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Dipartimento di Economia Aziendale Università degli Studi di Brescia Daniele RONER DOMANDA E OFFERTA DI BENI ECONOMICI Paper numero 12 Marzo 2001

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Dipartimento diEconomia Aziendale

Università degli Studi di Brescia

Daniele RONER

DOMANDA E OFFERTA DI BENI ECONOMICI

Paper numero 12

Marzo 2001

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DOMANDA E OFFERTA DI BENI ECONOMICI

RASSEGNA CRITICA

DALL’IRREALISMO NEOCLASSICO

ALLA DIFFERENZIAZIONE DEI PRODOTTI

di Daniele RONER

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INDICE

pagina

Prefazione 5

I. IL CONFLITTO FRA LE POSIZIONI DELL’IRREALISMO NEOCLASSICO E LA DIMENSIONE AZIENDALE TEORICA E PRATICA

9

II. VERSO IL RICONOSCIMENTO FENOMENOLOGICO: PER UN APPROCCIO REALISTICO AI PROBLEMI DELLA DOMANDA E DELL’OFFERTA

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II.1 Veblen e l’homo faber 27

II.2 Innovazione e sviluppo in Schumpeter 29

II.3 Contestazione sui costi in Sraffa 37

II.4 Le imperfezioni della concorrenza: Chamberlin e la Robinson

38

III. GLI STUDI CONTEMPORANEI IN TEMA DI DIFFERENZIAZIONE DEI PRODOTTI

45

III.1 Il contributo dell’economia industriale 45

III.2 Le interpretazioni dell’economia aziendale 56

III.2.1 I contributi di Smith, Kotler, Podestà, Abell, Porter

70

III.2.2 Alcune fenomenologie 83

IV. CONCLUSIONI 93

Bibliografia 97

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INDICE DELLE TABELLE

Pagina

TABELLA 3.1 I dieci modelli di automobili più venduti in Italia dal 1995 al 1999

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TABELLA 3.2 Vendite di automobili per segmenti 86

TABELLA 3.3 Distribuzione territoriale delle istituzioni creditizie e delle dipendenze in Italia

88

TABELLA 3.4 Distribuzione territoriale degli impieghi in Italia

91

TABELLA 3.5 Distribuzione territoriale della raccolta in Italia

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INDICE DEI GRAFICI

Pagina

GRAFICO 3.1 Numero dei conti correnti per 100 abitanti in Italia

89

GRAFICO 3.2 Numero delle istituzioni creditizie aderenti al servizio di corporate banking

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Prefazione È stata ripetutamente sostenuta l'esistenza di una relazione sistematica fra grado di instabilità dei sistemi economici e stato delle discipline economiche: fra <dinamismo economico> e <dinamismo teoretico>.1 Il punto, noto ma forse non a sufficienza sviluppato, andrebbe quindi forse ripreso interrogandosi in tema di discontinuità del ciclo economico e, nel contempo, di evoluzione-rivoluzione di paradigmi teoretici. In tema dunque di formulazione di nuove impostazioni (o perlomeno di nuove ipotesi di ricerca) nei campi dell'economia politica, dell'economia aziendale, e infine all'intersezione delle medesime.2 Una delle aree in cui il dinamismo economico ha comportato spiccate esigenze di revisione teorica e metodologica concerne i rapporti fra l’impresa e l’ambiente in cui essa opera, e fra impresa e concorrenza in particolare. In passato, infatti, lo studio del sistema economico prescindeva dalla considerazione dell’organizzazione e del comportamento della singola impresa, aspetti questi assunti in forma stereotipata: si reputava che imprese appartenenti al medesimo settore – o alla medesima economia -presentassero eguale organizzazione e comportamento. Questa, in particolare, costituiva una delle principali argomentazioni proposte dalla teoria marginalista che, sviluppatasi tra il 1871 e il 19363 - quasi simultaneamente in Inghilterra e a Vienna e Losanna – era nata come “sfida” all’economia politica classica. Le ragioni della sfida potrebbero forse venire ricercate in una certa diffidenza mostrata dai marginalisti verso talune implicazioni sociali derivanti dalle asserzioni classiche.4 E poiché queste asserzioni si basano con evidenza sulla teoria del valore-lavoro, essi scelgono di concentrare gli sforzi su un campo d’indagine in cui la teoria del valore-lavoro si dimostra debole e in cui la nuova tecnica da essi scoperta può esprimersi più efficacemente: il campo dei prezzi relativi e dell’allocazione delle risorse. In tale modo le tipiche questioni classiche dell’accumulazione e della crescita possono venire di fatto trascurate.5

1 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, 2ª ed., Il Mulino, Bologna, 1995, pag. 13. 2 Cfr. in questa serie, V. Freddi, Attività economica; L'approccio resource-based, papers n. 6 e 7. 3 L’epoca marginalista convenzionalmente si inizia con la pubblicazione della Teoria dell’economia politica di W. S. Jevons e dei Principi di economia pura di C. Menger nel 1871, e si conclude con la Teoria generale di J. M. Keynes nel 1936. 4 A. K. Dasgupta, Epochs of Economic Theory, Basil Blackwell, Oxford, 1985; trad. it.: La teoria economica da Smith a Keynes, Il Mulino, Bologna, 1999, pag. 17. 5 A. K. Dasgupta, La teoria economica da Smith a Keynes, op. cit., pag. 17.

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In particolare, mentre per l’economia politica classica il problema principale concerne la produzione – l’attributo fondamentale che determina il valore delle merci è il lavoro – l’economia marginalista sposta l’approccio dalla produzione al consumo: rilevanza assumono i bisogni dei consumatori. Si ritiene che la domanda sia la forza principale da cui procede l’attività economica. Nel nuovo sistema la supremazia della domanda è talmente completa che, in alcuni passi, l’offerta appare soltanto come «domanda di riserva dei venditori di merci», e quando si tiene conto della produzione, come «domanda di riserva dei venditori di fattori».6 Si suppone che l’allocazione delle risorse si basi sul principio dei costi opportunità, reputati un riflesso della domanda di riserva per i fattori di produzione. La spiegazione del comportamento di mercato del consumatore, e delle relazioni di scambio che ne conseguono, viene individuato dai marginalisti nel concetto di utilità, e di utilità marginale in particolare. Dato il reddito, il singolo consumatore pareggia il prezzo con la sua utilità marginale, conseguendo così il massimo soddisfacimento. Il riflesso del comportamento massimizzante dei singoli consumatori si esprime nella domanda del mercato. Parimenti avviene nella sfera della produzione, ove l’impresa (o l’imprenditore?) diviene il punto di riferimento. Dati i prezzi delle risorse, l’impresa sceglie la tecnica che minimizza il costo; con ipotesi appropriate il costo minimo (incluso il “profitto normale”) si dimostra il medesimo per tutte le concorrenti di un settore. Si suppone inoltre che, sia il consumatore possa variare la proporzione dei beni scelti finché non si assicuri la massima utilità dal suo reddito, sia l’impresa possa mutare la proporzione dei diversi tipi di risorse finché il costo di un dato prodotto venga minimizzato, secondo il cosiddetto “principio di sostituzione”.7 In questa visione, l’impresa viene considerata come costruzione astratta che si limita alla trasformazione di risorse in beni e servizi. Una “finzione teoretica”8 che, priva di una propria volontà, al fine di perseguire un semplice obiettivo (minimizzazione di una funzione di costo ovvero massimizzazione di una funzione di profitto), reagisce meccanicamente a cambiamenti nelle condizioni ambientali, quali la domanda e le tecniche disponibili. In realtà, l’impresa non risulta certamente concepibile come categoria astratta, universale, sempre uguale a sé stessa, ma al contrario si differenzia di continuo nelle strutture, negli obiettivi, nelle forme e nei modi di operare:

6 A. K. Dasgupta, La teoria economica da Smith a Keynes, op. cit., pag. 117. 7 A. K. Dasgupta, La teoria economica da Smith a Keynes, op. cit., pagg. 115-116. 8 F. Machlup, “Theories of the Firm: Marginalist, Behavioral, Managerial”, in American Economic Review, 62, March, 1967; trad. it.: Teorie dell’impresa: marginalista, comportamentale, manageriale, in A. M. Cardani e U. Pedol, Problemi di teoria dell’impresa, Etas Libri, Milano, 1980, pag. 166.

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si configura quindi come fenomeno realmente esistente, vivente, dinamico, in mutamento incessante.9 E ciò risulta evidente allorquando essa venga collocata e analizzata in un dato contesto e in una fase storica determinata, anziché in un ambito teorico astratto, privo di connotazioni nazionali, settoriali, temporali.10 In particolare, la produzione d’impresa si configura quale «trasformazione ininterrotta», e «la vita delle diverse aziende e dei diversi settori della produzione e del consumo si esplica costretta da relazioni d’interdipendenza o, più raramente, di soggezione o di controllo con altre aziende e con altri settori»11. Ne consegue che, affinché i processi e le combinazioni produttive possano apparire “fruttuosi”, essi debbono «modificarsi nei loro elementi e nelle loro mutue relazioni», al fine di «trasmutarsi in nuove coordinazioni meglio atte ai bisogni da appagare».12 L’impresa dovrebbe dunque assumere un’importanza maggiore nel pensiero economico, considerando che nell’ambito del processo industriale è di fatto una realtà consolidata, al punto da poter venire definita già quarant’anni fa come «l’ovvio che ormai ha bisogno di analisi»13. Di ciò inizia a percepirsi l’importanza a muovere dai primi anni del Novecento, allorquando le trasformazioni indotte nel sistema economico dal processo di industrializzazione, dal lato sia della domanda sia dell’offerta, producono conseguenze critiche sul corpus teorico neoclassico.14 L’attenzione si sposta dallo sforzo di verifica della coerenza interna della teoria economica alla confutazione delle ipotesi di base della struttura economica, ovvero del suo grado di realismo.15 La critica che inizia a svilupparsi – di cui si discuterà nel corso del presente lavoro – non pone di norma in discussione singoli risultati dell’analisi, in quanto ciascuno di essi, più o meno adeguatamente, dimostra coerenza con le assunzioni di partenza. Essa sottopone invece ad esame la validità di queste ultime e la loro attitudine alla rappresentazione storicamente adeguata16 dei processi di trasformazione economica allora in corso, caratterizzati dalla formazione di forme di controllo monopolistico dei mercati e da accentuati squilibri congiunturali. Spiegazione della trasformazione che rimane problema al margine dell’analisi neoclassica, interessata invece alla definizione di forme di equilibrio stabile nei mercati, e che viene genericamente ricondotta alla

9 R. Ferraris Franceschi, Problemi attuali dell’economia aziendale, Giuffrè Editore, Milano, 1998, pag. 358. 10 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 14. 11 G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, Giuffrè, Milano, 1956, pag. 440. 12 G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, op. cit., pagg. 440-441. 13 P. Sylos Labini, Oligopolio e progresso tecnico, Einaudi, Torino, 1964, pag. 29. 14 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 35. 15 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 35. 16 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 35.

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“forza propulsiva del mercato”. In sostanza, all’economia viene rivolta la critica di descrivere ciò che accadde, più che di interpretare le forze e la direzione della trasformazione.17 Il tentativo di superare l’esame di <aderenza storica>18, non riuscito alla teoria marginalista, viene operato su strade parallele – per restare alla letteratura inglese, e tralasciando gli Austriaci e Schumpeter - da E. H. Chamberlin e J. Robinson. Sottolineando le imperfezioni che caratterizzano la concorrenza nei mercati, e attraverso il concetto di <differenziazione dei prodotti>, si giunge a porre in evidenza i problemi di indeterminatezza degli equilibri di mercato al di fuori delle ipotesi di perfetta concorrenzialità. Ma dal momento in cui si riconosce, anche a livello teorico, che la struttura dei mercati non risulta in grado di determinare univocamente i parametri dell’equilibrio, viene meno la concettualizzazione in cui collocare l’impresa, che da elemento di raccordo flessibile diviene componente attiva di trasformazione.19 L’emergente protagonismo dell’impresa configura una situazione in cui le condizioni interne ed esterne sue proprie debbono venire analizzate simultaneamente in quanto fattori di reciproco influsso. Dinamica di settore e strategia di impresa si uniscono in una relazione che non presenta soluzione di continuità.20 Ed ecco quindi la cristallizzazione dell’economia politica da un lato, che rimane confinata ai temi classici, e l’emergere dell’economia industriale ed aziendale dall’altro. L’economia industriale, pur nata in contrapposizione dialettica con la microeconomia neoclassica, finisce tuttavia per svilupparsi più come sua verifica empirica che come progetto alternativo di ricostruzione teorica.21 L’opera di Chamberlin viene accolta nella sua forma più compiuta, cioè sotto l’aspetto “concorrenza monopolistica”, e quindi come modello di mercato da accostare alla concorrenza perfetta e al monopolio, mentre viene forse meno considerato l’elemento sostanziale della sua teorizzazione, ossia il concetto di differenziazione, di cui viene principalmente analizzato l’aspetto “strutturale”, quale componente della struttura del mercato in cui si esplica il confronto competitivo.22 L’importanza della differenziazione quale possibile comportamento strategico assumibile dall’impresa viene riconosciuta dall’economia aziendale ove, frutto com’è del realismo costruttivo proprio di questa disciplina, essa si inserisce nell’avvenuto riconoscimento dell’irrealismo dell’economia politica, confermando anzi tale irrealismo, e cercando di

17 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 35. 18 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 36. 19 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 37. 20 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 37. 21 S. Podestà, “Teoria dell’impresa ed economia industriale”, in L. Guatri (a cura di), Trattato di economia delle aziende industriali, Egea, Milano, 1988, tomo 1°, pag. 220. 22 S. Podestà, “Teoria dell’impresa ed economia industriale”, op. cit., pag. 220.

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risolverlo dal punto di vista teorico-pratico, cioè appunto economico-aziendale. E attraverso la disamina dei contributi di alcuni tra i principali Autori si percepirà come la sofisticazione del concetto di differenziazione, frutto di esperienze ed epoche diverse, sottenda una sorta di “rivolta”, non di rado inconsapevole, ai canoni della teoria tradizionale dell’omogeneità delle produzioni, dei beni, delle preferenze dei consumatori. Si porrà in evidenza in primo luogo come il prodotto non possa venire concepito quale “entità astratta” e “dato implicito del problema economico”, riconoscendo la sua centralità in uno dei processi decisionali più complessi dell’impresa; in secondo luogo l’importanza delle esigenze eterogenee dei consumatori non più interpretabili quali dati, bensì espressione di preferenze tra qualità e varietà degli stessi beni, o persino, di beni diversi. L’offerta al mercato di prodotti differenziati, in risposta a bisogni strettamente connessi alla natura umana, verrà dunque intesa non come snaturamento o coercizione del mercato, ma anzi come offerta di un servizio necessario per il conseguimento di vantaggi competitivi, cui il mercato risulta disponibile a riconoscere un valore economico. I. Il conflitto fra le posizioni dell’irrealismo neoclassico e la dimensione

aziendale teorica e pratica. Il periodo che intercorre tra la metà degli anni Quaranta dell’Ottocento e la prima guerra mondiale è caratterizzato da una notevole espansione economica – appena scalfita per l’Europa dalla crisi agraria del 1870, e dalle crisi del 1893 e del 1907 – in quasi tutti i paesi europei e del Nord America.23 L’espansione economica è conseguenza anzitutto del deciso sviluppo tecnologico che si manifesta in quel torno di anni, generato da scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche che iniziano a procedere di pari passo, in stretta connessione le une alle altre. Conseguono profonde modificazioni nell’attività industriale, indotte da fattori quali: a) disponibilità di nuovi materiali (acciaio, petrolio, rayon); b) utilizzo di nuove forme di energia (elettricità); c) invenzione di nuove macchine e 23 Per un’interessante disamina della situazione economica relativa al periodo analizzato si vedano, tra gli altri: B. Mitchell, European Historical Statistics: 1750-1970, MacMillan, Londra, 1933; O. Vitali, Aspetti dello sviluppo economico italiano alla luce della ricostruzione della popolazione attiva, Roma, 1970; L. Bergonzini, Il volto statistico dell’Italia (1861-1981), Editori Riuniti, Roma, 1984; J. L. Thomas, The Great Republic: A History of the American People, 3ª ed., Lexington, D. C. Heath and Company, Massachusetts, 1985 (trad. it.: La nascita di una potenza mondiale: gli Stati Uniti dal 1877 al 1920, Il Mulino, Bologna, 1988); R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia: 1861-1961, 2ª ed., Il Saggiatore, Milano, 1991.

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motori (motori elettrici, motori a scoppio). Tutto ciò consente di parlare di una “seconda fase della rivoluzione industriale”. Il settore dei trasporti, già di importanza strategica per la prima rivoluzione industriale, assume ora rilevanza ancora maggiore. Si pensi soltanto allo sviluppo delle comunicazioni marittime, con l’utilizzazione delle navi a vapore e l’apertura di importanti canali (canali di Suez, di Kiel, di Corinto, di Panama), oppure alle comunicazioni ferroviarie, con la costruzione di imponenti trafori (traforo del Frejus, del San Gottardo) e di estese linee ferroviarie (la Transiberiana). L’incremento dei trasporti corrisponde alla crescita del commercio mondiale, che costituisce forse l’aspetto più evidente di questa nuova fase di industrializzazione. L’accresciuta capacità produttiva delle imprese pone problemi da un lato di rifornimenti sempre più ingenti di materie prime, dall’altro di ricerca di nuovi mercati di sbocco per i prodotti finiti. A ciò si aggiunga l’incremento dei bisogni alimentari, provocato da trasformazioni quantitative e qualitative nelle esigenze della popolazione. Questa seconda fase di sviluppo industriale si distingue dalla precedente per alcuni aspetti: a) nascita e sviluppo di settori e comparti industriali quasi interamente nuovi (industria dell’acciaio, della chimica, della petrolchimica, della gomma, delle fibre sintetiche, dell’elettricità, dell’elettrotecnica, dei mezzi di trasporto); b) nuove forme di organizzazione del lavoro industriale, generate dalla meccanizzazione dei processi produttivi, dall’organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo), dall’introduzione della catena di montaggio (fordismo)24; c) sviluppo della “grande impresa”. Rinnovate divengono le forme assunte dal capitalismo, sospinte dalla necessità di svolgersi a livello internazionale. Esse si esprimono in alcune tendenze comuni alla maggior parte del mondo industrializzato, quali a) la politica coloniale e l’imperialismo; b) la tendenza alla concentrazione industriale; c) un maggiore intervento degli Stati e dei poteri pubblici nella vita economica. Le attività produttive principali vengono di mano in mano ad essere dominate da Società per Azioni che sostituiscono progressivamente le imprese a carattere familiare, mentre si verificano ovunque processi di concentrazioni e fusioni tra imprese, ovvero una moltiplicazione di cartelli e trust, diffusi questi ultimi soprattutto in Germania e negli Stati Uniti ad opera di audaci imprenditori e finanzieri giunti a costituire veri e propri imperi industriali (Rockefeller nel campo petrolifero, Carnegie e Morgan nell’acciaio, Vanderbilt, Harriman e Hill nelle ferrovie). L’economia tende dunque a modificarsi profondamente, almeno nei settori di base, in un sistema dominato da imprese di rilevanti dimensioni,

24 Si deve a Henry Ford l’avvio della produzione automobilistica di serie con il celeberrimo Modello T e l’introduzione nel 1913 della prima catena di montaggio al mondo, innovazione che rivoluzionerà l’organizzazione di lavoro nelle imprese.

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monopolistiche e oligopolistiche, talora verticalmente integrate, e relazioni sociali in questo nuovo quadro iniziano ad assumere forme distinte e diverse. Si pensi soltanto alla grande impresa, in cui la nascita della nuova scienza del “management” comporta l’insorgenza di rapporti gerarchici e burocratizzati tra gli individui. Nella nascita della grande industria un ruolo primario viene assunto dalle banche: acquisisce peso rilevante il capitale finanziario. Le ingenti necessità finanziarie delle imprese, alla ricerca di crediti sempre maggiori, comportano non soltanto un potenziamento del sistema bancario, ma una sua effettiva trasformazione. Attraverso l’assunzione di partecipazioni rilevanti, si stabilisce una più stretta connessione tra attività finanziarie e industriali; con l’ampliamento o la riduzione degli affidamenti poi, le banche – in particolare le banche miste di tipo tedesco - divengono in certo modo artefici dello sviluppo economico. Le condizioni economiche effettive di questo periodo appaiono così differenti rispetto all’epoca degli scrittori classici. Se il rapido progresso economico e tecnologico nelle società industrializzate è ormai un dato di fatto, così l’operaio inglese, già vittima di soprusi con l’apertura delle fabbriche, assiste ora all’incremento del proprio reddito e al miglioramento delle condizioni di vita, e lo stesso accade negli Stati Uniti e in numerose altre nazioni economicamente progredite. Data questa situazione economica dinamica e progressiva, la prospettiva pessimista del tipo Ricardo-Malthus cede il passo a una visuale colma di speranze. L’ottimismo e il laissez-faire possono ancora una volta “stringersi la mano”.25 L’ottimismo non è tuttavia basato su una nuova e penetrante teoria delle cause del progresso economico; al contrario, tale progresso è sovente dato per scontato e, per quanto concerne l’analisi economica formale, il problema del come e del perché lo sviluppo sopraggiunga viene praticamente dimenticato.26 In un contesto del genere, e in un periodo in cui Marx diffonde l’idea delle crisi successive e infine dell’inevitabilità della rivoluzione per porre fine allo sfruttamento capitalistico, ci si dovrebbe attendere un abbandono del paradigma della “mano invisibile”, basato sulla concorrenza atomistica. Invece ciò non accade; anzi, con l’avvento del marginalismo, il concetto di concorrenza non muta particolarmente, in quanto più che riferito alla

25 R. Gill, Evolution of Modern Economics, Prentice Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1967; trad. it.: Il pensiero economico moderno, Il Mulino, Bologna, 1969, pag. 73. 26 R. Gill, Il pensiero economico moderno, op. cit., pag. 73.

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condotta dei venditori e degli acquirenti viene attribuito alla struttura del mercato.27 Gli economisti “neoclassici” ipotizzano pertanto l’esistenza di una struttura di mercato caratterizzata da un’offerta frazionata in un numero elevato di venditori, con prodotti perfettamente sostituibili, prezzi identici, funzioni di costo allineate per le imprese. Ciò che invece muta con l’avvento del marginalismo è l’oggetto dell’analisi economica: il consumo, anziché la produzione come nel periodo precedente. Essendo i beni prodotti in quanto richiesti dai consumatori, devono essere le scelte dei medesimi ad orientare la produzione. Si suppone quindi che la domanda sia la forza principale da cui procede tutta l’attività economica. Alla teoria oggettiva del valore, la teoria del valore-lavoro, si sostituisce quindi una teoria soggettiva, attraverso l’affermazione del principio della “sovranità del consumatore”. Per giungere alla comprensione dei meccanismi che sottostanno alle scelte del consumatore e che spiegano la ragione per cui un certo bene viene preferito ad un altro, i neoclassici propongono allora una ridefinizione del concetto di <valore d’uso> dei classici. Mentre per classici il valore d’uso è la proprietà di un bene di soddisfare specifiche esigenze dell’individuo, per i neoclassici il valore d’uso diviene utilità, intesa quale relazione che si stabilisce tra le quantità dei beni posseduti da un individuo e la valutazione espressa per ciascuno di essi. Non si discute più di valore d’uso di un bene, bensì di utilità di una certa quantità di un bene per un individuo.28 L’utilità è un concetto soggettivo. La teoria marginalista del consumo e del valore assume dunque l’individuo come punto di riferimento. È l’utilità che i beni possono avere per l’individuo che trova espressione sul mercato. «I beni hanno valore sempre in rapporto a determinate persone – scrive Menger29 – ma solo per ognuna di esse tale valore è determinato». 27 F. M. Scherer, Industrial Market Structure and Economic Performance, Houghton Mifflin Company, 1980; trad. it.: Economia industriale. Struttura del mercato, condotta delle imprese e performance, Edizioni Unicopli, Milano, 1985, pag. 17. 28 S. Lombardini, Economia politica, Utet, Torino, 1992, pag. 106. 29 C. Menger, Grundsätze der Volkswirtschaftslehre, 2ª ed., Wien, 1923 [1ª ed. 1871]; trad. it.: Principi di economia politica, Utet, Torino, 1976, pag. 234. Secondo Jevons «il valore dipende interamente dall’utilità. Le opinioni predominanti considerano il lavoro piuttosto che l’utilità l’origine del valore, e vi è perfino chi asserisce che il lavoro è la causa del valore. Io dimostro il contrario, che noi dobbiamo solamente rilevare attentamente le leggi naturali della variazione di utilità, come dipendenti dalla quantità di bene in nostro possesso, in modo da giungere ad una soddisfacente teoria dello scambio, di cui le leggi comuni della domanda e dell’offerta siano una conseguenza necessaria. Questa teoria è in armonia con i fatti e, ogni qualvolta ci si trova di fronte ad apparenti ragioni per ritenere che il lavoro sia la causa del valore, la spiegazione sta nel fatto che il lavoro determina il valore in modo indiretto, provocando una variazione del grado di utilità della merce attraverso un incremento o una limitazione dell’offerta» (W. S.

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Il marginalismo accredita dunque una speciale versione della visione utilitaristica, per cui il comportamento umano viene inteso esclusivamente quale <calcolo razionale finalizzato alla massimizzazione dell’utilità>. A tale principio viene riconosciuta validità universale: esso può da solo consentire di comprendere l’intera realtà economica.30 L’utilità di una certa quantità di un bene viene allora reputata quale soddisfacimento, cioè piacere, che un individuo consegue dal possesso di questo, possesso grazie a cui può appagare i suoi bisogni.31 Il concetto di utilità viene connesso direttamente al concetto di bisogno, intesi questi ultimi quale spiegazione del processo economico, interpretato essenzialmente come impiego di risorse scarse per il soddisfacimento dei bisogni.32 Il problema della scarsità delle risorse, specie naturali, inizia ad essere considerato dagli economisti neoclassici verso la fine dell’Ottocento, allorquando numerosi sono coloro che ritengono che in Inghilterra le miniere siano prossime all’esaurimento. Jevons giunge addirittura ad economizzare sulla carta da scrivere, al punto da lasciarne una quantità enorme ai posteri, da essi mai smaltita. La preoccupazione per la scarsità delle risorse sposta quindi l’attenzione degli economisti verso il versante della domanda, in effetti trascurato dagli economisti classici. Mentre Ricardo proclama che l’economia deve studiare i valori di scambio delle merci riproducibili, non quello delle merci scarse in natura (quadri, opere

Jevons, The Theory of Political Economy, Kelley and Millan, New York, 1957 [1ª ed. 1871]; trad. it.: Teoria dell’economia politica e altri scritti economici, Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino, 1966, pag. 35). L’interpretazione di Jevons viene comunque criticata da Marshall, che la reputa «non meno unilaterale, frammentaria e molto più ingannevole» dell’affermazione di Ricardo sul valore, interpretato dal punto di vista del costo di produzione (A. Marshall, Principles of Economics, 8ª ed., MacMillan & Co., London, 1920 [1ª ed. 1890]; trad. it.: Principii di economia, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1959, pag. 795). Secondo la posizione di Marshall la nuova analisi dell’utilità amplia semplicemente i precedenti lavori sull’analisi del costo. «Il “principio del costo di produzione” e il “principio dell’utilità finale” sono, senza dubbio, parti componenti della legge generale regolatrice della domanda e dell’offerta; ciascuna di esse può essere paragonata a una lama di un paio di forbici. Quando si tiene ferma una lama, e si taglia muovendo l’altra, possiamo dire, con una brevità non precisa, che il taglio è fatto dalla seconda lama; ma questa non è certo un’affermazione formalmente esatta» (A. Marshall, Principii di economia, op. cit., pag. 799). 30 S. Lombardini, Economia politica, op. cit., pag. 106. 31 In particolare, gli economisti neoclassici introducono il concetto di “utilità marginale”, ipotizzata decrescente all’aumentare della quantità del bene posseduto dall’individuo (A. Marshall, Principii di economia, op. cit., pag. 92). 32 S. Lombardini, Economia politica, op. cit., pag. 106.

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d’arte), i marginalisti contestano ora che tutti i beni sono scarsi rispetto alla domanda che l’uomo ne fa.33 Nell’analisi delle condizioni che assicurano l’ottima allocazione di risorse date fra usi alternativi, i marginalisti individuano dunque un principio di validità universale in grado, da solo, di rivolgersi all’intera realtà economica. «Sul lato analitico – sostiene L. Robbins34 – l’economia dimostra di essere una serie di deduzioni dal concetto fondamentale di scarsità di tempo e di materiali (…). Qui, allora, è l’unità dell’oggetto della scienza economica, le forme assunte dal comportamento umano nel disporre di mezzi scarsi». La tendenza a estendere tale principio in ogni ambito della scienza economica si è rafforzata a tal punto nel corso di questo secolo, da condurre all’affermazione di P. A. Samuelson secondo cui l’assunto essenziale alla base di un’ampia varietà di problemi economici consisterebbe in una “funzione matematica da massimizzare sotto vincoli”.35 La funzione di massimizzazione dell’utilità di un ipotetico soggetto, espressione del principio di razionalità economica, può dunque reputarsi l’essenza stessa del pensiero neoclassico, rivolta non soltanto al consumatore, ma anche all’imprenditore.36 Che si tratti di consumo o di produzione, le relazioni che il sistema marginalista incorpora sono reputate la conseguenza di un <processo di sostituzione>37. Nell’ambito del consumo esso riconosce la sostituibilità tra un paniere di beni e un altro, mentre in quello della produzione tra una combinazione di fattori e un’altra. L’analisi è condotta nei termini di 33 R. Faucci, Breve storia dell’economia politica, 2ª ed., Giappichelli Editore, Torino, 1991, pag. 175. 34 L. Robbins, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, MacMillan, London, 1932; trad. it.: Saggio sulla natura e importanza della scienza economica, Utet, Torino, 1947, pag. 15. 35 P. A. Samuelson, Foundations of Economic Analysis, Harvard University Press, Cambridge, 1947; trad. it.: Fondamenti di analisi economica, Il Saggiatore, Milano, 1973, pag. 21. L’affermazione menzionata muove da una profonda convinzione che ispira la logica di fondo dello scritto e forse impronta lo stile scientifico generale dell’Autore, secondo cui «l’esistenza di analogie fra caratteristiche fondamentali di teorie diverse implica l’esistenza di una teoria generale che si trova alla base di teorie particolari e le unifica rispetto a tali caratteristiche fondamentali» (P. A. Samuelson, Fondamenti di analisi economica, op. cit., pag. 3). 36 Il comportamento dell’imprenditore viene considerato simmetrico a quello del consumatore. Mentre quest’ultimo agisce secondo il postulato dell’utilità marginale decrescente, raggiungendo la situazione di equilibrio quando le utilità marginali dei beni consumati ponderate con i prezzi dei beni sono tutte eguali, l’imprenditore deve combinare i fattori produttivi in modo da eguagliare le produttività marginali ponderate di essi e produrre in equilibrio fino al punto in cui il costo marginale eguaglia il prezzo (R. Faucci, Breve storia dell’economia politica, op. cit., pag. 230). 37 A. K. Dasgupta, La teoria economica da Smith a Keynes, op. cit., pag. 111.

