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DOLEO ERGO SUM ( l‟iter poetico di S. Quasimodo da “Nuove poesie” a “La vita non è sogno” )* In “NUOVE POESIE” i temi legati alla terra natale mito di una primitiva innocenza ai ricordi dell‟infanzia e al senso tragico della fugacità del tempo, già presenti nelle precedenti raccolte ( “Acque e terre”; “Oboe sommerso”; “Erato e Apòllion”), ritornano in forme tradizionali e con una più fluente musicalità a delineare un “nuovo” iter poetico sostenuto da una profonda nostalgia e dall‟amore che Quasimodo nutre per la sua terra di Sicilia, sentimenti che in quelle sillogi rimangono velati all‟interno del più vasto sentimento per la “stagione felice” dell‟uomo, universalmente sognata, che la fatica del ricordare, non confortata dall‟esperienza, rende irrevocabilmente “patria perduta”. Siamo qui, dunque, lontani dal nóstos omerico, da quell‟ “antica voce” che è l‟odissea del Canto: quell‟ “0boe sommerso” del quale è possibile cogliere soltanto risonanze effimere” nella profondità della “liquida” notte.(1) La Sicilia non è l‟ “Isola di Ulisse”: metafora del Canto e modello sul quale il nostro Poeta confronta la condizione dell‟uomo contemporaneo. La Sicilia è l‟ «isola», foscolianamente irraggiungibile, la «terra materna» che dal Poeta potrà ricevere solo il dono del «canto». Tuttavia, in Quasimodo, la lacerante separazione dalla terra d‟origine si carica di un dolore, le cui ragioni vanno oltre la condizione dell‟ «esule». Perché il dolore non è solo lontananza. Esso ha nella Sicilia la sua connotazione geografica ed è segnato sensibilmente dal trascorso storico-sociale di quella terra. Così il dolore ha radici “ataviche” e vi corrisponde un senso profondo di allontanamento, di abbandono. Perché la Sicilia è terra d‟ «esilio» che “esilia” e, dunque, (è) «isola». Essa, tuttavia, non è mai dal Poeta rinnegata, anzi è sempre cercata, perdutamente amata. Solo la memoria concede dei ritorni. Simile a una gazza, essa ruba all‟oblio attimi d‟infanzia e nel ricordo il Poeta s‟illude di cogliere il segno vero della vitaperché vivere è ricordare e ricordare è ri-vivere ( secondo la lezione platonica ) ed è uscire dal sogno e sottrarsi alla fascinazione del mito. Ma quegli attimi presto ridiventano ombre, “remoti simulacri”. La gazza-memoria, allora, torna a ripiegarsi sull‟oblio stendendo la sua ala “nera” sulle dorate distese dei ricordi (gli “aranci” ).(2) Non è una memoria mitica, né sempre proustiana. In essa affiora ciò che semplicemente il Poeta ama ricordare. In primo piano è il paesaggio siciliano evocato quasi sempre insieme con le percezioni sensoriali, e non attraverso di esse; animato dal vento, dalla pioggia, da cavalli in corsa, dal volo degli uccelli, dal “murmure degli ulivi saraceni”, dal “sibilo dei pioppi”, da voci di fanciulli, dall‟odore di zagare, dal marranzano del carraio, dal “corno dei pastori”. (3) A volte è il paesaggio lombardo ad evocare quello siciliano, soprattutto la sera quando, col riposo, si è più inclini al raccoglimento. Con lo spuntar del giorno quel paesaggio familiare sarà più lontano della luna. E questa lontananza è il disagio del Poeta che da esule cerca di stabilire un contatto con la sua terra che, in qualche modo, egli ritrova nel paesaggio lombardo. (4) Tradotta in suoni, in immagini, in odori, con un movimento contrario a quello proustiano, la Sicilia si fa presenza evanescente. Nell‟ “antico corno dei pastoriil fiato è un debole richiamo e il soffio di vento” che si libera dall‟incerta terra è un‟eco subito spenta. Nessuna voce della sua terra giunge chiara al Poeta perché “pastore d’aria” è il sogno che la custodisce. Nessuna corrispondenza, dunque, può stabilirsi tra la terra sognata e il Poeta che ne è lontano.(5) In questa raccolta il tenue motivo della nostalgia ( che non è quella „romantica‟) si lega inevitabilmente al sogno del ritorno, purtroppo impossibile, senza però quel doloroso senso di sradicamento che domina in “Acque e terre” e, in parte, in “Oboe sommerso”. Inoltre, il tanto desiderato ritorno non è sempre e necessariamente un ritrovare il tempo dell‟infanzia. Questa ricerca, di segno proustiano, è sviluppata ampiamente nelle precedenti raccolte e mai in maniera isolata, ma sempre in concomitanza o in stretto legame con altri temi.

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DOLEO ERGO SUM

( l‟iter poetico di S. Quasimodo da “Nuove poesie” a “La vita non è sogno” )*

In “NUOVE POESIE” i temi legati alla terra natale – mito di una primitiva innocenza – ai

ricordi dell‟infanzia e al senso tragico della fugacità del tempo, già presenti nelle precedenti

raccolte ( “Acque e terre”; “Oboe sommerso”; “Erato e Apòllion”), ritornano in forme tradizionali e

con una più fluente musicalità a delineare un “nuovo” iter poetico sostenuto da una profonda

nostalgia e dall‟amore che Quasimodo nutre per la sua terra di Sicilia, sentimenti che in quelle

sillogi rimangono velati all‟interno del più vasto sentimento per la “stagione felice” dell‟uomo,

universalmente sognata, che la fatica del ricordare, non confortata dall‟esperienza, rende

irrevocabilmente “patria perduta”. Siamo qui, dunque, lontani dal nóstos omerico, da quell‟ “antica

voce” che è l‟odissea del Canto: quell‟ “0boe sommerso” del quale è possibile cogliere soltanto

“risonanze effimere” nella profondità della “liquida” notte.(1)

La Sicilia non è l‟ “Isola di Ulisse”: metafora del Canto e modello sul quale il nostro Poeta

confronta la condizione dell‟uomo contemporaneo. La Sicilia è l‟ «isola», foscolianamente

irraggiungibile, la «terra materna» che dal Poeta potrà ricevere solo il dono del «canto». Tuttavia, in

Quasimodo, la lacerante separazione dalla terra d‟origine si carica di un dolore, le cui ragioni vanno

oltre la condizione dell‟ «esule». Perché il dolore non è solo lontananza. Esso ha nella Sicilia la sua

connotazione geografica ed è segnato sensibilmente dal trascorso storico-sociale di quella terra.

Così il dolore ha radici “ataviche” e vi corrisponde un senso profondo di allontanamento, di

abbandono. Perché la Sicilia è terra d‟ «esilio» che “esilia” e, dunque, (è) «isola». Essa, tuttavia,

non è mai dal Poeta rinnegata, anzi è sempre cercata, perdutamente amata. Solo la memoria

concede dei ritorni. Simile a una gazza, essa ruba all‟oblio attimi d‟infanzia e nel ricordo il Poeta

s‟illude di cogliere il “segno vero della vita” perché vivere è ricordare e ricordare è ri-vivere

( secondo la lezione platonica ) ed è uscire dal sogno e sottrarsi alla fascinazione del mito. Ma

quegli attimi presto ridiventano ombre, “remoti simulacri”. La gazza-memoria, allora, torna a

ripiegarsi sull‟oblio stendendo la sua ala “nera” sulle dorate distese dei ricordi (gli “aranci” ).(2)

Non è una memoria mitica, né sempre proustiana. In essa affiora ciò che semplicemente il Poeta

ama ricordare. In primo piano è il paesaggio siciliano evocato quasi sempre insieme con le

percezioni sensoriali, e non attraverso di esse; animato dal vento, dalla pioggia, da cavalli in corsa,

dal volo degli uccelli, dal “murmure degli ulivi saraceni”, dal “sibilo dei pioppi”, da voci di

fanciulli, dall‟odore di zagare, dal marranzano del carraio, dal “corno dei pastori”. (3) A volte è il

paesaggio lombardo ad evocare quello siciliano, soprattutto la sera quando, col riposo, si è più

inclini al raccoglimento. Con lo spuntar del giorno quel paesaggio familiare sarà più lontano della

luna. E questa lontananza è il disagio del Poeta che da esule cerca di stabilire un contatto con la sua

terra che, in qualche modo, egli ritrova nel paesaggio lombardo. (4)

Tradotta in suoni, in immagini, in odori, con un movimento contrario a quello proustiano, la

Sicilia si fa presenza evanescente. Nell‟ “antico corno dei pastori” il fiato è un debole richiamo e

“il soffio di vento” che si libera dall‟incerta terra è un‟eco subito spenta. Nessuna voce della sua

terra giunge chiara al Poeta perché “pastore d’aria” è il sogno che la custodisce. Nessuna

corrispondenza, dunque, può stabilirsi tra la terra sognata e il Poeta che ne è lontano.(5)

In questa raccolta il tenue motivo della nostalgia ( che non è quella „romantica‟) si lega

inevitabilmente al sogno del ritorno, purtroppo impossibile, senza però quel doloroso senso di

sradicamento che domina in “Acque e terre” e, in parte, in “Oboe sommerso”. Inoltre, il tanto

desiderato ritorno non è sempre e necessariamente un ritrovare il tempo dell‟infanzia. Questa

ricerca, di segno proustiano, è sviluppata ampiamente nelle precedenti raccolte e mai in maniera

isolata, ma sempre in concomitanza o in stretto legame con altri temi.

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Ciò che rende «nuove» le poesie di questa silloge è l‟uso di un linguaggio meno assoluto, meno

cosmico, in cui la parola, al di là delle percezioni, è essa stessa epifanica, essa stessa memoria. E

qui mi pare che l‟ermetismo linguistico ceda a quella parola altamente “percettiva” che tende

quanto più possibile ad aprirsi, ad appercepirsi, a identificarsi col mondo dell‟infanzia del Poeta per

restituirglielo dentro la voce del Canto che rimane, ancora, «sommerso».

Un mondo così “ritrovato” è effimero e non può annunciare nulla di nuovo. Tutto sembra

inghiottire l‟oblio e il Poeta si ritrova a enumerare solo “i mali dei giorni decifrati”, quel tempo

senza gioia e senza mistero, inesorabilmente presente. Tuttavia, egli attende con pazienza che “il

fiore magro” lasci i rami, che cioè il tempo infruttuoso svanisca e sia soppiantato in modo

“irrevocabile” da un tempo migliore.(6) Ma questa attesa è presto vanificata in “GIORNO DOPO

GIORNO”.

Il titolo di questa nuova raccolta già prelude alla fatica del vivere in un mondo in cui il dolore è

“cibo cotidiano” per tutti gli uomini e non soggettivamente vissuto o invocato dal Poeta in un

impeto di espiazione.(7) Finalmente gli uomini, dunque. E in primo piano. Sulla scena di un mondo

reale devastato dalla guerra, la cui tragica esperienza segnò una svolta nella vita e nella poesia di

Salvatore Quasimodo. Il Poeta esce da una visione estatica ed estetica di un mondo ancora dotato di

senso, sia pure nella sua verità imperscrutabile, per entrare fisicamente in un mondo che per la sua

cruda oggettività si sottrae ad ogni mitica rappresentazione.

Ritroviamo, in questa silloge, i temi dominanti del dolore e della morte, ma con un‟altra valenza.

Non più trasfigurati dal sogno o dal mito, essi non hanno più un terreno su cui radicarsi. Le loro

antiche radici sono spezzate. Realtà palpabili, visibili, appartengono a un abisso più profondo

perché ha un volto preciso, riconoscibile, un volto “umano troppo umano”, segnato da una violenza

atavica che “impone” il silenzio dei poeti in un‟epoca, quella contemporanea, su cui pende il tempo

della notte del mondo, che è il tempo della “povertà”: quello “storico” della fuga degli dei, secondo

Hölderlin; quello “antropologico” “della pietra e della fionda”, secondo la visione quasimodiana:

un tempo, quest‟ultimo, non scisso dall‟altro, perché anch‟esso caratterizzato dalla mancanza,

dall‟assenza di Dio. Nella poesia “Alle fronde dei salici” la sofferta decisione dei “nuovi” aedi di

appendere, per voto, le cetre ai piangenti alberi, è l‟amara coscienza di quella “povertà” estrema,

della caduta degli dei e dell‟uomo, unitamente a un grande bisogno di riscatto da quell‟immane

violenza che tanto somiglia a un sacrificale rito d‟immolazione. E in quel lieve oscillare delle cetre

“al triste vento”si coglie l‟attesa profonda del tempo della “ricchezza”. Si noti, inoltre, il climax

ascendente che percorre la poesia dal 2° al 7° verso, con i momenti di maggiore intensità nei tre

enjambement ai versi 4, 5, 6 e, soprattutto, nella sinestesia del 5° verso ( “l’urlo nero”). Questa

tensione tragica che caratterizza le poesie più significative della raccolta (“Uomo del mio tempo”,

“Milano, agosto 1943”) sottende la risoluta protesta del Poeta contro la guerra, contro ogni forma

di violenza. E dunque, la necessità di “ridare” la voce ai poeti, perché ai poeti spetta di compiere la

“svolta”, perché essi sono più vicini all‟ «essere», e il dolore che dimora nel canto può aiutarci a

risalire dall‟abisso, a scambiare il tempo della “povertà” con la ricca stagione dell‟ «essere»,

universale e divino.

