Dispense PES 2006 Parte Prima

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE FACOLTÀ DI ECONOMIA CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN SVILUPPO ECONOMICO E COOPERAZIONE INTERNAZIONALE LA POLITICA ECONOMICA DELLO SVILUPPO DISPENSE INTRODUTTIVE PREPARATE DAL PROF. GIOVANNI ANDREA CORNIA 1 VERSIONE ANNO ACCADEMICO 2005-2006 1 Desidero esprimere la mia riconoscenza a Ilaria Giampaglia ed altri studenti per aver segnalato imprecisioni di vario tipo nelle versioni precedenti di tale dispensa. Intendo poi ringraziare nel modo più caloroso il Dr. Leonardo Menchini per avermi fornito i suoi appunti di alcune delle lezioni da me tenute e, soprattutto, il Dr. Luca Tiberti per aver curato la stesura della prima versione di tale dispensa, l’inserimento di vari grafici annessi nella stessa e la formattazione finale del testo. Senza il suo prezioso aiuto, queste dispense sarebbero disponibili in forma assai meno presentabile. Per ultimo, vorrei esprimere la mia sincera gratitudine al Dr. Simone Bertoli per aver redatto una prima versione delle lezioni 22 e 23.

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Dispensa, politica economica

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE FACOLTÀ DI ECONOMIA

CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN

SVILUPPO ECONOMICO E COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

LA POLITICA ECONOMICA DELLO SVILUPPO

DISPENSE INTRODUTTIVE

PREPARATE DAL

PROF. GIOVANNI ANDREA CORNIA1

VERSIONE ANNO ACCADEMICO 2005-2006

1 Desidero esprimere la mia riconoscenza a Ilaria Giampaglia ed altri studenti per aver segnalato imprecisioni di vario tipo nelle versioni precedenti di tale dispensa. Intendo poi ringraziare nel modo più caloroso il Dr. Leonardo Menchini per avermi fornito i suoi appunti di alcune delle lezioni da me tenute e, soprattutto, il Dr. Luca Tiberti per aver curato la stesura della prima versione di tale dispensa, l’inserimento di vari grafici annessi nella stessa e la formattazione finale del testo. Senza il suo prezioso aiuto, queste dispense sarebbero disponibili in forma assai meno presentabile. Per ultimo, vorrei esprimere la mia sincera gratitudine al Dr. Simone Bertoli per aver redatto una prima versione delle lezioni 22 e 23.

Indice

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Indice degli argomenti trattati

Introduzione: Approccio alla politica economica nei PVS Parte 1. Modelli, attori ed obiettivi della politica economica nei PVS Lezioni 1-2-3 Economia politica e politica economica (richiami) Appendice I alle lezioni (1-2-3) Calcolo matriciale e sistemi di equazioni Lezione 4 Obiettivi della politica economica nei PS e PVS Lezione 5 Attori della politica economica nei PS e nei PVS Appendice II alla lezione 5 The International Monetary Fund

Parte 2. Principali strumenti della politica economica nei PVS 2.1 Riforme macroeconomiche Lezioni 6-7-8 Stabilizzazione macroeconomica Lezione 9 Politica fiscale, disavanzo e debito Lezione 10 Stabilizzazione eterodossa e populismo macroeconomico Appendice III alle Lezioni (6-7-8) e 10 Posizioni a confronto: Stiglitz vs Dornbush Lezione 11 Le politiche dei prezzi 2.2 Riforme strutturali interne Lezioni 12-13 Accesso alla terra e riforma agraria Appendice IV alle Lezioni (12-13) Approfondimento sulle modalità di riforma agraria Lezioni 14-15 Tassazione, spesa pubblica e ridistribuzione Lezioni 16 Mercato del lavoro e protezione sociale 2.3 Riforme strutturali esterne Lezioni 17 Il commercio estero Lezioni 18-19 Investimenti esteri e trasferimento di tecnologia Appendice V alle Lezioni (18-19) Intellectual Property Rights and Development Lezioni 20-21 Flussi di capitale di portafoglio e loro regolazione Lezioni 22-23 Migrazione internazionale e sua regolazione Parte 3. Regimi di politica economica nel periodo postbellico nei PVS Lezioni 24-25 Industrializzazione per sostituzione di importazioni Lezione 26 Strategie ridistributive Lezione 27 Il miracolo asiatico Lezioni 28-29 New Political Economy e Washington Consensus Appendice VI alle Lezioni (28-29) ‘More tools and Broader Instruments: towards a

Post Washington Consensus’. Lezione 30 Verso un Post-Washington Consensus Appendice VII alla Lezione 30 ‘Goodbye Washington Consensus, Hello

Washington Confusion’

Introduzione

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Introduzione: approccio alla politica economica nei PVS La politica economica studia le misure normative che il ‘policy maker’ – la collettività, il governo ed altre autorità nazionali come la Banca Centrale o internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) - introducono o consigliano di introdurre per raggiungere obiettivi di politica economica e sociale, dati i comportamenti positivi degli agenti economici nel campo del consumo, investimento, offerta di lavoro e così via. Studia anche perché, a causa delle diversità strutturali e mutevole composizione e peso dei gruppi di interesse in ogni economia, paesi con un grado di sviluppo simile che fronteggiano problemi analoghi spesso adottano politiche differenti. Queste dispense offrono una panoramica dei principali temi e misure di politica economica. La prima parte fornisce alcuni strumenti metodologici derivati dalla teoria delle scelte collettive. La seconda illustra invece le misure specifiche di politica economica adottate nelle principali aree di interesse. Le misure ivi analizzate sono più numerose di quelle esaminate nei manuali di politica economica per i paesi sviluppati (PS) ove mercato, stato ed istituzioni sono generalmente ben sviluppati e consolidati, e ove la politica economica si occupa soprattutto della gestione macroeconomica di breve e medio termine e poco di problemi strutturali. A causa della incompletezza o assenza dei mercati, della debolezza dell’amministrazione pubblica, della frammentarietà della legislazione economica (le cosiddette ‘istituzioni’), di una povertà diffusa, e di una forte disuguaglianza nella distribuzione di reddito e ricchezza, la politica economica nei paesi in via di sviluppo (PVS) deve occuparsi anche di temi strutturali, istituzionali e microeconomici, come nel caso della riforma agraria e della riforma della tassazione. Inoltre in tali paesi, i flussi internazionali di beni, capitali, tecnologia e persone influenzano l’andamento economico in modo maggiore che nei PS. Questo richiede una discussione ancor più dettagliata delle misure relative al settore esterno da introdurre nei PVS stessi o a livello internazionale per raggiungere determinati obiettivi. La terza parte delle dispense analizza invece i principali regimi di politica economica adottati nel secondo dopoguerra nei PVS non socialisti. Dal punto di vista analitico, bisogna subito rilevare che è difficile parlare di politiche ottimali in senso assoluto e che gli approcci e le misure ottimali di politica economica possono e devono variare da un PVS ad un altro. Tali paesi sono infatti assai diversi tra loro, non solo in termini di livello di sviluppo (basti pensare ad economie di sussistenza come il Sierra Leone ed il Burkina Faso da un lato e ad economie fortemente industrializzate come Corea del Sud e Taiwan dall’altro), ma anche in termini di dimensione (con giganti economici come Cina ed India che dispongono di un vasto mercato interno da un lato e oltre 40 paesi con meno di un milione d’abitanti dall’altro molto che sono necessariamente dipendenti dai mercati mondiali), struttura economica (molto o poco differenziata), sviluppo delle istituzioni economiche (relative a diritto di proprietà, applicazione dei contratti, leggi bancaria, creditizia e sulla concorrenza, e capacità amministrativa), completezza dei mercati dei beni e dei fattori di produzione, posizione geografica (lontana o vicina ai mercati internazionali), storia coloniale ed economica, cultura (che influenza per esempio la domanda di equità od il ruolo delle minoranze) e via di seguito. Questa dispensa suggerisce che - pur se fondamentali - le politiche ottimali, o di first best, preconizzate dai modelli teorici che stanno alla base dell’approccio standard (che si basa su ipotesi ben precise e, a volte, restrittive) non sempre ben si adattano alle diversità strutturali ed istituzionali osservate in vari PVS. Questo implica l’adozione di politiche economiche di second best adattate a condizioni e istituzioni locali, che potranno discostarsi in parte o in

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toto da quelle di first best. La dispensa cercherà dunque di stabilire – settore per settore – se le politiche di first best sono applicabili e, nel caso non lo fossero, qual è la politica di first, second best da adottare nel caso specifico, qual è cioè la migliore politica attuabile date le condizioni effettive di terreno. In pratica, mentre alcuni principi essenziali – come la certezza e protezione del diritto di proprietà (qualsiasi questo sia), una forte regolazione, il rispetto dei contratti, la concorrenza di mercato, incentivi materiali adeguati per tutti gli agenti, una politica monetaria, fiscale e debitoria sostenibile, una distribuzione del reddito socialmente sostenibile e via di seguito - sono universalmente validi, questi non portano automaticamente all’adozione di un unico pacchetto di misure di politica economica efficace in ogni circostanza. Questi principi generali devono essere perseguiti in maniera differenziata a seconda delle condizioni istituzionali e strutturali di ogni PVS. Secondo questo approccio, per lo meno in teoria, il policy maker può contare dunque su di un sostanziale margine di manovra (‘policy space’) nella scelta delle politiche ottimali. Ma le cose non sono così semplici, ed infatti gran parte del dibattito attuale si focalizza su come preservare questo margine di manovra in un mondo in cui gli accordi economici internazionali e la condizionalità di istituzioni economiche globali come il FMI o l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) tendono a stabilire politiche e regole uniformi per tutti i paesi. Dal punto di vista di questa dispensa, i casi di politica economica di successo sono quelli in cui si è saputo sfruttare questo ‘policy space’. Israele e Turchia ad esempio hanno adottato programmi di stabilizzazione macroeconomica eterodossi negli anni Ottanta e lo stesso ha fatto l’Uzbekistan in quelli Novanta. Pur se teoricamente inferiori a quelle di ‘first best’, queste politiche eterodosse hanno permesso di raggiungere risultati migliori di quelli ottenuti in paesi che hanno adottato politiche ispirate dal modello di stabilizzazione standard. Un altro esempio di successo è costituito dalla transizione al mercato seguita dalla Cina, che ha raggiunto obiettivi di politica economica rimarchevoli (come ad esempio una rapida crescita del reddito per capita ed una forte riduzione della povertà) pur liberalizzando gradualmente i prezzi, ridistribuendo la terra ai contadini senza però trasferir loro il diritto di alienarla, creando aziende in cui i proprietari non erano imprese private ma i comuni e le province, usando le banche pubbliche per promuovere l’accumulazione di capitale, controllando i movimenti di capitali esteri, gestendo il cambio e applicando forti dazi sulle importazioni. Altri esempi di paesi che hanno saputo sviluppare politiche più o meno diverse dal modello standard ed ispirate alle condizioni locali sono il Cile post-1991, la Malesia, Mauritius, l’India ed alcuni altri. L’ambizione di questa dispensa è quindi quella di fornire allo studente strumenti analitici che gli permettano di saper scegliere modelli e soluzioni di politica economica diversi a seconda del caso considerato. Al fine di porre la discussione delle politiche economiche in contesto, prima di passare alla discussione di politica economica vera e propria, i capitoli della seconda parte di questa dispensa discutono brevemente il contesto storico e le grandi tendenze del fenomeno analizzato. Richiamano poi la teoria dominante dei comportamenti positivi degli agenti economici e le teorie alternative che sono state proposte per spiegare tali comportamenti. Solo dopo questi due brevi richiami a concetti sviluppati in dettaglio nei corsi di Istituzioni di Economia e di Economia dello Sviluppo, i capitoli della parte due si concentrano sulle misure stesse di politica economica settore per settore. Per ultimo, lo studio della politica economica nei PVS richiede di affidarsi a modelli (di economia politica) sui comportamenti positivi degli agenti che si avvicinino sufficientemente

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alla realtà. Questo implica che alcune delle ipotesi che stanno alla base dei modelli neoclassici o keynesiani di comportamento degli agenti dovranno essere modificate od abbandonate. Ad esempio, molti di tali modelli si rifanno al concetto di ‘agente rappresentativo’, il cui comportamento rifletterebbe bene quello di un aggregato omogeneo di agenti simili, mentre nei PVS i problemi di eterogeneità degli agenti e dei loro comportamenti ed obiettivi sono pervasisi. In maniera analoga, non si possono assumere ‘mercati unificati’, in economie fortemente dualistiche, caratterizzate cioè da un settore formale influenzabile dalla politica economica ed uno informale che ne sfugge in gran parte. Né si possono assumere ‘informazione perfetta’ (e cioè una conoscenza completa di tutti gli elementi che permettono agli agenti di prendere decisioni di consumo, investimento, produzione, e via di seguito) o massimizzazione intertemporale di profitto, consumo o utilità, visto che le asimmetrie informative sono assai più marcate che nei PS e che i mercati del credito e dell’assicurazione (che permettono agli agenti di massimizzare su di un orizzonte temporale infinito) sono assenti o incompleti. Difficile anche è accettare ‘l’unicità degli equilibri di ottimo’, il fatto cioè che per ogni problema esista una sola soluzione ottimale, visto che in molti casi si hanno più soluzioni (o ‘equilibri multipli’) indifferentemente ottimali. Considerazioni analoghe possono essere fatte per quel che riguarda la ‘elasticità della offerta’ dei beni agricoli, la validità delle ‘aspettative razionali’, il concetto di ‘equilibrio economico’, e cioè ipotesi ed approcci che spesso mal si conciliano con la realtà di alcuni PVS. Molte di queste situazioni (eterogeneità, asimmetria informativa, equilibri multipli e via di seguito) sono a volte trattate anche nella letteratura sui PS. Ma queste circostanze sono assai più frequenti e marcate nei PVS, ed è dunque necessario porle al centro dell’analisi arricchendo la modellistica di economia politica e politica economica per tener conto di circostanze che portano spesso a conclusioni assai diverse da quelle a cui si arriva coi modelli standard per i PS. Queste note generali sull’approccio seguito risulteranno più chiare dopo aver letto l’intera dispensa, ed anzi lo studente è invitato a rileggere questa introduzione dopo essersi familiarizzato con il contenuto delle trenta lezioni qui di seguito. Buona lettura.

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Parte 1 Introduzione: modelli, attori ed obiettivi

della politica economica nei PVS

Lezioni 1-2-3

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Lezioni 1-2-3

Economia politica e politica economica (richiami generali)

1. Economia politica, politica economica e teoria della politica economica

Il primo passo consiste nel distinguere il campo d’indagine della politica economica da quello dell’economia politica e della teoria della politica economica.

1.1. L’economia politica studia le decisioni e comportamenti ‘positivi’ (cioè ciò che avviene, non ciò che si desidera o che il governo vuole si realizzi) di agenti economici privati come consumatori, famiglie, imprenditori, lavoratori e contadini, nel campo della produzione, consumo, investimento, offerta di lavoro e via di seguito. Tali comportamenti sono generalmente analizzati sulla base di ipotesi teoriche di vario tipo. Ad esempio, le varie teorie suggeriscono che la famiglia avrà un consumo aggregato complessivo che dipende dal reddito disponibile corrente, da quello passato, e dalla sua ricchezza (vedi oltre). A sua volta, la teoria neoclassica suggerisce che l’imprenditore sceglierà di produrre quella quantità di beni che massimizza il suo profitto, il consumatore sceglierà di acquistare quel paniere di beni che – dati i prezzi ed il suo consumo complessivo - massimizzerà la sua utilità, mentre l’operaio sceglierà di lavorare fino a quando l’utilità derivabile dal salario ricevuto è superiore alla disutilità del lavoro. Altre teorie offrono interpretazioni diverse dei comportamenti di consumo, investimento, offerta di lavoro, ecc. Quello che va notato comunque è che, indipendentemente dalla teoria prescelta, i modelli di comportamento di economia politica descrivono ciò che è, ciò che è osservato in natura. Dato dunque un fenomeno economico da studiare, l’approccio epistemologico seguito dal ricercatore comincia con la specificazione di un modello di comportamento teorico descritto da un’equazione o un sistema di equazioni. Un esempio di un semplice modello positivo mono-equazionale è fornito dalla teoria del consumatore. Se si adotta la teoria keynesiana del ‘reddito disponibile corrente’, si descriverà il comportamento di consumo privato individuale (e, per aggregazione, collettivo) con la seguente semplice equazione:

Ct = a + bYDt a>0, 0< b<1 (1)

dove Ct e YDt sono rispettivamente i consumi privati ed il reddito disponibile (e cioè il reddito lordo al netto delle imposte dirette) entrambi al tempo t. L’ipotesi di questo modello è che il consumo dipenda linearmente dal livello del reddito disponibile e dai parametri a e b. Il parametro a viene interpretato come il ‘consumo minimo corrispondente ad un reddito nullo (consumo che viene reso possibile da prestiti e vendita di attivi), mentre quello b è la nota propensione marginale al consumo (la quota che viene consumata al margine su ogni unità aggiuntiva di reddito). In questo caso – data la specificazione lineare del modello – b è costante. A sua volta, Ct/YDt= a/YDt + b rappresenta la propensione media al consumo che, come si può notare, decresce all’aumentare di YDt, suggerendo che a livelli di reddito elevato (e cioè con un YDt pù alto) si risparmia proporzionalmente più che a un livello di reddito basso. La stima dei parametri a e b viene effettuata attraverso l’analisi di regressione, utilizzando dati aggregati di contabilità nazionale o regionale su consumo e reddito disponibile per un dato periodo di tempo, ad esempio il periodo 1960-2005 (ed in questo caso avremo stime su serie storiche), oppure i dati sul consumo e reddito disponibile forniti dall’inchiesta sui bilanci delle

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famiglie2 per un dato anno, ad esempio il 2005 (stima sezionale), oppure usando ove accessibili i dati su consumo e reddito disponibile delle famiglie forniti da inchieste relative a più anni, ad esempio le inchieste per il 1996, 1997, 1998, 1999, 2000, 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005 (stima panel). Pur se tuttora ampiamente utilizzato, l’equazione (1) descrive la realtà in modo semplificato e presenta vari problemi (qui ignorati), e può essere migliorata rifacendosi ad esempio alla ‘teoria del ciclo vitale’ formulata da Franco Modigliani. Questa teoria sostiene che gli individui pianificano le loro decisioni con l’intento di stabilizzare il loro consumo sull’intero arco vitale, usando a tal fine non solo il loro reddito corrente da lavoro YDt ma anche una quota della loro ricchezza Wt (wealth): Ct = cYDt + dWt (2) Va notato che l’interpretazione dei parametri della (2) differisce da quella della (1). Ad esempio, nella (2), il parametro c (la propensione marginale al consumo a partire dal reddito YDt) tiene conto anche delle necessità di consumo degli anni che restano da vivere ed è dunque generalmente inferiore al parametro b della (1), visto che il consumatore dovrà risparmiare un po’ di reddito per gli anni della vecchiaia in cui potrebbe non avere una pensione. Una terza specificazione del comportamento positivo del consumatore si rifà all’ ‘teoria del reddito disponibile permanente’ dovuta a Milton Friedman. Tale teoria ipotizza che gli individui adeguino il consumo corrente al reddito permanente3 invece che a quello corrente, con l’obiettivo anche in questo caso di stabilizzare i flussi di consumo nel tempo. Dopo adeguate manipolazioni (qui omesse) il modello può essere scritto come segue:

Ct = fYDt + gYDt-1 (3) da cui appare che il consumo corrente Ct dipende dal reddito disponibile corrente YDt e da quello ritardato YDt-1 che riflette il comportamento di consumo di medio periodo, sottolineando in questo modo l’inerzialità di molti comportamenti economici. Anche in questa formulazione gli individui preferiscono consumi stabili nel tempo visto che un andamento fortemente ciclico del reddito potrebbe portare a riduzioni drastiche del consumo delle famiglie che rischierebbero di produrre effetti negativi permanenti sul benessere delle

2 Le stime econometriche dei parametri ‘a’ e ‘b’ ottenute con i tre diversi metodi illustrati sopra non sono sempre simili. In generale, dato il maggior numero di informazioni derivabili dalle inchieste, le stime sezionali tendono a fornire risultati più ‘robusti’ (il valore dei parametri stimati non cambia sensibilmente se si aggiungono od eliminano alcune osservazioni) che nel caso di stime effettuate su serie storiche. Allo stesso tempo, va notato che i parametri stimati con ognuno di questi tre metodi offre informazioni diverse. La stima su serie storiche misura il consumo minimo ‘a’ ed una propensione marginale al consumo ‘b’ di lungo periodo, mentre le stime sezionali catturano meglio consumo minimo e propensione marginale al consumo di breve periodo. A loro volta, le stime panel forniscono risultati che combinano questi due approcci, ed hanno dunque un valore più generale. Un’altra fonte di differenza fra parametri stimati coi tre metodi riguarda la definizione di reddito. Spesso infatti le serie storiche sul reddito disponibile ricavate dalla contabilità nazionale si riferiscono al PIL, che è una misura ‘lorda’ del reddito, visto che comprende anche gli ammortamenti (difficili da stimare, anche se sappiamo che sono molto più elevati nei PS che nei PVS). Questa definizione è meno precisa di quella derivabile dalle inchieste sui bilanci delle famiglie che è invece al netto degli ammortamenti. 3 In tale approccio, il reddito corrente viene scomposto in reddito permanente e reddito transitorio (che può fluttuare sostanzialmente da un periodo all’altro).

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famiglie - come nel caso di una marcata riduzione del consumo alimentare dei bambini in età critica (3-5 anni), del ritiro dei bambini da scuola, e così via. Altre teorie del consumo potrebbero essere discusse, ma non è questo il luogo per approfondire questo dibattito visto che si è voluto meramente illustrare alcuni esempi di modelli positivi di economia politica. Vale tuttavia la pena notare che la scelta di un ‘corretto’ modello positivo è ovviamente compito complesso visto che i comportamenti degli agenti privati spesso variano nello spazio e nel tempo e che la scelta di un approccio teorico (classico, neoclassico, strutturalista, monetarista, keynesiano o istituzionalista) piuttosto che di un altro porta alla specificazione di modelli economici assai diversi. 1.2. La politica economica potrebbe essere definita come la teoria delle scelte collettive, che riguardano cioè un intero paese. Dati i comportamenti positivi degli agenti privati, la politica economica studia infatti le “scelte normative” della collettività, effettuate direttamente dalla collettività stessa o, più frequentemente ed indirettamente, attraverso autorità pubbliche delegate, e cioé il policy-maker. Queste scelte riguardano: (i) gli obiettivi socialmente desiderabili della politica economica, quello che in altre parole si desidera realizzare in maniera prioritaria. Si studiano in altre parole i meccanismi di formazione e ordinamento (ranking) delle preferenze sociali; (ii) gli strumenti adoperati dal policy-maker per raggiungere gli obiettivi economici e sociali prestabiliti (nel campo della crescita, inflazione, occupazione, povertà, salute, sviluppo umano e così via). Dunque, partendo dai comportamenti positivi degli agenti economici privati (modellizzati dall’economia politica), la politica economica definisce modelli normativi che legano tra loro strumenti (controllati dal policy-maker) e obiettivi della politica economica (fissati dalla collettività o ‘interpretati’ per suo conto dal policy-maker). Un semplice esempio illustra il concetto appena espresso. Riprendendo la funzione Keynesiana di consumo aggregato illustrata sopra, Ct = a + bYt, e data l’identità contabile degli impieghi del reddito nazionale in economia chiusa Yt = Ct + It (dove assumiamo che gli investimenti It siano uno strumento di politica economica pienamente controllato dal policy-maker), sostituendo la prima relazione nella seconda otteniamo il modello normativo: Yt = a/(1-b) + It/(1-b) (4) Da ciò discende che, se il governo desidera raggiungere l’obiettivo di un PIL pari a Yt* usando la leva degli investimenti pubblici, dovrà realizzare un livello di investimenti pari a It*, livello che si calcola numericamente risolvendo cioè la (4) in It, ottenendo cioè: It* = Yt*(1-b) – a (5) In estrema sintesi, si può dire che – dati i comportamenti positivi degli agenti privati (espressi qui sopra dalla relazione Ct = a + bYt ) - i modelli normativi di politica economica vengono risolti identificando il valore che un dato strumento (I*) deve prendere affinché si possa raggiungere un determinato obiettivo (Y*). 1.3. Infine, la teoria della politica economica studia i comportamenti degli attori pubblici o policy-makers e cioè i governi, presidenti, parlamenti, banche centrali e così via, nella formulazione degli obiettivi e nella scelta degli strumenti di politica economica. Mira altresì a teorizzare le ragioni per le quali vari tipi di policy-makers scelgono dati obiettivi e fanno più

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frequentemente ricorso a dati strumenti e decisioni di politica economica piuttosto che ad altri. Uno degli sviluppi recenti in questo campo riguarda il cosiddetto “ciclo elettorale della spesa pubblica” da cui emerge che quest’ultima non è influenzata tanto dal ciclo economico (si potrebbe pensare ad esempio ad una politica fiscale anticiclica) bensì dal ciclo elettorale. Molti governi infatti espandono la spesa pubblica o riducono le tasse all’approssimarsi delle elezioni, al fine di raccogliere consensi tra gli elettori, incuranti dell’effetto che queste misure possono avere sull’economia. In questo caso, si parla spesso di ‘legge finanziaria elettorale’. E’ questa un’importante area di studio che rivela che la razionalità delle decisioni del policy-maker non é sempre immediatamente evidente e che le decisioni collettive sono influenzate da alcune classi sociali in modo sproporzionato. Ad esempio, è difficile comprendere per quali ragioni non si effettuano investimenti pubblici che, sulla carta, appaiono come fortemente attraenti sia dal punto di vista economico che sociale. Un economista della Banca Mondiale, George Psacharopoulos, ha mostrato ad esempio che i tassi di ritorno sugli investimenti pubblici in istruzione elementare nei PVS sono molto elevati (attorno al 15-25%), e argomentato che una delle ragioni del successo economico delle cosiddette ‘Tigri Asiatiche’ sta proprio nei massicci investimenti effettuati dallo stato in tale campo. Per quale motivo, dunque, paesi come Bolivia e India hanno invece investito una quota relativamente molto modesta del loro reddito nazionale nell’istruzione elementare? In questo caso la teoria della politica economica cerca una spiegazione di tale contraddizione introducendo una distinzione tra chi sopporta il costo dell’intervento pubblico e chi gode dei benefici dello stesso. Una spiegazione della contraddizione di cui sopra potrebbe essere fornita dal fatto che il costo della tassazione necessaria per mandare a scuola i bambini dei poveri deve essere sostenuto dai ricchi (che non traggono benefici da un miglioramento dell’istruzione pubblica, visto che i propri figli frequentano scuole private). I ricchi si opporranno dunque alla tassazione esercitando pressioni sul policy-maker. Secondo, la teoria della politica economica studia anche quali tipi di policy-makers (governi centrali o locali, governi rappresentativi o autoritari, sistemi politici presidenziali o parlamentari) sono più efficaci nel definire e raggiungere certi obiettivi di politica economica. Il professor Amartya Sen, ad esempio, sostiene ad esempio che la democrazia è molto più efficiente nel prevenire le carestie. Terzo, la teoria della politica economica studia anche i tipici gruppi o classi sociali che esercitano un’influenza sulle scelte di politica economica. Alcuni scienziati politici descrivono ad esempio la democrazia come un ‘sistema di comitati’, in cui piccoli gruppi coesi con obiettivi ben chiari riescono ad imporre la propria agenda di politica economica al policy-makers e alla collettività nel suo complesso. L’importanza delle lobbies nella politica economica di Stati Uniti, Russia, Argentina, Giappone ed altri paesi è ben noto e conferma l’importanza di tali analisi. 2. Modelli economici: struttura e caratteristiche (richiami) 2.1. I modelli economici. Un modello economico è un sistema di equazioni, in cui appaiono variabili obiettivo e variabili strumentali, che descrive in modo stilizzato e semplificato il funzionamento di un’economia in termini aggregati. I modelli economici possono essere usati a fini previsivi (o simulativi) di economia politica, cercando cioè di proiettare nel futuro gli aggregati economici assegnando valori ipotetici alle varabili esogene e risolvendo per le variabili endogene. Possono anche essere usati a fini di politica economica, per misurare cioè il

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valore che le variabili strumentali controllate dal policy maker devono prendere per raggiungere obiettivi di crescita, occupazione, inflazione, povertà, e via di seguito. Un esempio di modello economico è quello a sette equazioni simultanee, tratto da D’Antonio, Graziani e Vinci (1979), in cui l’economia viene rappresentata in forma strutturale (nella forma cioè in cui una variabile è espressa solo in termini delle sue determinanti immediate, senza tener conto delle influenze indirette su di essa causate da mutamenti in altre variabili economiche) nel modo seguente: C = c(Y - T) 0< c < 1 (1) relazione di comportamento I = aY – bi + kP a , b, k > 0 (2) relazione di comportamento Y = C + I + G (3) relazione definitoria Y = π N π > 0 (4) relazione tecnica Ld = l1Y – l2 i l1 > 0, l2 > 0 (5) relazione di comportamento

D/P = Ld (6) relazione di equilibrio P = W/ π (1+ q) q > 0 (7) relazione di comportamento

In tale modello, la relazione (1) indica che il consumo privato C, espresso in termini reali, dipende in maniera lineare dal reddito nazionale lordo Y (e cioè dal PIL) e dall’ammontare delle tasse dirette T, anch’esse espresse in termini reali. A sua volta la (2) indica che gli investimenti privati dipendono positivamente dalla domanda di mercato complessiva (approssimata da Y), negativamente dal tasso di interesse “i”, visto che un aumento del tasso di interesse rende più costoso il denaro preso a prestito dalle imprese, e positivamente dal tasso di inflazione P (entro un suo intorno limitato). La relazione (3) è una identità contabile che ci indica che, in economia chiusa, il PIL (Y) viene impiegato in consumi privati, investimenti e spesa pubblica G, tutti espressi in termini reali. La relazione tecnica (4) è una funzione di produzione in cui il PIL dipende dal numero degli occupati N moltiplicato per la produttività del lavoro (π), vale a dire la quantità (nota nel breve periodo) di prodotto creata da ogni singolo occupato. La relazione di comportamento (5) suggerisce che la domanda reale totale di moneta (Ld) dipende positivamente dal reddito complessivo approssimato da Y (per la domanda a fini transattivi) e negativamente dal tasso di interesse (per la domanda di moneta a fini speculativi). La relazione (6) è la condizione di equilibrio tra offerta reale di moneta (e cioè la offerta nominale D, diviso il livello dei prezzi P) e la domanda reale di moneta Ld. Per ultimo, la relazione di comportamento (7) indica che il livello dei prezzi P (e cioè l’inflazione) è cost-push aumenta cioè al crescere del salario monetario W e diminuisce al crescere della produttività per addetto π. a, b, c, k, l1, l2, q, π sono parametri, suscettibili di interpretazione economica. c è la propensione al consumo, b rappresenta la reattività degli investimenti rispetto ai mutamenti nel tasso di interesse, k indica lo stimolo che prezzi in crescita generano sulle prospettive di profitto, π misura la produttività del lavoro, q è un termine di inflazione inerziale, l1 e l2 rappresentano la reattività della domanda di moneta rispetto alle variazioni del reddito nazionale e del tasso d’interesse. Questi parametri sono stati stimati con regressioni effettuate su serie storiche (presumibilmente per il periodo 1950-1976). Le stime dei parametri effettuate su serie storiche, ricordiamolo, indicano i comportamenti positivi medi di lungo periodo.

