DISPENSE METODI E TECNICHE 1 - Antonio Antonuccio · anziano che chiede un intervento al servizio...

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FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA IN SERVIZIO SOCIALE METODI E TECNICHE DI SERVIZIO SOCIALE I DOCENTE C. PREGNO 1 COMMENTO ALL’ART. 1 DELLA LEGGE N. 84 DEL 23.3.93 «ORDINAMENTO DELLA PROFESSIONE DI ASSISTENTE SOCIALE E ISTITUZIONE DELL’ALBO PROFESSIONALE» ........................................................ 1 IL PROCESSO DI AIUTO........................................................................................................................................... 11 PREMESSE MODELLO UNITARIO CENTRATO SUL COMPITO ........................................................................ 19 1. LA DOCUMENTAZIONE....................................................................................................................................... 23 2. PERCHÉ SI SCRIVE?.............................................................................................................................................. 27 3. COME SI FA UNA RELAZIONE ........................................................................................................................... 29 1. LA VALUTAZIONE................................................................................................................................................ 31 2. OSSERVAZIONE, ASCOLTO, VALUTAZIONE.................................................................................................. 34 3. ALCUNE GRIGLIE ................................................................................................................................................. 35 4. L’INDAGINE SOCIALE ......................................................................................................................................... 38 1. IL COLLOQUIO ...................................................................................................................................................... 40 2. IL COLLOQUIO DI GRUPPO ................................................................................................................................ 50 3. LA VISITA DOMICILIARE.................................................................................................................................... 51 BIBLIOGRAFIA .......................................................................................................................................................... 53 COMMENTO ALL’ART. 1 DELLA LEGGE N. 84 DEL 23.3.93 «ORDINAMENTO DELLA PROFESSIONE DI ASSISTENTE SOCIALE E ISTITUZIONE DELL’ALBO PROFESSIONALE» La professionalità è un insieme di capacità, che consentono ad una persona collocata in un’organizzazione lavorativa di ricoprire adeguatamente una posizione e un ruolo. La posizione 1 descrive ciò che è attribuito in modo formale: è il posto ricoperto nell’organigramma, il ruolo 2 è ciò che la persona effettivamente fa, in relazione alle aspettative dell’organizzazione e dei soggetti esterni che concorrono alla definizione del prodotto – il ruolo esplicita il “come fare” nel modo giusto. Professionalità è anche un modo per dire che quel soggetto ha un’abilità specifica per svolgere quel mestiere e lo svolge in modo adeguato. La legge 84/93 definisce un profilo dell’assistente sociale, ci dice chi è e cosa fa, di chi si occupa, ovvero chi sono i destinatari dell’intervento dell’assistente sociale (i clienti, i consumatori). Per cercare di capire cosa significano queste definizioni occorre scomporre le componenti della professionalità, ovvero capire di quali capacità l’assistente sociale deve essere dotato. La professionalità dell’assistente sociale si realizza attraverso delle pratiche di servizio sociale , che includiamo nel termine comprensivo di “processo di aiuto”. Le azioni professionali dell’assistente sociale non devono essere confuse con le prestazioni, che sono modalità d’intervento specifiche di un determinato ente. I soggetti destinatari dell’intervento sociale la persona, l’organizzazione, il territorio. Sono soggetti diversi, ma che hanno un’interazione fra loro – si dice quindi che le dimensioni dell’intervento sociale sono la persona, l’organizzazione, il territorio. In questo corso vedremo in particolare l’intervento con la persona. Cercherò di inquadrare, in modo generale, la professione, secondo alcune componenti costitutive, comuni alla professione assistente sociale in tutti gli abiti in cui lavora, il Ministero della Giustizia, i servizi assistenziali di base, i servizi per le tossicodipendenze, la psichiatria, gli ospedali, il privato sociale. Questi sono luoghi di lavoro, organizzazioni, con proprie regole e finalità. In questi ambiti, così diversi, quali elementi comuni compongono l’agire dell’assistente sociale? 1 Sono necessarie conoscenze specifiche a capacità applicative degli strumenti idonei. 2 È necessario fare ricorso alle proprie risorse personali, quali la capacità di ascolto, l’empatia, la sensibilità relazionale…

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COMMENTO ALL’ART. 1 DELLA LEGGE N. 84 DEL 23.3.93 «ORDINAMENTO DELLA PROFESSIONE DI ASSISTENTE SOCIALE E ISTITUZIONE DELL’ALBO PROFESSIONALE» ........................................................ 1 IL PROCESSO DI AIUTO........................................................................................................................................... 11 PREMESSE MODELLO UNITARIO CENTRATO SUL COMPITO........................................................................ 19 1. LA DOCUMENTAZIONE....................................................................................................................................... 23 2. PERCHÉ SI SCRIVE?.............................................................................................................................................. 27 3. COME SI FA UNA RELAZIONE ........................................................................................................................... 29 1. LA VALUTAZIONE................................................................................................................................................ 31 2. OSSERVAZIONE, ASCOLTO, VALUTAZIONE.................................................................................................. 34 3. ALCUNE GRIGLIE ................................................................................................................................................. 35 4. L’INDAGINE SOCIALE ......................................................................................................................................... 38 1. IL COLLOQUIO ...................................................................................................................................................... 40 2. IL COLLOQUIO DI GRUPPO ................................................................................................................................ 50 3. LA VISITA DOMICILIARE.................................................................................................................................... 51 BIBLIOGRAFIA .......................................................................................................................................................... 53

COMMENTO ALL’ART. 1 DELLA LEGGE N. 84 DEL 23.3.93 «ORDINAMENTO DELLA PROFESSIONE DI ASSISTENTE SOCIALE E ISTITUZIONE DELL’ALBO PROFESSIONALE»

La professionalità è un insieme di capacità, che consentono ad una persona collocata in un’organizzazione lavorativa di ricoprire adeguatamente una posizione e un ruolo. La posizione1 descrive ciò che è attribuito in modo formale: è il posto ricoperto nell’organigramma, il ruolo2 è ciò che la persona effettivamente fa, in relazione alle aspettative dell’organizzazione e dei soggetti esterni che concorrono alla definizione del prodotto – il ruolo esplicita il “come fare” nel modo giusto. Professionalità è anche un modo per dire che quel soggetto ha un’abilità specifica per svolgere quel mestiere e lo svolge in modo adeguato. La legge 84/93 definisce un profilo dell’assistente sociale, ci dice chi è e cosa fa, di chi si occupa, ovvero chi sono i destinatari dell’intervento dell’assistente sociale (i clienti, i consumatori). Per cercare di capire cosa significano queste definizioni occorre scomporre le componenti della professionalità, ovvero capire di quali capacità l’assistente sociale deve essere dotato. La professionalità dell’assistente sociale si realizza attraverso delle pratiche di servizio sociale , che includiamo nel termine comprensivo di “processo di aiuto”. Le azioni professionali dell’assistente sociale non devono essere confuse con le prestazioni, che sono modalità d’intervento specifiche di un determinato ente. I soggetti destinatari dell’intervento sociale la persona, l’organizzazione, il territorio. Sono soggetti diversi, ma che hanno un’interazione fra loro – si dice quindi che le dimensioni dell’intervento sociale sono la persona, l’organizzazione, il territorio. In questo corso vedremo in particolare l’intervento con la persona. Cercherò di inquadrare, in modo generale, la professione, secondo alcune componenti costitutive, comuni alla professione assistente sociale in tutti gli abiti in cui lavora, il Ministero della Giustizia, i servizi assistenziali di base, i servizi per le tossicodipendenze, la psichiatria, gli ospedali, il privato sociale. Questi sono luoghi di lavoro, organizzazioni, con proprie regole e finalità. In questi ambiti, così diversi, quali elementi comuni compongono l’agire dell’assistente sociale?

1 Sono necessarie conoscenze specifiche a capacità applicative degli strumenti idonei. 2 È necessario fare ricorso alle proprie risorse personali, quali la capacità di ascolto, l’empatia, la sensibilità relazionale…

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“Con autonomia tecnico professionale e di giudizio in tutte le fasi dell’intervento”. Che cosa sostiene l’autonomia tecnico professionale e di giudizio? La dimensione della ragione, innanzitutto la facoltà di pensare. La facoltà di pensare serve per discernere, per analizzare, per scomporre, per tentare di ricondurre degli eventi ad un ordine logico; serve quindi a capire l’importanza di un metodo e ad acquisire una metodologia. In generale, per ogni essere umano, il fatto di poter fare riferimento ad uno schema mentale è l’operazione più semplice e più immediata per affrontare una questione qualsiasi. C’è metodo anche nel bricolage o nel cucinare. Se lo schema mentale a cui si è fatto riferimento si dimostra valido, buono, utile, lo si potrà ripeterlo. Se, invece, si provassero sempre percorsi diversi in situazioni simili, le operazioni di memorizzazione di una soluzione, di collegamento con circostanze analoghe, di accumulazione di conoscenza sarebbero altamente improbabili. In altre parole, sarebbe impossibile il passaggio da una azione (o una sequenza di azioni) all’astrazione che consente la ripetizione della sequenza, con le sue varianti necessarie. Perché parlare di metodo nel servizio sociale? Metodo è “cammino verso un termine, una meta prefissata”, “via che conduce oltre”, “modo dritto e breve” “procedere razionale per raggiungere determinati obiettivi”3. Nella definizione è insita una costellazione di elementi, vi sono un movimento ed un fine (cammino verso), ed anche le indicazioni di come compiere questo movimento (modo dritto, procedere razionale: per fare la torta comincio con il procurarmi gli ingredienti, non accendendo il forno il giorno prima). Quindi si utilizza il metodo in relazione al significato di un percorso, alla sua condizione finale – che cosa, di diverso dal presente, immaginiamo che le nostre azioni vadano a costruire, al come (i modi dell’azione). In generale, per quanto riguarda il riferimento ad un percorso scientifico ed operativo, si può dire che l’esistenza del metodo si articola in 4 ambiti: • I valori e la teoria. L’assunzione di criteri di riferimento valoriali (una deontologia) e di

conoscenze scientifiche come fondamenti per orientare il fare; per il servizio sociale questo vuol dire la teoria (le tecniche; le teorie delle scienze sociali) e i valori e i principi – un anziano che chiede un intervento al servizio sociale: ho una deontologia professionale, per cui lo ascolto con attenzione e con rispetto4, e non penso che sia un incapace perché ha chiesto aiuto, ho delle conoscenze circa i processi di invecchiamento, le politiche sociali nei confronti della popolazione anziana, la trasformazione della famiglia, le tecniche di colloquio, ecc.

• La scelta. La definizione di scelte, che costituiscono delle mete da raggiungere, che immagino come desiderabili; quello che ho deciso di fare lo farò per che cosa, per quale obiettivo; la scelta è un’azione mentale complessa, che può essere compiuta solo se si ha piena consapevolezza del percorso mentale che l’ha determinata, quindi dei valori a cui si attinge, delle conoscenze che si possiedono, delle implicazioni culturali che s’immettono nel definire una scelta e non un’altra – lo stesso anziano di cui sopra: scelta � parlare con i figli del signore, perché: è emersa un’implicita richiesta di mediazione nei loro confronti da parte del padre, l’ha chiesto espressamente, per conoscere il mondo relazionale dell’anziano e capire meglio la sua domanda, per sollecitare la solidarietà familiare prima di far intervenire l’ente pubblico, ecc.

3 Vc. dotta, lat. methodu(m), s. f. (ma la voc. finale è stata determinante per il suo inserimento fra i s. m.), dal gr. méthodos ‘via (hodós) che conduce oltre (metá)’. “Questa parola méthodos composta dalla preposizione meta, che vuol dire con, e dalla voce odos, la quale vuol dire via, significa propriamente appo i Greci quello che i Latini chiamano diverticulum o più tosto iter transversum e noi volgarmente tragetto, ciò è una via più diritta e conseguentemente più breve dell'altre, la quale più tostamente a quel luogo ne conduca dove d'arrivare intendiamo. Da questa sua prima e propria significazione fu poi da loro trasportata per traslazione non solo ne' campi ed eserciti militari, quando i capi vanno a rivedere l'ascolte e sentinelle, ma ancora nelle scienze e nell'arti. Onde metodo non vuol dire altro in questa ultima significazione, se non una via o un modo diritto e breve, ciò è agevole e spedito, col quale s'insegni arte o vero scienza” (B. Varchi, Del metodo, in Opere, Trieste, 1859: II 796). Dizionario Etimologico della lingua italiana, Zanichelli, 2000 4 L’assistente sociale traduce operativamente i principi etico-politici e il codice deontologico.

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• La sequenza operativa. La concatenazione logica di operazioni e la predisposizione di idonei strumenti; è la parte pragmatica e operativa del metodo, ovvero che cosa si farà e come - si convocano i figli, per lettera, per telefono (un’altra scelta: modalità più formale o informale), in ufficio, con il padre, senza il padre, a casa dell’anziano – per che cosa: l’oggetto di lavoro, il perché parliamo con i figli dev’essere chiaro nella nostra testa

• In ultimo, l’apprendimento dall’esperienza: la riflessione su ciò che è accaduto, che favorisce un’evoluzione del metodo (provando e riprovando e ripensando). Apprendere dall’esperienza è porsi in una posizione di ricerca permanente. Rivedendo i percorsi, posso acquisire delle competenze tali per cui, in futuro, in una situazione analoga posso introdurre delle varianti rispetto al percorso, delle ulteriori riflessioni, degli approfondimenti, delle comprensioni migliori (pensiamo al colloquio: gli schemi di riferimento per un colloquio ben fatto – che abbia quindi un esito e che questo esito corrisponda agli obiettivi per i quali il colloquio è stato effettuato – giungono dalle tecniche di colloquio, a sua volta supportate dai principi di servizio sociale e da conoscenze teoriche – la teoria della comunicazione umana, ad esempio; ogni colloquio arricchisce lo schema cognitivo dell’operatore che lo conduce, gli fa cogliere più sfumature, affina le sue abilità relazionali e comunicative, gli fa capire di più la correlazione tra il comportamento professionale ed il principio “della dignità personale di ogni essere umano”, e quindi a tradurla meglio; non basta essere gentili ed accomodanti…. I figli sono venuti, hanno detto che del padre non gli importa niente, che gli importa moltissimo e vorrebbero che vivesse con loro – che cosa ha insegnato questa vicenda all’assistente sociale? Il percorso è stato corretto? Le parole, i comportamenti sono stati idonei? C’erano altri protagonisti non considerati? Si sono dimenticate delle informazioni? Si sono indotte delle risposte?

Questa definizione di metodo (Ferrario, 96) è una definizione in cui ogni elemento è strettamente connesso con l’altro (anzi, ognuno condiziona l’altro: le mie conoscenze scientifiche su un certo fenomeno orientano la mia percezione su di esso). Inoltre è una definizione aperta, che consente scambi all’esterno – al di fuori della mente dell’operatore: la riflessione sull’esperienza significa introdurre, nel percorso, nuovi dati di realtà e quindi rivedere, a posteriori, ciò che è stato, in un tentativo costante, permanente di spiegare/agire il lavoro sociale – e se stessi, come lavoratori sociali - in maniera sempre più articolata. È una definizione aperta che contiene elementi di stabilità (la deontologia è relativamente stabile, il principio della centralità dell’uomo è quello, così come “ogni società ha l’obbligo di provvedere al benessere dei suoi membri” dal Codice Internazionale di deontologia del servizio sociale; così come vi sono elementi di stabilità in certe acquisizioni delle scienze sociali, la cultura è “valori, norme, definizioni, linguaggi, simboli, segni – è un prodotto storico5) e di flessibilità, perché il metodo si realizza in un percorso circolare che implica, di fatto, un processo di apprendimento costante, che rimette in crisi quanto già dato per certo e consolidato e consente nuove conoscenze e interpretazioni e quindi un nuovo apprendimento. Lo schema rimane sempre lo stesso – valori, teoria, scelta, sequenza operativa, apprendimento dall’esperienza, ma si arricchisce. Nel linguaggio comune fare qualcosa con metodo vuol dire farlo bene. In altro modo, si può dire che i poli stabilità - flessibilità consentono al metodo di unire all’aspetto normativo, che rassicura - la via maestra, una componente di scoperta, avventura e di potenziale rinnovamento. La via maestra (teorie delle scienze e valori e principi) è ferma (contiene), dà le indicazioni di confine (non sono un idraulico, un cardiochirurgo, un poliziotto e un assistente sociale: le loro scienze sono diverse dalle mie). La facoltà di pensare serve anche a distinguere ciò che è giusto e utile. Si usano correntemente le espressioni: le buone ragioni, dalla parte della ragione. Il riferimento all’etica è immediato: agire secondo ragione vuol dire attivare una facoltà che consente di distinguere fra il bene ed il male. Ma il bene e il male sono a volte di difficile definizione. L’assistente sociale deve rispondere sempre ad una domanda fondamentale: qual è il bene della persona? Ovvero per chi è il giusto e l’utile, in quella situazione?