In “Giorno dopo giorno”, l‟irruzione dell‟uomo sulla scena del mondo sconvolto dalla guerra,

apre alla comunicazione il linguaggio del nostro Poeta segnando la fine della stagione ermetica,

peraltro già annunciata nelle “Nuove poesie”. La ricerca della parola “pura” che aveva ispirato le

prime raccolte, ora “naufraga” di fronte alla più grande tragedia umana e tuttavia, anche se il Canto

resta «sommerso», anche se quella “parola” è solo un respiro del cosmo, essa parla in segreto nella

grande voce che appartiene al dolore il quale, aprendo la coscienza del mondo, pone quest‟ultimo in

ascolto del Canto, in sua profonda e devota attesa.

Dentro un linguaggio fortemente emotivo, quanto comunicativo, il canto si fa etico, esige di rifare

«l‟uomo», come lo stesso Quasimodo ebbe a sottolineare in un articolo comparso su “La Fiera

letteraria” nel giugno del 1947. Una poesia, dunque, civile, etica, afferma il proprio diritto di

cittadinanza, «hic et nunc», in un luogo reale, in un tempo “esatto” che è il presente senza memoria,

perché il passato è storia contemporanea. Ciò non sfugge al Poeta che leva alto il suo grido di

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denuncia contro la “ferinità” dell‟uomo, la quale stabilisce quell‟unità temporale, senza soluzione di

continuità.

“ Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo.”

In quest‟atmosfera di umana miseria, in cui gli uomini sono degradati a “mostri della terra” senza

pietà e senza “croce”, in tanta desolazione e distruzione (8) il Poeta ha pause di pacata riflessione,

ritrova delicati, lirici momenti là dove familiari percezioni sensoriali sembrano annunciare

timidamente il ritorno alla “normalità” della vita. Difficile, certo, è dimenticare (ricordare, anzi, può

essere un monito per gli uomini-lupi) e il Poeta s‟illude di avere vissuto un sogno (9), ma… “LA

VITA NON È SOGNO”.

La certezza della vita è nel dolore, nel pianto che non ha pausa. Doleo ergo sum è l‟aforisma che

costituisce il nucleo della presente raccolta e, forse, dell‟intero iter poetico di Salvatore Quasimodo.

I temi del dolore, della solitudine, della fugacità del tempo, della morte, condensati ma ben

definiti nella poesia “Ed è subito sera”, ritornano qui, in una meditazione più profonda, nella poesia

“Thànatos Athànatos”. In “Ed è subito sera” la morte è la sola certezza, il punto fermo che in

“Thànatos Athànatos” il Poeta tende a rimuovere cercando di stabilire un dialogo con la divinità. E

qui, a differenza che in quell‟altra lirica, l‟incomunicabilità non è più una condizione che riguarda

esclusivamente il rapporto tra gli uomini, ma coinvolge la divinità stessa. La ricerca di Dio, di

sapore pascaliano, di un Dio nascosto che giustifichi l‟esistenza e che non lasci ancora inevase le

domande dell‟uomo, s‟innesta nel dolore che apre la via alla ricerca. La certezza che “la vita non è

sogno” ha radici nel dolore perché il dolore è “vero” e questa verità può fare da guida all‟uomo, può

“imporre” al “Dio del silenzio” di manifestarsi.

“La vita non è sogno. Vero l’uomo/ e il suo pianto geloso del silenzio/ Dio del silenzio, apri la

solitudine.”

La raccolta si chiude con la delicatissima “Lettera alla madre”. Nel colloquio a distanza con la

madre che vive ancora in Sicilia è il tema dell‟infanzia che ritorna con un carico di memoria che

appartiene alle cose. Il richiamo è proustiano, ma è Joyce presente in quell‟orologio della cucina

che tanto ricorda l‟orologio della Dogana che a un tratto si rivela a Stephen Dedalus per quello che

è: un‟epifania. “L’orologio in cucina che batte sopra il muro” è in Quasimodo, pulsa dentro le sue

vene, nel suo cuore. Esso vive e nel suo battito respira tutta l‟infanzia del Poeta. La morte, allora, la

“gentile morte” non può, non deve toccarlo, non deve guastare quei suoi “fiori dipinti” perché le

cose solo in vita hanno resurrezione. Perché attraverso le cose, il dolore, sostanza della vita, si

traduce in linguaggio. E così trasfigurato, questo “pane cotidiano” si fa canto radioso per la nostra

resurrezione.

“Ah, gentile morte,/ non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro,/ tutta la mia infanzia

è passata sullo smalto/ del suo quadrante, su quei fiori dipinti”

(1) “Isola di Ulisse” vv.1-4, in Salvatore Quasimodo “Tutte le poesie”, Oscar Mondadori, pag.105

(2) “Ride la gazza, nera sugli aranci”. Ivi, pag. 119 (3) “Strada di Agrigentum”, “La dolce collina”. Ivi, pp.120, 121

(4) “Ora che sale il giorno”. Ivi, pag.124

(5) “Che vuoi, pastore d’aria”. Ivi, pag.122 (6) “Già vola il fiore magro”. Ivi, pag.142

(7) “Avidamente allargo la mia mano”. Ivi, pag. 44

(8) “Giorno dopo giorno”. Ivi, pag. 151 (9) “O miei dolci animali”. Ivi, pag. 156

(10) “Thànatos Athànatos”. Ivi, pag. 178

* (pubblicato su “L‟Ottagono Letterario”, ventennale 1983 – 2003)

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“L’infinito” di Leopardi e “La poesia” di Neruda *

“L’infinito” di Leopardi e “La poesia” di Neruda sono testi affini per l‟unicità del tema e per il

modo in cui esso è rappresentato nella sua fenomenologia.

Questo tema è l‟Evento della poesia che subito si annuncia. Essa è la stella che brilla nel titolo

nerudiano e che scintilla, con la sua decisa presenza, nel primo verso (“Fu a quell’età…Venne la

poesia” ). Ed è l‟infinito sospeso sul «colle» solitario e depositario dell‟oceanica luce insieme con

la «siepe». La quale, anche se impedisce alla vista di cogliere l‟estremo orizzonte, tuttavia, proprio

per questo, è cara al poeta: per la sconfinata visione che nel pensiero gli desta.

Il «colle» e la «siepe» sono entrambi l‟occasione e il pre-testo necessari per confrontare la realtà

fisica con l‟idea dell‟assoluto, per dipanare l‟invisibile oltre il visibile, con l‟aiuto della scrittura

poetica. Essi costituiscono, dunque, la scena naturale dove si apre l‟altra scena: quella che Leopardi

immagina e nella quale ha “inizio” e “fine” lo spettacolo dell‟infinito.

“Sempre caro (…) fu quest’ermo colle” al poeta, perché familiare rifugio della sua anima

solitaria, luogo della meditazione e dell‟accoglienza che sempre ha assecondato e realizzato, con

l‟ausilio della «siepe» il suo desiderio “dell‟ultimo orizzonte”. Dunque, l‟Evento portentoso di cui

“L’infinito” ci parla è già accaduto su quel «colle», ma soltanto nel testo, hic et nunc, assume il

carattere di una rivelazione: accade cioè veramente. Il «colle» e la «siepe» sono, rispettivamente,

l‟elevazione e l‟ostacolo necessario all‟ascesa, all‟ascesi. E dunque, si configurano come anima e

corpo nella lotta che vede opposti il sentimento della visione e il senso della vista: lo sconfinamento

possibile e il limite da valicare.

Questa lotta, comune ai due poeti, che accompagna l‟Evento al suo esito finale, è il “sogno” che

addormenta i sensi e che “rischiara” con le sue rêveries il palpitante mistero. Ed è questo mistero

l‟Ereignis (1) che desta la coscienza e la prepara al prodigio consegnandosi ad essa interamente,

come Erlebnis (2) . L‟Evento, allora, è questo «vissuto» che si rinnova e che si distende nel testo, il

quale lo ac-coglie nel suo lento apparire.

Così “L’infinito” e “La poesia” si espongono alla nostra comprensione. E se il «vissuto» si

concede a noi testualmente, allora anche per noi accade l‟Evento. L‟interpretazione, infatti, rende

“manifesta” quella verità poetica che all‟inizio si annuncia nei due testi, ma che subito dopo

impegna nella lotta i due poeti ritraendosi, nella moratoria dei sensi, là dove maggior luce giunge a

rischiararla, a liberarla – al di qua (o al di là) della «siepe», al di qua (o al di là) degli «occhi» e

dell‟assenza della parola: nella finzione del pensiero (“io nel pensier mi fingo”) e nella solitudine

progressiva e intenzionale della coscienza (“e mi andai facendo solo”).

È un medesimo pensiero quello che si costruisce le prime immagini dell‟infinito (“interminati /

spazi”, “sovrumani / silenzi”, “profondissima quiete”) e quello che, chiudendosi in volontaria

solitudine, traduce il fuoco dell‟esaltazione poetica nel lucore del primo verso (“scrissi la prima

linea vaga”).

(1) ted. : evento, avvenimento. Ereignis ha valore di “esperienza vissuta” e, in quanto tale, rimanda al suo analogo Erlebnis, che ha i significati di

esperienza e di evento. Qui, l‟Ereignis è l‟Evento della poesia come epoché e rivelazione. Il termine italiano, più generico, è usato con la maiuscola e

con lo stesso valore semantico dei due termini tedeschi. (2) ted. : esperienza, evento (vedi nota 1)

2

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In questa esperienza creativa, dove la realtà è sospesa, un medesimo sentimento, un “muto”

sentire s‟impadronisce dei due poeti di fronte a una grandezza ineffabile, di fronte a qualcosa di

smisurato che si annuncia, che si manifesta appena, restando mistero incomprensibile, indicibile. È

questa epoché (3) dell‟essere che nel poeta recanatese genera quello sgomento, per la verità inatteso

e in contrasto con quel luogo familiare e rassicurante dove la mente, spaziando, sembra trovare

riposo.

Questo timor panico che Leopardi riesce appena a contenere, a controllare di fronte a una realtà

altra che si apre in una dimensione che scardina e cancella i nessi referenziali e per cui egli si sente

“trasumanare”, equivale allo smarrimento dei sensi e dell‟anima che Neruda avverte di fronte alla

verità che accende in lui la passione e che lo fa angelo senz‟ali votato al difficile volo nel cielo di

quella verità che è l‟infinito, la poesia stessa, verso la quale il poeta cileno, con la “pura sapienza /

di chi non sa nulla” si dis-pone con atteggiamento socratico. Ed ecco che la poesia, fino lì senza

corpo, senza volto, che in assenza della parola fa sentire la sua voce e presenza e che, in un climax

ascendente, cerca il poeta e lo chiama a percorrere i “sentieri interrotti”(4) della sua impenetrabile e

oscura foresta ( i “rami della notte”) fino a toccarlo con inequivocabile realismo, ecco che la

poesia, finalmente sognata dalla parola – unico nesso che può nutrirsi dei suoi bagliori e rifletterli,

sviluppando così la capacità euristica della finzione – si fa “pura sapienza”, immagine pura della

verità come alethéia, come non-nascondimento, o disvelamento, dell‟essere/infinito.

In mancanza della parola rivelatrice, anima del pensiero dell‟assoluto, in Leopardi è il «vento» il

referente che dà «voce» all‟ “infinito silenzio”, il quale è comparato e assimilato a quel soffio vitale,

che scioglie nella sensazione uditiva la tensione emotiva del poeta ridestandolo alla dimensione

temporale dove, tra passato e presente, si rac-coglie e trasmuta la distesa abissale.