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possibilità alternative fra cui i soggetti possono scegliere. Il processo di sostituzione continua finché, date le risorse dell’economia e data la distribuzione delle attività, l’operare del mercato conduce alla massima utilità per i consumatori e alla massima produzione per i produttori.38 In un simile contesto, l’impresa viene reputata entità con un compito preciso e limitato: trasformare fattori produttivi in beni da offrire ai consumatori. L’efficienza risulta assicurata proprio dal meccanismo di mercato, in quanto la competizione, in assenza di imperfezioni, è in grado di assicurare la migliore allocazione delle risorse. Divengono pertanto di particolare interesse lo studio dei problemi di formazione del prezzo e di allocazione delle risorse. In questa visione, l’impresa viene considerata come una costruzione astratta39, una finzione logica (per la quale non risulta necessaria l’esistenza di una controparte empirica) che trasforma risorse in beni e servizi; un “robot” o un “burattino” privo di una propria volontà, il quale, perseguendo un semplice obiettivo (massimizzazione di una funzione di profitto ovvero minimizzazione di una funzione di costo), reagisce meccanicamente a cambiamenti nelle condizioni ambientali, quali la domanda e le tecniche disponibili.40 Nella teoria neoclassica della concorrenza l’<esistenza reale> dell’impresa diviene – si può dire - irrilevante. A tale riguardo, significativa è l’interpretazione di S. R. Krupp41 il quale concepisce l’impresa come “un

38 A. K. Dasgupta, La teoria economica da Smith a Keynes, op. cit., pagg. 111-112. 39 Tale “costruzione teorica” viene denominata da A. Marshall “impresa rappresentativa”. Essa è concepita dall’Autore come un operatore <normale>, che non gode di particolari vantaggi né deve affrontare particolari difficoltà. Le sue caratteristiche non possono però essere configurate sulla base dei risultati medi dell’industria di un determinato momento, in quanto tali risultati riflettono l’operare dei fattori di breve periodo oltre che di quelli che concorrono a determinare le tendenze di lungo periodo: il carattere di <normalità> dell’impresa rappresentativa si definisce infatti in relazione all’equilibrio che il processo tende a produrre nel lungo periodo (S. Lombardini, Teoria dell’impresa e struttura economica, Il Mulino, Bologna, 1973, pag. 22). Marshall ritiene inoltre che le imprese rappresentative possano esercitare, attraverso i loro costi, un notevole influsso nel soddisfacimento della domanda, tanto da assumere un ruolo rilevante nella regolazione dei prezzi in condizioni di concorrenza. Nell’impresa rappresentativa, in virtù delle spiccate attitudini dell’imprenditore, si traduce quindi l’ipotesi del costo marginale. Riconosce tuttavia Marshall che la produzione di un’impresa particolare «ubbidisce a leggi affatto diverse da quelle che controllano il movimento produttivo di un’intera industria» e che i concetti appena esposti devono essere interpretati con una certa approssimazione, poiché se si considerassero tutte le possibili situazioni della vita reale il problema diverrebbe troppo ponderoso per essere analizzato (G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, op. cit., pag. 456). 40 F. Machlup, Teorie dell’impresa: marginalista, comportamentale, manageriale, art. cit., pag. 166. 41 S. R. Krupp, “Theoretical Explanation and the Nature of the Firm”, in Western Economic Journal, Estate 1963, pag. 196.

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postulato in una ragnatela di connessioni logiche”, oppure quella di H. B. Thorelli42 allorquando scrive «è un affascinante paradosso che la teoria dell’impresa esistente, in generale supponga che l’impresa non esista». «L’impresa – reputa W. W. Cooper43 - viene rappresentata come l’atomo nella fisica classica. Non viene effettuato sforzo alcuno per analizzare la natura interna: l’atomo di per sé non è considerato come oggetto di studio». Secondo F. Machlup poi «l’impresa nel mondo della teoria microeconomica non dovrebbe richiamare nessuna irrilevante associazione con le imprese del mondo reale. (…) L’ipotetica impresa del modello è un unico cervello, un’unità di decisione individuale che altro non fa che adeguare produzione e prezzi di uno o due prodotti immaginari a dei cambiamenti, immaginari, molto semplici nei dati».44 L’impresa, come “finzione teorica” del modello di allocazione delle risorse attraverso i prezzi di mercato, astrae dunque da una nutrita varietà di caratteri delle imprese reali.45 L’ipotesi di fondo di questo approccio teoretico è che, quantomeno ai fini della predizione delle scelte e reazioni relative a prezzi e quantità di prodotto, «possono essere ricondotte ad un unico schema di comportamento tanto l’impresa agricola o la drogheria sotto casa, quanto una grande società multinazionale».46 La necessità di comprendere il funzionamento delle imprese, tra loro connesse da meccanismi di interdipendenza e di equilibrio, quindi del mercato, conduce gli economisti neoclassici allo studio e alla definizione dell’<insieme minimo di condizioni sufficienti>, in grado di garantire che la competizione possa esplicare appieno i benefici descritti dal paradigma della “mano invisibile”.47 Il primo a perseguire tale progetto è A. Cournot, nella prima metà del XIX secolo, il quale ritiene che la concorrenza operi in modo pieno e completo, allorquando il numero dei soggetti economici operanti sul mercato sia a tal punto elevato da far sì che ciascun agente economico consideri il prezzo come un parametro da lui non modificabile, a prescindere dalle quantità acquistate o vendute.

42 H. B. Thorelli, “The Political Economy of the Firm: Basis for a New Theory of Competition?”, in Sweizerische Zeitschrift für Volkwirtschaft und Statistik., 1965, pag. 249. 43 W. W. Cooper, “Una proposta di estensione della teoria dell’impresa”, in Quarterly Journal of Economics, Febbraio 1951; trad. it. in AA.VV., Contributi per un’analisi economica dell’impresa (a cura di G. Zanetti), Liguori Editore, Napoli, 1980, pag. 341. 44 F. Machlup, Teorie dell’impresa: marginalista, comportamentale, manageriale, art. cit., pag. 146. 45 C. A. Ricciardi, Teoria economica dell’impresa, 3ª ed., Edizioni Giuridico Scientifiche, Milano, 1986, pag. XX. 46 P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, Economics, 12ª ed., McGraw-Hill, New York, 1985; trad. it.: Economia, 12ª ed., Zanichelli Bologna, 1987, pag. 66. 47 C. A. Ricciardi, Teoria economica dell’impresa, op. cit., pag. XX.

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Nonostante la natura di condizione-limite della sua tesi, Cournot ritiene esplicitamente che «questa ipotesi si realizza nell’economia sociale per una quantità di produzioni e per le produzioni principali».48 L’iniziale intuizione di Cournot viene poi accolta completamente nel concetto neoclassico di concorrenza perfetta, definita appunto come la situazione nella quale gli agenti economici, nella formulazione dei problemi di scelta, assumono i prezzi come dati (price-taking behavior). La concorrenza dunque viene concepita unicamente come meccanismo in grado di condurre all’equilibrio dei mercati (e del sistema), e quindi alla migliore utilizzazione delle risorse. Secondo questa interpretazione, il mercato viene reputato essenzialmente quale meccanismo di distribuzione delle risorse tra molteplici utilizzi alternativi: sua funzione precipua diviene assicurare la massima efficienza nell’utilizzazione corrente delle stesse. Il processo economico è dunque finalizzato al perseguimento di obiettivi di massimizzazione riferiti ad un particolare momento di tempo. Per gli economisti marginalisti l’equilibrio concorrenziale (uniperiodale) non soltanto rappresenta la situazione normale dell’economia, ma anche una struttura ottima del sistema economico nel senso di Pareto.49 Il mantenimento del regime di concorrenza costituisce un problema importante per i marginalisti, problema che appare alquanto problematico in regime di rendimenti crescenti. Osserva ad esempio V. Pareto che «se il costo dell’unità della merce andasse continuamente diminuendo di mano in mano che la quantità prodotta aumenta, vi sarebbe vantaggio che la produzione di tutta la merce fosse concentrata in un'unica impresa». Ma a coloro che affermano questa possibilità Pareto obietta che non sono state sufficientemente considerate le difficoltà del governo delle grandi imprese: queste difficoltà sono tali che in genere ogni impresa ha un certo limite al di là del quale il costo dell’unità di prodotto cresce anziché decrescere.50 La stabilità del regime concorrenziale51 è anche per A. Marshall assicurata dai limiti posti allo sviluppo dell’impresa, determinati tuttavia non tanto

48 M. Grillo, F. Silva, Impresa, concorrenza e organizzazione, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1989, pag. 78. 49 Si tratta di una struttura in cui non risulta possibile migliorare la situazione di un individuo senza peggiorare quella di almeno un altro individuo. 50 V. Pareto, Corso di economia politica, vol. II, Utet, Torino, 1943, pag. 97. 51 «Quando la domanda e l’offerta sono in equilibrio stabile, se per qualsiasi motivo la scala della produzione viene spostata dalla sua posizione di equilibrio, entreranno subito in azione forze tendenti a riportarla in quella posizione; allo stesso modo che, quando una pietra sospesa ad una corda viene allontanata dalla sua posizione di equilibrio, la forza di gravità tende subito a ricondurvela» (A. Marshall, Principii di economia, op. cit., pag. 329). Il processo di aggiustamento menzionato non opera tuttavia così rapidamente come ipotizzato, in quanto i dati che caratterizzano il sistema economico in qualsiasi istante

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dalle diseconomie interne che comportano il superamento di certi livelli dimensionali, quanto dalle ridotte capacità imprenditoriali che di norma si osservano in coloro che succedono al fondatore dell’impresa stessa. Le imprese sono per Marshall come gli alberi di una foresta, alcune sono ancora nella fase di crescita, altre sono nella fase di declino; l’<impresa rappresentativa> appare così caratterizzata da un ben definito limite dimensionale. L’intrecciarsi di considerazioni dinamiche (trattate con analogie biologiche) con l’analisi dell’equilibrio uniperiodale appare così sempre più evidente.52 Nell’analisi dell’equilibrio generale la struttura dell’impresa risulta determinata univocamente dalle condizioni di equilibrio di tutte le imprese e di tutti i consumatori, quindi di tutti i mercati. La realtà economica viene presentata come un insieme di atti di scambio e di produzione compiuti da una molteplicità di individui, ciascuno dei quali sceglie fra diverse possibili alternative. Scopo dell’analisi diviene allora la spiegazione delle azioni degli agenti, cioè delle scelte compiute, ossia delle quantità di produzione e di scambio.53 Un ruolo precipuo in tale analisi è attribuito alla teoria dei prezzi. Per comprendere, in effetti, come le azioni dei soggetti che si comportano in maniera atomistica vengano tra loro coordinate dal mercato dando luogo a un ordine economico, occorre denotare che i prezzi sono determinati in modo tale da rendere vantaggiose per ciascun individuo proprio le attività e

decisionale tendono a mutare gradualmente e lentamente, di conseguenza il processo di aggiustamento dei segnali e dei piani procede “per tentativi ed errori” e richiede tempo. Secondo Marshall la presunzione di stazionarietà dei dati nel tempo “reale” si configura quale ipotesi teorica, indispensabile per studiare la tendenza del sistema economico verso l’equilibrio (cosiddetto “equilibrio stazionario”), dunque una “finzione” che non trova esatta conferma «nel mondo in cui viviamo». La nozione marshalliana si differenzia da quella di “equilibrio istantaneo” utilizzata da Walras e Pareto, secondo i quali il processo di aggiustamento all’equilibrio che si manifesta nei sistemi economici reali risulta invece particolarmente rapido; in tal modo diviene possibile “giustificare” l’impiego di un modello di equilibrio istantaneo per spiegare e prevedere lo stato osservato e osservabile di un sistema reale in un dato periodo decisionale (F. Donzelli, Il concetto di equilibrio nella teoria economica neoclassica, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1986, pagg. 154-156). 52 S. Lombardini, Teoria dell’impresa e struttura economica, op. cit., pag. 20. 53 La spiegazione può essere ottenuta attraverso un sistema di relazioni che connettono le azioni fra loro e con grandezze esogene non spiegate dalla teoria. Queste relazioni sono basate su tre ipotesi fondamentali: a) ipotesi di razionalità, ossia l’esistenza di un criterio di scelta per ciascun agente; b) ipotesi di compatibilità, ossia l’esistenza di una regola sulle interazioni degli agenti; c) ipotesi di simultaneità, ossia l’irrilevanza dell’ordine temporale delle azioni e dei loro scarti temporali nell’ambito del periodo di tempo in esame (A. Montesano, “La struttura logica della teoria dell’equilibrio economico generale”, in Giornale degli economisti e annali di economia, 1982, pag. 431).

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le iniziative che soddisfanno in modo efficiente i suoi bisogni, al fine quindi da eguagliare la domanda all’offerta.54 Nell’analisi dell’equilibrio economico generale, in particolare, L. Walras concepisce un sistema di mercati interdipendenti, tali che ogni variazione in ciascuno di essi conduca a modificazioni nelle condizioni di equilibrio degli altri. Il mercato risulta in realtà costituito da quattro sub-mercati:55 quello dei beni di consumo finali rappresentato dal sistema delle equazioni di scambio; quello dei servizi produttivi (o fattori di produzione) con il sistema delle equazioni di produzione; quello dei beni capitali, con le equazioni della capitalizzazione; e quello della moneta, con le equazioni della circolazione. I dati sono rappresentati dai gusti dei consumatori, espressi da funzioni individuali di utilità; dalle quantità di capitali (fondiari, mobiliari, personali) disponibili; dalle tecniche produttive. Le incognite sono quantità di beni prodotti e scambiati e i prezzi di equilibrio. Condizione essenziale è che il numero delle equazioni deve essere pari al numero delle incognite. Il valore del procedimento di Walras risulta tuttavia essenzialmente logico, in quanto egli non intende certo risolvere le numerosissime equazioni rappresentate dagli scambi del mondo reale.56 Il modello neoclassico appare caratterizzato da un’irrefutabile validità dal punto di vista teoretico, contraddistinto com’è da una stretta connessione causa-effetto tra risultati conseguiti e ipotesi-base. Tuttavia, come osserva G. Zappa, «gli schemi nei quali hanno avuto diverse configurazioni le teorie dell’equilibrio della produzione d’impresa non possono essere accolti in una dottrina economica di azienda, che per approssimazioni voglia farsi sempre più vicina alla mutevole realtà».57 «Le concezioni dell’equilibrio statico e le ipotesi altamente astratte dalle quali sono fatte plausibili – continua Zappa58 - male possono adattarsi alla molteplicità di andamenti difformi e nel tempo mutevoli, resi necessari dal continuo cangiare delle condizioni d’impresa e di mercato. Nella produzione d’impresa, gli schemi sommamente astratti caratteristici dell’equilibrio 54 S. Zamagni, Economia Politica, 3ª ed., La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1990, pag. 626. 55 R. Faucci, Breve storia dell’economia politica, op. cit., pagg. 188-189. 56 R. Faucci, Breve storia dell’economia politica, op. cit., pag. 189. «Supponiamo che nessun ulteriore progresso della scienza consenta di introdurre e di far figurare le cause perturbatrici nelle equazioni dello scambio e della produzione (…), queste equazioni riconducono egualmente alla regola generale e superiore della libertà della produzione. La libertà procura, in certi limiti, il massimo di utilità; dunque le cause che la disturbano sono un impedimento a questo massimo e qualunque possano essere, bisogna sopprimerle il più possibile» (L. Walras, Éléments d’économie politique pure ou théorie de la richesse sociale, édition définitive, R. Pichon et R. Durant-Auzias, Paris, 1952 [1ª ed., 1874-1877]; trad. it.: Elementi di economia politica pura, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1974, pagg. 361-362). 57 G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, op. cit., pag. 454. 58 G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, op. cit., pagg. 449-452.

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economico, non possono essere accolti nemmeno come ipotetica espressione di una profonda tendenza verso l’equilibrio, dalla quale sarebbero mossi tutti gli elementi del sistema economico d’azienda, quando si scostassero dalle supposte condizioni statiche. In nuove parole l’equilibrio d’impresa, quando fosse accettato per astrazione di prima approssimazione, non potrebbe mai essere ravvicinato alla dinamica e sempre turbata realtà nemmeno in ulteriori approssimazioni consecutive. (…) Il reale sistema dell’economia produttiva, infatti, non posa mai in statiche condizioni di equilibrio: esso è sempre instabile e perturbato. Le trasformazioni e le modificazioni, pur dei tempi meno sconvolti, non mai adducono a posizioni superate o a nuove posizioni statiche». Di conseguenza, «la nozione di impresa neoclassica, assolutamente astratta, sarebbe destinata alla sola costruzione di teorie proprie dell’economia pura».59 «Confondere l’impresa come costruzione teoretica con l’impresa come concetto empirico - osserva F. Machlup60 - ossia confondere una finzione euristica con una organizzazione reale, significa commettere l’errore di concretezza male applicata. Questo errore consiste nell’utilizzare dei simboli teorici come se avessero un significato concreto, diretto e osservabile». Se tale affermazione fa giustizia di generalizzazioni inesatte, tuttavia presenti (anche dopo quarant’anni) in non pochi testi-base di economia politica, essa peraltro qualifica sì di finta, ma anche di euristica, la teoria ricordata. E sul punto occorrerebbe allora interrogarsi su quale possa risultare il traguardo euristico se l’apriorismo più o meno assiomatico non è né generalizzazione né semplificazione né limitazione della realtà, bensì antitesi di essa. Interrogarsi in sostanza su come il deduttivismo <euristico> si sia evoluto in un irrealismo tale da risultare irrazionalismo. Per quanto concerne l’economia aziendale, il problema si pone comunque diversamente. Osservano infatti A. Canziani e C. Masini61 che «l’impianto teorico della concorrenza perfetta si manifesta quale struttura idealmente tipica delle economie pre-capitalistiche, o ancora quale invenzione irrealistica, inutile e anzi dannosa per comprendere e orientare le realtà economiche moderne». In effetti, l’analisi neoclassica si occupava prevalentemente di un mondo puramente concorrenziale, statico, caratterizzato dal pieno impiego, un mondo che in realtà non è mai esistito, e che certamente non esisteva

59 G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, op. cit., pag. 460. 60 F. Machlup, Teorie dell’impresa: marginalista, comportamentale, manageriale, art. cit., pag. 145. 61 A. Canziani, C. Masini, “L’economicità delle imprese di settori oligopolistici”, in AA.VV., Scritti in onore di Luigi Guatri, Edizioni Bocconi Comunicazione, Milano, 1988, pag. 253.

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neppure agli inizi del secolo. Considerando per esempio l’economia degli Stati Uniti di quel periodo, essa si manifesta vibrante, vitale, in piena crescita. Il processo di sviluppo tende ad esaltarsi sia per l’accelerazione che si verifica nella crescita della domanda dei nuovi beni, sia per la reazione degli investimenti che risulta amplificata. L’espansione continua e gli utili crescenti incoraggiano aspettative ottimistiche che la speculazione di Borsa tende ad alimentare. 62 La costruzione delle grandi ferrovie, l’aumento della popolazione, l’espansione della frontiera verso occidente creano un enorme mercato nazionale in cui nulla appare statico. L’economia risulta colma di imperfezioni. È l’epoca dei “capitani d’industria”, uomini come Vanderbilt, Morgan, Fisk, Gould e Rockefeller, altrimenti denominati <Baroni ladri> dalla letteratura polemica. La fondazione nel 1901 della United States Steel Corporation - gigantesco raggruppamento di quasi tutte le imprese statunitensi dell’acciaio con un capitale di un miliardo e mezzo di dollari - è, a suo modo, un evidente esempio delle tendenze di quei tempi. Lungi dall’essere una ridotta impresa concorrenziale corrispondente agli impersonali dettami del mercato, la United States Steel Corporation diviene una realtà economica di enormi dimensioni, dominante una delle più ampie e vitali industrie di una moderna economia in espansione. In questi anni si accentua dunque la tendenza già in atto alla concentrazione, e si afferma un sistema economico imperniato appunto sulle cosiddette corporations, raggruppanti numerose imprese dello stesso settore o di settori collegati.

62 Anche la situazione economica italiana, seppure non paragonabile a quella statunitense, risulta caratterizzata da un’interessante crescita. Tra il 1896 e il 1914 la produzione industriale italiana si sviluppa con un incremento medio del 12% annuo, nonostante la grave crisi del 1907. Certo, l’Italia rimane un paese essenzialmente agricolo, se si considera che alla fine dell’età giolittiana l’agricoltura rappresenta il 45% del prodotto nazionale e l’industria il 25%: la struttura economica italiana sta comunque mutando. Nel caso italiano non si tratta, come ad esempio in quello inglese, di una lenta e graduale trasformazione dell’economia da agricolo-artigianale in industriale, ma diviene necessario forzare i tempi per raggiungere i livelli già conseguiti dalle altre nazioni industrializzate. E ciò comporta la costituzione di imprese di dimensioni rilevanti, che conferiscono una tendenza oligopolistica ai diversi comparti industriali fin dal loro sorgere. A trainare lo sviluppo sono soprattutto tre grandi settori: il metallurgico, il meccanico e il chimico, in misura minore il tessile e l’alimentare. Nel settore metallurgico e siderurgico, dal quale dipende lo sviluppo di rami industriali ulteriori, si possono individuare alcune importanti società, come la Terni, la Ilva, la Società Piombino, collegate tra loro e agenti in un regime pressoché monopolistico. Ad esse si aggiunga il boom delle fabbriche di automobili, capeggiate dalla Fiat (sorta nel 1899), nonché lo sviluppo delle società di costruzioni navali (Ansaldo), di cotonifici e di zuccherifici, favoriti dal protezionismo e dagli aiuti statali, aventi anch’essi la tendenza alle concentrazioni (G. Gualerni, Lo Stato industriale in Italia 1890-1940, Etas Libri, Milano, 1982, pagg. 5-18).

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La concorrenza, lungi dal conformarsi alla teorizzazione paretiana, ricorda piuttosto la lotta per l’esistenza caratterizzante il processo di selezione darwiniano: essa tende quindi a produrre imprese che detengono un notevole potere economico. Nei paesi in cui il processo di industrializzazione avviene in ritardo, poi, le tecnologie che in seguito al progresso sono state ormai acquisite richiedono unità produttive di dimensioni rilevanti, superiori a quelle che può porre in essere un singolo capitalista. L’invenzione e la diffusione dei nuovi tipi di società (anonima) in cui tutti i soci hanno una responsabilità limitata, e la capacità di rilevanti istituti bancari e finanziari di convogliare capitali verso imprese da essi più o meno direttamente controllate, consentono dunque l’affermarsi ab initio di imprese che non corrispondono certamente al modello astratto del price taker.63 Allorquando poi, a muovere dal primo dopoguerra, grazie all’evoluzione tecnologica e all’enorme ampliamento dei mercati che accompagnano la prima metà del secolo divengono importanti gli aspetti dello sviluppo delle aziende, gli stessi economisti si rivolgono con maggiore attenzione ai problemi dell’impresa e della concorrenza. Diviene allora palese – almeno per i più avvertiti fra essi - la non utilizzabilità dell’apparato teorico neoclassico ai fini di una rappresentazione realistica del mondo industriale. Un primo deciso attacco dal punto di vista teoretico al marginalismo viene mosso da P. Sraffa con due articoli pubblicati nel 1925 e nel 1926, cui si aggiungono, nel 1933, gli importanti contributi di E. H. Chamberlin e J. Robinson (di cui si discuterà nelle pagine successive). Con questi ultimi viene introdotto formalmente il concetto di un prodotto che, lungi dal presentarsi standardizzato, si contraddistingue per la varietà. La varietà produce come conseguenza immediata la discrezionalità dell’impresa nella definizione del prezzo: essa diviene dunque price-setter e non price-taker. Nel 1939, poi, viene pubblicato sull’Oxford Economic Papers un saggio di R. L. Hall e C. J. Hitch dal titolo Price Theory and Business Behaviour il quale, pur non prospettando alcun approccio teorico alternativo, rappresenta una prima seria critica, proveniente dal fronte empirico, alla teoresi neoclassica. Lo studio contiene alcuni risultati di una ricerca svolta a Oxford, mirante a indagare il processo decisionale delle imprese a fronte di specifiche misure governative. Sulla base di un campione di 38 imprese, gli Autori giungono alla conclusione che gli imprenditori non cerchino di massimizzare gli utili rispettando l’eguaglianza tra costo e ricavo marginale, né mirino alla massimizzazione tout court degli stessi. Piuttosto, essi si

63 S. Lombardini, I problemi della politica economica, Utet, Torino, 1977, pag. 25.

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comporterebbero sulla base di una regola denominata “costo pieno”64, che conduce a risultati diversi da quelli contemplati dalla teoria tradizionale.65 Sempre nel 1939, l’economista americano P. M. Sweezy elabora un modello teorico per spiegare il motivo per cui il prezzo dei prodotti scambiati nei mercati oligopolistici tenda a rimanere rigido, non muovendosi secondo quanto previsto dalla teoria tradizionale. Sweezy ritiene che, agendo in un mercato ristretto, l’impresa oligopolistica debba tener conto delle possibili reazioni dei rivali a variazioni di prezzo dei prodotti. Nell’ipotesi di riduzione del prezzo, si potrebbe presumere un’imitazione da parte dei concorrenti, mentre nell’ipotesi di aumento questi ultimi non avrebbero motivo per uniformarsi. Consegue che la curva di domanda della singola impresa risulta elastica agli aumenti di prezzo e rigida alle riduzioni, presentando così un <punto angoloso>66 in corrispondenza del prezzo corrente (cosiddetta curva “a gomito” o “spezzata”).67 64 Il costo pieno è determinato aggiungendo al costo primo una percentuale per la copertura delle spese generali (costi indiretti), quindi una somma ulteriore a titolo di utile (R. L. Hall, C. J. Hitch, “Theory and Business Behaviour”, in Oxford Economic Papers, n. 2, 1939; trad. it.: “Teoria del prezzo e comportamento dell’impresa”, in AA.VV., Contributi per un’analisi economica dell’impresa, op. cit., pag. 273). 65 L’applicazione della regola neoclassica di determinazione del prezzo implica una notevole mutabilità di quest’ultimo: qualsiasi variazione, seppure modesta, nelle condizioni di costo o di domanda conduce a un mutamento di prezzo. Hall e Hitch dimostrano come ciò possa venire contraddetto dall’evidenza empirica, che indica una tendenza alla rigidità dei prezzi delle imprese manifatturiere. Scrivono gli Autori: «I prezzi così definiti hanno la tendenza a rimanere stabili. Si modificheranno se vi sarà un mutamento significativo nei costi di lavoro o delle materie prime, ma non in risposta a variazioni moderate o temporanee di domanda». (R. L. Hall, C. J. Hitch, “Teoria del prezzo e comportamento dell’impresa”, op. cit., pag. 287). 66 P. M. Sweezy, “Domanda in regime di oligopolio”, in Journal of Political Economy, vol. 48, 1939, in AA.VV., Contributi per un’analisi economica dell’impresa, op. cit., pag. 235. 67 Due sono gli insegnamenti desumibili dal lavoro di Sweezy. Il primo concerne il risultato empirico secondo cui ciascun oligopolista, singolarmente considerato, si dimostra restio a mutare il prezzo, anche se le condizioni di costo dell’impresa mutano. Ciò contraddice la teoria neoclassica secondo cui variazioni anche minime dei costi comporterebbero sempre, attraverso la regola che impone l’eguaglianza tra costo marginale e ricavo marginale, variazioni di prezzo. Il secondo insegnamento concerne l’inapplicabilità, a livello teoretico, della logica marginalista al mercato oligopolistico. Poiché infatti per ciascun livello di prezzo corrente esiste una diversa curva spezzata del ricavo marginale, non risulta possibile conoscere quest’ultima senza prima conoscere il prezzo applicato dall’impresa. Una volta definito il prezzo ad un certo livello, la curva di domanda si presenterebbe come spezzata proprio in corrispondenza di quel livello, e di conseguenza la curva del costo marginale si troverebbe a passare per il tratto di discontinuità del ricavo marginale. In altro modo, se la curva del costo marginale passasse altrove, il prezzo muterebbe. In corrispondenza del nuovo prezzo si formerebbe di nuovo una curva di domanda a gomito e si ricreerebbe così la discontinuità del ricavo marginale. In tali condizioni la regola dell’eguaglianza tra costo e ricavo marginali perde qualsiasi significato (P. M. Sweezy, “Domanda in regime di oligopolio”, op. cit., pag. 236).

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Sulla scia di questi contributi si inserisce un insieme variegato di Autori che, provenendo da esperienze diverse e con intenti differenti, risultano accomunati, da un lato dalla non accettazione del pensiero neoclassico, dall’altro dall’obiettivo di dare una fondazione teoretica ai risultati empirici del “gruppo di Oxford”. In effetti, a muovere dal 1939 il principio del costo pieno viene caratterizzato da numerosi sviluppi teorici. Nei lavori di J. Steindl (1952), J. K. Galbraith (1952), P. Sylos Labini (1957), R. Neild (1963), P. W. S. Andrews (1964), M. Kalecki (1971), R. Eichner (1976), J. Kregel (1976), S. Moss (1984) e altri ancora, vi è il convincimento che, né variazioni della domanda né condizioni di scarsità giochino un ruolo importante nella spiegazione dei movimenti dei prezzi dei prodotti. Il comportamento di prezzo della moderna impresa sarebbe infatti il risultato del mutamento strutturale e istituzionale dell’economia capitalistica a muovere dall’inizio del secolo. Fenomeni quali concentrazioni, barriere all’entrata e all’uscita, collusioni, tenderebbero a interrompere il meccanismo competitivo descritto dalla teoria tradizionale, con il risultato di una mancata rispondenza dei prezzi agli scarti tra domanda e offerta. Per gli Autori post-keynesiani i prezzi sarebbero dunque determinati dal costo di produzione corrispondente ad un tasso normale di utilizzo della capacità produttiva e da un mark-up da aggiungersi ai costi. A questo punto, interessante può reputarsi l’individuazione dei fattori dai quali fare dipendere la definizione del mark-up. Secondo M. Kalecki, il diverso grado di concentrazione esistente tra i molteplici settori determinerebbe la diversità dei mark-up tra gli stessi, mentre la difforme distribuzione di potere tra le imprese di un settore ne costituirebbe la spiegazione della formazione all’interno di un medesimo settore. Muovendo da un’analisi di equilibrio parziale a livello di settore68, supponendo che l’impresa operi ad un livello inferiore alla piena capacità produttiva, che i costi primi (costo dei materiali e salari) per unità di prodotto si mantengano stabili quando la produzione varia, e che il livello effettivo dei costi costanti non influenzi direttamente la determinazione del prezzo, Kalecki giunge all’individuazione dei fattori dai quali far dipendere

68 L’analisi di equilibrio parziale a livello di settore viene effettuata da Kalecki supponendo che l’imperfezione del mercato, e quindi il <grado di monopolio>, possa venire reputata costante nell’ipotesi in cui l’elasticità della domanda per il prodotto di ogni singola impresa costituisca una data funzione del rapporto fra il suo prezzo e il prezzo medio del settore (Cfr. A. Chilosi, Kalecki. Antologia di scritti di teoria economica, Il Mulino, Bologna, 1979, pagg. 25-26).

