulatoriale alla fornitura di protesi ai disabili, dai servizi domiciliari agli anziani e ai malati gravi ai servizi territoriali consultoriali (consultori familiari, SER.T, servizi per la salute mentale, servizi di riabilitazione per i disabili, ecc…), alle strutture semiresidenziali e residenziali (residenze per gli anziani e i disabili, centri diurni, case famiglia e comunità terapeutiche).

Assistenza ospedaliera

Assistenza in pronto soccorso, in ricovero ordinario, in day hospital e day surgery, in regime di ricovero per la lungo-degenza e la riabilitazione.

Appropriatezza

Oltre alla lista delle prestazioni garantite dal Servizio Sanitario Nazionale sono presenti nel provvedimento sui LEA altri tre elenchi. Il primo elenco riguarda le prestazioni totalmente escluse dai LEA, per le quali cioè non si è ritenuto che esistano sufficienti prove di efficacia; nel secondo sono comprese le prestazioni parzialmente escluse, in quanto erogabili solo secondo precise indicazioni cliniche, mentre il terzo elenco comprende le prestazioni incluse nei LEA che però presentano un profilo organizzativo potenzialmente inappropriato, o per le quali occorre comunque individuare modalità più appropriate di erogazione.

Per fare qualche esempio, il Servizio Sanitario Nazionale non rimborsa gli interventi di chirurgia estetica a meno che si rendano necessari in conseguenza di incidenti o di malformazioni; così come non si fa carico delle prestazioni delle terapie non convenzionali (con l’unica eccezione dell’agopuntura in anestesiologia).

Le cure odontoiatriche vengono garantite solo per i bambini e per alcune categorie di adulti.

Nell’elenco delle prestazioni da fornire, ma in modo appropriato, compaiono una serie di DRG «a rischio di inappropriatezza»: si tratta di 43 tipologie di ricoveri considerati potenzialmente inappropriati se forniti in regime di ricovero ordinario, in quanto le medesime prestazioni potrebbero essere erogate diversamente, per esempio in ricovero diurno o in regime ambulatoriale. In sostanza, per razionalizzare le risorse, si intende fornire la stessa prestazione invece che in regime di ricovero ospedaliero (occupando quindi un letto di ospedale per più giornate di degenza con il relativo costo) in modo più appropriato, in ambulatorio, in day hospital, o, per interventi chirurgici poco complessi, in day surgery.

Per fare qualche esempio, tra gli interventi e le prestazioni più frequentemente erogati in regime di ricovero ospedaliero si trovavano quelli sul cristallino (cataratta), la decompressione del tunnel carpale, ovvero prestazioni che, con un’adeguata riorganizzazione dei servizi, non necessitano di ricovero ospedaliero.

E’ evidente che un aumento delle prestazioni ambulatoriali comporta una maggiore appropriatezza , nonché un risparmio consistente di risorse, come dimostra l’analisi effettuata dall’ASSR Agenzia per i servizi sanitari regionali nel maggio 2007 relativa a tutti i ricoveri effettuati ( ordinari e in day hospital) nel periodo 2001-2004 Nelle tabelle da 1 a 10 sono illustrati nel dettaglio i risultati di tali analisi riferita ai 43 DRG “ a rischio di inappropriatezza” se effettuati in regime di ricovero ordinario. Dai dati analizzati risulta che, nel periodo considerato, relativo agli anni 2001-2004, ovvero i dati più aggiornati disponibili, per questi DRG sono stati effettuati più di 300.000 ricoveri impropri in meno Un calo di ricoveri ordinari “inappropriati” e un aumento di ricoveri in day hospital che si registra in tutte le Regioni, anche se con una notevole variabilità. Tra i fattori determinanti di questa variabilità vi è, senza dubbio, anche la diversa capacità delle regioni di trasferire dal regime di ricovero a quello ambulatoriale alcune procedure. Diversa capacità riconducibile sia alla struttura per età della popolazione sia a quella dell’offerta.

In particolare, in alcune Regioni - Toscana, Emilia Romagna - per alcuni DRG ( Drg 006 Decompressione del tunnel carpale, Drg.039 Interventi sul cristallino con o senza vitrectomia) diminuiscono sia i ricoveri ordinari che in Day hospital chirurgico perchè queste prestazioni vengono erogate in regime ambulatoriale.

Tab 1 -DRG ad alto rischio di inappropriatezza - Confronto 2001- 2004 (Ricoveri Totali, Ordinari, Day Hospital)

2001 2004 Variazione % 2004 - 2001

Ricoveri Ordinari Ricoveri Ordinari Ricoveri Ordinari Ricoveri

Totali Ricoveri

DH Totale 0_1 gg > 0_1 gg

Ricoveri Totali

Ricoveri DH

Totale 0_1 gg > 0_1 gg

Ricoveri Totali

Ricoveri DH

Totale 0_1 gg > 0_1 gg

Medici 1.854.393 561.150 1.293.243 204.019 1.089.224 1.525.475 603.185 922.290 168.746 753.544 -17,74 7,49 -28,68 -17,29 -30,82

Chirurgici 1.487.603 562.004 925.599 217.684 707.915 1.505.546 906.649 598.897 221.628 377.269 1,21 61,32 -35,30 1,81 -46,71

Totale 3.341.996 1.123.154 2.218.842 421.703 1.797.139 3.031.021 1.509.834 1.521.187 390.374 1.130.813 -9,31 34,43 -31,44 -7,43 -37,08

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La manutenzione dei LEA

E’ evidente che, una volta fissato il quadro generale delle prestazioni fornite dal Servizio Sanitario Nazionale, siano necessarie continue operazioni di manutenzione dal momento che lo stato delle conoscenze scientifiche, la pratica, sia clinica che organizzativa, evolvono continuamente e di conseguenza la complessa macchina della sanità pubblica deve essere messa in grado di continuare a funzionare, diversificando e migliorando sempre l’offerta.

Per questo motivo, fermo restando il contenuto dei LEA che deve restare uniforme su tutto il territorio nazionale, le Regioni hanno, in alcuni casi, ampliato la propria offerta di prestazioni o, in altri casi, riempito eventuali lacune normative, adottando iniziative che tuttavia si riferiscono sempre ai criteri di efficacia, appropriatezza ed economicità che sono alla base del decreto sui LEA.

Ad esempio, per quanto attiene alle prestazioni escluse dai LEA, molte Regioni hanno garantito un “livello ulteriore” regionale, come le certificazioni di idoneità alla pratica sportiva che pressoché tutte le Regioni forniscono gratuitamente o l’erogazione dell’agopuntura in presenza di determinate condizioni cliniche che alcune Regioni hanno deciso di erogare ai propri residenti.

Per quanto attiene alla manutenzione dei LEA dobbiamo tener presente che i nuovi servizi informativi consentono di esaminare la documentazione clinica sotto diversi aspetti, e quindi di poter valutare, per ogni prestazione, non solo il costo, ma anche la necessità medica dell’assistenza fornita, così come le modalità con cui è stata erogata e la sua durata.

Un monitoraggio costante delle prestazioni erogate, inoltre, è reso necessario considerando che la pratica medica e il management sanitario si vanno sempre più sviluppando, così come è aumentata la disponibilità di tecnologie sanitarie più raffinate, come la chirurgia laparoscopica e mininvasiva, la radiologia interventistica e i laser. Tutti questi elementi, opportunamente valutati, consentono di ridurre le lunghe degenze negli ospedali e di fornire nello stesso tempo un’assistenza più efficace e meno costosa.

In particolare, per quanto riguarda i costi, si è visto che, applicando in misura sempre crescente le modalità di appropriatezza organizzativa dei ricoveri, sono diminuiti i ricoveri ordinari per i 43 DRG “inappropriati” e le stesse prestazioni vengono sempre più fornite in regime di day hospital o day surgery, con una significativa riduzione dei costi sostenuti.

La valutazione dei risultati ottenuti, in termini economici ma anche di efficacia, ha indotto a formulare recentemente una proposta di estendere ad ulteriori 55 DRG, sia medici che chirurgici, la qualifica di “a rischio di inappropriatezza”, invitando le Regioni a far sì che anch’essi vengano erogati in regime di day hospital o day surgery.

I costi della salute

Come conseguenza dei cambiamenti della struttura demografica e delle modifiche intervenute negli anni sia nei volumi che nell’intensità della pratica clinica si è andata via via

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allargando la forbice tra bisogni e risorse della sanità. I costi della sanità, in Italia come in tutti i paesi industrializzati, crescono anno dopo anno.

I fattori che influiscono maggiormente sull’incremento della spesa sanitaria pubblica, a parità di popolazione raggiunta dai diversi sistemi sanitari, sono generalmente l’evoluzione delle tecnologie e l’invecchiamento della popolazione. Gli effetti dei due fattori sono per altro in parte interdipendenti, in quanto, se l’evoluzione tecnologica ha consentito l’allungamento della vita media, l’aumento della popolazione delle fasce di età più avanzata ha comportato un incremento di consumi sanitari generato soprattutto dalle cronicità.

La spesa sanitaria pubblica è andata aumentando in Italia come negli altri paesi europei. Il grafico n.1 mette a confronto l’andamento della spesa sanitaria pubblica dell’Italia con quello di Francia, Germania, Olanda, Regno Unito e Spagna.

Appare evidente come il nostro Paese abbia un andamento della spesa più simile a quello della Francia e del Regno Unito e che per tutti i paesi presi in considerazione un incremento più sensibile della spesa si manifesta dal 2000 in poi.

Grafico n.1

Spesa sanitaria pubblica complessiva a parità di potere d'acquisto (PPA)

0

50000

100000

150000

200000

250000

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005

Fonte: ECO-SALUTE OCSE, ottobre 2006

mili

oni d

i $

Francia Germania Italia Olanda Regno Unito Spagna

Il confronto dei valori della spesa pubblica complessiva (espressi in milioni di dollari anche per i paesi europei per tener conto della parità di potere di acquisto - un metodo convenzionale per confrontare dati di diversi paesi e di diversi periodi temporali) nella tabella n.1 dimostra come per tutti i paesi la variazione della spesa dal 2000 al 2004 (ultimo anno per il quale sono disponibili i dati dei paesi considerati) sia quasi il doppio di quella registrata dal 1995 al 2000.

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Tabella n.1

Spesa sanitaria pubblica complessiva (milioni di $) (*)

Nazioni 1995 2000 2004Francia 89.539 109.544 149.017 Germania 148.304 172.282 193.127 Italia 62.606 85.721 106.595 Olanda 20.006 22.674 30.834 Regno Unito 67.379 88.463 129.486 Spagna 33.931 43.823 63.364 (*) a parità di potere d'acquisto (PPA)

Fonte: ECO-SALUTE OCSE, ottobre 2006

Il confronto dei dati relativi alla spesa complessiva pro-capite (Tabella n. 2) vede in testa in tutti i periodi considerati la Francia e la Germania, insieme al Regno Unito nel 2004, mentre l’Italia si colloca sempre su un valore vicino alla media tra i paesi considerati.

Tabella n.2

Spesa sanitaria pubblica complessiva procapite - valori in $ (*)

Nazioni 1995 2000 2004Francia 1.548 1.858 2.475 Germania 1.816 2.097 2.341 Italia 1.103 1.499 1.852 Olanda 1.294 1.424 1.894 Regno Unito 1.161 1.502 2.164 Spagna 861 1.088 1.484 (*) a parità di potere d'acquisto (PPA)

Fonte: ECO-SALUTE OCSE, ottobre 2006

La spesa per la salute in Italia

Attualmente, il finanziamento del SSN proviene, per il 95% circa, dalla imposizione fiscale diretta (sui redditi delle imprese e delle persone fisiche) e da quella indiretta (sui consumi) e, per la rimanente parte, da ricavi ed entrate proprie delle aziende sanitarie, nonché dalla compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria pubblica (co-payment). In particolare, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs 56/2000 sul federalismo fiscale, le fonti di finanziamento del SSN, in relazione alla loro origine, sono rappresentate da: risorse regionali, quali IRAP e addizionale IRPEF, compartecipazione all’IVA, accise sulla benzina, ulteriori trasferimenti dal settore pubblico (regioni, province, comuni, ecc…) e da quello privato, risorse proprie delle aziende sanitarie (tra cui i ticket versati dai cittadini); risorse statali, quali Fondo

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Sanitario Nazionale per il finanziamento di quota parte dei costi per i LEA delle sole regioni Sicilia e Sardegna, per quelli derivanti da accordi internazionali, dal funzionamento di alcuni enti particolari del SSN e dalla realizzazione di specifici obiettivi previsti da leggi speciali. In base alla normativa in vigore, le regioni Valle d' Aosta e Friuli Venezia Giulia e le Province Autonome di Trento e di Bolzano provvedono al finanziamento dell’assistenza sanitaria pubblica esclusivamente con risorse a carico dei propri bilanci senza alcun onere a carico dello Stato, mentre le regioni Sicilia e Sardegna devono concorrere al fabbisogno finanziario suddetto con ulteriori proprie risorse. Risorse pubbliche aggiuntive vengono destinate al finanziamento degli investimenti e della ricerca in campo sanitario.

In Italia i dati sull'evoluzione della spesa sanitaria, forniti dal Ministero della Salute, (Tabella n.3) mostrano, nel periodo compreso tra il 2002 e il 2005, un incremento molto diversificato tra regione e regione. Nella spesa complessiva del Servizio Sanitario Nazionale (in milioni di euro) vengono considerate quelle sostenute dalle strutture pubbliche del SSN (Aziende Unità Sanitarie Locali e Aziende Ospedaliere), dalle strutture private accreditate, dagli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico “IRCCS”, dai Policlinici universitari, sia pubblici che privati e da altri enti (tra cui la Croce rossa italiana, gli Istituti zooprofilattici sperimentali) per l’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), così come individuati dal DPCM del 29 novembre 2001, e per il raggiungimento di altri specifici obiettivi di sanità pubblica previsti dalla vigente legislazione. Nella tabella 3 non si ricomprendono, pertanto, i costi sostenuti dai cittadini per acquisti di prestazioni sanitarie presso strutture private non accreditate.

La spesa media pro-capite nazionale è di 1.621 euro. A livello territoriale si riscontra un’ampia variabilità, con il valore minimo di 1.404 euro della Calabria e il valore massimo pari a 2.076 euro della Provincia Autonoma di Bolzano; i valori più bassi sono concentrati prevalentemente nel centro-sud del Paese, con le eccezioni rappresentate dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Toscana e dalle Marche, con valori al disotto della media, e dal Lazio, dall’Abruzzo e dal Molise, con valori al di sopra della media.

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Tabella n.3 SPESA DEL SSNAnni 2002 - 2005

(milioni di euro)

+ / - + / - + / - + / -anno procapite anno procapite anno procapite anno procapite

preced. euro preced. euro preced. euro preced. euro% % % %

PIEMONTE 5.851,179 2,4 1.373 6.145,739 5,0 1.446 7.110,731 15,7 1.654 7.166,116 0,8 1.655V. AOSTA 190,255 6,6 1.576 197,592 3,9 1.627 208,997 5,8 1.707 228,131 9,2 1.857LOMBARDIA 12.710,670 7,6 1.394 12.716,438 0,0 1.386 13.396,702 5,3 1.437 14.795,632 10,4 1.575PA BOLZANO 860,740 10,9 1.846 907,932 5,5 1.934 937,446 3,3 1.976 990,263 5,6 2.076PA TRENTO 753,565 4,6 1.568 804,212 6,7 1.651 822,149 2,2 1.664 856,463 4,2 1.721VENETO 6.277,243 3,9 1.377 6.530,028 4,0 1.416 6.966,003 6,7 1.491 7.596,163 9,0 1.616FRIULI 1.669,569 5,2 1.403 1.731,769 3,7 1.449 1.885,340 8,9 1.569 1.997,232 5,9 1.658LIGURIA 2.403,832 2,7 1.506 2.471,386 2,8 1.569 2.862,378 15,8 1.806 2.918,385 2,0 1.833E. ROMAGNA 5.870,923 6,4 1.461 6.110,902 4,1 1.507 6.710,160 9,8 1.630 7.000,379 4,3 1.686TOSCANA 4.999,490 3,8 1.416 5.130,930 2,6 1.449 5.671,978 10,5 1.583 5.891,250 3,9 1.637UMBRIA 1.190,716 6,9 1.422 1.276,166 7,2 1.517 1.342,779 5,2 1.573 1.389,707 3,5 1.618MARCHE 2.037,773 4,8 1.380 2.083,768 2,3 1.394 2.276,704 9,3 1.506 2.341,424 2,8 1.542LAZIO 7.485,195 1,3 1.433 8.072,280 7,8 1.560 9.659,174 19,7 1.844 9.570,581 -0,9 1.816ABRUZZO 1.822,755 8,1 1.427 1.972,322 8,2 1.541 1.953,022 -1,0 1.511 2.208,463 13,1 1.700MOLISE 451,734 2,5 1.394 526,421 16,5 1.638 519,568 -1,3 1.614 596,801 14,9 1.854CAMPANIA 7.561,066 6,2 1.314 7.788,404 3,0 1.356 8.765,836 12,5 1.518 9.279,091 5,9 1.603PUGLIA 5.041,181 3,9 1.243 5.126,498 1,7 1.271 5.422,360 5,8 1.337 5.826,964 7,5 1.432BASILICATA 730,007 3,8 1.215 769,244 5,4 1.289 826,589 7,5 1.385 880,804 6,6 1.477CALABRIA 2.552,141 1,4 1.260 2.515,577 -1,4 1.252 2.765,603 9,9 1.376 2.821,076 2,0 1.404SICILIA 6.472,178 3,7 1.288 6.642,651 2,6 1.332 7.515,868 13,1 1.501 7.799,852 3,8 1.556SARDEGNA 2.210,690 6,0 1.346 2.272,758 2,8 1.386 2.441,675 7,4 1.483 2.628,372 7,6 1.593

TOTALE 79.142,901 4,7 1.374 81.793,018 3,3 1.420 90.061,063 10,1 1.548 94.783,151 5,2 1.621

Fonte: MINISTERO DELLA SALUTE: SIS: dati di consuntivo. Per l'ultimo anno, dati al 4° trimestre.

Si ricomprendono:- i valori della mobilità passiva verso il B. Gesù e lo Smom (dal 2004).Non si ricomprendono:- i valori della mobilità passiva interregionale ed infraregionale;- le voci introdotte dalla contabilità economica: "Ammortamenti", "Svalutazione crediti", "Svalutazione attività finanziarie".

Per Spesa del SSN si intende la somma dei costi di produzione delle sole funzioni assistenziali con il saldo della gestione straordinaria (Ricavi straordinari e Costi straordinari, stimati e variazione delle rimanenze) e con il saldo relativo all'intramoenia.

2003 2004 20052002

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Il “Patto per la salute”

Nel corso degli anni molte regioni hanno prodotto “disavanzo”, cioè hanno speso per la sanità importi maggiori dei finanziamenti previsti. Questo fenomeno ha reso sempre più necessaria la verifica dell’effettiva erogazione dei LEA, in particolare nel confronto tra i costi sostenuti a parità di LEA erogati.

Bisogna infatti considerare che il finanziamento dei LEA assorbe la gran parte della spesa sanitaria corrente per i residenti praticamente in tutte le Regioni italiane. Secondo i dati di una recente ricerca Farmafactoring-Ce.R.G.A.S Bocconi riferiti al 2005, si rileva che l’incidenza del finanziamento per i LEA sulla spesa effettiva si attesta, ad esempio, al 98,5% per la Puglia, al 97,8% per la Calabria, al 97,0% per la Lombardia.

In tale contesto, si è reso necessario prevedere misure adeguate, sul fronte della spesa sanitaria, per la copertura di eventuali disavanzi. Tali misure si propongono sia di individuare forme di incremento delle entrate, sia di adottare iniziative di razionalizzazione della spesa.

Una delle più importanti iniziative per contenere il fenomeno è stata la promulgazione della legge 405/01 con la quale si attribuisce alle Regioni l’onere di copertura dei disavanzi sanitari. In particolare, l’art. 4 della 405/01 stabilisce che “gli eventuali disavanzi di gestione accertati o stimati (…) sono coperti dalle regioni con le modalità stabilite da norme regionali che prevedano alternativamente o cumulativamente l’introduzione di: misure di compartecipazione alla spesa sanitaria (…); variazioni dell’aliquota dell’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche o altre misure fiscali previste dalla normativa vigente; altre misure idonee a contenere la spesa, ivi inclusa l’adozione di interventi sui meccanismi di distribuzione dei farmaci”.

Nel nuovo contesto normativo che attribuisce alle Regioni piena competenza in materia sanitaria e al governo la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza da garantire in condizione di uniformità su tutto il territorio nazionale, un passo decisivo è stato compiuto il 22 settembre 2006 con l'intesa tra il Governo e le Regioni relativa a un nuovo “Patto per la Salute” di valenza triennale.

Il Patto si compone di un aspetto finanziario e di un aspetto normativo e programmatico.

L’accordo, siglato dal Ministro della Salute, dal Ministro dell’Economia, e dal Presidente della Conferenza delle Regioni, punta alla riduzione degli sprechi, alla stabilizzazione della spesa e al miglioramento della qualità dei servizi e delle prestazioni, anche attraverso il superamento del divario tra nord e sud con particolare riferimento all'assistenza oncologica e alle malattie rare.

Gli elementi essenziali dell'accordo finanziario possono essere così sintetizzati:

• le risorse messe a disposizione dallo Stato centrale saliranno da 91,2 miliardi nel 2006 a 97 miliardi nel 2007, comprensivi di un fondo di accompagnamento di 1 miliardo per sostenere il risanamento delle Regioni attualmente non in linea con i livelli di spesa concordati;

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• la spesa sanitaria complessiva si attesterà nel 2007 a 101,3 miliardi, facendo registrare una diminuzione di 2,4 miliardi rispetto al tendenziale del 2007 (pari a 103,7 miliardi) nonché una leggera flessione rispetto al livello previsto nel 2006 (pari a 102 miliardi);

• per le Regioni che non raggiungeranno gli obiettivi di spesa concordati verranno confermati i meccanismi di piena responsabilizzazione finanziaria, come le misure di affiancamento e gli "automatismi fiscali" (aumento delle aliquote regionali dell'addizionale IRPEF e dell'IRAP);

• il Governo svolgerà azioni di contenimento della spesa - tra cui quella farmaceutica - di riorganizzazione dei dispositivi medici e di omogeneizzazione di forme di partecipazione alla spesa.

Il Governo, dopo il 2007, continuerà a dare certezza riguardo alle risorse finanziarie messe a disposizione delle Regioni per il SSN, garantendo per conto dello Stato centrale un livello di finanziamento adeguato.

L'accordo, normativo e programmatico, è stato definito nelle sue linee di indirizzo e nei suoi contenuti essenziali, ed è finalizzato a migliorare la qualità dei servizi, a promuovere l'appropriatezza delle prestazioni, a garantire l'unitarietà del sistema.

Queste le sue maggiori caratteristiche:

• adeguamento dello stanziamento pluriennale ex art. 20 della legge 67/88 per il cofinanziamento degli investimenti nel SSN in modo da consentire la definizione di nuovi accordi di programma per la qualificazione delle strutture sanitarie, l'innovazione tecnologica e il superamento del divario Nord-Sud;

• inserimento della tematica "sanità-sviluppo economico" tra le finalità per l'utilizzo dei fondi strutturali dell'Unione Europea 2007-2013;

• aggiornamento dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria) ai nuovi bisogni di assistenza; revisione e ampliamento dei 43 DRG ad alto rischio di inappropriatezza, analisi dei costi delle prestazioni ricomprese nei LEA, assumendo come riferimento i costi delle pratiche più efficienti;

• attivazione di un sistema di monitoraggio basato su un "pacchetto" adeguato di indicatori, concordato tra il Ministero della Salute, il Ministero dell'Economia e delle Finanze e le Regioni;

• promozione e valorizzazione delle risorse umane del SSN e partecipazione del personale medico e delle altre professioni sanitarie al governo del sistema;

• riorganizzazione e potenziamento della rete delle cure primarie, mediante la promozione di forme evolute di associazionismo tra i medici di medicina generale e di integrazione con l'attività dei distretti sanitari;

• sviluppo dell'integrazione socio-sanitaria a partire dall'assistenza alle persone non autosufficienti;

• messa in rete e monitoraggio dell'attività prescrittiva dei medici di medicina generale;

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• riorganizzazione e umanizzazione della rete ospedaliera, finalizzata anche al recupero di maggiore efficienza nell'utilizzo delle risorse nelle Regioni;

• razionalizzazione dei sistemi di acquisto di beni e servizi attraverso modalità di esercizio sovraziendale e di centralizzazione degli acquisti.

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La sanità e il cittadino

Fino ad una quindicina di anni fa la maggioranza delle persone, e tra queste la maggioranza degli operatori, tendeva ancora a considerare la qualità dei servizi sanitari come una componente implicita e non ben definibile degli stessi, prevalentemente focalizzata sugli aspetti tecnici.

La soddisfazione dei cittadini o, più genericamente, le loro valutazioni sulla qualità dei servizi erano ritenute marginali. Per una serie di fattori concomitanti, la situazione è andata rapidamente modificandosi, prima con la progressiva presa di coscienza delle diverse componenti della “qualità” (tecnica, organizzativa, relazionale), poi con la richiesta sempre più pressante di superare la tradizionale autoreferenzialità delle persone e delle strutture per raggiungere invece modalità oggettive di definizione, misurazione e valutazione dei livelli qualitativi forniti.

Lo sviluppo di questi principi, unito all’aumentata coscienza dei propri diritti da parte dei cittadini, ha portato a sempre maggiori richieste di trasparenza, verificabilità, richieste di tutela dei propri diritti. La capacità di garantire predefiniti livelli qualitativi è diventata quindi una esigenza crescente, sia in una logica strettamente contrattuale (garanzia della qualità del servizio fornito), sia in una logica più generale quale quella di un sistema sanitario pubblico a cui è richiesto di garantire ai cittadini prestazioni/servizi, non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi.

I diritti del cittadino nel Servizio Sanitario Nazionale

La normativa è intervenuta in questo settore con diversi atti, tra i quali meritano di essere ricordati i seguenti:

• D.Lgs 502/92, dove all’art. 14 comma 1 si afferma la necessità di realizzare “indicatori di qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie relativamente alla personalizzazione ed umanizzazione dell'assistenza, al diritto all'informazione, alle prestazioni alberghiere, nonché all'andamento delle attività di prevenzione delle malattie”, ed al comma 2 si afferma che “Le regioni determinano altresì le modalità della presenza nelle strutture degli organismi di volontariato e di tutela dei diritti, anche attraverso la previsione di organismi di consultazione degli stessi”

• DPCM 27/1/1994 “Principi sull’erogazione dei servizi pubblici”, che individua i principi cui deve essere uniformata progressivamente, in generale, l'erogazione dei servizi pubblici, anche se svolti in regime di concessione o mediante convenzione.

In base a tale decreto tutte le aziende sanitarie accreditate, pubbliche o private, devono garantire il rispetto e la promozione di alcuni principi fondamentali, ovvero:

• eguaglianza: erogazione dei servizi con regole uguali per tutti, indipendentemente da sesso, età, razza, lingua, religione, opinioni politiche;

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• imparzialità: erogazione obiettiva, non condizionata da pregiudizi, o da valutazioni improprie;

• continuità: erogazione, nell'ambito delle modalità stabilite dalla normativa di settore, deve essere continua, regolare e senza interruzioni;

• diritto di scelta: l'utente ha diritto di scegliere il soggetto erogatore del servizio;

• partecipazione: il cittadino-utente ha diritto a partecipare alle prestazioni, anche attraverso le associazioni di utenti, di volontariato e di tutela;

• efficienza ed efficacia: i servizi erogati devono essere in grado di ottenere i risultati migliori ed ai costi minori.

• DPCM 19/5/95: Schema Generale di riferimento della “Carta dei Servizi Pubblici Sanitari”: costituisce un atto fondamentale per l’introduzione di una nuova modalità di rapporto del Servizio Sanitario Nazionale con il cittadino. Oltre alla affermazione di una serie di principi e modalità organizzative, si precisano le responsabilità delle regioni e delle aziende. Queste ultime devono in particolare garantire:

▬ informazione: su prestazioni fornite, modalità di accesso, procedure, partecipazione;

▬ accoglienza: limitare disagi, comprendere bisogni, accompagnare, corretto uso dei servizi e delle strutture;

▬ tutela: regolamenti per la tutela dei diritti, gestione dei reclami, attivazione degli Uffici Relazione con il Pubblico (URP);

▬ partecipazione: progetti di adeguamento alle esigenze dei cittadini, rilevazione gradimento, rapporti con il personale e comfort;

▬ adozione di standard di qualità e quantità.

Nell’ambito normativo è opportuno ricordare anche la “Carta dei diritti del malato” presentata a Bruxelles il 15 novembre 2002 e realizzata da un insieme di associazioni di tutela dei diritti dei cittadini malati. Il documento, seppure non costituisce un atto normativo, è un importante riferimento culturale per la rilevanza dei principi affermati e l’ampiezza del dibattito di cui sono frutto (per maggiori informazioni, si veda www.cittadinanzattiva.it). Esso propone la proclamazione di quattordici diritti dei pazienti, che nel loro insieme cercano di rendere i diritti fondamentali previsti dal trattato di Nizza concreti, applicabili e appropriati alla attuale fase di transizione dei servizi sanitari. Tutti questi diritti mirano a garantire un “alto livello di protezione della salute umana” (articolo 35 della Carta dei diritti fondamentali) assicurando l’alta qualità dei servizi erogati dai diversi sistemi sanitari nazionali. Essi dovrebbero essere tutelati in tutto il territorio della Unione europea, e sono:

• 1. Diritto a misure preventive;

• 2. Diritto all’accesso;

• 3. Diritto alla informazione;

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• 4. Diritto al consenso;

• 5. Diritto alla libera scelta;

• 6. Diritto alla privacy e alla confidenzialità;

• 7. Diritto al rispetto del tempo dei pazienti;

• 8. Diritto al rispetto di standard di qualità;

• 9. Diritto alla sicurezza;

• 10. Diritto alla innovazione;

• 11. Diritto a evitare le sofferenze e il dolore non necessari;

• 12. Diritto a un trattamento personalizzato;

• 13. Diritto al reclamo:

• 14. Diritto al risarcimento.

In ogni situazione nella quale il cittadino abbia la sensazione che i suoi diritti, o quelli dei suoi familiari, siano stati lesi, ha il diritto di presentare reclamo all’azienda che - sia essa pubblica o privata - ha il dovere di rispondere in modo confacente e in tempi contenuti. Oggi tutte le aziende sanitarie hanno procedure per la gestione dei reclami, che possono variare nei dettagli; solitamente è necessario presentare un reclamo scritto, indirizzato al direttore generale, spiegando in modo sintetico ma chiaro l’oggetto del reclamo, e segnalando l’indirizzo a cui si desidera ricevere la risposta. Il cittadino può presentare direttamente il reclamo o può farlo attraverso le associazioni di tutela dei diritti del cittadino.

Dove cercare altre informazioni: www.ministerosalute.it/qualita/qualita.jsp

Accessibilità e tempi d’attesa

Il problema dei lunghi tempi d’attesa per ottenere prestazioni sanitarie è presente in tutti i sistemi sanitari avanzati, ed è ovunque ai primi posti nelle proteste dei cittadini. Questa situazione può derivare da fattori molto diversi, legati a problemi di offerta (ad esempio, inadeguato numero di strutture) o di domanda (eccesso di richieste non appropriate).

A livello di sistema, i principali fattori determinanti le lunghe attese possono essere così sintetizzati:

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• risorse economiche limitate e/o investimenti inadeguati;

• distribuzione dei servizi non funzionale;

• carenza di professionisti o di tecnologie;

• la difficoltà dei professionisti e dei sistemi a contenere la pressione della domanda inappropriata;

• la crescita dei contenziosi e la diffusione della “medicina difensiva” (fare accertamenti non perchè ritenuti utili per il paziente, ma per proteggere i medici da possibili proteste o denunce);

• l’inadeguatezza dei sistemi organizzativi ed informativi dei servizi sanitari;

• l’aumento del “valore salute” nella cultura dei cittadini delle società industriali avanzate;

• la diffusione delle informazioni su malattie e cure;

• le attese create dai mass media rispetto all’evoluzione scientifica ed alla capacità di cura;

• la difficoltà dei cittadini ad accettare l’idea di malattia e di riduzione del benessere.

Negli ultimi anni si è realizzato un incremento quasi incontenibile della domanda di prestazioni, con costi in tale crescita da rendere difficile la stessa sostenibilità economica del sistema. La normativa italiana è ripetutamente intervenuta sull’argomento, in particolare con il D.Lgs 124/98 (che indicava l’obbligo di fissazione dei tempi massimi di attesa da parte delle aziende sanitarie), il DPCM 16/4/2002 (che rende il “tempo d’attesa congruo” uno degli aspetti che devono essere garantiti dal Servizio Sanitario), la legge 266/2005 (proibisce la sospensione delle prenotazioni, da indicazioni sulla gestione delle agende di prenotazione, rende obbligatori i tempi massimi d’attesa, prevede l’attuazione di un Piano nazionale per il contenimento dei tempi d’attesa, che è stato approvato in Conferenza Stato-Regioni il 28 marzo 2006).

Nel corso del 2006, in adempimento del Piano nazionale, tutte le regioni e province autonome hanno predisposto dei piani regionali nei quali sono indicati i tempi massimi d’attesa che devono essere garantiti ai cittadini, oltre che le modalità con cui migliorare l’accessibilità alle prestazioni. E’ evidente che vanno considerate in modo completamente diverso le situazioni di emergenza (dove vi è un immediato pericolo di vita e che devono quindi trovare risposta immediata), di urgenza (dove vi sono sofferenza e rischio che devono trovare risposte entro alcune ore o un massimo di pochi giorni), rispetto a tutte le altre situazioni, dove, pur con differenti necessità di risposta in termini di tempo, è possibile “programmare” le prestazioni nell’arco di giorni, settimane o addirittura mesi.

Molte sono state le soluzioni tentate per contenere il problema (aumento della produzione di prestazioni, linee guida, riorganizzazione dei servizi), ma nessuna è del tutto soddisfacente.

Tra gli strumenti ritenuti più utili per ridurre il problema, vi è l’uso della differenziazione delle richieste programmabili per classi di priorità, che consiste nel distinguere le richieste tra quelle che necessitano di risposta in tempi brevi (da 3 a 10 giorni), quelle che possono

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aspettare alcune settimane, e quelle che non hanno necessità di risposte in tempi ravvicinati (controlli a distanza, accertamenti preventivi, screening).

La differenziazione del tempi d’accesso per priorità trova solide basi anche sul piano etico, poiché l’equità rispetto all’accesso ai servizi deve essere intesa come parità di accesso in rapporto a uguali bisogni di salute e, quindi, accessi diversi per bisogni diversi. Questo approccio permette di organizzare i servizi in modo più razionale e sostenibile.

I Centri Unificati di Prenotazione (CUP)

Un altro strumento utilizzato per il miglioramento dell’efficienza e della trasparenza dell’accesso alle prestazioni è il CUP (Centro Unificato di Prenotazione), anche se i dati disponibili non sono sempre confortanti. Un’indagine svolta dal Ministero della Salute nel 2003 ha evidenziato la presenza nel nostro paese di 181 CUP, dei quali 43 erano definiti sovra-aziendali, 79 aziendali e 63 sub-aziendali.

Un dato sorprendente dell’indagine era costituito dal fatto che, sul totale dei CUP, 46 erano aperti per meno di 7 ore al giorno e per almeno 5 giorni alla settimana, 44 per almeno 7 ore, ma per meno di 5 giorni alla settimana, e 3 addirittura per meno di 7 ore al giorno e per meno di 5 giorni alla settimana.

Questi risultati hanno posto in evidenza come, attualmente, prevalga una concezione quanto meno limitata dell’utilizzo del CUP, che viene visto ancora forse più come modalità di accentramento di alcune attività di prenotazione in luoghi definiti, magari per semplici motivi logistici, piuttosto che come un diverso modo di rappresentare e gestire l’offerta.

Una recente indagine condotta dall’ASSR (Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali) ha riscontrato come spesso il CUP non offra all’utenza una rappresentazione dell’intera offerta disponibile nel proprio territorio, dal momento che vi sono diverse prestazioni che non sono prenotabili tramite il CUP.

Un dato particolarmente critico rilevato dall’indagine è costituito dalla constatazione che, nella maggioranza delle regioni, i CUP delle diverse aziende di una stessa Regione non sono in grado di comunicare tra loro, arrivando frequentemente al punto di ritenere “normale” che il CUP ospedaliero non comunichi con il CUP della ASL nel cui territorio è collocato. Il collegamento tra i diversi CUP risulta invece fondamentale non solo per una rappresentazione più efficace e corretta dell’offerta, ma anche per ottimizzare la sua gestione, rappresentare i tempi migliori o le più idonee modalità di accesso. Inoltre l’integrazione fra CUP favorisce lo svolgimento di controlli incrociati tra le diverse agende di prenotazione nelle aziende sanitarie, per ridurre il malcostume delle cosiddette “prenotazioni multiple“, che comportano crescenti livelli di mancata presentazione degli utenti prenotati, un fenomeno che raggiunge anche il 30-40% delle prenotazioni.

In realtà, i CUP, opportunamente progettati e gestiti, sono in grado di migliorare i servizi, con semplificazione delle procedure, riduzione dei tempi di attesa, promozione di una maggiore omogeneità e trasparenza nell’accesso alle prestazioni. Consentono, inoltre , una più ampia garanzia di equità nell’accesso, con tempi differenziati secondo il bisogno clinico del cittadino, oltre a favorire la continuità assistenziale e la gestione secondo percorsi

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diagnostico-terapeutici predefiniti. Tra gli sviluppi più interessanti vi sono nuove soluzioni, tecnologiche ed organizzative, già poste in atto, quali:

• la molteplicità delle possibilità di accesso alla prenotazione, attraverso le farmacie, i medici di famiglia ecc.;

• la possibilità per i pazienti di prenotare alcune prestazioni via internet, come pure di avere le risposte con la stessa modalità;

• l’uso del CUP per analizzare e governare la domanda di prestazioni, le risorse disponibili, le liste di attesa;

• la possibilità di gestire i problemi dei pazienti che hanno necessità di prestazioni multiple, tra loro correlate e con intervalli temporali definiti, ed altre ancora.

Dove cercare altre informazioni: risultati del Progetto Mattone “Tempi d’Attesa”, www.assr.it/mattoni/Mattone_tempi_conc.htm

La sicurezza del paziente.

Qualunque attività sanitaria erogata ai pazienti (somministrazione di farmaci, svolgimento di esami con tecnologie, interventi chirurgici, ecc…) è potenzialmente in grado di causare loro dei danni. La probabilità che il danno si realizzi e la misura della gravità del danno possono variare enormemente in funzione della situazione clinica del paziente, dei tipi di farmaci somministrati, del grado di collaborazione del paziente ecc… La coscienza di questa realtà rende necessaria la realizzazione di misure idonee a prevenire, eliminare o, almeno, contenere i rischi reali per il paziente, poiché nella maggior parte dei casi questi non sono del tutto eliminabili.

Bisogna anche distinguere tra rischio teorico (possibilità che un evento si verifichi), rischio reale (quando l’evento è accaduto) e danno (che, sebbene possibile, non sempre si è realmente verificato, anche se è accaduto l’evento che lo poteva provocare).

All’interno di una struttura sanitaria o durante lo svolgimento di una attività sanitaria i rischi sono solitamente più legati a:

• • ambienti (per inadeguatezza di strutture, attrezzature, impianti, ecc…);

• • operatori (per carenze legate a preparazione, organizzazione, carichi di lavoro ecc…);

• • pazienti (non informati, non collaboranti, ecc...).

Il primo tipo di rischi è prevalentemente evitato attraverso la corretta realizzazione e manutenzione delle strutture, delle attrezzature e degli impianti, che sono regolamentati da apposite leggi e norme tecniche; in questi casi, i problemi di solito insorgono quando queste non sono applicate in modo corretto.

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E’ molto più frequente che la responsabilità di un errore venga attribuita agli operatori, anche se una attenta analisi delle situazioni mostra che quasi sempre vi è in realtà una causa organizzativa, ovvero che, sebbene fosse noto che quell’evento avrebbe potuto accadere, non si sono poste in atto le misure preventive idonee (ad esempio: standardizzazione delle procedure, doppi controlli ecc…).

Come il cittadino può contribuire alla propria sicurezza

Un aspetto sul quale si pone oggi sempre più attenzione è il coinvolgimento diretto del paziente nella prevenzione dei suoi rischi, soprattutto attraverso una informazione più completa delle sue condizioni e dei rischi connessi alle procedure od ai farmaci cui viene sottoposto. Il paziente può contribuire a rendere più sicuro il sistema di erogazione delle cure in diversi modi:

• - informando esattamente le strutture sanitarie (medico, infermiere, farmacista ecc…) sulle proprie condizioni di salute, precedenti problemi, intolleranze ecc…;

• - richiedendo precise informazioni sulle proprie condizioni di salute (consenso informato) ed esprimendo le scelte di trattamento;

• - segnalando disservizi e problemi che sono sotto la sua diretta osservazione, vigilando sulle proprie sicurezze.

• Da parte sua, invece, l’Azienda sanitaria può aiutare i cittadini e i pazienti a ridurre i rischi seguendo alcuni principi:

• - informando correttamente i cittadini di quali rischi sono connessi alle cure fatte o non fatte;

• - realizzando modalità di comunicazione interne tali da rendere possibile “per davvero” l’ascolto dei cittadini e dei pazienti;

• - dimostrando con trasparenza quanto è stato predisposto per la maggior sicurezza del paziente nel percorso sanitario;

• - utilizzando i reclami e le segnalazioni come fonte di miglioramento continuo.

Il consenso informato

Il consenso informato è l’espressione della volontà del paziente che, opportunamente informato, permette al professionista di eseguire su di esso una specifica procedura sanitaria; rappresenta una concreta traduzione del rispetto dei diritti di libertà della persona, così come sanciti dalla nostra Costituzione (articoli 11 e 32).

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Non si tratta quindi di una mera autorizzazione, ma costituisce un fondamentale momento di comunicazione in cui il medico ottiene la totale partecipazione del paziente nella scelta delle cure e rappresenta concretamente la fase in cui si instaura la relazione di fiducia tra il medico, che esegue il trattamento sanitario, ed il paziente, che lo riceve.

Il consenso informato deve essere acquisito in forma scritta nei casi contemplati dalla legge ed in quelli in cui vengono proposte prestazioni per le quali si ritiene che vi sia un apprezzabile rischio per il paziente. Le prestazioni per le quali la legge sancisce la necessità di acquisizione per iscritto del consenso informato, sono le seguenti:

• trasfusione di sangue;

• accertamento diagnostico per HIV;

• donazione di tessuti e di organi tra persone viventi;

• prelievo e innesto di cornea;

• procreazione medicalmente assistita;

• interruzione volontaria di gravidanza;

• sperimentazione clinica;

• prescrizione di farmaci per indicazioni non previste da scheda tecnica.

E’, inoltre, consigliato acquisire il consenso informato in forma scritta nelle prestazioni per le quali è ravvisabile un apprezzabile rischio per il paziente come, ad esempio, nei casi di:

• procedure chirurgiche;

• procedure diagnostico-terapeutiche invasive (RCP, cistoscopia, ecc…);

• prestazioni anestesiologiche;

• trattamenti oncologici;

• somministrazione di mezzi di contrasto (angiografia, risonanza magnetica, TAC, PET, ecc...);

• trattamenti medici ad elevata e/o significativa incidenza di reazioni avverse;

• trattamenti che determinano perdita temporanea o definitiva della capacità procreativa, ad eccezione dei comuni trattamenti contraccettivi.

• Il consenso esplicito ed informato può essere richiesto:

• direttamente al paziente, in caso di maggiorenne capace di intendere e di volere, indipendentemente dall’eventuale parere dei suoi congiunti, tranne i casi in cui vi sia la documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione;

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• in caso di paziente minorenne, a seconda dei casi: congiuntamente ai genitori legittimi (naturali o adottivi), oppure al tutore od all’autorità giudiziaria in tutti i casi controversi; va però sempre tenuta in debita considerazione l’opinione del minore, a cui deve comunque essere fornita un’idonea informazione calibrata in base alla sua età e al suo grado di maturità. Vi sono delle particolari eccezioni a questi casi (accertamenti diagnostici per malattia sessualmente trasmessa, prestazioni inerenti la procreazione responsabile, richiesta di accertamenti diagnostici e interventi terapeutici e riabilitativi in caso di uso di sostanze stupefacenti ecc…).

• L’informazione dovrebbe sempre:

• essere fornita con un linguaggio comprensibile a chiunque, tenendo conto del livello culturale, dell’età e dello stato d’animo del paziente;

• essere esaustiva ed obiettiva, facendo riferimento a valide fonti scientifiche;

• essere il più possibile veritiera con particolare riferimento alla prognosi, senza creare false illusioni, ma senza neppure demoralizzare oltremisura il paziente.

In caso di urgenze, oppure quando il paziente è in pericolo di vita, il medico è tenuto ad intervenire anche senza l’acquisizione del consenso, a patto che il pericolo sia attuale, improcrastinabile ed inevitabile (non eliminabile in altro modo).

I congiunti, che hanno diritto ad essere informati, non hanno potere decisionale.

Ai conviventi, sul piano formale, potrebbero essere rifiutate anche le semplici informazioni.

Superato lo stato di necessità bisogna acquisire il consenso per tutte le ulteriori prestazioni.

Il medico di medicina generale

Il medico di medicina generale è il professionista che, nell’ambito dei servizi garantiti dal Servizio Sanitario Nazionale, ha la responsabilità complessiva della tutela della salute del proprio assistito, per il quale svolge attività finalizzate a:

diagnosi;

terapia;

riabilitazione;

prevenzione individuale;

educazione sanitaria.

Il rapporto tra l'assistito ed il medico di medicina generale è fondato sulla fiducia. Nel caso in cui venga meno il rapporto di fiducia, l'assistito può cambiare il medico. Anche il medico può ricusare l'assistito per accertati motivi di incompatibilità, tra cui la turbativa del rapporto di

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fiducia. L'assistito esercita il suo diritto di scelta individuando il proprio medico tra quelli operanti dell'ambito territoriale di residenza e disponibili in base al numero massimo di scelte previsto dalla normativa (ovvero, il cittadino sceglie il proprio medico tra quelli della sua zona e che hanno ancora posti disponibili). I Medici di Medicina Generale svolgono la propria attività per i cittadini residenti nel territorio di competenza, dall’età di 14 anni, fino ad un massimo di 1.500 assistiti. I bambini da 6 a 14 anni possono indifferentemente essere iscritti ad un pediatra o ad un medico di medicina generale. Nel caso di trasferimento di residenza in un comune vicino, ma che appartiene alla stessa Azienda Sanitaria, l'assistito non è obbligato a cambiare medico e può mantenere lo stesso medico di fiducia.

In questi casi, l'assistito deve informare in modo scritto il proprio Distretto. Nel caso di trasferimento di residenza in un comune non vicino, ma appartenente alla stessa Azienda Sanitaria, l'assistito può mantenere il proprio medico di fiducia, comunicando tale scelta al proprio Distretto e allegando il parere favorevole scritto del medico. Le operazioni di iscrizione, scelta e revoca del medico vengono effettuate presso le sedi dei Distretti Sanitari, talvolta anche presso altri uffici (ad esempio: gli uffici anagrafe dei comuni). Per l’iscrizione, è sufficiente un documento d'identità personale, oltre all’autocertificazione relativa ai propri dati anagrafici e alla propria residenza.

L'attività medica viene prestata nello studio del medico che deve essere aperto almeno 5 giorni alla settimana secondo un orario stabilito dal professionista ed esposto all'ingresso. Le visite nello studio del medico, salvo i casi d'urgenza, avvengono normalmente su prenotazione. I cittadini che, per motivi di lavoro, studio, ecc…, soggiornano per un periodo superiore a tre mesi nel territorio di un’altra Azienda Sanitaria o regione, possono chiedere di scegliere un medico curante nel luogo di domicilio. L’iscrizione temporanea del cittadino sulla base del domicilio ha durata non superiore ad un anno ed è rinnovabile.

È garantita l'assistenza medica ai cittadini che, trovandosi occasionalmente fuori dal proprio comune di residenza, hanno necessità di un medico di medicina generale. In questi casi, il costo delle visite è a carico dell'assistito, secondo le tariffe omnicomprensive (che comprendono tutto) fissate a livello nazionale. Attualmente, sulla base dell’art. 57 dell’Accordo collettivo nazionale per la medicina generale reso esecutivo dalla Conferenza Stato-Regioni il 23 Marzo 2005, le tariffe per le visite occasionali sono 15,00 euro per la visita ambulatoriale e 25,00 euro per la visita domiciliare. L'importo pagato può essere rimborsato dall'Azienda Sanitaria di appartenenza per le seguenti categorie: cittadini ultrasessantenni, minori di 12 anni, soggetti portatori di handicap con invalidità superiore all'80%.

Le forme associative

I Medici di Famiglia, possono lavorare in modo singolo o associarsi. Le forme associative rappresentano modalità di erogazione del servizio tali da garantire maggiore fruibilità e accessibilità da parte dei cittadini dei servizi e delle attività dei medici di medicina generale, con miglioramento di standard qualitativi e di performance operative. Le forme associative principali presenti nel territorio del distretto sono:

− Medicina in associazione: si tratta di medici che, pur non vincolati dalla sede unica (ognuno quindi opera nel proprio studio) garantiscono, oltre a quanto previsto dalle

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condizioni generali dell’associazionismo, maggior orario di accessibilità al servizio (es. uno degli studi dei medici associati deve garantire la apertura giornaliera, da lunedì a venerdì, fino alle ore 19, secondo modalità organizzative concordate tra i medici che fanno parte della associazione);

− Medicina di gruppo: si caratterizza per una sede unica, dove vi sono più studi medici. Prevede l’utilizzo di supporti tecnologici e strumentali comuni, eventuale personale di segreteria e la miglior accessibilità e fruibilità del servizio da parte dei cittadini.

