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IL DOLCE STIL NOVO

ASOR ROSA, A. Sintesi di storia della letteratura italiana. Firenze: La Nuova Italia, 1972. P. 23 a 26.

Da PAZZAGLIA, M Testi e lineamenti di letteratura italiana ed europea. Bologna: Zanichelli, 1982.

POESIA TOSCANA DEL TRECENTO

“La poesia cortese, iniziata dai siciliani, viene ripresa sia in Toscana sia nell’Italia settentrionale.”

Il centro più importante è la Toscana.

Ci sono alcuni importanti elementi di novità in questa nuova poesia (Lui fa esempio con Guitone d’Arezzo):

“una ricerca d’artificio formale e tecnico;

robustezza e varietà di interessi – politici, morali, religiosi e amorosi;

ripresa diretta di modi propri dell’ultima poesia provenzale, quella di più evidente carattere mistico e simbolico, che testimonia un tipo d’interessi crescenti nell’ambito della spiritualità comunale.”

La sua produzione indica una conoscenza del linguaggio dei siciliani, del provenzale, del francese e del latino;

Le sue prime poesie riprendono motivi della lirica provenzali;

La sua opera matura, invece, è ispirata a contenuti morali, politici e religiosi; ad una materia, cioè, che era sempre stata trattata in latino o in francese.;

ha introdotto nella lirica l’elemento della riflessione filosofica e è stato considerato un maestro dal Guinizelli;

la sua influenza non rimase circoscritta a Firenze, ma si esercitò anche a Bologna, nell’ambiente culturale in cui si formò quello che è ritenuto il fondatore dello Stil novo: Guido Guinizelli.

GUITTONE D’AREZZO (1230 - 1294 ca.)

da PAZZAGLIA, Mario Testi e lineamenti di letteratura italiana ed europea. Bologna: Zanichelli, 1982.

Con la decadenza della potenza Sveva in Sicilia la Toscana diventa il nuovo centro di irradiazione della poesia volgare.

L’opera di Guittone d’Arezzo è divisa (come la sua vita) in due parti: nella prima prevale la poesia amorosa sul modello siciliano, ma soprattuto provenzale; nella seconda è dominante la esperienza religiosa che spinse l’autore ad abbandonare il mondo e la famiglia, per entrare a far parte dell’ordine dei Cavalieri di S. Maria, fondato nel 1261 a Bologna, che aveva come ideali la salvaguardia della pace, l’accordo fra le opposte fazioni, la difesa delle donne, dei fanciulli, dei poveri in nome della Vergine Maria (come si vede, una specie di ordine cavalleresco, legato però alla nuova realtà comunale).

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Sono frequentissime nel canzoniere guittoniano le rime di corrispondenza con tutti i più noti rimatori toscani dell’epoca, che rivelano chiaramente come per almeno venticinque anni (dal 1255 al 1280). Guittone esercitasse una specie di dittatura intellettuale e artistica su tutta la Toscana, maestro riconosciuto e ammirato, prima per lo stile e poi per i valori di moralità e di umanità.

Egli aveva creato un modello di canzone d’amore ampio nel ritmo e nello svolgimento concettuale, aveva dato i primi alti esempi di canzone politico-civile, aveva dato l’avvio alla moralizzazione del mito dell’amore: aveva, insomma richiamato l’arte alla vita, la poesia alla realtà, immettendo in essa il suo rigore morale, la sua cultura e la sua dottrina.

Le rime e le rime sacre sono pervase da una stessa energia intellettuale e morale. La vera vocazione di Guittone fu quella di maestro e correttore di costumi, di un amante e sollecitatore della virtù.

L’impegno di piegare l’arte a tutte le esigenze del vivere sociale fa sì che la poesia di Guittone abbia sempre una solida ossatura logica, un’orditura complessa e sapiente che prepara le grandi canzoni di “rettitudine”, cioè di esaltazione della virtù di Dante.

Se Guittone non fu un grande poeta, fu il precursore, un letterato sapiente che diede vita a nuove forme e nuovi schemi, ad una esigenza di poesia più complessa e atta ad accogliere la multiforme vita della coscienza, anche se il suo linguaggio, mescolato di espressioni dialettali, rimase spesso aspro e disarmonico.

GUITTONE D’AREZZO

Tuttor ch’eo dirò «gioi’», gioiva cosa

Il sonetto è costruito sulla replicacio della parola gioia, e intende esprimere, attraverso questo insistere su di essa, l’intensità della gioia d’amore. In questo caso l’artificio giunge a un risultato poetico convincente perché, usato con maestria, conferisce al sonetto un tono di fervido entusiasmo.

Tuttor ch’eo dirò «gioi’», gioiva cosaintenderete che di voi favello,che gioia sete di beltà gioiosae gioia di piacer gio[o]so e bello,

e gioia in cui gioioso avenir posagioi’d’addornezze e gioi’di cor asnello,gioia in cui viso e gioi’tant’amorosached è gioiosa gioi’mirare in ello.

Gioi’di volere e gioi’di pensamentoe gioi’di dire e gioi’ di far gioiosoe gioi’d’onni gioioso movimento

per ch’eo, gioiosa gioi’, sì disïosodi voi mi trovo, che mai gioi’non sentose ’n vostra gioi’ il meo cor non riposo.

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Il DOLCE STIL NOVO

da PAZZAGLIA, Mario Testi e lineamenti di letteratura italiana ed europea. Bologna: Zanichelli, 1976.

Iniziato, sembra, dal notaio bolognese Guido Guinizzelli (nato fra il 1230/40 e morto prima del 1276).

Dalle pagine del suo canzoniere ci parla una voce limpida e giovane, pervasa dall’entusiasmo della scoperta di un nuovo mondo poetico. Lo vediamo ripercorrere e assimilare la tradizione siciliana e toscana, chiamar Guittone maestro, ma distaccarsi progressivamente da ogni modello per genialità inventiva. Sue sono le immagini nuove che verrano riprese e svolte dagli altri stilnovisti: il motivo della donna angelo, del saluto di lei che porta beatitudine e salvazione dell’animo, liberandolo dal peccato e donandogli purezza e virtù, del poeta piagato d’amore, che “porta morte” in sé, nel senso che l’amore per il suo carattere passionale, coesistente e contrastante con quello spirituale, pone l’anima, a volte, in un travaglio angoscioso. (Pazzaglia, p.180)

lI suoi seguaci furono: Guido Cavalcanti (1260 ca. - 1300); Dante Alighieri (1265- 14/09/1321); e Lapo Gianni.

A Dante viene atribuita la definizione tematica della scuola (nell’ Vita Nova e nel canto XXIV del Purgatorio). I concetti fondamentali dello stil novo sono la novità e la dolcezza.

Novità – rivela i più liberi atteggiamenti del pensiero, l’originalità dell’ispirazione, l’abbondanza di nuove espressioni più efficacemente adatte a interpretare il particolare atteggiamento psicologico del poeta. “Consiste nella scoperta di una nuova verità e autenticità psicologica e sentimentale, che si rivela capace di andare al di là degli artifici scolastici dei siciliani e dei guittoniani, rillacciandosi se mai direttamente alla grande esperienza spirituale dei provenzali.” Per Dante la novità consiste nel fatto che i poeti scrivono quando l’Amore li spira, esprimono quello che esso ‘detta dentro’ e proprio nel modo in cui detta.