5 Gallino, Dizionario di sociologia, UTET, 1996

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Molti si sono posti questa domanda, e hanno tentato delle risposte, che sono degli orientamenti: la convenzione sui diritti del fanciullo di New York, del novembre 1989, dice (art. 3) che “in tutte le decisioni relative ai fanciulli …l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente” e (art. 20) “ogni fanciullo il quale è…privato del suo ambiente familiare … ha diritto a una protezione e ad aiuti speciali dello stato”. I principi dell’ONU per le persone anziane (risoluzione 46 del 1991) fissano dei principi essenziali da garantire alle persone anziane in tutto il mondo; le parole d’ordine sono “indipendenza, partecipazione, cura, autorealizzazione e dignità”. La facoltà della ragione aiuta a tradurre, nella situazione specifica, il diritto alla cura, all’indipendenza, alla realizzazione. A volte la persona è in grado di dire il suo bene, le sue ragioni: se avessi questo, starei meglio, altre volte no. Allora bisogna interpretarlo, raccogliere dei segnali, incollare dei dettagli. La facoltà della ragione consente di distinguere tra gli interessi dei diversi soggetti coinvolti in un determinato problema. La facoltà della ragione ci dice che esistono dei percorsi di riflessione e di pensiero che conducono a delle scelte, e che non scegliere è una scelta. Su un piano più generale, ci si può chiedere: qual è il bene dei cittadini che accedono ai servizi sociali? Una qualità della vita dai cittadini stessi definita come accettabile, come positiva? Probabilmente sì. Una distinzione: il bene individuale e il bene collettivo. Il bene collettivo dei cittadini ha a che fare con la qualità dei contesti di vita, da un lato, e con la qualità dell’organizzazione che i servizi sono in grado di offrire, dall’altro. Per quanto riguarda l’intervento verso i contesti di vita, possiamo dire che è un interesse antico del servizio sociale, che nasce con il servizio sociale professionale stesso. Circa la prospettiva del processo di aiuto come approccio unitario verso l’individuo e l’ambiente, sono interessanti gli spunti che T. Ossicini Ciolfi propone in un saggio del 1980, in cui si evidenzia come l’approccio originario del lavoro dell’assistente sociale si basasse su una concezione unitaria delle due realtà, individuale e sociale e che questa unitarietà rappresenta una specificità innovativa del servizio sociale stesso. In questa concezione l’ambiente è considerato sia negli aspetti oggettivi che di vissuto della persona. «La figura dell’assistente sociale…è nata dalla pratica. Dall’esperienza pratica, di erogazione di prestazioni e servizi, viene la convinzione che ogni situazione di bisogno, intesa in senso lato, non ha significato solo per ciò che viene a mancare ma anche per le ripercussioni che la carenza genera nelle persone, nel loro modo di porsi nei confronti della realtà, in definitiva nella loro autonomia che è capacità di vedere i mali dove stanno e vie di soluzione adeguate, pertinenti e non illusorie…Il problema non si risolveva solamente dando ciò che mancava o curando in modo adeguato quella determinata malattia (cose che beninteso, devono essere fatte in ogni caso e prima di tutto) ma cercando anche di affrontare i guasti che nelle persone, nelle loro relazioni sociali, nei loro rapporti con la società circostante potevano avere in qualche modo prodotto disagi e sofferenze…l’aiuto alla persona richiedeva un’analisi della situazione diretta a cogliere del problema posto lo specifico, il peculiare, l’irripetibile, che nel vissuto della persona sono il riflesso dei mali sociali, i segni del coinvolgimento; e a cogliere nello stesso tempo l’uniforme e il ripetibile, ossia i mali sociali, la realtà che deve essere distanziata da sé per poterla riconoscere e poter agire»6. Un’altra risposta parziale, alla domanda di beni collettivi, l’assistente sociale la dà preoccupandosi dell’organizzazione dei servizi, cercando di adattare tempi, modi, risorse dell’organizzazione ai cittadini e alle loro esigenze prevalenti e non il contrario. Riflettendo, per esempio, se le procedure di accesso ai servizi siano facilitanti o creino confusione e difficoltà; oppure ragionando sulle prassi di segnalazione fra servizi diversi: sono agevoli gli scambi fra il servizio sociale e la scuola, o sono molto intricate, orientate alla dispersione della segnalazione? Riflettendo anche sulla sua appartenenza di professionista all’organizzazione: la mia appartenenza è tale per cui io m’identifico con il mandato di quella organizzazione, e

6 T. Ossicini Ciolfi, L’assistente sociale ieri, oggi, domani, in “La Rivista di Servizio Sociale”, 2/80, p. 90 - 92

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spendo le mie energie e la mia intelligenza per realizzare i fini di quella organizzazione (in generale: produrre servizi) oppure la mia appartenenza è puramente formale? La ragione aiuta a tenere presente di chi è il bene, quali sono i fini delle azioni, se i mezzi sono coerenti con i fini, in ogni specifica situazione, e a non indulgere in risposte facili, approssimative, superficiali. La dimensione della ragione si collega anche al concetto di responsabilità, inteso come consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni. Tale consapevolezza consente di effettuare delle scelte. Il concetto di responsabilità, in senso morale e non giuridico, compare nelle discussioni sulla libertà: esiste un individuo libero di scegliere e consapevole delle conseguenze delle proprie scelte7. Nel “Dizionario dei vizi e delle virtù”, Natoli fa riferimento all’etica della responsabilità, secondo Weber, il quale «assume quale criterio dell’agire non solo la bontà della condotta – vale a dire la conformità dell’azione alla propria convinzione – ma le conseguenze della stessa ai fini del mantenimento del legame sociale e in senso generale della pace»8 Responsabilità quindi come libertà di scelta e consapevolezza ed anche, secondo Baumann, come coscienza. Baumann infatti dice «la voce della coscienza, che è la voce della responsabilità…la voce della responsabilità è il primo vagito dell’individuo umano. La sua presenza è il segno della vita individuale. Non necessariamente, però, è indice di una vita felice, se felicità significa l’assenza di preoccupazioni (una definizione di felicità altamente discutibile, anche se molto diffusa). L’accettazione della responsabilità non è un compito facile: non solo perché introduce il tormento della scelta (che comporta sempre una perdita e un guadagno), ma anche perché preannuncia la perenne preoccupazione di avere compiuto un errore»9 Ascoltare o non ascoltare, intervenire o non intervenire, osservare o non osservare, partecipare profondità al disagio dell’altro o non partecipare, sono scelte - che hanno delle conseguenze. La responsabilità dovrebbe consentire la scelta migliore possibile, secondo coscienza, in quella data situazione. Un’altra dimensione della professionalità è la dimensione della conoscenza. Utilizzo conoscere per parlare di sapere. Sapere di sociologia, di psicologia, di politica sociale, di diritto – sapere della natura umana, dei meccanismi della comunicazione, delle trasformazioni della famiglia ma anche sapere dove si collocano i servizi sociali nel quadro delle politiche sociali, dove si aprono le contraddizioni tra i diritti sociali dei cittadini e quanto è effettivamente normato ed esigibile. Sapere qual è il concetto di giustizia sociale in quel dato momento storico in quella particolare società. Sapere di metodologia di servizio sociale: che l’analisi di una situazione, individuale e sociale, ha dei precisi parametri di riferimento per essere fatta con rigore e precisione. Sapere che la valutazione non è un fatto istantaneo, ma è l’esito di un percorso complesso di analisi. Sapere come imparare ad apprendere dalla propria esperienza ed utilizzare questo apprendimento per costruire nuove abilità operative. Ma conoscere vuol anche dire una accurata conoscenza di se stessi, negli aspetti più intimi della propria personalità. Essere in contatto, sempre, con gli aspetti più imbarazzanti ed oscuri dei propri pensieri, anche con i pensieri e sentimenti che non ci fa piacere provare. Nel corso di studi si parlerà molto di una sorta di imperativo categorico “non giudicare”; ma noi siamo immersi in una cultura che produce giudizi e pregiudizi e giudichiamo in continuazione, ci viene spontaneo. L’assistente sociale deve liberarsi di questo imprinting culturale. Deve forzarsi ad uscire da una logica di senso comune, per entrare in una logica di tipo tecnico che dice: non giudicare, ma ascoltare e, successivamente, valutare, interpretare. Che cosa ne so io – si chiede l’assistente sociale - delle ragioni delle scelte di un altro essere umano? Che ne so delle sue condizioni di partenza nella gara della vita, delle sue opportunità o

7 Galimberti U., Psicologia, Garzanti, Torino, 1999 8 Natoli S., Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 142 9 Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 15

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dei suoi disagi? Che cosa ne so del perché dice di no ad un’opportunità che tutti dicono che è la migliore? Ascolto, valuto, faccio delle ipotesi. Non emetto sentenze. Un altro aspetto della dimensione della conoscenza: il desiderio di scambiare con altri esseri umani. Ovvero la conoscenza che nasce dal dialogo (dia e logos: discorso tra). Essere desiderosi di sapere, essere interessati al confronto, avere voglia di stare in una dimensione di reciprocità. Ascoltare avendo voglia di farlo. Provare curiosità. Questa costante dell’interazione personale rimanda non solo al rapporto fra i cittadini e l’assistente sociale ma anche al rapporto con il gruppo di lavoro. L’assistente sociale non lavora da solo. Questa è una “conditio sine qua non” nell’esercizio della professionalità: lavorare con altri, lavorare in gruppo. Un’altra dimensione della professionalità: la creatività, intesa come la capacità di inventare, di osare, di prendere strade diverse. Ogni azione nel servizio sociale ha il fine di migliorare quella porzione di realtà – di vita – nei confronti della quale si interviene. L’obiettivo non è mai il corretto completamento della procedura operativa, ma è sempre un cambiamento. Che può essere piccolo o grande, a seconda dell’accessibilità del problema e delle possibilità di soluzione esistenti. A volte la strada per il cambiamento è tortuosa, insolita, bisogna immaginare qualcosa di diverso – un altro percorso di ricerca perché l’approccio consueto non ha dato risultati - oppure accettare una proposta divergente. Creatività è un movimento intellettuale che consiste nel collegare informazioni in maniera imprevedibile, per produrre un ordine nuovo ed è anche ascoltare le proprie intuizioni. L’intuizione non è codificabile, ma c’è, esiste, ed occorre tenerne conto. È un’informazione soggettiva, poco scomponibile, poco riconducibile a percorsi logici, consequenziali (sento che…ma non so spiegarlo), ma è un’informazione importante, che ha un suo peso. In altre parole: essere aperti, accessibili al non previsto, usare la fantasia e scomporre l’ordine logico (da A si può saltare a D, non è obbligatorio seguire sempre il percorso da A a B). In un testo del 196710, che s’intitola “Il pensiero laterale” – sottotitolo “come diventare creativi – Edward De Bono analizza il pensiero che porta alla creazione, che chiama “pensiero laterale”, contrapponendolo al “pensiero verticale”, che è la modalità di pensare che noi comunemente definiamo logica. Il pensiero laterale si preoccupa di trovare nuove interpretazioni della realtà e si interessa di idee nuove di ogni genere, ovvero considera punti di vista parziali, apparentemente poco connessi con il problema, usa capacità non codificabili, come la fantasia, come l’utilizzo dell’intelletto per sfruttare le occasioni date dal caso. Collegherei alla dimensione della creatività la “capacità negativa”, così ben descritta da Lanzara (1993). La “capacità negativa” è la capacita di saper stare nell’incertezza, nell’accettare momenti di indeterminatezza e di assenza di direzione e, contemporaneamente, di cogliere le potenzialità di comprensione e d’azione che possono rivelarsi in tali momenti. Non tutti gli eventi possono essere sempre spiegati esaustivamente o affrontati nella loro totalità: si tratta di essere capaci di accontentarsi di mezze conoscenze e di mantenere le cose in una sorta di animazione sospesa. Ma la sospensione dell’azione o della spiegazione non coincide necessariamente con l’inattività e la passività cognitiva. Essa dispone a lasciare che gli eventi seguano il loro corso, restando in vigile attesa, e a lasciarsi andare con essi senza pretendere di determinare a priori e a tutti i costi la direzione, il ritmo, o il punto d’arrivo. La “capacità negativa” non è solo disposizione esistenziale all’esperienza dell’incertezza. Essa implica anche una disposizione cognitiva: proprio questo stato di indeterminatezza e di temporanea assenza di direzione permette di prestare attenzione ad aspetti della situazione che la tensione performativa al risultato – il risultato a qualunque costo, qualunque esso sia - e alla riduzione d’incertezza o il ritmo della routine non permettono di «vedere» e di apprezzare. È proprio il disinteresse per la ricerca immediata di «fatti» e «ragioni» tanto ovvi quanto rassicuranti che dà quell’apertura cognitiva necessaria ad esplorare possibilità di senso e d’azione non ancora pensate e praticate.

10 De Bono E., Il pensiero laterale , Rizzoli, Milano, 1981, ed. or. 1967

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Le deviazioni dalla routine standard e dalle situazioni «normali» contengono un potenziale d’innovazione per chi è capace di tollerare la provvisoria assenza di ordine e direzione. In conclusione: nel servizio sociale gli strumenti lavorativi prevalenti non consistono in apparecchiature, ma in competenze professionali: la tecnologia è rappresentata dal sapere, saper essere, saper fare degli operatori. Primo comma dell’articolo 1, seconda parte: dove si esplica l’autonomia tecnico professionale? “In tutte le fasi dell’intervento per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi”. Si lavora con le persone, quindi. Qui c’è una peculiarità e una criticità. Questo lavoro si realizza quindi in uno spazio intersoggettivo, persone che lavorano con altre persone – un termine di uso corrente per parlare di servizi sociali e di alcuni servizi sanitari è “servizi alla persona” - e nell’intersoggettività si depositano sentimenti ed emozioni, che appartengono sia alla persona che si rivolge al servizio sociale che all’operatore. Questa dimensione può essere detta della relazionalità. Il lavoro con le persone implica delle relazioni, ovvero dei legami fra i soggetti dell’interazione. L’assistente sociale, quando entra in contatto con delle domande, che sono conosciute dall’operatore in uno spazio interpersonale, e che possono essere individuali o sociali, mette in moto un complicato processo di ascolto, attenzione, analisi, che si tradurrà, poi, in scelte operative. Per fare ciò il primo strumento che usa è se stesso, la propria persona, con la sua capacità di comunicare, di accogliere, di sentire ciò che l’altro soggetto comunica. Usa la propria mente, la sua memoria, il suo pensiero, il suo linguaggio, le sue conoscenze, le sue emozioni – e le traduce in un comportamento professionale. L’interazione umana non è però un territorio neutro, ma è un territorio che gli interlocutori colorano della loro emotività e la vicinanza dell’operatore alla persona si definisce attraverso la capacità di identificazione con la persona stessa, mettersi nei suoi panni, come dice un proverbio. Ma indossare i panni dell’altro non è sufficiente, occorre saperseli levare, per ritrovare lucidità e restituire alla persona un pensiero interlocutorio su se stessa, affinché la persona apra un dialogo con se stessa. Perché occorre parlare con se stessi, ed è importante aiutare qualcuno a farlo, se questa conversazione è interrotta? Indipendentemente da qualunque tipo di teoria a cui si faccia riferimento, nella nostra cultura si dà valore a ciò che Platone chiamava il “dialogo interno”, quella capacità di confronto con se stessi, che è una condizione per l’integrazione dell’io, per la consapevolezza di sé, per l’azione consapevole, per la definizione di progetti esistenziali che considerino il desiderio e la realtà e il loro equilibrio. L’ascolto consente ad una persona di parlare con se stessa, attraverso l’altro. Sapere entrare e saper uscire dai panni dell’altro è una competenza relazionale. Questo, in concreto significa per l’assistente sociale che: � il coinvolgimento emotivo è necessario, perché è solo attraverso il coinvolgimento che si

può ascoltare in profondità, comprendere l’altro; il coinvolgimento emotivo è particolarmente evidente ed intenso nel lavoro diretto con la persona, ma non è estraneo ad altre modalità di lavoro sociale: per pensare a delle azioni di sviluppo di una comunità locale io devo essere coinvolto dal punto di vista dei cittadini che in quel territorio vivono, e sentire, non solo a livello razionale, le ragioni delle loro esigenze di miglioramento della qualità di vita di quell’area.

� Che l’assistente sociale pratica una frequente esposizione al dolore. Accade che, per allentare la tensione della sofferenza, la persona consegni questo dolore a qualcun altro, che si prenderà cura, che cercherà delle soluzioni: cioè all’assistente sociale. Il dolore lascia segni, non è senza effetti stare vicini ad esso, non si può rimanere tranquilli come prima, è un’esperienza forte.