Visite domiciliari: come ottenere il servizio

Il medico valuta se la visita deve essere fatta al domicilio dell'assistito, considerando in particolare la trasferibilità del paziente. Le visite domiciliari vanno di norma richieste entro le ore 10 del mattino, e devono essere effettuate nella giornata. Se la chiamata viene raccolta dopo le ore 10, la visita deve essere effettuata al massimo entro le ore 12 del giorno successivo. Le chiamate urgenti, ricevute dal medico, devono essere soddisfatte nel più breve tempo possibile. Nella giornata del sabato, il medico può non svolgere attività ambulatoriali, ma è tenuto ad effettuare le visite domiciliari richieste durante il venerdì e quelle ricevute entro le ore 10 dello stesso sabato. Nei giorni prefestivi valgono le stesse regole previste per il sabato, con l'obbligo di effettuare l'attività ambulatoriale per i medici che normalmente in quel giorno la svolgono al mattino. Nei giorni festivi opera il servizio di continuità assistenziale (guardia medica).

Le prestazioni del Medico di medicina generale sono erogate in forma gratuita per il cittadino, e riguardano principalmente:

• visita medica ambulatoriale e domiciliare;

• prescrizioni di farmaci;

• richieste di visite specialistiche ed analisi;

• proposte di ricovero ospedaliero o di cure termali;

• assistenza programmata domiciliare nei confronti dei soggetti non deambulanti;

• assistenza programmata a favore di soggetti non autosufficienti ospiti di residenze protette (Case di Riposo);

• assistenza domiciliare integrata;

• prestazioni di particolare impegno professionale (es. prima medicazione, sutura, rimozione punti, ecc… ovvero, previa autorizzazione dell'Azienda Sanitaria locale, cicli di fleboclisi o di medicazioni, ecc…);

• accesso presso gli ambienti di ricovero in fase di accettazione, degenza o dimissione dell’assistito (se ritenuto opportuno dal medico di famiglia, nell’interesse del proprio assistito anche al fine di evitare dimissioni improprie);

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• tenuta e aggiornamento di una scheda sanitaria individuale;

• alcuni tipi di certificati obbligatori per legge, come:

• certificati di assenza dal lavoro per malattia;

• certificati di idoneità all’attività sportiva non agonistica richiesti dalla scuola;

• certificazioni per la riammissione alla scuola, quando richiesta per legge.

Sono soggette a pagamento dell’assistito, con rilascio della relativa ricevuta, solo alcune certificazioni, quali:

• certificato di buona salute quando non è richiesto dalla legge;

• certificato ad uso assicurativo;

• certificato di guarigione degli addetti alle industrie alimentari;

• certificati di idoneità al porto d'armi;

• certificato da allegare a domanda di riconoscimento d'invalidità;

• certificati di idoneità allo svolgimento di attività sportiva non agonistica fuori dall'ambito scolastico;

• compilazione di schede per i campi scuola, colonie e campeggi;

• visite in orario di Servizio di Continuità Assistenziale (Guardia Medica).

Il pagamento per le suddette prestazioni avviene secondo tariffe minime stabilite su indicazione degli Ordini dei Medici, sulla base del D.P.R. 17 febbraio 1992 “Approvazione della tariffa minima nazionale degli onorari per le prestazioni medico-chirurgiche ed odontoiatriche”.

Il pediatra di libera scelta

Per il rapporto tra la famiglia ed il pediatra valgono le stesse regole già citate per il medico di medicina generale, tranne che per alcuni aspetti specifici. Al momento dell'iscrizione del bambino al Servizio Sanitario Nazionale, i genitori effettuano la scelta del pediatra tra quelli operanti nell'ambito territoriale di residenza e disponibili in base al numero massimo di scelte previsto (ovvero, i genitori scelgono il proprio pediatra tra quelli della loro zona e che hanno ancora posti disponibili). In caso di prima iscrizione, i genitori si presentano all'ufficio del Distretto sanitario con un documento valido d’identità e con il numero di codice fiscale del bambino, autocertificando lo stato di famiglia (i dati del bambino).

I Pediatri prendono in carico i bambini da 0 a 14 anni di età, fino ad un massimo di 800 assistiti. In casi di patologie o condizioni di disagio psico-sociale particolari, il genitore può

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fare richiesta per il mantenimento del pediatra fino al 16° anno di età, presentando una richiesta al Distretto USL di residenza. Dopo il compimento del sesto anno, tuttavia, il bambino può essere preso in carico da un medico di medicina generale. Il pediatra segue il bambino durante tutta la crescita; controlla il suo sviluppo fisico e psichico, effettua le vaccinazioni obbligatorie, prescrive l’accesso agli ospedali se necessario e decide se consultare medici specialisti. Il pediatra si occupa della salute del bambino nella sua globalità, e pertanto non solo per la diagnosi e la cura della malattia, ma anche la prevenzione. A questo fine sono previste delle visite complesse e periodiche, definite “bilanci di salute” che comportano, oltre alla normale visita, anche l’esecuzione di specifici screening.

Il Servizio di Continuità assistenziale notturna e festiva (Guardia Medica)

Questo servizio garantisce l'assistenza medica di base gratuita a domicilio, per situazioni urgenti e che si verificano durante le ore notturne o nei giorni festivi e prefestivi, per tutta la popolazione in ogni fascia d’età, secondo il seguente orario: dalle ore 20:00 alle ore 8:00 di tutti i giorni feriali; dalle ore 10:00 del Sabato o di ogni altro giorno prefestivo alle ore 8:00 del Lunedì o del giorno successivo al festivo.

I medici di Continuità assistenziale possono:

• prescrivere solo farmaci di prima necessità ed esclusivamente per le persone per le quali è stata richiesta la visita domiciliare urgente;

• richiedere esami e visite specialistiche che siano urgenti;

• proporre il ricovero ospedaliero;

• Rilasciare certificati di malattia, in caso di stretta necessità, per un periodo massimo di tre giorni.

L’assistenza sanitaria ai turisti

Le Regioni individuano le località a forte flusso turistico, dove organizzare un servizio stagionale di “Guardia Medica Turistica”, ossia un’assistenza sanitaria di base rivolta alle persone non residenti. Le regioni definiscono le modalità specifiche di svolgimento del servizio, che di solito copre le 24 ore. Le prestazioni di guardia medica turistica richiedono un concorso alle spese da parte dell’assistito. Attualmente, sulla base degli articoli 32 e 57 dell’Accordo collettivo nazionale per la medicina generale reso esecutivo dalla Conferenza Stato-Regioni il 23 Marzo 2005, le tariffe sono le seguenti: 15,00 euro per la visita ambulatoriale e 25,00 euro per la visita domiciliare.

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La gestione delle urgenze: 118 e sistema Urgenza-Emergenza.

Il Servizio Sanitario Nazionale si fa carico della gestione delle urgenze ed emergenze sanitarie, attraverso una articolata organizzazione di servizi a diverso livello di complessità e di capacità di risposta, in funzione dei diversi tipi di problemi che si possono presentare.

La principale regolamentazione di questo sistema si è realizzata con il D.P.R. 27 marzo 1992 (“Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni per la determinazione dei livelli di assistenza sanitaria di emergenza”). Un ulteriore e significativo intervento si deve all’Atto di intesa tra Stato e Regioni di approvazione delle linee guida sul sistema di emergenza sanitaria del 17 maggio 1996, che fornisce indicazioni sui requisiti organizzativi e funzionali della rete dell’emergenza. Il provvedimento riorganizza il sistema di emergenza prevedendo:

• un sistema di allarme sanitario, dotato di numero telefonico di accesso breve e universale in collegamento con le centrali operative: il “118”;

• un sistema territoriale di soccorso;

• una rete di servizi e presidi ospedalieri, funzionalmente differenziati e gerarchicamente organizzati.

Le Centrali Operative

Tutte le regioni e le province autonome hanno istituito ed attivato le Centrali Operative e il numero unico telefonico nazionale per le urgenze-emergenze sanitarie “118”, attivo 24 ore su 24. L’obiettivo è quello di fornire al cittadino una risposta rapida e corretta alle proprie esigenze. Componendo il numero 118 ogni cittadino può mettersi in contatto con la centrale operativa che ha la funzione di coordinare l'emergenza sanitaria sul territorio. Le Centrali Operative coordinano l’intervento di soccorso (scelta ed invio del mezzo più corretto, con o senza medico, tempo di risposta ecc…) ed attivano la risposta ospedaliera (scelta dell’ospedale più appropriato, pre-allerta dei servizi ospedalieri ecc…); sono di norma organizzate su base provinciale, e la maggior parte di esse sono dotate di sistemi informativi e di standard di comunicazione elevati. Le principali funzioni delle Centrali Operative sono:

• ricezione delle chiamate di soccorso;

• valutazione della gravità dell’evento e della complessità dell’intervento;

• attivazione e coordinamento della risposta sanitaria, ossia dell’intervento.

Ogni Regione organizza, seguendo le linee guida n. 2 del 1996, una rete di mezzi di trasporto per l'emergenza urgenza, per affrontare le diverse situazioni di urgenza ed emergenza, costituita dall’auto medicalizzata, l’ambulanza con infermiere, l’ambulanza con medico rianimatore a bordo, l’elicottero sanitario (elisoccorso). Il sistema dei mezzi di soccorso, compreso l'elisoccorso, è coordinato dalla Centrale Operativa - 118 di riferimento.

I tempi di intervento indicati dal DPR 27 Marzo 1992 e successive modificazioni sono, per le emergenze in codice "rosso":

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• in media 8 minuti in ambito urbano;

• in media 20 minuti in ambito extraurbano.

Le strutture per l’urgenza

Sotto il profilo organizzativo-strutturale, il sistema di emergenza-urgenza è composto da una serie di strutture, organizzate secondo i diversi livelli di complessità del bisogno e della conseguente risposta, attraverso:

• Punti di Primo Intervento, che sono chiamati a garantire il primo intervento sanitario, la stabilizzazione dei parametri vitali, l’attivazione del trasporto protetto. Rispondono a bisogni sanitari urgenti non gravi, che possono essere risolti senza ricorso immediato ed esami strumentali complessi, visite specialistiche o ricovero. Qualora si presentino casi valutati dal medico come critici, il paziente viene trasferito all'Ospedale con ambulanza.

• - Pronto Soccorso Ospedaliero, che si occupa dell’accettazione e trattamento dei pazienti non urgenti ed urgenti, oltre che delle emergenze; si occupa di realizzare tempestivamente tutti gli accertamenti del caso. Il Pronto soccorso deve assicurare l`accettazione ospedaliera e gli interventi diagnostico terapeutici di urgenza dei pazienti; deve poter eseguire un primo accertamento diagnostico clinico strumentale e di laboratorio e gli interventi necessari alla stabilizzazione dell’utente, osservazione di norma limitata a meno di 24 ore, degenza breve non superiore alle 72 ore. Deve garantire, ove necessario, il trasferimento all’ospedale più appropriato del paziente. Il Pronto soccorso deve essere utilizzato:

• - per i casi in cui ogni cittadino si trovi in condizioni cliniche di immediato pericolo di vita;

• per tutti i casi in cui il cittadino, se non sottoposto a terapie mediche specifiche in breve tempo, possa andare incontro ad elevati rischi per la propria salute.

• Non deve essere utilizzato, invece, per evitare liste di attesa per visite specialistiche non urgenti e per eseguire compilazione di ricette.

• Dipartimento di Emergenza-Urgenza di primo livello: è una modalità organizzativa presente in diversi ospedali, che deve garantire le funzioni specialistiche di base (medicina, chirurgia, ortopedia, laboratorio analisi, radiologia, ostetricia, pediatria, rianimazione, trasfusionale, ecc…) al fine di assicurare adeguati livelli di assistenza fin dal primo intervento, con collegamenti tecnico-organizzativi con gli altri ospedali.

• Dipartimento di Emergenza-Urgenza di secondo livello: oltre a quanto già previsto per il primo livello, è dotato di servizi di alta specialità ed è solitamente in grado di gestire i pazienti più complessi o che richiedono particolari tipi di supporto specialistico. E’, quindi, il livello di risposta di maggiore specializzazione, garantito in alcuni ospedali e organizzato dalle Regioni in modo da garantire la risposta ai bisogni della popolazione.

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Il triage

Un importante strumento di gestione delle urgenze è il “triage”, che consiste in una sequenza standardizzata di brevi domande che permette di “intercettare” i pazienti a rischio maggiore e quindi regolare la capacità di risposta del sistema in funzione del rischio. Il triage viene praticato nelle situazioni dove occorre effettuare delle scelte di priorità poiché non è possibile erogare immediatamente le cure necessarie a tutti i pazienti. Esistono procedure di triage per la gestione del soccorso extraospedaliero (valutazione telefonica e sul luogo dell’incidente), oppure per gli accessi in Pronto Soccorso. In ogni caso, il personale che utilizza il triage è specificamente formato allo scopo, ed è in grado di gestire anche grandi quantità di pazienti in breve tempo, assegnando loro il livello di priorità più corretto allo specifico problema.

I codici di urgenza

Si può accedere al pronto soccorso o direttamente oppure attraverso il 118, il numero nazionale gratuito che gestisce e smista le urgenze mediche. Al pronto soccorso si viene accolti da un infermiere specializzato che provvede alle prime operazioni di identificazione, effettua una prima valutazione dei sintomi e attribuisce il codice di priorità (triage). L'accesso alle cure, quindi, non segue l'ordine di arrivo ma è regolato in base alla gravità dei problemi dei pazienti che vengono accolti.

Il codice di priorità è un sistema riconosciuto a livello internazionale che prevede quattro colori in base alla gravità:

codice rosso, viene dato a persone con le funzioni vitali compromesse che sono in serio pericolo di vita. Hanno quindi precedenza assoluta;

codice giallo, è attribuito a persone che hanno una patologia grave, come un trauma, ma che non hanno le funzioni vitali compromesse. Si tratta di casi gravi che saranno visitati nel minor tempo possibile;

codice verde, sono i casi non gravi. I pazienti con questo codice non hanno la precedenza e saranno visitati dopo i casi più urgenti;

codice bianco, sono situazioni assolutamente non gravi che potrebbero essere correttamente trattate dal medico di famiglia. Se il codice, attribuito all'arrivo, viene confermato dal medico durante la dimissione, il paziente è tenuto al pagamento di un ticket (fatta eccezione per alcune categorie di cittadini esenti). L'intento è quello di disincentivare il ricorso al pronto soccorso per i casi non urgenti.

Il ticket di Pronto Soccorso

Al fine di disincentivare un utilizzo inappropriato delle strutture di pronto soccorso la maggior parte delle regioni hanno previsto una compartecipazione alla spesa per le prestazioni che non presentano rischi per i pazienti (ticket sui “codici bianchi”).

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La Legge Finanziaria 2007 [comma 796, lettera p.] ha istituito un ticket di 25,00 euro per tutte le prestazioni rese in occasione di interventi di Pronto Soccorso (non seguiti da ricovero) codificati come codice bianco. Il ticket non è dovuto per gli interventi su minori di anni 14, interventi su soggetti esenti da ticket, interventi conseguenti a traumatismi e avvelenamenti acuti.

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Assistenza agli italiani all’estero, agli stranieri in Italia

La sanità per gli italiani all’estero

L'assistenza sanitaria dei cittadini italiani all'estero è regolata da Regolamenti e Convenzioni internazionali, sulla base del principio di reciprocità.

La legge che ha dato vita al Servizio Sanitario Nazionale (L.833/78) assicura ai cittadini italiani l’assistenza sanitaria in Italia ma non riconosce un diritto incondizionato alla copertura sanitaria fuori dal territorio nazionale.

Esistono differenti modalità di erogazione dell’assistenza a seconda del motivo per cui ci si reca all'estero (temporaneo soggiorno, cure ad alta specializzazione, lavoro, studio...).

Tutti i cittadini italiani iscritti al Servizio Sanitario Nazionale che soggiornano temporaneamente in Stati membri dell'Unione Europea hanno diritto a ricevere prestazioni sanitarie in caso di urgenza presso le locali strutture pubbliche.

Oltre ai lavoratori dipendenti ed autonomi, e ai loro familiari, hanno diritto all'assistenza anche talune categorie di cittadini temporaneamente all'estero, come i borsisti, i ministri del culto, i dipendenti pubblici ed i militari in servizio all'estero.

Nell'Unione Europea e negli Stati che hanno stipulato apposite convenzioni bilaterali con l'Italia, anche i turisti beneficiano dell'assistenza, solo per le cure urgenti.

In questi casi le strutture sanitarie locali erogano direttamente l'assistenza ai beneficiari. Naturalmente gli interessati devono munirsi dell'apposita certificazione rilasciata dalle Aziende Sanitarie Locali.

Nei Paesi non convenzionati, i cittadini temporaneamente all'estero per motivi di lavoro o di studio hanno diritto al rimborso delle spese mediche sostenute secondo la procedura prevista dal DPR 31/7/1980 n.618.

Nei Paesi non convenzionati i cittadini temporaneamente all'estero per motivi diversi dal lavoro o studio (turismo, motivi di famiglia, etc.) non hanno diritto al rimborso delle spese sanitarie sostenute all'estero per cure mediche urgenti. Sarebbe, pertanto, prudente tutelarsi con una polizza assicurativa privata contro eventi sanitari imprevisti.

Qualora invece essi si rechino all'estero allo scopo di ricevere cure mediche (cure presso Centri di alta specializzazione all'estero, trapianti di organo, o casi in cui non sia possibile ricevere cure tempestivamente in Italia), devono preventivamente mettersi in contatto con la propria ASL.

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In sintesi:

• Che cosa devo fare prima di andare all’estero per motivi di turismo o di svago per

tutelarmi sulla mia salute? Cosa devo fare se, durante un viaggio di questo tipo, mi sento male?

Si possono presentare 3 diverse situazioni:

• Se lo Stato in questione appartiene all’Unione Europea per ottenere l'assistenza, il cittadino deve munirsi, prima della partenza dall'Italia, di un apposito modulo denominato "tessera europea di assicurazione malattia (TEAM)”. L’emissione e la distribuzione della TEAM a tutti gli iscritti al SSN viene effettuata dal Ministero dell’Economia e Finanze tranne che per gli assistiti della Regione Lombardia per i quali è la stessa Regione che provvede a distribuirla.

La tessera europea di assicurazione malattia (TEAM) è entrata in vigore, anche in Italia, dal 1° novembre 2004. Tale tessera permette di usufruire delle prestazioni sanitarie coperte in precedenza dai modelli E110, E111, E119 ed E128.

Esibendo tale tessera nel Paese di soggiorno temporaneo, il cittadino italiano ha diritto al medesimo trattamento fornito ai cittadini di quello Stato.

Si rammenta che la TEAM (o il certificato sostitutivo provvisorio) permette ad un cittadino in temporaneo soggiorno all’estero di ricevere nello Stato UE in cui si trova le cure “medicalmente necessarie” (e non solo le cure urgenti che venivano assicurate in precedenza dal modello E111).

Nel caso in cui il cittadino non abbia ricevuto la TEAM e debba recarsi in uno Stato Europeo, dovrà rivolgersi presso gli uffici della competente Azienda U.S.L per il rilascio del “Certificato che sostituisce provvisoriamente la Tessera Europea” (questo era quanto previsto fino al 31 dicembre 2005; dopo tale data il certificato viene rilasciato solo in caso di furto o smarrimento della tessera).

La card distribuita ai cittadini italiani è contemporaneamente Tessera Sanitaria (TS) per l'Italia e Tessera Europea di Assicurazione Malattia (TEAM). La Tessera Sanitaria mostra, sul fronte, le informazioni già riportate sul tesserino di codice fiscale e i dati sanitari riservati alla Regione. La tessera è riconoscibile anche dalle persone non vedenti, grazie all'uso di caratteri in rilievo.

Il retro della Tessera Sanitaria ha validità di Tessera Europea di Assicurazione Malattia (TEAM) e, dal 1 gennaio 2006, viene utilizzata da coloro i quali si recano in soggiorno temporaneo in uno degli Stati della UE, SEE (Norvegia, Islanda e Liechtenstein) Austria e Svizzera, in sostituzione del precedente modello cartaceo E111.

La Tessera ha validità 5 anni, salvo diversa indicazione da parte della Regione/ASL di assistenza. In prossimità della scadenza, l'Agenzia delle Entrate provvede automaticamente ad inviare la nuova Tessera a tutti i soggetti per i quali non sia decaduto il diritto all'assistenza.

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• Se lo Stato non fa parte dell’UE né dello SEE bisogna accertarsi se abbia siglato o meno un accordo con l’Italia in materia sanitaria. Infatti, esiste tutta una serie di accordi bilaterali stipulati tra l'Italia e gli altri Stati extra Unione Europea per quanto riguarda l'assistenza sanitaria, simili ai regolamenti dell'Unione Europea; precisamente gli Stati convenzionati sono: Argentina, Australia, Brasile, Croazia, Slovenia, Principato Di Monaco, Repubblica di San Marino. Nel caso in cui lo Stato non faccia parte dell’UE e neanche dello SEE, è necessario farsi rilasciare dalla USL l’attestato di copertura sanitaria in quello Stato.

• E, in tutti gli altri paesi con i quali lo Stato non ha firmato nessuna convenzione o accordo i cittadini temporaneamente all’estero per motivi diversi dal lavoro o studio non hanno diritto al rimborso delle spese sanitarie sostenute all’estero per cure mediche urgenti.

Pertanto, per i Paesi non inclusi nell'Unione Europea, come gli Stati Uniti o il Canada ad esempio, è consigliabile munirsi di una apposita polizza assicurativa.

Mediamente la polizza deve contenere:

• rientro in Italia su aereo sanitario;

• anticipo di denaro in caso di furto o spese improvvise per malattia o altro. l viaggio di un familiare che raggiunga il malcapitato e' spesso previsto solo se c'e' una degenza che ecceda i sette giorni. Verificate quali siano le spese sostenute per questo familiare, perché quasi sempre riguardano solo il viaggio. Il rimborso delle spese mediche e' gravato da franchigia (assunzione di una parte del danno da parte dell'assicurato) e riferito, in genere, ai casi di infortunio e non malattia.

E’ necessario ricordare che sono quasi sempre escluse dai rimborsi quelle patologie che erano presenti sull'assicurato prima della partenza.

Quando si torna dal viaggio occorre fare la richiesta di rimborso con raccomandata A/R nei termini previsti dal contratto, allegando tutte le carte del caso, comprese le ricevute per l'acquisto di farmaci.

• Le spese per visite o esami specialistici sostenuti durante una vacanza all’estero, mi saranno rimborsate dal SSN?

La risposta dipende dal tipo di Stato estero; infatti ,per le cure non urgenti prestate in uno Stato della CEE, il rimborso è previsto dal SSN unicamente se esiste un accordo bilaterale tra l’Italia e lo Stato estero interessato che preveda un rimborso per quel tipo di spese.

• Se sostengo delle cure di alta specializzazione all’estero posso ottenere il rimborso dal

SSN?

Il SSN assicura tutte le prestazioni comprese nei Livelli Essenziali di Assistenza. Nel caso di prestazioni ad altissima specializzazione non ottenibili in Italia in forma appropriata e tempestiva alla particolarità del caso clinico si può richiedere una specifica autorizzazione della ASL che poi consente il rimborso delle spese, in forma totale o parziale.

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E’ bene sottolineare che la TEAM non può essere utilizzata per il trasferimento all’estero per cure programmate di alta specializzazione, in questo caso è necessaria la preventiva autorizzazione rilasciata dalla Azienda U.S.L. competente di cui sopra.

Le procedure per richiedere l’autorizzazione al trasferimento per cure sono le seguenti:

• L’interessato, o chi per esso, deve presentare domanda all’Azienda Sanitaria Locale di appartenenza corredata dalla proposta di un medico specialista nonché dall’ulteriore documentazione eventualmente prescritta da disposizioni regionali.

• La proposta del medico specialista deve essere adeguatamente motivata in ordine all’impossibilità di fruire delle prestazioni in Italia tempestivamente o in forma adeguata al caso clinico. Si precisa che la proposta, per essere valida, non deve necessariamente essere fatta esclusivamente da un medico specialista pubblico, pertanto è valida anche la proposta di un medico specialista privato.

• L’istanza o la proposta del medico deve contenere l’indicazione della struttura estera prescelta per la prestazione.

• L’Azienda Sanitaria Locale provvede, secondo modalità stabilite dalla Regione, alla trasmissione della domanda e della documentazione al Centro di Riferimento Regionale territorialmente competente.

• Il Centro di Riferimento, valutata la sussistenza dei presupposti sanitari per usufruire delle prestazioni richieste (impossibilità di fruirle tempestivamente in Italia, ovvero in forma adeguata alla particolarità del caso clinico) presso la struttura estera, comunica all’Azienda Sanitaria Locale competente il proprio parere motivato in ordine all’autorizzazione richiesta.

• L’azienda Sanitaria Locale, acquisito il parere del Centro di Riferimento, provvede o meno al rilascio dell’autorizzazione dandone comunicazione all’interessato ed al Centro predetto.

• In caso di accoglimento della domanda, se la struttura estera è privata, l’ Azienda Sanitaria Locale rilascia apposita autorizzazione scritta e l’assistenza viene erogata in forma indiretta. Se la struttura è pubblica o privata convenzionata, la Azienda Sanitaria Locale provvede a rilasciare un formulario E 112, se è per uno Stato comunitario, oppure un formulario analogo se si tratta di uno Stato convenzionato e l’assistenza viene erogata in forma diretta.

• Le cure di mantenimento o di controllo, anche se riferite ad una precedente autorizzazione, devono essere preventivamente autorizzate dal Centro di Riferimento Regionale, per cui, ogni qualvolta si presenta questa necessità, deve essere presentata domanda di autorizzazione secondo le stesse procedure sopra indicate.

• Mezzi di ricorso in caso di rigetto; si distinguono due casi:

- In caso di rigetto della domanda di autorizzazione l’interessato ha facoltà di avvalersi dei seguenti mezzi di impugnativa:

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• ricorso al Centro Regionale di Riferimento in caso di parere negativo dello stesso , al Direttore Generale della Azienda Sanitaria Locale in tutti gli altri casi (vedasi Circolare Regione Piemonte prot. n.1148/50PSRLP del 9.03.1990);

• ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR);

• ricorso straordinario al Presidente della Repubblica;

• ricorso in appello al Consiglio di Stato.

• In caso di rigetto della domanda di rimborso delle spese , l’interessato ha facoltà di ricorrere:

• alla magistratura ordinaria (giudizio di 1° grado);

• alla magistratura ordinaria di appello (giudizio di 2° grado);

• alla magistratura di Cassazione (giudizio di 3° grado)

1. Se sostengo delle spese sanitarie durante la mia permanenza all’estero per motivi di lavoro, ho diritto al rimborso?

Il Servizio Sanitario Nazionale disciplina l'assistenza sanitaria dei cittadini italiani e dei loro familiari durante la permanenza all'estero dovuta a motivi di lavoro. Ad essi è riconosciuta la piena tutela assicurativa sia in forma diretta, sia in forma indiretta.

Anche in questo caso si possono presentare tre situazioni:

• Stati dell'Unione Europea (UE), Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera:

• soggiorno temporaneo: i lavoratori subordinati (pubblici e privati), i lavoratori autonomi e i lavoratori dei trasporti internazionali utilizzano la TEAM (o il certificato sostitutivo provvisorio) che sostituisce il vecchio modello E128.

• residenza: i lavoratori che trasferiscono per motivi di lavoro la residenza all'estero (intesa come abituale dimora) hanno diritto al rilascio da parte dell'ASL del modello E106, che assicura per sé e per i propri familiari l'assistenza sanitaria secondo le stesse regole e gli stessi livelli riconosciuti ai lavoratori residenti.

• Stati convenzionati: nei paesi che hanno stipulato accordi bilaterali con l'Italia, l'assistenza sanitaria per i lavoratori e loro familiari che trasferiscono per motivi di lavoro la residenza all'estero è assicurata in forma diretta o indiretta, a seconda di quanto previsto dalla Convenzione.

• Paesi non convenzionati: l'assistenza sanitaria all'estero è garantita dal DPR n.618 del 31/7/1980 che assicura la copertura assistenziale in qualsiasi Paese del mondo ai cittadini italiani che si recano all'estero in distacco lavorativo per brevi periodi. Prima di

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partire, bisogna richiedere alla propria ASL di appartenenza l'attestato previsto dall'art. 15 del DPR 618/80, contenente una dichiarazione del datore di lavoro, da dove risulti l'iscrizione al SSN. per sé ed i familiari. Tale dichiarazione dovrà essere presentata, in caso di necessità, al Consolato italiano competente unitamente alle fatture relative alle spese sanitarie sostenute ed alla domanda di rimborso. Il Consolato provvederà a trasmettere al Ministero della Salute la domanda di rimborso. Si hanno tre mesi di tempo, dalla data delle fatture, per presentare domanda di rimborso ai Consolati che, nel caso di spese ingenti, possono provvedere a degli anticipi fino al 50% del valore.

All'estero, entro tre mesi dalla prestazione sanitaria ricevuta, è possibile richiedere il rimborso per le spese sanitarie sostenute all'Ambasciata o al Consolato territorialmente competente.

Non rientrano tra le categorie assistite all'estero: le persone che già usufruiscono nello Stato estero di prestazioni sanitarie garantite da un'assicurazione pubblica o privata contro il rischio malattia prevista dalla normativa locale, né i lavoratori che hanno un'assicurazione sanitaria garantita dal datore di lavoro.

• Se devo frequentare un corso di formazione all’estero, come posso fare per garantirmi sulla salute nel caso in cui mi senta male?

Gli studenti e i titolari di borsa di studio godono della copertura sanitaria all'estero secondo due diverse modalità, a seconda dello Stato prescelto:

• Stati dell'Unione Europea (UE), Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera: l'assistenza sanitaria è equivalente a quella dei lavoratori ed è assicurata dalla TEAM (o in mancanza dal certificato sostitutivo), che sostituisce il vecchio modello E128.

• Paesi non convenzionati: l'assistenza sanitaria all'estero è garantita dal DPR n.618 del 31/7/1980 che assicura la copertura assistenziale ai cittadini italiani che si recano in qualsiasi Paese del mondo.

Prima di partire bisogna richiedere sempre alla propria ASL l'attestato previsto dall'art. 15 del DPR 618/80. Quando ci si trova all'estero, entro tre mesi dalla prestazione sanitaria, è possibile richiedere il rimborso per le spese sanitarie sostenute all'Ambasciata o al Consolato territorialmente competente.

• Se sono emigrato residente all’estero e durante uno dei miei soggiorni in Italia ho bisogno di assistenza sanitaria, mi viene concessa?

Occorre esibire una dichiarazione del Consolato italiano del luogo dove si risiede, che attesti lo status di emigrato. L'assistenza sanitaria viene concessa per un periodo di tempo non superiore ai 90 giorni, anche cumulabili, per anno solare.

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I diritti di salute garantiti agli stranieri

Per tutti i cittadini la Costituzione italiana riconosce come fondamentale il diritto alla tutela della salute, affermando, nell’articolo 32: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”…“i cittadini devono collaborare al mantenimento della salute, sia osservando i comportamenti richiesti nell’interesse collettivo, sia partecipando alle spese necessarie, in rapporto alle loro diverse capacità contributive”. L’art. 3 afferma: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale…senza distinzione di razza, sesso, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”; il diritto alla salute era stato ribadito a livello internazionale dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali del 1966 afferma che: “ogni individuo ha diritto ad un livello di vita adeguato per sé e la sua famiglia che includa un’alimentazione, vestiario e un alloggio, adeguati”.

Nella Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, viene citato espressamente il migrante e la sua tutela (anche sanitaria).

Le indicazioni costituzionali, e quelle derivanti dai patti e convenzioni internazionali, rispondono ad una logica di solidarietà umana e di prevenzione collettiva, ma non hanno una natura immediatamente attuativa; resta affidata al legislatore nazionale l’individuazione e la determinazione degli strumenti, dei tempi e dei modi di attuazione. Ciò ha fatto sì che per anni in Italia l’immigrazione, non regolamentata né tutelata, abbia generato un’esclusione, non solo dalla normativa, ma anche dall’accesso ai servizi (anche dei più elementari), per coloro che non avevano alcun diritto a prestazioni, pur vivendo accanto a cittadini italiani nello stesso territorio.

Dalla metà degli anni ‘80 alla metà degli anni ‘90, a fronte di un diritto di salute negato per legge ai clandestini o inaccessibile ai più (per complessi iter burocratici, o perché connesso ad alcune condizioni giuridiche precise quali la residenza, la condizione lavorativa, ecc…), è stato il volontariato a supplire alla carenza di tutela della salute da parte pubblica, garantendo di fatto un diritto all’assistenza sanitaria. Con la legge 39 del 1990, “Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e di soggiorno dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato. Disposizioni in materia d’asilo”, cosiddetta “legge Martelli”, si introducono norme sull’ingresso e il soggiorno in Italia per motivi non solo di lavoro, ma anche di studio, di famiglia o di cure mediche. Cominciano così i ricongiungimenti familiari, che tanta importanza assumeranno negli anni successivi nel modificare le caratteristiche socio-demografiche della popolazione straniera presente in Italia. In particolare l’art. 9 comma 12, stabilisce che: “ i cittadini extra-comunitari e gli apolidi che chiedono di regolarizzare la loro posizione, sono a domanda assicurati al SSN ed iscritti alla USL del comune di effettiva dimora…” Negli anni successivi vengono attuati vari interventi legislativi che non vanno però a modificare, se non in piccola parte, la legge 39.

Il successivo decreto in materia di immigrazione, il D.L. n. 489 del 18/11/95 (decreto Dini) dal titolo: “Disposizioni urgenti in materia di politica dell’immigrazione e per la regolamentazione ingresso e soggiorno nel territorio nazionale dei cittadini dei Paesi non appartenenti all’Unione Europea”, dedica maggiore attenzione alle problematiche sanitarie dei cittadini

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stranieri presenti in Italia. Infatti il decreto estende il diritto alle cure ordinarie e continuative ed i programmi di medicina preventiva, anche agli irregolari e ai clandestini. Vengono inoltre erogate senza oneri a carico dei richiedenti, le prestazioni preventive, come quelle per la tutela della maternità e della gravidanza.

Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1993) e dell’Accordo di Schengen (1997), un traguardo importante per la tutela della salute dello straniero extracomunitario, si è raggiunto con l’emanazione della legge quadro sull’immigrazione n.40 del 1998 (dal titolo: “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” detta anche “Turco–Napolitano”) confluita con Decreto Lgs n.286 del 1998 nel “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” le cui disposizioni sanitarie rappresentano una svolta rilevante rispetto al passato.

La motivazione di fondo della legge del 1998 partiva dalla consapevolezza che l’immigrazione rappresentava una risorsa economica, demografica e culturale importante, che tale fenomeno era ormai strutturale e necessitava di una politica di risposta ai bisogni di salute dei nuovi cittadini. In particolare gli articoli riguardanti le disposizioni in materia sanitaria, sono gli articoli 34, 35, 36 che hanno affrontato i punti che avevano impedito allo straniero di godere del diritto alla salute, che secondo la Costituzione dovrebbe essere effettivamente garantito ad ogni cittadino. Significativi sono stati i cambiamenti sia per coloro che possono iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale, sia per i cittadini stranieri non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno, i quali, con l’emanazione di questa legge, hanno potuto godere di un diritto per tanti anni negato o nascosto.

Il testo unico dunque, riconosce, a prescindere dalla condizione giuridica, “i diritti fondamentali della persona umana”, e sancisce l’inclusione a pieno titolo degli immigrati in condizione di regolarità giuridica nel sistema di diritti e doveri attinenti l’assistenza sanitaria, a parità di condizioni ed opportunità con il cittadino italiano, estendendo tali diritti anche a coloro che sono presenti in Italia in situazione di irregolarità giuridica e clandestinità. La legge Bossi-Fini (L. 30/07/2002, n.189 “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”) non ha modificato questi principi stabiliti dal Testo Unico.

I principi e le disposizioni contenute nel TU hanno trovato maggiore concretezza applicativa con l’emanazione del Regolamento di attuazione (il DPR n.394 del 31 agosto del 1999) che disciplina le modalità più opportune per garantire che le cure essenziali e continuative e le modalità di erogazione nell’ambito delle strutture della medicina nel territorio o nei presidi sanitari, pubblici e privati accreditati, strutturati in forma poliambulatoriale od ospedaliera”. L’art. 43 contempla particolari procedure per evitare che la condizione di clandestinità influisca sull’erogazione delle cure necessarie. A questo proposito, il Regolamento di attuazione, prevede per la registrazione delle prestazioni erogate a tali soggetti e per le eventuali prescrizioni diagnostiche terapeutiche, l’utilizzo di un codice a sigla STP (straniero temporaneamente presente), tale codice viene rilasciato da tutte le strutture sanitarie pubbliche, è riconosciuto su tutto il territorio nazionale e identifica l’assistito per tutte le prestazioni previste. E’ subordinato alla dichiarazione d’indigenza, rilasciata dallo straniero attraverso la compilazione del modello 1. STP predisposto dal Ministero della Sanità, che rimane agli atti della struttura che l’ha emesso. Lo straniero in possesso di tale codice è esentato dal pagamento del ticket, per tutte le prestazioni di primo livello e per quelle che sono in esenzione per i cittadini italiani, alle medesime condizioni (patologia, età e/o reddito).

Ulteriori chiarimenti e dettagli operativi al riguardo sono inoltre stati forniti dal Ministero della sanità con la Circolare n.5 del 24/3/2000 che contiene le indicazioni applicative del D.Lgs 25

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luglio 1998, n.286” . La Circolare fornisce la distinzione tra cure urgenti ed essenziali: sono urgenti “le cure che non possono essere differite senza pericolo per la vita o danno per la salute della persona”; essenziali “le prestazioni sanitarie, diagnostiche, terapeutiche relative a patologie non pericolose nell’immediato e nel breve termine, ma che nel tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute o rischi per la vita”.

Nei Piani sanitari nazionali degli ultimi anni, a partire dal PSN 1998-2000 (tale documento, per la rilevanza che ha rivestito in termini di programmazione su base nazionale, ha assunto un significato storico: per la prima volta infatti, la salute degli stranieri immigrati è stata riconosciuta tra le priorità del Servizio Sanitario Nazionale e dell’intera collettività che esso tutela) fino al vigente PSN 2006 -2008, viene ribadita la necessità di assicurare l’accesso delle popolazioni immigrate al SSN rendendo l’offerta di assistenza pubblica visibile e facilmente accessibile. In particolare il Piano 2006 – 2008 dedica ampio spazio “agli interventi in materia di salute degli immigrati e delle fasce sociali marginali” ed evidenzia la necessità di promuovere politiche di prevenzione in campo sanitario per giovani e minori, studi e ricerche sulla diffusione di malattie infettive nonché interventi di formazione per gli operatori sanitari, focalizzando l’attenzione sul settore materno – infantile, sugli infortuni sul lavoro, sulle condizioni sanitarie delle popolazioni Rom e sulle condizioni delle popolazioni senza fissa dimora.

In sintesi:

Che cos'è l’Assistenza agli stranieri? E' l'assistenza sanitaria agli stranieri, sia quelli con regolare permesso di soggiorno che non, garantito e erogato dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Come avere l'assistenza sanitaria? Chi proviene da un paese straniero, e non appartiene all'Unione Europea, ha il diritto, ma anche il dovere, di iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale italiano (SSN), che un tempo si chiamava «la mutua». Basta avere un regolare permesso di soggiorno, richiesto per lavoro, motivi familiari, adozione, affidamento, acquisto di cittadinanza, asilo politico o umanitario.

Quali documenti occorrono? Per iscriversi bisogna recarsi alla Azienda Sanitaria Locale (la ASL) del quartiere dove si risiede, presentando il permesso di soggiorno, il codice fiscale e il certificato di residenza che può essere compilato anche da soli (si chiama autocertificazione del domicilio). Poi è possibile scegliere il medico di famiglia e il pediatra di fiducia da una lista di nominativi che la ASL mette a disposizione dei cittadini. L'iscrizione al SSN vale fino allo scadere del permesso di soggiorno, ma per mantenerla valida nel periodo di rinnovo del certificato basta mostrare il cedolino rilasciato dalla Questura che attesta la richiesta. Viene poi precisato che, in mancanza di residenza, il cittadino straniero e i suoi familiari a carico sono iscritti negli elenchi degli assistibili dell'Azienda sanitaria locale nel cui territorio hanno effettiva dimora; per luogo di effettiva dimora si intende quello riportato sul permesso di soggiorno. Tale innovazione è volta a favorire l'iscrizione di quanti, a causa di una precarietà economica o lavorativa, sono costretti a continui spostamenti sul territorio nazionale, con corrispondenti cambiamenti di alloggio.

Cosa offre il Servizio Sanitario Nazionale? Con l'iscrizione al SSN: si ottengono gli stessi diritti e doveri dei cittadini italiani: è possibile scegliere il medico di famiglia e il pediatra, fare tutte le visite e gli esami specialistici che il medico riterrà opportuno prescrivere, essere ricoverati in ospedale, fare un'operazione chirurgica e ottenere le ricette per acquistare i

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farmaci. Non tutto è gratis. In alcuni casi, regola che vale per tutti, lo Stato chiede di contribuire alla spesa sanitaria facendo pagare una somma di denaro chiamata ticket.

Chi non lavora ha diritto alle cure? L'assistenza sanitaria è garantita anche ai familiari di primo grado a carico del capofamiglia - coniuge, fratelli, genitori e figli - che soggiornano regolarmente in Italia.

Cosa cambia per studenti e lavoratori alla pari? Chi risiede in Italia per motivi di studio, religiosi o è collocato alla pari, ha due possibilità: procurarsi, prima di partire, un'assicurazione sanitaria riconosciuta dall'Italia contro il rischio di malattie, infortunio o maternità, oppure fare un'iscrizione volontaria al Servizio Sanitario Nazionale pagando una quota fissa che però va rinnovata ogni anno. Con quest'ultima formula verranno assistiti anche i familiari a carico.

Ci sono altre eccezioni? Sì. Chi ha un permesso di soggiorno di breve durata, per esempio per affari o turismo (e non ha un'assicurazione privata) deve pagare per intero le cure che riceve e gli esami che fa.

Senza permesso di soggiorno si ha diritto all'assistenza sanitaria? Sì. Anche in assenza di un permesso di soggiorno valido (perché è scaduto, non è stato rinnovato, oppure non è mai stato ottenuto), è possibile essere curati in ospedale o in ambulatorio presentando la tessera STP (straniero temporaneamente presente), che va richiesta alla ASL. In particolare prevede la necessità di assicurare anche “ai non cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno…le cure ambulatoriali urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio” e di estendere “i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva”. Inoltre l’articolo garantisce: la “tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane” (comma 3, lettera a), “la tutela della salute del minore in esecuzione alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 20/11/1989” (comma 3, lettera b), “le vaccinazioni secondo la normativa e nell’ambito di interventi di campagne di prevenzione collettiva autorizzati dalle regioni” (comma 3, lettera c), “gli interventi di profilassi internazionale” (comma 3, lettera d), e “la profilassi, la diagnosi, e la cura delle malattie infettive” (comma 3, lettera c).

In molte città, inoltre, è possibile rivolgersi anche alle associazioni ove lavorano medici e dentisti volontari. Se ci si ammala è importante chiedere aiuto, non solo per curarsi, ma per proteggere le persone che ci circondano.

A cosa fare attenzione? Tutti gli immigrati irregolarmente presenti in Italia che richiedono prestazioni sanitarie gratuite o parzialmente gratuite (ticket) devono trovarsi in condizioni di indigenza (non essere in grado di pagare). Questa condizione deve essere attestata da una auto-certificazione che verrà compilata su un apposito modulo (Dichiarazione d'indigenza) al momento della richiesta. Per ottenere le prestazioni gratuite o parzialmente gratuite devi eseguire le visite e gli esami nelle strutture pubbliche o convenzionate. Alcune strutture sanitarie non sono completamente informate delle norme che regolano le prestazioni agli stranieri non regolari o applicano direttive regionali più vaghe e restrittive. Il riferimento legislativo è: DPS-X-40-286/98- circolare n.5 del 24 marzo 2000, DPR 394/99, telex Ministero della Sanità 1 Aprile 2000.

Chi non è in regola deve pagare le cure? Con la tessera STP alcuni servizi sono completamente gratuiti, altre volte viene richiesto il pagamento del ticket.

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Se un clandestino va da un medico o in ospedale rischia di essere denunciato? No. Chi si rivolge a una struttura sanitaria riceverà le cure necessarie e non sarà denunciato per il fatto di non avere il permesso di soggiorno.

Le donne immigrate, prive di permesso di soggiorno, cosa possono fare? Possono rivolgersi ai seguenti servizi, nel rispetto della riservatezza:

Consultorio Familiare per:

• Contraccezione (con pagamento ticket);

• Gravidanza (prestazione gratuita);

• Certificazione per interruzione di gravidanza (prestazione gratuita);

• Controllo menopausa (con pagamento ticket).

Ospedali per:

• Controllo gravidanza (assistenza ed esami) (prestazione gratuita);

• Assistenza (prestazione gratuita) al parto;

• Interruzione di gravidanza (prestazione gratuita).

Spazi prevenzione della lega tumore per:

Esami dell'apparato genitale femminile per la prevenzione(con pagamento ticket).

Ai minori irregolari è garantita la tutela della salute? Si, è garantita in esecuzione della Convenzione sui Diritti dell’infanzia, che prevede, per tutti i minori di 18 anni “il diritto al godimento del miglior stato di salute possibile e a beneficiare dei servizi medici e di riabilitazione”. I minori stranieri irregolari, invece, non possono essere iscritti al SSN e non possono usufruire del Pediatra di Libera scelta. Hanno tuttavia diritto ad usufruire delle cure mediche presso strutture sanitarie pubbliche, quali ambulatori specialistici, ospedali, consultori pediatrici di zona. I bambini stranieri, anche se irregolari, di età compresa tra i 0 e i 6 anni, hanno diritto alle cure mediche di base e specialistiche presso le strutture ospedaliere e territoriali, in forma gratuita; se, dopo la nascita, si richiede un permesso di soggiorno temporaneo, per i 6 mesi successivi si ha diritto all’iscrizione al SSN presso il distretto della zona di competenza e ad accedere a tutte le cure previste per i bambini italiani, tra cui il pediatra di base. Le vaccinazioni sono obbligatorie, il bambino può riceverle gratuitamente presso i consultori e i centri di vaccinazione. Tutti i minori irregolari con un’età superiore ai 6 anni hanno diritto, fino al compimento del 18 anno, a tutte le prestazioni di primo livello. Le prestazioni specialistiche sono erogate in seguito al pagamento del ticket, a parità dei cittadini italiani.

L'Italia offre assistenza sanitaria anche a chi non risiede sul territorio? Chi è ancora all'estero e vuole venire in Italia a curarsi, e un suo eventuale accompagnatore, devono

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presentare una dichiarazione rilasciata dalla struttura sanitaria italiana per ottenere uno specifico visto di ingresso e relativo permesso di soggiorno per cure mediche. I requisiti che deve possedere tale dichiarazione sono: il tipo di cura, la data d’inizio, e la durata del trattamento terapeutico. Deve, inoltre, dimostrare di potersi pagare il vitto e l'alloggio (per tutto il periodo di permanenza) e versare alla struttura, in genere l'ospedale, il 30 per cento delle spese previste, come deposito. E' inoltre necessario farsi rilasciare dall'ambasciata italiana un visto di ingresso e un permesso di soggiorno.

Principali disposizioni d’interesse sanitario relative all' immigrazione

• L. 28-02-1990, n.39 - Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, recante norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato. Disposizioni in materia di asilo. • D.L. 18/11/95, n.489 - “Disposizioni urgenti in materia di politica dell’immigrazione e per la regolamentazione ingresso e soggiorno nel territorio nazionale dei cittadini dei Paesi non appartenenti all’Unione Europea”. • L. 6 marzo 1998, n.40 – “Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” Articoli sanitari: 32, 33 e 34. • D.Lgs 25 luglio 1998, n.286 “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. Articoli sanitari: 34, 35 e 36. • Piano Sanitario Nazionale 1998-2000, approvato con DPR 23 luglio 1998. • DPR 31 agosto 1999, n.394. “Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”. La parte sanitaria è trattata in modo specifico agli articoli 42, 43 e 44. • Circolare del Ministro della Sanità 24 marzo 2000, n.5 - (DPS-X-40-286/98) «Indicazioni applicative del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.286, "Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione" e norme sulla condizione dello straniero" - Disposizioni in materia di assistenza sanitaria». • Decreto Presidente Repubblica 30 marzo 2001 – “Approvazione del documento programmatico relativo alla politica dell'immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, a norma dell'art. 3 della L. 6 marzo 1998, n.40”. • L. 30-07-2002, n.189 – “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”. • Piano Sanitario Nazionale 2003 – 2005 approvato con DPR 23 maggio 2003.

Piano Sanitario Nazionale 2006 – 2008 approvato con DPR 7 aprile 2006.

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La Prevenzione

Guadagnare salute

Una buona salute, forma o condizione fisica è garantita da uno stile di vita sano piuttosto che da una eredità genetica. Pochi, ma importanti sono i fattori che contribuiscono ad un buon invecchiamento, tra questi il movimento fisico, la lotta all’obesità e al fumo.

Il movimento fisico

Dai dati forniti dal Ministero della Salute per quanto riguarda l’attività fisica dei cittadini italiani emerge un preoccupante andamento: aumenta il numero dei sedentari e tale fenomeno assume particolare rilievo nelle fasce di età giovanile.

Circa il 60% degli adulti tra i 25 e i 64 anni non svolge alcuna attività fisica. La medicina sportiva, invece, ha potuto constatare come negli sportivi “di vecchia data” l'uso costante e sorvegliato di un'attività sportiva adeguata incrementa le resistenze totali dell'organismo, limita l'involuzione muscolo-scheletrica e cardio-vascolare, stimola le capacità psico-intellettuali del soggetto. Un tessuto muscolare quotidianamente attivo è, infatti, il motore attraverso cui sono impiegati la maggioranza degli zuccheri, grassi e proteine introdotti con l’alimentazione.