Il tempo è la cartina di tornasole che dà al poeta la “misura” esatta dell‟infinito: eternità, spazio

senza tempo e, tuttavia, unico futuro possibile. E il futuro non figura nel testo, non è preso in

considerazione dal poeta, perché esso è la sezione assoluta, l‟a-venire dell‟infinito. Ed è l‟Evento

epocale (5) che pende sull‟abisso, già vissuto e anticipato nell‟esperienza del timor panico, a partire

dalla quale si mette in gioco il destino del poeta (e dell‟uomo), che è poi il destino dell‟ “io” e della

ragione.

Un‟estrema ratio d‟improvviso balena negli ultimi versi e si leva come il canto del cigno. Questa

ragione è l‟ “ultimo orizzonte” della conoscenza, dove s-confina la verità che si annuncia

nell‟immagine-azione, la quale non cela, fin dall‟inizio, l‟intenzionalità della coscienza (“Ma

sedendo e mirando (…) io nel pensier mi fingo”).

Questo pensiero noetico che agisce nella veglia della coscienza trova dentro di sé la propria

determinazione, il potere di decidere del proprio destino: di “sciogliersi” nel «mare» della

Soggettività che è l‟ “oggettivazione” dell‟infinito e di cui l‟ “io” individuale del poeta, il suo “io

narrante” è appagato spettatore. Il “naufragio”, allora, non è uno scendere “nel gorgo muti”. (6) Al

contrario, è l‟immersione nella voce universale del canto, la presa della coscienza come

autorivelazione.

(3) gr.: “sospensione”. Qui, il termine è usato nel senso heideggeriano, riferito all‟essere che si rivela nascondendosi in modo sempre diverso nelle

varie <<epoche>> della storia della metafisica. (4) titolo italiano dell‟opera “Holzwege”, di M. Heidegger.

(5) da epoché.

(6) l‟immagine è tratta da un verso della poesia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, di C. Pavese.

3

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Ed ecco che nel poeta recanatese quel sentimento “muto”, quel timor panico si trasforma in

panismo e così si chiarisce e si placa trovando il proprio superamento nel tymos panico, che è

l‟emozione incontenibile della coscienza di fronte alla propria dimensione cosmica.

L‟immagine del poeta, che “sedendo e mirando” contempla la “profondissima quiete”, ritorna

nell‟ «io» spettatore che placidamente assiste alla propria immersione nell‟infinita distesa del

Pensiero universale. E qui, in Leopardi, come in Neruda, il “naufragio” è l‟approdo alla verità

disvelata, la quale rende l‟ «io» dei due poeti tanto più vigile quanto più esso s‟immerge in quel

«mare», o in quell‟ «abisso», che è il cosmo della coscienza.

L‟universo che «d‟improvviso» si spalanca allo sguardo del poeta cileno e che, a fronte del suo

spazio infinito e misterioso, fa di lui un “essere minimo”, un «io» individuale e s-perduto nel

“grande vuoto/costellato” è la stessa scena immaginata dal Recanatese e allo stesso modo vissuta

nel grande “teatro” del mondo interiore. Comune ai due poeti è quell‟ “io narrante”, quello stato

vigile della coscienza che si fa canto e respiro del cosmo, che li fa partecipi e ben disposti al

«naufragio» (“mi sentii parte pura/dell’abisso”; “e il naufragar m’è dolce in questo mare”).

La visione dell‟universo, o dell‟infinito è, infatti, uno spettacolo godibile che fa «ebbro» Neruda

e rende «dolce» a Leopardi l‟immersione. E questa contemplazione è l‟Ereignis “vissuto” e

annunciato che accade nella verità del canto. È il futuro. L‟in-finito, inalveato, che tracima dentro il

confine dell‟interiorità. Qui si placa, nei due poeti, la febbre della passione e della ricerca. Qui la

spannung si scioglie, definitivamente, nel sentimento aletimico. (7) Così l‟ „io narrante‟, che è

insieme autore, attore e spettatore, si fa sguardo „onnisciente‟ che di sé fa colmo l‟«abisso», che è

poesia e infinito: volto autentico dell‟ «io» nel grande «mare» dell‟Atman.

Di questa Anima del mondo, qui espressa, per dettato d‟interpretazione, nella voce della filosofia

indiana, c‟è più di un‟eco nel testo di Neruda, dove è palese la ricerca dell‟identità spirituale, il

cammino di un‟anima verso la luce della rivelazione. Aleggia nei suoi versi lo spirito di Siddharta,

ben visibile nella brama di verità e di assoluto che solleva il poeta alla scrittura di quella “prima

linea vaga” che è già uni-verso: fusione di “poesia” e cosmo, immensità stellare che d‟improvviso

si svela e nella quale l‟ «io» del poeta, gioiosamente, si abbandona e si dissolve (“rotolai con le

stelle, / si sciolse il mio cuore nel vento”).

Questo panismo è esperienza identica a quella di Leopardi. Nei due poeti, profonda è la

somiglianza degli ultimi versi che esprimono, con voce analoga, la felice immersione nella totalità

dell‟Infinito che in sé com-prende e unisce Poesia Cosmo Coscienza. Ritroviamo nell‟ultimo verso

di Neruda quel «vento» che in Leopardi è il soffio rigeneratore che dà voce e dimensione

“temporale” all‟ “infinito silenzio”; che scioglie la paurosa immagine della “profondissima quiete”

nella calma distesa del pensiero riflettente e cosciente della propria universalità. In Neruda il

«vento» è l‟analogo del «mare». È l‟aeriforme distesa spirituale, il respiro della poesia che nel

lucore della “prima linea vaga” è già parola ritrovata, appena pronunciata: l‟Om (8) impercettibile,

che dall‟ “infinito silenzio” sorge e cor-risponde al cuore del poeta, il quale, nella luce dell‟aurorale

Parola, si affida, interamente, alla grande Anima del mondo.

(7) da alethéia (verità) + tymos (emozione): il neologismo è mio e definisce la grande emozione di fronte alla verità che si disvela.

(8) sillaba mistica nelle religioni induista e buddista: simbolo della coscienza del Tutto e dell‟assoluto.

4

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Questo Ereignis misterioso e abissale, che nel canto si concede ai due poeti con modalità identica,

è voce remota dell‟essere che nei due testi si annuncia, fin dal primo verso, in quel «fu» che è

“esperienza vissuta” e raccontata con scansione temporale diversa.

In Leopardi l‟infinito è uno stato felice della coscienza infelice. C‟è infatti nel testo un

“ottimismo” così grande, a fronte del proverbiale ed esasperato pessimismo del poeta, che non può

scadere tout court nel pensiero del «nulla». Ciò perché l‟infinito nientifica il «nulla» che, se come

principio, ha tutte le aperture dell‟ andata, come fine, tutte le azzera nel ritorno. Diversamente,

l‟infinito è l‟Aperto che non conosce il “buco nero” del «nulla». A meno che il poeta non abbia

concepito un «nulla» “religioso” e così perfetto da custodire dentro di sé l‟in-finito e, così, anche la

sua “finitezza”. Ma questo «nulla» non è già l‟ invisibile spazio che confina e che tiene le vie

“segrete” dell‟interiorità? Non è forse esperienza del “perfetto” «nulla» l‟infinito che ac-cade e si

alloga nel chiuso della coscienza, nella “finzione” del pensiero? Molto, allora, ha di umano quel

“religioso” «nulla», già pensiero dell‟infinito o dell‟essere, che supera il divino per quel grado “in

più” di perfezione che il finito, nella sua unione con l‟infinito, gli conferisce.

Nel testo leopardiano, l‟epifania generata dal «colle» e dalla «siepe» è quel “di più” di

perfezione che consente alla vista di varcare il (proprio) limite e s-confinare nella visione, dietro le

“quinte” dell‟occhio.

Nel “teatro” dell‟interiorità, dove l‟ „io narrante‟ si fa spettatore, si apre la scena dell‟in-finito

che si rap-presenta alla coscienza come dato “visibile” e finito. Così, “in questa immensità”

r-accolta, lo spazio e il tempo sono aboliti e trasformati (per) in-canto, nella calma “liquida”

presenza della Coscienza o spirito assoluto, dove scivola dolcemente e si dissolve, con l‟ultima

veglia dell‟ “io”, il “cigno” della ragione.

È questa un‟esperienza remota e rinnovata che, perciò, fa “sempre caro” il ricordo dei luoghi

della scena reale: il «colle» e la «siepe». Si tratta, dunque, di un Evento ricorrente, di un pensiero

unico, fisso, come stella nel cielo dell‟infinito, di un tempo che dura e che vanifica, nel rapido

passaggio dal passato al presente, ogni memoria nostalgica o, semplicemente, il pensiero

rammemorante.

In Neruda, la poesia è un ricordo netto, ben definito nel tempo, nonostante l‟apparente vaghezza

(“fu a quell’età”). Essa è l‟incontro improvviso e inatteso che segna e “sconvolge” e che, tuttavia,

esalta l‟età felice e sprovveduta della giovinezza. È l‟Evento che traccia il cammino: “destinatore” e

custode del mondo segreto e inesplorato del poeta, il quale, d‟improvviso, è chiamato a seguire la

propria vocazione, a cor-rispondere alla poesia, a farsi eco della sua voce e sua cassa di risonanza.

Ad essere, lui, fuori di ogni dubbio, il suo „eletto‟ (“Venne la poesia / a cercarmi”).

L‟incipit è subito voce annunciante: l‟impromptu dell‟anima, sorpresa dalla palpabile ma

invisibile presenza della poesia che si annuncia, tuttavia, come mistero. È il ricordo im-preciso,

sospeso nell‟atto del nominare (“Fu a quell’età… Venne la poesia”) ed è la visitazione che si coglie

nella personificazione (“a cercarmi”) che la cesura e l‟enjambement rendono figura folgorante, la

quale suscita la “visione” sacra dell‟Angelo dell‟Annunciazione.

Sacralità e mistero percorrono tutti i versi che compongono questo testo della memoria che è

puro Andenken, (9) il quale lascia di nuovo accadere l‟Ereignis, o Erlebnis, che si ri-presenta attuale

e in perfetta identità col Ricordo stesso.

(9) ted.: Ricordo, memoria (pensiero rammemorante).

5

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Qui, in questo pensiero rammemorante e al tempo stesso attuale, il sacro è il mistero già

“svelato”. È la luce abissale che nell‟annuncio dell‟angelo visitatore fa pellegrino il poeta, errante

nella parola, la cui assenza gli ostacola il volo (“ali perdute”) nel cielo della poesia. E questa

parola mancante, (che) (s)profonda nel silenzio, è la «siepe» da oltrepassare, è lo stesso silenzio

abissale, in cui chiama la voce dell‟angelo e che, ad un tratto, libera la parola nel dono del verso.

E questa parola, fin lì senza spessore e senza sguardo, si fa nuova all‟ascolto e sale in vetta

all‟abisso. Qui, per lei, si spalanca la vista. Qui, l‟angelo della poesia, donatore di grazia, si

mostra… e svela, come in uno specchio, l‟ <<universo>>. E il poeta, che ora vede il «mistero»

faccia a faccia, «rotola», simile a corpo celeste, in quell‟ «abisso» dentro la sua coscienza.

La poesia che visitando viene a questa „eletta‟ dimora, all‟interno della quale realizza la

comunione col mondo e con la sua anima assoluta, è l‟aleph che racchiude in sé l‟in-finito; è il

microcosmo che riflette il firmamento: il “grande vuoto / costellato” che è insieme Poesia Cosmo

Coscienza, di cui trabocca e si sente «parte» quell‟ “io” individuale (“essere minimo”), puro, pieno

di grazia (“Ed io, essere minimo, / ebbro del grande vuoto/ costellato (…) mi sentii parte pura/

dell’abisso”).

Questa esperienza del sacro, come fusione di finito e infinito, è identica in Leopardi. In entrambi

i poeti, lo spazio sconfinato è, “paradossalmente”, un‟ enclave dentro il confine più ristretto della

coscienza individuale, dove l‟infinito, allogandosi, trova la propria “finitezza” come essere in-

finito (finito dentro). In questa realtà poetica i due spazi ( infinito e coscienza) coincidono

s-confinando e identificandosi col più vasto Pensiero noetico o noosfera. (10)

In Leopardi, a differenza che in Neruda, il „sacro‟ Evento è frutto dell‟intenzionalità della

coscienza, assecondata e sollecitata dalla «siepe». La ricerca dell‟infinito non è mediata

dall‟intervento dell‟angelo della poesia. Non c‟è visitazione nel testo, e anche se ogni opera è una

visita ricevuta, lì, semplicemente, non è dichiarata né raccontata.