2.2. Tipi di relazioni. Le relazioni che troviamo nei modelli economici possono essere distinte in: - relazioni di comportamento che descrivono la condotta di un agente economico (nel nostro modello la (1) e (2), (5) e (7));

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- relazioni tecniche che descrivono i legami tecnici tra variabili, ad esempio come la (4) o le funzioni di produzione Y = cKαL(1-α); - relazioni istituzionali che esprimono legami di natura istituzionale derivanti dalla normativa; come il reserve ratio delle banche H/D < α che sono decisi dalla Banca Centrale (dove H e D rappresentano gli impieghi ed i depositi delle banche ed α il coefficiente prudenziale massimo consentito; - relazioni definitorie, identità contabili cioè che definiscono una variabile come la somma o il prodotto di altre variabili, ad esempio la (3); - relazioni di equilibrio che rappresentano la condizione che stabilisce come si raggiunge l’equilibrio nel mercato dei beni, della moneta, dei titoli, del lavoro e così via. Ad esempio la (6) definisce la condizione di equilibrio sul mercato della moneta.

2.3. Tipi di variabili/parametri, forma strutturale e forma ridotta. Le variabili e i parametri di un modello economico possono essere ulteriormente distinte tra: - variabili endogene, (C, I, Y, Ld, P), i cui valori sono cioè determinate dal funzionamento dell’economia (rappresentata dal modello economico). A loro volta, queste variabili si dividono in variabili endogene obiettivo (visto che costituiscono spesso un obiettivo della politica economica, come l’inflazione P o i consumi privati C) e variabili endogene irrilevanti (nel senso che non vengono trattate come obiettivo di politica economica); - variabili esogene, variabili che sono note, o perché vengono fissate dal policy maker per raggiungere dati obiettivi (variabili strumento) come nel caso di G, T, N, i, W e D, e variabili date (come i prezzi internazionali o altre variabili non generate dalla nostra economia); - parametri, che rappresentano i comportamenti positivi, tecnici o istituzionali dell’economia (a,b,c, k, l1,l2, q, π). Un modello pluri-equazionale, come quello scritto sopra, in cui le singole relazioni che descrivono simultaneamente il funzionamento dell’economia vengono analizzate e stimate una per una, e ove le variabili endogene ed esogene possono apparire sia a destra che a sinistra del segno di uguale, viene detto in forma strutturale. Per arrivare alla forma ridotta del modello, le equazioni strutturali vengono riordinate (attraverso opportune sostituzioni e spostamenti da un lato all’altro dell’uguale) in modo tale che le variabili endogene y appaiano solo a sinistra, mentre le variabili esogene x appaiono solo a destra dell’uguale. Tale sistema può dunque essere scritto come

A y = B x (8)

dove [y] e [x] rappresentano i vettori delle variabili endogene ed esogene e [A] e [B] le matrici dei coefficienti delle variabili endogene ed esogene.

Nel caso del modello dell’economia italiana di cui sopra, la soluzione richiede prima di

tutto di ridurre il numero delle equazioni (sette) al numero delle (cinque) variabili endogene (Y,

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C, I, Ld e P). Questo obiettivo è raggiunto sostituendo la (4) nella (3) e la (7) nella (6). Questo ci permette di passare da un sistema a sette equazioni ad uno di cinque equazioni, cinque variabili endogene e sei variabili esogene (T, i, G, N, D e W). Assumo poi, per convenienza, che la variabile esogena W sia fissata (non può essere usata dal policy-maker come strumento), il modello avrà cinque variabili esogene e W viene trattato come un parametro. Dopo queste manipolazioni il modello prende la forma seguente:

C = c(Y - T) (1’) I = aY – bi + kP (2’) π N = C + I + G (3’) Ld = l1Y – l2 i (5’)

D[π (1+ q)] /W = Ld (6’) Riordino poi la forma strutturale del modello al fine di arrivare al modello in forma

ridotta. A tal fine, sposto a sinistra dell’uguale tutte le variabili endogene e a destra tutte le endogene ottenendo le due seguenti matrici delle variabili endogene A (a sinistra) ed esogene B (a destra), e scrivendo sopra (invece che a destra delle due matrici) i due vettori [y] e [x] delle variabili per facilitare la comprensione di come si arriva alla forma ridotta:

[Y C I Ld P] [ T i G N D] -c 1 0 0 0 = -c 0 0 0 0 (1’’) -a 0 1 0 -k = 0 -b 0 0 0 (2’’) 0 -1 -1 0 0 = 0 0 0 -π 0 (3’’) -l1 0 0 1 0 = 0 - l2 0 0 0 (5’’) 0 0 0 -1 0 = 0 0 0 0 [π (1+ q)] /W (6’’)

Questa è la maniera in cui arrivo all’espressione generale Ay = Bx per il modello dell’economia italiana presentato nelle pagine precedenti.

Se voglio utilizzo il modello per simulare l’andamento futuro dell’economia, risolvo

per il vettore delle variabili endogene [y] moltiplicando entrambi i lati del sistema per la matrice inversa A-1,, ricordando poi che il prodotto di una matrice per la sua inversa è uguale alla matrice unità I (vedi Appendice 1). Ottengo in questo modo la matrice C = A-1B del vettore delle variabili esogene giungendo così alla forma ridotta del modello. In simboli:

A y = B x A-1A y = A-1B x y = A-1 Bx y = C x (9)

Le soluzioni a questo sistema di equazioni esistono solo se esiste la matrice A-1 (e per questo è necessario che 0≠A , cioè che il discriminante della matrice A sia non zero, in modo da ottenere che A-1A = I). Inoltre, per poter calcolare la matrice dei coefficienti C, è necessario che il numero delle colonne della matrice A-1 sia uguale al numero delle righe della matrice B (la risultante matrice C avrà il numero delle righe pari al numero delle righe di A-1 e il numero delle colonne pari al numero delle colonne di B). Nel nostro caso questo non è un problema, visto che entrambe le matrici sono 5x5. Per un approfondimento sulle proprietà delle matrici vedi l’Appendice I alla fine di questo paragrafo.

Se scriviamo in forma estesa i coefficienti della matrice C ed i vettori delle variabili

endogene [y] ed esogene [x] nel caso del modello di Graziani cui si è fatto riferimento sopra si avrà:

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=

DNGiT

ccccccccccccccccccccccccc

PLICY

5554535251

4544434241

3534333231

2524232221

1514131211

d

Nella forma ridotta (che tiene conto di tutte le relazioni ed influenze indirette sulle

variabili endogene) i parametri che premoltiplicano le variabili esogene assumono valore zero nel caso non vi sia relazione tra la variabile esogena e la variabile endogena in questione, valori positivi (se cii < 1 l’impatto positivo è meno che proporzionale, se cii > 1 l’impatto positivo è più che proporzionale; se cii = 1 l’impatto positivo è equiproporzionale) nel caso in cui una variazione della variabile esogena generi un aumento di quella endogena, e valori negativi nel caso di relazione inversa tra la variazione delle due variabili.

Box (1-2-3).1 Alcune caratteristiche matematiche dei modelli economici Modelli mono-equazionali o multi-equazionali I modelli mono-equazionali descrivono un solo aspetto di un sistema economico (ad esempio la funzione di investimento o di allocazione delle risorse, o della formazione dei prezzi, e via di seguito). Servono dunque per quella che è generalmente chiamata ‘analisi di equilibrio parziale ‘ in cui una sola parte della economia è oggetto di indagine. I modelli multi-equazionali rappresentano invece una stilizzazione dell’economia nel suo complesso o di una sua parte e – dunque – tendono a tener conto degli effetti indiretti sulle variabili dipendenti usate. Modelli lineari e modelli non lineari I sistemi di equazioni lineari (in cui le variabili sono legate tra loro dagli ‘operatori’ somma o sottrazione’) sono rappresentabili tramite l’algebra delle matrici che ne permette la soluzione. Invece, i modelli non lineari (quelli in cui le variabili sono legate tra loro da ‘operatori’ prodotto, divisione, elevazione a potenza, ecc. non sono immediatamente risolvibili con l’algebra matriciale e comunque mal si prestano come strumento d’analisi per la politica economica (discusso nel paragrafo successivo). Ad esempio un modello potrebbe prendere la forma Yt = a + Xt

b. Per questo motivo, questi modelli devono essere linearizzati (attorno alla media o altro punto significativo della variabile non lineare) attraverso, ad esempio, l’espansione in serie di Taylor. Modelli statici e modelli dinamici Un modello statico (monoequazionale) prende la forma Yt = a + b Xt in cui la variabile endogena corrente dipende solo da una (o più) variabili esogene correnti. In tale modello, quello che avviene al tempo t dipende solo da fattori correnti (fatto spesso non molto plausibile). Ciò significa anche – in modo poco plausibile – che i risultati economici dipendono esclusivamente dalle decisioni correnti del policy-maker e non da quelle passate. Un modello dinamico invece prende la forma Yt = a + b Yt-1 + c Xt +d Xt-1 dove intervengono sia variabili esogene correnti e ritardate che variabili endogene e/o esogene ritardate. Quest’ultima formulazione è più realistica. Infatti, i fenomeni economici sono spesso fortemente inerziali (basti pensare alle tendenze di prezzi, deficit di bilancio, povertà, ecc.) e ‘path-dependent’ (letteralmente ‘dipendenti dal sentiero di sviluppo’, per indicare che il

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cammino passato in passato influenza cioè fortemente il presente), anche se decisioni e fattori correnti contribuiscono a modificare gradualmente la direzione del ‘path’. Se correttamente specificati, i modelli dinamici meglio si prestano a prevedere o simulare i valori delle variabili endogene nel futuro (un fatto che li rende particolarmente appetibili ai policy-makers che si pongono obiettivi pluriennali). Modelli stabili e modelli esplosivi Per ben prevedere il futuro, i modelli dinamici devono però devono essere ‘stabili’. Se, ad esempio, nel semplice modello illustrato sopra b>1, per un n grande, allora Yt+n ∞, generando così un risultato non credibile. In questo caso il modello viene chiamato ‘esplosivo’. La poca verosimiglianza dei risultati di un modello esplosivo possono essere dovuti al fatto che la equazione di cui sopra è sta mal specificata (per l’omissione, per esempio, di importanti variabili esplicative di Yit), o che il parametro b è stato mal stimato perché i dati statistici di cui disponiamo sono soggetti ad un forte errore di misurazione ed approssimano male il fenomeno in questione, o perché le serie storiche di cui disponiamo sono troppo brevi, o perché la tecnica econometria utilizzata per la stima di b non è appropriata. In tutti questi casi il parametro b è affetto da errore sistematico (biased) e non può essere legittimamente utilizzato per prevedere il valore di Yt+n. 2.4. Il grado di realismo dei modelli economici da usare per la formulazione della politica economica. Per concludere, è bene sottolineare la necessità di elaborare modelli economici che si adattano alla realtà dei paesi in via di sviluppo. Il modello positivo deve infatti riflettere il contesto al quale è applicato e lo stesso vale per la specificazione degli obiettivi e strumenti di politica economica (che variano assai tra PS e PVS). Nei PVS ad esempio bisognerà (i) usare specificazioni causali delle relazioni economiche (consumo, investimento, formazione dei prezzi, riproduzione, ecc.) possibilmente diverse da quelle usate nei PS in modo da tener conto di ‘differenze istituzionali’ come la segmentazione dei mercati, l’esistenza di un forte dualismo economico (che influenza distribuzione del reddito e formazione dei salari), il forte divario tra settore rurale e settore urbano, la rigidità d’offerta, ecc. che influenzano i risultati economici di certe azioni e decisioni, (ii) usare (più raramente) specificazioni di modelli di comportamento degli agenti economici diversi da quelli osservati nei PS (la razionalità degli agenti economici è la stessa a tutte le latitudini?), (iii) usare ‘regole di chiusura dei modelli’ (la determinazione della variabile residua e quindi dipendente a questa piuttosto che a quella variabile) diverse da quelli generalmente adottati nei paesi sviluppati.

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3. Il modello di politica economica 3.1. Componenti di base del modello di politica economica ad obiettivi fissi. Abbiamo detto all’inizio (vedi sezione 1.2) che la politica economica serve a determinare - dato un modello (positivo) di comportamento di economia politica di riferimento, e dati gli obiettivi fissi (non modificabili una volta stabiliti) di politica economica fissati dalla collettività o dal policy-maker (di cui si discuterà nelle lezioni successive) – i valori che gli strumenti di politica economica devono assumere per raggiungere gli obiettivi stabiliti. In forma diagrammata, il problema di politica economica può essere descritto nella maniera seguente: Riepilogando, il modello di politica economica si basa su un modello economico (spesso chiamato ‘modello di riferimento’) in cui - le variabili endogene y vengono distinte in variabili obiettivo (per le quali il policy-maker cerca di raggiungere certi valori) e variabili irrilevanti (non in senso assoluto, ma nel senso che non vengono trattate come obiettivo dal policy-maker). Il vettore delle variabili endogene [y] = (y1,y2, …yn) è in questo caso composto da due sottovettori [yo] e [yi] - le variabili esogene x, a loro volta, vengono distinte in variabili strumento (s), usate dal policy-maker e variabili date (d), come ad esempio i prezzi internazionali. Il vettore [x] = (x1,x2, …xm) può dunque essere suddiviso in due sottovettori [xs = x1,x2, …xs] e [xd = xs+1 ,..xm ];

- i parametri: rappresentano i comportamenti positivi, tecnici o istituzionali dell’economia.

Il modello economico espresso in termini di algebra lineare si presenta come segue: A y = B xs + Cxd oppure A y – B xs - Cxd = 0 y = A-1 Bxs + A-1 Cxd (10) dove abbiamo un sistema di ‘n’ equazioni, con ‘n’ incognite (y1,y2, …yn) ed ‘m’ variabili esplicative (x1,x2, …xm). A questo punto il modello di politica economica può essere risolto ‘all’inverso’ nei valori di xs. A tal fine il policy-maker fissa i livelli delle variabili endogene obiettivo che la collettività desidera raggiungere (y*) e risolve per i valori degli strumenti. A y* – B xs – C xd = 0 xs = B-1 A y* - B-1C xd (11)

Modello economico: Comportamenti positivi degli agenti

Obiettivi di politica economica

Valore degli strumenti di pol ec

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Nella realtà il policy-maker distingue le variabili endogene obiettivo da quelle irrilevanti (per le quali non vi sono preferenze esplicite) e scompone il vettore [y] = [yo, yi], fissando un obiettivo soltanto per le prime.

Il policy-maker manipola il sistema (attraverso una serie di sostituzioni – vedi sopra) in modo che le variabili endogene irrilevanti [yi] non compaiano più come variabili dipendenti a sinistra dell’uguale, ma appaiano a destra dell’uguale nelle equazioni che spiegano le yo.

Avremo dunque un sistema scritto come segue:

A’yo* = B’ xs + C’ xd + D yi (12) dove A’, B’ C’ ≠ A, B, C

xs * = B’-1 A’ yo* - B’-1C’ xd - B’-1D yi0 (13)

da cui vediamo che nel modello appaiono tutti i tipi di variabili discusse yo, yi, xd , xs Dato che yi non sono note, bisognerà assegnare loro ‘valori previsti’ pari a yi

0. 3.2. Condizioni di risolvibilità dei modelli ad obiettivi fissi (cenni). Un ulteriore aspetto del modello di politica economica riguarda le condizioni di risolvibilità e le restrizioni fra le componenti del modello stesso.

(i) La principale condizione (teorema di Tinbergen) di soluzione del problema descritto sopra è che il numero delle variabili strumentali xs sia almeno uguale al numero delle variabili obiettivo yo. Se il numero di variabili obiettivo è minore al numero delle variabili strumentali il sistema è sovradeterminato (ammette cioè un numero infinito di soluzioni). Un semplice esempio illustra questo concetto generale. Supponiamo, ad esempio di aver un sistema di tre equazioni in forma strutturale del tipo

Y = C + IP +IG (14a) C = a + bY (14b) IP = c – d i (14c)

dove la prima relazione stabilisce in economia chiusa l’equilibrio tra PIL (Y), consumi privati (C), investimenti privati (IP) ed investimenti pubblici (IG); la seconda è la funzione di consumo keynesiana e la terza indica che gli investimenti privati dipendono da una costante e negativamente dal tasso di interesse i. Sostituendo la (14b) e la (14c) nella (14a) ottengo la relazione seguente

Y = ( )( )b1

ca−+ + ( )b1

IG−

- ( )b1di−

(14)

in cui ho una sola variabile endogena (Y) e due variabili strumentali (IG e i). Supponiamo ora che il policy-maker voglia raggiungere il livello obiettivo di output Y*. Visto che ho un solo obiettivo e due strumenti, il problema può essere risolto da un numero infinito di coppie di valori di IG* e i*. In questi casi il policy-maker può scegliere di fissare il valore di uno strumento più comodo politicamente (ad esempio i) e risolvere per l’altro strumento.

Se il numero di variabili obiettivo è maggiore al numero delle variabili strumento il sistema è sottodeterminato e la soluzione del problema richiede che un certo numero di obiettivi sia abbandonato o che il numero degli strumenti venga aumentato – caso questo frequente nei PVS dove il numero degli obiettivi è, in principio, maggiore che nei PS mentre il numero degli

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strumenti è uguale o inferiore che nei PS. In questo caso alcuni obiettivi della politica economica devono essere lasciati cadere. (ii) Le variabili obiettivo devono essere linearmente indipendenti tra loro, altrimenti il modello perde un obiettivo visto che questo risulta essere funzione di un altro, da cui può essere sostituito. Tale condizione non è sempre verificata. (iii) Anche le variabili strumentali devono essere linearmente indipendenti tra loro, se questo non avviene, come nel caso di tasso di interesse e massa monetaria, per raggiungere gli obiettivi è necessario aggiungere altri strumenti al modello. 3.3. Struttura parametrica del modello ad obiettivi fissi e analisi dei coefficienti. Nella discussione precedente si è visto che non tutte le variabili del sistema, sia quelle endogene che quelle esogene, interagiscono con tutte le altre (vedi la matrice a pagina 14). Nella realtà concreta, infatti, molti variabili parte di sotto-modelli (economico, monetario, demografico, sociale) presentano una maggiore integrazione al loro interno che con variabili parte di altri sottomodelli. Da questo punto di vista, i modelli possono essere distinti in interdipendenti, interdipendenti con strumenti dominanti, recursivi o recursivi a blocchi. Per analizzare la struttura dei legami tra variabili riscriviamo il modello base Ay =Bx nella forma Ay – Bx = 0 x = B-1A y x = H y (dove H = B-1A ≠ C = A-1B) (15) che nel caso di A = 4x4 e B= 4 x 4, può essere espressa in forma algebrica nel seguente modo:

x1* = h11 y1* + h12 y2* + h13 y3* + h14 y4* (16) x2* = h21 y1* + h22 y2* + h23 y3* + h24 y4* x3* = h31 y1* + h32 y2* + h33 y3* + h34 y4* x4* = h41 y1* + h42 y2* + h43 y3* + h44 y4*

in cui la variazione in uno degli obiettivi fissati (ad esempio y1*) modifica il valore di tutti gli strumenti visto che tutti i parametri h sono non nulli. Il nostro interesse a questo punto si sposta sui parametri h e sulla loro distribuzione e valori nella matrice C (o di quella H). Va detto innanzitutto che se un coefficiente è nullo (assume valore uguale a zero) non vi è alcuna relazione tra le variabili che questo lega, ed i due fenomeni sono indipendenti l’uno dall’altro. La distribuzione dei parametri non nulli, di cui si riportano qui di seguito alcuni casi possibili, ci fornisce informazioni interessanti su quali strumenti sono suscettibili di influenzare gli obiettivi e sulle possibili interazioni tra strumenti e obiettivi.

X1 x2 x3 x4 x1 x2 x3 x4 x1 x2 x3 x4 X1 x2 x3 x4Eq.1 y1: * * * * * * * Eq.2 y2 * * * * * * * * Eq.3 y3 * * * * * * * * Eq.4 y4 * * * * * * *

fortemente

interdipendente

interdipendente con strumento dominante

recursivo a blocchi

recursivo (o indipendente)

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Nell’ultimo a destra dei casi sopra riportati abbiamo equazioni totalmente indipendenti tra loro, con x1 che influenza soltanto y1, x2 che influenza soltanto y2 e così via. In questo caso contano dunque solo gli effetti diretti tra strumento e obiettivo. Quasi lo stesso vale per i modelli recursivi a blocchi (dove ad esempio, le variabili monetarie y1 e y2 dipendono solo da strumenti monetari x1 e x2, e quelle reali da strumenti reali). La presenza di recursività semplifica il compito della politica economica rispetto al caso di un modello integrato in cui “tutto dipende da tutto” (il primo caso a sinistra nello schema sopra). Tuttavia l’interazione complessa, in cui basta muovere uno strumento qualsiasi (x) perché il valore necessario di ogni obiettivo (y) venga influenzato è quella che osservato più frequentemente nella realtà, (anche se l’influenza quantitativa dei singoli strumenti sugli obiettivi - e viceversa - varia generalmente molto, vedi il paragrafo successivo). Questa situazione ovviamente rende più complessa la politica economica, forzando il policy-maker a cercare di individuare il singolo strumento che influenza maggiormente un dato obiettivo e, nel caso di cui sopra, di quanto bisogna modificare tale strumento per raggiungere l’obiettivo dato. Per ultimo abbiamo il secondo caso, in cui appare chiaramente che gli strumenti x2, x3 e x4 influenzano solamente il loro obiettivo specifico, mentre lo strumento x1 influenza tutti gli obiettivi, ed ha quindi carattere dominante. La distribuzione dei coefficienti nella matrice di cui sopra fornisce dunque un primo importante elemento di decisione al policy-maker. Un’ultima osservazione va fatta sul peso degli strumenti nel raggiungere gli obiettivi prefissati. Il valore dei coefficienti della matrice C = A-1B del modello y = C x (o il valore della matrice H = B-1A del modello x = H y) ci indica l’entità dell’impatto dello strumento sulla variabile e una volta tenuto conto dei problemi di scala (di unità di misura cioè) di ogni variabile (alcune sono espresse in migliaia, altre in unità) ci consente di confrontare l’influenza dei diversi strumenti sugli obiettivi: Come notato sopra, se l’impatto di uno strumento è dominante, il policy-maker può decidere di trascurare gli strumenti con minor impatto. Ma questo richiede conoscere non solo ‘quali’ sono gli strumenti importanti ma anche ‘di quanto’ uno strumento influenza un dato obiettivo. Più precisamente, in un modello con diversi strumenti (x1, x2 x3 e x4) la misura dell’impatto di ogni strumento è data dalla derivata parziale di quel determinato strumento sul quel determinato obiettivo. Ad es. ∂y1/∂x1, ∂y1/∂x2, ∂y1/∂x3 e ∂y1/∂x4 ci dicono di quanto variano l’obiettivo y1 in relazione ad una variazione infinitesimale dei vari strumenti. Per confrontare l’efficacia dei vari strumenti possiamo utilizzare il concetto di elasticità, che definisce la variazione percentuale della variabile obiettivo a fronte di una variazione pari all’1 per cento della variabile strumentale. L’elasticità è data dal rapporto fra la derivata parziale e il

rapporto fra i livelli delle due variabili, ovvero: 1 111

1 1

y xε =

x y∂∂

, dove il primo pedice si riferisce

alla variabile obiettivo e il secondo allo strumento. Il valore più elevato fra le elasticità, ad es. ε13, è quello che denota la più forte associazione fra obiettivo e strumento – e quindi si può assumere che lo strumento x3 ha carattere dominante nel raggiungimento dell’obiettivo y1. 3.4. Modelli ad obiettivi flessibili Il problema considerato in precedenza prevedeva che il policy-maker avesse n obiettivi linearmente indipendenti tra di loro che perseguiva attraverso un pari numero di strumenti, anch’essi linearmente indipendenti tra loro. Consideriamo ora il caso in cui il policy-maker voglia raggiungere n obiettivi di politica economica, disponendo solo di k strumenti di politica economica (k<n). Consideriamo al riguardo un caso assai semplice in cui il governo cinese dispone solo dello strumento IP* (investimenti pubblici) mentre intende promuovere gli obiettivi di una rapida crescita del prodotto sia nella regione costiera avanzata (Yc - in ordinata) che in quella assai

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arretrata dell’interno (Yi - in ascissa). Distribuendo gli investimenti pubblici totali IP* in diverse proporzioni alternative tra costa ed interno, si ottiene la curva DE (vedi figura (1-2-3).1 che rappresenta l’insieme di tutte le combinazioni realizzabili di tassi di crescita della costa e dell’interno). Ogni punto della curva misura in ogni punto il Saggio Marginale di Trasformazione (SMT) tra un obiettivo e l’altro (di quanto cioè è necessario ridurre la crescita dei redditi nell’interno per aumentarla di un’unità sulla costa, dati gli investimenti pubblici complessivi IP*). Data la concavità della curva tecnologica DE, il SMT tra Yi e Yc

(SMT = ∆Yi /∆Yc) non è costante. E’ minore di 1 tra i punti D e C, uguale a 1 in C (in cui il un tasso di crescita è equivalente per le due regioni), ed é maggiore di 1 tra C ed E. Nell’area alla sinistra di C (che comprende lo scenario A) si ha una maggiore crescita nella regione interna rispetto (e a scapito) di quella costiera; esattamente opposto è il risultato che si ottiene nell’area alla destra di C. Infine, D e E rappresentano i due punti estremi in cui la crescita avviene solo in una delle due regioni.

Grafico (1-2-3).1. Curva tecnologica DE delle combinazioni dei tassi di crescita Yi e Yc ottenibili con IP* e curve di isobenessere HK

H Curve di isobenessere K H’ K’ Quale combinazione di Yi e Yc scegliere per massimizzare il benessere sociale? I possibili approcci praticabili sono i seguenti: (i) Una prima soluzione consiste nel raccogliere le preferenze della collettività tramite appositi questionari, assai complessi, rivolti ad un campione rappresentativo della popolazione dell’intero paese, al fine di costruire una “mappa delle preferenze della collettività” costituita da ‘curve di isobenessere’ (cioè curve di indifferenza convesse, in cui tutti i punti riflettono un uguale grado di soddisfazione della collettività) corrispondenti a diverse combinazioni di soddisfacimento dell’obiettivo y1 e y2 (restando, per convenienza espositiva, nel caso di due obiettivi). Quindi data la curva tecnologica DE e le curve di isobenessere collettivo H-H’ e K-K’, la soluzione ottimale è data dal punto di tangenza in A tra la curva di isobenessere più esterna e la curva tecnica DE. Questo ci mostra che la collettività esprime una maggiore preferenza per una crescita più rapida nell’interno che sulla costa. In tale punto, che corrisponde al livello massimo di benessere compatibile con le possibilità tecniche di crescita rese possibili dallo strumento IP*, si realizza la nota eguaglianza (già studiata nel corso di Istituzioni di Economia) tra saggio marginale di trasformazione (STM) e saggio marginale di sostituzione (SMS). Tale metodo non è però di facile applicazione ed è relativamente costoso. (ii) Una seconda soluzione consiste nel fare adottare alle autorità di governo delle priorità tra gli obiettivi di politica economica (metodo delle priorità), di perseguire cioè prioritariamente

Yi

A

B

Yc

C

D

E

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alcuni obiettivi, lasciandone cadere n-k. In questo modo si ricade nel caso degli obiettivi fissi (ma solo per k obiettivi), mentre gli altri obiettivi vengono solo in parte soddisfatti nei limiti in cui ciò risulta possibile. Nel caso concreto a due obiettivi qui considerato, ad esempio, il governo cinese potrebbe stabilire che è prioritario raggiungere una forte crescita alla zona costiera del paese al fine di mantenere la sua competitività internazionale. Questo comporta dunque soddisfare pienamente tale obiettivo (spostando gran parte degli investimenti pubblici verso la costa) e perseguire poi l’obiettivo della crescita nell’interno nella misura resa possibile dagli investimenti pubblici IP* residui. Graficamente, questo significa fissare un tasso di crescita obiettivo Yc* e determinare poi quale crescita risulta fattibile per l’interno, individuando il tasso Yi‘ compatibile con Yc*. Questo metodo è di semplice applicazione, ma è arbitrario visto che non esplicita una ‘regola complessiva’ di misurazione del benessere da parte del policy-maker che ignora il contributo di Yi al benessere collettivo.