Un muscolo inattivo, invece, limita la potenzialità espressiva della persona e conduce ad un invecchiamento precoce ed accompagnato da tutte quelle patologie legate alla sedentarietà.

Una regolare attività fisica previene patologie croniche, come:

• diabete di 2 tipo;

• disturbi cardiocircolatori;

• obesità.

protegge da condizioni disabilitanti tipo:

• osteoporosi;

• artrite.

riduce o elimina fattori di rischio come:

• pressione alta;

• colesterolo alto.

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Alcuni studi dimostrano che le persone fisicamente attive hanno una speranza di vita superiore ai sedentari in media di circa 6 anni. Inoltre, l’esecuzione di un’intensa attività sportiva è molto efficace nel ridurre la sintomatologia depressiva, rallenta il declino fisico e cognitivo che talvolta caratterizza l’invecchiamento e garantisce un buon riposo notturno.

In uno studio statunitense, ormai celebre, chiamato "Colorado on the move" si è raggiunto l'obiettivo di migliorare la salute e la qualità della vita dei partecipanti semplicemente aggiungendo alla normale attività quotidiana 2000 passi in più. Sono sufficienti 30 minuti di cammino svelto se non tutti i giorni almeno nel fine settimana per ottenere risultati salutari a tutte le età.

Semplici ma utili consigli per i più sedentari

- Camminare ogni volta che è possibile, ricordandoci che i benefici maggiori si ottengono con la continuità.

- Sfruttare al meglio il tempo a nostra disposizione anche ad esempio andando in ufficio:

• prendendo i mezzi pubblici per andare al lavoro; • scendendo una fermata prima della destinazione; • passeggiando durante le pause lavorative; • utilizzando le scale al posto dell’ascensore; • andando a parlare di persona con il collega anziché utilizzare il telefono

o l’e-mail.

Lotta all’obesità

Una corretta alimentazione è fondamentale per una buona qualità di vita e per invecchiare bene. La salute, infatti, si conquista e si conserva soprattutto a tavola, imparando sin da bambini le regole del mangiare sano. Il tradizionale modello alimentare mediterraneo è ritenuto oggi in tutto il mondo uno dei più efficaci per la protezione della salute ed è anche uno dei più vari e bilanciati che si conoscano.

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Più frutta, verdura e acqua

Tre-cinque porzioni di verdura al giorno e due-tre di frutta. È quanto raccomandano i migliori nutrizionisti per mantenerci in forma e in buona salute. Frutta e verdura, ricche di vitamine, fibre e tanta acqua, sono un vero concentrato di salute; contengono molti minerali e poche calorie. Grazie alla loro composizione, idratano l’organismo, mantenendo l’equilibrio idrosalino e ci aiutano a tenere il peso sotto controllo.

Meno grassi

Un’alimentazione a basso contenuto di grassi è premessa fondamentale, non solo per il controllo del peso corporeo, ma anche per ridurre i livelli di colesterolemia e prevenire l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Restare leggeri è una regola d’oro del mangiar sano. Significa da un lato evitare le abbuffate, dall’altro limitare i cibi poco digeribili, come i grassi, o troppo elaborati come i fritti e le salse.

Più varietà

Il tradizionale modello alimentare mediterraneo è ritenuto oggi in tutto il modo uno dei più efficaci per la protezione della salute ed è anche uno dei più vari e bilanciati che si conoscano. Esso si basa prevalentemente su alimenti di origine vegetale come i vari cereali (grano, riso, orzo, segale, farro), legumi, frutta, ortaggi, pesce, olio di oliva e moderati consumi di alimenti animali.

Più attenzione alle porzioni

L’alimentazione deve essere frazionata nel corso della giornata in tre pasti principali ed uno o due spuntini al giorno e, in caso di sovrappeso, modicamente limitata come apporto calorico rispetto al fabbisogno energetico in modo da realizzare un bilancio energetico negativo ossia una situazione in cui le uscite siano maggiori delle entrate.

Molto importante risulta, la distribuzione dei pasti: è necessario prevedere almeno tre pasti principali (prima colazione,pranzo e cena) e 1-2 spuntini (a metà mattino e/o metà pomeriggio) per consentire un più armonico rifornimento di substrati energetici e un minore impegno digestivo oltre al fatto di non arrivare affamati ai pasti pincipali.

È opportuno non saltare mai i pasti e cercare di:

• Ridurre i grassi di origine animale e privilegiare quelli di origine vegetale;

• Consumare regolarmente cereali, meglio se integrali, legumi, frutta,verdura carni magre e pesce;

• Limitare il consumo di cibi che contengano zuccheri semplici specie lontano dai pasti.

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Lotta al fumo

Dagli ultimi dati disponibili, mentre si registra un positivo aumento delle persone che hanno deciso di smettere di fumare, si rileva un pericoloso incremento dei nuovi fumatori , soprattutto nelle classi di età sotto i 14 anni e tra i 14 e i 17 anni . I dati presentati nell’ultima indagine condotta dall’ISTAT sulle condizioni di salute degli italiani, presentata a marzo 2007, fotografano una situazione ancora preoccupante. I fumatori in Italia sono 10 milioni e 925mila, pari al 21,7% della popolazione di 14 anni e più. Sono il 27,5 dei maschi e il 16,3 delle femmine. Gli adolescenti e i giovani iniziano a fumare più precocemente: il 7,8% dei giovani ha iniziato a fumare prima dei 14 anni. Inoltre, diminuisce il numero di fumatori tra gli uomini adulti, ma resta ancora elevato tra le donne adulte. I danni del fumo sono in realtà ormai ben studiati e conosciuti e sono particolarmente rilevanti nelle donne. Si pensi, ad esempio, al tumore del polmone, che, molto raro in passato nella popolazione femminile, ha registrato un notevole aumento, tanto da essere diventato la terza causa di morte per le donne in Italia, dopo il tumore del seno e quello dell’intestino.

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Le vaccinazioni In Italia sono obbligatorie per legge le vaccinazioni antidifterica, antitetanica,antipoliomelitica e antiepatite B. Le vaccinazioni contro la pertosse, il morbillo, laparotite, la rosolia e l’Haemophilus influenzae di tipo B sono raccomandate a livellonazionale, e incluse nel vigente calendario nazionale, così come nei Livelli essenzialidi assistenza. Recentemente sono stati inoltre introdotti sul mercato tre vaccini, quello per ilmeningococco C, per lo pneumococco e per la varicella, raccomandati per alcunecategorie di individui. La disponibilità sul mercato di nuovi vaccini contro agenti infettivi qualipneumococco, meningococco C e varicella da una parte fornisce importanti strumentidi prevenzione, dall’altra apre il dibattito sulle loro strategie di utilizzo e sullemodalità dell’offerta. Il nuovo Piano nazionale vaccini 2005-2007 (cfr.www.ministerosalute.it) fornisce indicazioni sui nuovi obiettivi perseguibili eindividua le categorie prioritarie a cui offrire questi vaccini. Il piano non contiene,però, un calendario vaccinale nazionale per questi prodotti, demandando alle Regionie alle Province autonome le decisioni in tal senso, in base alla situazioneepidemiologica locale e alla disponibilità economica. Al 31 ottobre 2005, 19 traRegioni e PA avevano approvato raccomandazioni circa i tre vaccini in causa. Oltre ai vaccini raccomandati a tutta la popolazione, ci sono vaccini disponibili eraccomandati a chi è esposto a particolari agenti patogeni per motivi professionali(per esempio, la vaccinazione antirabbica per i veterinari). Inoltre, l’autorità sanitaria si è posta, con il Piano nazionale vaccini, l’obiettivo diraggiungere una copertura del 75% degli anziani oltre i 64 anni di età e dei soggetti arischio con la vaccinazione per l’influenza. Infine, esistono una serie di vaccini raccomandati dalle autorità sanitarie a chi viaggiaall’estero rischiando di venire a contatto con agenti patogeni non presenti nel nostroPaese. Negli ultimi anni, infatti, l'attenzione delle autorità sanitarie di tutto il mondosi è focalizzata sull'importanza di tutelare la salute da possibili focolai di infezioni odalle precarie situazioni igenico-sanitarie dei paesi visitati. Molti rischi infattipossono essere minimizzati da opportune precauzioni, profilassi e vaccinazioni, preseprima della partenza. I rischi associati con il viaggio variano non solo in base alla destinazione ma anchealle caratteristiche del viaggiatore, che a seconda dell'età, del suo stato di salute, delsesso, della condizione in cui viaggia, si espone a rischi a volte anche molto diversipur visitando lo stesso paese. Il motivo del viaggio, infine, a sua volta differenzia iltipo di rischio che si può incontrare: dal villaggio vacanze alla missione umanitaria, iltipo di condizioni e quindi anche di parassiti che si possono incontrare varianonotevolmente. Le malattie che si possono contrarre viaggiando sono molto numerose. Tra questesegnaliamo: Chikungunya,Diarrea del viaggiatore, Problemi associati ai viaggi aerei,Dengue, Malaria Febbre gialla, Malattie sessualmente trasmissibili, Epatite A e B,

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Febbre tifoide, Colera, diverse zoonosi (rabbia, brucellosi, leptospirosi e febbri emorragiche) Malattie trasmesse per via aerea (influenza, meningite e tubercolosi)

Le vaccinazioni possono rappresentare un efficace metodo preventivo di molte delle malattie contraibili durante i viaggi. I vaccini normalmente consigliati sono tutti quelli obbligatori nel paese di origine (come quelli contro tetano, difterite, poliomelite, epatite B, Haemophilus influenzae tipo b, morbillo e rosolia), somministrati in età infantile, e una serie di vaccini specifici che sono consigliati quando si visitano determinate zone (colera, influenza, epatite A, encefalite, meningite, tubercolosi, febbre tifoide, febbre gialla). Ci sono anche vaccini richiesti per accedere a zone prive di certi agenti parassitari, come ad esempio la febbre gialla o la meningite. Informazioni sull'obbligo di vaccinazione per visitare le diverse zone del mondo si possono trovare presso servizi specifici o presso l'OMS.

( cfr. il sito internet dell’Istituto Superiore Sanità www.iss.it)

Vaccinazioni obbligatorie ed obbligo scolastico

La mancata certificazione relativa alle vaccinazioni obbligatorie non può comportare il rifiuto di ammissione dell'alunno alla scuola dell'obbligo o agli esami. Lo ha precisato il D.P.R. 355 del 26.1.1999, che ha modificato in questo senso il più restrittivo D.P.R. 1518 del 1967. I dirigenti scolastici devono accertare se siano state praticate le vaccinazioni, richiedendo la presentazione della certificazione, ma nel caso di mancata presentazione dovranno soltanto comunicare il fatto entro cinque giorni all'azienda sanitaria locale di appartenenza dell'alunno e al Ministero della Salute, per gli opportuni interventi di competenza, compresi eventuali interventi d'urgenza.

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Screening

L’importanza della diagnosi precoce di una malattia e la maggiore efficacia di una terapia tempestiva sono ormai patrimonio culturale non solo della medicina, ma sostanzialmente di tutti i cittadini. Laddove esistono prove scientifiche dell’efficacia di pratiche in grado di garantire ai cittadini significativi vantaggi in termine di salute, è dovere dei servizi sanitari non lasciare la presa in carico di situazioni cliniche all’occasionale, individuale incontro tra medici e assistiti o solo quando si è già in presenza di sintomatologia significativa, ma intervenire con programmi attivi e organizzati di sanità pubblica.

Lo screening è un programma organizzato e sistematico di diagnosi precoce condotto su una popolazione asintomatica (cioè che non accusa nessun disturbo o “sintomo” di quella specifica malattia: lo screening si rivolge a persone “che si sentono sane”) che viene attivamente invitata dalla struttura sanitaria ad effettuare, gratuitamente, un esame clinico, strumentale o di laboratorio. Attraverso uno screening si vuole identificare una malattia in fase iniziale perché, tanto più è precoce la diagnosi, tanto più è probabile riuscire a modificare la storia naturale della malattia utilizzando un trattamento dimostratosi efficace.

Uno screening di popolazione ben gestito è considerato più efficace dei controlli clinici individuali su richiesta in quanto organizzato sempre con un rigoroso approccio scientifico e fondato sulle migliori prassi disponibili.

Screening oncologico

Il razionale di uno screening oncologico è basato sulle seguenti considerazioni:

• la malattia che si vuole identificare è un problema di salute pubblica che coinvolge un elevato numero di persone (dato epidemiologico);

• esistono lesioni pre-cancerose e/o stadi precoci nel corso dello sviluppo della malattia che è possibile rilevare e diagnosticare;

• il test da utilizzare deve essere accettabile dalla popolazione, innocuo, facile da eseguire, ripetibile, economico e di sicura efficacia;

• il trattamento terapeutico effettuato durante lo stadio precoce della malattia comporta vantaggi dimostrati (diminuzione della mortalità e/o dell’incidenza e riduzione dei costi) rispetto al trattamento in uno stadio più tardivo;

• esistono, e sono disponibili nel modo programmato dallo screening, strutture sanitarie qualificate in grado di prendere in carico i pazienti inseriti nei programmi di screening per effettuare l’eventuale seguito diagnostico e terapeutico (disease management);

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• I benefici dello screening (costi ed eventuali complicanze) sono superiori ai possibili effetti negativi (falsi negativi o falsi positivi con, talora, ritardi di diagnosi, generazione di ansia o costi inutili per ulteriori accertamenti ecc...);

• Lo screening (con il quale si effettua in genere una diagnosi precoce) è solo uno dei metodi per controllare i tumori: quando è possibile, è meglio dare priorità assoluta alla prevenzione primaria dei tumori (stili di vita, fumo, alimentazione, ambiente di vita e di lavoro ecc...);

• Lo screening è un intervento di sanità pubblica. I benefici di un programma di screening si realizzano soltanto se la copertura della popolazione e l’adesione sono alte;

• Le ASL sono tenute a promuovere i programmi di screening, assicurare le risorse necessarie e l’informazione alla popolazione. E’ indispensabile il coinvolgimento e la partecipazione dei medici di medicina generale. E’ assicurata la riservatezza dei dati.

• Negli ultimi anni, gli organismi e le istituzioni nazionali e internazionali della sanità hanno promosso con documenti strategici e tecnico-organizzativi, la prevenzione oncologica basata sulla diagnosi precoce e, in particolare, l’attivazione di programmi di screening.

Ecco un breve panorama normativo:

Nel dicembre 2003 il Consiglio d’Europa ha raccomandato agli Stati membri, l’effettuazione di programmi di screening per il cancro della mammella, del collo dell’utero e del colon retto.

In Italia:

• Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 e 2003-2005: individuano la diagnosi precoce tra gli interventi da promuovere in ambito oncologico. Viene prevista l’estensione, a tutto il territorio nazionale, degli screening che si sono dimostrati efficaci nel modificare la storia naturale di una malattia.

• Accordo Stato-Regioni 8/3/01 : linee guida riguardanti la prevenzione, la diagnosi e l’assistenza in oncologia con indicazioni sull’effettuazione degli screening.

• Legge finanziaria 2001: definisce come esenti da ticket la mammografia (ogni due anni, per le donne tra 45 e 69 anni), l’esame citologico cervico-vaginale o Pap test (ogni tre anni, per le donne tra 25 e 65 anni) e la colonscopia (ogni cinque anni, per la popolazione di età superiore a 45 anni e per la popolazione a rischio, individuata secondo i criteri determinati da un decreto del Ministero della Sanità).

• L’Accordo Stato-Regioni del novembre 2001 inserisce gli screening tra i Livelli Essenziali di Assistenza individuandoli quindi come un diritto di tutti i cittadini.

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• Piano Sanitario Nazionale 2003-2005: nel capitolo relativo alla promozione della salute prevede l’offerta di test di screening di provata efficacia (Pap test, mammografia, ricerca del sangue occulto nelle feci) alle persone sane.

• L’intesa Stato –Regioni del luglio 2004 individua il Programma di Prevenzione Attiva e gli screening raccomandati e la Legge 138 del 2004 impegna il Paese a colmare gli squilibri dell’offerta degli screening tra le diverse Regioni e ad attivare lo screening per il cancro del colon retto, destinando ulteriori 52 milioni di euro a questi obiettivi.

• Sempre nel 2004, il Ministero della Salute istituisce tre gruppi di lavoro per il Piano screening, che individua obiettivi, fasi operative, monitoraggio e risorse per l’applicazione della Legge 138.

• Nel dicembre 2004, viene approvato, d’intesa con le Regioni, il Piano Screening che individua i criteri della ripartizione del finanziamento alle Regioni.

• L’Intesa Stato-Regioni del marzo 2005 vincola, per la prevenzione, fondi per 440 milioni di euro all’anno per il 2005/2008 e prevede, tra gli altri obiettivi il potenziamento degli screening oncologici.

• Nel novembre 2006, il Ministero della Salute, in collaborazione con la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori (Lilt) e l’Osservatorio Nazionale Screening ha promosso una Campagna di sensibilizzazione sugli screening intitolata “Si scrive screening, si legge prevenzione dei tumori”.

• I programmi di screening sono programmati dalle Regioni e gestiti, sul piano organizzativo dalle ASL e sul piano applicativo tecnico-clinico dalle strutture distrettuali e ospedaliere di riferimento.

• Le informazioni sugli screening comprese quelle relative ai riferimenti nella propria ASL, possono essere richieste, dai cittadini, all’ indirizzo di posta elettronica: [email protected]. Inoltre è disponibile un elenco degli sportelli informativi territoriali provinciali sugli screening.

I dati e le informazioni contenute nel testo fanno riferimento a documenti del Ministero della Salute, ISS, Osservatorio Nazionale Screening.

Screening del carcinoma della mammella

Il carcinoma della mammella rappresenta ancora oggi il tumore più frequente nella popolazione femminile, sia per incidenza sia per mortalità. Poiché, come per quasi tutti i tumori, la probabilità di ammalarsi aumenta progressivamente con l’età, anche per il tumore della mammella l’invecchiamento della popolazione comporta un aumento del numero dei casi.

Il numero di nuovi casi di tumore della mammella diagnosticati in Italia nel 2005 è stato di 39735 (donne 0-84 anni) mentre le morti sono state 9035.

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I programmi di screening sono offerti mediante mammografia biennale (secondo le linee guida europee e italiane) a tutte le donne nella fascia di età tra 50 e 69 anni. La mammografia è un esame radiografico della mammella effettuato con dosi molto basse di radiazioni che non comportano alcun rischio, anche se ripetute nel tempo, per la salute della donna.

Si discute, vista la maggiore durata di vita delle donne, se estendere lo screening alle donne oltre i 70 anni (fino a 74), per le quali esistono prove che ne documentano l’efficacia, (la mammografia ha una maggiore sensibilità e la velocità di crescita del tumore è inferiore) e prima dei 50 (dai 40 o 45), fascia di età per la quale, invece, non esistono ancora prove univoche e consolidate di effettivo vantaggio in termini di costo-efficacia dello screening che dovrebbe, tra l’altro, essere effettuato ad intervalli più ravvicinati. Nelle donne tra 45 e 49 anni è prevista comunque l’esenzione dal ticket per le mammografie anche effettuate spontaneamente.

Da alcuni anni, in Italia ma anche negli altri Paesi occidentali, i tassi di mortalità per tumore della mammella aggiustati per età (quindi corretti in accordo con l’invecchiamento della popolazione) sono diminuiti di circa il 20%.

La precocità della diagnosi, ( soprattutto per la diffusione degli screening, ma anche per controlli spontanei) con la possibilità di un intervento terapeutico più tempestivo e risolutivo, è alla base di questo dato ma anche del riscontro di un leggero aumento dell’incidenza.

Le stime degli studi internazionali rilevano che la partecipazione ai programmi di screening per il tumore della mammella riduce del 35% la probabilità di morire per questo tumore.

Circa la metà della riduzione della mortalità è attribuibile, secondo studi recenti, alla crescente diffusione della mammografia sia per i programmi organizzati che come controllo periodico su base spontanea. Va comunque sottolineato che un programma offerto in modo attivo e gratuito favorisce la partecipazione e l’equità di accesso alle cure delle donne più svantaggiate dal punto di vista socioeconomico o meno attente e informate sulla prevenzione.

Secondo dati dell’Osservatorio Nazionale Screening, nel 2004 circa il 70% della popolazione bersaglio italiana (donne in età 50-69 anni) è stato inserito in programmi di screening organizzati, ma il numero di donne che ha effettivamente eseguito una mammografia da screening è di poco superiore ad un quarto della popolazione bersaglio nazionale.

Questo dato è dovuto soprattutto al forte squilibrio che ancora permane tra le Regioni del Centro- Nord e quelle del Sud dove solo poco più del 10% della popolazione è coperta da programmi organizzati.

Per quanto riguarda le modalità organizzative, le donne inserite nella fascia di età oggetto dello screening, ricevono una lettera invito contenente i dettagli (giorno, ora e luogo dove verrà effettuata la mammografia) nonché le informazioni sui vantaggi e i limiti dello screening.

In alcuni casi, soprattutto nelle donne più giovani, e solo a discrezione dell’equipe che legge la mammografia, può essere opportuna l’integrazione con l’esame ecografico.

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Alle donne che partecipano allo screening viene garantito l’eventuale seguito del percorso diagnostico e terapeutico per il trattamento dei casi dubbi o dei tumori identificati ed il reinvito a cadenza biennale per i casi negativi.

Screening del carcinoma della cervice uterina (collo dell’utero)

In Italia, i dati dei registri nazionali tumori mostrano che ogni anno sono diagnosticati circa 3.500 nuovi casi di carcinoma della cervice (pari a una stima di incidenza annuale di 10 casi ogni 100.000 donne). Circa 1100 donne l’anno muoiono per questa malattia. Per quanto riguarda la prevalenza, in Italia, dell’infezione genitale da HPV virus del papilloma umano (associato significativamente a questo tumore), i dati disponibili su donne di età compresa tra 17 e 70 anni, che afferiscono a controlli ginecologici di routine o a programmi di screening (pap-test), mostrano una prevalenza del 7-16%.

La cervice uterina, o collo dell’utero o portio, è quella parte dell’utero che sporge in vagina ed è per questo motivo facilmente raggiungibile per esami diagnostici di diverso tipo. La storia naturale del carcinoma cervicale è caratterizzata da un lungo periodo di malattia non invasiva ( displasia o CIN-cervical intraepithelial neoplasia) che rappresenta un vero e proprio precursore del cancro dal comportamento benigno tale che la sua tempestiva identificazione consente trattamenti conservativi che assicurano una guarigione definitiva. Essendo totalmente asintomatica, la displasia è identificabile soltanto sottoponendo tutte le donne in età di rischio ad una esame (Pap-test, esame di facile esecuzione, totalmente non invasivo che si esegue durante una normale visita ginecologica, prelevando, mediante “striscio”, le cellule desquamate dal collo dell’utero) finalizzato alla sua individuazione. La pratica di questa impostazione (pap test ogni tre anni in donne di età compresa tra 25 e 64 anni) ha consentito, negli ultimi 15, 20 anni, la riduzione della mortalità complessiva per tumore dell’utero di oltre il 50%, passando da 8,6 casi ogni 100 mila donne nel 1980 a 3,7 casi ogni 100 mila donne nel 2002.

In base ai dati ISTAT sulla mortalità per tumore dell’utero però, non è possibile discriminare se la causa precisa di morte sia il carcinoma della cervice uterina o quello del corpo dell'utero (due tumori molto diversi) ma, da una analisi approfondita dei dati, si ha la percezione che gran parte della diminuizione sia da attribuire alla mortalità per tumore della cervice uterina. Esistono comunque diffuse evidenze scientifiche sull’efficacia dello screening con Pap-test: sia la riduzione della mortalità per tumore della cervice uterina osservata in aree geografiche in cui sono stati realizzati screening su fasce di popolazione ampie, sia numerosi altri studi hanno messo in luce riduzioni significative dell’incidenza di tumori invasivi nelle donne sottoposte a Pap-test.

Il virus HPV (Human Papilloma Virus)

Il carcinoma della cervice è attualmente riconosciuto (rapporto WHO del 2006, sulle indicazioni all’uso del vaccino) come tumore di origine virale causato dall’infezione genitale da virus del papilloma umano (HPV), peraltro la più frequente tra quelle sessualmente trasmesse.

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Sono stati finora identificati più di 120 genotipi di HPV che infettano l’uomo e, tra questi, 40 sono associati a patologie del tratto anogenitale, sia benigne che maligne. I diversi tipi di HPV vengono infatti distinti a basso e alto rischio di trasformazione neoplastica. I genotipi a basso rischio sono associati a lesioni benigne come i condilomi anogenitali, mentre quelli ad alto rischio sono associati al cancro cervicale ma possono essere associati anche ad altri tumori del tratto anogenitale, come per esempio il carcinoma del pene, della vulva, della vagina e dell’ano. Praticamente, la prevalenza dell’HPV nel cancro del collo dell’utero è superiore al 99%.

I genotipi virali ad alto rischio più frequentemente implicati nel carcinoma cervicale sono l’HPV 16 ed il 18, cui vengono attribuiti il 70% circa (rispettivamente il 60% e il 10%) di tutti i casi di questa patologia neoplastica, e poi il 6, l’11, 31,33, 35 ecc…

Sulla base di queste evidenze scientifiche, si è ipotizzato di effettuare screenings (di popolazioni selezionate, a maggior rischio) mediante ricerca del DNA virale (tipizzazione virale) dei sieroptipi di HPV a più alto rischio oncogeno.

L’infezione da HPV è molto frequente nella popolazione: si stima infatti che oltre il 75% delle donne sessualmente attive si infetti nel corso della vita con un virus HPV, con un picco di prevalenza nelle giovani donne fino a 25 anni di età. La storia naturale dell’infezione è fortemente condizionata dall’equilibrio biologico che si instaura fra ospite e agente infettante: è possibile una regressione spontanea (molto frequente), una persistenza del virus senza malattia e la progressione verso la malattia.

La maggior parte (70-90%) delle infezioni da papillomavirus è comunque transitoria, perché il virus viene eliminato dal sistema immunitario prima di sviluppare un effetto patogeno. La persistenza dell’infezione virale è invece la condizione necessaria per l’evoluzione verso il carcinoma. La presenza di un genotipo virale ad alto rischio aumenta la probabilità di infezione persistente. In questo caso, si possono, nel tempo, sviluppare lesioni precancerose che possono poi progredire fino al cancro della cervice. La probabilità di progressione delle lesioni è correlata anche ad altri fattori legati agli stili di vita, quali l’elevato numero di partner sessuali (il fattore di rischio più significativo sembra essere l’inizio di nuove relazioni sessuali), il fumo di sigaretta, l’uso a lungo termine di contraccettivi orali, e la co-infezione con altre infezioni sessualmente trasmesse.

Il tempo che può intercorrere tra l’infezione e l’insorgenza delle lesioni precancerose è stimato, mediamente, in circa cinque anni, mentre la latenza per l’insorgenza del carcinoma cervicale può essere molto più lunga (anche decenni). Per questo, la prevenzione del carcinoma è basata su programmi di screening con intervalli di tempo che possono sembrare lunghi (tre anni) ma che consentono invece di identificare le lesioni precancerose e di intervenire comunque prima che evolvano in carcinoma.

In accordo con le linee guida internazionali, in Italia il pap-test di screening è raccomandato ogni tre anni per le donne di età compresa tra 25 e 64 anni.

Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Screening, l’adesione ai programmi organizzati di screening del carcinoma del collo dell’utero è andata aumentando nel tempo. Nel 2004, questi programmi hanno infatti avuto come popolazione target il 64% delle donne italiane di 25-64 anni, rispetto al 16% del 1998. L’adesione all’invito resta però insufficiente (38%), se confrontata con i livelli raccomandati dalle Linee guida europee e dalla Commissione oncologica nazionale (85% del target). Esistono inoltre importanti variazioni geografiche di

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adesione all’invito, con un decremento da Nord a Sud (46% al Nord, 36% al Centro, 24% al Sud) . La necessità di intensificare gli sforzi per riequilibrare i livelli di diffusione di questi programmi di screening tra le varie Regioni italiane ha trovato particolare attenzione nella Legge finanziaria 2007 che, all’articolo 808, prevede la spesa di 20 milioni di euro per l’anno 2007 e di 36 milioni di euro per il biennio 2008-2009, proprio per incrementare e promuovere gli screening femminili, soprattutto nel Sud Italia.

Molte donne, inoltre, effettuano il pap-test in modo spontaneo senza aderire a programmi di screening organizzati. Dallo studio del sistema di sorveglianza Passi (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia) risulta infatti che il 78% delle donne in età da screening ha eseguito almeno un Pap-test a scopo preventivo e che circa il 70% lo ha effettuato negli ultimi 3 anni. Nonostante questo, studi internazionali degli ultimi anni dimostrano che, anche in presenza di screening con tassi di adesione molto alti, dalla fine degli anni 90 si è raggiunto comunque un plateau nella efficacia preventiva delle metodologie finora utilizzate legato soprattutto all’incompleta, e difficilmente modificabile, copertura della popolazione bersaglio. La dimostrazione che il carcinoma del collo dell’utero ha una eziopatogenesi virale, sta consentendo ora di programmare l’evoluzione da prevenzione secondaria (diagnosi precoce con Pap-test) a prevenzione primaria (vaccinazione) con un più favorevole rapporto costo beneficio.

In questo panorama, si inserisce il programma di sviluppo di vaccini per la prevenzione primaria dell’infezione da HPV. Sono stati infatti recentemente messi a punto due prodotti, registrati a livello europeo. Si tratta del Cervarix (GlaxoSmithKline), vaccino bivalente per HPV 16 e 18 (tipi ad alto rischio), e il Gardasil (Sanofi-Merck), vaccino tetravalente per HPV 6, 11 (a basso rischio), 16 e 18 (ad alto rischio). Entrambi i vaccini, autorizzati dall’Agenzia Europea del farmaco (EMEA) vengono somministrati in 3 dosi (a 0,1 e 6 mesi di distanza e 0, 2, 6 mesi rispettivamente).

La disponibilità di questi vaccini costituisce certamente una grande opportunità di prevenzione. Per quanto riguarda le possibili strategie vaccinali da impiegare, rimangono vari aspetti critici che devono essere tenuti in considerazione, quali la durata dell’efficacia e l’eventuale necessità di richiami nel tempo, l’identificazione del target, in termini di età e sesso, dei soggetti cui offrire la vaccinazione, la fattibilità delle strategie vaccinali tenendo conto delle implicazioni sociali di un vaccino contro una malattia a trasmissione sessuale rivolto alle bambine, e l’impatto sulle politiche di screening. Va infatti sottolineato come, dal momento che la vaccinazione non previene la totalità delle infezioni da HPV ad alto rischio, anche in caso di campagne di vaccinazione sarà necessario proseguire con le attività di screening di diagnosi precoce organizzati.

Si è programmato di effettuare la vaccinazione prima dell’inizio dei rapporti sessuali per indurre una protezione efficace prima di un eventuale contagio (la modalità di contagio sessuale è la più frequente) con HPV. In Italia, il Consiglio Superiore di Sanità, nel gennaio 2007 ha espresso all’unanimità parere favorevole alla vaccinazione delle ragazze di 12 anni. Dai dati finora pubblicati emerge che il vaccino Gardasil, autorizzato in Italia, induce una risposta immune in oltre il 90% delle vaccinate. Nei 4-5 anni successivi alla vaccinazione, il vaccino ha prevenuto praticamente il 100% dei casi di displasia cervicale causati dai HPV 16 e 18, che si stima siano responsabili del 70% dei carcinomi cervicali.

Il 28 febbraio 2007 l'Agenzia italiana del farmaco ha deliberato la commercializzazione e le modalità di rimborso del vaccino per la prevenzione delle lesioni causate da papillomavirus umano (HPV), tipi 6,11,16 e 18 – Gardasil®. Il vaccino è stato inserito nella classe di farmaci

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somministrabili gratuitamente alle fasce di popolazione individuate a rischio e sarà somministrato gratuitamente a tutte le ragazze dodicenni (ma è anche disponibile in farmacia, a pagamento, per le donne di altre fasce di età che non hanno contratto l’infezione).

L’Italia è il primo Paese europeo che ha impostato un programma di vaccinazioni per l’HPV. Il programma prevede l’arruolamento di circa 280.000 ragazze per una spesa di 75 milioni di euro l’anno.

Screening per il carcinoma del colon retto

In Italia, ogni anno, si ammalano, di carcinoma del colon retto, circa 36mila persone, con un tasso di incidenza di circa 39 uomini e 26 donne ogni 100mila.

La mortalità è di circa 9000 decessi l’anno per gli uomini e di 8000 per le donne. Le cause determinanti o favorenti della malattia sono complesse e, tra le più importanti sono state individuate cause genetiche (alcune sindromi ereditarie specifiche), alimentari (diete ipercalorica ricca di grassi e povera di fibre, frutta e verdura) e, tra gli altri fattori, malattie infiammatorie croniche intestinali, e la predisposizione familiare (il rischio aumenta di 2, 3 volte nei parenti di primo grado di una persona affetta da cancro del colon). Inoltre, l’incidenza cresce soprattutto con l’età (per esempio è 10 volte maggiore nella fascia di età tra 60/65 anni rispetto a quella 40/45).

Il carcinoma del colon retto è il secondo tumore in termini d’incidenza tra le donne (dopo quello della mammella) e il terzo tra gli uomini (dopo quello al polmone e alla prostata) e la prima causa di morte nei non fumatori per entrambi i sessi;

Requisiti per proporre lo screening:

• esiste una lesione precancerosa che è l’adenoma (polipo), la cui asportazione interrompe la sequenza adenoma→carcinoma e quindi riduce la mortalità e l’incidenza;

• una lesione maligna (se individuata in uno stadio precoce) può essere trattata in modo radicale con l’intervento chirurgico con un’elevata probabilità di successo.

• La sopravvivenza a 5 anni è, infatti, strettamente correlata allo stadio in cui si interviene. Ad esempio allo stadio A, quello iniziale, la sopravvivenza raggiunge il 90%;

• Il cancro, così come le lesioni precancerose (polipi), possono sanguinare in maniera impercettibile ma rilevabile con appositi esami;

• i test per la ricerca di sangue occulto fecale (SOF), ma anche la rettosigmoidoscopia, hanno dimostrato caratteristiche d’impiego idonee allo screening;

• numerosi studi clinici hanno dimostrato che un programma di screening è in grado di ridurre l’incidenza ed in maggior misura la mortalità per cancro colo-rettale. L’efficacia varia dal 15 al oltre il 30% in relazione alla metodica utilizzata;

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• i benefici dello screening sono superiori agli effetti negativi (costi e complicanze);

• in Italia, su tutto il territorio nazionale, sono presenti strutture di riferimento in grado di assicurare livelli ottimali di eventuali trattamenti conseguenti allo screening.

Modalità di screening

Lo screening prevede la ricerca del sangue occulto nelle feci (Sof) ogni due anni per le donne e gli uomini tra i 50 e i 70 o 74 anni, oppure una rettosigmoidoscopia per le donne e gli uomini tra 58 e 60 anni una sola volta (da ripetere eventualmente ogni 10 anni).

La colonscopia totale non è, attualmente, un test di screening primario, ma un esame diagnostico da utilizzare nei casi ad alto rischio, e come esame di secondo livello.

La ricerca del sangue occulto fecale sfrutta la possibilità di individuare la presenza di emoglobina (e quindi di sangue) nelle feci, quando ancora non è visibile macroscopicamente (alla normale ispezione).

Sono possibili due opzioni per la ricerca del sangue occulto, quella al guaiaco, (Hemoccult), che però, individuando anche emoglobine animali o, per esempio altri componenti della dieta (spinaci) richiede restrizioni dietetiche per alcuni giorni precedenti l’esame che va effettuato su tre campioni fecali successivi, e quella con test immunochimico, più sensibile, specifico per l’emoglobina umana, che non richiede restrizioni dietetiche e si effettua su un solo campione di feci.

Il test al guaiaco va proposto annualmente, quello immunochimico, attualmente più utilizzato in Italia, con cadenza biennale.

Le persone da sottoporre a screening, vengono invitate con lettera a ritirare, nella struttura indicata (medico di medicina generale, distretto sanitario, farmacia ecc… ) il materiale necessario al campionamento fecale con le relative istruzioni. Le persone con esito positivo al test vengono invitate ad effettuare una colonscopia totale e viene programmato il seguito del percorso diagnostico terapeutico.

Negli ultimi anni, a seguito di evidenze scientifiche favorevoli di numerosi studi, è stata proposta, come test di screening, la rettosigmoidoscopia (Rss).

Il razionale per proporre la Rss è costituito fondamentalmente dal fatto che, nelle fasce di età in cui vengono proposti gli screening, circa il 65-70% dei cancri sono localizzati nel retto sigma (l’ultima parte del colon ed il retto), un eventuale polipo può esser rimosso contestualmente, in sede di esame, e, la presenza di un polipo o di un cancro in questo tratto di intestino, indica di solito la loro presenza anche nel resto del colon di cui si può procedere nei casi previsti, all’esame.

L’esame è semplice, le complicanze sono rare, la preparazione all’esame è breve e senza fastidi, il dolore associato è di solito trascurabile e non richiede sedazione. Si utilizza uno strumento flessibile con un ‘ottica che consente di esaminare la superficie interna del retto e del sigma, di eseguire prelievi di tessuto e di asportare eventuali polipi.

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La rettosigmoidoscopia come esame di primo livello, è stata scelta dal Piemonte e da alcuni programmi del Veneto; in tutti i programmi l’adesione è maggiore tra gli uomini (32% vs 27%) rispetto alle donne.

A coloro che non aderiscono alla Rss viene comunque offerta la SOF.

Tavola riassuntiva screening

SCREENING MAMMELLA

SCREENING CERVICE

SCREENING COLON RETTO

donne donne uomini e donne

A CHI SI RIVOLGE • tra i 50 e i 69

anni • tra i 25 e i 64 • Sof: tra i 50 e i 70 o

tra i 50 e i 74 anni

• Rss: tra 58 e 60 anni

LA SITUAZIONE IN ITALIA

• tra i tumori, quello della mammella è il più frequente fra le donne

• mortalità in calo, incidenza in lieve ma costante aumento

• mortalità per tumore dell’utero (corpo e collo) diminuita di oltre il 50% negli ultimi vent’anni

• terzo posto per incidenza tra gli uomini, secondo tra le donne

• incidenza aumentata, lieve riduzione della mortalità

ESAME CLINICO DELLO SCREENING

mammografia • Pap test • ricerca del sangue occulto nelle feci (Sof, test al guaiaco o immunochimici)

• rettosigmodoscopia (Rss)

FREQUENZA DELL’ESAME

• ogni 2 anni • ogni 3 anni • Sof: ogni 2 anni

• Rss: una volta tra 58 e 60 anni

EFFICACIA DELLO • riduzione del 35% del

Riduzione significativa di incidenza del

• Sof: riduzione del rischio di morte per

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SCREENING rischio di morte per cancro della mammella

carcinoma della cervice nei paesi con alta diffusione del Pap test (studi caso controllo)

Ccr di circa il 20%

• Rss: se tra i 55 e i 60 anni tutti facessero una Rss si potrebbero prevenire il 70% dei tumori distali in persone di 58-74 anni

SVILUPPI FUTURI

• si sta valutando l’ecografia come eventuale integrazione alla mammografia

• vaccino contro l’Hpv

• Dna fecale: in fase di studio

• Colonscopia virtuale: in fase di studio

Fonte: Elaborazione ASSR su dati del quinto rapporto Osservatorio Nazionale Screening

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L’ assistenza specialistica ambulatoriale

Il Servizio Sanitario Nazionale assicura l’assistenza specialistica ambulatoriale mediante le proprie strutture ospedaliere e territoriali (ambulatori e poliambulatori distrettuali e non) e mediante contratti con istituzioni sanitarie private, dotate di specifici requisiti tecnologici ed organizzativi (cosiddette accreditate).

Il termine assistenza specialistica ambulatoriale identifica le visite e le prestazioni delle diverse branche specialistiche della medicina (che vanno dall’anestesiologia all’urologia, includendo la diagnostica di laboratorio e quella per immagini).

La lista delle prestazioni specialistiche ambulatoriali erogabili a carico del SSN costituisce il Livello di assistenza specialistica ambulatoriale e consta di circa 1700 prestazioni, di cui si prevede l’aggiornamento periodico in relazione agli sviluppi tecnologici ed al maturare delle evidenze scientifiche circa l’appropriatezza e l’efficacia delle prestazioni.

La lista è definita a livello nazionale, ma le Regioni e Province Autonome possono integrarla, purchè si assumano gli oneri derivanti da tali integrazioni.

Il nomenclatore delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale

Con il Decreto del Ministero della Sanità del 22 luglio 1996 “Prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale erogabili nell’ambito del Servizio sanitario nazionale e relative tariffe” sono state identificate le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, ivi compresa la diagnostica strumentale e di laboratorio, erogabili nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale.

Quel documento, comunemente detto nomenclatore e/o tariffario delle prestazioni ambulatoriali, contiene l’elenco dettagliato delle prestazioni erogabili e le relative tariffe nazionali (concepite come remunerazione massima da corrispondere ai soggetti erogatori). Il “nomenclatore”, inoltre, attribuisce ad ogni prestazione un codice (da utilizzarsi per finalità di carattere amministrativo ed informativo); indica specifiche condizioni di erogabilità per alcune tipologie di prestazioni contrassegnandole con una sigla :

H: erogabili solo presso ambulatori protetti;

* erogabili solo conformemente a specifiche indicazioni clinico diagnostiche;

R: erogabili solo presso ambulatori specialistici specificamente riconosciuti dalle regioni;

In seguito all’approvazione del Decreto del Ministero della Sanità le Regioni hanno attuato forme diverse per l’erogazione delle prestazioni ambulatoriali.

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Alcune Regioni, non tutte, hanno agito sul versante delle tariffe, adattando alle esigenze della programmazione regionale le tariffe nazionali.

Altre Regioni hanno modificato il nomenclatore sotto vari aspetti: aggiunta di prestazioni assenti dal nomenclatore nazionale; modifica di descrizione delle definizioni, di condizioni di erogabilità, di modalità di erogazione (con particolare riferimento, ad esempio, al numero di prestazioni prescrivibili per ciclo, ecc.) di indicazioni clinico-diagnostiche.

Alcune Regioni sono intervenute sulle modalità di partecipazione alla spesa da parte dei cittadini, non solo modificandone le regole riferite al ticket (aumento della compartecipazione, allargamento delle aree di esenzione, ecc.) ma anche aggiungendo branche specialistiche non previste nel decreto.

La tecnologia a sua volta non è rimasta ferma: soprattutto in alcune aree (è il caso, ad esempio, della diagnostica per immagini) nuove prestazioni sono state messe sul mercato ed altre sono state invece dismesse; inoltre prestazioni che, in precedenza, potevano essere erogate solo in particolari contesti protetti (ad esempio, in regime di ricovero ospedaliero, ordinario o diurno) oggi ammettono condizioni di erogabilità molto meno stringenti.

Alcune Regioni infine hanno individuato specifici percorsi diagnostico-terapeutici, percorsi che hanno suggerito in alcuni casi l’abbandono della logica della singola prestazione (caratteristica della impostazione del nomenclatore) e l’introduzione dell’idea di gruppi coordinati di prestazioni da erogarsi insieme sotto forma di pacchetti o di percorsi.

L’accesso

L’accesso alle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale presso le strutture pubbliche e private avviene con la prescrizione (ricetta) del medico di famiglia (o del pediatra di libera scelta) che può prescrivere fino a otto prestazioni della medesima branca specialistica per ciascuna ricetta.

Per alcune branche specialistiche è previsto presso le strutture pubbliche l’accesso senza prescrizione (cd. accesso diretto): ostetricia e ginecologia, pediatria, oculistica, ed odontostomatologia.

Per tutte le prestazioni è prevista una compartecipazione al costo da parte dei cittadini corrispondente alla tariffa di ciascuna prestazione prescritta fino ad un tetto (franchigia) definito dalla legge nazionale pari a Euro 36,15, cui si aggiunge una quota di 10 Euro a ricetta (ticket introdotto dalla finanziaria per il 2007).

In altri termini il cittadino, anche se fruisce di una prestazione di valore economico superiore (è il caso di prestazioni come le RMN, o le TC o le indagini genetiche), non paga più di 36,15 euro e di 10 euro per ciascuna ricetta.

In Lombardia la quota massima per le prestazioni è di 46 euro a cui si aggiungono 10 euro di ticket per ricetta. In Sicilia si paga il ticket secondo scaglioni di reddito e, ai 36.15 euro per le prestazioni, sono aggiunti 2 euro per la ricetta, arrivando a 38.15 euro. A questi 38.15 si aggiungono 10 euro a ricetta.

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Non è prevista la partecipazione al costo per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale incluse in programmi organizzati di diagnosi precoce e di prevenzione collettiva, quelle finalizzate alla tutela della salute collettiva obbligatorie per legge, o disposte localmente per situazioni epidemiche, o finalizzate all’avviamento al lavoro e quelle finalizzate alla tutela della maternità, alla prevenzione HIV in soggetti a rischio, alla promozione delle donazioni di sangue, organi e tessuti, alla tutela dei soggetti danneggiati da vaccinazioni ecc., e quelle di programmi regionali per l’infanzia.

Le esenzioni

Il sistema di partecipazione al costo è correlato ad un sistema di esenzione.

In particolare è prevista:

• Esenzione per reddito:

• cittadini di età inferiore a sei anni e superiore a sessantacinque anni, appartenenti ad un nucleo familiare con reddito complessivo non superiore a 36.151,98 euro;

• titolari di pensioni sociali e loro familiari a carico;

• disoccupati e loro familiari a carico appartenenti ad un nucleo familiare con un reddito complessivo inferiore a 8.263,31 euro, incrementato fino a 11.362,05 euro in presenza del coniuge ed in ragione di ulteriori 516,46 euro per ogni figlio a carico;

• titolari di pensioni al minimo di età superiore a sessant'anni e loro familiari a carico, appartenenti ad un nucleo familiare con un reddito complessivo inferiore a 8.263,31 euro, incrementato fino a 11.362,05 euro in presenza del coniuge ed in ragione di ulteriori 516,46 euro per ogni figlio a carico.

Esenzione per invalidità:

• per tutte le prestazioni specialistiche

• Invalidi di guerra e per servizio appartenenti alle categorie dalla I alla V;

• Invalidi civili ed invalidi per lavoro con una riduzione della capacità lavorativa superiore ai 2/3;

• Invalidi civili con indennità di accompagnamento;

• Ciechi e sordomuti;

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• Ex deportati nei campi di sterminio nazista KZ (1);

• Vittime di atti di terrorismo o di criminalità organizzata;

• per le prestazioni specialistiche correlate alla patologia invalidante

• Invalidi di guerra e per servizio appartenenti alle categorie dalla VI alla VIII;

• Invalidi per lavoro con una riduzione della capacità lavorativa inferiore ai 2/3;

• Coloro che abbiano riportato un infortunio sul lavoro o una malattia professionale;

• Categorie equiparate dalla legge agli invalidi e mutilati di guerra.

Esenzione per patologia

• Malattie croniche e invalidanti

• Per tutte le prestazioni di assistenza specialistica (incluse nei livelli essenziali di assistenza), efficaci ed appropriate per il trattamento ed il monitoraggio della malattia e per la prevenzione degli ulteriori aggravamenti.

• Malattie rare

• Per tutte le prestazioni di assistenza specialistica (incluse nei Livelli Essenziali di Assistenza), efficaci ed appropriate per il trattamento ed il monitoraggio della malattia e per la prevenzione degli ulteriori aggravamenti.

Per usufruire di una delle varie forme di esenzione occorre preventivamente informarsi presso gli uffici delle relazioni con il pubblico o altri indicati dalla ASL di residenza circa la documentazione necessaria a dimostrare la condizione per la quale si vuole chiedere l’esenzione; quindi occorre presentare un’apposita domanda presso gli uffici della ASL che provvederà al rilascio della documentazione (in genere una tessera) da esibire al momento della prescrizione al proprio medico, e al momento della fruizione della prestazione all’erogatore.

L’indagine multiscopo ISTAT su “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari”

L’ISTAT rileva presso i cittadini informazioni sullo stato di salute, il ricorso ai principali servizi sanitari, alcuni fattori di rischio per la salute e i comportamenti di prevenzione. Nell’ultima rilevazione, riferita al 2005, il campione complessivo dell’indagine, che comprende circa 60 mila famiglie, è analizzato riguardo a:

• le condizioni di salute della popolazione;

• il consumo di farmaci;

• la prevenzione;

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• l’obesità e l’abitudine al fumo;

• la fruizione dei servizi sanitari;

• l’opinione dei cittadini.

Nell’indagine, tra l’altro, viene evidenziato che nelle quattro settimane precedenti l’intervista sono state effettuate 31 milioni e 213mila visite mediche, con una media di 1,9 visite a persona. Il numero di visite effettuate è aumentato, negli ultimi cinque anni, del 16,7% (pari a 4 milioni e 478mila prestazioni) e ha riguardato soprattutto gli ultra settantacinquenni (+36,7%). Il numero di visite generiche è cresciuto del 20,5% e quello delle specialistiche del 10,5%. L’incremento complessivo delle visite si verifica in più della metà dei casi per ripetizione di ricette, in 917mila casi per malattia e 895mila per controllo dello stato di salute. Tra le visite specialistiche sono più numerose le visite odontoiatriche (26,9%), seguite da quelle ortopediche (11,4%), oculistiche (10,8%) e cardiologiche (9,5%). L’incremento maggiore rispetto al 1999-2000 si registra per le visite urologiche (+35,4%), le cardiologiche (+34,3%), le geriatriche (+33,0%) e le dietologiche (+32,8%).

Il 57% delle visite specialistiche è pagato interamente dalle famiglie. Se non si considerano le visite odontoiatriche si arriva a circa il 48%.

Marche e Umbria si distinguono per le quote più alte di visite a pagamento; le più basse percentuali si registrano invece in Sardegna e in Sicilia.

E' elevata la quota di persone di status sociale basso (46,8%) che si fanno interamente carico della spesa.

Nelle quattro settimane precedenti la rilevazione gli accertamenti effettuati sono stati 15 milioni 298mila, escludendo i controlli effettuati durante eventuali ricoveri ospedalieri o in day hospital.

