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Associazione Italia-Tibet

20133 MILANO - Via Pinturicchio, 25Tel./fax 02.70638382

[email protected] - www.italiatibet.org

La storiaLo statusIl BuddhismoLa società tradizionaleIl Dalai LamaAmbiente Tibet: un problema crucialeLa bandiera nazionale

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TIBETdocumenti

La storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 5

Lo status . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 23

Il Buddhismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 27

La società tradizionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 30

Il Dalai Lama . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 31

Ambiente Tibet . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 35

La bandiera nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 41

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Dal mito ai sovrani di Yarlung

Le origini del popolo tibetano rimangono ancoraoggi piuttosto misteriose. Secondo la tradizionemitologica i remoti antenati degli abitanti delTibet sarebbero stati uno scimmione, consideratoun’incarnazione della deità Chenrezig e una sortadi orchessa venerata come nume tutelare dellamontagna. La loro unione avrebbe dato vita aduna bizzarra prole, strani esseri metà uomini emetà scimmie da cui, attraverso un considerevolenumero di generazioni, si evolse gradualmente larazza tibetana. Dimensione mitica a parte, lamoderna antropologia colloca i tibetani all’inter-no di quella vasta famiglia etnica nota con ilnome di ceppo mongolide che comprende diversipopoli dell’area centro asiatica. In effetti non èsemplice determinare con certezza l’origine degliabitanti del Tibet. Anche partendo da angoli divisuale molto grossolani, ad esempio la banaleosservazione fisica dei tratti somatici, vediamocome alcuni ricordino nell’aspetto dei mongolimentre altri siano più simili ai nativi d’America (icosiddetti “pellerossa”) e altri ancora possano aduno sguardo superficiale sembrare parenti strettidi giapponesi o cinesi. Pur essendo di fronte a unatale varietà di tipologie si possono comunque sta-bilire alcuni punti fermi. Gli abitanti delle regio-ni centrali di U e Tsang, e in larga parte anchequelli del Tibet occidentale, sono di staturamedia, hanno la testa rotonda e gli zigomi pro-nunciati. Quelli che vivono nelle province orien-tali e settentrionali, Kham e Amdo, sono invecedecisamente alti, dolicocefali e con gli arti piutto-sto sviluppati. Tratti comuni a tutti sono capellineri e lisci e occhi scuri dalla caratteristica forma“a mandorla”. Contrariamente all’elemento etni-co, quello linguistico non ha alcuna parentela conil mondo mongolico. La lingua tibetana presentapiuttosto punti di contatto con il birmano, tantoche gli studiosi parlano di tibeto-birmano, e conalcuni dialetti della regione himalayana. Nel tibe-

tano parlato si rintracciano anche alcune periferi-che influenze di origine cinese ma le due linguesono reciprocamente del tutto incomprensibili.

Così come quelle etniche, anche le origini sto-riche del Tibet sono ancora oggi poco conosciute.Le antiche tradizioni parlano di un’età mitica incui governava una dinastia di re celesti, una sortadi dei che esercitavano la loro funzione regalesulla terra. Di giorno questi monarchi divini vive-vano nel mondo degli uomini e di notte salivanomagicamente in cielo tramite una corda che vienedescritta come specie di arcobaleno. Questi recelesti, secondo le cronache tibetane, governavanofino a quando il loro primogenito imparava acavalcare (in genere verso i tredici anni) ed nellamaggiore età. L’ingresso del giovane nell’età adul-ta segnava il passaggio dei poteri dinastici e il vec-chio re moriva, nel senso che tornava definitiva-mente in cielo per mezzo della corda magica.

Il primo di questi monarchi discesi sulla terraviene considerato Nyatri Tsempo che arrivatonella valle del fiume Yarlung (Tibet centrale), viinsediò la omonima dinastia. Pare che prima del-l’arrivo del sovrano i tibetani non abitassero inedifici in muratura e vivessero per lo più in caver-ne e ripari naturali. Nyatri Tsempo fece compiereun passo decisivo all’evoluzione del popolo tibeta-no edificando il primo palazzo, quelloYumbulagang di cui si è appena parlato. NyatriTsempo e i suoi primi sei successori, salendo alcielo al momento della morte, non lasciavano spo-glie mortale e quindi non c’era la necessità dicostruire monumenti funerari. Fu solo a partiredall’ottavo re, Drigum Tsempo, che la corda magi-ca, in grado di assicurare ai sovrani la soprannatu-rale ascensione, venne tagliata e i loro cadaveri,dal momento che rimanevano sulla terra, avevanobisogno di una tomba. Il monumento funerario diDrigum Tsempo, che i tibetani chiamano ancora

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STORIA DEL TIBET

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“la prima tomba dei Re”, con la sua presenza visi-bile e concreta prova che questo sovrano esistetterealmente e con lui le vicende del Tibet entrano,se non nella Storia almeno in una sorta di preisto-ria dove alcuni elementi certi e databili comincia-no ad emergere dalle poetiche nebbie del mito.

Nella Storia vera e propria il Paese delle Nevivi entra circa verso il settimo secolo d.C. e in que-sto periodo presenta i tratti di una società feudale,fortemente gerarchicizzata e posta sotto il governodi Songtsen Gampo (noto anche come TrideSongtsen) il trentaduesimo re di Yarlung.Songtsen Gampo riuscì nell’arduo compito di riu-nire sotto un unico comando quel variegatomondo di tribù dell’Asia centro-settentrionaleche costituiscono l’elemento fondamentale del-l’etnia tibetana. Al tempo di questo sovrano quin-di, gran parte dell’odierno Tibet centrale è unifi-cato e i suoi abitanti sono in grado di compiereaudaci quanto fortunate scorribande militariall’interno dello stesso territorio cinese. Popolo dinomadi coraggiosi fino all’aggressività, dediti allapastorizia e con scarsa propensione alla vitasedentaria, i tibetani dell’epoca con le loro incur-sioni seminano il panico tra le popolazioni handella Cina. Sotto Songtsen Gampo Lhasa, l’unicoagglomerato urbano di un certo rilievo, diventa lacapitale del Paese e spedizioni militari condotteverso nord e ovest annettono al Tibet porzionisignificative dei territori limitrofi. Nel 635 ilsovrano sposa la principessa nepalese BhrikutiDevi (Belsa in tibetano) e nel 641 la figlia dell’im-peratore cinese T’ai Tsung, la giovane Wen-c’engKung-chu (Gyasa in tibetano). La tradizione rac-conta che queste due giovani donne portarono indote, tra altri innumerevoli tesori, anche alcunescritture e immagini sacre buddhiste che rappre-sentarono i primi elementi di Buddhismo ad esse-re introdotti nel Paese delle Nevi. Il dono piùimportante fu senza dubbio la statua di BuddhaSakyamuni che faceva parte della dote di Gyasa eche si dice fosse stata benedetta dallo stessoBuddha. Ancora oggi questa statua, che si trova aLhasa all’interno della cattedrale del Jokang, èmeta di un ininterrotto pellegrinaggio di fedeli.

Anche se la religione professata dalle due princi-pesse era quella buddhista non sembra però che ilBuddhismo, al di là di alcune pratiche esteriori,fosse seriamente seguito; rimaneva una religionestraniera fondamentalmente estranea sia al popo-lo sia agli stessi ambienti della corte. La vera tra-dizione spirituale del Tibet continuava ad essere ilBon, una sorta di religione della natura con vena-ture sciamaniche, radicato tra la gente e moltoinfluente tra i ranghi del governo e della nobiltà.

Tra gli innumerevoli meriti che vengono attri-buiti a Songtsen Gampo il più significativo è senzadubbio la sua determinazione nel voler dotare lalingua tibetana (fino ad allora priva di segni grafi-ci) di una sua peculiare scrittura. Sembra che l’esi-genza di una grafia derivasse soprattutto dall’inte-resse per il Buddhismo che provava il sovrano ilquale voleva che il suo popolo potesse leggere gliinsegnamenti dell’Illuminato. Songtsen Gampoinviò dunque in India un folto gruppo di eruditiallo scopo di trovare una scrittura che potesse adat-tarsi alla lingua tibetana e far sì che anche il Paesedelle Nevi avesse, come quasi tutti gli stati con cuiconfinava, la possibilità di tradurre in segni i suonifonetici. Thonmi Sambota, lo studioso a cui il reaveva affidato il comando dell’impresa, tornò inTibet solo dopo diversi anni portando con sé unasorta di alfabeto mutuato dalle scritture brahmi egupta, analoghe al sanscrito, e molto diffuse in queltempo nei regni dell’India centro-settentrionale ehimalayana. L’adozione di una scrittura di deriva-zione indiana sottolinea con forza il legame cultu-rale che, al di là delle differenze etniche, collega ilTibet all’India, legame che andrà sempre più raffor-zandosi nei secoli successivi grazie alla vasta (etutto sommato rapida) diffusione del Buddhismonel mondo tibetano. Come hanno fatto rilevarenumerosi autori, l’adozione di un tipo di scritturarappresenta una precisa scelta di campo culturaleche comporta profonde implicazioni le quali trava-licano gli ambiti di una opzione puramente tecnicaverso una particolare forma grafica per svilupparsiverso ben altri orizzonti. Creando una grafia cosìvicina al sanscrito il mondo tibetano compì, oltremille anni or sono, un passo che lo allontanò irre-

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versibilmente dall’area cinese cui lo legavano alcu-ne remotissime ascendenze etniche, per entrare apieno titolo nell’universo della koiné indiana.

Songtsen Gampo morì nel 649 e i suoi succes-sori ampliarono ulteriormente i confini del regnoche andava sempre più prefigurandosi come unodei principali, e temuti, poteri dell’Asia centrale.Nel 755 salì al trono Trisong Deutsen che passeràalla storia come il più importante di tutti i sovra-ni della dinastia di Yarlung. Trisong Deutsen ere-dita un impero forte e solido la cui stabilità inter-na e potenza militare erano state rafforzate daiquattro monarchi che avevano regnato negli oltrecento anni che intercorrono tra la scomparsa diSongtsen Gampo e il 755. Deciso, audace, spre-giudicato (almeno per quanto riguarda la politicaestera), Trisong Deutsen organizza brevi ma effica-ci spedizioni che arrivano a colpire e conquistareil cuore dell’impero cinese e costringono l’impera-tore del Regno di Mezzo a firmare un umiliantetrattato di pace. Trisong Deutsen però occupa unposto di particolare rilevanza nella storia del Tibetnon tanto per le sue brillanti imprese bellichequanto perché a lui si deve l’effettiva introduzio-ne sul Tetto del Mondo della religione buddhistache, nel volgere di una manciata di secoli, diverràil principale collante spirituale e culturale dell’in-tera nazione. Sin da giovane Trisong Deutsen simostrò estremamente incuriosto e interessato daquella dottrina che tanto successo aveva riscossoin India, Cina e in numerosi altri stati asiatici.Nonostante il parere negativo di molti suoi consi-glieri decise di invitare in Tibet alcuni tra i piùrinomati maestri buddhisti dell’epoca per diffon-dere, anche nel Paese delle Nevi, il messaggio delBuddha. Due furono le figure di maggior rilievoche dall’India giunsero in Tibet nell’ottavo secolo,Santarakshita e Padmasambhava. Il primo, un raf-finato erudito dell’università indiana di Nalanda,introdusse l’ordinamento monastico mentre ilsecondo, grazie alla forza di un incredibile carismapersonale, riuscì a superare le numerose resistenzeche gli ambienti Bon opponevano alla diffusionedella nuova fede. Sembra comunque che il con-fronto tra le due religioni sia avvenuto in modo

piuttosto pacifico e il “campo di battaglia” fosserappresentato sia da dibattiti filosofici sia dall’usodi quei “poteri miracolosi” così importanti per lapsicologia tibetana. Durante il regno di TrisongDeutsen il Buddhismo mise salde radici in Tibet. Ivecchi templi fatti costruire dalle mogli diSongtsen Gampo e lasciati andare in rovina daisuoi successori vennero restaurati. Fu edificatoSamye, il primo monastero buddhista e, come si ègià detto, Santarakshita ordinò alcuni monacitibetani. Delle due scuole Buddhiste che si con-frontarono in Tibet, quella “indiana” e quella“cinese” si affermò nettamente la prima. Varrà lapena di notare come anche questa scelta, sia purerelativa all’ambito religioso e motivata solo daragioni spirituali, accentui ancor più i legami dellacultura tibetana con l’India che può quindi consi-derarsi la vera ispiratrice della civiltà tibetanaavendogli fornito scrittura e religione.

Trisong Deutsen muore nel 797 ma la sua poli-tica viene continuata, anche se con minore effica-cia, da due dei suoi quattro figli: Muni Tsenpo eTride Songtsen. Nel 815 sale al trono Ralpachen,terzogenito di Tride Songtsen, che viene general-mente considerato il terzo grande sovrano delladinastia di Yarlung. Egli pose finalmente terminealle interminabili guerre con la Cina e firmò untrattato grazie al quale le relazioni tra Cina e Tibetsi normalizzarono. Purtroppo per Ralpachen, eanche per il Tibet, la forte simpatia che il sovranomanifestava per il Buddhismo suscitò invidie,gelosie e risentimenti di ogni genere. Un gruppodi oppositori approfittò della situazione per orga-nizzare una sanguinosa congiura di palazzo. Si feceappello ai sentimenti sciovinisti di alcune famigliearistocratiche che ancora consideravano ilBuddhismo un corpo estraneo al Tibet e si esaspe-rarono le paure dei sacerdoti bon-po timorosi chela loro antica religione venisse del tutto soppian-tata dalla nuova. Sostenendo che il monarca eramanovrato da elementi stranieri i congiurati die-dero vita a un cruento complotto che culminò nel838 con l’assassinio dello stesso Ralpachen a cuisuccesse il fratello maggiore Langdarma. Questiera un acerrimo nemico del Buddhismo che perse-

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guitò con una durezza tale da essere ancora oggiricordata. I templi e i monasteri vennero chiusi eprofanati. I monaci uccisi o costretti all’abiura.Tutte le manifestazioni pubbliche ed esterioridella fede buddhista proibite. Le persecuzioni con-tro il Buddhismo volute da Langdarma furono cosìterribili che un monaco di nome Lhalungpa PelgyDorje decise di rompere i suoi voti di non-violen-za e uccidere il re. La tradizione racconta che ilreligioso si introdusse, vestito con gli abiti di unsacerdote bon-po, nel palazzo reale durante unafesta e riuscì a colpire a morte il sovrano con unafreccia scagliata da un arco che aveva nascostonelle larghe maniche della casacca. La scomparsadel monarca sanguinario segnò ad un tempo lafine della dinastia di Yarlung e dell’unità politicadel Tibet. Quello che per quasi quattrocento anniera stato uno dei più forti imperi dell’Asia si fram-mentò in una miriade di piccoli principati soven-te in guerra tra loro e che per molti secoli rimar-ranno tali. Il ricordo degli antichi fasti rimase solonel Tibet occidentale dove si trasferì un ramodella dinastia di Yarlung che diede vita ai regni diGuge e Purang i quali svolsero un ruolo di primopiano nella storia culturale della regione himala-yana creando una tradizione artistico-religiosa dialtissimo livello. Diversamente da quelle occiden-tali, le province centrali e orientali del Tibetentrarono in un periodo di confusione politica incui l’assenza di un potere autorevole farà a lungosentire i suoi effetti nefasti.

La rinascita dello stato tibetano

Tra la fine del decimo e l’inizio dell’undicesimosecolo un Tibet ormai dimentico dei suoi trascorsiimperiali fu però attraversato da un rinnovatointeresse per il Buddhismo. I canali spirituali tra ilTetto del Mondo e l’India tornarono ad aprirsi eun notevole flusso di contatti riprese a scorrere inentrambe i sensi. Maestri indiani vennero a inse-gnare in Tibet e studiosi tibetani si recarono adapprofondire le loro conoscenze nelle principaliuniversità buddhiste dell’India. Nei decenni acavallo dell’anno Mille si verificò una vera e pro-pria Seconda diffusione della dottrina grazie alla

quale il Buddhismo si affermò definitivamentecome religione principale e si articolò in numero-se scuole (1). Tra il primo e il secondo secolo delnuovo millennio vengono costruiti in Tibet alcu-ni tra i suoi più importanti monasteri (gompa, intibetano). Tshurpu, Sakya, Drigung, Talung,Reting e molti altri che in breve acquistano unarilevanza tale da travalicare la sfera esclusivamen-te religiosa per entrare in quella sociale.

La massiccia diffusione del Buddhismo avevacreato in Tibet una nuova koiné intorno allaquale si ritrovava la grande maggioranza dellapopolazione. Ma dal punto di vista politico ilPaese rimaneva diviso e frammentato. Comunquetra l’undicesimo e il dodicesimo secolo i diversi re,principi e signori feudali che governavano il Tettodel Mondo riuscivano a convivere senza eccessivetensioni e quel periodo viene ricordato come piut-tosto pacifico e tranquillo. E’ l’inizio del tredicesi-mo secolo a segnare la fine di questo intermezzosereno della storia tibetana. A nord, in un’im-mensa area che abbraccia in pratica quasi l’interaAsia centrale, le tribù mongole sono in movimen-to. Sotto la guida di capi intelligenti e decisi que-ste popolazioni fiere, bellicose e aggressive stannoassoggettando nazioni e popoli. Perfino la Cina,l’orgoglioso Impero di Mezzo, cade sotto i loroassalti.

Nel 1207 Gengis Khan, il capo supremo deimongoli, manda i suoi emissari a intimare la sot-tomissione dei tibetani che non hanno altra scel-ta che quella di arrendersi, ben consapevoli chenulla avrebbero potuto contro la micidiale forzad’urto delle armate mongole. Nel 1239 le avan-guardie della cavalleria di Godan, nipote diGengis Khan, penetrano in profondità sul Tettodel Mondo raggiungendo le province centrali di Ue Tsang. Il destino del Tibet sembra dunque segna-to quando accade un fatto imprevisto e forseimprevedibile. Affascinato dai rapporti dei suoiuomini che raccontavano della grande influenzaesercitata in Tibet da yogin e lama, Godan si incu-riosì a tal punto che ne volle conoscere di personaqualcuno e invitò alla sua corte il più rinomato

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maestro spirituale dell’epoca, Sakya Pandita, capodella scuola Sakya-pa.