Ciò che Leopardi racconta è un‟esperienza che si rinnova: un richiamo del cuore più che della

memoria, un ri-cordo, “privo” di memoria e, quindi, un tempo presente, confermato dalla

reiterazione dell‟Evento, nel quale il passato è vanificato. In Neruda, invece, l‟Erlebnis è una vera

rimembranza: l‟ “esperienza vissuta” una sola volta e che si fa “racconto”, memoria poetica che si

distende nel “favoloso” passato e lo custodisce (“Fu a quell’età”).

Ma è il silenzio il vero custode di questo tempo della memoria e della durata. Esso domina sui

testi, su tutti i versi, e parla con la voce aurorale del canto. E ciò che alla fine resta di questa voce è

ancora, e sopra ogni cosa, Silenzio: “L’infinito” della Poesia, “La poesia” dell‟Infinito.

(10) in Teilhard de Chardin: “cervello planetario”, mente in cui tutti i pensieri individuali sono immersi.

* (pubblicato sui “Quaderni di Arenaria”, uno - nuova serie, a cura di Lucio Zinna, gennaio 2007 e sulla rivista

“della Soaltà” pS 4, giugno 2006)

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LA POESIA

Fu a quell‟età… Venne la poesia

a cercarmi. Non so, non so da dove

uscì, dall‟inverno o dal fiume.

Non so come né quando,

no, non eran voci, non eran

parole, né silenzio,

ma da una strada mi chiamava,

dai rami della notte,

d‟improvviso tra gli altri,

tra fuochi violenti

o ritornando solo,

era lì senza volto

e mi toccava.

Io non sapevo che dire,

la mia bocca

non sapeva

nominare,

i miei occhi erano ciechi,

qualcosa batteva nella mia anima,

febbre o ali perdute,

e mi andai facendo solo,

decifrando quella scottatura,

scrissi la prima linea vaga,

vaga, senza corpo, pura

sciocchezza,

pura sapienza

di chi non sa nulla,

e vidi d‟improvviso

il cielo

sgranato

e aperto,

pianeti,

piantagioni palpitanti,

l‟ombra perforata

crivellata

da frecce, fuoco e fiori,

la notte travolgente, l‟universo.

Ed io, essere minimo

ebbro del grande vuoto

costellato,

a somiglianza, a immagine

del mistero,

mi sentii parte pura

dell‟abisso,

rotolai con le stelle,

si sciolse il mio cuore nel vento. (Pablo Neruda)

* * *

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Passio Pòiesis

Ogni opera è una visita ricevuta. L‟ospite è il poeta, il quale accoglie, con

meraviglia, l‟inaspettato visitatore. Poi la sorpresa si cangia in attesa e sulla soglia,

puntuale, arriva l‟angelo. La Poesia è l‟ospite alato che fa del poeta un eletto che essa

accoglie, a sua volta, nella propria dimora. Ed ecco!…Negli umbratili occhi del poeta

si accende la luce del mistero che fa di lui un fedele viandante.

La Poesia lo chiama al Golgota della scrittura, attraverso la quale si rinnova il

sacrificio. Egli è il sacer-dote che in sé custo-disce il dono della creazione, che lo fa

pastore e maestro, vocato a ripercorrere nella passione dell‟opera la via della croce.

Amore e angoscia è la passione che segna il cammino di questo s-offerente messia,

che nel nome della Bellezza promette l‟impossibile canto per il mondo. Inascoltata

resta la voce del poeta che non porta mai a compimento la sacra opera. Emulo del

Cristo, egli è l‟unto della Poesia, la quale si esprime nella molteplicità e nella

diversità degli spiriti particolari attraverso quel figlio ideale che è figura del

Salvatore. Così la Poesia s‟incarna in molti eletti. Ed è lo Spirito che dà voce ai

nuovi apostoli, i quali parlano da poeti.

Una è la Poesia. Uno è il Poeta. Una è l‟Opera. Insieme formano l‟Unità perfetta

che trascende la mondana e imperfetta “trinità” della poesia, del poeta e dell‟ opera.

In questa mondanità, dov‟è scissa e trasfigurata, l‟Unità trova la sua espressione

in quelle figure della creazione particolari e moltiplicate all‟infinito. Con questa

frammentazione, in cui la Poesia si fa pòiesis (arte), il Poeta poietès (artista), l‟Opera

poièin (produzione artistica) ha inizio il calvarte:

la passio pòiesis verso l‟Unità

perduta. Il poeta è il cireneo che con-divide la croce. Egli è la figura e la

prefigurazione del Cristo, il quale è da lui sostituito avanti e dopo la propria venuta.

Perché, da sempre, inconsapevoli epigoni sono i poeti: e del Dio sconosciuto, ancora

non manifesto, e del Maestro, ovvero del Dio rivelato. Appellativo, o secondo

“nome” dell‟uomo che la Poesia elegge, il poeta unisce in sé, più del semplice

individuo, le due nature del Cristo. Per questo i poeti hanno una voce in più per la

salvezza del mondo. Tuttavia, la loro voce parla un messaggio d‟amore rivolto

esclusivamente alla Poesia anche quando è la vita, nei suoi molteplici aspetti e nelle

sue varie forme, l‟oggetto privilegiato del canto. Alla Bellezza è affidata la salvezza

del mondo. Ma i poeti eletti che giungono a contemplarla non adempiono alla loro

missione perché la Bellezza si esaurisce in gloria e in letteratura restando così lettera

morta, opera incompiuta. Inoltre, a differenza del Cristo, il cui messaggio d‟amore e

di redenzione è per tutti gli uomini ed è per sempre consegnato alla verità della storia,

sacer + fictio: fare qualcosa di sacro, opera sacra.

calvario + arte: neologismo dell’autore.

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il poeta, affidando quel messaggio alla Bellezza, lo rende elitario ed epocale,

perché quella visione sublime nella quale si dis-vela la presenza divina, si concede

solo a chi sa contemplarla e in modo sempre sfuggente.

L‟amore che lega il poeta alla Poesia non è un rapporto di fede religiosa. Per

questo esistono poeti “maledetti” e miscredenti, e tuttavia grandi. La Bellezza non

distingue tra i suoi eletti e benché li governi, lascia loro libero arbitrio e libertà di

espressione. Come la Natura non cessa di essere bella quando mostra il suo aspetto

terrifico, così la Bellezza non muta se sceglie cattivi poeti a rappresentarla. Integro

rimane l‟amore per la Poesia anche se questa difetta in espressione. Il suo spirito

aleggia nelle grandi, come nelle piccole e insignificanti opere. Ma vuoto resta il suo

sepolcro. (Anche se divina è l‟opera e sommo il suo poeta).

“Tutto è compiuto” nell‟atto solenne della Crocifissione. Tutto è da compiere

nel sacrificio della scrittura. La parola del poeta, questa parola – figlia del figlio

“incarnato” della Poesia – quando giunge col suo poeta al calvario dopo il lungo,

faticoso cammino dei segni, rimane crocifissa nell‟opera, “muore” senza

resurrezione. E quando muore il poeta, la Poesia gli sopravvive e l‟opera così resta

per sempre incompiuta. Non c‟è salvezza senza ritorno. E se pure il poeta “vive”

nell‟opera, se gli è concesso più di un respiro nelle interpretazioni, egli, tuttavia, non

si ricongiunge con la Poesia perché questa è l’altrove, e l‟opera, benché ne canti

l‟amore, è solo il suo solenne e sempre rinnovato cenotafio.

(pubblicato sulla rivista “della Soaltà”, pS 2, giugno 2005)

da epoché: gr.: “sospensione dell’assenso”. Qui il termine è usato nel significato che Heidegger attribuisce all’essere , in

riferimento, cioè, al suo differire la propria manifestazione rivelandosi (e, insieme, nascondendosi) nell’ente, in modo sempre diverso nelle varie <<epoche>> della storia della metafisica. La Bellezza, ovvero la Poesia, qui è assimilata all’essere.

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In principio fu la fiaba

La parola bambina

“In media” non sta più la “virtus” ma il “virtu-ale”. In questo “gioco linguistico”, in cui

“media” assume anche l‟accezione di “mezzi di comunicazione di massa”, il virtuale rappresenta il

“borderline”: la linea di confine tra il reale e l‟ “irreale”, dove la mente sconfina e si perde.

È possibile che le radici di questo smarrimento abbiano come terreno fertile l‟infanzia: ”luogo” ,

freudianamente, originario dei conflitti e delle lacerazioni che segnano l‟intera esistenza

dell‟individuo. È possibile che le delusioni e le angosce non adeguatamente contenute, durante

l‟infanzia, da una madre poco disponibile e poco responsiva nei confronti del bambino, possano

trovare una via di sublimazione in quei modelli illusivi telematici diffusi,a livello di massa, dalle

tecnologie audio-visive ed elettroniche che, sempre più sofisticate e tentacolari, sembrano costellare

la “modernità”, ovvero, il postmoderno.

Oggi, le nuove tecnologie sostituiscono e soppiantano sempre più la fantasia. La macchina

sempre più “perfetta”, sempre più “umanizzata”, è la nuova “mente” in grado di elaborare giochi

virtuali senza identità, senza volto e con delle regole che non lasciano spazio alla libera

immaginazione.

Al tempo del gioco e della culla, in cui il bambino è il grande “conversatore”, il “dadaista” ante

litteram, ed è il sognatore per eccellenza: - attore e spettatore dei propri sogni, abile mago e creatore

di un mondo “a sua immagine e somiglianza”, nonché navigatore ed esploratore, con tutti i sensi,

della realtà a lui prossima e contigua – si va sostituendo sempre più il tempo dei video-games e

delle “chat”, della navigazione “on-line”.

Il nuovo “dadaismo” è lo sproloquio della TV, la “babele” dei network e delle “chat” dove il

gustoso esercizio della parola “in fasce” è un soliloquio remoto, l‟espressività perduta e sepolta nei

siti della chiacchiera delirante che equivale a un nuovo “balbettio” che sconfina in “mutismo”,

nell‟alessitimia1 tecnologica. Il rischio di una patologia da “gioco” è il paradosso di questo tempo

separato dall‟infanzia, dalla parola “bambina”, dalla “culla” : civiltà di questa parola, insieme con la

quale crescono i sentimenti e le emozioni.

In un mondo globalizzato, il rischio di un‟epidemia da gioco elettronico, di “dadaismo”

televisivo e virtuale, il rischio di una “videmia”2 è, purtroppo, concreto, specie per i soggetti più

giovani e, in generale, per la “digit generation”, nata e cresciuta senza gli anticorpi di una cultura

legata alla tradizione e a ben altri valori.

Chi, infatti, può dirsi protetto, immune dalla “peste” del virtuale, in una società nella quale

l‟industria del divertimento, con la sua fabbrica delle illusioni, lascia sempre meno spazio alla

creatività?

Di fronte alla proliferazione incontenibile delle immagini, in cui le cose si smaterializzano, i

nostri sogni o fantasie, che nelle cose trovano appiglio e “consistenza”, si dissolvono a loro volta, e

la loro perdita è il lutto che non riusciamo più ad elaborare. Lo sguardo “bambino”, il “sogno” del

grande “contemplatore” sarà l‟abisso incolmabile, l‟oblio profondo per le generazioni a venire. E il

desiderio delle cose smarrite e dissolte nelle immagini, insieme con i sogni infantili, crescerà perché

il corpo si protenderà a cercare un nuovo contatto, una nuova “materialità”.

La macchina, il computer, sarà sempre più la sua protesi hi-tech che realizzerà la nuova

“conoscenza” di tipo “copulativo”, la quale porterà il soggetto all‟ erotismo tecnologico, ad “unirsi”

con l‟attraente metallo. Questo matrimonio fra la carne e la macchina, fra il corpo e la rete

telematica porterà l‟ “io” a naufragare, con tutti i sensi, nel mare della virtualità che è il mare delle

ombre, vuote e senza oggetto, scambiate per vite reali.

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Icaro è qui. Fuori dal mito, ripete il suo volo con le «ali» meccaniche della «virtù», senza cielo e

senza coscienza, nel vuoto del cyberspazio. L‟uomo torna nella “caverna”, sostituita dalla “rete”,

dove egli è di nuovo ingannato, illuso, imprigionato.