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la definizione del prezzo per l’impresa: a) la media dei suoi costi primi; b) i prezzi applicati delle imprese concorrenti.69 L’impresa dovrebbe assicurarsi, né un prezzo eccessivamente elevato rispetto ai prezzi delle concorrenti per evitare la contrazione delle vendite, né inferiore rispetto alla media dei suoi costi primi, per impedire la riduzione degli utili. Così, allorquando il prezzo p viene determinato in rapporto al costo primo unitario u, diviene necessario un rapporto contenuto tra e , prezzo medio ponderato di tutte le imprese70. Se u aumenta, si può incrementare p in proporzione se anche si accresce in proporzione; ma se aumenta meno di u, anche il prezzo dell’impresa p dovrà venire accresciuto in misura inferiore a u. Queste condizioni risultano pertanto soddisfatte dalla formula:71

ppp

p

pnmup +=

nella quale tanto m che n costituiscono coefficienti positivi. Questi coefficienti, che caratterizzano la politica di definizione del prezzo da parte dell’impresa operante in concorrenza imperfetta, riflettono il grado di competitività dell’economia, o meglio, ciò che Kalecki definisce <grado di monopolio>.72 L’Autore ritiene che i fattori che modificano il <grado di monopolio>73 (e quindi il mark-up dei prezzi sui costi) possano venire individuati a) nel

69 M. Kalecki, Selected Essays on the Dynamics of the Capitalist Economy 1933-1970, Cambridge University Press, London, 1971; trad. it.: Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1975, pagg. 56-57. 70 Ponderato secondo le quantità prodotte da ciascuna impresa, comprendendo l’impresa in questione. 71 M. Kalecki, Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, op. cit., pag. 57. 72 M. Kalecki, Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, op. cit., pag. 57. L’equazione costituisce una rappresentazione della formazione del prezzo semimonopolistica. Elasticità dell’offerta e stabilità dei costi primi unitari (entro le dimensioni della produzione assunte in considerazione) risultano incompatibili con la concorrenza perfetta poiché, qualora operasse quest’ultima, l’eccedenza del prezzo p al di sopra dei costi primi unitari u indurrebbe l’impresa ad espandere la produzione fino alla massima capacità. Ogni impresa dovrebbe quindi operare in condizioni di capacità massima, e il prezzo verrebbe innalzato al livello che pone in equilibrio domanda e offerta (M. Kalecki, Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, op. cit., pagg. 57-58). 73 La teorizzazione del <grado di monopolio>, già presente in Marx e negli economisti sui seguaci antecedenti Kalecki, può essere fatta genericamente risalire al background scientifico-culturale del pensatore polacco, sul quale ebbe importante rilevanza proprio il pensiero economico di ispirazione marxista, e di Rosa Luxemburg e Tugan-Baranowsky in particolare. Reputato dapprima quale “discepolo, diffusore critico, contributore” della General Theory di J. M. Keynes, dal 1951 si inizia con L. R. Klein un processo di ri-collocazione prima, e di rivalutazione poi del pensiero di Kalecki, che prosegue da allora

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processo di concentrazione industriale, b) nel ricorso alla promozione delle vendite e all’abbandono del prezzo come strumento competitivo, per l’adozione di altri elementi del marketing-mix (pubblicità, promotion, etc.), c) nei mutamenti del livello dei costi costanti in rapporto ai costi primi, d) nell’intensità della forza dei sindacati operai; si tratta di fattori che consentono all’impresa l’accrescimento del potere di mercato e quindi la definizione di prezzi superiori.74 La nozione di <grado di monopolio> appare di particolare rilievo, sia perché testimonia una soluzione di continuità nel movimento di “concorrenzialità perfetta”, sia perché costituisce, nell’ambito delle teoriche kaleckiane, un fulcro su cui sono imperniate la teorie del pricing, la teoria delle forme di mercato, e, almeno parzialmente, la teoria della distribuzione.75 Attraverso l’abbandono dell’antica ipotesi (implicitamente ed esplicitamente diffusa) di “concorrenza perfetta”, e l’adozione anzi di un campo di movimento di “concorrenza imperfetta”, l’Autore riesce a raggiungere congiuntamente i seguenti finalismi: a) formulazione di un’autodefinita teoria del pricing, valida per tutte le imprese di tutti i settori, e basata appunto sulla nozione di <grado di monopolio>; b) collegamento funzionale – quindi – di pricing e teoria competitiva; c) determinazione di una teoria distributiva – peraltro di breve periodo – così congeniata: esistenza di un collegamento diretto fra tasso di ricarico sui costi primi di un settore e quota dei salari rispetto al valore totale del prodotto di quel medesimo settore; procedimento aggregativo da una singola industria a tutte le industrie manifatturiere e, infine, all’insieme dei settori economici.76 La letteratura post-keynesiana ha posto in evidenza fattori ulteriori, oltre al <grado di monopolio>, che consentono la determinazione del mark-up, tra i

con alcuni esponenti della scuola di Cambridge, tra i quali soprattutto Joan Robinson. «Ecco allora svilupparsi un’attenzione prima, un’analisi poi, ed un’influenza infine, delle teoriche marxiste, di cui Kalecki è sostanzialmente esponente». Ecco allora assistere alla riduzione progressiva dell’importanza di Keynes ed alla contemporanea esaltazione dell’economista polacco, che viene ora inquadrato non più come discepolo o brillante propagatore, bensì come «scopritore indipendente, anticipatore, ed infine ideatore originale di una versione migliore e più completa della General Theory. (…) E dunque il riconoscimento dell’importanza di Kalecki come precursore di Keynes nell’intuire e nell’ideare il corpus della General Theory, come realizzatore di un modello più completo, coerente e dinamico» (A. Canziani, “Sulle teoriche di Kalecki, e sui rapporti delle stesse con l’analisi keynesiana”, in Giornale degli Economisti e Annali di Economia, novembre-dicembre 1977, pagg. 741-772). 74 M. Kalecki, Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, op. cit., pagg.62-63. 75 A. Canziani, “Sull’origine e la formazione del pensiero di Kalecki”, in AA.VV., Studi di Statistica e di Economia in onore di Libero Lenti, vol. II, Giuffrè Editore, Milano, 1979, pag. 69. 76 A. Canziani, “Sull’origine e la formazione del pensiero di Kalecki”, op. cit., pagg. 68-69.

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quali “gli investimenti”, come suggerito da A. S. Eichner in The Megacorp and Oligopoly. L’idea di reputare gli investimenti quale fattore cruciale per la definizione del mark-up, e quindi del prezzo, – variabile quest’ultima altrettanto importante nella teoria keynesiana della domanda aggregata – consente ad Eichner di porre le basi per una micro-fondazione della teoresi macroeconomica keynesiana e post-keynesiana. Muovendo dal presupposto che obiettivo dell’impresa non debba essere la massimizzazione degli utili nel breve periodo bensì la crescita nel lungo periodo, Eichner ritiene77 che il prezzo costituisca una funzione - nell’ipotesi di costi costanti - del tasso di crescita degli investimenti; cioè, i prezzi verrebbero definiti al fine di garantire i fondi, internamente generati, necessari a finanziare il desiderato tasso di espansione del capitale dell’impresa. Il mark-up dipenderebbe quindi dalla domanda e dall’offerta di fondi per gli investimenti delle imprese price-setting o <megacorpo>78, secondo la definizione dell’Autore. La decisione di prezzo pertanto sarebbe strettamente connessa al processo di accumulazione del capitale: questa connessione costituirebbe la caratteristica principale del comportamento competitivo dell’impresa <megacorpo>, impresa che detiene un certo potere di mercato. Quest’ultima, in particolare, potrebbe aumentare i prezzi, quindi il mark-up, al fine di accrescere i fondi necessari a garantire la propria espansione interna, come evidenziato dalla relazione:79

∆P = f (Di, Si) ove ∆P indica la variazione nei prezzi, Di la domanda per investimenti e Si l’offerta di fondi. Ne consegue che l’analisi delle decisioni di prezzo richiederebbe in via preliminare la conoscenza di Di e Si. II. Verso il riconoscimento fenomenologico: per un approccio realistico

ai problemi della domanda e dell’offerta. L’accusa di carenza di realismo al pensiero neoclassico viene mossa da numerosi economisti che, nel corso degli anni, tentano di apportare una maggiore concretezza alla struttura della teoria economica. Alcuni di essi rifiutano categoricamente la teoria marginalista, altri cercano di modificarla, ed altri ancora si collocano in una posizione intermedia. 77 A. S. Eichner, The Megacorp and Oligopoly, Cambridge University Press, Cambridge, 1976, pag. 56 78 Il <megacorpo> risulta definito da tre caratteristiche: a) separazione fra proprietà e controllo; b) struttura tecnologica con attività multi-impianto e con coefficienti fissi (che determinano curve di costo medio e marginali costanti); c) interdipendenza fra imprese appartenenti al medesimo settore (A. S. Eichner, The Megacorp and Oligopoly, op. cit., pag. 19). 79 A. S. Eichner, The Megacorp and Oligopoly, op. cit., pag. 65.

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Comune ad essi è la convinzione che esista un “pericoloso” vuoto tra la teoria e la realtà economica. Nel seguito si esporranno alcune delle critiche ritenute particolarmente significative per il presente lavoro, ad opera di Veblen, Schumpeter, Sraffa, Chamberlin e la Robinson. II.1 Veblen e l’homo faber. Una delle critiche più radicali è senza dubbio quella di T. Veblen80 il quale, contestando i postulati edonistici della teoria tradizionale, respinge il concetto di homo oeconomicus, sostituendolo con quello di homo faber, contraddistinto da una “spinta a fare” che dà luogo ad un'accumulazione di abitudini mentali ed operative in costante processo di trasformazione, nei confronti sia dell’ambiente sia degli stessi individui agenti. In questo senso, il gruppo e il comportamento di gruppo (valori, abitudini, interessi, norme più o meno esplicite) sono per Veblen determinanti.81 Egli ritiene che la concezione dell’uomo come massimizzatore razionale di utilità, o come «brillante calcolatore di piaceri e dolori, che oscilla come un globulo omogeneo di desiderio e felicità sotto l’impulso di stimoli che lo spingono lasciandolo intatto» non solo costituisca cattiva psicologia ma sia anche priva di consistente formulazione.82 Veblen reputa inoltre che il consumo non possa venire considerato soltanto l’espressione di un comportamento economico condotto con maggiore o minore razionalità. Piuttosto che da un sistema di bisogni individuali, il consumo dipende allora dalla struttura socio-culturale in cui l’individuo è inserito. Questa, ponendo la ricchezza alla base della reputazione e della stima, induce l’individuo ad ostentare il proprio status attraverso la “agiatezza vistosa” e il “consumo vistoso”.83

80 T. Veblen, The theory of the leisure class, MacMillan, New York, 1899; trad. it.: La teoria della classe agiata, Einaudi, Torino, 1959. 81 F. Ferrarotti, “Introduzione” in Opere di Thorstein Veblen, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1969, pag. 26. 82 R. Gill, Il pensiero economico moderno, op. cit., pag. 98. 83 L’agiatezza vistosa riguarda tutto il tempo che l’individuo consuma e spreca in attività non produttive e che, pertanto, è altamente onorifico. Essa viene resa pubblica tramite le buone maniere, l’educazione raffinata, il cui apprendimento presuppone necessariamente una disponibilità notevole di tempo. Il consumo vistoso, invece, consiste nello spreco dimostrativo di beni. L’agiatezza e il consumo assumono una legittimazione etica e divengono segni di distinzione: la parsimonia e l’oculatezza dello spendere, che prima equivalevano a virtù, sono considerati adesso moralmente riprovevoli e sinonimo di avarizia (G. Fabris, Sociologia dei consumi: testi e documenti, Ulrico Hoepli Editore, Milano, 1971, pag. 28).

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Avendo la civiltà industriale generato un ampio margine al di sopra della sussistenza per tutte le classi, specialmente per le classi elevate, il consumo più che funzionale al soddisfacimento di desideri materiali diviene allora uno strumento per la formazione di distinzioni “generatrici d’invidia” fra persone e classi.84 L’Autore pone dunque al vertice della piramide sociale, frutto della stratificazione della società, la “classe agiata”, che funge da modello referenziale per tutte le altre; ciascuna classe, a sua volta, si pone come sistema di riferimento per le sottostanti. I consumi quindi, si manifesterebbero dapprima presso la classe agiata e, successivamente, discenderebbero lungo tutta la gerarchia sociale sino a raggiungere i livelli inferiori. Allorché un certo bene divenisse appannaggio delle classi inferiori, non sarebbe più rappresentativo di un dato livello di ricchezza, e sarebbe perciò rapidamente abbandonato almeno nella sua reputazione connotativa: il possesso da parte delle classi sociali inferiori lo avrebbe ormai svilito.85 Veblen respinge poi la concezione dell’uomo d’affari efficiente e competitivo. Egli ritiene che l’uomo d’affari, ignorando i processi industriali, sia completamente impegnato nelle manipolazioni pecuniarie e nel “sabotaggio capitalistico”. Il suo scopo principale diviene il lucro, non producendo a costi minori i beni più richiesti e utili alla comunità, bensì approfittando delle strozzature produttive da lui stesso provocate e dalla penuria relativa di beni così ottenuta. La sua non è più la “logica della produzione” ma il “capriccio della speculazione”.86 L’ultima contestazione di Veblen alla teoria tradizionale riguarda lo stato stazionario dell’economia, da Egli invece reputata dinamica ed evoluzionistica. L’essenza della dinamicità economica risiede nell’innovazione tecnica e nelle ripercussioni economiche, sociali e intellettuali da essa prodotte. L’adozione di procedimenti meccanici e di mezzi tecnici su vasta scala non soltanto consente un differente tenore di vita rispetto al passato, ma anche il superamento dell’utilizzo di numerose istituzioni tradizionali e abitudini di pensiero che l’uomo ha portato con sé fin dalle sue origini barbariche.87 II.2 Innovazione e sviluppo in Schumpeter. Se Veblen intraprende un’importante riformulazione della teoria economica, così fa anche J. A. Schumpeter, il quale tuttavia non la respinge interamente

84 R. Gill, Il pensiero economico moderno, op. cit., pag. 98. 85 T. Veblen, La teoria della classe agiata, op. cit., pag. 86. 86 F. Ferrarotti, “Introduzione”, op. cit., pagg. 30-31. 87 R. Gill, Il pensiero economico moderno, op. cit., pag. 99.

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ma ne apprezza alcuni dei meriti, utilizzandola esplicitamente come punto di partenza per le sue indagini. 88 In The Theory of Economic Development89, e poi più compiutamente in Capitalism, Socialism and Democracy90, Schumpeter si riallaccia alla concezione dell’economia politica propria dei classici, ma successivamente desueta con l’imporsi della specializzazione disciplinare, anche sotto l’influsso dell’approccio positivistico.91 Contrariamente tuttavia ai marginalisti o ai teorici dell’equilibrio, Schumpeter non reputa unicamente la scienza dell’economia come dinamica di rapporti quantitativi, perciò separata dalla sociologia, dalla storia, e anche dalle espressioni più compiute di un determinato contesto culturale e comportamentale. Egli ritiene che l’economia non possa venire interpretata quale disciplina che si connette ad altre in modo strumentale, costituendo essa invece momento peculiare di una scienza più generale e comprensiva, l’economia politica appunto, che si qualifica precipuamente sul terreno del sociale. Essa dovrebbe dunque considerare uomini e cose nei molteplici aspetti del loro essere e del loro reciproco interagire, a loro volta risultato di una storia specifica.92 Ciò significa che al centro dell’analisi dell’Autore si pongono soggetti il cui pensiero e la cui azione appaiono cruciali non soltanto in rapporto alle dinamiche dello sviluppo economico, ma più in generale alle prospettive di un sistema articolato e complesso. Come in Weber, così in Schumpeter l’agire razionale, fondato cioè sul calcolo dei costi e delle opportunità concrete, costituisce elemento essenziale del capitalismo, pertinente tuttavia a una figura determinata, l’imprenditore, che rende propri questi specifici criteri, ponendoli a fondamento della propria cultura individuale in un

88 Un’osservazione in merito al lavoro di Schumpeter appare opportuna, cioè che l’immediata risonanza delle sue idee sul pensiero economico, sebbene importante, fu tuttavia inferiore a ciò che ci si poteva attendere. Una delle ragioni di questo fu dovuta alle circostanze. Nel periodo in cui la professione economica avrebbe potuto interessarsi ai suoi insegnamenti, essa era posta in crisi da un tipo assolutamente differente di problemi e da una teoria rivoluzionaria creata per risolverli. Fu questo fu il periodo della grande depressione e della “nuova scienza economica” di J. M. Keynes. Di fronte a un’acuta crisi di breve durata, implicante un potenziale tracollo del sistema economico, gli economisti prestarono poco interesse ai meno sconvolgenti problemi dello sviluppo a lungo termine (R. Gill, Il pensiero economico moderno, op. cit., pag. 108). 89 J. A. Schumpeter, The Theory of Economic Development, Harvard University Press, Cambridge, 1934 [ed. def. 1926]; trad. it.: Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze, 1971. 90 J. A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, Gorge Allen and Unwin, London, 1954 [1ª ed., 1942]; trad. it.: Capitalismo, socialismo, democrazia, 3ª ed., Etas Kompass, Milano, 1967. 91 A. Salamone, “Capitalismo e socialismo in J. A. Schumpeter”, in AA.VV., Società, Sviluppo, Impresa. Saggi su Schumpeter, Ipsoa, Milano, 1985, pag. 331. 92 A. Salamone, “Capitalismo e socialismo in J. A. Schumpeter”, op. cit., pag. 331.

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contesto che ne accetta e ne sancisce la validità. Si tratta di criteri e valori la cui origine è eminentemente culturale, e che affondano quindi il proprio significato in una costruzione collettiva all’interno della storia di una data civiltà.93 Il pensiero di Schumpeter muove dall’ipotesi di equilibrio statico walrasiano, che Egli identifica come una situazione in cui non si manifesta alcuna variazione qualitativa del sistema. Vi è un <flusso circolare> di beni e servizi in una direzione e di denaro nella direzione opposta. I produttori utilizzano il denaro per procurarsi i servizi e i fattori di produzione e, a loro volta, come consumatori, usufruiscono del denaro per acquistare le merci che i produttori, impiegando i fattori di produzione, hanno realizzato. Questo <flusso circolare> è, in ipotesi, il medesimo ogni anno. A livello di consumatori e di produttori dominano i comportamenti allocativi, edonistici, ripetitivi. In un sistema del genere non soltanto non vi è posto per un utile netto, ma neppure per il risparmio netto, a parte la quota necessaria per la sostituzione dei fattori produttivi consumati. Non vi sono mutamenti nei metodi di produzione. In ciascun periodo ogni cosa procede come nel periodo precedente, e condizioni di equilibrio standard prevalgono e non mutano nel tempo.94 In una simile configurazione dell’economia, tuttavia, l’interessamento di Schumpeter non risiede tanto nella descrizione della realtà economica, quanto nell’individuazione degli aspetti della realtà che a Lui appaiono cruciali, i quali, in un moderno capitalismo industriale, possono venire sintetizzati in una sola parola: sviluppo. Esso viene reputato come «lo spontaneo e improvviso mutamento nei canali del flusso, la perturbazione dell’equilibrio che modifica e sposta sempre lo stesso stato di equilibrio precedentemente esistente».95 In particolare l’Autore ritiene che tutti i fenomeni vitali di un’economia industriale – i cicli economici, la creazione del credito, la struttura industriale e addirittura il carattere sociologico del capitalismo stesso – siano intimamente vincolati al processo di sviluppo. La manifestazione dello sviluppo risiederebbe allora nell’innovazione96, e il personaggio responsabile di quest’ultima sarebbe l’imprenditore. In un certo senso, quindi, Schumpeter ribalta la posizione dei classici. Per i classici è l’accumulazione che tende a generare lo sviluppo, il quale stimola il progresso tecnico poiché, o rende possibile (grazie

93 A. Salamone, “Capitalismo e socialismo in J. A. Schumpeter”, op. cit., pagg. 331-332. 94 R. Gill, Il pensiero economico moderno, op. cit., pag. 103. 95 M. Messori, Antologia di scritti. Schumpeter, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 96. 96 Lo sviluppo generato dall’innovazione è per sua natura ciclico. Il “ciclo economico” è frutto delle ondate di innovazione. Sopprimere l’innovazione sarebbe la morte del capitalismo: il ciclo ne costituisce quindi la linfa vitale.

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all’ampliamento dei mercati) la divisione del lavoro (Smith), oppure inducendo aumenti salariali stimola le innovazioni labour saving (Marx). 97 Per Schumpeter è invece il progresso tecnico (risultante dall’attività innovativa degli imprenditori) che accrescendo la produttività del sistema consente il suo sviluppo. L’impulso fondamentale che aziona e tiene in moto la “macchina capitalistica” proviene dai nuovi beni di consumo, dai nuovi metodi di produzione o di trasporto, dall’apertura di nuovi mercati, dalle nuove forme di organizzazione industriale che l’impresa capitalistica inventa, dunque dall’innovazione.98 In questo senso il capitalismo è per sua natura «una forma o un metodo di evoluzione economica99; non solo non è mai, ma non può mai essere, stazionario»100. L’innovazione diviene quindi punto centrale del processo di mutamento economico, ossia di tutti i fenomeni, le difficoltà, i problemi della vita economica della società capitalistica, che non vi sarebbero se le risorse produttive passassero ogni anno attraverso i medesimi canali, muovendosi essenzialmente verso gli stessi fini, o se in ciò fossero ostacolate soltanto da influssi esterni.101 Attraverso l’innovazione si realizza quello che Schumpeter definisce il <processo di distruzione creatrice>102, un procedimento di trasformazione

97 S. Lombardini, Teoria dell’impresa e struttura economica, op. cit., pag. 37. 98 J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, op. cit., pag. 78. Schumpeter distingue il concetto di innovazione da quello di invenzione, ritenendo oggetto di attività economica la prima e frutto della ricerca e dell’attività speculativa la seconda (M. Egidi, Schumpeter. Lo sviluppo come trasformazione morfologica, Etas, Milano, 1981, pag. 72). 99 Schumpeter definisce l’evoluzione come «tortuosa, discontinua, disarmonica per sua natura; la disarmonia è inerente allo stesso modus operandi dei fattori del progresso» (J. A. Schumpeter, Business Cycles: a Theoretical, Historical and Statistical Analysis of the Capitalistic Process, McGraw-Hill Inc., 1964 [1ª ed., 1939]; trad. it.: Il processo capitalistico. Cicli economici, 4ª ed., Boringhieri, Torino, 1977, pag. 129). 100 J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, op. cit., pag. 78. 101 J. A. Schumpeter, Il processo capitalistico. Cicli economici, op. cit., pag. 113. L’Autore reputa che l’innovazione possa essere definita anche con riferimento al costo monetario. In questo senso, l’introduzione nel sistema di nuove funzioni di produzione, da cui dipende il continuo spostamento delle esistenti curve di costo, induce a ritenere che nel “quadro della vita capitalistica” prevalgano i costi decrescenti. «In assenza di innovazioni, e se i prezzi dei fattori sono costanti, i costi totali delle singole aziende aumentano monotonicamente in funzione della produzione. Ogni qualvolta che una data quantità di prodotto ha, oggi, un costo di produzione inferiore a quello che aveva, o che avrebbe potuto avere ieri, la medesima o una minore quantità di prodotto, si può essere sicuri che, se il prezzo dei fattori non è diminuito, in una qualunque parte del sistema vi è stata un’innovazione» (J. A. Schumpeter, Il processo capitalistico. Cicli economici, op. cit., pag. 115). 102 J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, op. cit., pag. 79.

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organica dell’industria che rivoluziona incessantemente dall’interno le strutture economiche, «distruggendo senza tregua l’antica e creando senza tregua la nuova». La conseguenza di tale distruzione è l’innalzamento dell’economia a un livello superiore. «Il vero concorrente per il produttore di diligenze non è un altro produttore di diligenze, ma il magnate della strada ferrata. La ferrovia a sua volta trova il concorrente più prossimo nell’automobile, nell’autocarro e nell’aeroplano. L’innovazione di oggi rimpiazza quella di ieri, e così via». In questo, secondo l’opinione di Schumpeter, consiste lo sviluppo e l’essenza del moderno capitalismo.103 Ne consegue che l’ipotesi di comportamento economico perfettamente razionale, tempestivo, eguale per tutte le imprese, può essere ritenuta valida soltanto entro i limiti delle esperienze acquisite e delle motivazioni note. Essa viene meno non appena si abbandonano quei limiti e si ammette l’esistenza di nuove opportunità di attività economica, che nessuno ha ancora provato, e rispetto alle quali risulta non certo di aiuto la completa padronanza delle routines. Nell’analisi del processo relativo a questi fatti, «la teoria tradizionale rimane naturalmente al suo posto: descrive le risposte all’innovazione delle imprese che non innovano»104. Ogni qualvolta una nuova funzione di produzione è stata avviata con successo e l’impresa vede realizzata la novità e risolti i suoi problemi principali, diviene facile per le concorrenti imitarla o addirittura migliorarla. «Le innovazioni non rimangono infatti eventi isolati e non sono distribuite in modo uniforme nel tempo, ma tendono al contrario ad ammassarsi, a sorgere “a grappoli”, poiché inizialmente alcune imprese e successivamente la maggior parte di esse seguono la scia dell’innovazione riuscita»105. I turbamenti dell’equilibrio derivanti dalle innovazioni non possono allora venire assorbiti senza scosse o come accadimento consueto, essi risultando necessariamente rilevanti, nel senso che «sradicano il sistema esistente e impongono un diverso processo di adattamento»106. Ciò risulta indipendente sia dalla dimensione dell’impresa (o delle imprese) che innovano, sia dall’importanza degli effetti immediati derivanti dalla loro iniziativa. Ne consegue che la nozione neoclassica di equilibrio, nei suoi due aspetti di eguaglianza fra domanda e offerta oppure di livellamento del tasso di redditività, non può venire accolta da Schumpeter, il quale non si limita a criticarla dal punto di vista empirico, ma la contesta anche come astrazione mentale. L’equilibrio potrebbe venire definito soltanto come l’assetto di uno stato stazionario; tuttavia il capitalismo integra per definizione uno stato dinamico di trasformazione continua. Alla realtà del capitalismo - in cui 103 J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, op. cit., pag. 79. 104 J. A. Schumpeter, Il processo capitalistico. Cicli economici, op. cit., pag. 126. 105 J. A. Schumpeter, Il processo capitalistico. Cicli economici, op. cit., pag. 128. 106 J. A. Schumpeter, Il processo capitalistico. Cicli economici, op. cit., pag. 128.

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ogni situazione è immediatamente modificata dall’innovazione, e ogni innovazione immediatamente vanificata dall’imitazione - il concetto di equilibrio risulta necessariamente estraneo. Le innovazioni, poi, «non sono in nessun momento distribuite casualmente nel sistema economico, tendendo invece a concentrarsi in taluni settori e nei loro dintorni». Risulta infatti possibile «localizzare in ogni periodo storico la nascita del processo e associarla ad alcuni settori e, entro questi, a certune imprese dalle quali sorgono i fattori di disturbo, che successivamente coinvolgono l’intero sistema»107. Schumpeter ritiene l’innovazione come processo ad esito incerto, comprensibile soltanto ex post, in quanto non prevedibile applicando le regole ordinarie di inferenza dai fatti preesistenti. L’innovazione «non può reputarsi elemento insito nel concetto di attività economica razionale e neppure cosa ovvia»108, dunque, si configura quale evento strutturalmente e profondamente incerto. L’innovatore non conosce infatti la distribuzione di probabilità relativa ai possibili risultati della sua attività innovativa. Tale tipo di incertezza concerne in primo luogo le innovazioni radicali e, in misura assai inferiore, le incrementali.109 Nel corso del processo innovativo poi, l’imprenditore presenta una razionalità limitata. Per Schumpeter, infatti, l’imprenditore non può «afferrare esaurientemente tutti gli effetti e le ripercussioni dell’impresa progettata. La misura stessa di tale lavoro di previsione, che sarebbe teoricamente possibile, secondo l’ambiente e l’occasione, quando si disponga di tempo e mezzi illimitati, pone difficoltà praticamente insormontabili»110. La razionalità limitata sia dell’imprenditore sia dell’impresa innovatrice implica l’impossibilità di calcolare esattamente la soluzione ottimale relativa all’attività innovativa. Di conseguenza, le strategie innovative delle imprese possono differire grandemente.111 107 J. A. Schumpeter, Il processo capitalistico. Cicli economici, op. cit., pag. 129. 108 J. A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, op. cit., pag. 90. 109 F. Malerba, “L’eredità schumpeteriana in tema di innovazione”, in AA.VV., Società, Sviluppo, Impresa. Saggi su Schumpeter, Ipsoa, Milano, 1985, pag. 276. 110 J. A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, op. cit., pag. 95. 111 F. Malerba, “L’eredità schumpeteriana in tema di innovazione”, op. cit., pag. 276. Per Schumpeter l’età dell’impresa riveste particolare importanza nella spiegazione del livello innovativo e degli investimenti in nuove tecnologie. Infatti «tutte le innovazioni sono incorporate in una “nuova impresa” fondata a questo scopo. (…) La maggior parte delle imprese nuove sorge con un’intenzione e per uno scopo preciso. Esse muoiono quando quell’intenzione o quello scopo si sono realizzati o sono divenuti obsoleti o anche se hanno cessato di essere nuovi. (…) Altre ancora muoiono per “morte naturale”; la causa naturale per le imprese è la loro incapacità di tenere il passo con l’innovazione che esse stesse avevano contribuito a creare nel loro periodo di maggiore vitalità. Nessuna impresa che sia gestita esclusivamente in base a direttrici prestabilite, indipendentemente dalla consapevolezza che la direzione possiede di questa routine, rimane a lungo fonte di profitto nella società capitalistica (…). Le innovazioni emergono in primo luogo dalle “giovani” e

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La vera anima del capitalismo, per Schumpeter, è l’imprenditore. Tuttavia egli non appartiene ad alcuna specifica classe sociale, non si identifica con il capitalista dei classici e di Marx, non è neppure l’esangue imprenditore <ne faisant ni bénéfice ni perte> di Walras, né, tanto meno, l’homo oeconomicus della tradizione marginalista.112 Con riferimento a quest’ultimo, Egli ne accoglie l’assunto di razionalità economica, intesa come «pronto riconoscimento dei dati della situazione e risposta razionale» e come tendenza a soddisfare bisogni individuali, ma limita tale razionalità al corso normale della vita economica, alle decisioni sovente ripetute in cui «l’individuo risulta soggetto all’influenza salutare e razionalizzatrice di esperienze favorevoli e sfavorevoli e a motivi e interessi relativamente semplici e non problematici, che solo occasionalmente la passione turba».113 Allorché si abbandonino gli ambiti dell’esperienza privata e della consuetudine diviene necessaria la presenza di un soggetto – l’imprenditore appunto - la cui condotta presenti una base motivazionale più complessa e non riconducibile al perseguimento dell’interesse individuale. Ecco quindi che l’atto innovativo dell’imprenditore deve venire inteso quale “atto creativo”, rispondente a una razionalità diversa da quella connessa al ristretto calcolo del proprio utile, a una razionalità intesa sia come capacità di agire in base a un desiderio dato sia come capacità di pensare e generare il nuovo114. L’imprenditore schumpeteriano non può dunque affidarsi a calcoli tecnici né venire confortato da procedure già sperimentate. È invece «quello che sa di tecnologia, che vive in fabbrica, a contatto con il processo produttivo, che fa dell’innovazione e del progresso lo scopo dell’esistenza».115 Come evidenzia lo stesso Schumpeter «l’esperienza insegna che i tipici imprenditori si ritirano dall’arena solo quando e perché la loro forza è esaurita ed essi non si sentono più all’altezza dei loro compiti. Questo non sembra verificare l’immagine dell’homo oeconomicus che bilancia i risultati probabili con la disutilità del lavoro e raggiunge in tempo ragionevole un

le “vecchie” mostrano di regola sintomi di ciò che eufemisticamente viene chiamato conservatorismo. (…) Ogni impresa appena nasce inevitabilmente minaccia anche la struttura esistente della sua industria o settore (…). Il “progresso” industriale, per la maggior parte delle imprese esistenti, arriva ad un dato momento presentandosi come un attacco dall’esterno. Prendendo l’industria nel suo insieme, c’è sempre un settore innovativo in lotta con un settore “vecchio”» (J. A. Schumpeter, Il processo capitalistico. Cicli economici, op. cit., pagg. 121-124). 112 R. Faucci, Breve storia dell’economia politica, op. cit., pag. 269. 113 A. Martinelli, “Analisi economica e analisi sociologica nel sistema teorico di Schumpeter”, in AA.VV., Società, Sviluppo, Impresa. Saggi su Schumpeter, Ipsoa, Milano, 1985, pag. 37. 114 A. Martinelli, “Analisi economica e analisi sociologica nel sistema teorico di Schumpeter”, op. cit., pagg. 37-38. 115 R. Faucci, Breve storia dell’economia politica, op. cit., pag. 269.

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punto di equilibrio oltre il quale non ha intenzione di andare».116 Non sono quindi “motivi edonistici volgari”117 quelli che spingono l’imprenditore ad affrontare gli ostacoli che incontra ogni attività di innovazione, sono motivi più complessi: «il desiderio di fondare una dinastia, la volontà di conquista e la gioia di creare, di ottenere che le cose siano fatte, o semplicemente di esercitare la propria energia e ingegnosità».118 In particolare, il suo ruolo deve venire nettamente distinto da quello del capitalista. Può essere di aiuto ma non è essenziale per l’imprenditore trovarsi nella possibilità di disporre di un proprio capitale. Il tipo puro di imprenditore è squattrinato. Egli deve rivolgersi alle banche chiedendo in prestito i capitali di cui abbisogna per iniziare i suoi nuovi progetti. Naturalmente convincere il banchiere è uno dei molteplici ostacoli che egli deve fronteggiare quando intraprende il difficoltoso compito di infrangere i tradizionali modi di comportamento lanciandosi verso l’ignoto.119 Schumpeter ritiene a tal punto importante la figura dell’imprenditore da muovere all’attacco del cuore della costruzione neoclassica, allorquando nega che il mercato sia preordinato per soddisfare i bisogni del consumatore, e asserisce che sul mercato dominano incontrastate le scelte dell’imprenditore. «Le ferrovie non sono nate perché i consumatori si sono presi il compito di esplicitare una domanda effettiva del servizio ferroviario al posto della diligenza. Né i consumatori hanno assunto una qualche iniziativa per avere la luce elettrica, o le calze di rayon, o per viaggiare in macchina o in aereo, o per avere la radio, o per masticare la gomma americana. La maggior parte delle variazioni intervenute nel consumo delle merci è stata imposta dai produttori ai consumatori che, il più delle volte, hanno resistito ai cambiamenti e vi sono stati poi riconciliati attraverso l’uso di complesse campagne pubblicitarie basate sul convincimento psicologico».120 Schumpeter giunge quindi a distruggere quella che del capitalismo è stata l’immagine più cara ai suoi esegeti, quella di un sistema in cui il consumatore, arbitro indiscusso dei suoi destini, domina sovrano, mentre l’imprenditore, onesto quanto scrupoloso finanziario, gestisce la produzione al fine di soddisfare appieno le preferenze di lui.121 II.3 Contestazione sui costi in Sraffa.