Dolcezza – è lo stile in cui il “dolce” viene usato a precisare i modi della nuova poesia riferendosi alla gentilezza delle immagini e alla purezza della lingua e alla soavità e laggiadria del verso e del ritmo poetico.

Il Pazzaglia dice che L’amore non è più soltanto concezione del “gusto poetico, ma una esperienza spirituale e trasfigurazione di chi lo fa suo.”

La poesia degli stilnovisti “tende non tanto alla rappresentazione immediata del sentimento amoroso, quanto ad un’approfondita contemplazione intellettuale e fantastica di esso, a una meditazione sulla sua essenza indefinita e misteriosa” (Pazzaglia, p.178).

“Lo Stil novo identifica la gentilezza o nobiltà con la virtù, e l’amore con tale intima gentilezza, e vede nella donna la sorgente di una elevazione morale capace di condurre l’amante verso la perfezione spirituale e, magari, fino a Dio”(Pazzaglia, p.179).

La novità dello Stil novo (Pazzaglia cita Sapegno) “consiste in un approfondimento e affinamento dell’indagine psicologica congiunto a un affinamento delle forme espressive” (p.179).

Da una parte conoscenza dei problemi d’amore e una cultura approfondita nelle università, dall’altra una ricerca del linguaggio raffinato, etereo; di immagini suggestive capaci di dare il senso delle esperienze interiori.

Anche gli stilnovisti hanno un ideale d’arte e di vita aristocratico, come quello cortese, però non è una aristocrazia di sangue ma culturale.

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In tutti i poeti dello Stil novo si avverte una religiosità laica.

“Si passa con stil novo dalla poesia come rituale mondano, sia pure raffinatissimo, alla poesia come esercizio dello spirito, che comporta una concezione totale della letteratura, in cui dignità formale, dolcezza espressiva, elevazione dell’intelletto e dei sentimenti fanno tutt’uno. S’intende in questo quadro l’importanza estrema — forse estranea in questa misura ad una sensibilità moderna — che assumono la figura della donna e l’amore per essa.”

Qui la “donna sovrasta il poeta, ma dall’alto, appunto, di una superiorità morale e spirituale, non di gerarchia cortigiana e mondana; l’amore è dunque perfezionamento intimo, elevazione verso il principio superiore che si esprime attraverso la donna, e dietro il quale s’intravvede alcunché d’angelico o addiritura di divino” (può essere visto come una specie di religione laica).

Per Pazzaglia parlare di scuola quando si parla dello Stil novo “è una cosa più che mai astratta e inadeguata; si tratta, infatti, di poeti che hanno una spiccata individualità, una propria storia umana e poetica e che, per questo, mal si prestano a essere incasellati sotto un’etichetta” (Pazzaglia, p. 178).

GUIDO GUINIZELLI

Io voglio del ver la mia donna laudare

Io voglio del ver la mia donna laudareed assembrarli la rosa e lo giglio:più che stella dïana splende e pare,e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

Verde river’a lei rasembro e l’âre,tutti color di fior, giano e vermiglio,oro ed azzurro e ricche gioi’per dare:medesmo Amor per lei rafina meglio.

Passa per via adorna, e così gentilech’abassa orgoglio a cui dona salute,e fa’l de nostra fé se non la crede;

e no lle può apressare om che sia vile;ancor ve dirò c’ha maggior vertute:null’om pò mal pensar fin che la vede.

GUIDO GUINIZZELLIAl cor gentil rempaira sempre amore

Al cor gentil rempaira sempre amorecome l’ausello in selva e la verdura;né fe’amor anti che gentil core,né gentil core anti ch’amor, natura:ch’adesso con’fu ’l sole,

sì tosto lo splendore fu lucente,

né fu davanti ’l sole;

e prende amore in gentilezza lococosì proprïamentecome calore in clarità di foco. Foco d’amore in gentil cor s’aprendecome vertute in petra prezïosa,che da la stella valor no i discendeanti che ’l sol la faccia gentil cosa;poi che n’ha tratto fòreper sua forza lo sol ciò che li è vile,stella li dà valore:

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così lo cor ch’è fatto da naturaasletto, pur, gentile,donna a guisa di stella lo ’nnamora. Amor per tal ragion sta ’n cor gentileper qual lo foco in cima del doplero;spendeli al su’diletto, clar, sottile;no li stari’ altra guisa, tant’è fero.Così prava naturarecontra amor come fa l’aigua il fococaldo, per la freddura.Amore in gentil cor prende riveraper suo consimel lococom’ adamàs del ferro in la minera. Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:vile reman, né ’l sol perde calore;dis’omo alter: «entil per sclatta torno»;lui semblo al fango, al sol gentil valore:ché non dé dar om fé che gentilezza sia fòr di coraggioin degnità d’ere’sed a vertute non ha gentil core,com’aigua porta raggio

e ’l ciel riten le stelle e lo splendore. Splende ’n la ’ntelligenzïa del cieloDeo crïator più [’n] nostr’occhi ’l sole:ella intende suo fattor oltra ’l cielo,e ’l ciel vogliamo, a Lui obedir tole;e consegue, al primero,del giusto Deo beato compimento;così dar dovria, al vero,la bella donna, poi che [’n] gli occhi splendedel suo gentil, talentoche mai di lei obedir non si disprende. Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»sïando l’alma mia a lui davanti.«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venistie desti in vano amor Me per semblanti:ch’a Me conven le laudee a la reina del regname degno, per cui cessa onne fraude».Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianzache fosse del tuo regno;non me fu fallo, s’in lei posi amanza».

Il contenuto: L’amor e il cuor gentile sono inscindibili, connaturati, come il sole e la luce, il calore e la fiamma; un cuore eletto, puro, gentile viene ridestato all’amore dalla donna e questo amore è l’espressione più alta della sua intima nobiltà, infatti, non deriva ereditariamente da una tradizione familiare, ma coincide con la virtù che è personale conquista e che l’amore potenzia; come Dio risplendendo nell’Intelligenza Angelica, fa sí che questa attui nell’universo la Sua volontà creatrice e provvidenziale, così la donna, splendendo nell’animo dell’amante, lo dispone al raggiungimento della perfezione morale; un amore così concepito non è peccato, ma principio di purezza e di elevazione spirituale, non contrasta quindi con le leggi divine.” (Pazzaglia, Vol I, p.180/181).

Questa canzone del Guinizzelli fu un tempo considerata come il manifesto della scuola stilnovista.

Oggi la poesia suscita interesse non tanto per il contenuto, ma per l’entusiasmo giovanile con cui vengono espressi i concetti.

Abbiamo una forte presenza delle immagini della natura, il sole, il fuoco, l’acqua, il verde, le stelle, il cielo, ecc.

GUIDO CAVALCANTI

da PAZZAGLIA, Mario Testi e lineamenti di letteratura italiana ed europea. Bologna: Zanichelli, 1982.

Nacque da nobile famiglia fiorentina tra il 1255 e il 1259.

Fu guelfo di parte bianca, intimo amico di Dante.