Il rapporto che si stabilì tra il lama ed il khanmongolo fu intenso e complesso; il primo, graziead un eccezionale carisma, riuscì a convertire alBuddhismo il secondo che, come segno di devo-zione, non solo proibì ogni ulteriore incursionedei suoi eserciti sul Paese delle Nevi ma assegnòanche agli abati della scuola Sakya-pa il governodell’intero Tibet. Questa relazione, che gli storicianglosassoni sono soliti definire lama-patron,aveva dunque partorito un Tibet governato datibetani (gli abati Sakya-pa) e posto sotto la diret-ta protezione del Khan mongolo che con il suoappoggio intendeva rendere evidente, concreto emanifesto il legame spirituale che lo univa alTibet e alla sua religione. Il rapporto lama-patroniniziato da Godan khan e Sakya Pandita continuòcon i loro rispettivi successori. Kublai khan, figliodi Godan, fu così affascinato dalla personalità edalle realizzazioni spirituali di Phagpa, nipote diSakya Pandita, da conferirgli il prezioso titolo diPrecettore Imperiale che equivaleva a quello disovrano del Paese delle Nevi.

La gerarchia Sakya governò il Tibet per circaun secolo ma quando in Cina l’influenza delladinastia Yuan (mongola) cominciò a indebolirsisul Tetto del Mondo il potere dei Sakya-pa prese avacillare. Nella valle di Yarlung la potente fami-glia dei Pamotrupa si mise a capo di un movimen-to dai forti accenti nazionalisti che apertamentecontestava l’autorità degli abati di Sakya il cuipotere terminò del tutto nel 1354. JangchubGyaltsen, l’uomo forte del clan Pamotrupa, formòun nuovo governo che venne riconosciuto daglistessi khan mongoli ormai alla vigilia della finedel loro ruolo dirigente in Cina. Quando i Mingsostituirono gli Yuan alla guida dell’Impero diMezzo, Jangchub Gyaltsen considerò esaurito enon più riproponibile il rapporto lama-patron evenne così a cadere quel particolare legame cheuniva il Tibet a una nazione straniera e il Paesedelle Nevi poteva nuovamente considerarsi indi-pendente a tutti gli effetti.

Il periodo della dinastia Pamotrupa coincisecon la nascita di un diffuso senso di identità nazio-nale che trovò la sua espressione più visibile inuna decisa rivalutazione del ruolo degli antichimonarchi di Yarlung. In modo particolareSongtsen Gampo e Trisong Deutsen vennero fattioggetto di una venerazione quasi religiosa. Anchese alcuni governanti Pamotrupa erano monaci olama, la dinastia si caratterizzò come fortementelaica e sotto di essa tutte le differenti scuole bud-dhiste e il rinato Bon potettero svilupparsi libera-mente e in reciproca armonia. In Tibet i massimiesponenti delle principali tradizioni religiose con-tinuavano a godere di una altissima considerazio-ne ma erano venerati come maestri spirituali enon come esponenti politici. Ovviamente, soprat-tutto a livello locale, gli abati dei principali mona-steri continuavano a esercitare una notevoleinfluenza sociale che facevano valere stipulandoalleanze con questo o quel governatore ma le redi-ni complessive della nazione in questo periodoerano in mani laiche.

La caduta, nel 1435, della dinastia Pamotrupachiude un periodo tutto sommato positivo dellastoria tibetana che però si avvia verso due secoliconvulsi durante i quali una drammatica lotta trafazioni rivali dilaniò un Paese delle Nevi laceratoe diviso. Altrettanto laico di quello dei Pamotrupafu il governo dei principi di Rinpung che, percirca 130 anni, governarono il Tibet fino a quan-do nel 1565 il potere passò nelle mani dei re diTsang, la terza delle grandi dinastie che regnaronosul Tetto del Mondo fra il XV e il XVII secolo.Tutte avevano esercitato la loro autorità inmaniera assolutamente autonoma senza far maialcun gesto di sottomissione, nemmeno formale,nei confronti degli imperatori cinesi.

Il V Dalai Lama

A partire dalla fine del 1400 comincia ad aumen-tare l’influenza dei lama di una delle principalilinee di reincarnazione della scuola Gelug eSonam Gyatso, il terzo di questi reincarnati, stabi-

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lì una forte relazione con alcune tribù mongoleche, sebbene non governassero più la Cina, rap-presentavano ancora nell’Asia centrale una note-vole forza politico-militare. Altan Kan, un discen-dente di Gengis, divenne discepolo di SonamGyatso e in segno di devozione insignì il suo mae-stro del titolo di Dalai Lama che da allora in poicontraddistinse tutte le successive reincarnazionidi questi maestri. Ben presto la figura dei DalaiLama acquistò in Tibet, particolarmente nelleregioni centrali ed occidentali, un forte rilievosociale, oltre che religioso. Il V Dalai Lama,Ngawang Lobsang Gyatso, era un uomo dotato digrandi capacità politiche e di un forte carisma per-sonale. Sentiva profondamente il dramma che ilsuo paese stava vivendo a causa delle lotte interneche vedevano clan, principati e addirittura alcunigrandi monasteri combattersi per il potere. Infattii primi decenni del 1600 erano stati drammaticiper il Tibet, la forza dei re di Tsang si era indebo-lita ma non ne era emersa un’altra in grado disostituirli.

Fu in un contesto del genere che il V DalaiLama, essendosi messo alla testa di un ampio fron-te di oppositori, riuscì ad imporsi come l’unicoeffettivo antagonista dei re di Tsang che vennerodefinitivamente sconfitti, dopo un’aspra lottadalle alterne fortune, solo nel 1642. La vittoria delDalai Lama e dei suoi alleati fu possibile anche, eforse soprattutto, grazie all’alleanza che NgawangLobsang Gyatso aveva stretto con Gushri Khan,capo della potente tribù mongola Qosot.L’apporto degli eserciti mongoli si rivelò decisivoe dalla seconda metà del XVII secolo il V DalaiLama poté governare un Tibet pacificato, unito eindipendente. Una nazione che finalmente avevatrovato un punto di riferimento nel quale tutti sipotevano riconoscere tanto dal punto di vista spi-rituale che politico. Infatti da questo momento leincarnazione dei Dalai Lama cessano di essere soloi rappresentanti di uno dei principali lignaggidella scuola Gelug per divenire invece il simbolostesso del Paese delle Nevi e di tutti i suoi abitan-ti, senza alcuna differenza di etnia, posizionesociale o tradizione religiosa.

Gli anni del V Dalai Lama passarono alla sto-ria come sinonimo di buon governo e di fecondastabilità nazionale. I problemi però cominciarononon appena il Prezioso Protettore (2) morì nel1682. Il suo principale collaboratore, Desi SangyeGyatso, nascose per diversi anni la morte del VDalai Lama. Disse che la Presenza si era ritirata perun periodo di meditazione e che per qualchetempo non avrebbe preso parte a cerimonie pub-bliche. Ovviamente anche in Tibet le bugiehanno le gambe corte e alla fine si dovette dire laverità ad un popolo tutt’altro che felice di esserestato tenuto per anni all’oscuro della scomparsadella più alta autorità della nazione. Desi SangyeGyatso cercò di scusarsi adducendo una serie dimotivi il principale dei quali era relativo allacostruzione del palazzo del Potala nella città diLhasa. Dal momento che il V Dalai Lama avevafatto iniziare i lavori di questo grande edificio(che da allora è rimasto la sede ufficiale di tutti iDalai Lama) e questi lavori non erano completa-mente terminati Desi Sangye Gyatso sostenne cheaveva tenuto nascosta la notizia della morte diKundun nel timore che a causa di essa non si por-tasse più a termine l’edificazione del Potala.

Ovviamente si tratta di una scusa che nonregge e sui veri motivi dell’operato di Desi gli sto-rici non sono concordi. Alcuni affermano che eraspinto dalla preoccupazione, per altro ben motiva-ta, che un vuoto di potere sarebbe sfociato in unaltro periodo di scontri fratricidi vanificando cosìtutto il lavoro compiuto dal V Dalai Lama. Altristudiosi, meno benevoli, sostengono invece che ilcomportamento di Sangye Gyatso fosse dettatounicamente dalla sua avidità e dalla paura di esse-re estromesso dai vertici del governo. Comunque,quale sia stata la verità, il disappunto dei tibetaniper l’inganno subito venne compensato dal fattoche insieme alla notizia della scomparsa del VDalai Lama fu dato l’annuncio che era stata sco-perta la nuova incarnazione del Prezioso Protettoree che stava giungendo a Lhasa per essere insedia-ta nel Potala ormai terminato.

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L’influenza Manciù

Il VI Dalai Lama fu una personalità eccentrica e ilsuo comportamento inusuale venne purtroppousato come pretesto per l’intervento di forze epotenze straniere negli affari interni del “Tetto delMondo”. In quegli stessi anni la Cina, il potenteImpero di Mezzo, era teatro di profondi cambia-menti politici che avrebbero avuto nefaste riper-cussioni per la storia tibetana dei secoli a venire. IManciù (Ch’ing in mandarino), una popolazionenord-asiatica di origine extracinese, avevanopreso il sopravvento e si erano insediati a Pechinoe dalla capitale del Celeste Impero gettavanosguardi interessati verso gli stati confinanti, primofra tutti il grande ed indifeso “Paese delle Nevi”.

Il secondo imperatore Ch’ing, non volendoesporsi di persona, spinse un feroce e spregiudica-to capo mongolo di nome Lhazang Khan ad entra-re in Tibet. Il governo legittimo di Lhasa fu depo-sto con l’accusa di non essere in grado di metterein riga il giovane e scapestrato Gyalwa Rinpoche eper di più di essere anche succube degli uomini difiducia del precedente Dalai Lama. In modo parti-colare si accanirono contro Desi Sangye Gyatsoche venne ucciso mentre tutti i ministri furonomessi in prigione e lo stesso VI Dalai Lama postoagli arresti domiciliari.

Lhazang Khan offrì il Tibet in dono all’impera-tore manciù che ricambiò il favore nominando ilmongolo governatore del “Tetto del Mondo”.Dopo essere stato catturato, il VI Dalai Lama fuinviato in Cina dove però non giunse mai. Morìinfatti durante il viaggio in circostanze misteriosee mai del tutto chiarite anche se i tibetani riten-nero che il loro Oceano di Saggezza fosse perito permano di un sicario di Lhazang Khan. La tragicascomparsa del VI Dalai Lama e il brutale dominiodel capo mongolo feriscono profondamente ilpopolo tibetano; violenze e atrocità di ogni gene-re vengono consumate in ogni angolo del “Paesedelle Nevi” e, cosa ancora peggiore, la spregiudi-cata invasione di Lhazang Khan suscita gli appeti-ti di un’altra tribù mongola, quella degli Zungari,che in precedenza avevano stabilito relazioni ed

alleanze con Desi Sangye Gyatso. Approfittandodel risentimento che i tibetani provavano versoLhazang Khan, il quale tra l’altro aveva tentato diimporre un suo protetto come il “vero” VI DalaiLama, gli Zungari invasero a loro volta il Tibet enel 1717 conquistarono Lhasa e uccisero LhazangKhan. Quanti avevano salutato con piacere lacaduta dell’inviso despota straniero dovetteroimmediatamente ricredersi. Infatti i nuovi arriva-ti si dimostrarono ben presto un rimedio peggioredel male. Inebriati dalla vittoria si abbandonaro-no ad eccessi di ogni genere. Bruciarono monaste-ri, violentarono donne, uccisero gli uomini. Ilmartoriato Paese delle Nevi guardava attonito,disperato e impotente dissolversi tutto quello chel’abilità del V Dalai Lama aveva costruito.Inerme, non poteva che piegarsi alla spietata logi-ca della violenza.

Di tutto questo caos ne approfittò Kang Hsi,l’imperatore manciù, che inviò in Tibet un eserci-to potente e ben addestrato a combattere gliZungari e scortare a Lhasa Kalsang Gyatso, il VIIDalai Lama, che era stato riconosciuto e vivevanel monastero di Kumbun, nella regione nord-orientale dell’Amdo. Sia perché il suo interventoponeva fine al sanguinario potere degli Zungari,sia perché rendeva possibile il ritorno del DalaiLama, l’arrivo dell’esercito cinese fu salutato congioia sul Tetto del Mondo. Ancora una volta però,i tibetani dovettero accorgersi che in politica nes-sun aiuto è disinteressato. Infatti nel 1720 la setti-ma incarnazione della Presenza si insediò sulTrono del Leone, ma in cambio l’imperatore pre-tese che il Tibet divenisse una sorta di protettora-to mancese. Due suoi rappresentanti, gli Amban, sistabilirono a Lhasa e una guarnigione han forte diduemila uomini rimase nella capitale tibetana.Compito degli Amban era quello di curare gli inte-ressi di Pechino in Tibet.

Molti degli equivoci che concernono l’effettivostatus del Paese delle Nevi nascono in quegli anni.La domanda è la seguente: si può considerare ilTibet, a partire dal 1720 parte integrantedell’Impero di Mezzo? La risposta dovrebbe essere

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negativa. E vediamo perché. E’ fuor di dubbio chei tibetani furono costretti ad accettare la soluzione“imperiale” come il minore dei mali e formalmen-te non contestarono subito la pretesa di Kang Hsidi annettere il Tibet. Nel concreto però continua-rono a comportarsi come se nulla fosse avvenutoconfidando nel fatto che un effettivo e prolunga-to controllo della loro nazione sarebbe statoimpossibile per i manciù. E infatti così andaronole cose. Una volta rientrato in Cina il grosso del-l’esercito imperiale, il Tibet tornò ad essere gover-nato dal Dalai Lama e dai suoi ministri mentre inpratica gli Amban si limitavano a svolgere le fun-zioni di normali ambasciatori.

Il VII e l’VIII Dalai Lama non esercitarono ungrande ruolo politico ma preferirono dedicarsi allavita spirituale e la conduzione degli affari dellostato venne affidata ad un Gabinetto (Kashag),costituito da quattro ministri (Kalon) di cui treerano laici ed uno monaco. Questo assetto legisla-tivo rimarrà in vigore, più o meno inalterato, finoal 1959.

Il “Grande Gioco” e il XIII Dalai Lama

Gli ultimi anni del diciottesimo secolo segnanol’inizio di un lungo periodo di instabilità per ilTibet che nel 1792 poté respingere un attaccodelle armate del vicino regno del Nepal solo gra-zie all’intervento degli eserciti Ch’ing. Nel 1804muore l’VIII Dalai Lama e l’Impero di Mezzoriprende in grande stile i suoi tentativi di annet-tersi il Paese delle Nevi. Nonostante il XI, il X,l’XI e il XII Dalai Lama muoiano tutti in giovaneo giovanissima età, il Tibet riesce a trovare la forzadi resistere alla pressione manciù e alle ricorrentiaggressioni nepalesi. Pur tra mille difficoltà inter-ne il governo di Lhasa mantiene il controllo dellanazione e tenta di barcamenarsi come può in unasituazione geopolitica che si va facendo semprepiù complessa. Sono infatti entrati nel “GrandeGioco” asiatico due aggressivi imperi occidentali,la Russia zarista e la Gran Bretagna, ognuno deiquali teme che l’altro possa inglobare il Tibetnella propria sfera d’influenza.

Nell’anno del Topo di Fuoco (1876) nacqueThubten Gyatso, il XIII Dalai Lama. Questi, con-trariamente ai suoi ultimi predecessori, non solovivrà a lungo ma riuscirà anche a governare ilPaese delle Nevi con tale intelligenza e lungimi-ranza da essere ricordato con l’appellativo di“Grande Tredicesimo”. Nel periodo in cui il pic-colo Thubten Gyatso veniva educato a Lhasa etrascorreva l’adolescenza dividendosi tra i giochi egli studi, la Gran Bretagna, al culmine della suaespansione coloniale, cominciava ad interessarsiseriamente del Tibet. Preoccupato che il Tetto delMondo potesse cadere sotto l’influenza russa dalmomento che la forza dell’impero manciù declina-va giorno dopo giorno, il Leone britannico volevaestendere la sua influenza sul grande vicino set-tentrionale dell’India inglese. Certo non si tratta-va di ambizioni militari, il sub-continente indianoera già abbastanza esteso, ma di mire economiche.Londra era intenzionata a concludere trattaticommerciali con Lhasa, con le buone se possibilema anche con le cattive ove necessario.

L’ottavo giorno dell’ottavo mese dell’annodella Pecora di Legno (1895), il XIII Dalai Lamaassunse i pieni poteri e iniziò a guidare il Tibet neinon facili meandri del “Grande Gioco”. Nel 1904la Gran Bretagna, dopo aver tentato inutilmenteper oltre un anno di stabilire relazioni commercia-li con il governo tibetano, armò una spedizionemilitare che al comando del colonnelloYounghusband entrò in Tibet e giunse in brevetempo a Lhasa dopo aver sconfitto l’esercito tibe-tano. Younghusband stabilì alcuni accordi econo-mici e dopo pochi mesi tornò in India con i suoisoldati. All’arrivo delle truppe britanniche il XIIIDalai Lama era partito per un lungo viaggio che loaveva portato in Mongolia e poi a Pechino dovenel 1908, tra gli altri, incontrò sia il giovane impe-ratore Kuang-hsu sia l’Imperatrice vedova Tz’u-hsi poco prima che entrambi morissero nelnovembre di quell’anno. Nel 1909 il PreziosoProtettore tornò a Lhasa dopo circa sei anni diassenza ma ben presto dovette partire nuovamen-te, questa volta per riparare in India, poiché il

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generale cinese Chung-yin era entrato in Tibet emuoveva minaccioso alla conquista di Lhasa. Lacapitale tibetana venne conquistata facilmente esottoposta a una dura repressione. Per la primavolta nella sua storia il Paese delle Nevi era mili-tarmente conquistato da una potenza straniera egli Amban potevano direttamente governare aLhasa.

L’occupazione fu però di breve durata. Nel1911, travolto dalla rivoluzione di Sun Yat-sen,cade l’impero manciù e la Cina diventa unaRepubblica. Sbandati e senza più alcuna effettivaguida militare, i soldati cinesi sono sopraffattidalla popolazione di Lhasa e si arrendono dopoalcuni giorni di combattimenti. Il Tibet, dove nonvi è più traccia di militari stranieri e da cui gliAmban sono stati definitivamente espulsi, tornaad essere governato dal Dalai Lama che rientratrionfalmente a Lhasa il sesto giorno del dodicesi-mo mese dell’anno del Topo d’Acqua (gennaio1913). Il Prezioso Protettore, consapevole di quan-to fosse difficile mantenere l’indipendenza rag-giunta, iniziò un processo di apertura e moderniz-zazione del Paese pur nel rispetto delle tradizioni edelle sue radici culturali. Purtroppo una classedirigente, sia laica sia religiosa, molto meno lungi-mirante della Presenza, non assecondò quei pro-grammi con il necessario entusiasmo quando addi-rittura in segreto non li boicottò. Dunque la spin-ta riformatrice del XIII Dalai Lama non potéesprimersi in tutta la sua forza e quando, il tredi-cesimo giorno del decimo mese dell’annodell’Uccello d’Acqua (17 dicembre 1933),Thubten Gyatso lasciò il suo corpo terreno a causadi un improvviso attacco di polmonite, le idee dimodernizzazione e cambiamento morirono conlui.