La conseguenza immediata di tutto ciò è che l’assistente sociale deve avere un’ampia consapevolezza di sé, per dirsi, senza negare nulla (la rabbia, l’ansia, l’impotenza, la paura) che cosa sta provando, quando sta in contatto, quando è vicino ad un altro essere umano che si vede costretto in uno spazio senza opportunità (non troverò più lavoro ed ho già cinquant’anni).

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Fare l’assistente sociale non è indossare una tuta antiradiazioni e poi togliersela e lasciare giù qualunque contaminazione. Allora, assumendo la positività del coinvolgimento, aggiungo che bisogna volersi contaminare, essere curiosi, avere voglia di conoscere in profondità le persone, i loro stili di vita, le loro strategie esistenziali – in altri termini: il significato che ciascun singolo individuo dà agli avvenimenti della propria esistenza. Coinvolgersi comporta arricchimento, personale e professionale, non soltanto fatica. La pratica dell’ascolto è essenziale in un mestiere di aiuto, ed anche che è l’unica pratica che consente che siano le persone a dire ciò che è importante per loro e per quale aspetto della loro vita chiedono aiuto. Così come la pratica del rispetto: il rispetto inizia da piccole cose, dal riconoscere ciò che riveste significati per la persona, ciò che è importante per la persona stessa e non per l’assistente sociale. La dimensione della relazionalità consente di praticare, concretamente, l’ascolto, il rispetto, la comprensione. Ascoltare e scambiare vuol anche dire ampliare la propria visione. Ci s’immagina l’assistente sociale come un esperto di problemi e di disagi sociali; il che è abbastanza vero, ma l’esperienza del “trattamento del problema” – il maneggiare qualcosa di difettoso per aggiustarlo non è l’unica esperienza dell’assistente sociale. L’assistente sociale non fa solo esperienza diretta di problemi ma incontra esempi di abnegazione, di dedizione, di capacità di vivere in condizioni disagiate, di lucidità pratica, di progettualità creativa, anche laddove non sembra, ad un primo sguardo, che non ci siano né risorse né speranze. Quindi è anche un esperto di strategie esistenziali, particolari, raffinate, differenti. Sottolineo questo aspetto perché è essenziale, per essere buoni professionisti, non stare concentrati soltanto verso il problema (come se fosse un virus da isolare e poi da studiare in laboratorio, su cui applicare vari tipi di soluzioni standard) ma stare soprattutto concentrati verso ciò che è abilità, saper fare, iniziativa autonoma, progettualità spontanea. Altrimenti come si potrebbero mettere in atto dei processi di aiuto, il cui fine è l’autonomia (parziale o totale) delle persone? Concentrarsi sulle risorse – sulle possibilità delle persone di risolvere da sole i propri problemi, con il sostegno del tecnico – comporta, a volte, un grande sforzo intellettuale ed emotivo, perché la vicinanza al disagio ed alla sofferenza condiziona lo sguardo e sollecita sempre la stessa prospettiva, la mancanza, ciò che non c’è. Costruire l’abilità di guardare il positivo è un prerequisito della costruzione di professionalità. Articolo 1, secondo comma. “l’assistente sociale svolge compiti di gestione, concorre all’organizzazione e alla programmazione e può esercitare attività di coordinamento e di direzione dei servizi sociali”. Gestione: lavorare direttamente con e per. Non delegare. Non dare gli ordini a qualcun altro. Stare nelle relazioni – con le persone, con gli altri professionisti, con gli amministratori. Saper fare dei programmi d’intervento finalizzati. Coordinare il proprio intervento insieme a quello di altri professionisti, di altri non professionisti. Il funzionamento dell’organizzazione non è qualcosa a cui l’assistente sociale è indifferente; il funzionamento dell’organizzazione incide sulla possibilità dei cittadini di accedere o meno alla risorsa servizi e sulla possibilità di lavorare in modo professionale. Quindi è un compito preciso dell’assistente sociale partecipare alla definizione dei meccanismi organizzativi di un luogo di lavoro. La seconda parte indica una prospettiva di un altro modo di esercizio della professione: il coordinamento e la direzione di servizi. Una variazione possibile, dalla dimensione della gestione a quella della programmazione (la definizione dello scenario complessivo in cui si collocheranno le attività di gestione). Articolo 1, quarto comma. “nella collaborazione con l’autorità giudiziaria, l’attività dell’assistente sociale ha esclusivamente funzione tecnico-professionale”. L’assistente sociale è un esperto, non è il soggetto che decide. Per essere esperto e per dare elementi a chi deve decidere deve saper

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fare delle valutazioni esatte, in cui le informazioni siano coerenti con i quesiti oggetto della segnalazione e della richiesta e saper comunicare le proprie valutazioni, le proprie idee. Questo vale per tutti gli interlocutori, da qui l’importanza della documentazione e della cura della comunicazione scritta. Queste dimensioni si collegano nell’operatività, l’agire professionale. L’assistente sociale è un professionista che lavora nella e con la complessità, non semplifica. E’ un professionista che, prima di agire, si chiede perché - chiedersi perché è la domanda fondamentale per capire i significati delle nostre azioni e di quelle degli altri. Perché faccio questo? Perché mi è stata fatta questa domanda? perché questa domanda mi è stata fatta oggi? Perché? è la domanda che apre la comprensione, anche la comprensione che non abbiamo sufficienti strumenti per comprendere e quindi bisogna ampliare il nostro bagaglio di conoscenze e quindi chiedere aiuto e che ci sono cose che non si possono comprendere - ci sono perché a cui non c’è risposta, esiste una finitezza nella natura umana che non consente di comprendere totalmente il mondo. Chiedersi perché è un indicatore di professionalità, di competenza, così come saper gestire l’ansia (propria ed altrui), e consente di tenere sempre conto della pluralità e della particolarità delle cause, delle spiegazioni, delle soluzioni, delle impossibilità di soluzione, del fatto che ogni percorso di vita è particolare ed irripetibile. Questa legge istituisce l’albo professionale. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine ha scritto ed approvato il codice deontologico dell’assistente sociale. Il codice deontologico che indirizza il fare e dice, al titolo 2, nei principi, che ”la professione è al servizio delle persone, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle diverse aggregazioni sociali per contribuire al loro sviluppo”(punto 6) e, al titolo 3, punto 11 “l’assistente sociale deve impegnare la sua competenza professionale per promuovere la piena autodeterminazione degli utenti e dei clienti, la loro potenzialità ed autonomia, ponendoli in grado di partecipare consapevolmente alle fasi del processo di aiuto”. Professionalità è anche la traduzione concreta, in ogni singola azione professionale, dei principi e delle regole del codice deontologico. La dimensione deontologica, dunque, come componente della professionalità. Diomede Canevini11 (1999) sottolinea come una professione matura non possa non dotarsi di un Codice deontologico, e che, nel dotarsi di questo documento, la professione abbia risposto a dei doveri, quali l’esplicitazione del soggetto destinatario del lavoro professionale (“la persona al centro”), la visibilità dei propri valori di riferimento, la tutela delle persone che ricevono un servizio, la dichiarazione di essere una professione di pubblica utilità e al servizio del bene comune12, la definizione della professione e della tutela dei professionisti, e, in ultimo, il dovere di rappresentare la professione in un momento della sua evoluzione. L’istituzione dell’Ordine, e il riconoscimento giuridico che ne consegue, ha rappresentato un’apertura circa le possibilità di azione professionale, come ad esempio la libera professione, la consulenza professionale, la docenza nei corsi universitari (Dal Pra Ponticelli, 1995). «Il servizio sociale è quindi oggi una professione che tenta di rendere operanti gli orientamenti della politica sociale sia istituzionale che di mondo vitale in quanto “tutore del diritto dei cittadini” – affermato appunto dalla politica sociale – di accedere alle risorse pubbliche e private che permettano di tutelare le loro aspettative per una sempre migliore qualità della vita»13. 11 M. Diomede Canevini, Il Codice deontologico dell’assistente sociale: cenni di storia ed attualità, in “Rassegna di servizio sociale”, 4/99, p. 7-8 12 Il lavoro sociale promuove il benessere sociale degli individui, dei gruppi umani e delle comunità; agevola la coesione sociale in periodi di cambiamento. Raccomandazione n. 1/2001 del Comitato dei Ministri degli Esteri dell’Unione Europea 13 M. Dal Pra Ponticelli, Verso la laurea in servizio sociale: ipotesi e prospettive, in “Rassegna di Servizio Sociale”, n. 1, 2000

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Il punto nevralgico del sistema integrato di interventi e servizi sociali, così come previsto dalla legge 328/00, sono le figure professionali sociali. Per quanto riguarda l’assistente sociale, sembra possibile formulare l’ipotesi che l’assistente sociale, in relazione alla sua storia e alle sue competenze, sia il tecnico specifico per promuovere, organizzare, realizzare politiche sociali locali integrate, per costruire una rete di protezione sociale il più globale possibile14. I compiti specifici per il servizio sociale, proposti dalla normativa vigente, sono15: - il lavoro sul caso, attraverso progetti personalizzati di inserimento sociale (in una logica

vicina al “case management” dei paesi anglossassoni); - la progettazione e l’attuazione di programmi integrati di intervento sul territorio16. Indubbiamente, la 328/00 valorizza la figura dell’assistente sociale ridandogli un ruolo centrale negli Enti Locali che dovranno realizzare, concretamente, la riforma dell’assistenza, ovvero il sistema integrato di interventi e servizi sociali. Per l’assistente sociale i compiti proposti dalla normativa non sono nuovi, poiché appartengono alla sua storia, sono elementi costitutivi della sua professionalità; sicuramente si tratta di approfondire e specializzare delle competenze rispetto alla programmazione, all’analisi della domanda e dei bisogni sociali, alle capacità negoziali per porsi come soggetto attivo nella transazione tra istituzioni, terzo settore, mondi vitali17, all’assunzione di funzioni di advocacy, alla valutazione della qualità dei servizi (pubblici e privati). La funzione di advocacy è quella funzione specifica di servizio sociale, con la quale s’intende la rappresentanza e la tutela degli utenti. L’assistente sociale è una figura professionale sociale, un tecnico, specializzato, nel sociale. ma quali sono le differenze fondamentali tra l’aiuto naturale e l’aiuto tecnico? Per entrare dentro la definizione di professionista dell’aiuto, possiamo iniziare a distinguere tra l’aiuto naturale e l’aiuto professionale. Quali sono le differenze tra queste due aree, di cui abbiamo conoscenza diretta, nella nostra vita. Ciò che ci riceviamo da chi ci sta vicino (o perché è un soggetto del mio mondo o perché c’è una solidarietà umana immediata, in uno stato di bisogno) è diverso da ciò che riceviamo da chi ha una specializzazione nell’aiutarci. Ci sono bisogni per la cui soddisfazione chiediamo a chi ci sta accanto, per altri chiediamo a chi è specializzato in quel bisogno (il mal di gola, l’elettrauto). Noi ci immaginiamo, quando abbiamo una necessità, chi potrebbe soddisfarla. Ci inventiamo un soggetto a cui chiedere. Facciamo una selezione, in modo abbastanza rapido (agli amici chiedo conforto e vicinanza, al medico chiedo la diagnosi e le medicine) . Gli ambiti dell’aiuto, della cura (socio sanitaria), sono divisibili in due aree, area formale e area informale (ma questo discorso possiamo applicarlo agli aiuti professionali e non professionali, in genere) FORMALE (PROFESSIONALE) INFORMALE (NON PROFESSIONALE) modalità Universalistiche (rivolte a

tutti) Particolaristiche (a chi conosco, a chi scelgo)

14 M. Dal Pra Ponticelli, Quali prospettive per il servizio sociale degli anni 2000? Riflessioni ed ipotesi di fronte alla

legge quadro di Riforma dell’Assistenza, in “Rassegna di Servizio Sociale”, 4/00, pp. 4-13 15 I servizi obbligatoriamente presenti in ogni territorio, secondo il dettato della 328/00, devono essere: il servizio sociale professionale e il segretariato; il servizio di pronto intervento sociale per situazioni di emergenza personale e familiare; l’assistenza domiciliare; strutture residenziali o semiresidenziali per soggetti con fragilità sociale; centri di accoglienza residenziale o diurni a carattere comunitario. 16 Molte legislazioni regionali parlano di “piani attuativi locali”, nei quali gli interventi assistenziali si devono raccordare con gli interventi relativi al lavoro, alla casa, alla formazione, allo sviluppo complessivo delle comunità locali. Molti Comuni stanno predisponendo i piani di zona, strumenti di coordinamento e stimolo alla partecipazione dei soggetti che sono direttamente o indirettamente interessati ad azioni di promozione e tutela sociale a livello territoriale. Per una riflessione su questo punto, si veda L. Fazzi, Il metodo nella costruzione dei piani di zona, in “Prospettive Sociali e Sanitarie”, n. 5/02, pp. 1-5. 17 F. Villa, Dimensioni del servizio sociale, Vita e Pensiero, Milano, 1992

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Funzioni assolte Specializzate Generiche Coinvolgimento affettivo Neutrale Molto alto Status (posizione sociale) di chi assiste

Acquisito (c’è una preparazione specifica)

Viene dato (è qualcosa di assegnato, il compito di cura, di aiuto, al momento del bisogno)

IL PROCESSO DI AIUTO

I Lo scopo della relazione d’aiuto che l’assistente sociale instaura con l’utente è quello di fargli raggiungere un maggiore livello di autostima, di autonomia, di senso di responsabilità sostenendo un processo di cambiamento18 nel suo modo di percepire la realtà, di viverla sul piano emotivo, di reagirvi sul piano comportamentale in modo che attraverso anche un uso adeguato delle risorse istituzionali e comunitarie, alle quali l’assistente sociale facilita l’accesso, sia possibile ottenere un cambiamento della situazione socio – ambientale e delle relazioni interpersonali che la connotano. L’obiettivo del servizio sociale quindi non è tanto quello di curare una patologia individuale o sociale, quanto quello di sostenere nell’utente un processo di apprendimento di modi diversi di pensare, sentire, agire, che rendano più adeguati e funzionali i suoi sforzi per affrontare e risolvere la sua situazione/problema, anche con il supporto di tutte le risorse materiali ed immateriali che l’assistente sociale può riuscire ad attivare in rapporto al progetto di aiuto che ha fatto con l’utente stesso e che entrambi sono volti a realizzare. Il processo di aiuto del servizio sociale, in questa ottica, si realizza quindi a diversi livelli: - sul piano razionale – emotivo, cercando di ottenere un cambiamento nel modo di percepirsi

da parte dell’utente, nel modo di percepire la realtà con le difficoltà e i problemi (…) - sul piano comportamentale, sostenendo l’utente nell’adempimento di determinati compiti

che servono a realizzare il progetto di soluzione dei problemi definito e concordato insieme (…)

- sul piano organizzativo – promozionale, lavorando sulle risorse istituzionali, sulle reti sociali, sulle forze ambientali positive per coinvolgerle intorno al progetto formulato, costituendo un set di aiuto in grado di sostenere l’utente nel processo di cambiamento personale e relazionale (…)19

18 E questo dovrebbe far uscire dal nodo della dipendenza reciproca assistente sociale - utente 19 Howard Goldstein, Il modello cognitivo umanistico nel servizio sociale, Roma, Astrolabio, 1988, p. 21

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II Per processo di aiuto intendiamo l’azione teoricamente fondata, metodologicamente ordinata20, attraverso cui gli operatori, collocati nel contesto dei servizi sociali, rispondono ai bisogni singoli e collettivi dell’utenza attivando le proprie competenze professionali, le risorse istituzionali, le risorse personali, familiari dei richiedenti. Lo scopo fondamentale è di produrre un cambiamento nel modo di valutare e di affrontare i problemi, di prevenire la cronicizzazione del bisogno, di promuovere iniziative di solidarietà sociale. Il termine processo indica non solo il susseguirsi nel tempo di operazioni tecniche o di interventi, ma più precisamente la graduale costruzione di un contesto interpersonale in cui l’articolazione di varie competenze professionali, l’accesso alle risorse, l’uso del rapporto professionale diventano strumento di cambiamento. Il termine aiuto va inteso oltre che nel senso di azione diretta all’utenza, nella più ampia accezione di programmazione e gestione dei servizi giacchè il processo di aiuto non si colloca al di fuori di un’organizzazione, ma si attua nell’interazione tra operatori, utenza, servizi. Nell’affrontare il processo di aiuto nelle sue varie fasi metodologiche diamo particolare rilievo agli aspetti pragmatici di tale rapporto e quindi sottolineiamo i fenomeni relazionali propri dell’incontro tra diversi soggetti con proprie percezioni ed aspettative che influiscono sulla valutazione dei problemi, sul tipo e la modalità di intervento e sulla stessa gestione del ruolo dell’operatore21.