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È rappresentato dai cronisti del tempo (appare anche in una novella di Boccaccio) come un uomo aristocratico, nei modi e nel sentire, e schivo, sdegnoso, solitario e intento allo studio (p.190)

“Al centro del canzoniere cavalcantiano sta l’esperienza dell’amore, colta, com’è proprio degli stilnovisti, nel suo carattere di sublime avventura dell’anima. Ma negli schemi della poesia amorosa il Cavalcanti esprime un intimo tormento, una tristezza accorata (amargurada), un senso d’angoscia che lo distinguono sia dal Guinizzelli sia da Dante e che rivelano una visione dolorosa non solo dell’amore, bensì della vita in genere” (p.190).

la canzone manifesto di Cavalcanti è Donna me prega perch’eo voglia dire. Si capisce in essa che il poeta “concepisce l’amore come passione, propria della parte sensitiva dell’animo, e quindi non come spinta al perfezionamento delle virtù morali, ma come sentimento violento e tormentoso, come sofferenza e, spesso, come distruzione di’ogni facoltà fisica e spirituale” (p. 190).

“La donna per Cavalcanti non è faro di luce e di spirituale perfezione, ma creatura terrena, la cui bellezza sensibile è fonte per il poeta di rapimento estatico e giocoso, senza però che questo sentimento s’innalzi a un’idealità superiore, morale o religiosa. Amore è dunque per il poeta forza tirannica e impetuosa, ci affascina e al tempo stesso ci addolora col miraggio di una felicità e pienezza di vita che si rivelano illusorie o irragiungibili (p.191)”.

“La poesia del Cavalcanti cerca di definire i moti più inaferrabili della coscienza, di ascoltare ed esprimere il loro interno dialogo, è tutta pervasa da un ritmo evanescente e gentile, sospesa in una luce irreale” (p.191).

GUIDO CAVALCANTIChi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,che fa tremar di chiarite l’âree mena seco Amor, sì che parlarenull’omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira,dical’Amor, ch’i’nol savria contare:

cotanto d’umiltà donna mi pare,ch’ogn’altra ver’ di lei i’la chiam’ira.

Non si poria contar la sua piagenza,ch’a le’s’inchin’ ogni gentil vertute,e la Beltate per la sua dea mostra.

Non fu sì alta già la mente nostrae non si pose ’n noi tanta salute,che propriamente n’avian conoscenza.

In questo sonetto abbiamo un’allusione a quello del Guinizzelli Io voglio del ver la mia donna laudare , ma l’atmosfera, soprattutto nei primi quattro versi, è nuova e tutta cavalcatiana, per

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quel tremare e sospirare dell’anima, all’apparire della donna, come davanti a una rivelazione sublime e sconvolgente. La bellezza è la rivelazione di qualcosa di più grande, di un infinito che attira il cuore e, al tempo stesso, gli dà un senso di stupore sbigottito. La poesia del Cavalcanti è tutta in questi impeti improvvisi, in questa modulazione di canto estatico e rapito. Le terzine rientrano in una più convenzionale lode stilnovistica.

Brano tratto da - PAZZAGLIA, M. Testi e lineamenti di letteratura italiana ed europea. Vol I. Bologna: Zanichelli, 1982. P.193.

GUIDO CAVALCANTIPerch’i’ no spero di tornar giammai

Perch’i’ no spero di tornar giammai,ballatetta, in Toscana,va’tu, leggera e piana,dritt’a la donna mia,che per sua cortesiati farà molto onore.

Tu porterai novelle di sospiripiene di dogli’e di molta paura;

ma guarda che persona non ti miriche sia nemica di gentil natura:

ché certo per la mia disaventuratu saresti contesa,tanto da lei ripresache mi sarebbe angoscia;

dopo la morte poscia,pianto e novel dolore.

Tu senti, ballatetta, che la mortemi stringe sì, che vita m’abbandona;

e senti come ’l cor si sbatte forteper quel che ciascun spirito ragiona.

Tanto è distrutta già la mia persona,ch’i’ non posso soffrire:

se tu mi vuoi servire,mena l’anima teco(molto di ciò ti preco)quando uscirà del core.

Deh, ballatetta mia, a la tu’amistatequest’anima che trema raccomando:

menala teco, nella tua pietate,a quella bella donna a cu’ti mando.

Deh, ballatetta, dille sospirando,quando le se’presente:«Questa vostra serventevien per istar con voi,partita da coluiche fu servo d’amore».

Tu, voce sbigottita e debolettach’esci piangendo de lo cor dolente,

coll’anima e con questa ballattetava ragionando della strutta mente.

Voi troverete una donna piacente,di sì dolce intellettoche vi sarà dilettostarle davanti ognora. Anim', e tu l’adorasempre, nel su’valore.

È uno dei componimenti più famosi di Cavalcanti, anche per la rispondenza che la critica romantica (segnatamente il De Sanctis) volle vedere tra le vicende biografiche del suo autore (l'esilio di Sarzana, la malattia ivi contratta [?], la morte) e i concetti espressi in questa ballata. In realtà nulla autorizza a individuare nell'esilio il periodo di composizione....

Qui siamo al punto di maturazione massima di temi già noti dalla letteratura' provenzale e siciliana, che s'incontrano con la personale e intellettualissima esperienza esistenziale del Cavalcanti. Il topos del distacco della donna, della lontananza e del conseguente dolore aveva già trovato molti poeti... : ciò che però distingue Cavalcanti è la sua palese volontà, al solito , di rendere di valore assoluto un'esperienza, di liberarla dalla scenografia di contingenti rapporti interpersonali per elevarla a metafora di una condizione di vita. Non per nulla il topos si innestava in un'ideologia in cui il dolore, l'angoscia, quindi la morte spirituale, divenivano naturalmente la conseguenza necessaria della stessa struttura fisiologica e psicologica dell'uomo: tanto che il ruolo dell'autore si identificava con la descrizione del suo stato , della sua distruzione e quindi del Valore da lui identificato ed espresso (con il recupero conseguente, altrimenti

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inspiegabile, della causa dello "sbigotimento", la donna, la "veduta forma" della canzone teorica: "Anim'e tu l'adora / sempre, nel su'valore").

Che il tentativo sia ottimamente riuscito lo dimostra l'emblematicità assunta dal componimento e la lettura completamente destoricizzata di cui è stato fatto oggetto fino al giorno d'oggi, al di là certo delle stesse intenzioni dell'autore.

ASOR ROSA, A. La poesia del Duecento e Dante. A cura di Roberto Antonelli. Firenze: La Nuova Italia, 1974. P.184.

DANTE ALIGHIERI

Vita:

Nacque a Firenze nel maggio del 1265 da una famiglia guelfa della piccola nobiltà.

Condusse nella giovinezza vita elegante e “cortese”.

Compì studi severi sotto l’orientamento di Brunetto Latini e poi presso l’Università di Bologna.

Dante fu legato ai problemi culturali e politici del suo tempo.

Fu amico di Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia. In questo periodo scrisse delle Rime, le più importante dedicate a Beatrice, figlia di Folco Potinari, che Dante amò fin dall’adolescenza, ricingendo questo amore dell’alone vago e gentile della spiritualità stilnovistica (Pazzaglia - p.289).