Il XIV Dalai Lama e l’invasione cinese

La classe dirigente tibetana, pensando che la par-ticolare posizione geografica del Paese delle Nevisarebbe bastata a difenderlo dai drammatici even-ti che stavano radicalmente mutando il volto

dell’Asia, tornò a chiudersi in uno “splendido”isolamento che costerà però caro, pochi anni piùtardi, all’intera nazione. Il 6 luglio 1935, nell’an-no del Maiale di Legno secondo il calendario tibe-tano, nasce a Takster, uno sperduto villaggio dellaregione orientale dell’Amdo, la 14° incarnazionedel Prezioso Protettore. Riconosciuto secondo letradizionali procedure da una delegazione inviatadal governo tibetano, il piccolo bambino vienequindi portato a Lhasa dove il 14° giorno delprimo mese dell’anno del Drago di Ferro (22 feb-braio 1940) viene formalmente insediato.

All’inizio degli anni ’40 il Tibet è un’oasi dipace al centro di un continente sconvolto daguerre e rivoluzioni. La Cina, dove per anni sierano sanguinosamente combattuti comunisti enazionalisti, cerca ora di resistere come può all’in-vasione giapponese che appare sempre più irresi-stibile. Nell’India britannica il movimento indi-pendentista guidato da Gandhi guadagna terrenominando le basi della dominazione inglese e, apartire dal 1941, il Giappone entra nella secondaguerra mondiale a fianco di Germania ed Italiaattaccando la base aerea navale statunitense diPearl Harbour. Sfortunatamente in Tibet solopochi, e anch’essi troppo tardi, si accorsero cheminacciose nuvole portatrici di una tempestasenza pari si stavano addensando sul cielo delTetto del Mondo dove, per la quasi totalità dellapopolazione, le giornate e gli anni continuavano ascorrere con i ritmi arcaici di sempre.

Nel 1945 il Giappone sconfitto e umiliato dal-l’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, siarrende alle potenze alleate. Pochi anni dopo(1947) l’Inghilterra è costretta ad abbandonare lasua amata colonia indiana che si divide, in unbagno di sangue, in due stati rivali: il Pakistanmusulmano e l’Unione Indiana a grande maggio-ranza induista. In Cina nel 1949 termina una dellepiù sanguinose guerre civili che la storia ricordi eil Partito Comunista prende il potere guidato dalsuo carismatico leader Mao Tsetung. E sarà pro-prio quest’ultimo evento ad avere enormi e tragi-che conseguenze sulla storia tibetana. E’ lo stesso

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Mao, mentre celebra a Pechino la nascita dellaRepubblica Popolare Cinese, ad affermare conforza che il Tibet dovrà essere riconquistato allaMadrepatria Cinese e strappato alle “forze impe-rialiste”. A Lhasa le affermazioni del leader comu-nista non giungono inaspettate. Il governo tibeta-no aveva già avuto sentore dei propositi dellanuova classe dirigente cinese e aveva, invano, cer-cato di ottenere la solidarietà internazionale. Maquell’isolamento che nei lontani e felici anni ’30era sembrato così “splendido” oggi si ritorce comeun boomerang contro il Paese delle Nevi. La GranBretagna risponde agli inviati di Lhasa che ormaiè fuori dalle vicende politiche asiatiche, gli USAdicono che vedranno cosa si può fare ma poi nonfaranno nulla, il governo indiano, e soprattutto ilsuo Primo Ministro Nehru, tutto hanno in mentetranne che guastare i rapporti con la RepubblicaPopolare Cinese e la neonata ONU (direttadiscendente di quella Società delle Nazioni a cuiil Tibet si era ben guardato dall’aderire) preferisceguardare da un’altra parte.

In questo desolante quadro politico il 7 ottobre1950 le truppe del potente vicino cinese attacca-no la frontiera tibetana in sei luoghi diversi e tra-volgono facilmente la debole resistenza del suopiccolo esercito. A Lhasa il governo e l’interapopolazione vengono presi dal panico. In novem-bre, sotto l’incalzare degli eventi, sono conferiti ipieni poteri al Dalai Lama nonostante abbia solo16 anni. Mai nella storia il Tibet era stato gover-nato da un Dalai Lama così giovane. Dopo esserepenetrato in territorio tibetano, l’esercito cinesenon avanzò oltre le regioni nord orientali forsetemendo una reazione internazionale. Nell’aprile1951 il governo del Dalai Lama inviò in Cina unadelegazione che era autorizzata ad esporre il puntodi vista di Lhasa e ad ascoltare le posizioni cinesima non poteva firmare alcun accordo. A Pechinoperò, i tibetani furono sottoposti a minacce divario genere e venne loro impedito ogni contattocon le autorità di Lhasa. In queste condizioni ladelegazione tibetana fu costretta a firmare un trat-tato in Diciassette Punti secondo il quale il Tibetentrava a far parte della Cina sia pure in condizio-

ni di notevole autonomia. L’esercito comunistapoté quindi entrare a Lhasa nel settembre 1951portando così a termine l’occupazione del Tibet.

Nel suo arduo tentativo di trovare una qualcheforma di pacifica convivenza con l’occupante, nel1954 il Dalai Lama compì una lunga visita di cor-tesia nella Repubblica Popolare Cinese. APechino il leader tibetano ebbe diversi incontricon Mao Tsetung, Ciu En Lai ed altri importantidirigenti comunisti. Prima di partire per tornare aLhasa, il Dalai Lama ricordò a Mao, che si dissed’accordo, quanto fosse importante che i cinesirispettassero le tradizioni sociali e culturali delTibet come del resto stabiliva lo stesso trattato inDiciassette Punti. Nonostante le assicurazioniricevute a Pechino, il Dalai Lama trovò in Tibetuna situazione estremamente deteriorata. Alleinnumerevoli angherie e violenze compiute daicinesi ai danni della popolazione e dei monasteri,i tibetani avevano risposto dando vita a un vastomovimento di resistenza attivo in pratica in tuttala parte nord-orientale del Paese. GushiGangdruk, letteralmente “Quattro fiumi e seicatene di montagne”, era il nome dell’organizza-zione guerrigliera tibetana, nome che si richiama-va a quello con cui le regioni dell’Amdo e delKham erano chiamate dalla gente comune.Secondo stime attendibili alla fine del 1957 circacentomila guerriglieri combattevano per la libertàdel Tibet, ma la disparità delle forze in campo nonlasciava alcuna possibilità di successo alla pureroica resistenza tibetana. Infatti i cinesi poteva-no contare su di un esercito armato di tutto punto,organizzato secondo una ferrea disciplina, perfet-tamente addestrato e che contava quattordicidivisioni per un totale di oltre centocinquantami-la uomini. Durante tutto il 1957 e il 1958 alleincursione della guerriglia Pechino rispose col-pendo indiscriminatamente la popolazione civile,bombardando villaggi, uccidendo monaci, distrug-gendo monasteri e passando per le armi tutti colo-ro che, a torto o a ragione, erano accusati di averaiutato i partigiani. La potente macchina bellicamaoista fu responsabile in quegli anni, comeappurarono in seguito due dettagliati rapporti

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della Commissione Internazionale dei Giuristi(3), di un vero e proprio genocidio. Ad ogni azio-ne dei guerriglieri seguivano sanguinose rappresa-glie che dovevano servire a terrorizzare la popola-zione e fare terra bruciata intorno agli uominidella resistenza. Dall’Amdo e dal Kham, sconvol-ti dalle battaglie, cominciarono ad affluire nelleprovince centrali di U-Tsang lunghe colonne diprofughi. Dapprima si trattava solo di civili checercavano di sfuggire alle violenze cinesi. Poi,man mano che si delineava l’inevitabile sconfittamilitare, arrivarono anche nutriti gruppi di guerri-glieri che speravano di potersi riorganizzare nelTibet centrale per poi tornare nel nord-est. Ma sitrattò di una speranza vana perché ormai la pre-senza cinese sul Tetto del Mondo era ben solida ecapillare. Il potere dello stesso Dalai Lama in pra-tica non esisteva più e il campo d’azione del suogoverno si limitava ai problemi di ordinariaamministrazione mentre per tutte le questioniimportanti erano i generali dell’Armata Rossa adecidere e comandare.

Nel volgere di poco tempo anche a Lhasa latensione divenne intollerabile. I tibetani non soloerano costretti a subire ogni genere di violenze esoprusi ma dovevano anche assistere impotentialle quotidiane umiliazioni inflitte al loro leaderpiù amato, il Prezioso Protettore. All’inizio delmarzo 1959 mentre nella capitale tibetana si cele-brava il Monlam Chenmo, la Festa della GrandePreghiera forse la principale ricorrenza religiosadell’intero anno, il Dalai Lama venne invitato apartecipare ad uno spettacolo che si sarebbe tenu-to al quartier generale delle truppe cinesi. In real-tà più che di un invito si trattò di una vera e pro-pria convocazione dal momento che fu chiesto aKundun di venire senza l’usuale scorta e accompa-gnato solo da un pugno di funzionari, peraltrodisarmati. Il Dalai Lama, nonostante il parerenegativo dei suoi ministri decise che un suo rifiu-to avrebbe ulteriormente irritato i cinesi e quindiaccettò di recarsi negli insediamenti militari cine-si alle condizioni che questi avevano posto. Maquando i tibetani appresero la notizia decisero chenon avrebbero permesso che il loro leader si con-

segnasse inerme nelle mani dei militari cinesi. Ilpopolo era convinto che lo spettacolo non fossealtro che un pretesto per rapire la Presenza.Testimoni oculari dissero di aver visto tre aereipronti a decollare sulla pista del piccolo aeroportodi Damshung a un centinaio di chilometri daLhasa. Altri raccontavano di aver sentito RadioPechino affermare che il Dalai Lama era attesonella capitale per partecipare alla ormai prossimariunione dell’Assemblea Nazionale Cinese. Tuttisi dicevano decisi a difendere Kundun anche acosto delle loro vite. Il clima era ormai pre-insur-rezionale. La miscela rappresentata dai profughidelle regioni nord-orientali, dai membri della resi-stenza, dai pellegrini convenuti a Lhasa per lecelebrazioni del Monlam e dalla gente normaleesasperata da anni di occupazione, si rivelò esplo-siva. Ognuno aveva la sua tragica storia da rac-contare e i suoi rimedi da proporre. Ci si eccitavagli uni con gli altri e il numero dava l’errata sen-sazione di poter essere abbastanza forti da sconfig-gere l’occupante. Il risultato di questo stato di cosefu un imponente assembramento di popolo che siriunì intorno al Norbulinka (4) dove si trovava ilDalai Lama. La gente chiedeva apertamente algoverno di ripudiare il Trattato in DiciassettePunti e che i cinesi se ne andassero dal Tibet.Quello che la folla voleva ormai andava ben oltrela partecipazione del Prezioso Protettore allo spet-tacolo cinese. La parola d’ordine era, “Libertà eindipendenza ”.

Ovviamente i cinesi erano furiosi per quelloche succedeva in città e pretendevano non soloche il Dalai Lama si recasse al loro quartier gene-rale ma che il suo governo disperdesse con la forzagli “assembramenti non autorizzati”. TenzinGyatso era quindi in una difficilissima posizione.Da un lato sapeva bene che i timori della suagente erano più che fondati ed era commossodalla lealtà e dall’affetto dei suoi sudditi, dall’altrosi rendeva perfettamente conto che nulla avreb-bero potuto contro il micidiale apparato bellicodei loro nemici. Decise quindi di fuggire sperandoin questo modo di calmare le acque, far scenderela tensione sotto il livello di guardia e poi ripren-

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dere la strada del dialogo e delle trattative. Lanotte tra il 17 e il 18 marzo il Dalai Lama e un pic-colo gruppo di persone tra cui vi erano i suoi fami-gliari e alcuni ministri uscì segretamente dalPalazzo d’Estate per cercare rifugio nelle zonemeridionali del Tibet ancora non del tutto con-trollate dai cinesi. Purtroppo le speranze del DalaiLama che una sua partenza avrebbe potuto siste-mare le cose si dimostrarono vane. La notte tra il19 e il 20 marzo cominciò la battaglia di Lhasa. Icinesi bombardarono il Norbulinka, probabilmen-te sperando che la Presenza potesse morire sotto lebombe, e poi attaccarono la città. Vennero colpi-ti il Potala, il Jokhang, le abitazioni. La gentecombatteva per le strade una lotta eroica maimpari. Le donne e gli uomini di Lhasa affrontava-no un esercito moderno ed equipaggiato di tuttopunto, armati con vecchi fucili, coltelli e bastoni.I soldati di Pechino furono implacabili e decine dimigliaia di persone, in gran parte civili, morironosotto i colpi di una repressione feroce. Il governotibetano venne sciolto e tutte le autonomie rico-nosciute dal Trattato in Diciassette Punti abolite.Il Dalai Lama riuscì a stento a mettersi in salvo.Scortato da un pugno di uomini della resistenzaraggiunse dapprima Lhuntse Dzong, una localitàvicina al confine indiano, dove in un primotempo pensava di fermarsi in attesa di tornare aLhasa. Ma di fronte al precipitare della situazionee alle notizie terribili che giungevano dalla capita-le decise che non aveva altra scelta se non ripara-re in India dove giunse il 31 marzo dopo un viag-gio che in tutto era durato due settimane e duran-te il quale aveva percorso oltre un migliaio di chi-lometri. Il governo di Nuova Delhi concesseimmediatamente asilo politico al Dalai Lama chedall’India chiese aiuto alla comunità internazio-nale per il suo martoriato Paese sul quale eranocalate le tenebre di una lunga notte di orrori e tra-gedie che non è ancora terminata.

Il Tibet occupato

Mentre Kundun trovava rifugio in India, la Cinaportava a termine la repressione della resistenza

tibetana e il volto del “nuovo” Tibet cominciava aprendere forma. Il 5 aprile 1959, accompagnato dauna ingente scorta militare cinese, il PanchenLama (4) fu fatto arrivare a Lhasa per esservi inse-diato come presidente del Comitato Autonomodella Regione Autonoma del Tibet, una organizza-zione creata dai cinesi per dare l’impressione che itibetani contassero ancora qualcosa nel loro Paesementre in realtà ogni potere si trovava ormai nellemani dei generali di Pechino. In pratica il Tibetvenne smembrato e le sole regioni centrali di U-Tsang formarono la Regione Autonoma Tibetana(creata ufficialmente nel 1965) dal momento cheil Kham e l’Amdo divennero parte delle provincecinesi del Chingai, dello Sichuan, del Gansu edello Yunnan. Così smembrato e ridotto adun’area abitata da non più di due milioni di perso-ne il Paese delle Nevi doveva essere, nelle aspet-tative dei suoi nuovi padroni, pronto per la nor-malizzazione e l’edificazione di una società sociali-sta. Il forcipe che avrebbe dovuto facilitare questonon facile parto fu individuato dalle autorità cine-si nelle cosiddette “Tre educazioni” (alla coscien-za di classe, al cambiamento socialista ed allascienza e alla tecnica) e nelle “Quattro Pulizie”(del pensiero, della storia, della politica e dellaeconomia) che consistevano in una martellantecampagna politica e poliziesca destinata a “ripuli-re” il Tetto del Mondo dai “reazionari, dalle armiillegali e dai nemici del popolo”. L’intera societàtibetana venne divisa in sei classi secondo i rigidischemi dell’ortodossia maoista. Da un giornoall’altro gli abitanti del Tibet scoprirono di essere“feudatari”, “agenti dei feudatari”, “ricchi”, “classemedia”, “poveri” e “reazionari”. Le classi “media”e “povera” vennero considerate quelle da privile-giare mentre le altre subirono un vero e propriomartirio. Ben presto però i cinesi si accorsero cheanche la grande maggioranza degli appartenentialle classi “media” e “povera” non ne volevanosapere del governo di Pechino e quindi molti tibe-tani “medi” e “poveri” traslocarono nella più sco-moda di tutte le classi, quella dei “reazionari ”.

Ben presto i generali cinesi si resero conto cheoltre il 90% dei tibetani era ancora fedele al Dalai

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Lama e decisero quindi che per rendere la popola-zione più disponibile ad accettare le “RiformeDemocratiche” erano necessarie delle “sessioni dilotta ” collettive, i famigerati thamzing, dei veri epropri linciaggi pubblici degli elementi “controri-voluzionari ” a cui tutti dovevano partecipare atti-vamente. Chi non lo faceva, o non lo faceva conil necessario entusiasmo, rischiava di passareimmediatamente dal ruolo di accusatore in quellodi accusato. Oltre a queste “sessioni di lotta ”, perconvincere il popolo tibetano a rispettare l’autori-tà di Pechino e a rompere con la “vecchia ” cultu-ra, vennero chiusi o distrutti i monasteri e i mona-ci dispersi, fu proibita e perseguitata ogni manife-stazione (sia pubblica sia privata) di fede religiosa,anche le più innocue espressioni di dissenso ven-nero represse e i dissidenti rinchiusi nei numerosicampi di lavoro forzato aperti in tutto il Paese. Aquesto scenario, di per sé tragico, si aggiunse lospettro della fame e della carestia che tra il 1958 eil 1962 devastò la Repubblica Popolare Cinesecome conseguenza del “Grande Balzo in Avanti”voluto da Mao per riconquistare il pieno control-lo del Partito Comunista. Di fronte a questo dram-matico stato di cose il Panchen Lama, che erarimasto in Tibet nella speranza di poter svolgereun ruolo di mediazione tra il suo popolo e le auto-rità cinesi, scrisse a Mao una lunga lettera in cuicriticava severamente l’operato cinese in Tibet echiedeva un immediato cambiamento di rotta. Larisposta di Pechino non si fece attendere. IlPanchen Lama fu immediatamente arrestato, pro-cessato e sottoposto a thamzing insieme al suotutore e ai suoi più stretti collaboratori. Nessunaumiliazione venne risparmiata al Panchen Lamache dopo il processo sparì nelle carceri cinesi dacui poté riemergere solo nel 1978. A completarel’opera di annientamento della cultura tibetanaarrivò nel 1967 la Rivoluzione Culturale con ilsuo tragico corollario di violenze, distruzioni edeliri. Gruppi di giovani fanatici ed esaltati scia-marono sul Tetto del Mondo attaccando e fracas-sando ogni simbolo della “vecchia ” cultura delTibet. Di quasi seimila monasteri e tempi se nesalvarono solamente tredici, tra cui il Potala aLhasa, il Kum Bum a Gyantse, il monastero di

Tashilumpo. Accecate da un furore iconoclastaallucinato e allucinante le Guardie Rosse distrus-sero statue, dipinti, affreschi, edifici antichi dicentinaia e a volte migliaia di anni producendouna ferita irreparabile alla civiltà tibetana.Ovviamente la furia dei giovani maoisti non silimitò alle cose ma prese di mira anche le personee i tibetani passarono attraverso un inferno diffici-le a descrivere con le parole.