Grafico (1-2-3). 2. Curva tecnologica DE delle combinazioni dei tassi di crescita Yi e Yc ottenibili con IP* e scelta prioritaria del governo

*

cY

(iii) Una terza soluzione – che risolve in parte i problemi d’arbitrarietà e non trasparenza della decisone identificato in (ii) - consiste nel far esplicitare formalmente al governo una funzione obiettivo che sintetizza più obiettivi specifici (crescita, povertà o inflazione, aggregabili in qualche modo) a cui egli assegna un determinato peso che riflette la sua preferenza. Ad esempio, nel caso della Cina di cui sopra, tale funzione obiettivo potrebbe essere la funzione somma

Z = wi Yi + wc Yc, con argomento il tassi di crescita della costa de dell’interno pesati per wi e wc che esprimono esplicitamente le preferenze sociali del policy-maker. Ad esempio se wi = 1 mentre wc=2 il policy maker indica chiaramente che la crescita costiera è doppiamente importante di quella dell’interno e – in democrazia, ed in misura minore ma non nulla anche in regimi più autoritari – ci si espone al giudizio degli elettori o dei cittadini per aver espresso tale preferenza. Da notare che i pesi wi e wc spesso rifletteranno non solo giudizi soggettivi ma anche l’importanza della relativa popolazione o il peso strategico e potenziale industriale delle due regioni e – ove il policy maker privilegia la riduzione della povertà – l’incidenza della stessa nelle due regioni. Ma il punto di fondo è che, in questo approccio, le scelte sono esplicite e quindi valutabili politicamente. Dalla funzione Z di cui sopra posso derivare la retta di isovalore Yi = Z/wi - wc/wi Yc che mi mostra che il tasso di crescita di Yi è una funzione negativa del tasso di crescita Yc e del coefficiente wc/wi, che altro non è che del rapporto tra i pesi. La soluzione del problema di

Yi

Yc

D

E

*iY

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politica economica consiste dunque nel costruire un fascio di rette parallele di isovalore Z’, Z’’, Z’’’, …Zn che si ottengono attribuendo a Z il valore 1, 2, 3 , …n e di trovare poi il punto di tangenza fra una di queste rette con la curva tecnologica DE che, ricordiamolo, esprime la combinazioni dei tassi di crescita fattibili con diverse allocazioni degli investimenti pubblici IP*. Naturalmente se i pesi non sono identici, le rette di isovalore saranno inclinate in modo assai diverso. Ad esempio, se wc/wi = 3 (il che significa che il policy-maker attribuisce un valore tre volte maggiore alla crescita costiera che a quella dell’interno) le rette di isovalore saranno molto ripide e quindi – data la DE - il punto di tangenza con la DE verrà raggiunta abbastanza a destra ed in basso della DE. Da un punto di vista formale dunque il problema può essere rappresentato come un problema di massimizzazione, in cui il policy maker cerca la retta di isovalore più elevata data la curva DE. In simboli:

max Z = max (wi Yi + wc Yc) (17) (data DE)

Grafico (1-2-3). 3. Curva tecnologica DE delle combinazioni dei tassi di crescita Yi e Yc ottenibili con IP* e soluzione con il metodo dell’isovalore

*

iY *

cY (iv) Una quarta soluzione, abbastanza simile alla precedente, consiste nel costruire una unica funzione obiettivo di benessere sociale in cui si sintetizzano tutti gli obiettivi da minimizzare o massimizzare. In questo approccio, si costruisce una ‘funzione di perdita’ L (da loss in inglese) che misura di quanto gli obiettivi realizzati (yi) si discostano da quelli considerato ottimale (yi*) visto che – con un numero limitato di strumenti a disposizione (ad esempio gli investimenti pubblici o la spesa pubblica) – il policy maker non riesce a raggiungere tutti gli obiettivi. Gli scostamenti tra il valore ottimale desiderato e quello realizazato riflettono una sorta di perdita di utilità per ogni obiettivo e vengono calcolati in forma quadratica, per evitare che che gli scostamenti positivi di una variabile vengano esattamente compensati dagli scostamenti per difetto di un’altra variabile. Tali scostamenti possono essere pesati con dei pesi (wi) che indicano l’importanza relativa che il policy maker attribuisce a ciascun scostamento dall’obiettivo ottimo. Tale ‘funzione di perdita’ prende dunque la forma L = w1(y1 – y1*)2 + w2(y2 – y2*)2 + .. + wi(yi – yi*)2.. + wn(yn – yn*)2 = Σi wi(yi – yi*)2 Data tale funzione di perdita L, e date le relazioni che legano le variabili obiettivo yi tra loro e che sono rappresentate dalle relazioni y = Cx (vedi la (9)), il compito del policy-maker è quello

Yi

Yc

D

E

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di minimizzare tale funzione dati i vincoli esistenti (e cioè la disponibilità di solo k<n strumenti x). In simboli,

min L = Σi wi(yi – yi*)2 (dati x1. x2,..xk) che ci dice qual è il valore ottimale (tra tutte quelle possibili) degli strumenti x1, x2, … xk per minimizzare la scostamento degli obiettivi realizzabili da quelli ottimali. Un semplice esempio concreto aiuterà a capire la discussione generale di cui sopra. Supponiamo che il governo voglia simultaneamente ridurre il tasso di povertà rurale al livello desiderato PHRr* (poverty headcount ratio) del 10%, e che allo stesso tempo voglia evitare che l’inflazione (P) ecceda il livello desiderato P* pari al 5%. Supponiamo poi non possa effettuare una riforma agraria per ridurre la povertà rurale e che l’unico modo di raggiungere tale obiettivo è di dare ai poveri sussidi finanziati con la spesa pubblica SP (espressa in percentuale del GDP) e che la relazione tra povertà e spesa pubblica sia, per semplicità, PHR = 20 – 0.5 SP. Supponiamo poi che l’inflazione dipenda dalla spesa pubblica SP, e che la relazione tra queste due variabili possa essere scritta come P = 2 + 0.25 SP che ci indica che un aumento di quattro punti della spesa pubblica per sussidi SP provoca un aumento di un punto dell’inflazione P. Calcoliamo ora il valore della la spesa pubblica SP necessaria a raggiungere l’obiettivo PHRr* = 10%. Data la relazione di cui sopra risulta che tale valore è pari a 20. Ma – data la relazione appena illustrata - una SP pari a 10 genera un tasso di inflazione del 7%, più alto cioè dell’obiettivo fissato del 5%. Lo stesso vale, se calcolo il valore di SP (= 12) che mi permette di soddisfare l’obiettivo di una inflazione P* =5% ma che implicherebbe un PHR pari al 14%, più alto cioè di quello prestabilito. Per risolvere il valore ottimale dlla spesa pubblica SP che minimizzare la funzione di perdita L nell’ipotesi che entrambi gli obiettivi (inflazione e povertà) siano egualmente importanti (il che implica che w1= w2 =1) specifico prima la funzione L in questo caso specifico che prenderà la forma:

L = (20 – 0.5SP – 10)2 + (2 + 0.25 SP – 5)2 = (10 - 0.5 SP)2 + (-3 + 0.25 SP)2

Il minimo di tale funzione lo si ottiene ponendo pari a 0 la sua derivata prima, e verificando poi che in tale punto la derivata seconda è positiva, vale a dire:

SPL

∂∂ = SP

SP] 1.5 - SP 0.0625 9 SP 10 - SP 0.25 [100 22

∂+++∂ = 0

0.5 SP – 10 + 0.125 SP – 1.5 = 0 0.625 SP = 11.5 SP = 18.4 e cioè un valore intermedio tra l’ottimo per PHR (SP=20) e quello ottimo per P (SP=14). Con tale valore l’obiettivo (flessibile) raggiunto per la povertà sarà PHR = 20 – 0.5 (18.4) = 10.8 > 10 e quello per P sarà P = 2 + 0.25 (18.4) = 6.6 > 5. Entrambi obiettivi non sono cioè raggiunti pienamente. Supponiamo ora invece che il policy-maker attribuisca più peso alla riduzione della povertà (w1 = 2) che all’inflazione (w2=1). In questo caso, la funzione di perdita da minimizzare sarà pari a

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23

L = 2 (20 – 0.5SP – 10)2 + (2 + 0.25 SP – 5)2 = (20 - SP)2 + (-3 + 0.25 SP)2 ove derivando e ponendo pari a zero si ottiene

SP

L∂

∂ = SP SP] 1.5 - SP 0.0625 9 SP 40 - SP [400 22

∂+++∂ = 0

2SP - 40 + 0.125 SP -1.5 = 0 2.125 SP = 41.5 19.5 e cioè un valore che si avvicina di più alla soluzione di quella del caso precedente alla soluzione ottimale (SP = 20) che permetterebbe di raggiungere l’obiettivo di ridurre la povertà al 10%. Con tale valore, l’obiettivo (flessibile) raggiunto per PHR sarà PHR = 20 – 0.5 (19.5) = 10.25 > 10 e quello per P sarà P = 2 + 0.25 (19.5)=6.875 >5. Insomma, l’imposizione di pesi più favorevoli alla povertà, mi permette di avvicinarmi all’obiettivo desiderato per la povertà ma meno mi allontana da quella dell’inflazione. Supponendo invece che il policy-maker attribuisca meno peso alla riduzione della povertà (w1 = 1) che all’inflazione (w2=2), usando la stessa procedura si troverà che SP = 17.3 il che implica un tasso di povertà PHR di 11.35 ed un tasso di inflazione del 6.325. I pesi attribuiti dal policy-maker spostano dunque il valore dello strumento e degli obiettivi. La tabella qui di seguito sintetizza i valori realizzati degli obiettivi a secondo dei pesi attribuiti a PHR e P. Tabella (1-2-3).1. Valori dello strumento SP e obiettivi realizzati a seconda dei differenti

pesi assegnati ai pesi w1 e w2 relativi agli obiettivi povertà e inflazione pesi assegnati dal policy-maker

Valore SP

Obiettivo realizzato Per PHR

Obiettivo desideratoper PHR

Obiettivo realizzato per P

Obiettivo desideratoper P

w1 = 1, w2 = 0 20.0 10.0 10.0 7.0 5.0 w1 = 2, w2 = 1 19.5 10.25 10.0 6.875 5.0 w1 = w2 = 1 18.4 10.8 10.0 6.6 5.0 w1 = 1, w2 = 2 17.3 11.35 10.0 6.325 5.0 w1 = 0, w2 = 1 14.0 12.0 10.0 5.0 5.0

4. Approcci alla scelta degli obiettivi della politica economica Approfondiamo ora gli approcci discussi finora per la formulazione e fissazione degli obiettivi di politica economica, i metodi per la valutazione ed aggregazione di tali obiettivi e la scelta dei relativi strumenti di politica economica da usare per raggiungerli, e per l’ordinamento in termini di benessere sociale di situazioni alternative (spesso indicate come ‘stati del mondo’) nel campo della distribuzione del reddito, della spesa pubblica, degli investimenti pubblici e via discorrendo. Per tale approfondimento, possiamo individuare quattro approcci che dominano la letteratura in questo campo: il metodo della consultazione diretta e la relativa teoria delle votazioni; l’approccio della vecchia politica economica (o economia del benessere, welfare economics, in inglese) nata verso il 1920; l’approccio della ‘nuova teoria del benessere’ nata nel periodo post-bellico; e l’approccio delle ‘public choices’ che respinge l’ipotesi di un policy-maker disinteressato e benigno e che sostiene invece che costui è solo interessato a perseguire i propri interessi propri e non quelli della comunità.

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4.1 Consultazione diretta e teoria delle votazioni. In un contesto politico democratico una prima soluzione al problema della scelta degli obiettivi e strumenti della politica economica consiste nel ricorso a consultazioni dirette dei cittadini che vengono chiamati ad esprimere le loro preferenze tramite elezioni, referendums, inchieste varie ed altri tipi di meccanismi di raccolta delle opinioni dei singoli. L’economista norvegese Ragnar Frish, in particolare, dedicò molto del suo tempo allo studio dei meccanismi di consultazione diretta nella formulazione degli obiettivi di politica economica.

Questo approccio è abbastanza seguito in realtà omogenee, egalitarie e coese come quelle di alcuni paesi scandinavi dove la percezione dell’interesse collettivo è molto pronunciata e dove le valutazioni circa la natura degli interventi da effettuare sono abbastanza convergenti. In Svizzera ad esempio i cittadini sono chiamati a pronunciarsi molto spesso per referendums su temi di interesse collettivo (anche se la percentuale di chi vota è spesso molto bassa e tale strumento è spesso percepito come farraginoso). Un caso ancor più spinto di questo approccio é rappresentato dall’approccio del ‘bilancio partecipativo’ nello stato del Rio Grande do Sul in Brasile ed in alcune altre località, secondo cui le priorità della spesa pubblica locale vengono identificate dai cittadini che ne sono i beneficiari diretti. Specie in quest’ultimo caso, la partecipazione diretta dei cittadini alle scelte collettive impedisce che gruppi sociali influenti riescano a distorcere le scelte collettive a loro favore con campagne di lobbying, disinformazione, corruzione e via di seguito.

Condizione del successo di questo approccio, che può generare un forte supporto all’azione collettiva, è la semplicità e maneggevolezza del meccanismo consultativo che, in ogni caso, incontra difficoltà crescenti al crescere numerico della collettività di riferimento, della sua dispersione geografica e della sua segmentazione socio-economica ed etno-linguistica. Una seconda condizione è che i quesiti relativi alle scelte sociali vengano poste con chiarezza – al fine di catturare chiaramente le preferenze della collettività, fatto questo che richiede il ricorso a domande di controllo (tipiche dei questionari complessi) necessarie per assicurarsi che le persone diano risposte coerenti tra loro. Una terza condizione riguarda il costo e fattibilità tecnica della consultazione. I recenti rapidi sviluppi delle tecnologie informatiche e della comunicazione hanno abbattuto i costi informativi in modo notevole e facilitato il ricorso a tale metodo. Si è persino pensato (specie nei paesi industrializzati) a forme continue di consultazione diretta con i cittadini che, dalla propria abitazione, potrebbero essere chiamati ad esprimere per telefono, sms, e-mail, ecc., le proprie preferenze e quindi concorrere direttamente alla determinazione degli obiettivi sociali. L’uso frequente di sondaggi di opinione nella politica odierna rappresenta una forma larvata di tale approccio. Quarto, come suggerisce la teoria dell’azione collettiva (vedi i lavori di Mancur Olson) questo approccio ha maggiori possibilità di riuscita in società omogenee, con persone che vivono in circostanze abbastanza simili e quindi desiderose di miglioramenti simili, una distribuzione di reddito, ricchezza ed influenza politica tendenzialmente egalitaria e, quindi, preferenze individuali non troppo diverse. Questo permette di scegliere tra uno spettro relativamente limitato di opzioni e favorisce quindi la convergenza verso un insieme ridotto di preferenze comuni. Questo approccio è assai difficile da applicare in società altamente stratificate da un punto di vista economico, razziale, religioso ed etnolinguistico, come osservato in gran parte dell’America Latina, Africa ed Asia del Sud.

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Quinto, l’ambito territoriale (locale, regionale, statale, globale) entro il quale vengono effettuate queste consultazioni ne condiziona l’efficacia. Il livello territoriale ottimale dipende ovviamente dal tipo di decisione che deve essere presa, ma è chiaro che tanto più grande è la distanza tra il luogo in cui la decisone viene presa e il luogo in cui il programma approvato viene applicata, tanto maggiore è la ‘perdita informativa’ (circa le preferenze effettive dei cittadini locali) e la ‘perdita di controllo’ sulle decisioni del policy-maker e tanto minori saranno gli incentivi a identificare gli interventi ottimali con solerzia e ad applicarli efficacemente. In generale, il principio guida è che il livello ottimale al quale prendere decisioni (tramite consultazioni ma anche indirettamente) è quello in cui gli interventi collettivi vengono effettuati. L’ambito comunale, ad esempio, è ottimale per le decisioni circa – ad esempio - relative al trasporto urbano, le scuole, e la localizzazione dei pozzi d’acqua. L’ambito nazionale è invece quello più adatto per decisioni relative al tasso di interesse e di cambio. Un dibattito relativo alle ‘consultazioni dirette’ riguarda il ruolo che il mercato potrebbe giocare nell’identificazione delle preferenze collettive e, più in generale, come meccanismo di consultazione. Molti argomentano, infatti, che il mercato e – soprattutto - il sistema dei prezzi forniscono indicazioni sintetiche molto importanti sulle preferenze dei consumatori e degli imprenditori, e che un meccanismo così chiaro, oggettivo e trasparente potrebbe servire ad indirizzare non solo le scelte di consumo e produzione dei singoli, ma anche le scelte collettive di politica economica – che dovrebbe, ad esempio, facilitare con un aumento della spesa pubblica in infrastruttura lo sviluppo dei settori a maggior domanda e con prezzi in crescita. Non vi è dubbio che il sistema dei prezzi possa fornire informazioni utili. Ma, anche a prima vista, si intuisce come – specie in società fortemente disuguali - il ricorso puro e semplice al mercato per determinare le preferenze sociali darebbe spazio, ancora più di quanto avviene tramite altri meccanismi, alle preferenze di coloro che detengono più reddito e ricchezza a scapito di quelle dei più poveri che magari hanno preferenze diverse ma che non riescono ad esprimerle sul mercato per mancanza di potere d’acquisto. Secondo, bisogna sottolineare che questo approccio ipotizza che i segnali ‘prezzi’ e ‘quantità’ siano indicatori non distorti delle preferenze dei consumatori ed imprenditori e delle scarsità relative dei beni. Molto spesso – e soprattutto nei PVS – prezzi elevati riflettono posizioni di monopolio o di rendita e quindi il loro significato informativo è limitato. Inoltre il mercato è un meccanismo che opera in un ambito importante ma limitato in quanto dice assai poco sulle preferenze collettive nel campo dei ‘beni pubblici’ intesi in senso lato, quei beni cioè che sono in gran parte forniti dallo stato e per i quali quindi non esiste un prezzo di mercato. Per ultimo è necessario fare un breve cenno alla teoria delle votazioni. Se supponiamo che la scelta collettiva si basi sui risultati di una consultazione nella quale ciascun cittadino esprime la sua preferenza (ad esempio, se si vuole adottare l’obiettivo A o meno, o se A è preferibile a B), dobbiamo allora stabilire i criteri per tali scelte. Una prima regola è quella della unanimità che prevede che una scelta sarà attuata solo se tutti sono d’accordo su di essa. Tale regola evidentemente protegge la libertà di ogni singolo cittadino, visto che anche un solo cittadino è in grado di bloccare una scelta. Se la società si trova già in una situazione allocativa Pareto-efficiente (in cui nessun scambio è possibile senza una perdita di benessere per almeno una persona) allora nessuna nuova politica sarà accettata perché affinché qualcuno migliori il suo benessere, qualcun altro deve veder peggiorare il proprio, e quindi bloccherà la politica. Questo implica una condanna alla immobilità. Nel caso in cui non siamo in una situazione Pareto-efficiente, un qualche miglioramento è possibile. Supponiamo che questo miglioramento richieda l’adozione di due politiche economiche diverse la A e la B, ciascuna delle quali migliora il benessere complessivo ma con una sua distribuzione dei benefici diversa

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tra i cittadini. Se introduciamo prima la misura A (che beneficia in particolare alcune persone), non è detto che la B venga poi adottata perché questo potrebbe comportare un peggioramento per coloro che hanno beneficiato della misura A, che quindi si opporranno alla B. Quindi il risultato finale cui si giunge (in termini di distribuzione dei benefici) dipende dall’ordine in cui le politiche vengono votate e cioè dal loro sequencing, fatto che tenderà a scatenare manipolazioni per alterarne l’ordine di votazione. Una seconda regola per aggregare le decisioni dei singoli è quella della maggioranza. Questa regola condanna meno all’immobilismo ma è meno rispettosa delle opinioni della minoranza. Questa regola richiede che si stabilisca il quorum (che non può essere inferiore al 50% dei voti espressi, altrimenti è teoricamente votare simultaneamente una politica ed il suo opposto. Tale quorum può essere semplice (ad esempio 51%) o qualificato (ad esempio 66%) per decisioni di maggior rilevanza. Si può dimostrare che tale regola gode di un notevole numero di proprietà che la rendono particolarmente attraente. 4.2. “Vecchia economia del benessere” Funzioni di Benessere Sociale4 e la critica di Sen. Come abbiamo visto sopra, molto spesso la formazione degli obiettivi sociali è delegata al policy-maker. Questo dovrà effettuare delle scelte che riflettano in modo più o meno accurato le preferenze della società che, in democrazia, lo premierà o punirà rinnovandogli il mandato attraverso libere elezioni. In contesti non democratici, i canali di consultazione, contrattazione e manifestazione e raccolta del consenso politico sono meno manifesti, ma esistono lo stesso. Oltre che ai metodi descritti sopra il policy-maker (esecutivo, legislativo, Banca Centrale) può ispirarsi ad alcuni principi generali elaborati dalla “vecchia economia del benessere” che trova le sue origini nei lavori del filosofo ed economista Jeremy Bentham e dell’economista Pigou che nel suo libro Welfare Economics del 1920 offrì una prima trattazione complessiva di tale teoria. I principi del welfare economics orientano in modo astratto ma importante le scelte sociali del policy-maker e la scelta degli obiettivi della politica economica. Tali scelte vengono generalmente effettuate facendo ricorso a principi, teoremi e funzioni di benessere collettivo che permettono di comparare differenti ordinamenti sociali (o ‘stati del mondo’) come, ad esempio, allocazioni alternative del reddito nazionale tra gli individui che derivano da interventi alternativi del governo. In tale approccio il benessere collettivo è una funzione di sintesi che combina (tramite un operatore somma, somma ponderata, prodotto, prodotto ponderato, iperbole, ecc.) in un tutt’uno il benessere di tutti i membri della collettività. Ad esempio, date le funzioni di utilità individuale Ui = U(yi) (i = 1, …n) che sono una funzione positiva del reddito individuale yi, la FBS prende la forma

FBS = W [U1(y1), U2(y2), ….., Un(yn)] (18) Tali funzioni di utilità possono godere (a seconda delle ipotesi normative fatte dal policy maker) delle seguenti importanti proprietà: - cardinalità; è questa una proprietà che permette di misurare precisa l’utilità di y1 e y2 a partire da una origine 0 (ad esempio 5,7 e 6,.9), mentre l’ordinalità mi permette solo di stabilire se un’utilità è maggiore o minore di un’altra (in questo caso y1<y2). La cardinalità permette di aggregare le utilità dei diversi cittadini in una utilità collettiva mentre l’ordinalità mi permette soltanto di ordinarle (stabilire cioè una graduatoria y1<y4<y2) ma non di aggregarle; 4 Esiste anche una ‘nuova teoria del benessere’, che prende le mosse dal “Teorema dell’Impossibilità” formulato da Kenneth Arrow nel 1951, la cui trattazione è però al di fuori dell’obiettivo di queste dispense.

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- aggregabilità (o nel caso assai frequente della somma, additività), che permette di aggregare le utilità di varie persone secondo un qualche tipo di operatore (somma, moltiplicazione, elevazione a potenza, ecc.). Alcuni sostengono però che le utilità di ogni individuo sono ‘soggettive’ (riflettendo gusti, preferenze e percezioni personali), che non sono comparabili con quelle di altri individui, e che non possono dunque essere aggregate tra loro, come non si possono aggregare pere e mele; - similarità (o simmetria); questa proprietà indica che tutti cittadini hanno funzioni di utilità simili, sottintendendo in questa maniera che essi traggono lo stesso grado di soddisfazione da diversi livelli di reddito. Questo significa che le funzioni di utilità sono identiche; - concavità (o linearità, o convessità). Nel primo caso, l’utilità delle persone cresce meno che proporzionalmente al crescere del reddito, mentre nel secondo cresce proporzionalmente, e nel terzo più che proporzionalmente. L’ipotesi più verosimile è la prima, e cioè che l’utilità o piacere che deriviamo dal consumare dosi successive di reddito, siano decrescenti. Ma non possiamo neppure escludere (nel caso di un ‘gaudente’ o di un edonista) che le utilità siano crescenti al crescere del reddito. Se le utilità sono concave, l’utilità complessiva sarà maggiore in caso di una distribuzione del reddito più egalitaria, che il policy-maker cercherà di raggiungere con la tassazione ed i sussidi. Nel caso di funzioni di utilità convesse, la più elevata utilità sociale si ottiene concentrando tutto il reddito nelle mani di un cittadino A seconda delle ipotesi fatte circa il numero di queste proprietà di cui godono le funzioni di utilità personali, della loro forma funzionale, e del tipo di operatore di aggregazione possiamo distinguere alcune funzioni di benessere sociale tipiche: - La funzione di utilità (o benessere sociale) Benthamiana. Tale funzione di benessere sociale (FBS) prende la forma generale seguente (da cui è evidente che le condizioni di cardinalità e addività sono valide):

FBS = U1 (y1) + U2 (y2) + ..... + Un (yn) = ( )∑=

n

1iii yU (19)

Se assumiamo poi che tale funzione goda anche delle proprietà di simmetria e concavità, le conclusioni che se ne possono trarre sono importanti, visto che tra i vari ‘stati del mondo’ (le diverse distribuzioni del reddito) quello che massimizza la FBS è quella egalitaria. Va notato, tuttavia, che se sostituiamo l’ipotesi di concavità di U(yi) con quello di convessità delle funzioni di utilità individuali, lo stato del mondo che massimizza il benessere sociale consiste nell’assegnare tutto il reddito alla persona più ricca. Nel caso di linearità delle U(yi) non si ha nessuna indicazione per redistribuire a favore dei poveri o dei ricchi. Tuttavia, questi risultati non valgono se il policy-maker considera che non tutti cittadini sono egualmente importanti e che quindi le loro utilità devono essere ponderate con pesi wi che tengano conto della loro importanza (o della loro privazione) relativa. Se il policy maker introduce dei pesi normativi wi, la FBS prenderà dunque la forma

FBS = Σ U(yi) wi = U1 (y1) w1 + U2 (y2) w2 + ... + Un (yn) wn (19’)

Lo stato del mondo che massimizza la FBS dipenderà dunque dalla struttura dei pesi.

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- La funzione di utilità di Atkinson. In tale funzione, le U(yi) sono concave (e cioè il reddito ha una utilità marginale decrescente) e l’utilità di ogni unità addizionale di reddito decresce ad un tasso (ε) uguale per tutti gli individui che viene chiamato ‘avversione alla disuguaglianza’ [vedi grafico (1-2-3).4], perché tanto più elevato è tale parametro, tanto più concava è la FBS:

FBS = ( )∑=

N

1iiyU = ( )∑

=

ε−

ε

N

1i

1i

-1y (20)

Grafico (1-2-3).4. FBS con avversione alla disuguaglianza di Atkinson Utilità totale (sinistra) ed utilità marginale (destra), con diversa avversione alla disuguaglianza

0

0.2

0.4

0.6

0.8

1

1.2

1 6 11 16 21 26

ε = 0

ε = 0.5

ε = 0.875

L’utilità dunque cresce meno che proporzionalmente rispetto al reddito, e tale fenomeno è tanto più marcato quanto più è elevata l’avversione alla disuguaglianza (ε) come mostrato nella tabella qui sotto che fornisce i valori della funzione per 4 valori di ε:5

Valore di ε 0 0.5 0.75 0.875

( )∑=

N

1iiyU ( )∑

=

N

1iiy 2 ( )∑

=

N

1iiy 4 ( )∑

=

N

1i

4iy 8 ( )∑

=

N

1i

8iy

Va notato che i vantaggi sociali della redistribuzione misurati da questa FBS crescono all’aumento della disuguaglianza, e che in questa formulazione (in cui, ripetiamolo, si assumono cardinalità, simmetria, additività, e concavità delle Ui) il massimo della FBS è ottenuto quando tutti gli individui hanno un reddito yi uguale al reddito medio y*.

5 Va notato che per ogni valore di ε la funzione di utilità di Atkinson diverge all’infinito. Inoltre, per ogni

possibile coppia ε1 e ε 2, con ε1 < ε 2, esiste sempre un y finito tale per cui 1

1

1y 1

ε−

ε−

= 2

1

1y 2

ε−

ε−

(vedi figura); con

semplici passaggi algebrici, si osserva che y = ( )21

1

2

11

ε−εε−ε−

. Per valori di reddito inferiori ad y, la funzione di

utilità caratterizzata da una maggiore avversione alla disuguaglianza segnala un livello di utilità maggiore, mentre avviene l’opposto per valori superiori. Questo implica che, per valori di reddito tendenti all’infinito, l’utilità maggiore è segnalata dalla funzione che presenta ε=0, ovvero nessuna avversione verso la disuguaglianza.

0

2

4

6

8

10

12

14

16

1 6 11 16 21 26

ε = 0

ε = 0.5

ε = 0.875

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In tale contesto, il grado di uguaglianza di una società può essere misurato con l’indice normalizzato di Dalton [D = ΣUyi)/n U(y*)] che divide l’utilità totale derivata dalla distribuzione del reddito realmente osservata (e quindi caratterizzata da un certo grado di disuguaglianza) con l’utilità massima ottenibile verificata nel caso in cui tutti cittadini hanno un reddito y*. - Funzione di utilità di Bernuolli-Nash. Un’altra FBS, che arriva alla conclusione che una distribuzione più egalitaria fa aumentare il benessere della società, è quella di Bernoulli Nash. Tale FBS prende la forma:

FBS = Π U(yi)ai (21) dove gli ai sono pesi scelti dal policy maker. Va notato che in questo caso le utilità dei singoli cittadinini U(yi) vengono aggregate tramite l’operatore prodotto. Questa caratteristica fa sì che i confronti circa i possibili stati del mondo tendano a suggerire – nel caso di pesi tutti pari a 1 - che il miglior stato del mondo è quello perfettamente egalitario, e questo vale anche nel caso di funzioni di utilità lineari (mentre per la funzione Benthamiana questo valeva solo nell’ipotesi di concavità delle funzioni di utilità). Consideriamo, ad esempio, un caso dove abbiamo tre individui A, B, C con un reddito complessivo pari a 9. Assumiamo poi che la funzione di utilità sia lineare e che ogni dose di reddito abbia una utilità pari al doppio del reddito stesso. Consideriamo poi due distribuzioni del reddito. Nella prima A ha un reddito di 4, B di 3 e C di 2. Nella seconda tutti e tre hanno un reddito pari a 3. La tabella mostra che il benessere collettivo misurato dalla FBS Nash-Bernoulli è maggiore nel caso della distribuzione più egalitaria.

