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DISPENSA BIOINDICATORI E BIOMARKERS a.a. 2007-2008 Docente Prof. SILVIA CASINI Email : [email protected] A CURA DI M. C. FOSSI & S. CASINI Bioindicatori e biomarkers 1

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DISPENSA

BIOINDICATORI E BIOMARKERS

a.a. 2007-2008

Docente

Prof. SILVIA CASINI Email : [email protected]

A CURA DI

M. C. FOSSI & S. CASINI

Bioindicatori e biomarkers 1

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1. LA BIOINDICAZIONE Ogni organismo vivente, animale o vegetale, che, campionato in un determinato ambiente, ci

fornisce indicazioni sul livello di contaminazione di quella determinata area si definisce organismo

“bioindicatore” o organismo “sentinella”. In maniera ancora più specifica si intendono per

“bioindicatori” (Bargagli et al. 1998):

“.. tutti quegli organismi che mediante reazioni identificabili (biochimiche, fisiologiche,

morfologiche, ecc.) forniscono informazioni sulla qualità dell’ambiente (o di una parte

di esso)”

La bioindicazione si basa su diverse scale di intervento da ecologica a molecolare: dalle variazioni

di parametri biochimici, fisiologici e comportamentali, al bioaccumulo di contaminanti, fino alla

presenza/assenza di specie. L’approccio più comunemente utilizzato della bioindicazione si basa

sulla valutazione dei livelli di contaminanti nell’organismo bioindicatore. Questa metodologia si

basa sul principio ecotossicologico del “bioaccumulo” per cui un organismo animale o vegetale

tende, per fattori intrinseci ed estrinseci, ad accumulare nel proprio interno concentrazioni del

contaminante superiori a quelli del comparto ambientale dove si trova. Questa caratteristica si

descrive con il parametro BCF (BioConcentration Factor) che indica il rapporto fra la

concentrazione del contaminante nel mezzo e quella nell’organismo bioindicatore e/o

bioconcentratore in questione. Per questo principio appare chiaro che la bioindicazione presenta un

notevole numero di vantaggi rispetto alla chimica ambientale classica quali:

• I livelli dei contaminanti nell’organismo bioindicatore o bioaccumulatore sono di diversi ordini di

grandezza superiori a quelli del mezzo in cui si trova (acqua, aria, sedimento); questo permette

di risolvere molti problemi di rivelabilità strumentale tipici delle matrici abiotiche.

• L’organismo bioindicatore e bioaccumulatore funziona da integratore in termini spazio-

temporali dell’input tossicologico di una determinata area di studio.

La scelta dell’organismo bioindicatore dipende da molti fattori, e soprattutto dal quesito

sperimentale di partenza. In linea generale gli organismi bioindicatori e bioaccumulatori debbono

possedere alcune caratteristiche fondamentali quali:

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• Optimum ecologico ed ampia distribuzione nell’area di studio.

• Facile identificazione sistematica.

• Adeguate conoscenze sull’anatomia, fisiologia ed ecologia della specie.

• Uniformità genetica e lungo ciclo vitale.

• Facile reperibilità stagionale.

• Home range ben identificato.

La scelta dell’organismo bioindicatore deve tenere conto di una serie di caratteristiche relative alla

sua fisiologia, al tipo d’alimentazione, all’habitat ed al generale stile di vita. Tutto questo insieme di

caratteristiche si identifica con la “nicchia trofica”, cioè l’insieme di funzioni della specie nella

comunità e le interazioni con la componente biotica ed abiotica (Bargagli et al.,1998). Negli

ecosistemi naturali le specie tendono a differenziare le proprie nicchie, presentando così nello

stesso ambiente diversi modi e livelli d’esposizione ai contaminanti. Appare chiaro quindi che, in un

corretto programma di biomonitoraggio, la prima fase dello studio consiste nella identificazione del

“comparto ambientale critico” (cioè quel comparto dove si ripartiscono e/o si accumulano con

preferenza i contaminanti), seguita da una seconda fase d’identificazione nel comparto critico delle

“nicchie ecologiche critiche” e delle specie corrispondenti (Fossi 2000).

Un altro elemento fondamentale nella scelta del bioindicatore riguarda la sua “mobilità”.

L’informazione che ci fornisce l’organismo bioindicatore è relativa all’area vitale dove l’organismo si

muove e si alimenta (nicchia spaziale e trofica). Nel caso di un organismo sedentario o sessile

otterremo un’informazione di tipo puntiforme, mentre nel caso di un organismo mobile avremo

un’informazione integrata dell’intera area vitale. In sintesi la scelta dell’organismo bioindicatore è

fondamentale per soddisfare il quesito sperimentale di partenza della nostra indagine di

biomonitoraggio. Infatti, se le specie bioindicatrici sono capaci di dare risposta agli stress

ambientali in relazione all’estensione della loro nicchia spaziale e trofica, possiamo definire i

bioindicatori come integratori di piccolo, medio ed ampio raggio, a seconda che la nicchia interessi

areali ristretti o addirittura puntiformi (animali sessili e specie sedentarie), fino agli ambiti regionali

in specie di grande mobilità, come alcuni mammiferi marini o certi uccelli migratori. La scelta della

scala dello “strumento” di bioindicazione sarà consequenziale alla scala topografica del progetto di

studio. Per la valutazione della presenza e degli effetti di inquinanti derivanti da sorgenti puntiformi

in ambito locale si impone la scelta di specie a ristretta mobilità. Mentre l’impatto complessivo di

tutte le attività di un grande bacino deve essere monitorato attraverso l’uso di specie ad ampia

mobilità, con preferenza appartenenti ad un livello trofico elevato e quindi capaci di una buona

integrazione (Bargagli et al., 1998; Fossi 2000).

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SCELTA DELL’ ORGANISMO BIOINDICATORE

La valutazione delle caratteristiche ecologiche dell’area di studio ha la funzione di identificare le più

idonee stazioni di campionamento ed indirizzare l’analisi ecotossicologica verso adeguate specie-

bersaglio, o bioindicatrici. Le peculiari caratteristiche di studio integrato proprie del progetto

BioAgri hanno evidenziato nel corso della loro messa a punto la necessità di finalizzare le attività di

mappaggio dei biotopi e di censimento delle specie presenti in natura alle esigenze delle

successive analisi ecotossicologiche, poiché la dilatazione dei tempi che si renderebbe necessaria

per un’approfondita indagine naturalistica, valutabile nell’ordine di alcuni anni, causerebbe la

perdita di immediatezza del monitoraggio senza peraltro aggiungere conoscenze indispensabili alla

corretta valutazione di impatto ambientale. A tale scopo quindi si suggerisce di caratterizzare

ecologicamente l’area di studio soltanto attraverso la descrizione dei biotopi dominanti, avendo

cura al contempo di sottolineare eventuali nicchie ecologiche di particolare rilievo; tale strategia

deve essere applicata anche per le attività di censimento, che tendono a determinare le specie

dominanti ed a segnalare casi di particolare interesse.

A seguito delle indagini ecologiche e faunistiche (Censimenti) vengono selezionati gli organismi indicatori (specie-bersaglio o bioindicatori) tra le specie occupanti diversa posizione a livello della catena trofica terrestre o di acqua dolce.

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2. I BIOMARKERS Negli ultimi decenni l’ecotossicologia si è imposta, nell’ambito delle scienze ambientali, come la

disciplina “guida” di un nuovo indirizzo scientifico e sociale basato sul concetto dello “sviluppo

sostenibile”. Viviamo in un’epoca che si “vanta” e si “avvale” della sintesi di migliaia di molecole di

sintesi, devolute al miglioramento delle nostre condizioni di vita. E’ nostro dovere, per noi e per le

generazioni future, controllare e regolare la loro immissione e diffusione nella biosfera, per evitare,

come in passato, il verificarsi di rilevanti danni ambientali.

Negli ultimi decenni i biomarkers si sviluppano come un elemento innovativo nell’ambito delle

indagini ecotossicologiche, rispondendo in maniera rapida e precisa ai quesiti basilari di questa

disciplina come: quali sono gli effetti che i composti inquinanti provocano sulle popolazioni e/o

comunità naturali? Ed ancora: come la valutazione di questi effetti può rappresentare un segnale

precoce del livello di contaminazione ambientale?

Ma Cosa si intende esattamente per "biomarker" e qual è l’origine di questa metodologia? L’idea di

misurare certi parametri biologici come indicatori dello stato di benessere di un organismo risale

alle origini della storia della medicina. Infatti, già i medici dell’antica Cina erano in grado di definire

la “salute” di un individuo esaminando le urine, le feci e le condizioni generali dell’organismo.

Giungendo ai giorni nostri con il rapido evolversi delle tecnologie molecolari, biochimiche,

citologiche e fisiologiche, i biomarkers hanno trovato applicazione in tutte le branche della

medicina, dalla medicina del lavoro alla prevenzione dell’oncogenesi. L’idea di utilizzare i

biomarkers nel settore delle indagini ecotossicologiche si è manifestata per la prima volta con le

ricerche pionieristiche degli anni ‘70 di Bayne e collaboratori (1976) e Payne (1977) nell’ambiente

marino; successivamente l’idea ha preso campo in maniera sempre di più ampia, soprattutto negli

ultimi due decenni, trovando applicazione in una vasta gamma di situazioni ambientali, come

confermato dal crescente numero di pubblicazioni specialistiche sull’argomento (McCarthy &

Shugart, 1990; Peakall, 1992; Hugget et al., 1992; Peakall & Shugart, 1993; Fossi & Leonzio,

1994, Walker et al., 1996, Fossi 2000).

Fino ad ora sono state formulate numerose definizioni di biomarkers, ognuna delle quali soffre

delle limitazioni e delle generalizzazioni tipiche del concetto di definizione. Citiamone a questo

proposito una storica, quella formulata dalla National Academy of Science (NRC, 1989) che

descrive un biomarker come:

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"... quella variazione, indotta da un contaminante, a livello delle componenti

biochimiche o cellulari di un processo, di una struttura o d una funzione, che può

essere misurata in un sistema biologico".

i

i

Il concetto di biomarker si è però evoluto notevolmente in questi ultimi anni assumendo una

valenza sempre più ampia sia dal punto di vista della gerarchia delle risposte che per la sua

portata ecologica. Depledge (1994) definisce come biomarker “ecotossicologico:

”... quella variazione biochimica, cellulare, fisiologica o comportamentale, che

può essere misurata in un tessuto, in un fluido biologico o a livello dell'intero

organismo (individuo o popolazione) la quale fornisce l'evidenza di un'esposiz one e/o

un effetto ad uno o più composti inquinanti (e/o radiazioni)”.