Quando la realtà sarà satura di ombre e i volti saranno dissipati, quando il virtuale sarà la nuova

realtà, sarà in grado il cyborg, l‟ “homo technologicus”, di guardare la propria ombra e

attraversarla? Ci sarà ancora, in qualche punto remoto della “caverna”, uno sguardo bambino in

grado di vedere il “re nudo” e di lasciare, perciò, brillare il volto dietro la maschera svelando così

l‟inganno ai “prigionieri” ? E in questo auspicabile “dejà vu” sarà possibile il ritorno al passato, alla

“virtù” del reale?

Basterà questo andenken, questo pensiero rammemorante, per uscire dal “cavernoso” rifugio,

per liberare la scena dalle illusioni della rete e riconciliarsi con la vita e col mondo in modo

risolutivo, senza miti, mode omologanti e senza moratorie? Ritroverà l‟uomo-cyborg il tempo del

gioco e della parola “bambina”: antidoti naturali contro i video-games e gli artifici di un linguaggio

informatizzato, reificato?

Solo chi impara a non distogliere lo sguardo dalla “culla” sarà in grado, ad ogni passo, di

stupirsi, di ritrovarsi, in ogni tempo, con le sue emozioni e con i suoi sogni, quelli veri, che

aderiscono alle cose, come alle parole.

Non ci sarà moratoria per il giovane “dio” che incontra il Fanciullo. La sua vita non conoscerà

vie di fuga, perché sempre gli sarà resa nella sua intera pienezza. Perché «la vita di ciascuno può

essere ricostruita in base al numero di volte in cui ci siamo sorpresi o stupiti»3.

1 Dal greco a (mancanza) lexis (parola) thymos (emozione): difficoltà ad esprimere i propri sentimenti, le proprie emozioni.

2 Epidemia da video, peste delle immagini (neologismo dell‟autore del presente saggio). 3 Duccio Demetrio, Iter, Scuola, cultura, Società, settembre – dicembre 1998, Treccani.

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Il grande miscuglio

I bambini non sono più quelli di una volta. Ai bambini di oggi, figli della civiltà delle immagini,

cresciuti nel «villaggio globale», non appartiene più il tempo della fantasia e delle fiabe. Allo

stupore dell‟orecchio incantato dalla voce sicura e narrante presso il focolare domestico, si è

sostituito lo stupore dell‟occhio incatenato alla “malefica” rete di Internet, in siti poco sicuri e senza

dimora.

Altre fate, altri orchi popolano questo mondo labirintico e tentacolare. Altri boschi invitano ad

infrangere regole e divieti e ad arrischiarsi in pericolose avventure. Sono i media le nuove “fate” e i

nuovi “destinatori”. Essi sono i mezzi cui si affidano soprattutto i bambini e i giovani adulti e dai

quali dipende il loro destino di “eroi” vulnerabili.

Capovolgendo i termini della questione, non si è lontani dal vero se, contro il luo- go comune

della “TV specchio dei tempi”, si afferma esattamente il contrario: cioè che la società attuale è lo

specchio della TV e, in quanto tale, è “l‟effetto speciale” per eccellenza.

Se «la fiaba ha qualche legame con il mondo dei culti, con la religione»4, con gli usi e i riti di

iniziazione praticati presso i popoli primitivi, oggi la realtà virtuale è legata al culto delle immagini,

alla “religione” del «villaggio globale», rappresentativo delle nuove forze che “governano” la nostra

quotidianità e che attraggono e conquistano la mente dei giovani mostrando un qualche potere

sovrumano.

Queste forze, queste “divinità” un tempo catodiche, oggi digitali, mettono alla prova i nostri

“eroi” in carne ed ossa ingannandoli con le loro false virtù. Non si tratta delle prove difficili delle

fiabe, ma, per lo più, di mode e modelli da imitare, ma con i quali non tutti possono competere. C‟è,

tuttavia, una prova che è la più temibile e ricorsiva, ed è la crisi di astinenza che la dice lunga

sull‟azione dopante dei media.

Sembrano dunque lontani i tempi, in cui ai bambini si somministravano insieme fiabe e cibo per

distoglierli dai capricci e allontanarne i digiuni, o si raccontavano storie fantastiche per “sedare” le

innocue paure dell‟infanzia o semplicemente per cullare i loro sogni, per soddisfare la loro fame di

fantasia, per destare il loro stupore nutrendoli di emozioni. Oggi la “droga” virtuale sostituisce la

passione per la fiaba e dà l‟illusione di vincere i disagi e la noia, di riempire il vuoto della solitudine

e dell‟abbandono, della troppa abbondanza o del troppo consumismo.

Nelle fiabe, la partenza dell‟eroe era un cammino avventuroso che si concludeva felicemente,

spesso con le nozze. Oggi, invece, la sua partenza è la logazione, è la stretta del mouse nella tana

della mano. L‟ ”eroe” della nuova “fiaba” sconfina e si perde nelle maglie della labirintica “rete”

che lo incanta e lo conduce nel mare delle “mille e una illusione”, verso un cammino che non è mai

concluso e che si protrae nel tempo della dipendenza dove le “nozze” con la “rete” sono la “cattura”

inevitabile di questo “eroe” senza “eros”, ovvero, dalla “sessualità neutra”.5

In questa “fiaba” tecnologica sono trasportati e introdotti i bambini, da quando al libro e al

focolare sono stati sostituiti lo schermo ed il sito; da quando ai giochi e al mondo incantato delle

fiabe si sono sostituiti i video-games, i giocattoli mutanti, l‟infoverso: l‟universo informatico che

trasforma l‟infanzia in un mondo a rischio dove, insieme con le sane regole della famiglia e della

società, vanno cambiando gli usi, i costumi, le tradizioni; dove proliferano, sotto mentite spoglie,

altre fate, altri orchi, altri eroi. In questo camuffamento generale, il mondo virtuale “smaschera” il

mondo reale evidenziandone e duplicandone, al tempo stesso, i vizi, le devianze, le aberrazioni e,

miscelando immaginazione e intelligenza artificiale, asseconda e realizza il desiderio di onniscienza

dei suoi giovani “eroi”. E così, con il loro delirio di onnipotenza, questi “indomiti” entrano nella

nuova “fiaba” per uscirne sconfitti nella realtà.

La dissipazione dell‟infanzia, al di là delle cause indagate e individuate dalle scienze umane,

oggi è il frutto dei “riti” di iniziazione telematica; e il peggio è che questi “riti”, ormai

istituzionalizzati, si avviano ad essere diffusi e praticati nella scuola.

Si è lontani, dunque, dalle pratiche primitive, dai riti magici ispiratori delle fiabe, i quali

educavano al coraggio e all‟indipendenza fortificando il corpo e lo spirito dei fanciulli con una serie

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di prove difficili. L‟iniziazione supertecnologica maschera le debolezze e genera dipendenza,

perché le “prove” cui sono sottoposti oggi i ragazzi mancano di esperienza di vita, di sana

competizione e promuovono, invece, il confronto tra corpo e macchina, tra mente e intelligenza

artificiale, fino a spingere a forme di feticismo, a correre il rischio di una strana e pericolosa

“metamorfosi”: quella che il filosofo Mario Perniola contrappone alla mitologia classica e

<<considera all‟altezza dei tempi: il diventare cosa. Una trasformazione che impone di abolire la

distanza che separa l‟uomo dalla cosa, accettando di fondersi, di fare all‟amore con le cose>>.6

Esempio di questo “matrimonio”, di questa ibridazione fra carne e macchina è la figura del

cyborg: il nuovo “eroe” della “fiaba” mediatica che non ha bisogno di aiutanti, di mezzi magici,

perché fornito di “effetti speciali” che gli assicurano il successo e lo innalzano all‟Olimpo degli dei

tecnologici. La tecnologia si avvia così a diventare la nuova mitologia. Essa genera i nuovi “eroi”, i

nuovi “dei”, non più antro- pomorfi, ma postantropi,7 cioè post-umani o, per usare l‟efficace

espressione di Alexander Chislenko, infomorfi: ibridi, <<entità che non sarà più possibile

distinguere in base alle origini, artificiali o naturali>>.8

La tecnologia con i suoi “effetti speciali” crea dei modelli che superano la realtà al punto di

“falsificarla”, di farne cioè un “prodotto” inferiore, non autentico. E quei modelli ben fatti e

attraenti sono la “misura” da raggiungere e da indossare. Essi veicolano il futuro nel tempo del

postmoderno, dove la moda non è il costume del momento o di ritorno, ma il corpo che, facendosi

maquillage, tatuaggio, “ingegneria genetica”, veste l‟uomo, il quale tende così a con-fondersi con la

cosa, a reificarsi.

Dopo Nietzsche si attendeva l‟uomo nuovo, l‟Übermensch, generato dalla “morte di Dio”,

amante della vita fino a volere lo sradicamento del tempo nell‟ eterno ritorno. Ora che la “morte di

Dio” è stata proclamata, ora che al Dio degli uomini si è ostituito il grande feticcio della tecnica,

bisogna aspettare e rassegnarsi alla venuta del cyborg amante della morte, “feto” del Feticcio,

generato dal «sex appeal dell‟ inorganico»?9

In Walter Benjamin, « la moda presenta il rituale secondo cui va adorato il feticcio della merce

(…) Essa è in conflitto con l‟organico; accoppia il corpo vivente al mondo inorganico (…). Il

feticcio, che è alla base del “sex appeal dell‟inorganico” è la sua forza vitale. Il culto della merce lo

mette al proprio servizio».10

Se il grande miscuglio di organico e inorganico attrae i bambini e i giovani adulti, se il

consumismo tecnologico soddisfa la pretesa di “giochi” e “giocattoli” che superino in modo

esagerato e sproporzionato la fantasia e le reali esigenze di puro svago e divertimento dei bambini,

allora si è davvero lontani dal mondo dell‟infanzia, dove i giochi erano spesso frutto della fantasia e

dell‟immaginazione; dove i giocattoli facevano da supporto e da stimolo alla capacità di inventarli e

di costruirli anche manualmente.

Affinché si preservi il mondo dell‟infanzia e l‟uomo non si disperda nel bambino “allevato”

dalla “rete”, è necessario procedere a una “nuova” umanizzazione dell‟ uomo. Bisogna tornare al

mito e alla favola, dove gli dei e gli animali antropomorfi rivelano una natura umana che la “favola”

virtuale oggi tende a dissipare nell‟ultima metamorfosi dell‟uomo, “eroe” forgiato a immagine e

somiglianza di un dio minore, chiuso nella sua torre di metallo dove l‟umana natura è mortificata e

dimenticata.

Se «Terminator è una macchina che indossa un corpo umano»11, l‟uomo assomiglia sempre più

a una macchina che finirà per annientarlo. Quando il confine tra macchina e uomo diverrà

impercettibile, il processo di autodistruzione avviato dalla tecnica avrà il suo innaturale

compimento.

Allora, sarà quell‟ “angelo S-terminator”, figlio dell‟uomo e del grande Totem tecnologico, a

segnare, con indelebile marchio, l‟umana natura.

Se, dunque, la fiaba cede la virtù dei suoi eroi agli “eroi” del virtuale; se la realtà si perde nella

peggiore fantascienza, allora c‟è una ragione e una morale da recuperare al più presto e da opporre

al dilagante disconoscimento delle esigenze e del valore della natura umana. C‟è una difficile

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scommessa da vincere in nome del sentimento, delle emozioni, dell‟intelletto. Una scommessa tutta

da giocare in casa, in famiglia, presso il focolare domestico dove, in principio, fu la fiaba.

Contro lo strapotere della TV, del computer, del virtuale, famiglia, scuola e società devono

riconquistare il potere e la virtù di “istruire”; devono fare in modo che il processo educativo diventi

il loro programma a reti unificate, il grande software della comunicazione, opponendosi fortemente

alla dispersione dell‟ “io” nelle molteplici forme dell‟apparire e ad un “sapere” globalizzato,

omologato, che è “alfabetizzazione tecnologica”, colonizzazione dell‟ “io” ad opera, soprattutto, di

Internet e della sua ragnatela multimediale. Oggi il problema non è più di lottare contro

l‟analfabetismo strumentale, ma di esercitare un controllo sull‟alfabetizzazione informatica

contrapponendole, affinché essa non dilaghi irreparabilmente, l‟universale alfabeto dello spirito o

dell‟interiorità.

«In fondo non si tratta tanto di insegnare all‟adulto una determinata arte, una determinata

scienza, ma di istruirlo in una disciplina più vasta, in cui stoltamente noi lo supponiamo già erudito:

la vita stessa»12.