Nella seconda metà degli anni ‘70, con lascomparsa di Mao e l’ascesa al potere di DengTsiao Ping, molte cose cambiarono nella CinaPopolare e il nuovo corso denghista comportòanche un diverso atteggiamento riguardo al Tibet.Il sistema di rigida collettivizzazione e delle comu-ni venne definitivamente smantellato. Alcunimonasteri furono parzialmente riaperti e qualchemonaco poté essere nuovamente ordinato dai queipochi che erano sopravvissuti ed alcune celebra-zioni religiose ripresero ad essere tollerate. Nel1980 Hu Yao Bang, allora segretario generale delPartito Comunista Cinese, visitò il Tibet ed essen-do rimasto sconvolto da quello che aveva vistopromise ai tibetani un rapido cambiamento dellasituazione. Contatti informali si stabilirono con ilDalai Lama che tra il 1979 e il 1982 poté inviarein Tibet alcune sue delegazioni. Quello che i rap-presentanti di Dharamsala trovarono fu un Paeseumiliato, sconvolto, ferito. Ma se quasi ogni trac-cia visibile dell’antica civiltà tibetana era stataspazzata via dalla furia iconoclasta di oltre undecennio di Rivoluzione Culturale, il ricordo delvecchio Tibet indipendente era ancora ben vivonei cuori del popolo tibetano che accolse i delega-ti del Dalai Lama con un entusiasmo che nonpiacque alle autorità cinesi le quali nel 1982dichiararono chiusa la breve stagione delle dele-gazioni.

Il Tibet negli anni ’80 e ‘90

L’inizio degli anni ‘80 segna anche l’apertura delTibet al turismo internazionale. Dapprima solo apochi viaggiatori selezionati e rigidamente inqua-drati in seguito anche a gruppi più numerosi e

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meno controllabili di turisti, viene data la possibi-lità di visitare il Tetto del Mondo che sembra esse-re alla vigilia di importanti cambiamenti. Il turi-smo portò nel Paese delle Nevi migliaia di stranie-ri che il più delle volte simpatizzavano apertamen-te per la causa e le ragioni del popolo tibetano. Perla prima volta i tibetani, specialmente quelli diLhasa e delle regioni centrali, poterono incontra-re direttamente delle persone che parlavano consimpatia della loro cultura, sia religiosa sia laicadel Tibet, e che in alcuni casi si dichiaravanoanche discepoli di maestri spirituali tibetani edello stesso Dalai Lama. Questi incontri prepara-rono il terreno per una rinascita della resistenzache riprese la lotta per la libertà del Tetto delMondo. Il 21 settembre 1987, davanti allaCommissione per i Diritti Umani del Congressostatunitense, il Dalai Lama espose un Piano diPace in Cinque Punti che costituiva una seria earticolata proposta per intavolare delle trattativesu basi realistiche con il governo di Pechino perrisolvere il problema del Tibet. Purtroppo la diri-genza cinese rispose negativamente al Piano delDalai Lama e a Lhasa esplose la collera dellagente. Il 29 settembre e il 1° ottobre migliaia emigliaia di persone diedero vita a manifestazionidi protesta che la polizia represse con inaudita vio-lenza. Secondo fonti non ufficiali 32 tibetani ven-nero uccisi e oltre duecento feriti.

Queste dimostrazioni segnano l’inizio di unanuova stagione della resistenza delle donne e degliuomini del Paese delle Nevi e da allora grandi epiccole manifestazioni avvengo quasi quotidiana-mente a Lhasa e in molte altre località del Tibet.Il 5 marzo 1988, al termine delle celebrazioni peril capodanno, a Lhasa monaci e laici iniziano ascandire slogan contro l’occupazione cinese el’esercito apre il fuoco sulla folla in tumulto. Oredi scontri davanti al tempio del Jokhang si con-cludono con un tragico bilancio. Ventiquattrolaici e dodici monaci sono uccisi, alcuni a colpi dimanganello, davanti e dentro al Jokhang. Inseguito parti di un video girato dalla stessa poliziacinese, contenente alcune terribili immagini diquesto massacro, vennero trafugate da membri

della resistenza tibetana e riuscirono a raggiunge-re il mondo esterno dove causarono una enormeimpressione. Era il primo inoppugnabile docu-mento visivo di quale sorte attende in Tibet chiosa dissentire. Mentre in Tibet si continua a insce-nare brevi manifestazioni che cercano di scioglier-si prima dell’arrivo della polizia, il 15 giugno 1988il Dalai Lama presenta nella sede del ParlamentoEuropeo di Strasburgo una ulteriore elaborazionedel suo Piano di Pace in cui si dichiara disposto arinunciare all’indipendenza in cambio di unaeffettiva autonomia di tutte e tre le province tibe-tane. Però nemmeno l’essersi spinto così avantinelle sue concessioni servì al Dalai Lama per con-vincere Pechino ad aprire un reale negoziato. Idirigenti cinesi continuarono a porre inaccettabi-li condizioni al Dalai Lama o, peggio, a liquidarele sue dichiarazioni con poche e sprezzanti battu-te mentre significativi settori del popolo tibetanosi dichiararono del tutto contrari ad una aperturache comportava la definitiva rinuncia all’indipen-denza. Intanto in Tibet la tensione continuava adessere altissima. Il 10 dicembre, anniversario dellaDichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo,alcune centinaia di persone manifestarono nuova-mente a Lhasa davanti al Jokhang chiedendolibertà civili e autodeterminazione. La poliziacinese reagì, ancora una volta, con brutalità spa-rando con armi automatiche sulla folla inermecausando diciotto morti e centinaia di feriti tra iquali anche una giovane olandese, ChristaMeindersma che si trovava in Tibet in qualità dicollaboratrice della Croce Rossa svizzera.

In questo clima rovente, il 28 gennaio 1989muore, in circostanze misteriose, il 10° PanchenLama che si trovava nel suo monastero diTashilumpo per celebrare alcuni riti.Ufficialmente la causa del decesso fu attribuita adun infarto ma il fatto che solo pochi giorni primadella sua scomparsa il Panchen Lama avesse rila-sciato ad un giornale cinese una intervista in cuiaccusava apertamente Pechino di essere responsa-bile di molti errori in Tibet, fece ritenere ai tibe-tani che il Panchen Lama fosse stato avvelenatodai cinesi timorosi di una sua fuga all’estero. I

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sospetti sulle vere cause del decesso della secondaautorità spirituale del Tibet gettano altra benzinasul fuoco della tragedia tibetana. Il 5 marzo oltrediecimila persone scendono in piazza a Lhasadando vita alla più imponente manifestazione daitempi dell’insurrezione del 1959. Per due giorni siscontrano a più riprese con l’apparato repressivodi Pechino riuscendo a tenere il centro di Lhasaper quasi un’intera giornata. La risposta cinese aqueste dimostrazioni è durissima. Secondo fontinon ufficiali diverse centinaia di tibetani perirononegli incidenti e nella repressione che seguì. Treuomini di affari occidentali che si trovavano nellacapitale del Tibet in quei giorni parlarono di oltrecinquecento morti. Il 7 marzo viene imposta aLhasa la legge marziale che rimarrà in vigore il 30aprile del 1990.

Questa nuova ondata di manifestazioni fa cre-scere nel mondo, sconvolto anche per l’eccidio dipiazza Tienanmen, la simpatia per il popolo tibe-tano e la sua lotta civile e nonviolenta. Il conferi-mento al Dalai Lama del Premio Nobel per laPace 1989, è il segno più evidente di questo inte-resse. A partire dal 1990 il Dalai Lama intensificai suoi viaggi e sempre più spesso incontra capi diStato, di governo e parlamentari. Mentre in Tibet,dove la repressione è tale da non consentire mani-festazioni di massa, continua però lo stillicidio dipiccole dimostrazioni a Pechino nessuno vuoledare risposte positive alle richieste del DalaiLama. Piano di Pace in Cinque Punti e Propostadi Strasburgo continuano ad essere liquidati come“tentativi mascherati di dividere il Tibet dallaGrande Madrepatria Cinese ” e rimangono quindisenza risposta. Ma se il Dalai Lama non ottienenulla da Pechino il suo messaggio viene invecerecepito da molti uomini politici internazionali,in modo particolare dal Parlamento Europeo chedopo aver approvato numerose risoluzioni di con-danna delle violazioni dei diritti umani in Tibet, il13 luglio 1995 vota con schiacciante maggioranzaun documento in cui si considerata il Tibet unostato sotto occupazione illegale. E lo stessoParlamento Europeo, nella sua sede di Strasburgo,accoglie ufficialmente e con grande calore il Dalai

Lama il 23 e il 24 ottobre 1996.

Nel mondo intanto la questione del Tibetcomincia ad essere sostenuta da un numero sem-pre crescente di persone. Negli USA tre grandiTibetan Freedom Concert a cui partecipano cen-tinaia di migliaia di giovani rendono popolare lalotta del popolo tibetano tra i teenagers, nei colle-ges e nelle università. In Europa il 10 marzo del1996 si tiene a Bruxelles una affollata manifesta-zione internazionale per la libertà del Tibet chesarà replicata con altrettanto successo a Ginevranel 1997 e a Parigi nel 1998 anno in cui nelle saledi tutto il mondo escono diversi film sul Tibet esul Dalai Lama. Tra l’altro nel dicembre 1997 laCommissione Internazionale dei Giuristi (C.I.G.)di Ginevra aveva pubblicato un secondo docu-mento sul Tibet (6) che mette a nudo la gravitàdella situazione e chiede alle Nazioni Unite diintervenire. In particolare la C.I.G. chiedeall’ONU di far discutere all’internodell’Assemblea Generale il caso tibetano, dinominare un Inviato Speciale per indagare sulleeffettive condizioni di vita dei tibetani, e di atti-varsi per far svolgere in Tibet un referendum conil compito di accertare quali siano i veri sentimen-ti del popolo tibetano riguardo alla situazione delloro Paese. E poiché il popolo tibetano in Tibetnon può parlare se non a rischio della vita o dellaprigione, gli esuli in India decidono di dar loro lavoce. Il 10 marzo 1998 a New Delhi sei militantidella Tibetan Youth Congress (cinque uomini euna donna) iniziano uno sciopero della fame adoltranza per sostenere le richieste dellaCommissione Internazionale dei Giuristi. Al 49°giorno di digiuno la polizia indiana intervieneospedalizzando con la forza i sei e impedendo lorodi continuare fino all’estremo sacrificio la prote-sta. Sconvolto per questa ennesima prevaricazio-ne contro il suo popolo, Tupthen Ngodup un tibe-tano di 50 anni che aveva accudito i digiunatorifin dall’inizio della loro lotta, si dà fuoco per pro-testa e muore dopo pochi giorni con oltre il 95%del corpo gravemente ustionato. La foto diTupthen Ngodup avvolto dalle fiamme fa inpoche ore il giro del mondo. E’ auspicabile che

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quelle fiamme possano rischiarare la notte delpopolo tibetano e contribuire a mettervi fine.

Tratto da “Il Tibet nel Cuore”, di P. Verni

TIBET OGGI

Il sistema politico e l’attuale dirigenza

Il Tibet, come tutta la Cina continentale, è stret-tamente governato dal Partito Comunista Cinesepresente con propri distaccamenti in ogni provin-cia, prefettura autonoma e nella RegioneAutonoma Tibetana (TAR). Subordinato alPartito, il Governo ne porta a compimento ledirettive. Nella sola Lhasa sono attivi oltre sessan-ta tra Dipartimenti e Comitati molti dei qualilavorano in stretto contatto con i rispettivi ufficinazionali a Pechino. L’autonomia della TAR èquindi del tutto inesistente: di fatto, la Regionegode di un’autonomia inferiore a quella delle altreprovince cinesi. E’ significativo che la massimacarica del paese, quella di Segretario del Partito,non sia mai stata ricoperta da un tibetano.

Il Partito Comunista mantiene in Tibet un nume-roso contingente militare di occupazione (almeno250.000 uomini). Soldati e poliziotti – spesso inabiti civili – controllano le vie della capitale edegli altri centri urbani. Soprattutto a partire dallaseconda metà degli anni ’90, il Partito ha curatol’organizzazione di quadri fedeli alle sue direttive,destinati a controllare capillarmente il territoriotibetano, comprese le aree rurali, allo scopo di sra-dicare alla base ogni forma di separatismo e di eli-minare ogni manifestazione di sostegno al DalaiLama e al Governo Tibetano in Esilio.

Il Congresso Nazionale del Popolo, riunito aPechino nel marzo 2003 per la nomina dellanuova dirigenza cinese (ricordiamo che il neoPresidente della Repubblica Popolare, Hu Jintao,ricoprì la carica di Segretario del Partito nellaRegione Autonoma Tibetana alla fine degli anni’80) ha premiato con incarichi importanti alcuni

leader di spicco che, nella passata legislatura,hanno svolto ruoli di primo piano in Tibet. E’ ilcaso di Zhou Yonkang, capo della Provincia delSichuan all’epoca dell’arresto e della condanna amorte di Lobsang Dondhup e Tenzin Delek, oraassunto alla carica di Ministro della PubblicaSicurezza, e di Chen Kuiyuan, ex segretario delPartito nella Regione Autonoma Tibetana neglianni ’90. Chen, sostenitore della “linea dura” efautore delle tre campagne di “educazione patriot-tica”, “civilizzazione spirituale” e “colpisci duro”, èstato eletto membro del Comitato Centrale delPartito Comunista Cinese di cui figura tra i 24vice presidenti. Promosso anche il tibetano Ragdi,uno dei vice segretari del Comitato del PartitoRegionale Tibetano e presidente del ComitatoRegionale del Congresso Nazionale del Popolo(CNP) in Tibet, che ha coronato la sua carrierapolitica divenendo uno dei 15 vice presidenti delComitato Centrale dello stesso CNP. In Tibet,Ragdi, acceso sostenitore della politica iniziatadallo stesso Hu Jintao, non ha mai cessato di porrel’accento sull’importanza dello sviluppo economi-co e della tutela della stabilità sociale attraverso lalotta al separatismo e alla “clique” del Dalai Lama.

Queste “promozioni”, e abbiamo citato solo alcu-ni tra i casi più significativi, sembrerebbero indi-care la determinazione del Partito e del governo diPechino a mantenere il Tibet in una stretta morsaassicurando la continuità della linea politica.

Anche il cambio della guardia ai vertici dellaRegione Autonoma Tibetana sembra avvalorarequesta tendenza. Alla carica di nuovo Presidentedel Tibet, al posto di Legchok, è stato elettoJampa Phuntsog, ex vice segretario del Partito eora chiamato a svolgere un ruolo di governo.Legchok ha sostituito alla presidenza delComitato Nazionale del Congresso del Popolo (lapiù alta carica della TAR) il tibetano Ragdi, tra-sferito a Pechino dopo 18 anni di servizio nellaRegione Autonoma. Le nomine di Phuntsog e diLegchok premiano i lunghi anni di lavoro in Tibetdei due neo eletti e la loro conformità alle diretti-ve del regime.

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Segretario del Partito è un cinese, YangChuantang, che ha sostituito Guo Jinlong, elettoal prestigioso incarico nel 2000 al posto del “duro”Chen Kuiyang. Nessun tibetano è mai stato elet-to segretario del Partito, ruolo che, di fatto, garan-tisce la gestione del potere. Yang Chuantang èritenuto molto vicino a Hu Jintao che lo volle consé quando era Segretario del Partito in Tibet.

La condizione dei tibetani

In Tibet la situazione rimane grave. Continua l’af-flusso dei coloni cinesi che hanno ormai ridotto itibetani ad una minoranza all’interno del loropaese, con una presenza di sette milioni e mezzo dicoloni han contro sei milioni di tibetani. Le attivi-tà religiose e la libertà di culto sono fortementeostacolate, proseguono gli arresti e le detenzioniarbitrarie e i detenuti sono percossi e torturati. Il“miracolo economico”cinese non reca alcun con-creto vantaggio ai tibetani che sono progressiva-mente emarginati dal punto di vista sia economicosia sociale. Le stesse grandiose infrastrutture(gasdotti, ferrovie, aeroporti), volute dal governo diPechino, non sono di beneficio alla popolazionetibetana: favorendo, di fatto, l’afflusso di nuovicoloni, costituiscono un’ulteriore minaccia alla cul-tura e alle tradizioni peculiari del paese oltre a com-prometterne seriamente l’equilibrio ambientale.

Nonostante gli stretti controlli esercitati dallapolizia e dall’esercito, pacifiche dimostrazioni sisusseguono sia all’interno della RegioneAutonoma Tibetana, in particolare a Lhasa, sianelle altre Regioni (Kham e Amdo). Le autorità cinesi rispondono inasprendo imposi-zioni e divieti. Fonti attendibili hanno riferito chei giorni 11 e 12 novembre 2003, speciali “gruppi dilavoro” composti di funzionari governativi si sonorecati nei villaggi e hanno intimato alla popola-zione tibetana delle contee di Kardze e Lithang(Sichuan), composta prevalentemente da conta-dini, di consegnare tutte le fotografie del DalaiLama entro un mese, pena la confisca della terra.Il 21 novembre, il governo tibetano in esilio ha

definito questa misura “provocatoria” e ha accusa-to la Cina di volere deliberatamente esasperare lapopolazione tibetana del Sichuan per poter prete-stuosamente intervenire con la forza.Dal 2001, la provincia del Sichuan, che in passa-to aveva goduto di una relativa libertà di culto, èdivenuta uno dei punti focali della campagna con-tro il Dalai Lama e la religione. Tra le personalitàdi grande spicco oggetto della repressione cinesefigurano Geshe Sonam Phuntsok (che attualmen-te sta scontando una pena detentiva di cinqueanni), Tenzin Delek Rinpoche (condannato amorte dopo un processo farsa) e l’abate di Serthar,Jigme Phuntsok, deceduto il 6 gennaio 2004 aChengdu dopo un’operazione al cuore. A lungoera stato trattenuto dalla polizia mentre il suomonastero era distrutto e i monaci e le monacheallontanati con la forza.