La grande novità di questo approccio metodologico, rispetto alle metodologie classiche della

tossicologia ambientale, è quella di trovare fondamento sul concetto della intercorrelabilità degli

effetti di un contaminante ai vari livelli di complessità strutturale. L'obiettivo di tale monitoraggio

ambientale è infatti quello di stimare (strumento “diagnostico”), prevedere (strumento

“prognostico”) e, di conseguenza, evitare eventi inaccettabili a livello ecologico, come l'insuccesso

riproduttivo o l’incremento della mortalità nell'ambito di una popolazione, attraverso l’utilizzo di

“segnali precoci” di esposizione o di effetto. In sintesi, l'utilizzo di biomarkers permette in primo

luogo di “diagnosticare”, attraverso lo studio delle risposte immediate (induzione sistemi

detossificanti, inibizioni attività enzimatiche, formazione prodotti metabolici, alterazioni del DNA,

ecc.) il tipo e/o i tipi di contaminanti ai quali l’organismo bioindicatore è sottoposto ed i livelli

“semi-quantitativi” dell’esposizione, e successivamente, in funzione dell’intercorrelabilità degli

effetti ai vari livelli di complessità strutturale, “prognosticare” e quindi prevedere il verificarsi di

effetti negativi a lungo termine anche su scala ecologica. Il ruolo dei biomarkers nelle indagini

ecotossicologiche non è quindi quello di dare informazioni “quantitative” sui livelli di esposizione di

un organismo ad un determinato contaminante, ma quello di fornire indicazioni sul suo “stato di

salute” come segnale potenziale di alterazioni ai più alti livelli ecologici (Peakall & Shugart, 1993;

Fossi & Leonzio, 1994; Fossi, 1998, Fossi2000).

Una precisazione doverosa da fare a questo punto riguarda la differenziazione fra due termini

ecotossicologici concettualmente distinti, e troppo spesso confusi, quali: bioindicatore e biomarker.

Mentre si intende per bioindicatore un qualsiasi organismo (animale o vegetale) che può essere

utilizzato come indicatore del livello di contaminazione di un determinato ambiente, si definisce

come biomarker quella risposta e/o quelle risposte che un organismo bioindicatore può generare

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nei confronti di uno o più agenti stressanti (chimici o fisici). Quindi risulta prioritaria, per un

indagine basata sull’utilizzo di biomarkers, la scelta a monte di un valido organismo bioindicatore.

Ma quali sono i vantaggi di questa metodologia nei confronti degli approcci tradizionali ? Come

precedentemente accennato, la valutazione degli effetti dei contaminanti di origine antropica sulle

comunità naturali é un problema di difficile soluzione per i seguenti motivi (Peakall & Shugart,

1993, Fossi 1998, Fossi 2000):

• Esistono varie vie di assunzione dei composti inquinanti all’interno dell'organismo.

• I contaminanti presentano una diversa biodisponibilità a seconda dei comparti ambientali in cui

si trovano.

• Gli organismi sono generalmente esposti non ad un solo composto inquinante ma ad una

miscela di molti contaminanti (cocktail chimico); tali sostanze possono generare fra di loro

diverse interazioni biochimiche e tossicologiche (sinergismi, antagonismi).

• Esiste un periodo di latenza molto lungo prima che si manifestino alterazioni a livello di

popolazioni e comunità.

Le attuali metodologie d’indagine, quali ad esempio le analisi di chimica ambientale ed i tests della

tossicologia classica, sono in molti casi inadeguati per lo studio di problemi di tale complessità

(Peakall & Shugart, 1993). Nei Box 1 e 2 sono sinteticamente descritte le principali limitazioni

della chimica ambientale e della tossicologia classica nella risoluzione di tematiche

ecotossicologiche (Fossi 2000).

Box 1 - LIMITI DELLA CHIMICA AMBIENTALE

L'utilizzo della chimica ambientale fornisce informazioni precise ed accurate, sia dal

punto di vista quantitativo che qualitativo, sulla distribuzione degli inquinanti nei

vari comparti ambientali ma:

• Risulta inadeguato in casi di presenza di contaminanti ignoti.

• Non prevede l'effetto della sommatoria dei diversi inquinanti sull'organismo.

• Non prevede le variazioni spaziali e temporali dell’organismo rispetto alla fonte di

contaminazione.

• Risulta estremamente dispendioso in termini di utilizzo di uomini e di mezzi.

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Box 2 - LIMITI DELLA TOSSICOLOGIA CLASSICA

L'utilizzo della tossicologia classica non prevede:

• La stima degli effetti tossicologici a lungo termine.

• La vera biodisponibilità di un contaminante nei vari comparti ambientali.

• Le modificazioni lungo la catena alimentare.

• L’effetto sinergico dei diversi contaminanti sull'organismo.

• L’influenza della fluttuazioni di fattori chimico-fisici sulla tossicità di un

contaminante.

• L’influenza di fenomeni biologici naturali quali il ciclo vitale, i ritmi giornalieri, ecc.

L’applicazione dei biomarkers nei programmi di biomonitoraggio classico o, in situazioni più

complesse (come nel caso dell’utilizzo di biomarkers non-distruttivi per l'individuazione delle

“specie a rischio”), risolve totalmente o in parte le limitazioni sopraindicate (McCarthy & Shugat,

1990; Peakall, 1992; Peakall & Shugart, 1993; Fossi & Leonzio, 1994, Fossi, 1998, Fossi 2000). I

principali vantaggi legati all’utilizzo dei biomarkers sia rispetto a discipline quali la chimica

ambientale e la tossicologia classica, che al convenzionale utilizzo della bioindicazione nei

programmi di biomonitoraggio sono riportati nel Box 3.

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Box 3 - VANTAGGI DELL’UTILIZZO DEI BIOMARKERS NEI PROGRAMMI DI

BIOMONITORAGGIO

I biomarkers correttamente applicati in un programma di biomonitoraggio

sono in grado di:

• Fornire una risposta "integrata" dell'esposizione complessiva della specie

biondicatrice, considerando la sommatoria sia delle diverse vie di assunzione che

dell'esposizioni nel tempo entro un determinato “range” spaziale.

• Dare un segnale "integrato" dell'insieme delle interazioni tossicologiche e

farmacocinetiche della miscela di composti a cui è sottoposto l'organismo.

• Fornire una risposta immediata all'esposizione al tossico (ore-giorni); questo dato

permette di prevedere l'effetto negativo a lungo termine.

• Fornire indicazioni sulla suscettibilità inter- ed intra-specifica ad un contaminante

e/o ad una miscela di contaminanti.

• Indicare l'effetto ecologico a lungo termine di un contaminante a seconda se

l'organismo è esposto o meno ad un livello di contaminazione che eccede le sue

capacità di detossificazione e riparo (livelli di omeostasi).

L'applicazione di questo approccio metodologico nei programmi di biomonitoraggio deve tenere

conto però della presenza di alcuni fattori "di disturbo" che possono alterare, in una certa misura, il

segnale fornito dai biomarkers. Ad esempio, certe reazioni multienzimatiche (il sistema delle

monoossigenasi a funzione mista) subiscono modificazioni in funzione dello stato ormonale,

dell'età e del sesso dell'organismo (Fossi et al., 1990). La conoscenza però dei cicli riproduttivi

della specie bioindicatrice e delle sue caratteristiche fisiologiche permettono, con un adeguato

programma di campionamento, di eliminare totalmente o in parte tali fattori di disturbo. Inoltre la

presenza in certi casi di un’elevata variabilità interindividuale nella risposta dei biomarkers verso

uno stesso livello di esposizione, può rappresentare, se non correttamente interpretato, un fattore

di disturbo nella comprensione dei dati statistici.

Suddividere l’enorme numero di tecniche di biomarkers attualmente disponibili in categorie non è

un compito semplice semplice; infatti i parametri discriminanti possono essere diversi come ad

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esempio il livello di complessità strutturale investigato (Hugget et al., 1992), il tempo di risposta

dopo il contatto con il tossico (McCharthy & Shugart, 1990), o ancora la classe di contaminanti

responsabile di una certa serie di risposte (Peakall, 1992). I biomarkers possono essere distinti

inoltre in funzione della loro specificità di risposta rispetto ad una determinata classe d’inquinanti.

Per questo andiamo da risposte estremamente specifiche come l’inibizione dell’acido

amminolevulonico deidratasi (ALAD), che rappresenta un biomarker d’altissima specificità nei

confronti della contaminazione da piombo, fino a giungere a risposte estremamente aspecifiche nei

confronti di varie categorie di contaminanti come le variazioni del sistema immunitario (Walker et

al, 1995).

I biomarkers vengono classificati da Hugget e collaboratori (1992), Shugart & Peakall

(1993), Walker e collaboratori (1995), in funzione della diversa risposta a livello gerarchico nelle

seguenti categorie:

• Alterazioni del DNA

• Risposte di proteine

• Prodotti metabolici

• Variazioni del sistema immunitario

• Alterazioni istopatologiche

• Biomarker non specifici e fisiologici

• Biomarkers comportamentali

Il segnale che da essi si ricava, a seconda del livello strutturale interessato, è dato dalla diversa

risposta temporale dell'organismo che, in linea generale, è "precoce" (ore o giorni) nel caso delle

risposte molecolari e "ritardata" (settimane, mesi, anni) nel caso delle risposte cellulari e

fisiologiche. Esiste quindi in sintesi una serie di fattori che devono essere presi in considerazione

nello studio e nella classificazione dei biomarkers quali: la classe di contaminanti responsabile della

risposta biologica, il tempo di risposta dell’organismo, la sua applicazione come biomarker di

esposizione o di effetto ed infine il significato interpretativo del “segnale”. Tutti questi parametri

vengono sintetizzati in Tabella 1, nella quale vengono riportati alcuni dei principali biomarkers

utilizzati nei programmi di biomonitoraggio.

BIOMARKERS PER COMPOSTI ESTROGENICI Negli ultimi anni l’attenzione sia del mondo scientifico che degli organi regolatori si e’ rivolta con

particolare insistenza sulla capacita’ di alcuni contaminanti ambientali di origine antropica di

alterare i processi ormonali e conseguentemente interferire con la salute dell’uomo e della fauna

degli ecosistemi naturali. Sebbene fosse noto da piu’ di 50 anni che numerosi composti chimici

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possono mimare l’effetto degli ormoni, questi processi non erano stati valutati nella loro

pericolosita’ fino a meta’ degli anni ‘90 (Colborn e Clement, 1992). Da quella data sono stati

pubblicati studi su modificazioni nella concentrazione degli spermatozoi, malformazioni del tratto

genitale, perdita di fertilità, inversioni di sesso in diverse specie di vertebrati ed alterazioni nei

comportamenti riproduttivi (Davis et al., 1993, Sharpe e Skakkebaek, 1993, Anon, 1995, Colborn

et al., 1996), segnali che sono stati interpretati come un campanello di allarme del reale rischio

legato a questi composti.

I composti che hanno la capacita’ di alterare i sistemi endocrini (“endocrine disrupters” - ED) sono

stati recentemente definiti come “ sostanze esogene che provocano effetti negativi in organismi

intatti, o nelle generazioni successive, in conseguenza di modificazioni nelle funzioni endocrine”.