4 V. Propp, (1977). Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma, pag.22

5 La definizione è di Donna Haraway, in Manifesto cyborg, Feltrinelli Milano, 1995. Concerne “Il rapporto fra essere umani e tecnica (…)

rapporto erotico di apertura nei confronti del mondo che supera la relazione sessuale fra generi”. 6 C. Formenti, (2002), Incantati dalla rete, Raffaello Cortina ed. Milano, pag.122

7 Neologismo dell‟autore

8 C. Formenti, op. cit. pag. 93 9 M. Perniola, (1994), Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi Torino. Lo stesso concetto è già in W. Benjamin, (1986), Angelus Novus,

Einaudi, Torino, pag. 146 10 W. Benjamin, op. cit. pag. 146

11 C. Formenti, op. cit. pag 128

12 A. Lorenzetto, (1963), Alfabeto e analfabetismo, Armando, Roma, pag. 133.

(pubblicato su “della Soaltà” pS 3)

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MEDIA-MENTE

«In media» non sta più la «virtus», ma il «virtu-ale».

In questo “gioco linguistico”, in cui «media» assume anche l‟accezione di “mezzi di comunicazione

di massa”, il «virtuale» è il “border-line” in cui la mente sconfina e si perde.

Ė possibile che le radici di questo smarrimento abbiano come terreno fertile l‟infanzia, se è

vero che essa è, freudianamente, il luogo originario dei conflitti e delle lacerazioni che segnano

l‟intera esistenza dell‟individuo. Ad essa perciò si ritorna, ogni volta che si vogliono indagare le

cause di una nevrosi. Tra le cause ci sono, inevitabilmente, i rapporti parentali, in primo luogo

quello con la madre. Il “risarcimento” del dolore inferto dalla precarietà e dall‟inadeguatezza del

rapporto materno segue vie diverse. Tuttavia, il percorso di “liberazione” o di sublimazione del

trauma infantile non è mai lineare e vi si alternano momenti di “serenità” e di crisi. La via più

battuta oggi è quella della “modernità” (ovvero, del postmoderno) costellata dei modelli illusivi

telematici diffusi, a livello di massa, dalle tecnologie audiovisive ed elettroniche sempre più

sofisticate e tentacolari. Queste modificano profondamente l‟esperienza del reale, falsificano con la

realtà i legami sociali e storici fino ad esplodere dentro le coscienze più deboli, nella mente dei

giovani, inquinata dalle nuove droghe della civiltà delle immagini, e finiscono così per

“colonizzare” l‟inconscio e gettare quei soggetti in una condizione di «solitudine multipla» che il

sociologo Aldo Bonomi sintetizza efficacemente nel concetto di uomo glocale.

Nell‟era informatica, infatti, l‟uomo è condannato alla solitudine e alla mancanza di esperienze

reali e tuttavia, grazie al sistema di comunicazioni in cui è immerso, è a contatto con tutto il mondo.

Falsa illusione, falsa libertà, dunque, quella che si sottomette ai condizionamenti della “moda” del

postmoderno e che scava un vuoto più profondo nella coscienza ferita dall‟assenza delle figure di

contenimento infantile, soprattutto dalla perdita dell‟immagine della madre, che le immagini virtuali

non possono compensare.

Nei soggetti affettivamente traumatizzati, con difficoltà relazionale accompagnata da ansia

comunicativa, lo “sconfinamento” nei luoghi estremi del virtuale è difficilmente controllabile e può

essere certamente sintomatico del mancato contenimento delle emozioni, delle paure e inquietudini

entro i confini del Sé. Tuttavia, se l‟alienazione del reale nel virtuale assume le forme e le

caratteristiche dell‟alienazione mentale, è un problema oggi discernere le cause dei disagi, delle

nevrosi, delle patologie che affliggono i nostri giovani perché esse non sono più ascrivibili, in

modo esclusivo e diretto, alla discuria delle figure parentali. Ciò perché nella società multimediale

l‟infanzia è affidata sempre più al «video-caregiver», alle “figure” di intrattenimento piuttosto che a

quelle di contenimento.

Se, infatti, il mondo “incanalato” e mostrato nei suoi aspetti più negativi attraverso i canali

mediatici, soprattutto televisivi, nonché ampliato e falsificato attraverso le vie telematiche (Internet,

personal computer, cyberspazio) è diventato la più grande “scuola” frequentata, la più grande

famiglia allargata, presente e accogliente, allora esso è il luogo originario dei conflitti dell‟infanzia,

la loro causa scatenante. Perché il mondo, così sezionato, è il grande “comunicatore”, la grande

attrazione che ha nei media, soprattutto nella TV, i suoi esperti “contenitori”. E la televisione, per

dirla con Sartori, «sostituisce la baby sitter», ed essa «non è soltanto strumento di comunicazione, è

anche, al tempo stesso, paidèia, uno strumento “antropogenetico”, un medium che genera un nuovo

ànthropos, un nuovo tipo di essere umano».(1) Ciò significa che la società sta cambiando, che

cambierà e che le nuove generazioni saranno sempre più costituite da «video-bambini» allevati da

«ex video-bambini» e perciò incapaci «di reggere all‟urto della realtà». Allora è opinabile la nascita

di una nuova psicologia perché non si può escludere che si formi una nuova psiche, o che si stia già

formando. Del resto, «l‟animale multimediale è già descritto e iscritto nei trattati sulla schizofrenia

(…) il video-bambino (…) quello multimedializzato di domani, della seconda ondata, sarà un io

disintegrato, un io “decostruito” che andrà a popolare le cliniche psichiatriche».(2)

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Per queste ragioni psicologi e psichiatri sono chiamati a occuparsi delle aberrazioni, delle

turbe psichiche di quei soggetti più fragili, emotivamente instabili, che nella solitudine della

navigazione on-line annegano qualsiasi altra attività subendo sempre più il fascino dell‟onnipotenza

dei nuovi strumenti comunicativi. E illudendosi di soddisfare i loro desideri frustrati, di

compensare le loro depotenziate capacità relazionali con un irrefrenabile bisogno di “chattare”

finiscono, per abuso di “contatti”, per cadere in depressione o in trance dissociativa, o per

scambiare la loro dipendenza con una sorta di delirio di onnipotenza.

Il rischio psicopatologico connesso ad Internet è oggi ancora un‟ipotesi da valutare. Il

fenomeno, infatti, è nuovo e resta per larga parte inesplorato. Il problema, allora, è di farne uno

studio oggettivo per la prevenzione del rischio e il trattamento delle patologie senza abbandonarsi a

facili allarmismi e a tentativi di demonizzazione. Ciò affinché la partita tra l‟uomo e il computer, tra

la mente e i media on-line si giochi a carte scoperte. Affinché, dopo la lontana stagione del

luddismo(3), non sia la macchina una seria minaccia per l‟uomo.

«Non sono le macchine che noi costruiamo ad opprimerci, ma l‟assenza di spiritualità, di

anima, la meccanizzazione del nostro intimo».(4) Questa affermazione di Lippert ci fa comprendere

come il problema della dipendenza da Internet resti aperto circa le cause che lo determinano. Cause

che sono state finora attribuite, ipoteticamente, alla macchina e/o all‟ambiente familiare. Anche se

in Lippert c‟è una chiara presa di posizione in direzione della spiritualità, alla cui dissipazione egli

attribuisce la condanna dell‟uomo alla “cattività” tecnologica, tuttavia c‟è da obiettare che essendo

la spiritualità un aspetto inscindibile della natura umana, cioè qualcosa di «dato», la sua “assenza”,

allora, deve avere una causa determinante, così come la sua “presenza” presuppone dei fattori in

grado di alimentarla. Il discorso, allora, torna all‟ambiente familiare e alla macchina “progressista”

che possono, in positivo o in negativo, “influenzare” la salute mentale dell‟uomo, elevando o

abbassando i “gradi” dello spirito.

Il problema, dunque, è un serpente che si morde la coda. La “Nuova Atlantide” di Bacone

(siamo nel 1627) inaugurava l‟illusione moderna di una felicità umana affidata al progresso

tecnologico, senza implicare una trasformazione dei rapporti sociali e umani esistenti. Oggi «la TV

è la catena che tiene in chiave di schiavitù l‟umanità. Le chiavi ce l‟ha la moderna elite

dell‟informazione e i mass-media devono ricordare ai giovani che c‟è ancora qualcosa dietro

l‟apparenza» (H.G. Gadamer).

E dietro l‟«apparenza» c‟è l‟essere, la spiritualità nell‟uomo, il suo mondo interiore. Dietro il

«virtuale» c‟è l‟uomo con i suoi problemi, di fronte a Dio, alla natura e alla morte; di fronte al

mondo della tecnica e a quello degli animali. L‟uomo è il problema e la sua soluzione. Egli

costituisce il nesso logico tra tutte le discipline, e la sua (ri)scoperta va oltre la psicologia e ogni

altra scienza, fino al loro azzeramento. Egli è il grande assente e tutti i problemi nascono da quest‟

“uomo”, si dibattono nel vuoto della sua “assenza”. Quando Lazzaro verrà fuori, la virtù senza

l‟«ale» prenderà il volo in Media-mente, ossia nella grande Rete mentale, e l‟uomo entrerà «a far

parte di una vita interpersonale che è una “superpersona”, cioè una persona più alta e perfetta».(5)

(1) G. Sartori, ”Homo videns”, ed. Laterza, pag.14

(2 ) Ivi, pag.145

(3 ) da Ned Ludd, un operaio che nel 1779 per protestare contro l‟introduzione delle macchine nell‟industria, viste come causa di

disoccupazione, avrebbe distrutto un telaio meccanico

(4) P. Lippert, “Dal finito all‟infinito”, ed. Paoline, pag. 45

(5) G. Marcel, in N. Abbagnano, “La saggezza della filosofia”, ed. CDE, Milano pag. 164

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TUTTE LE VOCI DEL CANTO

(le “mille e una voce”) *

Una è la voce dell‟ “io”. Mille sono le voci che ne esprimono il canto.

La poesia moltiplica la nostra esistenza. Esperiamo, per mezzo di essa, la pluralità del nostro “io”.

Perché la poesia è l‟espressione multiforme dello Spirito, unico e indivisibile.

Col suo stellario di parole ci eleviamo alla noosfera (1), rallegriamo nel vederci nella luce di

tante esistenze.

L‟«ecceità»(2) che ci spoglia della natura communis ci chiude nella torre d‟avorio

dell‟individualità, fa cioè di ognuno di noi un individuo, unico e irripetibile. Contro questo “nobile”

“distintivo” che frantuma e isola le esistenze relegandole, con l‟avallo di una “dote naturale”, in una

solitudine estrema per l‟assenza di contatti autentici , ha pieno valore la “categoria” dell‟affinità, di

cui dà prova la poesia in tutte le sue manifestazioni. L‟affinità ci sottrae all‟«ecceità» che ci

estrania, restituendoci alla ricchezza della pluralità e alla comunic-azione, che è agire in comunione

con l‟«alterità».

E questo ci fa singolari. Perché la vera singolarità, quella che fa di ogni individuo un essere

eccezionale, è l‟appartenenza alla Regola dell‟ Intero. L‟ «ecceità» va “compresa” entro questa

Regola, fuori della quale essa è un triste “marchio”, o una “marca”, che impoverisce, che fa

perdere in umanità. Povera cosa, povera esistenza quella che fa “eccezione” alla Regola escludendo

da sé ogni altra esistenza!

L‟ “io” prende sempre il posto dell‟ «alterità». Dice solo se stesso espropriando da sé quel «tu»

ogni volta che lo pronuncia. Così tiene saldo lo scettro e ci inganna col suo potere “singolare”,

“regale”. Piuttosto che al «noi», è all‟ “io” che si confà il pluralis maiestatis. Solo questo “io”,

spogliato del proprio ego(centr)ismo e, così, spodestato, ha il diritto di occupare il posto del re.

Bisogna che il «tu» scompaia, per rivivere, nella palingenesi dell‟ “io”, dove l‟illusoria singolarità

è smascherata in ragione del vero egoismo, solo dal quale può scaturire il vero altruismo: l‟amore

del prossimo, secondo l‟insegnamento di Gesù. Amare l‟altro è aprirsi alla pluralità dell “io”, rac-

cogliersi in questa alterità universale. Nel «Noi» onnicomprensivo batte il cuore dell‟ Io maestoso.

“Ritrovare gli altri dentro di sé. Ritrovarsi negli altri”. È questa la legge dello Spirito. E la

poesia è lo spirito di questa Legge. È il suo dettato e la sua pratica.