20 Si connette al percorso del metodo – valori, teoria, scelta, sequenza operativa, apprendimento dall’esperienza 21 Milena Lerma, Metodo e tecniche del processo di aiuto, Roma, Astrolabio, 1992, p. 91

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III L’intervento del servizio sociale si può definire come un processo di aiuto messo in atto da un professionista collocato nel contesto di un sistema organizzato di servizi, per lo più di tipo pubblico, rivolto a singoli, gruppi, soggetti collettivi, teso ad attivare un “cambiamento” sia nel modo di porsi dei singoli, dei gruppi e collettività di fronte ai problemi che li riguardano o dei quali intendono farsi carico, sia nel rapporto fra esigenze evidenziate e risposte personali, collettive, istituzionali da attivare o già disponibili. Il processo di aiuto del servizio sociale si pone anzitutto come obiettivo quello di aiutare l’individuo, il gruppo o la collettività ad utilizzare in modo più appropriato le risorse necessarie per risolvere il proprio stato di bisogno; risorse che sono innanzitutto personali (la propria capacità di reagire e di affrontare i problemi) ma anche ambientali - familiari (la capacità di entrare in contatto e di utilizzare le reti naturali di solidarietà sociali e di aiuto) e sociali (le risorse istituzionali o collettive organizzate in servizi, strutture, prestazioni). La relazione professionale attraverso cui si attua il processo di aiuto tende a sostenere la persona, il gruppo, la collettività nello sforzo per capire meglio la propria situazione, per vedere se esistono risorse da utilizzare, come attivarle, entrarvi in contatto, utilizzarle. Si tratta quindi di un processo di “cambiamento” a livello razionale-emotivo che porta ad una gestalt22 diversa della situazione e sviluppa la capacità di reazione e di iniziativa dell’utente in modo da stimolarlo a ritrovare la propria capacità di compiere azioni (…) che servano a rimuovere le cause della situazione di disagio. (…) Il valore di fondo che guida l’azione del servizio sociale consiste nel ritenere l’uomo un valore, dotato di infinite potenzialità, capace di apprendere e di modificarsi continuamente, libero nelle proprie azioni anche se consapevole dei condizionamenti ambientali sui quali può a sua volta agire23. Il servizio sociale parte dal presupposto che le persone non reagiscano solo meccanicamente alle influenze ambientali ma riescano ad incidere attivamente sui di esse e a trasformarle; il concetto di adattamento nel servizio sociale va inteso pertanto non in senso deterministico24. (…)[il] processo di aiuto (…) pur avendo anche esiti di tipo terapeutico è soprattutto “educativo”25 (si tratta cioè di un processo di apprendimento sociale). (…) è un aiuto al sistema utente per lo sviluppo di capacità per attuare un processo di soluzione dei problemi e di presa di decisioni. La (…) attuazione del piano [d’intervento] si concretizza in una serie di compiti che devono essere eseguiti dal sistema utente mentre l’assistente sociale si pone al suo fianco nel ruolo di mediatore, facilitatore […] svolgendo compiti di sostegno, chiarificazione, aiuto per la sperimentazione di nuovi comportamenti, attivazione e gestione di risorse istituzionali e collettive, ecc.26

22 forma, figura, configurazione. In questo contesto può essere tradotto con “configurazione”. La psicologia della forma (gestaltpsycologie) sostiene che i processi mentali della conoscenza, e in particolare dell’esperienza percettiva, si organizzano in configurazioni unitarie la cui totalità è qualitativamente differente dalla somma dei singoli elementi che la compongono ed irriducibile ad essi. U. Galimberti, Psicologia, Garzanti, Milano, 1999, p. 822. 23 Visione ecologico-sistemica. 24 Orientamento interazionista per quanto riguarda il rapporto individuo-ambiente. 25 Prospettiva cognitivista: ha come obiettivo ristrutturazioni cognitive, attraverso l’esame di realtà (comprese le convinzioni e le credenze, ed i dati oggettivi), per giungere allo sviluppo di capacità relative alla soluzione da adottare, attraverso uno schema contrattuale tra sistema utente e sistema d’aiuto. 26 M. Dal Pra Ponticelli, Problemi di definizione e riferimenti teorici, in Il servizio sociale come processo di aiuto, Franco Angeli, Milano, 1993, p. 19-25

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IV Il cambiamento con che cosa ha a che fare? Con la trasformazione e in sé la trasformazione è neutra, non è né buona né cattiva. Una variazione in uno stato – in questo caso, poiché parliamo di esseri umani, una variazione nel modo di pensare, agire, comportarsi, stare nella relazione con gli altri ecc. Il cambiamento dev’essere connesso ad un fine – per assumere un valore, positivo/negativo. Goldstein fa riferimento ad una trasformazione di un individuo che può essere interpretata come � Autorealizzazione. È una direzione condivisibile di cambiamento. � L’autorealizzazione non dev’essere confusa con l’individualismo. L’autorealizzazione deve

tenere conto dei nostri legami con gli altri, si colloca in uno scenario sociale e quindi deve tenere conto delle esigenze emergenti da qualcosa che è di più dei desideri umani (l’ideale morale). “L’uomo che cerca di definire se stesso in una maniera significativa deve necessariamente muoversi in un orizzonte di questioni importanti27. Da ciò deriva che quelle modalità della cultura contemporanea che si concentrano sull’autorealizzazione in opposizione alle richieste della società28, o della natura29, che escludono la storia e i vincoli della solidarietà, negano in effetti se stesse. Queste forme narcisistiche, egocentriche, sono in realtà vacue e banalizzate (…) in altre parole, io posso definire la mia identità soltanto sullo sfondo di cose che hanno un’importanza. E accantonare la storia, la natura, la società, le esigenze della solidarietà, insomma ogni cosa tranne ciò che trovo in me stesso significherebbe eliminare tutti i candidati ad una qualunque importanza”30. Negli studi sulla società globale si fa riferimento alla trasformazione dell’individuo da cittadino politico in consumatore (l’homo sociologicus cede il passo all’uomo consumatore): l’idea della libertà si è ridotta alla possibilità dell’atto del consumo, allo scegliere fra le risorse (abbondanti) a disposizione di molti. «Il problema è che l’uomo consumatore […] il turista del villaggio globale rischia di essere presociale e astorico: presociale, perché più interessato allo spettacolo della differenza che al rapporto con l’alterità, più incline a una continuità senza coinvolgimento che a una corresponsabilità, astorico perché incentrato sull’intensità emozionale dell’istante, senza riguardo per ciò che viene prima o per le conseguenze che le sue pratiche di ricerca della massima e immediata gratificazione possono produrre sull’ambiente»31. L’uomo consumatore è un promotore della libertà senza responsabilità. Questo corso si muove in controtendenza: si cerca di insegnare agli studenti nei corsi di metodi e tecniche di servizio sociale è attivare dei percorsi verso l’assunzione di responsabilità: tu sei responsabile della tua vita, le tue intenzioni, il tuo impegno , i tuoi valori il tuo modo di relazionarti, sono essenziali in qualunque percorso di cambiamento.

� Questo è un esempio di complessità di un termine – l’autorealizzazione - che tutti noi interpretiamo sempre come positivo; il principio della libertà della persona, in servizio sociale, si declina in “autorealizzazione e autodeterminazione”. La possibilità di realizzare i propri desideri, all’interno di un confine dato, i desideri degli altri e il rispetto delle regole di base della società, e la possibilità di scegliere. Scegliere è una possibilità enorme, che implica delle responsabilità: poter scegliere implica l’accettare di fare un errore. L’autodeterminazione, come possibilità di scelta, non è sempre praticabile: pensiamo alla protezione sociale, laddove la protezione sociale si traduce in una violazione dei desideri e delle aspettative della persona – per il suo bene. Certe istituzionalizzazioni di anziani, in cui l’autosufficienza è molto ridotta, non ci sono risorse nella rete familiare, ci sono risorse limitate dal punto di vista istituzionali , per cui la scelta (dei servizi) è quella della situazione più tutelante, quindi non la casa, ma l’istituto. Rispettare l’autodeterminazione, per un operatore sociale vuol dire, a volte, accettare di attuare interventi imperfetti,

27 Questioni che trascendono l’uomo –il Rinascimento poteva permettersi di collocare l’uomo al centro dell’universo, in quanto l’universo aveva leggi sue proprie, autonome e da considerare/rispettare – ad esempio Dio come garante di un ordine superiore e di una visione unitaria, sul piano delle scelte morali. La civiltà moderna colloca l’uomo al centro, ma senza fare riferimento a ordini superiori. 28 Il liberismo senza regole in economia 29 Le devastazioni ambientali 30 Charles Taylor, Il disagio della modernità, Roma, Laterza, 1999, p. 48 31 C. Giaccardi, M. Magatti, L’io globale, Roma, Laterza, 2003, p.145-146

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parziali, nella logica del rispetto del desiderio, con dei rischi, per la persona, per l’operatore (che si assume la responsabilità di predisporre un intervento imperfetto).

Cambiamento, in servizio sociale, non è un termine assoluto, che indica sempre una variazione consistente in una situazione (“ho cambiato il mio modo di vedere la vita”), può essere una variazione, minima (un miglioramento), una conservazione. Occorre differenziare nei progetti gli elementi di cambiamento dagli elementi di conservazione o restauro. Non sempre è produttivo predisporre cambiamenti, occorre soprattutto agire per conservare, consolidare, restaurare, accompagnare il deterioramento32. Una pratica di lavoro sociale che consenta di continuare ad esistere. Non usare solo ruspe, martelli pneumatici, dinamite: avere la mano leggera, pulire, spolverare, consolidare, medicare e non tagliare. Si pensa, erroneamente, che il non cambiare sia un fallimento: da qui nascono gli accanimenti, terapeutici, educativi. Accettare un aiuto, ad esempio, è già un cambiamento: si tratta di continuare nella propria condizione di vita (pensiamo ad una condizione di non autosufficienza, irreversibile) con una risorsa aggiuntiva, che può essere l’aiuto del servizio sociale, che prima non c’era. Per concludere: � il processo di apprendimento–cambiamento: un processo mentale che consente una

modificazione durevole del comportamento per effetto dell’esperienza, consente quindi un cambiamento.

V Il paradigma educativo – promozionale, innescare processi di cambiamento, non curare le patologie. Parlo apposta di paradigma perché assumere questo orientamento ha significato una svolta enorme nel pensiero di servizio sociale. Dalla storia di servizio sociale si evidenzia come il centro d’interesse iniziale del servizio sociale fosse centrato sulla cura, sulla riparazione – dal modello di tipo caritativo ai moderni sistemi di welfare che si sono articolati attorno all’idea che dei diversi problemi sociali potesse farsene carico la società organizzata (lo stato). La responsabilità della società si è trasferita, per delega, alle professioni sociali – qualcuno doveva tradurre in pratica l’atteggiamento di opposizione e di lotta alle patologie sociali collettive. Questo ha significato, concretamente, che agli operatori sociali è stato dato il mandato di salvatori/risolutori. Che questo tipo di mandato non funzionasse era difficile intuirlo a priori, bisognava percorrerlo ed applicarlo per capire che era sbagliato. Questo primo paradigma del lavoro sociale possiamo chiamarlo “burocratico industriale” o “medico”, le cui caratteristiche principali sono: � tendere ad avocare a sé (l’operatore che lo assume) ogni responsabilità della cura e del

benessere; considera la persona solo per la patologia che ha, quasi come fosse un materiale da manipolare e sul quale produrre benessere (un atteggiamento di tipo industriale)

� enfatizza la trasmissione unidirezionale di risorse – l’operatore sociale vede se stesso esclusivamente come un tecnico addetto all’erogazione di risorse tecnico-materiali, da convogliare addosso all’utente

� tende ad astrarre la persona, considerandola a tu per tu, come se il cerchio delle relazioni non fosse una parte della persona stessa33.

Qui troviamo il tema della dipendenza dell’utente dall’operatore, dell’assiome dell’incapacità delle persone di essere autonome e quindi di avere delle competenze, della distanza emotiva, dello scarso valore della relazionalità, della non considerazione dei contesti di vita (le relazioni della rete primaria e l’ambiente di vita in senso lato). Il paradigma promozionale educativo triplica le responsabilità (l’operatore – la persona – il sistema di servizi), quindi assume maggiore realismo e evidenzia le competenze, le

32 I progetti di riduzione del danno o quelli di accompagnamento - alla morte, per esempio - si collocano in questa dimensione. 33 Fabio Folgheraiter, Operatori sociali e lavoro di rete, Trento, Erikson, 1990, p.149-150

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opportunità evolutive, il cambiamento possibile. Non si concentra sul problema, ma sulle risorse – personali e sociali. La funzione educativa compete a tutte le professioni che operano nel mondo dei servizi alle persone e non solo agli “educatori”34. La forza di questa funzione è educare al cambiamento – questo interessa l’uomo, in tutte le età e condizioni della vita. Ma è anche educarsi al cambiamento. Quindi non solo sapere essere, ma saper divenire35. Saper divenire si connette direttamente al tema della flessibilità, intesa come la capacità di mettersi in discussione, di non essere rigidi, di accogliere pensieri di altri, che sono magari in contrasto con ciò che pensiamo noi, di accettare che qualcun abbia qualcosa da dire sullo stesso argomento su cui noi abbiamo qualcosa da dire – accettare saperi diversi ed esplorazioni del mondo diverse dalle nostre. Il lavoro educativo è un lavoro che produce riscontri concreti nella vita delle persone, riscontri che hanno un forte valore simbolico. Il superamento di un malessere materiale, la conquista dell’alfabeto, la risoluzione di un disagio psico – relazionale sono aspetti che hanno in comune il fatto di avere riscontri concreti nella vita delle persone, e di avere un forte valore simbolico (ad esempio la risoluzione di un disagio mi consente di fare esperienza di benessere, di successo, di sostegno da parte di qualcuno, ecc. - un cambiamento significativo). In altri termini, il valore simbolico – il valore immateriale – del lavoro educativo è dato dal presentare agli altri, da parte della persona stessa, un’immagine rinnovata della persona che si è sottoposta al trattamento educativo (prima del disagio – dopo il disagio) e di aver una diversa percezione di sé – presentare a se stessi un’altra immagine, di colui che ha appreso o riappreso a fare, a comunicare; di potere esibire, quindi, agli altri e a se stessi, un’immagine trasformata. Ne consegue che il lavoro educativo – che produce questo valore simbolico – non può non essere parte del lavoro sociale36. Se no, non si capisce dove sia la qualità, il significato del cambiamento. VI Alcuni termini ricorrenti: la domanda, il problema, l’oggetto di lavoro, il cliente/l’utente37. La domanda. Ciò che è richiesto esplicitamente o implicitamente, consapevolmente o in termini inconsci. Per fornire servizi adeguati o di qualità è fondamentale rispondere a ciò che la popolazione o il mercato richiedono. È necessaria una capacità di lettura della domanda: quindi raccogliere la domanda esplicita, letterale, ma non soltanto, sentirsi sollecitati a scoprirne il vero significato. La domanda va maneggiata, scomposta, interpretata. Ciò è necessario per disegnare un progetto d’intervento. Un’organizzazione di servizi fornisce una prefigurazione delle possibili risposte che può dare: per cui la persona orienta la propria domanda in rapporto a questa prefigurazione – m’immagino che... Col tempo si sviluppa una certa congruenza (routine) tra cittadino e servizio. Fornire ai clienti un’immagine diversa del servizio li aiuta a formulare domande differenti38. I problemi: il problema fa parte della vita. È un quesito, un dilemma, un’incognita che attende una soluzione. In un modello teorico classico, il processo di servizio sociale individuale di Helen Perlman (1957), l’autrice afferma che il processo di servizio sociale individuale è essenzialmente un

34 Alle professioni definite come educative 35 Duccio Demetrio, Lavoro sociale e competenze educative, Roma, NIS, 1988, p. 11 36 Duccio Demetrio, cit., p. 25 37 Tratto da A. Orsenigo, La costruzione dell’oggetto di lavoro e il modo di trattarlo nella progettazione, Animazione Sociale, 11/99 38 La routine non è solo un evento negativo: consente conoscenza e la costruzione di un codice comunicativo comune. Nello stesso tempo, un’immagine altra di servizio dà l’idea di una “cura” diversa. Se mi preoccupo non solo del fatto che una persona abbia il tesserino timbrato, ma anche della licenza media, come operatore sto ampliando i margini dell’interazione persona-servizio, ed inserisco un elemento nuovo nel progetto di vita della persona.