Quella categoria di ED, che interferiscono in particolare con i sistemi degli ormoni sessuali

(composti estrogenici), sono definiti come “sostanze esogene che provocano effetti negativi relativi

alle funzioni riproduttive in organismi intatti, o nelle generazioni successive, in conseguenza di

modificazioni nelle funzioni endocrine (OECD, 1997).

I composti estrogenici appartengono a classi di contaminanti molto diverse tra loro, tra queste vi

sono gli insetticidi clorurati (p.e. DDT e DDE), i policlorobifenili (PCBs), le diossine, gli insetticidi

organofosforici, i pentaclorofenoli, alcuni fungicidi, erbicidi ed alchilfenoli. I composti estrogenici ed

i loro metaboliti possono, se simili strutturalmente a composti endogeni, interagire direttamente

con i recettori fisiologici nelle cellule delle gonadi o degli organi sessuali; questo processo può

riprodurre l’azione dell’ormone, stimolando il recettore ed il conseguente effetto biologico (effetto

agonista) oppure può bloccare o ridurre la capacità di legame e l’attività biologica degli ormoni

naturalmente presenti (effetto antagonista). Un’altra modalità di azione è la modificazione della

trasmissione del segnale a livello post-recettore nelle cellule. Effetti indiretti possono essere causati

dall’induzione od inibizione di enzimi metabolici che causano modificazioni nella produzione o

metabolizzazione di ormoni endogeni o alterazioni nelle loro proteine di trasporto del sangue.

Questi composti possono agire direttamente od indirettamente, richiedendo nel secondo caso

un’attivazione metabolica successiva all’assunzione da parte dell’organismo. Non sempre quando

viene osservata un’alterazione nell’attività ormonale risulta chiaro se e’ dovuta ad un’azione diretta

sulla secrezione ormonale e sulla successiva interazione con i recettori o a meccanismi indiretti.

Nello studio degli effetti dei composti estrogenici è di fondamentale importanza considerare la

specie su cui vengono valutate le risposte ed anche lo stato di sviluppo nel quale avviene

l’esposizione. Gli effetti di esposizioni durante periodi critici dello sviluppo dell’organismo, (ad

esempio durante lo sviluppo dell’embrione) sono stati definiti come “effetti sull’organizzazione”

poiché possono portare a modificazioni strutturali permanenti in diversi organismi. Anche se

l’esposizione avviene nelle prime fasi di sviluppo gli effetti si evidenziano solo successivamente,

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spesso nelle fasi adulte. Se l’esposizione avviene in organismi adulti, gli effetti sul sistema

endocrino sono più frequentemente transitori e sono stati definiti come “effetti sulla attivazione”.

Una ricerca bibliografica on-line ha evidenziato che pochi lavori sono stati fatti, a tutt’oggi,

riguardo ai composti estrogenici. Inoltre mentre esistono alcuni biomarkers per segnalare

l’esposizione degli organismi a queste sostanze, sono pochissimi gli strumenti a disposizione per la

valutazione dei loro reali effetti tossicologici. Di seguito viene presentata una sintesi dei test

utilizzati fino ad oggi su organismi ittici.

Il sistema epatico detossificante delle monossigenasi a funzione mista (MFO) risulta indotto,

selettivamente nei suoi diversi isoenzimi da composti lipoaffini, molti dei quali considerati

estrogenici, come i composti organoclorurati (DDE, lindano, ecc.) (Payne et al., 1987, Fossi e

Leonzio, 1994).

Gli enzimi esterasici sono inibiti nella loro funzionalità da composti quali gli insetticidi

organofosforici e tale inibizione è un indice molto sensibile di esposizione (McCarthy e Shugart,

1990).

Le porfirine, metaboliti intermedi della sintesi dell’eme, subiscono un accumulo superiore ai livelli

fisiologici in presenza di composti organoclorurati.

Questi biomarkers possono essere utilizzati come sensibili strumenti diagnostici della presenza di

sostanze estrogeniche negli organismi oggetto di studio.

Uno dei biomarkers piu’ utilizzati per l’individuazione degli effetti estrogenici e’ l’induzione della

vitellogenina. La vitellogenina è una fosfolipoproteina sintetizzata nel fegato delle femmine ovipare

di vertebrati in risposta ad un estrogeno, in genere l’estradiolo -17β. Dopo la sintesi entra nel

circolo sanguigno e raggiunge le ovaie dove viene trasformata in lipovitelline e fosvitine (Clemens,

1978). Nei maschi e negli organismi immaturi il gene della vitellogenina è normalmente silente

poiché le concentrazioni di estrogeni sono molto basse (Copeland et al., 1986) ; si è però visto

che, in seguito ad esposizione a composti estrogenici, può essere indotto. L’esposizione di

esemplari maschi di pesci a diverse concentrazioni di estrogeni, sia naturali che di sintesi, ha

determinato delle risposte dose-effetto molto pronunciate (Bromage e Cumaranatunga, 1988).

Esperimenti di laboratorio con maschi adulti di trota hanno mostrato come il nonilfenolo sia capace

di indurre la formazione di vitellogenina ed anche il decremento nella crescita dei testicoli e nella

spermatogenesi (Jobling et al., 1996). Studi in vi ro condotti da Harries et al. (1995) hanno

mostrato come alcuni composti (alchilfenoli, DDT, arochlor, bisfenolo A) presenti anche in dosi

molto basse possano produrre effetti estrogenici agendo in sinergia ; da ciò si può ipotizzare che

composti singoli potrebbero essere presenti nell’ambiente a concentrazioni inferiori a quelle

necessarie per produrre un effetto estrogenico, ma insieme potrebbero esercitare una attività

estrogenica. L’induzione della vitellogenina e’ stato utilizzato come biomarker per testare le

capacita’ estrogeniche di effluenti sia industriali che urbani su organismi ittici (Sumpter e Jobling,

t

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1995; Harries et al., 1996), in queste indagini i bioindicatori erano mantenuti in gabbie a varia

distanza dalla fonte di contaminazione, l’effetto estrogenico era prodotto dalla miscela di

contaminanti presenti e quindi non era possibile risalire ad uno o piu’ composti specifici. Mac Latcy

e Van der Kraak, (1995) hanno effettuato uno studio misurando le elterazioni dei livelli degli

ormoni riproduttivi a seguito di somministrazione di alcuni composti estrogenici. Sono in numero

estremamente ridotto anche le pubblicazioni riguardanti gli effetti morfologico funzionali dei

composti estrogenici sui pesci (Bresch, 1982; Wester e Canton, 1986; Bresch et al., 1990; Landner

et al., 1985). Alcuni tra i composti studiati sono i PCP, l’Arochlor, il nitrofenolo, alcuni metalli,

l’esaclorocicloesano la cloroanilina. A seguito della somministrazione venivano valutati alcuni

markers quali il numero di uova, la velocita’ di fertilizzazione, la maturazione sessuale, la orfologia

dell’apparato riproduttore, il tempo di sopravvivenza della prole.

BIOMARKERS NON DISTRUTTIVI

La maggior parte dei biomarkers usati comunemente nei programmi di biomonitoraggio sono a

carattere distruttivo , richiedendo per la loro applicazione l'uso di tessuti o organi ottenuti

attraverso il sacrificio degli animali studiati. Recentemente si sono sviluppate tecniche di

campionamento ed analitiche che consentono di ottenere analoghe informazioni ma che non

alterano l'integrità degli organismi e popolazioni oggetti di studio tramite l'utilizzo di biomarkers

non distruttivi (Peakall, 1992; Walker, 1989; Thompson et al., 1988; Fairbrother et al., 1989). Una

definizione di biomarker non distruttivo, ulteriore evoluzione del concetto di biomarker è data da

Fossi (1994), "Un biomarker non distruttivo è una variazione biochimica, cellulare, fisiologica o

comportamentale che può essere misurata in tessuti, fluidi corporei o nell'intero organismo o

popolazione che indica l'esposizione e/o effetto di uno o più composti inquinanti senza causare

danno o stress prolungato all'organismo o alla popolazione.

Vi sono diverse ragioni per cui è desiderabile lo sviluppo di un approccio di indagine non

distruttivo. Motivazioni di tipo etico; casi in natura in cui la specie oggetto di studio presenta un

numero esiguo di esemplari; quando è necessario studiare una specie protetta o in via di

estinzione è chiaro che l'approccio non distruttivo risulta l'unico ragionevolmente proponibile. In

certi tipi di indagini può essere di grande utilità effettuare campionamenti in sequenza sullo stesso

organismo per studiare le variazioni dipendenti dal tempo (Fossi et al., 1994).

Ancora prima della loro teorizzazione e definizione alcuni dei biomarkers non distruttivi venivano

comunemente usati, anche se la loro applicazione era quasi totalmente limitata al sangue o alle

sue frazioni, ad esempio nello studio delle attività esterasiche, nella valutazione di ormoni o della

vitamina A nel plasma, alterazioni del DNA nelle cellule del sangue. Più di recente c'è stato un

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grande sforzo nella messa a punto di nuove tecniche di campionamento su nuovi materiali biologici

con nuovi tests (Fossi et al., 1994).

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3. PROGETTAZIONE DI UN PROGRAMMA DI BIOMONITORAGGIO La Progettazione di un programma di biomonitoraggio attraverso l’utilizzo di biomarkers richiede la realizzazione di diverse fasi operative riportate schematicamente di seguito, e descritte estesamente nei capitoli successivi:

11..DDeeffiinniizziioonnee aarreeaa ddii ssttuuddiioo ee sseelleezziioonnee aarreeaa ddii ccoonnttrroolllloo

22..CCaarraatttteerriizzzzaazziioonnee ddeellll’’aarreeaa ddii ssttuuddiioo

33..SSeelleezziioonnee ddeellllee ssppeecciiee bbiiooiinnddiiccaattrriiccii ((ddiivveerrssii lliivveellllii ttrrooffiiccii))

44..SSttuuddii ddii llaabboorraattoorriioo

55..SSeelleezziioonnee ddeeii bbiioommaarrkkeerrss ((ggeenneerraallii ee ssppeecciiffiiccii))

66..PPiiaanniiffiiccaazziioonnee ee rreeaalliizzzzaazziioonnee ddeell ppiiaannoo ddii ccaammppiioonnaammeennttoo ((ccoonnttrroolllloo))

77..RReeaalliizzzzaazziioonnee aannaalliissii bbiioocchhiimmiicchhee,, ffiissiioollooggiicchhee ee cchhiimmiicchhee

88..AAnnaalliissii ssttaattiissttiiccaa

99..DDeeffiinniizziioonnee ddeell lliivveelllloo ddii ssaalluuttee ddeellllaa ppooppoollaazziioonnee ee ccoommuunniittàà

1100..IInnddiivviidduuaazziioonnee ddeellllee ssppeecciiee aa rriisscchhiioo

Bioindicatori e biomarkers 15

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4. TECNICHE DI DISSEZIONE E CONSERVAZIONE DEI CAMPIONI Tutti i dati relativi alla situazione sperimentale di campionamento (Stazione, Data, Tecniche di Campionamento, Specie, numero di esemplari) vengono riportati in apposite schede tecniche (Fig 1), nelle quali dovranno essere indicati, durante la fase della dissezione:

• Sigla di riconoscimento del campione (es. 23P) • Specie • Sesso (stato sviluppo gonadi) • Lunghezza (totale) • Peso • Peso Fegato • Materiali biologici prelevati (Bile, Sangue, Cervello) • Note

Al momento del sacrificio, che può svolgersi o direttamente in loco o in laboratorio (Fig.2), a seconda delle condizioni climatiche esterne e della lontananza dalla base operativa, gli esemplari degli organismi bioindicatori subirano la seguente successione cronologica (Fig 3):

• Anestesia dell’ organismo bioindicatore • Valutazione del peso totale • Valutazione della lunghezza totale

A B Fig 2 - Operazione di dissezione degli organismi bioindicatori: (A) in campo. (B) in laboratorio. Progetto BioAgri

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Fig 1 SCHEDE TECNICHE ESPERIMENTO IN CAMPO

CAMPIONAMENTO BIOINDICATORI DELL’ITTIOFAUNA

Stazione Data Campionamento

Data Analisi N di individui Campionati

Specie Tecnica di Campionamento

N° Specie Sesso PESO Lung Fegato

Peso Fegato Aliquot.