Sono 10 milioni 664mila gli accertamenti di laboratorio (18,4 per 100 persone) e 4 milioni 634mila gli esami specialistici (8 per 100 persone), stabili rispetto al 2000 e eseguiti più dalle donne che dagli uomini. Il 21% degli accertamenti specialistici è a pagamento. Lazio, Puglia, Marche e Sicilia sono le regioni nelle quali più frequentemente i controlli specialistici sono interamente a carico degli utenti.

Le persone di status sociale più elevato fanno più visite e accertamenti specialistici. Le persone con livello di istruzione più basso fanno più visite generiche (41,2% contro il 18,1%), accertamenti di laboratorio (23,3% contro il 16,9%) e ricoveri (4,4% contro 2,3%).

Si ricorre a visite e ad accertamenti specialistici a pagamento soprattutto per la fiducia nel medico o nella struttura di riferimento (71,5% e 55,0% rispettivamente). Anche per il ricorso nelle strutture pubbliche la fiducia è il motivo prevalente (53% per visite e accertamenti specialistici).

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LA TUTELA DELLA SALUTE PER LE PERSONE ANZIANE

In Italia, in base alla rilevazione ISTAT anni 2002-2005, le persone con oltre 65 anni di età sono 11.379.341 su un totale di 56.993.742 abitanti (circa 1/5 della popolazione). Nella programmazione dei servizi occorre dunque considerare specificamente i bisogni assistenziali che può esprimere questa ampia fascia di popolazione.

I servizi sanitari e sociosanitari in favore delle persone anziane sono finalizzati a rafforzare l’autonomia individuale, a prevenire la non autosufficienza, a mantenere quanto più possibile la persona nel proprio contesto familiare, nella propria casa, assicurando – al momento del bisogno – assistenza qualificata in ospedale, in strutture residenziali, a domicilio.

I servizi sono organizzati in rete per poter garantire continuità delle cure e della relazione.

I Servizi di assistenza anziani sono presenti in ogni Azienda sanitaria (in genere situati nei Distretti), hanno una funzione di coordinamento per l’assistenza sanitaria e sociale agli anziani e alle loro famiglie.

Di grande importanza è l’apporto delle associazioni di volontariato e dei familiari che affiancano il lavoro dei servizi pubblici.

Le principali azioni previste dalla programmazione sanitaria nazionale riguardano essenzialmente:

• la promozione dell’invecchiamento attivo, con interventi miranti all’adozione di stili di vita favorevoli alla salute;

• l’assistenza territoriale integrata, valorizzando in particolare il Medico di Medicina Generale (MMG), finalizzata a prevenire, contrastare e accompagnare le condizioni di disabilità e fragilità della popolazione anziana;

• l’assistenza domiciliare;

• la residenzialità e semiresidenzialità, volta a creare un sistema di offerta sempre più differenziata e di qualità, attraverso la rete delle residenze sanitarie, delle residenze sociali e dei servizi di accoglienza;

• l’assistenza ospedaliera, nei termini di accoglienza e di dimissioni protette;

• la sicurezza, per azioni di prevenzione sociale degli anziani soli o a rischio.

I servizi offerti

Negli ultimi decenni è sempre più pressante la richiesta di assistenza da parte delle persone anziane non autosufficienti che, nella quasi totalità dei casi, vengono assistite dalla famiglia, con costi economici, psicologici e sociali elevatissimi.

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Una situazione tale da poter affermare che la condizione delle persone in stato di totale non autosufficienza rappresenta una vera e propria emergenza sociale. Affrontare e saper dare una risposta a tale condizione può essere considerata una delle sfide sociali di maggiore significato del nostro tempo. In tale contesto, i servizi per anziani non autosufficienti devono assicurare, dunque, risposte sanitarie, assistenziali, tutelari e di socializzazione rispetto al grado e intensità del bisogno.

La condizione di non autosufficienza, tuttavia, non riguarda unicamente la popolazione anziana, ma una fascia ben più ampia della popolazione, comprendente i disabili fisici, psichici e sensoriali, ovviamente in relazione alla specifica condizione e gravità della patologia.

Si riporta, di seguito, una definizione di “non autosufficienza”, che costituisce la premessa per specifiche prestazioni sanitarie e sociali.

NON AUTOSUFFICIENZA Numerose sono le definizioni di “paziente non autosufficiente”. In generale, il sovrapporsi di una patologia con la condizione socio-ambientale, cognitiva e psico-affettiva della persona determina la comparsa ed il livello della non autosufficienza. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha precisato nel 2005 che i soggetti non autosufficienti sono “gli individui con disabilità mentali o fisiche di lungo periodo, che sono diventati dipendenti dall’assistenza nelle attività fondamentali della vita quotidiana, la gran parte delle quali appartengono ai gruppi più anziani della popolazione” e che “hanno bisogno di servizi e interventi di long-term care” (“Long term care for older people”. OCSE, 2005). Anche il dibattito su cosa debba essere inteso per “long-term care” o “assistenza continuativa” è tuttora aperto. Recentemente, l’OECD ha precisato che “seppure la maggior parte dei non autosufficienti siano anziani, il concetto di assistenza continuativa include anche servizi rivolti ad una popolazione più giovane con disabilità fisiche e mentali e necessità terapeutiche specifiche di giovani e giovani adulti” (“Costs of care for elderly populations. Guidelines for estimatine long-term expediture. OECD 2006). Per “assistenza alle persone non autosufficienti” o “long-term care” si possono intendere anche “tutte le forme di cura alla persona o di assistenza sanitaria, e gli interventi di cura domestica associati, che abbiano natura continuativa. Tali interventi sono forniti a domicilio, in centri diurni o in strutture residenziali a individui non autosufficienti” (Laing W: “Financing Long-Term Care: the crucial debite”. Age Concern England, London, 1993).

E’ importante ricordare che un nodo cruciale dell’assistenza alle persone non autosufficienti è rappresentato dalla separazione degli assetti istituzionali tra i diversi servizi:

- aspetti sociosanitari: il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) si occupa delle problematiche assistenziali con forte valenza sanitaria, con finanziamento statale e regionale, responsabilità organizzativa attribuita alle Regioni e gestione affidata alle ASL;

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- servizi e degli interventi sociali: la responsabilità è attribuita agli Enti locali, finanziati da Stato, Regioni e Comuni.

Come previsto dal DPCM 308/2001, inoltre, le strutture destinate agli anziani erogano prestazioni socio-assistenziali o sociosanitarie, finalizzate al mantenimento ed al recupero delle residue capacità di autonomia della persona e al sostegno della famiglia. In particolare:

- le prestazioni socio-assistenziali sono attività relative alla sfera sociale con lo scopo di aiutare la persona in stato di bisogno, con problematiche di disabilità o di emarginazione. Sono di competenza dei Comuni, richiedono la partecipazione alla spesa da parte dei cittadini che ne beneficiano e si esplicano attraverso interventi di ospitalità alberghiera presso strutture residenziali rivolte a pazienti anziani con limitazioni anche parziali dell’autonomia, non assistibili al proprio domicilio (DPCM 14/2/2001);

- le prestazioni socio-sanitarie sono invece tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono sia prestazioni sanitarie sia sociali per garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra gli interventi di cura e quelli di riabilitazione(D.Lgs. 229/99 e succ. mod.). Tali prestazioni comprendono:

a. prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, cioè le attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite;

b. prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le attività del sistema sociale che hanno l'obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute.

In questa sede si affrontano i temi legati all’assistenza sociosanitaria, ed in particolare i servizi e le prestazioni offerte agli anziani non autosufficienti.

SERVIZI PER ANZIANI NON AUTOSUFFICIENTI

Servizi ospedalieri Riabilitazione e lungodegenza post-acuzie Servizi residenziali RSA (case protette)

Presidi socio-assistenziali Servizi semi-residenziali Centri diurni

Servizi domiciliari

ADI Ospedalizzazione a domicilio Sad Telesoccorso, telecontrollo, adeguamento dell’alloggio, protesi e ausili

Sostegno economico Assegni di cura/voucher/fondo per la non autosufficienza Indennità di accompagnamento

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Riabilitazione e lungodegenza post-acuzie

In sede ospedaliera è garantita la riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie.

Tali servizi sono garantiti, sulla base dell’intensità del bisogno, anche in sede territoriale, come previsto dalle Linee-guida del Ministro della Sanità per le attività di riabilitazione (Gazzetta Ufficiale 30 maggio 1998, n.124) approvate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano il 7 maggio 1998. Possono quindi essere erogati presso:

- centri di riabilitazione ex art. 26 L. 833/78;

- residenze sanitarie assistenziali;

- ambulatori;

- domicilio.

Gli interventi di riabilitazione estensiva o intermedia sono erogati presso le seguenti strutture pubbliche e private ad hoc accreditate:

1. le strutture ospedaliere di lungodegenza;

2. i presidi ambulatoriali di recupero e rieducazione funzionale territoriali e ospedalieri;

3. i presidi di riabilitazione extraospedaliera a ciclo diurno e/o continuativo;

4. i centri ambulatoriali di riabilitazione;

5. le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA);

6. le strutture residenziali o semiresidenziali di natura socio-assistenziale ed i centri socio-riabilitativi, nonché il domicilio dell'utente.

Lungodegenza

La lungodegenza medica, esplicitata nelle “Linee-guida del Ministro della Sanità per le attività di riabilitazione” (Gazzetta Ufficiale 30 maggio 1998, n.124), è un servizio ospedaliero destinato ad accogliere anziani, generalmente non autosufficienti, affetti da patologie tali da risentire scarsamente dei trattamenti riabilitativi finalizzati alla ripresa dell’autonomia, ma che necessitano sia di assistenza sia di trattamenti fisioterapici, al fine di migliorare la condizione di malattia o impedirne il peggioramento.

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In particolare, le unità di lungodegenza sono riservate a quei pazienti che, conclusa la fase acuta del ricovero, necessitano di un prolungamento dell’intervento assistenziale ospedaliero in quanto presentano una situazione funzionale compromessa (da cui ha origine una riduzione delle condizioni di autosufficienza psico-fisica) rientrante in una delle seguenti categorie:

• quadro clinico ancora instabile, non compatibile con il rientro a domicilio o con il passaggio a forme diverse di residenzialità assistita;

• buon compenso clinico, ma persistenza di una limitazione funzionale non stabilizzata (e quindi di una riduzione dell’autosufficienza) recuperabile, almeno parzialmente, con un intervento di riabilitazione estensiva (generalmente non superiore ai 30 giorni);

• buon compenso clinico e limitazione stabilizzata della capacità funzionale e dell’autosufficienza, ma esigenza di assistenza continuativa di tipo infermieristico e di eventuali trattamenti riabilitativi di tipo estensivo finalizzati al mantenimento dei livelli di autonomia residui, in attesa di assegnazione ad altre forme di assistenza extraospedaliera.

Le strutture lungodegenziali dovrebbero avere uno stretto collegamento con il territorio, interfacciandosi con i medici di base e con l’assistenza domiciliare integrata, in quanto il ricovero in lungodegenza dovrebbe rappresentare un momento assistenziale nell’ambito di una malattia cronica. Tali strutture assicurano una serie di prestazioni, come: assistenza diagnostica, medica e terapeutica; assistenza infermieristica; trattamenti riabilitativi; servizio di radiologia e laboratorio di analisi; servizio di guardia medica interno, diurno e notturno; consulenze specialistiche grazie alla collaborazione di professionisti come il cardiologo, l’urologo, il neurologo, l’oculista e l’odontoiatra; assistenza alberghiera e cura della persona.

Modalità di accesso

Le strutture di lungodegenza possono essere pubbliche o accreditate e private. Il paziente può accedere alla struttura pubblica o accreditata di lungodegenza dalla propria dimora su richiesta del medico di medicina generale, oppure mediante trasferimento dall’ospedale o dalla casa di cura in cui risulta ricoverato in seguito a richiesta del sanitario del reparto. Altre modalità di ammissione possono essere stabilite dalla Regione di appartenenza della struttura. Il servizio di lungodegenza prestato dalla struttura pubblica è a carico del SSN; se la struttura è accreditata, il paziente potrebbe essere chiamato a versare una quota aggiuntiva per poter godere di una stanza singola con bagno incluso e del servizio alberghiero. L’ammissione nella struttura privata si ottiene in seguito alla richiesta diretta del paziente o dei suoi familiari, accompagnata dalla valutazione clinica del medico di base. Il costo del ricovero nella struttura privata dipende dalla tipologia del servizio, dalle prestazione erogate e viene stabilito dall’Amministrazione della struttura. Per il ricovero nelle strutture di lungodegenza è necessaria l’adesione formale e volontaria del paziente. La lungodegenza in sede ospedaliera ha, di norma, una durata massima di 60 giorni, salvo diversa indicazione regionale.

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ASSISTENZA RESIDENZIALE

Le Residenze Sanitarie Assistenziali

Le residenze socio-sanitarie sono strutture territoriali del Servizio Sanitario Nazionale, nate allo scopo di soddisfare il bisogno assistenziale sanitario e sociale di soggetti non autosufficienti – anziani o disabili - in assenza di un supporto familiare adeguato, indispensabile per gli interventi di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) e in assenza di patologie acute richiedenti un ricovero ospedaliero. Tali strutture sono denominate “Residenze sanitarie assistenziali” (RSA), ma in alcune Regioni sono affiancate o sostituite dalle “Case protette”. Non esiste una definizione univoca di RSA. Le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) sono state definite dalle norme nazionali come “presidi che offrono a soggetti non autosufficienti, anziani e non, con esiti di patologie, fisiche, psichiche, sensoriali o miste, non curabili a domicilio, un livello medio di assistenza medica, infermieristica e riabilitativa, accompagnata da un livello “alto” di assistenza tutelare ed alberghiera” (DPR 14 gennaio 1997). Le “Case protette”, presenti solo in alcune Regioni, differiscono dalle RSA per la componente sanitaria, in quanto vi è assicurata anche un’assistenza medico-infermieristica di 24 ore su 24. Il DPR 14/1/1997 stabilisce che è necessario prevedere ospitalità:

- permanenti; - di sollievo alla famiglia non superiori a 30 giorni; - di completamento di cicli riabilitativi eventualmente iniziati in altri presidi del SSN.

La spesa sostenuta da ogni paziente varia da Regione a Regione e in base al tipo di assistenza offerta. In generale, accanto ad una quota sanitaria interamente sostenuta dalla ASL, che varia da Regione a Regione, è prevista una quota alberghiera per la compartecipazione degli utenti, anch’essa variabile da Regione a Regione e da struttura a struttura.

Modalità di accesso

Per quanto riguarda le modalità di accesso alla RSA, ogni Regione istituisce a livello territoriale un Servizio, che in genere è collocato nel Distretto, che può assumere varie denominazioni (es. Unità di Valutazione Multidimensionale – UVM; Unità di Valutazione Geriatria – UVG) con lo scopo di valutare le domande di accesso, analizzarle, valutare la condizione di non autosufficienza nonché esprimere un orientamento assistenziale. Le prestazioni ed i servizi erogati dovrebbero essere organizzati sulla base di una valutazione multidimensionale del problema e la definizione di un piano di lavoro integrato e personalizzato, oltre alla valutazione periodica dei risultati ottenuti (P.O. Anziani 1992; DPCM 14/2/2001). L’UVG è composta dal geriatra, dall’infermiere professionale e dall’assistente sociale, cui di aggiungono, stabilmente o in regime di consulenza, figure specialistiche (es. ortopedico, neurologo, ecc…) o altri operatori (es. podologo, fisioterapista, ecc...). Ogni ASL, inoltre, stabilisce criteri e modalità di accesso dell’utente alle RSA mediante l’elaborazione di regolamenti interni alle ASL o linee guida che stabiliscano il funzionamento e la gestione delle liste di attesa, l’accoglimento e la registrazione dei pazienti (DPR 14/1/1997).

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Presidi socio-assistenziali

I presidi socio-assistenziali variano da Regione a Regione per quanto riguarda la denominazione e la tipologia assistenziale prevista. I principali modelli sono:

Comunità alloggio. La comunità alloggio è una struttura socio-assistenziale residenziale di ridotte dimensioni, di norma destinata ad anziani non autosufficienti di grado lieve che necessitano di una vita comunitaria e di reciproca solidarietà.

Casa di riposo, Casa albergo, Albergo per anziani. Con la denominazione di Casa di riposo, Casa albergo, Albergo per anziani, si indica la medesima tipologia di struttura. La Casa di riposo è una struttura socio-assistenziale a carattere residenziale destinata ad anziani non autosufficienti di grado lieve.

Residenza protetta. Alloggi aggregati in una stessa unità strutturale (edificio), dotata di una zona comune per servizi collettivi, destinata ad anziani in condizioni di autosufficienza o di parziale autosufficienza.

Centro diurno assistenziale. Il Centro diurno assistenziale è una struttura socio-sanitaria a carattere diurno destinata ad anziani con diverso grado di non autosufficienza.

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ASSISTENZA SEMIRESIDENZIALE

Centro diurno

I servizi semiresidenziali rappresentano una forma di assistenza intermedia tra il ricovero in una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA) o Casa protetta e l’assistenza domiciliare. Tali servizi vengono erogati dai Centri diurni, ossia strutture che ospitano, per un certo numero di ore al giorno e nel rispetto di programma personalizzato di attività, persone anziane parzialmente non autosufficienti, che necessitano di supervisione, tutela, sostegno e aiuto nello svolgimento di alcune delle attività di vita quotidiana. Esso offre attività di riabilitazione, ricreative, culturali, artigianali e numerose occasioni di socializzazione, ponendosi come luogo di incontro per la vita di relazione. Come nel caso delle RSA, anche per il Centro Diurno non esiste una definizione univoca. I requisiti e le modalità di ammissione nella struttura variano a seconda delle disposizioni normative emanate dalle Regioni e dai Comuni; in linea generale, si fa riferimento alla condizione socio-sanitaria della persona anche in funzione dei posti disponibili presso le strutture attivate. La spesa sostenuta da ogni paziente varia da Regione a Regione e in base al tipo di assistenza offerta. In generale, accanto ad una quota sanitaria interamente sostenuta dalla ASL, che varia da Regione a Regione, è prevista una retta per la compartecipazione degli utenti, anch’essa variabile da Regione a Regione, da struttura a struttura, talvolta da Comune a Comune. Il Centro Diurno è, di norma, ubicato in zone urbanizzate e ben collegate con le strutture e i servizi socio-sanitari presenti sul territorio al fine di consentire all’anziano l’integrazione con il contesto ambientale preesistente. All’interno del centro operano diverse figure professionali, quali:

• operatori per l’assistenza sociale ed infermieristica; • operatori addetti alla cura della persona, il cui intervento è finalizzato soprattutto

all’uso delle potenzialità dell’anziano; • educatori ed animatori; • addetti ai servizi generali. •

Le prestazioni e i servizi offerti dal centro sono diversi: • assistenza tutelare diurna; • assistenza infermieristica; • assistenza sociale e psicologica; • servizio mensa (colazione, pranzo e cena), lavanderia e stireria; • igiene della persona (bagni, pedicure, lavaggio dei capelli); • contatti con enti assistenziali e/o previdenziali; • attività ludico-ricreative (sale TV, tornei di carte, sala lettura con abbonamenti a

quotidiani nazionali); • attività motorie ricreative anche personalizzate; • trasporto dell’anziano dal Centro Diurno a casa.

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ASSISTENZA DOMICILIARE

I servizi di assistenza domiciliare, ricompresi nei servizi previsti dal DPCM 29 novembre 2001 “Definizione dei livelli essenziali di assistenza” (LEA), sono finalizzati al miglioramento della qualità di vita del destinatario degli interventi consentendogli di continuare a vivere nella propria residenza abituale.

Tali servizi sono:

- Assistenza domiciliare integrata (ADI); - Ospedalizzazione a domicilio; - assistenza domiciliare programmata (adp);

- assistenza domiciliare nelle residenze (adr);

- Servizio di assistenza domiciliare (Sad); - Telesoccorso, telecontrollo, adeguamento dell’alloggio, protesi e ausili

L’origine delle normative regionali in materia è duplice:

- da un lato vi è la produzione normativa nazionale, che negli ultimi dieci anni ha dato forte impulso alle cure a domicilio;

- dall’altro lato vi sono gli interventi che ogni Regione ha introdotto nel campo socio-assistenziale.

L’assistenza a domicilio è sorta, infatti, in questo ultimo settore e solo successivamente si è venuta distinguendo da essa un’altra forma di assistenza domiciliare, caratterizzata da una specifica connotazione sanitaria e che il Piano Sanitario Nazionale 1994-96 ha codificato con il termine di “Assistenza Domiciliare Integrata”.

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ASSISTENZA DOMICILIARE INTEGRATA (ADI)

L’ADI, introdotta con il Piano Sanitario Nazionale 1994-1996, nasce come un modello assistenziale volto ad assicurare l’erogazione coordinata e continuativa di prestazioni sanitarie (medica, infermieristica, riabilitativa) e socio-assistenziali (cura della persona, fornitura dei pasti, cure domestiche) al domicilio, da parte di diverse figure professionali fra loro funzionalmente coordinate.

Lo scopo è intervenire precocemente sulle riacutizzazioni, consentendo la permanenza a domicilio o di completare trattamenti più complessi eseguiti in ospedale o in struttura residenziale per favorire le dimissioni.

Inizialmente, tale forma di assistenza ha riguardato essenzialmente la popolazione anziana e i disabili, e successivamente si è estesa alla cura di altre patologie (quali l’AIDS, l’Alzheimer, i pazienti allo stato terminale, ecc…). La più recente evoluzione nel settore è volta a creare una rete integrata dei diversi servizi domiciliari.

La responsabilità assistenziale è attribuita al medico di medicina generale, la sede organizzativa è nel distretto ed è caratterizzata da accessi presso il domicilio del paziente da parte di un gruppo di lavoro permanente costituito da:

- medico di medicina generale (MMG) che ha in carico il paziente;

- infermiere professionale;

- fisioterapista;

- assistente sociale;

- operatore socio-assistenziale;

- cui si aggiungono, se necessario, figure specialistiche in base alle necessità del singolo caso.

Le modalità operative dell’ADI variano da Regione a Regione, sia per quanto riguarda il numero di casi trattati che la quantità dell’assistenza erogata (es. ore di assistenza per caso).

L'attivazione dell’ADI richiede la presa in carico della persona, la previa valutazione multidimensionale del bisogno e la definizione di un piano personalizzato di assistenza, con individuazione degli obiettivi di cura e dei tempi di recupero, delle tipologie di intervento e della frequenza degli accessi. La valutazione è effettuata con diversi professionisti: MMG, Infermiere, Terapista della riabilitazione, Assistente sociale e lo Specialista di riferimento dell’azienda sanitaria e, se necessario, lo Psicologo. In generale, si tratta di cure domiciliari che possono essere di medio-bassa e alta intensità; proprio l’ampiezza di questa gamma ha motivato diverse Regioni ad articolare l’ADI, al suo interno, in altre forme (bassa, media e alta intensità o anche in relazione alle tipologie di utenti).

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- Le forme a medio-bassa intensità richiedono attività a prevalente natura infermieristica e riabilitativa di mantenimento, con limitata presenza medico specialistica e riguardano sindromi da immobilizzazione, lesioni cutanee, monitoraggio di pazienti anziani o oncologici nella fase post operatoria, riabilitazione delle patologie neurologiche ed ortopediche non complicate. E’ previsto all’interno di questa attività anche l’educazione dei care giver (ossia di coloro che si assumono l’impegno di cura della persona, siano essi familiari o “badanti” o volontari) alla corretta gestione dei problemi assistenziali e alla valorizzazione delle funzioni residue. La durata è definita dal piano di assistenza e di norma si estende fino a 6-12 mesi.

- Le forme a medio-alta intensità riguardano pazienti multiproblematici e affetti da patologie acute o croniche in labile compenso, che non richiedono un monitoraggio continuo in sede ospedaliera. Il Piano personalizzato di assistenza deve prevedere l’erogazione in forma integrata di diverse prestazioni sanitarie, mediche, infermieristiche, riabilitative e/o prestazioni socio-assistenziali. La durata delle cure domiciliari intensive è contenuta in 60-180 giorni e sono frequenti le revisioni e gli aggiustamenti successivi del percorso di cura in ragione del bisogno della persona.

E’ una tipologia assistenziale gratuita per il cittadino e prevista dagli Accordi collettivi nazionali MMG e PLS.

L’erogazione dell’assistenza può essere effettuata anche sette giorni su sette per favorire il miglior controllo possibile dei problemi presentati e garantire la continuità assistenziale nelle situazioni critiche. Può comprendere anche piani di cura esclusivamente riabilitativi in fase post-acuta che prevedono di norma 2-3 accessi settimanali.

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OSPEDALIZZAZIONE A DOMICILIO L’ospedalizzazione a domicilio non è coordinata dai servizi territoriali ma dall’ospedale. E’ caratterizzata dall’effettuazione, presso il domicilio del paziente, di interventi diagnostici e terapeutici che vengono di norma eseguiti in ospedale, integrati - se necessario - da una breve presenza nella struttura sanitaria con accesso e trasporto programmati.

L’ospedalizzazione a domicilio è caratterizzata da prestazioni altamente specialistiche erogate al domicilio del paziente da parte di un'equipe ospedaliera. Destinatari di tale servizio sono malati affetti da malattie croniche in fase di riacutizzazione o malattie croniche evolutive, per le quali si rendono necessari più accessi al giorno di sanitari specializzati che garantiscano l’assistenza sanitaria forniti in ospedale, con reperibilità medica e infermieristica 24 ore su 24.

La cura a casa del paziente prevede non solo la presenza di familiari disponibili nonché preparati con brevi corsi specifici, ma anche l’assegnazione di attrezzature (erogatori di ossigeno, piantane per fleboclisi, respiratori, ecc…), di ausili per la deambulazione e le funzioni fisiologiche, un collegamento telefonico privilegiato con l’ospedale, ecc... Può includere anche un’assistenza di tipo sociale, con erogazione di aiuti alla famiglia per l’assistenza, la pulizia e l’alimentazione del malato (direttamente o mediante un supporto economico).

La OD è prevista in media annua per una durata di 40 giorni a paziente, estendibili a 60, con 2 ore di presenza infermieristica giornaliera, un passaggio giornaliero, in media, del medico curante o del medico ospedaliero e un collegamento permanente 24 ore su 24 con l’équipe ospedaliera preposta per situazioni di emergenza che richiedono un intervento urgente.

Tale modalità assistenziale ha due obiettivi: - da una parte consente a talune tipologie di pazienti di ridurre il periodo di degenza

ospedaliera senza rinunciare alle opportune cure; - dall’altra dà agli stessi ammalati la certezza di essere seguiti da un’equipe composta

da personale esperto nelle patologie da trattare e che, d’accordo col medico di medicina generale, può, se necessario, tempestivamente garantire eventuali esami specialistici o di laboratorio ed iniziative terapeutiche.

L’equipe ospedaliera può anche provvedere alla riammissione del paziente in ospedale, nel caso venissero meno le condizioni che avevano consigliato il ricorso all’ospedalizzazione domiciliare.

Per accedere all'ospedalizzazione a domicilio pubblica è necessario che il medico di medicina generale dell’assistito inoltri opportuna richiesta al Centro di Assistenza Domiciliare dell'Azienda Sanitaria Locale di appartenenza del paziente o del reparto ospedaliero di dimissione.

Il servizio è gratuito, se erogato a carico del SSN; è a pagamento se ci si rivolge a strutture private non accreditate.

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ASSISTENZA DOMICILIARE PROGRAMMATA (ADP)

E’ svolta assicurando la presenza periodica del Medico di Medicina Generale al domicilio delle persone non ambulabili affetti da patologie per le quali si rende necessario un monitoraggio intensivo; le modalità sono organizzate dal Distretto in coordinamento con il Medico.

L’ADP è quindi diversa dalle semplici visite a domicilio del MMG ai propri pazienti, richiedendo un programma di interventi concordato con il distretto per un bisogno sanitario significativo e non estemporaneo. E’ un’assistenza a bassa intensità e non richiede la valutazione multidimensionale del bisogno.

E’ una tipologia assistenziale gratuita per il cittadino e prevista dagli Accordi collettivi nazionali MMG e PLS.

Assistenza domiciliare nelle residenze (ADR)

E’ una forma analoga all’ADI e consiste nell’effettuazione di visite programmate dei MMG di anziani ospiti in case di riposo o altri disabili in strutture protette. Ha identiche caratteristiche. E’ una tipologia assistenziale gratuita per il cittadino e prevista dagli Accordi collettivi nazionali MMG e PLS.

Servizio di assistenza domiciliare

Il servizio di assistenza domiciliare, anche per persone anziane in assistenza domiciliare infermieristica (ADI), è rivolto a persone singole o nuclei familiari che per particolari bisogni di ordine socio-sanitario, permanenti o temporanei, hanno necessità di aiuto a domicilio per attività relative al governo della casa, alla cura della persona e alla vita di relazione.

L’obiettivo è evitare l’istituzionalizzazione o il ricovero ospedaliero.

E’ generalmente gestito dai Comuni di maggiori dimensioni o associati.

Telesoccorso,Telecontrollo,adeguamento dell’alloggio

Il telesoccorso è un sistema elettronico - rivolto agli anziani, alle persone non autosufficienti ed ai portatori di handicap - collegato ad un telecomando o ad un campanello oppure ad un telefono particolare, che permette di chiedere aiuto immediato per un'emergenza (malori, cadute, fughe di gas, incendi, ecc…) ad una centrale di assistenza attiva 24 ore su 24. E’ diffuso in molti Comuni italiani. Può essere prevista una compartecipazione alla spesa, secondo il reddito della persona che lo richiede. Se il servizio di telesoccorso è gestito da privati, sono questi che stabiliscono le condizioni, le modalità di erogazione e il costo.

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Oltre al telesoccorso, può essere attivo il telecontrollo che, con più telefonate settimanali, prova il buon funzionamento dei dispositivi di teleassistenza e verifica se l'utente ha bisogno di aiuto.

Per quanto riguarda l’adeguamento degli alloggi, orientamento diffuso è quello di favorire la domiciliazione dei pazienti anziani. A tal fine, diverse sono le modalità previste dalle Regioni, tra cui:

- offerta di forme di consulenza gratuita e istituendo punti di assistenza specializzati (es. studi tecnici multiprofessionali che forniscano un servizio completo;

- incentivazione della proprietà edilizia alla realizzazione dei lavori di manutenzione straordinaria e di recupero con contributi pubblici in conto capitale o in conto interessi;

- promozione di forme di finanziamento bancario con prestiti e mutui a tassi agevolati;

- Riduzione sui lavori consentendo sgravi fiscali anche sui tributi locali come l’ICI.

Sostegno economico

Nel corso degli ultimi anni, numerosi sono stati i tentativi di istituire a livello nazionale delle forme di sostegno economico a favore della non autosufficienza, al fine di favorire la deistituzionalizzazione dei non autosufficienti e di promuovere la permanenza al proprio domicilio.

Con la Legge Finanziaria 2007 è stato istituito presso il Ministero della Solidarietà Sociale il Fondo per la non autosufficienza, con l'obiettivo di incrementare il sistema di protezione sociale e di cura per le persone non autosufficienti.

Sono stati quindi stanziati 100 milioni di euro per l'anno 2007 e 200 milioni di euro per ciascuno degli anni successivi, 2008 e 2009.

Accanto a questa iniziativa nazionale, numerosi e diversificati sono stati i tentativi adottati a livello regionale, quali:

- istituzioni di Fondi regionali/provinciali per la non autosufficienza; - assegni di cura/voucher per l’acquisto di prestazioni; - ecc…

Si rimanda agli Uffici istituti dalle singole Regioni e Province Autonome per maggiori dettagli.

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ASSISTENZA PROTESICA

L'assistenza protesica consiste nell'erogazione di ausili e protesi ai cittadini aventi diritto e l’elenco dei destinatari compreso nel D.M. 27.08.1999 n.332, prevede anche: “persone non autosufficienti che abbiano già presentato domanda di invalidità ai fini dell’indennità di accompagnamento”.

Regole generali

L'erogazione a carico del Servizio Sanitario Nazionale delle prestazioni di assistenza protesica è subordinata, salvo i casi eventualmente individuati dalle Regioni, al preliminare svolgimento delle seguenti attività: prescrizione, autorizzazione, fornitura e collaudo.

Prescrizione

La prescrizione dei dispositivi protesici è redatta da un medico specialista del SSN, dipendente o convenzionato, competente per tipologia di menomazione o disabilità.

La prescrizione costituisce parte integrante di un programma di prevenzione, cura e riabilitazione delle lesioni o loro esiti che, singolarmente, per concorso o coesistenza, determinano la menomazione o disabilità.

A tal fine, la prima prescrizione di un dispositivo protesico deve comprendere:

a. una diagnosi circostanziata, che scaturisca da una completa valutazione clinica e strumentale dell'assistito;

b. l'indicazione del dispositivo protesico, ortesico o dell'ausilio prescritto, completa del codice identificativo riportato nel Nomenclatore tariffario delle protesi (DM Sanità 27 agosto 1999 n.332) e l'indicazione degli eventuali adattamenti necessari per la sua personalizzazione;

c. un programma terapeutico di utilizzo del dispositivo comprendente: il significato terapeutico e riabilitativo; le modalità, i limiti e la prevedibile durata di impiego del dispositivo; le possibili controindicazioni; le modalità di verifica del dispositivo in relazione all'andamento del programma terapeutico.

La prescrizione è integrata da una esauriente informazione al paziente ed eventualmente a chi lo assiste, sulle caratteristiche funzionali e terapeutiche e sulle modalità di utilizzo del dispositivo stesso.

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Autorizzazione

L'autorizzazione alla fornitura del dispositivo protesico, dell'ortesi o dell'ausilio prescritto viene rilasciata dall'azienda USL di residenza dell'assistito previa verifica dello stato di avente diritto del richiedente, della corrispondenza tra la prescrizione medica ed i dispositivi codificati del nomenclatore, nonché, nel caso di forniture successive alla prima, del rispetto delle modalità e dei tempi di rinnovo.

La azienda USL si pronuncia sulla richiesta di autorizzazione tempestivamente e comunque; in caso di prima fornitura, entro venti giorni dalla richiesta. In caso di silenzio della USL, trascorso tale termine, l'autorizzazione alla prima fornitura si intende concessa.

All'atto dell'autorizzazione, sulla prescrizione è riportato il corrispettivo riconosciuto dalla azienda USL al fornitore a fronte dell'erogazione del dispositivo prescritto. In caso di autorizzazione tacita il corrispettivo riconosciuto al fornitore e pari alla tariffa applicata o al prezzo determinato dalla stessa azienda di residenza dell'assistito.

Qualora i dispositivi protesici, ortesici e gli ausili siano prescritti, per motivi di necessità e urgenza, nel corso di ricovero presso strutture sanitarie accreditate, pubbliche o private, ubicate fuori del territorio dell'azienda USL di residenza dell'assistito, la prescrizione è inoltrata dalla unità operativa di ricovero alla azienda USL di residenza, che rilascia l'autorizzazione tempestivamente, anche a mezzo fax. Limitatamente ai dispositivi inclusi nell'elenco I del Nomenclatore, in caso di silenzio della azienda USL, trascorsi cinque giorni dal ricevimento della prescrizione, l'autorizzazione si intende concessa da parte della azienda USL di residenza. In caso di autorizzazione tacita il corrispettivo riconosciuto al fornitore e pari alla tariffa fissata dalla regione di residenza dell'assistito.

Fornitura

La fornitura del dispositivo protesico prescritto avviene entro e non oltre i termini massimi, specifici per categoria di dispositivo, pena l'applicazione delle penalità previste nel DM Sanità 27 agosto 1999 n.332; per le forniture urgenti autorizzate in favore degli assistiti ricoverati, i fornitori devono garantire tempi di consegna inferiori ai suddetti tempi massimi.

La fornitura di protesi di arto provvisoria o temporanea non modifica il tempo massimo di rilascio della prima fornitura definitiva.

Il fabbricante di dispositivi protesici e tenuto a corredare i prodotti delle istruzioni previste dalla normativa vigente. Il fornitore fornisce al paziente ed eventualmente a chi lo assiste, dettagliate istruzioni sulla manutenzione e sull'uso del dispositivo erogato, anche a mezzo di indicazioni scritte.

Al momento della consegna del dispositivo protesico, l'assistito o chi ne esercita la tutela rilascia al fornitore una dichiarazione di ricevuta da allegare alla fattura trasmessa alla azienda USL ai fini del rimborso. Qualora il dispositivo venga spedito per corriere, per posta o per altro mezzo, il fornitore allega alla fattura copia del bollettino di spedizione o della lettera di vettura.

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Collaudo

Il collaudo accerta la congruenza clinica e la rispondenza del dispositivo ai termini dell'autorizzazione ed è effettuato, entro venti giorni dalla data di consegna, dallo specialista prescrittore o dalla sua unita operativa; a tal fine, entro il termine di tre giorni lavorativi, il fornitore comunica all'azienda USL che ha rilasciato la prescrizione la data di consegna o di spedizione del dispositivo.

L'azienda USL invita, entro 15 giorni dall'avvenuta fornitura, l'assistito a presentarsi per il collaudo. Qualora l'assistito non si presenti alla data fissata per il collaudo senza giustificato motivo incorre nelle sanzioni fissate dalla Regione.

Qualora all'atto del collaudo il dispositivo non risulti rispondente alla prescrizione, il fornitore è tenuto ad apportare le opportune variazioni.

Trascorsi venti giorni dalla consegna del dispositivo senza che il fornitore abbia ricevuto alcuna comunicazione da parte dell'azienda USL, il collaudo si intende effettuato ai fini della fatturazione e del pagamento.

Il collaudo dei dispositivi erogati ad assistiti non deambulanti viene effettuato presso la struttura di ricovero o a domicilio. Sono esclusi dalla procedura di collaudo i dispositivi monouso, valendo ai medesimi fini le prescrizioni dei relativi capitolati.

I fornitori sono tenuti a garantire la perfetta funzionalità dei dispositivi protesici per il periodo successivo alla consegna,e comunque non inferiore al termine di garanzia.

I dispositivi protesici di cui all’elenco l: “Nomenclatore tariffario delle prestazioni sanitarie proteiche” e all’elenco 2: “Nomenclatore degli ausili tecnici di serie” si intendono ceduti in proprietà all'assistito, fatta salva la facoltà delle Regioni di disciplinare modalità di cessione in comodato dei dispositivi per i quali sia possibile il riutilizzo, prevedendo comunque l'obbligo dell'azienda cedente di garantire la perfetta funzionalità e sicurezza dei dispositivi e di fornire all'assistito le istruzioni previste dalla normativa vigente.

L'azienda USL proprietaria degli apparecchi acquistati direttamente dalla ASL e da assegnarsi in uso agli invalidi (Elenco 3) è tenuta ad assicurarne la perfetta funzionalità e la sicurezza ed a fornire all'assistito le istruzioni previste dalla normativa vigente. I contratti stipulati con i fornitori dei suddetti apparecchi prevedono la manutenzione e la tempestiva riparazione per tutto il periodo di assegnazione in uso all'assistito.

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Attività sanitaria e sociosanitaria per malati terminali

Il malato “terminale” è caratterizzato da una progressiva perdita di autonomia, dal manifestarsi di sintomi fisici e psichici spesso di difficile e complesso trattamento, primo fra tutti il dolore, e da una sofferenza globale, che coinvolge anche il nucleo famigliare e quello amicale, e tale da mettere spesso in crisi la rete delle relazioni sociali ed economiche del malato e dei suoi cari.

La fase terminale non è caratteristica esclusiva della malattia oncologica, ma rappresenta una costante della fase finale di vita di persone affette da malattie ad andamento evolutivo, spesso cronico, a carico di numerosi apparati e sistemi.

Grande attenzione sul tema è stato mostrato dall’attuale Ministro della Salute Livia Turco, che il 4 dicembre 2006 ha insediato la “Commissione sulla terapia del dolore, le cure palliative e la dignità del fine vita”.

La Commissione, coordinata dallo stesso Ministro, è composta da 30 membri di diversa estrazione professionale e ha come finalità quella di elaborare un documento di riferimento generale sullo stato dei servizi e delle procedure inerenti la terapia del dolore, le cure palliative e le cure di fine vita. In particolare la Commissione dovrà evidenziare gli eventuali elementi di criticità e le priorità sulle quali deve essere posta una particolare attenzione dalle istituzioni interessate per il miglioramento dei servizi e dei protocolli assistenziali nelle diverse realtà del Paese.

La Commissione si muoverà su 8 direttrici:

1. predisposizione delle linee per la stesura di un “Piano nazionale per le cure palliative”;

2. aggiornamento del documento “Ospedale senza dolore” finalizzato a far sì che in tutti gli ospedali siano promossi protocolli di monitoraggio e attenzione alle dinamiche del dolore sofferto dai pazienti durante le degenze;

3. piani di formazione e aggiornamento specifici per gli operatori;

4. analisi dello stato dei servizi e delle procedure per l’assistenza ai pazienti in stato vegetativo;

5. sviluppo di linee guida per la promozione della dignità dei pazienti in condizioni gravissime o di fine vita;

6. avvio di un’indagine sulla qualità negli ospedali e nelle residenze sempre in riferimento ai servizi e alle modalità assistenziali nelle fasi terminali della vita;

7. verifica dello stato dei servizi e delle modalità assistenziali nell’area pediatrica sempre in relazione a patologie gravi e all’attenzione da porre alla lotta al dolore dei bambini;

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8. umanizzazione delle terapie intensive avviando la formulazione di linee guida specifiche che prevedano modalità finalizzate al massimo coinvolgimento possibile dei familiari nei reparti di terapia intensiva.

Come previsto dal Decreto 28 settembre 1999: “Programma nazionale per la realizzazione di strutture per le cure palliative”, la rete di assistenza ai pazienti terminali è costituita da una aggregazione funzionale ed integrata di servizi distrettuali ed ospedalieri, sanitari e sociali, che opera in modo sinergico con la rete di solidarietà sociale presente nel contesto territoriale, nel rispetto dell'autonomia clinico-assistenziale dei rispettivi componenti. La rete si integra con le unità di valutazione distrettuali ove presenti sul territorio.

La rete si articola nelle seguenti linee organizzative differenziate e nelle relative strutture dedicate alle cure palliative:

• assistenza ambulatoriale;

• assistenza domiciliare integrata;

• assistenza domiciliare specialistica;

• ricovero ospedaliero in regime ordinario o day hospital;

• assistenza residenziale nei centri residenziali di cure palliative-hospice.

La rete di assistenza ai pazienti terminali è coordinata da un dirigente medico, individuato tra quelli che già operano nei servizi coinvolti nella rete di assistenza ai pazienti terminali.

Accedono alla rete i pazienti affetti da malattie progressive e in fase avanzata, a rapida evoluzione e-a prognosi infausta, per i quali ogni terapia finalizzata alla guarigione o alla stabilizzazione della patologia non è possibile né appropriata.

L'organizzazione della rete di assistenza ai pazienti terminali deve prevedere una specifica fase operativa preposta alla valutazione e presa in carico del paziente e alla formulazione del piano terapeutico individualizzato. In tale fase va previsto il coinvolgimento del medico di famiglia del paziente, del medico della divisione ospedaliera cui afferisce il paziente e/o lo specialista territoriale, del medico esperto in cure palliative, del responsabile dell'assistenza domiciliare integrata, di uno psicologo, di un infermiere, di un assistente sociale nonché di altre figure professionali il cui apporto sia ritenuto utile. Per ogni paziente è formulato un programma individualizzato e multiprofessionale per la cura globale, improntato a criteri di qualità, tempestività, flessibilità, con criteri e indicatori per la verifica periodica, anche della qualità delle prestazioni erogate e viene predisposta una cartella clinica, che segue il paziente nei vari momenti assistenziali.

In considerazione del livello elevato di impegno psico-emozionale richiesto al personale che opera nella rete, l'azienda sanitaria locale provvede a realizzare adeguate forme di supporto psicologico e di formazione permanente del personale.

La normativa nazionale definisce un sistema di requisiti minimi solamente per i Centri Residenziali di cure palliative (D.P.C.M. del 20 Gennaio 2000); poiché gli altri livelli assistenziali della rete non sono soggetti a normativa comune, l’erogazione di cure palliative nelle diverse realtà regionali è caratterizzata da enorme diversità.

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Al fine di garantire la realizzazione della rete, a fianco delle strutture e degli operatori impegnati nella assistenza sanitaria di base, la maggior parte delle Regioni ha previsto la attivazione di unità funzionali di cure palliative specialistiche, definendole Unità di cure palliative (UCP).

Tali Unità, nuclei organizzativi multiprofessionali e multidisciplinari, devono assicurare:

1. l’attività di consulenza specialistica, sia a livello domiciliare che intra-ospedaliero;

2. l’eventuale presa in carico totale del paziente, sia a livello domiciliare sia a livello degenziale e/o residenziale.

In base ad analisi di tipo geografico, storico, socio-economico e ad esperienze nazionali, fatta salva diversa scelta da parte di ogni singola regione, si ritiene opportuna la presenza di almeno una U.C.P. nel territorio di ciascuna ASL.

La direzione della Unità è affidata ad un dirigente medico in possesso di idonea formazione ed esperienza in cure palliative.

• Numerosi sono stati gli interventi legislativi finalizzati al raggiungimento della piena integrazione tra interventi sanitari, socio sanitari e socio-assistenziali (es. DPCM del 14 Febbraio 2001; Legge 328/2001).

Il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008, in particolare, si è soffermato sul tema della “Rete assistenziale per le cure palliative”. Prevede che i programmi regionali, di attuazione del programma nazionale, integrino lo sviluppo dei centri residenziali di cure palliative-hospice nella rete assistenziale per le cure palliative e promuovano in particolare l’intervento assistenziale al domicilio del paziente, al fine di consentire la continuità assistenziale.

La necessità di offrire livelli assistenziali a complessità differenziata, adeguati ai bisogni del malato e della famiglia, mutevoli anche in modo rapido e non sempre programmabili, rende necessario realizzare un sistema che offra la maggior possibilità di sinergie tra differenti modelli e livelli di intervento e tra i numerosi soggetti professionali coinvolti. La rete deve essere composta da un sistema di offerta nel quale la persona malata e la sua famiglia, ove presente, possano essere guidati e coadiuvati nel percorso assistenziale tra il proprio domicilio, sede di intervento privilegiata ed in genere preferita dal malato e dal nucleo familiare e le strutture di degenza, specificamente dedicate al ricovero/soggiorno dei malati non assistibili presso la propria abitazione. La rete deve inoltre offrire un approccio completo alle esigenze della persona malata, garantendo, ove necessario e richiesto, un adeguato intervento religioso e psicologico.

La rete di cure palliative deve essere flessibile ed articolabile sulla base delle scelte regionali, d’altro canto la diversa organizzazione regionale deve comunque garantire in tutto il Paese una risposta adeguata alle necessità dei malati e delle loro famiglie.

Si promuove l’integrazione nella rete delle numerose Organizzazioni Non Profit, in particolare di volontariato, attive da anni nel settore delle cure palliative, dell’assistenza domiciliare e negli hospice, nel rispetto di standard di autorizzazione/accreditamento precedentemente definiti a livello nazionale e regionale.

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ASSISTENZA DOMICILIARE

Nei percorsi di cura ed assistenza domiciliare della rete di cure palliative devono essere fra loro integrate la modalità dell’Assistenza Domiciliare Integrata (A.D.I.-cure palliative) e quella della presa in carico totale del paziente da parte dell’équipe specialistica dell’U.C.P. (Ospedalizzazione domiciliare/O.D.- Cure palliative).

Per i pazienti inseriti in un programma di cure palliative domiciliari si ritiene opportuno prevedere l’erogazione diretta dei farmaci dei presidi e degli ausili.

Parimenti dovrebbero essere favorite modalità di rimborso per il trasporto dei malati dal domicilio verso le Strutture di ricovero e cura e viceversa.

Assistenza domiciliare integrata (ADI)- cure palliative

L’attività di A.D.I.-cure palliative è specificamente rivolta a pazienti in fase terminale di malattia che richiedono un intervento coordinato. Il medico di medicina generale è il responsabile dell’assistenza al singolo paziente e si avvale della consulenza dell’equipe dell’U.C.P. con la quale stabilisce un progetto assistenziale individuale (Piano di cura) da lui coordinato.

Ospedalizzazione a domicilio (OD)-cure palliative

La modalità di presa in carico totale del malato a livello domiciliare da parte della équipe della U.C.P. si identifica con il livello di assistenza domiciliare definita “ospedalizzazione domiciliare”.

L’intervento di O.D. - cure palliative deve essere di norma attivato, con delega formale, da parte del medico di medicina generale di riferimento del paziente. Il medico di medicina generale (MMG) è comunque chiamato a partecipare, se lo ritiene opportuno, alle attività dell’équipe assistenziale specialistica, secondo modalità concordate a livello locale, che garantiscano corretti rapporti deontologici e trasparenti attribuzioni delle responsabilità professionali fra i membri dell’équipe domiciliare specialistica (Protocolli locali di rapporto fra medico di medicina generale e specialisti).

ASSISTENZA RESIDENZIALE

Centri Residenziali di cure palliative-hospice

Come previsto dal Decreto 28 settembre 1999: “Programma nazionale per la realizzazione di strutture per le cure palliative”, le Regioni e le Province Autonome realizzano - in coerenza con gli obiettivi del Piano Sanitario Nazionale e con le previsioni della programmazione

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regionale - un programma di potenziamento qualitativo e quantitativo della rete di cure palliative prioritariamente destinate ai pazienti affetti da patologia neoplastica terminale.

Le strutture per le cure palliative di pazienti in fase terminale che necessitano di cure finalizzate ad assicurare ad essi e ai loro familiari una migliore qualità della vita sono denominate: “Centri residenziali di cure palliative-hospice” e costituiscono parte della rete di assistenza ai pazienti terminali concorrendo alla realizzazione del progetto terapeutico individualizzato predisposto per i pazienti preso in carico.