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processo di soluzione di problemi39, ma questo non vuol dire che il servizio sociale risolva tutti i problemi, deriva dal concepire l’intera vita umana come un processo continuo di soluzione problemi. Questo processo, che riguarda tutti gli esseri umani, dalla nascita alla morte, ha essenzialmente due finalità: la riduzione di uno stato d’insoddisfazione o il passaggio ad uno stato di soddisfazione maggiore. L’assistente sociale interviene laddove la naturale capacità della persona di risolvere i problemi viene a mancare, per diverse ragioni (una condizione di stress particolare, ad esempio). Questa premessa per ricollocare il termine in una dimensione di normalità. Il termine problema, nel modello della Perlman, può essere una qualsiasi questione esistenziale. Altri due autori, Allen Pincus e Anna Minahan, affermano che quando si parla di una situazione come di un problema, abbiamo già formulato un giudizio su quella situazione. Si può quindi dire che un problema è un insieme fatto di tre parti collegate: - una condizione o situazione sociale; - delle persone che hanno giudicato problematica la condizione o la situazione sociale; - i motivi e le basi della loro valutazione40. Questa definizione di problema ci aiuta a collocare ogni problema (individuale o collettivo, definito da un individuo o definito istituzionalmente) in uno spazio di relatività – il problema esiste quando è definito come tale. Questo ci mette un po’ in crisi, vuol dire che i problemi hanno bisogno di essere pensati per esistere: i problemi come frutto di una costruzione sociale ed individuale41� non esistono in natura, ma sono il prodotto di complesse costruzioni in cui s’intrecciano rappresentazioni di sé e del mondo, emozioni e razionalità, memorie, pensieri, ricchezze e mancanze, rappresentazioni del passato e prefigurazioni del futuro. Per pensarli, le organizzazioni devono ricorrere a strumenti per pensare, più o meno consapevoli, quadri di riferimento, contenitori, schemi mentali. L’uso di stupefacenti in sé non è un problema, lo è in rapporto ad un sistema di norme, valori, paure, emozioni collegate. Le droghe leggere, le droghe pesanti: chi dice che le prime non siano un problema per la salute, chi dice che sono danno allo stesso modo. Inoltre, i problemi sono relativi nel tempo: un problema non è sempre un problema. I problemi sono in divenire, vanno collocati su un asse temporale; ciò che è oggi un problema, tra un anno potrebbe non più esserlo. L’individuazione dell’esistenza dei problemi può essere uno specifico compito del tecnico; si dice che solo i tecnici riescono a individuarli � riconduzione da parte dei tecnici dei disagi, desideri, domande dei clienti ai veri problemi che li originano. È un modello di razionalità forte: il paziente descrive i sintomi, ma è il medico che definisce il problema. Autorità del tecnico. Il limite di questo modello è che, siccome i tecnici hanno memorizzato le soluzioni per una serie di problemi, sono indotti a riconoscere quelli collegati alle soluzioni e non altri; si dice “le organizzazioni sono piene di soluzioni alla ricerca di problemi”. Definire qualcosa – un fenomeno sociale, un comportamento individuale – come problema è anche un potere: qualcuno ha il potere di definire qualcosa come problema: i tecnici, i dirigenti, i gruppi politici, i media, specifiche organizzazioni, la comunità scientifica. Dare potere alle persone è accettare che possano dare una loro definizione di problema e creare le condizioni affinchè possano dirlo. Poi si può negoziare, se il problema individuato dal tecnico è un altro o se il tecnico non ha soluzioni per quel problema. Nel sociale, possiamo identificare due grandi categorie di problemi: quelli generali, istituzionalmente definiti, capaci di orientare e di identificare un servizio e i soggetti che ad esso accedono; quelli specifici: sono quelli legati al singolo caso trattato, costruiti volta per volta. Al problema, noi attribuiamo molti significati:

39 H. Perlman, Il processo di servizio sociale individuale, in M. Dal Pra Ponticelli (a cura di), I modelli teorici del

servizio sociale, Astrolabio, Roma, 1985, p. 53 e sgg. 40 A. Pincus., A. Minahan, Un modello integrato per la pratica del servizio sociale, in M. Dal Pra Ponticelli (a cura di), I modelli teorici del servizio sociale, Astrolabio, Roma, 1985, p. 254 41 La costruzione sociale riguarda tutti gli oggetti del nostro mondo: lo sfregio delle donne, in Bangla Desh, con l’acido per batterie non è un problema, dove avviene, a parte le vittime, è l’esercizio di un diritto legittimo.

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1. sinonimi d’imperfezione. La situazione ideale è quella senza problemi 2. un giogo da sopportare: essi sono legati al destino, è un titolo di merito sopportare la

gravosità dei problemi, non c’è nulla da fare 3. una sfida: risolvere problemi appassiona � è la sfida (contro l’imperfetto, il disordine)

individuale o di gruppo del problem solving. Si accompagna alla convinzione che è essenziale aver imparato il maggior numero di soluzioni possibili a problemi predefiniti42

4. oggetti di ricerca, occasioni di relazioni, stimoli della curiosità. La centratura sulla loro soluzione si accompagna con il piacere per il percorso di ricerca. Sono opportunità e non solo minacce, stare con i problemi, nell’esplorare curioso43.

Possiamo trattarli in modi diversi: a. evitarli; l’oggetto di lavoro è il fastidio e non il problema configurato dal cliente, esterno o

interno, si è guidati più dall’interesse individuale che da quello collettivo b. risolverli-eliminarli. Tendenza all’efficienza: non ci si riesce a rappresentare i problemi senza

soluzione, si cerca di passare ad altri i problemi irrisolvibili, sino al paradosso “se non c’è soluzione, non c’è problema”

c. gestirli: mantenere una relazione meno costosa e distruttiva con essi, si impara a convivere, senza essere travolti.

Il tema del problema è direttamente connesso all’oggetto di lavoro: il problema o la parte dei problemi sui quali decidiamo di intervenire (problemi di cui ci prendiamo cura); ciò che è possibile fare, date le risorse limitate, è investire sulla quota di problemi sui quali ci si può effettivamente alleare con i clienti per giungere a una loro soluzione o migliore gestione. L’oggetto di lavoro non s’impone; esso è costruito dall’operatore, in relazione con il cliente ed in funzione dei modelli, delle routine, della cultura del servizio e dell’ambiente in cui opera. L’oggetto di lavoro ha due dimensioni: quella generale in cui è l’organizzazione ad individuare i confini dell’area in cui i suoi membri sono autorizzati ad investire; e quella particolare, gli oggetti di lavoro specifici dei singoli progetti, costruiti sui particolari problemi del singolo cliente. Gli oggetti di lavoro generali sono in una certa misura predefiniti � hanno la forma di mandati sociali ai servizi, di direttive, di programmi, di tendenze culturali, costituiscono il “quadro generale degli indirizzi”, l’organizzazione dà delle piste per individuare l’oggetto di lavoro. Non è però così automatica, la chiarezza nei servizi circa l’oggetto di lavoro, non è per nulla scontata. Gli oggetti di lavoro sono concetti, simboli, relazioni tra persone, gruppi, organizzazioni. Di fronte alla difficoltà di individuare gli oggetti di lavoro si tende ad ipersemplificare. Buttarsi soltanto su aspetti molto concreti o marginali (l’arredamento anziché il funzionamento dell’ufficio). Occorre una solida alleanza con i clienti (cittadini o altri servizi) nella costruzione degli oggetti di lavoro; un’alleanza di lavoro tra operatori e clienti. Il cliente: il soggetto individuale o collettivo che beneficia del prodotto, che acquista, direttamente o indirettamente, il servizio, che interagisce con un’organizzazione per ottenere un intervento capace di risolvere o ridurre un problema. I clienti sono sia esterni all’organizzazione che interni. I clienti nei servizi sono rappresentabili come prosumer (tra producer e consumer), come utenti, utilizzatori di servizi e contemporaneamente come elementi attivi nella costruzione del prodotto stesso, nella realizzazione dei servizi ed anche nella loro progettazione. Integrazione tra i progetti dei clienti e quelli dell’operatore, dall’équipe, dal servizio. VIII Rispetto ai soggetti del processo di aiuto (singoli, famiglie, gruppi, soggetti collettivi) – per considerare realisticamente il “valore, dignità ed unicità di tutte le persone”44, occorre che le

42 Il rovescio della medaglia della soluzione è l’ipersoluzione: un modo di affrontare i problemi, fondato sulle migliori intenzioni, che finisce con l’avere effetti controproducenti (operazione riuscita, paziente deceduto). Watzlawick, Di bene in peggio 43 Un esempio di esplorazione che diventa fonte di sopravvivenza è nella Novella degli scacchi di Zweig: il protagonista per superare il silenzio e l’isolamento della prigionia inizia a giocare a scacchi con se stesso. 44 Articolo 1, Codice Deontologico degli Assistenti Sociali

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persone siano pensate, aiutate, comprese nel loro contesto di vita, per cui ad un lavoro diretto con le persone si dovrà affiancare un lavoro nei confronti del territorio (come ambiente di vita) e dell’organizzazione dei servizi (i soggetti erogatori di un certo tipo di risorse). Il concetto di processo di aiuto assume quindi una prospettiva multidimensionale. Multidimensionalità, concretamente significa tenere conto (sempre) che i soggetti dell’intervento sociale sono la persona, l’organizzazione, il territorio e che un buon lavoro con le persone è inscindibile dal lavoro di territorio e dal lavoro all’interno dell’organizzazione e che oltre l’approccio al danno (la persona che porta un problema, magari già in fase acuta) esiste un approccio preventivo/promozionale (prima che il danno avvenga, prima che il danno diventi cronico e si può lavorare per la costruzione di risorse, per il singolo e per la comunità). Multidimensionalità non è lavoro di territorio45, è un concetto che tiene insieme le diverse funzioni del servizio sociale � la presa in carico diretta dei casi, cioè il lavoro con gli utenti singoli � la promozione di risorse – non solo per il singolo ma anche per le comunità � l’analisi dei problemi di un contesto e la definizione di strategie di soluzione (e

l’individuazione dei soggetti con cui condividere la progettazione di strategie) � la ricerca sul proprio lavoro e la documentazione, i contributi nel campo della politica

sociale, l’impegno nei confronti della cultura professionale – costruirla, renderla visibile � il contribuire al miglioramento delle organizzazioni di servizio in cui si lavora � l’impegno per costruire raccordi all’interno del sistema dei servizi . La multidimensionalità trova fondamento nell’etica della responsabilità - essere chiamati a rispondere. L’assistente sociale deve assumersi la responsabilità di essere il professionista che collega domande e risposte, insieme a coloro che pongono le domande. Le risposte, in campo sociale, non si trovano mai in una logica duale (domanda-risposta, appunto), ma sempre in una logica plurale, in cui i fattori di cui tenere conto sono moltissimi (le possibilità di accesso delle persone ai servizi, la domanda della persona, la professionalità dell’operatore – le sue capacità di lettura della domanda, per esempio, le prestazioni dell’ente, le prestazioni dei soggetti non istituzionali, le dimensioni della rete della persona, il contesto territoriale in cui si colloca la domanda, le domande inespresse, ecc.).

PREMESSE MODELLO UNITARIO CENTRATO SUL COMPITO

Nelle scienze sociali si usa il termine modello come “schema di riferimento”; il modello è una struttura logica con cui osserviamo la realtà per costruire la teoria. Nelle scienze sociali le teorie sono di tipo idiografico – il che vuol dire descrivere e spiegare un particolare universo, reale, farne la storia, cercarne le leggi. In antitesi all’orientamento nomotetico che ricerca leggi generali, senza riferimenti spaziali e storici. La teoria nell’ambito del servizio sociale si colloca a due livelli: - la teoria della pratica � teoria operativa e metodologica che si fonda su processi

osservativi-induttivi (dal particolare al generale) che originano degli enunciati ricavati da generalizzazioni empiriche;

- la teoria per la pratica si colloca al livello normativo del sapere, cioè si costruiscono modelli di intervento per la pratica46.

Sanicola (1989), ritiene che l’elaborazione teorica nel servizio sociale si sviluppi su due coordinate fondamentali - le ipotesi esplicative finalizzate alla comprensione di situazioni problematiche ad elevato

livello di complessità, su cui fondare l’intervento - le ipotesi operative finalizzate all’intervento (prevenire e risolvere). «In altre parole la professione si organizza intorno a una capacità di aiuto…: ciò presuppone una capacità di conoscere e di comprendere una realtà complessa[…]la conoscenza non è di

45 Il lavoro di territorio è una modalità specifica di intervento in un ambito definito 46 M. Dal Pra Ponticelli (1985), I modelli teorici del servizio sociale, Astrolabio, Roma

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ordine teoretico, non persegue la conoscenza in sé come tensione scientifica, ma è ordinata all’operatività, obbedisce alla logica dell’azione»47. Quindi il sapere degli assistenti sociali è un insieme di percorsi di conoscenza, che consentono ad un soggetto di identificare delle ipotesi idonee per assumere delle decisioni e delle scelte finalizzate al raggiungimento di scopi reali. Questi percorsi di conoscenza sono dei veri e propri ambiti e dei luoghi di esperienza. Sanicola così definisce l’itinerario di conoscenza dell’assistente sociale: - il percorso socio culturale, ovvero le trasformazioni della società italiana; - il percorso delle politiche sociali; - il percorso tecnico scientifico (scienze umane e sociali); - il percorso dell’esperienza «concerne il confronto degli assistenti sociali con la situazione di

bisogno[…]in presa diretta[…]si tratta perciò di un impatto di vita, anzi di vite, che nella storia del servizio sociale ha determinato la realizzazione di iniziative diventate nel tempo vere e proprie opere sociali[…]da questo impatto di vita come modo di conoscere e dall’elaborazione di queste esperienze ne deriva che gli assistenti sociali hanno tratto informazioni ed indicazioni utilizzate poi per innovare a livello del modello di intervento»48.

L’esperienza è quindi uno specifico ambito di conoscenza. Per costruire un modello teorico in servizio sociale occorre tenere conto di diverse variabili: 1. i principi e i valori del servizio sociale 2. le teorie delle scienze sociali 3. le teorizzazioni della prassi – teoria della pratica del servizio sociale che porta alla

formulazione di rappresentazioni sociali sulla figura e l’attività dell’assistente sociale e alla definizione di generalizzazioni operative.

4. Queste tre variabili consentono la definizione di un modello, che avrà al suo interno un processo metodologico, degli strumenti, delle tecniche.

La variabile 1 e la variabile 2 devono essere messe a confronto (il servizio sociale si deve sempre rifare al concetto di uomo come valore che è a fondamento della sua prassi); inoltre devono essere teorie utili agli obiettivi del servizio sociale. A che cosa serve un modello teorico? A rendere l’intervento dell’operatore prevedibile, cioè di sapere quale tipo di risultati attendersi dalla propria azione e quale percorso percorrere. Un modello serve all’operatore per dare spiegazioni – a se stesso e agli altri – su ciò che ha fatto o intende fare49. Due grandi aree di modelli teorici: - i modelli derivati dalle teorie psicodinamiche (freudiane, neofreudiane, psicologico-

umanistiche); - i modelli derivati dalle teorie ecologico-sistemiche50. IL SERVIZIO SOCIALE ITALIANO Gli anni 70 sono gli anni dell’antipsichiatria e di tutti i movimenti antiautioritari, contro le istituzioni totali. I metodi tradizionali vengono percepiti come troppo aderenti alla logica delle istituzioni, non finalizzati alla promozione umana, ma alla sua repressione o a un adattamento passivo/acritico alle regole sociali. Vengono ritenuti insufficienti e parziali come spiegazioni del mondo e come pratiche operative. Questa crisi consente l’attenzione a prospettive nuove, in particolare alle teorie sistemiche. Il servizio sociale italiano attraversa tre fasi:

47 L. Sanicola, Processi interattivi tra discipline professionali e discipline di base nel servizio sociale, in O. Cellentani, P. Guidicini (a cura di) (1989), Il servizio sociale tra identità e prassi quotidiana, Franco Angeli, p. 45 48 L. Sanicola, Processi interattivi…, in O. Cellentani, P. Guidicini, op. cit., p. 53 49 M. Dal Pra Ponticelli (1985), I modelli teorici del servizio sociale, cit., p. 19 50 La classificazione e i riferimenti che seguono sono tratti da M. Lerma (1992), Metodo e tecniche del processo di

aiuto, Astrolabio, p. 43 e sgg

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� Tecnico-professionale: vengono enfatizzati i metodi operativi a prescindere dalla loro matrice teorica e dal riferimento allo specifico contesto istituzionale in cui sono applicati. È la fase in cui gli assistenti sociali traspongono ciò che giunge da altre culture con fiducia nella loro efficacia per trasposizione (dopoguerra – anni 60).