Bile Plasma Ep.

Micron Cerv.

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A

Fig 3 - Valutazioni biometriche sugli organismi bioindicatori: (A) Peso Totale. (B) Lunghezza Totale. Progetto BioAgri

B

Successivamente, dopo la determinazione del sesso e dello stato di maturazione delle gonadi, si

deve procedere al prelievo dei seguenti materiali biologici, che devono essere conservati

immediatamente in azoto liquido a circa -195 °C (77,36 °K) o in congelatore a -80°C, dopo essere

stati adeguatamente siglati (Vedi scheda dissezione – Fig.5): • Sangue (estratto dalla vena caudale), immediatamente centrifugato per la separazione del

plasma, conservato in eppendorf in azoto liquido. Una frazione di sangue intero viene strisciata per la preparazione di vetrini (Fig.4).

• Fegato, pesato, subaliquotato, conseravto in carta alluminio in azoto liquido (Fig.5). • Cervello, pesato, conservato in carta alluminio in azoto liquido (Fig.6) • Bile, conservata in eppendorf in azoto liquido (Fig.5). • Rene, conservato in eppendorf in azoto liquido Le carcasse vengono conservate a -20°C (Fig.7).

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A

Vena caudale

Fig. 4 Sangue:

• Estrazione del sangue dalla vena caudale con microsiringhe (eparinizzate).

• Centrifugazione per la separazione del plasma

• Conseravazione in eppendorf in azoto liquido.

• Una frazione di sangue intero viene strisciata per la preparazione di vetrini.

Bioindicatori e biomarkers 19

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Scheda Dissezione Pesci

Bile

Pinna pettorale

Fegato

Uova

Fig 5 - Scheda Dissezione Bioindicatori dell’ittiofauna(Salmo trutta trutta)

I vari organi e tessuti verrannno successivamente sottoposti alla valutazione dei seguenti parametri: Fegato • Calcolo del Somatic Liver Index (S.L.I) • Valutazione della concentrazione di proteine totali epatiche • Valutazione attività MFO (BPMO, EROD) epatiche. • Misurazione della concentrazione delle porfirine (copro, uro, protoporfirine) epatiche. • Misurazione della concentrazione di metaboliti IPA nella bile. Cervello • Valutazione attività Acetilcolinesterasi (AChE) cerebrale. Sangue • Valutazione della Vitellogenina (Vtg) nel plasma. • Valutazione delle Proteine della Zona Radiata (Zrp) nel plasma. • Valutazione della Butirrilcolinesterasi (BChe) nel plasma. • Valutazione della presenza di micronuclei in campioni di sangue. Rene • Analisi degli elementi in tracce. Carcasse • Analisi degli elementi in tracce negli organismi sperimentali. • Analisi degli IPA negli organismi sperimentali.

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Fegato • Estrazione del fegato dall’o

bioindicatore • Valutazione del peso totale • Subaliquotato e conservato

alluminio in azoto liquido. Bile

• Estrazione della bilvescicola biliare con siringa

• Conservazione in eppeazoto liquido

Bioindicatori e bio

Fig. 5

rganismo

in carta

e dalla

ndorf in

markers 21

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Fig. 6 Cervello • Estrazione del cervello

dall’organismo bioindicatore

• Conservazione in carta alluminio in azoto liquido.

Fig. 7 Carcassa • Conservazione della carcassa (con

sigla ) a –20°C

Bioindicatori e biomarkers 22

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5. TECNICHE ANALITICHE Vengono di seguito riportate le principali tecniche analitiche utilizzate in un programma di biomonitoraggio basato sull’utilizzo di biomarkers ed analisi di residui nell’organismo bioindicatore (Fig.8).

AChE

PO RPH YRINS

BPM O

ERO D

PAH sPAH s

M ETABO LITES

VITELLO GENIN

ZO NA RA DIA TA PRO TEINS

H EAV Y

M ETALS

H AEV Y

M ETALS

BRAIN

LIVERM USCLE

G ALL BLADDERPLASM A

G ILLS

K IDNEY

Fig. 8 – Tecniche analitiche (Biomarkers ed analisi dei residui) applicate all’organismo bioindicatore I vari organi e tessuti dell’organismo bioindicatore, indicati in Fig.40, possono essere sottoposti alla valutazione dei seguenti parametri: Fegato • Valutazione attività MFO (BPMO, EROD) epatiche. • Valutazione della concentrazione di proteine totali epatiche. • Misurazione della concentrazione delle porfirine (copro, uro, protoporfirine) epatiche. • Misurazione della concentrazione di metaboliti IPA nella bile. • Calcolo del Somatic Liver Index (S.L.I) Cervello

• Valutazione attività Acetilcolinesterasi (AChE) cerebrale. Sangue • Valutazione della Vitellogenina (Vtg) nel plasma. • Valutazione delle Proteine della Zona Radiata (Zrp) nel plasma. • Valutazione della Butirrilcolinesterasi (BChe) nel plasma • Valutazione della presenza di micronuclei. Rene • Analisi degli elementi in tracce Carcasse

• Analisi degli elementi in tracce. • Analisi degli IPA.

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MONOOSSIGENASI A FUNZIONE MISTA (MFO) Significato Biologico Il sistema delle monoossigenasi a funzione mista rappresenta il principale sistema enzimatico, presente nel regno animale, devoluto alla detossificazione di contaminanti ambientali di sintesi. Evolutosi circa 400 milioni di anni fa per difendere gli organismi viventi da composti tossici di origine naturale (animal-plant warfare), svolge un ruolo chiave nei processi iniziali (Fase I) della detossificazione dei composti xenobiotici (Nebert e Gonzalez, 1987).

Il suo nucleo funzionale è rappresentato da un’emoproteina, il citocromo P450, che è composta da una porzione proteica (apoproteina) e da una porzione prostetica responsabile del processo ossidativo (il gruppo eme). Infatti, grazie al suo gruppo prostetico contenente un atomo di ferro che ha la funzione di legare ossigeno, svolge un’azione ossidante nei riguardi dei composti lipofili inserendo nella molecola gruppi funzionali come –OH, -SH e –COOH. Tale attivazione del substrato rende possibile il successivo attacco da parte degli enzimi coniuganti (Fase II) e la conseguente eliminazione del tossico dall’organismo. Questo complesso sistema multienzimatico comprende, oltre al citocromo P450, anche una flavoproteina denominata NADPH-citocromo P450 reduttasi, il NADPH e il citocromo b5. La sede cellulare dell’MFO è rappresentata dal reticolo endoplasmatico liscio di molti tessuti, ma principalmente delle cellule epatiche. Il funzionamento del sistema MFO, che inizia con il legame del substrato al citocromo P450 nello stato ferrico e che si conclude con la rigenerazione della ferroproteina libera nello stato ferrico, può essere visto come un processo ciclico diviso in diversi step ( Stegeman and Hahn, 1994; Bucheli and Fent, 1995; Goeptar et al., 1995).

Figura 7. Ciclo del citocromo P450. Nel primo step, il substrato si lega al citocromo nello stato ferrico. In seguito al legame con il substrato, l’atomo di ferro del complesso viene ridotto dallo stato ferrico allo stato ferroso mediante l’aggiunta di un elettrone fornito dalla flavoproteina NADPH- citocromo P450 reduttasi. L’emoproteina ridotta quindi lega l’ossigeno, cosicché i tre reagenti sono legati insieme a formare un complesso formato da substrato, ossigeno molecolare e citocromo ferroso. Questo è un punto critico in quanto il processo potrebbe essere interrotto portando al rilascio di molecole reattive dell’ossigeno (superossido). Lo step successivo consiste nell’aggiunta di un secondo elettrone (nella maggior parte dei substrati fornito dalla NADPH- citocromo b5 reduttasi) al complesso e nella formazione di un intermedio