116 J. A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, op. cit., pag. 92. 117 S. Lombardini, “Imprenditore e mercato nella società postindustriale”, in AA.VV., Società, Sviluppo, Impresa. Saggi su Schumpeter, Ipsoa, Milano, 1985, pag. 28. 118 J. A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, op. cit., pag. 93. 119 R. Gill, Il pensiero economico moderno, op. cit., pag. 105. 120 J. A. Schumpeter, Il processo capitalistico. Cicli economici, op. cit., pag. 97. 121 A. Graziani, “Introduzione” in Il processo capitalistico. Cicli economici, op. cit., pag. 21.

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A differenza dell’interpretazione di Veblen che mira a confutare le premesse basilari della scuola neoclassica, e di Schumpeter che tenta di focalizzare l’attenzione su un problema differente, si sviluppano nel primo trentennio del ventesimo secolo nuove dottrine che, basandosi sul riconoscimento dell’esistenza di imperfezioni nella competizione tra imprese, cercano di individuare il modo per “fondere” le teorie separate del monopolio e della concorrenza perfetta in una teoria più generica del valore, di cui quelle possano apparire come particolari casi limite. Un’anticipazione in tal senso viene presentata dagli articoli di P. Sraffa del 1925122 e del 1926123, in cui la critica alla teoria neoclassica si porta sul piano logico-formale, aprendo così nuove vie a processi di astrazione in grado di produrre teorie atte a interpretare importanti aspetti delle strutture economiche concrete. Sraffa dimostra che le leggi della produttività decrescente e crescente necessitano di condizioni del tutto particolari, che contrastano con quelle che si riscontrano nella realtà. La prima può essere utilizzata soltanto per lo studio dei casi, rari a dire il vero, di produzioni in cui viene impiegata la totalità di un fattore produttivo, per le quali la domanda deve presentarsi necessariamente omogenea e indipendente dalle condizioni di offerta.124 Le medesime difficoltà si riscontrano anche per la produttività crescente, allorquando l’Autore ritiene che le economie della produzione su larga scala non si adeguino alle necessità della curva di offerta, poiché il loro campo di azione risulta più ampio o più ristretto del necessario. In tal senso, le economie esterne per la singola azienda, ma interne per l’industria nel suo complesso, costituiscono la classe che è dato di incontrare più raramente e, per quanto concerne le esterne, non sono di norma tali da «poter essere evocate da piccoli aumenti della produzione»125. Il costo delle merci prodotte in concorrenza deve quindi essere reputato costante, non essendovi ragione per ritenere operanti, in un contesto statico, le cause che lo possono far aumentare o diminuire. Sraffa sostiene quindi la necessità di ricercare all’esterno del modello concorrenziale i fattori che limitano la dimensione dell’impresa, non individuandoli nel costo di produzione crescente, ma nel fatto che, essendo il prodotto differenziato, si possano presentare difficoltà nella vendita di una maggiore quantità di merce senza riduzioni di prezzo, o senza il

122 P. Sraffa, “Sulle relazioni fra costo e quantità prodotta”, in Giornale degli economisti e annali di economia, 1925. 123 P. Sraffa, “The Laws of Returns under Competitive Conditions”, in Economic Journal, 1926; trad. it.: “Le leggi della produttività in regime di concorrenza”, in S. Lombardini, Teoria dell’impresa e struttura economica, op. cit. 124 P. Sraffa, “Le leggi della produttività in regime di concorrenza”, art. cit., pag. 71. 125 P. Sraffa, “Le leggi della produttività in regime di concorrenza”, art. cit., pag. 72.

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sostenimento di superiori spese di vendita.126 In una situazione del genere, risulta possibile introdurre una curva di domanda discendente da sinistra verso destra (anziché orizzontale), con la differenza che, invece di riguardare l’intero sistema, essa concerne soltanto la produzione della singola impresa. Il principale ostacolo che si oppone al libero gioco della concorrenza viene individuato da Sraffa nella «mancanza di indifferenza da parte dei compratori di una merce di fronte ai diversi produttori»127. Le ragioni della preferenza che ciascun gruppo di acquirenti presenta per un’impresa definita sono molteplici: abitudine, conoscenza personale, vicinanza, qualità o tipicità del prodotto, prestigio della marca. Tali motivazioni possono condurre un soggetto a pagare un prezzo superiore, consentendo all’impresa il conseguimento di vantaggi analoghi a quelli del monopolista. II.4 Le imperfezioni della concorrenza: Chamberlin e la Robinson. L’interpretazione di Sraffa viene poi accolta, per primi, da due economisti ai quali si deve l’elaborazione teoretica di un nuovo modello di forma di mercato: la concorrenza monopolistica secondo l’espressione di Chamberlin (1933)128, ovvero la concorrenza imperfetta secondo la definizione della Robinson (1933)129. Entrambi gli Autori ritengono che l’aspetto comune delle loro teorie consista nell’offerta da parte dell’impresa di un prodotto che si differenzia dai prodotti concorrenti, reputando che il mercato debba venire inteso come l’insieme della domanda e dell’offerta, non di unità di un medesimo bene, ma di unità di prodotti diversi, tra loro similari, offerti da molteplici produttori.130

126 P. Sraffa, “Le leggi della produttività in regime di concorrenza”, art. cit., pag. 74. 127 P. Sraffa, “Le leggi della produttività in regime di concorrenza”, art. cit., pag. 75. 128 E. H. Chamberlin, The theory of monopolistic competition, 7ª ed., Harvard University Press, Cambridge, 1960 [1ª ed., 1933]; trad. it.: Teoria della concorrenza monopolistica, La Nuova Italia, Firenze, 1961. 129 J. Robinson., The Economics of Imperfect Competition, 2ª ed., McMillan, 1969 [1ª ed. 1933]; trad. it.: Economia della concorrenza imperfetta, Etas Kompass, Milano, 1972. 130 In realtà, all’epoca i cui scrivono Chamberlin e la Robinson, il concetto di <concorrenza imperfetta> non è del tutto nuovo alla letteratura economica, grazie ai contributi pionieristici di A. Cournot (1838) e T. Bertrand (1883). L’idea alla base del lavoro di Cournot è che le imprese, nel tentativo di massimizzare gli utili, stabiliscano i livelli di produzione. La critica rivolta da Bertrand alla scelta della quantità come variabile strategica da parte degli oligopolisti cournottiani si esprime attraverso la scelta del prezzo, demandando in tal modo al mercato la determinazione delle quantità vendute in equilibrio. Tuttavia, la competizione teorizzata da Bertrand conduce inevitabilmente alla concorrenza perfetta, in quanto comporta la definizione del prezzo al livello del costo marginale di produzione. Questa conclusione appare paradossale (cosiddetto paradosso di Bertrand). Nonostante le imprese abbiano un rilevante potere di mercato, l’esito della competizione è

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La concorrenza monopolistica si manifesta dunque quando in un mercato operi un numero di imprese - o elevato (“grande gruppo”), oppure ridotto (“piccolo gruppo” o “oligopolio differenziato”) - che, disponendo di capacità sufficientemente simili, vendano un prodotto differenziato. La possibilità per ciascuna impresa di definire il prezzo, ossia il suo <potere di mercato>, viene a dipendere allora dalle caratteristiche specifiche del prodotto venduto e non dalla rilevanza della quota di offerta globale da essa controllata. A differenza di Chamberlin, la Robinson non insiste sulla numerosità delle imprese che offrono prodotti simili, quanto piuttosto sull’abilità delle stesse di influire sulle scelte dei consumatori. Attraverso la differenziazione dei prodotti e la pubblicità, i produttori allontanano pertanto i mercati dal modello di concorrenza perfetta.131 La differenziazione dei prodotti viene intesa da Chamberlin132 come l’esistenza di un adeguato criterio che consenta di distinguere i beni di un venditore rispetto ad altri. Tale criterio può concernere caratteristiche effettive dei beni o agire a livello psicologico, purché sia di una qualche importanza per i compratori e induca a preferire una varietà di prodotto a un’altra. Laddove esista una differenziazione del genere, anche se lieve, i compratori si indirizzeranno verso i venditori non a caso, come nella concorrenza pura, ma secondo preferenze determinate. La differenziazione può basarsi o su determinati attributi del prodotto, quali qualità brevettate, marchi, nomi commerciali, particolarità della confezione, del design, del colore, dello stile, della qualità, oppure può concernere gli elementi che condizionano la vendita del prodotto. Nella misura in cui questi e ulteriori fattori non tangibili mutano da venditore a venditore, il prodotto è in ciascun caso differente, giacché i compratori tengono conto, qual più qual meno, di tali fattori, e si può dire che essi li acquistino insieme alla merce stessa.133 Analizzando questi aspetti della differenziazione, appare evidente che praticamente tutti i prodotti sono differenziati, sia pur di poco, e che per una considerevole parte dell’attività economica la differenziazione risulta di notevole importanza. Un particolare rilievo viene attribuito da Chamberlin alla varietà delle produzioni. Egli ritiene infatti che le differenze di gusto, di desideri, di redditi, di ubicazioni dei compratori, di utilizzazione dei prodotti, siano un il medesimo di quello della concorrenza perfetta, in cui nessuna impresa dispone di potere di mercato (Cfr. A. Cournot, Récherches sur les principes mathématiques de la théorie des richesses, Parigi, 1838; trad. it.: Ricerche intorno ai principi matematici della teoria delle ricchezze, in Opere, Utet, Torino, 1981; J. Bertrand, “Théorie mathématique de la richesse sociale”, in Journal des Savants, n. 48, 1883, pagg. 499-508). 131 S. Lombardini, Teoria dell’impresa e struttura economica, op. cit., pag. 30. 132 E. H. Chamberlin, Teoria della concorrenza monopolistica, op. cit., pag. 57. 133 E. H. Chamberlin, Teoria della concorrenza monopolistica, op. cit., pagg. 57-58.

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indicatore della richiesta di varietà, nonché della necessità di sostituire all’ipotesi concorrenziale un ideale che comprenda sia il monopolio sia la concorrenza. La rimozione da parte di Chamberlin dell’ipotesi di omogeneità del prodotto comporta conseguenze di particolare rilevanza. In primo luogo, mentre la teoria neoclassica reputa la concorrenza e il monopolio casi alternativi, nel senso che la concorrenza pura esclude a priori la presenza di elementi monopolistici, così come il monopolio esclude ogni fenomeno di natura concorrenziale, attraverso la differenziazione si comprende che ciascun fenomeno economico può venire reputato coacervo di elementi monopolistici e concorrenziali. Ogni prodotto è peculiare e unico, e questo può ritenersi l’elemento monopolistico; ma avendo dei sostituti esso risulta soggetto alla concorrenza di prodotti ulteriori, e questo configura l’elemento concorrenziale.134 Con la considerazione della differenziazione del prodotto, concorrenza pura e monopolio135 divengono casi-limite tra i quali sono presenti tutte le possibili “gradazioni”, e in questi gradi intermedi i due elementi sempre sono compresenti e sempre devono essere riconosciuti. La teoria economica può quindi rivolgere la sua attenzione prevalentemente ai casi intermedi, che Chamberlin definisce appunto come forme di <concorrenza monopolistica>. In quest’ultimo caso, la vendita di un prodotto differenziato ad una parte ridotta del mercato consente di tracciare una curva di domanda per ciascuna impresa soltanto ipotizzando che le azioni di esse siano indipendenti: ciò presupporrebbe che i diversi segmenti di mercato fossero relativamente isolati l’uno dall’altro.136 Tutto ciò assicura all’imprenditore una certa libertà nella definizione del prezzo, di norma superiore a quello che si avrebbe in concorrenza per un prodotto omogeneo: in questo senso il produttore si comporta come price-setter e non come price-taker. Nonostante il prezzo sia maggiore e la produzione inferiore rispetto al modello della concorrenza perfetta, principalmente per la presenza delle spese di vendita, il maggiore costo della differenziazione – secondo Chamberlin – diviene socialmente accettabile poiché il consumatore è interessato alla varietà e anzi la desidera: quindi non sempre è necessario 134 S. Podestà, Prodotto, consumatore e politica di mercato, Etas Libri, Milano, 1974, pag. 9. 135 Chamberlin ritiene che la nozione di <concorrenza pura> indichi la situazione in cui ciascuna impresa fronteggia una concorrenza perfetta di perfetti sostituti del proprio prodotto, mentre il <monopolio puro> comporti il pieno controllo dell’offerta di tutti i beni economici (E. H. Chamberlin, Teoria della concorrenza monopolistica, op. cit., pagg. 64-65). 136 P. A. Samuelson, Economics, an Introductory Analysis, 5ª ed., McGraw-Hill, New York, 1961 [1ª ed., 1948]; trad. it.: Economia, 5ª ed., Utet, Torino, 1964, pagg. 658-662.

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produrre al costo minore, in quanto non sempre il mercato esige il prezzo inferiore. La discrezionalità di definizione del prezzo non è tuttavia illimitata in quanto, a differenza del monopolio, ciascuna impresa deve necessariamente considerare la concorrenza proveniente dai sostituti stretti offerti dalle rivali. L’esistenza di questi rende peraltro difficoltosa la delimitazione del campo competitivo, in quanto la presenza di elementi monopolistici da parte di ciascun produttore comporta la definizione di un “suo” mercato particolare, e l’insieme di tali mercati non individua un unico mercato generale. La possibilità di differenziazioni attuate con modalità difformi può comportare infatti non soltanto una sovrapposizione di mercati, ma anche l’assenza di competizione fra i concorrenti di una singola impresa e quelli delle altre, per cui diviene effettivamente impossibile delimitare i confini di un “gruppo”.137 La teoria della concorrenza monopolistica, invero, non si occupa soltanto del problema dell’equilibrio individuale (come la teoria del monopolio), ma anche dell’equilibrio di gruppo, ossia del problema dell’aggiustamento delle forze economiche nell’ambito di un gruppo di monopolisti concorrenziali. In ciò essa risulta diversa sia dalla teoria della concorrenza sia da quella del monopolio. Nella descrizione dell’equilibrio di gruppo si presentano di norma difficoltà provocate proprio dalle diversità tra imprese. Ciascun prodotto dispone infatti di caratteristiche differenti, tali da adattarsi ai bisogni e ai gusti di chi lo compra. Le differenze qualitative determinano diversità rilevanti nelle curve del costo di produzione, mentre le preferenze eterogenee dei compratori causano una corrispondente varietà nelle curve di domanda, per quanto attiene sia alla forma (elasticità) sia alla posizione (distanza dagli assi delle ascisse e delle ordinate). 138 Ne deriva una eterogeneità nell’offerta, nella produzione, nei prezzi, negli utili, che non sarebbe tanto il risultato di una conoscenza imperfetta o di “frizioni”139 di mercato, quanto il riflesso di tentativi riusciti o non riusciti

137 S. Podestà, Prodotto, consumatore e politica di mercato, op. cit., pagg. 9-10. 138 E. H. Chamberlin, Teoria della concorrenza monopolistica, op. cit., pag. 83. 139 “Frizioni” o “vischiosità” sono termini utilizzati di norma per indicare impedimenti transitori che ritardano gli adattamenti di prezzi e di quantità prodotte, offerte o domandate, voluti dalla concorrenza. Non soltanto si considerano gli impedimenti attinenti il comportamento del consumatore (insufficiente conoscenza del mercato, forza dell’abitudine) ma anche quelli relativi alla struttura e alle dimensioni delle imprese concorrenti che, ostacolando la trasferibilità dei fattori di produzione da un ramo di attività a quei rami che il mercato rivela più redditizi, impediscono il normale svolgersi della libera concorrenza, consentendo talora un prezzo superiore a quello previsto in essa (G. Gualerni, Mercati imperfetti. Il contributo di Francesco Vito al dibattito degli anni Trenta, Vita e Pensiero, Milano, 1988, pag. 130).

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da parte dei produttori di adattare i prodotti ai bisogni e ai gusti di differenti consumatori. In particolare, nella prima edizione della sua opera Chamberlin sosteneva che non sembrava esistesse una ragione tale da giustificare un mutamento della curva di domanda nell’ipotesi di differenziazione del prodotto. Tuttavia, dalla terza edizione in poi l’Autore ha riconosciuto che la curva di domanda si muoverebbe verso destra, e perciò diverrebbe meno elastica al prezzo, nell’ipotesi in cui il prodotto differenziato soddisfacesse più appropriatamente le esigenze del consumatore.140 Nonostante il riconoscimento dell’eterogeneità della domanda in funzione delle diverse preferenze dei consumatori, una particolare importanza viene comunque attribuita da Chamberlin al comportamento dell’offerente, attraverso la focalizzazione sulla distinzione tra prodotti piuttosto che sulla molteplicità di bisogni e comportamenti d’acquisto. In tal senso, il modello rimane forse quello del <consumatore rappresentativo>, che beneficia più della varietà dei beni disponibili che non del fatto di poter trovare un bene che risponda esattamente alle sue esigenze.141 La differenziazione quindi, più che dal tentativo di recepire e soddisfare i diversi bisogni di una molteplicità di consumatori, si presenta come conseguenza delle differenze nei metodi e nei processi produttivi, dell’utilizzo di materie prime diverse, di una diversa localizzazione, opportunamente controllata e talvolta ricercata dall’impresa, per cui al singolo produttore si pone soltanto il problema di far convergere la maggiore quantità possibile di domanda sul prodotto così differenziato.142 In particolare, nell’ipotesi in cui la tecnologia produttiva sia tale da rendere conveniente la produzione standardizzata e di massa, è probabile che il singolo produttore tenda a garantire il soddisfacimento della domanda attraverso l’offerta di un singolo prodotto con caratteristiche generiche, in modo tale da garantire l’adattamento della domanda alle esigenze dell’offerta. Tale convergenza, di norma, può venire conseguita attraverso la pubblicità, il cui compito è di porre in evidenza le differenze tra prodotti e condizionare la domanda, minimizzando le resistenze che essa frappone a causa della sua eterogeneità di fondo. A tale riguardo, osserva Chamberlin, «se tutti i prodotti fossero realizzati su ordinazione la produzione sarebbe certamente meno efficiente e un numero inferiore di bisogni verrebbe soddisfatto, anche se con maggiore

140 P. R. Dickson, J. L. Ginter, “Market Segmentation, Product Differentiation, and Marketing Strategy”, in Journal of Marketing, vol. 51, April 1987, pag. 2. 141 C. Mauri, Concorrenza dinamica. Modelli di analisi, Egea, Milano, 1990, pag. 128. 142 S. Podestà, Prodotto, consumatore e politica di mercato, op. cit., pag. 38.

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precisione»143. Di conseguenza, allorquando le economie di scala esistono, ciascuna impresa può conseguire la massima efficienza solo ipotizzando la produzione della quantità corrispondente al punto minimo della propria curva dei costi. Tuttavia il caso ipotizzato risulta dal punto di vista empirico puramente ipotetico, in quanto in forza della differenziazione del prodotto un numero eccessivamente elevato di imprese di dimensioni ridotte si trova ad operare nel settore, ad un livello di produzione inferiore all’ottimale, con un costo unitario superiore al minimo144. Le imprese funzionano quindi a livelli sub-ottimali. La conseguenza è che nel lungo periodo si determina un’inefficiente allocazione delle risorse, dal momento che le imprese non conseguono la loro posizione di costo minimo, per cui l’equilibrio di mercato risulta caratterizzato da capacità inutilizzata. Questo tipo di conclusione viene comunque contestata da Chamberlin, il quale ritiene che il costo superiore sostenuto dai produttori sarebbe determinato dalla necessità di produrre i beni differenziati richiesti dai consumatori, e in tal modo compensato dalla disponibilità degli stessi a pagare un prezzo superiore per poter usufruire di un ampio ventaglio di scelta. Pertanto la differenza tra yC e yE non potrebbe considerarsi la misura della capacità in eccesso, quanto piuttosto il <costo sociale> da sostenere per produrre una vasta gamma di beni. Inoltre, secondo l’opinione dell’Autore, la concorrenza di prezzo e la libertà di entrata nel mercato opererebbero in modo tale che il livello di equilibrio della produzione yE risulterebbe particolarmente prossimo a quello di concorrenza perfetta yC.145 Un’osservazione conclusiva al lavoro di Chamberlin concerne la notevole differenza intercorrente tra il suo approccio alla differenziazione dei prodotti rispetto all’interpretazione presentata nel 1929 da H. Hotelling146. Come già posto in evidenza, Chamberlin ritiene che le preferenze dei consumatori siano definite sull’intero insieme dei beni disponibili, suddivisi in gruppi, che si possono concepire come acquistati in blocco da una sorta di “consumatore rappresentativo”, caratterizzato da una preferenza per la varietà. Hotelling reputa invece che l’insieme dei beni possibili possa essere concepito riferendosi allo spazio delle caratteristiche in cui ciascun

143 E. H. Chamberlin, Towards a more general theory of value, Oxford University Press, New York, 1957; trad. it.: Verso una più generale teoria del valore, Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino, 1960, pag. 121. 144 La situazione descritta si configura poiché la tangenza fra la curva del costo medio di lungo periodo CML e la curva di domanda della singola impresa d avviene lungo il tratto decrescente della CML.. Ne deriva una differenza tra l’output prodotto in concorrenza perfetta yC e l’output prodotto in concorrenza monopolistica yE, la quale esprime la condizione di capacità in eccesso in cui si trovano ad operare le molteplici imprese in concorrenza monopolistica (S. Zamagni, Economia Politica, op. cit., pag. 412). 145 S. Zamagni, Economia Politica, op. cit., pag. 413. 146 H. Hotelling, “Stability in Competition”, in Economic Journal, n. 39, 1929, pagg. 41-57.

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prodotto, secondo il proprio vettore di coordinate (o indirizzo), tende a collocarsi.147 Le preferenze dei consumatori sono distribuite sullo spazio delle caratteristiche in modo che ogni individuo possa definire il prodotto o indirizzo che preferisce. Ciascuno effettuerà allora una scelta univoca tra i prodotti disponibili, evitando di intraprendere l’attività di quasi-produzione associata al consumo combinato di più beni. La domanda espressa dal mercato per un particolare prodotto, dunque, dipende dal prezzo praticato dal produttore e da quelli applicati dai produttori dei beni ad esso più prossimi nello spazio delle caratteristiche, oltre che dalle preferenze dei consumatori.148 L’intensità della competizione tende allora ad affievolirsi all’aumentare della distanza tra i prodotti nello spazio delle caratteristiche, in virtù di preferenze asimmetriche che consentono a ciascun individuo di ordinare in modo univoco tutti i prodotti disponibili, a parità di prezzo. In questo aspetto, tale approccio differisce dal precedente, secondo cui l’ipotesi di simmetria delle preferenze comporta la competizione di ciascun bene con tutti gli altri. I due approcci formalizzano quindi in modo estremamente diverso il concetto di varietà. Mentre nella letteratura che ha avuto origine dal contributo di Hotelling lo spettro dei prodotti e delle preferenze è infinito, e per ciascun prodotto il mercato esprime una funzione di domanda distinta, in Chamberlin la funzione di utilità del consumatore rappresentativo possiede come proprio argomento un intero gruppo di prodotti che, considerati nel loro insieme, ricoprono l’intero spettro delle caratteristiche, e la funzione di domanda concerne quindi l’intero gruppo degli stessi. Di conseguenza, mentre l’obiettivo dei modelli alla Chamberlin è di descrivere i prodotti, quello dei modelli alla Hotelling consiste nella descrizione delle domande espresse dai consumatori.149

147 L. Lambertini, Differenziazione del prodotto e comportamenti strategici, Clueb, Bologna, 1996, pag. 16. 148 L. Lambertini, Differenziazione del prodotto e comportamenti strategici, op. cit., pag. 16. 149 L. Lambertini, Differenziazione del prodotto e comportamenti strategici, op. cit., pagg. 16-17.

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III. Gli studi contemporanei in tema di differenziazione dei prodotti. III.1 Il contributo dell’economia industriale. Una volta convenuta la presenza di prodotti differenziati, il passo successivo diviene l’ammissione dell’esistenza di limiti alla libertà di entrata nel mercato. Deve venire allora riconosciuta l’interdipendenza tra le imprese e, quindi, l’importanza del “piccolo gruppo” di Chamberlin, attraverso l’approfondimento della teoria dell’oligopolio. Dalla necessità di approfondire il problema delle condizioni di entrata nel mercato e dell’interdipendenza oligopolistica tra imprese, per opera soprattutto di E. Mason e di J. S. Bain, vengono poste le basi per la moderna Economia Industriale, tesa appunto all’analisi dei settori (Industry). Il nuovo filone di studi tenta principalmente di colmare il divario esistente tra i modelli teorici dell’economia neoclassica e la realtà dei settori, muovendo dalla convinzione che il funzionamento dei mercati rappresenti il meccanismo attraverso cui avviene l’allocazione delle risorse. Questa nuova area disciplinare risulta favorita da un processo convergente che ravvicina trattazioni teoretiche e analisi empiriche, come conseguenza di profonde modificazioni dei moderni sistemi economici, prospettando da un lato nuovi quadri di riferimento empirici agli studiosi di economia applicata, e inducendo dall’altra i moderni teorici dell’economia a studiare le imprese ad un minore livello di astrazione.150 Una trattazione iniziale dei temi dell’economia industriale si era già manifestata alla fine del secolo scorso con l’obiettivo di predisporre opportuni strumenti alla politica economica, nel periodo in cui la legislazione antitrust era ancora agli albori. Ma è soprattutto dopo la crisi economica degli anni Venti, allorquando si è alla ricerca di nuove teorie in grado di dare un contributo ai problemi della crisi, e per merito poi della teoresi della concorrenza monopolistica, che si sviluppa la moderna economia industriale. Negli anni Trenta infatti, Mason, riconoscendo i limiti del modello della concorrenza perfetta come strumento di analisi operativa delle interdipendenze competitive, propone di ricondurre le differenze di comportamento concorrenziale tra diverse imprese a differenze sistematiche nella struttura dei mercati in cui esse agiscono.151 Da allora questa

150 F. Momigliano, Economia industriale e teoria dell’impresa, Il Mulino, Bologna, 1975, pag. 21. 151 In Economia Industriale, in particolare, la tradizione dominante nasce per sottoporre a rigorosi controlli empirici l’ipotesi che differenze intersettoriali nella redditività dipendano principalmente da differenze nelle strutture dei settori di appartenenza delle imprese.

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interpretazione è stata progressivamente affinata, trovando una definitiva codificazione nel paradigma struttura-comportamento-risultati152: assunto di base diviene l’esistenza di un meccanicismo causale fra le tre componenti. La posizione degli Autori rispetto al significato di questa relazione causale non è unanime. Muovendo dalle difficoltà mostrate da un’analisi tradizionale del dinamismo settoriale e d’impresa, anche il paradigma è stato sottoposto a critiche e revisioni, cosicché oggi si possono individuare almeno tre posizioni distinte.153 Una prima posizione, la più antica in ordine cronologico, è attribuibile agli Autori che coniando il concetto medesimo hanno inteso connettere i momenti della triade ad un preciso rapporto causa-effetto. Bain, in particolare, insiste sull’esistenza di legami empirici diretti tra struttura di mercato e risultati senza però attribuire importanza all’elemento intermedio - il comportamento - ipotizzando che le imprese presentino obiettivi simili e si adattino passivamente ai cambiamenti dell’ambiente. Bain ritiene infatti che le strutture di mercato condizionino a tal punto i comportamenti delle imprese da collegare direttamente le strutture con i risultati conseguiti. In questa impostazione (definita “strutturalista”) dunque, la condotta strategica viene considerata una black box la cui logica interna può non essere oggetto d’indagine scientifica sempreché sia possibile individuare dei legami statisticamente significativi tra le diverse forme strutturali e i diversi livelli di risultato.154 Questo approccio colloca lo studio del settore e della concorrenza in una prospettiva eminentemente statica, in base al presupposto che le strutture settoriali si modifichino (lentamente) sotto l’influsso di tendenze di fondo indipendenti dal comportamento delle imprese.155 «Gli studiosi di organizzazione industriale - osserva F. M. Scherer156 - hanno fatto bene ad adottare la dicotomia struttura-risultati proposta da Bain, ma si può fare ancora meglio utilizzando un modello più ampio che comprenda legami intermedi con il comportamento. Si possono fare

152 In Inglese questa impostazione concettuale è indicata con la terminologia Structure-Behavior-Performance (SBP). 153 Cfr. R. Schmalensee, “Industrial Economics: An Overview”, in Economic Journal, n. 98, 1988; D. A. Hay, D. J. Morris, Industrial Economics and Organization, Theory and Evidence, 2ª ed., Oxford University Press, Oxford, 1991. 154 Cfr. S. Faccipieri, Concorrenza dinamica e strategie d’impresa, Cedam, Padova, 1988, pagg. 1-2; F. M. Scherer, Industrial Market Structure and Economic Performance, Houghton Mifflin Company, New York, 1980; trad. it.: Economia industriale. Strutture del mercato, condotta delle imprese e performance, Edizioni Unicopli, Milano, 1985, pag. 13. 155 S. Faccipieri, Concorrenza dinamica e strategie d’impresa, op. cit., pagg. XIV-XV. 156 F. M. Scherer, Economia industriale. Strutture del mercato, condotta delle imprese e performance, op. cit., pag. 15.

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progressi e ottenere benefici notevoli, se non nel miglioramento delle politiche governative, perlomeno nella felicità della conoscenza». La revisione di questa impostazione si basa quindi sull’accentuazione del ruolo, almeno in parte autonomo, del “comportamento” nel conseguimento dei risultati (impostazione “comportamentista”). Il venir meno della stretta connessione fra struttura e comportamento avviene (anche per effetto del clima economico e culturale degli anni Cinquanta e Sessanta) attraverso l’individuazione di una libertà di scelta da parte dell’impresa nell’obiettivo da perseguire. La sempre più diffusa separazione fra proprietà e controllo e la natura più “politica” e “istituzionale” dell’impresa di rilevanti dimensioni, conducono alla conclusione che essa possa assumere obiettivi di lungo periodo diversi dall’utile (maggiore crescita, rafforzamento del potere manageriale), che invece può scadere a condizione limitativa della libertà d’azione.157 Mentre nell’impostazione tradizionale l’impresa è reputata quale <adattatrice razionale>158 subordinata ai processi selettivi del mercato, in questa nuova concezione dell’economia industriale l’impresa diviene attivamente impegnata nella ricerca di strategie di dominazione volte al rafforzamento della posizione competitiva. Il potere di mercato diviene allora la capacità dell’imprenditore di modificare le condizioni economico-ambientali a proprio favore, agendo e sulla domanda (differenziazione del prodotto, cambiamento di stile, diversificazione produttiva), e sui costi (costituzione di capacità in eccesso, politiche di innovazione). Come sottolinea R. M. Grant159 «una caratteristica chiave del processo competitivo è che la struttura settoriale subisce un continuo cambiamento ad opera delle decisioni strategiche delle imprese e delle loro interazioni competitive. La concorrenza è infatti un processo dinamico in cui non viene mai raggiunto l’equilibrio e nel corso del quale le strutture del settore cambiano continuamente». In particolare, a muovere dagli anni Settanta le forme di competizione industriale entrano in una fase di più rapida evoluzione. Dapprima l’instabilità e la turbolenza generate dalla crisi economica seguita al primo shock petrolifero, poi la forte accelerazione dell’innovazione tecnologica, profondamente ridisegnano l’organizzazione di interi settori industriali per quanto attiene sia tecnologie di prodotto e di processo sia strutture di

157 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 333. 158 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 333. 159 R. M. Grant, Contemporary Strategy Analysis. Concepts, Techniques, Applications, Blackwell, Oxford, 1991; trad. it.: L’analisi strategica nella gestione aziendale. Concetti, tecniche, applicazioni, Il Mulino, Bologna, 1994, pag. 89. Cfr. anche A. P. Jacquemin, H. W. De Jong, European Industrial Organization, The MacMillan Press, London, 1977; trad. it.: Economia e Politica industriale, Il Mulino, Bologna, 1979, pag. 214.