La poesia scopre e “realizza” l‟affinità che essa stessa genera, e questa “singolare” pluralità

parla in ogni creatura umana col divino soffio della Creazione. Così ogni opera è un canto che

“riproduce” il Creato, un canto corale espresso da tutte le voci dell‟ Io.

All‟ “io” individuale diamo un volto, il nostro volto, e lo identifichiamo col nostro essere

corporeo. Dimentichiamo che, in quanto sostanza spirituale, può solo cor-rispondere e confrontarsi

con gli altri “io” particolari, all‟interno della totalità che li com-prende e che è l‟Io unico e

indivisibile. Ogni sostanza spirituale è, perciò, distinta dall‟altra ma non è mai separata dall‟ Io che

ha il Volto dello Spirito universale.

La nuova razionalità è la coscienza di questa Unità. È con questa coscienza che la Ragione si

fa etica. La Ragione che assume questo punto di vista riflette con sguardo soale. (3)

(1) in Teilhard de Chardin: “cervello planetario”, mente in cui tutti i pensieri individuali sono immersi.

(2) in Duns Scoto: perfezione che si realizza in ogni ente quando passa dalla condizione di natura specifica a quella di natura individuale, dalla

specie universale all‟individuo unico e irripetibile. (3)da soaltà (neologismo dell‟autore): realtà interiore che include, come sua parte costitutiva, il “sogno” del pensiero noetico.

* (pubblicato sulla rivista “della Soaltà” paeSaggi, giugno 2006)

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Il ritorno di Orfeo

Lo sguardo

Euridice, smarrita, sogna il volto del suo giovane sposo. Il suo desiderio di fuga è un‟ombra lunga sul

mondo, un ricordo sotterraneo, nella notte profonda. Nei suoi occhi si perde lo sguardo di Orfeo, e già

un nuovo canto sorge nel cuore della driade.

(“A casa, a casa…riportami a casa, Orfeo!...Promettimi l‟alba, promettimi che sarai cieco per

me…per amore! Se tu r-esisti, allora io esisto e avrai un regno nel mio cuore. Insieme ascolteremo

l‟amato canto senza ignorarne il rischio!”).

Il sogno di Euridice si versa negli occhi di Orfeo. Egli, allora, sprofonda nell‟ombra invincibile della

ninfa, che si distoglie da lui per non perdersi una seconda volta nel suo sguardo. Dalla notte perenne

esce un dolce suono di lira, e un canto mesto e soave si sparge per l‟immobile aere. Una farfalla di

luce ora schiude le labbra di Euridice a un sorriso impercettibile, associato a un ricordo esile e vago.

Lo spettro inconsolabile di Orfeo aleggia tutt‟intorno con quel purissimo canto fiaccato dalla

promessa ingenuamente tradita.

Orfeo osa di nuovo guardare, nel pieno possesso della vista, il volto proibito dell‟umbratile sposa! Il

sacro fanciullo, figlio di Calliope, vuole trarre alla luce l‟altra faccia del canto: la verità in cui si è

trasfigurata Euridice, che nel proprio nome unisce: bene bontà giustizia. Il giovane tracio dimentica

che la verità non si lascia possedere dai sensi. Perciò l‟incauto cantore non resiste alla sotterranea

bellezza della ninfa e la perde, nuovamente, con uno sguardo.

La buona visione, seppure offesa dalla luce degli occhi, vi resta impressa, e Orfeo che vede la bontà

solo di quest‟Amore, è destinato ancora a perire, dilaniato dalle nuove Baccanti. Perché la verità è il

sogno che agli occhi non è concesso di guardare!

Ora quel musico leva per sempre il suo canto nell‟Elisio, dove il suo spirito magno si espande oltre gli

antichi confini, ma nell‟eterna stagione non gode della visione rotonda.

“Sì. Vedere è morire!” – è il sussurro impercettibile di Euridice, tra lo stupore e il disappunto. E la

verità, che alletta e si sospende nelle sue epocali manifestazioni, torna a naufragare nella rinnovata

promessa dell‟alba che declina.

Oltre il mito

Nell‟Elisio, ove è eterna primavera, Orfeo si nutre del canto che, con messe copiosa, fiorisce a bella

vista. Lontano dai suoi occhi indiscreti cresce l‟albero della visione. Il suo frutto rotondo è il volto

della verità che al citaredo è proibito di guardare, avendo negli Inferi perduto Euridice e trasgredito

l‟ordine di Ade, mancando alla propria promessa.

Nella rotonda visione si compenetrano, in una sintesi perfetta, la luce e le tenebre, il visibile e

l‟invisibile, il finito e l‟infinito, l‟essere e il non-essere, la vita e la morte…

La bellezza del canto più non consola Orfeo che non può contemplare quell‟assoluta certezza, la

piena armonia degli opposti. Egli, allora, vuole risuscitare la sua sposa, vuole farsi perdonare per

averla sacrificata per amore dell‟assoluto sapere che ora gli viene negato. Certo di riuscire nella

difficile impresa rinnova la promessa al dio del sottosuolo e lo implora di metterlo alla prova.

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L‟audace domanda trova consenziente il Signore delle tenebre. Se Orfeo riporterà a casa la sua ninfa,

vivrà con lei fino a che lo vorranno gli dei della luce. E quando, dopo la seconda morte, saranno

entrambi restituiti al dio Ade, nei campi arati dal canto egli sarà un giovane frutto rotondo accanto ad

Euridice, e insieme nutriranno della loro arborea visione gli spiriti magni e daranno sollievo alle tristi

ombre e, inoltre, i loro frutti oculati apriranno la nuova e buona vista nel mondo. Se invece il grande

musico fallirà la sua prova, allora, con Euridice, perderà anche il canto ed egli sarà un frutto cavo nel

giardino d‟inverno, invaso da una penosa disarmonia che toccherà i cinque sensi. E ciò durerà finché

nel mondo un novello Orfeo, avendo sentore di tanto strazio, non sovvertirà il mito salvando Euridice

e aprendo gli occhi del mondo.

La bella driade già conosce le nobili intenzioni dello sposo, la sua fermezza d‟animo, il suo fervore

impaziente, ed è presa da un misterioso tremore che non lascia presagire nulla di buono. Il canto di

Orfeo la raggiunge con un corteo di piante e di fiere ammaliate, ed ella ascolta l‟antica promessa con

parole rinnovate. (“Sono venuto per portarti con me…Per farmi perdonare…Per salvarti!...Come vedi,

sono cieco e…resisto alla verità!”).

La felicità della ninfa riceve per la seconda volta il morso del serpente, che parla in suo nome e con

la sua voce. (“No. Qui sto bene!...Se io tornassi sulla terra, mio dolce sposo, vanirei…perché a nessun

mortale è concesso di vedermi. Se davvero vuoi salvarmi, senza perdere il mio viso, guardami! E

questa volta mi avrai per sempre con te. Perché guardare Euridice è mangiare dell‟albero della

visione. Guardami, Orfeo, e coglierai sul mio volto il frutto rotondo!”).

La voce suadente della donna/serpente mette in bocca ad Orfeo il gusto della visione che apre gli

occhi del giovane tracio all‟irresistibile contemplazione. Ed ecco!...Lo sguardo di Orfeo vede

nell‟ombra di Euridice la verità immortale e, nel medesimo istante, esso spegne gli occhi del mondo

confermando, inesorabilmente, sulla terra, la scomparsa della verità e la conseguente fuga del canto.

Perché il canto è la verità sotterranea che non si concede interamente ai mortali. Così essa resta

consegnata al volere di Ade che, col servigio del famigerato serpente, gela il povero Orfeo, il quale

nella cavità dell‟infruttuoso giardino si contempla nel volto di Adamo, dove ritrova Eva ed Euridice.

E così patisce più forte il tormento degli occhi per la nuova caduta dell‟uomo!

(pubblicato su “della Soaltà”, pS 6)

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Le Cose: il sogno, l’uso, l’oblio, la resurrezione

Tutto nasce dal sogno. A partire da esso si edifica la realtà: la natura seconda o artificiale, il

mondo delle cose. Ogni cosa, prima di essere tale, è un sogno che si rappresenta nel teatro

dell‟interiorità; in altre parole, è immagine, visione, idea, pensiero, soggetto, sostanza, spirito. La

cosa sognata poi acquista una veste, un corpo; s‟incarna divenendo oggetto, forma sensibile, realtà

visibile che, in quanto unisce in sé il sogno, è una soaltà: un‟esternazione di questo sogno che,

tuttavia, resta celato nel corpo dell‟oggetto. Ogni cosa, dunque, ha una duplice natura essendo

costituita dalla natura fisica (dalla materia prima impiegata per la sua costruzione: legno, pietra,

ferro ecc.) e dalla natura umana (pensiero, idea…). Di queste due nature vediamo solo quella

materiale che chiamiamo realtà e non cogliamo quella spirituale e cioè il sogno, che è l‟origine delle

cose, la loro anima, che, in quanto tale, resta invisibile ai nostri occhi troppo superficiali per vedere

in profondità, per andare oltre la semplice apparenza. Questa vista così corta determina l‟oblio del

sogno che è anche l‟oblio delle cose, della cui importanza ci ricordiamo solo quando ci mancano.

Esse spariscono dietro il loro uso quotidiano, e spesso improprio, sprofondando nella notte in cui

sono nate…

Ed ecco! Al tocco della mezzanotte il prodigio tocca in profondità il cuore delle Cose. Un lucore

improvviso, un‟energia nuova le sorprende nella loro intima natura destandole dal profondissimo

sonno disabitato dai sogni. Come per incanto, queste risvegliate Presenze ora parlano a somiglianza

del silenzio e proferiscono suoni impercettibili elevandosi al di sopra della loro considerevole massa

che gremisce i luoghi del mondo. Al di là dell‟oblio si apre in loro la soglia della coscienza e ora

vedono dentro la notte. Vedono. Bramando, anelando il mistero della luce, sollevate un poco dalle

fatiche mondane, affidano al canto la loro vita di dormienti. Accorate rivolgono una preghiera

all‟uomo, al loro dio sconosciuto, affinché le lasci sognare, affinché il sogno le liberi dalla scorza.

Povere cieche! Nonostante la loro sapienza, mai vedranno la luce reale né quel dio verso il quale

provano un sentimento d‟amore e di odio, perché è un dio creatore e distruttore, un dio che sfrutta e

dimentica le sue creature che pure lo servono fedelmente, alle quali egli non ha dato occhi e

nemmeno braccia e né gambe negando col movimento ogni possibilità di fuga! Immobili sognatrici,

condannate a sentire la vita, a coglierne il respiro e il rumore, a subire sulla propria “pelle” l‟uso

irragionevole e sconsiderato, ad avvertire la bellezza partecipata loro, segretamente, dalla Divina

Natura di cui sono fatte. E per questo, soprattutto, infelici…per non poterne godere con gli occhi.

Anime morte, nature morte. Capolavori che mostrano la bella natura e ne rivelano lo spirito vitale, e

tuttavia morte e sepolte nel buco nero dell‟uso, nell‟assoluta immobilità e nell‟oblio in cui navigano

in cerca della luce che hanno ricevuto e che si accende invisibilmente, impercettibilmente, in

qualche atomo segreto della loro materia, ma che l‟uomo, loro dio, non sa cogliere a causa della sua

cecità.

Per loro, abitatrici del sogno nel corpo della materia, il mondo è il vaso di Pandora che trattiene

la speranza, ed è un‟enorme Cosa che contiene l‟oscuro Caos che tutto invade con tutti i mali che

non sono venuti fuori per/dal Caso. Ed è la realtà un immenso e allettante teatro d‟illusioni, il velo

di Maia che fa ciechi i vedenti e lascia a chi non ha occhi la consolazione dello sguardo. Da tempo

immemore le Cose si sono rassegnate alla cecità che consente una visione migliore e le ripara, al

tempo stesso, dagli orrori del mondo, del quale hanno appreso tutto lo scibile attraverso la preistoria

e la storia e, soprattutto, grazie al loro fratello Computer che in tempi recenti le ha reso dotte e

sapienti con la sua Rete informatica. Tuttavia, a toglierle dal sonno dell‟incoscienza è il sogno che

accende quel lucore dentro la loro interminabile notte. Ora esse vedono, senza occhi, il loro dio, al

quale credono con fede sicura convertendo in certezza ogni dubbio circa la sua esistenza. E vedono

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la loro schiavitù restando umili e servili verso questo sommo artefice che però hanno smesso di

amare, perché molto le mortifica l‟essere trattate da merce. L‟uomo non ha occhi per la loro natura

soale che in sé unisce le due realtà: quella umana del sogno che le concepisce e quella divina della

natura da cui il loro artefice trae la materia prima con la quale veste il sogno dando loro un corpo

reale.