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(perossido) molto instabile costituito dal substrato, dall’atomo di ferro nello stato ferrico e dall’anione perossido. Tale composto intermedio si decompone, perde una molecola d’acqua e forma un atomo di ossigeno attivato legato ad un atomo di Fe3+. Nello step finale l’atomo di ossigeno, precedentemente attivato, viene quindi inserito all’interno del substrato mediante una reazione che si suppone avvenga in due fasi distinte. Per prima cosa si forma un composto intermedio contenente al centro un radicale di carbonio, quindi in una fase successiva il radicale carbonio subisce una ricombinazione che determina l’inserzione di un ossidrile all’interno del substrato. Il sistema delle monoossigenasi a funzione mista è sia “substrato-inducibile”, ossia la presenza di determinati composti xenobiotici stimola la sintesi di nuove proteine funzionali, sia “substrato-specifico”: ciò significa che una determinata classe di composti inquinanti è responsabile dell’induzione di una sola classe enzimatica. Il citocromo P450, scoperto da Axelrod nel 1955, deve il suo nome alla lunghezza d’onda (450 nm) di massimo assorbimento dello spettro del suo complesso con il monossido di carbonio (Omura e Sato, 1964). Sono state ad oggi individuate fino a 300 isoforme del citocromo P450 suddivise in 36 famiglie e sottofamiglie in base alla loro funzionalità. Le diverse isoforme isolate attraverso elettroforesi su SDS, hanno peso molecolare che va da 45 a 57 Kda. Ogni isoforma ha una diversa struttura del sito attivo che può così legare composti diversi. La presenza di una certa tipologia di inquinanti può indurre in maniera specifica una particolare famiglia del citocromo. Il citocromo epatico P4501A (CYP1A), ad esempio, può essere indotto in maniera specifica da una grande varietà di contaminanti chimici con struttura molecolare planare come gli IPA (idrocarburi policiclici aromatici), i PCBs (policlorobifenili), i PCDDs (policlorodibenzo-p-diossine) e i PCDFs (dibenzofurani) (Stegeman e Klopper-Sams, 1987; Kleinow et al., 1987; Payne et al., 1987; Andersson et al., 1987; Suteau & Narbonne, 1988 ), mentre alcuni insetticidi organoclorurati (DDTs, lindano, aldrina, etc.) sono responsabili dell’induzione del citocromo P4502B (CYP2B). Il sistema delle monoossigenasi a funzione mista è il biomarkers con la più alta specificità oggi conosciuto. Di seguito riportiamo in sintesi alcuni dei principali studi basati sull’utilizzo dell’MFO come un biomarkers di esposizione alla contaminazione ambientale, in particolare relativa ai derivati del petrolio oggetto di studio della tesi. Il sistema MFO come biomarker: casi di studio Laboratorio Beyer et al., (1996) hanno mantenuto esemplari di passere di mare (Platich hys flesus) per tre mesi in nasse poste su fondali (Sorfjorden, Norvegia) caratterizzati da elevati livelli di IPA, PCBs e metalli pesanti nei sedimenti. Le analisi svolte hanno evidenziato alti valori di composti aromatici fluorescenti nella bile (5-20 volte più alti rispetto ai controlli). L’attività del CYP1A (misurata tramite il test EROD e il test ELISA) è risultata significativamente indotta (rispettivamente 5 e 10 volte rispetto ai valori del controllo) e significativamente correlata ai livelli di metaboliti nella bile. Livelli simili di induzione sono stati misurati anche da Hylland et al., (1996) che hanno trattato esemplari di passera di mare (Platich hys flesus) con iniezioni intramuscolari di (2,5 mg/kg p.c.), PCB 156 (2,5 mg/kg p.c.) e Cadmio (1 mg/kg p.c.). I pesci, mantenuti in condizioni sperimentali in acquario, sono stati sacrificati ad intervalli variabili (2 giorni per BaP, 15 giorni per Cd ed 8 giorni per PCB 156). Le iniezioni di BaP e di PCB 156 hanno causato un significativo incremento nell’attività EROD, mentre i trattati con Cd non hanno mostrato alcun incremento significativo. Tutti i gruppi trattati con benzo(α)pirene hanno inoltre evidenziato un contenuto di metaboliti IPAnella bile 50-100 volte maggiore rispetto al controllo. Anche Goksøyr et al., (1996) hanno trattato esemplari di passera di mare (Platichthys flesus) con B(a)P, PCB 156 e Cd, per misurare l’induzione del CYP1A (EROD, ELISA) ma con risultati differenti da quelli ottenuti da Hylland. Per dosi di 1 mg/kg p.c. di B(a)P si è avuta una massima risposta dopo 2 giorni dall’inizio del trattamento (EROD >500 pmol/mg prot/min) ed un ritorno a valori di controllo dopo 16 giorni. Il trattamento

t

t

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con PCB 156 (2,5 mg/kg p.c.) determinava massima induzione dopo 8 giorni (700 pmol/mg prot/min) mantenendosi persistente nel tempo. Nei pesci trattati con Cd le risposte ottenute in termini di metallotioneine raggiungevano i massimi valori dopo 15 giorni. Natura Au et al., (2001) hanno testato vari biomarkers in esemplari immaturi sessualmente di Solea ovata campionati in un’area portuale di Hong Kong contaminata da IPA, PCBs e altri composti organici. L’attività EROD misurata in pesci immaturi sessualmente prelevati dal sito contaminato era notevolmente più alta rispetto a quella misurata negli esemplari prelevati dal sito di controllo (rispettivamente 66,78 pmol/mg prot/min e 23,52 pmol/mg prot/min). Al contrario, non è stata osservata alcuna differenza significativa nell’attività misurata in organismi sessualmente maturi. Miller et al., (2003) hanno studiato la risposta del CYP1A in 88 esemplari di sogliola (Pleuronectesvetulus) campionati in 5 differenti siti nel porto di Vancouver Harbour, il più grande porto del Canada, che è contaminato da metalli pesanti, OPs e IPA. L’attività del CYP1A, misurata tramite il test EROD, ha evidenziato una forte induzione in tutti i siti, con valori compresi tra 2202 pmol/mg prot/min e 5534 pmol/mg prot/min. Per confronto, è stato condotto uno studio di laboratorio su 20 sogliole campionate nel porto. I pesci sono stati messi in vasche con acqua salata ad una temperatura di 8 °C e acclimatati per 5 giorni; successivamente la metà di queste sogliole è stata trattata con β-NF (β-naptoflavone) in olio di grano, un tipico induttore del CYP1A, attraverso una singola iniezione intraperitoneale (50 mg/kg), mentre l’altra metà è stata trattata con olio di grano (0.25 ml/100 g). Dopo una settimana di esposizione, gli animali sono stato sacrificati. I valori trovati nelle sogliole trattate con β-NF, misurati attraverso il test EROD, sono 15-22 volte più alti rispetto a quelli trovati nelle sogliole trattate con olio di grano e concordano con quelli misurati in natura nel sito più inquinato del porto.

Tecniche analitiche Sono state messe a punto fino ad ora numerose metodologie per lo studio dell’induzione del sistema MFO, che vanno dai semplici dosaggi enzimatici (valutazione dell’attività etossiresorufina O-deetilasi (EROD), benzopirene monoossigenasi (BPMO), aldrina epossidasi (ALDE), ecc.), fino alle più complesse valutazioni immunochimiche basate sull’utilizzo di anticorpi specifici per le diverse isoforme del citocromo P450 (ELISA, Western Blots).

• Idrossilazione della benzo(a)pirene: Questo test quantifica con indagini fluorimetriche la trasformazione della benzo(a)pirene in 3-idrossibenzo(a)pirene. E' un indice della presenza di induttori come i derivati del petrolio ed altri idrocarburi policiclici.

• Dealchilazione di resorufine: Questi tests fluorimetrici quantificano la trasformazione in resorufina della 7-etossiresorufina (mediata da una reazione di o-deetilazione citocromo P448 dipendente), della pentossiresorufina (reazione dipendente dal citocromo P450) e della benzilossiresorufina (reazione dipendente sia dal cit P450 che dal cit P448).

• Attività enzimi reduttasici

Seguono, in dettaglio analitico, le principali tecniche da utilizzare per la valutazione dell’attività del sistema MFO: • Isolamento Frazione Microsomiale Epatica • Concentrazione proteine totali • Attività NADPH citocromo C reduttasi

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Isolamento della frazione microsomiale epatica Gli enzimi del sistema delle monossigenasi a funzione mista (MFO) sono localizzati principalmente

al livello della frazione microsomiale epatica o reticolo endoplasmatico liscio. L’estrazione di tale

frazione è quindi il primo step nella valutazione delle attività enzimatiche MFO.

Step operativi: • Per l’isolamento della frazione epatica microsomiale vengono utilizzate aliquote di tessuto

epatico del peso di 300- 500 mg a seconda delle dimensioni dei campioni nelle diverse

specie.

• Tutte le operazioni riportate di seguito vengono svolte a +4°C.

• Ogni aliquota viene omogenata in Potter, in Tampone Saccarosio 0,25 M pH 7,5, per 10

passaggi.

• L’omogenato è poi centrifugato a 9000 x g per 20 minuti.

• Il pellet risultante viene eliminato ed il sovranatante ulteriormente centrifugato a 100.000 x

g per 60 minuti.

• Il sovranatante ottenuto viene eliminato mentre il pellet viene congelato a – 80°C con

tampone KCl 1,15% pH 7,5 nel rapporto 1:2,6 g/ml fino al momento delle analisi.

A B Fasi operative della preparazione della frazione microsomiale epatica: (A) omogenizzazione tessuto epatico; (B) centrifugazione.

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Concentrazione delle Proteine Microsomiali Per la determinazione della concentrazione proteica negli estratti epatici viene utilizzato un metodo

spettrofotometrico che si avvale del colorante BioRad Protein Assay. Le soluzioni utilizzate e le

diverse fasi della metodologia sono descritte di seguito.

Step operativi:

• Utilizzando albumina di plasma bovino (BSA), viene preparata una curva standard di

calibrazione con le seguenti concentrazioni: 0,1 mg/ml 0,2 mg/ml 0,3 mg/ml 0,4 mg/ml

0,5 mg/ml.

• I campioni sono opportunamente diluiti in TRITON 0,02% prima del test.

• Viene preparato il colorante BIO-RAD PROTEIN diluito in proporzione 1:5 in H2O bidistillata.

• Da ogni campione diluito vengono prelevati 20µl e aggiunti in cuvetta di plastica da 1,5 ml

a 1 ml di soluzione BIO-RAD PROTEIN diluita 1:5.

• Dopo agitazione, viene effettuata la lettura della soluzione allo spettrofotometro (Shimadzu

UV visibile recording spectrometer).

Fasi operative del dosaggio delle proteine microsomiali: lettura della soluzione (BIORAD-PROTEIN) allo

spettrofotometro (Shimadzu UV visibile recording spectrometer).

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• La lettura viene effettuata a una lunghezza d’onda pari a 595 nm, corrispondente alla

lunghezza d’onda di assorbimento del complesso BIO-RAD PROTEIN-proteine.

• La prima lettura viene effettuata del bianco (soluzione di BIO-RAD PROTEIN) disposto in

due cuvette ed ha funzione di riferimento (autozero dello strumento); successivamente si

procede alla lettura in doppio dei campioni.

CALCOLO CONCENTRAZIONE PROTEICA

La concentrazione proteica, espressa in mg/ml viene calcolata in rapporto alla curva standard di

BSA.

Attività reduttasi L’attività dell’enzima NADPH citocromo C reduttasi viene valutato con il metodo

Livingstone e Farrar (1984). Questo test quantifica, tramite lettura fotometrica, la

riduzione del citocromo C. Per l’enzima NADPH la miscela di reazione consisteva

in: • 500 µl di tampone Tris-HCl 100 mM

• 50 µl di KCN 20 mM

• 50 µl di citocromo C 1,2 mM

• 325 µl di acqua distillata

• 25 µl di frazione microsomiale

• 50 µl di NADPH

Il cambiamento di assorbanza è stato letto con uno spettrofotometro a doppio

raggio con cella termostatata a 30 °C (Perkin Elmer Lamda EZ 201) ad una

lunghezza d’onda di 550 nm per 120 secondi.

Il risultato del test veniva espresso come nmol/ mg prot/ min.