Le principali funzioni dei centri residenziali di cure palliative - hospice sono:

- ricovero temporaneo per pazienti per i quali non sussistano le condizioni necessarie all'assistenza domiciliare o all'assistenza domiciliare specialistica o al ricovero ospedaliero per acuti;

- ricovero temporaneo come supporto alle famiglie per alleviarle dalla cura del proprio congiunto;

- attività assistenziale in regime diurno;

- valutazione e monitoraggio delle terapie palliative per il controllo dei sintomi;

- punto di informazione e supporto per gli utenti;

- aggiornamento e formazione del personale.

Gli interventi sanitari erogati sono ad alta intensità assistenziale, a limitata tecnologia e, dove possibile, a scarsa invasività.

Il D.P.C.M. 20 Gennaio 2000 definisce centri residenziali di cure palliative: “le strutture, facenti parte della rete di assistenza ai pazienti terminali, per l'assistenza in ricovero temporaneo di pazienti affetti da malattie progressive ed in fase avanzata, a rapida evoluzione e a prognosi infausta, per i quali ogni terapia finalizzata alla guarigione o alla stabilizzazione della patologia non e' possibile o appropriata e, prioritariamente, per i pazienti affetti da patologia neoplastica terminale che necessitano di assistenza palliativa e di supporto”.

Il centro residenziale per cure palliative-hospice deve essere organizzato in modo da garantire il benessere psicologico e ambientale del paziente e dei suoi familiari, il comfort ambientale, la sicurezza nell'utilizzo degli spazi e la tutela della privacy.

L'organizzazione del centro residenziale di cure palliative, hospice deve favorire la presenza e la partecipazione dei familiari dei pazienti, permettendo loro l'accesso senza limiti di orario. Le strutture devono essere accessibili agevolmente da parte dell'utenza attraverso una dislocazione territoriale servita dai mezzi pubblici.

All'interno della struttura devono essere indicati i diversi percorsi, con messaggi chiari e visibili. Deve essere predisposto un punto di accoglienza facilmente individuabile, gestito da operatori formati per il contatto con il pubblico.

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Nella collocazione dei Centri Residenziali di cure palliative-hospice le Regioni hanno adottato filosofie fra loro differenti.

Alcune hanno preferito privilegiare la collocazione nella rete socio-sanitaria delle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) e degli Istituti di Riabilitazione extraospedaliera (I.D.R. - es. Veneto e Toscana); altre hanno ritenuto opportuno collocarle prevalentemente all’interno della rete sanitaria, sia ospedaliera (ad es. Lombardia, Campania, Sicilia) che extraospedaliera (ad es. Piemonte). Altre ancora hanno scelto un modello misto (ad es. Emilia Romagna)

La scelta programmatoria è stata fatta sulla base di impostazioni organizzative e delle risorse disponibili, tenendo presenti le realtà storicamente presenti nella regione e lo sviluppo storico delle cure palliative.

ASSISTENZA OSPEDALIERA

Per migliorare l’organizzazione di processi assistenziali in funzione del controllo del dolore il 24 maggio 2001 lo Stato, le Regioni e le Province Autonome hanno stipulato l’accordo “Linee guida per la realizzazione dell’Ospedale senza dolore”.

L’Accordo è ampio e articolato. Occorre, pertanto, operare per una sua piena attuazione, in particolar modo per l’elaborazione di specifici protocolli nei differenti tipi di dolore e per la sua puntuale rilevazione, recependo le Linee guida nazionali ed internazionali già disponibili.

Le linee guida si integrano con quanta contenuto nelle linee guida nazionali in terna di cure palliative. Ciascuna Regione e Provincia Autonoma, nell'ambito della propria autonomia, adotterà gli atti necessari all'applicazione delle linee guida in coerenza con la propria programmazione, prevedendo il sistematico inserimento della loro attuazione nelle procedure di valutazione dei risultati delle Aziende Sanitarie. Infine, in sintonia con l’Accordo, va garantita la diffusione della lotta alla sofferenza e al dolore anche fuori dall’Ospedale, in primis avvalendosi del contributo dei MMG e dei PLS.

PRESCRIZIONE DI FARMACI ANALGESICI OPPIACEI

Con la legge 8 febbraio 2001, n.12 “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore”, sono state introdotte modifiche sostanziali alla precedente normativa, al fine di garantire un più efficace trattamento del dolore nei malati terminali o nei pazienti affetti da dolore severo cronico.

Il provvedimento si rese necessario in quanto i medici non prescrivevano con facilità gli analgesici stupefacenti, stante la eccessiva rigidità di compilazione della ricetta e la previsione di sanzioni anche penali in caso di errori.

I farmaci per la terapia del dolore sono stati quindi individuati ed elencati in uno specifico allegato (allegato III-bis) al testo Unico sugli stupefacenti (D.P.R. n.309/1990). Tali farmaci attualmente sono prescritti con ricettario in triplice copia autocopiante ritirabile dai medici e

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dai veterinari o da un loro delegato presso le ASL (prima andavano ritirati personalmente presso gli ordini professionali).

La modalità di compilazione di una ricetta con la quale si prescrive morfina o farmaci analoghi, si è uniformata a quella di una prescrizione di un comune medicinale non sottoposto alla normativa degli stupefacenti. Inoltre, con un’unica ricetta il farmacista può dispensare un numero di confezioni necessarie a coprire la terapia di trenta giorni in regime di fornitura a carico del SSN.

Una ulteriore importante agevolazione nei riguardi dei pazienti è stata la volontà di concedere i farmaci antidolore in assistenza domiciliare integrata (L. n.405/2001). A tal fine il personale che opera nei distretti sanitari di base o nei servizi territoriali o negli ospedali pubblici o accreditati delle aziende sanitarie locali è autorizzato a consegnare al domicilio di pazienti affetti da dolore severo in corso di patologia neoplastica o degenerativa, le quantità terapeutiche dei farmaci compresi nell’allegato III-bis, accompagnate dalla certificazione medica che ne prescrive la posologia e l’utilizzazione nell’assistenza domiciliare.

Anche i pazienti in dimissione da ricovero ospedaliero possono ricevere direttamente dalla struttura sanitaria i farmaci necessari per un primo ciclo di terapia, senza avere la necessità di rivolgersi immediatamente al medico di base e alla farmacia aperta al pubblico.

Il disegno di legge 19 ottobre 2006 introduce rilevanti novità in tema di prescrizione dei medicinali per il trattamento del dolore severo, introducendo un'ulteriore semplificazione nella prescrizione dei farmaci con forte attività analgesica, quali:

- estendere la possibilità di ricevere al proprio domicilio i medicinali stupefacenti analgesici anche nei casi di dolore non correlato a patologie neoplastiche o degenerative;

- consentire che la prescrizione dei farmaci per il trattamento del dolore severo, quando effettuata nell'ambito della disciplina del Servizio Sanitario Nazionale, avvenga mediante utilizzazione del normale ricettario previsto dalle disposizioni vigenti, anziché del ricettario speciale a ricalco (che sarebbe obbligatorio per le sole prescrizioni effettuate al di fuori del SSN);

- rendere nuovamente possibile l'aggiornamento dell'elenco dei farmaci attualmente.

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PRINCIPALE NORMATIVA NAZIONALE DI RIFERIMENTO - DPCM 308/2001: Regolamento concernente Requisiti minimi strutturali e

organizzativi per l'autorizzazione all'esercizio dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale, a norma dell'articolo 11 della legge 8 novembre 2000, n.328.

- DPCM 14/2/2001: Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie.

- DPR 14/1/1997: Approvazione dell'atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni e alle Province Autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l'esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private.

- Progetto Obiettivo Anziani 1992. - Piano Sanitario Nazionale 1994-1996 (tra i “Progetti obiettivo e le azioni

programmate” prevede: “La tutela della salute degli anziani”). - Legge 8 novembre 2000, n.328: Legge quadro per la realizzazione del sistema

integrato di interventi e servizi sociali. - PSN 2003-2005 (che inserisce, tra gli obiettivi strategici, la “realizzazione di una rete

integrata di servizi sanitari e sociali per l’assistenza ai malati cronici, agli anziani e ai disabili”).

- Piano Sanitario Nazionale 2006-2008. - Legge 27.12.2006 n.296 (Legge Finanziaria 2007).

RIABILITAZIONE E LUNGODEGENZA - Linee-guida del Ministro della Sanità per le attività di riabilitazione (Gazzetta

Ufficiale 30 maggio 1998, n.124) approvate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano il 7 maggio 1998,

ASSISTENZA DOMICILIARE - DPCM 29 novembre 2001: Approvazione dell'atto di indirizzo e coordinamento alle

Regioni e alle Province Autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l'esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private.

- DPR 14 gennaio 1997: Approvazione dell'atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni e alle Province Autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l'esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private.

- Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. n.502 del 1992 e successive modificazioni ed integrazioni

- e PLS

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ASSISTENZA PROTESICA - D.M. 27.08.1999 n.332: “Regolamento recante norme per le prestazioni di assistenza

protesica erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale: modalità di erogazione e tariffe”.

MALATI TERMINALI, CURE PALLIATIVE

- D.P.C.M. 20 Gennaio 2000: Atto di indirizzo e coordinamento recante requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per i centri residenziali di cure palliative.

- Accordo tra Stato, Regioni e Province Autonome: “Linee guida per la realizzazione dell’Ospedale senza dolore”- 24 maggio 2001.

PRESCRIZIONE DI FARMACI ANALGESICI OPPIACEI

- D.P.R. n. 309/1990 Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.

- Legge 8 febbraio 2001, n.12: “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore”.

- Disegno di legge 19 ottobre 2006.

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Salute mentale e dipendenze

I disturbi mentali, che raggruppano schizofrenia, depressione, disturbi d’ansia, anoressia e bulimia nervose, disturbi da abuso di sostanze e di alcool e disturbi ossessivi, costituiscono un importante problema di sanità. Si presentano, infatti, in tutte le classi d'età, sono associati a difficoltà nelle attività della vita quotidiana, nel lavoro, nei rapporti interpersonali e familiari, e sono all'origine di elevati costi sociali ed economici per le persone colpite e per le loro famiglie. La crescente consapevolezza dell’aumento dell’incidenza e della sofferenza che circonda i disturbi mentali, ha reso necessarie azioni di prevenzione oltre che di cura di queste patologie.

Le ripercussioni di un disturbo mentale sulla vita di una persona sono estremamente variabili e le conseguenze possono essere profonde e colpire il campo familiare, lavorativo, sociale.

In alcuni casi (ad esempio, nel caso di alcune fobie o depressioni lievi) l'impatto sul funzionamento nella vita quotidiana è pressoché trascurabile; in altri casi (si pensi alla schizofrenia, al disturbo bipolare, o anche alle depressioni gravi, ad alcune gravi forme di disturbi d'ansia, o ancora all'anoressia, ad alcuni tipi di disturbi di somatizzazione, ecc…) le conseguenze sono molto profonde, investono tutte le aree della vita di un individuo e ne possono condizionare profondamente le realizzazioni in campo familiare, lavorativo, sociale, ecc…

I dati provenienti dalla letteratura scientifica internazionale, infatti, hanno evidenziato che nell’arco di un anno il 20% della popolazione adulta ha presentato uno o più disturbi mentali elencati nella Classificazione Internazionale delle Malattie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Molte patologie dell’età adulta, come è stato documentato da numerosi studi, sono precedute da disturbi che compaiono in età evolutivo-adolescenziale.

La ricerca è oggi impegnata a chiarire quali sono le variabili che maggiormente incidono nel far sì che un disturbo abbia conseguenze più o meno rilevanti sulla vita della persona affetta. Gli specialisti concordano sul fatto che la cura debba avvalersi di strumenti diversi a seconda del tipo e della fase del disturbo, ma quasi sempre per ottenere risultati ottimali è necessario utilizzare in modo integrato i diversi strumenti terapeutici.

Così, per esempio, nelle fasi iniziali della malattia e nei periodi di stallo è spesso possibile seguire cure ambulatoriali o domiciliari, mentre in alcune fasi di riacutizzazione del disturbo può rendersi necessario il ricovero, anche obbligatorio.

Nei Piani Sanitari Nazionali 2003-2005 e 2006-2008 la salute mentale, anche dell’età evolutiva, e la lotta allo stigma sociale costituiscono obiettivi prioritari. I disturbi relativi alla salute mentale, infatti, rivestono un’importanza crescente in tutti i Paesi industrializzati sia perché il numero dei soggetti colpiti è in costante aumento sia perché determinano un elevato carico di disabilità e di difficoltà sociali ed economiche che pesano sui pazienti, sulle loro famiglie e sulla collettività.

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Rete dei servizi sanitari

In Italia l’assistenza psichiatrica è un servizio fornito dall’Azienda sanitaria mediante i DSM (Dipartimenti di Salute Mentale) esistenti in tutte le ASL e di cui i cittadini possono usufruire in caso di necessità. In questi centri di accoglienza per il malato di mente è presente una equipe medica formata da psicologo, psichiatra, assistente sociale e infermiere professionale capace di offrire le cure adeguate al malato bisognoso Secondo quanto risulta dal censimento 2001, in Italia tutte le Regioni e le Province hanno istituito, principalmente presso le strutture delle ASL, i Dipartimenti di salute mentale (DSM).

L’assistenza viene erogata in varie forme:

• Assistenza ambulatoriale, domiciliare: Garantisce prestazioni di diagnosi, cura e riabilitazione, attraverso l’opera di medici, psicologi e infermieri;

• Assistenza ospedaliera: Sono garantiti interventi medici di diagnosi, cura e riabilitazione, che non possono essere affrontati in ambulatorio o a domicilio, anche in situazioni di trattamento sanitario obbligatorio;

• Assistenza terapeutico-riabilitativa Si realizza presso strutture residenziali di tipo comunitario o gruppi-appartamento e presso strutture semiresidenziali (Centri Diurni);

• Assistenza socio-assistenziale Agli utenti è garantita la possibilità di interventi in ambito sociale e familiare attraverso un servizio sociale interno al Dipartimento di salute Mentale.

L’assetto organizzativo dipartimentale dei servizi, ormai consolidato, è così strutturato:

Dipartimenti di Salute Mentale (DSM)

I Dipartimenti di Salute Mentale sono stati istituiti in seguito all’emanazione del P.O.N. (Progetto Obiettivo Nazionale) "Tutela della Salute Mentale" 1994/1996. Trattasi di strutture organizzative ed operative delle ASL deputate allo svolgimento di tutte le attività territoriali ed ospedaliere in materia di assistenza psichiatrica. Esse assicurano la prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione nel campo della psichiatria e la promozione della salute mentale del cittadino. Tali dipartimenti sono costituiti da una struttura territoriale chiamata centro di salute mentale, da un servizio psichiatrico di diagnosi e di cura, da un centro diurno, da un day hospital psichiatrico e da una struttura residenziale psichiatrica.

I Dipartimenti (211 unità distribuite su tutto il territorio nazionale) svolgono il compito fondamentale di assicurare le attività di prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento del malato mentale.

Ogni Dipartimento, per meglio rispondere ai molteplici bisogni, è articolato in una rete diversificata di servizi che offrono quattro tipologie basilari di assistenza:

servizi per l’assistenza diurna: i Centri di Salute Mentale (CSM) e Ambulatori;

servizi semiresidenziali: i Centri Diurni (CD);

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servizi residenziali: strutture residenziali (SR) distinte in residenze terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative;

servizi ospedalieri: i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) e i Day Hospital (DH).

L’offerta assistenziale è completata dalle Cliniche universitarie e dalle case di cura private.

Il centro di salute mentale

Il C.S.M. costituisce la sede organizzativa dell’equipe degli operatori ed il punto di coordinamento dell’attività sul territorio. Il Centro di Salute Mentale, cardine dell'assistenza psichiatrica territoriale, è il luogo dove le persone vengono accolte, eventualmente prese in carico, e dove si elaborano i progetti terapeutico-assistenziali personalizzati. In esso opera una equipe a carattere multiprofessionale, che svolge molteplici attività di prevenzione, cura e riabilitazione tra loro integrate. Nel Centro trovano collocazione:

• gli ambulatori medici; • l'ambulatorio infermieristico; • l’eventuale Servizio Sociale del Centro di Salute Mentale.

In esso si realizzano inoltre la connessione e l'integrazione tra le funzioni del Dipartimento di salute mentale e i Medici di famiglia.

Il Centro assicura un'assistenza integrata di base e specialistica, articolata su diverse tipologie di intensità di cura. I percorsi di base garantiscono visite psichiatriche, supporto psicologico, cure farmacologiche, assistenza sociale e riabilitazione. In caso di necessità, il Centro attiva tragitti più complessivi, terapeutico-riabilitativi, quali attività in centro diurno o accoglienza in residenze psichiatriche o trattamenti intensivi degli stati acuti (nell'Unità operativa di emergenza urgenza psichiatrica). Garantisce inoltre un servizio specifico di informazione e di assistenza alle famiglie dei pazienti.

In questo senso, il Centro Salute Mentale è il fulcro dell'attività psichiatrica e interagisce con la rete degli altri centri dislocati sul territorio.

L’equipe del Centro di Salute Mentale (in genere composta da medici psichiatri, assistenti sociali e infermieri) effettua, in particolare:

• attività di valutazione delle richieste che giungono da utenti, familiari, servizi sociali e medici di medicina generale;

• attività di filtro e prevenzione dei ricoveri psichiatrici;

• visite ambulatoriali;

• visite domiciliari;

• colloqui di supporto psicologico;

• psicoterapie individuali e di gruppo;

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• terapia psicofarmacologica;

• attività di sostegno infermieristico;

• attività riabilitative e risocializzanti;

• interventi socio-assistenziali per gli utenti in carico;

• proposte di ricovero nei servizi;

• psichiatrici di diagnosi e cura e nelle altre strutture convenzionate;

• attività di filtro e di invio ad altri servizi specialistici, come pure a strutture semi-residenziali, riabilitative e residenziali del DSM o convenzionate;

• consulenze specialistiche a istituti o altri servizi, sia territoriali che ospedalieri;

• collaborazione con enti preposti alla tutela della salute mentale dei minori a rischio.

In qualche situazione esso dispone di posti letto per situazioni di crisi o attività extraospedaliere. I Centri di Salute Mentale sono strutture per attività psichiatrica ambulatoriale aperte 12 ore al giorno per 6 giorni alla settimana, e garantiscono l’assistenza sanitaria specialistica al paziente sia presso il proprio domicilio privato che presso il domicilio sociale.

I CSM sono 707 in tutto (secondo quanto risulta dalla “Rilevazione 2001 del Personale e Strutture dei Dipartimenti di Salute Mentale" - Direzione Generale della Prevenzione Ufficio XI ) Per quanto concerne l’orario di apertura, lo standard di 12 ore giornaliere è raggiunto o superato solo in cinque regioni (Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana e Campania) dove peraltro sono presenti anche 178 posti letto di appoggio che garantiscono un ulteriore servizio (erogato finora solo dal DSM di Trieste, punta di eccellenza per la salute mentale secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità).

Gli ambulatori sono 1.107, maggiormente presenti in Toscana (217), Sicilia (133) e Lombardia (113). L’orario di apertura è variabile.

Assistenza in regime di ricovero

Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC): Il Servizio psichiatrico diagnosi e cura costituisce il presidio ospedaliero dedicato alle cure. E' situato presso un ospedale e accoglie i pazienti in situazioni di crisi che richiedono una terapia urgente e che hanno bisogno di trattamenti ospedalieri sia in forma volontaria (largamente prevalente) sia in regime di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Durante il ricovero vengono impostate terapie farmacologiche, sono effettuati accertamenti internistici e viene valutata, con la collaborazione del personale del Centro di Salute Mentale, la situazione personale e relazionale del paziente. Sono possibili interventi psicoterapeutici, sulle famiglie e di tipo socio-assistenziale. Può essere Ospedaliero, o in Day Hospital.

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E' ubicato nel contesto di Aziende ospedaliere o di presidi ospedalieri di Aziende U.S.L. o di Policlinici Universitari.

E’ parte integrante del Dipartimento di Salute Mentale, anche quando l’ospedale in cui è ubicato non sia amministrato dall’Azienda sanitaria di cui il DSM fa parte. In tal caso, i rapporti tra le due Aziende sanitarie sono regolati da convenzioni obbligatorie, secondo le indicazioni della Regione. I rapporti con l’Azienda universitaria sono regolati in conformità ai protocolli d'intesa di cui all'art. 6, comma 1 del D.Lgs. 502/92 tra Regioni, Province Autonome e Università. Il numero complessivo dei posti letto è individuato tendenzialmente nella misura di uno ogni 10mila abitanti. La dislocazione degli S.P.D.C. è demandata al piano sanitario regionale o al progetto obiettivo regionale per la tutela della salute mentale.

Ciascun SPDC contiene un numero non superiore a 16 posti letto ed è dotato di adeguati spazi per le attività comuni.

Ricovero ospedaliero.

Le prestazioni principali sono:

a. Trattamento Sanitario Volontario (TSV). Il cittadino può rivolgersi al CSM o al Pronto soccorso o all'Accettazione di un ospedale dove è presente un SPDC per richiedere il ricovero volontario;

b. Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). Il trattamento deve essere certificato da due medici, di cui uno psichiatra dipendente dei Servizi Pubblici e autorizzato dal sindaco.

c. Il ricovero sanitario volontario o in TSO è limitato alla fase acuta di patologia grave. Il paziente può accedere a ricovero ospedaliero su invito del CSM, del Medico di famiglia, tramite il 118 o spontaneamente.

Ricovero in Day Hospital.

Rappresenta uno spazio di assistenza semiresidenziale per prestazioni diagnostiche e terapeutico-riabilitative a breve termine. E' collocato in strutture ospedaliere o esterne all'ospedale, ma collegate con il centro di salute mentale. Può permettere di ridurre la durata del ricovero e/o garantire l'effettuazione coordinata di accertamenti diagnostici, nonché di avviare e monitorare interventi farmacologici e psicoterapeutici-riabilitativi. Per alcuni pazienti si pone in alternativa al SPDC. E' aperto almeno otto ore al giorno per 6 giorni alla settimana ed è utilizzato quindi da pazienti con psicopatologia subacuta aventi necessità di intervento farmacoterapico e psicoterapico-riabilitativo. Ha la funzione di evitare ricoveri a tempo pieno nonché di limitarne la durata quando questi si rendano indispensabili. La sua configurazione strutturale dovrà perciò prevedere momenti di medicalizzazione dell’intervento e garantire la presenza di locali idonei ad accogliere pazienti che necessitano di terapie infusive e sedative.

L’utente vi accede in base a programmi concordati tra gli operatori del DSM.

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Le Regioni e le Province Autonome, nell'ambito della programmazione sanitaria regionale, definiscono la collocazione ed il numero dei posti letto in D.H.

La riabilitazione

Centri diurni: E' una struttura semiresidenziale con funzione terapeutico-riabilitativa, (compreso l’intervento farmacologico) aperta almeno 8 ore al giorno per 6 giorni alla settimana collocata in ambito territoriale. Accoglie il paziente nelle ore diurne su segnalazione dell'equipe terapeutica che lo ha in cura nel Centro di Salute Mentale (CSM). L’utenza del C.D. è costituita da soggetti i cui bisogni derivano da incapacità o difetti gravi nello stabilire validi rapporti interpersonali e sociali. Rappresenta, quindi, uno dei trattamenti privilegiati per alcune forme di psicosi e per le schizofrenie, in quanto consente dì curare pazienti molto gravi, senza allontanarli completamente dalla famiglia. La cura consiste nel ricreare le condizioni emotive e psicologiche, affinché il paziente possa condurre una vita affettiva, familiare e sociale migliore, recuperando quelle abilità che sono andate perdute.

Dispone di locali idonei ed attrezzati e si avvale di una propria equipe ed eventualmente degli operatori di cooperative sociali e delle organizzazioni del volontariato.

I suoi compiti sono volti a consentire lo sviluppo, nell'ambito di progetti terapeutico-riabilitativi, di abilità personali nella cura di sé e nelle attività quotidiane che si fondano sulle relazioni interpersonali ma, a seconda della patologia del paziente e delle caratteristiche del Centro Diurno, può essere orientata verso un'attività clinica o verso un intervento di preformazione lavorativa.

Le strutture residenziali rappresentano uno strumento essenziale del DSM per portare a termine il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici e per fornire una adeguata assistenza ai pazienti più gravi offrendo loro un contesto abitativo soddisfacente non potendo vivere da soli o nelle famiglie di origine.

Lo standard previsto è di un posto letto ogni 10mila abitanti.

Il Centro diurno può essere gestito dal DSM o dal privato sociale e imprenditoriale. In tal caso, fatti salvi i requisiti previsti dal DPR 14 gennaio 1997 e dal Progetto Obiettivo Tutela Salute Mentale 1998-2000, i rapporti con il DSM sono regolati da apposite convenzioni, che garantiscano la continuità della presa in carico.

Interventi terapeutico-riabilitativi in regime residenziale

Strutture residenziali - Si tratta di strutture alloggiative extra-ospedaliere (da un minimo di tre fino ad un massimo di dieci persone) dove vengono inseriti, per l'intero arco delle 24 ore, piccoli gruppi di utenti il cui disturbo psichico é ormai stabilizzato e per i quali é necessario un periodo di sostegno socio-assistenziale.

A seconda del livello di autonomia dei residenti, il soggiorno sarà organizzato in modo da prevedere diversi gradi di protezione, cioè con operatori sempre presenti, nei casi di minore autonomia, o meno presentì per i pazienti che hanno raggiunto un buon livello di autonomia.

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La Residenzialità sollecita:

a) la riappropriazione, da parte dei pazienti, delle proprie capacità di vita e di convivenza e la verifica della possibilità di rapporti relazionali con il mondo esterno;

b) il passaggio, per il paziente, da una condizione di maggiore assistenza ad una di maggiore autonomia e indipendenza.

L'utente che vuole essere inserito in una struttura residenziale deve, innanzitutto, rivolgersi al CSM, dove, l'equipe terapeutica, insieme agli operatori della Residenzialità, formulerà un progetto terapeutico con tempi e modalità personalizzati.

Le strutture residenziali dovranno soddisfare i requisiti minimi strutturali e organizzativi indicati dal DPR 14 gennaio 1997. Saranno, quindi, differenziate in base all’intensità di assistenza sanitaria (24 ore, 12 ore, fasce orarie) e non avranno più di 20 posti.

Al fine di prevenire ogni forma di isolamento delle persone che vi sono ospitate e di favorire lo scambio sociale, le SR vanno collocate in località urbanizzate e facilmente accessibili. Opportuno, anche, prevedere la presenza di adeguati spazi verdi esterni.

Le SR possono essere realizzate e gestite dal DSM o dal privato sociale e imprenditoriale. In tal caso, fatti salvi i requisiti e gli standard previsti dal DPR 14 gennaio 1997 e dal Progetto Obiettivo 1994-1996, i rapporti con il DSM sono regolati da appositi accordi ove siano definiti i tetti di attività e le modalità di controllo degli ingressi e delle dimissioni.

Comunità terapeutiche

La Comunità terapeutica è una struttura residenziale protetta (accoglie da 10 a 16 persone) dove il paziente può trascorrere un breve periodo della sua vita (a seconda del progetto terapeutico, tale periodo può aggirarsi attorno ai due anni). Accoglie i pazienti per l'intero arco delle 24 ore, con specifici progetti terapeutici, che hanno la funzione di integrare l'intervento ambulatoriale.

Ha come obiettivo quello di far acquisire al paziente:

a. Il raggiungimento di una significativa riduzione/ridimensionamento del disturbo e delle conseguenze di esso.

b. Il recupero dell'autostima e delle competenze sociali, con formulazione di un progetto esistenziale sostenibile ed adeguato alle caratteristiche ed alle risorse individuali.

c. La consapevolezza dello status di cittadinanza, con i diritti e le responsabilità connesse.

d. Il reinserimento nei luoghi naturali di vita (famiglia, comunità, luoghi di lavoro e di svago).

Le prestazioni della Comunità terapeutica sono:

1. interventi psicoterapeutici individuali e di gruppo;

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2. interventi con le famiglie di provenienza secondo due modalità: gruppo multifamiliare con genitori, pazienti e operatori della Comunità Terapeutica; terapia familiare;

3. interventi riabilitativi: cura della propria persona; cura dell'ambiente di vita attraverso la partecipazione alle attività quotidiane della Comunità; riacquisizione delle competenze necessarie alla creazione ed al mantenimento di una rete sociale; sviluppo di interessi culturali, attraverso attività guidate; riacquisizione di abilità lavorative, attraverso la promozione di attività di formazione professionale;

4. trattamento farmacologico;

5. partecipazione alla vita comunitaria, sia attraverso piccoli gruppi che nell'ambito dell'assemblea generale della Comunità;

6. collaborazione con i Centri Diurni per ulteriori attività riabilitative e socializzanti dei pazienti.

L'utente che vuole essere inserito nella Comunità deve innanzitutto rivolgersi al CSM. L'equipe terapeutica che lo avrà in cura, insieme agli operatori della Comunità Terapeutica, stabilirà un progetto terapeutico che prevede tempi e modalità personalizzati.

Il Dipartimento delle Dipendenze (DdD)

In molte realtà, è stato attivato il Dipartimento delle Dipendenze, che lavora in stretta contiguità con il Dipartimento di Salute Mentale; sono infatti abbastanza frequenti i casi di persone con problemi di disturbo mentale complicati da dipendenza da droghe o da alcol, e viceversa. Per questo motivo è utile conoscere l'organizzazione del Dipartimento delle Dipendenze. Il Dipartimento delle Dipendenze nasce a partire dal Servizio per le tossicodipendenze SER.T e dal servizio di Alcologia, è suddiviso da un punto di vista organizzativo in unità operative con competenza territoriale. Si occupa di prevenzione, cura, riabilitazione e riduzione del danno nel campo delle dipendenze patologiche.

Il suo intervento si espleta a livello ambulatoriale, territoriale, domiciliare, semiresidenziale (Centri Diurni, Centro di promozione della salute) e residenziale (comunità terapeutiche convenzionate, Centro specialistico residenziale per alcolisti, gruppo appartamento per alcolisti), di strada (unità di strada, educativa di strada). Può avere un'equipe multidisciplinare che garantisce gli interventi presso le Case circondariali.

Il Dipartimento delle Dipendenze lavora al fine di prevenire o ridurre i danni sanitari e sociali correlati con l'abuso e la dipendenza, anche con interventi finalizzati alla formazione, all'inserimento lavorativo, alla socializzazione, al coinvolgimento dei familiari. Collabora con i medici di medicina generale, per seguire le persone con problemi di dipendenza nei loro ambulatori.

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Che cosa occorre sapere riguardo ai pagamenti

L’accesso ai Centri di Salute Mentale è libero e diretto.

Per alcune prestazioni (visita specialistica, visita di controllo, psicoterapia, colloquio psichiatrico) è previsto, per i non esenti, il pagamento di un ticket.

Gli utenti che utilizzano le prestazioni del servizio, qualora non siano esenti per reddito, per età o per patologia psichica già riconosciuta, dovranno pagare il ticket sulla prestazione medica. Poiché una cura psichiatrica può spesso comportare un ciclo di visite o di colloqui psicoterapici che possono protrarsi per alcuni mesi, l'utente ha la possibilità di pagare un solo ticket per l'intero ciclo di visite o di colloqui.

Il quadro normativo ed organizzativo attuale

Solo a seguito della Legge 13 maggio 1978, n.180, successivamente assunta pressoché integralmente nella Legge di riforma sanitaria del 23 dicembre 1978, n.833, si è potuto progressivamente procedere ad una vera e propria rifondazione dei criteri e delle metodologie relative alla cura e alla assistenza dei disturbi psichiatrici, i cui principali punti caratteristici possono essere così sintetizzati:

1) il riconoscimento alle persone portatrici di disturbi psichiatrici di tutti i diritti costituzionali, come tutti gli altri cittadini;

2) il superamento definitivo di quei modelli di cura “ospedaliera” dei disturbi psichiatrici, chiaro prodotto del rifiuto e della emarginazione delle “diversità”, basati sulle grandi concentrazioni di persone rinchiuse forzosamente negli “ex manicomi” e ivi abbandonate;

3) l’attivazione di una rete capillare di servizi ed attività di territorio, ad un elevato livello di integrazione socio-sanitaria, in grado di realizzare, all’interno di una effettiva presa in carico delle problematiche globali del paziente: a) efficaci interventi di prevenzione dei disturbi psichici; b) risposte terapeutiche differenziate e personalizzate a seconda dei bisogni individuali; c) concreti percorsi di riabilitazione psicosociale, tali da promuovere negli utenti lo sviluppo e/o la ripresa di abilità individuali, il loro reinserimento nei circuiti di vita sociale e il loro re-ingresso nei circuiti produttivi;

4) la costituzione, all’interno di questa rete, di strutture comunitarie territoriali, in grado di dare risposte adeguate anche al bisogno di semiresidenzialità e di residenzialità sperimentando nuovi modelli a forte partecipazione dei familiari e di personale sociale non sanitario con l’obiettivo di ridurre l’apporto farmacologico ed implementando l’uso di tecniche non aggressive;

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5) il ricorso al ricovero ospedaliero, comunque di breve durata, solo per particolari situazioni caratterizzate da effettiva necessità clinica e da impossibilità di adottare in tempo reale misure alternative;

6) il superamento della tradizionale concezione della malattia mentale e la promozione di modelli di approccio al problema Salute Mentale attraverso il coinvolgimento e la partecipazione non solo degli operatori del settore ma anche di altre professionalità e, particolarmente, di altre istituzioni.

Le attività di Salute mentale per la prevenzione, la cura e la riabilitazione dei disturbi psichiatrici sono dunque fondamentalmente territoriali e sono svolte dal Dipartimento di Salute Mentale, ai livelli strutturali, organizzativi, programmatici e operativi, utilizzando apposite sedi ambulatoriali, semiresidenziali e residenziali, ovvero intervenendo direttamente sul territorio, sia con interventi programmati che urgenti.

Solo negli anni Novanta - con l’elaborazione dei due progetti-obiettivo per la “Tutela della salute mentale” rispettivamente del 1994 e del 1998 – sono state assunte concrete iniziative per l’integrazione di una legge che continuava a presentare persistenti lacune attuative.

E’ comunque, opportuno precisare che l’attuazione della Legge n.180 e dei progetti-obiettivo del 1994 e del 1998 è stata assolutamente disomogenea a livello interregionale, non solo perché la Legge n.180 ha avuto diverse intensità e velocità di applicazione nelle varie aree regionali, ma soprattutto perché alcune regioni hanno privilegiato la psichiatria ospedaliera, mentre in altre il fulcro delle attività è stato costituito dai dipartimenti di salute mentale.

Rispetto a tale assetto normativo ed organizzativo, un radicale cambiamento, almeno sotto il profilo del riparto delle competenze, è stato introdotto nel settore in esame con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha di fatto determinato il trasferimento in capo alle Regioni della gestione dell’assistenza per la salute mentale, da esercitarsi nel rispetto delle competenze statali di indirizzo e controllo. Nel prossimo futuro, saranno quindi le Regioni le principali protagoniste del nuovo percorso di riorganizzazione del sistema di assistenza psichiatrica che si renderà necessario al fine di adeguare l’offerta di prestazioni alla variegata domanda proveniente dagli utenti.

IL QUADRO NORMATIVO

Recepisce la Legge 180 e stabilisce l'assetto attuale della Tutela della Salute Mentale - Legge 833 del 23.121978 (Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale).

Progetto Obiettivo Tutela della Salute Mentale 1994-1996 - Decreto Presidente della Repubblica 7.4.1994.

Progetto Obiettivo Tutela della Salute Mentale 1998-2000 - Decreto Presidente della Repubblica 19.11.2000.

Legge 23.12.2000, n.388 (legge finanziaria 2001) art. 98 – Interventi per la tutela della salute mentale.

Piano Sanitario Nazionale 2003 – 05.

Piano Sanitario Nazionale 2006 – 08.

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Assistenza Territoriale per le tossicodipendenze

Dalla “Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia nel 2005”, emerge chiaramente che nel nostro Paese è in aumento la diffusione ed il consumo di droghe legali ed illegali; inoltre viene rilevato come, negli ultimi anni, l’incremento dell’uso e l’abuso delle sostanze stupefacenti o psicotrope interessi prevalentemente le fasce più giovani della popolazione.

In ambito di sanità pubblica l’urgenza posta dall’incremento della diffusione di stupefacenti è riscontrabile tramite alcune indicazioni specifiche contenute nei diversi Piani sanitari regionali che dimostrano un interesse crescente verso l’argomento, dedicando spazi sempre più ampi alle politiche sanitarie di prevenzione con particolare riferimento alla categoria dei più giovani, soprattutto per quanto concerne l’utilizzo delle cosiddette “nuove droghe”.

In Italia i servizi preposti alla prevenzione, la cura e la riabilitazione degli stati di tossicodipendenza e alcoldipendenza sono garantiti da specifiche strutture denominate “Servizi per la prevenzione e la cura delle Tossicodipendenze” (SER.T.), distribuite su tutto il territorio nazionale e presenti in quasi tutte le Aziende Sanitarie Locali.

Le principali indicazioni normative rispetto al tema delle tossicodipendenze, sono riscontrabili a partire dal “Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” (D.P.R. 9.10.1990, n.309).

Con questo decreto vengono istituiti i SER.T. come degli specifici servizi per le tossicodipendenze in ogni azienda USL, disciplinati in seguito da appositi decreti ministeriali (in particolare DM 444 del 1990), che rappresentano il primo e fondamentale nucleo di tutela dei soggetti con problemi di dipendenze patologiche. Nel corso degli anni, i SER.T. hanno attivato interventi specifici anche per il trattamento dei comportamenti d’abuso di alcol e per la riabilitazione dei soggetti alcol-dipendenti. Un ulteriore passo in avanti in materia di normativa nazionale sulle tossicodipendenze, si ha con l’Accordo Stato-Regioni del 21 gennaio 1999 “Riorganizzazione del sistema di assistenza ai tossicodipendenti” che riconosce l’esigenza di incrementare l’attività e la diffusione dei servizi sanitari operanti nel campo della dipendenza, si ottiene con la normativa in materia di welfare che ha introdotto sostanziali mutamenti nello scenario dei servizi alla persona ed alla comunità (D.Lgs. 229/99, legge n.328/2000 (legge quadro sui servizi sociali), il Piano Sociale Nazionale, il DPCM 14 febbraio 2001 sull’integrazione socio-sanitaria e, soprattutto il DPCM 29 novembre 2001 sui Livelli Essenziali di Assistenza). In questo quadro, le prestazioni in materia di dipendenze patologiche sono da considerarsi sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria. I luoghi dell’integrazione socio-sanitaria sono i “distretti”, che operano in stretta integrazione con i Comuni associati nei cosiddetti “ambiti sociali” (in genere distretti e ambiti sociali operano su un territorio coincidente, ai sensi dell’art. 8 della legge 328/00).

L’approccio alla tossicodipendenza è molto articolato in quanto si presenta come una questione in cui convergono aspetti legati a disagi di natura differente (psicologici, sociali, culturali, economici ecc…), proprio questa peculiarità ha indirizzato nel tempo sempre più la politica dell’assistenza offerta dai SER.T. verso un criterio trasversale ed intersettoriale volto

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ad integrare l’intervento sull’individuo su fronti diversi: farmacologico, educativo, sociale e psicologico.

L’organigramma del SER.T. è costituito da un numero variabile di operatori che compongono delle equipe multidisciplinari basate su figure professionali mediche e sociali, che fanno capo al medesimo referente.

Gli operatori sanitari sono medici ed infermieri, a loro è affidato il trattamento farmacologico della tossicodipendenza, mentre le figure sociali sono educatori, assistenti sociali, psicologi che si occupano degli interventi psicosocioeducativi.

Il lavoro degli operatori si integra in un programma differenziato in funzione delle esigenze del caso preso in carico.

Il ruolo dei medici e degli infermieri interessa la somministrazione dei farmaci e la loro gestione attraverso appropriati protocolli validati. L’obiettivo dell’uso di farmaci affiancato al programma psicosocioeducativo è finalizzato a scalare gradualmente le dosi, così da ridurre progressivamente l’azione.

Il personale infermieristico svolge anche un lavoro di prevenzione, trasmettendo informazioni sulle malattie correlate al consumo di droga, ad esempio, l’uso corretto delle siringhe per evitare AIDS, epatite ed altre patologie facilmente contraibili.

Sotto il profilo sociale l’assistenza si espleta attraverso un’approfondita valutazione del contesto sociale d’appartenenza dell’utente e la conseguente predisposizione di appositi progetti di reinserimento anche a in ambito lavorativo. Se richiesto, è garantito anche un servizio di sostegno individuale o familiare.

Le equipe multi-professionali in alcuni casi possono consigliare agli utenti psicoterapie individuali o familiari, gruppi di counselling, terapie di gruppo, attività di sostegno sociale ed educativo, inserimenti in strutture terapeutiche residenziali o diurne.

Le procedure d’accesso

I Servizi per la prevenzione e la cura delle tossicodipendenze sono rivolti a tutti i cittadini che hanno problemi legati all’uso o abuso di droghe, alcol e tabacco ed ai loro familiari. E’ un servizio territoriale che si occupa di impostare strategie multidisciplinari di recupero e assistenza, sia dal punto di vista sanitario, sia da quello educativo, sociale e psicologico, mettendo in atto interventi di tutela della salute e di reinserimento nel tessuto sociale.

L’accesso ai SER.T. è diretto, ossia non necessita di prescrizione medica.

Le prestazioni erogate non sono sottoposte a nessun ticket; a tal riguardo, il Decreto per le patologie croniche n.329 del 1999, successivamente modificato dal D.M. n.296 del 2001, sancisce che i cittadini in trattamento di disassuefazione o in Comunità di recupero beneficiano delle prestazioni sanitarie appropriate per il monitoraggio della patologia, delle sue complicanze e per la prevenzione degli ulteriori aggravamenti come prestazioni alle quali non è dovuto il pagamento della quota fissa. Il concetto è ribadito nel DPCM 29 novembre del 2001, di definizione dei LEA, le prestazioni relative alla Tutela delle persone dipendenti da alcool e da droga (come le prestazioni terapeutico-riabilitative, i trattamenti specialistici ed

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il periodo di disassuefazione in comunità terapeutica), sono completamente a carico del Servizio Sanitario Nazionale, pertanto completamente gratuite per il cittadino. Superata la fase di dipendenza anche il reinserimento sociale e lavorativo sono servizi erogati gratuitamente agli utenti, sebbene in questo caso, le spese gravino sui Comuni di pertinenza.

L’accoglienza nei centri dei Servizi per la prevenzione e la cura delle tossicodipendenze è una fase importante e delicata, che mira a decodificare le richieste dei pazienti e/o dei loro familiari, individuare i problemi da affrontare, fare diagnosi approfondita, orientare la richiesta verso i servizi e gli interventi più appropriati, ed infine, individuare un primo percorso di trattamento possibile.

L’accoglienza presso il SER.T. prevede, generalmente due colloqui: uno con un medico ed uno con una figura sociale.

Successivamente il caso viene discusso in equipe per stabilire un percorso individuale definendo specifici programmi terapeutici da realizzare direttamente o in convenzione con strutture di recupero sociale.

Solitamente, nell’arco di due o tre giorni il soggetto comincia il percorso di cura.

Durante tutto il periodo di cura, vengono monitorati sia l'andamento sia i risultati del trattamento e dei programmi di intervento in riferimento agli aspetti di carattere clinico, psicologico e sociale.

I programmi di recupero dei tossicodipendenti sono solitamente percorsi a lungo termine, ed hanno una durata soggettiva variabile.

La dismissione è in ogni caso preceduta da un periodo di valutazione di 6–12 mesi in cui si eseguono esami specifici per rilevare eventuali ricadute.

Per coloro che si rivolgono al Servizio per la prevenzione e la cura delle tossicodipendenze è garantito il pieno rispetto del diritto all’anonimato (art. 120 D.P.R. 309/90), che garantisce la massima segretezza nei rapporti con il Servizio.

Il SER.T., nato esclusivamente per l’assistenza ai tossicodipendenti, si sta orientando anche verso il trattamento di diverse forme di dipendenze, pertanto sempre più spesso viene inserito all’interno di un’organizzazione più ampia definita “Dipartimento per le dipendenze”.

La necessità di far fronte ad innovative problematiche che sempre più spesso presuppongono approcci ad elevata integrazione sociosanitaria e percorsi di cura differenziati è agevolata dall’inserimento dei SER.T. all’interno dei Dipartimenti per le dipendenze, in quanto in quest’ambito possono trovarsi in un'unica struttura organizzativa, punti d’ascolto per le nuove droghe; centri antifumo; centri alcologici; centri psicosociali; centri per la prevenzione e cura del giocatore d’azzardo patologico; servizi di assistenza detenuti; attività di prevenzione ed attività epidemiologiche.

La diffusione delle cosiddette nuove droghe sta plasmando profili di tossicodipendenti sino ad oggi sconosciuti, che necessitano dello sviluppo di percorsi di presa in carico personalizzati e di assistenza completamente dissimile rispetto agli approcci abituali, sia sotto il profilo medico/farmacologico, sia sotto il profilo psicosociale.

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Attualmente, a tal proposito, è calzante l’esempio della proliferazione dei consumatori di cocaina che hanno esigenze di trattamento assolutamente differenti rispetto a quelle degli eroinomani. I farmaci usati per la disintossicazione degli eroinomani, infatti, sono inefficaci con i cocainomani ed inoltre, questi ultimi, non si riconoscono nella figura del tossicodipendente. In questo esempio è evidente come la presa in carico degli utenti, l’approccio farmacologico e quello psicosociale debbano percorrere strade molto diverse rispetto agli usuali utenti del SER.T.

Esistono anche progetti di prevenzione tematici che coinvolgono scuole, studenti e insegnanti; inoltre ogni SER.T. possiede un’unità mobile che si muove sul territorio distribuendo siringhe sterili, profilattici oltre che effettuare opere di prevenzione, informazione e sensibilizzazione rivolte alla popolazione.

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Assistenza farmaceutica

Il Servizio Sanitario Nazionale assicura l’assistenza farmaceutica attraverso la rete delle farmacie pubbliche e private dislocate sul territorio nazionale e nel corso del ricovero ospedaliero.

La Legge 23 dicembre 2000, n.388 (Finanziaria 2001) e la Legge 16 novembre 2001, n.405 hanno introdotto sostanziali modifiche al precedente sistema dell’assistenza farmaceutica.

Infatti, dal 1° gennaio 2001 è stato abolito, a livello nazionale, il ticket a carico dell’assistito per i medicinali di fascia A o B, successivamente è stata abolita la fascia B e tutti i farmaci che si trovavano in quella classe sono stati riclassificati in fascia A o C.

Recentemente (dal 2002 in poi) nella maggior parte delle regioni è stata istituita la prassi della consegna al paziente che viene dimesso dall’ospedale di quei medicinali che sono necessari per il primo ciclo di cura al proprio domicilio e inoltre sono previste forme agevolate per consentire l’approvvigionamento di particolari farmaci.

Rimborsabilità

Ai fini della rimborsabilità i medicinali sono classificati in due classi principali: A e C.

I medicinali di classe A sono interamente a carico del SSN, quelli di classe C sono a carico del cittadino.

Solo i pensionati di guerra titolari di pensione vitalizia, qualora il medico di famiglia attesti la comprovata utilità terapeutica per l’assistito (Legge 203/2000) sono esenti dal pagamento dei medicinali in fascia C (quelli a carico del cittadino).

L’attuale normativa prevede inoltre che l’Agenzia italiana per il farmaco (AIFA) individui e pubblichi la “lista di trasparenza”, cioè una lista di medicinali equivalenti di fascia A con i relativi prezzi di riferimento. Il prezzo di riferimento, rappresenta il valore massimo di rimborso da parte del SSN per un medicinale contenente il principio attivo relativo alla confezione di riferimento indicata.

Se il medico prescrive uno dei medicinali presenti nella lista di trasparenza con un prezzo superiore a quello massimo di rimborso, il farmacista propone al cittadino la sostituzione con il farmaco equivalente con prezzo inferiore. Se il paziente accetta la sostituzione proposta, non pagherà alcunché.

È importante precisare che, nel caso in cui il medico indichi sulla ricetta la non sostituibilità del medicinale prescritto o il paziente non accetti la sostituzione proposta dal farmacista, il cittadino pagherà la differenza di prezzo tra il medicinale dispensato e quello massimo di rimborso (ad eccezione con l'eccezione dei pensionati di guerra titolari di pensioni vitalizie).

Alcune Regioni italiane hanno introdotto un ticket sui medicinali di fascia A (in genere una quota fissa per confezione o per ricetta) ed hanno autonomamente individuato le categorie di soggetti esenti da tale ticket, tra i quali, generalmente, gli esenti per malattia cronica, gli

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esenti per reddito, i pensionati sociali. Per conoscere nel dettaglio i casi di esenzione dal ticket regionale sui medicinali di fascia A è bene rivolgersi direttamente alla propria ASL o alla Regione di appartenenza.

Le Regioni possono anche disporre la parziale inclusione di medicinali di fascia C nell’elenco dei medicinali rimborsabili. Anche in questo caso è bene rivolgersi direttamente alla propria ASL o alla Regione di appartenenza.

Medicinali di fascia A (medicinali essenziali e medicinali per malattie croniche)

Sono inclusi nella fascia A tutti i medicinali ritenuti essenziali per assicurare le cure previste nei Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria. I medicinali di fascia A sono a carico del SSN; alcuni di essi lo sono solo in ambito ospedaliero (Fascia A, H). I medicinali inclusi in fascia A sono individuati da un apposito prontuario predisposto dal Ministero della Salute che viene periodicamente aggiornato e la cui validità si estende in tutto il territorio nazionale.

Il prontuario comprende i farmaci rivolti al trattamento di gravi patologie per i quali esiste una soddisfacente e accreditata efficacia. L’efficacia è stata valutata in base ai seguenti parametri:

• aumento dell’aspettativa di vita;

• riduzione delle complicanze invalidanti indotte dalla malattia;

• miglioramento della qualità di vita.

Criteri aggiuntivi di preferenza per l’inclusione sono considerati:

• minore incidenza di effetti tossici a parità di efficacia;

• costo inferiore a parità di efficacia e tossicità.