Beatrice morì nel 1290 e il nostro ebbe un periodo di crisi spirituale, legata a una problematica culturale e spirituale più complessa anche per il difficile momento politico che la città di Firenze attraversava.

La sua partecipazione alla vita politica del comune di Firenze si fece più itensa dopo il 1295, anno in cui sposò Gemma Donati. In questo periodo gli Ordinamenti della Giustizia vietarono la partecipazione alla politica a chi non fosse scritto a una delle Arti, Dante allora si scrisse all’Arte dei medici e degli speziali, la più vicina ai suoi studi di carattere filosofico (Petronio, p.287).

Ebbe vari incarichi al comune di Firenze; fu coinvolto nella contesa tra i guelfi Bianchi e i Neri e prese posizione contro il papa BonifacioVIII (dei Neri) che tendeva al controllo della politica fiorentina.

Tra il 1292 e il 1294 scrisse la Vita Nuova.

Nel 1300 dal 15 giugno al 15 agosto, giunse alla suprema magistratura comunale, fu cioè Priore. In questo periodo condannò all’esilio l’amico Guido Cavalcanti.

Sorpreso a Roma o lungo la via del ritorno dalla caduta dei Bianchi, nel 1301, fu condannato all’esilio, per le false accuse di batteria, cioè di appropriazione indebita del pubblico denaro, di azioni ostili al papa e volte a turbare la pace della città. Non essendosi presentato a scolparsi (perché questo avrebbe significato mettersi nelle mani dei nemici) fu condannato a essere bruciato vivo se fosse caduto nelle mani del Comune.

Cominciò così il suo lungo pellegrinaggio per l’Italia, incalzato dalla povertà e dalla angosciosa nostalgia della patria diletta, proteso all’affannosa e spesso umiliante ricerca di una sistemazione come uomo di corte.

Le sue più importanti opere furono scritte in esilio.

Tra il 1303 e il 1307 scrisse il Convivio e il De vulgari eloquentia, “come testemonianza della propria cultura e elevatezza morale. Le due opere rimasero però interrotte.” (pazzaglia, p.

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“L’esilio allontanava così Dante da ogni considerazione municipalistica, ampliava il suo sguardo da Firenze all’Italia e al mondo; soprattutto gli dava la certezza di essere martire e combattente della giustizia, di avere per questo il diritto di parlare agli uomini, di guidarli alla riconquista della giustizia, della verità e della pace. È questa la profonda vocazione profetica e riformatrice da cui nasce la Divina Commedia” (Pazzaglia, p.291).

Nel 1310 discese in Italia l’imperatore Arrigo VII, imperatore del Sacro Romano Impero, che intendeva riaffermare la sua giurisdizione sulla Penisola, fece sperare a Dante una prossima attuazione del suo ideale. Tra il 1312/13 scrisse la Monarchia, un trattato politico nel quale ribadiva appasionatamente le sue concezioni.

Durante l’esilio fu ospite (al servizio) di grandi signori come Can Grande della Scala a Verona e Guido della Polenta a Ravenna.

La (Divina) Commedia: - tra il 1304/1306 e il 1309 scrisse l’Inferno

tra il 1309 - 1313/14 scrisse il Purgatorio

tra il 1316 e, finito probabilmente poco prima della sua morte, 1321 scrisse il Paradiso.

Morì a Ravenna il 14 settembre 1321

ASOR ROSA, A. La poesia del Duecento e Dante. Firenze: La Nuova Italia, 1974.

Gli inizi della attività poetica di Dante sono ancora legati alla scuola siciliana e soprattutto guittoniana: residui non amplissimi ma certo significativi di queste esperienze presenti nelle su Rime «estravaganti» (cioè quelle non inserte nella Vita Nuova o nel Convivio).

Lo scarto decisivo della sua vita intellettuale giovanile è però rappresentato dall’adesione all’iniziativa stilnovistica, quale si esprimeva soprattutto nel suo rappresentante più qualificato, cioè il Cavalcanti.

È con Cavalcanti che la sua cultura poetica si sviluppa e si articola, secondo la descrizione del proprio Dante nella Vita Nuova.

La ricerca cavalcantiana incentrata sullo scavo approfondito del concetto d’amore e sulle sue articolazioni in sede esistenziale e culturale sono ben comprese e assimilate da Dante. (p.202)

Il momento di superamento del maestro viene con la Vita Nuova dove abbiamo “lo stile della loda”.

Dopo vedremo Dante superare a tutti i predecessori e farsi il più grande rappresentante della poesia stilnovistica. La decisione di riunire poesie sparse e di costruire una struttura narrativa compessiva è molto importante. Esprime la coscienza di chi è sicuro dell’interesse oggettivo della propria esperienza umana e culturale e la propone perciò a modello al suo pubblico di eletti, cui un altro eletto (l’autore stesso) offre però in più le ragioni ‘poetiche’ delle capacità conoscitive dell’uomo, quali si esprimono nella cultura, e dà quindi un saggio dell’egemonia conseguibile su un piano sociale dal proprio ceto... Il pubblico della Vita Nuova è ... interregionale, urbano e cortese, non è un pubblico di una città particolare... ma si tratta sempre di un cittadino. (p.203- grifo meu).

Nelle poesie dello Stil novo, e di Dante in particolare, non appaiono più «i lamenti consueti

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negli altri rimatori per la durezza della donna e... il frequente domandar ‘mercede’; ma invece l’esaltazione di lei come un miracolo di gentilezza e di virtù, e come una creatura mandata da Dio sulla terra non soltanto per la salute del suo fedele, ma per tutti quelli che da natura fossero disposti a intendere la sua nobiltà... (p. 203/204).

La Divina CommediaDante Alighieri

PAZZAGLIA, M. Testi e lineamenti di letteratura italiana ed europea. Vol I. Bologna: Zanichelli, 1982.

LA STRUTTURA DELLA Commedia: è un poema in terzine diviso in tre cantiche, l’inferno (34 canti), il purgatorio (33 canti) e il Paradiso (33 canti) = 100 canti. Il testo presenta è composto di 14.233 versi endecassilabi (in terza rima).

Dante ha cominciato a scrivere l’opera, probabilmente, nel 1307, quando era già in esilio. Le prime due cantiche erano già pubblicate nel 1319. L’ultima è stata pubblicata dopo la morte dell’autore. Si dice cha Dante abbia lavorato sull’ultima cantica fino agli ultimi giorni della sua vita.

IL SIGNIFICATO DEL TITOLO: La Commedia è il poema della vita umana, colta nella sua mescolanza di sublimità e miseria (per cui il poeta mescola lo stile alto - tragico - a quello comico - medio). Lo stile comico, ossia, medio, era atto e potente ad esprimere le molteplici tonalità della vita umana.

Molti critici l’hanno chiamata Divina a cominciare dal Boccaccio, però il titolo Divina Commedia è apparso per la prima volta nel 1555, in una edizione a cura di Ludovico Dolce, stampata a Venezia da Giolito (dizionario TEA, p.124).