SPETTROSCOPIA UV/VIS L’interazione delle radiazioni elettromagnetiche con la materia è essenzialmente un fenomeno quantico che dipende dalle proprietà della radiazione e dalla struttura della materia stessa. I diversi componenti della materia daranno origine e saranno sensibili a radiazioni in regioni specifiche dello spettro. La spettroscopia in UV/Vis prevede l’uso di spettrofotometri in grado di generare fasci di luce ad una singola lunghezza d’onda indirizzati verso il campione in analisi e, quindi, obbligati ad attraversarlo. Lo spettrofotometro registra l’assorbimento di luce da parte del

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campione. La legge fondamentale che governa l’assorbimento di luce da parte di un’analita è la legge di Lambert-Beer espressa come:

T= I/I0

Dove T è la trasmittanza, I l’intensità della radiazione trasmessa, I0 l’intensità della radiazione incidente (per intensità si intende il numero di fotoni che interagiscono nell’unità di tempo). Una sostanza completamente trasparente presenta un valore di T pari al 100%, cioè nessuna radiazione viene assorbita, mentre un valore di T=0 indica una sostanza totalmente opaca che assorbe completamente la luce. Per valori intermedi di assorbimento della luce possiamo definire l’assorbanza (A) che è uguale al log del reciproco della trasmittanza:

A= LOG 10(1/T)= LOG 10 (I/I0)

La legge di Lambert Beer, infine esprime la proporzionalità diretta tra l’assorbanza e la concentrazione della sostanza che assorbe la luce e lo spessore del campione.

A= ελ cl Dove ελ è il coefficiente di estinzione molare della sostanza che assorbe la luce ad una data lunghezza d’onda λ , c è la concentrazione molare della soluzione che assorbe la luce, ed l è il cammino ottico della radiazione nella soluzione.

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LE ESTERASI Significato Biologico

La famiglia delle esterasi è costituita da due classi fondamentali; le esterasi di tipo "A",

responsabili della detossificazione degli organofosforici e le esterasi di tipo "B", che vengono al

contrario inibite da questi insetticidi. L'inibizione delle esterasi cerebrali (acetilcolinesterasi - AChE)

ed ematiche (butirrilcolinesterasi - BChE e carbossilesterasi - CbE) rappresenta un biomarker

specifico della presenza di insetticidi organofosforici (OPs) e carbammati (CBs). Questi insetticidi

generano il loro effetto provocando un’inibizione, irreversibile (OPs), o reversibile (CBs), dell’attività

dell’acetilcolinesterasi con conseguente accumulo di acetilcolina a livello delle sinapsi nervose e

sintomi di tremore, disfunzioni motorie ed, in casi estremi, morte. La valutazione dell’inibizione

dell’AChE come segnale d’esposizione e d’effetto a tali insetticidi, si presenta come un metodo

estremamente rapido, economico, e maggiormente attendibile rispetto alla più comune valutazione

chimica della presenza di tali contaminanti; questo è inoltre legato alla rapida velocità di

degradazione di questi composti nei vari comparti ambientali. L’inibizione della BChE ematica è

stata inoltre recentemente proposta come biomarker non-distruttivo per evidenziare l’esposizione a

tali insetticidi neurotossici in rettili ed uccelli (Fossi et al., 1996; Fossi,1998). Tali biomarkers

vengono comunemente misurati con tests enzimatici spettrofotometrici.

Attività Acetilcolinesterasi cerebrale (AChE)

Il test per la determinazione della attività acetilcolinesterasica cerebrale (Elmann et al., 1961,

modificato) quantifica la velocità di idrolisi del substrato specifico (acetiltiocolina) da parte degli

enzimi este asici cerebrali a formare tiocolina che reagendo con un colorante (DTNB) sviluppa una

reazione colorimetrica con con massimo di assorbanza del prodotto di reazione a 410 nm di

lunghezza d’onda.

r ,

Step operativi: PREPARAZIONE CAMPIONI

• Aliquote di tessuto cerebrale vengono omogenate in tampone TRIS / HCl 0,1 M pH 8,0 nel

rapporto 0,06:1 g/ml tramite 10 passaggi in Potter (Fig.12).

• L’omogenato viene quindi centrifugato a 600 x g per 10 minuti ed il sovranatante utilizzato

per la determinazione della attività enzimatica.

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Fig 12 – Fasi operative della valutazione dell’attivita’ Acetilcolinesterasica cerebrale: omogenizzazione del

tessuto cerebrale.

VALUTAZIONE DELL’ATTIVITÀ ENZIMATICA

• La seguente miscela di reazione viene introdotta in una cuvetta di plastica dello spessore di

1 cm (Fig.13):

2,875 ml tampone TRIS/CaCl2 (TRIS/HCl 25 mM, CaCl2 1 mM, pH 7,6),

100 µl DTNB,

20 µl Acetiltiocolina (ATCI),

5-10 µl di omogenato.

Fig 13 – Fasi operative della valutazione dell’attivita’ Acetilcolinesterasica cerebrale: miscela di

incubazione.

• La cinetica di reazione viene registrata per 5 minuti a 410 nm di lunghezza d’onda, utilizzando

uno spettrofotometro a doppio raggio (Fig.14).

• Prima dell’inizio della lettura viene effettuato l’autozero dello strumento con due bianchi

contenenti la miscela di reazione senza omogenato.

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• La cella dello strumento viene termostatata a 30 °C per le specie ittiche, 37°C per i mammiferi

e 42°C per gli uccelli.

Fig 14 – Fasi operative della valutazione dell’attivita’ Acetilcolinesterasica cerebrale: lettura

spettrofotometrica della cinetica enzimatica.

CALCOLO ATTIVITA’

L’attività enzimatica si esprime come µmoli substrato/ g tessuto/ minuto.

BIBLIOGRAFIA

Ellman L, Courtey KD, Andreas V Jr. and Featherstone RM, 1961. A new rapid colorimetric

determination of cholinesterase activity. Biochem. Pharmac., 7:88-98.

Attività Butirrilcolinesterasica (BChE)

Il tes per la determinazione della attività butir ilcolinesterasica (Elmann et al., 1961, modificato)

quantifica la velocità di idrolisi del substrato specifico (butirriltiocolina) da parte degli enzimi

esterasici del plasma a formare tiocolina, che reagendo con un colorante (DTNB) sviluppa una

t r

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reazione colorimetrica con massimo di assorbanza del prodotto di reazione a 410 nm di lunghezza

d’onda.

Step operativi: PREPARAZIONE CAMPIONI

• Aliquote di sangue vengono prelevate dagli organismi da analizzare ed immediatamente

centrifugate in assenza di eparina al fine di separare il plasma che viene conservato a –

80°C fino al momento del test (Fig.51).

Fig 51 – Fasi operative della valutazione dell’attivita’ Butirrilcolinesterasica plasmatica: centrifugazione dei

campioni di sangue per l’isolamento del plasma.

VALUTAZIONE DELL’ATTIVITÀ ENZIMATICA

• La seguente miscela di reazione viene introdotta in una cuvetta di plastica dello spessore di

1 cm (Fig.52):

2,875 ml tampone TRIS/CaCl2 (TRIS/HCl 25 mM, CaCl2 1 mM, pH 7,6),

100 µl DTNB,

20 µl Butirriltiocolina (BTCI),

5-10 µl di plasma.

• La cinetica di reazione viene registrata per 5minuti a 410 nm di lunghezza d’onda,

utilizzando uno spettrofotometro a doppio raggio (Fig.53).

• Prima dell’inizio della lettura viene effettuato l’autozero dello strumento con due bianchi

contenenti la miscela di reazione senza plasma.

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• La cella dello strumento viene termostatata a 30 °C per le specie ittiche, 37°C per i

mammiferi e 42°C per gli uccelli.

CALCOLO ATTIVITA’ L’attività enzimatica si esprime come µmoli substrato/ ml plasma/ minuto.

Attività enzimi antiossidanti Significato biologico Tutti gli organismi animali contengono diversi tipi di enzimi per proteggersi dagli effetti

negativi degli xenobiotici. Nei vertebrati, inclusi i pesci, il citocromo P450 e gli enzimi

coniuganti giocano un ruolo chiave nella metabolizzazione di molti inquinanti organici, ma

allo stesso tempo, formano intermedi di reazione detti ROS (specie reattive dell’ossigeno).

Tali composti, che comprendono specie radicali e non-radicali (O2▪-, OH▪, RO2▪, RO▪, HO2▪,

H2O2 ), possono derivare non solo dalla biotrasformazione dei composti inquinanti, ma

anche dalla parziale riduzione dell’ossigeno molecolare utilizzato dagli organismi

(autoossidazione dei componenti della catena di trasporto degli elettroni nel mitocondrio, il

citocromo P450 e le reduttasi) (Winston 1991; Winston e Di Giulio, 1991). E’ stato stimato

che circa l’1-3% dell’O2 consumato nei sistemi animali è convertito a ROS (Halliwell e

Gutteridge, 1999). I ROS, essendo altamente reattivi con le macromolecole, possono

danneggiare componenti cellulari come il DNA, le proteine e le membrane, causando un

fenomeno conosciuto con il nome di stress ossidativo (Davies, 1995). Le cellule

possiedono un complesso sistema di difesa che tenta di inibire la formazione dei radicali

dell’ossigeno: tale sistema include enzimi antiossidanti come la catalasi (CAT), la

superossido dismutasi (SOD) e il glutatione perossidasi (GPX). Tali enzimi, che sono

presenti nei tessuti di tutti gli organismi, sono fondamentali nella trasformazione dei

radicali in molecole non reattive. Questa batteria di enzimi antiossidanti è supportata da

sistemi accessori che forniscono equivalenti ridotti necessari per l’attività di

detossificazione (glucosio 6-fosfato deidrogenasi, glutatione reduttasi).

Le superossido dismutasi (SODs) sono un gruppo di metalloenzimi, presenti in tutte le

cellule viventi che utilizzano ossigeno molecolare, che contengono Cu, Zn, Fe e Mn nel

suo sito attivo, la cui funzione è quella di catalizzare la conversione di due molecole di O2-

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ad ossigeno molecolare e perossido di idrogeno (H2O2) , che in un secondo momento

viene detossificato da due tipi di enzimi: catalasi e glutatione perossidasi. Nella maggior

parte dei tessuti animali ci sono due forme di superossido dismutasi: una, localizzata nel

citosol, che contiene un atomo di rame e uno di zinco (Cu/Zn-SOD), ed un’altra,

localizzata nel mitocondrio, che contiene un atomo di manganese (Mn-SOD). La

superossido mitocondriale può contribuire fino al 60% di attività totale di un tessuto (Radi

et al., 1985), in quanto è molto reattiva con i radicali superossidi.