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mercato. In alcuni dei mercati a più rapida espansione, posizioni dominanti vengono acquisite in breve tempo da nuove entranti a scapito di importanti imprese che, pur disponendo di una solida esperienza, non riescono ad anticipare le tendenze dell’innovazione tecnologica e cogliere con la necessaria tempestività le opportunità che essa crea.160 Questo processo di redistribuzione delle quote di mercato e delle posizioni di leadership industriale non interessa soltanto singoli settori, ma tutta l’<economia-mondo>161: la competizione diviene globale e ciò consente di trasferire e di valorizzare su scala internazionale vantaggi competitivi nascenti dalla connessione dell’impresa con il proprio ambiente economico-istituzionale di origine. Nel loro insieme questi svolgimenti azzerano il potere esplicativo dei tradizionali approcci allo studio del settore e della concorrenza. Una terza impostazione alternativa può forse emergere nel campo dell’economia aziendale. Mentre le due precedenti impostazioni possono venire reputate quale formulazione oggettivistica del rapporto fra settore e imprese in una versione rispettivamente “forte” e “debole”, l’approccio strategico di matrice aziendale162 può essere interpretato come una elaborazione a carattere soggettivistico, nel senso che l’impresa è considerata quale entità che, avvalendosi di una valida strategia, riesce a superare i vincoli imposti dal mercato in cui si trova ad operare. Non si nega quindi l’esistenza di condizionamenti, né l’influsso di vantaggi differenziali di cui godono le molteplici imprese, e tuttavia il conseguimento di utili, più che derivare dalla dinamica complessiva del settore, viene fatto dipendere dalla bontà delle scelte imprenditoriali. Questo approccio, che privilegia gli aspetti normativi rispetto a quelli di analisi positiva, tende quindi a far assumere al “comportamento” il ruolo di fattore cruciale prioritario dello schema.163 Ritornando ora alla connessione tra differenziazione dei prodotti e limiti alla libertà di entrata nel mercato, suggerita all’inizio del paragrafo, un’interpretazione significativa in tal senso è attribuibile a Bain e alla sua concezione di “concorrenza potenziale”, quale importante dimensione da

160 S. Faccipieri, Concorrenza dinamica e strategie d’impresa, op. cit., pag. XIII. 161 Si tratta di «un’economia in cui nessuna impresa, per quanto grande sia il mercato nazionale, può disinteressarsi degli eventi concorrenziali che si producono a livello mondiale, in quanto l’accesso al sistema internazionale offre un vantaggio competitivo irrinunciabile, dato che è ormai sempre più a livello mondiale che le imprese acquisiscono le conoscenze, le risorse e le specifiche capacità utili per competere» (G. Bertoli, “La piccola impresa di fronte alla globalizzazione dei mercati: alcune riflessioni”, in Finanza, Marketing e Produzione, n. 3, Settembre 1989, pagg. 148-149). 162 Un approfondimento sull’importanza della strategia negli studi aziendali verrà effettuato nel paragrafo III.2. 163 G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 334.

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aggiungere al novero delle forze che rendono funzionante il meccanismo di mercato. In questo senso occorre sottolineare come fino alla prima metà degli anni Cinquanta l’analisi neoclassica dei mercati non aveva considerato appieno il ruolo della concorrenza esterna nel comportamento delle imprese. Essa viene di norma subita dall’impresa atomistica che, per sua natura, opera individualmente. Ma in oligopolio, così come l’impresa deve considerare le reazioni dei rivali, essa deve altresì stimare gli effetti delle proprie politiche sulla decisione di entrare da parte di nuove imprese. La massimizzazione degli utili nel breve periodo potrebbe essere preclusa se l’impresa intende evitare una futura partizione del mercato con nuove concorrenti. I suoi prezzi, però, non dovranno essere necessariamente quelli della concorrenza perfetta, se il settore viene sufficientemente protetto da “barriere all’entrata”. È appunto dall’esame della natura degli ostacoli incontrati dai concorrenti potenziali nei mercati oligopolistici che muovono le analisi di Bain, volte alla definizione di un prezzo di “esclusione” o “limite”. In un saggio pubblicato nel 1949164, l’Autore si propone di analizzare il motivo per cui le imprese oligopolistiche mantengano il prezzo in corrispondenza di un livello di domanda cui viene associata un’elasticità minore di 1.165 Per spiegare questo dato empirico, che contrasta con la teoria neoclassica della massimizzazione degli utili, Bain ritiene che debba essere proposta la disamina della concorrenza potenziale. Considerando la sola entrata effettiva si giunge alla conclusione che l’equilibrio di concorrenza perfetta di lungo periodo risulti individuato dalla condizione che impone l’eguaglianza tra prezzo e costo medio minimo di lungo periodo (CML). Secondo l’Autore, invece, tale eguaglianza è resa impossibile dall’esistenza di barriere all’entrata; d’altra parte, l’impresa monopolistica non definisce il prezzo ad un livello compatibile con la massimizzazione degli utili per timore di entrate potenziali. La conseguenza è allora che il prezzo viene stabilito ad un livello superiore al CML, ma inferiore a quello di monopolio (il prezzo implicato dall’eguaglianza tra costo e ricavo marginale). È questo il prezzo limite: il prezzo maggiore che l’impresa ritiene di poter applicare senza indurre nuove imprese ad entrare nel mercato.166 Nella sua opera principale, Barriers to New Competition, del 1956, Bain definisce poi come <condizione all’entrata> o <stato della concorrenza potenziale> il vantaggio di cui le imprese esistenti dispongono nei confronti delle potenziali entranti, vantaggio che si riflette nell’eccedenza dei prezzi praticati rispetto ai prezzi correnti senza indurre nuove imprese ad

164 J. S. Bain, “A note on Pricing in Monopoly and Oligopoly “, in American Economic Review, 1949. 165 Come si sa, │e │< 1 comporta che il profitto non sia massimo. 166 J. S. Bain, “A note on Pricing in Monopoly and Oligopoly “, art. cit., pag. 454.

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entrare.167 Così, se in un settore può essere osservato un prezzo superiore nel lungo periodo al costo medio minimo ottenibile a livello di gestione ottimale dell’impresa senza che entrino nuovi rivali sul mercato, allora significa che l’entrata incontra ostacoli o barriere. In particolare si può osservare come il punto di riferimento siano i costi medi minimi o costi concorrenziali, non quelli effettivi delle imprese, le quali potrebbero anche produrre a costi maggiori. La presenza delle barriere potrebbe dunque coprire inefficienze da parte delle aziende esistenti sul mercato.168 La <condizione all’entrata> è definibile perciò come la misura percentuale di aumento del prezzo al di sopra del livello competitivo, attuabile dall’impresa esistente senza provocare nuovi ingressi: tale percentuale può variare continuamente da zero a una cifra particolarmente elevata, rendendo l’accesso gradatamente “più difficile” di mano in mano che essa aumenta.169 Tra le barriere all’entrata, Bain annovera i vantaggi di costo170, le economie di scala171, e in particolare la differenziazione dei prodotti. 167 J. S. Bain, Barriers to New Competition. Their Character and Consequences in Manufacturing Industries, Harvard University Press, Cambridge, 1956; trad. it.: La limitazione della concorrenza. Politiche e tecniche per ostacolare l’entrata di nuove imprese nei diversi settori industriali, F. Angeli Editore, Milano, 1975, pag. 20. La definizione di barriera all’entrata proposta si basa sull’esistenza di una asimmetria che avvantaggia le imprese attive nei confronti delle concorrenti potenziali. Secondo la definizione di C. C. von Weizsäcker, una barriera all’entrata è «un costo di produzione che deve essere sostenuto da un’impresa che cerca di entrare in un’industria, ma non dalle imprese già attive in essa», e che, nonostante comporti una «distorsione nell’allocazione delle risorse dal punto di vista della società» non implica lo stravolgimento del processo concorrenziale e la generazione di inefficienze (C. C. von Weizsäcker, Barriers to Entry. A Theoretical Treatment, Springer, Berlin, 1980, pag. 23). 168 J. S. Bain, La limitazione della concorrenza. Politiche e tecniche per ostacolare l’entrata di nuove imprese nei diversi settori industriali, op. cit., pagg. 25-26. 169 J. S. Bain, La limitazione della concorrenza. Politiche e tecniche per ostacolare l’entrata di nuove imprese nei diversi settori industriali, op. cit., pag. 22. Un’osservazione appare opportuna, ossia che le barriere all’entrata non possono essere reputate soltanto come dato oggettivo che contraddistingue il funzionamento di un certo mercato, ma dipendono anche da condizioni soggettive dell’impresa. È in funzione delle risorse specifiche, di cui quest’ultima è dotata, che certune barriere appaiono più o meno elevate o che addirittura finiscono per annullarsi. Bisogna infatti osservare che l’evoluzione della teoria d’impresa ha condotto a “soggettivizzare” le barriere, concludendo che esse, più che dipendere dalla struttura del mercato, si connettono alla dotazione di risorse dell’impresa. La resource-based theory pone perciò al centro dell’analisi competitiva le specificità di ciascuna impresa in termini di risorse, capacità, competenze, anziché muovere dall’analisi classica agganciata alla struttura del settore. In base a questa nuova costruzione teorica il vantaggio competitivo non è solo il frutto del posizionamento e della presenza delle barriere all’entrata, ma anche funzione della qualità delle risorse che un’impresa si trova ad avere a disposizione per affrontare il confronto concorrenziale (S. Sciarelli, Economia e gestione dell’impresa, Cedam, Padova, 1997, pag. 48). 170 I vantaggi di costo derivano da: a) controllo delle fonti di offerta di materie prime, b) brevetti e tecniche disponibili solo a imprese già affermate, c) personale esperto, d) minore costo del capitale di prestito (J. S. Bain, La limitazione della concorrenza. Politiche e

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Tra le cause degli elevati ostacoli all’entrata attribuibili alla differenziazione, l’Autore menziona: a) l’accumulo di preferenze da parte degli acquirenti, sovente sotto l’influsso di prolungate campagne pubblicitarie per stabilire la fedeltà alla marca o la reputazione dell’impresa; b) l’impiego di organizzazioni di vendita professionalizzate; c) la proprietà o il controllo di sistemi distributivi favoriti rispetto a quelli organizzabili successivamente. Ne consegue uno svantaggio per gli entranti potenziali, svantaggio che può assumere la forma o di prezzi inferiori o di costi maggiori. Per affermarsi sul mercato, infatti, l’impresa entrante potrebbe essere costretta ad accettare un prezzo inferiore rispetto a quello di cui godono le imprese esistenti, oppure potrebbe dover sostenere maggiori costi di vendita per unità venduta, sia continuativamente, sia per il periodo di tempo necessario affinché il consumatore accetti il prodotto.172 Si potrebbero presentare anche diverse combinazioni di questi svantaggi. Il danno complessivo sofferto dall’impresa in ciascun momento a causa della differenziazione del prodotto corrisponderebbe allora alla somma (calcolata in termini di unità di prodotto) dei due svantaggi dovuti al prezzo e al costo di vendita. In Bain, come nella maggior parte degli Autori degli anni Cinquanta e Sessanta, <differenziazione del prodotto> significa essenzialmente che i compratori differenziano, distinguono, o presentano specifiche preferenze tra i prodotti dei molteplici concorrenti presenti nel mercato. In termini tecnici, il grado di differenziazione del prodotto misura, per gli acquirenti, il grado di imperfezione della sostituibilità dei prodotti di un mercato. Si suppone dunque che ciascun concorrente produca un solo bene ma che esso, anche se realizzato con tecniche di produzione simili, in realtà abbia sul mercato una posizione differente rispetto a quelli in competizione, in virtù delle diverse preferenze espresse dai compratori per l’uno piuttosto che per gli altri.173

tecniche per ostacolare l’entrata di nuove imprese nei diversi settori industriali, op. cit., pagg. 38-39). 171 Le economie di scala possono risultare di natura reale (minori quantità di fattori per unità di prodotto), pecuniaria (maggiore capacità contrattuale della grande impresa che si riflette nei prezzi degli inputs), oppure connesse alla pubblicità e ad altri tipi di promozione delle vendite su larga scala (J. S. Bain, La limitazione della concorrenza. Politiche e tecniche per ostacolare l’entrata di nuove imprese nei diversi settori industriali, op. cit., pag. 39). 172 J. S. Bain, La limitazione della concorrenza. Politiche e tecniche per ostacolare l’entrata di nuove imprese nei diversi settori industriali, op. cit., pag. 181. 173 P. Bianchi, M. Caroli, F. Delbono, A. Heimler, A. Jacquemin, R. Marris, C. Milana, F. Onida, C. Scognamiglio, P. Sylos Labini, Oligopolio e concorrenza dinamica: impresa, mercato e sistema economico, Sipi Editore, Roma, 1990, pag. 9.

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Le barriere connesse alla differenziazione derivano allora da una sorta di <rendita di posizione> acquisita dall’impresa in anni di presenza sul mercato e di produzione dello stesso bene. Esse possono consentire il mutamento della curva di domanda riducendone l’elasticità al prezzo; in questo senso, tanto più si restringe l’estensione del mercato e si riduce l’elasticità della domanda (data la curva di produzione specificante la dimensione minima efficiente), tanto più si accresce il premio monopolistico riconosciuto all’impresa.174 Può risultare ora interessante chiedersi quale relazione sussista tra la differenziazione del prodotto e la struttura del mercato, e in particolare che rapporto intercorra con la concentrazione dello stesso, intesa come l’insieme delle «caratteristiche di un mercato significative da un punto di vista economico, tali da determinare il comportamento delle imprese operanti in esso»175. A tale riguardo Bain, reputando la differenziazione una possibile barriera all’entrata, ritiene che i settori con intensa differenziazione del prodotto presentino un’elevata concentrazione dell’offerta. Questa interpretazione differisce dell’ipotesi di Chamberlin, il quale sostiene che la differenziazione del prodotto tenda a condurre verso una struttura di mercato frammentata. In effetti, il concetto di concorrenza monopolistica si fonda sul criterio della differenziazione dell’offerta più che su quello della concentrazione. Esso deriva infatti dall’opportunità, per ciascun produttore, di rivolgersi a una “nicchia” del mercato mediante la differenziazione intrinseca o estrinseca dei suoi prodotti rispetto ai concorrenti. Poiché per attuare un’efficace politica di differenziazione occorrono tuttavia ingenti risorse, si può forse reputare il mercato caratterizzato comunque da un certo grado di concentrazione.176

174 P. Bianchi, M. Caroli, F. Delbono, A. Heimler, A. Jacquemin, R. Marris, C. Milana, F. Onida, C. Scognamiglio, P. Sylos Labini, Oligopolio e concorrenza dinamica: impresa, mercato e sistema economico, op. cit., pagg. 9-10. 175 R. Caves, American Industry: Structure, Conduct, Performance, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1964; trad. it.: Economia industriale, Il Mulino, Bologna, 1970, pag. 37. 176 Secondo taluni economisti il carattere tipico dell’organizzazione della produzione moderna sarebbe quello della concentrazione, a cui – a seconda della natura dei prodotti – si potrebbe accompagnare quello della differenziazione. Da ciò deriverebbe la concezione dell’oligopolio quale forma prevalente di mercato (il cosiddetto “piccolo gruppo” di Chamberlin in luogo del “grande gruppo”), che tuttavia dovrebbe essere approfondito analizzando le tre varianti di oligopolio differenziato, misto e concentrato. Il primo definito come quella condizione per cui ciascun venditore è in diretta concorrenza con pochi altri venditori, in ragione dei caratteri di differenziazione dei prodotti posti sul mercato; l’oligopolio concentrato come quello in cui manca o è irrilevante il principio di differenziazione; e l’oligopolio misto come una situazione intermedia, che presenta le

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Una posizione analoga a quella di Chamberlin in merito alla situazione di frammentazione dell’offerta è assunta da K. Lancaster, secondo il quale la coesistenza della differenziazione e della concentrazione dipende dalla perfezione della concorrenza, o meglio dall’esistenza di un’ipotetica struttura di mercato, da Egli definita <concorrenza monopolistica perfetta>, compatibile con il grado ottimale di differenziazione del prodotto.177

Quest’ultima risulta caratterizzata dalla presenza di economie di scala e dall’eterogeneità delle preferenze, reputate dall’Autore come elementi strutturali intrinseci destinati a durare nel tempo, e non come imperfezioni del mercato. Si tratta dunque di una struttura caratterizzata dalla perfetta informazione da parte delle imprese e dei consumatori: le prime conoscono le preferenze della domanda e i secondi conoscono le specificazioni e i prezzi di tutte le imprese. Vi è inoltre un comportamento non collusivo da parte delle aziende, nonché il libero ingresso nel mercato e l’uscita senza costi nell’ipotesi di perdite.178 Una situazione del genere stenta tuttavia a riscontrarsi nella realtà, e in effetti lo stesso Lancaster individua cause di <deviazione dalla perfezione>, quali a) l’incompletezza delle informazioni, b) i costi di entrata, c) la presenza di imprese multiprodotto. Nel primo caso, Egli ritiene che le imprese abbiano convenienza a informare il mercato in misura tanto maggiore quanto più i consumatori siano consapevoli delle proprie preferenze. Nell’ipotesi in cui i consumatori non fossero autocoscienti, l’impresa potrebbe affidarsi a una pubblicità che generi differenze immaginarie tra i prodotti nonostante l’assenza di differenze effettive: essa viene definita “pseudodifferenziazione”. Gli effetti della pseudodifferenziazione si manifestano nell’irrigidimento della curva di domanda, che può risultare anche consistente per investimenti pubblicitari elevati.179 La seconda forma di imperfezione deriva dalle barriere all’entrata e dai costi di modificazione del prodotto. Le barriere all’entrata comporteranno una caratteristiche della concentrazione e della differenziazione (S. Sciarelli, Economia e gestione dell’impresa, op. cit., pagg. 42-43). 177 L’importanza di Lancaster nell’ambito dell’economia industriale va ricondotta al suo approccio (1966) alla teoria del consumatore, secondo il quale la teoria moderna della domanda viene caratterizzata da una nuova impostazione che muove da un concetto di prodotto più complesso rispetto alle concezioni tradizionali. Il bene viene infatti inteso quale «insieme di attributi, di caratteristiche quantitative e qualitative che il consumatore ricerca per la loro attitudine a soddisfare i bisogni». È la combinazione di tali caratteristiche che procura il soddisfacimento, non il bene in sé: esse non possono venire acquistate direttamente ma sono incorporate nelle merci (Cfr. K. Lancaster, Variety, Equity and Efficiency, Columbia University Press, New York, 1979; K. Lancaster, Modern Consumer Theory, Edward Elgar Publishing Company, Brookfield, 1991, pag. 155). 178 K. Lancaster, Modern Consumer Theory, op. cit., pag. 198. 179 K. Lancaster, Modern Consumer Theory, op. cit., pagg. 198-199.

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riduzione del numero di imprese in equilibrio e quindi della differenziazione dei prodotti, mentre i costi di modificazione daranno luogo alla diminuzione del numero dei beni prodotti.180 Per quanto concerne infine le imprese multiprodotto, le conseguenze della presenza di esse sulla struttura settoriale dipenderanno dalla distribuzione dei beni lungo lo spettro delle preferenze dei consumatori, e in misura minore dall’esistenza di economie di scopo181 (“interproduct economies”). Nel caso in cui i beni fossero distribuiti senza contiguità lungo lo spettro e le imprese godessero di economie di scopo, continuerebbero a valere le condizioni della concorrenza monopolistica perfetta. Nell’ipotesi invece in cui i beni fossero collocati uno di seguito all’altro fino a costituire un “blocco” di prodotti adiacenti, l’impresa godrebbe di un monopolio virtuale su un’area specifica del mercato, avendo coperto con la propria produzione tutti i vuoti di offerta. Se a ciò si accompagnasse la presenza di economie di scopo, le quali rendessero conveniente produrre un certo numero n di prodotti, la struttura del mercato consisterebbe di un numero limitato di imprese ma con un maggior grado di differenziazione del prodotto.182 Sulla relazione differenziazione-concentrazione, molteplici sono state le interpretazioni espresse da parte di Autori che, nel corso degli anni, hanno tentato di determinare se, all’aumento della dimensione dell’economia, vi fosse una tendenza del mercato a convergere verso una struttura “frammentata”, caratterizzata dalla presenza di un numero elevato di prodotti differenziati con quote di mercato ridotte, oppure verso una struttura “concentrata”, caratterizzata da un numero limitato di prodotti. Al fine di poter determinare la struttura di mercato di equilibrio, essi hanno ritenuto opportuno distinguere tra la differenziazione del prodotto “orizzontale” o “verticale”.183

180 K. Lancaster, Modern Consumer Theory, op. cit., pag. 199. 181 Per economia di scopo, o economia di varietà, si intende la riduzione dei costi derivante dallo svolgimento in comune di attività correlate, rispetto alla gestione separata delle medesime. Secondo A. Baldissera «la nozione di economia di scopo deve venire intesa soprattutto come nozione economico-aziendale, giacché l’orientamento delle strategie d’impresa deve fondarsi non sul solo potenziale risparmio nei costi di produzione derivante dalla combinazione di due o più attività, bensì sull’economicità complessiva della strategia, da valutarsi rispetto all’impresa che la attua, piuttosto che in relazione a un’astratta e teorica misurazione di costi relativi a produzioni separate. (…) Pertanto, il conseguimento di economie di scopo nella produzione non si pone quale obiettivo prioritario della strategia di differenziazione, quanto piuttosto come eventuale condizione agevolativa della strategia medesima» (A. Baldissera, La produzione nell’impresa industriale. Fondazioni economico-aziendali e critica della microeconomia, Cedam, Padova, 2000, pagg. 216-218). 182 K. Lancaster, Modern Consumer Theory, op. cit., pagg. 200-201. 183 A. M. Ciarrapico, “Differenziazione del prodotto e concentrazione del mercato”, in Economia, Società e Istituzioni, n. 1, Gennaio-Aprile 1989, pag. 107.

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Questa terminologia, introdotta da Lancaster184 nel 1979, è ormai divenuta di uso comune. Due prodotti si definiscono differenziati orizzontalmente se, a parità di prezzi, un prodotto offre una quantità maggiore di alcune caratteristiche e una quantità minore di altre (per esempio, due autovetture che differiscono solo per il colore, se i consumatori hanno preferenze diverse per i colori). Due prodotti sono invece differenziati verticalmente se, a parità di prezzi, differiscono per la qualità (per esempio, due computers che effettuano la stessa operazione ma uno più lentamente dell’altro).185 In realtà, la distinzione tra differenziazione orizzontale e verticale può essere già ritrovata in Chamberlin, allorquando Egli scrive che «il prodotto può essere migliorato, peggiorato o semplicemente cambiato». Quando il prodotto è “migliorato” o “peggiorato” si può parlare di differenziazione verticale, mentre quando il prodotto è “semplicemente cambiato” si può parlare di differenziazione orizzontale.186 Nel corso degli anni Ottanta, A. Shaked e J. Sutton187 hanno cercato di dimostrare che, in presenza di differenziazione orizzontale, per una data dimensione dell’economia (densità dei consumatori), il numero ottimale di imprese in equilibrio risulta determinato dall’entità dei costi fissi di entrata. Quando la dimensione dell’economia aumenta, e quindi il numero dei consumatori, anche il numero delle imprese presenti sul mercato si accresce illimitatamente: i ricavi delle imprese sono infatti funzione crescente della dimensione dell’economia. Ne consegue la convergenza verso una struttura di mercato frammentata, caratterizzata cioè da un numero elevato di prodotti differenziati con quote di mercato ridotte, tali da consentire l’entrata di ulteriori imprese.188 Nei modelli di differenziazione verticale, invece, non necessariamente si manifesterà la tendenza verso una struttura frammentata: la convergenza o meno verso di essa dipenderà infatti dalla tecnica e dai gusti dei consumatori. Nell’ipotesi di differenziazione verticale, con costi di produzione nulli, Shaked e Sutton ritengono che l’equilibrio possa risultare compatibile con la

184 K. Lancaster, Variety, Equity and Efficiency, op. cit.. 185 G. Bonanno, “Concorrenza imperfetta e differenziazione dei prodotti: una rassegna critica di recenti discussioni analitiche”, in Note economiche, n. 5/6, 1986, pag. 102. 186 A. M. Ciarrapico, “Differenziazione del prodotto e concentrazione del mercato”, art. cit., pag. 108. 187 A. Shaked, J. Sutton, “Relaxing price competition through product differentiation”, in Review Of Economic Studies, n. 49, 1982, pagg. 3-13. 188 Questa conclusione contraddice il “principio di minima differenziazione” di Hotelling (1929), il cui modello è compreso tra quelli di differenziazione orizzontale. Secondo tale principio, il processo di concorrenza fra imprese condurrebbe a fenomeni di “omogeneizzazione” o “agglomerazione” dei prodotti, anziché a situazioni caratterizzate dalla coesistenza di una pluralità di prodotti diversi, ciascuno avente caratteristiche particolari che lo distinguono dagli altri.

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presenza sul mercato di poche imprese. Sarà l’ampiezza dello spettro dei redditi dei consumatori a determinare il numero massimo di imprese, e quindi di prodotti, che potranno essere presenti sul mercato. Considerando invece il caso in cui i costi di produzione siano positivi, la condizione che assicura la convergenza verso una struttura di mercato concentrata è che i costi variabili unitari crescano lentamente al crescere della qualità. È cioè importante che il peso di miglioramenti della qualità del prodotto gravi essenzialmente sui costi fissi, comportando un saggio di variazione dei costi variabili, rispetto alla qualità, non particolarmente elevato.189 Infine, se i prodotti sono differenziati sia orizzontalmente sia verticalmente, saranno i gusti dei consumatori e le caratteristiche della tecnologia del settore a determinare simultaneamente il grado di concentrazione del mercato e il livello dei costi fissi. All’aumentare delle dimensioni dell’economia, inoltre, la struttura del mercato rimarrà concentrata, mentre aumenteranno illimitatamente sia il livello massimo di qualità offerto dalle imprese sia i costi fissi di entrata.190 III.2 Le interpretazioni dell’economia aziendale. Mentre la teoria neoclassica viene sottoposta a revisione, negli Stati Uniti prendono l’avvio alcuni nuovi filoni di analisi dell’impresa che, sebbene differenziati per approcci, natura dei contenuti, strumentazione utilizzati, tentando il superamento della teoria tradizionale giungono a porre le basi di un nuovo indirizzo di studi: la strategia aziendale. L’incontro dissonante e parziale fra gli studi di strategia statunitensi e le dottrine economico-aziendali italiane (ed europee lato sensu) – si parla della transizione fra gli anni Sessanta e Settanta - può essere appieno compreso analizzandolo alla luce della duplice realtà – economica e culturale – dell’una e dell’altra nazione. Verso la fine della secondo conflitto mondiale, quando impellente è il bisogno di ricostruire, di sviluppare i sistemi industriali, di rifarsi della scarsità del tempo di guerra, gli Stati Uniti, che già avevano assolto il ruolo di sostenitori finanziari e militari dell’intero fronte degli Alleati, continuano questo compito ancora più attivamente: essi sono incomparabilmente la maggiore potenza del mondo. Portando al culmine un processo iniziato durante la prima guerra mondiale e accelerato dal superamento della Grande Depressione grazie al New Deal, la nazione americana soverchia con la propria ricchezza, le capacità produttive, le ingenti disponibilità finanziarie tutti gli altri stati, alleati o

189 A. M. Ciarrapico, “Differenziazione del prodotto e concentrazione del mercato”, art. cit., pag. 130. 190 A. M. Ciarrapico, “Differenziazione del prodotto e concentrazione del mercato”, art. cit., pag. 130.

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avversari. Unico grande stato a non aver conosciuto sul proprio terreno i disastri bellici, dotato di un sistema politico stabile e forte, circondato da un prestigio indiscusso per il suo contributo decisivo alla vittoria degli Alleati, dotato per qualche anno ancora del monopolio della bomba atomica, gli Stati Uniti vengono condotti dalla logica degli eventi, oltre che dai propri interessi e dal mutamento degli equilibri mondiali, a svolgere una politica su scala globale, a differenza di quanto accaduto nel primo dopoguerra. La prosperità così raggiunta, insieme all’abbondanza delle riserve auree, genera le condizioni affinché il dollaro possa assumere, già durante la guerra, il ruolo di moneta internazionale che era stato in precedenza proprio della sterlina. Per questo, quando nel 1944 i principali paesi si incontrano a Bretton Woods per definire le regole di un nuovo sistema monetario internazionale, prevale la tesi di adottare il dollaro come mezzo di riserva, consentendo così agli Stati Uniti la facoltà di generare liquidità internazionale offrendo dollari al resto del mondo. L’urgenza poi delle ricostruzioni e l’esigenza di disporre di moneta per il regolamento delle transazioni rendono necessario, e quindi legittimano, il deficit della bilancia dei pagamenti americana, di cui gli Stati Uniti si avvalgono per finanziare dispendiosi programmi di guerra fredda, progetti civili di aiuti all’estero e un cospicuo ammontare di investimenti che trovano in Europa appetibili possibilità di utili. L’economia statunitense, ricca, ampia e d’avanguardia, rapidamente si riconverte alle produzioni di pace, riprendendo così i suoi tipici processi di sviluppo, che datano sin dai primi anni Venti. È appunto grazie ad essi che negli anni Cinquanta negli Stati Uniti raggiunge l’apice la trasformazione che, iniziata sin dal primo dopoguerra con i consumi di massa e in generale con lo svolgimento della vita associata secondo condizioni di “modernità”, avrebbe visto il rapido e massiccio diffondersi di processi di comunicazione collettiva: pubblicità, distribuzione, efficienza produttiva, e su tutto l’ampliarsi ampio e crescente della domanda nel generale diffondersi dei moltiplicatori keynesiani.191 Gli anni Cinquanta si caratterizzano quindi per 191 A. Canziani, “Una rilettura critica di Ansoff”, in L’impresa, n. 4, 1988, pag. 136. Un deciso miglioramento della qualità dei consumi, tra cui in particolare una maggiore varietà di generi d’abbigliamento, l’automobile e gli elettrodomestici ormai accessibili alla massa degli Americani, alimentano la prima ondata di consumismo che si manifesta già durante la guerra e che poi, cadute le limitazioni belliche, si intensifica nel periodo immediatamente successivo alla cessazione del conflitto. Sono gli anni in cui entrano nell’uso comune le calze di nylon, che rimarranno rare in Europa almeno fino alla ripresa post-bellica, in cui i parcheggi delle fabbriche si riempiono di automobili di dimensioni sempre maggiori, le case di frigoriferi e aspiratori. A muovere poi dal 1946-1947, inizia la corsa all’acquisto della casa, che provocherà un boom delle costruzioni destinato a durare decenni. Sono alcuni aspetti, anche se i più appariscenti, di quell’egualitarismo dei consumi destinato a estendersi a molteplici settori della vita quotidiana, come i cibi, l’arredamento, le attività ricreative. Egualitarismo che, abilmente gestito da una pubblicità sempre più sofisticata e invadente, contribuirà a quel processo di integrazione sociale, basato su

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una considerevole crescita dell’economia statunitense, in un clima ottimista e autoconvinto, nella speranza di una nuova età dell’oro di sviluppo senza fine.192 A tale crescita si accompagna la ripresa economica dell’Europa, grazie soprattutto agli ingenti aiuti economici erogati dal 1947 con il Piano Marshall, che contribuiscono al rafforzamento dell’egemonia politico-economica degli Stati Uniti. Secondo il presidente Truman i finanziamenti assumono una particolare connotazione politica, espressa chiaramente dall’affermazione “garanzie date ai paesi non comunisti contro l’espansione del comunismo”.

elementi in parte effettivi in parte effimeri, che raggiungerà le sue espressioni più compiute negli anni Cinquanta, il decennio d’oro nel corso del quale la middle class statunitense “celebrerà i suoi fasti” (G. Mammarella, L’America da Roosevelt a Reagan. Storia degli Stati Uniti dal 1939 a oggi, Editori Laterza, Bari, 1986, pag. 101). 192 Negli anni Cinquanta vi è la diffusa sensazione tra la popolazione che una crescita, che pare inarrestabile, stia conducendo gli Stati Uniti verso un futuro di benessere e di eguaglianza sociale generalizzata. Questa sensazione è provocata da una felice combinazione tra reinsediamento, crescita della popolazione, prolungamento della vita media, dinamismo sociale, imprenditoria e politica governativa, che mantengono elevata e talvolta surriscaldano la congiuntura favorevole. In particolare, l’aumento della popolazione viene accompagnato da una crescente dilatazione dei canali di marketing e da un’eccezionale differenziazione e diversificazione dell’offerta. La commercializzazione diviene di importanza prioritaria rispetto alla produzione: non si produce più per soddisfare la domanda, ma per sostenerla e stimolarla. Attraverso una sistematica applicazione della ricerca e della tecnologia alla produzione, nuovi prodotti, nuovi materiali, nuove macchine domestiche, utili o addirittura inutili, entrano nell’uso comune degli Americani, influendo sul loro modo di vestirsi, di mangiare e più generalmente sul loro stile di vita. La maggiore disponibilità di denaro, la settimana lavorativa più breve, il generalizzarsi delle vacanze pagate, pone in evidenza il problema del tempo libero e consente la generazione di nuove imprese industriali e commerciali, quelle delle attività ricreative, dei viaggi all’estero e della cultura di massa. Nasce così la <società dei consumi>, alimentata dal benessere e da un sistema produttivo che presenta continuamente sul mercato nuovi oggetti o, non di rado, i medesimi in nuovi modelli, che utilizza la pubblicità in modo sempre più perfezionato e “spregiudicato” per persuadere all’acquisto (“the hidden persuader” secondo la definizione di V. Packard). I ritmi sempre più veloci che coinvolgono tutti gli aspetti della vita, sia l’individuale sia la collettiva, e della produzione e del consumo, suggeriscono l’idea di un cambiamento continuo e inarrestabile, anche se in realtà non tutto muta e numerosi e nuovi problemi rimangono irrisolti. Gli standard di vita e di consumo dell’americano medio raggiungono in questi anni le punte più elevate, in anticipo di almeno 15-20 anni rispetto a quelli degli altri paesi industrializzati del mondo. Il “consumismo” diviene anche strumento e canale di influsso politico, non soltanto nei confronti dell’alleata Europa, che in fase di ricostruzione si avvicinerà negli anni successivi alle soglie del benessere, ma anche per il mondo povero e perfino per quello comunista. L’<American way of life>, le aspirazioni e i valori della middle class statunitense divengono aspirazioni e valori universali: la Coca-Cola e la musica rock, ma anche la sociologia, i modelli di produzione e le tecniche di management e di marketing si diffondono nell’area di influenza americana (G. Mammarella, L’America da Roosevelt a Reagan. Storia degli Stati Uniti dal 1939 a oggi, op. cit., pagg. 286-292).