Possono essere prescritti dal medico di famiglia su apposito ricettario, dai medici di guardia medica, del pronto soccorso, dagli specialisti ambulatoriali e dai medici ospedalieri a seconda delle diverse disposizioni delle leggi regionali.

In generale alcuni medicinali sono sottoposti a note limitative alla prescrizione, cioè sono prescrivibili in fascia A solo per pazienti affetti da determinate patologie (in caso contrario sono da considerarsi in fascia C).

La rimborsabilità di un medicinale erogato in regime di assistenza SSN è concessa, ai sensi dell’art. 3 del Decreto Legge n.23 del 17 febbraio 1998, solo se il farmaco viene prescritto per il trattamento delle patologie approvate nelle “Indicazioni” della scheda tecnica. È prevista inoltre, qualora non esistano valide alternative terapeutiche, la possibilità di erogare a carico del SSN i medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati ma non sul territorio Nazionale, i medicinali non ancora autorizzati ma sottoposti a sperimentazione clinica e i medicinali da impiegare per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, inseriti in apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dal Ministero della Salute.

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Medicinali di fascia C (medicinali non essenziali)

Sono medicinali utilizzati per patologie di lieve entità, o patologie considerate minori, che quindi non sono considerati “essenziali” o “salvavita”.

Sono inclusi tra questi i medicinali non soggetti a ricetta medica con accesso alla pubblicità al pubblico, cioè i medicinali di automedicazione (noti anche come OTC dall’inglese over the counter), che con la legge 311/2004 (legge Finanziaria 2005) sono stati collocati in una nuova fascia di medicinali, la C-bis.

I medicinali delle fasce C e C-bis sono a totale carico del paziente.

Il D.L. 20 maggio 2005 n.87, convertito con modificazioni, dall’art. 1 della Legge 26 luglio 2005, n.149 ha introdotto delle novità per i medicinali di fascia C e C-bis:

o ha stabilito che per i medicinali di fascia C da vendersi dietro presentazione di ricetta medica, il farmacista è obbligato ad informare il paziente dell’eventuale presenza di medicinali aventi la stessa composizione quali-quantitativa e la stessa forma farmaceutica con un prezzo più basso e nel caso in cui il paziente accetta, il farmacista può sostituire il medicinale prescritto con un equivalente di prezzo minore. Il farmacista non può effettuare la sostituzione se sulla ricetta il medico ha indicato la non sostituibilità del medicinale;

o il prezzo dei medicinali di fascia C e di quelli fascia C-bis può essere aumentato soltanto nel mese di Gennaio di ogni anno dispari.

L’Agenzia italiana del farmaco compila e diffonde l’elenco dei farmaci di classe C) aventi uguale composizione, forma farmaceutica e dosaggio (lista di trasparenza).

Alle regole sulla rimborsabilità si aggiungono quelle sulla necessità della prescrizione medica e sulla validità temporale della stessa. In relazione a queste regole i medicinali si distinguono in:

Medicinali senza obbligo di ricetta

Sono i medicinali che, per la loro composizione e il loro obiettivo terapeutico, possono essere utilizzati senza l’intervento di un medico per la diagnosi, prescrizione e sorveglianza nel trattamento. Essi sono utilizzati per il trattamento di disturbi passeggeri o di lieve entità. Su questi medicinali il farmacista può dare consigli ai clienti.

Tutti i medicinali senza obbligo di ricetta devono essere contrassegnati da un bollino di riconoscimento, stampato o incollato in posizione visibile su tutte le confezioni che riporta chiaramente la scritta “Farmaco senza obbligo di ricetta”.

Tramite il bollino, il consumatore può così riconoscere chiaramente quali sono i medicinali senza obbligo di ricetta tra tutti quelli posti in vendita.

Il D.L. 4 luglio 2006, n.223, convertito con modificazioni, dall’art. 1, Legge 4 agosto 2006, n.248, estende la possibilità di vendita dei medicinali non soggetti a prescrizione medica ad

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esercizi commerciali diversi dalle farmacie e consente a ciascun distributore al dettaglio di determinare liberamente lo sconto sul prezzo indicato sulla confezione dei medicinali non soggetti a prescrizione medica, purché lo sconto sia esposto in modo leggibile e chiaro al consumatore e sia praticato a tutti gli acquirenti.

I medicinali senza obbligo di ricetta sono distinti in due categorie:

o SOP (Senza Obbligo di Prescrizione) che in etichetta devono riportare la dicitura: “Medicinale non soggetto a prescrizione medica ”

o OTC (dall’inglese “Over The Counter” sopra il banco), medicinali da banco o di automedicazione, che possono essere oggetto di pubblicità presso il pubblico. Questi medicinali devono riportare in etichetta la dicitura “Medicinale di automedicazione”.

Medicinali soggetti a prescrizione medica

Sono medicinali che devono essere prescritti obbligatoriamente dal medico.

La ricetta è necessaria perché si tratta di medicinali che:

• possono rappresentare un pericolo, direttamente o indirettamente, anche in condizioni normali di utilizzazione, se sono usati senza controllo medico;

• sono utilizzati spesso, e in larghissima misura in modo non corretto e, di conseguenza, è probabile che rappresentino un pericolo diretto o indiretto per la salute;

• contengono sostanze o preparazioni di sostanze la cui attività o le cui reazioni avverse richiedono ulteriori indagini;

• sono destinati ad essere somministrati per via parenterale, fatte salve le accezioni stabilite dal Ministero della Salute, su proposta o previa consultazione dell’AIFA.

• I medicinali soggetti a questo tipo di ricetta riportano sulla confezione esterna la scritta:

“Da vendersi dietro presentazione di ricetta medica”.

Salvo diversa indicazione da parte del medico, la ripetibilità è consentita per un periodo non superiore a sei mesi a partire dalla data di compilazione della ricetta e comunque per non più di dieci volte. L’indicazione da parte del medico di un numero di confezioni superiori all’unità esclude la ripetibilità della vendita. Sono in ogni caso fatte salve le diverse prescrizioni stabilite, con riferimento a particolari tipologie di medicinali, con decreto del Ministro della Salute. Questo significa che il paziente con una ricetta ripetibile, potrà acquistare al massimo dieci confezioni per ogni medicinale prescritto nell’arco di sei mesi.

Con il decreto ministeriale 7 agosto 2006, la ripetibilità della ricetta medica per alcuni medicinali, ed in particolare per quelli a base di benzodiazepine, principi attivi alla base di

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farmaci per curare l’ansia, l’insonnia e la depressione, è stata ridotta a tre volte in trenta giorni.

Medicinali soggetti a prescrizione medica da rinnovare volta per volta

Si tratta di medicinali che possono determinare, con l’uso continuato, stati tossici o possono comportare, comunque, rischi particolarmente elevati per la salute e richiedono, pertanto, un continuo monitoraggio da parte del medico.

I medicinali soggetti a questo tipo di ricetta riportano sulla confezione esterna la scritta:

“Da vendersi dietro prescrizione di ricetta medica utilizzabile una sola volta”.

Tale ricetta ha validità di trenta giorni e la sua non ripetibilità comporta che venga ritirata dal farmacista all’atto della dispensazione. Il medico può prescrivere con ricetta non ripetibile anche più di una confezione per un certo medicinale. Il paziente, se non ritira subito tutte le confezioni che gli sono state prescritte, deve tornare nella stessa farmacia a ritirare le altre confezioni entro la data di validità della ricetta, che sarà obbligatoriamente ritirata dal farmacista e conservata per sei mesi. Il paziente non è obbligato a comprare tutte le confezioni che gli sono state prescritte.

Medicinali soggetti a ricetta medica speciale

I medicinali soggetti a prescrizione medica speciale sono i medicinali per i quali il Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n.309 e successive modificazioni, prevede specifiche modalità di distribuzione e prescrizione.

Medicinali soggetti a prescrizione limitativa

Si tratta di medicinali la cui prescrizione o la cui utilizzazione è limitata a taluni ambienti o a taluni medici e vengono distinti in:

• medicinali utilizzabili solo in ambiente ospedaliero o in ambiente ad esso assimilabile: sono i medicinali che per le loro caratteristiche, non potrebbero essere utilizzati in condizioni di sufficiente sicurezza al di fuori di strutture ospedaliere o delle case di cura. I medicinali soggetti a questo tipo di ricetta riportano sulla confezione esterna la scritta: “Uso riservato agli ospedali. Vietata la vendita al pubblico”.

• medicinali vendibili al pubblico su prescrizione di centri ospedalieri o di specialisti: sono i medicinali che, sebbene utilizzabili anche in trattamenti domiciliari, richiedono o che la diagnosi sia effettuata in ambienti ospedalieri o in centri che dispongono di mezzi di diagnosi adeguati, o che la diagnosi stessa e, eventualmente, il controllo in corso di trattamento siano riservati allo specialista.

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• I medicinali soggetti a questo tipo di ricetta riportano sulla confezione esterna dopo le frasi: “Da vendersi dietro presentazione di ricetta medica”, o “Da vendersi dietro presentazione di ricetta medica utilizzabile una sola volta”, la specificazione del tipo di struttura o di specialista autorizzato alla prescrizione.

• medicinali utilizzabili esclusivamente dallo specialista: sono i medicinali che, per loro caratteristiche farmacologiche e modalità di impiego, sono destinati ad essere utilizzati direttamente dallo specialista durante la visita ambulatoriale. I medicinali soggetti a questo tipo di ricetta riportano sulla confezione esterna le frasi:

“Uso riservato a...”, con specificazione dello specialista autorizzato all’impiego del medicinale, e “Vietata la vendita al pubblico”.

Medicinali per la terapia del dolore

Con la legge 8 febbraio 2001, n.12 “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore”, sono state introdotte modifiche sostanziali alla precedente normativa, al fine di garantire un più efficace trattamento del dolore nei malati terminali o nei pazienti affetti da dolore severo cronico.

Il provvedimento si è reso necessario per semplificare l’accesso a tali farmaci, pur mantenendo un sistema di controllo severo.

I farmaci per la terapia del dolore sono stati quindi individuati ed elencati in uno specifico allegato (allegato III-bis) al Testo Unico sugli stupefacenti (D.P.R. n.309/1990).

Essi sono: la Buprenorfina, la Codeina, la Diidrocodeina, il Fentanyl, l’Idrocodone, l’Idromorfone, il Metadone, la Morfina, l’Ossicodone, l’Ossimorfone.

Tali farmaci attualmente sono prescrivibili con ricettario in triplice copia autocopiante che i medici e i veterinari possono ritirare presso le ASL (prima andavano ritirati personalmente presso gli ordini professionali).

La modalità di compilazione di una ricetta con la quale si prescrive morfina o farmaci analoghi, si è uniformata a quella di una prescrizione di un comune medicinale non sottoposto alla normativa degli stupefacenti.

Inoltre, con un’unica ricetta il farmacista può dispensare un numero di confezioni necessarie a coprire la terapia di trenta giorni in regime di fornitura a carico del SSN.

Una ulteriore importante agevolazione nei riguardi dei pazienti è stata la volontà di concedere i farmaci antidolore in assistenza domiciliare integrata (legge n.405/2001). A tal fine il personale che opera nei distretti sanitari di base o nei servizi territoriali o negli ospedali pubblici o accreditati delle Aziende Sanitarie Locali è autorizzato a consegnare al domicilio di pazienti affetti da dolore severo in corso di patologia neoplastica o degenerativa, le quantità terapeutiche dei farmaci esistenti, accompagnate dalla certificazione medica che ne prescrive la posologia e l’utilizzazione nell’assistenza domiciliare.

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Anche i pazienti in dimissione da ricovero ospedaliero possono ricevere direttamente dalla struttura sanitaria i farmaci necessari per un primo ciclo di terapia, senza avere la necessità di rivolgersi immediatamente al medico di base e alla farmacia aperta al pubblico.

La farmacovigilanza

L’assistenza farmaceutica non si concretizza soltanto nell’erogazione dei farmaci, ma anche nella sorveglianza dei loro eventi avversi, che consente il pronto ritiro dal commercio dei farmaci responsabili degli eventi stessi e la prevenzione di ulteriori eventi. La farmacovigilanza comprende una serie di attività finalizzate alla valutazione continuativa di tutte le informazioni relative alla sicurezza dei farmaci e ad assicurare, per tutti i farmaci in commercio, un rapporto rischio/beneficio favorevole per la popolazione. I dati relativi alla sicurezza del farmaci vengono ricavati da differenti fonti: segnalazioni spontanee di sospette reazioni avverse, studi, letteratura scientifica, rapporti inviati dalle industrie farmaceutiche, ecc… In particolare, le segnalazioni spontanee di reazioni avverse a farmaci (ADR) vengono raccolte mediante la Rete nazionale di Farmacovigilanza (RNF), attiva dal Novembre 2001. Questo sistema ha creato un network tra l’AIFA, le 21 Regioni, 204 Unità Sanitarie Locali, 112 Ospedali, 38 IRCCS (Istituti di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico) e 561 industrie farmaceutiche. Attraverso tale network gli operatori sanitari segnalano all’AIFA le reazioni avverse sospette osservate sul territorio italiano.

Anche i cittadini possono segnalare gli effetti indesiderati da farmaci ai responsabili della farmacovigilanza delle proprie ASL.

La rete di farmacovigilanza è, inoltre, in collegamento operativo con il network europeo EudraVigilance che raccoglie in un database europeo i dati forniti a livello nazionale. Tutti i farmaci di nuova immissione in commercio, i farmaci per i quali è stata approvata una modifica delle condizioni d’impiego e tutti i vaccini sono sottoposti a monitoraggio intensivo da parte dell’AIFA.

Detrazioni fiscali

Le spese fatte per comprare medicinali non rimborsabili o per pagare il ticket di quelli rimborsati dal SSN rientrano tra le spese sanitarie detraibili dall’annuale dichiarazione dei redditi.

Per detrarre le spese per i medicinali con obbligo di ricetta, è necessario conservare la ricetta medica o la sua fotocopia, se questa è ritirata dalla farmacia al momento dell’acquisto del medicinale e lo scontrino fiscale della farmacia.

Per quanto riguarda le detrazioni per le spese fatte per acquistare i medicinali da banco, oltre allo scontrino fiscale, se non si è in possesso della ricetta medica, si deve compilare una dichiarazione sostitutiva di atto notorio in carta libera che attesti la necessità di quei medicinali. L’autocertificazione deve essere unica per tutti i medicinali acquistati nel corso dell’anno da tutte le persone appartenenti al nucleo familiare del contribuente.

La documentazione riguardante tutte le spese detratte deve essere conservata per cinque anni.

114

La spesa pubblica per l’assistenza farmaceutica

Il costo che il Servizio Sanitario Nazionale sostiene per l’assistenza farmaceutica è andato crescendo nel tempo, passando da una media di 222,3 euro pro-capite nel 2002 a una media di 234,8 euro pro-capite nel 2005 (dati monitoraggio costi dei livelli di assistenza).

L’incremento della spesa farmaceutica pubblica, difforme tra le Regioni, non è completamente spiegato dall’innovazione e dall’aumento del fabbisogno della popolazione dovuto all’aumento dell’età media e del numero di soggetti con patologie croniche.

Ciò ha indotto il Governo e le Regioni ad adottare misure di contenimento (regolazione dei prezzi, ticket regionali, ecc...) e a promuovere iniziative volte a migliorare l’appropriatezza nell’utilizzo dei farmaci.

Nella tabella n.1 sono elencate le disposizioni regionali sui ticket.

Le Regioni che hanno previsto il ticket hanno anche previsto l’esenzione dal pagamento dello stesso per alcune categorie di soggetti.

Una sintesi di tali esenzioni è riportata nella tabella n.2.

Tabella n.1

REGIONE TICKET farmaceutica Aprile 2007

Piemonte 2 € per conf. fino ad un massimo di 2 confezioni (4 €) per ricetta.1 € per cof. per antibiotici monodose, medicinali per fleboclisi, interferoni per soggetti con epatite cronica fino ad un massimo di 6 confezioni (4 €) per ricetta farmaci per patologie croniche fino ad un massimo di 3 confezioni (3 €) per ricetta.

V.Aosta NO

Lombardia 2 € per conf. fino a un massimo di 4 € per ricetta (dal 12/12/02). 1 € per conf. fino a un massimo di 3 € per ricetta: per gli invalidi civili con invalidità superiore ai 2/3,1 € per gli invalidi del lavoro con invalidità superiore ai 2/3.

Bolzano 2 € per conf. fino a max 4 € per due o più confezioni.

Trento NO

Veneto 2 € per conf. fino a max 4 € per ricetta.

F.V. Giulia NO Liguria 2 € per conf. fino a un massimo di 4 € per ricetta.

Emilia Romagna NO

Toscana NO Umbria NO Marche NO Lazio NO

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Abruzzo 0,50 € a conf. Max 1€ per ricetta, 0,25 € per conf. Max 0,50 per ricetta esenti parziali.

Molise 1 € conf. Max 3€ per ricetta, escluse conf di costo< 5€, 0,50 € per conf generici escluse conf costo <5€

Campania 1,5 Max 3€ per ricetta, non si applica a farmaci non coperti da brevetto con prezzo allineato a prezzo di riferimento regionale.

Basilicata NO

Puglia

2 € per confezione fino a un massimo di 5,5 € per ricetta 0,50 € per confezione per: 1. medicinali pluriprescrivibili di cui all’art. 9 della legge n. 405/2001 (antibiotici monodose, medicinali a base di interferone per i soggetti affetti da eptatite cronica, medicinali somministrati esclusivamente per fleboclisi); 2. farmaci analgesici oppiacei utilizzati nella terapia del dolore severo di cui alla legge n. 12/2001 3. deferoxamina nel trattamento della talassemia; 4. farmaci compresi nei protocolli di terapia immunosoppressiva per i trapiantati; 5. preparazioni galeniche magistrali e officinali nella terapia del dolore di natura neoplastica, secondo le necessità del singolo pazienti e in linea con i protocolli dell’OMS.I farmaci, il cui prezzo non è allineato al prezzo di riferimento, sono soggetti al pagamento della differenza a carico dell'assistito ma non al pagamento del ticket;le specialità medicinali il cui prezzo è allineato al prezzo di riferimento non sono soggette nè al pagamento del ticket nè a quello della differenza a carico dell'assistito.

Calabria NO

Sicilia

Per i farmaci con costo al pubblico fino a € 25,00: • € 4,00 a confezione per i soggetti appartenenti a nuclei familiari con ISEE superiore ad € 9.000,00, oltre la eventuale differenza tra il prezzo del medicinale prescritto ed il prezzo di riferimento regionale ( € 2,00 se si tratta di farmaci generici o genericabili, oltre alla eventuale differenza con il prezzo di riferimento) • € 1.50 per confezione per i pazienti esenti per patologia, oltre la eventuale differenza tra il prezzo del medicinale prescritto ed il prezzo di riferimento regionale ( € 1,00 se si tratta di farmaci generici o genericabili, oltre alla eventuale differenza con il prezzo di riferimento). Per i farmaci con costo superiore a € 25,00: • € 4,50 a confezione per i soggetti appartenenti a nuclei familiari con ISEE superiore ad € 9.000,00, oltre la eventuale differenza tra il prezzo del medicinale prescritto ed il prezzo di riferimento regionale ( € 2,50 se si tratta di farmaci generici o genericabili, oltre alla eventuale differenza con il prezzo di riferimento) • € 2,00 per confezione per i pazienti esenti per patologia, oltre la eventuale differenza tra il prezzo del medicinale prescritto ed il prezzo di riferimento regionale ( € 1,50 se si tratta di farmaci generici o genericabili, oltre alla eventuale differenza con il prezzo di riferimento).

Sardegna NO

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Tabella n.2

ESENZIONI DAL TICKET SULLA FARMACEUTICA

REGIONE ESENTI TOTALI ESENTI PARZIALI

Piemonte

Grandi invalidi del lavoro; Invalidi civili al 100%; Ciechi e sordomuti ex art. 6 legge n. 482/68; Pensionati di guerra titolari di pensione vitalizia Detenuti e gli internati ex art. 1, legge 22 giugno 1999, n. 230; Danneggiati da vaccinazione obbligatoria, trasfusioni, somministrazioni di emoderivati ex lege n. 238/97, limitatamente alle prestazioni necessarie per la cura delle patologie previste dalla legge n. 210/92. Dal 1° giugno 2002 sono, inoltre, totalmente esenti altre categorie di assistiti (sempre senza diritto alla pluriprescrizione):Invalidi per lavoro con una riduzione della capacità lavorativa superiore ai due terzi; Soggetti affetti da malattie professionali, con una riduzione della capacità lavorativa superiore ai due terzi; Invalidi per servizio, appartenenti alle categorie dalla seconda all'ottava; Invalidi civili, con una riduzione della capacità lavorativa superiore ai due terzi; Vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; Infortunati sul lavoro; i cittadini residenti di età superiore ai 65 anni, titolari di pensione/assegno sociale o titolari di pensione integrata al trattamento minimo totale o parziale e che risultino privi di ogni altro reddito personale, tranne la proprietà della casa di abitazione dove il pensionato risiede. Dal 1° novembre 2006 le esenzioni dal ticket regionale sui farmaci sono estese ai cittadini residenti con età superiore ai 65 anni ed appartenenti a nuclei familiari con reddito complessivo riferito all'anno precedente non superiore a 18.200 € in presenza del coniuge a carico. Ad eccezione dei pensionati di guerra titolari di pensione vitalizia ed i detenuti e internati ex art. 1, legge 230/99, tutti i cittadini sono tenuti al pagamento dell' eventuale differenza tra il prezzo del farmaco erogato ed il prezzo di riferimento regionale fissato per i farmaci generici (farmaci non più coperti da brevetto).Dal 1° aprile 2003 sono, inoltre, a totale carico del Servizio sanitario regionale i farmaci analgesici oppiacei utilizzati nella terapia del dolore (legge 12/2001).

Patologie croniche elencate nel Decreto Ministeriale 28 maggio 1999, n. 329 e successive modificazioni danno diritto al cittadino all'esenzione parziale dal pagamento del ticket sui farmaci correlati alla patologia.In questo caso il ticket è di 1€ per conf. di farmaco.Non è ammessa la prescrizione contemporanea di farmaci destinati a due o più patologie croniche.

Lombardia

Invalidi di guerra titolari di pensione vitalizia; Invalidi per servizio (categorie dalla 1a all'8a); Invalidi civili al 100%; Invalidi civili minori di 18 anni con indennità di frequenza; Danneggiati da vaccinazione obbligatoria, trasfusioni, somministrazione di emoderivati, limitatamente alle prestazioni necessarie per la cura delle patologie previste dalla legge n. 210/1992; Vittime del terrorismo e della criminalità organizzata e familiari (il coniuge e i figli; in mancanza dei predetti, i genitori); Ciechi e sordomuti; Pazienti sottoposti a terapia del dolore (per questa categoria è consentita la prescrizione in un'unica ricetta di un numero di confezioni sufficiente a coprire una terapia massima di 30 giorni); Soggetti rientranti nell'accordo tra Regione Lombardia e Ministero della Giustizia; Ex deportati da campi di sterminio titolari di pensione vitalizia; Infortunati sul lavoro per il periodo dell'infortunio e per le patologie direttamente connesse purché indicato sulla ricetta; Titolari di pensione e i familiari a carico, purché il reddito complessivo (riferito all’anno precedente) del nucleo familiare fiscale da essi formato non sia superiore a € 8.263,31 oppure a € 11.362,05 in presenza del coniuge. Tali cifre vanno incrementate di € 516,45 per ogni figlio a carico: ad esempio, se solo un coniuge è titolare di pensione e ha un figlio a carico, il reddito complessivo non dovrà superare € 8.779,76, se i figli a carico sono due € 9.296,21 etc. Nel reddito complessivo non vanno computati gli assegni di accompagnamento.

Disoccupati iscritti agli elenchi anagrafici dei Centri per l’impiego e i familiari a carico; Lavoratori in mobilità e i familiari a carico; Lavoratori in cassa integrazione straordinaria e i familiari a carico; Trapiantati d'organo con reddito complessivo del nucleo familiare anagrafico, riferito all'anno precedente, non superiore a € 46.600, incrementato in funzione della composizione del nucleo familiare secondo i parametri desunti dalla scala di equivalenza della tabella 2 D.Lgs 109/98; Pazienti affetti dalle patologie croniche individuate dai Decreti del Ministero della Sanità 329/1999 e 296/2001 con reddito complessivo del nucleo familiare anagrafico, riferito all'anno precedente, non superiore a € 46.600, incrementato in funzione della composizione del nucleo familiare secondo i parametri desunti dalla scala di equivalenza della tabella 2 D.Lgs 109/98; Pazienti affetti da malattie rare, individuate dal Decreto del Ministero della Sanità 279/2001 con reddito complessivo del nucleo familiare anagrafico,

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riferito all'anno precedente, non superiore a € 46.600, incrementato in funzione della composizione del nucleo familiare secondo i parametri desunti dalla scala di equivalenza della tabella 2 D.Lgs. 109/98.

ESENZIONI DAL TICKET SULLA FARMACEUTICA

REGIONE ESENTI TOTALI ESENTI PARZIALI

Bolzano

Soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni (legge n. 210 del 25/02/92); Indigenti (legge provinciale n. 23 del 2/07/92); Invalidi civili al 100%;

Ciechi con residuo visivo fino ad 1/20, minorenni;

Invalidi civili con indennità di accompagnamento; Invalidi di guerra dalla 1^ alla 8^ categoria;

Grandi invalidi per servizio;

Grandi invalidi del lavoro; Pazienti in terapia del dolore; Soggetti di età inferiore a 14 anni appartenenti ad un nucleo familiare che nell’anno precedente ha conseguito un reddito complessivo pari a € 36.151,98;

Detenuti.

Pagano 1 € per ricetta: soggetti affetti da malattie croniche ed invalidanti di cui al D.M. Sanità n. 329 28/05/99 e soggetti affetti da malattie rare di cui al D.M. Sanità n. 279 18/05/01, invalidi per servizio appartenenti alle categorie dalla 2^ alla 8^, invalidi civili con una riduzione della capacità lavorativa superiore a 2/3, sordomuti di cui all’art. 7 della legge 2/04/68 n. 482, invalidi per lavoro, vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, infortunati sul lavoro o affetti da malattie professionali titolari di pensione sociale e loro familiari a carico, soggetti di età superiore a 65 anni appartenenti ad un nucleo familiare che nell’anno precedente ha conseguito un reddito complessivo a € 36.151,98 (70 milioni), titolari di pensioni al minimo di età superiore a 60 anni. Pagano 1 € per confezione e 2 € per due o più confezioni, invece: i figli fiscalmente a carico dei genitori (DGP n.1862 del 27/05/02).

Veneto

Pensionati di guerra titolari di pensione vitalizia; Invalidi civili al 100%; Ciechi legge 482/68; Grandi invalidi del lavoro; Invalidi per servizio prima categoria; Danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati; Vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; Pazienti in trattamento con analgesici oppiacei nella terapia del dolore di cui all’art. 43, comma 3-bis del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope di cui al DPR 9/10/99, n. 309 e successive modificazioni relativamente alle prescrizioni disciplinate dalla legge 8/02/01, n. 12; Soggetti appartenenti a nuclei familiari con situazione economica equivalente (ISEE) ai sensi del DPCM n. 242/2001 non superiore a 12.000,00 euro (nuovo limite a partire dal 1 aprile 2005); Soggetti in possesso di esenzione per malattia rara in base ad DM n. 279/2001 “Regolamento di istituzione della rete nazionale delle malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni sanitarie ai sensi dell’art. 5, comma 1, lettera b), del D.L.vo 29/04/98 n. 124”; Soggetti in possesso di esenzione per patologia in base al DM 28/05/99 n. 329; “Regolamento recante norme di individuazione delle malattie croniche invalidanti ai sensi dell’art. 5, comma 1, lettera a), del D.L.gs. 29/04/98 n. 124” aggiornato dal Decreto 21/05/01 (esenzione dal pagamento della quota fissa limitata solo alla prescrizione dei farmaci correlati alla patologia a partire dal 1 luglio 2003); Sordomuti ex art. 7 della L. 482/68 (a partire dal 1 luglio 2003); Invalidi civili minori di 18 anni con indennità di frequenza (art. 1 Legge 289/90 e completati nell’art. 5, comma 6 del DM 124/98) (a partire dal 1 luglio 2003).

Liguria

Titolari di pensione sociale o di assegno sociale; Invalidi per servizio dalla 1°- alla 8°categoria; Invalidi civili al 100%; Ciechi bioculari e sordomuti; Invalidi del lavoro di 1° categoria (da 80 a 100%); Ex deportati campi di sterminio; Tossicodipendenti per la terapia metadonica; Danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati; Pazienti in trattamento con analgesici oppiacei nella terapia del dolore di cui all'art. 43, comma 3-bis, D.P.R. 309/90 relativamente alle prestazioni disciplinate dalla legge 8/2/01 n. 12; Invalidi per lavoro con invalidità superiore ai 2/3 del 67% al 79%; Invalidi di guerra militari e civili (titolari di pensione diretta vitalizia) dalla 1° all'8° categoria; Vittime del terrorismo e loro famigliari a carico Donne in gravidanza; Affetti da patologie rare. E' stata prevista altresì l'esenzione totale dalla partecipazione alla spesa farmaceutica per le seguenti categorie: Soggetti con reddito familiare inferiore ai 36.151,98 euro; Soggetti che si trovino nelle seguenti condizioni, limitatamente al periodo di permanenza delle condizioni stesse: Disoccupati, iscritti agli elenchi anagrafici dei Centri per

E' stata prevista inoltre l'esenzione dalla partecipazione alla spesa, con riferimento ai farmaci correlati alla patologia, per i seguenti assistiti: Soggetti con patologia cronica o invalidante; Trapiantati d'organo; Infortunati sul lavoro per il periodo dell'infortunio.

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l'impiego; Lavoratori in mobilità e i familiari a carico; Lavoratori in cassa integrazione straordinaria e i familiari a carico.

ESENZIONI DAL TICKET SULLA FARMACEUTICA

REGIONE ESENTI TOTALI ESENTI PARZIALI

Abruzzo

Invalidi civili al 100% senza indennità di accompagnamento; Invalidi civili al 100% con indennità di accompagnamento; Ciechi e sordomuti; Invalidi di guerra dalla 1° alla 5° categoria; Invalidi per lavoro dall’80% al 100%; Legge 210/92; Invalidi per servizio 1° categoria; Invalidi per servizio dalla 2° alla 5° categoria; Vittime del terrorismo. Soggetti titolari di assegno (ex pensione) sociale; Nuclei familiari con reddito annuo fino a 10.000 €, incrementati di 750 € per ogni figlio a carico fino ad un massimo di 2.250 € di elevazione; Soggetti affetti da patologie croniche limitatamente ai farmaci connessi con la patologia; Donne in stato di gravidanza limitatamente ai farmaci correlato allo stato di gravidanza e limitatamente al periodo gestazionale.

Invalidi civili con riduzione della capacità lavorativa superiore a 2/3; Invalidi civili minori di 18 anni con indennità di frequenza; Invalidi di guerra dalla 6° all’8° categoria *Invalidi per lavoro dal 67% al 79%; Invalidi per lavoro dal 35% al 66%; Infortunati sul lavoro o affetti da malattie professionali dall’11% al 34%; Invalidi per servizio dalla 6° all’8° categoria.* questa categoria verrà inserita tra gli esenti totali con successivo Provvedimento.

Molise

Invalidi di guerra militari e civili (titolari di pensioni diretta vitalizia) dalla 1° alla 8° categoria; Invalidi per servizio dalla 1° alla 8° categoria; Invalidi civili al 100%; Ciechi bioculari; Invalidi del lavoro della I categoria (da 80% a 100%); Ex deportati da campi di sterminio; Danneggiati da vaccinazione obbligatoria, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati; Pazienti in trattamento con farmaci analgesici oppiacei, nella terapia del dolore di cui all’art. 43, comma 3-bis, DPR 309/90 relativamente alle prestazioni disciplinate dalla legge 8/02/01 n. 12; Tossicodipendenti per la terapia metadonica.

Campania

Invalidi di guerra dalla 1^ alla 8^ cat.; Invalidi per lavoro dall'80% al 100%; Invalidi del lavoro con riduzione della capacità lavorativa superiore a 2/3 dal 66% al 79% di invalidità; Invalidi del lavoro con riduzione della capacità lavorativa inferiore a 2/3 dall'1% al 66% di invalidità; Infortunati sul lavoro o affetti da malattie professionali;

Grandi invalidi per servizio appartenenti alla 1^ cat. titolari di specifica pensione; Invalidi per servizio dalla 2^ alla 8^ cat.; Obiettori di coscienza in servizio civile;Invalidi civili al 100% di invalidità con o senza indennità di accompagnamento; Invalidi civili con riduzione della capacità lavorativa superiore a 2/3 dal 67% al 99% di invalidità; Invalidi civili minori di 18 anni con indennità di frequenza; ciechi e sordomuti indicati dagli articoli 6 e 7 del DM 01/02/91 (ex art. 6 e 7 della legge 2/04/68, n. 482); Pazienti in possesso di esenzione in base alla Legge 210 del 25/02/92; Pazienti in possesso di esenzione in base alla Legge 302/90 vittime del terrorismo e della criminalità organizzata (ex art. 5 comma 6 D.Lgs 124/98); Titolari di assegno (ex pensione sociale - e loro familiari a carico) prestazioni a favore di detenuti o internati;

Assistiti soggetti a prescrizione di farmaci analgesici oppiacei utilizzati nella terapia del dolore; Soggetti appartenenti ad un nucleo familiare con reddito ISEE non superiore a 10.000,00 €; Disoccupati di cui agli Elenchi anagrafici dei Centri per l'impiego; Cittadini extracomunitari iscritti al SSN, con permesso di soggiorno; Cittadini trapiantati d'organo e soggetti affetti da patologie croniche, rare e invalidanti con reddito familiare ISEE non superiore a 22.000,00 €.

Puglia

Non pagano i ticket sui farmaci:

Invalidi del lavoro (dall'80% al 100%); Invalidi per servizio (dalla 1ª cat. alla 5ª); Invalidi civili al 100%; Invalidi di guerra titolari di pensione vitalizia; Titolari di pensione di inabilità assoluta e permanente; Titolari di sola pensione sociale (oltre alla casa di abitazione); Nuclei familiari con reddito annuo fino a 10.000 €, incrementato di 750 € per ogni figlio a carico, fino ad un massimo di 2250 €.

Pagano 1 € a conf.:

Nuclei familiari con reddito annuo fino a 12.500 €, incrementato di 750 € per ogni figlio a carico, fino ad un massimo di 2.250 €; Soggetti di età superiore a 65 anni con reddito annuo del nucleo familiare fino a 24.000 €; Cittadini che si trovano nelle indicate condizioni di esenzione parziale concorrono alla spesa farmaceutica limitatamente a: 1 € a pezzo (ticket sui farmaci).

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Sicilia

• Soggetti appartenenti a nuclei familiari con ISEE non superiore ad € 9.000,00.

• Invalidi di guerra titolari di pensioni vitalizie*.

• Invalidi civili al 100% con o senza indennità di accompagnamento.

• Invalidi civili minori di anni 18 con indennità di frequenza (art. 1 L.289/90).

• Grandi Invalidi per servizio.

• Grandi Invalidi per lavoro.

• Danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni emoderivati (Legge 210/92 come modificata ed integrata dalla Legge 238/97).

• Soggetti che abbiano subito ferite o lesioni in conseguenza di atti di terrorismo e di criminalità organizzata (art. 15 L.302/90); familiari di vittime di atti di terrorismo e di stragi di tale matrice limitatamente a coniuge e figli ed in mancanza di questi, ai genitori (Legge 3/8/04 n°206 art.9).

*Sono esenti, ai sensi della legge 19/7/2000, n. 203, dal pagamento dei farmaci di classe “C" concedibili nei casi in cui il mdf ne attesti la comprovata utilità terapeutica per il paziente. Tale beneficio opera limitatamente ai farmaci di classe “C” per i quali vi è l’obbligo di ricetta medica. Tale categoria di soggetti è esente dal pagamento della eventuale differenza di prezzo di cui al p. 4.

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La spesa farmaceutica convenzionata

Da una rilevazione recentemente effettuata relativa alla spesa farmaceutica convenzionata per l’anno 2006 (ASSR- Agenzia per i servizi sanitari regionali maggio 2007) risulta che la spesa farmaceutica netta a carico del SSN nel 2006 si è attestata a circa 12.334 milioni di euro con un incremento del 4,1% rispetto al 2005 (tabella n.1).

Per garantire l’assistenza farmaceutica convenzionata, il SSN ha speso in media nel 2006 211 euro per ciascun cittadino (tab. n.2). La spesa pro-capite presenta forti differenze tra Regione e Regione: da 133,5 euro della Provincia Autonoma di Bolzano ai 285,2 euro del Lazio. In Calabria e nel Lazio (dove è stato abolito il ticket sui farmaci rispettivamente il 01/09/05 e il 01/01/06) l’incremento della spesa farmaceutica netta è maggiore.

Si è verificato, inoltre, un incremento del numero di ricette rispetto al 2005. Le ricette nel 2006 sono state 503 milioni (+5,4%). Il dato varia da Regione a Regione: si va da un incremento del 12% in Abruzzo ad una decrescita dell’1% in Calabria. Anche il numero delle ricette pro-capite presenta grandi differenze si va dalle 5,25 ricette della Provincia Autonoma di Bolzano alle 10,27 della Calabria (abolizione della monoprescrizione) (Tabelle n.3 e n.4)).

La spesa netta per ricetta nel 2006 è stata di 24,5 euro con un decremento annuo dell’1,3% (tabella n.5)

I cittadini hanno pagato complessivamente 415 milioni di euro di quote a proprio carico (in media il 3,08% della spesa lorda). Tale contribuzione comprende sia il versamento del differenziale di prezzo della specialità prescritta rispetto al valore di rimborso, sia il pagamento del ticket, nelle Regioni che lo hanno reintrodotto. La quota media annua a carico dei cittadini risulta assai variabile da Regione a Regione, da percentuali dello 0,71% per la P.A. di Trento e per il Lazio al 6,91 del Piemonte (tabella n.6). Il dato relativo alla Regione Lazio e alle altre Regioni che dal 1 gennaio 2006 hanno abolito il ticket fornisce quindi una misura del ricorso a farmaci di prezzo superiore a quello di rimborso.

Nel grafico 1 è rappresentata la spesa netta pro capite per popolazione pesata.

Nella tabella n.7 è riportato l’elenco delle Regioni nelle quali è previsto un ticket sulle prestazioni farmaceutiche nel corso del 2006.

121

Tabella n.1

Spesa Farmaceutica Convenzionata – Anno 2006

Spesa Netta Regioni

gen-dic 06 var 06/05

CALABRIA 516.273.284,27 10,2%

LAZIO 1.503.086.577,00 7,6%

TRENTO 80.479.773,39 6,6%

PIEMONTE 800.824.877,78 5,9%

ABRUZZO 288.557.439,24 5,8%

FRIULI V.G. 237.852.419,47 5,5%

SICILIA 1.305.901.017,26 5,4%

PUGLIA 932.179.299,00 4,7%

BASILICATA 118.929.507,00 4,6%

MOLISE 66.997.924,38 4,5%

ITALIA 12.333.638.818,73 4,1%

UMBRIA 171.794.631,66 3,6%

LOMBARDIA 1.681.769.707,33 3,5%

VENETO 799.231.338,26 3,5%

V. AOSTA 22.317.372,31 2,6%

MARCHE 305.298.203,00 2,2%

E. ROMAGNA 793.383.348,06 1,9%

LIGURIA 378.183.476,53 1,8%

TOSCANA 674.577.569,04 1,5%

CAMPANIA 1.219.769.026,28 0,6%

SARDEGNA 372.560.711,82 0,6%

BOLZANO 63.671.315,65 -7,7%

122

Tabella n.2

Spesa netta pro capite – Anno 2006

Regioni

gen-dic 2006 var 06/05

PIEMONTE 184,9 5,9%

V. AOSTA 181,6 2,6%

LOMBARDIA 179,0 3,5%

BOLZANO 133,5 -7,7%

TRENTO 161,8 6,6%

VENETO 170,1 3,5%

FRIULI V.G. 197,4 5,5%

LIGURIA 237,5 1,8%

E. ROMAGNA 191,1 1,9%

TOSCANA 187,5 1,5%

UMBRIA 200,0 3,6%

MARCHE 201,0 2,2%

LAZIO 285,2 7,6%

ABRUZZO 222,1 5,8%

MOLISE 208,1 4,5%

CAMPANIA 210,7 0,6%

PUGLIA 229,1 4,7%

BASILICATA 199,4 4,6%

CALABRIA 256,9 10,2%

SICILIA 260,5 5,4%

SARDEGNA 225,8 0,6%

ITALIA 211,0 4,1%

123

Tabella n.3

Numero ricette – Anno 2006

Regioni

gen-dic 06 var 06/05

ABRUZZO 13.045.250 12,0%

PUGLIA 38.329.141 8,9%

LAZIO 52.066.032 7,2%

SICILIA 50.544.971 7,0%

TRENTO 3.308.643 6,1%

V. AOSTA 915.747 6,1%

FRIULI V.G. 9.399.138 6,0%

MOLISE 2.790.634 6,0%

VENETO 32.659.381 5,5%

BASILICATA 5.755.155 5,4%

ITALIA 503.290.129 5,4%

LIGURIA 14.954.202 5,1%

SARDEGNA 14.890.730 4,9%

LOMBARDIA 63.633.001 4,9%

E. ROMAGNA 35.508.952 4,6%

TOSCANA 32.287.570 4,6%

PIEMONTE 32.747.093 4,5%

UMBRIA 8.764.429 4,2%

MARCHE 14.060.772 4,1%

CAMPANIA 54.491.260 4,0%

BOLZANO 2.504.707 3,1%

CALABRIA 20.633.321 -1,0%

124

Tabella n.4

Numero ricette pro-capite- Anno 2006

Regioni

gen-dic 2006 var 06/05

PIEMONTE 7,56 4,5%

V. AOSTA 7,45 6,1%

LOMBARDIA 6,77 4,9%

BOLZANO 5,25 3,1%

TRENTO 6,65 6,1%

VENETO 6,95 5,5%

FRIULI V.G. 7,80 6,0%

LIGURIA 9,39 5,1%

E. ROMAGNA 8,55 4,6%

TOSCANA 8,97 4,6%

UMBRIA 10,20 4,2%

MARCHE 9,26 4,1%

LAZIO 9,88 7,2%

ABRUZZO 10,04 12,0%

MOLISE 8,67 6,0%

CAMPANIA 9,41 4,0%

PUGLIA 9,42 8,9%

BASILICATA 9,65 5,4%

CALABRIA 10,27 -1,0%

SICILIA 10,08 7,0%

SARDEGNA 9,02 4,9%

ITALIA 8,61 5,4%

125

Tabella n.5

Spesa netta per ricetta – Anno 2006

Regioni

gen-dic 2006 var 06/05

PIEMONTE 24,5 1,3%

V. AOSTA 24,4 -3,2%

LOMBARDIA 26,4 -1,3%

BOLZANO 25,4 -10,5%

TRENTO 24,3 0,4%

VENETO 24,5 -1,9%

FRIULI V.G. 25,3 -0,5%

LIGURIA 25,3 -3,0%

E. ROMAGNA 22,3 -2,6%

TOSCANA 20,9 -3,0%

UMBRIA 19,6 -0,6%

MARCHE 21,7 -1,8%

LAZIO 28,9 0,4%

ABRUZZO 22,1 -5,5%

MOLISE 24,0 -1,4%

CAMPANIA 22,4 -3,3%

PUGLIA 24,3 -3,9%

BASILICATA 20,7 -0,8%

CALABRIA 25,0 11,3%

SICILIA 25,8 -1,5%

SARDEGNA 25,0 -4,1%

ITALIA 24,5 -1,3%

126

Tabella n.6

Compartecipazione del cittadino alla spesa – Anno 2006

Regione

gen-dic 06 Δ06/05 % su lorda

PIEMONTE 62.637.008,88 -11,08% 6,91%

V. AOSTA 172.663,44 2,24% 0,74%

LOMBARDIA 137.714.590,00 0,45% 7,14%

BOLZANO 4.348.290,21 1,92% 6,08%

TRENTO 601.595,50 -4,77% 0,71%

VENETO 58.681.932,77 2,03% 6,51%

FRIULI V.G. 1.888.022,32 -3,60% 0,75%

LIGURIA 8.637.734,67 1,63% 2,12%

E. ROMAGNA 7.388.395,57 -0,84% 0,88%

TOSCANA 6.648.412,66 -0,97% 0,93%

UMBRIA 1.642.562,34 -0,07% 0,91%

MARCHE 2.930.089,00 -1,85% 0,91%

LAZIO 11.369.480,00 -76,49% 0,71%

ABRUZZO 2.721.243,30 4,68% 0,89%

MOLISE 3.512.043,58 1,55% 4,76%

CAMPANIA 13.909.473,54 -5,90% 1,07%

PUGLIA 28.028.489,00 -51,16% 2,75%

BASILICATA 1.186.387,00 -7,69% 0,95%

CALABRIA 4.674.433,34 -75,71% 0,85%

SICILIA 53.008.140,56 -18,99% 3,67%

SARDEGNA 2.916.315,20 -0,12% 0,74% ITALIA 414.617.302,88 -19,47% 3,08%

127

Grafico n.1

Spesa netta pro capite e scostamento da media nazionale

Tabella n°6

-30,0% -20,0% -10,0% 0,0% 10,0% 20,0% 30,0% 40,0% 50,0% 60,0%

PIEMONTE

V. AOSTA

LOMBARDIA

BOLZANO

TRENTO

VENETO

FRIULI V.G.

LIGURIA

E. ROMAGNA

TOSCANA

UMBRIA

MARCHE

LAZIO

ABRUZZO

MOLISE

CAMPANIA

PUGLIA

BASILICATA

CALABRIA

SICILIA

SARDEGNA

Scostamento da media nazionale (popolazione pesata)

Scostamento da media nazionale (popolazione grezza)

128

Tabella n.7

Regioni nelle quali è previsto un ticket sulle prestazioni farmaceutiche

Regione Ticket

PIEMONTE si

V. AOSTA no

LOMBARDIA si

BOLZANO si

TRENTO no

VENETO si

FRIULI V.G. no

LIGURIA si

E. ROMAGNA no

TOSCANA no

UMBRIA no

MARCHE no

LAZIO no

ABRUZZO no

MOLISE si

CAMPANIA si

PUGLIA si

BASILICATA no

CALABRIA no

SICILIA si

SARDEGNA no

129

I consumi dei farmaci

Riguardo alle categorie terapeutiche di maggior consumo, i dati dell’ultimo rapporto OsMed (Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali) riferiti al periodo gennaio-settembre 2006 evidenziano un significativo aumento del consumo dei farmaci per l’apparato gastrointestinale e di quelli per il sistema emopoietico rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I farmaci del sistema cardiovascolare si confermano quelli con la quota più elevata (50% circa) del consumo complessivo.

La tabella n.8 è stata elaborata facendo riferimento alla metodologia internazionale, che si serve di due strumenti principali:

• il sistema di classificazione ATC (Anatomical Therapeutic Chemical classification system, classificazione Anatomica Terapeutica Chimica) suddivide i farmaci in gruppi sulla base degli organi o apparati su cui agiscono e delle loro proprietà chimiche, farmacologiche e terapeutiche. La classificazione è articolata in cinque livelli gerarchici. Ad esempio al primo livello (quello considerato nella tabella n.8) i farmaci sono suddivisi in quattordici gruppi anatomici principali.

• la DDD (Defined Daily Dose, Dose Definita Giornaliera) è l’unità di misura standard internazionale della prescrizione farmaceutica. Essa rappresenta la dose media giornaliera assunta da un paziente adulto, con riferimento all’indicazione terapeutica principale del farmaco stesso. Normalmente i dati relativi al consumo dei farmaci vengono espressi in numero di DDD per 1000 abitanti al giorno (DDD/1000abitanti/die) al fine di confrontare i volumi di consumo relativi a popolazioni diverse, ma anche per ottenere una stima approssimativa dell’esposizione ad un determinato farmaco o gruppi di farmaci in una popolazione.

130

Tabella n.8 - Consumi nazionali a carico SSN per categorie terapeutiche (ATC al I livello): confronto fra i primi 9 mesi del 2005 e 2006

Fonte: “L’uso dei farmaci in Italia” rapporto OSMED gennaio-settembre 2006, dal sito dell’AIFA (www.agenziafarmaco.it).

131

La tabella n.9 prende in considerazione la spesa relativa ai primi 30 principi attivi nei primi 9 mesi del periodo 2001-2006; il sottogruppo al quale viene associata la spesa più elevata è quello delle statine, fra le quali l’atorvastatina diventa la molecola in assoluto più venduta in Italia con 308 milioni di euro di spesa.

Tabella n.9 – Primi trenta principi attivi per spesa a carico SSN: confronto fra i primi 9 mesi del periodo 2001-2006

Fonte: “L’uso dei farmaci in Italia” rapporto OSMED gennaio-settembre 2006, dal sito dell’AIFA (www.agenziafarmaco.it).

La tabella n.10 evidenzia il consumo a carico del Servizio Sanitario Nazionale in base alla DDD, considerando sempre il periodo dei primi 9 mesi 2001-2006.

In linea con il trend degli ultimi anni, gli inibitori di pompa registrano nel 2006 un aumento molto elevato (+23% delle DDD): in questa categoria va sottolineato come nel 2006 sia scaduto il brevetto del lansoprazolo, che risulta ancora meno prescritto sia rispetto ad omeprazolo che ad esomeprazolo.

132

Tabella n.10 – Primi trenta principi attivi per consumo a carico SSN (DDD): confronto fra i primi 9

mesi del periodo 2001-2006

Fonte: “L’uso dei farmaci in Italia” rapporto OSMED gennaio-settembre 2006, dal sito dell’AIFA (www.agenziafarmaco.it).

133

Assistenza Ospedaliera

Il Servizio Sanitario Nazionale assicura, nel rispetto di quanto sancito dalla Costituzione, la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, attraverso diverse forme di assistenza sanitaria come la prevenzione, l’assistenza territoriale e l’assistenza ospedaliera.