Le catalasi (CATs) sono emoproteine localizzate esclusivamente nei perossisomi, la cui

funzione è quella di facilitare la rimozione dell’ H2O2 , che viene metabolizzato ad ossigeno

molecolare ed acqua. I perossisomi sono organelli cellulari che hanno molteplici funzioni

(Mannaerts e Van Veldhoven, 1993), ma in particolare giocano un ruolo chiave nel

metabolismo dei ROS (Singh, 1996). Nonostante le catalasi siano gli enzimi perossisomali

più abbondanti, altri enzimi come Cu,Zn-SOD e GPX sono localizzati nei perossisomi dei

mammiferi e nelle cellule epatiche dei pesci (Dhaunsi et al., 1992; Singh et al., 1994;

Orbea et al., 2000).

La glutatione perossidasi (GPX) è un enzima che converte il perossido di idrogeno

in acqua, implicando una contemporanea ossidazione del glutatione ridotto (GSH)

nella sua forma ossidata (GSSG). Inoltre catalizza la riduzione glutatione-

dipendente degli idroperossidi (ROOH) in GSSG (glutatione disolfuro) ed acqua.

Grazie alla riduzione dei perossidi, la glutatione perossidasi protegge l’organismo

dai danni ossidativi e dall’accumulo dei prodotti dei radicali liberi. Tale sistema è

localizzato sia nel citoplasma, che nella matrice mitocondriale (Boveris e Cadenas,

1982). Date le loro caratteristiche, gli enzimi antiossidanti sono stati proposti come indicatori

precoci dell’esposizione a composti xenobiotici organici (Di Giulio et al., 1989; Livingstone,

1993; Fahimi e Cajaraville, 1995; Cajaraville et al., 1997; Cancio and Cajaraville, 2000).

Qui di seguito saranno riportati in sintesi alcuni studi che utilizzano gli enzimi antiossidanti

come biomarkers di stress alla contaminazione da derivati del petrolio. Attività Catalasi L’attività enzimatica della catalasi viene valutata nel citosol epatico tramite la metodica di

Aebi, 1984. Tale attività è stata misurata come decremento della concentrazione di

perossido di idrogeno tramite lettura fotometrica a 290 nm. Questa diminuzione in

assorbanza è stata registrata ad intervalli di 10 secondi per il tempo di 1 minuto.

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In una cuvetta al quarzo sono stati posti 3 ml di tampone fosfato 50 mM pH 7,5 e 50 µl di

citosol epatico. Dopo un’opportuna agitazione è stata effettuata la lettura allo

spettrofotometro (Perkin Elmer, Lambda SZ 201). Tale lettura corrispondeva al bianco.

In una cuvetta di quarzo stata poi posta la seguente miscela di reazione:

• 2 ml di tampone fosfato 50 mM pH 7,5

• 50 µl di campione

• 1 ml di perossido di idrogeno al 30 mM.

Dopo opportuna agitazione, è stata effettuata la lettura del campione in doppio. La stessa

procedura è stata seguita per ogni campione analizzato.

I valori della catalasi, espressi in nmolxmin-1, sono ottenuti tramite la seguente formula:

K/ml = (2,3/ ∆t) x [log (Ai/Af)] x 3/ Vcampione

Il risultato è stato normalizzato dividendo il valore ottenuto per la concentrazione (mg/ml)

di proteine totali determinate nel campione. L’unità di misura finale è quindi espressa

come nmol/ min/ mg prot.

Vitellogenina e Proteine dalla Zona Radiata (vedi anche il paragrafo composti

estrogenici) Test ELISA Per rilevare le concentrazioni di Vitellogenina (Vtg) e delle Proteine della Zona Radiata

(Zrp) viene utilizzata una tecnica immunoenzimatica, l’E.L.I.S.A. (Enzyme-Linked-Immuno-

Sorbent-Assay) con il metodo indiretto.

L’enzimoimmunologia, nella sua definizione più generale (Messeri, 1979) comprende

“quelle tecniche immunologiche in cui il rilevatore è costituito da un antigene o un

anticorpo marcato con un enzima; il grado di legame tra il reagente marcato ed il suo

immunoreattivo e quindi la concentrazione della sostanza oggetto del dosaggio che con

tale reagente è in competizione, viene calcolato mediante la misura dell’attività

enzimatica”.

Il metodo indiretto si basa sulla reazione tra l’antigene ricercato (Vtg o Zrp) con un

anticorpo policlonale ad esso specifico. Dopo che l’antigene si è legato ad una fase solida,

rappresentata dal fondo dei pozzetti della piastra E.L.I.S.A., viene aggiunto l’anticorpo

policlonale “primario” che si lega al corrispondente immunoreattivo. Si aggiunge quindi un

secondo anticorpo marcato con un enzima, specifico per l’anticorpo primario e, di seguito,

il substrato per l’enzima. L’aggiunta del substrato genera una reazione rilevabile

spettrofotometricamente. In questo modo è possibile misurare i livelli di anticorpo primario

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e, indirettamente, risalire alla concentrazione che l’antigene ad esso legato (Goksøyr,

1991).

Il primo step comprende la misurazione della concentrazione delle proteine plasmatiche

che è stata effettuata con il metodo precedentemente illustrato (Bradford, 1976, vedi par.

4.4.1.5.).

I campioni di plasma da analizzare sono stati quindi diluiti in coating buffer (50mM

carbonato/bicarbonato, pH 9,6) fino ad ottenere concentrazioni di 100 µg proteine totali/ml

e seminati in doppio (100 µl per pozzetto) in piastre E.L.I.S.A. da 96 pozzetti. 24 pozzetti

sono stati seminati come bianchi solo con coating buffer. Le piastre sono state lasciate al

buio, a 4°C, tutta la notte, permettendo così l’assorbimento delle proteine da parte del

setto poroso presente sul fondo di ogni pozzetto.

Il giorno successivo le piastre sono state lavate tre volte con tampone TPBS (0,5% Tween

20 in phosphate buffered saline (PBS), pH 7,3).

Successivamente sono stati aggiunti ad ogni pozzetto 200 µl di blocking solution (2%

Albumina di siero bovino (ASB) in PBS) lasciando riposare la piastra, al buio, a

temperatura ambiente per un’ora, per poi ripetere di nuovo le operazioni di lavaggio

sopradescritte. Ad ogni pozzetto sono stati aggiunti 100 µl di soluzione contenente

l’anticorpo primario policlonale (BIOSENSE, Norvegia) specifico per ciascuna delle due

proteine, diluito 1:1000 per la Vtg e 1:3000 per la Zrp, la piastra è stata quindi mantenuta a

4°C per tutta la notte.

Il giorno seguente sono state ripetute le operazioni di lavaggio in TPBS ed aggiunti 100 µl

di soluzione contenente l’anticorpo “goat anti rabbit IgG” della BIO-RAD coniugato con

l’enzima perossidasi rafano e diretto contro gli anticorpi di coniglio; la piastra è stata

lasciata a riposo, a temperatura ambiente, per un’ora. Dopo aver effettuato 5 lavaggi in

TPBS, sono stati aggiunti 100 µl di soluzione di sviluppo (0.04% di diidrocloruro di o-

fenilendiammina (DOF), 0,012% H2O2 ) contenenti il substrato specifico per la perossidasi

coniugata all’anticorpo “secondario”.

Passati 10 minuti la reazione di sviluppo è stata bloccata con una soluzione di acido

solforico 4N e si è passati alla lettura dell’assorbanza della piastra a λ=490 nm al lettore

E.L.I.S.A. (BIO-RAD, Microplate Reader Model 550).

I risultati, espressi come unità di assorbanza, sono stati calcolati sottraendo al valore medio ottenuto per ciascun campione, il valore medio dei pozzetti bianchi.

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Metaboliti IPA della bile Significato Biologico

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t

In ambiente acquatico, come risultato della loro bassa solubilità, gli IPA non sono presenti nella fase disciolta, ma si legano al sedimento, al materiale sospeso, o si accumulano nel pesce distribuendosi secondo il contenuto dei lipidi nei differenti tessuti, indipendentemente dal loro normale percorso di assunzione ( Varanasi & Stein, 1991). Per le specie bentoniche esistono diverse vie di assunzione degli IPA: l’acqua, il particolato sospeso, il cibo, le branchie e il diretto contatto con il sedimento. Tale assunzione dipende da una serie di fattori, come la concentrazione degli IPA nell’ambiente, la loro lipofilia e solubilità ed il loro adsorbimento al particolato organico. Il tipo di alimentazione, il contenuto lipidico, le caratteristiche specie-specifiche di assunzione da parte dell’epitelio (struttura e funzione) e il sistema di biotrasformazione, giocano un ruolo importante nei confronti dell’assunzione e del bioaccumulo degli IPA (Varanasi, 1989; Stegeman & Lech, 1991). Una volta assunti, gli IPA attraverso il circolo sanguigno, arrivano nel fegato dove verranno metabolizzati o biotrasformati dal sistema enzimatico del citocromo P450, attraverso un processo che ne facilita l’escrezione. Tale processo è diviso in due fasi: nella fase I (bioattivazione) viene aggiunto un gruppo OH, mentre nella fase II (coniugazione) vengono aggiunte molecole come amminoacidi, acido glucuronico o glutatione. Attraverso l’aggiunta di gruppi funzionali idrofilici nella molecola, gli IPA sono resi più idrosolubili e quindi facilmente escreti. Finito tale processo, i metaboliti saranno poi temporaneamente immagazzinati nella cistifellea in attesa di essere eliminati attraverso l’intestino. Il modo e la velocità di eliminazione dipendono dai diversi composti degli IPA; generalmente quelli a basso PM vengono eliminati più velocemente di quelli ad alto PM (Neff et al., 1976). In alcuni casi, gli IPA possono essere trasformati in specie molto reattive, che legandosi al DNA, formano addotti, che si sono dimostrati essere i predecessori degli effetti mutagenici e cancerogenici (Varanasi et al., 1989; Kurelec, 1993). In genere, il potenziale cancerogenico aumenta con il crescere delle dimensioni delle molecole degli IPA (Malins et al., 1988). E’ stato dimostrato che la potenzialità di sviluppare effetti tossici in risposta all’esposizione degliIPA, può dipendere dal sistema di biotrasformazione di ciascuna specie. Studi condotti da Puget Sound, USA, mostravano una relativamente più bassa attività di detossificazione delle reazioni della fase II comparate alle reazioni di bioattivazione della fase I nella sogliola sole (Pleuronectes vetulus) e nella sogliola stellata (Platichthys stellatus). A questo corrisponde un’alta frequenza sia di addotti del DNA che di lesioni al fegato nella sogliola sole rispetto alla sogliola stellata (Collier et al., 1992). Sia il sistema immunitario, che il sistema riproduttivo possono essere danneggiati in seguito all’esposizione agli IPA. Sono stati eseguiti molti studi su diverse specie ittiche esposte a varie concentrazioni di IPA, ed è stato osservato come l’accumulo di questi contaminanti o dei loro metaboliti, fosse quasi esclusivamente a carico della bile (Roubal et al., 1977; Nava e Engelhardt, 1980). Questi studi hanno dimostrato che i livelli dei metaboliti IPA nella bile riflettono l’assunzione di questi contaminanti da parte delle specie e quindi possono essere considerati un valido biomarker di esposizione (Aas, 2000). Inoltre l’analisi dei metaboliti IPA nella bile nei pesci si è dimostrato essere un metodo sensibile per studiare la contaminazione degli IPA che hanno origine sia petrolifera sia pirolitica (Krahn et al., 1986; Ariese et al., 1993; Lin e al., 1996). Uno studio effettuato da Aas nel 1999 su esemplari di merluzzo (Gadus morhua) e passere di mare (Platich hys flesus), ha dimostrato la presenza dei metaboliti IPA nella bile, nelle specie esposte a varie forme di contaminazione da prodotti petroliferi. I dati provenienti dal Biomarker Workshop (Ariese, 1997) mostrano che i livelli dei metaboliti IPA nella bile di alcune specie di Pleuronettiformi, provenienti da aree contaminate (Canale del Mare del Nord e Rotterdam), sono più elevati, rispetto all’area di controllo, di un ordine di grandezza. La bile è una secrezione digestiva, rilasciata saltuariamente nel tubo digerente; se il pesce non mangia, la bile con i suoi metaboliti non viene scaricata; incrementando la densità della bile,