Il gruppo d’informazione Tibet InformationNetwork ha reso noto che il 29 agosto 2003 seimonaci residenti nella Contea di Kakhog,Prefettura di Ngaba, (Amdo) sono stati arrestati econdannati a pene detentive varianti da uno adodici anni per aver distribuito volantini inneg-gianti all’indipendenza del Tibet. Dopo l’arrestodei religiosi, avvenuto nel corso dell’annuale “YakFestival”, il personale dell’Ufficio di PubblicaSicurezza ha fatto irruzione nella stanza di uno deimonaci ed ha confiscato numerose fotografie delDalai Lama e una bandiera tibetana. T.I.N. rilevache questi arresti e le relative condanne costitui-scono un fatto senza precedenti in Amdo e si inse-riscono nella crescente ondata di repressione inatto nelle regioni al di fuori della RegioneAutonoma Tibetana.

Anche nella Regione Autonoma continuano tut-tavia gli arresti e le violenze. Il 2 dicembre 2004 siè appreso che Yeshe Gyatso, un tibetano di settan-tadue anni, ex funzionario governativo, arrestatoa Lhasa nel giugno 2003 assieme a due studentiuniversitari, è stato condannato a sei anni di car-cere.Il 16 dicembre 2004, TibetNet ha diffuso la notiziadella morte, in un ospedale di Shigatse, di Tenzin

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Phuntsok, sessantaquattro anni, arrestato il 21febbraio 2003 perché sospettato di coinvolgimen-to in attività politiche “sospette”. I tibetani diKhangmar, suo paese natale, ritengono chePhuntsok, in ottima salute prima dell’arresto, siamorto in seguito alle torture subite durante gliinterrogatori presso il centro detentivo di Nyari.Lascia la moglie e undici figli. La notizia dellamorte di Tenzin Phuntsog, giunta solo pochi mesidopo quella della morte di un altro tibetano,Nyima Drakpa, le cui condizioni di salute si eranoseriamente aggravate dopo le torture subite in car-cere, propone il problema dell’effettivo rispetto daparte della Cina delle norme contenute nella

Convenzione ONU Contro la Tortura, di cuiPechino è firmataria.Il 16 dicembre 2003, il Centro Tibetano per iDiritti Umani e la Democrazia (TCHRD) ha resonoto inoltre che Nyima Tsering, un insegnantesessantacinquenne, è stato condannato dal tribu-nale di Gyantse a cinque anni di carcere per “isti-gazione delle masse”. Il TCHRD ha fatto sapereche la sentenza contro Nyima, arrestato neldicembre 2002 assieme ad un negoziante con l’ac-cusa di aver divulgato libelli indipendentisti, èstata pronunciata nel giugno 2003. Il tibetano stascontando la pena nella prigione di Drapchi, aLhasa.

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Il governo tibetano in esilio, guidato da SuaSantità il Dalai Lama, ha costantemente soste-nuto che il Tibet si trova sotto la illegale occu-pazione cinese in quanto la Cina ha invaso que-sto paese, politicamente indipendente, nel1949/50. La Repubblica Popolare Cinese di con-tro insiste nel sostenere che i suoi rapporti conil Tibet sono semplicemente un suo affare inter-no poiché il Tibet è ed è stato per secoli parteintegrante della Cina. La questione dello statusdel Tibet è essenzialmente una questione legalema di grande rilevanza politica. La RepubblicaPopolare Cinese non rivendica alcun diritto disovranità sul Tibet come conseguenza della sot-tomissione militare e dell’occupazione del paesein seguito all’invasione armata del 1949/50.Difficilmente infatti potrebbe sostenere questatesi poiché rifiuta categoricamente, in quantoillegale, ogni rivendicazione di sovranità basatasulla conquista, l’occupazione o l’imposizione ditrattati ingiusti avanzate da altri Stati. LaRepubblica Popolare cinese reclama invece ilsuo diritto sul Tibet asserendo che il Tibet èdiventato parte integrante della Cina settecentoanni fa.

Le origini

Sebbene la storia dello stato tibetano abbia ini-zio nel 127 a.C. quando prese il potere la dina-stia Yarlung, il Paese, come lo conosciamo oggi,fu unificato per la prima volta nel settimo seco-lo sotto il re Song-tsen Gampo ed i suoi succes-sori. Durante i tre secoli seguenti il Tibet fu unadelle più grandi potenze dell’Asia come testimo-nia l’iscrizione riportata su una colonna alla basedel palazzo del Potala, a Lhasa, confermata daipoemi cinesi del periodo Tang. Inoltre, un trat-tato di pace fra la Cina ed il Tibet fu siglatonegli anni 821-823. In esso si delineano i confi-

ni tra i due paesi e si afferma che “i tibetanipotranno vivere felici nel Tibet ed i cinesi inCina”.

L’influenza mongola

Nel tredicesimo secolo quando l’impero mongo-lo di Gengis Khan si espanse ad ovest versol’Europa e ad est verso la Cina, i massimi espo-nenti della fiorente scuola di buddhismo tibeta-no Sakya stipularono un accordo con i dirigentimongoli al fine di evitare la conquista del Tibet.Lama tibetani si impegnarono a garantire lafedeltà politica, la benedizione religiosa ed inse-gnamenti in cambio di patrocinio e protezione.Il legame religioso divenne così importante chequando, decenni più tardi, Kublai Khan conqui-stò la Cina instaurando la dinastia Yuan (1279-1368), invitò il capo della scuola Sakya a rico-prire la carica di Precettore Imperiale e SupremoPontefice del suo impero. Il rapporto tra mongo-li e tibetani, continuato fino al ventesimo seco-lo, testimonia la stretta affinità razziale, cultura-le e religiosa tra i due popoli dell’Asia centrale.L’Impero Mongolo fu un impero di importanzamondiale e, qualunque fosse la relazione tra isuoi governanti ed i tibetani, i mongoli nonfavorirono mai in alcun modo l’integrazione delTibet con la Cina o con la sua amministrazione.Il Tibet ruppe i propri legami politici con gliimperatori Yuan nel 1350, prima che la Cinariguadagnasse la sua indipendenza dai mongoli.Negli anni che seguirono fino al diciottesimosecolo, il Tibet non subì alcuna influenza stra-niera.

Rapporti con Manciù e Gorkha

Il Tibet non stabilì alcun legame con la dinastiacinese Ming (1336-1664). Anzi, il V° DalaiLama, che nel 1642 costituì il suo governo

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LO STATUS DEL TIBETMichael C. van Walt van Praag, noto esperto di diritto internazionale, in appendice ad un suo articolo scrittoper la rivista International Relations, riassume i principali aspetti della questione tibetana sotto il profilo del dirittointernazionale.

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sovrano sul Tibet con l’aiuto di un mecenatemongolo, strinse stretti rapporti religiosi con gliimperatori Manciù che conquistarono la Cinainstaurando la dinasta Qing (1644-1911). IlDalai Lama acconsentì a diventare guida spiri-tuale dell’imperatore Manciù ed in cambio neaccettò la protezione. Questo rapporto di „guidaspirituale-protettore“ (in tibetano Choe-Yoen),che i Dalai Lama mantennero anche con alcuniprincipi mongoli e nobili tibetani, costituì ilsolo legame formale tra i Tibetani ed i Manciùdurante la dinastia Qing e non comportò alcunainfluenza negativa sull’indipendenza del Tibet.A livello politico alcuni potenti imperatoriManciù riuscirono ad esercitare una certainfluenza sul Tibet. Tra il 1720 ed il 1792, gliimperatori Kangxi, Yong Zhen e Quianlonginviarono quattro volte truppe imperiali inTibet al fine di difendere il Dalai Lama da inva-sioni da parte dei mongoli e dei Gorkha oppureda agitazioni interne. Tali spedizioni fornironoagli imperatori Manciù il pretesto per esercitareuna certa influenza sul Tibet. Vennero cosìinviati a Lhasa, capitale del Tibet, rappresentan-ti dell’imperatore alcuni dei quali, in seguito,esercitarono con successo pressioni sul governotibetano, specialmente per quanto riguarda lapolitica estera. Nel momento di massima espan-sione dell’influenza Manciù, la posizione delTibet non è stata mai molto diversa da quellache può verificarsi tra una superpotenza e unostato satellite. Una situazione, quindi, che, seb-bene politicamente rilevante, non annulla l’in-dipendenza dello stato più debole. Questo parti-colare rapporto durò alcuni decenni. Il Tibetnon fu mai incorporato nell’Impero Manciù,tanto meno nella Cina, e continuò a portareavanti, di propria iniziativa, le relazioni con glistati vicini. L’influenza Manciù non durò alungo ed era completamente esaurita quando gliInglesi, che per un breve periodo avevano occu-pato Lhasa, conclusero con i tibetani, nel 1904,un trattato bilaterale, noto come Convenzionedi Lhasa. Nonostante tale perdita d’influenza ilgoverno imperiale di Pechino continuò a recla-mare una qualche autorità sul Tibet, soprattutto

per quanto riguardava le relazioni estere di que-sto paese, autorità che il governo imperiale bri-tannico, nei suoi rapporti con Pechino e SanPietroburgo, definì come „controllo politico“.Le forze imperiali tentarono di ristabilire unasupremazia reale sul Tibet invadendo il paese edoccupando Lhasa nel 1910. A seguito della rivo-luzione cinese del 1911 e della caduta dell’impe-ro Manciù, le truppe di Pechino si arreseroall’esercito tibetano e rientrarono in Cina inossequio ad un trattato di pace tra la Cina ed ilTibet. Il Dalai Lama riaffermò la più completaindipendenza sia all’interno emanando un pro-clama su tale status, sia all’esterno nei contatticon altri governi e stipulando un trattato con laMongolia.

Il Tibet nel ventesimo secolo

Lo status del Tibet, dopo il ritiro delle truppeManciù, non è oggi oggetto di seri motivi didiscussione. Qualunque fossero i legami tra ilDalai Lama e gli imperatori Manciù della dina-stia Qing, essi ebbero fine con la caduta dell’im-pero e della dinastia. Tra il 1911 ed il 1950 ilTibet impedì con successo l’instaurarsi di indebi-te ingerenze straniere ed operò, sotto ogni puntodi vista, come uno stato completamente indi-pendente. Il Tibet intrattenne relazioni diplo-matiche con il Nepal, il Bhutan, la GranBretagna e più tardi con l’India indipendente.Le relazioni con la Cina si mantennero tese. Icinesi intrapresero una guerra di confine con ilTibet e nello stesso tempo fecero pressioni uffi-ciali affinché il Paese delle Nevi confluisse nellaRepubblica cinese reclamando sempre ed ovun-que che i tibetani erano una delle cinque razzecinesi. Nel tentativo di attenuare la tensionesino-tibetana, gli Inglesi convocarono, nel 1913a Simla, una conferenza tripartita nella quale itre stati si incontrarono a pari condizioni. Comefece presente il delegato inglese alla sua contro-parte cinese, il Tibet prese parte alla conferenzacome una nazione indipendente che non riconosce-va alcun legame con la Cina. La conferenza nonebbe un esito positivo poiché non riuscì a risol-vere le controversie esistenti tra Cina e Tibet

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ma fu importante perché riaffermò l’amiciziaanglo-tibetana, suggellata da una accordo com-merciale tra i due paesi e dalla sistemazione dialcuni problemi di confine. Nella dichiarazionecongiunta la Gran Bretagna ed il Tibet si impe-gnarono a non riconoscere mai la sovranitàcinese o altri diritti speciali sul Tibet a meno chela Cina non avesse sottoscritto la Convenzionedi Simla che, tra l’altro, garantiva al Tibet unapiù ampia estensione, l’integrità territoriale e lapiena autonomia. Poiché la Cina non firmò maila Convenzione, rimane in vigore quanto espres-so nella dichiarazione congiunta. Il Tibet intrat-tenne le proprie relazioni internazionali siaattraverso contatti con missioni diplomatichebritanniche, cinesi, nepalesi e bhutanesi aLhasa, sia inviando proprie delegazioni governa-tive all’estero. Quando l’India divenne indipen-dente la missione britannica a Lhasa fu sostitutada una missione indiana. Durante la secondaguerra mondiale il Tibet assunse una posizioneneutrale nonostante forti pressioni esercitatedagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dallaCina affinché venisse consentito il passaggio diarmamenti in territorio tibetano. Il Tibet nonha mai intrattenuto rapporti con molti stati, maquelli con i quali ha avuto contatti hanno trat-tato il Tibet come uno stato sovrano. Di fatto ilsuo status internazionale non era affatto diffe-rente da quello del Nepal. Così quando il Nepal,nel 1949, chiese di diventare membro delleNazioni Unite citò, tra l’altro, le sue relazionidiplomatiche con il Tibet a sostegno della suapiena personalità internazionale.

L’invasione del Tibet

Il momento critico della storia del Tibet soprag-giunse nel 1949 quando l’esercito di Liberazionedella Repubblica Popolare Cinese invase ilpaese. Dopo aver sconfitto il piccolo esercitotibetano ed aver occupato metà del territorio,nel maggio 1951 il governo cinese impose algoverno tibetano il cosiddetto „Accordo in 17punti per la liberazione pacifica del Tibet“. Taleaccordo, poiché sottoscritto forzatamente, nonha validità secondo il diritto internazionale: la

presenza di 40.000 militari, la minaccia diun’imminente occupazione di Lhasa e la pro-spettiva di una totale eliminazione del Tibetlasciavano ai tibetani pochissime possibilità discelta.

Conclusioni

Nel corso dei suoi 2.000 anni di storia, il Tibet èstato soggetto all’influenza straniera solo perbrevi periodi nel corso del tredicesimo e diciot-tesimo secolo. Pochi paesi indipendenti possonooggi rivendicare un passato così illustre. Comeha fatto notare l’ambasciatore d’Irlanda alleNazione Unite nel corso di un dibattitodell’Assemblea Generale sulla questione delTibet... „per migliaia di anni o in ogni caso peralmeno duemila anni, [il Tibet] è stato libero eha avuto il pieno controllo dei suoi affari inter-ni quanto e come altre nazioni rappresentate inquesta Assemblea ed ancora mille volte più libe-ro di quanto potessero essere molte delleNazioni qui presenti...“ Nel corso dei dibattitialle Nazioni Uniti molti altri Paesi hanno fattodichiarazioni che riflettono analoghi riconosci-menti dello status indipendente del Tibet. Così,per esempio, il delegato delle Filippine hadichiarato: “È chiaro che alla vigilia dell’inva-sione, nel 1950, il Tibet non era soggetto algoverno di nessun Paese straniero.“ Il delegatodella Thailandia ha ricordato all’Assemblea che“...la maggioranza degli Stati rifiuta l’opinioneche il Tibet sia parte della Cina.“ Gli Stati Unitisi sono uniti alla maggioranza degli altri Statimembri delle Nazioni Uniti nel condannarel’aggressione cinese e l’invasione. Nel 1959,1960 ed ancora nel 1965 l’Assemblea Generaledelle Nazioni Uniti ha approvato tre risoluzioni(1353 [XIV], 1723 [XVI] e 2079 [XX]) che con-dannano le violazioni dei diritti umani da partedei cinesi e richiamano la Cina a rispettare ed agarantire i diritti umani e le libertà fondamenta-li del popolo tibetano incluso il diritto all’auto-determinazione. Dal punto di vista giuridico ilTibet non ha mai perso la sua caratteristica distato. È una nazione indipendente oppressa dauna occupazione illegale. Né l’invasione milita-

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re cinese né l’occupazione continua da partedell’Esercito di Liberazione della RepubblicaPopolare della Cina hanno potuto trasferire lasovranità del Tibet alla Cina. Come sottolinea-to in precedenza il governo cinese non ha mairivendicato di aver acquisito la sovranità sulTibet per mezzo della conquista. Infatti anche laCina riconosce che l’uso o la minaccia dellaforza (eccetto le condizioni eccezionali stabilite

dalla Corte delle Nazioni Unite), l’imposizionedi un trattato ingiusto e la continua, illegaleoccupazione di un Paese non possono in alcunmodo garantire all’invasore il diritto di proprie-tà del territorio occupato. Le rivendicazionicinesi sono basate esclusivamente sul pretesoassoggettamento del Tibet da parte di pochipotenti governanti cinesi durante il tredicesimoed il diciottesimo secolo.

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Il Buddhismo delle origini

Il Buddhismo è quella religione che prende ilnome dal suo fondatore Gautama SiddhartaSakyamuni, detto il Buddha (l’Illuminato) chenacque, visse e insegnò nell’India centro setten-trionale tra il quinto e il quarto secolo a. C. Figlio del re Suddhodhana e della regina MayaDevi, Gautama Siddharta era il primogenito diuna famiglia di stirpe reale che regnava su di unpiccolo principato i cui territori si estendevanosu una parte di quello che è oggi lo stato india-no del Bihar. All’età di 29 anni il giovaneGautama però scelse di abdicare alle sue funzio-ni regali per dedicarsi alla vita spirituale.Abbandonò la reggia, la moglie, la famiglia perintraprendere la vita errabonda degli asceti iti-neranti che a quel tempo popolavano le foresteindiane praticando lo yoga e la meditazione.Dopo una lunga ricerca durata diversi anni unanotte, mentre meditava sotto un albero pipalnella località dell’India centrale oggi nota con ilnome di Bodhgaya, raggiunse la definitivaIlluminazione interiore divenendo così ilBuddha, il Risvegliato. Qualche tempo dopoaver ottenuto l’Illuminazione si recò in unaforesta vicino la città di Varanasi (Benares) e lìtenne il suo primo insegnamento pubblico rivol-to a sei asceti con i quali aveva in precedenzavissuto.

Questo discorso, noto come “Le Quattro NobiliVerità” rappresenta il cuore della dottrinabuddhista, vale a dire la “Nobile Via di Mezzo”che si pone tra i due estremi del materialismo edell’ascetismo esasperato e si fonda sulla consa-pevolezza di quattro verità relative all’esistenza:la verità del dolore, la verità dell’origine deldolore, la verità della fine del dolore, la veritàdel sentiero che conduce alla cessazione deldolore. Partendo dalla constatazione che ledimensioni del dolore e della sofferenza sono

indissolubilmente legate all’esperienza umana acausa di una ignoranza che impedisce di coglie-re la realtà “così come essa è” ma considerandonel contempo possibile, anzi quasi doveroso, perl’essere umano liberarsi dal peso di questo fardel-lo, il Buddha elaborò una psicologia spirituale edelle tecniche introspettive basate sulla medita-zione e sullo yoga che possono consentire aquanti lo desiderano realmente di ottenere laliberazione dal dolore raggiungendol’Illuminazione, vale a dire uno stato di consape-volezza totale in cui non c’è più spazio per igno-ranza alcuna e le sofferenze da essa generate. IlBuddhismo afferma che non vi è alcun Dioesterno che potrà regalarci l’Illuminazione mache questa è una meta che dobbiamo raggiunge-re da noi stessi attraverso un complesso cammi-no di autoanalisi, di conoscenza e di introspezio-ne da percorrere anno dopo anno ed esistenzadopo esistenza. Al termine di una predicazionedurata oltre quarant’anni il Buddha lasciò il suocorpo terreno nel 486 a. C. (secondo altre fontinel 476) entrando così nel nirvana, lo stato pri-migenio al di là della nascita e della morte.