L’assistenza ospedaliera viene assicurata attraverso la rete delle strutture ospedaliere pubbliche e private accreditate (sono le strutture che aderiscono ad un sistema di qualità e quindi contrattano con le Aziende Sanitarie Locali e con le Regioni l’offerta di prestazioni).

Della rete ospedaliera pubblica fanno parte le Aziende ospedaliere, i presidi ospedalieri delle Aziende Sanitarie Locali, i Policlinici universitari pubblici, gli Ospedali classificati, gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico di diritto pubblico (IRCCS) . La rete pubblica si integra con quella privata che include, oltre alle case di cura accreditate, i Policlinici universitari e gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico di diritto privato.

Negli ultimi anni in Italia, come nel resto del mondo, è in corso una trasformazione della rete assistenziale ospedaliera ispirata, per un verso, alla riduzione dei posti letto (lo standard attuale è di 4,5 pl. complessivi per 1000 ab.) accompagnata dalla diminuzione della durata delle degenza e alla sempre maggiore qualificazione tecnologica delle strutture di ricovero e, per l’altro, al trasferimento al regime di ricovero diurno o ambulatoriale di quegli interventi assistenziali che l’evoluzione della pratica clinica consente di effettuare- in condizioni di massima sicurezza per il paziente- ambulatorialmente o in Day Hospital e quindi senza una degenza prolungata in ambiente ospedaliero.

I cambiamenti intervenuti nel sistema sanitario hanno profondamente modificato l’organizzazione della rete assistenziale dal momento che, mentre da un lato si continua a riconoscere all’ospedale un ruolo centrale nell’assistenza sanitaria, si impone tuttavia una modifica delle caratteristiche e delle attese al fine di adeguarsi all’evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche.

L’ospedale, infatti, rappresenta all’interno della rete sanitaria il nodo primario che deve relazionarsi ed interagire in modo sinergico con le altre strutture erogatrici presenti sul territorio al fine di dare una risposta tempestiva ed appropriata alla domanda di salute del singolo individuo.

Nell’ambito dell’assistenza ospedaliera si distinguono l’assistenza ospedaliera per acuti, l’assistenza ospedaliera riabilitativa e quella di lungodegenza. Queste tre forme di assistenza possono o meno coesistere nell’ambito della medesima struttura.

Le prestazioni e i servizi

L’assistenza ospedaliera comprende tutte le prestazioni e i servizi di diagnosi, cura e riabilitazione, effettuati in ricovero presso le strutture ospedaliere pubbliche e private accreditate, assicurate mediante diverse modalità:

- ricovero ordinario (“programmato” o di “urgenza”);

- ricovero diurno (day hospital/day surgery).

134

Il ricovero ordinario ha l’obiettivo di garantire alla persona che necessita di interventi chirurgici, di monitoraggio o terapie continuative, o comunque non autosufficiente, di ricevere nel tempo più breve possibile e nelle migliori condizioni tutte le prestazioni diagnostiche, terapeutiche e riabilitative appropriate per la propria patologia.

Il Ricovero Ordinario può essere “programmato” o di “urgenza”.

Il Ricovero Ordinario d’Urgenza è attivato attraverso la presentazione del paziente (anche condotto da terzi) presso il Pronto Soccorso dell’ospedale dove sarà visitato ed assistito dall’équipe sanitaria di guardia che, dopo la prima valutazione clinica (visita ed eventuali indagini diagnostiche), provvederà ad indirizzarlo all’Unità Operativa (reparto) più idonea alla patologia del soggetto.

Nel 1992 sono stati stabiliti i Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria di emergenza da assicurarsi in condizioni di uniformità sul territorio nazionale. In particolare le Regioni e le Province Autonome sono chiamate ad organizzare le attività di urgenza ed emergenza attivando il sistema di allarme sanitario (il 118 è il numero telefonico unico nazionale) ed il sistema di accettazione ed emergenza sanitaria.

Il sistema dell'emergenza svolge un ruolo fondamentale nell'ambito del servizio sanitario nazionale, da un lato rispondendo all'immediato bisogno di assistenza sanitaria della popolazione, dall'altro ponendosi come un importante filtro ai ricoveri ospedalieri.

Il Sistema 118 e il Pronto Soccorso/Dipartimento di Emergenza sono le componenti essenziali del complessivo sistema dell'emergenza sanitaria. Il sistema 118 opera nella fase di “allarme” garantendo il coordinamento delle attività di soccorso per assicurare, 24 ore al giorno, l'intervento più appropriato nel più breve tempo possibile, in ogni punto del territorio, assicurando il tempestivo trasporto del paziente alla struttura più appropriata. Il Pronto Soccorso/Dipartimento di Emergenza opera nella fase di “risposta”, per garantire l'assistenza necessaria attraverso l'inquadramento diagnostico del paziente, l'adozione di provvedimenti terapeutici adeguati, l'osservazione clinica, l'eventuale ricovero del paziente.

Per assicurare che i tempi di soccorso siano il più possibile adeguati alla condizione clinica del paziente che accede al pronto soccorso è stato introdotto un sistema cosiddetto triage (termine francese che indica cernita,smistamento) che consente di classificare i pazienti in base alla gravità della loro condizione.

Il triage è un processo di valutazione della priorità di accesso, determinato sulla base di pochi ma essenziali dati sul grado di compromissione delle funzioni vitali del paziente; consente di classificare la patologia in base a significativi parametri e di assegnare ad ogni paziente un Codice colore (bianco, verde, giallo o rosso) che ne stabilisce la priorità di accesso.

Un infermiere professionale raccoglie le informazioni essenziali necessarie per stabilire la gravità clinica presentata dall’utente che si rivolge al Pronto Soccorso, in modo da determinare la priorità per la visita medica.

I codici di gravità sono quattro: bianco, verde, giallo e rosso.

Codice rosso

Casi di elevata gravità: si accede subito alla sala di emergenza.

Codice giallo

Casi per cui è opportuna una rapida visita del medico: l’accesso è quindi garantito in tempi ragionevolmente brevi.

135

Codice verde

I sintomi non sono particolarmente preoccupanti, per cui non sussistono rischi gravi: la visita medica sarà effettuata subito dopo i casi più urgenti.

Codice bianco

Questo codice viene assegnato a chi ha bisogno di cure che potrebbero essere prestate altrove e in momenti diversi, non sussistendo alcuna urgenza. La visita medica sarà comunque effettuata, ma solo dopo che saranno stati visitati gli utenti classificati con codici di maggior gravità.

Per quanto attiene ai “codici bianchi” (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero) si deve sottolineare che la Legge Finanziaria 2007 prevede per gli accessi in pronto soccorso con codice bianco, quindi di “non urgenza”, il pagamento di un ticket di 25 euro. A questa norma si sono adeguate tutte le Regioni, da Nord a Sud, con l’eccezione d di Bolzano, Friuli Venezia Giulia , Toscana e Veneto, che hanno agganciato la quota alle prestazioni aggiuntive offerte. Nella tabella che segue, frutto di una rilevazione effettuata nel maggio 2007 dall’ASSR, Agenzia per i servizi sanitari regionali, sono riportate le condizioni applicate dalle Regioni per gli accessi in pronto soccorso non seguiti da ricovero.

136

TICKET DI PRONTO SOCCORSO (in vigore dopo la Legge Finanziaria 2007)

Regione Ticket In quali casi Esenzioni

Valle D'Aosta

Quota fissa di 25€ codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti

Lombardia 35€ per la sola visita specialistica; 50€ se vengono effettuate altre prestazioni diagnostiche

codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

bambini di età < 6 anni e cittadini di età > 65 anni

15 € nei casi in cui l'accesso al pronto soccorso è giustificato ma non seguito da ricovero ospedaliero

esenzioni previste dalla normativa nazionale per le prestazioni specialistiche + Esenzione totale per figli a carico fino a 14 anni con reddito familiare annuo inferiore a 36.152€; diminuzione del ticket al 50% per figli a carico con il tetto massimo

P.A. Bolzano

50€ + ticket per ulteriori prestazioni fino ad un massimo di 100 €

nei casi in cui l'accesso al pronto soccorso non è né urgente né giustificato

P.A. Trento

Ticket di 25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

sono esenti dal pagamento i soggetti: • che accedono per traumatismi; • che accedono per avvelenamenti acuti; • di età inferiore ai 14 anni compiuti; • già esentati per malattia (cronica o rara), invalidità o condizione soggettiva; • gli esenti per reddito: in tal caso è necessaria l’autocertificazione. Alcune esenzioni non sono certificate (per esempio la gravidanza) e vanno riconosciute dal medico di pronto soccorso

137

Veneto

Ticket di 25€ come quota fissa (inclusa la visita); è previsto un tetto massimo di 36,15€ per branca specialistica per le prestazioni aggiuntive. Quota di partecipazione massima per prestazioni proprie di PS quindi erogate dallo stesso 36,15€ + 6,05€ di quota fissa = 42,20€

codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti

Friuli Venezia Giulia

Ticket di: 1) 7,74 € per Visita di Pronto soccorso ;2) 10,32 € per visite per consulenze specialistiche;3) 18,07 € per esami di laboratorio; 4) 12,91€ per radiografia al torace; 5) 23,24 € per altre indagini radiologiche; 6) 30,98 € per Ecografia; 7) 12,91 € per elettorcardiogramma; 8) 23,24 € per elettorencefalogramma (compresa la consulenza neurologica); 9) 12,91€ per altri esami strumentali (consulenze specialistiche). - Le voci dal 3 al 9 sono comprensive della visita di Pronto Soccorso -

per le prestazioni che non rivestono carattere d’urgenza cioè situazioni clinico patologiche la cui definizione diagnostica e/o il trattamento terapeutico possono essere differiti di giorni o almeno 24 ore e le prestazioni programmate successive al primo trattamento

il ticket è dovuto da tutti i cittadini, anche dagli esenti

Liguria

Ticket di 25€ come quota fissa; ticket di 36,15€, come tetto massimo, se oltre alla visita vengono erogate ulteriori prestazioni diagnostiche, di laboratorio, strumentali e terapeutiche

codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti

Emilia Romagna

25€ per la sola visita specialistica + Ticket per ulteriori prestazioni con le stesse modalità vigenti per la specialistica

codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti

Toscana Lo stesso ticket applicato per le prestazioni specialistiche

codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

esenzioni previste dalla normativa nazionale per le prestazioni specialistiche

138

Umbria

Ticket di 25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti (Per l’individuazione dei casi di traumatismo e avvelenamento acuto sono confermati i criteri attualmente adottati dalla normativa regionale per l’applicazione dell’esenzione alle prestazioni di pronto soccorso)

Marche Ticket di 25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto

soccorso ospedaliero non seguite da ricovero) la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni.

Lazio

Ticket di 25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti.

Abruzzo

Ticket di 25€ come quota fissa; ove si dia luogo anche a prestazioni di diagnostica strumentale e di laboratorio e ad altre prestazioni specialistiche e/o di consulenza, l'importo è di 36,15€

codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero); per gli altri codici si fa riferimento alla normativa regionale vigente

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti

Molise

Ticket di 25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti

Campania

Ticket di 25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti

Piemonte

Ticket di 25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli esenti dal pagamento della quota di partecipazione alla spesa sanitaria, dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti

139

Puglia

Ticket di 25€ come quota fissa; possono presentarsi le seguenti tipologie di casi: • assistito di età inferiore a 14 anni, assistito che accede a seguito di traumatismi o avvelenamenti acuti, non esente per altro titolo dalla quota ordinaria di partecipazione alla spesa: l’erogatore deve riscuotere esclusivamente la quota di compartecipazione alla spesa (ticket), senza applicare la quota di 25,00 Euro, con un massimo di 36,15 Euro per ciascun gruppo di 8 prestazioni della stessa branca• assistito di età superiore a 14 anni, che non accede a seguito di traumatismi o avvelenamenti acuti, non esente per altro titolo dalla quota ordinaria di partecipazione alla spesa: l’erogatore deve riscuotere la quota di compartecipazione alla spesa (ticket), con un minimo di 25,00 Euro per accesso e con un massimo di 36,15 Euro per ciascun gruppo di 8 prestazioni della stessa branca• assistito esente per altro titolo dalla quota ordinaria di partecipazione alla spesa, indipendentemente dall’età e dal motivo dell’accesso: l’erogatore non deve riscuotere alcun importo

codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti; sono fatti salvi i casi di esenzione e le disposizioni regionali preesistenti

Basilicata

Ticket di 25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti

Calabria

Ticket di 25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti

140

Sicilia

25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

la quota non è dovuta dagli assistiti non esenti con età inferiore ai 14 anni e dai non esenti afferenti il pronto soccorso a seguito di traumatismi e avvelenamenti acuti. Sono inoltre esenti le categorie previste alla Tabella n.1 della Nota n.0014 del 4.1.07 con la quale la Regione ha impartito alle Aziende direttive per l'applicazione della nuova normativa sul ticket di per le prestazioni di PS ai sensi della Legge Finanziaria 2007

25€ come quota fissa codici bianchi (prestazioni eseguite in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero)

Sardegna 15€ come quota fissa codici verdi

le quote di compartecipazione di 25 e 15 €uro ad accesso, individuate rispettivamente per i codici bianchi e verdi, non sono dovute dagli assistiti non esenti di età inferiore ai 14 anni, dagli assistiti appartenenti ad una delle categorie che danno diritto all’esenzione dal pagamento del ticket per le prestazioni specialistiche individuate dalle vigenti disposizioni regionali, nonché per gli accessi a seguito di traumatismi o avvelenamenti acuti

Fonte ASSR – aggiornamento dati: maggio 2007

141

Il Ricovero Ordinario Programmato

Il Ricovero Ordinario avviene su proposta del medico di medicina generale (medico di famiglia) o su proposta di un medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale, per i casi in cui i trattamenti di cui la persona necessita siano, entro certi limiti, differibili nel tempo senza pregiudizio per l’esito, e si articola nelle seguenti fasi:

1. programmazione del ricovero;

2. preospedalizzazione;

3. ammissione al ricovero;

4. degenza;

5. dimissione.

1. La Programmazione rappresenta la fase iniziale del processo di ricovero in quanto definisce la necessità di ricovero di un individuo e la prenotazione dello stesso all’interno di strutture sanitarie attraverso una prescrizione medica.

2. La “preospedalizzazione” o “prericovero” precede la fase dell’ammissione e si riferisce ad una serie di prestazioni che possono essere effettuate prima dell’inizio della degenza.

3. L’“ammissione al ricovero” o “accesso” consiste nella presentazione del paziente presso l’accettazione della struttura ospedaliera al fine di espletare le pratiche amministrative e procedere alla prenotazione del posto letto nell’unità operativa (reparto) di competenza.

4. La fase della “degenza” ha inizio con la valutazione medica ed infermieristica, l’indicazione del medico di riferimento e l’aggiornamento e comunicazione del piano di cura per il paziente.

5. La fase di “dimissione” rappresenta la fase finale del processo di ricovero in cui il paziente può essere dimesso secondo diverse modalità: la “dimissione a domicilio”, la “dimissione protetta” (attraverso questa modalità di dimissione il paziente ha garanzie particolari di assistenza domiciliare), il “trasferimento ad un altro istituto di cura”.

Il Ricovero Diurno ( Day Hospital , Day Surgery)

Il ricovero diurno ha le medesime finalità del ricovero ordinario e se ne differenzia per il periodo di degenza che è di una giornata.

In particolare il Ricovero Diurno si differenzia dal Ricovero Ordinario sia per la durata della degenza nell’ambiente ospedaliero, sia per la complessità e l’invasività (cioè che comporta minori lesioni all’organismo) delle prestazioni effettuate (ad es. piccoli interventi chirurgici, trattamenti terapeutici), che richiedono poche ore di osservazione. Generalmente in questo regime di ricovero si effettuano interventi diagnostico-terapeutici e riabilitativi che richiedono un tempo di osservazione ed effettuazione più lungo rispetto a quello necessario alla prestazione ambulatoriale, ma che non richiedono una degenza prolungata.

Anche per tale tipologia di ricovero sono previste le stesse fasi indicate per il ricovero ordinario.

Il Ricovero Diurno si differenzia in relazione alla tipologia dell’intervento sanitario, per cui si parla di degenza diurna medica (day hospital) e di degenza diurna chirurgica (day surgery).

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Per Degenza Diurna Medica o Day Hospital si intende il ricovero programmato in cui l’assistenza diagnostico-terapeutica e/o riabilitativa avviene soltanto durante le ore diurne; sono, quindi, prestazioni a prevalente indirizzo medico.

Per Degenza Diurna Chirurgica o Day Surgery si intende il ricovero programmato il cui contenuto è a prevalente indirizzo diagnostico-terapeutico chirurgico con limitazione alle sole ore diurne.

Nell’ambito delle strutture ospedaliere le unità di degenza diurna sono, dal punto di vista funzionale, strettamente collegate ed integrate con le altre unità di degenza ordinaria, intensiva, di diagnosi e cura, al fine di garantire al paziente un completo processo di cura.

Durante la degenza il paziente ha diritto di richiedere la consulenza, a proprio carico, di un medico di sua fiducia esterno alla struttura nella quale è ricoverato, preavvisando il medico del reparto.

Nel corso del ricovero per ciascun paziente viene compilata una cartella clinica, nella quale sono riportate le condizioni cliniche, gli interventi e le terapie praticate.

La SDO - Scheda di dimissione ospedaliera

Nel momento della dimissione del paziente la struttura di ricovero deve emettere la Scheda di Dimissione Ospedaliera (SDO) opportunamente compilata, nel rispetto della privacy, dai medici che hanno avuto in cura il paziente, contenente tutti i dati anagrafici del paziente e il percorso clinico a cui il paziente è stato sottoposto fino al momento della dimissione, rappresenta una sintesi della cartella clinica.

La SDO è stata istituita con Decreto del Ministero della Sanità del 28 dicembre 1991 e, successivamente, il Decreto 26 luglio 1993 ha precisato, in modo analitico, i contenuti e le modalità di trasmissione delle informazioni raccolte. Il Decreto Ministeriale del 27 ottobre 2000, n.380, ha aggiornato i contenuti ed il flusso informativo della SDO ed ha fissato delle precise regole per la codifica delle informazioni di natura clinica.

Tali informazioni vengono trasmesse dalle Regioni al Ministero della Salute al fine di consentire un monitoraggio completo dell’assistenza ospedaliera erogata ai cittadini, per poter conoscere, valutare e programmare a livello nazionale le attività di ricovero ospedaliere.

Al termine del ricovero, sia esso ordinario o diurno, può essere richiesta copia della cartella clinica. Generalmente in ogni struttura di ricovero è presente un Ufficio Cartelle Cliniche cui rivolgersi.

La copia della cartella clinica può essere richiesta da:

• la persona direttamente interessata (maggiorenne o minorenne con documento d’identità proprio), in possesso di un documento di riconoscimento valido;

• • Genitore di minore in possesso di certificato di nascita (con paternità e/o maternità), o di atto notorio, e del documento d’identità valido;

• • Tutore o Curatore dell’interessato munito di provvedimento costitutivo in originale e del documento d’identità valido;

• • Erede legittimo munito di stato di famiglia integrale, certificato di morte del paziente, fotocopia di un valido documento di riconoscimento;

• • Organi competenti (ad esempio: Autorità Giudiziaria, INAIL, INPS,...);

• • Altra persona munita di delega firmata dall’interessato e fotocopia di un documento di riconoscimento valido di entrambi.

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Alla dimissione può seguire il cd. “follow-up”, che rappresenta una fase eventuale che può considerarsi finale rispetto al ricovero, anche se generalmente non necessita di degenza ospedaliera, e include tutte le prestazioni (sia diagnostiche che terapeutiche e riabilitative) necessarie ad assicurare che l’esito dei trattamenti effettuati per la risoluzione del problema clinico che ha dato luogo al ricovero sia quello atteso. Queste prestazioni in genere sono eseguibili senza ricovero, in ambulatorio.

L’assistenza ospedaliera è gratuita presso le strutture ospedaliere pubbliche e private accreditate senza barriere geografiche sul territorio nazionale.

Dal 1° gennaio 2007 la legge prevede che siano assoggettate a partecipazione con una quota fissa di 25 euro le prestazioni erogate in regime di pronto soccorso con codice di triage bianco, non seguite da ricovero, ad eccezione di quelle riferibili a traumatismi ed avvelenamenti acuti. Sono esentati dalla partecipazione tutti gli esenti già stabiliti dalla normativa nazionale; coloro che già godono di un’esenzione per reddito e/o per età; i giovani fino ai 14 anni,gli infortunati sul lavoro.

Negli ultimi anni, alcune Regioni avevano già disciplinato forme di partecipazione per questo tipo di casistica per scoraggiare l’accesso inappropriato al pronto soccorso.

Intramoenia

Il fenomeno dei tempi di attesa, la cultura tradizionale che vede nell’ospedale il punto di riferimento cui rivolgersi per bisogni sanitari di qualsiasi entità, la gratuità delle cure, continuano infatti a indurre la popolazione a rivolgersi al pronto soccorso anche per bisogni che possono essere efficacemente soddisfatti attraverso il medico di base o in ambulatorio e in tempi non immediati.

Tale ricorso improprio al pronto soccorso pregiudica l’efficienza di tutto il sistema assistenziale a detrimento dei pazienti più gravi e bisognosi di cure immediate.

La regola generale prevede che i sanitari prestino in via esclusiva la loro attività nell’ambito ospedaliero, tuttavia anche per i medici a rapporto esclusivo la legge consente una limitata attività libero professionale (cosiddetta intramoenia cioè dentro le mura) purché si svolga all’interno delle strutture ospedaliere. In altri termini quando il cittadino, accedendo ad una struttura ospedaliera pubblica, intende esercitare la scelta del medico o dell’equipe sanitaria in cui ha fiducia, l’assistenza ospedaliera viene erogata a pagamento; i relativi proventi vengono in parte corrisposti ai sanitari, e per l’altra parte all’amministrazione stessa.

La libera professione intramoenia è quindi un istituto del nostro ordinamento sanitario che consente ai medici ed agli altri professionisti sanitari che lavorano esclusivamente alle dipendenze del Servizio Sanitario Nazionale di svolgere nell’ambito dell’ospedale da cui dipendono, utilizzandone gli spazi e le tecnologie, oltre all’attività cosiddetta istituzionale, un’attività libero professionale (individuale o di equipe) basata sulla scelta degli utenti.

Nel 2005 il costo pro-capite medio per l’assistenza ospedaliera è stato per il Servizio Sanitario Nazionale di circa 743 Euro.

I ricoveri ospedalieri

Secondo l'ultimo 'Rapporto annuale sull'attività di ricovero ospedaliero, realizzato dal Ministero della Salute sulla base delle informazioni della banca dati delle Schede di dimissione ospedaliera (SDO), relative al 2004, ammontano a circa 13 milioni l'anno i ricoveri negli ospedali della Penisola, con una degenza media di 6 giorni e mezzo, per un totale di oltre 78 milioni e 750mila giornate.

Fra le cause principali di ricovero risulta al primo posto il parto, seguito dalle malattie cardiovascolari, (arteriosclerosi, insufficienza cardiaca, ictus, infarto miocardico acuto, aritmie), dal trattamento dei tumori e dalle malattie polmonari.

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Gli uomini vengono ricoverati più spesso delle donne; gli 'over 65 restano di più in ospedale, con una degenza media che supera gli otto giorni.

Secondo il rapporto, il numero dei ricoveri complessivi risulta in lieve incremento.

In particolare, rispetto al 2003, a fronte di una significativa riduzione dei ricoveri in regime ordinario (circa 103.500 in meno) si osserva un contemporaneo e consistente aumento dei trattamenti in day hospital (circa 243.400 in più), tendenza peraltro osservata già negli anni precedenti. Aumentano in modo rilevante anche le dimissioni dalla riabilitazione (20.500 casi in più) e dalla lungodegenza (quasi 6.000 in più).

Oltre un ricovero su tre, secondo il rapporto, richiede un intervento in sala operatoria, pari a circa 4 milioni e 700 mila interventi complessivamente effettuati nel 2004, di cui più di circa 3 milioni e 64mila in regime ordinario e un milione 641mila in day hospital.

In regime di ricovero ordinario, ai primi posti tra gli interventi chirurgici più frequenti vi sono:

• parto con taglio cesareo (complessivamente circa 210mila interventi);

• sostituzione di anca (80mila circa);

• isterectomia (oltre 65mila);

• angioplastica coronarica (circa 50mila interventi).

In regime di day hospital, l’intervento chirurgico più frequente in assoluto è quello per cataratta: 336mila ricoveri (ma in regime di ricovero ordinario se ne contano altri 95mila).

Si ricorre all’ospedale con una frequenza diversa da regione e regione: si va dai 107,8 ricoveri per mille abitanti in Piemonte ai quasi 190 in Abruzzo. In generale, valori superiori a quello medio nazionale (141,5) si osservano in quasi tutte le regioni centro-meridionali. La degenza media pre-operatoria, che viene considerata sintomo anche di appropriatezza organizzativa, è in lieve riduzione rispetto agli anni precedenti. A livello nazionale è pari a 2,05 giorni; le durate inferiori si osservano nelle Marche (1,56) e in Friuli Venezia Giulia (1,44).

Il rapporto evidenzia un importante trasferimento (circa l’80%) dei ricoveri con interventi per cataratta e sindrome del tunnel carpale alla modalità di ricovero diurno e minor ricorso al ricovero per patologie croniche trattabili efficacemente in regime ambulatoriale, quali diabete e asma. Al contrario, si rileva in particolare un progressivo incremento del ricorso al taglio cesareo, che viene effettuato nel 37,8% dei parti complessivi, nonostante le indicazioni nazionali ed internazionali suggeriscano di promuovere il parto naturale contenendo il taglio cesareo al 15-20% dei parti.

La tabella che segue illustra i diversi tipi di ricovero effettuati presso la rete ospedaliera italiana nel 2004.

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Distribuzione dei dimessi per tipo istituto, tipo attività e regime di ricovero - Anno 2004

ACUTI RIABILITAZIONE

REGIME ORDINARIO

DAY HOSPITAL REGIME

ORDINARIO DAY HOSPITAL

LUNGODEGENZA TIPO ISTITUTO

numero % numero % numero % numero % numero %

AZIENDE OSPEDALIERE 2.585.367 31,0 1.311.127 34,4 39.945 14,6 17.951 29,5 10.045 10,0

OSPEDALI A GESTIONE DIRETTA 3.490.485 41,9 1.486.341 38,9 35.202 12,8 12.455 20,5 44.030 43,9

POLICLINICI UNIVERSITARI 244.644 2,9 235.809 6,2 1.190 0,4 717 1,2 - -

I.R.C.C.S. 351.406 4,2 233.392 6,1 36.589 13,3 10.824 17,8 4.293 4,3

OSPEDALI CLASSIFICATI 276.115 3,3 121.660 3,2 11.581 4,2 652 1,1 658 0,7

ISTITUTI QUALIFICATI PRESIDIO USL 52.473 0,6 29.962 0,8 7.571 2,8 1.627 2,7 866 0,9

ENTI DI RICERCA 6.587 0,1 1.108 0,0 157 0,1 - - - -

CASE DI CURA PRIVATE ACCREDITATE 1.252.237 15,0 388.713 10,2 137.933 50,3 16.595 27,3 40.054 40,0

CASE DI CURA PRIVATE 80.641 1,0 8.671 0,2 3.978 1,5 43 0,1 266 0,3

TOTALE 8.339.955 100 3.816.783 100 274.146 100 60.864 100 100.212 100

Fonte – Ministero della Salute Rapporto sull’assistenza ospedaliera 2004

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La salute della donna e la maternità

In Italia risiedono complessivamente più di 58 milioni e 700mila persone e le donne sono poco più di 30 milioni 200mila (secondo la nota informativa dell’ISTAT del 1 gennaio 2006, resa pubblica il 30 aprile 2007). Sotto il profilo sanitario, i dati sottolineano anzitutto come le donne vivano in media più a lungo degli uomini: l’aspettativa di vita alla nascita, secondo i dati resi noti nel rapporto annuale ISTAT 2006, è di 78,3 anni per gli uomini e di 84,0 anni per le donne.

La maggiore longevità delle donne sta alla base delle differenze che si registrano a proposito delle patologie croniche. Non è infatti solo sulle patologie tipicamente femminili (come l’osteoporosi per la quale si registra un’incidenza di otto volte superiore tra le donne) che si osserva una prevalenza femminile, bensì su tutte le patologie croniche considerate (allergie, cataratta, ipertensione, vene varicose, artrosi, osteoporosi, emorroidi, calcolosi del fegato, disturbi nervosi, cefalea o emicrania ricorrente, malattie della tiroide, lombosciatalgia).

Per quanto attiene al comportamento riproduttivo, la riduzione del numero delle nascite verificatasi nel tempo ha delineato una diversa dinamica demografica. Dal 1961 a oggi si è praticamente dimezzato il numero medio di figli per donna: nell’anno 2001 il numero medio di figli per donna corrispondeva a 1,25 rispetto a 2,41 relativo all’anno 1961.

L’innalzamento dell’età media al parto sia per le prime nascite che per le successive, delinea soprattutto una tendenza a posticipare l’inizio della vita riproduttiva ma, in parte, anche un recupero di fecondità in età matura. Di conseguenza si dedica una maggiore attenzione alla gravidanza ed al parto, in particolare ai fattori di rischio per la salute della madre, del feto e del neonato.

La tutela della maternità va affrontata attraverso l’adozione di tutti quei provvedimenti che garantiscano alle donne di essere opportunamente salvaguardate sia nel momento in cui affrontano lo stato di gravidanza, sia nel momento in cui si accingono ad affrontare problemi comunque connessi ad esigenze di tutela del loro diritto ad una maternità serena e responsabile, ed in tutte quelle patologie preesistenti la gravidanza o insorte nel corso della stessa, che configurano situazioni di rischio elevato come ad esempio l’abortività ripetuta, l’ipertensione preesistente e gestazionale, il diabete preesistente e gestazionale, infezioni prenatali e perinatali.

Per saperne di più vedi: Ministero della Salute Verso un piano di azioni per la promozione e la tutela della salute delle donne e dei bambini- 8 marzo 2007.

Per un inquadramento normativo delle tematiche relative alla salute materno infantile, in particolare in ambito di interventi di salute primaria, i riferimenti più significativi sono contenuti nei seguenti provvedimenti:

• Definizione dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) DPCM del 29/11/2001;

• Legge 405/75 (istituisce i Consultori Familiari);

• Legge 194/78 (regolamenta l’Interruzione Volontaria di Gravidanza);

• Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI) D.M. del 24/04/2000;

• Legge 34/96;

• Piano Sanitario Nazionale 2006-08;

• Legge Finanziaria 2007

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Estratto dai LEA per la salute materno infantile:

PRESTAZIONI FONTI MODALITÀ

ORGANIZZATIVE E STANDARD

LISTE DI PRESTAZIONI

Assistenza sanitaria e sociosanitaria alle donne, ai minori, alle coppie e alle famiglie; educazione alla maternità responsabile e somministrazione dei mezzi necessari per la procreazione responsabile; tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento, assistenza alle donne in stato gravidanza; assistenza per l'interruzione volontaria della gravidanza, assistenza ai minori in stato di abbandono o in situazione di disagio; adempimenti per affidamenti ed adozioni

Legge 29 luglio 1975, n. 405; Legge 22 maggio 1978, n. 194; D.M. 24 aprile 2000 "P.O. materno infantile" DPCM 14 febbraio 2001 D.L.1 dicembre1995, convertito nella legge 31 gennaio 1996, n.34

Il P.O. individua modalità organizzative nell'ambito del "percorso nascita", trasporto materno e neonatale, assistenza ospedaliera (compresa urgenza ed emergenza) ai bambini, riabilitazione, tutela salute della donna. Lo stesso P.O. individua requisiti organizzativi e standard di qualità delle U.O. di ostetricia e neonatologia ospedaliere, inclusa la dotazione di personale. La legge n. 34/1996 prevede un consultorio familiare ogni 20mila abitanti

Le prestazioni erogabili sono diffusamente elencate nel P.O. materno infantile (POMI) e nel DPCM 14 febbraio 2001.

Inoltre, tra gli obiettivi del Piano Sanitario Nazionale (PSN) 2006/08, troviamo enunciato:

“…il miglioramento dell’assistenza ostetrica e pediatrico neonatologica nel periodo perinatale, nel quadro di una umanizzazione dell’evento nascita, che deve prevedere il parto indolore, l’allattamento precoce… ottimizzando il numero dei punti nascita e assicurando la concentrazione delle gravidanze a rischio ed il trasporto del neonato e delle gestanti a rischio.

…la riduzione del ricorso al taglio cesareo, raggiungendo il valore del 20%.

…la promozione di campagne di informazione per le gestanti e le puerpere, attraverso i corsi di preparazione al parto e i consultori, per la promozione dell’allattamento al seno ecc…, la prevenzione del disagio psicologico dopo la gravidanza ed il parto.”

Per quanto attiene alle risorse da destinare al raggiungimento di tali obiettivi, nella Legge Finanziaria 2007 è previsto un Fondo complessivo di 65,5 milioni di euro per il cofinanziamento di progetti attuativi del PSN (di cui 5 milioni per iniziative nazionali realizzate dal Ministero della Salute e 60,5 milioni di euro da assegnare alle Regioni), finalizzati, tra l’altro, alla realizzazione di: “…iniziative per la salute della donna ed iniziative a favore delle gestanti, della partoriente e del neonato (10 milioni di euro)”.

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I Consultori Familiari

Sul piano normativo, i Livelli Essenziali di Assistenza, la legge 194/78, il POMI, il Piano Sanitario Nazionale, individuano tutti il consultorio familiare come la struttura territoriale strategica per la realizzazione degli obiettivi di prevenzione, promozione e tutela della salute della donna.

I Consultori Familiari (CF), istituiti con la Legge 405 del 1975, rappresentano, ad oltre trenta anni dalla loro nascita, una risorsa dalle potenzialità ancora parzialmente inespresse e, contemporaneamente, un vero e proprio pivot tra i servizi di salute primaria con un ruolo strategico nelle attività di prevenzione e promozione della salute della donna, diagnosi precoce dei tumori femminili, salute riproduttiva e percorso nascita, interruzione volontaria di gravidanza, sessualità.

Il ruolo dei Consultori Familiari, dopo un difficile periodo iniziale, è stato a lungo misconosciuto e sostanzialmente sottovalutato. Ciò a causa soprattutto delle difficoltà di comprensione da parte di una realtà culturale, sanitaria e sociale ancora immatura del concetto di prevenzione primaria, ma anche per la disomogeneità e la lentezza di promulgazione delle leggi regionali di attuazione (soprattutto al Sud) e per le caratteristiche fondamentali di impostazione dei consultori, (distonica con quella biomedica e gerarchizzata nei confronti dei tradizionali servizi di sanità pubblica). I Consultori Familiari, inoltre, hanno avuto difficoltà ad affermarsi dal momento che, essendo strutture multidisciplinari, orizzontali, finalizzate alla prevenzione e alla promozione della salute, sono risultati di difficile riconoscimento da parte dell’utenza, tradizionalmente educata all’utilizzazione dei servizi sanitari per risolvere emergenti problemi di salute. Per un lungo periodo, quindi, si è avuta per i consultori, una vera e propria crisi di identità che ha comportato, di conseguenza, una crisi di identificazione da parte dei cittadini nel panorama dei servizi sanitari con la tendenza, in molti casi, per sopravvivere, ad adeguarsi passivamente alla domanda, e a trasformarsi in modesti poliambulatori territoriali tecnologicamente e organizzativamente inadeguati.

Il Consultorio Familiare nato, come abbiamo detto, nel 1975 come una struttura che aveva l’intenzione di introdurre un elemento tramautico di innovazione in un panorama dominato da una assistenza sanitaria a carattere “mutualistico” si è, invece e a lungo, comportato, nella maggioranza dei casi, come chi da un trauma è appena uscito e sta faticosamente provando a riorientarsi.

Infatti, benché il carattere pionieristico del Consultorio Familiare sia provato dal fatto che solo successivamente sono state promulgate leggi con lo stesso impianto preventivo, sociosanitario, di promozione e di tutela della salute,(ad esempio la legge 180/76, detta legge “Basaglia” sull’assistenza psichiatrica, la legge n.194/78 sull’ Interruzione Volontaria di Gravidanza-IVG e la legge 833/78 di Riforma Sanitaria). il Consultorio Familiare ha stentato ad affermarsi.

Con il passar del tempo, gradualmente e con difficoltà, ma anche con significative differenze regionali, il quadro si è modificato e, soprattutto con il Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI D.M. del 24/04/2000, Gazzetta Ufficiale n. 131 del 7 giugno 2000), con la definizione dei LEA. (DPCM del 29/11/2001) e con la legge 34/96 per i consultori familiari, si sono ribadite ma anche individuate nuove modalità operative, finalità, requisiti, risorse.

Le mutate condizioni della realtà sociosanitaria e culturale del nostro Paese, che, negli anni, hanno visto la donna sempre più inserita in ambito produttivo, per poter consentire, favorire e promuovere la realizzazione di questi cambiamenti, devono contestualmente garantire l’opportuno adeguamento dei servizi in favore della difesa e della promozione della salute femminile e di sostegno della famiglia, anche al fine della promozione di più libere scelte riproduttive.

Riportiamo, di seguito, un brano estratto dal Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI) D.M. del 24/04/2000, nel quale questi concetti vengono definiti in modo chiaro e puntuale:

“I tassi di fecondità nel nostro Paese, pur con differenziazioni regionali, sono oggi tra i più bassi d’Europa. La riduzione della natalità, sin dalla fine degli anni 70, interessa tutte le regioni italiane,

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determinando non solo la nota caduta dei relativi livelli, ma modificando anche le caratteristiche strutturali del comportamento riproduttivo, quali l’ordine e la cadenza delle nascite.

L’innalzamento dell’età media al parto sia per le prime nascite che per le successive, delinea soprattutto una tendenza a posticipare l’inizio della vita riproduttiva, con circa un quarto dei primi figli tra donne di età uguale o superiore a 30 anni.

La promozione della salute, la prevenzione ed il trattamento delle principali patologie ginecologiche in tutte le fasi della vita devono essere garantiti attraverso una completa integrazione dei servizi dei diversi livelli operativi.

Ad ogni donna deve infatti essere assicurato, nell’ambito dell’organizzazione regionale delle cure, un idoneo percorso che le consenta di accedere con facilità al livello di cura più adeguato e completo al suo caso.

La promozione della salute, la prevenzione e la presa in carico devono essere assolti dal I livello, rappresentato dalla rete dei Consultori familiari (Istituiti con la legge 405/1975); l’attività di diagnosi e cura ambulatoriale dal II livello rappresentato dagli ambulatori specialistici del Distretto e dell’Ospedale. L’attività di diagnosi e cura ospedaliera devono costituire il III livello. In esso devono essere affrontate la diagnostica specialistica di livello superiore ed il trattamento con adeguate risorse strumentali ed esperienza professionale in merito alla sterilità ed infertilità, alla patologia ginecologica benigna e maligna, ai problemi delle malattie a trasmissione sessuale, ai problemi connessi con l’età post-fertile ed alla menopausa, comprendendo in questo anche i problemi di ginecologia urologica.

Sino ad ora la tutela della salute della donna è stata perseguita attraverso l’offerta di prestazioni, spesso integrate da interventi terapeutici, per lo più fruite dalla popolazione femminile che spontaneamente accedeva al servizio e con forti limitazioni per quanto attiene alla tipologia dell’offerta stessa, almeno in parte dovute a difficoltà burocratiche, alla scarsa disponibilità di risorse e agli ostacoli nel realizzare il lavoro di equipe multidisciplinare.

Si vuole invece che l’offerta di interventi faccia parte di una ben definita strategia di prevenzione orientata da identificati obiettivi generali e specifici, nonché da un processo di promozione della salute che aiuti la persona ad arricchire le proprie competenze per effettuare scelte più consapevoli.

Tutto ciò deve prevedere una maggior attenzione rivolta a:

• - Favorire l’offerta attiva delle misure preventive;

• - Favorire la massima integrazione tra il Consultorio Familiare, i servizi (ambulatoriali, sociali, socio assistenziali) del Distretto e le strutture ospedaliere;

• - Favorire il dialogo, il confronto e l’integrazione operativa tra i profili professionali tradizionalmente afferenti al Consultorio Familiare ed il personale di altri profili professionali che opera sul territorio, compreso quello coinvolto nella attività di diagnosi e cura primaria;

• - Maturare l’attitudine negli operatori alla valutazione quale strumento per la riqualificazione;

• - Riconsiderare l’offerta relativa ai problemi di salute della donna, salute vista nella sua globalità, in tutte le fasi della vita.

In un progetto più ampio di tutela della salute della donna va quindi prevista la riqualificazione del Consultorio Familiare, sia in termini organizzativi che operativi, che integri l’offerta consultoriale con quella delle altre strutture territoriali facenti capo all’organizzazione dipartimentale dell’area materno - infantile in modo tale che, distretto per distretto o ASL per ASL si persegua una maggiore efficacia ed efficienza, coniugata ad una maggiore equità, e si contraggano le attuali dispersioni di risorse finanziarie

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e umane, quali sono quelle che troppo spesso realizzano interventi parcellari e ripetitivi nella medesima popolazione che, per contro, vede insoddisfatti altri bisogni primari.

La legge n. 34/96 prevede un consultorio familiare ogni 20.000 abitanti. Sarebbe opportuno distinguere tra zone rurali e semiurbane (1 ogni 10.000 abitanti) e zone urbane-metropolitane (1 ogni 20.000-25.000 abitanti). Per lo svolgimento delle sue funzioni il consultorio si avvale, di norma, delle seguenti figure professionali:

• • ginecologo, pediatra, psicologo, dei quali si può prevedere un impiego corrispondente al carico di lavoro determinato dalle strategie di interventi di prevenzione e dalla attività svolta per l’utenza spontanea;

• • ostetrica, assistente sociale, assistente sanitario, infermiere pediatrico (vigilatrice di infanzia), infermiere (infermiere professionale);

• • in qualità di consulenti, altre figure professionali quali il sociologo, il legale, il mediatore linguistico-culturale, il neuropsichiatra infantile, l’andrologo e il genetista presenti nella Asl a disposizione dei singoli consultori ”

Nella tabella seguente viene presentato uno schema riassuntivo contenente gli indicatori di processo e di risultato indispensabili per la valutazione dei servizi previsti dal POMI:

Salute della donna in tutte le fasi della vita - Progetto Obiettivo Materno Infantile

Obiettivi Azioni Indicatori

Ridurre il divario tra Nord e Sud per quanto attiene l’offerta e la qualità dei servizi ospedalieri e territoriali di cura e prevenzione

Favorire l’offerta attiva di misure di prevenzione a livello distrettuale, con particolare attenzione misure per le fasce deboli

Percentuale di donne raggiunte negli specifici programmi di prevenzione

Promuovere la procreazione cosciente e responsabile tutelando le gravidanze a rischio e fornendo adeguato sostegno alle famiglie

Promuovere programmi di educazione alla salute, con particolare riferimento alla salute riproduttiva nelle scuole,nei luoghi di aggregazione giovanile, nella popolazione generale,con l’integrazione della rete dei servizi. Identificazione e assistenza della gravidanza a rischio

Percentuale di adolescenti e di i popolazione adulta, su base campionaria, con conoscenze appropriate sulla fisiologia della riproduzione e problematiche connesse Incidenza dell’IVG Diminuzione dell’handicap

Promuovere la prevenzione in ambito oncologico

Aumento della copertura della popolazione bersaglio per i tumori della sfera genitale femminile

Incidenza tumori del collo dell’utero Incidenza tumore della mammella Percentuale di donne che effettuano pap test e mammografia secondo le lineeguida della Commissione Oncologica

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Favorire il benessere fisico e psicosociale del periodo post fertile della donna con particolare attenzione alle malattie a forte valenza sociale

Promuovere l’aggiornamento professionale sulle problematiche del climaterio e della menopausa – Promuovere programmi di educazione alla salute che possono stimolare cambiamenti verso stili di vita protettivi per il benessere psicofisico

Percentuale di personale che frequenta i corsi Percentuale di donne che hanno cambiato stile di vita su base, campionaria

Prevenire gli episodi di violenza contro le donne e migliorare l’assistenza alle donne che hanno subito violenza

Formazione del personale dei pronto soccorsi e offerta attiva di assistenza

Percentuale del personale delle strutture di primo intervento coinvolto nei programmi di formazione Percentuale di donne assistite appropriatamente sul totale dei casi di violenza segnalati

Prevenzione dei rischi per la salute della donna in ambiente di lavoro

Applicazione della normativa sulla tutela della salute della donna in ambiente di lavoro

Incidenza di aborti spontanei per fattori di rischio lavorativo Incidenza di nati malformati per fattori di rischio lavorativo Incidenza infortuni sul lavoro Incidenza incidenti domestici

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Gravidanza, parto, puerperio

La gravidanza

Il tasso di fecondità in Italia, nel 2005, corrisponde a 1,32 figli per donna in età feconda (15-49 anni), contro l’1,52 della media europea e molto lontano da Francia (1,94) e Gran Bretagna (1,77), ma vicino a Spagna e Germania (1,34).

Nel 2006 viene stimato un piccolo aumento (1,35) che corrisponde al livello più alto registrato in Italia negli ultimi 16 anni con un trend che si conferma comunque in crescita, rispetto al dato iniziale del 1995 (1,19 figli per donna). Questo trend nazionale nasconde però, a livello regionale, dinamiche tendenziali contrapposte: tutto il recupero (seppur minimo) della fecondità, infatti, è da attribuire alle Regioni del Nord e del Centro (maggior percentuale di nascite da cittadine straniere), mentre le Regioni del Sud/Isole, in precedenza ad alta natalità, sono ancora caratterizzate da una tendenziale diminuizione.

I comportamenti riproduttivi nelle diverse aree del paese si stanno comunque allineando: dal 1995 al 2006, nelle Regioni del Centro e del Nord si è passati rispettivamente da 1,05 e 1,07 a 1,37 e 1,29 figli per donna mentre nel Sud si è passati da 1,41 a 1,33. I livelli più elevati di fecondità si registrano in Trentino Alto Adige (1,54), Campania (1,54) e Lombardia e Sicilia (1,41), quelli più bassi in Sardegna (1,06), Molise (1,17) e Basilicata (1,18).

Il confronto tra Regioni e l’andamento 1995-2006 è rappresentato nella tabella seguente:

Per avere un quadro reale sulle modalità di svolgimento di tutto quanto ruota intorno all’evento nascita in Italia facciamo riferimento all’ultima rilevazione CeDAP (Certificato Di Assistenza al Parto), relativa al 2004 ma pubblicata nel gennaio 2007, con dati relativi a 527 punti nascita, un numero di

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parti pari all’86% di quelli rilevati attraverso la scheda di dimissione ospedaliera (SDO) ed un numero di nati vivi pari all’85,2% di quelli registrati presso le anagrafi comunali.

I nati totali registrati nel 2004 dalle anagrafi comunali sono 562.599, quelli rilevati attraverso il CeDAP sono 480.820 (l’85% del totale dei nati). Una percentuale così elevata ci consente di aver uno spaccato di quello che, nella pratica, è stato il comportamento di donne, operatori e strutture nella gestione della gravidanza e del parto.

Nel 46,4% dei punti nascita pubblici è attiva una terapia intensiva neonatale e/o una unità operativa di neonatologia, percentuale che scende drammaticamente al 6% per i punti nascita privati accreditati e al 6,7% per quelli privati non accreditati.

Il Progetto Obiettivo Materno Infantile prevede di garantire ad ogni parto un livello appropriato di assistenza ostetrica e neonatologica attraverso una organizzazione su base regionale articolata in tre livelli con unità di I livello che effettuano non meno di 500 parti l’anno, unità di II livello che effettuano non meno di 800 parti l’anno e unità di III livello dove avvengono non meno di 1000 parti l’anno e che assistono gravidanze e parti ad alto rischio. La tabella seguente fa un censimento dei punti nascita in divisi per numero di parti/anno. Le strutture attive in Italia con meno di 500 parti l’anno, e quindi inadeguate secondo il POMI, sono purtroppo ancora 210, ben il 34% dei punti nascita -dati SDO 2004- (erano comunque 287 nel 2002, poco meno della metà del numero complessivo) tra strutture pubbliche e private accreditate con una distribuzione regionale variabile, ma diffusa in tutte le regioni.

Distribuzione per classi di struttura Anno 2004

Numero parti Numero strutture %

< 500 210 34,20

500 / 800 (I livello) 140 22,80

801 /1000 (II livello) 60 9,77

> 1000 (III livello) 204 33,22

614 100,00

Le cure prenatali

Per cure prenatali, si intende l’insieme degli interventi che una donna in gravidanza riceve dai servizi sanitari, allo scopo di prevenire, identificare e curare le condizioni che possono minacciare la salute del feto, del neonato e della donna stessa, e di aiutare la donna ad avere una esperienza positiva della gravidanza e della nascita.

La maggior parte delle linee guida italiane ed internazionali e le raccomandazioni elaborate dall’OMS sulle cure prenatali prevedono, schematicamente, una prima visita entro la 12ma settimana e poi controlli periodici più o meno ogni 45 giorni. Dalla 38ma settimana la programmazione delle visite e degli accertamenti clinico strumentali e di laboratorio va valutata in base al quadro clinico e alle modalità organizzative della struttura dove avverrà il parto. Sono consigliate tre ecografie (una per trimestre secondo tempi preordinati). Sugli esami clinici e di laboratorio non c’è un accordo univoco e non è possibile, data la variabilità clinica e gli orientamenti prevalenti secondo i diversi filoni culturali, prevedere un elenco rigido di esami al quale attenersi.

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Prestazioni specialistiche per il controllo della gravidanza fisiologica

Riportiamo di seguito l’elenco delle prestazioni che la donna in gravidanza ha diritto a ricevere dal Servizio Sanitario Nazionale, escluse dalla partecipazione al costo così come previsto dal Decreto legislativo del 10-9-1998 (Gazzetta Ufficiale n.245 del 20-10-1998).