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Il dopoguerra pone dunque le condizioni per la nascita di un impero mondiale di tipo nuovo, basato (secondo i tradizionali orientamenti statunitensi) su alcuni fattori quali: a) accelerazione del progresso tecnico; b) apertura dei mercati al dilagare di prodotti e capitali, c) internazionalizzazione delle imprese, d) globalizzazione dei mercati e intensificazione della concorrenza; e) controllo degli spazi già coloniali. È primariamente per questi motivi che si manifesta per le imprese statunitensi il “fabbisogno strategico”, grazie a cui assumono forma e si espandono gli studi di strategia in senso proprio. Questi ultimi muovono dal rinnovamento degli studi aziendali che si verifica in quel torno di anni, indotto dal modificarsi delle strutture d’impresa da un lato, dallo svolgimento evolutivo delle discipline dall’altro. Anche attraverso gli influssi di insegnamenti molteplici, soprattutto matematico-statistici, socio-psicologici, organizzativi, si passa da approcci funzionali limitati e sovente elementari a trattazioni per l’epoca sofisticate in tema di marketing e distribuzione; contabilità dei costi, budgeting, programmazione e controllo; principî, processi e meccanismi organizzativi.193 Occorre menzionare in questo periodo:194 a) gli impianti anche formalizzati di long-range planning, a muovere dai primi anni Cinquanta; b) gli studi strategy-structure a base memorialistica (Sloan) o storiografica (Chandler); c) i “testi e casi” di business policy; d) gli approcci a varia base comportamentista e organizzativa Cyert-March, Simon, Shubik; e) le analisi quantitativo-probabilistiche relative alla teoria dei giochi von Neumann-Morgenstern o alle scelte di portafoglio (Markovitz). In particolare, il tema della strategia aziendale non esiste ancora a sé stante, o se esiste rimane sfiorato, alluso, trattato in via incidentale, privo di un corpus suo proprio, limitandosi a raccolte talora disorganiche e confuse di precetti, principî, suggerimenti di dubbia validità empirica.195 Il concetto non risulta neppure particolarmente chiaro: ci si rifà di norma alla nozione militare che la definisce come la “scienza e l’arte dello spiegamento delle forze in battaglia”.196 È soltanto con Corporate Strategy di Ansoff (1965)197 che il tema teoretico della <strategia> viene isolato, acquisendo un’individualità propria. A

193 A. Canziani, “Una rilettura critica di Ansoff”, art. cit., pag. 137. 194 A. Canziani, “Una rilettura critica di Ansoff”, art. cit., pag. 137. 195 A. Canziani, “Una rilettura critica di Ansoff”, art. cit., pag. 137. 196 I. Ansoff, Implanting Strategic Management, Prentice-Hall, New York, 1984; trad. it.: Organizzazione innovativa, Ipsoa, Milano, 1987, pag. 47. 197 I. Ansoff, Corporate Strategy, McGraw-Hill, New York, 1965.

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quest’opera farà poi seguito una letteratura vasta e crescente, differenziata per approcci, matrici culturali, livelli qualitativi, cui daranno alimento sviluppi dei singoli impianti parziali e il vario intrecciarsi di essi, in una generale carenza tuttavia di punti di svolta ulteriori della dottrina.198 Alla fine del 1968, alcuni indicatori economici preannunciano che uno dei più lunghi periodi di espansione dell’economia statunitense sta per concludersi. Con la fine degli aiuti, ma principalmente con la rapida ripresa delle economie europee e la svalutazione delle loro monete, il flusso delle esportazioni verso l’Europa e il Giappone progressivamente si riduce. I problemi finanziari cominciano a divenire preoccupanti. La fuga dell’oro iniziata dieci anni prima era stata frenata ma non arrestata, le importazioni sono in aumento, il dollaro mostra segni di debolezza: soprattutto è in forte crescita l’inflazione. Dall’1% all’inizio del decennio, essa muove al 5,50% nel 1970, con un ritmo particolarmente veloce negli ultimi tre anni, stimolata da un aumento dei prezzi al consumo che dal 2,9% del 1967 passano al 4,2% del 1968199 Tra il 1969 e il 1971 il ritmo dell’attività economica rallenta ed iniziano ad emergere i tratti tipici della recessione, in particolare il declino dell’attività produttiva e l’incremento della disoccupazione: quest’ultima passa dal 3,5% al 4,9% nel 1970 e al 5,9% nel 1971. Invece di diminuire, l’inflazione – sostenuta dai consumi e anche dalle spese della guerra nel Vietnam – aumenta, generando il fenomeno, nuovo per gli economisti, della stagflazione, ove l’incremento del costo della vita si combina con il ristagno economico. Per combattere la recessione, il presidente Nixon decide di varare nel 1971 una politica economica comprendente due serie di provvedimenti, gli uni diretti all’interno, gli altri all’estero. Si ricorda tra i primi un blocco su prezzi, salari, affitti, dividendi, tra i secondi un aumento del 10% delle tariffe doganali di numerosi beni importati e l’abolizione della convertibilità del dollaro in oro. La fine del regime dei cambi fissi chiude così un’epoca che, iniziata trent’anni prima con gli accordi di Bretton Woods, preannunzierà con la fluttuazione del dollaro momenti particolarmente difficili per l’economia mondiale. Per quanto concerne ora la situazione dei maggiori paesi dell’Europa occidentale, e dell’Italia in particolare, risulta necessario notare che al termine della seconda guerra mondiale tali paesi avviano un significativo processo di cambiamento economico, sociale, politico. I problemi della

198 A. Canziani, “Evoluzione e tendenze in atto negli studi di strategia: quali risposte a quali problemi delle imprese”, in AA.VV. (a cura di), Strategie e politiche aziendali, (Atti del convegno svoltosi a Fiuggi il 22-23 settembre 1988), Clueb, Bologna, 1988, pagg. 9-10. 199 G. Mammarella, L’America da Roosevelt a Reagan. Storia degli Stati Uniti dal 1939 a oggi, op. cit., pag. 459.

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ricostruzione materiale prevalgono senza dubbio su gli altri, ma non meno vive sono le esigenze di trasformazione o, quanto meno, di correzione di sistemi che, nel corso di un decennio, sono passati dalla grande crisi economica alla catastrofe bellica. La guerra, anziché determinare il crollo immediato o prossimo del capitalismo, rappresenta forse un momento determinante per il suo rilancio, nella forma <neo-capitalistica> assunta negli Stati Uniti. Il neo-capitalismo risulta essere il modello “suggerito” all’Europa, con tanta più determinazione quanto più strette divengono le alleanze politiche e militari. Il cammino dei mutamenti non procede tuttavia speditamente, risultando frenato da alcuni fattori, quali i rapporti tra i maggiori partiti comunisti dell’Occidente con l’Unione Sovietica, il rafforzamento degli apparati partitici, la crescita del potere degli organi esecutivi, l’influsso delle burocrazie.200 Per quanto attiene più specificatamente l’Italia, all’indomani del conflitto mondiale il paese si trova a dover affrontare questioni di estrema gravità. Problemi immediati riguardano: a) la ricostruzione delle attrezzature produttive distrutte dagli eventi bellici, b) l’inflazione che procede sempre più velocemente, c) lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti che impedisce gli acquisti, peraltro indispensabili, delle materie prime.201 Sono gli anni nei quali il processo di industrializzazione da poco è stato avviato. Non mancano certo produzioni industriali avanzate e diversificate, ma queste risultano principalmente concentrate nel cosiddetto “triangolo industriale”, mentre le restanti regioni rimangono in prevalenza agricole. La lunga strada verso l’industrializzazione e il progresso attuali viene percorsa muovendo dalle condizioni tipiche di un paese, da un lato ampiamente aperto agli scambi con l’estero, dall’altro caratterizzato da imprese che, mancando di adeguata autonomia tecnologica, stentano ad acquisire posizioni di assoluta avanguardia. Il conseguimento dello sviluppo impone all’Italia di attingere dall’estero la maggior parte delle risorse produttive di cui necessita, costringendola a compensare il fabbisogno crescente di importazioni con un flusso ancora più elevato di esportazioni di prodotti che, non potendo distinguersi per la novità, si caratterizzano

200 Cfr. G. Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, 5ª ed., Editori Laterza, Bari, 1999. 201 Per un approfondimento sulla situazione economica dell’Italia nel secondo dopoguerra si vedano, tra gli altri: K. E. Boulding, The Meaning of the Twentieth Century, Harper & Row Publishers, New York, 1964 (trad. it.: Il significato del XX secolo, Etas Kompass, Milano, 1969); P. Macry, Introduzione alla storia della società moderna e contemporanea, Il Mulino, Bologna, 1980; G. Carli, P. Peluffo, Cinquant’anni di vita italiana, Editori Laterza, Roma, 1993; L. De Rosa, Lo sviluppo economico dell’Italia dal dopoguerra a oggi, Editori Laterza, Bari, 1997; A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.

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perlomeno per il prezzo ridotto, mantenuto tale da progressivi incrementi nella produttività e modesti aumenti retributivi. In particolare, lo slancio assunto dalle economie capitalistiche dell’Occidente guidate da quella statunitense, la debolezza dei sindacati, la politica liberista ed europeista dei governi centristi, pongono le condizioni per la ristrutturazione industriale, nelle regioni del Nord, e per lo sviluppo economico che appare eccezionalmente rapido.202 Uno sviluppo accompagnato però da un ridotto aumento nella manodopera impiegata, il che ripropone un problema antico e difficilmente risolvibile, la disoccupazione strutturale, vera grande protagonista della storia italiana del secondo dopoguerra, cui si aggiunge anche la questione dell’emigrazione. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale le emigrazioni, soprattutto transoceaniche, raggiungono livelli elevatissimi, livelli che si ripresentano poi negli anni Cinquanta e Sessanta, comportando modificazioni profonde nell’assetto del mercato del lavoro. Un aspetto da notare, poi, è il dualismo che caratterizza l’economia italiana, poiché non soltanto si accrescono anziché ridursi le distanze tra Nord e Sud, ma anche nello stesso apparato industriale ai settori tecnologicamente avanzati si affiancano settori arretrati, come il tessile, che producono a costi elevati, in prevalenza per l’interno. Ai tradizionali squilibri tra Nord e Sud si tenta di rispondere attraverso programmi di riforma agraria e opere pubbliche straordinarie nel Mezzogiorno, ove il problema della disoccupazione si presenta più acuto. Si tratta di sforzi finanziari rilevanti che sortiscono qualche effetto più sul piano industriale e delle infrastrutture che su quello agricolo, ma che forse risentono negativamente della carenza di un qualche indirizzo programmatorio dell’economia nazionale, svolgendosi ancora nella cornice di interventi speciali e scarsamente coordinati. Negli anni che seguono, in particolare tra il 1955 e il 1963, si assiste al manifestarsi di un vero e proprio miracolo economico, poiché l’economia italiana riesce a conseguire contemporaneamente tre obiettivi sovente incompatibili tra loro: investimenti produttivi elevati, stabilità monetaria, equilibrio nella bilancia dei pagamenti. L’ingresso dell’Italia nella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (nel 1953), poi nella Comunità Economica Europea (nel 1957), sospinge la nazione non soltanto verso una più intensa industrializzazione, ma anche verso l’aumento della produttività per unità di lavoro in agricoltura, consentendo l’impiego di maggiore manodopera nell’industria ove la

202 Tra il 1948 e il 1954 la produzione industriale si accresce dell’81% rispetto al 1938, con progressi particolari nei settori energetici, chimici, meccanici e metallurgici, per merito anche dell’elevata domanda dei mercati internazionali - dal 1950, in particolare, con la guerra in Corea – (Cfr. A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, op. cit., pagg. 10-11).

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produttività è superiore. La partecipazione alla vita economica comunitaria determina quindi una crescente espansione della produzione industriale e un mutamento nella distribuzione del reddito, grazie anche all’emigrazione di cospicue masse contadine sia verso le città, sia verso l’estero - in particolare Svizzera, Francia, Germania – che contribuisce a risolvere, almeno temporaneamente, il problema della disoccupazione. Il passaggio da un’economia a prevalente produzione agricola ad una a carattere industriale non soltanto consente l’incremento del reddito nazionale lordo (che si raddoppia dal 1951 al 1965), ma anche il miglioramento della bilancia commerciale, con la straordinaria crescita delle esportazioni, il cui valore aumenta, in milioni di dollari, da 710 (1958) a 2.869 (1966). Per le medesime ragioni risulta possibile l’avvio nel Mezzogiorno di una politica di industrializzazione accelerata.203 È in questo periodo che si osservano le prime importanti trasformazioni nelle abitudini di consumo. Parte della popolazione italiana si avvicina a modelli di consumo di massa, inizialmente condizionati dall’influsso culturale nord-americano. Si ha una diffusione in Italia dell’american way of life; per una serie di ragioni economiche, politiche, sociali, gli Stati Uniti divengono il paese di riferimento, il modello da imitare per lo sviluppo dei consumi, tanto in Italia quanto in altri paesi europei. Da un punto di vista sociologico, l’analisi evidenzia la trasformazione del ruolo del consumo nell’ambito delle scelte della popolazione: da un fatto necessario connesso alla sopravvivenza fisica, dal quale non deriva alcun soddisfacimento psicologico, ad un’attività gradevole in cui l’individuo trova momenti di autorealizzazione, di gratificazione personale, e non di rado di ostentazione. Ne deriva la sofisticazione delle esigenze e la modificazione, soprattutto in termini qualitativi, della domanda, con un conseguente aumento della stessa.204

203 L. De Rosa, Lo sviluppo economico dell’Italia dal dopoguerra a oggi, op. cit., pag. 58. 204 R. Fiocca, Evoluzione dei consumi e politiche di marketing, Egea, Milano, 1990, pagg. 81-82. L’adesione alla cultura industriale e metropolitana rappresenta, per una popolazione di recente inurbata o in fase di abbandono delle campagne, un’importante motivazione nell’adozione di nuovi modelli di consumo espressivi di quella cultura. L’automobile, gli elettrodomestici, e la maggior parte dei beni di largo consumo, assumono rilevanti connotazioni simboliche. Possederli, utilizzarli, significa essere, a buon diritto, cittadini della nuova società emergente dal benessere. Una società “giusta” ove ai meriti corrispondono i compensi e ove chi nasce povero ha la possibilità di mutare vita. Una società in cui le tradizionali divisioni di classe si stemperano in una frammentazione dai confini sempre più labili, in cui le distinzioni sociali tendono a ridursi: la frammentazione sociale pare subentrare alla stratificazione sociale. Nonostante in questa visione i comportamenti, gli atteggiamenti, e i valori, tendano a omogeneizzarsi sino alla generazione di una “società di massa”, le ricerche sociali di quegli anni sembrano porre in evidenza una realtà alquanto diversa, ossia che, in luogo del processo di omologazione, le differenze a livello individuale non solo permangono ma anzi si accentuano. Esse tendono

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Quando fra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta compaiono in Italia le prime trattazioni dedicate esplicitamente al tema della strategia aziendale, esse vengono accolte dai più con un misto di indifferenza e di scetticismo. Comunque, la loro lenta e faticosa assimilazione da un lato, e il manifestarsi di un atteggiamento tacitamente critico nei confronti delle preesistenti teorie aziendali nazionali (unitarie e non di rado dogmatiche) dall’altro, conducono verso una fase di transizione e crisi del pensiero economico-aziendale italiano, crisi che verrà reputata poi come importante fattore di sviluppo e di crescita.205 Essa viene resa assai più complessa di quanto non immediatamente percepibile a causa del suo presentarsi in una fase di passaggio strutturale dell’economia sia italiana sia internazionale, nonché in una fase trasformativa delle culture occidentali e dell’italiana stessa. Ci si riferisce in particolare all’intero decennio 1963-1973, che risulta caratterizzato da linee di sviluppo opposte a quelle del periodo precedente, con crisi profonde, caduta nel livello degli investimenti, inflazione sempre più elevata e forte deficit nei conti con l’estero. Sono anni in cui le lotte sindacali, iniziatesi nelle imprese del Nord fin dal 1959, riprendono a simiglianza di quanto avvenuto in altri paesi (segnatamente Francia e Germania), e raggiungono l’acme nell’<autunno caldo> del 1969. La prima reazione delle imprese alle conquiste salariali del 1961-1963 è il tentativo di recuperare quanto perduto attraverso l’aumento dei prezzi. Questi anni segnano una svolta nella storia dei prezzi del dopoguerra: viene innescato infatti il processo di inflazione. Gli imprenditori trovano possibile aumentare i prezzi sui mercati interni, poiché la domanda globale si presenta straordinariamente elevata; il livello degli investimenti risulta infatti aumentato sensibilmente sia al Nord sia nel Mezzogiorno. L’incremento di questi ultimi, insieme ad un valore accresciuto della propensione al consumo (dovuto a sua volta alla redistribuzione del reddito derivante dagli aumentati salari) produce effetti moltiplicativi accelerati sulla domanda globale, favorendo così, anche dal lato della domanda, l’aumento dei prezzi. È in questi anni infatti che si manifestano condizioni economico-politiche che conducono lo sviluppo italiano a ergersi non più sulla domanda estera ma su quella interna. Il rialzo dei prezzi, possibile sul mercato interno, risulta tuttavia inapplicabile nei mercati esteri. In primo luogo, il sistema dei pagamenti internazionali è ancora basato sul principio rigoroso dei cambi fissi, e poi,

a distribuirsi non in termini casuali ma sotto forma di “vere e proprie isole di bisogni in relazione ai diversi gruppi sociali”: è la relazione con i significant others che condividono il medesimo stile di vita a conformare le scelte di consumo (G. Fabris, Consumatore e mercato: le nuove regole, 4ª ed., Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1995, pagg. 297-298). 205 A. Canziani, “Evoluzione e tendenze in atto negli studi di strategia: quali risposte a quali problemi delle imprese”, op. cit., pag. 12.

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nei mercati internazionali, prevale una situazione di stabilità monetaria.206 In queste circostanze l’inflazione interna e l’aumento della domanda globale vengono accompagnate da un disavanzo crescente della bilancia commerciale, che rompe così l’equilibrio nei conti con l’estero raggiunto negli anni del “miracolo”. Una prima manovra di deflazione, attuata nel 1963, riduce temporaneamente la combattività sindacale e consente alle imprese un’iniziale ristrutturazione, consistente soprattutto nella riorganizzazione interna del processo produttivo. Ne derivano profonde trasformazioni delle produzioni, dei processi da labour a capital intensive, con transizioni dolorose per non pochi settori ed imprese, con sviluppi per altre, produttrici di beni di consumo, nell’ambito di “nuove divisioni internazionali del lavoro”, con ripercussioni anche sulla politica della spesa pubblica – e del debito - quindi sui saggi di interesse. Nell’ottobre del 1963 si registra il massimo livello raggiunto dalla produzione industriale; dal mese successivo essa inizia a declinare e l’economia italiana, dopo mesi di espansione pressoché ininterrotta, entra in una fase di crisi. Nel 1963 gli investimenti effettuati nel settore industriale superano i 2.500 miliardi; nel 1964 scendono a 2.000 miliardi, con una contrazione del 20%, e nel 1965 a 1.500 miliardi, con un’ulteriore diminuzione del 20%. La caduta degli investimenti produce una diminuzione dell’occupazione, quindi un calo della domanda di beni di consumo, e il meccanismo circolare di depressione di mette in moto.207 Dopo la ripresa delle lotte sindacali nel 1969, l’industria avvia una seconda e più ampia manovra di ristrutturazione, basata sul decentramento produttivo e sullo sviluppo della piccola e media impresa. Le grandi aziende iniziano la riduzione del numero dei lavoratori attraverso il trasferimento all’esterno - a opifici minori, a imprese padronali, a lavoranti a domicilio - dei processi che tecnicamente possono venire distaccati, trattenendo all’interno soltanto i fondamentali: ne deriva una considerevole trasformazione della struttura dimensionale. Nel corso degli anni Settanta la scena internazionale subisce cambiamenti considerevoli, che pongono all’economia italiana problemi nuovi e di non facile soluzione. Dal 1971 prende avvio un rapido aumento dei prezzi internazionali delle materie prime. Tale aumento - principalmente a seguito del conflitto scoppiato fra lo stato di Israele e i paesi arabi confinanti (guerra

206 Fra il 1960 e il 1965 gli indici dei prezzi all’ingrosso negli Stati Uniti e nella Germania occidentale, due paesi guida per i mercati mondiali, si presentano sostanzialmente stabili. Negli Stati Uniti l’indice dei prezzi non agricoli cresce appena di mezzo punto, in Germania di 3-4 punti (A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, op. cit., pag. 84). 207 A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, op. cit., pagg. 86-87.

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del Kippur) - conduce, nel 1973, alla decisione dell’Opec di quadruplicare il prezzo del petrolio, portandolo da 2-3 dollari a 12 dollari al barile. Nel 1979, un ulteriore aumento del prezzo del petrolio (a 32 dollari) determina una seconda crisi petrolifera. La redistribuzione di reddito a favore dei paesi produttori di petrolio modifica la struttura dei flussi commerciali. Al tempo stesso, emergono nel mercato mondiale nuovi paesi industrializzati (Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Taiwan e altri ancora) che muovono concorrenza ai paesi di più datata industrializzazione. Ad essi si accompagna lo sviluppo di nuove grandi potenze industriali: la Germania occidentale che acquisisce un predominio indiscutibile fra i paesi europei, e il Giappone, quale maggiore potenza industriale dell’Estremo Oriente. Quello che un tempo era stato il blocco occidentale si presenta ora articolato in tre ampie aree economiche, l’una dominata dagli Stati Uniti, la seconda, quella europea, dominata dalla Germania occidentale, la terza ruotante intorno all’economia del Giappone. Ne derivano profondi sconvolgimenti nel settore monetario. L’emergere del marco tedesco e dello yen come nuove valute forti provoca la crisi del dollaro che - anche per le ragioni menzionate nelle pagine precedenti - nel 1971 viene dichiarato inconvertibile. Questa decisione sancisce la fine del sistema dei pagamenti internazionali così come emerso dagli accordi di Bretton Woods. Nel 1973 i paesi europei abbandonano il sistema dei cambi fissi. Anche l’Italia si affida a un sistema di cambi flessibili che rimane in vigore fino al 1979, anno in cui essa aderisce al nuovo Sistema Monetario Europeo, basato su cambi stabili tra valute europee e cambi flessibili rispetto a dollaro e yen.208 La fase di transizione e crisi che sconvolge l’economia italiana e internazionale, e anche più propriamente il pensiero economico-aziendale italiano, viene poi superata e colmata, per quanto attiene perlomeno quest’ultimo, dalle nuove tendenze che si manifestano negli anni successivi. Queste tendenze dipendono dallo sconforto indotto nelle teorie tradizionali dai cambiamenti strutturali avvenuti; dai mutamenti effettivamente intervenuti nelle strategie e nelle politiche delle imprese, le quali rendono rilevante il momento strategico; dal desiderio pragmatico di orientare queste ultime adeguando così descrizione e prescrizione ai mutati sistemi ambientali.209 Come si erano diffuse le <funzioni> nella loro interezza, e come i contributi della medesima origine erano stati innestati nella tripartizione antica rilevazione-organizzazione-gestione, così da un lato si diffondono ora le <strategie>, mentre dall’altro le <funzioni>, i settori di scelte e i profili di analisi si “strategicizzano” progressivamente. E come il

208 A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, op. cit., pagg. 11-13. 209 A. Canziani, “Evoluzione e tendenze in atto negli studi di strategia: quali risposte a quali problemi delle imprese”, op. cit., pagg. 13-14.

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sistema delle imprese supera i fattori di crisi degli anni Settanta, e si adegua faticosamente alle mutate situazioni ambientali, e tuttora in mutamento, così gli studi economico-aziendali si ricompongono per <funzioni> e problemi funzionali soprattutto in aspetto strategico, per settori di scelte gestionali e specialmente direzionali. Tale ricomposizione è attribuibile soprattutto alla funzione unificante degli studi di strategia: un’interpretazione non di rado “sfuocata” o meglio “funzionale” dell’unità dell’impresa rintraccia così il proprio momento unificatore in una disciplina interfunzionale.210 Tali studi tuttavia non possono trovare fondata esistenza se non nell’ambito d’una teoria sistematica dell’economia aziendale – che risulti o non risulti zappiana – o almeno dell’economia di aziende di settori particolari. Così incardinati essi pure possono divenire unitari e sistematici, rappresentando di quelle teorie un momento iniziale e costitutivo.211 Gli studi pongono in evidenza come lo scopo dell’attività strategica dell’impresa debba consistere nel perseguimento dello sviluppo (lato sensu) maggiore, per quanto possibile, rispetto agli altri attori economici e soprattutto ai concorrenti, siano essi imprese ulteriori dello stesso settore o interi settori. Questo sviluppo può venire effettivamente realizzato attraverso l’adozione di processi e combinazioni produttive che, modificandosi nei loro elementi e nelle loro mutue relazioni, si trasmutino in nuove coordinazioni meglio adatte ai bisogni da appagare.212 L’identificazione e il puntuale soddisfacimento delle esigenze sempre più sofisticate dei consumatori si rivela quindi come la dimensione veramente critica nella definizione di una strategia competitiva mirante al conseguimento di vantaggi competitivi difendibili. In questo senso la differenziazione dei prodotti si inserisce nell’avvenuto riconoscimento dell’irrealismo della teoresi proposta dall’economia politica, e anzi conferma tale irrealismo, e lo risolve, (o perlomeno cerca), dal punto di vista teorico-pratico, cioè proprio dell’economia aziendale. Come Zappa suggerisce213, «l’utile principale che si ricava dalle teorie dell’economia pura sta nell’avere un concetto sintetico dell’equilibrio economico (…). Il fenomeno studiato dall’economia pura diverge tuttavia dal fenomeno concreto, e spetta all’economia applicata di studiare queste divergenze, mentre sarebbe proponimento vano e poco ragionevole il pretendere di regolare i fenomeni concreti con le sole teorie dell’economia pura. (…) L’economia d’impresa, malgrado la sua continua unità, si svolge in condizioni di assidua instabilità. La produzione, infatti, nella sua

210 A. Canziani, “Evoluzione e tendenze in atto negli studi di strategia: quali risposte a quali problemi delle imprese”, op. cit., pagg. 14-15. 211 A. Canziani, “Evoluzione e tendenze in atto negli studi di strategia: quali risposte a quali problemi delle imprese”, op. cit., pagg. 21-22. 212 G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, op. cit., pagg. 440-441. 213 G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, op. cit., pagg. 448-451.

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conveniente attuazione, deve adattarsi in modo sempre vario alle cangianti esigenze e alle mutevoli circostanze della vita economica». Le imprese infatti, non possono conseguire i loro fini ultimi «se non si rinnovano senza posa nelle loro strutture organiche e patrimoniali e nel sistema delle operazioni attuate nella continua unità delle loro coordinazioni produttive. (…) Sempre la produzione d’impresa, come ogni altro settore della vita sociale, è trasformazione ininterrotta; sempre, per nessi ora rapidi e diretti, ora tardi e mediati, l’economia delle aziende appare vincolata al divenire dei mercati nei quali si svolge; sempre la vita delle diverse aziende e dei diversi settori della produzione e del consumo si esplica costretta da relazioni d’interdipendenza o, più raramente, di soggezione o di controllo con altre aziende o con altri settori».214 Premessa necessaria per la definizione di una strategia competitiva diviene allora la suddivisione della massa informe dei potenziali utilizzatori di un prodotto attraverso la definizione di segmenti (o clusters). La segmentazione trova la sua ragion d’essere nella constatazione che ogni mercato è lungi dal presentarsi come un’unità indistinta che reagisce in maniera indifferenziata agli interventi operati su di esso dalle imprese, ma è invece costituito da una serie di segmenti di diversa ampiezza, sostanzialmente omogenei, e differenti l’uno dall’altro per quanto concerne le caratteristiche della domanda.215 Quando vennero analizzate le strategie competitive delle aziende di maggiore successo - per gli Stati Uniti già negli anni Sessanta - emerse sovente un denominatore comune: ciascuna di esse aveva scelto di servire un’area specifica del mercato, decisione che le aveva consentito l’acquisizione di un significativo vantaggio competitivo e una posizione di dominio sul mercato.216 Se si considera infatti la specifica situazione degli Stati Uniti, si osserva come il mercato interno di tale nazione fosse in sviluppo già agli inizi del secolo, in particolare nel periodo tra il 1910 e il 1929. Certamente il passaggio da una produzione artigianale ad una industriale, e quindi di massa, sacrificò in un primo tempo la personalizzazione del prodotto in cambio di un costo assai minore, ma comunque consentì l’ampliamento notevole dei consumi ed il miglioramento nelle qualità funzionali delle 214 G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, op. cit., pagg. 440-441. 215 G. Fabris, Il comportamento del consumatore. Psicologia e sociologia dei consumi, F.Angeli Editore, Milano, 1970, pag. 469. 216 Nel 1964, D. Yankelovich scrive che nell’economia di quegli anni «ogni marca sembra rivolgersi effettivamente soltanto a singoli segmenti del mercato e non al mercato nel suo complesso. Una corretta impostazione degli obiettivi di marketing dipende dalla conoscenza di come i segmenti, che producono il maggior numero di consumatori per una marca, differiscano da quei segmenti che forniscono il maggior numero di consumatori per una marca concorrente» (D. Yankelovich, “New Criteria for Market Segmentation”, in Harvard Business Review, vol. 42, March-April 1964, pag. 83).

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produzioni. Esempio eclatante della standardizzazione delle produzioni si ebbe nel comparto automobilistico con il “modello T” di Henry Ford che, per quasi un decennio, fu in grado di conseguire un successo economico straordinario, basandosi su un unico prototipo realizzato in modo assolutamente standardizzato. In ogni caso l’entusiasmo mostrato dal pubblico per questo tipo di prodotto fu di breve durata poiché il desiderio di disporre di un consumo personalizzato non era affatto scomparso, e il progressivo innalzamento del potere di acquisto dei consumatori operò così in una duplice forma. Da un lato il maggior reddito disponibile rese meno allettante il risparmio derivante dall’acquisto di prodotti standardizzati, dall’altro si desiderava rendere evidente il maggior benessere e la crescita sociale che esso consentiva: il consumo differenziato assunse così una connotazione ostentativa per alcuni ceti sociali.217 Anche la General Motors si avvantaggiò del latente desiderio di distinzione dei consumatori proponendo una gamma di prodotti particolarmente ampia, personalizzati ulteriormente attraverso una vasta scelta di accessori opzionali, in osservanza al motto “a car for every purse and purpose”.218 La differenziazione del prodotto e le politiche promozionali non soltanto erano possibili, ma costituivano un fatto di comune esperienza per la maggior parte dei settori industriali, che vedranno poi la loro massima diffusione negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, in concomitanza con la diffusione dei primi marketing studies. III.2.1 I contributi di Smith, Kotler, Podestà, Abell, Porter.

217 Cfr. G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pagg. 365-372. 218 La General Motors, sotto la guida di A. P. Sloan, è la prima ad avvertire, all’inizio degli anni Venti, che le caratteristiche della domanda stanno mutando. Proprio per effetto della trasformazione del sistema di vita indotta dalla motorizzazione di massa e a seguito della fase di sviluppo economico di quel periodo, la domanda automobilistica statunitense muove da un’elevata elasticità rispetto al prezzo a un’elevata elasticità rispetto a un prodotto più specializzato. La Ford “T”, automobile affidabile ma decisamente “rustica”, non è più adeguata per cittadini che possono viaggiare su strade asfaltate e che vivono un forte processo di identificazione con i divi di Hollywood. Da un lato occorre qualcosa di più sofisticato, dall’altro diviene necessario realizzare una gamma di prodotti completa che segua il cliente nella sua progressione sociale ed economica: una Chevrolet come prima vettura per un giovane e promettente professionista, una Buick per sottolineare i suoi primi successi professionali, una Cadillac per sancire la sua definitiva affermazione professionale. Potendo spendere, quale ragione si può avere per comprare tre volte di seguito una Ford “T”? È dall’analisi incrociata della domanda e dell’offerta che Sloan coglie i segni del mutamento nel mercato. Segni che gli suggeriscono di abbandonare il confronto diretto con Ford per definire una strategia basata sull’esatto contrario: produrre tanti modelli diversi e rinnovarli continuamente (G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pag. 370).