� Ideologica: si nega la validità delle tecniche in cambio di un’azione sociale diffusa, programmi e progetti alternativi (anni 70).

� Unitaria-processuale: si rivalutano le tecniche, in una visione integrata dei singoli, dei gruppi, della comunità, entro la cornice contestuale dei servizi pubblici e privati (anni 80 e seguenti)51.

L’orientamento sistemico è nato agli inizi degli anni cinquanta negli Stati Uniti, ed in un primo tempo si è sviluppato come estensione della psicanalisi che negli anni trenta aveva ottenuto, come metodo terapeutico, il consenso generale. Le differenze tra la filosofia psicanalitica e quella sistemica sono rilevanti, per cui progressivamente le distanze si sono ampliate. Viene contestata radicalmente l’idea diffusa in passato che si potesse modificare una persona, sradicandola dalla propria situazione sociale e familiare e sottoponendola ad un trattamento individuale; questa impostazione era una trasposizione diretta del modello medico alla psicologia (la psicoterapia individuale come il corrispondente dei sanatori, case di cura, manicomi, terme e simili). Il mondo reale del paziente non entrava nella stanza della psicoterapia, era considerato secondario; estremizzando, tutto ciò che era realtà non era pertinente. Per i sistemici, il procedimento è opposto e parte da una considerazione di fondo: per studiare gli uomini dobbiamo estendere l’analisi, fino a comprendere ed includere nella nostra analisi gli effetti di determinati comportamenti - comunicazione e spostare l’interesse sulle relazioni, cioè su ciò che lega l’individuo e l’ambiente e non su quello che c’è dentro di lui. Effetti di questa impostazione sono: ♦ portare più “vicino” la ricerca della causa del disagio un tempo vista “lontano” (le relazioni

sono essere osservate, l’inconscio no - nella prospettiva sistemica non si interpreta, ma si osserva, nel presente);

♦ passare da una causalità semplice (l’evento traumatico) ad una causalità complessa, che presuppone connessioni reciproche e relazioni dinamiche tra i fenomeni;

♦ sostituire i termini benessere e disagio con equilibrio e squilibrio tra organismo ed ambiente, che implica togliere la connotazione di anormale alle persone e vedere i problemi umani come crisi di vita del sistema in cui gli organismi viventi sono inseriti, non più anormali quindi gli individui ma le situazioni, il rapporto tra le persone e l’ambiente.

Passaggio dall’epistemologia psicoanalitica a quella sistemica

da A

trasmissione di energia trasmissione di informazione individuo come sistema chiuso individuo come sistema aperto interesse verso i processi intrapsichici interesse verso le interrelazioni e i processi

comunicativi causalità lineare causalità circolare scarsa attenzione al contesto importanza del contesto nello sviluppo del sintomo il sintomo come espressione di conflitti intrapsichici

il sintomo come espressione di una situazione interpersonale

interesse verso il passato interesse verso il presente interpretazione ed insight come obiettivo terapeutico

cambiamento come obiettivo terapeutico

In Italia l’approccio sistemico giunge attraverso la “terapia familiare”, che è approdata negli anni sessanta in Europa, e si è collocata completamente in una prospettiva sistemica negli anni settanta (scuola di Palo Alto): la terapia non è più focalizzata sul cambiamento della percezione, delle emozioni e del comportamento individuale, ma sulla trasformazione della struttura della famiglia.

51 M. Lerma, cit., p. 41-50

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Nel 1979 il Centro Studi di Terapia Familiare Relazionale di Roma, diretto da Cancrini, e il Centro per la Psicoterapia della Coppia e della Famiglia di Roma, diretto da Vella, organizzarono un convegno nazionale su “Approccio relazionale e servizi socio - sanitari” per valutare la possibilità concreta di applicazione di quest’ottica al di là dell’ambito di terapia familiare. In questo convegno si evidenziò che “l’approccio relazionale offre una sufficiente flessibilità per non proporsi come strumento specifico e rigidamente tecnico, ma come prospettiva utile e nuova di interpretazione del disagio umano, cui restituisce contestualità e significati; in grado di evitare il ricorso obbligato alle etichette diagnostiche e alle definizioni designanti che sono all’origine di penose “carriere” di malattia ed emarginazione”. Nel 1984 l’esperienza venne ripetuta a Ferrara, in un convegno dal titolo “Le prospettive relazionali nelle istituzioni e nei servizi territoriali”, che ha originato un ampio confronto e dibattito52. Per quanto riguarda il servizio sociale, fondamentale è il testo di Campanini e Luppi (recentemente riedito) che si rifanno, in premessa, ad altri autori che avevano già applicato la teoria dei sistemi al servizio sociale (Golstein, modello unitario, Pincus e Minahan, modello integrato) e ad una prospettiva ecologica (Maluccio, 1973, in particolare afferma che: la situazione della persona si deve valutare considerando: le esigenze e le capacità della stessa; le caratteristiche più significative del suo ambiente e i rapporti fra le stesse; le risorse e le carenze della comunità; i punti di conflitto tra la persona e le strutture istituzionali. Tale esame della situazione sociale porterebbe a valutare insieme alla persona il tipo di intervento più utile per facilitare non solo la crescita sua, ma anche quella dell’ambiente). La prospettiva ecologica nel servizio sociale viene presentata per la prima volta all’attenzione degli assistenti sociali italiani nel 1972. Tale orientamento affronta direttamente il tema delle “tensioni, conflitti e rapporto tra il servizio sociale basato sul trattamento dei casi e quello basato su programmi di azione sociale” e delinea un modello teorico unitario, suggerendo metodologie operative capaci di superare la dicotomia tra i metodi. La prospettiva ecologica sottolinea l’interdipendenza e le influenze reciproche tra gli organismi viventi e il loro ambiente, la tendenza propria dei sistemi naturali (incluso l’uomo) verso il raggiungimento di “un equilibrio mobile” o “omeostasi dinamica”, la possibilità dell’essere umano di modificare il proprio ambiente e di adattarsi ai mutamenti. Il concetto di “adattamento”, in questa ottica, non viene più inteso come adeguamento passivo alle richieste dell’ambiente. La prospettiva ecologica permette di concentrare l’attenzione sulla “interazione reciproca tra le qualità e variabili dell’individuo e le qualità o variabili dell’ambiente, allo scopo di avviare un processo di promozione sociale ed ambientale”53(Ferrario, Gottardi, 1987). L’ecologia sociale afferma che il benessere sociale è profondamente interrelato con la qualità dell’ambiente umano in cui la persona vive. L’impostazione ecologica supporta le analisi di contesto – dove diversi fattori interagiscono: gli attori vivono e si muovono in un contesto, è nel contesto che si realizza l’intervento sociale, è nel contesto che si collocano bisogni e risorse. L’ottica ecologica considera i problemi individuali come eventi che hanno a che fare con il tessuto relazionale, con l’ambiente, in cui tutti viviamo e ci sviluppiamo: il benessere delle persone è profondamente connesso con la qualità della convivenza, dell’ambiente umano e in particolare con gli stili di vita, che vengono praticati in quell’ambiente. Da queste considerazioni derivano alcune assunzioni: • nell’ambiente esistono risorse potenziali, non conosciute, spesso sottoutilizzate, scollegate

fra loro, che possono essere sensibili ad un’azione di attivazione, orientamento, collegamento, per una trasformazione ecologica dell’ambiente; queste risorse possono essere sia individuali che istituzionali

• le risorse presenti nel territorio possono continuare, prolungare o integrare un’azione di trasformazione iniziata dal tecnico e incidere più validamente sugli stili di vita della gente.

52 A. Campanini, F. Luppi, Servizio Sociale e modello sistemico, NIS, Roma, 1988 53 F. Ferrario, G. Gottardi, Territorio e servizio sociale, Unicopli, Milano, 1987

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L’operatore deve quindi porsi in una posizione dialettica rispetto all’area micro e macro territoriale: nel contesto ambientale «l’intervento professionale dell’assistente sociale [si] inserisce in primo luogo perché, partendo da una conoscenza acquisita e […] aggiornata dell’area, contribuisce a rispondere ai problemi che le sono propri, utilizzandone e valorizzandone le risorse, all’interno del processo di risposta: la componente territoriale costituisce il riferimento privilegiato per la ricerca di una soluzione dei problemi ai diversi livelli, da quello individuale […] a quello globale e generale»54. L’ottica a cui ci si ispira è quella di coinvolgere le risorse umane e istituzionali, far crescere i livelli di competenza e informazione rispetto ai problemi considerati, anche da parte delle persone non direttamente colpite dal problema ma presenti sull’area stessa e quindi non estranee a quello che accade nel contesto. Con un’attenzione: rispetto al contesto ambientale, i servizi si pongono come una realtà artificiale.

1. LA DOCUMENTAZIONE

La documentazione è il complesso delle attività e operazioni occorrenti per raccogliere e classificare materiale bibliografico, informativo, dimostrativo, ecc.: d. storica, d. bibliografica; l’insieme dei documenti prescritti per la costituzione di una pratica burocratica o amministrativa (Devoto, Oli, 1990) Il documento è “scrittura atta a fornire una prova o convalida in ambito burocratico, amministrativo, giuridico; qualsiasi oggetto utilizzabile a fini di consultazione, ricerca, informazione” (Devoto, Oli, 1990). La distinzione tra i due termini è importante: il documento è collegato prevalentemente al dato, mentre la documentazione è portatrice di informazioni e conoscenza, perché frutto di un percorso di analisi ed elaborazione (Bini, 2003) Il testo unico sulla documentazione n.445/2000 definisce varie tipologie di documenti: a) DOCUMENTO AMMINISTRATIVO ogni rappresentazione, comunque formata, del contenuto di atti, anche interni, delle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell'attività amministrativa. b) DOCUMENTO INFORMATICO la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti. c) DOCUMENTO DI RICONOSCIMENTO ogni documento munito di fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri Stati, che consente l'identificazione personale del titolare. d) DOCUMENTO D'IDENTITÀ la carta di identità ed ogni altro documento munito di fotografia rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, dall'amministrazione competente dello Stato italiano o di altri Stati, con la finalità prevalente di dimostrare l'identità personale del suo titolare. e) DOCUMENTO D'IDENTITÀ ELETTRONICO il documento analogo alla carta d'identità elettronica rilasciato dal comune fino al compimento del quindicesimo anno di età. Che cos’è il dato? Elemento per la conoscenza, esistente nelle cognizioni teoriche e pratiche, individuabile e isolabile, suscettibile di elaborazione, conservazione e diffusione, ma ancora estraneo all’utilizzazione o accoglimento (i dati anagrafici sono isolabili, sono utilizzabili soltanto in rapporto a qualcos’altro: ad esempio, l’identificazione, correlata a specifiche esigenze, l’accesso a prestazioni, a benefici – se ho meno di 26 anni posso avere sconti ferroviari, se ho più di 65 anni posso avere la pensione sociale, ecc.) L’informazione si situa ad un livello più complesso, più astratto: elemento che modifica lo stato di conoscenza; è lo stato dinamico del dato, il suo incidere nel quadro delle conoscenze,

54 F. Ferrario, La dimensione dell’ambiente nel processo di aiuto, in Coordinamento naz. docenti di servizio sociale , Il servizio sociale come processo di aiuto, Franco Angeli, Milano, 1993

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modificandolo. Il dato diviene informazione quando è recepito, inserito in una rete di dati, correlato ad essi ed interpretato55. La d. è un insieme di informazioni, prodotto di un’attività consapevole di raccolta ed analisi di dati, volta ad un obiettivo specifico di conoscenza, ed è contemporaneamente uno strumento di comunicazione. In servizio sociale. la d. è uno strumento professionale. In servizio sociale, la d. come insieme di informazioni pone il problema del recupero dei dati e dell’informazione: “la raccolta informazioni per una prima analisi della situazione” è la seconda fase56 del procedimento metodologico, così come proposto da Dal Pra Ponticelli (1987), che descrive la fase in questo modo «le informazioni sono fornite essenzialmente dall’utente in un processo di aiuto alla persona o dal gruppo, se il processo di aiuto si realizza tramite un gruppo, o da persone significative dell’ambiente57 o da documentazione esistente. Per l’analisi di un problema sociale o di una istituzione, invece, ci si serve di altri strumenti, quali l’osservazione, la lettura di documenti, il contatto con testimoni significativi, la ricerca. […] dalla corretta e approfondita conduzione [della raccolta informazioni] dipende l’esito dei risultati che si vuole raggiungere nell’intero processo (soluzione di problemi, presa di decisioni) […] la raccolta informazioni e l’analisi della situazione devono essere più complete possibile, tenendo presente tutti i possibili collegamenti fra un problema concerto presentato o rilevato e il sistema sociale più vasto (approccio ecologico) nel quale possono trovarsi le cause del problema o che può divenire “bersaglio” per l’avvio a soluzione della situazione problematica»58 Nella valutazione, che è la fase successiva, si confronta la raccolta informazioni con le conoscenze teoriche, sempre Dal Pra Ponticelli, 1987 La d. è comunicazione, in quanto consente a un esterno al processo di produzione della d., l’accesso alla conoscenza e alle informazioni contenute nella d. stessa. La d. è un canale di comunicazione particolare che, a differenza di altri canali (come ad esempio la trasmissione orale): • è più mediato e distante dalla fonte dell’informazione • rende permanente il messaggio (quindi con possibilità di riusarlo, riadattarlo, aggiornarlo) • può essere richiesto tassativamente dalle organizzazioni burocratiche per trasformare

alcune decisioni in atti concreti e finalizzati. La documentazione ha delle funzioni di raccolta, elaborazione, produzione, trasmissione di informazioni ma anche di produzione di metacomunicazione, cioè riflessione sull’azione professionale. È uno strumento informativo proprio sia della professione che dell’organizzazione di servizio, che deve fare i conti con i contesti amministrativi e tecnici in cui viene usata e prodotta: da qui derivano le sue caratteristiche di complessità. Esistono due codici di riferimento su cui si basa il sistema informativo di ogni organizzazione di servizio, il codice burocratico - amministrativo e quello professionale. Il codice burocratico amministrativo precisa e consente il rispetto di norme e procedure formali, che forniscono ai cittadini garanzie di tutela (le norme sono uguali per tutti, e non s’inventano di volta in volta secondo l’estro del momento), quindi ha un’utilità specifica. La documentazione burocratica è obbligatoria, e registra i corretti percorsi dell’operatore pubblico e dà al cittadino la possibilità di “vedere” il lavoro dell’operatore pubblico: si pensi all’accesso agli atti, così come la sancisce la 241/90. C’è però spesso difficoltà di comunicazione e di accettazione reciproca tra i due codici; il primo viene considerato obbligatorio (quindi inderogabile ma poco significativo), il secondo è lasciato 55 L. Bini, Documentazione e servizio sociale, Roma, Carocci, 2003 56 Le fasi sono sette: 1) individuazione del problema e definizione della competenza, 2) raccolta di informazioni, 3) valutazione della situazione, 4) fissazione degli obiettivi, formulazione del piano, contratto per la sua attuazione, 5) attuazione del piano, 6) verifica dell’andamento del processo di aiuto e dei risultati ottenuti, 7) conclusione del processo. 57 Il corrispondente, nei verbali di polizia, sono le persone informate sui fatti. 58 M. Dal Pra Ponticelli, Lineamenti di servizio sociale, Roma, Astrolabio, 1987, p.120-121

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alla libera scelta dell’operatore, come se documentare azioni professionali fosse un’attitudine personale e non un’esigenza connessa all’esercizio stesso della professionalità. La sovrapposizione tra obbligo formale e necessità professionale può ingenerare demotivazione e perdita di significato rispetto alla documentazione stessa, per cui la documentazione non produce “nuova conoscenza”59 ma adempimenti. I rischi connessi alla non produzione di documentazione professionale sono diversi: • la perdita di dati rispetto a determinate situazioni e quindi l’impossibilità di lavorare

secondo un progetto con degli obiettivi e di verificare se il comportamento professionale è adeguato o debba essere modificato;

• la perdita di dati sulla singola situazione e quindi l’impossibilità di trasmettere informazioni ad altri operatori, il che causa danni nella gestione del caso e non consente confronti fra operatori;

• la perdita di dati rispetto a determinate situazioni (o fenomeni) sociali: solo un operatore, attraverso il proprio lavoro, può scoprire dei particolari dati di realtà e renderli leggibili per coloro che operatori non sono; quindi l’abbandono di una funzione di ricerca che può generare programmi di lavoro (ad esempio modifiche organizzative) e prospettive di azione sociale (un esempio: un a.s., nel suo quotidiano, incontra trasformazioni sociali, nuovi bisogni, realtà vecchie e nuove di povertà: è suo dovere raccogliere questi elementi, strutturarli, dare loro una visibilità, organizzare delle proposte operative attorno ad essi - se nessuno avesse pensato, mai, di leggere, coscienziosamente, le domande di aiuto e di sostegno provenienti dalle famiglie affidatarie, non sarebbero mai nati i gruppi di sostegno per l’affidamento familiare; oppure se l’elenco degli abbandoni nella scuola dell’obbligo rimane un mero elenco di numeri e non lo si incrocia i dati più generali sulla scolarità della popolazione, sulle condizioni delle scuole della zona, non è possibile tentare una loro lettura con la scuola e con quanti altri possono essere interessati ad un miglioramento delle condizioni di vita anche attraverso l’accesso alla formazione scolastica di base).