LA TRAMA: Nell’anno del giubileo, 1300, il venerdì santo (infatti comincia nella notte del giovedì, 7 aprile), il poeta, giunto a metà del corso della vita mortale (35 anni) immagina (o sogna) di trovarsi smarrito nella selva oscura del peccato. Invano tenta di fuggirne, gli impediscono tre selvagge fiere (la lonza, il leone e la lupa - rappresentanti della lussuria, della superbia e della cupidigia). Quando il poeta crede di essere vinto dalle fiere, appare Virgilio, che gli rivela che potrà salvarsi soltanto se affronterà un viaggio attraverso i tre regni dell’oltretomba e gli dice ancora che è stato mandato da Beatrice, che dall’alto dei cieli veglia su di lui e che questo viaggio è voluto da Dio. Dante incoraggiato dalle parole di Virgilio decide allora di seguirlo nel cammino per i regni sconosciuti.

IL PERSONAGGIO DI DANTE rappresenta l’umanità sommersa nell’errore e nel peccato, soprattutto per la carenza delle guide spirituali che Dio stesso ha stabilito, cioè il Papa e l’Imperatore.

VIRGILIO, il cantore dell’Impero Romano, rappresenta la ragione umana, fondata sulla ricerca della verità e della giustizia terrena.

BEATRICE rappresenta la Grazia, appare come uno stimolo all’elevazione spirituale di Dante, una volta che perfeziona la natura umana e la dispone ad accettare la verità rivelata da Cristo, e quindi eleva l’uomo al divino e all’eterno.

Il viaggio di Dante assume fin dall’inizio il carattere non solo di purificazione individuale, ma di una missione che Dio affida al poeta affinché egli possa rivelare agli uomini le leggi che devono regolare le loro vita, unica via che conduce a un mondo migliore, a un’umanità purificata e redenta. La Commedia si configura allora come una grande profezia, come un poema “sacro” e fin dall’inizio Dante unisce la sua vicenda personale e la sua redenzione alla vicenda e la redenzione dell’umanità.

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Il viaggio di Dante si divide in tre momenti, corrispondenti a tre posizioni della vita dell’anima nel suo cammino dal peccato alla Grazia.

L’inferno rappresenta il peccato, il rinchiudersi dell’anima che ha dimenticato della sua vocazione verso l’infinito e l’eterno e si è lasciata vincere dalle passione e dall’orgoglio, dalla cupidigia e dal matto desiderio di potere e richezze.

Il Purgatorio è un momento in cui l’uomo, avendo riconosciuto che il peccato è la degenerazione della propria natura e che solo in Dio può acquistare la pienezza, si libera, attraverso la penitenza, da ogni disposizione peccaminosa e ricerca l’originaria purezza che aveva al momento della creazione.

Il Paradiso è la cantica dell’ardore mistico e, insieme, della suprema rivelazione intellettuale, dato che conoscenza e amore di Dio, somma verità e bontà, sono gli elementi inscindibili della vita cristiana. Inoltre è il poema della grazia divina che si espande gioiosa e possente per tutto l’universo e lo compone in un’armonica unità.

L’importanza del contenuto filosofico dottrinale della Commedia, non consiste nella sua grandezza. Il capolavoro di Dante è grande perché grande è la sua poesia, che espressa un’esperienza umana vasta e profonda, in un quadro nel quale tutte le voci della nostra umanità, dalle più umili alle più alte, sono drammaticamente presenti.

Secondo gli studiosi, l’interpretazione della Commedia si può desumere da un passo del Convivio (altro Poema di Dante) in cui il Sommo Poeta schematizza il senso che è possibile dare alle scritture:

letterale, secondo cui il Poema descrive un viaggio nell’aldilà iniziato presumibilmente il Venerdì santo dell’anno 1300 (8 aprile);   allegorico, secondo cui il Poema è un’allegoria del percorso che deve seguire l’uomo per

giungere alla salvezza;  morale, secondo cui il Poema comprende delle considerazioni filosofiche sulla condizione

dell’uomo ed è un’esortazione all’Umanità del proprio tempo;  anagogico, in cui l’interpretazione allegorica permette al lettore di elevarsi ad un piano

superiore, attraverso la comprensione del denso simbolismo contenuto nel Poema e ai suoi numerosi riferimenti alla letteratura religiosa Secondo gli studiosi, l’interpretazione della Commedia si può desumere da un passo del Convivio (altro Poema di Dante) in cui il Sommo Poeta schematizza il senso che è possibile dare alle scritture: letterale, secondo cui il Poema descrive un viaggio nell’aldilà iniziato presumibilmente il

Venerdì santo dell’anno 1300 (8 aprile); allegorico, secondo cui il Poema è un’allegoria del percorso che deve seguire l’uomo per

giungere alla salvezza; morale, secondo cui il Poema comprende delle considerazioni filosofiche sulla condizione

dell’uomo ed è un’esortazione all’Umanità del proprio tempo;  anagogico, in cui l’interpretazione allegorica permette al lettore di elevarsi ad un piano

superiore, attraverso la comprensione del denso simbolismo contenuto nel Poema e ai suoi numerosi riferimenti alla letteratura religiosa.

Da: http://www.edicolaweb.net/arti057a.htm

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DIVINA COMMEDIA

L’ INFERNO

Il regno della dannazione, come Dante lo ha concepito, si estende verso il centro della terra, sotto Gerusaleme, in nove cerchi concentrici che vanno restringendosi dall’alto in basso,è un immenso abisso a forma di imbuto (funil), e in essi i dannati sono distribuiti in modo che le pene, in relazione alle colpe, sono tanto più gravi quanto più si scende. Questa progressione di gravità corrisponde alla teoria aristotelica esposta da Virgilio nel canto XI, sulla quale è basata la struttura morale dell’inferno dantesco, che consiste in una triplice ripartizione dei peccati, per incontinenza, violenza o matta bestialità, malizia.

Il 1º genere di peccati è meno gravi perché comprende le colpe commesse per il sorvecchiare della passione sulla ragione .

Il 2º e il 3º genere di peccati sono più gravi per l’intervento, nel peccato, della ragione e della volontà.

L’Inferno rappresenta il peccato, cioè il rinchiudersi dell’anima, dimentica della sua vocazione verso l’infinito e l’eterno nella materialità e nel tragico limite della passione; è la vita terrena fine a se stessa, chiusa nella sua miseria e nel suo effimero essere di cui i dannati avvertono, ora tragicamente, tuta l’insufficienza, ma invano, perché qui è morta per sempre la speranza, e con essa la vita e ogni possibilità di riscatto. I colloqui tragici e desolati col poeta, i dannati gli rivelano il loro peccato e il loro destino di disperata, eterna solitudine e morte.

Il paesaggio cupo e tenebroso, la natura selvaggia e snaturata riflettono il caos, la disperazione.

L’Inferno è un’immensa voragine che ha la forma di un cono rovesciato e giunge fino al centro della terra. I peccatori sono suddivisi in nove cerchi.

L’Inferno è il tormento eterno che nasce dalla privazione di Dio, unica e vera felicità dell’uomo e dalla condanna ad essere sempre soli con se stessi e col proprio infamante e avvilente peccato.