Sogno e realtà, spirito e materia sono la loro anima e il loro corpo, per cui attendono la

resurrezione! La quale può avvenire solo se il loro artefice le restituisce alla bontà e alla bellezza

del sogno liberandole dall‟oblio che le degrada e le condanna alla sparizione. Nelle mani del loro

dio non si sentono più custodite e amate. Usurate e mercificate, non sono più le nobili Cose che

servono all’uomo ma piuttosto oggetti anonimi e passivi che lo servono. Molte di loro, inoltre,

sono dei cattivi sogni nei quali la bontà è scissa dalla bellezza e sostituita, per il peggiore degli usi,

dall‟odio e dalla violenza che servono la devastazione e la morte. Belli e mortali sono così il

pugnale, la spada, la pistola, il cannone, il bombardiere, le bombe “intelligenti”, la bomba

atomica…A questi loro sfortunati e mortiferi simili, molte Cose si sentono brutalmente accomunate

quando, fuori dal benefico uso per cui sono state create, delinquono nelle mani dell‟uomo che le usa

come strumenti di offesa. Così accade, ad esempio, quando l‟amica sedia che serve alla stanchezza,

ovvero al riposo delle membra, è usata come corpo contundente e mortale contro qualcuno.

Cosicché essa perde la bontà della sua funzione originaria e subisce l‟abuso dell‟atto violento.

In balìa degli dei, le consola lo sguardo che fa del loro sonno una veglia. Magico sguardo il cui

sogno è già vita, realtà che precede l‟ex-sistenza nel mondo. Qui, dopo la stagione dell‟oro, dopo la

primavera eterna in cui con i fruttuosi semi cresceva il buon seme dell‟ozio che molceva gli animi

degli dei, ancora non usi alla guerra, fu una rovinosa caduta nei sogni sempre più malvagi, un

crescere e un precipitare nelle messi abbondanti dell‟odio e della violenza che ora spengono nelle

Cose, insieme col pallido gusto della vita, anche l‟amore e la gioia di servire alle necessità degli

umani.

Un terribile destino attende gli uomini, una metamorfosi irreversibile, una nuova caduta in una

tragica materialità che abolirà la distanza tra il loro corpo di carne e l‟attraente metallo delle

macchine e che finirà per alienarli, reificarli. Meglio, allora, è per le Cose accontentarsi di esistere

nella cecità totale dei sensi, come l‟aria, l‟acqua, la terra, il fuoco che non vivono e danno vita;

come i mari, i monti, il cielo, le stelle che non vivono anch‟essi e dispensano doni e godimento agli

dei irriconoscenti e ingrati. Anche senza vita è bello esserci!...sapendo di essere utili, di piacere

almeno a qualcuno, sì da offrirgli con generosità i servigi alleviandogli le fatiche, dandogli giusti

guadagni senza sperperi né lucro. Sì. La Bellezza e la Bontà pagano ancora in questo mondo

labirintico e tentacolare popolato di nuove fate e di nuovi orchi nei boschi informatici e virtuali.

Bellezza e Bontà sono la Luce e la Legge della Creazione, virtù inseparabili dei sogni positivi,

dai quali nascono le Cose che servono alla vita dell‟uomo e ne soddisfano i bisogni necessari.

Servire la vita è godere ogni volta dello spettacolo del Creato. È rispettare la Natura restando fedeli

custodi del sogno!

(pubblicato su “della Soaltà”, pS 8)

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Dolce stil novo: echi d’amor corrente

tra letteratura e vita

L‟amore ha uno stile. Suoi “stilemi” sono dolcezza e turbamento, che sono gli stati dell‟animo

che l‟amore produce in chi “s’apprende”e che costituiscono la sua prima espressione. Sono emozioni

visibili nella fase dell‟innamoramento, moti impercettibili che si disegnano nei volti degli

innamorati, toccati e benedetti dai raggi dell‟amore, sì che i loro sembianti appaiono trasfigurati.

Messaggeri del sentimento nascente soni i dolci sguardi (prima solitari e furtivi, poi palesi e reciproci,

ma non ancora dichiarati!) attraverso i quali l‟amore si annuncia e si rivela. Così gli occhi si nutrono

dell‟amorosa visione e gli innamorati stupiscono e restano ammutoliti di fronte a cotanto miracolo,

rapiti nel contemplare il volto amato.

L‟ “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” e che trova così dolce riparo in quella sede naturale

ov‟esso ispira l‟aura del Paradiso, dona “per li occhi” beatitudine e salute, sì che la persona tutta si

trasfigura e gode in contemplazione. Lo sguardo che innamora e sul quale affiora l‟amore di cui si

nutre, fa levitare il corpo rendendo tutt’anima colui che riceve il suo tocco miracoloso. Così, dolce e

radioso è a Dante lo sguardo di Beatrice che schiude e imprime il viso della beata donna nell‟anima

del Poeta, il quale si nutre dell‟amorosa visione, nel tempo rinnovata. In grazia dell‟Amore, Beatrice è

angelo “venuto da cielo in terra” ad incarnare quell‟Altezza divina che ispirò la Commedia. E il

Canto che la volle Personaggio fu la promessa dell‟eternità, grazie alla quale ella conserva il suo

nome nel mondo.

La Poesia perdonò quegli amanti, cui restituì il diritto all‟amore che era stato offeso nella “bella

persona” di Francesca dall‟abietto Gianciotto, il quale, spinto dalla politica e non dal cuore, volle

legarsi a lei, anche per vincere sul proprio aspetto deforme. L‟ Inferno, che accoglie e p-unisce quelle

“colombe”, infiamma il loro amore giusto ed onesto, perché casto fu il bacio né li avvinse lussuria,

ove, solo per umano decreto, sono locate. Quest‟amore dolce e turbato, che il “vento” impetuoso

alimenta e che divampa come una fiamma nel canto che lo conserva, è il medesimo sentimento

terreno che sarebbe durato inalterato se non l‟avesse spento in modo scellerato quel «rustico

uomo» che “Caina attende”.

È questo forte spirto d‟amore che sosta gentilmente per desiderio del Poeta, il quale, accogliendo i

dolci pensieri e la pietà delle inseparabili anime, sospira e si commuove fino alle lacrime e allo

svenimento. Non ha colpe la Poesia, che con il “libro Galeotto” addolcisce gli sguardi e li contamina

con l‟amore, di cui essa è la prima radice. Non c‟è libidine ove “il disiato riso” è “baciato da cotanto

amante”, né in Paolo che bacia la bocca di Francesca “tutto tremante”. Perché il tremore è la levità e il

candore, è la gioia incontenibile che tracima nel bacio, in cui Paolo assapora la propria estasi; perché i

sensi non hanno dominio sull‟amore che disarma Lancillotto e lo investe cavaliere della visione

rotonda alla quale si accostano gli sguardi ispirati dei nostri amanti che, “sedendo” intorno al desco

iridato, suggellano con la levità di un bacio la loro appartenenza all‟Amore e al suo sodalizio

universale.

Dolcezza e turbamento, dunque, conferiscono all‟amore quello stile particolare che rinnova, in

ogni tempo, il canto dei poeti; che fa sognare e tremare Romeo e Giulietta in modo assai simile a

Paolo e Francesca; che rapisce e sgomenta Aschenbach*, sedotto dalla bellezza di Tadzio e

dall‟eufonia del suo nome. La mirabile visione del giovane “Feace”, la divina perfezione del suo

volto, la grazia incomparabile del suo portamento, producono su Aschenbach, esteta e decadente, gli

identici effetti del “Dolce stil novo”. Perché l‟amore è la corrente che ad ogni epoca “s’apprende”

ispirando con il suo stile dolcezza e turbamento in chiunque soltanto oda o pronunci il nome della

persona amata!...Epifania del nome, che inscrive e suggella indelebilmente nella nostra anima il volto

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amato! Miracolo dello sguardo che, nella lontananza, contempla quel volto che affiora nel dolce

sussurro del nome! Chi potrebbe mai strappare Dulcinea dal cuore dell‟Hidalgo? Chi potrebbe

offuscare lo sguardo di Orfeo negli occhi di Euridice, la quale trova la morte in quello sguardo

eccessivo e impaziente?...Romeo potrebbe forse rinnegare il proprio nome senza estirparlo dal cuore

di Giulietta? E Ofelia, è forse affogata negli occhi di Amleto? Nel nome è la purezza di Perceval che

in Parsifal si fa delicata dolcezza. Al semplice, al puro cavaliere del Santo Graal non è tuttavia

concessa la sacra Coppa, perché promessa e conquistata da Galaad: l‟eletto per eccellenza, il compiuto

cavaliere di Dio, già designato, destinato dal nome, che suona come un casto e soave respiro!...Il

nome è salvezza se lo culla l‟amore; se, toccato dalla grazia, si apre al volo dell‟Angelo e mostra in

piena luce il volto amato.

Potenza del sentimento che nobilita i sensi, che riduce la distanza tra l‟anima e il corpo, tra lo

spirito e la materia rinnovandone il legame! Miracolo dell‟Amore, che infonde il proprio stile

all‟oggetto del desiderio e lo trasfigura dandogli le sembianze dell‟Angelo! Se lo sguardo necessita di

un corpo, di una forma, affinché l‟anima esulti e s‟innalzi, lo sguardo puro e profondo, non

contaminato dai sensi, è capace di contemplare l‟immateriale Bellezza senza la mediazione del corpo.

Simile al poeta, nell‟atto puro della creazione, è l‟innamorato, di fronte alla pura visione del volto

amato. La loro anima conosce l‟estasi senza uscir fuori di sé, riposando piuttosto in sé stessa. Perché

l‟estasi è la siesta, il celeste e necessario anagramma in cui l‟anima gode dell‟incorporea

Magnificenza nella dolce posa della contemplazione. Ed è questo il nuovo legame: tra l‟anima e la

mirabile visione, tra lo spirito e la Bellezza. Purezza dell‟anima che si fa liquida immagine, riflesso di

un volto straniero. Non di sé s‟innamora Narciso ma di quell‟«io» sconosciuto che lo se-duce con

l‟immateriale Bellezza che è la virtù e l‟essenza stessa dell‟anima. L‟anima, che rispecchia sé stessa,

“annega” Narciso che la contempla. Perché chi vede l‟essere immortale deve rinunciare alla vita, per

ricongiungersi con la sorgente!

Esiti simili ritroviamo in Leopardi, al quale è dolce il naufragio nel liquido specchio dell‟infinito,

dove contempla l‟Anima del mondo con la quale la sua anima si con-fonde; in Neruda, che sostituisce

all‟infinito la Poesia, la quale è, essa stessa, infinito, “universo”, col quale l‟ “essere minimo” del

poeta si congiunge naturificandosi **, tra un tripudio di stelle, e sciogliendosi dolcemente fino al

dissolvimento panico; in Siddharta, per il quale il naufragio delle singole coscienze, sottoposte al

karman e al samsara, è l‟approdo al sospirato nirvana, dentro l‟universale respiro dell‟Atman.

Sì. C‟è dolcezza e turbamento, non solo di fronte all‟angelico volto, visitato dall‟amore, che attrae

lo sguardo innamorato suscitandovi la propria immagine con la sola scia del nome, ma anche di fronte

al mistero della creazione, al suo spazio sconfinato, nel quale sprofondiamo contemplandovi, come in

uno specchio, gli abissi della nostra anima. Qui, quei sentimenti sono rinnovati, in uno stile che rivela

ancora una volta il miracolo dell‟amore che con il suo volto segreto volge all‟assoluto, a una Bellezza

divina, tutta interiore. Potenza, dunque, dello stile che, con dolcezza e turbamento, esalta la vita e

ingentilisce gli uomini rinnovandone il cuore e la vista; che li dispone all‟ascolto del canto nel

semplice dono di un nome; che li fa attori e spettatori della rotonda visione e li innalza fino al

cielo…Perché il Paradiso è perduto solo negli occhi incapaci di coglierlo nello splendore della natura

e della creazione umana.

* Personaggio di Morte a Venezia, di T. Mann

**da naturificazione, neologismo dell‟autore del presente saggio e figura retorica, opposta a personificazione

(pubblicato su “della Soaltà” pS 9, dicembre 2008)