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Tra i molteplici marketing studies di quel torno di anni, viene presentato nel 1956 da W. R. Smith219 un contributo pionieristico in tema di <differenziazione dei prodotti>, contributo in cui l’Autore espone un’interpretazione di tale concetto contrastante e alternativa, piuttosto che complementare, a quello di <segmentazione>. Smith ritiene che le strategie di differenziazione e segmentazione acquisiscano significato in un mercato in concorrenza imperfetta, caratterizzato da diversità nelle offerte ed eterogeneità nella domanda, non ritenendo quindi condivisibile l’ipotesi di omogeneità proposta dalla teoria tradizionale. Egli associa la differenziazione all’esistenza di una sola curva di domanda, descrivendo la differenziazione come “il piegarsi della domanda alla volontà dell’offerta”. L’obiettivo dalla conformazione della domanda a condizioni di offerta favorevoli al venditore consisterebbe nella ricerca di convergenza.220 Vi è il tentativo di far convergere le domande di mercato tendenti alla varietà dei prodotti verso una singola e limitata offerta, attraverso il ricorso alla pubblicità e alla promozione: un’efficace differenziazione può assicurare all’offerente una “quota orizzontale di un ampio e generalizzato mercato”.221 Lo sforzo di differenziazione dell’impresa è dunque limitato alle sole variabili commerciali, escludendo qualsiasi tipo di differenziazione effettiva ed agendo (esclusivamente?) sulla percepita. Al termine segmentazione viene invece associato il soddisfacimento delle differenze insite nelle <schede di domanda>. Smith ritiene cioè che lo scopo della segmentazione consista nell’adeguamento più preciso e razionale del prodotto e delle azioni di marketing alle richieste del consumatore o dell’utilizzatore. Viene posta in evidenza la natura disaggregativa della segmentazione, consistente nell’individuazione di molteplici segmenti con domande differenziate l’uno dall’altro, muovendo da un’unica curva di domanda, e non più, quindi, nel far convergere la domanda verso le condizioni più favorevoli dell’offerta. Si tratta dunque dell’adeguamento dell’offerta alle differenti esigenze dei consumatori: ciò conduce a reputare la pubblicità e la promozione non più (o non solo) strumento di persuasione 219 W. R. Smith, “Product Differentiation and Market Segmentation as Alternative Marketing Strategies”, in Journal of Marketing, vol. 21, July 1956. 220 «Product differentiation is concerned with the bending of demand to the will of supply. It is an attempt to shift or to change the slope of the demand curve for the market offering of an individual supplier. (…) It results from the desire to establish a kind of equilibrium in the market by bringing about adjustment of market demand to supply conditions favourable to the seller» (W. R. Smith, “Product Differentiation and Market Segmentation as Alternative Marketing Strategies”, art. cit., pag. 5). 221 W. R. Smith, “Product Differentiation and Market Segmentation as Alternative Marketing Strategies”, art. cit., pagg. 4-5.

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ma anche e soprattutto strumento di informazione circa la disponibilità dei beni prodotti.222 La segmentazione consente pertanto al produttore di sviluppare il mercato in profondità, in specifici e definiti segmenti, garantendogli l’appropriazione di quote più consistenti. In sintesi, la concettualizzazione di Smith definisce dissonanze nette tra differenziazione e segmentazione, reputate di norma opzioni strategiche alternative. Queste conclusioni derivano dalle ipotesi di partenza: la limitazione delle azioni di differenziazione alle variabili commerciali (pubblicità e promozione) e non alle caratteristiche effettive dei prodotti; la finalizzazione delle politiche di segmentazione all’offerta di prodotti effettivamente differenziati rivolta non a un mercato con preferenze eterogenee, bensì a mercati (o segmenti) ristretti con preferenze omogenee. Smith reputa tuttavia che in taluni casi le due strategie possano venire utilizzate sequenzialmente, in risposta a mutamenti nelle condizioni di mercato. In tal senso, inizialmente potrebbe applicarsi quale strategia di breve termine la segmentazione, che condurrebbe al riconoscimento di segmenti di mercato cui rivolgersi con un’offerta ad hoc, per lasciare successivamente posto agli strumenti commerciali della politica di differenziazione.223 Muovendo da un’interpretazione di segmentazione simile a quella di Smith - dal punto di vista del riconoscimento dell’esistenza di gruppi di consumatori con esigenze differenziate - negli anni successivi P. Kotler224 (1967) giunge tuttavia a proporre che la segmentazione non debba essere reputata alternativa alla differenziazione dei prodotti, invece costituendo essa il punto di partenza della definizione di una strategia di mercato. Secondo l’Autore, ciascuna impresa dovrebbe definire non soltanto quali bisogni soddisfare, ma anche i bisogni di chi intende soddisfare. La maggior parte dei mercati risulta infatti troppo estesa perché un’impresa possa produrre l’insieme dei beni richiesti da tutti gli acquirenti. Una certa delimitazione del mercato diviene quindi necessaria per scopi di efficienza e per via delle risorse limitate. Da ciò sorge il problema della selezione dei segmenti di mercato (o mercati-obiettivo).

222 «Segmentation is based upon developments on the demand side of the market and represents a rational and more precise adjustment of product and marketing effort to consumer or user requirements. In the language of the economist, segmentation is disaggregative in its effects and tends to bring about recognition of several demand schedules where only one was recognized before» (W. R. Smith, “Product Differentiation and Market Segmentation as Alternative Marketing Strategies”, art. cit., pag. 5). 223 W. R. Smith, “Product Differentiation and Market Segmentation as Alternative Marketing Strategies”, art. cit., pag. 5 224 P. Kotler, Marketing Management: Analysis, Planning and Control, Prentice-Hall Inc., London, 1967; trad. it.: Marketing Management, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1980, pag. 158.

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I mercati presentano di norma gradi diversi di eterogeneità. Ad un estremo esistono mercati composti da acquirenti particolarmente simili per quanto concerne le esigenze, i requisiti del prodotto e le risposte agli influssi commerciali. All’estremo opposto, esistono mercati composti da compratori che ricercano prodotti sostanzialmente diversi per qualità e/o quantità. Un mercato del genere è quindi eterogeneo, in quanto composto da gruppi di clienti (cioè segmenti) che presentano differenti bisogni e interessi d’acquisto. «La segmentazione del mercato consiste – nella definizione di Kotler225 – nella suddivisione di un mercato in sottoinsiemi distinti di clienti, ove ogni sottoinsieme può essere scelto come obiettivo di mercato da raggiungere con una particolare combinazione dei fattori di mercato endogeni». Un’impresa attenta ai bisogni dei diversi segmenti potrebbe trarne vantaggio in tre modi. 226 A) In primo luogo, essa si troverebbe in una posizione migliore per individuare e raffrontare le opportunità di mercato. Potrebbe infatti esaminare i bisogni espliciti, impliciti e inconsci di ciascun segmento alla luce dell’attività svolta dai concorrenti e determinare il livello di soddisfacimento attuale dei consumatori, individuando ottime possibilità commerciali in quelli che presentano livelli relativamente ridotti. B) In secondo luogo, il produttore potrebbe operare un più preciso adattamento del suo prodotto e degli strumenti ed azioni commerciali: invece di una politica rivolta ad attrarre tutti i possibili clienti, si potrebbe adottare una strategia mirante a soddisfare i bisogni di diversi tipi di consumatori, attraverso l’offerta di prodotti differenziati. C) In terzo luogo, il produttore potrebbe sviluppare programmi basati su una precisa conoscenza delle risposte caratteristiche di specifici segmenti di mercato, potendo così suddividere efficientemente i fondi, in modo da conseguire gli scopi desiderati in ubicazioni diverse del mercato. Nel corso degli anni Settanta, un’interpretazione più sofisticata rispetto a quella di Kotler viene proposta da S. Podestà227 (1974). Anche tale Autore pone quale punto di partenza nella definizione della politica di mercato di un’impresa la considerazione della domanda, intesa come fortemente eterogenea. La differenziazione, nella posizione dell’Autore228, si configura quale risultato delle diverse attese della domanda per quanto attiene il prodotto, che possono scaturire sia dal desiderio di varietà e/o di esclusività, sia da motivi più profondi, ricollegabili alle molteplici modalità di utilizzo, alla diversa capacità di reddito, alle difformi condizioni ambientali in cui il 225 P. Kotler, Marketing Management, op. cit., pag. 158. 226 P. Kotler, Marketing Management, op. cit., pagg. 158-159. 227 S. Podestà, Prodotto, consumatore e politica di mercato, Etas Libri, Milano, 1974. 228 S. Podestà, Prodotto, consumatore e politica di mercato, op. cit., pagg. 38-39.

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prodotto viene utilizzato. In questo senso, la singola impresa muove - nella definizione del proprio prodotto - dalla considerazione dell’eterogeneità della domanda e, conseguentemente, adatta ad essa la sua offerta: l’esplorazione della domanda diviene dunque premessa ed ausilio indispensabile alla differenziazione di successo. A differenza di Smith, Podestà ritiene che non solo sia ammissibile una differenziazione senza segmentazione laddove l’offerente tenti semplicemente di rendersi diverso dai concorrenti rivolgendosi al mercato nella sua interezza, ma sia pure e soprattutto concepibile una differenziazione mirata ai diversi segmenti di mercato laddove, oltre a rendersi diverso dagli altri offerenti, il produttore cerchi anche di modificare la propria proposta in funzione delle caratteristiche dei diversi gruppi di consumatori a cui si rivolge.229 In questa ipotesi, la curva di domanda particolare su cui opera il produttore non è dunque, almeno in prima istanza, il risultato dell’azione del produttore stesso, ma è preesistente (di norma a livello potenziale) alle sue decisioni attinenti il prodotto. Tra la domanda particolare del singolo produttore e quella generica relativa al prodotto si inserisce quindi una curva di domanda particolare (un segmento di domanda) che risulta da una disaggregazione della curva generica.230 Si manifesta in tal caso una modificazione del rapporto di sostitutività tra beni eterogenei ricollegabili allo stesso prodotto generico, per cui si ha una competizione sia tra prodotti generici e prodotti specifici (cioè indirizzati a uno stesso segmento), sia all’interno di ciascun gruppo di prodotti specifici, entrambe le forme caratterizzate da un’intensità e da modalità di sviluppo diverse. Un corretto approccio al problema della differenziazione comporta quindi, secondo Podestà, la contemporanea considerazione della situazione concorrenziale e delle attese della domanda. A tal fine, se è vero che l’impresa, differenziando la propria offerta, ha come termine di paragone i concorrenti rispetto ai quali non può assumere una posizione totalmente imitativa qualora essa voglia giocare un ruolo distinto e singolare nell’ambito del gruppo, è altrettanto vero che ciò che deve guidarla nella ricerca della propria posizione non può che essere una corrispondente eterogeneità della domanda, o preesistente in modo autonomo, oppure resa tale dal comportamento attivo dell’impresa volto a definire caratteristiche del prodotto più appropriate alle attese della domanda e/o a intervenire nel processo di formazione delle preferenze con un’adeguata azione pubblicitaria.231

229 S. Podestà, Prodotto, consumatore e politica di mercato, op. cit., pag. 39. 230 S. Podestà, Prodotto, consumatore e politica di mercato, op. cit., pag. 39. 231 S. Podestà, Prodotto, consumatore e politica di mercato, op. cit., pag. 39.

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In altri termini, non ha senso secondo Podestà essere diversi dai concorrenti se la domanda non apprezza, o comunque non avverte, tale diversità: se il consumatore non percepisce o non attribuisce alcun peso a caratteristiche differenziali oggettive, per il settore e per l’impresa è come se non esistessero. Affinché un prodotto sia differenziabile, pertanto, può anche non risultare necessaria la modificazione della sua qualità oggettiva rispetto a quella dei prodotti nei confronti dei quali si presenta come sostituto, in quanto il giudizio di differenziazione formulato dal consumatore può basarsi su elementi puramente soggettivi, lasciando così spazio, non soltanto a interpretazioni soggettive di caratteristiche pur misurabili in termini razionali, ma anche a modalità di differenziazione derivanti esclusivamente dall’immagine del prodotto.232 Affinché la domanda percepisca come diversa un’offerta può risultare opportuno concentrare l’attenzione verso un singolo parametro d’azione (ovvero una caratteristica differenziatrice), oppure verso tutti i parametri nel loro complesso, tenendo conto che ciascun parametro presenta una diversa forza d’impatto non soltanto sulla domanda (cioè la domanda è sensibile in misura diversa ai parametri d’azione) ma anche sui costi (ossia la curva di costo risente in misura diversa delle varie combinazioni di parametri) e sulla concorrenza (cioè i concorrenti reagiscono, o possono reagire, in misura diversa all’utilizzo dei diversi parametri d’azione). L'opportunità per la singola impresa di differenziare la propria offerta dipende allora dalla possibilità di intervenire sui diversi parametri d’azione, dagli effetti degli stessi sulla curva di costo, dalla sensibilità della domanda, dalla posizione e dall'eventuale reazione dei concorrenti.233 Podestà ritiene però che, se di norma non vi siano particolari difficoltà nella valutazione delle offerte dei concorrenti e degli effetti delle possibili alternative di differenziazione sulla curva di costo dell’impresa, tuttavia si configuri assai più ardua l’anticipazione di tali effetti sulla curva di domanda, per cui è proprio nelle attese e nel comportamento della stessa che risulta possibile individuare l’elemento più delicato ai fini della definizione della posizione differenziata dell’impresa. Egli ritiene che le caratteristiche ricercate dai consumatori nelle produzioni delle imprese siano ricollegabili ai concetti di qualità e di varietà234: la mancata considerazione degli stessi sarebbe stata uno dei principali limiti della teoria neoclassica del consumatore. Questo limite può venire espresso, secondo l’Autore, nell’instabilità del campo ordinato delle preferenze, sia per l’esperienza del consumatore con i prodotti (apprendimento), sia per la sua propensione alla novità, sia per ulteriori fattori socio-culturali che,

232 S. Podestà, “Teoria dell’impresa ed economia industriale”, in L. Guatri (a cura di), Trattato di economia delle aziende industriali, Egea, Milano, 1988, tomo 1°, pag. 223. 233 S. Podestà, Prodotto, consumatore e politica di mercato, op. cit., pag. 40. 234 S. Podestà, “Teoria dell’impresa ed economia industriale”, op. cit., pag. 222.

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evolvendosi, provocano mutamenti nei suoi gusti, e ciò anche a prescindere dalle attività di marketing delle imprese. Il consumatore tiene conto della qualità del prodotto e tende ad ottimizzare il rapporto prezzo-qualità. Se si inserisce nella teoria del consumatore il concetto di qualità, risulta allora possibile dimostrare che numerosi beni sono sostituti gli uni agli altri sia rispetto al prezzo sia rispetto al reddito, per cui non esistono prodotti superiori in assoluto (la cui domanda cioè aumenta indefinitamente al crescere del reddito o al diminuire del prezzo). Inoltre il consumatore acquista quantità finite di numerosi beni, ed esistono poi limiti all’intensità di consumo degli stessi. Ciò significa che la domanda presenta sempre un limite superiore, e che un consumatore può abbandonare un prodotto per un altro dando vita a fenomeni fondamentali, quali la saturazione e il declino della domanda. Per quanto concerne poi la differenziazione del prodotto mediante la moltiplicazione della varietà, essa conduce Podestà ad affermare che l’esigenza della varietà sia strettamente connessa alla natura umana, e l’offerta al mercato di prodotti differenziati vada intesa non come «snaturamento e coercizione del mercato» ma anzi come «offerta di un servizio cui il mercato è disponibile a riconoscere un valore economico», attraverso il pagamento di un prezzo superiore, avvicinandosi in tal modo alla posizione di Chamberlin.235 In base a tali considerazioni, Podestà ritiene che, nella logica dell’offerta, a) la differenziazione rappresenti l’elemento monopolistico del venditore (ciò che lo isola rispetto ai concorrenti), mentre b) la sostitutività ne costituisca l’elemento concorrenziale, che lo connette agli altri venditori. Nella prospettiva della domanda, invece, a) la differenziazione rappresenti l’elemento distintivo su cui essa può fondare le sue preferenze e b) la sostitutività l’elemento su cui essa può giudicare la solidità di tali preferenze rispetto alle alternative tra cui ripartire il reddito. In questo senso, dunque, «il problema della differenziazione viene a riassumere quello della politica di mercato».236 Interpretazioni più elaborate del concetto di differenziazione vengono proposte, nel corso degli anni successivi, da altri237 fra i quali Rispoli. Questo Autore presenta tre possibili configurazioni, e cioè:238

235 S. Podestà, “Teoria dell’impresa ed economia industriale”, op. cit., pag. 222-223. A tale riguardo un’osservazione appare opportuna, ossia che il prezzo superiore non soltanto può essere reputato la conseguenza di una politica di differenziazione, ma può esso stesso costituire fattore di differenziazione, poiché, non di rado, il consumatore valuta di qualità maggiore il prodotto che presenta il prezzo superiore (Cfr. U. Collesei, Marketing, 2ª ed., Cedam, Padova, 1994, pag. 167). 236 S. Podestà, Prodotto, consumatore e politica di mercato, op. cit., pag. 42. 237 Numerosi risultano i contributi economico-aziendali in tema di differenziazione, fra i quali si ricordano: G. Zappa (1956); P. Saraceno (1963); L. Sicca (1966); R. Polli (1969); L. Guatri (1976); G. Pelliccelli (1983); A. Canziani (1984); S. Vaccà (1985); G. Volpato

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a) differenziazione rispetto ai prodotti di altre imprese operanti sullo stesso mercato;

b) differenziazione rispetto al prodotto o ai prodotti base di una linea; c) differenziazione nel tempo rispetto a un prodotto. La differenziazione rispetto ai prodotti di altre imprese operanti sullo stesso mercato risponde all’esigenza, per l’impresa, di sottrarsi alla concorrenza e consiste nell’introduzione di prodotti che, soddisfacendo in misura adeguata le esigenze dei consumatori, si presentino con caratteristiche tali da essere maggiormente distinti rispetto ai prodotti della concorrenza. Questo tipo di differenziazione mira al conseguimento di un maggiore <grado di controllo del mercato>, misurabile attraverso la riduzione dell’elasticità della domanda relativa al prodotto dell’impresa, ovvero l’elasticità in termini di prezzo dei beni concorrenti. Nell’ipotesi in cui il prodotto non risulti particolarmente differenziato rispetto a quelli dei concorrenti, un aiuto può essere offerto dal sostegno pubblicitario, che assolve il ruolo decisivo di realizzare una differenziazione psicologica, in virtù appunto di una relazione inversa individuata dall’Autore fra grado di differenziazione e convenienza al ricorso della pubblicità.239 Riprendendo la definizione di P. Saraceno240, Rispoli ritiene241 che «scopo della differenziazione consista nell’acquisizione sul mercato di una posizione meno vulnerabile rispetto ai concorrenti. In un simile contesto, il rapporto fra la domanda complessiva dei vari tipi di prodotto offerti e la domanda che l’impresa ritiene di poter soddisfare può variare anche considerevolmente in relazione all’efficacia posseduta dalle caratteristiche differenziatrici di cui il prodotto è stato dotato: quanto più si accresce tale efficacia, tanto più la posizione dell’impresa si avvicina a quella di un monopolista». Una siffatta politica del prodotto, di norma utilizzata da numerose imprese contemporaneamente nella fase di maturità e di saturazione del ciclo vitale del prodotto, non assicurerebbe tuttavia prolungati periodi di equilibrio in una nicchia di mercato, conducendo invece a una costante instabilità della posizione concorrenziale. Essa potrebbe venire adottata sia dall’impresa “pioniere” in un determinato settore, il cui prodotto risulta sempre più minacciato delle imitazioni dei concorrenti che di mano in mano si

(1986); G. Ferrero (1987); M. Franch e G. Panati (1987); S. Faccipieri (1988); G. Donna (1992); U. Collesei (1994); R. Zanda (1994); S. Sciarelli (1997). 238 M. Rispoli, “La politica del prodotto”, in L. Guatri, W. G. Scott (a cura di), Manuale di Marketing, 2ª ed., Isedi, Milano, 1976, cap. 10, pag. 25. 239 M. Rispoli, La politica dei nuovi prodotti, Isedi, Milano, 1972, pag. 113. 240 P. Saraceno, La produzione industriale, Libreria Universitaria Editrice, Venezia, 1963, pag. 168. 241 M. Rispoli, “La politica del prodotto”, op. cit., pag. 25.

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inseriscono nel mercato, sia dalle imprese nuove entranti che, tentando l’introduzione nel mercato di prodotti differenziati, rinuncino a una manovra aggressiva di prezzo, i cui esiti sarebbero carichi di incertezze e di pericolo. La differenziazione rispetto al prodotto o ai prodotti base di una linea deriva di norma dall’opportunità di utilizzare appieno le risorse disponibili e l’esperienza già acquisita in un particolare settore, che altrimenti verrebbero perdute. Essa si propone di conseguire almeno due risultati: a) acquisire una domanda che non si manifesterebbe, o che comunque andrebbe a vantaggio di imprese più tempestive nell’assumere tale iniziativa; b) attuare una segmentazione del mercato, ossia la suddivisione in gruppi omogenei di consumatori potenziali, diversamente sensibili a differenze di prezzo e qualità, al fine di acquisire in tal modo un maggiore controllo del prezzo. L’Autore ritiene che la differenziazione dei prodotti rispetto a quelli esistenti dovrebbe essere attuata soprattutto attraverso la modificazione della qualità, mentre se le differenze riguardassero soltanto la dimensione e fossero dettate, come nel caso delle calzature e dell’abbigliamento, dalla necessità di disporre di taglie diverse, non si potrebbe neppure parlare di differenziazione. In questo caso, infatti, l’elasticità riflessa dei prodotti della stessa linea sarebbe nulla e risulterebbero eguali tra loro le elasticità rispetto al prezzo e rispetto al reddito.242 La differenziazione dei prodotti nel tempo risponde invece alla sfida che continuamente viene portata alle imprese, da un lato da fattori in certa misura esogeni, quali il progresso tecnico, il mutamento dei gusti dei consumatori, dall’altro da fattori endogeni, quali l’attività di ricerca e sviluppo oppure le politiche di obsolescenza programmata. Vi è quindi la necessità da parte dell’impresa di reagire a tali pericoli mediante l’eliminazione della linea di prodotti non più valida e il contemporaneo inserimento di prodotti modificati rispetto ai precedenti. Tale tipo di differenziazione si attua di norma nella fase di saturazione del ciclo di vita del prodotto con lo scopo, appunto, di rilanciare le vendite e di conseguire in tal modo un prolungamento della sua vita utile, cioè conveniente per l’impresa.243 Fra i tre tipi di differenziazione l’Autore ritiene comunque che quella rispetto ai prodotti base già esistenti sia la via migliore per conseguire l’obiettivo della crescita dell’impresa, in virtù della sua presunta capacità di consentire l’acquisizione di nuovi clienti e, contemporaneamente, utili superiori.

242 M. Rispoli, “La politica del prodotto”, op. cit., pag. 27. 243 M. Rispoli, “La politica del prodotto”, op. cit., pag. 30.

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Le nozioni di segmentazione e di differenziazione proposte dalla letteratura aziendale vengono poi analizzate nel corso degli anni Ottanta da D. F. Abell (1980), il quale si pone interrogativi sul possibile significato da attribuire ai concetti di mercato e di prodotto, reputati dagli studi finora analizzati quali “fondazioni della politica di mercato”.244 Con riferimento al primo, Abell si chiede se il mercato possa essere descritto in termini di gruppi di consumatori che acquistano il prodotto, oppure in termini di funzioni svolte dal prodotto per tali soggetti. Riferendosi al prodotto, l’Autore si interroga se esso possa venire descritto dalla funzione che esso spiega o dalla tecnologia sulla quale esso è basato. Queste questioni conducono Abell ad ampliare il campo di osservazione, componendo i due concetti tradizionali in tre dimensioni di lettura nella definizione dell’area di attività (business secondo l’Autore) in cui si esplica la strategia competitiva.245 La <business definition>246 è dunque interpretabile in termini di selezione a) di quali clienti servire, b) per soddisfare quali funzioni, c) mediante quali tecnologie, dimensioni che consentono di delimitare l’ambito strategico all’interno del quale l’impresa opera. Discorrere di clienti/funzioni/tecnologie non è però sufficiente per individuare l’attività, significa piuttosto averne precisate le dimensioni di lettura: la definizione dell’attività può essere interpretata in termini di risposte di segmentazione e differenziazione, che vengono date lungo le tre dimensioni accennate.247 Per ciascuna di esse l’impresa può dunque esprimere comportamenti e scelte di:

244 Per un approfondimento in merito ai concetti menzionati si veda G. Mickwitz, Marketing and Competition: The Various Forms of Competition and the successive Stages of Production and Distribution, Helsingfors, Centraltryckeriet, 1959. 245 D. F. Abell, Defining the business: the Starting Point of Strategic Planning, Prentice-Hall Inc., Englewood Cliffs, New Jersey, 1980, pagg. 13-14. 246 In particolare, alla definizione di attività proposta da Abell verrà successivamente attribuito la denominazione di area strategica d’affari (Asa). Tale concetto viene utilizzato di norma con due significati complementari. Il primo, per definire “un’area distintiva dell’ambiente/mercato” nel quale l’azienda svolge, o può voler svolgere, la sua attività (“SBA”: Strategic Business Area); il secondo quale “unità o attività” responsabile dello sviluppo della posizione strategica dell’impresa in una o più SBA (“SBU”: Strategic Business Unit). Cfr. I. Ansoff, Organizzazione innovativa, op. cit., pag. 58. «L’Area strategica d’affari è il perno di gran parte dell’analisi, della formulazione, e dell’attuazione delle attività strategiche: di fatto, attraverso la definizione delle Asa i massimi vertici aziendali delimitano i campi in cui si espliciterà la strategia dell’azienda». Cfr. A. C. Hax, N. S. Majluf, The strategy concept and process: a pragmatic approach, Prentice-Hall, New York, 1991; trad. it.: La gestione strategica dell’impresa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1991, pag. 147. 247 D. F. Abell, Defining the business: the Starting Point of Strategic Planning, op. cit., pag. 170.

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• segmentazione (spettro, o ampiezza), della propria offerta che può mirare a una parte dell’insieme servito o a tutto l’insieme;

• differenziazione, a) verso la domanda, con la costituzione di offerte ad hoc per singoli segmenti di domanda, b) verso l’offerta, con la costituzione di elementi di distinzione d’impresa verso i concorrenti, utilizzando combinazioni differenziate dei fattori produttivi.

Tra le tre dimensioni, i gruppi di clienti rappresentano gli elementi nei confronti dei quali più frequentemente si tende ad operare la segmentazione e la differenziazione, poiché di norma risulta immediata l’identificazione delle differenze nei bisogni e nei comportamenti d’acquisto. Di volta in volta, poi, l’impresa valuterà l’opportunità di segmentare la propria attività rispetto a ciascuna delle tre dimensioni dell’attività e quindi operare una differenziazione dell’offerta, al fine di meglio soddisfare le esigenze dei diversi gruppi di clienti e ridurre anche i rischi di imitazione da parte dei concorrenti. La scelta dell’ampiezza dell’attività e del relativo grado di segmentazione e di differenziazione risulta influenzata dalla valutazione dei benefici potenziali per i clienti, derivanti da una definizione ampia o ristretta di ciascuna delle tre dimensioni, e del livello di differenziazione della strategia perseguita.248 Può risultare conveniente, ad esempio, rivolgere l’offerta a più gruppi di clienti attraverso una strategia indifferenziata. In tal caso si realizza un’ampia estensione dell’attività relativamente alla clientela, cui si accompagnano modalità uniche di offerta al mercato. La strategia indifferenziata, e quindi l’ampiezza dell’attività secondo una o più dimensioni consente di norma una riduzione dei costi e quindi dei prezzi di vendita, poiché favorisce l’utilizzazione delle economie di scala e più in generale di esperienza, relativamente alla ricerca, alla produzione, al marketing.249 248 L. Petix, Tipiche problematiche di analisi e gestione strategica dell’impresa, 2ª ed., Cedam, Padova, 1991, pag. 17. 249 A tale riguardo, come osserva A. Baldissera, la nozione di economie di scala assume rilievo peculiare nelle strategie di sviluppo orizzontale, sovente accolta quale fattore esplicativo delle condotte aziendali volte all’espansione dimensionale, e più precisamente al raggiungimento della <dimensione ottima>. Tale nozione, come proposta dalla teorizzazione, presuppone non soltanto la possibilità di isolare, nell’ambito delle modificazioni plurime che generalmente comportano gli incrementi della dimensione produttiva, le variazioni dei costi di produzione, ma soprattutto la possibilità di individuare nessi di causalità certi che consentano di attribuire le suddette riduzioni di costo al solo incremento produttivo, con l’esclusione quindi di ogni fattore altro e correlato all’incremento medesimo. Questa astrazione, tuttavia, apparirebbe secondo la Baldissera «conforme soltanto a situazioni iper-semplificate e irrealistiche» e perciò «non sarebbe validamente utilizzabile né a fini interpretativi, né a fini normativi». Ecco che la riduzione del costo di produzione non può venire ascritta esclusivamente al maggiore rendimento fisico-tecnico correlato all’ampliamento dimensionale, ma viceversa deve venire ricondotta

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Laddove l’impresa decida di operare una differenziazione relativamente alle modalità di offerta riferite a ciascuno dei segmenti considerati, si è in presenza di una strategia differenziata. Quest’ultima, al contrario dell’indifferenziata, mira soprattutto ad accrescere l’efficacia della gestione aziendale attraverso il miglior soddisfacimento delle specifiche esigenze dei diversi gruppi di clienti. Anch’essa può comunque consentire una riduzione dei costi attraverso l’utilizzazione di input comuni per l’attuazione di produzioni correlate, avvalendosi quindi di economie di scopo.250 Si osserva peraltro come le due nozioni di economie di scala e di scopo – pur astrattamente distinte nella teorizzazione, in quanto fondate su parametri fisico-tecnici diversi (la dimensione nel primo caso, la congiunzione nel secondo) – tendano non di rado a coesistere, ponendosi l’una quale conseguenza più o meno diretta dell’altra. A tale riguardo, l’ampliamento dimensionale degli impianti, posto in essere al fine di conseguire economie di scala, può comportare, in presenza di parti indivisibili degli impianti medesimi, la formazione di capacità produttiva in eccesso utilizzabile per la realizzazione di produzioni aggiuntive e correlate.251

anche all’operare di dinamiche di mercato lato sensu. La nozione di economie di scala dovrebbe dunque venire ampliata al fine di ricomprendere situazioni che, anziché rimanere immutate, si modifichino proprio al mutare della scala di produzione. A questo proposito, si rilevano almeno due profili di complessità che possono manifestarsi quali conseguenze dell’espansione produttiva medesima e che, nel contempo, sembrano suscettibili di influire sull’entità dei costi di produzione: a) le variazioni nei prezzi di acquisto dei fattori produttivi, connesse sia a mutamenti del potere contrattuale derivanti dai maggiori volumi negli acquisti, sia a semplici variazioni dei prezzi dei fattori produttivi indipendenti dall’espansione ma ad essa (temporalmente) concomitanti; b) le variazioni tecnologiche correlate agli incrementi della capacità produttiva, sia predeterminate (ossia volontariamente adottate), sia non determinabili ex ante ma connesse all’ampliamento dimensionale (A. Baldissera, La produzione nell’impresa industriale. Fondazioni economico-aziendali e critica della microeconomia, op. cit., pagg. 184-192). 250 A tale riguardo, la Baldissera individua motivazioni economico-aziendali che possono rendere conveniente l’utilizzazione di economie di scopo da parte di strategie di differenziazione produttiva: a) presenza di capacità produttiva in eccesso, non adeguatamente impiegata dall’impresa; b) necessità di ampliare le possibilità di collocamento delle produzioni principali, attraverso l’attivazione di produzioni correlate che le utilizzino quali input; c) superiore convenienza della produzione interna, rispetto all’acquisto dal mercato, di beni che comunque verrebbero offerti dall’impresa (A. Baldissera, La produzione nell’impresa industriale. Fondazioni economico-aziendali e critica della microeconomia, op. cit., pagg. 213-214). 251 L’associazione delle economie di scopo ai processi di espansione delle imprese volti al conseguimento di economie di scala viene proposta da A. D. Chandler come uno tra i fattori di maggiore rilevanza della nascita e dell’espansione della moderna impresa industriale, e con essa della crescita economica realizzatasi tra il 1880 e il 1940. In particolare, l’investimento iniziale in mezzi di produzione sufficientemente ampî per lo sfruttamento di economie di scala in taluni casi incentivò lo sviluppo di nuovi prodotti (A. Baldissera, La produzione nell’impresa industriale. Fondazioni economico-aziendali e critica della microeconomia, op. cit., pag. 211).