DIVISIONE DEI CERCHI INFERNALI

Dante immagina di cominciare il suo viaggio nel venerdì santo del 1300 (il 7 aprile)

L’ANTINFERNO

canto III

IGNAVI

L’ACHERONTE -è il primo fiume che porta le anime all’inferno,nella barca di Caronte.

costretti a correre dietro a un’insegna, nudi, perseguiti da mosconi e vespe.

{Celestino V}

I. LIMBO

canto IV

I non battezzati, i pagani, maomettani illustri, eroi e sapienti dell’antichità pagana.

Non soffrono pene materiali, ma sospirano perché sono private della visione di Dio, per l’eternità.

II. LUSSURIOSI

canto V

All’entrata di questo cerchio c’è Minosse che giudica le anime. {Paolo e Francesca da Rimini, Cleopatra, Elena da Troia}

Sono travolti da una bufera incessante (è la legge del contrapasso) quelli che si lasciarono travolgere dalle passioni, ora sono travolti dalla bufera

III. GOLOSI A guardia di questo cerchio sta I golosi giacciono bocconi a

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canto VI Cerbero, che latra caninamente con tre gole. {Ciacco}

terra, costretti a mangiare fango e a bere acqua sporca, sotto una pioggia di grandine.

IV. AVARI E PRODIGHI

canto VII

A guardia di questo cerchio sta Pluto, il mitologico Dio delle richezze, che accoglie il poeta con oscure parole d’ira e di minaccia.

{qui la maggior parte dei peccatori è gente della Chiesa}

I dannati sono costretti a volgere per forza di petto grandi massi, e, divisi in 2 schiere, percorrono in senso opposto i 2 semicerchi: quando s’incontrano si dicono mutua/e le loro colpe.

V. IRACONDI E ACCIDIOSI

Accidia in questo caso è il tedio dell’animo.

canto VIII

Questo cerchio è costituito dalla pallude dello STIGE {Filippo Argenti}

Il conducente della barca che attraversa lo stige è Flègias.

Qui gli iracondi si dilacerano nel fango e gli accidiosi giaciono in fondo al fiume.

Alle porte della città di dite, i diavoli si opongono all’entrata dei viaggiatori, chiudoendogli le porte in faccia e chiamando Medusa perché, con il suo sguardo, impietrisca Dante. Virglilio gli copre gli occhi con le mani. Una specie di bufera sorge dal cielo, apre le porte e sparisce tanto veloce come apparve.

CITTÀ DI DITE (O DI LUCIFERO) canto IX

CERCHIO PECCATORI CASTIGO

VI. ERETICI ED EPICUREI

canti X e XI

Gli epicurei non credevano all’immortalità dell’anima.

{Farinata degli Uberti- uno dei più fieri ghibelini di Toscana}

Qui ci sono delle tombe infocate.

VII. VIOLENTI

DIVISO IN TRE GIRONI

A guardia c’è il Minotauro e i Centauri - il cui capo, chirone, da ai poeti come guida Nesso.

canti XII a XVI

1º In questo giro c’è il FLEGETONE - fiume di sangue bollente (Attila)

2  In una selva paurosa sono i violenti contro sé stessi e i propri averi. {Pier della Vigna}. I suicidi perdono la forma umana.

3  Qui sono i violenti contro Dio (bestemmiatori)- e contro la natura. (sodomiti)

1  Sono immersi nel Flegetone i violenti contro la vita e gli averi del prossimo.

2° I suicidi sono trasformati in alberi. Le loro foglie sono straziate da Arpie. Quelli che hanno buttato via le richezze sono perseguitati e sbranati da feroci cagne nere.

3° Sono in un deseto arenoso sul quale piove fuoco. {Brunetto Latini}

VIII. MALEBOLGE

FRAUDOLENTI

Il cerchio delle malebolge è

1ª sedutori

2ª adulatori

3ª simoniaci (che hanno fatto

1° camminano in senso inverso e sono battuti da demoni.

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diviso in 10 bolge o valli circolari concentriche.

canti XVII a XXX

commercio di cose sacre - {Papa Niccolò III} (canto XIX)

4ª indovini (canto XX)

5ª barattieri (appropriazione indebita dei soldi pubblici.- XXI)

6ª ipocriti (cantoXXIII)

7ª ladri (canto XXIV e XXV)

8ª Consiglieri fraudolenti {Ulisse e Diomede} (Canto XVI)

9ª seminatori di discordie, di scandali e di scismi {Maometto}

10ª falsari di metalli, di persone, di parole.

2º immersi nello sterco

3º confitti capovolti in piccoli pozzi e con le piante dei piedi accese in viva fiamma.

4º costretti a camminare lentamente, col viso stravolto verso la parte posteriore del corpo

5º tuffati entro la pece (piche) bollente

6º camminano lentamente sotto il peso di cappe di piombo dorato al di fuori.

7º corrono fra serpenti e sono anch’essi trasformati in serpenti.

8º rinchiusi entro lingue di fuoco.

9º sono feriti e straziati dalla spada di un demonio.

10º afflitti da varie ripugnante malattie -lepra- (cantoXXIX)

IL COCITO

Finite le malebolge, i viaggiatori vedono giganti dal ventre in su con la parte inferiore dell’immenso corpo addossata alla parete del corpo, e i piedi piantati sul fondo. Uno di essi, Anteo, sollecitato da Virgilio, prende i poeti e li depone sul fondo, nella pianura gelata del Cocito.(canto XXXI)

CERCHIO PECCATORI CASTIGO

IX. TRADITORI

C’è l’ultimo fiume dell’inferno: il COCITO

canto XXXII a XXXIV

Sono distinti in quattro regioni:

1ª Caina - traditori dei parenti

2ª Antenora - traditori della patria (prende il nome da Antenore traditore di Troia) - {Ugolino}

3ª Tolomea - traditori degli ospiti (prende nome da Tolomeo governatore di Gerico)

1  immersi nel giaccio con viso all’ingiù.

2  immersi nel ghiaccio col viso eretto.

3  immersi nel ghiaccio col viso fuori, le loro lacrime si raffredano immediatamente: la loro anima pùo piombare nell’inferno appena compiuto il tradimento, mentre il corpo vive ancora sulla terra,

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4ª Giudecca - traditori dei benefattori (della Chiesa e dell’Impero)

(cano XXXIV)

occupato da un demonio.

4  i dannati sono totalmente confitti entro il ghiaccio, distesi o diritti o stravolti. Nel centro, che è pure quello della terra, sta sospeso Lucifero.

Lucifero, mostruoso, ha sei ali e tre facce, una rossa, una gialla e una nera, simboli, rispettivamente, dell’odio, dell’impotenza e dell’ignoranza.

Nelle tre bocche egli lacera coi denti Giuda, Bruto e Cassio, traditori di Cristo, e di Cesare, cioè delle supreme autorità, spirituale e temporale.

Virgilio, fattosi abbracciare al collo da Dante si lascia calare giù lungo le coste vellose di Lucifero sino al centro della terra, lo attraversa e, capovolgendosi, risale lungo le gambe del mostro infernale.

I due poeti si trovano così nell’emisfero australe e per un cammino buio e malagevole, risalendo il corso di un ruscelletto, camminano senza riposo, finché per un pertugio (buraco, abertura) tondo, riescono a «riveder le stelle». È il 9 aprile (dizionario TEA, p.124 a131).