Subito dopo la scomparsa dell’Illuminato lacomunità buddhista si divise in un gran numerodi scuole. Una serie di concili, indetti con l’in-tento di preservare nella sua originaria purezzal’insegnamento del Buddha, diedero vita a dueindirizzi: mahasangika e sthaviravadin che a lorovolta si suddivisero in più di venti diverse tradi-zioni. Sarebbe troppo arduo, in questo contesto,entrare nello specifico delle differenze e dellesimilitudini delle varie correnti del Buddhismoindiano qui basterà accennare ai tre veicoli(yana in sanscrito) principali in cui l’insegna-mento del Buddha si articola, Hinayana(Piccolo Veicolo), Mahayana (Grande Veicolo),Vajrayana (Veicolo del Vajra).

Hinayana letteralmente significa "piccolo vei-

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IL BUDDHISMO DEL TIBET

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colo" ma sarebbe più esatto chiamarlo "la viastretta" dal momento che è "piccolo" o "stretto"nel senso che una precisa disciplina meditativadelimita e doma il lavorio nevrotico della menteconducendo il praticante ad uno stato di tran-quilla quiete mentale. Attraverso la disciplinadello Hinayana si può avere una diretta espe-rienza della natura della mente e del mondofenomenico. Lo Hinayana conferisce grandeimportanza alla pratica della meditazione eall'etica. Durante la sua vita Buddha Sakyamunistabilì delle regole di comportamento che devo-no essere rigorosamente osservate nella vitamonastica. Il complesso di queste norme è chia-mato vinaya in sanscrito e dulwa in tibetano.Entrambi questi termini significano "domare" equindi, parlando in generale, possiamo intende-re con vinaya qualsiasi disciplina interiore chepratichiamo per domare in nostro universo inte-riore. Secondo l'Hinayana l'unico modo per gui-dare noi stessi è quello del vinaya, il sentierodella disciplina. Applicando correttamente iprincipi del vinaya l'essere umano è in grado di"domare" il corpo, la parola e la mente ed è cosìin grado di raffreddare il "fuoco" della nevrosi.In questa condizione mentale si può mettere inpratica la più importante delle aspirazionihinayana, non danneggiare noi stessi né gli altrie, basandoci sulla "presenza mentale" acquisitatramite la meditazione, raggiungere la liberazio-ne individuale.

Il Mahayana, o "grande veicolo" è come unagrande autostrada sulla quale continuare il per-corso iniziato lungo il sentiero dello Hinayana.Il Mahayana va oltre l'ideale della liberazioneindividuale. Il suo scopo è la liberazione di tuttigli esseri senzienti e ogni forma di vita è compre-sa nella sua visione. Il Mahayana esprime un'at-titudine del Buddhismo più orientata in sensosociale e il suo modello archetipico è il bodhi-sattva, colui che rinuncia al nirvana per rimane-re su questa terra ad aiutare tutti gli esseri sen-zienti a raggiungere lo stato di Buddha. La com-passione è la qualità principale del bodhisattva,il cui stile di vita comporta la pratica delle sei

"perfezioni" (paramita in sanscrito) e la realizza-zione dei "Dieci Livelli Spirituali" (Bhumi). Lapiù importante caratteristica del Mahayana èdunque la compassione nei confronti del mondoche però non si basa sull'autonegazione o sulmartirio al contrario scaturisce dallo sviluppo diuna genuina cordialità e da una attitudine men-tale espansiva ed accogliente.

Vajrayana significa letteralmente "Veicolo didiamante o indistruttibile". L'idea di indistrutti-bilità, in questo caso, riguarda la scoperta dellostato illuminato della mente, la natura vajra.Questo veicolo particolarmente connesso con letecniche dello yoga, usa meditazioni e visualiz-zazioni estremamente complesse e fa ampio usodi materiali psicologici, simbolici ed archetipici.Viene ritenuto in grado di muovere energie psi-chiche molto potenti ed è considerato l'approc-cio più diretto per realizzare quell'unione diupaya (i mezzi abili e in generale la dimensionemaschile) e prajna (la consapevolezza discrimi-nante e in generale l’elemento femminile) rite-nuta indispensabile per realizzare laIlluminazione interiore. Il Vajrayana è il puntodi arrivo della via spirituale buddhista e non puòessere praticato senza prima aver percorso lestrade dello Hinayana e del Mahayana.

Il Buddhismo del Tibet

Il Buddhismo che arrivò in Tibet fu fondamen-talmente quello Vajrayana e il principale artefi-ce della sua diffusione fu Padmasambhava, chia-mato anche Guru Rimpoche, un maestro tantri-co che arrivò nel Paese delle Nevi nell'ottavosecolo su invito del re Trisong Deutsen che vole-va diffondere tra i suoi sudditi la dottrina delBuddha. Padmasambhava cominciò la sua mis-sione convertendo i membri della famiglia realee diversi nobili di corte. Ebbe così inizio quellache viene definita la "Prima diffusione dellaDottrina", della quale furono protagonisti anchealtri maestri indiani tra i quali il monacoSantarakshita e Vimalamitra, e che vede il suo

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momento più emblematico nella costruzione diSamye, il primo monastero buddhista del Tibetalla cui edificazione partecipò lo stesso GuruRimpoche.

Nella prima metà dell'ottavo secolo, sotto ilpatronato di Trisong Deutsen, vengono portatidall'India numerosi testi buddhisti (tantra) chesono tradotti in tibetano da un gruppo di 108traduttori. Padmasambhava conferisce numero-se iniziazioni, dà molteplici insegnamenti in dif-ferenti luoghi del Tibet centrale e in brevetempo riunisce un nutrito gruppo di discepoli,venticinque dei quali furono considerati i prin-cipali. Questi, a loro volta, si impegnano in unavasta opera di diffusione del Buddhismo che ini-zia a divenire popolare anche fuori dagliambienti di corte. Si celebrano le prime ordina-zioni monastiche, si tengono i primi grandiraduni religiosi, si sviluppa un'ampia comunitàbuddhista che comprende sia monaci sia laici.

In poco meno di due secoli il Buddhismovajrayana si diffonde in Tibet, particolarmentein quello centrale, e un numero sempre maggio-re di tibetani si converte all'insegnamento delBuddha. Durante il regno del re Langdarma(decimo secolo) il Buddhismo fu sottoposto auna repressione di tale intensità che di questatradizione quasi non rimase traccia. Il lignaggioche Padmasambhava, e gli altri maestri avevanoportato nel Paese delle Nevi venne preservatosolo da alcuni yogin che, nell'isolamento deiloro eremi sperduti, salvarono i testi e le relati-ve pratiche spirituali. Per quanto riguarda inve-ce la tradizione monastica che era stata fondatada Santarakshita, fu salvata da tre monaci chefuggirono dal Tibet centrale e si rifugiarononelle regioni orientali. Qui, lontano dalla furiaiconoclasta del sanguinario Langdarma, potero-no mantenersi fedeli ai loro voti e quando, dopocirca un secolo, dieci loro discepoli tornarononella zona di Lhasa il monachesimo tibetanoriprese a vivere anche nel Tibet centrale.

A partire dal decimo secolo il Buddhismo torna

dunque a propagarsi in Tibet. Quel poco che siera salvato dalle persecuzioni si riorganizza, ivecchi templi sono riaperti, i contatti conl'India vengono ristabiliti, nuovi maestri giun-gono sul Tetto del Mondo e nuovi monasterisonoedificati. Gli storici sono soliti chiamareTam-Pa Nga-dar (Prima diffusione dellaDottrina) il periodo di tempo compreso tra ilsettecento e il novecento quando vennero tra-dotti in tibetano i Tantra Antichi (Sang-NagsNga-a-Gyur) mentre i secoli decimo e undicesi-mo sono noti come Tan-Pa Phyi-Dar (Secondadiffusione della Dottrina). In questo periodo, adopera di rinomati traduttori come RinchenZangpo (958-1051), Drogmi Sakya (993-1050) eMarpa Chokyi Lodro (1012-1099), vengono tra-dotti i Nuovi Tantra (Ngags Sarma) con i qualil'intero corpo dottrinario buddhista è trasmessoin Tibet.

Il Paese delle Nevi è nuovamente attraversatoda una grande ondata di entusiasmo per ilBuddhismo che adesso si diffonde in ogni ango-lo della nazione e diviene così la religione digran lunga maggioritaria e tale è rimasta fino ainostri giorni. Le vie che collegano India e Tibetsono affollate in entrambi i sensi. Alcuni tra ipiù rinomati maestri spirituali giungono dallemontagne himalayane e dalle pianure gangeti-che e gruppi sempre più numerosi di giovanitibetani affrontano viaggi lunghi e pericolosi perandare a ricevere il prezioso insegnamento delBuddha direttamente dai guru che vivono anco-ra nel sub-continente indiano. Con i primidecenni dell'undicesimo secolo cominciano aprendere forma in Tibet i differenti indirizzibuddhisti che ben presto daranno vita a nume-rose scuole le quali, se da un lato si riconosconotutte nelle idee generali del Buddhismo vajraya-na, dall'altro divergono sui mezzi più idonei permetterle in pratica.

di Piero Verni

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La società tibetana tradizionale si poteva, in linea dimassima, dividere in quattro aree sociali: i nobili, imercanti-commercianti, i contadini ed i nomadimentre un gruppo a parte era costituito dal clero.L’aristocrazia feudale costituiva l’ossatura dellasocietà laica, dai suoi ranghi uscivano tutti i piùinfluenti funzionari dello stato, i governatori, i prin-cipi che, insieme con i rappresentanti del clero,amministravano il paese. La nobiltà era in generecostituita da due classi, i grandi (chuda) e i piccoli(nyamchung) proprietari terrieri. Il rapporto traqueste due componenti era di tipo gerarchico e ipiccoli, che per lo più possedevano dei modestiappezzamenti di terreno, dovevano fornire alcuniservizi ai grandi proprietari. Questi in cambio dava-no delle ricompense in denaro o, più spesso, generialimentari e di prima necessità. Grandi e piccoliproprietari erano obbligati, proporzionalmente allaloro ricchezza, a pagare una tassa al governo centra-le che la riscuoteva tramite appositi funzionari.Il Tibet, grazie alla sua centralissima posizione geo-grafica, si è da sempre trovato nelle migliori condi-zioni logistiche per intraprendere commerci con ilresto del continente asiatico. A nord le vie carova-niere conducevano verso i mercati della Cina edella Mongolia, mentre a sud c’erano gli stati hima-layani (segnatamente Nepal e Bhutan) e quellidell’India centro-settentrionale. Era ovvio quindiche nel Paese delle Nevi si sviluppasse una intra-prendente classe di mercanti e commercianti chenel corso dei secoli riuscì ad avviare attività econo-miche così redditizie che alcune famiglie, grazie aicapitali accumulati, poterono esercitare un’influen-za sociale e politica in alcuni casi superiore a quelladi molti clan aristocratici.Le immagini di lunghe carovane che percorronol’altopiano del Tibet furono tra le più suggestive“immagini” del Tetto del Mondo di cui parlarono iprimi visitatori occidentali. Nelle città di Lhasa,Gyantse, Shigatse e Chamdo (oltre che in numero-si villaggi), il mercato era il cuore civile dell’abitatoquanto il monastero ne incarnava quello religioso.Si esportavano lana, tappeti e sale, si importavanosete e broccati (dalla Cina), generi di artigianato(dalla Cina e dall’India), stoffe (dal Bhutan). Unristretto numero di famiglie aveva il monopolio deigrandi traffici commerciali e gestiva una rete di veree proprie agenzie mercantili a Lhasa, Gyantse,Shigatse e nelle principali città estere con cui vi

erano rapporti d’affari. La rimanente parte del com-mercio costituiva la fonte di reddito di quei nucleifamigliari le cui condizioni economiche risultavanomolto diversificate. Alcuni erano piuttosto bene-stanti mentre altri riuscivano con un certa difficoltàa procurarsi il necessario per vivere decorosamente. I contadini rappresentavano, come dire, la “gentecomune” del Tibet. Sovente legati ad un’economiaessenziale non vivevano però in condizioni di mise-ria e la fame era sconosciuta (anche grazie alla pre-vidente tradizione di ammassare una parte del rac-colto per poter far fronte ad eventuali carestie).Quasi mai la terra che coltivavano era loro ma ave-vano la proprietà delle greggi, delle bestie per illavoro nei campi, dei cavalli e dei muli che serviva-no per gli spostamenti. Il rapporto tra quanto produ-cevano e quello che dovevano pagare al governo oal padrone del terreno (nobiltà, monastero o Stato)era per lo più equo o almeno non ferocemente ini-quo e le relazioni dei contadini con l’autorità sonosempre state buone e non si ha memoria di rivolte oribellioni organizzate contro il potere. Il potere nel Tibet tradizionale veniva esercitato siaa livello centrale sia a livello locale. A livello cen-trale, a partire dalla riunificazione del Tibet compiu-ta nel 17° secolo dal V Dalai Lama, il paese eragovernato da Lhasa da un organo legislativo al cuivertice si trovava il Dalai Lama (o il Reggentedurante la minore età del nuovo Dalai Lama) ed eracomposto da un gabinetto (Kashag) di quattro mini-stri (tre laici e un monaco) e da una AssembleaNazionale (Tsong-du). I ministri venivano semprenominati dal Dalai Lama mentre dell’AssembleaNazionale facevano parte i rappresentanti di ognisettore, sia laico sia religioso, della società tibetanaIl Tibet era diviso in circa 100 distretti ognuno deiquali era posto sotto l’autorità di due funzionari,Dzong-pon (uno laico e uno religioso), che dipen-devano direttamente dal Kashag. A livello localeinvece ogni villaggio era amministrato da un capo-villaggio incaricato di raccogliere le tasse e conse-gnarle ai funzionari preposti per la raccolta. Il capo-villaggio era in genere eletto per un determinatoperiodo di anni (normalmente tre) da una sorta diconsiglio degli anziani. Il capovillaggio poteva esse-re rieletto per un numero indefinito di volte e neicasi di personalità particolarmente prestigiose rima-neva in carica fino alla morte.

(di Piero Verni )

LA SOCIETÀ TRADIZIONALE

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Sua Santità Tenzin Gyatso, 14° Dalai Lama delTibet, è il capo temporale e spirituale del popolotibetano. Nato con il nome di Lhamo Dhondrubil 6 luglio 1935 in un piccolo villaggio chiamatoTaktser, nel nordest del Tibet, da una famiglia dicontadini, all’età di due anni fu riconosciuto comela reincarnazione del suo predecessore, il 13°Dalai Lama e, secondo la tradizione buddista tibe-tana, come reincarnazione di Avalokitesvara, ilBuddha della Compassione che scelse di tornaresulla terra per servire la gente.

La ricerca della reincarnazione

Quando il 13° Dalai Lama morì, nel 1935, il com-pito che il Governo Tibetano dovette affrontarenon fu quello della semplice nomina di un succes-sore ma la ricerca del bambino in cui il “Buddhadella Compassione” si fosse reincarnato.Il Reggente si recò al lago sacro di Lhamo Lhatsoa Chokhorgyal, circa 90 miglia a sud-est dellacapitale, Lhasa. Da secoli i tibetani, quando dove-vano prendere decisioni importanti per il lorofuturo, osservavano le acque di questo lago la cuisuperficie rifletteva immagini significative e forni-va utili indicazioni.

Il Reggente vide tre lettere dell’alfabeto tibetano,Ah, Ka e Ma, accompagnate dall’immagine di unmonastero dal tetto di giada verde e oro e di unacasa con tegole turchesi. Nel 1937 alti lama edignitari, messi al corrente della visione, furonoinviati in tutte le regioni dell’altopiano alla ricer-ca del luogo che il Reggente aveva visto nelleacque. Il gruppo di ricerca che si indirizzò verso estera guidato dal Lama Kewtsang Rinpoche, appar-tenente al monastero di Sera.

Quando arrivarono in Amdo, trovarono un luogoche corrispondeva alla descrizione della visionesegreta. Il gruppo si recò verso la casa con le tego-le turchesi. Kewtsang Rinpoche indossava le vestidi un servitore mentre l’effettivo servitore,

Lobsang Tsewang, vestiva quelle del capo delega-zione. Rinpoche aveva con sé un rosario apparte-nuto al 13° Dalai Lama: il bambino che era nellacasa lo riconobbe e chiese che gli fosse dato.Kewtsang Rinpoche promise che glielo avrebbeconsegnato se avesse riconosciuto chi fosse. Il pic-colo rispose “Sera aga” che, nel dialetto locale,significa “un lama di Sera”. Allora Rinpoche glichiese quale dei due arrivati fosse il capo delladelegazione e il bambino disse correttamente ilnome del lama; conosceva inoltre anche il nomedel vero servitore. A questa, seguì un’altra serie diprove tra cui il riconoscimento di una serie dioggetti appartenuti al 13° Dalai Lama. Il positivo esito delle prove fornì la certezza che lareincarnazione era stata trovata e fu avvaloratadal significato delle tre lettere che erano stateviste nel lago di Lhamo Lhatso: Ah per Amdo, ilnome della provincia; Ka per Kumbum, uno deipiù grandi monasteri nelle vicinanze e le due let-tere Ka e Ma per il monastero di Karma RolpaiDorje, il monastero dal tetto verde e oro sullamontagna sopra il villaggio.

La cerimonia di investitura ebbe luogo il 22 feb-braio 1940 a Lhasa, capitale del Tibet.In qualità di Dalai Lama, Lhamo Dhondrub furibattezzato con i nomi di Jetsun JamphelNgawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso (SignoreSanto, Mite Splendore, Compassionevole,Difensore della Fede, Oceano di Saggezza). ITibetani solitamente si riferiscono a Sua Santitàcome Yeshe Norbu, la Gemma [che esaudisce idesideri] o semplicemente come Kundun, laPresenza.

L’educazione in Tibet

Il Dalai Lama iniziò la sua educazione all’età di seianni e conseguì il diploma di Geshe Lharampa (oDottorato in Filosofia Buddista) all’età di 25 anni,nel 1959. A 24 anni, sostenne gli esami prelimi-nari in ciascuna delle tre università monastiche di

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TENZIN GYATSO, IL XIV DALAI LAMA

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Drepung, Sera e Ganden. L’esame finale ebbeluogo nel Jokhang, a Lhasa, durante la festivitàdel Monlam che si svolge ogni anno durante ilprimo mese del calendario Tibetano.