Neve (1993) afferma che «i processi cognitivi che sottostanno all’azione del documentare ne fanno un luogo privilegiato di pensiero che, in quanto tale, dà spazio alla soggettività, ai sentimenti dell’operatore, permettendogli di guardarli, di fare i conti con essi (il che è possibile appunto distanziandosi un po’ dall’evento: in tal senso documentare aiuta a pensare)»60. Ed anche «mi viene infine spontaneo evocare le dimensioni dell’interesse e del piacere di pensare: spesso ce lo neghiamo, rafforzandoci nell’idea che il tempo per pensare è un po’ rubato all’attività del servizio. Analogamente, la natura stessa della ricerca e della scoperta che accompagnano l’attività del documentare, richiede anche movimenti di creatività e fantasia per rielaborare i dati, per inventare e sperimentare modi e forme di documentazione via via più aderenti alla difficile definizione dei processi umani e sociali. Questo non significa negare la fatica e la sofferenza del pensare (e del documentare), ma permettersi di sentire che si può farvi fronte»61. Occorre, infine «pensare alla produzione di documentazione – sia imposta che scelta dall’operatore – come costruzione di un contenitore dotato di senso, utile per andare più “dentro” alla realtà, per scoprire regolarità, interrelazioni, eccezionalità dei fenomeni, oltre che come carta per negoziare professionalità. Esso funziona come tutela, difesa per l’operatore in quanto gli permette innanzitutto di distanziarsi per un po’ dall’immediatezza e dal coinvolgimento dei dati della realtà esterna, agevolando il contatto con “parti interne” di sé, producendo così nuova conoscenza spendibile nel momento della reimmersione nella realtà esterna»62. Ducci (1997) distingue la d. per esercizio dalla d. di esercizio (in Bini, 2003). 59 Nuova conoscenza: l’osservazione e l’analisi di bisogni sociosanitari nuovi, emergenti; ed anche il miglioramento complessivo della competenza, da parte dell’operatore, nel maneggiare modalità di documentazione. 60 E. Neve, Significati della documentazione nel lavoro dell’assistente sociale, in “Rassegna di Servizio Sociale”, 2/93, p. 36 61 E. Neve, Significati della documentazione…, cit., p. 38 62 idem, pp. 34 - 35

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La d. per esercizio comprende i regolamenti, i piani, le istruzioni relative all’attività corrente (le circolari), la d. relativa all’archivio delle risorse. In questa categoria possiamo distinguere tre sottocategorie: - documenti dell’organizzazione dell’ente (in generale) - documenti dell’organizzazione dell’ente specifici per il servizio sociale (la determina

sull’organizzazione del comune di To, i progetti cittadini, la delibera sull’assistenza economica)

- documenti di tipo organizzativo specifici dell’articolazione zonale del servizio sociale (delibere della circoscrizione, capitolato d’appalto fra ente locale e cooperativa, le relazioni annuali dei singoli comuni che concorrono a formare la relazione annuale del consorzio).

La d. di esercizio include la rappresentazione del processo di aiuto nelle diverse forme in cui questa è possibile, a seconda degli scopi della rappresentazione stessa. Può essere divisa in sottocategorie: - la rappresentazione del processo di aiuto: la cartella sociale che contiene: le relazioni, il

diario del caso, i verbali delle riunioni di équipe, le decisioni amministrative relative all’erogazione di interventi e prestazioni;

- le consultazioni per i processi decisionali dell’ente; - la rappresentazione dell’attività di rete interna ed esterna al servizio, gruppi di lavoro,

gruppi informali, comitati, ecc. (protocolli d’intesa, procedure di collaborazione tra enti, modalità di raccordo tra pubblico e privato sociale)

- d. conoscitiva sul territorio (morfologia e risorse) in cui opera il servizio sociale - atti organizzativi interni del servizio; - i progetti elaborati in sede locale. A queste categorie si può aggiungere la documentazione per l’informazione di terzi, per inviare informazioni al di fuori dell’ente: per informare la popolazione delle attività del servizio, per far conoscere una determinata problematica dell’area, per far conoscere un servizio (volantini, locandine, inviti, articoli sui giornali locali, ecc.)63. La cartella sociale è un modo specifico di documentazione, per rappresentare il processo di aiuto nella sua dimensione individuale, e contiene • tutti i dati oggettivi sulla persona e sulla sua situazione socioeconomica, abitativa, sanitaria,

culturale, ecc. (compresa la documentazione inerente) (la modulistica) • la valutazione dell’assistente sociale su quali siano i problemi più urgenti da affrontare e

con quali risorse • il piano di lavoro con l’indicazione dei vari partner del progetto di aiuto (membri delle reti

primarie, altri professionisti) e con l’indicazione dei compiti di ognuno, nonché a quali risorse si farà riferimento; le indicazioni circa l’ipotesi evolutiva del caso stesso

• il diario del caso, cioè la descrizione, in una sequenza cronologica, dei vari interventi effettuati dall’a.s. e da altri operatori del servizio sociale, i verbali delle riunioni sul caso con altri operatori (come gli incontri con gli insegnanti o con i volontari); i colloqui con la persona

• le relazioni inviate ad altri enti (il Tribunale per i Minori, il Difensore Civico, l’Assessorato alla Casa, ecc.)

• gli atti amministrativi prodotti rispetto alla specifica situazione (proposte di sussidio, esenzioni da pagamenti, richieste di rateizzazione, ecc.)

• la corrispondenza ricevuta su quel caso (segnalazioni sul caso, o lettere dell’utente - dove si mettono gli auguri di Natale?)

• la corrispondenza inviata all’utente (informazioni, convocazioni, richiesta di documenti, chiarimenti).

L’obiettivo di una cartella sociale ben compilata, completa, aggiornata è soprattutto quello di una raccolta sistematica di dati su una situazione, e sul modo in cui è stata affrontata, in modo che, in qualsiasi momento, l’assistente sociale possa ricostruire il percorso del caso e fare una verifica del proprio lavoro e del cammino delle persone.

63 M. Dal Pra Ponticelli (1987), Lineamenti di servizio sociale, Astrolabio, Roma, p. 178-179

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Bini (2003) propone uno specifico fuoco di attenzione per la stesura del diario cronologico del caso, la storia di vita. Secondo l’autrice, la d. correntemente utilizzata non pone sufficiente attenzione alla storia di cui la persona è protagonista, e quindi ai suoi percorsi di soluzione problema, alle sue risorse personali, alle sue strategie. Il diario cronologico ripercorre la storia degli eventi – ma da quando è iniziato il rapporto con il servizio sociale. La persona può raccontare la propria storia in tempi diversi, in modi diversi, e questa storia si può disperdere, non essendoci spazio adeguato nella cartella sociale. La Bini (2003, p.93) propone una griglia – elaborata nel corso di laurea dell’università di Firenze. Questa griglia ha il vantaggio di - evidenziare i pieni ed i vuoti delle informazioni in possesso dell’assistente sociale - sistematizzare le conoscenze e le notizie provenienti da fonti diverse - integrare prospettive di conoscenza diverse - favorire la raccolta di informazioni tra operatori diversi - favorire la lettura incrociata di biografie simili e diverse, per leggere le peculiarità e le

similitudini dei percorsi individuali, e quindi consentire apprendimenti dall’esperienza che favoriscono programmazione

- fornire elementi qualitativi per il governo delle politiche istituzionali. La griglia è questa: Data Età Carriera

familiare Carriera scolastica e lavorativa

Carriera Morale

Carriera sociale

Hughes (1937) e i suoi allievi hanno scoperto la doppia valenza, soggettiva e oggettiva della carriera, mettendo in risalto come il concetto si riferisca sia a ciò che viene raggiunto nel percorso di vita, in termini oggettivi, come il conseguimento di un intento, il raggiungimento di una meta, il passaggio da una posizione sociale ad un’altra, sia a ciò che l’individuo pensa di sé, rispetto ai traguardi oggettivi. In educazione degli adulti si parla di carriere cognitive, per indicare il percorso delle accumulazioni e rielaborazioni cognitive di quanto il soggetto ha appreso, via via, nel corso della sua vita e il percorso degli apprendimenti mancati, cioè ciò che non è stato possibile fare, come ampliamento di schemi cognitivi, quando se ne è presentata l’opportunità. La nozione di carriera cognitiva è un concetto centrale nell’educazione degli adulti, in quanto rimanda sia a ciò che ha implementato che a ciò che ha interrotto le potenzialità cognitive del soggetto. La documentazione non è un opzional, e non è neppure un compito facile: ha un fine intrinseco di accessibilità, per cui non può essere strutturata in un maniera tale per cui non è utilizzabile da altri, ma solo da chi l’ha prodotta. La d. rimanda quindi alle competenze comunicative dell’assistente sociale, in particolare alla comunicazione scritta. «Scrivere, per un assistente sociale, rappresenta un atto quotidiano, spesso collegato alla diffusa convinzione che esso rappresenti una semplice trasposizione grafica del linguaggio verbale»64.

2. PERCHÉ SI SCRIVE?

64 M. Dellavalle, Fascino e responsabilità dello scrivere nel servizio sociale, in La Rivista di Servizio Sociale, n.4/2000, p. 3-4

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Si distingue tra parola scritta creativa e parola scritta referenziale: un testo che riferisce un pensiero, un’informazione, un fatto, un’emozione. Perché scriviamo: • per informare • per analizzare (si attende la nostra conclusione) • per argomentare (obiettività, ordine logico, valore degli argomenti, consistenza della

conclusione).

1. per scrivere bene bisogna saper scrivere correttamente

2. solo partendo dalla lettura si arriva alla scrittura: solo analizzando con attenzione un testo che funzioni perfettamente, scoprendone le regole che lo fanno funzionare si possono stabilire delle regole similari, personali.

Distanza tra parola orale e parola scritta (verba volant scripta manent): • la parola orale esaurisce la propria durata (il suo tempo) nell’immediatezza: vive di

autonomia espressiva nel momento in cui è pronunciata e rimane (a volte deformata) solo nella memoria di chi ascolta;

• la parola orale è un meccanismo di proiezione, consente di rendere dei dati (significati) in sequenze foniche

• la parola scritta è un meccanismo di trascrizione • la parola scritta rimane fissata sulla carta, ha una sua autonomia espressiva che non può

(non dovrebbe) essere manipolata da chi legge; è un segnale permanente, si realizza in uno spazio limitato, accessibile tutto insieme

• la parola orale è accompagnata dai gesti, dal tono della voce, dallo sguardo, da tutta una gamma di espressioni corporee - coinvolge la globalità degli strumenti comunicativi della persona;

• chi parla entra in rapporto diretto con il suo interlocutore e ne subisce, immediatamente, il contrasto o il consenso: può quindi modificare il modo in cui parla o i contenuti del discorso;

• il contesto della parola orale è un contesto naturale (o che appare tale): è un contesto di comunicazione primario. La naturalità del contesto permette delle variazioni, non previste, generate dal rapporto tra chi parla ed il destinatario della comunicazione verbale;

• queste variazioni sono accettate ed accolte, attese. Se dico “non ho capito” ad una persona che mi sta parlando, ciò che mi attendo è una variante nel discorso che mi dia la possibilità di seguire; o se dico il mio pensiero, mi attendo che la risposta sia coerente con il mio punto di vista, anche se questo punto di vista diverge dal discorso iniziale;

• il discorso scritto non ha questa regola della variazione; • la parola orale è immediata e improvvisata. Ci sono alcune forme di parola orale che assumono impropriamente alcune qualità della parola scritta, mediata e stabile, anziché immediata e improvvisata: la recitazione ne è un esempio: la parola orale perde la sua spontaneità, si parte da un testo scritto – la parola orale della recitazione (o della relazione a un convegno) è un’interpretazione di un testo, è stabile ed instabile. La parola scritta nasce (in chi scrive) in una pausa di riflessione e di silenzio e viene recepita (da chi legge) in uno spazio interiore di riflessione e di silenzio. «La lettura non può essere assomigliata a una conversazione, foss’anche con il più saggio degli uomini; che la differenza essenziale tra un libro e un amico sta non già nella loro maggiore o minore saggezza, bensì nella maniera di comunicare con loro: in quanto la lettura, al contrario della conversazione, consiste per ciascuno di noi nel ricevere comunicazione del pensiero di un altro, ma restando pur sempre solo, ossia continuando a godere della potenza intellettuale che si possiede nella solitudine e che la conversazione dissipa immediatamente,

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continuando a poter essere ispirato, a rimanere in pieno lavoro fecondo dello spirito su lui stesso. Infatti, una delle grandi e meravigliose caratteristiche dei bei libri... è questa: che per l’autore essi potrebbero chiamarsi “conclusioni” e per il lettore “incitamenti”» . Marcel Proust, Giornate di lettura Chi scrive (a differenza del pittore e del musicista, che usano rispettivamente i suoni ed i colori) usa un materiale apparentemente non specifico, le parole, usate da tutti, da chi scrive e da chi parla. Per questo motivo si sottovaluta (spesso) l’aspetto tecnico della scrittura, mentre a nessuno verrebbe in mente di sottovalutare l’aspetto tecnico di altri strumenti creativi (leggere le note, saper suonare il violino, saper dipingere). Il discorso scritto, se vuole comunicare qualcosa, deve • presupporre la presenza e l’attenzione del lettore, senza poterla però verificare: l’attenzione

è immaginata prima che accada ed orienta il discorso; inoltre bisogna anche prevedere le reazioni di chi legge;

• inoltre chi scrive, oltre a preoccuparsi di dire cose che ritiene importanti, deve dirle in modo che siano comprese, e riescano a vivere da sole, indipendentemente da chi le ha scritte - la parola scritta vive in un contesto artificiale, quello della pagina, di un insieme di pagine, di un libro

TRE REGOLE PER LA PAROLA SCRITTA 1. La convenienza e la proprietà del lessico: la parola scritta deve diventare autonoma rispetto

a chi la scrive: deve significare da sola un pensiero, un racconto di fatti, l’illustrazione di un prodotto ecc. La proprietà e la convenienza del lessico: la scelta della parola giusta in un contesto (“In questo mondo ci sono soltanto due tragedie. Una è il non avere ciò che uno desidera, e l’altra è ottenerlo. Quest’ultima è la peggiore, quest’ultima è la vera tragedia” O. Wilde, Aforismi; “Se Armida sia così perché incompiuta o perché demolita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un capriccio, io lo ignoro. Fatto sta che non ha muri, né soffitti, né pavimenti: non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell’acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti, docce, sifoni, troppopieni. Contro il cielo biancheggia qualche lavabo o vasca da bagno o altra maiolica, come frutti tardivi rimasti appesi ai rami.” I. Calvino, Le città invisibili; “Dal portiere non c’era nessuno./C’era la luce sui poveri letti/disfatti. E sopra un tavolaccio/dormiva un ragazzaccio/bellissimo./Uscì dalle suo braccia/annuvolate, esitando, un gattino.” S. Penna, Poesie 1927-1938).

2. l’architettura - o la struttura - del testo (la trama) ed il ritmo: la sua organizzazione 3. la grammatica del testo: la costruzione sintattica, periodi brevi o lunghi, l’uso della

punteggiatura

3. COME SI FA UNA RELAZIONE

«La relazione sociale è lo strumento di comunicazione scritta nel servizio sociale: nessuna descrizione degli avvenimenti può sostituirsi ad un testo che trasmetta gli esiti dei processi tecnico professionali di analisi, valutazione, progettazione»65. La relazione sociale non è un resoconto di fatti, una descrizione, una fotografia: contiene elementi descrittivi e narrativi, ma selezionati, ordinati, dotati di un senso, in rapporto all’interlocutore della relazione sociale. Il destinatario/interlocutore della relazione è una variabile centrale: «la comunicazione [deve essere] specifica per quell’interlocutore, [lo stesso deve essere] individuato in relazione al suo modello culturale, alle sue competenze e al suo ruolo in ragione dei quali è coinvolto nel processo comunicativo e in quello di aiuto»66.