IL PURGATORIO

L’architettura del Purgatorio è molto più semplice di quella dell’Inferno , perché nel Purgatorio ci sono sono quelli che hanno commesso uno dei 7 peccati capitali. I ladri , gli assassini, i fraudolenti e i traditori non hanno nessuna speranza di salvezza.

Il purgatorio è una montagna che sta nell’oceano disabitato che ricopre la metà meridionale, australe, della sfera terrestre. Ha la forma di un cono, però lassù non vi è una punta, ma una pianura.

Il Purgatorio è antipodo di Gerusalemme, cioè è posto nella sfera terrestre nel punto diametralmente opposto a Gerusaleme; tutto ill mondo dantesco si svolge intorno a una linea ideale, che, partendo, da sotto questa città, è per così dire l’asse intorno al quale si apre il grande imbuto infernale, raggiunge il centro della terra, risale nell’emisfero australe, costituisce l’asse interno della montagna del Purgatorio, per sboccare quindi nel centro del Paradiso terrestre. (BOSCO, Umberto Dante - il Purgatorio. 2.ed. Torino: ERI, 1967. p.8)

Ai piedi della montagna c’è una spiaggia. La parte inferiore del monte e la spiaggia costituiscono l’antipurgatorio. Il purgatorio comincia solo a una certa altezza della montagna.

Il purgatorio è diviso in sette gironi, in ognuno di essi si espia una dei sette vizi capitali in ordine decrescente di gravità. Il girone più lontano da Dio, ospita i superbi e l’ultimo i lussuriosi. I peccatori che possono avere speranza di salvezza sono: i superbi, gli invidiosi, gli iracondi, gli accidiosi, gli avari e i prodighi, i golosi e i lussuriosi.

Il custode della montagna è Catone Uticense, eslatato da Dante nel Convivio come “il più santo degli eroi, il più degni di significare Iddio , eroe e simbolo della fedeltà alla libertà morale, mantenuta a costo della vita, e perciò posto qui dove le anime, attraverso l’espiazione materiale e spirituale, si vanno conquistando la libertà dello spirito. (Dizionario TEA, p.131).

Virgilio spiega a Catone la ragione del loro viaggio e gli chiede permesso di condurre Dante

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per i girone del Purgatorio. Catone gli ordina allora di lavare il viso di Dante e di cingerlo con uno dei giunchi che nascono m verso la spiaggia, questo è un rito simbolico di purificazione e umiltà.

la seconda cantica è una lunga preparazione al ritorno di Beatrice, ed è naturale che riaffiorino alla memoria poetica di Dante quelle tonalità formali che erano state al centro dell'esperienza verbale della Vita Nuova. Attraverso strappi, diversioni verso il recupero realistico, memorie della presente situazione d'Italia, incontri con amici e con poeti (è il Purgatorio la cantica dove più fitto vive il motivo del reincontro con gli amici della giovinezza e con i maestri del suo tirocinio letterario), tutta la cantica tende verso il ritorno di Beatrice, e ciò reca con sé echi delle occasioni poetiche più elevate della Vita Nuova, reminiscenze di alcune ballate dalla ondosa musicalità, di erranti fantasmi di sogni "cortesi" come nel sonetto Guido, i' vorrei, momenti di abbandono. (PETROCCHI, G. Il Purgatorio di Dante. Milano: BUR saggistica, 1998.)

LE GOFF, J. La nascita del Purgatorio. Torino:Einaudi, 1996.p.386)

La purgazione sulla montagna si compie in tre modi: con un castigo materiale (che mortifica le passioni e incita alla virtù); con la meditazione sul peccato da purgare e sulla virtù che ne è l’opposto (il Purgatorio contiene un trattato delle virtù e dei vizi), con la preghiera che purifica l’anima, la fortifica nella grazia di Dio e ne esprime la speranza. (LE GOFF, J. La nascita del Purgatorio. Torino:Einaudi, 1996.p.386)

Il principio che informa la ripartizione delle anime nei gironi è l’amore. Il fondamento comune di tutti i peccati è l’assenza dell’amor di Dio, cioè del bene... La montagna del Purgatorio restaura il vero amore, la scalata del Purgatorio è una risalita verso il bene. (387)

Tutta la logica di questo Purgatorio montano risiede nel progresso che si compie salendo: ad ogni passo l’anima progredisce, diventa più pura [e più leggera – e più rapida, al contrario di quelle che vanno nell’antipurgatorio]. (p.387)

Nel Purgatorio la giustizia divina (che fa soffrire le anime) si confonde con la misericordia e con la speranza di modo che attenua la sofferenza man mano che ci si eleva. (p.388)

L’ANTIPURGATORIO

Qui stanno gli scomunicati e le anime che tardarono a pentirsi fino all’estremo della vita, e perciò devono aspettare qui un tempo variamente stabilito, prima di cominciare la penitenza che gli porterà al Paradiso.

L’antipurgatorio ha vari Balzi(?) Nel primo si trovano quelli che tardarono a pentirsi per pura negligenza (Belacqua). Nel balzo seguente ci sono i negligenti morti violentementi)

Dante e Virgilio devono aspettare il giorno perché non si può salire di notte la montagna del purgatorio. Il poeta è portato a una valletta fiorita dove ci sono anche dei peccatori che tardarono a pentirsi. Dante dorme e sogna che è rapito da un’aquila, ma è salvato da Lucia che lo porta su. Infatti si sveglia alle porte del Purgatorio, dove un angelo con una spada gli scrive in testa 7 P., che rappresentano i 7 peccati capitali e gli saranno cancellati man mano che passerà per i gironi in cui si scontano le pene.

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I. - I SUPERBI - canti X, XI, XII.

I superbi camminano sotto il peso di pesanti massi che li costringono alla contem-plazione di sculture della superbia punita che ci sono nel pavimento.

II. - GLI INVIDIOSI - canti XIII e XIV.

Sono coperti dal cilicio e hanno gli occhi cuciti con fili di ferro, sono come mendi-canti , adossati l’uno all’altro e tutti alla parete livida della montagna.

III. - GLI IRACONDI - canti XV, XVI e XVII.

Sono immersi entro un soffocante fumo; e gliesempi di masuetudine e d’ira punita appaiono in una visione statica tutta interiore.