Distribuzioni Utilità dei singoli Benessere collettivo

A=4, B=3, C=2 A=8, B=6, C=4 8x6x4 = 192 A=3, B=3, C=3 A=6, B=6, C=6 6x6x6 = 216

Quindi tale FBS accentua il carattere egalitario della distribuzione del reddito che massimizza il benessere sociale. - Funzione di utilità di Rawls. Secondo la teoria della giustizia elaborata da John Rawls il benessere della collettività coincide con quello dell’individuo con il reddito più basso (spesso identificato con il 20 percento più povero). In simboli:

FBS = min U(yi) (22)

da cui deriva che se il benessere della collettività aumenta soltanto se aumenta il reddito del cittadino più povero (o del 20% più povero), mentre rimane invariato se aumenta quello di tutti gli altri individui salvo quello del più povero. Questa è una logica radicalmente opposta al criterio di Pigou (secondo cui il benessere collettivo cresce se aumenta quello di un qualsiasi membro della collettività) e al principio di ottimalità paretiana. Pur se apprezzabile eticamente, tale specificazione soffre di eventi problemi di politica economica, visto che molte classi sociali (i ricchi, ma anche la classe media) si opporranno ad interventi che beneficiano solo i poveri. Alcuni autori hanno argomentato che le funzioni di utilità non sono simili, ma sono diverse (pur restando aggregabili). Ad esempio se l’utilità marginale rispetto al reddito della persona A

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declina più lentamente rispetto a quella della persona B (il che significa che la sua curva di utilità è meno concava), allora il criterio di scelta secondo cui bisogna livellare le utilità marginali implica che bisognerà assegnare quantità diverse di reddito a persone diverse [vedi grafico (1-2-3).5]. Questo massimizza il benessere totale ma rischia anche di aumentare la disuguaglianza e le tensioni sociali. Un’altro argomento che è stato spesso sostenuto è quello che la distribuzione egalitaria mina gli incentivi degli agenti economici, in modo tale che coloro che sono dotati di maggior ‘talento’ non ricevono i giusti stimoli dal sistema per metterlo a frutto.

Grafico (1-2-3).5. Caso di funzioni di utilità individuali diverse

Ci sono poi gli autori che sostengono che le utilità individuali non sono aggregabili e che quindi è impossibile misurare il benessere collettivo sommando il benessere dei singoli individui. Va notato, infine, che gli stati del mondo che il policy-maker deve comparare non sono sempre facilmente valutabili e aggregabili, perché sono espressi in metriche diverse (come il redito per capita e la mortalità infantile)6. Mentre le variabili monetarie da cui deriva utilità sono misurabili e quindi aggregabili, quelle intangibili, quali la tutela del paesaggio o la difesa del territorio, che possono costituire anch’esse un obiettivo di politica economica ed una fonte di utilità non lo sono. Inoltre vari obiettivi economici di breve periodo (inflazione, disoccupazione ecc.) hanno effetti economici non facilmente misurabili, pesabili e aggregabili con la metrica dell’utilità monetaria individuale, ed è probabile che il policy-maker riesca a valutarli complessivamente meglio del mercato, in quanto il raggiungimento di tali obiettivi genera anche benefici indivisibili come la stabilità sociale, un clima salubre, credibilità internazionale, ecc. Per concludere questa sezione bisogna ricordare la critica rivolta da Amartya Sen, (premio Nobel per l’economia nel 1998) a questo tipo di impostazione. Sen sostiene che gli approcci basati sulla disponibilità di reddito e beni materiali, o sull’utilità che deriva dal loro impiego, offrono un’idea inadeguata del benessere di una persona e della collettività. Il reddito infatti non correla in modo preciso con indicatori di benessere come nutrizione, alfabetizzazione o speranza di vita (confronta ad esempio la speranza di vita, specie quella femminile, della ricca Arabia Saudita con quella del Kerala, uno stato indiano con un reddito per capita molto più

6 Esistono esempi di aggregazioni fra indicatori con metriche distinte che hanno un qualche senso, come nel caso dell’ “indice di miseria sociale” di Okun che è pari alla somma dei tassi di inflazione e disoccupazione. Questo indice di miseria sociale può funzionare nelle economie occidentali, ma è certamente affetto da severi problemi metodologici visto che il tasso di disoccupazione ha un campo di variazione prestabilito (0,100) mentre quello di inflazione non ha un limite superiore (in Bolivia, nel 1985, l’inflazione raggiunse il 27.000% e tale valore fu superato e di molto durante l’iperinflazione tedesca del periodo successivo alla prima guerra mondiale.

UA

Ui

UB

yi

Lezioni 1-2-3

31

basso ma una elevata speranza di vita). Questo dipende dal fatto che altre risorse (l’istruzione dei genitori, e della madre in particolare, la disponibilità di tempo, le caratteristiche, pratiche e conoscenze sanitarie dei membri della famiglia, ecc.) generano benessere; che l’efficienza di conversione del reddito in benessere varia a seconda di caratteristiche individuali non osservabili (come antropometria, talento e sforzo) o di caratteristiche osservabili ma spesso ignorate come la dimensione, struttura e stabilità della famiglia; che il reddito medio familiare medio (generalmente usato per misurare il benessere su base individuale) ignora il problema della distribuzione intra-famigliare delle risorse; che il benessere è influenzato anche dall’accesso a `beni pubblici' come servizi sanitari, educativi, d’attenzione all’infanzia e a ‘risorse comunitarie’ (attivi collettivi e capitale sociale); e che fattori esterni come clima, insicurezza collettiva o contaminazione ambientale influenzano in modo rilevante il benessere. Per tutti questi motivi le variabili yi – e quindi anche la U(yi) – sono un indicatore di benessere poco preciso. Inoltre il concetto di utilità è – secondo Sen – ambiguo e troppo dipendente dalla psicologia dell’individuo. Ad esempio, come valutano il proprio stato di benessere coloro che hanno un basso reddito o soffrono di insufficienza ponderale? Queste persone si sentono deprivate? Mentre un aumento dell’utilità può fornire per loro evidenza della percezione del raggiungimento di un risultato, questo non può essere equiparato al benessere di una persona. Ad esempio, una persona severamente deprivata che non intravede alcuna uscita dal suo stato di avversità potrebbe, come strategia di vita, accettare serenamente questa sua condizione e gioire dei piccoli fatti positivi della vita. In questo caso, è difficile dire che la persona non è povera o deprivata anche se questa persona ‘sente’ diversamente. Ad esempio, la malnutrizione di cui molti soffrono (specie nel caso della bassa altezza per età) è raramente percepita come un’assenza di benessere. Come seguito della sua critica, Amartya Sen ha proposto una teoria della giustizia non-welferista (che non fa ricorso cioè al concetto di ‘utilità’, che rappresenta invece il cardine della welfare economics). La teoria delle capabilities di Sen parte dal presupposto che certi beni e circostanze (vedi due paragrafi sopra) permettono il raggiungimento (in modo diverso da persona a persona) di un certo numero di functionings fondamentali (essere vivi, ben nutriti, avere una buona salute, potersi muovere, essere adeguatamente istruiti, aver rispetto per se stessi ed essere rispettati socialmente, essere in grado di partecipare attivamente alla vita della propria comunità e via di seguito) che permettono l’esercizio di una libertà positiva, o quanto meno le capabilities di godere pienamente di questi functionings anche quando questi non vengono immediatamente esercitati, come ad esempio nel caso della capability di movimento. In breve, Sen si concentra sullo stato di salute, nutrizione, sanità, ecc delle persone e quindi sui ‘fini’ dell’agire individuale e collettivo, e non su reddito, i servizi sociali, conoscenza e via di seguito che sono ’mezzi’ per raggiungere tali fini. Il benessere va dunque valutato sui risultati finali e da qui l’accento posto su indicatori sintetici come l’Indice di Sviluppo Umano o ‘indice di Povertà Umana (vedi oltre nel testo) che su tali variabili si basano. Va detto chiaramente che – sia nei PS che nei PVS - tale approccio alla politica economica, che si concentra su obiettivi come una minore mortalità ed una migliore nutrizione ed istruzione, è molto più rilevante ed operativo di quello basato sul concetto di utilità, anche se le FBS descritte sopra possono ispirare positivamente l’approccio complessivo della politica economica, ad esempio in termini di una maggiore equità nella distribuzione del reddito e della ricchezza tra le classi sociali. 4.3. La new political economy

Lezioni 1-2-3

32

La teoria prevalente considera il policy-maker come un soggetto razionale e benigno che persegue con zelo l’interesse collettivo, interpretando ed aggregando in modo fedele e trasparente le preferenze individuali, o facendo ricorso ai principi dell’economia del benessere o a quelli derivabili dalla teoria delle capabilities di Sen per formulare principi allocativi o distributivi generali ma molto importanti. Già alla fine degli anni Cinquanta, questa impostazione è stata messa in discussione dalla scuola delle ‘public choices’ (o delle scelte pubbliche), il cui principale esponente è James Buchanan, che vede il policy-maker come l’espressione di gruppi di interesse che influenzano le sue decisioni non solo lecitamente attraverso libere elezioni, ma anche attraverso campagne di pressione, ricatti o corruzione. Secondo tale scuola – che ha portato allo sviluppo della “New Political Economy” (NPE) – la comprensione dei legami tra gruppi di pressione ed il policy-maker è essenziale per analizzare la dinamica della scelte collettive e della politica economica. In virtù di tutto questo, la teoria della politica economica deve dunque studiare il comportamento dei gruppi di pressione e dei governi piuttosto che concentrarsi sui metodi di formulazione delle scelte collettive e sulla relazione obiettivi-strumenti, come fatto finora in questa dispensa. In tale modello interpretativo, ed in maniera non troppo distinta dall’analisi di classe marxiana, il policy-maker non è razionale e benigno ma persegue nell’espletamento dei suoi compiti istituzionali il proprio interesse personale o quello dei gruppi che rappresenta. Da questo ne deriva che lungi dal risolvere le inefficienze, privazioni e problemi della società, l’intervento dello stato nell’economia tenderà ad acuirle, visto che le risorse collettive verranno in gran parte convogliate verso usi impropri. Da questo, la forte enfasi posta da tale teoria sul ‘fallimento dello stato’7 e molto di meno sul ‘fallimento del mercato’ (vedi oltre). Questo approccio vuole dunque limitare al massimo l’ambito delle scelte collettive – che verrebbero dominate da interessi di parte – ed assume dunque una posizione non interventista. La NPE analizza dunque l’interazione tra gli individui che costituiscono la collettività, il policy-maker (ed i comitati di interesse che lo esprimono) e la burocrazia pubblica, cui spetta il compito di applicare in maniera concreta le misure di politica economica stabilite dal policy-maker. Nel mondo reale, accanto a quello istituzionale, ciascuno di questi tre soggetti persegue obiettivi propri e diversi. Ad esempio il policy-maker persegue un interesse specifico suo (ad esempio quello di essere rieletto) ed eventualmente gli interessi del gruppo che rappresenta. Questa funzione obiettivo non è dichiarata e non è facilmente osservabile da parte della collettività che gli da un mandato. A sua volta, la burocrazia - il cui compito sarebbe quello di implementare fedelmente le politiche identificate dal policy-maker - ha spesso una sua funzione obiettivo non osservata da parte del policy-maker consistente nell’ampliare il più possibile il suo spazio discrezionale al fine da trarre una rendita dalla posizione che occupa. Ci troviamo dunque di fronte ad un doppio problema principale-agente, il primo tra elettori e policy-maker, il secondo tra policy-maker e burocrazia, complicato da notevoli asimmetrie informative e da una interazione strategica tra tali attori. Le decisioni di politica economica si formano dunque attraverso l’interazione strategica di questi tre gruppi, che ben si presta ad essere studiata con la teoria dei giochi. Per ognuno di questi tre gruppi infatti, il comportamento ottimale dipende da quanto essi si attendono facciano gli altri due. Di certo, secondo questo modello, il perseguimento dell’ottimo (non dichiarato) da parte di ognuno dei tre gruppi non porta a scelte collettive efficienti, e può provocare notevoli problemi di moral hazard e comportamenti opportunistici che peggiorano le inefficienze allocative e/o distributive già causate dal mercato. 7 L’enfasi potrebbe essere posta invece sulla riforma dello stato e cioè sullo sviluppo di ‘regole’ che limitano il potere discrezionale del policy-maker e della burocrazia ed aumentano il potere di controllo dei cittadini.

Lezioni 1-2-3

33

5. La filosofia politica del modello di politica economica Dalla parte 4 appena conclusa emerge che la formulazione delle scelte collettive (gli obiettivi di politica economica) é fortemente influenzata dalla filosofia politica, dalle ‘teorie della società’ e dalle ‘teorie della giustizia’ che sottostanno alle varie FBS ed approcci di politica economica analizzati. 5.1. Giustificazione per l’intervento dello stato nell’economia. In modo molto schematico e sintetico possiamo individuare tre filoni di pensiero prevalenti che hanno ispirato ed influenzato gran parte degli approcci di politica economica. Queste scuole di pensiero assegnano ruoli molto diversi all’intervento dello stato nell’economia. Possiamo distinguere tra le posizioni libertarie (libertarians in inglese), le posizioni liberali (liberals) e le posizioni collettivistiche: - le posizioni libertarie fanno riferimento ai lavori di Nozick, Von Hayek e Milton Friedman, e sostengono che il compito dello stato è quello di garantire la libertà degli individui e che il miglior modo di raggiungere questo obiettivo è quello di lasciare operare liberamente il mercato. Questi autori sostengono che allo stato vanno assegnate funzioni minime e nessuna funzione redistributiva. La teoria della giustizia cui si ispirano questi autori sostanzialmente stabilisce che l’equità consiste nel garantire ‘pari opportunità’ a tutti, e non nell’egalizzare i redditi, utilità o capabilities di tutti i cittadini. Secondo questo punto di vista, la ricerca della cosiddetta giustizia sociale tramite la tassazione e la redistribuzione non solo è inutile (perché –date condizioni iniziali di partenza uguali per tutti – i risultati finali divergeranno in base allo sforzo, merito e talento di ogni individuo) ma è anche dannosa perché tenderà a distruggere il mercato. Quest’ultimo secondo Von Hayek è come le forze della natura e cioè una forza impersonale – anche quando crea danni; - le posizioni liberali, che fanno riferimento ai lavori di Rawls, Miller o degli utilitaristi, attribuiscono allo stato un ruolo molto maggiore dal momento che mettono in questione l’efficienza del mercato nel generare l’ottimo paretiano. Appoggiandosi a ‘teorie della giustizia’ che enfatizzano l’importanza del benessere dei poveri, l’approccio liberale conclude che lo stato deve redistribuire le risorse facendo ricorso a tassazioni a somma fissa, al fine di massimizzare l’utilità sociale. Rawls, in particolare, ha sviluppato un criterio di scelta sociale (il principio maximin) secondo cui una politica economica è efficiente e giusta solo se massimizza i redditi dei cittadini più poveri (vedi sopra); - le posizioni collettiviste, come quelle dei socialisti fabiani, dei marxisti o della socialdemocrazia, enfatizzano invece i molti ‘fallimenti del mercato’, ma non sono d’accordo tra loro sull’entità dell’intervento pubblico necessario per correggere tali fallimenti. I socialisti fabiani pensano che interventi correttivi strutturali sono sufficienti ad ‘imbrigliare’ il mercato a fini sociali. I marxisti invece pensano che gli interventi correttivi non siano sufficienti e che riforme più radicali siano necessarie in modo da affidare le scelte allocative non al mercato ma al pianificatore. Tra le misure che questo prenderà per massimizzare il benessere sociale, rivestono particolare importanza l’istituzione della proprietà collettiva dei mezzi di produzione, la fissazione dei prezzi e il coordinamento delle scelte economiche da parte del piano.

Lezioni 1-2-3

34

6. La politica economica tradizionale e moderna : differenze di obiettivi 6.1. La politica economica tradizionale (obiettivi limitati). Il primo teorema dell’economia del benessere (Smith, Pareto) ci dice che l’economia raggiunge spontaneamente un suo equilibrio ottimale ma che in molti casi è intralciata da attriti che ne limitano il funzionamento e che richiedono interventi correttivi. Da questo deriva che l’intervento dello stato in economia è giustificato da motivi di efficienza. Il modello standard di libero mercato funziona solo se certe condizioni (molto restrittive) sono verificate e cioè se si opera in regime di concorrenza perfetta in tutti i mercati, se non vi sono fallimenti del mercato e se siamo in presenza di informazione perfetta. L’intervento dello stato è dunque giustificato quando alcune di queste condizioni non sono verificate. Tra le più importanti fonti di inefficienza annoveriamo: - assenza di concorrenza perfetta: la concorrenza perfetta in tutti i mercati implica che tutti gli agenti siano price-takers e abbiano pari potere. Questa condizione non si verifica in caso di monopolio, oligopolio, monopsonio ecc. Gli interventi di tipo regolatorio, quali la legislazione anti-trust, il controllo amministrativo dei prezzi, la gestione diretta dei monopoli naturali ecc., sono una possibile risposta da parte del policy-maker al venir meno della condizione di concorrenza perfetta; - fallimento del mercato (vedi oltre): questo avviene nel caso di (i) beni pubblici (che hanno le caratteristiche di non essere escludibili e rivali nel consumo) (ii) presenza di esternalità, (ad es. le vaccinazioni o i cosiddetti beni di merito ecc.), (iii) rendimenti di scala crescenti, e (iv) l’instabilità della crescita. In tutti questi casi il mercato tende ad essere inefficiente e interventi correttivi (tasse/sussidi, produzione pubblica, regolazione) si rendono necessari; - informazione imperfetta: le imprese e i consumatori sono spesso poco informati sulla natura dei prodotti e dei loro prezzi, causa la loro difficile o imperfetta osservabilità, e circa il futuro. L’esistenza di asimmetria informativa crea il problema della selezione avversa. In tali situazioni o il mercato crea autonomamente istituzioni che forniscono informazione (valutatori ecc.) oppure lo stato interviene attraverso la regolazione o, nei casi più gravi, attraverso la produzione pubblica. - incompletezza o assenza di alcuni mercati, presenti e futuri: anche nel caso in cui questi siano assnti o non funzionino adeguatamente, si rende necessario l’intervento pubblico. Un esempio tipico in questo campo riguarda l’intervento pubblico nel mercato delle assicurazioni. I mercati privati in questo campo sono fortemente incompleti o assenti (anche nei PVS) e quindi lo stato interviene con la creazione di assicurazioni pubbliche (ad esempio contro il rischio di vecchiaia, disoccupazione, infortunio e via di seguito). L’intervento dello stato può essere giustificato anche a fini di giustizia sociale, quando cioè la distribuzione del reddito e degli attivi generata dal mercato è percepita come socialmente inaccettabile. 6.2. La politica economica moderna: obiettivi più ampi (correttivi e strutturali). Un limite dell’approccio minimalista alla politica economica risiede nella sua poca rispondenza ai problemi reali dei paesi e nel fatto che ignora il ruolo delle ‘istituzioni’ nel processo economico. Gli interventi correttivi minimi illustrati sopra sono dunque spesso insufficienti a rimuovere le distorsioni esistenti e a risolvere i vari tipi di problemi di cui

Lezioni 1-2-3

35

soffrono gran parte dei paesi. Per questo motivo, sia nei PS che a maggior ragione nei PVS, è necessario ampliare la gamma degli interventi pubblici che devono mirare non solo a correggere il fallimento del mercato e l’iniquità distributiva ma anche a raggiungere obiettivi più vasti come lo sviluppo tecnologico, la crescita, gli investimenti pubblici, lo stimolo degli investimenti privati, la riduzione della povertà, la stabilità macroeconomica, ecc. e cioè obiettivi che non sarebbero perseguibili solo sulla base delle due categorie esaminate sopra. Tra questi interventi di politica economica a più ampio respiro includiamo: - interventi di regolazione dell’economia di breve periodo (a stock di risorse produttive costante) con l’obiettivo di raggiungere specifici obiettivi di politica macroeconomica relativi a:

- domanda aggregata e livello di occupazione della forza lavoro; - livello dell’inflazione - gli interessi dei vari gruppi sociali - il tasso di cambio e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti - l’equilibrio di bilancio ed il rapporto debito/PIL.

- interventi di lungo periodo miranti a sostenere la crescita del reddito, dei consumi privati, delle capabilities, e via di seguito. L’Assemblea delle Nazioni Unite del 2001 ha fissato al riguardo molti Obiettivi del Millennio (specie in campo sociale) che devono essere raggiunti entro l’anno 2015. - interventi redistributivi che mirano cioè a cambiare la ripartizione interpersonale delle risorse e dei redditi nel breve periodo attraverso la tassazione ed i trasferimenti. L’interrogativo più forte al riguardo di questo obiettivo è se esiste un trade-off tra redistribuzione e crescita.

Appendice alle Lezioni 1-2-3

36

Appendice I alle Lezioni (1-2-3) (tratto da M. D’Antonio, A. Graziani e S. Vinci: “Problemi e metodi di politica economica” Volume primo, Collana Teorie Economiche 9*, Liguori Editore, 1979, pp. 297-321) Calcolo matriciale e sistemi di equazioni 1. Vettori e matrici Qualsiasi numero reale compreso tra meno infinito e più infinito si chiama scalare. Esempi di scalare sono -1, 500, 25, 5/20 ecc. Una matrice è formata da tanti scalari e più precisamente: Si definisce matrice un insieme di numeri disposti per righe e per colonne. Essa è scritta nel seguente modo:

mnmm

n

n

aaa

aaaaaa

...............

...

...

21

22221

11211

La matrice scritta sopra contiene m righe e n colonne e si dice di tipo (m X n). I singoli numeri contenuti nella matrice si chiamano elementi di matrice. Bisogna fare attenzione a non confondere una matrice con un numero in quanto una matrice è un modo conveniente di rappresentare un certa lista (o tabella) di numeri e quindi essa non ha alcun valore numerico. Gli elementi della matrice sopra scritta (e questo vale per qualsiasi matrice) sono contrassegnati da una lettera a accompagnata da due indici di cui il primo si riferisce alla riga ed il secondo alla colonna di appartenenza dell’elemento. Ad esempio il termine a13 indica l’elemento della matrice della prima riga e della terza colonna. Non esiste alcuna relazione tra numero delle righe e numero delle colonne nel senso che una matrice può contenere qualsiasi numero di righe e di colonne. Se il numero delle righe coincide con il numero delle colonne allora la matrice si dice quadrata. Una matrice di n righe e n colonne è una matrice quadrata; più spesso la si definisce matrice di ordine n. Se la matrice è composta di una sola riga, essa si chiama vettore riga, mentre se è composta di una sola colonna si chiama vettore colonna. Alcuni esempi aiutano a capire le definizioni sopra riportate.

507812546401

Questa è una matrice rettangolare, mentre una matrice quadrata è la seguente

1001

Infine esempi di vettori riga e vettori colonna sono

Appendice alle Lezioni 1-2-3

37

[ ]861 e

945

Usualmente le matrici vengono indicate con la lettera maiuscola, gli elementi con la lettera minuscola accompagnata dagli indici. Ad esempio una matrice (m X n) può essere scritta:

A =

mnmm

n

n

aaa

aaaaaa

...............

...

...

21

22221

11211

È evidente che quando la matrice viene indicata con la sola lettera bisogna riportare accanto il numero delle righe e delle colonne. 2. Operazioni sulle matrici Due matrici A e B sono eguali (cioè A = B) se esse sono identiche e cioè se ciascun elemento di A è uguale al corrispondente (cioè di eguale posto) elemento di B. Ad esempio le seguenti due matrici

A =

1001 B =

1001

sono eguali, mentre sono diverse (cioè A ≠ B) le matrici

A =

1001 B =

0110

Data una matrice A ed uno scalare λ, il prodotto di λ per A scritto λA è definito

λA =

mnmm

n

n

aaa

aaaaaa

λλλ

λλλλλλ

...............

...

...

21

22221

11211

In altri termini λA è una matrice i cui elementi sono ottenuti moltiplicando ciascun elemento di A per λ. La matrice λA avrà quindi lo stesso numero di righe e di colonne di A. Date due matrici A e B aventi lo stesso numero di righe e di colonne si definisce somma di A e B, (A + B), una matrice C avente lo stesso numero di righe e di colonne di A e B i cui elementi si ottengono così cij = aij + bij

Ad esempio, se

A =

8432 e B =

2356

Appendice alle Lezioni 1-2-3

38

La matrice somma C sarà

C = A + B =

++++

28345362

=

10788

Da notare quindi che per fare la somma di due matrici è necessario che esse abbiano lo stesso numero di righe e di colonne. Per quanto riguarda la differenza tra due matrici si procede come per la somma tranne che gli elementi si ottengono della matrice differenza si ottengono facendo la differenza dei corrispondenti elementi di A e B. Ad esempio

D = A – B =

−−−−

28345362

=

−−6124

Occorre infine aggiungere che per la somma valgono le proprietà associativa e commutativa e cioè A + B = B + A A + (B + C) = (A + B) + C = A + B + C Nelle operazioni finora descritte non ci sono grandi differenze rispetto ad analoghe operazioni eseguite con gli scalari. Nel caso della moltiplicazione tra matrici le cose differiscono notevolmente. Se noi vogliamo effettuare il prodotto tra due matrici A e B non bisogna moltiplicare i corrispondenti elementi di A e B, ma occorre eseguire delle differenti operazioni che qui descriveremo brevemente. La moltiplicazione tra due matrici può essere definita nel seguente modo. Sono date due matrici A di tipo (m X n) e B di tipo (n X r), tali cioè che il numero delle colonne della prima sia uguale al numero delle righe della seconda, in modo che il numero degli elementi di una riga della prima sia uguale al numero degli elementi di una colonna della seconda. Si chiama prodotto della matrice A per la matrice B, e si indica AB, la matrice di tipo (m X r) in cui l’elemento di posto ij sia la somma dei prodotti degli elementi di ugual posto della riga i.ma di A per colonna j.ma di B. In formula se C = AB Si ha per definizione cij = ai1 b1j + ai2 b2j + ….. + ain bnj cioè

∑=

∗=n

Kkjik ba

1ij c

Se abbiamo le seguenti matrici A e B

A =

333231

232221

131211

aaaaaaaaa

B =

3231

2221

2111

bbbbbb

Appendice alle Lezioni 1-2-3

39

e vogliamo fare il prodotto AB dobbiamo così procedere. Innanzitutto A è una matrice (3 X 3) e B una matrice (3 X 2) per cui il prodotto sarà una matrice (3 X 2) e cioè una matrice del tipo

AB = C =

3231

2221

2111

cccccc

I singoli elementi saranno ottenuti con la seguente regola:

∑==

=++3

11131132112111111

Kkkbabababac

∑==

=++3

12132132212121112

Kkkbabababac

∑==

=++3

11231232122112121

Kkkbabababac

∑==

=++3

12232232222122122

Kkkbabababac

∑==

=++3

11331332132113131

Kkkbabababac

∑==

=++3

12332332232123132

Kkkbabababac

Se al posto dei simboli a, b e c sostituiamo i valori numerici delle seguenti matrici

A =

211132341

e B =

251103

il prodotto tra A e B sarà la matrice C di (3 X 2) qui appresso riportata

C = 22 1014 514 5

Come è facile notare dai calcoli e dalle formule sopra riportate, il prodotto tra due matrici è possibile soltanto quando il numero delle colonne della matrice che premoltiplica (che viene indicata come prima nell’operazione di moltiplicazione) è uguale al numero delle righe della seconda matrice. Inoltre la matrice che si ottiene dal prodotto è una matrice che ha lo stesso numero di righe della prima e lo stesso numero di colonne della seconda matrice. Entrambi questi risultati possono essere verificati nel nostro esempio; infatti A ha un numero di colonne (3) pari al numero delle righe di B, e la matrice prodotto ha lo stesso numero di righe di A (3) e lo stesso numero di colonne di B (2). Da quanto detto prima, si deve trarre che nel caso di prodotto tra matrici è molto importante l’ordine di moltiplicazione. Cioè mentre quando noi eseguiamo il prodotto tra due scalari λ e µ è indifferente l’ordine di moltiplicazione in quanto λµ = µλ

Appendice alle Lezioni 1-2-3

40

nel caso di matrici invece se è possibile eseguire il prodotto A X B, non è detto che possa eseguirsi il prodotto B X A (questo per la regola sul numero di righe e colonne); comunque anche nell’ipotesi che sia possibile il prodotto B X A in genere AB ≠ BA Infatti se supponiamo di avere le seguenti due matrici

A =

4231 e B =

5312

allora AB =

22161611 ≠ BA =

2913104

3. Matrici particolari Già si è detto in precedenza di un tipo di matrici particolari che abbiamo chiamato matrici quadrate (numero delle righe = numero delle colonne). Tra le matrici quadrate ne esiste una tutta particolare che viene chiamata matrice unitaria. La matrice unitaria (o matrice identità) è una matrice quadrata che ha pari a 1 tutti gli elementi della diagonale principale e pari a zero tutti gli altri elementi. Essa viene indicata con la lettera I accompagnata da un indice che si riferisce al numero di righe (o colonne). Ad esempio la matrice unitaria di ordine 3 indicata I3 sarà

I3 =

100010001

Una matrice i cui elementi siano tutti pari a zero si chiama matrice nulla ed è indicata con 0. Le due matrici I e 0 hanno un ruolo simile a 1 e zero per gli scalari; infatti il prodotto tra una qualsiasi matrice A e una matrice unitaria (sempre che l’operazione possa essere fatta) dà il seguente risultato: AI = A mentre per la matrice 0 si avrà: A0 = 0 A + 0 = A A – A = 0 In più è possibile (cosa che non lo è per gli scalari) che il prodotto tra due matrici A e B sia una matrice nulla anche se A e B sono diverse da matrici nulle. Ad esempio

0041 *

− 01

04=

0000

Se in una matrice si scambiano le righe con le colonne si ottiene una nuova matrice detta la trasposta della prima e la si indica con la stessa lettera con l’aggiunta del segno ’ .

Appendice alle Lezioni 1-2-3

41

A =

333231

232221

131211

aaaaaaaaa

e A’ =

332313

322212

312111

aaaaaaaaa

4. Determinanti e proprietà dei determinanti Il determinante è un numero associato ad una matrice quadrata. Esso viene indicato nel seguente modo: A , oppure più estesamente

333231

232221

131211

aaaaaaaaa

A =

Il determinante di una matrice A di ordine n indicato A è il numero che si ottiene dalla seguente somma che coinvolge tutti gli elementi di A: A = ∑( ± )a1i a2j .....anr

con la somma riguardante tutte le possibili permutazioni del secondo indice. Ciascun termine della sommatoria viene preso con il segno positivo se la permutazione è pari e con il segno negativo se la permutazione è dispari. Per comprendere questa definizione è necessario innanzi tutto chiarire cosa si intende per permutazione. Se abbiamo un insieme di 4 numeri, ad esempio l’insieme dei primi quattro numeri interi (1, 2, 3, 4), noi diciamo che l’insieme è disposto nell’ordine naturale se essi appaiano nell’ordine già scritto. Se modifichiamo l’ordine naturale allora si avrà che qualche numero maggiore precederà un numero minore, ad esempio (1, 2 , 4, 3). Ogni variazione dell’ordine naturale dei numeri costituisce una permutazione. Il numero di inversioni in una permutazione è il numero di coppie di numeri in cui il maggiore precede il minore. Si possono avere più permutazioni, ad esempio (2, 1, 4, 3): una permutazione si dice pari se il numero delle inversioni è pari, mentre si dice dispari se il numero delle inversioni è dispari. Se noi ora ritorniamo alle matrici e supponiamo di avere una matrice quadrata di ordine n

A =

nnnn

n

n

aaa

aaaaaa

...............