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Diversamente dalle ipotesi considerate, può risultare opportuno l’utilizzo di una strategia focalizzata che, apprezzando la differenziabilità del mercato (cioè l’esistenza potenziale di diversi segmenti), si focalizzi verso uno solo dei possibili attraverso una risposta di elevata differenziazione. 252 L’ultimo contributo analizzato nel presente lavoro è quello di M. Porter (1985) il quale, muovendo da un’interpretazione di segmento simile a quella proposta da Abell, reputa la segmentazione quale condizione preliminare per lo sviluppo di una strategia competitiva, sia essa di differenziazione, di costo, o di focalizzazione. 253

La ragione per cui i settori industriali dovrebbero venire segmentati per poter formulare una strategia competitiva risiederebbe nel fatto che i prodotti, gli acquirenti o entrambi, all’interno di un settore industriale, sarebbero differenti in un modo che influisce sulla loro “attrattività intrinseca” o sul modo in cui un’impresa acquisisce un “vantaggio competitivo” nel distribuirli. Dopo la realizzazione della segmentazione, l’impresa sceglierebbe la strategia concorrenziale più adeguata. Essa potrebbe decidere di attuare una strategia di differenziazione o di leadership di costo, tendenti a ottenere il vantaggio competitivo in un’ampia gamma di segmenti del settore industriale, oppure una strategia di focalizzazione (sui costi o sulla differenziazione) in uno o più segmenti ristretti.254 Porter reputa che un’impresa possa differenziarsi dai concorrenti quando offra qualcosa di “unico”, che abbia valore per i suoi acquirenti al di là della semplice vendita ad un prezzo inferiore. La differenziazione consente all’impresa a) di imporre un premium price, b) di vendere una quantità superiore di prodotti a un prezzo determinato, infine c) di ottenere una maggiore fedeltà da parte degli acquirenti. La differenziazione può quindi condurre a risultati migliori se il vantaggio di prezzo acquisito supera tutti i costi addizionali sostenuti per fornire qualcosa di “unico”.255 252 D. F. Abell, Defining the business: the Starting Point of Strategic Planning, op. cit., pagg. 174-175. 253 M. Porter, Competitive advantage: creating and sustaining superior performance, The Free Press, New York, 1985; trad. it.: Il vantaggio competitivo, Edizioni Comunità, Milano, 1987, pag. 265. Il concetto di segmentazione cui Porter si riferisce viene definito nella letteratura aziendale segmentazione strategica o, come sostenuto dall’Autore, segmentazione del settore industriale. La segmentazione del settore industriale implica la divisione dello stesso in unità parziali (le già menzionate “aree strategiche d’affari”) al fine di poter sviluppare una strategia competitiva. Tale concetto risulta quindi più ampio del concetto di segmentazione del mercato (anche se lo comprende), il cui fine consiste nella identificazione delle differenze nei fabbisogni degli acquirenti e nei loro comportamenti d’acquisto, consentendo all’impresa di servire i segmenti che corrispondono alle sue capacità con programmi di marketing separati. 254 M. Porter, Il vantaggio competitivo, op. cit., pag. 18. 255 M. Porter, Il vantaggio competitivo, op. cit., pag. 140.

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L’impresa a propria volta ha la possibilità di generare per il consumatore un valore che giustifichi un premium price attraverso a) la riduzione dei costi per l’acquirente, b) il miglioramento delle prestazioni. La riduzione dei costi concerne non soltanto l’esborso monetario sostenuto dal consumatore ma anche i costi connessi al tempo o alla convenienza, rappresentati di norma dal costo-opportunità di utilizzare il medesimo tempo in attività ulteriori (per esempio, riducendo i tempi di consegna, di installazione, di manutenzione, nonché il rischi che il prodotto si guasti). Il miglioramento delle prestazioni, invece, comporta un miglior soddisfacimento delle esigenze e delle necessità del consumatore (per esempio, un ospedale che acquisisce un’apparecchiatura diagnostica che garantisca trattamenti clinici migliori, al fine di assicurare ai pazienti cure di qualità).256 La differenziazione, derivando dalle attività specifiche svolte da un’azienda e dal modo in cui queste entrano in relazione con il cliente, non può, secondo l’Autore, venire compresa considerando l’impresa come un tutto aggregato. La differenziazione nasce dunque dalla <catena del valore>: in linea di principio qualsiasi attività generatrice di valore diviene fonte potenziale di unicità. Per esempio, l’approvvigionamento delle materie prime e degli altri input può influire sulla prestazione del prodotto finale e quindi sulla differenziazione; le attività di sviluppo della tecnologia possono condurre a progettazioni di prodotto aventi prestazioni uniche; le attività operative possono influire su certe forme di unicità quali l’aspetto del prodotto, la conformità, l’affidabilità; il sistema logistico in uscita può stabilire la velocità e la frequenza delle consegne.257 Una particolare attenzione viene infine dedicata dall’Autore al costo della differenziazione. Un’impresa, infatti, deve di norma sostenere dei costi per divenire “unica”, poiché l’unicità le impone di svolgere attività <generatrici di valore> meglio dei concorrenti. L’onere della differenziazione riflette allora le determinanti di costo delle attività generatrici di valore su cui si basa l’unicità: nel momento in cui l’unicità incrementa i costi, agendo sulle determinanti di essi, queste ultime a loro volta stabiliscono il costo della differenziazione. La posizione di un’impresa rispetto alle sue determinanti stabilirà il costo di una particolare strategia di differenziazione rispetto ai concorrenti.258 III.2.2 Alcune fenomenologie.

256 M. Porter, Il vantaggio competitivo, op. cit., pagg. 152-154. 257 M. Porter, Il vantaggio competitivo, op. cit., pagg. 140-141. 258 M. Porter, Il vantaggio competitivo, op. cit., pagg. 148-149.

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Domanda e offerta di beni economici

Dall’analisi dei contributi precedenti, nonostante la molteplicità delle interpretazioni proposte, un denominatore comune può venire senza dubbio individuato. A tale riguardo, scopo della differenziazione dei prodotti si reputa il puntuale soddisfacimento di esigenze eterogenee dei consumatori, non soltanto preesistenti in modo autonomo, ma sovente rese tali proprio dal comportamento attivo dell’impresa volto a definire caratteristiche del prodotto più appropriate ad attese latenti della domanda. Tale affermazione risulta avvalorata empiricamente considerando due fenomenologie concernenti: a) il mercato automobilistico; b) il mercato bancario. A) Per quanto attiene il mercato automobilistico259, si osserva come si tratti di un mercato maturo, caratterizzato da una prevalente domanda di sostituzione, in cui il fenomeno della multimotorizzazione costituisce una delle cause della sua dinamica evolutiva. Se inizialmente la segmentazione del mercato poteva basarsi quasi esclusivamente su variabili di tipo demografico e socio-economico (reddito, età, professione degli acquirenti) che conducevano ad un limitato numero di segmenti, si è reso in seguito necessario avvalersi di ulteriori parametri di segmentazione. A variabili socio-economiche ne sono state aggiunte ulteriori con la finalità di comprendere specificatamente le caratteristiche ricercate nel prodotto da parte del consumatore; si pensi all’economicità dell’acquisto, alle prestazioni, al comfort, alla sicurezza, al bisogno di mobilità, a questioni di immagine. Sempre maggiore è poi la rilevanza di variabili psicografiche, quali gli stili di vita dei diversi gruppi di acquirenti che inevitabilmente influiscono sulla scelta d’acquisto, oppure l’immagine di sé che l’individuo possiede o che attraverso l’automobile intende presentare. Si considerino poi ulteriori aspetti “comportamentistici”, quali le occasioni d’utilizzo, la fedeltà alla marca, i comportamenti post-acquisto, fattori questi che possono differenziare i consumatori in istintivi o riflessivi, decisi o facilmente influenzabili. Conseguenza di tutto ciò è il maggior numero di segmenti in cui il mercato è stato suddiviso dalle case automobilistiche, con l’obiettivo di conseguire la massima omogeneità interna e la conseguente eterogeneità esterna. L’evoluzione del mercato, muovendo da un’ipotesi iniziale di due o tre segmenti scarsamente definiti, ha condotto all’individuazione di dieci segmenti: seg. A…..super-utilitarie (es. Fiat 600); seg. B…..utilitarie (es. Fiat Punto); seg. C…..medio-inferiori (es. Wolkswagen Golf); seg. D…..medie (es. Alfa Romeo 156); seg. E…..medio-superiori (es. Alfa 166); 259 L’esempio è tratto, con opportuni adattamenti, da G. Volpato, Concorrenza, impresa, strategie, op. cit., pagg. 179-182.

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seg. F…..superiori (es. BMW serie 5); seg. G…..di rappresentanza (es. BMW serie 7); seg. H…..sportive (es. Porsche Boxster); seg. I……fuoristrada (es. Mitsubishi Pajero); seg. L…..monovolume (es. Renault Espace). Esaminando i dati storici relativi alle vendite effettuate da numerosi produttori sembrava emergere una preferenza dei consumatori verso vetture di maggiore dimensione, aventi cilindrata e prestazioni superiori. In realtà questa constatazione non necessariamente poteva essere attribuita a intrinseche preferenze, quanto piuttosto ad un rapporto prezzo-prestazioni. Ne derivava che le aspirazioni potevano essere diverse e che automobili aventi caratteristiche differenziate e rapporti prezzo/prestazioni modificati avrebbero potuto riscuotere un successo superiore e orientare in modo difforme la domanda fra i molteplici segmenti. Ciò è stato dimostrato con la presentazione di una serie di modelli appartenenti al segmento B (Fiat Punto, Ford Fiesta, Lancia Y, Nissan Micra, Peugeot 205, Renault Clio), che hanno riscosso un apprezzamento straordinario modificando significativamente la ripartizione della domanda fra i segmenti. La possibilità di disporre di automobili di ridotte dimensioni ma dotate di soluzioni tecniche, prestazioni e comfort simili alle vetture di classe superiore, ha modificato significativamente l’importanza quantitativa dei segmenti, convogliando verso l’alto gli acquirenti che in precedenza optavano per vetture super-utilitarie e verso il basso quelli precedentemente orientati verso vetture medio-inferiori. Se si analizzano infatti le vendite nel mercato italiano dal 1995 al 1999 si può notare come le preferenze dei consumatori siano state rivolte primariamente verso automobili utilitarie (Tabella 3.1).

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Il successo di queste ultime, notevolmente superiore alle aspettative, aveva indotto non poche difficoltà soprattutto nei primi anni della commercializzazione poiché si erano decisamente decurtate le vendite dei modelli presenti nei segmenti adiacenti, mentre le linee di montaggio dei modelli più richiesti non apparivano in grado di soddisfare immediatamente la domanda, con l’effetto di prolungare i tempi di consegna del prodotto alla clientela. In anni più recenti la situazione si è normalizzata, ed infatti le vendite non mostrano variazioni particolarmente significative (Tabella 3.2). Ex post, un’interpretazione probabile è che numerosi consumatori appartenenti a fasce di reddito medio-superiori acquistavano, in precedenza, vetture di dimensioni maggiori al fine di usufruire di certune caratteristiche soltanto dalle stesse offerte (climatizzatore, servo-sterzo, air bag, sistema ABS), mentre in realtà essi avrebbero preferito acquistare automobili di dimensioni più contenute, per un utilizzo prevalentemente cittadino, purché adeguatamente accessoriate. E in effetti la segmentazione per categorie di automobili in dieci classi risulta piuttosto recente, se si considera che in passato la classificazione ne prevedeva un numero esiguo. La maggior articolazione (per esempio, vetture fuoristrada e vetture monovolume) si è verificata soltanto successivamente quale risposta al successo, decisamente superiore alle iniziali aspettative, di prodotti aventi caratteristiche nuove. In questo senso, la differenziazione è divenuta strumento di soddisfacimento di esigenze inespresse e latenti della domanda, consentendo alle imprese realizzatrici il conseguimento di significativi vantaggi competitivi. B) Un’esemplificazione ulteriore può essere proposta per un mercato caratterizzato negli ultimi anni da una forte intensificazione del grado di concorrenza: il mercato bancario italiano. Il riconoscimento della natura imprenditoriale dell’attività bancaria e l’abbandono del modello pubblicistico hanno promosso mutamenti significativi negli assetti proprietari e ampliato la possibilità di competizione nei mercati dei prodotti e servizi bancari. Le quote di mercato delle singole banche si sono modificate sensibilmente, soprattutto in segmenti come le gestioni patrimoniali e gli impieghi. Si è rafforzata la presenza sul territorio in termini di canali di distribuzione di prodotti e servizi. Dalla liberalizzazione degli sportelli bancari – avvenuta nel 1990 – il numero di dipendenze è aumentato di oltre il 70%.260 Dal 1995, in particolare, sono state aperte 4.268 agenzie (Tabella 3.3), di cui una parte rilevante in località non precedentemente presidiate, con conseguente

260 R. Benincampi, “Industria bancaria e concorrenza: le tendenze recenti”, in Bancaria, n. 7-8, 2000, pag. 36.

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aumento del numero dei contratti di conto corrente (Grafico 3.1) e quindi del grado di concorrenza. L’accrescimento della competitività ha costituito una delle principali motivazioni sottostanti la ricerca di assetti economici e organizzativi più idonei a fronteggiare le sfide del mercato. L’avvento della moneta unica ha infatti accelerato il processo di eliminazione delle barriere geografiche e, nel contempo, esso ha imposto alle aziende di credito dei Paesi coinvolti la revisione di politiche aziendali e comportamenti strategici, adattando le une e gli altri alla nuova realtà di un mercato più ampio, caratterizzato da una dimensione sovranazionale. Di qui il notevole accrescimento delle operazioni di concentrazione in tutti i principali mercati bancari internazionali, così come in Italia. In quest’ultima sono state realizzate 508 aggregazioni dal 1990 a oggi261, con una maggiore accentuazione soprattutto negli ultimi anni: tra il 1995 e il 2000, in particolare, si è manifestata una riduzione pari a 131 istituzioni creditizie (Tabella 3.3). Tabella 3.3 Distribuzione territoriale delle istituzioni creditizie e delle

dipendenze in Italia. BANCHE 1995 Giu. 1996 Giu. 1997 Giu. 1998 Giu. 1999 Giu. 2000 Giu. Italia settentrionale 530 513 511 517 512 498 Italia centrale 178 173 170 175 177 171 Italia meridionale 289 272 259 246 229 197

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FONTE: Banca d’Italia, Bollettino statistico, n. 18/1995 pagg. 54-59; n. 23/1996 pagg. 154-162; n. 27/1997 pagg. 144-152; n. III/1998 pagg. 2-6; n. III/1999 pagg. 2-6; n. III/2000 pagg. 2-6.

Il grado di concentrazione raggiunto, misurato dalla quota di mercato dei primi cinque gruppi, è stato pari al 51%, valore analogo a quello della Francia e più elevato di quello in Germania. Negli Stati Uniti tale quota è passata, tra il 1990 e il 1999, dall’11% al 27%.262

Grafico 3.1 Numero dei conti correnti per 100 abitanti in Italia. 261 A. Fazio, “Concorrenza, sviluppo e sistema bancario”, in Bollettino Economico della Banca d’Italia, n. 35, ottobre 2000, pag. 22. 262 A. Fazio, “Concorrenza, sviluppo e sistema bancario”, art. cit., pag. 21.

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FONTE: Banca d’Italia, Relazione annuale sul 1999, 31 maggio 2000, pag. 236. Per quanto concerne le strategie aziendali, si è manifestata la necessità di compensare la riduzione del margine di interesse, generata dall’intensificazione delle relazioni concorrenziali e dalla diminuzione dei tassi di interesse – indotta quest’ultima anche dalla “cultura della stabilità”, trave portante del Trattato di Maastricht – con un accrescimento del margine dell’attività da servizi.263 «L’obiettivo è divenuto così la comprensione del mercato, e l’identificazione e strutturazione dei servizi ritenuti in grado di soddisfare più appropriatamente le esigenze della clientela, propria e potenziale, di famiglie e imprese».264 Come già scriveva G. Caprara265 negli anni Settanta, l’azienda di credito non deve venire considerata soltanto una «raccoglitrice di risparmio e una investitrice di mezzi monetari», ma anche e soprattutto «una indagatrice attenta all’evoluzione delle propensioni, una precorritrice delle esigenze dei mercati di raccolta e di impiego, una protagonista incisiva dei piani e dei programmi di lungo periodo e di ampio respiro». E, riprendendo da U.

263 Le banche interessate dalle operazioni di concentrazione hanno ampliato l’offerta di servizi in misura superiore al resto del sistema. Nel 1999 il 45% del margine di intermediazione delle banche italiane è stato generato da commissioni e proventi connessi con attività diverse da quella di impiego e raccolta fondi; alla metà del decennio la quota era ancora inferiore al 30% (A. Fazio, “Concorrenza, sviluppo e sistema bancario”, art. cit., pag. 22). 264 A. Bertoni, “Il marketing bancario”, in AA.VV., Il marketing dei servizi, Giuffrè Editore, Milano, 1982, pag. 69. 265 G. Caprara, “Note introduttive al marketing bancario”, in AA.VV., Scritti in onore di Ugo Caprara, vol. II, Società Editrice Libraria, 1975, pag. 126.

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Caprara266, «un pensiero assillante domina la banca e deve dominarla: ricercare in sé stessa, studiandosi di trarre dal proprio intimo ogni capacità d’azione che valga a consolidare il suo prestigio, a moltiplicare le sue relazioni, a dilatare i suoi campi di scelta, a rendersi interprete sempre più attenta e sagace delle esigenze verso le quali indirizza la sua specializzata preparazione. Il suo sforzo costruttivo non ammette momenti di indugio o di rilassamento; le sue condizioni di vita, che sono condizioni di offerta e di domanda di credito, possono sgorgare solo da un procedere alacre, ricco di immaginazione». Tale affermazione risulta di particolare attualità soprattutto ai giorni nostri, considerando la profonda modificazione realizzatasi nel mercato bancario: dalla globalizzazione che caratterizza i segmenti più sofisticati dell’investment banking e del fund management, alla dimensione internazionale assunta da numerose attività di corporate banking e di private banking, alla delocalizzazione di molteplici attività di retail banking (dalla relazione fisica al supporto tecnologico). In più, si è accresciuto il livello di sostituibilità tra prodotti (nella gestione del risparmio, ad esempio, tra prodotti bancari, mobiliari e assicurativi) e, dunque, mentre si amplia la domanda potenziale per ciascuno di essi, aumenta anche la differenziazione dell’offerta.267 Questo risulta maggiormente comprensibile considerando la particolare situazione dei singoli mercati. A tale riguardo, il mercato corporate risulta caratterizzato da una crescente specializzazione. Parti significative delle attività di investment banking, dal corporate finance al risk management, dal merchant banking alle operazioni di credito innovativo, sono divenute accessibili al segmento del middle market. Questo ha comportato la possibilità per le banche di avvalersi del corporate banking anche per accrescere i propri impieghi, operando direttamente con il cliente.268 Se si analizza il periodo intercorrente tra il 1995 e il 2000 si evince un incremento superiore al 37% negli impieghi a livello nazionale,

266 G. Caprara, “Note introduttive al marketing bancario”, op. cit., pag 127 (ripreso da U. Caprara, “L’economia della banca”, in Rivista Internazionale di Scienze Economiche e Commerciali, 1967). 267 G. Forestieri, “La ristrutturazione del sistema finanziario italiano: dimensioni aziendali, diversificazione produttiva e modelli organizzativi”, in Banca, Impresa, Società, n. 1, Aprile 2000, pag. 34. 268 Oltre alla possibilità di impieghi superiori, ulteriori vantaggi derivanti dal corporate banking possono individuarsi in: a) ampliamento della gamma dei servizi offerti con positivi riflessi sull’immagine aziendale; b) maggiore velocità di circolazione monetaria, con riduzione di esigenze di liquidità primaria presso banche e imprese e conseguente incremento di riserve liquide presso il sistema bancario al fine di fronteggiare fluttuazioni economiche; c) incremento del margine da servizi (M. Saita, La banca nell’impresa, Iceb, Milano, 1986, pagg. 14-15).

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concentrati principalmente nelle regioni dell’Italia settentrionale (Tabella 3.4), a fronte di più contenuti aumenti nei depositi (Tabella 3.5). Verso il corporate banking si sono mosse anche banche estere venute ad operare in Italia con scopi prevalentemente d’impiego, limitate nella possibilità di avvalersi di vaste reti di sportello. E il tutto si è tradotto, negli ultimi anni, in un aumento nel numero di istituzioni creditizie aderenti a tale forma di servizio (Grafico 3.2). Tabella 3.4 Distribuzione territoriale degli impieghi in Italia. 1995 Giu. 1996 Giu. 1997 Giu. 1998 Giu. 1999 Giu. 2000 Giu. Italia settentrionale 650.141 672.087 718.004 769.123 875.287 1.005.550 Italia centrale 354.335 360.501 360.701 377.021 387.273 404.903 Italia meridionale 204.140 213.702 221.132 224.392 238.401 250.631

Totali 1.208.616 1.246.290 1.299.837 1.370.536 1.500.961 1.661.084 FONTE: Banca d’Italia, Bollettino statistico, n. 23/1996 pag. 3; n. 27/1997 pag. 3; n. III/1998 pag.

26; n. III/1999 pag. 52; n. III/2000 pag. 48; (consistenze in miliardi di lire). Tabella 3.5 Distribuzione territoriale della raccolta in Italia. 1995 Giu. 1996 Giu. 1997 Giu. 1998 Giu. 1999 Giu. 2000 Giu. Italia settentrionale 542.136 573.410 562.279 545.675 545.840 545.822 Italia centrale 209.509 216.342 211.656 210.408 221.082 234.787 Italia meridionale 213.470 230.743 220.318 210.607 207.645 208.808

Totali 965.115 1.020.495 994.253 966.690 974.567 989.417 FONTE: Banca d’Italia, Bollettino statistico, n. 23/1996 pag. 3; n. 27/1997 pag. 3; n. III/1998 pag.

26; n. III/1999 pag. 52; n. III/2000 pag. 48; (consistenze in miliardi di lire). Da parte della clientela si è diffusa la consapevolezza che la gestione della finanza non debba costituire soltanto un vincolo da soddisfare, ma possa divenire strumento di competitività aziendale. Ne è conseguita una maggiore sofisticazione della domanda: il livello di servizio richiesto si è accresciuto significativamente rispetto ai contenuti prevalenti del banking tradizionale. Anche nel private banking, da sempre contraddistinto per l’elevato livello di sofisticazione, a seguito della globalizzazione dei mercati finanziari si sono manifestate nuove opportunità di innovazione dei prodotti e di miglioramento dei risultati.

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Grafico 3.2 Numero di istituzioni creditizie aderenti ai servizi di corporate

banking.

0

100

200

300

400

500

600

700

1995 1996 1997 1998 1999 2000

FONTE: Banca d’Italia, Relazione Annuale sul 1999, 31 maggio 2000, pag. 233 (i dati relativi al

2000 si riferiscono al periodo fino al 31 marzo). Sia nel corporate e investment banking, sia nel private banking, una differenziazione basata sulla qualità e sull’assortimento della gamma dei servizi offerti risulta dunque di particolare importanza. Si tratta di aree di attività in cui prevale l’approccio problem solving, in cui la personalizzazione delle relazioni di clientela è elevata, il grado di innovazione risulta rilevante, la reputazione e la credibilità divengono essenziali.269 Nel retail banking, considerata la natura dei prodotti, sembrerebbero esservi minori spazi di evoluzione. In realtà, si tratta del campo in cui maggiore si presenta la concorrenza derivante sia dal miglioramento dell’informazione e della cultura economica degli utilizzatori dei servizi, sia dalle innovazioni dei canali distributivi consentite dalla tecnologia. I sistemi distributivi (on-line banking) ed operativi del retail banking (trading on-line, piattaforme informatiche) risultano in fase di profonda trasformazione. I costi di transazione e le asimmetrie informative dei servizi finanziari sono stati 269 G. Forestieri, “La ristrutturazione del sistema finanziario italiano: dimensioni aziendali, diversificazione produttiva e modelli organizzativi”, art. cit., pagg. 35-43.

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ridotti considerevolmente attraverso strutture e applicazioni che incorporano le nuove tecnologie. L’evoluzione in atto nel retail banking si caratterizza da un lato per una crescente articolazione e maturazione della domanda, dall’altro per una corrispondente attività di innovazione di prodotto, tesa all’ampliamento della gamma offerta, i cui vantaggi rimangono tuttavia di breve durata per la facile imitabilità dei servizi finanziari.270 Un esempio in tal senso concerne il risparmio gestito. Fondi comuni, gestioni, polizze, sono di norma offerti da qualunque banca, tuttavia, non di rado la banca retail svolge soltanto una funzione distributiva, poiché la funzione produttiva tende a concentrarsi sempre più in un numero ristretto di operatori in grado di ottimizzare gli enormi costi fissi (infrastrutture, ricerca, analisi, gestione, comunicazione) che questa area di attività impone. In questo quadro, la specializzazione per fasi della <catena del valore> garantisce opportunità anche ai competitori di più ridotte dimensioni. Essi, da un lato, vengono progressivamente emarginati dalle fasi ad elevata intensità di capitale e di risorse speciali; dall’altro lato, sono dotati di vantaggio competitivo nel presidio di una o più aree di mercato geografico e l’attenzione alla funzione distributiva e di servicing appare una strategia coerente.271 IV. Conclusioni. L’avvento del marginalismo segna una transizione forse mai più ricomposta nella natura della teoria economica. Questa cessa di essere indagine sulle cause e le implicazioni della crescita della ricchezza, per divenire analisi sul problema dell’allocazione di risorse date tra linee di produzioni alternative, in un contesto a-temporale.272 «Il problema economico – scriveva Jevons273 – può essere formulato come segue: dato, una certa popolazione con vari bisogni e poteri di produzione, in possesso di certe terre e di altre fonti di materia; da determinare, il modo di impiegare il lavoro meglio atto a rendere massima l’utilità del prodotto». Questa formulazione di Jevons dà l’impronta a l’economia di tutta l’epoca. Per più di sessant’anni, a muovere dagli scritti di Jevons, di Menger, di Walras, di Marshall e di altri esimi studiosi, la teoria economica continua ad essere reputata principalmente indagine sulle condizioni di massimizzazione in presenza di vincoli dati.

270 C. Demattè, G. Forestieri, P. Mottura, Economia degli intermediari finanziari, Egea, Milano, 1993, pag. 650. 271 G. Forestieri, “La ristrutturazione del sistema finanziario italiano: dimensioni aziendali, diversificazione produttiva e modelli organizzativi”, art. cit., pagg. 42-43. 272 A. K. Dasgupta, La teoria economica da Smith a Keynes, op. cit., pag. 110. 273 W. S. Jevons, Teoria dell’economia politica e altri scritti economici, op. cit., pag. 202.

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L’operare del processo di sostituzione, muovendo dall’ipotesi di stazionarietà dell’economia (caratteristiche e gusti costanti della popolazione, tecnologia immutata, previsione perfetta), quindi da condizioni date, conduce, grazie al libero gioco della domanda e dell’offerta, alla produzione massima per l’imprenditore e alla massima utilità per il consumatore. La posizione stabilitasi in questo modo viene considerata situazione di equilibrio, unica, stabile, e ottima in senso paretiano.274 L’apparato teorico neoclassico inizia a suscitare perplessità a muovere dagli inizi del secolo, entrando poi in crisi soprattutto dal primo dopoguerra, allorquando l’evoluzione tecnologica, l’enorme ampliamento dei mercati, la sofisticazione dei consumi, pongono in evidenza gli importanti problemi del funzionamento dell’impresa e dello studio della concorrenza, e dimostrano di conseguenza la non-utilizzabilità – anzi il danno (?) - di tale approccio ai fini di una rappresentazione realistica del mondo industriale. Come Zappa suggerisce275, «le concezioni dell’equilibrio statico e le ipotesi altamente astratte dalle quali sono fatte plausibili male possono adattarsi alla molteplicità di andamenti difformi e nel tempo mutevoli, resi necessari dal continuo cangiare delle condizioni d’impresa e di mercato. (…) Il reale sistema dell’economia produttiva d’impresa non posa mai in statiche condizioni di equilibrio: esso è sempre instabile, sempre è perturbato». Questa affermazione risulta avvalorata dagli studi condotti nei primi decenni del XX secolo, finalizzati a modificare e rendere più realistica la teoria economica tradizionale. La critica maggiormente incisiva viene proposta da Veblen (1899), che aspira ad una scienza economica più ricca, sociologicamente più intuitiva, e in ogni caso evoluzionistica rispetto a quella presentata dall’analisi della corrente principale. Schumpeter (1926) viceversa non tenta di respingere la teoria tradizionale, ma la utilizza come punto di partenza per un problema differente: lo sviluppo economico. La sua enfasi sul ruolo dell’imprenditore e dell’innovazione risulta particolarmente importante e pone in evidenza come, tenendo presenti considerazioni realistiche sullo sviluppo di lungo periodo, la visione dei problemi fondamentali dell’economia debba venire rivoluzionata. Il più incisivo tentativo interno di modificare l’analisi neoclassica viene suggerito dalle teorie della concorrenza monopolistica (Chamberlin, 1933) e della concorrenza imperfetta (Robinson, 1933) che, richiamandosi all’analisi di Sraffa (1926), individuano una nuova forma di mercato intermedia, e sicuramente più realistica, tra la concorrenza e il monopolio. L’elemento sostanziale delle teorizzazioni di tali Autori è il concetto di <differenziazione dei prodotti>, che concerne sia mercati concorrenziali, sia mercati relativamente monopolistici. 274 A. K. Dasgupta, La teoria economica da Smith a Keynes, op. cit., pagg. 111-112. 275 G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, op. cit., pagg. 449-452.

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L’inasprimento della lotta competitiva comporta infatti per l’impresa la possibilità di acquisire vantaggi competitivi a patto di affinare le proprie capacità di soddisfacimento delle esigenze sempre più sofisticate e mutevoli della domanda, il che rende necessaria l’individuazione di segmenti particolarmente ridotti di bisogni omogenei, unitamente all’offerta di una gamma di prodotti altamente differenziata. Il concetto di differenziazione dei prodotti diviene dunque oggetto, nel corso del tempo, di studi e continui arricchimenti da parte di studiosi e discipline molteplici i quali, interessandosi ai differenziati aspetti del fenomeno, progressivamente approfondiscono, così la realtà fenomenica come le interpretazioni teoriche di essa. In particolare i contributi che si succedono durante gli anni si interessano all’aspetto o strutturale o strategico della differenziazione, giungendo a presentarne significati differenziati, anche se implicitamente interrelati. Mentre la letteratura microeconomica e di economia industriale classica (Hotelling, 1929; Chamberlin, 1933; Robinson, 1933; Bain, 1956; Lancaster, 1979) presenta in genere una definizione di differenziazione alquanto ristretta, l’Economia aziendale, e in essa in particolare il Marketing e la Strategia (Smith, 1956; Kotler, 1967; Podestà, 1974; Rispoli, 1976; Abell, 1980; Porter, 1985), tratta della differenziazione in senso più ampio, fino a considerarla una strategia competitiva di tipo generale, o addirittura il contenuto di qualsivoglia strategia competitiva volta a differenziare significativamente i prodotti.

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6. Virna FREDDI, Attività economica e impresa nella concezione economicista, febbraio 2000.

7. Virna FREDDI, L'approccio Resource-based alla teoria dell'impresa: fattori interni e competitività aziendale, febbraio 2000.

8. Maria MARTELLINI, Sviluppo, imprese e società, maggio 2000.

9. Arnaldo CANZIANI, Per la critica della teoresi zappiana, e delle sue forme di conoscenza, dicembre 2000.

10. Giuseppe BERTOLI, Gabriele TROILO, L'evoluzione degli studi di marketing in Italia. Dalle origini agli anni settanta, dicembre 2000.

11. Giuseppe BERTOLI, Profili di efficienza delle procedure concorsuali. Il concordato preventivo nell’esperienza del tribunale di Brescia, dicembre 2000.

∗ Serie depositata a norma di legge

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Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030/2988.551-552-553-554 fax 030/295814e-mail: [email protected]