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aumenta la concentrazione biliare dei metaboliti IPA, come dimostrato da Collier e Varanasi (1991). Per la sua natura, la bile non ha bisogno di subire dei pretrattamenti, come omogenizzazione o estrazioni varie, per essere sottoposta ad analisi, quindi risulta essere un campione fisiologico quasi ideale per controllare lo stato di salute di un ambiente acquatico. Qui di seguito saranno riportati in sintesi alcuni dei lavori più significativi che utilizzano i metaboliti IPA come biomarkers di esposizione a derivati del petrolio. I metaboliti IPA come biomarker: casi di studio Laboratorio Aas et al., (2000) hanno selezionato un set di biomarkers per studiare il merluzzo Atlantico (Gadus morhua) esposto in maniera cronica a derivati del petrolio. Gli organismi sono stati mantenuti in condizioni sperimentali in acquario per 30 giorni a concentrazioni differenti di petrolio (0,06 ppm; 0,25 ppm; 1 ppm). Gli esemplari sono stati esaminati cinque volte durante il periodo di esposizione; inoltre il gruppo di controllo e quello trattato con 1 ppm sono stati esaminati anche una settimana dopo la fine dell’esperimento. I biomarkers scelti per questo lavoro sono stati: i metaboliti IPA nella bile, l’attività EROD e il livello di addotti sul DNA nel fegato e nel sangue. Tutti i biomarkers utilizzati, nel gruppo trattato con 1 ppm, hanno evidenziato un incremento lungo tutto il periodo di esposizione. Natura Su varie specie di pesci teleostei, tra i quali la limanda (Limanda aspera), Sol et al., (2000) hanno misurato i metaboliti IPA (fenantrene e naftalene) nella bile in seguito all’esposizione cronica al petrolio derivante dallo sversamento in mare della Exxon Valdez, 1989. I livelli dei composti aromatici fluorescenti biliari diminuiscono con il passare del tempo dallo sversamento. Dopo il primo anno dallo sversamento i livelli di metaboliti del fenantrene (FAC-PHN) e del naftalene (FAC-NPH) sono elevati (FAC-NPH: 23 µg equiv./mg bile prot; FAC-PHN: 18 µg equiv./mg bile prot). Nei due anni successivi, i livelli di fenantrene si abbassano più rapidamente rispetto a quelli del naftalene. Krahn et al., (1986) hanno campionato esemplari di sogliola inglese (Parophrys vetulus) in 11 siti di Puget Sound, Washington, per misurare la concentrazione dei metaboliti dei composti aromatici nella bile. In tutti i siti campionati sono stati rilevati alti valori di concentrazione dei metaboliti, che variavano da 2100 unità di fluorescenza nel sito più contaminato a 67 unità di fluorescenza in quello meno inquinato.

Porfirine Significato Biologico Le porfirine sono pigmenti tetrapirrolici ampiamente distribuiti in natura. Sono presenti in alcuni tessuti animali, ad esempio in gusci e penne negli uccelli, come deposizione pigmentata dove svolgono una funzione per l'ornamento e il camuffamento. Il loro ruolo fisiologico fondamentale è comunque legato al processo di sintesi dell'eme, di cui sono metaboliti intermedi o loro prodotti di ossidazione. Quando il processo di sintesi dell'eme subisce interferenze si possono creare alterazioni nel profilo delle porfirine che sono prodotte, accumulate ed escrete. Nell'uomo e in alcuni altri organismi superiori l'origine di tali interferenze può essere ricondotta più di frequente a malattie genetiche (porfirie) che possono avere talvolta evoluzioni drammatiche. Di fondamentale

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importanza per gli studi ecotossicologici è la capacità che hanno molte classi di contaminanti ambientali di interferire con la sintesi dell'eme sia nei vertebrati che negli invertebrati. Alcuni contaminanti agiscono molto selettivamente su alcuni enzimi della catena biosintetica alterando il metabolismo porfirinico anche se solitamente senza produrre drammatici effetti macroscopici. Le porfirine possono quindi essere utilizzate come biomarkers di esposizione a composti tossici. I principali distretti di sintesi dell'eme e di potenziale accumulo di porfirine, sono il tessuto eritropoietico ( in cui l'eme viene sintetizzato ed inserito come gruppo protetico nell'emoglobina), il fegato (dove l'eme costituisce il gruppo prostetico del citocromo P-450) ed il rene; altri distretti di accumulo possono essere rappresentati dalle urine e dalle feci, dal pelo per i mammiferi e dalle penne per gli uccelli. La notevole ubiquità di materiali biologici disponibili per la loro identificazione fa sì che le porfirine possano essere proposte per indagini di tipo nondistruttivo (De Matteis e Lim, 1994). L’accumulo di porfirine epatiche è un indice della contaminazione da parte di PCBs, pesticidi organoclorurati, organofosforici, diossine e metalli pesanti. Il profilo delle porfirine (coproporfirine, uroporfirine, protoporfirine) viene valutato fluorimetricamente dopo estrazione acida di subfrazioni di tessuto epatico. Riportiamo di seguito alcuni esempi di composti dal potere porfirinogenico. HCB Dal 1955 al 1959 si verificò in Turchia una epidemia di porfiria cutanea tarda sintomatica (PCTS) (Elder, 1978) che coinvolse più di 3000 persone(Dogramaci et al., 1962; Schmid, 1960), si scoprì in seguito che una partita di grano trattata con il fungicida esaclorobenzene (HCB) era stata utilizzata come alimento piuttosto che come semenza e che esso ne era causa. Questo tipo di patologia che si manifesta con lesioni della pelle dovute alla fotosensibilizzazione è cusata dalle porfirine. Infatti grandi quantità di porfirine si accumulano nel fegato e vengono escrete nelle urine al punto che le urine assumono un colore rosso scuro (Cam e Nigogosyan, 1963). La responsabilità dell'HCB fu confermata da esperimenti di laboratorio su roditori (De Matteis et al., 1961). Si scoprì che il suo principale meccanismo di azione si esplica tramite la inibizione della uro'geno decarbossilasi (UROG-D) del fegato e ciò spiega la prevalenza di uro e altre porfirine altamente carbossilate nel fegato e nelle urine. Nel 1977 vennero riesaminati 29 pazienti turchi che erano stati originariamente coinvolti nell'epidemia (Cripps et al., 1980), in 5 di essi i livelli di uroporfiria erano ancora estremamente elevati dopo 20 anni. Studi a lungo termine effettuati su ratti fornirono interessanti indicazioni su questo fenomeno di persistenza nella inibizione della UROG-D. Si ipotizzo infatti che gli agenti responsabili dell'inibizione fossero o dei metaboliti persistenti dell'HCB o le stesse porfirine e porfirinogeni che si producevano (Koss et al., 1983). Tra i metaboliti dell' HCB i più importanti sono i pentaclorofenoli, il 2,3,5,6 tetraclorobenzene-1,4 diolo e il pentaclorotiofenolo (Koss et al., 1978). A confermare la tesi dei metaboliti vi fu anche il lavoro di Rizzardini e Smith (1982) in cui le femmine di ratto si mostrarono più sensibili nello sviluppo di porfiria rispetto ai maschi , avendo un sistema di metabolizzazione più rapido. Successivamente si è individuato un ruolo chiave nello sviluppo della porfiria da HCB anche da parte del ferro che non è legato all'eme. (Elder, 1968). DIOSSINE

Negli anni sessanta furono riportati casi di PCTS in lavoratori di due industrie che producevano gli erbicidi acido 2,4 diclorofenossiacetico (2,4 D)e acido 2,4,5 triclorofenossiacetico (2,4,5 T) (Bleiberg et al., 1964; Jirasek et al., 1973). Studi successivi hanno indicato che la 2,3,7,8 tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD) è un sottoprodotto della produzione del 2,4 D (Hay, 1982). La TCDD è uno dei composti più tossici in assoluto e gli studi di Poland e Glover (1973) e Goldstein etal. (1973) ne mostrarono chiaramente in potente potere porfirinogenico. Studi su ratti di Cantoni et al. (1981) stimarono che il suo potere di indurre porfiria fosse 14000 volte più elevato rispetto all'HCB. Anche la TCDD ha mostrato in vitro potere di inibire la UROG-D (Jones e Sweeney, 1977). POLICLOROBIFENILI E POLIBROMOBIFENILI

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A Taiwan nel 1979 fu identificata la presenza di PCBs nell'olio da cucina consumato da soggetti che avevano sviluppato cloracne, 69 pazienti furono analizzati per il pattern di escrezione delle porfirine e dei loro precursori nell'urina (Chang et al., 1980). Si riscontrò un aumento di ALA e di uroporfirine, per cui le porfirine e gli altri metaboliti dell'eme furono proposti come indici di contaminazione da PCBs. Nel 1973 alcuni contadini del Michigan (Kay, 1977) furono esposti accidentalmente a polibromobifenili (PBB), in tal caso non ci fu un aumento sostanziale nell'accumulo di porfirine ma il “pattern” era significativamente alterato. Un esperimento successivo con ratti confermò la capacità porfirinogenica dei PBB (Gupta et al., 1983). Doss et al. (1979) studiarono l'escrezione di porfirine e dei loro precursori in soggetti che lavoravano in una fabbrica che produceva e processava polivinilcloruro (PVC). Livelli elevati di di coproporfirine furono misurati in soggetti che mostravano danni epatici indotti dal PVC. L'inibizione della copro'geno ossidasi fu proposta come spiegazione di questo fenomeno.

TESTO CONSIGLIATO: M.C. Fossi : “Biomarkers: strumenti di diagnosi e prognosi ambientale” Rosini Editrice s.r.l. Firenze

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