...

...

21

22221

11211

Possiamo scegliere un elemento da ciascuna riga e da ciascuna colonna e formare il prodotto dei vari elementi scelti ottenendo l’espressione a1i a2j a3k ..... anr dove gli indici i, j, k, r indicano una permutazione dell’insieme di numeri (1, 2, 3, …., n). Se noi formiamo tutte le possibili espressioni del tipo sopra scritto effettuando tutte le permutazioni possibili dell’insieme (1, 2, …., n) e infine le sommiamo algebricamente, otterremo il determinante.

Appendice alle Lezioni 1-2-3

42

A titolo d’esempio prendiamo una matrice del terzo ordine e calcoliamo il determinante. Data la matrice

A =

333231

232221

131211

aaaaaaaaa

per calcolarne il determinante A procediamo nel seguente modo. Scriviamo una prima espressione contenente un elemento di ciascuna riga senza specificare per il momento la colonna e cioè a1. a2. a3. al posto dei punti occorre poi inserire uno qualsiasi dei numeri (1, 2, 3) riferentesi alle colonne. Per calcolare il determinante basta fare tante espressioni scrivendo tutte le possibili permutazioni dei numeri 1, 2, 3. Queste sono le seguenti (1, 2, 3), (1, 3, 2), (2, 1, 3), (2, 3, 1), (3, 1, 2), (3, 2, 1) sostituendo questi numeri al posto del punto otterremo le seguenti sei espressioni

1) a11 a22 a33 2) a11 a23 a32 3) a12 a21 a33 4) a12 a23 a31 5) a13 a21 a32 6) a13 a22 a31

Per calcolare il determinante basterà fare la somma algebrica delle sei espressioni sopra riportate e cioè sommare i vari termini assegnando il segno positivo all’espressione se la permutazione dei secondi indici è pari ed il segno negativo se la permutazione è dispari. Nel nostro caso i segni delle sei espressioni saranno rispettivamente (+, -, -, +, +, -). Per esempio se la matrice A è la seguente

A =

− 221231011

le sei espressioni saranno: -6; 4; -2; 2; 0; 0; allora il determinante sarà

A = + (-6) – (-4) – (-2) + (2) = -10

Nel caso che la matrice sia di ordine n il determinante risulta composto da una sommatoria di n! (n fattoriale) termini e precisamente n! = n(n-1)(n-2)(n-3)……1 Il determinante di una matrice può essere pure espresso in una forma diversa, forma che da una parte semplifica le operazioni e dall’altra ha una rilevante importanza dal punto di vista teorico. A tale proposito dobbiamo definire un nuovo termine e cioè il complemento algebrico di un elemento

Appendice alle Lezioni 1-2-3

43

di una certa matrice. Data una matrice A di ordine n si definisce complemento algebrico (o cofattore) dell’elemento aij il determinante della matrice che si ottiene cancellando dalla A l’i.ma riga e la j.ma colonna moltiplicato per il termine (-1)i+j Se ad esempio abbiamo la matrice del terzo ordine

A =

333231

232221

131211

aaaaaaaaa

il complemento algebrico di a11 indicato A11 sarà

3332

2322

3332

23222

3332

23221111 )1()1(

aaaa

aaaa

aaaa

A =−=−= +

Si può notare che A11 è il determinante della matrice ottenuta dalla A cancellando la prima riga e la prima colonna e poi moltiplicato per il termine (-1)1+1 in quanto nel caso specifico i due indici sono i = 1 e j = 1. Definito il complemento algebrico, il determinante della matrice può essere scritto

∑=

=n

jijijAaA

1 i = 1, 2, 3, ….., n

e cioè il determinante di una matrice scaturisce dalla somma dei prodotti tra gli elementi di una riga qualsiasi (o di una colonna) e i propri complementi algebrici. Concludiamo infine questo paragrafo sul determinante riportando alcune tra le più importanti proprietà di esso:

a) il determinante di una matrice avente una riga (colonna) composta da tutti zero è nullo; b) moltiplicando per λ tutti gli elementi di una riga (o colonna) della matrice il determinante resta

pure esso moltiplicato per λ; c) se si cambiano due righe (colonne) di una matrice il determinante cambia di segno; d) se una matrice ha due righe (colonne) uguali il determinante è zero; e) il determinante di A è uguale a quello della sua trasposta, cioè │A│=│A’│; f) la somma dei prodotti fra gli elementi di una riga (colonna) e i complementi algebrici di

un’altra riga (colonna) è zero;

5. Matrice inversa

Data una matrice quadrata A di ordine n si dice matrice inversa di A, e si scrive A-1 , la matrice che soddisfa la seguente relazione

A-1A = A A-1 = In

Dobbiamo ora vedere come si verifica se la matrice inversa esiste e come si fa a calcolarla. Per fare questo, ritorniamo un momento alla matrice unitaria di ordine n e calcoliamo il determinante di questa matrice. Esso è 1 perché in tutte le espressioni per il calcolo del determinante compaiono degli zeri tranne quella formata dal prodotto dei termini della diagonale principale che sono tutti uno. Possiamo allora scrivere

Appendice alle Lezioni 1-2-3

44

1....000........................0....0100....001

=nI = 1

Oltre al determinate della matrice unitaria dobbiamo fare riferimento alla cosiddetta matrice aggiunta di A. Questa la si ottiene nel seguente modo:

1) si parte da A e si forma la sua trasposta A’ (si scambiano cioè le righe e le colonne di A); 2) si calcolano i complementi algebrici di A’ e si forma una matrice con tutti questi termini.

Questa ultima matrice è la matrice aggiunta di A. Essa sarà la seguente

=

nnnn

n

AAA

AAAAAA

A

.........

...

...

'

21

22212

312111

Come si ricorderà noi abbiamo già detto che

∑=

=n

jijijAaA

1

e per la proprietà f del determinante che

∑=

=n

jijkjAa

10 k ≠ i

Questa ultima espressione infatti non è altro che la somma dei prodotti tra gli elementi della riga k.ma e i complementi algebrici della riga i.ma. Tenendo conto di queste due formule formiamo il prodotto AA’ oppure A’A ed otterremo il seguente risultato

nIAA

A

AA

A

AAAA =

=

==

1...00............0...100...01

...00......0000...00...0

''

L’ultima formulazione è stata ottenuta mettendo in evidenza │A│. Ora ritornando all’inversione di A noi abbiamo detto che deve soddisfare la relazione A-1A = A A-1 = In Noi sappiamo che

Appendice alle Lezioni 1-2-3

45

A’A = AA’ = A-1A = │A│ In per cui in questa ultima equazione dividendo i vari membri per │A│ otteniamo

nIAAAA

AA

==''

Confrontando questa ultima formula con l’inversa possiamo concludere

AAA '1 =−

L’inversa di una matrice si ottiene, quindi, dividendo ciascun termine della matrice per il determinante della matrice. Il procedimento di calcolo dell’inversa ha messo in luce la circostanza che affinché una matrice abbia l’inversa è necessario che il suo determinante sia diverso da zero. Infatti qualora il determinante si annullasse non avrebbe senso dividere i vari elementi della matrice aggiunta per zero. Questa ultima determinazione ci facilita la definizione di matrice singolare. Una matrice quadrata con determinante nullo si dice singolare, mentre una matrice con determinante diverso da zero è non singolare. Per concludere sulla matrice inversa elenchiamo senza dimostrazione alcune sue proprietà:

a) (AB)-1 = B-1 A-1 b) (A-1)-1= A c) (A’)-1= (A-1)’

La (a) ci dice che l’inversa di un prodotto è uguale al prodotto in ordine cambiato delle inverse; la (b) che l’inversa dell’inversa è la matrice originaria e la (c) infine che l’inversa della trasposta è uguale alla trasposta dell’inversa. 6. Sistemi di equazioni

In economia accade frequentemente di incontrare dei modelli costituiti da un insieme di equazioni lineari per cui è importante conoscere in quali casi il sistema ammette soluzioni e in quali casi no. Qui di seguito esporremo, sia pure brevemente, i criteri per determinare le condizioni per l’esistenza o meno di soluzioni dei sistemi di equazioni e a tale proposito faremo ampiamente riferimento alle matrici e alle proprietà di cui si è detto in precedenza con l’aggiunta di alcuni altri fondamentali concetti. Supponiamo di avere un sistema lineare di n equazioni in n incognite x1, x2, ….., xn del tipo a11x1 + a12x2 + a13x3 + …… + a1nxn = b1

a21x1 + a22x2 + a23x3 + …… + a2nxn = b2 …………………………………………. an1x1 + an2x2 + an3x3 + …… + annxn = bn

con aij = coefficienti delle incognite i, j = 1, 2, …., n bi = termini noti i = 1, 2, …., n

Appendice alle Lezioni 1-2-3

46

Questo sistema può essere riscritto nel modo seguente A x = b con

=

nnnnn

n

n

aaaa

aaaaaaaa

A

............................................

....

....

321

2232221

1131211

=

nx

xxx

x...

3

2

1

=

nb

bbb

b...

3

2

1

Risolvere il sistema Ax=b significa individuare una n.pla di valori x1, x2, x3, …., xn che soddisfi le n equazioni del sistema (e da menzionare sin d’ora che tale n.pla può non esistere). Se la matrice inversa di A (la A-1) esiste allora la soluzione è facile da individuare; infatti basta moltiplicare primo e secondo membro del sistema per A-1 e si ottiene x = A-1b Per ottenere quindi la soluzione del sistema di equazioni Ax = b basta trovare la matrice A-1 e moltiplicare tale matrice per il vettore b. Dalla relazione ora indicata risulta evidente che, affinché esista la soluzione del sistema di equazioni, è necessario che sia possibile calcolare A-1. nel paragrafo precedente abbiamo visto che l’esistenza della matrice A-1 richiede la non singolarità di A e cioè che │A│ ≠ 0. Riprendiamo la soluzione x = A-1 b, e riscriviamola in una forma che ci consentirà alcune interessanti considerazioni. Come si ricorderà dal paragrafo precedente, A-1 = (1/│A│)A’ per cui la soluzione sarà del tipo

=

nnnnn

n

n

n bAAA

bAAAbAAA

A

x

xx

................................................

...

...

1

.

.

.

21

222212

112111

2

1

ed effettuando la moltiplicazione di cui sopra si otterrà

j

n

j

jnn bAA

bAbAbAA

x ∑=

+ =++=1

1122111111)....(1

j

n

j

jnn bAA

bAbAbAA

x ∑=

+ =++=1

2222211221)....(1

…………………………………………………… ed in generale

j

n

j

jinniiii bAA

bAbAbAA

x ∑=

+ =++=1

22111)....(1

Appendice alle Lezioni 1-2-3

47

Osservando le varie espressioni, si nota che il termine j

n

jjibA∑

=1 non è altro che il determinante

della matrice A che, al posto della i.ma colonna, ha il vettore di b. Si ottiene così la regola di Cramer che dice: Ciascuna delle incognite xi è data da una frazione che ha per denominatore il determinante della matrice dei coefficienti │A│ e per numeratore il determinante della matrice che si ottiene sostituendo nella matrice A ai coefficienti dell’incognita che si sta calcolando i termini noti. Il metodo ora esposto per risolvere un sistema avente tante incognite quante sono le equazioni, se interessante dal punto di vista teorico, è scarsamente efficiente ai fini del calcolo della soluzione soprattutto nel caso di n molto elevato. Ai fini del calcolo si rivela più efficiente il metodo di soluzione Gauss-Jordan che consiste nell’operare nel sistema di equazioni originario una serie di operazioni aventi come obiettivo la successiva eliminazione di variabili al fine di poterne determinare facilmente per qualcuna il valore, per poi procedere attraverso sostituzioni alla determinazione delle altre. Questo metodo può essere facilmente illustrato con un esempio. Supponiamo di avere il seguente sistema:

23532

4632

321

321

321

=++−=−−=+−

xxxxxx

xxx

la cui soluzione è: x1 = 1; x2 = 2; x3 = 3 Finora abbiamo assunto che la matrice A-1 esista, ma ciò non si verifica sempre. Esamineremo ora quest’ipotesi inquadrandola però nel problema più generale di un sistema di equazioni in cui numero delle equazioni e numero delle incognite non coincidono. Prima di passare alla discussione dei sistemi di equazioni più generali (equazioni in numero diverso dalle incognite) è necessario aggiungere qualche nozione complementare sulle matrici. Data una matrice A, si definisce sottomatrice di A ogni matrice che si ottenga prendendo gli elementi di A comuni a un certo numero di righe e ad un certo numero di colonne di A. Si chiamano minori di ordine l della matrice A i determinanti delle sottomatrici d’ordine l di A. Ciò posto, si chiama rango della matrice A di tipo (m X n) con m ≠ n il numero intero p che ha le seguenti proprietà:

1) tra i minori di ordine p della matrice A ve n’è almeno uno che sia diverso da zero; 2) tutti i minori d’ordine p+1 (ove esistano) sono nulli.

Dalla proprietà 2) segue che anche i minori di ordine p+2, p+3, …, ove esistano, sono nulli. Infatti sviluppando un minore d’ordine p+2 della matrice A secondo gli elementi di una riga (o colonna) si ottiene una combinazione lineare di minori d’ordine p+1, che sono tutti uguali a zero; sviluppando poi un minore d’ordine p+3 secondo gli elementi di una riga (o colonna) si ottiene una combinazione lineare di minori d’ordine p+2, che sono tutti nulli, ecc. Si può definire il rango di una matrice anche come l’ordine dei minori d’ordine massimo della matrice A, che siano diversi da zero. È chiaro che se A è del tipo (m X n), il rango non può superare il più piccolo dei numeri m ed n, da cui appunto la relazione r (A) ≤ (minore tra m ed n). 7. Sistemi normali

Appendice alle Lezioni 1-2-3

48

Si dice normale un sistema lineare in cui il numero n delle incognite sia non inferiore al numero delle equazioni m e tale che il rango della matrice dei coefficienti delle incognite sia uguale al numero delle equazioni. Supponiamo allora di avere il seguente sistema a11x1 + a12x2 + …… + a1nxn = b1

a21x1 + a22x2 + …… + a2nxn = b2 ………………………………… am1x1 + am2x2 + …… + amnxn = bm

o in maniera più concisa A x = b con A matrice del tipo (m X n) m ≤ n x vettore di tipo (n X 1) b vettore di tipo (m X 1) r (A) = m Il sistema sopra indicato è un sistema normale e se m = n ci troviamo nel caso discusso in precedenza e la soluzione del sistema può essere ottenuta applicando il teorema di Cramer. Ipotizziamo allora n > m. Poiché r (A) = m esiste un minore d’ordine m della matrice A che è diverso da zero, e per semplicità assumiamo che sia quello costituito dai coefficienti delle prime m incognite x1, x2, x3, …., xm. Portando le incognite xm+1, …, xn al secondo membro il sistema può essere riscritto a11x1 + a12x2 + …… + a1mxm = b1 - a1m+1xm+1 + …. - a1nxn

a21x1 + a22x2 + …… + a2mxm = b2 – a2m+1xm+1 + …. – a2nxn ……………………………………………………………..

am1x1 + am2x2 + …… + ammxm = bm – amm+1xm+1 + …. – amnxn Assegnando valori arbitrari alle incognite xm+1, … , xn ci ritroviamo con un sistema di m equazioni in m incognite per il quale è applicabile la regola di Cramer, dal momento che il determinante dei coefficienti delle m incognite x1, … , xm è diverso da zero. Il sistema ha infinite soluzioni. Infatti a seconda del valore assegnato alle incognite xm+1, … , xn si determina il valore delle prime m incognite e poiché infiniti sono i valori che possiamo assegnare a xm+1, … , xn , infinite sono le soluzioni del sistema. Il fatto che per determinare una soluzione del sistema occorre fissare (n – m) valori arbitrariamente (i valori delle incognite xm+1, … , xn) si esprime dicendo che le soluzioni del sistema sono (∞)n-m.

8. Teorema di Rouché-Capelli Finora sono stati presi in considerazione sistemi particolari; con il teorema di Rouché-Capelli, di cui si tralascia la dimostrazione, individueremo una condizione necessaria e sufficiente per

Appendice alle Lezioni 1-2-3

49

l’esistenza di soluzioni di un sistema lineare di qualunque tipo. Il teorema ci indicherà anche un procedimento per il calcolo della soluzione. La parte del teorema che riguarda l’esistenza di soluzioni dice: Dato un sistema lineare di m equazioni in n incognite del tipo a11x1 + a12x2 + …… + a1nxn = b1

a21x1 + a22x2 + …… + a2nxn = b2 ………………………………… am1x1 + am2x2 + …… + amnxn = bm con m ≠ n

oppure A x = b condizione necessaria e sufficiente per l’esistenza di soluzioni del sistema è che la matrice dei coefficienti (A) e la matrice formata dai coefficienti delle incognite e dei termini noti abbiano lo stesso rango. Formalmente r (A) = r (Ab) dove

=

mmnmm

n

n

baaa

baaabaaa

Ab

.................................

...

...

)(

21

222221

111211

Per individuare la soluzione una volta accertatene l’esistenza, si procede nel seguente modo. Supposto che r (A) = r (Ab) = p (con p minore o uguale al più piccolo tra i numeri m e n) si prendono p righe e p colonne della matrice A che formano una sottomatrice di A di ordine p il cui determinante è diverso da zero. Queste p righe non sono altro che i coefficienti di p equazioni, e le rimanenti m-p vengono scartate (se p=m nessuna equazione viene scartata). Le incognite i cui coefficienti non sono compresi nella sottomatrice di ordine p passano tra i termini noti (se p=n<m allora questo passaggio non c’è). A questo punto ci troviamo con un sistema normale di cui abbiamo mostrato nel paragrafo precedente come si fa a calcolare la soluzione. Per chiarire il metodo di calcolo supponiamo di avere il seguente sistema lineare di equazioni a11x1 + a12x2 + a13x3 + a14x4 + a15x5 = b1

a21x1 + a22x2 + a23x3 + a24x4 + a25x5 = b2 a31x1 + a32x2 + a33x3 + a34x4 + a35x5 = b3 a41x1 + a42x2 + a43x3 + a44x4 + a45x5 = b4

con r (A) = r (Ab) = 3 e in particolare

Appendice alle Lezioni 1-2-3

50

0333231

232221

131211

≠aaaaaaaaa

Per quanto detto in precedenza il sistema ammette soluzioni, ed una soluzione può essere ottenuta in questo modo. Si scarta l’ultima equazione e si portano tra i termini noti le incognite x4 e x5 i cui coefficienti non sono inclusi nel determinante del terzo ordine. Il sistema risulterà ora a11x1 + a12x2 + a13x3 = b1 - a14x4 - a15x5

a21x1 + a22x2 + a23x3 = b2 - a24x4 - a25x5 a31x1 + a32x2 + a33x3 = b3 - a34x4 - a35x5 Assegnando valori arbitrari a x4 e x5, troveremo una soluzione di questo sistema e questa soluzione (anche se qui non è dimostrato) soddisferà anche la quarta equazione. Un esempio numerico chiarirà ulteriormente. Supponiamo di avere il seguente sistema di equazioni: 2x1 + 7x3 = 4 3x1 + 3x2 + 6x3 = 3 2x1 + 3x2 + 4x3 = 2 Le matrici A e (Ab) di questo sistema sono

=

422633702

A

=

242236334702

)(Ab

Attraverso il calcolo dei determinanti arriviamo a stabilire r (A) = r (Ab) = 2 Abbiamo allora il caso r (A) = r (Ab) = 2 < 3 (numero delle equazioni) per cui occorre eliminare un’equazione. Eliminiamo la terza e poiché rimaniamo con un sistema di due equazioni in 3 incognite stabiliamo di assegnare valori arbitrari alla terza incognita. Il sistema apparirà ora così

2x1 = 4 – 7x3 3x1 + 3x2 = 3 – 6x3

Assegnando a x3 un valore qualsiasi (ad esempio 2) avremo 2x1 = -10 3x1 + 3x2 = -9 e in termini matriciali

Appendice alle Lezioni 1-2-3

51

−−

=

9

103302

2

1

xx

e risolvendo con la regola di Cramer (o per sostituzione) avremo x1=5; x2=2. Una soluzione del sistema sarà x1=-5; x2=2; x3=2 Altre soluzioni si possono ottenere assegnando altri valori a x3. Osserviamo infine che l’eliminazione della terza equazione, non ha modificato niente. Infatti la soluzione sopra indicata soddisfa anche la terza equazione perché sostituendo si ottiene 2(-5) + 2(2) + 4(2) = 2 Osservando la forma originaria del sistema, d’altra parte si nota subito che la terza equazione è uguale alla seconda moltiplicata per 2/3, per cui le soluzioni dell’una sono le soluzioni dell’altra, e non si modifica niente eliminando una di queste due equazioni. 9. Sistemi lineari omogenei Un sistema lineare si dice omogeneo se tutti i termini noti sono nulli. In simboli a11x1 + a12x2 + …… + a1nxn = 0

a21x1 + a22x2 + …… + a2nxn = 0 ………………………………… am1x1 + am2x2 + …… + amnxn = 0

oppure Ax = 0 Un sistema di questo tipo ammette la soluzione “nulla” x1 = x2 = …..= xn = 0, però quando si parla di soluzione ci si riferisce a soluzioni diverse da quella nulla. Per queste ultime vale il seguente teorema: Condizione necessaria e sufficiente perché un sistema lineare omogeneo ammetta soluzioni non nulle è che il rango di A sia minore del numero delle incognite. Cioè r(A)<n. Questo teorema è direttamente conseguenza del teorema di Rouchè-Capelli. Infatti è vero che il rango delle due matrici

mnmm

n

aaa

aaa

...........................

...

21

11211

0.................................0...

21

11211

mnmm

n

aaa

aaa

Appendice alle Lezioni 1-2-3

52

è uguale. Se r(A) = p allora si sceglie una sottomatrice di A di ordine p con determinante diverso da zero e si forma con i coefficienti di questa sottomatrice un sistema di p equazioni tralasciando (m-p) equazioni. A questo punto si possono avere due casi: a) p=n; b) p<n. Se p=n il sistema ammette una sola soluzione, per il teorema di Cramer, e questa è proprio la soluzione nulla. Se p<n allora ci troviamo di fronte ad un sistema normale che ammette infinite soluzioni potendo assegnare valori arbitrari, e quindi diversi da zero, a n-p incognite per individuare poi il valore delle rimanenti p incognite.

Lezione 4

53

Lezione 4

Obiettivi della politica economica nei PS e PVS

1. Obiettivi di politica economica nei PS Come notato nelle lezioni precedenti la politica economica nei PS può ispirarsi ad un 1.1. Approccio minimalista. Si incentra su interventi correttivi limitati giustificati da motivi di:

- efficienza: tali interventi servono a correggere le distorsioni derivanti dall’assenza di concorrenza perfetta; dal fallimento del mercato (nel caso di ‘beni pubblici’, esternalità, rendimenti di scala crescenti, ecc.); di informazione imperfetta; o dall’instabilità ciclica della crescita (vedi il punto 2.1.). Gli strumenti a disposizione del policy-maker per raggiungere questi obiettivi sono (i) le tasse ed i sussidi, (ii) la produzione pubblica diretta e (iii) la regolazione delle attività dei privati;

- giustizia sociale: in questo caso l’intervento è giustificato dal tentativo di correggere una distribuzione del reddito giudicata ‘socialmente inaccettabile’. Quest’ultimo è un concetto relativo e la tollerabilità sociale della disuguaglianza varia molto da paese a paese, a causa di fattori storico-antropologici; ad esempio è più elevata in società multirazziali e storicamente segmentate come gli Usa ed il Brasile che in società fortemente omogenee e tradizionalmente egalitarie come Finlandia o Costarica. Tale obiettivo viene raggiunto tramite interventi di redistribuzione del reddito e degli attivi che possono avere carattere coercitivo oppure consensuale. 1.2. Approccio interventista. Considera che gli interventi correttivi (vedi sopra) non siano sufficienti e che interventi strutturali si rendano necessari per raggiungere gli obiettivi desiderati. In questo modo, l’opera del policy-maker si concentra sia su obiettivi economici di breve periodo, che sulla crescita ed il cambiamento strutturale e tecnologico di medio e lungo periodo. In quest’ultimo caso, il policy-maker interviene perché si riconosce che il mercato non é in grado di risolvere i problemi strutturali a causa delle indivisibilità degli investimenti, delle asimmetrie informative, dei problemi di coordinamento fra agenti economici, e via di seguito. Questo approccio raccomanda dunque: a) interventi di breve periodo (a stock di risorse produttive e distribuzione del reddito costanti)

miranti alla regolazione dell’economia nel breve periodo ed in particolare: - alla gestione della domanda aggregata e del livello di occupazione della forza lavoro

- al controllo dell’inflazione - all’ equilibrio della bilancia dei pagamenti - all’equilibrio di bilancio e al contenimento del rapporto debito pubblico/PIL b) interventi di lungo periodo (che mirano ad espandere lo stock di risorse produttive, migliorare le

condizioni di vita e, a volte, la distribuzione del reddito) e che si concentrano su obiettivi come: - un rapido sviluppo tecnologico, ecc. - una rapida accumulazione di capitale fisico e umano e altre risorse produttive - una crescita adeguata del PIL/C o dei consumi/C - maggior equilibrio regionale

- il miglioramento delle capabilities, e dello sviluppo umano (come per gli MDGs) Nel perseguimento degli obiettivi di breve termine politica economica generalmente si concentra su:

- una politica fiscale mirante a sostenere – nel rispetto dell’equilibrio macroeconomico - il tasso di crescita del PIL e della occupazione tramite aumenti della domanda aggregata nei periodi di ciclo

Lezione 4

54

debole e una sua riduzione in quelli di surriscaldamento dell’economia. Questi obiettivi vengono generalmente raggiunti aumentando (o riducendo) gli investimenti pubblici e la spesa pubblica corrente grazie ad aumenti (o riduzioni) di salari e sussidi, o tramite una riduzione (o aumento) delle tasse, tutte misure cioè che portano ad un aumento (riduzione) del deficit pubblico. Il semplice modello di politica economica discusso nelle lezioni 1-3 illustra formalmente il problema, calcolando ad esempio l’investimento I* necessario a raggiungere il livello di reddito nazionale desiderato Y* attraverso la relazione I* = Y*(1-b) – a. Come notato, la maggiore spesa per investimenti o consumi pubblici o la detassazione delle famiglie comportano, per definizione, un aumento ex-ante del deficit pubblico che verrà finanziato con una emissione di carta moneta (signoraggio) o di titoli pubblici o facendo ricorso a prestiti internazionali. Ex-post, tuttavia, il livello del deficit in relazione al PIL sarà generalmente inferiore visto che l’aumento della domanda aggregata genera un aumento di produzione e di gettito tributario.

- la politica monetaria. Negli anni recenti, l’efficacia della politica fiscale nella regolazione del ciclo economico è stato messo in dubbio da un numero crescente di economisti. Un’espansione fiscale, infatti, tenderebbe a causare un aumento nell’emissione di titoli di stato il cui piazzamento sul mercato aperto richiederebbe un aumento dei tassi di interesse che ridurrebbe a sua volta sia gli investimenti che i consumi privati, specialmente in paesi con un elevato rapporto debito pubblico/PIL come Italia, Belgio, Grecia, Germania, Giappone, Brasile, Turchia, Filippine e via di seguito. Una politica fiscale espansiva provocherebbe dunque lo spiazzamento degli interessi privati da parte di quelli pubblici, con un effetto negativo sulla crescita economica che compenserebbe l’effetto positivo di stimolo generato dall’aumento della spesa per investimenti pubblici. Inoltre, nei paesi ad alto Debito/PIL, un aumento del tasso di interesse causa un aumento della spesa per interessi sul debito pubblico (che vengono spesso incassati da una ristretta classe di redditieri) e quindi una riduzione della spesa primaria (e cioè la spesa pubblica al netto degli interessi) che generalmente beneficia una fascia più ampia della popolazione. 2. Il contesto della politica economica nei PVS: strutture ed istituzioni incomplete o distorte A questo punto è necessario chiedersi se ed in che misura il contesto della politica economica nei PVS differisca da quello dei PS, e se la modellistica elaborata per il mondo sviluppato possa essere applicata anche ai PVS. Gli economisti di scuola liberista anglosassone ritengono che il paradigma economico di riferimento neoclassico sia unico e che non esiste una disciplina economica ad hoc per i paesi in via di sviluppo distinta da quella per i paesi sviluppati. In caso si ammettano invece differenze, cosa distinguerebbe l’economia tout-court dall’economia dello sviluppo? Una prima differenza potrebbe riguardare il tipo di agenti economici che operano nell’economia (le famiglie, gli imprenditori, considerati individualmente o in gruppi). Una seconda potrebbe riguardare i loro comportamenti (nel campo del consumo, investimento, massimizzazione dell’utilità, ecc.). Una terza differenza riguarda le norme sociali ed istituzioni di mercato che condizionano il comportamento degli agenti economici e che possono portare a risultati diversi che nei PS. Si consideri ad esempio che in certe società africane, il diritto proprietario è di tipo collettivistico, e che esiste l’obbligo di ridistribuire reddito a parenti fino al 7°-8° grado di parentela, meccanismo efficace contro i rischi idiosincratici, ma dalle conseguenze incerte dal punto di vista degli incentivi economici. In India, invece, non esistono mercati (una istituzione per eccellenza) del credito e dell’assicurazione o quando questi esistono, le transazioni che vi si compiono sono interrelate tra loro (anziché indipendenti, come previsto dal modello neoclassico).