IV. - GLI ACCIDIOSI - canti XVII e XVIII.

Qui Virgilio espone a Dante la dottrina dell’amore che ha ispirato l’ordinamento morale del purgatorio. “Tanto il creatore quanto le creature sono soggetti alla legge d’amore. L’amore può essere naturale o d’animo. Il naturale non può peccare; l’amore d’ animo può peccare volgendosi al male o amando troppo o troppo poco il bene. Non potendo l’amore torcere il viso dal soggetto stesso che ama, né potendo il soggetto amante odiare il Primo indisgiungibile, cioè Dio, l’oggetto del male non può essere che il prossimo. Ora al prossimo si può far male in tre modi: sperando eccellenza dalla soppressione del vicino, cioè per superbia; agognado a vendicarsi delle offese, cioè per iracondia. Quanto all’amore del bene con falsa misura, se l’animo è troppo tiepido e lento a conoscere il Sommo Bene e a conseguirlo cade nell’accidia, che è appunto scontata, dopo giusto pentimento nel quarto girone; se l’animo corre con soverchia foga nei beni secondi, si cade in altri vizi, che si scontano nei gironi successivi.” E la ragione di questa ripartizione, Virgilio vuole che Dante la ricerchi da sé. ( MERCATALI, E. Et alii, Per capire la Divinna Commedia. Milano: Tascabili sonzogno, 1990. p. 89/90)

V. GLI AVARI E I PRODIGHI canti XIX a XXII.

Questi giacciono bocconi a terra legati nei piedi e nelle mani. Dante parla Con Adriano V (canto XIX) e Ugo Capeto (cantoXX). Improvvisamente il monte si scuote e da tutte le anime si leva un grido: Gloria in excelsis Deo. Questo succede ogni volta che un’anima ha scontato la sua pena. I due poeti incontrano Stazio, che comincia a parlare del grande Virgilio senza sapere che gli cammina accanto, quando Dante glielo dice lui vuol buttarsi ai piedi del poeta, perché la sua opera fu la causa della sua converzione al cristianesimo.

VI. I GOLOSI - canti XXII, XXIII e XXIV.

I golosi, irriconoscibili per la magrezza, soffrono la sete e la fame in un bello bosco con acqua fresca e alberi di odorosi frutti.

VII. I LUSSURIOSI - canti XXV e XXVI.

Questo girone è tutto investito dalle fiamme che emanano della costa del monte, restando immune solo l’orlo esterno. Il sole proietta sulle fiamme l’ombra di Dante con meraviglia dei peccatori. Questi sono divisi in due schiere - gli incontinenti e i peccatori contro natura - che camminano in direzioni opposte e, quando s’incontrano, si cambiano un breve bacio e gridano il proprio peccato. Un angelo invita i viaggiatori a andare di là delle fiamme. Dante ha paura e

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Virglio riesce a convincerlo, quando gli racconta che al di là potrà vedere Beatrice.

IL PARADISO

Da BOSCO, U. Dante - Il Paradiso. 2. ed. Torino: ERI, 1967.

Il Paradiso è composto di nove cieli concentrici, mobili e luminosi, distribuiti nello spazio secondo la concezione tolemaica (che crede immobile la Terra, ferma nel mezzo dell'Universo e mobile i cieli) e tutti compresi entro l'Empireo immobile, costitiscono il regno della eterna beatitudine.

Dal Paradiso terrestre Dante sale con Beatrice al cielo della Luna, e poi di cielo in cielo, sino all'Empireo, dove dimorano, con gli angeli, le anime dei beati.

Prima di vedere tutte le anime raccolte nell'Empireo, il poeta, per grazia divina, le vede nei singoli cieli dai quali le loro indoli furono particolarmente improntate, in modo da poter comprendere i diversi gradi della loro beatitudine.

Il tono poetico del paradiso è diverso dalle altre 2 cantiche, perché Dante deve esprimere l'extra-umano: cioè descrivere luoghi espettacoli che non hanno alcuna rispondenza con luoghi e spettacoli terreni. Nel Paradiso i beati non hanno individualità fisica, neppure un volto, poiché Dante immagina di non poter penetrare oltre la luce splendente che li fascia e nasconde; solo nei primi cieli riesce, imperfettamente a scorgere qualcosa (BOSCO, U., 1967. p.10/11).

I CIELI

"Dante, come tutti ai suoi tempi, credeva che gli astri esercitassero influssi sugli uomini: in particolare, ciascuno dei sette pianeti ne esercitava vari, uno tra i quali Dante considera principale" (BOSCO, U. 1967. p. 8)

Nel 1º cielo [della Luna - la cui caratteristica più importante è l'incostanza - è il più basso e meno veloce dei cieli ed è mosso dagli angeli] Dante vede gli spiriti che per violenza altrui non tennero compiutamente fede ai voti religiosi [Piccarda Donati e Costanza d'Altavilla - III canto].

Nel 2º cielo [di Mercurio di cui dipende l'amore di gloria terrena - mosso dagli Arcangeli] ci sono gli spiriti operanti virtuosamente nel mondo non solo per amore di Dio, ma anche per desiderio di gloria terrena [Giustiniano e Romeo da Villanova - VI canto]

Nel 3º cielo [di Venere di cui discende la tendenza all'amore e quindi anche a quello sensuale - mosso dai principati] ci sono gli spiriti amanti [Carlo Martello - canti VIII e IX].

Nel 4º cielo [del sole - che ispira sapienza - è in forma di duplice corona - mosso dai Podestà], ci sono gli spiriti sapienti [San Tommaso, San Bonaventura e altri 22 - canti X al XIII].

Nel 5º cielo [di Marte - legato alla combattività - in froma di croce luminosa - mosso dalle Virtù] ci sono gli spiriti dei combattenti, morti per la difesa della fede [Carlo Magno, Orlando, Cacciaguida e il trisavolo di Dante- canti XIV al XVII].

Nel 6º cielo [di Giove - legato alla giustizia - mosso dalle Dominazione] in figura prima di lettere formanti le parole Diligite iustitiam qui iudicatis terram (amate la giustizia voi che giudicate la Terra), e poi l'immagine di un'aquila. Qui ci sono gli spiriti giusti [David, Costantino, Traiano - canti XVIII al XX].

Nel 7º cielo [di Saturno - ispira desiderio di raccoglimento, di meditazione, sulle grandi verità

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morali e religiose - mosso dai Troni] disseminati lungo una scala che si innalza fino all'Empireo, ci sono gli spiriti contemplanti [San Pier Damiani e San Benedetto - canti XXI e XXII].

Nell'8º cielo [ delle stelle fisse - mosso dai Cherubini] il poeta assiste al trionfo di Cristo e di Maria, e da S. Pietro, S. Giacomo e San Giovanni è esaminato intorno alla Fede [da San Pietro], alla Speranza [da San Tiago] e alla Carità [da San Giovani - canti XXIII al XXVI]. Dante supera le prove, poi appare Adamo che spiega il peccato originale e San Pietro che parla sui Pontefici

Nel 9º cielo [Primo mobile - mosso dai Serafini], assiste al trionfo delle gerarchie angeliche, nove cerchi luminosi aggirantisi intorno a un punto piccolissimo di luce insostenibile, che è Dio, apprende da Beatrice la rispondenza dei novi cerchi angelici alle nove sfere celesti, il tempo, il luogo, il modo della creazione degli angeli e dei cieli [canti XXVII al XIX].

Nell'Empireo contempla la rosa mistica dei santi e dei beati. Tra Dio e i beati volano incessantemente gli angeli [canti XXX e XXXI], poi, per intercessione della Vergine [canto XXXIII], pregata da S. Bernardo che prende accanto a lui il posto di Beatrice, è fatto degno di levare lo sguardo a Dio, di cui conosce il mistero in fulgida visione [Dante vê Deus no mistério da Unidade, da Trindade, da encarnação. No fim do sonho de Dante (no qual realizou sua viagem) seu "disio" e "velle" - seu desejo e sua vontade, são uma coisa única com o "amor que move o sol e as estrelas].