All'inizio della gravidanza, possibilmente entro la 13ª settimana, e comunque al primo controllo:

• Emocromo completo;

• Gruppo sanguigno ABO e Rh (D), qualora non eseguito in funzione preconfezionale;

• Aspartato aminotransferasi (AST) (GOT)-Alanina aminotransferasi (ALT) (GPT);

• Virus Rosolia anticorpi: in caso di IgG negative, ripetere entro la 17ª settimana;

• Toxoplasma anticorpi : in caso di IgG negative ripetere ogni 30-40 gg. fino al parto;

• Treponema pallidum anticorpi, [TPHA]: qualora non eseguite in funzione preconcezionale esteso al partner;

• Treponema pallidum anticorpi anti cardiolipina [VDRL] [RPR]: qualora non eseguito in funzione preconcezionale esteso al partner;

• Virus immunodeficienza acquisita [HIV 1-2] anticorpi;

• Glicemia;

• Urine esame chimico fisico e microscopico;

• Ecografia ostetrica;

• Anticorpi anti eritrociti [Test di Coombs indiretto]: in caso di donne Rh negativo a rischio di immunizzazione il test deve essere ripetuto ogni mese; in caso di incompatibilità AB0, il test deve essere ripetuto alla 34ª-36ª settimana.

Tra la 14ª e la 18ª settimana:

• Urine esame chimico fisico e microscopico (*)

Tra la 19ª e la 23ª settimana:

• Urine esame chimico fisico e microscopico (*);

• Ecografia ostetrica (Morfologica).

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Tra la 24ª e 27ª settimana:

• Glicemia;

• Urine esame chimico fisico e microscopico (*).

Tra la 28ª e la 32ª settimana:

• Emocromo completo;

• Ferritina: in caso di riduzione del volume globulare medio;

• Urine esame chimico fisico e microscopico (*);

• Ecografia ostetrica.

Tra la 33ª e la 37ª settimana:

• Virus epatite B [HBV] antigene HBsAg;

• Virus epatite C [HCV] anticorpi;

• Emocromo completo;

• Urine esame chimico fisico e microscopico (*);

• Virus immunodef. acquisita [HIV 1-2] anticorpi in caso di rischio anamnestico.

Tra la 38ª e la 40ª settimana:

• Urine esame chimico fisico e microscopico (*).

Dalla 41ª settimana:

• Ecografia ostetrica: su specifica richiesta dello specialista;

• Cardiotocografia (monitoraggio): su specifica richiesti dello specialista; se necessario, monitorare fino al parto.

(*) In caso di batteriuria significativa:

• esame colturale dell'urina [urinocoltura] Ricerca completa microrganismi e lieviti patogeni. Incluso: conta batterica.

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In caso di minaccia di aborto sono da includere tutte le prestazioni specialistiche necessarie per il monitoraggio dell'evoluzione della gravidanza.

Indicazioni per la diagnosi prenatale

Secondo le "Linee Guida per i test genetici" approvate dal Comitato Nazionale per la Biosicurezza e le Biotecnologie della Presidenza dei Consiglio dei Ministri, le indicazioni prescrittive per la diagnosi prenatale rientrano in due grandi categorie:

1. presenza di un rischio procreativo prevedibile a priori: età materna avanzata, genitore portatore eterozigote di anomalie cromosomiche strutturali, genitori portatori di mutazioni geniche;

2. presenza di un rischio fetale resosi evidente nel corso della gestazione: malformazioni evidenziate dall'esame ecografico, malattie infettive insorte in gravidanza, positività dei test biochimici per anomalie cromosomiche, familiarità per patologia genetiche.

Le indicazioni per le indagini citogenetiche per anomalie cromosomiche fetali sono:

• età materna avanzata (=o > 35 aa.);

• genitori con precedente figlio affetto da patologia cromosomica;

• genitore portatore di riarrangiamento strutturale non associato ad effetto fenotipico;

• genitore con aneuploidie dei cromosomi sessuali compatibili con la fertilità;

• anomalie malformative evidenziate ecograficamente.

• probabilità di 1/250 o maggiore che il feto sia affetto da Sindrome di Down (o alcune altre aneuploidie) sulla base dei parametri biochimici valutati su sangue materno o ecografici (tritest, duo test, translucenza nucale)attuati con specifici programmi regionali in centri individuati dalle singole Regioni e sottoposti a verifica continua della qualità.

I dati sull’evento nascita

Nel recente rapporto CedAp (Certificato di assistenza al parto) Analisi dell’evento nascita-Anno 2004, consultabile sul sito www. ministerosalute.it sono disponibili i dati relativi alle gravidanze e ai parti a livello nazionale.

In circa l’85% delle gravidanze sono state effettuate oltre 4 visite di controllo. Le donne con scolarità bassa effettuano la prima visita più tardivamente.

Per quanto concerne le ecografie sono state effettuate in media 4,5 ecografie per ogni parto con valori regionali variabili tra 3,9 ecografie per parto nella P. A. Trento e 6,4 ecografie per parto nella Regione Liguria.

Per il 72,4% delle gravidanze, si registra un numero di ecografie superiore a 3 con un evidente sovrautilizzo delle prestazioni diagnostiche in gravidanza.

Il numero di ecografie effettuate non sembra avere, secondo numerosi studi, alcuna correlazione con il decorso della gravidanza, inoltre, nel 2004, è stato effettuato un maggior numero di ecografie nelle

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gravidanze con decorso fisiologico (4,61 per gravidanza) che in quelle con decorso patologico (4,51) a conferma del ruolo “consumistico” e spesso casuale di molte ecografie.

Nell’ambito delle tecniche diagnostiche prenatali invasive, l’amniocentesi è quella più usata, seguita dall’esame dei villi coriali (nel 3,21% delle gravidanze) e dalla funicolocentesi (nell’ 1,24%). In media ogni 100 parti sono state effettuate più di 17 amniocentesi.

L’utilizzo delle indagini prenatali è diversificato a livello regionale: nelle regioni meridionali si registra una percentuale al di sotto del 11% (ad eccezione della Sardegna, 17% circa) mentre i valori più alti si hanno in Valle d’Aosta (43,6%) e Toscana (32,57%).

Il ricorso all’amniocentesi da parte delle donne con scolarità bassa è sensibilmente inferiore rispetto a quello delle donne con scolarità medio-alta appartenenti alla medesima classe di età.

Dei 474.893 parti rilevati, nel 2004, tramite le schede CedAp, circa il 12,4% è relativo a madri di cittadinanza non italiana. Il fenomeno è più diffuso al centro nord dove quasi il 18% dei parti avviene da madri non italiane.

Le aree geografiche di provenienza più rappresentative, sono quelle dell’Europa dell’Est (40%) e dell’Africa (26%). Le donne di origine Asiatica e Sud Americana sono rispettivamente il 17% ed il 10% delle madri di cittadinanza non italiana.

Per quanto riguarda l’età, i dati 2004 confermano per le donne italiane una percentuale di oltre il 50% dei parti nella classe di età tra 30-39 anni, mentre per le altre aree geografiche le madri hanno un’età compresa tra 20 e 29 anni (Europa dell’Est 65,7%, Africa 58,9%, America Centro-Sud 52,6% e Asia 65,3%).

L’età media della madre è di 31,8 anni per le donne italiane mentre scende a 28,5 anni per le donne straniere. I valori mediani sono invece di 31,4 anni per le italiane e 27,6 anni per le straniere.

L’età media al primo figlio è per le donne italiane superiore a 30 anni con variazioni sensibili tra le regioni del nord e quelle del sud. Le donne straniere partoriscono il primo figlio in media a 26 anni.

Il livello di scolarizzazione aumenta all’aumentare dell’età al parto.

La percentuale di madri italiane in attività lavorativa è pari al 61,7%, per le straniere scende al 31,5%.

La presenza al parto di un familiare, è, nel 91% (sono esclusi i cesarei) del padre del bambino, nel 7,6% di un altro familiare.

La maggior parte delle donne italiane (89,1%) partorisce in una struttura pubblica; seguono, a grande distanza, le strutture private accreditate (6,2%) e quelle private (4,4%). Soltanto lo 0,2% ha partorito in casa. Il ricorso alla struttura pubblica per il parto è maggiore al Nord e al Centro - nel Nord-Est raggiunge 95,2% - e molto più basso nell’Italia Meridionale (81,3%), dove 11,6% delle donne si rivolge all’assistenza sanitaria privata. Oltre all’ostetrica (96,28%) al momento del parto sono presenti: nel 91,94% dei casi l’ostetrico-ginecologo, nel 45,56% l’anestesista e nel 68,10% il pediatra/neonatologo.

La percentuale dei parti pre-termine è pari al 6,6%, la componente dei parti fortemente pre-termine è pari all’1,2% mentre il 93,4% delle nascite avviene tra la 37° e la 42° settimana.

Per il 2004 i nati a termine con peso inferiore ai 2500 grammi rappresentano circa il 2% dei casi.La nascita di basso peso non risulta significativamente associata alla cittadinanza della madre.Inoltre, dalla fonte CeDAP, registra in Italia un tasso di nati/mortalità di 3,15 nati morti ogni 1.000 nati.

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Confermando la tendenza degli anni precedenti, nonostante i tentativi di ridurne la frequenza confermati anche nel Piano Sanitario Nazionale, nell’anno 2004 il 36,9% dei parti è avvenuto con taglio cesareo, con notevoli differenze regionali ma comunque con l’evidenza di un ricorso eccessivo all’espletamento del parto per via chirurgica presente soprattutto nelle case di cura accreditate (oltre il 57% di tagli cesarei) ma comunque del 34 % negli ospedali pubblici (obiettivo del PSN 20%). Per quanto concerne la presentazione del feto, la frequenza di presentazione di vertice è del 95,03%, quella podalica del 4,3%, nello 0,75% dei casi si osserva un’altra presentazione (in particolare bregma e spalla).L’associazione della modalità del parto con la presentazione del feto evidenzia che nel 87,60% di parti cesarei il nato si presenta di vertice.

Il parto cesareo è più frequente nelle donne con cittadinanza italiana rispetto alle donne straniere: nel 27% dei parti di madri straniere, contro una percentuale del 38,2% nei parti di madri italiane. Nel 2004 delle 474.893 schede CedAp pervenute, 5.738 sono relative a gravidanze in cui è stata effettuata una tecnica di procreazione medicalmente assistita (PMA), in media 1,2 per ogni 100 gravidanze.

Il Rapporto CedAp evidenzia un quadro sostanzialmente favorevole degli indicatori clinico-epidemiologici, ma conferma una tendenza alla eccessiva medicalizzazione della maternità, a marcate disuguaglianze territoriali nell’assistenza e nella concezione di “naturalità” del parto fisiologico. Nel Rapporto vengono evidenziate, inoltre, consistenti differenze regionali e sociali per quanto riguarda la mortalità neonatale, il trasporto in utero e neonatale (soprattutto nei neonati o feti di basso peso o prematuri in strutture più adeguate), la presenza dei consultori, la partecipazione ai corsi di accompagnamento alla nascita, la presenza del padre in sala parto, il rooming in (presenza del neonato accanto alla madre durante la degenza ospedaliera e non al nido), il proseguimento dell’allattamento esclusivo fino ai sei mesi.

A questo proposito, è bene sottolineare che il latte materno continua a essere un’importante fonte di nutrimento per i bambini anche dopo i primi 6 mesi di vita, in modo particolare quando le madri integrano il proprio latte con altri cibi. In media, i bambini di 6-8 mesi ricevono oltre il 70% del fabbisogno energetico dal latte materno, il 55% a 9-11 mesi e il 40% a 12-13 mesi. Il latte materno rappresenta la fonte principale di proteine, vitamine, minerali e acidi grassi essenziali.

Il parto con taglio cesareo

Uno degli indicatori più importanti sulla salute riproduttiva, utilizzato, tra gli altri, dall’OMS e dalla Federazione Internazionale di Ginecologia e Ostetricia (FIGO), è la percentuale delle nascite che si verifica con taglio cesareo (T.C.).

Anche la Direzione Generale della programmazione sanitaria del Ministero della Salute ha inserito il parto con taglio cesareo tra gli indicatori di efficacia ed appropriatezza che costituiscono il” Sistema di garanzie per il monitoraggio dell’assistenza sanitaria” di cui al D.M. 12 dicembre 2001.

Tutti i dati disponibili, evidenziano, negli ultimi anni nel nostro Paese, un clamoroso e progressivo aumento della frequenza del parto cesareo, passata dall’11,2% del 1980 (dati SIO = sistema informativo ospedaliero), al 37,74%, dati SDO del 2004, con la distribuzione regionale e la percentuale, sul totale dei parti (552.264), dei parti spontanei e di quelli operativi (orcipe, ventosa, secondamento manuale ecc…) evidenziata nella tabella seguente.

Va detto, in ogni caso, che le evidenze della letteratura scientifica internazionale sono lontane dal giustificare l’entità del fenomeno e l’OMS definisce corretto un tasso massimo di tagli cesarei del 15%

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Numero di parti per tipo e per Regione Anno 2004

percentuale sul totale

Regione Cesareo Spontaneo Operativo Totale Cesareo Spontaneo Operativo

PIEMONTE 11.409 22.611 1.750 35.770 31,90 63,21 4,89 VALLE D'AOSTA 303 795 9 1.107 27,37 71,82 0,81 LOMBARDIA 25.166 63.328 3.643 92.137 27,31 68,73 3,95 BOLZANO 1.247 3.906 274 5.427 22,98 71,97 5,05 TRENTO 1.427 3.508 144 5.079 28,10 69,07 2,84 VENETO 13.031 30.253 2.310 45.594 28,58 66,35 5,07 F V G 2.304 7.368 309 9.981 23,08 73,82 3,10 LIGURIA 3.772 7.564 329 11.665 32,34 64,84 2,82 E. ROMAGNA 11.589 24.508 1.350 37.447 30,95 65,45 3,61 TOSCANA 8.044 22.064 744 30.852 26,07 71,52 2,41 UMBRIA 2.475 5.111 229 7.815 31,67 65,40 2,93 MARCHE 4.717 8.274 353 13.344 35,35 62,01 2,65 LAZIO 19.881 29.290 1.332 50.503 39,37 58,00 2,64 ABRUZZO 4.354 5.961 438 10.753 40,49 55,44 4,07 MOLISE 1.194 1.207 28 2.429 49,16 49,69 1,15 CAMPANIA 38.074 24.774 1.800 64.648 58,89 38,32 2,78 PUGLIA 18.494 21.042 753 40.289 45,90 52,23 1,87 BASILICATA 2.451 2.320 96 4.867 50,36 47,67 1,97 CALABRIA 7.987 10.650 307 18.944 42,16 56,22 1,62 SICILIA 25.619 24.146 1.206 50.971 50,26 47,37 2,37 SARDEGNA 4.969 7.093 580 12.642 39,31 56,11 4,59

Italia 208.507 325.773 17.984 552.264 37,75 58,99 3,26

Fonte:ElaborazioneASSR su dati SDO Anno 2004

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Distribuzione percentuale dei tagli cesarei per regione

Dai dati relativi all’anno 2004 si evidenzia una accentuata variabilità regionale, che vede le Regioni meridionali, ma anche il Lazio, tutte nettamente al di sopra della media nazionale, già comunque elevatissima e con il record della Campania (58,89 % nel 2004) con un incremento che sembra inarrestabile; una serie di Regioni del Centro Nord si colloca al di sotto della media (con punte minime per Bolzano, 22,98%, Friuli, 23,08, e Toscana, 26,07), ma anche in queste Regioni si registra un aumento rispetto agli anni precedenti.

Rilevante il fatto che, tra il 2000 e il 2001, in alcune Regioni era sembrato di registrare un andamento significativo di riduzione dei T.C. suggestivo per una eventuale ipotesi su parte delle motivazioni della variabilità regionale e cioè il fatto che, in genere, le Regioni che potevamo definire virtuose (con un più basso tasso di tagli cesarei nel 2000), tendevano a ridurlo ulteriormente nel 2001, sfruttando verosimilmente gli effetti benefici di una migliore organizzazione dei servizi e anche di una parziale riduzione del numero dei punti nascita inadeguati. Successivamente, nel 2002 c’è stata una inversione di quel trend con l’aumento della percentuale di T.C. nel 2002, 2003 e 2004, anche in modo consistente (tabella seguente). In particolare, in alcune Regioni, l’aumen numeronumeropercentualeT.C to raggiunge e supera il 10% e comunque in nessuna Regione si registra una riduzione del numero percentuale dei T.C.

2000 2001 2004

BOLZANO 18,7 14,1 23,0 4,3

FRIULI V. GIULIA 20,4 20,3 23,1 2,7

TOSCANA 24,4 22,8 26,1 1,7

VALLE D'AOSTA 23,6 23,0 27,4 3,8

TRENTO 25,6 24,8 28,1 2,5

LOMBARDIA 23,7 25,3 27,3 3,6

VENETO 25,4 26,3 28,6 3,2

UMBRIA 26,5 26,7 31,7 5,2

PIEMONTE 27,2 28,7 31,9 4,7

EMILIA ROMAGNA 28,4 29,3 31,0 2,7

LIGURIA 29,8 30,5 32,3 2,5

SARDEGNA 27,0 32,5 39,3 12,3

ITALIA (valori %) 33,2 33,9 37,8 4,6

MARCHE 33,3 34,1 35,4 2,1

ABRUZZO 36,5 35,2 40,5 4,0

CALABRIA 37,5 36,1 42,2 4,7

LAZIO 32,9 36,4 39,4 6,5

MOLISE 35,8 39,3 49,2 13,6

PUGLIA 40,6 40,3 45,9 5,3

SICILIA 42,3 41,7 50,3 8,0

BASILICATA 39,5 45,8 50,4 9,9

CAMPANIA 53,4 54,0 58,9 5,4

% cesarei sul totale dei partiRegioni

differenza % 2000/2004

Differenza percentuale tagli cesarei sul totale parti per Regione e Anno 2000 - 2004

161

In pratica l’aumento progressivo e diffuso del T.C. sembra far ipotizzare un costume operativo ed una mentalità (sia dei medici che delle donne) orientata a considerare il taglio cesareo non più un intervento chirurgico con tutti gli impliciti rischi, e come tale utilizzabile solo come risolutivo di una situazione patologica, ma come un modo alternativo ma “normale” di partorire (nei dati di alcune regioni, in particolare in Campania, la percentuale di cesarei è, tra l’altro, altissima in qualunque tipo di Istituto avvenga il parto sia pubblico che privato, ospedaliero o universitario).

La tipologia del parto per tipo di Istituto dove è avvenuto (Azienda ospedaliera - Ospedale a gestione diretta-Policlinico universitario – IRCCS - Ospedale classificato o assimilato-Casa di cura privata-Presidio USL) evidenzia in ogni caso che nelle case di cura private, accreditate o meno, si verifica, sul totale dei parti, una percentuale elevatissima di tagli cesarei, con punte nel Lazio, in Campania, e in Sicilia anche intorno al 75% e, per le altre strutture, una percentuale maggiore di cesarei nei policlinici universitari rispetto alle aziende ospedaliere o agli ospedali a gestione diretta (46,17% contro rispettivamente 31,9%, 35,09%, 33,2% nel 2002

I dati che descrivono la tipologia di parto per tipo di struttura dove avviene e per Regione, evidenziano la tendenza in alcune Regioni, (Campania in primo luogo, ma anche, seppur in minor misura, il Lazio la Calabria, la Sicilia ) ad utilizzare le Case di cura come luogo del parto con la conseguenza che, per esempio, nel 2002, il 51,60 % dei cesarei che si effettuano in Campania si ha nelle case di cura. In tutte le Regioni è evidente che la percentuale di cesarei è sempre nettamente superiore nelle case di cura rispetto agli ospedali (tranne per qualche policlinico universitario).

Per quanto riguarda il tipo di struttura dove avviene il parto, il Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI), (D.M. 24 aprile 2000) prevede di garantire ad ogni parto un livello appropriato di assistenza ostetrica e neonatologica attraverso una organizzazione su base regionale articolata in tre livelli con unità di I livello che effettuano non meno di 500 parti l’anno, unità di II livello che effettuano non meno di 800 parti l’anno e unità di III livello dove avvengono non meno di 1000 parti l’anno e che assistono gravidanze e parti ad alto rischio (nelle tabelle seguenti, il numero dei parti e la percentuale dei cesarei per strutture di I, II e III livello; da sottolineare in positivo la soppressione, dal 2001 al 2004, di 79 punti nascita con meno di 500 parti annui da 309 a 230 con una incidenza di meno 25%).

Distribuzione dei parti per volume annuo di attività degli istituti (valori %) - ITALIA 2001.

< 500 44,40 309 39,92 57,28 2,80 81.121 500 - 800 20,26 141 35,28 61,31 3,41 91.030 800 - 1000 11,64 81 34,26 60,90 4,84 71.996 oltre 1000 23,71 165 31,60 65,12 3,28 274.957 Totale (valori %) 100,00 33,91 62,64 3,45 Totale (valori assoluti) 696 176.043 325.177 17.884 519.104

Valori assolutiValori assoluti

N. struttureParti annui

Tipologia parto (valori %)

Valori % Cesareo Spontaneo Operativo

162

Distribuzione per classi di struttura - Anno 2004

N.ro parti N.ro strutture

%

< 500 * 230 36,28

500 - 800 (I livello) 140 22,08

801 - 1000 (II livello) 60 9,46

> 1000 (III livello) 204 32,18

634 100,00

* comprendono 20 strutture con meno di 13 parti

Tipologia di parto nelle strutture con meno di 500 parti /anno (SDO 2004)

tutte le strutture strutture < 500 Tipologia di parto

N° % N° %

Cesareo 208.507 37,75 28.538 46,93

Spontaneo 325.773 58,99 30.928 50,86

Operativo 17.984 3,26 1.347 2,21

552.264 100,00 60.813 100,00

I punti nascita che effettuano meno di 500 parti l’anno e che quindi secondo il POMI non dovrebbero essere attivi perché non in grado di fornire una assistenza adeguata,e quindi ad alto rischio, continuano comunque ad essere troppi (il 36,28 % del totale), con una distribuzione regionale variabile, ma diffusa in tutte le Regioni, (ma soprattutto nelle Regioni meridionali con Campania e Sicilia in testa). Le Regioni con un maggior numero di strutture inadeguate hanno, in genere, una maggior percentuale di tagli cesarei.

In particolare, nei punti nascita con meno di 500 parti l’anno, si sono verificati, nel 2004, 60813 parti, pari a circa l’11% del totale nazionale con una percentuale di tagli cesarei del 46,93%, dieci punti più alta della media nazionale. E’ evidente che questo maggior ricorso al T.C. è dovuto a carenze organizzative (per es. assenza di “guardia” ostetrico-pediatrica e anestesiologica 24 h, e copertura delle urgenze con l’istituto anacronistico, rischioso e disfunzionale della reperibilità e con la necessità, spesso, di dover “concludere” il parto in orario utile e cioè quando la struttura lavora a regime

163

“normale”) e non alla concentrazione di patologie della gravidanza che, anzi, normalmente non afferisce nei piccolissimi centri.

Le tabelle che seguono prendono in considerazione le diagnosi per le quali si è effettuato il taglio cesareo (attraverso il codice con cui, sulla scheda di dimissione, si individua la diagnosi principale) utilizzando le voci che coprono circa l’80% delle indicazioni e che fanno riferimento essenzialmente a 7 codici.

Come si vede, la voce più rilevante, il 18,45 % (era 13,4 nel 2001 e 15,3% nel 2002, un inevitabile aumento) con una indicazione ben definita (pregresso parto cesareo) non è però una patologia, ma, semplicemente, il fatto che la donna ha già partorito precedentemente con un taglio cesareo e quindi, indipendentemente dalle sue condizioni cliniche, viene sottoposta ad un taglio cesareo di elezione. Ovviamente non è dato sapere l’appropriatezza o meno dell’indicazione del precedente cesareo che la espone comunque al nuovo intervento.

Sorprendentemente, comunque, quello che ricorre più frequentemente, nel 39,18 % dei casi, è il codice 6697 che indica come diagnosi principale una non diagnosi ed infatti viene definito “cesareo senza menzione dell’indicazione”.

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Dimissioni con cesareo e diagnosi principale - ITALIA anno 2004 Dimissioni

Diagnosi principale Valori % Valori assoluti

Pregresso parto cesareo 18,45 38.476 Sofferenza fetale 5,31 11.082 Presentazione podalica senza menzione di rivolgimento 5,05 10.539 Testa fetale ballottabile a termine 2,95 6.155 Rottura prematura membrana 1,49 3.098

Cesareo senza menzione dell'indicazione 39,18 81.688

Altro 27,56 57.469 TOTALE 100,00 208.507 Dimissioni con cesareo senza menzione dell'indicazione e prima diagnosi secondaria - ITALIA anno 2004

Dimissioni

I° diagnosi secondaria Valori % Valori assoluti

Senza I° diagnosi secondaria 31,8 25.988 Parto semplice: nato vivo 22,8 18.586 Pregresso parto cesareo 9,1 7.430 Altro 36,3 29.684 TOTALE 100,0 81.688

Esplodendo questi casi anche per la diagnosi secondaria, vediamo che, in un certo numero di casi (31,8%) non esiste neanche la diagnosi secondaria, ed il campo è vuoto, nel 22,8% la “diagnosi” secondaria (con il codice V 270), è: Parto semplice: nato vivo, e, nel 9,1% dei casi si fornisce di nuovo, come indicazione, un pregresso taglio cesareo. C’è per, il resto, una notevolissima parcellizzazione di dati secondari dai quali è pressoché impossibile dedurre informazioni utili. E’ certo comunque (probabilmente anche come effetto della modalità di compilazione della SDO, ma in ogni caso fonte di forte necessità riflessione) che per poco meno della metà del numero dei cesarei non è sufficientemente chiara l’indicazione clinica al T.C.

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La percentuale dei tagli cesarei aumenta con l’età materna, in particolare nel 2004 si ha il 35% tra 20 e 30 anni, 39,61 % tra 30 e 44, e il 55,32% oltre i 45 anni.

Dimissioni per età e per tipologia di parto - ITALIA 2004

Classi di età

15-19 20-29 30-44

Totale (valori %) 2,11 36,91 60,79

Totale (valori assoluti) 11.635 203.849 335.711

Tipologia di parto Classi di età

Cesareo Spontaneo Operativo

<15 46,15 51,65 2,20

15-19 31,00 65,59 3,41

20-29 35,00 61,81 3,20

30-44 39,61 57,10 3,29

>44 55,32 40,70 3,99

Totale (valori %) 37,75 58,99 3,26

Questo aumento così evidente non è totalmente spiegabile con motivazioni cliniche, ma è diffusa, nelle età materne più avanzate, anche la tendenza ad accedere, da parte del ginecologo, ad una più frequente richiesta di taglio cesareo da parte della donna per la individuazione del cosiddetto“figlio prezioso” (gravidanza avuta con difficoltà, talora dopo alcuni aborti o mediante fecondazione assistita e quindi verosimilmente l’unico figlio possibile) ovviamente termine senza nessuna connotazione clinica e spesso utilizzato anche dai medici come pretesto per un cesareo “senza menzione dell’indicazione”. In passato veniva utilizzata, dopo i trenta anni, la dizione, anacronistica oggi, di “primipara attempata” e questa interpretazione socioculturale di un dato anagrafico era una accettata e comoda indicazione al T.C.

In conclusione, l’analisi complessiva dei dati evidenzia, all’interno di un dato nazionale comunque superiore a quello di quasi tutti i paesi europei, una serie di criticità regionali ed organizzative.

Si effettuano sicuramente troppi cesarei al Sud (tanto da poter prefigurare paradossalmente tra le indicazioni quella geografica); si effettuano ancora troppi parti in strutture non adeguate, con un inevitabile ricorso al taglio cesareo, che serve a fronteggiare, non solo una patologia in atto, ma più spesso un rischio di potenziale patologia che non si sarebbe comunque in grado di gestire per carenze organizzative e di struttura.

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Dai dati a disposizione nelle SDO è poi eccessivamente alta la percentuale di cesarei di cui non si conosce la motivazione e che però sottintende la mancanza di una diagnosi clinica certa ed indiscutibile.

Questo dato porta a prefigurare anche il diffondersi della cosiddetta “ostetricia difensiva” legata cioè all’incidenza di preoccupazioni di tipo medico legale e risarcitorio in costante aumento e che portano a cercare la soluzione più rapida e considerata, spesso a torto, potenzialmente meno rischiosa di incidenti.

È necessario per cercare di raggiungere il difficile obiettivo indicato dal PSN (di arrivare entro il triennio ad un valore nazionale del 20%), ottimizzare il numero dei punti nascita riducendo quelli in cui si verificano meno di 500 parti l’anno ed incrementare la qualità complessiva degli altri; favorire attraverso processi organizzativi ed informativi coinvolgenti le strutture e gli operatori del territorio nonché i cittadini, l’afferenza al punto nascita competente prefigurando un percorso che porti soprattutto la maggior parte dei parti già individuati come a rischio ad essere assistiti in strutture di III livello con conseguente riduzione per lo meno dei parti cesarei cosiddetti “difensivi” che si effettuano al I e II livello.

Esiste in ogni caso la consapevolezza che, accanto alla diffusione di protocolli assistenziali e lineeguida, per modificare positivamente la pratica assistenziale dei singoli operatori o le politiche assistenziali ed organizzative delle ASL o delle Aziende Ospedaliere sia necessario un coinvolgimento diretto di tutti gli operatori ospedalieri e territoriali che intervengono a vario titolo nel percorso nascita, con un opera costante di “training in job” dell’intero staff assistenziale sull’applicazione delle procedure corrette di lineeguida condivise, discusse e validate da appositi processi formativi e informativi all’interno dell’intero percorso assistenziale della gravidanza.

Per quanto riguarda la revisione dei DRG della gravidanza e del parto, probabilmente utile, nell’ipotesi di una loro influenza (di tipo economico) nell’incrementare il numero dei cesarei, si è visto però, per esempio in Brasile, che, dopo una serie di interventi di tipo economico che riducevano sostanzialmente la retribuzione del cesareo equiparandola a quella del parto spontaneo con incentivi per quelle strutture che riducevano il numero dei cesarei e penalizzazione per chi effettuava cesarei senza una adeguata motivazione, si è passati dal 40% del 1999 al 24% del 2001 (nelle strutture totalmente private la percentuale di cesarei è invece rimasta altissima con punte dell’80 %). Ci sembra pertanto interessante una riflessione anche su questo punto per arrivare ad un correttivo dei DRG relativi.

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I diritti della donna e del bambino Per assicurare fin dalla nascita la salute del bambino, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Unicef e le associazioni mediche di tutto il mondo raccomandano l’allattamento esclusivo al seno per i primi 6 mesi di vita, seguito da un allattamento al seno complementare fino ai 2 anni e oltre.

I problemi più importanti che ancora persistono all’interno del percorso nascita e sui quali va concentrato l’impegno delle politiche sanitarie riguardano la continuità assistenziale tra gravidanza-parto-puerperio, l’integrazione tra i servizi territoriali e ospedalieri, il rispetto della naturalità biologica della nascita, l’attenzione al dolore e la persistente inappropriatezza dell’offerta di prestazioni diagnostiche e di soluzioni chirurgiche del travaglio di parto (soprattutto al Sud).

Per superare queste lacune, il Governo ha sentito l’esigenza di proporre un ddl “Per la promozione e tutela della salute e dei diritti delle partorienti e dei nati” nel quale è descritta una ricognizione degli interventi in atto e un piano di azioni polivalente, dalla tutela della maternità, alla diagnosi e terapia dell’infertilità, alla diagnosi precoce dei tumori femminili, alle cure del neonato, agli interventi contro la violenza sulle donne.

Analgesia epidurale nei LEA

Nel Gennaio 2007, la Commissione nazionale sui LEA ha promosso il “controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale tramite procedure analgesiche” tra i Livelli Essenziali di Assistenza garantiti dal Servizio Sanitario Nazionale. E’ auspicabile, ma ci sono le premesse nel documento di accompagnamento, che l’analgesia epidurale nel parto non si ponga come fatto isolato, poco informato e deresponsabilizzante che avviene “una tantum” in sala parto, ma faccia parte di un programma che comprenda una visione globale del nascere e favorisca, oltre alla sedazione del dolore, una migliore consapevolezza e partecipazione all’evento. E’ anche auspicabile l’incremento di altre tecniche meno invasive e medicalizzate come la psicoprofilassi, l’agopuntura, l’ipnosi, il parto in acqua ecc…. L’obiettivo esplicitato nel documento è comunque quello di “tutelare la scelta della donna perché durante il travaglio e il parto, possa usufruire di un controllo efficace del dolore mediante le più appropriate procedure analgesiche attualmente disponibili, nel massimo della sicurezza propria e del nascituro”.

In un primo tempo, tenendo conto della grave carenza di medici anestesisti, le indicazioni del documento suggeriscono di individuare prioritariamente le strutture che effettuano più di 1200 parti l’anno, assicurando comunque in ogni Regione la presenza di una o più strutture organizzate per rispondere alla richiesta di analgesia epidurale nel parto.

Nel contesto dei diritti che vengono assicurati alle partorienti e ai neonati, è bene ricordare la normativa che consente alla donna al momento del parto in una struttura pubblica, di vedere garantito, dietro sua richiesta, il diritto all’anonimato e a dare luogo immediatamente al procedimento di adozione per il figlio. Per diffondere la conoscenza di questa particolare tutela, fondamentale e ancora poco conosciuta, si sono svolte molte campagne di informazione da parte delle istituzioni competenti che hanno avuto lo scopo di far conoscere al vasto pubblico la possibilità che la legge prevede per la donna di partorire in condizioni di sicurezza e di assistenza sanitaria garantita e gratuita, e, per il neonato, di sopravvivere e crescere in una famiglia adottiva.

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Dirtto della madre a non riconoscere il figlio

Diverse disposizioni legislative stabiliscono i diritti della madre che non riconosce il neonato. La norma principale è costituita dalla legge n. 127 del 1997, art. 2 - Disposizioni in materia di stato civile e di certificazione anagrafica - anonimato della donna nell'atto di nascita del neonato.

La norma è stata ora sostituita dall’art. 30 del DPR 3.11.2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile a norma dell’art.2, comma 2, della legge 15.5.1997, n. 127) che così dispone:

“La dichiarazione di nascita è resa indistintamente da uno dei genitori o da un procuratore speciale ovvero dal medico o dall’ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l'eventuale volontà della madre di non essere nominata...”

La volontà della donna di non riconoscere il bambino deve essere rispettata.

La Circolare 1823 del 23 Maggio 1997 recante “Lettera circolare di istruzioni per la Legge 15 Maggio n. 127 in materia di dichiarazione di nascita” definisce le modalità del diritto all’anonimato della madre:

Il riconoscimento del neonato deve essere fatto entro 3 giorni dalla nascita presso l'Ospedale, oppure entro 10 giorni presso il Comune di nascita o di residenza della madre. La madre ha sempre 10 giorni dal parto per decidere il riconoscimento.

Per particolari e gravi motivi la madre che è impedita nel formalizzare il riconoscimento entro i 10 giorni previsti può richiedere al Tribunale per i Minorenni ancora un massimo di 60 giorni per provvedere. Deve però mantenere con continuità la sua relazione con il bambino.

Quando la madre ha meno di sedici anni e vuole tenere il figlio con sé, con apposito atto del Tribunale dei Minori, il riconoscimento è rinviato fino al compimento del sedicesimo anno. Per quel periodo il giudice tutelare nomina un tutore per il bambino.

La madre può non riconoscere il neonato alla nascita dichiarando di non consentire di essere nominata nell'atto di nascita. In ospedale ogni donna ha il diritto di esprimere la sua volontà di non riconoscere ed ha diritto alla riservatezza sulla propria identità. Tutti gli operatori che sono a contatto con la madre hanno il dovere di rispettare tali diritti.

Le altre norme:

Codice Civile, art. 250:

La donna ha il diritto ad essere aiutata e informata sul fatto che può partorire senza riconoscere il figlio e senza che il suo nome compaia sull'atto di nascita. Il bambino quindi non avrà il suo cognome.

Legge 8.5.1927 n. 798 art.9 - art. 622,326 Codice Penale:

La donna ha il diritto ad una rigorosa protezione del segreto del suo nome, qualora non voglia riconoscere il figlio.

Legge 127/97 art. 2 comma 1:

Costituzione Art. 2-3-31 comma 2:

La tutela della vita e della maternità impongono al legislatore la tutela della riservatezza della donna.

Legge 184/83, art.11

Il tribunale, qualora il minore non sia riconosciuto dalla madre, non può fare ricerche sulla paternità del bambino.

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R.D.L. 8.5.1927 art.9 n. 798:

È rigorosamente vietato rivelare il nome della madre che non intende riconoscere il figlio. Coloro che per motivi d'ufficio sono venuti a conoscenza del nome della madre, hanno il rigido divieto di rivelare tale conoscenza Artt. 163-177-622 Codice Penale... e commettono reato se lo rivelano.

Sentenza Corte Costituzionale n. 171/94

"...qualunque donna partoriente, ancorché da elementi informali risulti trattarsi di coniugata, può dichiarare di non voler essere nominata nell'atto di nascita...".

Le Leggi sull'adozione:

Legge 184/83 art. 11:

"...nel caso in cui non risulti l'esistenza di genitori naturali che abbiano riconosciuto il minore, ...il Tribunale dei Minorenni, senza eseguire ulteriori accertamenti, provvede immediatamente alla dichiarazione dello stato di adottabilità..."

art.22:

"...il Tribunale dei Minorenni vigila sul buon andamento dell'affidamento preadottivo..."

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IVG - Interruzione volontaria di gravidanza

L’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), è regolamentata in Italia dalla legge

n. 194 del 22 maggio 1978. La legge indica chiaramente che l'interruzione volontaria della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite (art.1).

Pertanto, il medico che esegue l'intervento è tenuto a fornire alla donna tutte le informazioni e le indicazioni sui mezzi di regolazione delle nascite, oltre che sui procedimenti abortivi.

I consultori familiari, la struttura sanitaria e il medico ai quali la donna si rivolge sono tenuti, inoltre, ad esaminare con lei e, laddove possibile, aiutarla a rimuovere, le condizioni che portano alla richiesta dell’interruzione della gravidanza (art.5). Qualsiasi donna ha diritto a richiedere personalmente, e ottenere, l'interruzione volontaria di gravidanza (IVG) entro i primi 90 giorni di gestazione (a partire dal 1° giorno dell’ultima mestruazione o sulla base di una valutazione ecografica) per motivi di salute, economici, sociali o familiari (art. 4).

L'IVG può essere praticata anche dopo i primi 90 giorni (art. 6) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, oppure quando siano state accertate gravi anomalie del feto che potrebbero determinare un serio pericolo per la salute psicofisica della donna. Queste condizioni vanno verificate e certificate da un medico della struttura sanitaria dove si praticherà l’intervento.

La richiesta di IVG va effettuata, in ogni caso, personalmente dalla donna. Nel caso di donne minorenni è necessario, nella richiesta, l'assenso scritto da parte di chi esercita la potestà o la tutela.

Qualora, per qualsiasi motivo, non sia possibile ottenere l'assenso, la minore può ricorrere al giudice tutelare. Nel caso in cui la donna sia stata interdetta per infermità di mente, la richiesta di intervento può essere fatta direttamente dal tutore o dal marito, confermata dalla donna e sottoposta al giudice tutelare. L’intervento può essere effettuato esclusivamente presso le strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale e in alcune strutture private espressamente autorizzate dalle Regioni. I dati epidemiologici relativi alle IVG sono raccolti e analizzati, ogni anno, dall’Istituto Superiore di Sanità, dalle Regioni e dal Ministero della Salute e costituiscono il quadro di riferimento per le valutazioni che seguono.

Negli anni di attuazione della legge si è osservata una costante e progressiva riduzione del ricorso alla IVG sia come effetto di una maggior diffusione dei metodi anticoncezionali, sia per il cambiamento del costume riproduttivo della popolazione italiana e per una maggiore informazione e diffusione delle problematiche inerenti la fertilità e la sessualità.

Il tasso di abortività , ovvero il numero di IVG per 1000 donne in età feconda (tra i 15 e i 49 anni) che rappresenta l’indicatore raccomandato dall’OMS come il più accurato per una corretta valutazione della tendenza al ricorso all’IVG, è risultato per l’Italia nel 2004 pari a 10.0 IVG per 1000 donne in età feconda, con un incremento del 3.6% rispetto al 2003.

L'andamento del tasso di abortività riferito alle quattro ripartizioni geografiche (Nord, Centro, Sud, Isole) dal 1983 al 2004 è il seguente:

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Tassi di abortività per area geografica, 1983-2004

Variazione %

1983 1991 2003 2004 2004/2003 2004/1983

Nord 16,8 10,6 10,1 10,5 4,5 -37,5

Centro 19,8 12,4 11,0 11,5 4,5 -41,9

Sud 17,3 12,1 9,1 9,3 2,4 -46,2

Isole 11,7 8,1 7,0 7,1 0,4 -39,3

ITALIA 16,9 9,5 9,6 10 3,6 -40,8

Dai primi anni’80 che registravano un numero di IVG superiore ai 200.000/anno (234.801 nel 1982), è iniziata una significativa riduzione che ha portato a 129.288 IVG nel 2005. Nello stesso modo si sono ridotti i tassi di abortività (n. di IVG/1.000 donne di età feconda 15-49 anni) passando da 17 nel 1982 a circa 10 nel 2000 e a 9,3 nel 2005. Si è verificato, quindi, rispetto al 1982, un decremento del 46%. Il tasso di abortività rappresenta (raccomandazioni dell’OMS) l’indicatore più accurato per la valutazione della tendenza del ricorso delle donne all’IVG.

Il tasso di abortività risulta nel 2005,in netta diminuizione rispetto al 2004 e pari a 8,7 al Sud, molto basso nelle isole (6,4), e più alto nel Centro e nel Nord (11 e 9,8) in relazione anche alla diversa distribuzione geografica delle popolazioni immigrate.

Il rapporto di abortività (n. IVG per 1.000 nati vivi) è risultato, nel 2005, pari a 236,4 per 1.000 con un decremento del 37,8% rispetto al 1982 (380,2 per 1.000).

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IVG - Confronto 2004/2005 in valori assoluti e tasso di abortività

L’analisi per ripartizione geografica riflette il differente effetto del contributo delle donne straniere, in quanto la loro presenza non è omogenea su tutto il territorio nazionale.

Esaminando alcune delle caratteristiche delle donne che fanno ricorso all’IVG, si rilevano soprattutto due fenomeni significativi: l’andamento per fasce di età e la presenza, come detto sopra, delle donne immigrate, fenomeni in parte collegati.

Va detto, per inciso, che già da qualche anno non ha più molto senso effettuare stime relative all’aborto clandestino, perché, secondo le rilevazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, si è arrivati a livelli dello stesso ordine di grandezza dell’errore della stima stessa e pertanto piccole variazioni non sono significative. Il quadro del 2004, come avvenuto per gli ultimi anni, permette di ipotizzare una persistenza residuale dell’aborto clandestino inferiore alle 20.000 unità, prevalentemente (al 90%), concentrato al Sud, un fenomeno dovuto a ragioni complesse, in parte legate all’organizzazione dell’offerta dei servizi, ma anche a motivi storico- culturali.

Lo studio della distribuzione delle IVG per classi di età, evidenzia come i tassi di abortività si siano ridotti in tutte le fasce di età, ma in modo molto meno marcato -e anzi con un leggero aumento complessivo- nelle classi di età più bassa (meno di 20, 20-24 e 25-29 anni); questo dato si rapporta con la netta tendenza delle donne ad avere il primo figlio in età più avanzata, dai 28-29 anni in poi.

Tassi di abortività per età 1983-2004 Anni Variazione %

Classi di età 1983 1991 2003 2004 200472003 200471983

< 20 8,0 5,57 5,7 9,5 2 -1,9

20-24 23,6 13,4 16,0 16,4 3,1 -30,3

25-29 27,6 15,7 15,0 15,8 4,9 -42,0

30-34 25,2 17,1 13,2 13,8 4,8 -45,3

35-39 23,6 15,1 10,4 10,9 4,7 -53,9

40-44 9,8 7,2 4,8 5,0 5,6 -48,5

45-49 1,2 0,9 0,5 0,4 -2,2 -63,3

2005 2004 2005 2004

Italia settentrionale 63.472 59.457

(-6.3%) 10,5 9,8 (-7,2%)

Italia centrale 30.095 28.941 (-3,8%) 11,5 11

(-4,5%)

Italia meridionale 32.839 30.560 (-6,9%) 9,3 8,7

( -7,1%)

Isole 11.717 10.630 (-9,3%) 7,1 6,4

( - 9%)

ITALIA 138.123 129. 588 (-6,2%) 10 9, 3

( - 6,7%)

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Si nota come dal 1983 i tassi di abortività sono diminuiti in tutti i gruppi di età, con riduzioni meno marcate per le donne con meno di 20 anni. Nel 2004 si osserva un aumento dei tassi di abortività, che certamente riflette il sempre maggiore contributo delle cittadine straniere, la cui struttura per classe di età è più giovane rispetto alle italiane.

Nella fascia di età inferiore ai venti anni, un dato importante è quello riferito alle minorenni per le quali il tasso di abortività per il 2004 è risultato essere pari a 5.0 per 1000.

Per quanto riguarda le donne immigrate, nel corso degli anni è andato crescendo il numero degli interventi effettuato da donne con cittadinanza estera; nel 2004 tali interventi rappresentano il 27,2% del totale delle IVG. Considerando solamente le IVG effettuate da cittadine italiane il dato del 2004 sarebbe infatti pari a 101.392.

Il sempre maggiore contributo delle donne con cittadinanza estera impone una particolare attenzione nella valutazione che viene fatta, nel tempo, delle caratteristiche delle donne che ricorrono all’IVG, in quanto le cittadine straniere, oltre a presentare un tasso di abortività (peraltro diverso per nazionalità) stimato in media 3 volte maggiore di quanto attualmente risulta tra le italiane, hanno una diversa composizione socio-demografica (che muta nel tempo a seconda del peso delle diverse nazionalità), diversi comportamenti riproduttivi e diversa utilizzazione dei servizi. In particolare, va segnalato il loro maggior ricorso al consultorio familiare per la certificazione e il maggiore ritardo, per le difficoltà complessive, nell’ottenere, dal momento della richiesta, l’ intervento di IVG.

Si tratta comunque del gruppo sociale a maggiori rischio individuato dai dati del Sistema di Sorveglianza. Dell’interruzione volontaria di gravidanza, dai quali emerge che nel 1999 sono state effettuate 18.806 IVG su cittadine straniere, pari al 14%, rispetto alle 9.850 del 1996. Nel 2000, le IVG in donne straniere sono state 21.201, pari al 16% con la distribuzione regionale riportata nella tabella precedente. Nel 2001 si è passati a 25.094 (19,1%) e nel 2002 su 134.106 IVG totali, il 22,4% (29.263) era rappresentato da straniere, infine, nel 2004, le IVG in donne straniere sono state 36731, dato che corrisponde al 27.2% del dato nazionale e, soprattutto in alcune Regioni, può determinare un maggior ricorso all’IVG dovuto alla più alta presenza di immigrate in tali territori.

Dal confronto con le altre nazioni europee, infatti, il tasso di abortività italiano risulta tra i più bassi, mentre è particolarmente alto nei paesi dell’Europa orientale (55,3 per la Federazione Russa, 46,8 per la Romania, 34,7 per la Bulgaria ), la cui componente femminile, presente in modo consistente nella popolazione immigrata, ha certamente un ruolo importante nel mantenimento di livelli costanti del numero di IVG effettuate in Italia, a fronte della riduzione registrata tra le donne italiane.

Certamente, pure in presenza di notevoli differenze legate ai vissuti e alle culture di origine che tendono a determinare le scelte sul piano del costume riproduttivo, le donne che provengono da Paesi in cui l’IVG è usata molto frequentemente, come ad esempio la Romania, dove si raggiungono valori di 5 donne l’anno che abortiscono ogni 100 in età feconda, non cambieranno le loro abitudini nel giro di un anno o due. A ciò si aggiungono le condizioni di precarietà culturale, sociale economica e di relazioni familiari in cui queste donne generalmente vivono che rende più difficile l’informazione e l’accesso ai servizi.

Le donne straniere nel nostro Paese rappresentavano, nel 2001, il 2,1% della popolazione femminile residente , con 635.729 unità. Più del 65% di queste donne sono in età compresa tra i 19 e i 40 anni.

Come abbiamo già visto,utilizzando una stima nelle donne immigrate in età feconda, l’ISTAT ha calcolato un tasso di abortività di 32,5, superiore di oltre 3 volte, a quello osservato tra le donne italiane.

174

Poiché le cittadine straniere hanno caratteristiche socio demografiche diverse dalle cittadine italiane (in media sono più giovani e in genere nubili) il loro contributo all’aumento del tasso di abortività in donne di età inferiore di 25 anni è determinante. Infatti, i dati relativi al 1998, per esempio, registrano, nella fascia 18-24 anni, un tasso di abortività altissimo (55) per le cittadine straniere, contro 11,5 nelle donne italiane, e di 44 contro 12 nella fascia di età 25-29.

Da qui l’impegno a porre particolare attenzione alla promozione di consapevolezza e competenza fra queste donne, sfruttando anche il fatto che si rivolgono preferibilmente ai consultori familiari.

Resta quindi strategico intervenire per favorire la circolazione delle informazioni sulle modalità di procreazione e promuovere attività specifiche di counselling e supporto.

La relazione del Ministro della Salute sull’IVG del 2005 valuta anche l’approccio farmacologico all’IVG (o aborto medico), impiegato nel 2005 in via sperimentale da alcuni istituti come alternativa all’aborto chirurgico. Le recenti linee guida sull’IVG pubblicate dall’OMS riportano le raccomandazioni relative all’aborto medico, alla luce della revisione sistematica della letteratura scientifica. A differenza di quanto paventato, nei Paesi in cui da decenni si utilizza l’approccio farmacologico accanto a quello chirurgico, non si è registrato un aumento del ricorso all’IVG.