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Mentre è assai difficile riscontrare differenze marcate tra PS e PVS (e quindi economia neoclassica ed economia dello sviluppo) per quello che riguarda il tipo di agenti economici ed i loro comportamenti e razionalità, notevoli differenze emergono invece tra PS e PVS per quello che riguarda la situazione strutturale ed istituzionale (vedi il raffronto qui di seguito nella Box 4.1). Differenze in questa area fanno si che le ipotesi alla base del funzionamento del modello positivo neoclassico siano lontane dalla realtà, e che non sempre possano servire al policy-maker per individuare gli obiettivi più urgenti, comprendere i comportamenti razionali degli agenti e identificare adeguati strumenti di politica economica. Pur se assai diverse, le realtà economiche dei PVS sono comunque abbastanza simili tra loro per essere trattate in un limitato numero di paradigmi con caratteristiche comuni. In questi paesi, i principali obiettivi sono quelli dello sviluppo istituzionale e strutturale e del miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni, obiettivi che devono essere perseguiti in maniera non conflittuale con gli interventi correttivi e macroeconomici discussi sopra per i PS. Le principali caratteristiche strutturali dei PVS che le differenziano da quelle dei PS sono:

(i) incompletezza dei mercati (dei beni, fattori di produzione, credito e assicurazione, presenti e futuri). I mercati dei beni finali sono spesso 'thin'. Si pensi ad esempio a gran parte dell’agricoltura africana occidentale, con tanti piccoli contadini privi o quasi di fonti di reddito alternative. In questo caso, gran parte della produzione agricola viene autoconsumata dai produttori e solo una percentuale molto ridotta viene commercializzata. Nel caso di una riduzione anche piccola della produzione totale, la quantità venduta sul mercato si riduce in misura molto più marcata. Questo provoca fluttuazioni molto forti nell’offerta di mercato e nei prezzi dei prodotti agricoli, con possibili effetti di disincentivo sulla produzione negli anni di raccolti abbondanti. Gran parte dei mercati si caratterizzano quindi per un numero limitato di transazioni, per l’instabilità dei prezzi, e per incentivi produttivi mutevoli.

A loro volta, i mercati dei fattori di produzione o del credito sono 'mancanti' (non si può ad esempio ottenere credito causa l’assenza di un settore bancario rurale); 'non competitivi' (e cioè 'interlocking'/interdipendenti, oligopolistici, monopolistici, monopsonistici); senza prezzi di equilibrio (l’equilibrio viene raggiunto tramite razionamento e code); caratterizzati dall’assenza di ‘beni incentivo’ e cioè di beni di consumo cui allocare un aumento del proprio reddito monetario.

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Box 4.1. Confronto tra condizioni nei PVS e ipotesi/conclusioni della teoria neoclassica

TEORIA NEOCLASSICA SITUAZIONE NEI PVS

(i) Ipotesi sulla struttura dell’economia e sul comportamento degli agenti economici

- la distribuzione degli attivi è data e generalmente ha carattere egalitario, e comunque premia il merito

- esiste una forte concentrazione degli attivi (in Asia e in A. Latina, ma non in Africa occidentale) dovuta a fattori storici e norme sociali

- le istituzioni economiche sono date, stabili e non discriminatorie

- le istituzioni economiche sono in continua evoluzione. Si riscontrano frequenti discriminazioni – che tendono ad aver carattere sistematico – nei confronti dell’agricoltura, delle donne, delle minoranze religiose, etniche, delle caste ecc.

- istituzioni che influenzano allocazione delle risorse e crescita ‘soft state’ e mercati (gap istituzionale) famiglia estesa (ha funzioni assicurative di fronte al

rischio idiosincratico, ma cosa possiamo dire a proposito di incentivi?)

‘borghesia compradora’ (avversa al rischio) valori religiosi, come per l”Hindu rate of growth” proprietà collettiva

- esistono tutti i mercati presenti e futuri (per i beni, fattori produttivi, credito, assicurazioni, servizi) e tali mercati sono competitivi

- molti mercati sono ‘thin’, ‘incompleti’, ‘mancanti’, ‘non competitivi’, ‘interlocking’ e mono/oligopolistici/monopsonistici,

- equilibrio domanda e offerta raggiunto anche attraverso il razionamento e le code (indice di disequilibrio).

- mercati mancanti: credito, assicurazione, futures - forte autoconsumo (produzione non scambiata sul mercato) - carenza infrastrutturale e disarticolazione dell’economia

- le imprese massimizzano i profitti ed impiegano i lavoratori fino a quando la loro produttività marginale (Π) uguaglia il tasso di salario (w)

- spesso si osserva invece che Π< w

- gli individui massimizzano la loro utilità personale - il soggetto massimizzante (quello che prende le decisioni allocative) è spesso la famiglia estesa o il gruppo

- esiste una gamma infinita di tecnologie (combinazioni produttive)

- gli isoquanti sono discontinui - esiste un forte dualismo tecnologico

- non esistono esternalità - esistono importanti esternalità (positive e negative) nella produzione e nel consumo

- i rendimenti di scala sono costanti - esistono molti esempi di rendimenti di scala crescenti e decrescenti

(ii) Risultati attesi

- esiste un insieme di ‘prezzi di equilibrio’ per tutti i beni e fattori che equilibra tutti i mercati e impiega tutti i fattori produttivi

- l’insieme dei ‘prezzi di equilibrio’ non esiste: lavoro, terra e capitale industriale sono sottoutilizzati

- i ‘prezzi di equilibrio’ sono efficienti perché riflettono le scarsità relative e riflettono l’ottimo paretiano

- i prezzi di mercato sono spesso distorti in quanto frutto di varie rigidità o di istituzioni di mercato incomplete. L’offerta è inelastica rispetto al prezzo, la domanda è debole e differenziata

- poiché i prezzi di equilibrio conducono all’ottimo paretiano, ogni intervento statale è distorcente

- l’intervento pubblico è necessario per egalizzare le opportunità, creare i mercati mancanti e correggere i fallimenti del mercato

- prezzi dei fattori sono uguali alla loro produttività marginale

- i prezzi dei fattori dipendono anche dalle distorsioni dei mercati e norme sociali

- senza intervento pubblico i prezzi dei fattori (e la distribuzione degli attivi) determinano la distribuzione interpersonale

- la distribuzione interpersonale non riflette solo ed esclusivamente il merito, ma opportunità e norme sociali

- i paesi si specializzano nel commercio di beni per i quali godono di un vantaggio comparato

- storia e geografia determinano una specializzazione internazionale di tipo coloniale con esportazioni a bassa elasticità della domanda rispetto ai redditi e importazioni con alta elasticità della domanda rispetto ai redditi e bassa elasticità rispetto ai prezzi.

- le ragioni di scambio sono fluttuanti e in declino - i prezzi relativi tra settori determinano l’ottimo mix

settoriale. Le politiche industriali sono distorsive. - L’output-mix riflette gli squilibri tra prezzi e path

dependence. Le politiche industriali possono correggere tale situazione.

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Il mercato del lavoro, ad esempio, è caratterizzato da un eccesso cronico di offerta del lavoro (prodotta dalle dinamiche demografiche del passato). Il mercato dei capitali è ridotto, il sistema creditizio è poco sviluppato ed è dualistico e quanto maggiori sono le segmentazioni, minori sono le possibilità di ottimizzazione globale. Il settore bancario è presente solo nelle aree urbane ed è spesso soggetto a ‘repressione finanziaria’. Il settore creditizio formale incontra difficoltà ad aumentare la raccolta di capitali ed è soggetto al problema della selezione avversa, presta denaro cioè ad agenti che accettano di pagare tassi di interesse più alti, anche se i loro progetti sono più rischiosi (caratteristica questa non nota alla banca). Per proteggersi contro questa asimmetria informativa, le banche richiedono allora beni in garanzia, fatto questo che esclude dal prestito bancario i poveri che non hanno attivi (immobili, terre, titoli) o fideiussioni da offrire in garanzia. Il settore informale (money lenders) si caratterizza per minori asimmetrie informative (opera a livello locale, conosce da tempo i prestatari e può valutare più agevolmente delle banche la loro solvibilità), bassi costi di transazione, la breve durata dei crediti che concede e gli alti tassi di interesse che pratica. Infine, il microcredito offre denaro in maniera informale ma a tassi meno alti del settore informale grazie a vari tipi di ‘innovazione finanziaria’ (come i prestiti di gruppo, o le storie creditizie) che permettono alle banche di prestare anche in assenza di garanzie reali. Un programma di microcredito di successo che viene spesso citato è quello della “Grameen Bank” del Bangladesh8. Gran parte dei mercati non sono competitivi. I meccanismi di formazione dei prezzi sono spesso condizionati da condizionamenti incrociati. Nei paesi socialisti l’equilibrio tra domanda e offerta nei vari mercati, ad esempio, non avvenivano attraverso l’aggiustamento dei prezzi ma attraverso razionamenti dei beni e le code per poter accedere ad una offerta limitata. Un altro caso deviante di formazione dei prezzi è quello in cui mancano i cosiddetti ‘beni incentivo’. In Tanzania ad esempio il governo applicava prezzi di supporto molto bassi per i prodotti agricoli. A causa dei bassi prezzi pagati dal governo, i contadini reagivano producendo poco e generando quindi un eccedente alimentare modesto per rifornire i mercati urbani. Per ovviare a tale problema, il governo tanzaniano ha aumentato i prezzi di raccolta dei prodotti agricoli, ma allo stesso tempo non ha aumentato l’offerta dei ‘beni incentivo’ (beni di consumo manifatturati come biciclette, candele, radio, vasellame, ecc.) nelle campagne. In una situazione di questo tipo, un aumento del prezzo di raccolta dei prodotti agricoli fa sì che la stessa quantità di beni incentivo possa essere comprata con la vendita di una minore quantità di prodotti agricoli. I contadini quindi hanno reagito razionalmente producendo di meno e riposandosi di più, aumentando in questo modo il proprio benessere - che dipende sia dalla quantità di beni incentivo consumati che dal tempo di riposo. I risultati sono stati quindi opposti a quelli attesi dal governo tanzaniano.

(ii) un’offerta inadeguata di beni pubblici, compresi i beni ad utilizzo collettivo. Tra i beni pubblici più carenti si ha l’infrastruttura pubblica (strade, porti, sistemi di comunicazione, mercati, ecc.) la cui distribuzione rispecchia spesso le passate esigenze ‘coloniali’ (collegamenti dalle piantagioni o dalle miniere verso i porti). I collegamenti interni sono spesso praticamente inesistenti. Una infrastruttura inadeguata frena la crescita perché innalza i costi di trasporto e i contatti tra le imprese e riduce la mobilità del lavoro. Un miglioramento dell’efficienza del settore privato dipende dunque da un aumento degli investimenti pubblici o dall’azione di governo mirante a far sì che tale infrastruttura venga creata. 8 Nella Banca Rurale (Grameen Bank) del Bangladesh, fondata dall’economista M. Yunus, i contadini poveri (prevalentemente donne) di migliaia di villaggi sono organizzati in gruppi che si riuniscono periodicamente alla presenza degli agenti della banca, versano somme di denaro al fondo del gruppo, dal quale possono prendere a prestito risorse soltanto dopo che hanno effettuato un certo numero di depositi. I prestiti sono rimborsabili in piccole rate, mentre i tassi di interesse sono relativamente bassi.

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(iii) una forte concentrazione del reddito e degli attivi (terra). Questo è un fenomeno marcato in Asia del Sud (dove troviamo gli zamindari), America Latina (dove troviamo il latifondo) e Africa Orientale (dove, in paesi come il Kenya, vi sono ancora numerosi ‘white settlers’ che gestiscono piantagioni) ma non molto in Africa Occidentale (dove prevale la piccola proprietà contadina). Una forte concentrazione della terra e degli altri attivi deriva quasi sempre da fattori storici o da norme sociali ed è quasi sempre, specie nelle economie con eccesso di offerta di lavoro, un freno alla crescita economica e al miglioramento delle condizioni sociali. Una forte concentrazione della terra si accompagna ad una sua limitata utilizzazione e a tassi di crescita, risparmio e accumulazione insoddisfacenti, (iv) istituzioni incomplete ed in evoluzione continua. Con il termine ‘istituzioni’ si può far riferimento a tre cose:

1) i sistemi legali o, più in generale, gli insiemi di norme formali (tratte da leggi nazionali, regolamenti o giurisprudenza) che regolano la vita economica. Tra queste, le più importanti sono quelle che regolano il diritto di proprietà, i contratti di compravendita, affitto, la bancarotta, il sistema bancario, la borsa, ecc.

2) le organizzazioni, ad esempio l’amministrazione pubblica che deve far applicare le norme di cui sopra. Un’amministrazione statale efficiente, semplice, non corrotta e motivata (come quella d’ispirazione Confuciana della Corea del Sud o di Taiwan) che applica con tempestività e rigore la legislazione economica e d’altro tipo rappresenta un forte vantaggio per i PVS. Questo non è però sempre il caso e spesso nei PVS ci si trova di fronte uno 'soft state'. Il policy-maker deve dunque mirare a rafforzare tale organizzazioni al fine di migliorare, ancora una volta, efficienza privata e benessere collettivo.

3) l’applicazione della normativa legale da parte delle organizzazioni viene però influenzata dalle ‘norme informali’ e cioè il sistema di valori che prevale in un paese ad un certo momento e che può essere in contraddizione con le ‘norme formali’. In vari PVS (e PS!) le norme informali spesso discriminano, di fatto, contro le donne, i bambini, certi gruppi etnici o religiosi anche se, di diritto, tali comportamenti sono illegali. La tolleranza per la corruzione e differenze nello spirito di servizio da parte dei funzionari pubblici variano anch’essi in modo marcato. Di fatto norme sociali ispirate alla non discriminazione e cooperazione e buona amministrazione riducono il ‘costo di transazione’ che le imprese sostengono per far applicare i contratti.

(v) una forte crescita della popolazione e una sua bassa ‘qualità’ dovuta a malattia diffusa, malnutrizione cronica, analfabetismo, formazione tecnica insufficiente. Nel breve periodo, una forte crescita della popolazione è quasi sempre accompagnata anche da alti tassi di fecondità e mortalità (specie tra i bambini) anche se, nel lungo periodo, la mortalità infantile tende generalmente a decrescere anche in PVS ad alta crescita demografica. Nel 1798 appare il famoso saggio in cui l’abate Malthus sostiene che la dinamica della popolazione (che cresce in progressione geometrica) e quella dell’economia (che cresce in progressione aritmetica) diventano presto incompatibili e che dunque l’equilibrio tra risorse naturali e popolazione viene ristabilito attraverso mutamenti negativi (carestie, guerre, ecc.) o virtuosi (es. ritardo del matrimonio e di conseguenza una riduzione della natalità, o un aumento della produttività dei suoli). Il modello esplicativo malthusiano, che di fatto cessa di essere valido proprio nel periodo storico in cui viene enunciato, non riesce però a spiegare la storia demografica ed economica degli ultimi due secoli, che ha visto realizzarsi una crescita impressionante della popolazione e allo stesso tempo un

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declino della mortalità. Nella seconda parte del XX secolo alcuni elementi della sua spiegazione sono stati ripresi da alcuni autori (i cosiddetti neo-malthusiani) che si sono preoccupati delle conseguenze ambientali della crescita della popolazione e dei consumi di risorse non rinnovabili (vedi ad esempio i modelli elaborati dal Club di Roma o dal WorldWatch Institute di Lester Brown). Come nel caso Malthusiano, questi modelli non includono nella loro struttura i prezzi dei beni le cui scarsità aumenta (e che danno luogo a mutamenti tecnologici e ricerca di nuove fonti energetiche ed altri materiali) e le loro previsioni, in ogni caso, sono state quasi sempre disattese dalla realtà. Tutto ciò non vuol dire che una forte crescita della popolazione non comporti problemi ed infatti una sua forte crescita tende ad accompagnarsi ad una sua minore ‘qualità’ e da un possibile peggioramento dell’ambiente. I paesi africani si trovano ancora in una fase espansiva della loro demografia, con tassi di crescita compresi tra il 2 e il 3% annuo. La demografia (salvo alcune eccezioni) si muove molto lentamente per via di una certa inerzia presente nelle strutture della popolazione. Il tasso di natalità dipende infatti sia dal tasso di fecondità (il numero medio di figli per donna), sia dal numero di donne in età feconda, per cui anche se diminuisce il numero dei figli messi al mondo da ogni donna, se vi sono ancora molte donne in età feconda, il numero dei nuovi nati continuerà ad essere elevato. In questi ed altri paesi dunque una forte crescita demografica comporta:

- una forte pressione sui servizi collettivi, ed in particolare un forte aumento della domanda di servizi di base rivolti a bambini e giovani (fatto questo che crea problemi di finanziamento o che riduce la qualità dei servizi).

- forte inurbamento e di conseguenza congestione urbana (come mostrato dal caso delle ‘megacities’ in sviluppo dei PVS), inquinamento, aumento dei costi di trasporto, problemi d’approvvigionamento dell’acqua, ecc.

- una depressione del salario reale di medio termine, quando cioè – dopo 15 anni dalla nascita – i nuovi nati entrano nel mercato del lavoro degli operai non qualificati (che come abbiamo visto si caratterizza per un eccesso di offerta). Questo modifica la distribuzione del reddito a sfavore delle classi meno abbienti, fatto che si acuisce se il mercato del lavoro è segmentato.

- peggioramento dell’ambiente (erosione dei suoli e delle falde acquifere, laterizzazione dei suoli, ed inquinamento dell’aria).

Il policy-maker deve dunque cercare da un lato di moderare la crescita della popolazione e dall’altro di migliorarne la qualità. (vi) scarsa capacità di risparmio e accumulazione di capitale, fatto questo che influisce sulla stabilità di tali sistemi economici e sulla formazione di ‘trappole di povertà ad un basso livello di equilibrio', dato che la crescita dello stock di capitale è minore della crescita della forza lavoro e questo riduce il capitale per addetto e il PIL/C. 3. Obiettivi di politica economica nei PVS Dalla sezione appena conclusa emerge chiaramente che la politica economica di un PVS deve mirare a raggiungere un numero maggiore di obiettivi che nei PS. Il policy-maker avrà l’obbligo di intervenire per rispondere alle inefficienze standard previste dal modello teorico tradizionale, ma anche affrontare i problemi non rilevati dal modello teorico standard e che invece caratterizzano la realtà dei PVS. Le distorsioni strutturali, e risultati di mercato sub-ottimali discusse in precedenza inficiano infatti le conclusioni del primo teorema fondamentale dell’economia del benessere, e cioè che il libero mercato porta automaticamente ad un equilibrio complessivo che è un ottimo paretiano. Il policy-maker deve dunque adottare una maggiore gamma di obiettivi. Può soddisfarli tutti simultaneamente? e, in caso negativo, quali perseguire per primi?

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3.1. obiettivi di breve periodo: (non troppo diversi da quelli di un PS) e cioè interventi correttivi e di stabilità macroeconomia

- equilibrio esterno - mantenere il livello di inflazione ad un livello accettabile (vista la storia del paese) - mantenere livelli di utilizzo degli impianti e crescita socialmente accettabili (specie nelle

regioni e nei settori dominati dalla sua base politica) 3.2. obiettivi di lungo periodo: obiettivi tipici del policy-maker (identificati da Taylor sulla base di 18 studi di caso nazionali nei PVS):

- innalzamento sostenuto del PIL/C o consumo/c medio (allocazione intertemporale del

consumo?), in alcuni casi da livelli medi inferiori al livello di sussistenza, - alterare la distribuzione del reddito data la propria ideologia e i vincoli politici, - sviluppo strutturale e crescita economica, - ottemperare alla carenza di beni pubblici e di beni infrastrutturali tramite la costruzione

dello stato e dell’infrastruttura collettiva, - stimolare lo sviluppo istituzionale (‘regole del gioco’ e mercato efficiente) - obiettivi sociali ora dominanti (approvati in conferenze internazionali dell'ONU)

- riduzione della metà dell'incidenza della povertà (fra 1990 e 2015), - migliorare la qualità della popolazione e lo sviluppo sociale (‘gli MDGs e le 7 promesse’)

– e cioè obiettivi sociali che la comunità internazionale ha fatto propri in seguito a varie conferenze internazionali delle Nazioni Unite:

1) istruzione elementare universale (entro l'anno 2015), 2) eguaglianza di genere nelle scuole elementari/secondarie(entro 2005) 3) IMR-U5MR-MMR ridotti di 2/3 e ¾ (fra 1990 e 2015) 4) accesso universale ai servizi sanitari (entro il 2015),

5) sviluppo di strategie nazionali per l'ambiente (entro il 2005) per fermare la perdita di risorse ambientali entro il 2015

- un altro obiettivo del policy-maker difficilmente inquadrabile nel modello di base è quello della costruzione o rafforzamento dello stato (obiettivo questo tipico della fase susseguente la decolonizzazione ma tuttora non raggiunto in molti PVS )

Quando la gamma degli obiettivi si allunga in maniera così vistosa si pone il problema della coerenza tra obiettivi di breve periodo e di lungo periodo e gruppi di obiettivi di breve e di lungo periodo. Spesso infatti esistono trade-offs tra obiettivi. Ad esempio, il raggiungimento di un livello di inflazione molto basso spesso comporta politiche fiscali assai restrittive che impediscono quindi il raggiungimento di obiettivi sociali (vedi l’esempio fornito nelle lezioni 1-3).

3.3. Obiettivi economici e sociali. Da un punto di vista formale, l’introduzione di obiettivi strutturali, istituzionali o sociali richiede la specificazione di un modello economico positivo in cui anche queste variabili vengano specificate come dipendenti (anche) da fenomeni economici e strumenti di politica economica

Per esempio, l’Unicef e la Banca Mondiale hanno condotto un lavoro notevole nella stima di modelli monoequazionali sulle determinanti del tasso di mortalità infantile, TMI, (variabile obiettivo) cercando di introdurre in tale equazione variabili economiche (RF = reddito famiglie), demografiche (TF = tasso fertilità) e sociali (TAF = tasso alfabetizzazione femminile), interventi

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sanitari (TV = tasso di vaccinazione, SRO = sali di ri-idratazione orale) sia endogene che ambientali (CA = contaminazioni ambientali).

TMI t = a - b TAF t-1 - cRF t - d TV - e SRO + f TF + h CA

Ad esempio, Cornia e Zagonari (2002) hanno costruito e stimato un modello monoequazionale del tasso di mortalità dei bambini di meno di cinque anni (U5MR) in paesi con una forte incidenza dell’AIDS. Tale modello comprende the le variabili esplicative (i) la prevalenza del virus HIV-AIDS tra gli adulti (HIV), il tipo di virus, se HIV1 o il più letale HIV2 (DUMMY HIV2); (ii) PIL/c, alfabetizzazione femminile (FL), accesso all’acqua (WS), (iii) accesso a programmi sanitari per i bambini come parto ospedaliero (DC), vaccinazione (IMM), reidratazione orale (ORT) e allattamento al seno (BF), (iv) l’impatto di conflitti e disastri (CONF); (v) la carenza di inchieste recenti sulla mortalità (NOSURVEY), che porta a sottostimare U5MR. Il modello prende questa forma (i segni delle derivate parziali sono indicate sopra ogni variabile): + + - - - - - - - + + U5MR = f {(HIV, DUMMY HIV2), (PIL/c, FL, WS), (DC, IMM, ORT, BF), (CONF), (NOSURVEY)} in cui appaiono sei variabili strumentali. L’analisi di regressione, eseguita su un panel of 200 osservazioni riguardanti 40 paesi con prevalenza dell’HIV maggiore dell’ 1 percento per gli anni 1980, 85, 90, 95 e 2000, conferma l’impatto su U5MR di alfabetizzazione femminile, accesso ad acqua potabile, programmi sanitari, PIL/c e disastri. Mostra anche il forte impatto di un alta prevalenza del virus HIV tra gli adulti. I risultati di tale analisi di regressione mostrano (vedi tabella) che un aumento del 10% nell’incidenza del virus HIV tra gli adulti annulla quasi completamente l’effetto di un miglioramento del 10% nelle variabili (alcune controllate dal policy- maker) che riducono la mortalità infantile. Come si può vedere la somma dei parametri della colonna di destra supera di poco il coefficiente di HIV, 19.29.

Impatto su U5MR di una variazione del 10% nelle variabili seguenti

Impatto su U5MR di un aumento del 10% nella prevalenza dell’ HIV tra gli adulti , o della presenza di conflitti o

del virus HIV2

Impatto su U5MR di un aumento del 10% nelle variabili seguenti

HIVrate 19.29 GDP/C - 0.09 CONF 15.50 FEM. ILL. - 11.00 HIV2 13.11* DPT -5.76

WATER -2.64 FIL -9,9453 DC -5.44

ORT -0,22 * BF 0-3 -2.63

Fonte: Cornia e Zagonari (2002). In questa stima, la variabile NOSURVEY è stata ignorata. Esempi di modelli multiequazionali di questo tipo sono i ‘Basic Needs Models’ sviluppati negli anni Settanta e Ottanta dall’ Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO) per paesi come Filippine, Kenya, Brasile, Ecuador, Colombia, ecc. Questi modelli di medio termine si articolano in 3-4 sotto-modelli molto integrati al loro interno e invece legati tra loro da un numero limitato di relazioni (vedi caso del modello Bachue Filippine dell’ILO presentato in forma di diagrammi di flusso qui di seguito). Modelli come BACHUE-Filippine (vedi grafico 4.1) comprendono dunque:

- un sotto-modello economico multisettoriale in cui si specificano equazioni di offerta (funzioni di produzione), domanda (consumo privato, importazioni, esportazioni, investimenti, spesa pubblica), e le solite identità contabili;

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- un sottomodello mercato del lavoro e distribuzione del reddito in cui si specificano funzioni di offerta di lavoro (che dipende da tasso di salario, popolazione in età lavorativa , facilità d’accesso al lavoro, tipi di occupazioni disponibili, costo di opportunità del tempo), domanda di lavoro dualistica (nel ‘settore formale’ il livello del salario è importante mentre in quello ‘informale’ la domanda di lavoro è determinata dall’offerta – nei PVS la disoccupazione volontaria non esiste), e distribuzione del reddito delle famiglie (che dipende dal settore di occupazione dei lavoratori, e dal numero di persone che lavorano in ogni famiglia);

- un sottomodello demografico e di sviluppo sociale che tratta la popolazione in maniera disaggregata (per genere, età, località) che include funzioni di istruzione (tasso di scolarizzazione primaria, TSP, e secondaria che dipendono dai livelli precedenti di scolarizzazione, TSP t-1), dalla spesa pubblica corrente in tale campo (SPI), redditi delle famiglie e loro distribuzione (RF e DS), e ‘user fees’(UFE); fecondità (TF) che dipende dal tasso di alfabetizzazione femminile (TAF), dalla partecipazione delle donne fertili nella forza lavoro (TPFLF), occupazione femminile in agricoltura (TOFA)) e dalla spesa pubblica in population planning (PPN); mortalità (infantile, TMI, o complessiva) che è funzione del livello di istruzione delle donne (TAF), redditi delle famiglie (RF), spesa sanitaria pubblica (SPS) e ‘user fees’ (USF) nel settore sanitario. In maniera molto schematica, questo sotto-modello potrebbe essere scritto in forma strutturale come segue:

TSP t = a + b TSP t-1 + c SPI t – d UFE t + e RF t – f DS t TF t = g - h TAF t-1 - i TPFLF t + l TOFA t - m PPN t TMI t = n - o TAF t-1 - p RF t – q DS t - r SPS t - s UFS t + t TF t

dove in neretto abbiamo indicato le variabili strumentali, in corsivo le variabili economiche endogene al sistema. Il resto è composto da variabili date (DS, TAF), endogene (le tre variabili a sinistra) o endogene ritardate (TSP t-1)

Grafico 4.1. Principali relazioni del modello BACHUE-Philippines1

Matrice /

IstruzioneNascite

Popolazione

Produzione pianificata/restrizione investimenti

Capitale

Domanda di lavoro

Occupazione

Offerta di lavoro

Salario e altre forme di reddito

Migrazione

Valore aggiunto

Domanda finale

Mortalità

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1 L’intervento del governo non è mostrata in questo diagramma perché appare quasi ovunque e avrebbe reso il grafico sovraffollata. Altre interazioni dettagliate sono state tralasciate perché distanti dall’obiettivo del diagramma, così come il tempo non viene esplicitamente mostrato. Fonte: G. Hopkins, Wery, R: “Bachue Philippines. Population, Employment and Inequality”. Farnborough, 1978 - Una volta costruito il modello e analizzate le interazioni tra variabili, il policy-maker deve individuare le variabili strumentali. Le variabili demografiche, ma anche i redditi, che abbiamo presentato nella nostra bozza di modello non sono controllabili, mentre l’educazione femminile (in buona parte) e la copertura dei servizi sanitari sono sotto il controllo del policy-maker. L’efficacia dei due strumenti è assai diversa. Benché sia accertato che l’istruzione della madre (l’istruzione femminile) sia il fattore di gran lunga più importante che spiega la riduzione della mortalità infantile, questa (una variabile stock) si sposta con maggiore lentezza rispetto alla copertura dei servizi sanitari, per cui i risultati degli investimenti in istruzione richiedono molto più tempo a manifestarsi. - la soluzione di un modello di politica economica di questo tipo può essere molto complessa a meno che la matrice che mette in relazione gli obiettivi (economici, del mercato del lavoro, sociali) sia, grosso modo, ricursiva a blocchi (vedi lezione 1-2-3) della forma cioè:

y1 y2 y3 y4 y5 y6 equazione 1 (valore strumento economico) x1 = * * * equazione 2 (valore strumento economico) x2 = * * equazione 3 (valore strumento del lavoro) x3 = * * * equazione 4 (valore strumento del lavoro) x4 = * * equazione 5 (valore strumento sociale) x5 = * * equazione 6 (valore strumento sociale) x6 = * * *

- la soluzione di questo problema di politica economica richiede dunque che:

- esista un modello economico-demografico-sociale che descriva realisticamente le relazioni fra questi gruppi di variabili (questi modelli integrati sono caduti un po’ in disuso – necessario riabilitarli – vista la nuova enfasi su obiettivi sociali) - tale modello specifichi in maniera chiara l’influenza del maggior numero di vincoli istituzionali e sociali che operano nei PVS (vedi lezione 3) - la matrice dei parametri in forma ridotta che lega strumenti e obiettivi sia - grosso modo - della forma descritta sopra - agli strumenti d’intervento che mirano soprattutto a targets economici si accompagnino anche strumenti di politica economica che mirino in particolare al raggiungimento di targets sociali (se questi sono abbastanza indipendenti da quelli economici) - qualora non esistesse indipendenza fra obiettivi economici e sociali, agli obiettivi economici e sociali vengano attribuiti pesi trasparenti e tali da riflettere in maniera adeguata le nuove preferenze collettive.