L’assunzione delle responsabilità di governo

Il 17 Novembre 1950, dopo l’invasione del Tibetda parte di 80.000 soldati dell’Esercito diLiberazione Popolare, fu chiesto a Sua Santità diassumere i pieni poteri politici come capo di Statoe di Governo. Nel 1954 si recò a Pechino peravviare un dialogo pacifico con Mao Tse-Tung ealtri leader cinesi, fra i quali Chou En-Lai e DengXiaoping. Nel 1956, durante una visita in India inoccasione del 2.500° anniversario del BuddhaJayanti, ebbe una serie di incontri con il PrimoMinistro Nehru e con il Premier Chou En-Lai incui fu discusso il progressivo deterioramento dellasituazione all’interno del Tibet.I suoi tentativi di soluzione pacifica del conflittoSino-Tibetano furono vanificati dalla spietatapolitica perseguita da Pechino nel TibetOrientale, politica che scatenò la sollevazionepopolare e la resistenza. La protesta si diffuse nellealtre regioni del paese. Il 10 marzo 1959 nellacapitale, Lhasa, esplose la più grande dimostrazio-ne della storia tibetana: il popolo chiese alla Cinadi lasciare il Tibet e riaffermò l’indipendenza delpaese. La sollevazione nazionale tibetana fu bru-talmente repressa dall’esercito cinese. Il Dalai Lama fuggì in India dove ottenne asilopolitico. Circa 80.000 tibetani lo seguirono e,attualmente, i profughi in India sono più di120.000. Dal 1960, il Dalai Lama risiede aDharamsala, una cittadina situata nello statoindiano dell’Himachal Pradesh, conosciuta anchecome “la piccola Lhasa” e sede del GovernoTibetano in esilio.Nei primi anni dell’esilio, Sua Santità si appellòalle Nazioni Unite per una soluzione della que-stione tibetana. L’assemblea Generale, rispettiva-mente nel 1959, 1961 e 1965, adottò tre risoluzio-ni nelle quali si esortava la Cina a rispettare idiritti umani dei tibetani e la loro aspirazioneall’autodeterminazione.

Con la costituzione del Governo Tibetano in esi-lio, il Dalai Lama comprese che il suo primoobbiettivo doveva essere la preservazione dellacomunità tibetana e della sua cultura. I rifugiatitibetani furono inseriti in insediamenti agricoli.Fu sostenuto lo sviluppo economico e fu organiz-zato un sistema scolastico basato sull’insegnamen-to della cultura tibetana affinché i figli dei rifugia-ti potessero acquisire la piena conoscenza dellaloro lingua, storia, cultura e religione. Nel 1959 fucreato l’Istituto Tibetano delle Arti e loSpettacolo e l’Istituto Centrale di Studi TibetaniSuperiori divenne una Università per i tibetani inIndia. Allo scopo di preservare il vasto corpo degliinsegnamenti del Buddismo tibetano, essenza delsistema di vita del popolo del Tibet, furono rifon-dati nell’esilio oltre 200 monasteri.Nel 1963, Sua Santità promulgò una costituzionedemocratica, che servisse da modello per un futu-ro Tibet libero, basata sia sui principi delBuddismo sia sulla Dichiarazione Universale deiDiritti Umani. Oggi i membri del parlamentosono eletti direttamente del popolo che, dalla pri-mavera 2001, elegge direttamente anche il KalonTripa, o Primo Ministro, del governo tibetano. IlPrimo Ministro, a sua volta, designa i componen-ti del proprio governo. Sua Santità ha continua-mente sottolineato la necessità di democratizzarel’amministrazione tibetana e ha pubblicamentedichiarato che quando il Tibet avrà ottenuto l’in-dipendenza, non manterrà alcuna carica politica.Nel 1987 a Washington, in occasione della riu-nione del Comitato del Congresso per i DirittiUmani, il Dalai Lama propose un Piano di Pace inCinque Punti come un primo passo verso la solu-zione del futuro status del Tibet. Questo pianochiedeva la trasformazione del Tibet in una zonadi pace, la fine dei massicci trasferimenti di popo-lazione di etnia cinese in Tibet, il ripristino deifondamentali diritti umani e delle libertà demo-cratiche, l’abbandono da parte della Cina dell’uti-lizzo del territorio tibetano per la produzione diarmi nucleari e lo scarico di rifiuti radioattivi e,infine, auspicava l’avvio di “seri negoziati” sulfuturo del Tibet. A Strasburgo, in Francia, il 15 giugno 1988, il

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Dalai Lama elaborò il Piano di Pace in CinquePunti proponendo la creazione di un Tibet demo-cratico ed autonomo, “all’interno dellaRepubblica Popolare Cinese.”Il 9 ottobre 1991, durante un discorso tenuto allaYale University negli Stati Uniti, Sua Santitàdisse che desiderava visitare il Tibet personalmen-te per valutare la situazione politica. Disse: “Temoche una situazione così esplosiva possa portare allaviolenza. Voglio fare del mio meglio per impedirlo… Il mio viaggio dovrebbe costituire una nuovaopportunità per promuovere la comprensione ecreare le basi per una soluzione negoziale.”Dopo quasi dieci anni di assenza di qualsiasi con-tatto formale tra Cina e Governo Tibetano inEsilio, nel settembre 2002 e nel giugno 2003 duedelegazioni tibetane hanno potuto recarsi un visi-ta in Cina e Tibet. Secondo Dharamsala, si è trat-tato di incontri preparatori ad un eventuale, futu-ro negoziato, miranti a creare le indispensabilipremesse di distensione e fiducia.

I contatti con l’Occidente

A partire dal 1967, Sua Santità ha intrapreso unaserie di viaggi che lo hanno portato in circa 46nazioni. Nell’autunno del 1991, ha visitato gliStati Baltici su invito del Presidente VytautasLandsbergis ed è stato il primo leader straniero atenere un discorso davanti al Parlamento Lituano.Il Dalai Lama ha incontrato Papa Paolo VI inVaticano nel 1973. Durante una conferenza stam-pa a Roma, nel 1980, ha espresso le sue speranzealla vigilia dell’incontro con Giovanni Paolo II:“Viviamo in un periodo di grande crisi, un perio-do in cui il mondo è scosso da turbolenti sviluppi. Non è possibile trovare la pace dell’anima senzala sicurezza e l’armonia fra le genti. Per questomotivo aspetto con fede e speranza di incontrareil Santo Padre; per avere uno scambio di idee esentimenti e per raccogliere i suoi suggerimenti,per aprire la strada ad una progressiva pacificazio-ne fra i popoli.”Il Dalai Lama incontrò Papa Giovanni Paolo II inVaticano nel 1980, 1982, 1986, 1988 e 1990. Nel1981, Sua Santità incontrò a Londra

l’Arcivescovo di Canterbury, dr. Robert Runcie ealtri leader della Chiesa Anglicana. Ha incontra-to inoltre i massimi rappresentanti della ChiesaCattolica Romana e delle Comunità Ebraiche eha tenuto un discorso durante un incontro inter-religioso che si è tenuto in suo onore al CongressoMondiale delle Religioni. Queste le sue parole:“Credo sempre che sia molto meglio avere unavarietà di religioni e filosofie diverse piuttosto cheuna singola religione o una singola filosofia. E’necessario a causa della diversa disposizione men-tale di ciascun essere umano. Ogni religione ha lesue peculiari idee e pratiche: imparare a conoscer-le può solo arricchire la fede di ciascuno.”

Premi e Riconoscimenti

Sin dalla sua prima visita in Occidente, all’iniziodel 1973, numerose università ed istituzioni occi-dentali hanno conferito al Dalai Lama Premi perla Pace e Lauree ad Honorem, in segno di ricono-scimento per gli approfonditi testi sulla filosofiabuddista e per il ruolo svolto nella soluzione deiconflitti internazionali, nella questione dei dirittiumani e in quella, a carattere globale, dei proble-mi ambientali. Nel 1989, nel proclamare l’asse-gnazione del premio Raoul Wallemberg per iDiritti Umani del Congresso, il deputato statuni-tense Tom Lantos disse: “La coraggiosa lotta diSua Santità il Dalai Lama fa di lui un eminentesostenitore dei diritti umani e della pace nelmondo. I suoi continui sforzi per porre fine allesofferenze del popolo Tibetano attraverso negozia-ti pacifici e la riconciliazione hanno richiesto unenorme coraggio e sacrificio.”

Il Premio Nobel per la Pace

La decisione del Comitato Norvegese per ilPremio Nobel di assegnare il Premio Nobel per laPace 1989 a Sua Santità il Dalai Lama è stataaccolta in tutto il mondo, unica eccezione laCina, con applausi e consensi. L’annuncio delComitato così recita: “Il Comitato vuole sottoli-neare il fatto che il Dalai Lama, nella sua lotta perla liberazione del Tibet, si è continuamente oppo-

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sto all’uso della violenza. Ha appoggiato invecesoluzioni pacifiche basate sulla tolleranza e sulreciproco rispetto con l’obiettivo di conservarel’eredità storica e culturale del suo popolo. Il DalaiLama ha sviluppato la sua filosofia di pace sullabase di un grande rispetto per tutti gli esseri viven-ti e sull’idea di responsabilità universale cheabbraccia tutto il genere umano così come lanatura. E’ opinione del Comitato che il DalaiLama abbia formulato proposte costruttive e lun-gimiranti per la soluzione dei conflitti internazio-nali, del problema dei diritti umani e dei problemiambientali mondiali”.Il 10 Dicembre 1989, Sua Santità accettò il pre-mio a nome di tutti gli oppressi, di tutti coloro chelottano per la libertà e la pace nel mondo e anome del popolo tibetano. Nel suo commentodisse: “Questo premio costituisce un’ulteriore con-ferma delle nostre convinzioni: usando come solearma la verità, il coraggio e la determinazione, ilTibet sarà liberato. La nostra lotta deve rimanerenon violenta e libera dall’odio.” In quell’occasio-ne, lanciò anche un messaggio di incoraggiamen-to al movimento democratico guidato dagli stu-denti cinesi. “Nel giugno di quest’anno, in Cina,il movimento popolare democratico è statoschiacciato da una forza brutale. Ma non credoche le dimostrazioni siano state vane perché lospirito di libertà si è riacceso nel popolo cinese ela Cina non può rimanere estranea allo spirito di

libertà che si va diffondendo in molte parti delmondo. I coraggiosi studenti e i loro sostenitorihanno mostrato ai leader cinesi e al mondo ilvolto umano di una grande nazione.”

Un semplice monaco buddista

Sua Santità dice spesso: “Sono un semplice mona-co buddista, niente di più e niente di meno.”Conduce la stessa vita dei monaci buddisti. Vivein una piccola casa a Dharamsala, si alza alle 4 delmattino per meditare, prosegue con un ininterrot-to programma di incontri amministrativi, udienzeprivate, insegnamenti religiosi e cerimonie. Primadi ritirarsi, conclude la sua giornata con altre pre-ghiere. Quando vuole spiegare quali sono le suepiù importanti fonti di ispirazione, spesso cita isuoi versi preferiti, tratti dagli scritti diShantideva, un celebre santo buddista dell’VIII°secolo:

Finché esisterà lo spazio E finché vi saranno esseri viventi,Fino ad allora possa io rimanere

Per scacciare la sofferenza dal mondo

Informazioni tratte dal sito ufficiale del governo tibe-tano in esilio

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Introduzione

Per quasi duemila anni il Tibet, composto dalle treregioni amministrative denominate Kham, Amdoe U-Tsang, è esistito come nazione sovrana. LaCina comunista, che ha invaso e occupato il paesenel 1949, considera invece ai nostri giorni come“Tibet” la cosiddetta “Regione AutonomaTibetana” (TAR), creata nel 1965 e comprenden-te, in larga parte, quella che per secoli è stata laregione dello U-Tsang.

Il Tibet, comunemente conosciuto come “il Tettodel Mondo”, è situato nel cuore dell’Asia e, dalpunto di vista ambientale, è una delle più impor-tanti regioni del mondo. Situato a nord dell’India,del Nepal, del Buthan e della Birmania, a ovestdella Cina e a sud del Turkestan orientale, siestende per circa 2.500 chilometri da ovest a est eper 1.500 da nord a sud, raggiungendo una super-ficie di 2.5 milioni di chilometri quadrati (equiva-lenti a più di due terzi dell’India). Ha un’altitudi-ne media di 3.650 metri sopra il livello del mare emolte delle sue montagne superano gli 8.000metri: una per tutte, il monte Everest che, con isuoi 8.848 metri, è la vetta più alta della Terra.

L’altopiano tibetano è il più alto e il più esteso delmondo e domina tutta la parte centrale del conti-nente asiatico. Gli fanno corona a sud la catenadell’Himalaya e a nord le montagne dell’AltynTagh e del Gangkar Chogley Namgyal. A occi-dente si fonde con le cime del Karakorum mentrea oriente scende in modo graduale verso le vettedel Minyak Gangkar e del Khawakarpo.

Prima dell’occupazione cinese, il Tibet era, dalpunto di vista ecologico, un territorio equilibratoe stabile perché la conservazione dell’ambienteera parte essenziale della vita quotidiana dei suoiabitanti. I tibetani vivevano in armonia con lanatura grazie alla loro fede nella religione buddi-

sta che asserisce l’interdipendenza di tutti gli ele-menti esistenti sulla terra, siano essi viventi o nonviventi. Questa credenza era ulteriormente raffor-zata dalla stretta osservanza di una norma chepotremmo definire di “autoregolamentazione”,comune a tutti i buddisti tibetani, in base allaquale l’ambiente deve essere sfruttato solo persoddisfare le proprie necessità e non per pura cupi-digia.

Dopo l’occupazione del Tibet, l’attitudine ami-chevole e armoniosa dei tibetani nei confrontidella natura fu brutalmente soppiantata dallavisione consumistica e materialista dell’ideologiacomunista cinese. All’invasione fecero seguitodevastanti distruzioni ambientali che causarono ladeforestazione, il depauperamento dei pascoli, losfruttamento incontrollato delle risorse minerarie,l’estinzione della fauna selvatica, l’inquinamentoda scorie nucleari, l’erosione del suolo e le frane.Ne consegue che, ai nostri giorni, lo stato dell’am-biente in Tibet è altamente critico e le conseguen-ze di questo degrado saranno avvertite ben oltre isuoi confini.Dal 1949, più di 1.200.000 tibetani, circa un sestodel totale della popolazione, sono morti in Tibetcome conseguenza della persecuzione politica,degli arresti, delle torture e della carestia. Oltre6000 monasteri sono stati distrutti. Sua Santità il14° Dalai Lama, capo politico e spirituale di seimilioni di tibetani, nel 1959 è stato costretto alasciare il paese e a cercare rifugio in India. Conlui, sono fuggiti dal Tibet 85.000 tibetani chehanno trovato rifugio in India, Nepal e Buthan.

Le condizioni ambientali prima dell’occupazionecinese

Il Tibet possedeva il più efficace sistema di prote-zione ambientale di tutte le terre abitate delmondo moderno. Parchi naturali e riserve, a sal-vaguardia della flora e della fauna, non erano

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AMBIENTE TIBET: UN PROBLEMA CRUCIALE

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necessari in quanto il Buddismo insegnava allagente l’interdipendenza di tutti gli elementi,viventi e non viventi, presenti sul pianeta. IlBuddismo proibiva l’uccisione degli animali einsegnava la compassione per gli esseri viventi el’ambiente. E, soprattutto, il governo tibetanoproibiva la caccia.

FloraIn Tibet crescevano più di 100.000 specie di pian-te ad alto fusto, alcune delle quali rare ed endemi-che. Vi erano più di 2.000 varietà di piante medi-cinali usate, non solo in Tibet ma anche in Indiae in Cina, per preparare i medicamenti secondo isistemi tradizionali. Molto diffuse erano lo zaffera-no, il rabarbaro di montagna, l’elleboro, la serratu-la alpina himalayana e il rododendro di cui esiste-vano, sull’altopiano tibetano, ben 400 speciediverse, quasi il 50% delle varietà esistenti sullaterra.

UccelliIn Tibet esistono 532 specie di uccelli raggruppa-te in 57 famiglie. Vi sono cicogne, cigni selvatici,il martin pescatore, oche, anatre, rapaci, fringuel-li, l’uccello pigliamosche della giungla, tordi, pap-pagalli, cutrettole, vari tipi di uccelli canori,avvoltoi, e una particolare, bellissima specie dipicchio. L’uccello più raro e famoso è la gru dalcollo nero, chiamata dai tibetani “trung trungkaynak”.

Animali selvaticiLe montagne e le foreste del Tibet davano untempo rifugio ad un grande numero di animali sel-vatici rari e in via di estinzione quali il leopardodelle nevi, il leopardo maculato, la lince, l’orsonero himalayano, il burdocade tibetano (un rumi-nante tipico del Paese delle Nevi), lo yak selvati-co, il cervo muschiato, la gazzella tibetana, l’anti-lope tibetana, la lepre dell’Himalaya, il pandagigante, il panda rosso e molti altri.

ForesteLe foreste tibetane ricoprivano un’area di oltre 25milioni di ettari. La maggior parte ricopriva i pen-

dii scoscesi della regione sud orientale del paese.Erano foreste di conifere tropicali e subtropicali,per la maggior parte costituite da abeti rossi sem-preverdi, pini, larici, cipressi, betulle e querce. Leforeste tibetane erano di vecchia crescita, con pian-te di più di duecento anni. La densità media dellavegetazione era di 272 metri cubi per ettaro manella regione dello U-Tsang poteva raggiungereanche i 2.300 metri cubi per ettaro, la più alta den-sità del mondo per una vegetazione di conifere.

MineraliIl Tibet era anche ricco di risorse minerali maisfruttate. Nel suo sottosuolo vi sono 126 tipi diminerali tra i quali oro, litio, uranio, cromite,rame, borace e ferro. Il Tibet possiede inoltre imaggiori giacimenti d’uranio del mondo. I giaci-menti di petrolio della regione dell’Amdo consen-tono l’estrazione annuale di più di un milione ditonnellate di greggio.

FiumiIn Tibet nascono alcuni dei più grandi fiumidell’Asia. Tra i tanti, ricordiamo il Brahmaputra,l’Indo, il Mekong, lo Yangtse e il Fiume Giallo.Lasciato il Tibet, i fiumi bagnano l’India, la Cina,il Pakistan, il Nepal, il Buthan, il Bangladesh, laBirmania, la Tailandia, il Laos e la Cambogia, assi-curando, assieme ai loro tributari, il fabbisognoidrico necessario a milioni di persone. Alcunericerche hanno dimostrato che i fiumi che nasco-no in Tibet assicurano la vita al 47% della popo-lazione mondiale e all’85% dell’intera popolazio-ne asiatica. La questione ambientale tibetana nonè quindi soltanto un problema locale, ma è di cru-ciale rilevanza a livello internazionale. Preservarel’Altopiano Tibetano dalla devastazione ecologicaè essenziale non solo per la sopravvivenza dei tibe-tani ma anche per la salvezza di una metà dell’in-tera umanità.