In molti casi si hanno infatti trade-offs tra obiettivi sociali (riduzione della mortalità infantile) ed economici (mantenere il deficit di bilancio al di sotto di un tetto accettabile).

Lezione 5

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Lezione 5

Attori della politica economica nei PS e PVS

5.1 Gli attori della politica economica e la critica di Lucas Nelle lezioni precedenti, si è presentato un approccio alla politica economica in cui un policy maker nazionale tenta di raggiungere dati obiettivi (fissati da lui stesso o dalla collettività) attraverso la manipolazione di alcuni strumenti di politica economica. In tale approccio, gli agenti economici (come consumatori, investitori e imprenditori) sono solo ricettori di tali politiche, nel senso che non modificano i loro comportamenti di fronte al nuovo quadro economico che queste creano. Tale approccio è stato fortemente criticato da Robert Lucas in suo famoso articolo del 1976. Secondo tale autore, fondatore della scuola delle ‘aspettative razionali’, gli individui utilizzano tutte le informazioni a loro disposizione e le elaborano in modo ottimale, senza commettere errori sistematici, al fine di decidere quale comportamento intraprendere. Questo vale anche nel caso di situazioni in cui il policy-maker introduce nuove misure di politica economica che stima produrranno certi risultati, dati i comportamenti di consumo, investimento, ecc. degli agenti osservati in passato. Tuttavia, di fronte all’introduzione delle nuove misure tali agenti potrebbero, ove lo reputino conveniente, modificare i loro comportamenti, neutralizzando così in toto o in parte l’effetto della politica economica. In questo modello, i destinatari della politica economica possono dunque neutralizzare quelle misure di politica economica che ritengono contrarie al loro interesse. Questo implica che le politiche economiche non possono fondare la loro efficacia sulla sistematica incomprensione dei loro effetti da parte degli agenti, e che è meglio presumere che questi si rendono conto assai rapidamente del modo in cui opera una determinata politica.. Un esempio recente di tale situazione è dato dal fallimento della politica economica espansiva seguita in Giappone negli anni 90. All’inizio di tale periodo le banche avevano prestato ingenti quantità di denaro ad imprese che speculavano nel settore immobiliare. Quando la bolla speculativa immobiliare scoppiò, le banche si ritrovarono con portafogli pieni di crediti in sofferenza, spesso inesigibili, mentre l’economia era entrata in recessione. Di fronte al perdurare della recessione, il governo giapponese tentò di aumentare il reddito nazionale Y innalzando la spesa pubblica di ∆G. Dato il modello (qui semplificato) di formazione del reddito Y = 200 + 3 G, in cui il livello di reddito nazionale dipende dalla spesa pubblica G e dal famoso moltiplicatore keynesiano c/(1-c), e dato che la propensione marginale al consumo di c in quegli anni era pari a 0.75, ne segue che c/(1-c)=3. Se i consumatori avessero mantenuto i loro comportamenti passati (se cioè c = 0.75 fosse rimasto costante), tale manovra avrebbe provocato un aumento di reddito Y pari a 3∆G. Ma, timorosi di un crack bancario che li avrebbe impoveriti in un futuro vicino, i consumatori giapponesi ridussero la loro propensione al consumo c da 0.75 a 0.66, aumentando i loro risparmi precauzionali, provocando in questo modo una caduta di c/(1-c) da 3 a 2. Questo mutamento di comportamento di fatto compensò l’effetto dell’aumento di G, lasciando dunque più o meno inalterato il reddito nazionale Y, frustrando la politica economica del governo, ma aumentando il risparmio finanziario delle famiglie (obiettivo di queste ultime ma non del governo). Per vari anni, il tentativo di far salire il reddito nazionale con politiche di stimolo alla spesa pubblica non portò dunque nessun risultato. Una conclusione importante dell’approccio di Lucas è che la politica economica influisce sì sulle variabili obiettivo, ma in un modo che non può essere previsto sulla base dei comportamenti passati degli agenti riflessi nei modelli econometrici. In casi estremi, come nel caso della politica monetaria, Lucas predice che le reazioni strategiche degli agenti rendono completamente inefficaci variazioni attese nella qualità di moneta. Solo variazioni inattese della sua quantità influenzano il livello di produzione.

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Bisogna dunque tener conto dell’interazione strategica tra le decisioni del policy-maker e le reazioni degli agenti economici. Ignorarla non permetterebbe sempre di raggiungere gli obiettivi di politica economica che il policy-maker si è preposto. Le conclusioni di Lucas vanno però oltre quello che sembra ragionevole. Secondo tale autore, vista l’impossibilità di prevedere esattamente i risultati della politica economica, è meglio che il policy-maker si astenga dall’intervenire nell’economia. Le previsioni di Lucas sono state testate empiricamente ed i risultati dimostrano che sia le variazioni sia attese che inattese della quantità di moneta influenzano il livello dell’output, negando quindi la tesi dell’inefficacia della politica monetaria, o economica in senso lato. Una conclusione più utile – che tiene conto della possibile interazione strategica tra comportamenti degli agenti e del policy-maker – è che quest’ultimo deve tener conto nella sua azione di politica economica dei possibili mutamenti di comportamento degli agenti in un quadro economico modificato dalle misure di politica economica introdotte. 5.2 Attori pubblici della politica economica nei paesi sviluppati Una volta analizzata l’approccio alla politica economica che tiene conto dell’interazione strategica fra policy-makers ed agenti, esaminiamo gli attori tradizionali della politica economica nei paesi sviluppati. Questi sono:

- Lo stato (governo, parlamento e Banca Centrale) - Gli enti locali (regione, provincia, ecc.) - Le imprese pubbliche - Le istituzioni sovra-nazionali (Banca Centrale Europea)

Il policy-maker per eccellenza è il governo e lo strumento principe della sua azione è la legge di bilancio, che viene elaborata dall’esecutivo e approvata dal parlamento, con il contributo e, a volte, l’accordo implicito della Banca Centrale (BC), altro grande attore della politica economica il cui principale strumento è la politica monetaria. Le relazioni tra Banca Centrale e Governo possono essere le più diverse: ad esempio, la Bundesbank e, in buona misura, la Banca d’Italia hanno personificato il modello di una BC completamente indipendente dal Governo, mentre la Banca d’Inghilterra lo era molto meno. La tendenza dominante al momento è quella verso BC completamente indipendenti dal potere politico (vedi BCE). Il ruolo degli enti locali nella politica economica varia molto da paese a paese. Di solito, la divisione delle competenze fra centro e periferia non è mai netta. Nella suddivisione delle competenze, si incontra il problema della molteplicità degli obiettivi (che a volte possono non essere convergenti) e degli strumenti usati dai vari livelli di policy makers. Come distinguere gli attori privati da quelli pubblici (policy-makers)? Si può far affidamento su tre criteri, che devono a volte essere utilizzati in maniera congiunta, e cioè: - la proprietà mezzi di produzione. Ma… cosa possiamo dire delle imprese parastatali, o di quelle in cui lo stato detiene la ‘golden share’, o delle grandi imprese private che ricevono forti sussidi pubblici (come nel caso dello stabilimento FIAT a Melfi)? - controllo giuridico cui sono sottoposti tali agenti economici, - origine dei mezzi a disposizione,

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5.3 Gerarchia, sussidiarietà e conflitti fra obiettivi di livelli diversi di governo La scala ottimale di fornitura di un servizio o di realizzazione di un intervento pubblico varia a seconda dal servizio e del tipo di intervento. In generale, si può sostenere che l’ambito territoriale al cui livello prendere decisioni di politica economica e fornire servizi deve coincidere con quello che ottimizza l’efficienza dell’intervento. Questo significa che un certo numero di decisioni (quelle che producono effetti solo a livello locale) devono essere prese a livello locale, dati i vincoli posti dalla autorità centrale.

Gli obiettivi della politica economica devono dunque essere formulati a livelli territoriali differenti. I beni pubblici locali (trasporto urbano o provinciale) devono essere prodotti a livello locale, mentre quelli nazionali a livello nazionale (sicurezza nazionale, stabilità monetaria), e quelli globali (un ambiente non inquinato) a livello globale. L’accettazione di questo principio porta dunque al decentramento delle decisioni (o devolution) relative alla fornitura dei beni pubblici locali dallo stato centrale agli enti locali. Tale decentramento riguarda non solo il potere decisionale ma anche le relative risorse (spesa pubblica, potere di regolazione) ed, in misura minore, del potere di tassazione. Non vi è dubbio che – almeno dal punto di vista teorico – la decentralizzazione degli interventi è auspicabile a causa dei vantaggi informativi di cui dispone il policy-maker locale, che è maggiormente in contatto con i destinatari dei servizi pubblici; dei maggiori incentivi che lo spingono a ben operare vista la maggiore monitorabilità e osservabilità dei suoi interventi locali rispetto a quelli del policy-maker centrale e visto – nelle democrazie – il desiderio di farsi rieleggere del policy-maker (questo vale meno per il policy-maker nazionale che viene spesso rieletto sulla base di argomenti più ideologici; della possibilità di aggregare le comunità alla formulazione degli obiettivi e alla esecuzione dei progetti; e della possibilità di ottenere in questo caso contributi dai cittadini per la realizzazione dei progetti. Tale devolution può portare però ad una certa divergenza tra regioni povere e ricche e deve essere accompagnata dunque da trasferimenti compensativi dalle regioni ricche a quelle povere Tale soluzione razionale viene però spesso complicata da fattori politici. Spesso infatti gli obiettivi dei policy-makers del centro e della periferia non coincidono, o perché le loro FBS riflettono differenze nelle ideologie politiche di riferimento (ad esempio, socialdemocratica verso liberista) o perché, anche quando le ideologie economiche e politiche sono analoghe, le percezioni sulle priorità di spesa e di regolazione sono assai diverse9. Da questo, il rischio di possibili discordanze e conflitto fra gli obiettivi del centro e quelli degli enti locali, con tutti gli attriti, ritardi e inefficienze che ciò comporta.

Dal punto di vista teorico, la formulazione della politica economica in un contesto caratterizzato dal una divisione del lavoro fra vari livelli di governo si avvale dei meccanismi e delle tecniche del multi-level planning (m-l-p) che aiutano a trovare una soluzione coerente a tale problema di politica economica. Tuttavia, come notato, nella realtà ogni livello di governo (centrale, regionale e locale) ha i propri obiettivi e deve fare i conti con un suo sistema di incentivi politici (lobbies diverse da soddisfare), che non sono necessariamente coerenti con quelli degli altri livelli di governo, per cui si pone il problema della coerenza della politica economica complessiva. Due possibili soluzioni ‘razionali’ del m-l-p sono immaginabili:

- soluzione gerarchica in cui i risultati del modello nazionale vengono poi introdotti come dati (inputs) nel modello regionale o provinciale. Questo ultimo tipo di modellizzazione presuppone un contesto in cui il livello superiore di governo influenza il livello inferiore, ma non viceversa (assume cioè una struttura dei coefficienti della matrice C o H di tipo gerarchico). Dato un modello di economia politica nazionale, lo si risolve negli strumenti nazionali dati gli obiettivi di politica 9 In Italia, ad esempio, un sintomo di tale divergenza di obiettivi è rappresentato dalla tensione esistente fra governo centrale e presidenti regionali, indipendentemente dalla loro colorazione politica.

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economica nazionale prestabiliti. I risultati di strumenti, obiettivi e altre variabili nazionali vengono inseriti come ‘dati’ nel modello di economia politica usato per risolvere i problemi locali. Questo però mi può portare a situazioni di incompatibilità fra gli obiettivi centrali e quelli locali, con quelli centrali che tendono a predominare. Questo approccio è poi possibile solo quando il livello locale è 'piccolo' in relazione a quello nazionale. Le cose cambiano quando il livello 'locale' ha dimensioni e/o peso politico rilevanti (si pensi ad esempio agli stati brasiliani o città come Milano e Barcellona) ed influenza in modo non indifferente il risultato nazionale.

- in questi ultimi casi si passa ad una soluzione integrata o simultanea, in cui gli obiettivi e strumenti locali di politica economica influenzano anche la soluzione del modello di politica economica a livello nazionale. In questo caso la soluzione del modello è simultanea, poiché anche quello cha avviene a livello locale influenza l’economia del centro (caso di Brasile, India, Federazione Russa). In caso di conflitti fra obiettivi di politica economica ‘centrali’ e ‘locali’, è più probabile che si procederà ad un’armonizzazione negoziata degli obiettivi. Alcuni temi ricorrenti nel dibattito sul decentramento riguardano:

- la riluttanza del potere centrale a cedere potere di tassazione (fonte di potere ed influenza politica) o indebitamento ai livelli inferiori di governo. Il problema si pone anche (pur se in maniera minore) nel caso dei trasferimenti dal centro alla periferia (regione, comune). E’ importante notare che decisioni circa la decentralizzazione del potere impositivo o la proporzionalità dei trasferimenti rispetto alle tasse raccolte a livello locale influenzano:

a) la convergenza della crescita regionale (con le regioni più arretrate che crescono più

lentamente di quelle avanzate) b) distribuzione del reddito per capita tra le regioni e all’interno delle regioni stesse c) la propensione ad emigrare dalle zone più arretrate a quelle più avanzate (decisione

questa che comporta notevoli costi pubblici) d) in casi estremi, la stabilità politica.

- le asimmetrie di incentivi fra stato centrale ed enti locali per quanto riguarda il livello della spesa pubblica locale, quando la tassazione è centralizzata e le risorse del governo locale sono costituite principalmente da trasferimenti del governo centrale. In tale situazione (in cui il governo centrale sopporta il ‘costo politico’ della tassazione e quello locale gode dei ‘benefici politici’ di alti livelli di spesa pubblica), il governo locale avrà forti incentivi ad aumentare il volume della spesa, minori incentivi ad allocarla in maniera ottimale e nessun incentivo a raccogliere tasse o contributi a carico dei consumatori. Tali asimmetrie possono essere risolte con il ricorso al cost-sharing (partecipazione per quota fissa alle spese da parte del governo locale), la partecipazione degli utenti al finanziamento dei servizi pubblici o con un maggior controllo da parte del centro sul livello/tipo di spesa da parte degli enti locali.

5.4 Vincoli (interni ed esterni) alla politica economica Anche nei PS, la formulazione della politica economica è soggetta ad un certo numero di vincoli, tra cui menzioniamo: - i controlli imposti dal sistema democratico tramite elezioni, referendum, manifestazioni ed altre forme di pressione politica, tutti meccanismi che riflettono gli interessi e l’influenza dei diversi gruppi sociali. Alcuni di tali gruppi sono numericamente esigui (la lobby degli agricoltori) ma sono in grado di esercitare una fortissima influenza sulla politica economica (come nel caso della CAP).

- gli accordi internazionali a contenuto economico e/o giuridico

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- i controlli effettuati dal mercato sulla credibilità delle politiche e la loro reversibilità. Le percezioni e le valutazioni dei mercati sulla credibilità di un'economia si formano e si manifestano attraverso:

a) le agenzie di ‘credit rating’ (Standards and Poor, Moody, Stitch) b) le borse titoli (dove si scambiano anche i titoli pubblici) c) il mercato dei cambi (anch’esso ‘valuta’ la politica economica innalzando o

deprimendo il tasso di cambio)

Le principali cause di una perdita di autonomia della politica economica a livello nazionale nei paesi sviluppati possono essere ricondotte a:

a) l’adozione di una politica economica (di tipo liberista) in cui il valore di alcuni strumenti di politica economica viene lasciata al mercato, come ad esempio quando si decide di far fluttuare liberamente il tasso di cambio o di liberalizzare i flussi di capitale in entrata e uscita b) lo sviluppo dei mercati finanziari e delle agenzie di valutazione finanziaria (vedi sopra)

c) l’erosione del ruolo dello stato centrale e lo sviluppo delle autonomie locali. Questa tendenza si sta manifestando un po’ ovunque, anche se con notevoli differenze tra stato e stato, nota ad esempio, le differenze tra il modello francese (fortemente centralizzato e con poche concessioni alle autonomie locali) e quello svizzero (fortemente decentralizzato),

c) l’emergere delle autorità sovra-nazionali: Banca Centrale Europea, Commissione Europea, OMC, BRI (Banca Regolamenti Internazionali), FMI, ONU e le sue agenzie, ecc.

5.5 Gli attori della politica economica nei PVS Alcuni sono analoghi a quelli che troviamo nei PS, altri sono assai diversi. Il quadro è generalmente più complesso e, in media, il policy-maker è deve sottostare a un numero maggiore di vincoli, specie esterni, e dispone quindi di minore autonomia. Inoltre, la struttura di classe di molti PVS è caratterizzata da una debole classe media (considerata da molti una forza stabilizzatrice della politica economica) e dall’esistenza di ‘vocal minorites’ (le classi urbane a medio reddito che riescono spesso a dirottare la FBS e la politica economica a loro favore) e ‘silent majorities’ che generalmente hanno un ruolo passivo nella formulazione della politica economica. 5.5.1. Questo detto, i principali attori nazionali pubblici della politica economica nei PVS possono essere distinti come segue:

- Lo stato (l’esecutivo, soprattutto i ‘ministeri forti’, come quello delle finanze, e la Banca Centrale ed i ‘ministeri deboli’ come quello della sanità, istruzione e benessere sociale)

- Le imprese pubbliche (spesso più numerose di quelle private e che nei PS)

- Gli organismi parastatali di commercializzazione dei prodotti agricoli (es.in Africa sub-sahariana). - Gli enti locali (vedi il dibattito sui PS e la Box 5.1 qui di seguito sul ruolo della politica fiscale nella crisi argentina del dicembre 2001).

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Box 5.1. La politica economica della spesa pubblica e la crisi argentina del dicembre 2001 La crisi argentina del dicembre 2001 è stata in buona parte dovuta all’eccessivo protrarsi nel tempo di un regime di cambio (il currency board basato sul dollaro e la ‘ley de convertibilidad’) che ha portato ad un declino delle esportazioni, un aumento delle importazioni e disavanzi cronici nella bilancia delle partite correnti che, oltre un certo punto, non si è potuto coprire coi proventi delle privatizzazioni e l’afflusso di capitali esteri. Tali problemi sono stati amplificati da una politica fiscale debole e contraddittoria che ben illustra i problemi di politica economica incontrati in tale campo da molti PVS. Infatti, dal 1993, il deficit consolidato (un concetto più ampio di quello riportato nella tabella qui di seguito) ha oscillato in maniera stabile, invece che ciclica, attorno al 3% del PIL per arrivare al 6% nel 2001. Il perdurare nel tempo di questo deficit ha portato ad una rapida accumulazione del debito pubblico e del rapporto Debito/PIL ed un graduale innalzamento dei tassi di interesse pagati. In soli 4 anni, ad esempio, il D/PIL cresce dal 35 al 55 %. Cosa spiega tali disavanzi fiscali? Da un lato, fattori strutturali come il basso livello della pressione tributaria che è notevolmente più bassa della norma internazionale (l’Argentina, ad esempio, raccoglie in tasse il 18-20% del PIL contro il 30% del Brasile). Questa situazione è dovuta alla forte concentrazione del potere economico nelle mani di un ristretto numero di grandi gruppi che sono in grado di resistere alla tassazione che vari governi hanno timidamente tentano di imporre loro. I fattori ciclici hanno inoltre fatto la loro parte. Ad esempio, la lenta crescita della produzione manifatturiera (più facilmente tassabile del settore agricolo) dovuta all’apprezzamento del cambio reale ha contribuito a ridurre il gettito tributario in molti degli anni Novanta. Dal lato della spesa (fortemente tagliata negli anni iniziali dell’esperienza neo-peronista) notiamo come il ciclo elettorale per la rielezione per un terzo mandato di Menem ha causato un innalzamento della spesa pubblica a metà anni Novanta. Pressioni per un aumento della spesa totale sono venuti anche dall’aumento del costo del servizio del debito e dal rallentamento della crescita a fine anni Novanta che ha comportato un aumento dei sussidi e della spesa per lavori pubblici. Per ultimo, la riforma ‘alla cilena’ del sistema pensionistico ha comportato un costo transitorio pari al 3% PIL a carico dell’erario. Un’ulteriore fonte del disavanzo è spiegata dall’incapacità del governo centrale di controllare la spesa delle province (che è finanziata dai trasferimenti del governo centrale ma anche con indebitamento diretto all’estero). L’aumento dei disavanzi provinciali (vedi tabella seguente) ha contribuito in maniera chiara all’aumento del disavanzo complessivo e all’indebitamento totale del paese. Le decisioni di spesa da parte delle province argentine riflettono bene le asimmetrie di incentivi/obiettivi tra i governi locali (2/3 dei quali erano controllati dai peronisti i quali miravano alla loro rielezione, non ultimo attraverso un' espansione della spesa) e quelli del governo centrale (controllato dal partito Frepaso) che appariva così incapace di raggiungere gli obiettivi di bilancio complessivi fissati spesso in cooperazione con il FMI e le banche estere.

Entrate Spese

Disavanzo Governo Centrale

Disavanzo senza

privatizzazioni

Disavanzo amm.

provincialiDisavanzo

totale1993 21,45 20,29 1,15 0,93 0,6 0,551994 19,84 19,95 -0,11 -0,40 -1,1 1,21 1995 19,49 20,02 -0,53 -0,99 -1,2 1,731996 17,52 19,45 -1,93 -2,16 -0,4 2,331997 18,91 20,37 -1,46 -1,56 -0,6 2,061998 18,98 20,34 -1,36 -1,39 -1,3 2,661999 20,62 22,30 -1,68 -2,59 -1,4 3,00 2000 19,90 22,29 -2,39 -2,44 -1,1 3,492001 18,91 21,89 -2,99 -3,01 -2,1 5,09

Nota: i dati sono espressi in percentuale del PIL

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5.5.2. Gli attori nazionali privati nei PVS riflettono generalmente una ‘matrice sociale’ più gerarchizzata, con comportamenti più complessi e le caratteristiche descritte qui di seguito: - un certo numero di PVS non ha ancora adottato la democrazia come forma di organizzazione politica e dunque il policy-maker è meno soggetto al controllo elettorale dei cittadini anche se, come notato in precedenza, vari gruppi sociali dispongono di altri meccanismi per promuovere (anche se in maniera imperfetta) i propri interessi. - una forte concentrazione del potere economico e politico generalmente maggiore che nei PS (cfr. ad esempio gli indici di Gini per i PS ed i PVS) che influenza la formulazione delle politiche economiche. Da questo segue che, anche quando si opera in regime democratico, alcuni attori privati, invece d’essere i destinatari delle politiche, ne diventano indirettamente gli autori (who ‘owns’ the state?),

- anche dove esistono libere elezioni, l’interazione fra una politica economica di parte ed premi/sanzioni elettorali resta debole a causa della ‘disorganizzazione e frantumazione politica’ della società e dei suoi gruppi più poveri in particolare. In principio democrazia e libera stampa favoriscono sviluppo, benessere, efficienza, equità sociale e buon governo. Ma la frantumazione di cui sopra porta all’elezione di governanti che mantengono stretti legami con gruppi di interesse violando così il principio della ricerca da parte del policy-maker di obiettivi di razionalità collettiva10, - di fatto, è difficile stabilire cosa sia la ‘democrazia effettiva’ ed è dunque necessario distinguere PVS con tipi diversi di organizzazione politico-sociale:

- Democrazie forti, caratterizzate da partecipazione politica ed economica diffusa ed istituzioni pubbliche solide (come ad esempio in Centro Europa, Sud Corea 1980-2000) - Democrazie deboli: controllate da oligarchie (Russia), con partiti su base etnica (Rwanda-Burundi), democrazia politica ma non economica (le élites ostacolano lo sviluppo di un mercato equo, parte America Latina) - Paesi autoritari-paternalistici ma partecipativi con democrazia economica e istituzioni forti (Singapore, Malesia e, in qualche misura, la Cina) ma limitata libertà politica - Paesi autoritari con violazione di diritti politici ed economici essenziali, e senza alcuna (o quasi) partecipazione della società e degli intermediari sociali alla formulazione degli obiettivi della politica economica ed alla scelta dei relativi strumenti

- uno degli aspetti chiave della democrazia reale e quindi della politica economica dei PVS (e PS) è una libera stampa. Amartya Sen sostiene ad esempio che una libera stampa e liberi mezzi di informazione, non assoggettati al potere politico, sono uno dei più potenti strumenti di benessere sociale, utili soprattutto per evitare carestie. Cita a riprova della sua tesi il famoso confronto tra Cina (1958-63 periodo della terribile carestia del dà-yao-in) e India (post 1943).

10 Richiamiamo qui brevemente il dibattito fra democrazia formale da un lato ed equità sociale e performance economica dall’altro. La Banca Mondiale sostiene (WDR 2000/1 e 1997) che la democrazia è fonte di equità e crescita rapida. Mentre ciò è condivisibile in termini teorici, i dati empirici al riguardo sono ambigui (vedi caso della Cina) non ultimo perché il concetto di democrazia è assai vago.

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- la politica economica e sociale è influenzata anche dalla segmentazione culturale della società ove norme sociali riducono l’impatto delle norme legali e delle politiche del governo. Ad esempio, in India, la costituzione del 1947 abolì le caste, ma queste continuano ad esistere e a contribuire a una forte segmentazione della società e dei mercati del lavoro, fondiario, ecc. Un altro caso tipico riguarda la discriminazione di genere che influenza la posizione delle donne nella distribuzione del reddito ed in campo produttivo e sociale in maniera marcata. Le implicazioni di tale discriminazione sociale per la politica economica sono molto forti. Infatti, una politica ‘gender neutral’, ‘caste neutral’ o ‘race neutral’ non permette al policy-maker di raggiungere gli obiettivi prestabiliti e richiede dunque l’adozione di politiche di ‘affirmative action’ (ad esempio attraverso l’introduzione di quote di posti di lavoro riservate alle persone di bassa casta), obiettivi specifici per i f/m ratios (ad es. nelle iscrizioni scolastiche) - molte delle caratteristiche della società cui si fatto allusione or ora tendono a ridurre le possibilità di intraprendere un’azione collettiva per raggiungere determinati obiettivi sociali. Infatti, la teoria dell’azione collettiva (vedi ad esempio Mancur Olson) indica che questa é più probabile:

- quanto più piccolo é il collettivo, - quanto più simili sono le sue origini antropologiche, linguistiche e religiose, - quanto maggiore è la vicinanza fisica dei suoi membri, - quanto minore è la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, attivi e opportunità - quanto più complementari sono i loro obiettivi e - quanto maggiore è la percezione del costo dell’inazione.

5.5.3. Gli attori internazionali pubblici nei PVS:. Il ruolo di tali attori è molto più marcato nei PVS che nei PS. Nel caso dei PVS è dunque necessario analizzare in maniera più sistematica l'ideologia economica (spesso ispirata a modelli astratti o presi a prestito dai paesi industrializzati), il modo di operare di questi attori internazionali, la coerenza o meno dei loro obiettivi con quelli della politica economica nazionale ed i loro meccanismi decisionali (la ‘governance’). Questi attori internazionali possono essere classificati a seconda delle modalità con cui forniscono risorse finanziarie ai PVS. I flussi netti di capitali ai PVS (a titolo di doni, prestiti o quant’altro) sono sintetizzati nella tabella 5.1 qui di seguito: Tabella 5.1. Finanziamenti allo sviluppo dei PVS e ET (in miliardi di dollari USA correnti)

1990 1995 1997Totale Finanz Sviluppo 130.0 263.0 325.0Crediti all’esportazione 9.0 6.0 -4.0Flussi privati 43.0 168.0 252.0

IDE 27.0 52.0 108.0Prestiti bancari 6.0 77.0 20.0

Prestiti obbligazionari 1.0 30.0 91.0Altri (equities) 5.0 3.0 28.0

Doni delle ONG 5.0 6.0 5.0Flussi pubblici 76.0 89.0 77.0Prestiti 25.8 29.4 27.7ODA bilaterale 37.2 40.6 32.3ODA multilaterale 13.0 19.0 17.0ONU totale 8.4 13.2 10.3

secretariato ONU 0.8 1.2 1.1Peacekeeping 0.4 3.3 1.2

Agenzie specializzate 2.8 3.0 3.1Fondi sviluppo ONU 4.4 5.8 4.9

Undp 1.4 1.4 ..Unicef 0.7 1.0 ..Unfpa 0.2 0.3 ..

Wfp 1.0 1.5 ..Unhcr 0.5 1.2 ..

Fonte: compilazione dell’autore su dati DAC (Development Assistance Committee) dell’OCSE, Parigi.

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- Attori che forniscono doni ad alta condizionalità:

- il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM) e le Banche Regionali di Sviluppo, che condizionano i loro interventi al rispetto di "condizionalità" macroeconomiche, settoriali e di governance (tra queste ultime, la creazione di istituzioni legislative e di governo per aumentare la trasparenza, la riforma della amministrazione pubblica e la partecipazione alla politica economica). Tali istituzioni sono molto importanti perché, di fatto, sono fonte di finanziamenti (a volte ingenti) e, ancor più, condizionano l’accesso ai mercati finanziari mondiali.

Il mandato, distribuzione del potere e azionariato dominante, ideologia economica e modo di operare (vedi Annesso 1 sul FMI) di questi policy-makers internazionali possono contrastare con gli obiettivi di politica economica nazionali. Ma va notato come in tempi recenti anche queste istituzioni (BM in primis) stiano modificando gli obiettivi e (in misura minore) gli strumenti della loro politica economica – che tende a incentrarsi molto più di prima sulla lotta alla povertà.

- i prestatori bilaterali ufficiali e cioè i governi dei PS (raggruppati nel Club di Parigi). Questi sono i governi che intervengono nel momento in cui il FMI ha affisso il suo ‘marchio di garanzia’ sulla politica economica dei PVS assistiti. Tali donatori bilaterali generalmente offrono un aiuto di un 25-30 miliardi di dollari l’anno (vedi la riga prestiti nella Tabella 5.1).