La distruzione dell’ambiente dopo l’occupazionecinese

Violando le leggi e le normative internazionali, la

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Cina ha invaso e occupato il Tibet. La resistenzatibetana e la repressione cinese portarono, il 10marzo 1959, all’insurrezione nazionale tibetanabrutalmente soffocata dall’intervento dell’Esercitodi Liberazione Cinese che, secondo stime forniteda Pechino, causò la morte di oltre 87.000 tibeta-ni nel solo Tibet centrale.

Decimazione della fauna selvaticaPrima dell’invasione cinese in Tibet era rigorosa-mente vietata la caccia agli animali selvatici. ICinesi non hanno rispettato questo divieto mahanno anzi attivamente incoraggiato lo sterminiodegli animali rari o in via di estinzione. Il leopar-do delle nevi, per fare un esempio, è cacciato perla sua pelliccia, venduta a prezzi elevatissimi sulmercato internazionale. I permessi per cacciarel’antilope tibetana oppure l’argali , un raro tipo dipecora selvatica, costano rispettivamente 35.000e 23.000 dollari americani. La carne delle antilo-pi, delle gazzelle e degli yak selvatici è venduta neimercati cinesi e anche europei.

DeforestazioneIn nome dello “sviluppo”, più di 70.000 cinesisono addetti al taglio indiscriminato delle piantesecolari che costituiscono le ricche foreste delleregioni orientali e meridionali del territorio tibe-tano. La medesima situazione è riscontrabile inaltre aree del Tibet, quali Markham, Gyarong,Nyarong e alcune zone del Kham e del Kongpo.

La superficie boschiva del Tibet che, nel 1959, siestendeva su 25.2 milioni di ettari, nel 1985 si eraridotta a soli 13.57 milioni di ettari, pari alladistruzione del 46% delle foreste. La deforestazio-ne è ancora drammaticamente in atto e si calcolache, ai nostri giorni, l’80% delle foreste siano stateabbattute. Radio Lhasa ha dato notizia che solotra il 1959 e il 1985 la vendita del legname hafruttato alla Cina più di 54 miliardi di dollari ame-ricani. Ancora oggi, più di 500 automezzi carichidi legname tibetano lasciano la località di Gonjo,nel Kham, diretti verso la Cina, ma a volte acca-de che, per incuria e cattiva organizzazione, molticarichi vengano abbandonati lungo la strada,

dimenticati nei capannoni oppure marciscanonell’acqua, lungo le rive dei fiumi. Il rimboschi-mento è minimo e spesso senza successo a causadella poca cura prestata alle giovani piante.

Effetti della deforestazionea) Erosione del suolo e inondazioni:La massiccia deforestazione, il proliferare delleminiere e una politica agricola basata sullo sfrut-tamento intensivo dei campi contribuiscono adaumentare l’erosione del suolo. Il fango che siriversa nei fiumi che scendono dall’altopiano tibe-tano (l’Indo, il Brahmaputra, il Sutley, il Mekonk,il Fiume Giallo e lo Yangtse) scende nei paesi avalle innalzando il letto dei fiumi e causandodevastanti inondazioni che, a loro volta, provoca-no estese slavine. Di conseguenza, si riducel’estensione delle terre coltivabili con gravi danniper l’economia di milioni di persone. Secondo gliesperti, le frequenti inondazioni che si verificanonel Bangladesh sono in diretta relazione con ladeforestazione attuata in Tibet, nella parte supe-riore dei fiumi.

b) Effetti climatici a livello globale:Il ruolo dell’Altopiano Tibetano sul sistema cli-matico del globo è rilevante. Gli scienziati hannoevidenziato una correlazione tra la vegetazionespontanea del Tibet e la regolarità dei monsoni.Le piogge monsoniche, indispensabili per lasopravvivenza delle regioni dell’Asia meridionale,costituiscono il 70% delle piogge che ogni annocadono in l’India. Tuttavia, un monsone troppoviolento è causa di immani calamità naturali.Alcuni scienziati, tra i quali ad esempio lo statu-nitense Elman Reiter, hanno dimostrato che l’am-biente dell’Altopiano esercita una diretta influen-za sui cosiddetti “jet strems”, i venti d’alta quotache soffiano sul Tibet, che, a loro volta, sono lacausa dei tifoni che si scatenano sull’oceano paci-fico e del fenomeno conosciuto come “ElNino”,una corrente calda che rimescola le acquedell’oceano ed ha causato la distruzione dellacatena alimentare marina danneggiando l’econo-mia delle zone costiere della California, del Peru edell’Ecuador. Contemporaneamente, paesi quali

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la Nuova Zelanda, l’Indonesia, l’Australia, l’Indiae il Sud Africa hanno attraversato un periodo diterribile siccità.

c) Cattiva amministrazione agricola:Nel corso degli anni ’60, il governo cinese haintrodotto, in Tibet, in campo agricolo, alcuneriforme che hanno portato il paese alla carestia.La sovrapproduzione e lo sfruttamento agricolointensivo hanno inoltre causato la scomparsa dimolte erbe medicinali e di piante commestibili ehanno distrutto gli esemplari che costituivano lariserva di cibo invernale per gli animali selvatici.Questa politica agricola sconsiderata ha fatto sìche il suolo venisse eroso sia dal vento sia dall’ac-qua dando avvio ad un processo di desertificazio-ne. Secondo dati forniti dal governo cinese, inCina e in Tibet la desertificazione per opera diinterventi umani interessa una superficie pari acirca 120.000 chilometri quadrati di territorio.Le autorità cinesi obbligano gli agricoltori tibeta-ni a comperare e usare fertilizzanti chimici e inset-ticidi. I contadini sostengono che questi fertiliz-zanti sono estremamente pericolosi sia per il rac-colto che per l’ambiente.

Il trasferimento della popolazioneUno dei più gravi pericoli che minacciano ilpopolo tibetano, la sua cultura e l’ambiente ècostituito dal massiccio trasferimento nel paese,soprattutto in questi ultimi anni, di personalecivile e militare cinese. Ai nostri giorni, i seimilioni di tibetani residenti sono sopravanzatinumericamente da sette milioni e mezzo di cinesi.A Lhasa, il rapporto tra tibetani e cinesi è di duea uno. In seguito a questo trasferimento di popo-lazione, i tibetani sono stati emarginati in campoeconomico, educativo, politico e sociale e la tra-dizionale e ricca cultura tibetana sta rapidamentescomparendo.In Tibet, sotto il regime totalitario cinese, i “pro-getti di sviluppo” non tengono in alcun conto iparametri di Valutazione di Impatto Ambientale.Inoltre, questi “progetti di sviluppo” favorisconosolo gli immigrati cinesi e incoraggiano il loroinsediamento nel paese relegando i tibetani a una

posizione di cittadini di seconda classe nella lorostessa patria, e, di conseguenza, violando i dirittifondamentali del popolo tibetano garantiti dallaDichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomodelle Nazioni Unite.

La centrale idroelettricaIl più assurdo e catastrofico, dal punto di vistaambientale, dei cosiddetti “progetti di sviluppo”cinesi è costituito dalla costruzione della centraleidroelettrica di Yamdrok Tso (il lago Yamdrok), acirca un centinaio di chilometri da Lhasa. A causadi questo progetto, il lago, che i tibetani conside-rano sacro, è destinato a scomparire. Nel 1993,tutte le sorgenti d’acqua potabile della zona sisono prosciugate e i contadini tibetani sono staticostretti a bere l’acqua del lago. Ciò ha causatogravi problemi alla loro salute quali diarrea, perdi-ta di capelli e malattie della pelle. A causa delprogetto, i tibetani della zona hanno inoltre per-duto, in modo irreversibile, il 16% della terra col-tivabile.

Lo sfruttamento delle risorse minerarieIn Tibet, lo sfruttamento intensivo delle risorseminerarie è iniziato negli anni ’60. Il governo cine-se ha enormemente intensificato l’estrazione diborace, cromo, sale, rame, carbone e uranio pergarantire le materie prime necessarie allo sviluppoindustriale. Ai nostri giorni, nei distretti di U-Tsang e di Amdo, esistono numerose miniere siapubbliche sia private. L’aumento delle attivitàminerarie riduce ulteriormente la vegetazione e faaumentare il pericolo di frane, l’erosione del suolo,l’inquinamento dei torrenti e dei fiumi oltre a dan-neggiare l’habitat degli animali selvatici. La metà delle riserve di uranio della terra si trovanelle montagne attorno a Lhasa. In Tibet si trovainoltre il 40% delle riserve di ferro della Cina oltrea cospicui giacimenti di carbone, oro, rame, piom-bo, borace e petrolio. Secondo l’agenzia ufficialecinese Xinhua, il 31 ottobre 1995 la Cina ha incre-mentato lo sfruttamento delle risorse minerariedella Regione Autonoma Tibetana. Gli introitiderivanti da questo sfruttamento sono stimati nel-l’ordine di 78.27 miliardi di dollari americani.

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Scorie nucleari e militarizzazioneL’esistenza di scorie nucleari in Tibet è statadenunciata dal Dalai Lama nel 1992, nel corso diuna conferenza stampa rilasciata a Bangalore(India). In quell’occasione Pechino negò che inTibet esistessero scorie nucleari inquinanti.Tuttavia, più recentemente, la Cina ne ha ammes-so l’esistenza. Il 19 luglio 1995, l’agenzia di stam-pa ufficiale Xinhua ha infatti dichiarato che, nellaPrefettura Autonoma Tibetana di Haibei, vicinoalle rive del lago Kokonor, il più grande lago del-l’altopiano tibetano, vi è “una discarica di ventimetri quadrati utilizzata per il deposito di materia-le radioattivo”.

Nella stessa zona vi è quella che i cinesi chiama-no “Nona Accademia” oppure “Fabbrica 211”: sitratta, in realtà, di un vero e proprio centronucleare circondato dal più assoluto segreto. Ladottoressa Tashi Dolma, che ha lavorato all’ospe-dale di Chabcha, situato a sud del centro, hadichiarato che sette piccoli nomadi, addetti alpascolo del bestiame nelle vicinanze della cittànucleare, si sono ammalati di cancro e i loro glo-buli bianchi sono aumentati a livelli incontrolla-bili. Un medico americano che ha condotto alcu-ne ricerche presso lo stesso ospedale, ha reso notoche i sintomi erano simili a quelli dei casi di can-cro causati dalle radiazioni dopo i bombardamen-ti di Hiroshima e Nagasaki del 1945. Negli annicompresi tra il 1989 e il 1990, cinquanta personesono morte a Thewo, nell’Amdo, per causa anco-ra non accertate. Nel 1990, dodici donne hannopartorito ma i piccoli sono nati morti o hanno ces-sato di vivere subito dopo la nascita.

Tutti i test nucleari apertamente dichiarati daPechino, sono stati eseguiti a Lopnor, nella pro-vincia del Xinjiang, a nord-ovest del Tibet. Questi

test hanno causato un notevole aumento dei casidi cancro e di morte infantile senza che tuttaviasia stata attuata alcuna ricerca medica adeguata.

Secondo International Campaign for Tibet, laprima testata nucleare fu portata in Tibet nel 1971e posizionata a Tsaidam, nell’Amdo del nord.Fonti diverse asseriscono la presenza di missilinucleari a Nagchuka, situata a 150 miglia daLhasa. E’ stato inoltre confermato che nella regio-ne dell’Amdo e, più esattamente nel bacino diTsaidam, geograficamente isolato e a grande altez-za, vi sono tre località adibite a deposito di missi-li nucleari.

A Drotsang, 63 chilometri a est di Siling, è sortoun nuovo centro di produzione di missili cono-sciuto con il numero di codice 430. I missili ven-gono testati nel lago Kokonor. A Nagchuka sonostati posizionati 20 missili balistici a raggio inter-medio e 70 a raggio medio. Anche nella città diPayi, nella Regione Autonoma Tibetana, vi è ungrande deposito sotterraneo di missili (numero dicodice 809). Durante le esercitazioni, i missilivengono portati allo scoperto e lanciati sia verti-calmente sia orizzontalmente contro bersagli pre-stabiliti.Considerato un tempo come un pacifico statocuscinetto tra l’India e la Cina, il Tibet è ora alta-mente militarizzato: ospita infatti 300.000 soldaticinesi e un quarto della forza missilistica del paese.La militarizzazione dell’altopiano tibetano costi-tuisce una minaccia per l’equilibrio geo-politicodella regione ed è causa di serie tensioni interna-zionali.

A cura del Dipartimento Informazioni e RelazioniInternazionaliAmministrazione Centrale Tibetana

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LA STORIA

La bandiera nazionale Tibetana è strettamentelegata alla storia del Paese delle Nevi e a quelladelle dinastie reali del Tibet, entrambe vecchie dimigliaia d’anni.Nell’anno Reale Tibetano 820, ovvero nel settimosecolo dell’era cristiana, durante il regno del retibetano Song-tzan Gampo, il territorio del Tibetvenne diviso in distretti di varia grandezza cono-sciuti come “gö-kyi tong-de” e “yung-g’i mi-de”.A un esercito di 2.860.000 uomini, provenienti daquesti distretti, fu affidato il compito di presidiarei confini del paese, permettendo quindi al popolotibetano di vivere in condizioni di sicurezza.Il coraggio e l’eroismo dei tibetani di quel tempo,capaci addirittura di conquistare e di governare ilconfinante impero della Cina, sono ben conosciu-ti nella storia del mondo.

E’ storicamente provato che a quei tempi il reggi-mento di Yö-ru tö aveva una bandiera militare conuna coppia di leoni di montagna contrapposti; ilreggimento di Yä-ru mä ne aveva una con unleone di montagna e con un bordo superiore dicolore chiaro; in quella di Tzang Ru-lao era raffi-gurato un leone in posizione eretta lanciato versoil cielo mentre la bandiera di Ü-ru tö aveva unafiamma bianca su sfondo rosso, e così via. Con il proseguire di questa tradizione, all’iniziodel ventesimo secolo ogni reggimento dell’eserci-to Tibetano possedeva una bandiera raffigurantecon due leoni di montagna contrapposti oppureun leone di montagna proteso verso il cielo.

Nel ventesimo secolo, il XIII° Dalai Lama, emi-nente capo spirituale e temporale del Tibet, attuòmolti cambiamenti in campo amministrativo insintonia con le usanze internazionali. Prendendospunto e migliorando gli stendardi militari esi-stenti, Sua Santità disegnò l’attuale, modernabandiera nazionale e, con un proclama ufficiale,

dichiarò che sarebbe stata adottata da tutti i corpimilitari di difesa. La composizione pittorica e il simbolismo dellabandiera nazionale Tibetana contengono tutte lecaratteristiche del Tibet: la conformazione geogra-fica del territorio, la sua natura religiosa, gli usi ele tradizioni della società Tibetana, l’amministra-zione politica del governo Tibetano, e cosi via.In ognuna delle tre regioni di cui si compone ilpaese, la bandiera nazionale, ereditata dagli anti-chi padri, è universalmente accettata come uncomune inestimabile tesoro e, come in passato, èrispettata e stimata.

SIMBOLOGIA

La gloriosa e bellissima montagna bianca, situata alcentro, simboleggia la grande nazione tibetana,famosa per le montagne innevate che la circondano.

I sei raggi di luce rossa diretti verso il cielo sim-boleggiano le sei tribù del Tibet: Se, Mu, Dong,Tong, Dru e Ra.

L’alternanza del colore rosso e del colore azzur-ro del cielo simboleggia la continua ricerca dellaretta condotta morale necessaria per mantenere eproteggere la legge spirituale e la legge temporalesancita dalle due divinità tutelari, una rossa e unanera, che hanno protetto il Tibet nel corso deitempi.

I raggi emanati dal sole nascente sopra il piccodella montagna innevata, simboleggiano l’egualegodimento, da parte di tutti i cittadini tibetani,della luce della libertà, della felicità spirituale emateriale e della prosperità.

L’aggressiva posizione della coppia di intrepidileoni di montagna, il cui coraggio è suggerito dallecinque sporgenze sulla sommità della loro testa,simboleggia il totale successo contro tutte le

LA BANDIERA NAZIONALE TIBETANA

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avversità delle azioni intraprese dal governo spiri-tuale e secolare della nazione.

I tre gioielli colorati sopra ai leoni, bellissimi eradiosi di luce, simboleggiano la continua venera-zione da parte del popolo Tibetano delle TrePreziose Gemme, oggetti del rifugio.

Il mulinello della gioia, sorretto dai leoni, simbo-

leggia l’osservanza della dirittura morale secondole somme tradizioni rappresentate dai dieci pre-cetti divini di virtù e dalle sedici regole etichedella vita laica.

Il bordo giallo simboleggia il fiorire e lo sviluppodegli insegnamenti del Buddha, paragonabiliall’oro purissimo, attraverso spazio e tempo senzalimiti.

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L’Associazione Italia-TibetL’Associazione Italia-Tibet è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro,legamente costituita. Fondata nel 1988, l’Associazione si propone di sostenere illavoro del Dalai Lama, massima autorità politica e religiosa del Tibet e del suogoverno in esilio, affinché al popolo tibetano venga riconosciuto il diritto all’autode-terminazione e gli siano garantite le fondamentali libertà civili.

Per promuovere la conoscenza della effettiva realtà tibetana, l’Associazione Italia-Tibet:

• Organizza manifestazioni politiche e culturali per sensibilizzare l’opinionepubblica sulla storia e gli sviluppi del problema tibetano.

• Mantiene contatti con il mondo politico, con le organizzazioni per i diritti umani econ tutti i gruppi sensibili a queste tematiche.

• Pubblica materiale informativo di agile consultazione sugli aspetti sociali,culturali e religiosi del popolo tibetano.

• Mantiene il sito web: www.italiatibet.org

L’Associazione Italia-Tibet aiuta inoltre concretamente la comunità tibetana inesilio, sostenendo progetti di cooperazione allo sviluppo e promuovendo le adozionia distanza.

Come associarsiIl modo migliore per aiutare e rimanere in contatto con l’Associazione Italia-Tibet èquello di iscriversi ad una delle seguenti quattro categorie di soci previste.

Quote annuali:• Studenti o famigliari di soci € 25,00• Socio ordinario € 50,00• Socio sostenitore € 100,00• Socio benemerito € 300,00

Acquisto bandiera del Tibet: € 12,00 (spedizione compresa)

Per informazioni contattare:

Associazione Italia-Tibet20133 MILANO - Via Pinturicchio, 25

Tel./fax 02.70638382 - [email protected]

www.italiatibet.org

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