- Attori che forniscono doni a bassa condizionalità o senza condizioni:

- le agenzie del sistema delle Nazioni Unite che forniscono fondi (UNDP, UNICEF, WFP, UNFPA, UNHCR, IFAD) con ‘policy dialogue’e‘soft or no conditionality’. Le risorse messe a disposizione sono inferiori (vedi riga ‘ONU totale’ e i valori corrispondenti a ciascuna delle principali agenzie nella Tabella 5.1) a quelle fornite bilateralmente dai PS precedenti, ma queste sono in tutti i casi donate e sono praticamente esenti da contropartite politiche. A queste vanno aggiunte le agenzie che forniscono assistenza tecnica (ILO, WHO, UNESCO,FAO) accompagnata da qualche modesta risorsa finanziaria.

Quello che va notato è che il mandato, la distribuzione dei diritti di voto, una ideologia economica meno marcata ed un diverso modo di operare caratterizzano l'azione delle agenzie dell’ONU che spesso giocano un ruolo alternativo o complementare a quello di BM e FMI.

- le agenzie bilaterali di aiuto ed il Development Assistance Committee (DAC) dell’ OECD (OCSE). Questo aiuto è però spesso ‘legato’ (tied aid), condizionato ad esempio all’acquisto di determinati beni prodotti dal paese donatore, (cosa che normalmente avviene a prezzi (molto) maggiori di quelli osservabili sul mercato mondiale) o a concessioni di tipo politico.

5.5.4. Gli attori internazionali privati e loro istituzioni collettive giocano un ruolo fondamentale nella politica economica dei PVS, particolarmente di quelli di piccola dimensione e a basso reddito. Tali attori includono:

- le banche creditrici ed il Club di Londra in cui queste si raggruppano. Il Club di Londra coordina l’azione delle banche in casi di ripudiazione del debito ed altri casi in cui un’azione congiunta da parte dei creditori si rende necessaria,

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- i fondi di investimento ed i fondi pensione, che spostano ingenti risorse dentro e fuori alcuni PVS (i cosiddetti ‘mercati emergenti’) e che quindi influenzano in maniera netta le decisioni di tali paesi in campo macroeoconomico.

- le multinazionali (TNC), in campo primario ed in quello manifatturiero

- lo Organizzazioni Non Governative internazionali (Oxfam, Save the Children, Amnesty International, Medici senza Fontiere ecc.)

- i media internazionali (CNN, BBC) che con la loro copertura (veritiera o distorta) influenzano la percezione della stabilità, credibilità e attrattività di vari PVS

5.6. Vincoli interni ed esterni alla politica economica dei PVS Questi paesi devono fare i conti generalmente con un numero maggiore di vincoli che i PS. A tal proposito ricordiamo che:

a) i controlli interni (checks and balances) sono più deboli.

- I controlli democratici sono più deboli che nei PS causa il persistere di società autocratiche e di democrazie formali dove il potere economico rimane fortemente concentrato

-una burocrazia debole e a volte corrotta rallenta/ostacola l’applicazione delle politiche economiche

b) i controlli esterni sono più stringenti e influenzano in modo maggiore che nei PS lo spettro delle politiche possibili o la loro credibilità. Tra questi quelli emananti da:

- le agenzie di ‘credit rating’ (Standards and Poor, Moody) - le borse titoli (nei PVS non ce ne sono molte, ma il loro numero è in espansione nei ‘paesi emergenti’, ma … in ASS, ad es. ve ne sono solo in 5-6 paesi) - il mercato dei cambi (ufficiale e parallelo) - gli standards internazionali (come quelli fissati dall’ILO nel campo del lavoro). Molte delle convenzioni che introducono questo tipo di standards non sono obbligatorie per gli stati fino a quando questi non li introducono nella legislazione nazionale. Sono anche di difficile monitoraggio, ma comunque impongono un vincolo (generalmente positivo) alla formulazione della politica economica dei PVS.

- accordi economici internazionali (OMC ed i suoi accordi specifici futuri come il TRIPS, GATS, e quelli futuri (MAI). A tal fine va rilevata l’incoerenza tra accordi internazionali firmati dagli stessi governi (tramite ministeri differenti). L’esempio tipico riguarda l’incoerenza tra gli accordi firmati in sede OMC circa la libertà di commercio e la protezione della proprietà intellettuale (accordo OMC-TRIPS) e le convenzioni dell’OMS che mirano a garantire l’accesso universale alle medicine ed il rispetto di standards sociali minimi. In questi ed altri casi si pone dunque il problema della ‘policy consistency’.

- accordi economici subregionali (NAFTA, CARICOM, ASEAN, MERCOSUR, PA, ecc.)

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- la globalizzazione dell’economia (con capitale mobile e lavoro non mobile) genera forte competizione fra PVS e, secondo alcuni, la perdita di una politica economica autonoma in molti campi.(‘the race to the bottom’)

5.6 Alcuni problemi istituzionali tipici della politica economica nei PVS Esempi :

- mismatch (non corrispondenza) tra capacità d’azione e bisogni. Si ha una forte concentrazione del potere e della governance delle istituzioni internazionali nelle mani dei PS, e una forte concentrazione dei bisogni nei PVS. Questo è fonte di:

1) informazione asimmetrica e/o incompleta: un problema (ad es. la forte povertà di alcuni PVS) viene ‘percepito’ in maniera diversa a seconda che sia ‘osservato direttamente’ o meglio ancora ‘vissuto’ (Paulo Freire) oppure solo ‘concettualizzato’.

2) Con la globalizzazione (ad es.lo sviluppo del turismo e della migrazione) e lo sviluppo dei media internazionali (che ci portano in salotto le guerre e le carestie in tempo reale) questo gap informativo viene in parte colmato (la parte relativa alla osservabilità del problema), ma non quello relativo al suo vissuto, da parte dei PS. Due osservazioni sono necessarie al riguardo:

- è dunque assai importante il ruolo delle televisioni/media. Famosa è, al riguardo, la decisione della BBC di proiettare il filmato della carestia del 1984 in Etiopia, decisione che portò a ‘Band Aid’ e un massicico aumento degli aiuti umanitari

- è altrettanto importante capire qual è il rapporto fra ‘opinione pubblica’ e governi dei PS circa i tempi e modi di intervento nei PVS. Per definizione, i governi (che sono generalmente a-morali) non hanno tra gli argomenti della loro FBS il benessere dei cittadini del Bangladesh perché un’allocazione di spesa pubblica a tale fine non porta benefici politici o voti – mentre se ne riceverebbero se la stessa spesa pubblica fosse utilizzata per soddisfare le richieste di alcune delle lobbies locali influenti. E’ più probabile invece che i cittadini dei PS includano nella loro FBS il miglioramento delle condizioni di vita nei PVS. Ma in che misura questa preferenza viene poi correttamente convogliata al policy-maker? Tramite i partiti o le associazioni?

- per questo motivo i governi dei PS hanno scarsi incentivi ad intervenire per risolvere problemi di altri (le classi povere nei PVS) i cui problemi sono percepiti come estranei, perlomeno fino a quando non si svilupperà una morale globale. Per di più programmi addizionali d’aiuto o concessioni commerciali comportano maggiore tassazione o una perdita di mercato e quindi un costo politico

3) il rapporto principale–agente fra IFI e paesi debitori. In alcuni casi si ha coincidenza di obiettivi, in altri casi divergenza. Nel primo caso, la condizionalità facilita l’applicazione di misure impopolari, nel secondo confonde gli obiettivi e richiede sanzioni in caso di non applicazione di accordi PVS-FMI. In ogni caso, la condizionalità implica un trasferimento di sovranità che ha poca credibilità, e comporta l’imposizione di sanzioni carenti di legittimità, eccessive in relazione alla violazione commessa.

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4) il rapporto asimmetrico fra banche internazionali, paesi debitori e le IFI. Il problema si è posto ad esempio nel caso della crisi del debito in America Latina negli anni ‘80. Quale ruolo (equidistante?) hanno giocate le IFI?

Box 5.2 Il Fondo Monetario Internazionale

- Nascita e compiti istituzionali. Creato assieme BM e OMC alla conferenza di Bretton Woods (1944) gestisce il sistema monetario e finanziario mondiale come una ‘quasi banca centrale mondiale’ attraverso: * la fornitura diretta ed indiretta di ‘liquidità’ all’economia mondiale (per sostenere il sistema dei pagamenti internazionali e quindi i flussi di commercio) tramite consorzi di donatori di cui il FMI è il capofila – e l’istituzione che deve fornire il sigillo di garanzia. Forte potere di condizionare flussi di crediti ben più ampli di quelli concessi direttamente, * la “sorveglianza” delle economie per fornire informazioni per decisioni di pol-economica * i consigli di politica economica in campo macroeconomico e finanziario Ogni membro FMI dispone di una ‘quota nazionale’ (delle risorse del FMI) calcolata sulla base di riserve ufficiali, PIL e importazioni /esportazioni. Le quote (riviste 11 volte dal 1944 - vedi sotto) determinano diritti di voto, accesso ai fondi FMI e distribuzione del potere al suo interno. Una parte della quota nazionale può essere presa a prestito senza condizioni mentre prestiti ulteriori comportano ‘condizionalità FMI’(nel 1962 il General Arrangements to Borrow creò una linea di credito fra FMI e 11 paesi industrializzati per aumentare il volume del finanziamento FMI).

Quota PS n. PS Quota PVS n. PVS Bretton Woods (1944) 75.5 …. 24.5 …. 4a revisione (1965) 72.1 22 27.9 80 7a revisione (1978) 63.4 22 36.6 113 9a revisione (1990) 63.6 22 36.4 130 11a revisione (1998) 61.6 24 38.4 159 I PVS sostengono che il calcolo delle quote non ha base razionale ed è poco trasparente, e che la distribuzione attuale delle quote non riflette i profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi 20 anni (forte crescita economica dei PVS, loro maggiore partecipazione ai processi decisionali, rapida crescita flussi di capitale verso i mercati emergenti). - Cambiamenti successivi. Dall’inizio degli anni 1950s il FMI contribuì a stabilizzare varie monete europee. In questo periodo sviluppò strumenti operativi come gli ‘Stand-by Arrangements’ che forniscono crediti annuali a paesi che adottano la ‘conditionalità’ monetaria e fiscale ispirata dalla dottrina del “financial programming”. Questo metodo si basa su alcune identità, un piccolo numero di relazioni di comportamento e la proiezione di alcune variabili chiave ”[Mussa and Savastano, 1999] che, secondo il FMI, permettono di raggiungere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti e bassa inflazione. L’approccio recessivo’ alla stabilizzazione fu inaugurata durante questo periodo. La carenza di liquidità internazionale dovuta all’indebolimento del dollaro portarono alla creazione nel 1969 dei “diritti speciali di prelievo” (SDR - moneta di conto usata per pagamenti fra istituzioni) come nuova fonte di liquidità e potenziale moneta di riserva. Gli SDRs furono assegnati a tutti i paesi membri in relazione alla propria quota ma oggi rappresentano solo il 2% delle riserve non–aurifere. Nuove assegnazioni di SDR a PVS incontrano l’opposizione dei paesi la cui moneta e moneta di riserva.

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Il collasso del sistema di Bretton Woods (1970 e 1973), l’abbandono della parità dollaro-oro e la nascita di un sistema di cambi variabili crearono instabilità finanziaria ed una rapida crescita dei prestiti internazionali che aumentarono il ruolo di sorveglianza e supporto alla bilancia dei pagamenti del FMI che creò: * nel 1963 e 1974, la Compensatory Financing Facility e la Oil Facility per far fronte a nuovi shocks e compensare improvvise cadute nelle esportazioni. * nel 1975 il FMI varò la Extended Fund Facility (fino a 11 anni) per l’esecuzione di riforme

strutturali. Il dibattito sul ruolo del FMI raggiunge il suo apice negli 1980s, con l’introduzione dei programmi di ‘aggiustamento strutturale’. Il debito accumulato negli anni 1970s divenne insostenibile per molti PVS colpiti dalla caduta dei prezzi delle materie prime e da un forte aumento nei tassi di interesse nei paesi industriali. La possibilità della ripudiazione del debito da parte di PVS minacciò la stabilità del sistema finanziario internazionale. In questa situazione il FMI divenne il coordinatore dello scaglionamento del debito pubblico e privato, e fonte di informazioni, fondi e consigli di politica economica. L’approccio alla stabilizzazione e alla bilancia dei pagamenti si incentrò spesso sui soliti strumenti di breve periodo (svalutazione del cambio e tagli fiscali e monetari) combinati con politiche di mercato, apertura al commercio estero, deregulation e privatizzazione. Nel 1986, il FMI crea la ‘Structural Adjustment Facility’ (SAF) e nel 1987 la Enhanced Structural Adjustment Facility (ESAF) per appoggiare programmi di riforma di medio-lungo periodo e come risposta alle critiche che l’approccio del FMI non riusciva a raggiungere i suoi obiettivi economici e generava costi sociali inaccettabili [un esempio tagliente di tale critica è fornita da Cornia, Jolly e Stewart (1987)]. Col crollo del socialismo nel 1989 il FMI ha dovuto fornire fondi (tramite la ‘Systemic Transformation Facility’) e consigli di politica economica di nuovo tipo a nuovi stati ma è stato criticato per aver seguito una politica di stabilizzazione e riforma (tagli fiscali e contrazione monetaria) non appropriate a paesi in transizione che necessitavano di riforme microeconomiche, nuovi sistemi tributari e istituzioni, e per le drammatiche conseguenze distributive e sociali attribuite dai critici all’approccio del FMI. - Sviluppi recenti. Negli anni 1990s, le critiche al FMI si accentuano causa i modesti risultati ottenuti nei paesi in transizione, la continua controversia sui programmi di aggiustamento nei PVS e HIPC, la nuova controversia sulle riforme di ‘governance’ e la percezione che il FMI dispone di pochi strumenti per fronteggiare cause e conseguenze di un numero crescente di crisi finanziarie globali. Durante le recenti crisi finanziarie Asiatica e Latino Americana del 1997-8, il FMI è stato accusato di applicare la tradizionale cura contrattiva in una circostanza in cui una ristrutturazione del settore finanziario e politiche macro alternative (come controlli a breve termine sui movimenti di capitale) sarebbero state più efficaci per fronteggiare flussi guidati da self-fulfilling expectations e attacchi speculativi e non dai ‘fondamentali economici’, e ridotto la capacità degli attori ufficiali di influenzare il comportamento dei mercati. Per ultimo, il FMI è accusato di causare ‘azzardo morale’ fornendo fondi che indirettamente beneficiano banche private che hanno valutato inadeguatamente i rischi connessi ai prestiti da loro concessi. Questioni ancor più di fondo riguardano la possibilità che il FMI abbia esaurito il suo ruolo, promuova ad un alto costo economico e sociale un paradigma inflessibile e datato, e non si concentri invece sulla creazione ed applicazione di norme standard che governino i contatti tra economie nazionali.

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THE INTERNATIONAL MONETARY FUND OVERVIEW: The International Monetary Fund (IMF), created at the Bretton Woods Conference in 1944, is a foremost international organization which has been intended to serve key functions related to the monitoring and management of the world monetary and financial system. These functions have evolved substantially over time but have included the provision of ‘liquidity’ to the world economy so as to permit the smooth and uninterrupted maintenance and growth of world trade and payments, “surveillance” of national and world economies so as to provide timely information for use in policy decisions, and the provision of expert policy advice on macroeconomic and financial management so as to further national and international economic goals. Originally conceived as the central institution supporting the maintenance of the fixed exchange rate system designed at Bretton Woods, the IMF came successively to be viewed as a potential ‘world central bank’, and as an agency with the dual tasks of supporting the management of short-term economic crises in countries and of longer term structural reform aiding their integration in the world economy. Along with the World Bank and the World Trade Organisation (WTO), the IMF has become a pillar of the system of global governance supporting the process of economic and financial globalization. This enlarged role has occasioned substantial debate. ORIGINS AND ORIGINAL CONCEPTION: The IMF was born against the backdrop of war and the memory of a turbulent inter-war world trading and monetary system. The leading countries of the ‘United Nations’ (the wartime alliance against the axis countries), and in particular the United States and the United Kingdom, sought to create a durable framework within which the inter-war problems of currency instability and competitive devaluation, defaults on international credit obligations, and the development of regional trading blocks tied to currency systems could be avoided, while furthering their own national interests. The solution to this problem, under the dominant intellectual influence of John Maynard Keynes of the United Kingdom and Harry Dexter White of the United States was the “gold exchange standard” or Bretton Woods system, in which countries other than the United States pegged their currencies at fixed exchange rates (or ‘par values’) to the United States Dollar and the United States maintained a fixed rate of exchange between the US Dollar and gold. Through this solution it was sought to establish a regime of substantial currency stability. However, countries with relatively low official reserves, net debtor positions and current account deficits (such as the United Kingdom) still risked the possibility of inability to maintain their declared par values. The primary goal of the IMF was to address this difficulty and thereby ensure the stability and durability of the Bretton Woods system. The eventual shape of the IMF merged aspects of Keynes’ plan for an international ‘clearing union’ (from which loans of a new international currency (the ‘bancor’) were to be made available up to a fixed quota to debtor countries, and to which creditor countries would be required to lend surpluses beyond a fixed level) with aspects of the White Plan in which a Stabilization Fund of national currencies available to be purchased by members would be created, and in which changes in exchange rates would be accepted only in the event of a ‘fundamental disequilibrium’. In its final shape was embodied acceptance of the demand of the debtor countries (especially the UK) that surplus countries should bear some of the ‘burden of adjustment’ and the demand of the surplus

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countries that debtor countries take appropriate responsibility for the maintenance of par values. The international currency envisioned by Keynes was not initially created. Specifically, the Articles of Agreement of the IMF negotiated at Bretton Woods established a system of national ‘quotas’ based on negotiations and the assessment of a set of fundamental economic variables (such as the size of official reserves, national income, and the level of imports and exports). These quotas, although first established at Bretton Woods, have been repeatedly revised. A country’s quota determines the amount of the subscription it must pay in to the fund, in the form of external reserve assets and its own currency. It also determines its voting strength (proportional to its quota beyond a common base level) and its access to IMF resources. In particular a portion of a country’s quota (the ‘gold tranche’, later renamed the ‘reserve tranche’) could be drawn on with few (and later no) conditions. Borrowing from the Fund (essentially drawing on the resources provided to the IMF by other countries’ subscriptions) beyond this amount would normally require the imposition of IMF ‘conditionalities’ (i.e. specific policy and performance requirements). The Fund’s resources were to be extended to prevent countries having to depart from par values other than in conditions of ‘fundamental disequilibrium’, and to be withheld in such a circumstance. Where it was deemed necessary by a country to depart widely from its par value, the IMF was authorized to judge whether a fundamental disequilibrium existed. The Articles of Agreement also required member countries to avoid imposing “restrictions on the making of payments and transfers for current international transactions”, other than for a transitional period, and to engage in periodic consultations with the Fund if they continued to do so. In this way the IMF’s articles encapsulated its founders’ vision of a conventionally liberal as well as stable world economic order. In accordance with its Articles of Agreement, the IMF headquarters was established in the territory of the member country with the largest quota, the United States. CHANGING ROLE AND STRUCTURE: In its first two decades, the IMF’s role was largely within the framework of its original conception, although this conception was tested by and adapted to changing circumstances. In its very early years, the IMF’s role was limited and overshadowed by bilateral agreements (such as the Marshall Plan) and other multilateral institutions (in particular the short-lived European Payments Union). However, by the early 1950s it had come into its own, playing a key role in maintaining the stability of a number of European currencies. In this period it developed a number of its critical operational doctrines and instruments. However, while the IMF’s success in fostering exchange rate stability was high, its success in its second goal of fostering a regime of unrestricted current account convertibility was very limited. Among the instruments first developed in this period was that of the ‘Stand-by Arrangement’ which subsequently became a standard aspect of IMF operational procedure. The first “Stand-by Arrangement” was negotiated with Belgium in 1952. In effect, stand-by arrangements provide for a line of credit to be made available to a member country for a specified period and up to a specified value in return for its accepting specific economic ‘conditionalities’ relating to monetary and fiscal conduct. The widening role of the Fund and its capacity to impose conditionalities in return for its assistance also required it to develop specific doctrines regarding the approach to economic management best suited to the achievement of stability. Accordingly, in this period the Fund substantially strengthened its research capacity and developed a variety of specific operational methodologies. Foremost among these was the “flow of funds” methodology known as “financial programming” associated with Jacques Polak of the Fund, which continues to be its central tool for policy analysis. The financial programming approach involves “a recognition of basic accounting identities supplemented with a small number of behavioural relationships and forecasts of key economic variables” [Mussa and Savastano. 1999], which permit determination of the requirements

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for attaining balance of payments equilibrium and low inflation. The specific content of favoured IMF conditionalities (and in particular the often ‘contractionary’ approach to the restoration of external and internal balance, through restrictive monetary and fiscal policy) was also developed in this period. As the IMF’s role increased toward the late 1950s it became apparent that its subscriptions by member countries might not be enough for it to deal with all possible contingencies. Accordingly, in 1962 the General Arrangements to Borrow were created through which the Fund arranged for a line of credit with which to borrow specified amounts from 11 industrial countries. The GAB has been activated periodically to help finance particularly large drawings from the Fund [in 1997 this was supplemented by the New Arrangements to Borrow, which provide for an additional line of credit from 25 countries and institutions]. In its first two decades, although the IMF became an increasingly important institution, its success was overshadowed by the fraying of the Bretton Woods system caused by the weakening position of the US dollar associated with the shift of the United States balance of payments from a surplus to a deficit position and with the so-called “Triffin dilemma”. The latter related to the tension (deriving from the pivotal role of the US dollar in the Bretton Woods system) between the need for an enlarged supply of dollars to provide liquidity for a growing global economy and the inability of the United States to provide this without the supply of dollars exceeding the quantity of US reserve assets to a degree which would jeopardize the convertibility of the dollar in to gold, and thereby in turn undermine the value of the dollar as a source of liquidity (and therefore the basis of the system as a whole). An early response to this unease, and indeed a growing sense of crisis, was the “special drawing right” or SDR, which was born through the first amendment to the Articles of Agreement in 1969. The SDR was envisioned as becoming a new source of liquidity and potential reserve asset which would be free from the structural weakness of the dollar. It was also in effect a new international currency in embryonic form, partially realizing Keynes’ vision of the ‘bancor’. The SDRs are accounting units (defined currently as a composite of national currencies), which do not have any actual reserve backing. They may be used for payments between official institutions, but generally not for private transactions. SDRs may be exchanged between holders in return for an ordinary reserve currency or other asset, and bear interest at market rates while maintained with the Fund. A fixed quantity of SDRs was initially (and in subsequent rounds) allocated to all member countries in proportion to their quota. The SDR was not able to play the role envisioned for it (in which the IMF would have become akin to a world central bank with the SDR its currency) effectively however. Even today, total allocations of SDRs compose less than two percent of non-gold official reserves. This small quantity of SDRs combined with their restricted role outside of official transactions has undermined its ability to become a new reserve asset. New allocations of SDRs, of special interest to debtor and less developed countries, have often been resisted by reserve currency countries on the ground that there is no requirement for increased global liquidity (and attendant danger that new allocations will undermine the value of existing reserves and generate inflationary pressures). Repeated negotiation on the development of a ‘substitution account’, through which existing reserves (particularly the US dollar) would be exchanged for new SDRs, has also been unsuccessful due to inability to agree on the sharing of the burden of the decreasing value of non-SDR official reserves which such a procedure would entail. The collapse of the Bretton Woods system between 1970 and 1973, due to the abandonment of the parity of the US dollar with gold, and the subsequent emergence of a flexible exchange rate system (or ‘non-system’), created significant challenges for the IMF. The abandonment of fixed parities required the Fund to reform its role in fundamental ways. In particular a rising role for non-gold

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(i.e. currency) reserves, increased monetary instability, and a sharp rise in private international banking activity (related to heightened speculation, hedging, and real investment) increased the demand for the IMF’s surveillance and balance of payments support activities. In the 1970s the IMF began to refine the economic doctrines which it would apply in a more comprehensive form in the subsequent decade. In particular, in 1975 it initiated the Extended Fund Facility (EFF) in order to enable the implementation of longer term conditionalities and programmes than feasible under stand-by arrangements. Under the EFF a repayment horizon of up to eleven years was envisioned during which fundamental reforms of trade and fiscal policy could be pursued. This innovation was born in part of a recognition that the IMF’s concerns for currency stability required attention to underlying structural conditions, and in part of a renewed focus on the still unrealized Bretton Woods vision of the development of a conventionally conceived liberal international order. By the late 1970s, the role of the IMF in relation to developing and middle income countries had taken on a heightened significance, as its role in relation to high income countries waned, due to the long-term improvement in the structural positions of many of them. Indeed, the Fund introduced specific facilities with which to address risks faced especially by developing countries (the Compensatory Financing Facility, introduced in 1963 to enable developing countries – especially producers of primary commodities – to cope with precipitate declines in export receipts, and the ‘Oil Facility’, established in 1974 to enable countries to manage sharp increases in oil prices). In the 1970s, calls from developing countries for a ‘New International Economic Order’ gave an added dimension to the ongoing debate over the international monetary system. In particular demands were made (all unrealized) for stabilization and support funds for raw materials prices to be created and financed by the IMF, and for the voting structure of the Fund to be reformed along more democratic lines. The debate over the role of the IMF in the developing countries came to a head in the 1980s, with the onset of the debt crisis and the era of ‘structural adjustment’. High levels of debt accumulated in the 1970s proved unsustainable for a large number of developing countries in the context of falling primary commodities prices and high world interest rates driven by industrial country conditions. The possibility of default on debt, especially by major borrowers such as Brazil, Mexico and Poland, threatened in turn the interests of creditors and the stability of the financial system in the industrial countries. This situation led to a heightened role for the IMF as a source of information, as a coordinator of public and private debt rescheduling efforts, and as a source of supplementary capital and policy advice. The IMF approach to stabilization and to the achievement of longer term viability of the balance of payments focussed on its accustomed short term instruments - devaluation and monetary and fiscal contraction – combined with longer term market oriented reforms – increased openness to trade and, increasingly, internal deregulation and privatization. In this respect, IMF policy was increasingly influenced by the prevailing currents in the industrial world. In 1986, the IMF created the Structural Adjustment Facility (SAF) followed in 1987 by the Enhanced Structural Adjustment Facility (ESAF). These new facilities marked the IMFs new focus on supporting medium and long-term market oriented policy reorientation. Sustained balance of payments crises in a variety of developing countries led to substantial reliance on these facilities and mounting criticism that the Fund’s approach was both unsuccessful at attaining its economic goals and generated social costs of an unacceptable order [a trenchant example of such criticism is Cornia, Jolly and Stewart (1987)]. The rejection of the centrally planned economic model which commenced in 1989 added another important dimension to the Fund’s activities. The Fund was called upon to provide financial and policy support of a new kind, in many cases to new members. A new ‘Systemic Transformation

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Facility’ allowing large drawings from quotas was created to sustain the efforts of a number of these countries. Over the course of the 1990s the Fund has however been extensively criticised for pursuing a policy approach and priorities argued to be inappropriate to the requirements of the ‘transition’ countries, and in particular for favouring fiscal retrenchment and a contractionary monetary approach to stabilization in a context in which fundamental microeconomic reorganization and the establishment of robust fiscal and political institutions required due consideration, as did the unusually dramatic distributional and social consequences linked by critics to the Fund approach. RECENT DEVELOPMENTS AND CURRENT DEBATES: In the 1990s, debate over the IMFs current and future role has become more acute than ever. The immediate sources of this debate lie in the mixed record of the Fund in fostering prosperity and stability in the ‘transition’ countries, the continued controversial record of structural adjustment programmes in developing countries (and in particular the ongoing economic and social crisis in the highly indebted poor countries), and the perception that the Fund has limited and possibly inappropriate tools at its disposal to address the causes and consequences of recent high levels of instability in international financial markets. A growing popular awareness of the lack of direct democratic oversight over international markets and economic institutions has also influenced perceptions of the IMF. As the IMF’s approach to structural adjustment and reform has proved to be insufficiently effective, it has unprecedentedly and increasingly turned to conditionalities linked to institutional reform and ‘governance’. These have been controversial as they have been perceived by some as an arbitrary challenge to national sovereignty (jealously guarded under the original interpretation of the Articles of Agreement). The Fund has also been accused of husbanding its resources excessively, especially in relation to debt relief in highly indebted poor countries (for which debt to the IMF itself has become an increasing burden) and the requirements of a successful ‘transition’ from central planning. Finally it has been accused of promoting, at considerable economic and social cost, a lagging and inflexible paradigm. In the context of countries in structural adjustment programmes, the focus of critics has been on their limited and slow success in fostering sustained and high growth and in safeguarding social achievements (as against the traditional Fund objectives of current account balance and low inflation). In the context of recent financial crises (especially those of East Asian and Latin American countries in 1997-98) the Fund has been accused of applying its traditional contractionary ‘medicine’ in a circumstance in which more focused microeconomic tools (such as financial sector restructuring) and alternative macroeconomic policies (such as short-term capital controls) may have been more effective. These criticisms have gained force in a global environment in which the sharply increased scale of private flows of funds has arguably both increased the likelihood of financial crises linked to self-fulfilling expectations, and speculative attacks otherwise unlinked to ‘fundamental’ economic variables, and reduced the ability of official actors (including the IMF) to influence market behavior. The ability of the IMF to significantly influence the level of global liquidity, or even to act as an effective ‘lender of last resort’ has accordingly come in to question. New issues regarding the appropriate role of the IMF have also arisen. In particular, whether the Fund generates ‘moral hazard’ (i.e. increased risk-taking behaviour) by providing finance which indirectly benefits private interests in the event of crisis, has been hotly discussed. As with other points of contention, some have called on the Fund accordingly to limit its role further (or indeed to be abolished) while others have called for it to be less restrictive. Fundamental questions of whether the IMF has – just past the mark of half a century - outlived its usefulness, at least in its

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current form, and whether its primary purpose has been, or ought to be, to enforce conformity in the rules and institutions which govern and link national economies, continue to give rise to vigorous debate.

Further readings Cornia, G., R. Jolly and F. Stewart (1987) Adjustment with a Human Face. Oxford: Oxford University Press. James, H. (1996) International Monetary Cooperation Since Bretton Woods. New York: Oxford University Press. Humphreys, N. (1999) Historical Dictionary of the International Monetary Fund. London: The Scarecrow Press. Mussa, M. and M. Savestano (1999) “The IMF Approach to Economic Stabilization”, in NBER Macroeconomics Annual 1999. Cambridge, MA, USA: National Bureau of Economic Research. Solomon, R. (1982) The International Monetary System, 1945-1981. New York: Harper and Row.