65 M. Dellavalle, Fascino e responsabilità…, cit., p. 15 66 B. Moffa, T. Salvetti, Comunicare nel lavoro sociale: la relazione scritta, in La Rivista di Servizio Sociale, n. 1/98

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Secondo Moffa e Salvetti gli indicatori che richiedono attenzione in una comunicazione scritta sono 1. il contesto • il mandato in base al quale nasce la scrittura • il destinatario/interlocutore • gli scopi in relazione all’utente e al suo problema 2. i contenuti • l’oggetto • la selezione delle informazioni • la trattazione degli argomenti 3. la forma del testo • pianificazione del documento (scaletta) • scelta del linguaggio e carattere del documento. 1. COME SI FA UNA RELAZIONE: un assistente sociale scrive molte relazioni, alcune più

semplici, altre più complesse. Come si fa una relazione? Ovvero quali sono “i criteri e le modalità per produrre strumenti di comunicazione intra ed extra organizzativa volti a diffondere informazioni e conoscenze finalizzate a scelte” (Ducci, 1988)?. Innanzitutto una relazione, qualunque ne sia il tema, si definisce in rapporto a due coordinate: l’oggetto ed il contesto, che indicano ciò di cui si deve scrivere, circoscrivono i nuclei tematici, delineano le connessioni logiche, orientano la struttura del testo. Un testo si modula in rapporto ai destinatari, agli scopi, al carattere formale o informale del documento.

a. in rapporto ai destinatari: nella mente dell’assistente sociale devono essere ben individuati i lettori del testo (ed i futuri lettori condizionano la scelta del linguaggio che userà, la scelta delle “parole per dirlo”; l’assistente sociale è un mediatore culturale e linguistico: si pone il quesito della massima accessibilità del suo pensiero da parte dell’interlocutore)

b. in rapporto agli scopi: anche gli scopi influenzano la scelta del linguaggio, la selezione dell’informazione, il taglio tematico. Considerando le finalità prevalenti si può tentare di classificare le relazioni come documenti di tipo:

• informativo (per illustrare una situazione problematica mediante i fatti osservati e le evidenze raccolte; oppure per dare indicazioni di ordine operativo per l’esecuzione di un programma: le note organizzative di un progetto sulla prevenzione al disagio minorile)

• informativo/valutativo: la situazione problematica è indagata e i fatti valutati - interpretati • propositivo: si mette a fuoco un problema, se ne valutano cause e conseguenze, si

propongono delle soluzioni. L’intento primario è persuasivo • stimolativo, con varie sfaccettature: - motivare alla partecipazione, - ottenere il consenso e

l’adesione su obiettivi e programmi, - provocare il dibattito per sollecitare la produzione di idee e proposte

c. in rapporto alla formalità e all’informalità: i documenti formali sono più strutturati, hanno scadenze prestabilite, hanno destinatari e canali di diffusione di tipo istituzionale. Si possono considerare informali: la sintesi di un lavoro di gruppo, la relazione per un dibattito.

Messo a fuoco il tema, inizia la fase di progettazione della relazione, ovvero la definizione dei contenuti e la struttura del testo. Innanzitutto si definisce un’ipotesi di lavoro, attraverso una “scaletta” o indice, dove si appuntano gli argomenti principali e quelli secondari, le idee, le suggestioni; la scaletta è un progetto progressivamente modificabile, che serve ad orientare il lavoro di ricerca e di classificazione dell’informazione. a. quindi ipotesi di lavoro e, successivamente, b. ricerca e raccolta delle informazioni per la trattazione dell’argomento. Le fonti documentarie

possono essere di diverso tipo: se scrivo una relazione al Tribunale userò i dati dei colloqui e dell’osservazione diretta; se scrivo un progetto sul tema del lavoro e della formazione professionale userò dati statistici sull’occupazione, sulla popolazione, sulla scolarità, nonché informazioni legislative sugli obiettivi dei servizi (“rimuovere le cause di emarginazione”), eventuali altri documenti sullo stesso tema, pubblicazioni tecniche sulla materia (per rispondere alla domanda “perché un servizio sociale, che non è il collocamento, si occupa del lavoro? E in che modo può occuparsene?”), eventuali ricerche

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c. il passaggio ulteriore è l’analisi e valutazione dell’informazione per valutare quella pertinente e significativa ai fini della trattazione del tema (si riflette quindi sulle conoscenze acquisite, mentalmente e su carta); ciò produce

d. un progetto di testo vicino a quello definitivo. La struttura del testo si articola in tre grandi parti:

• l’introduzione che ha funzione di inquadramento, serve a delineare la materia, ad esplicitare le angolazioni da cui sarà esaminata, le intenzioni di chi scrive

• la parte centrale: ha finalità espositive; è il corpo informativo del documento, si articola in sezioni (parti, capitoli, paragrafi, a seconda della complessità del documento) che presentano i contenuti logici e le proposte operative

• la conclusione: ricapitola i concetti fondamentali rispetto ai nodi problematici e alle interpretazioni e può servire a sottolineare le tematiche di ordine propositivo.

e. la redazione del testo: è un’attività da sorvegliare attentamente (la scrittura è soggetta a variabili soggettive come il patrimonio culturale, la competenza linguistica, il gusto e la sensibilità). Si deve fare attenzione al linguaggio (evitare il gergo professionale) e usare con proprietà i termini tecnici (anche in rapporto alla destinazione del documento; alla coerenza logica delle sequenze espositive e argomentative e dell’organizzazione delle informazioni, perché l’esposizione risulti convincente e credibile; ad inserire nel testo (se la materia lo richiede) tabelle statistiche o grafici di facile lettura; a titolare le parte per migliorare la comprensione del testo (se è di una certa lunghezza); a dare al testo un’omogeneità stilistica.

f. la verifica del testo. Si è pronti per la stampa, si fanno le ultime correzioni, sul contenuto, sull’esposizione, sulla lingua (l’ortografia, la punteggiatura).

1. LA VALUTAZIONE

Per definire un progetto occorre avere valutato la situazione, avere quindi effettuato una valutazione. Valutazione vuol dire “giudizio, stima, perizia”. La valutazione è quindi un giudizio qualitativo, ponderato. La vita dell’uomo è accompagnata da processi di valutazione che orientano costantemente le sue scelte, dalla più piccola (mi metto il cappotto o la giacca) a quelle più importanti (faccio bene a sposarmi?). La valutazione è anche dettata dalla necessità di dare un significato ai segnali che provengono dall’ambiente e dalla relazione con gli altri, per definirne la “pericolosità” o meno. In questa accezione la valutazione ha una funzione di rassicurazione. Poiché valutiamo costantemente, si può adattare alla valutazione un assioma della Scuola di Palo Alto “non si può non valutare”. La v. è molto legata alla soggettività, soggettività che in un contesto professionale può divenire fonte di difficoltà e di confusione, se non viene riportata alla dimensione istituzionale: ovvero l’assistente sociale non cerca di comprendere la situazione in rapporto a se stesso, ma in funzione dell’obiettivo che persegue, come professionista in una istituzione e portatore di un mandato sociale di cui è stato investito dall’istituzione.

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La sua è quindi una valutazione razionale, che considera gli elementi soggettivi come componenti del processo di v., insieme ad altre informazioni; non è un pre-giudizio, ma una lettura di elementi diversi, correlati ad una determinata realtà. La valutazione tecnico-professionale è un’attività professionale complessa: è un giudizio, conseguente ad un processo di ricerca, basato sulla raccolta e l’interpretazione di informazioni. In altri termini: la v. è un’azione razionale di giudizio rispetto a un determinato oggetto. Esistono connessioni tra la v. e il processo decisionale, in quanto in servizio sociale il percorso di valutazione si deve concludere con un progetto, ovvero con delle decisioni operative e un percorso di applicazione delle decisioni prese. La valutazione e’ un processo che consente e orienta le scelte, ed è conseguenza di una correlazione fra informazioni.

Alcune regole per la valutazione tipiche dell’approccio scientifico: • le procedure per la raccolta delle informazioni sono esplicite, chiare, riproducibili; • le informazioni raccolte sono pertinenti, affidabili, il più possibile complete; • l’interpretazione è coerente, plausibile, non formulata tramite asserzioni ma attraverso una

serie di argomentazioni rese disponibili per eventuali confutazioni. Nel lavoro sociale, il momento del fare è strettamente legato a quello del capire, interpretare e valutare67. Si trova ciò che si cerca, ciò che si conosce e si riesce a vedere (Allegri, 2000). La valutazione, che è la base di un progetto d’intervento, secondo l’ottica sistemica, va costruita collegando le informazioni raccolte in maniera circolare, evidenziando le reciproche influenze tra i sistemi coinvolti nel problema. Si deve tenere conto del fatto che l’origine di un problema non è mai collegata a fattori singoli causa - effetto e che il problema non è attributo di quel singolo utente (chiunque esso sia, singolo gruppo o comunità) e non si deve prescindere dal considerare il contesto come elemento significativo sia per la comprensione del problema che per l’individuazione delle strategie d’intervento. Si supera quindi il concetto di “colpa” del singolo, anche perché la colpa si situa ad un livello logico diverso, in quanto attiene alla morale, mentre l’analisi professionale ha come obiettivo di comprendere una situazione per capire come è possibile modificarla. La valutazione, secondo una prospettiva ecologica, riguarda l’individuazione del campo in cui lavorare (in cui collocare il progetto d’intervento) e contiene il bilancio delle risorse delle competenze, delle motivazioni e dei vincoli in gioco nella situazione, all’interno del rapporto persona/ambiente. Ferrario (1996) propone, nella fase di contatto, dei fuochi di attenzione, utili per costruire una valutazione della situazione, attraverso la ricostruzione degli ambienti di vita e dei percorsi della persona: a) la richiesta: che cosa si domanda (soldi, casa, consigli, aiuto generico, comunità, casa di

riposo) b) la segnalazione o l’auto attivazione della persona - attraverso quali canali la richiesta

è giunta al servizio? - quali altri soggetti sono in gioco? che immagini del servizio ha la persona? (il modo in cui la domanda giunge al servizio)

c) la collocazione della richiesta - in quale quadro si colloca la domanda, cioè • chi è il soggetto che la presenta • da quale contesto di vita emerge • come il contesto di vita si connota in termini di risorse e di vincoli • quali circostanze hanno mosso la persona • che rapporto esiste tra la domanda e la situazione di disagio e di difficoltà d) le azioni ed i tentativi: che cosa è stato fatto per fronteggiare il disagio e con chi e) le soluzioni che la persona si è data per reggere fino ad ora (rivedere le soluzioni già

pensate serve per evitare di ripercorre strade che si sono rivelate fallimentari) f) le intenzioni o le previsioni rispetto alla situazione

67 Alessia Maggi, La valutazione della qualità nei servizi sociali: un processo finalizzato a riconoscere i significati

delle azioni, in Rassegna di Servizio Sociale, n. 2/01

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g) le aspettative dal servizio e dall’operatore, onde chiarire le attese e la loro fondatezza h) le modalità che la persona adotta nell’incontro (aggressività, collaborazione, passività

ecc.). Campanini (2002, p. 107 e sgg) propone un percorso di analisi della situazione che si situa a tre livelli: l’ambiente sociale, l’istituzione, l’utente. Per quanto riguarda l’utente si può dire che l’attenzione si deve rivolgere «prevalentemente al momento presente e alle relazioni che l’utente sta sperimentando all’interno del suo sistema o con altri sistemi significativi. Del passato sono ritenuti significativi quei fatti che hanno introdotto differenza nella storia di ogni individuo o sistema, distinguendo i fatti reali da quelli relazionali […]l’elemento indicativo risulta comunque essere non il fatto in sé, ma le retroazioni che il sistema ha messo in atto e come in conseguenza di queste si è riorganizzato». Si potranno raccogliere informazioni attraverso i colloqui, attraverso l’osservazione dell’individuo nella famiglia, nel suo contesto sociale, ma anche osservando l’assistente sociale e la famiglia come sistema in relazione, a sua volta in relazione con il contesto sociale. Campanini dedica una particolare attenzione, così come Ferrario, alla raccolta informazioni nel primo contatto con l’utente. Poiché la raccolta informazioni ha il fine di comprendere la situazione, è opportuno sottolineare che «non bisogna fare nulla (pagare bollette, trovare lavoro, parlare con i professori a scuola, far domanda alle case popolari…) se prima non abbiamo capito la natura della crisi che la famiglia sta attraversando[…] una volta che abbiamo imboccato la china dell’interventismo non finalizzato, è difficile fermarsi a pensare. È difficile domandare a una famiglia la data di nascita dei suoi membri dopo due anni che lavoriamo per lei: suona ridicolo e per tale motivo improponibile. Prima di fare qualsiasi cosa, quindi, dobbiamo capire. E capire non è facile»68. Le aree significative su cui centrare la raccolta delle prime informazioni sono (Campanini, 2002, p. 116): - i dati anagrafici del richiedente e del suo nucleo familiare - gli elementi relativi al suo contesto ambientale e sociale - l’inviante - le informazioni sul problema - l’analisi della richiesta. Quando parliamo di elementi relativi al contesto ambientale e sociale includiamo dati come la situazione economica, la scolarità, le condizioni abitative, la composizione familiare, le condizioni di salute. Sono dati oggettivi, relativamente semplici da reperire, che servono per inquadrare la situazione. Ma anche dati rispetto al contesto, ad esempio la zona in cui vive la famiglia, il tipo di contesto sociale in cui è inserito (contesto urbano di periferia e contesto montano sono molto differenti). Questi diversi fuochi di attenzione orientano la raccolta informazioni, la base per costruire una valutazione. Secondo Dal Pra Ponticelli (1987) le informazioni sono fornite essenzialmente dalla persona in un processo di aiuto – nella fase iniziale e anche in fasi successive – o da persone significative dell’ambiente o da documentazione esistente. Altri metodi per la raccolta informazioni sono l’osservazione, la lettura di documenti, il contatto con testimoni significativi, la ricerca (queste due ultime modalità sono particolarmente indicate per l’analisi di un fenomeno sociale). Dalla corretta raccolta informazioni dipende l’esito dei risultati che si vuole raggiungere nell’intero processo, quindi le informazioni devono essere le più complete possibili, in relazione al problema che si sta esaminando. In riferimento al fatto che la principale fonte d’informazione è la persona/il nucleo, si parla di «v. collaborativa», intesa sia nei termini di partecipazione degli utenti al processo di raccolta informazioni che li riguarda69. Si può sintetizzare dicendo che l’osservazione e l’ascolto, con dei fuochi d’attenzione, sono la base per la v. 68 S. Cirillo, Famiglie in crisi e affido familiare, 1986, La Nuova Italia Scientifica, Roma, p. 15-16 69 C. Evans, M. Fisher, La valutazione collaborativa: verso una ricerca controllata dagli utenti, in I. Shaw, J. Lishman (a cura di), La valutazione nel lavoro sociale, 2002, Erickson, Trento, ed. or. 1999

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La v. si può differenziare in quattro momenti (Allegri, 2000) 1. ex ante, prima dell’avvio di un programma o di un intervento 2. in itinere, in corso di realizzazione 3. conclusiva, al termine dell’attuazione del programma o dell’intervento 4. ex post, quando l’intervento o il programma cominciano a produrre risultati.

2. OSSERVAZIONE, ASCOLTO, VALUTAZIONE Spesso si è soliti pensare che l’ascolto e l’osservazione siano atteggiamenti semplici e spontanei. Il fatto stesso di usare delle espressioni che fanno riferimento a degli organi di senso (l’occhio e l’orecchio) fa immaginare che l’o. e l’ascolto siano processi naturali, quando in realtà si tratta di processi culturali70. «L’osservazione viene definita, nel lavoro sociale, come fonte d’informazione o attività di comprensione che implica la percezione e la decodifica della comunicazione non verbale. Si tratta di un fondamentale strumento di conoscenza che consente di rintracciare connotazioni meno evidenti ma sostanziali e di cogliere ciò che non appare né viene esplicitato […] Nelle molteplici occasioni in cui l’assistente sociale entra in contatto con famiglie. l’uso consapevole dello strumento dell’osservazione può permettere e comprendere la famiglia, la sua situazione/problema, il suo contesto di vita, ma anche la configurazione famiglia/servizio e quindi le modalità con cui avviene il primo approccio, le caratteristiche della richiesta, le aspettative e le reazioni della famiglia/utente e dell’operatore. Potranno essere, così, colti importanti indizi riguardanti la situazione di vita del bambino e le relazioni che intercorrono tra lui e le figure genitoriali, gli altri adulti, ed i diversi ambienti con cui entra in contatto […] La possibilità di saper cogliere questi segnali è strettamente connaturata a competenze dell’operatore che attengono sia alla sfera cognitiva (sapere che cosa osservare e su cosa fermare l’attenzione, sapere quali elementi possono costituirsi come indice di rischio, segnale di disfunzionalità individuali o familiari) che a quella relazionale, nel senso di poter tollerare sentimenti ed emozioni forti, connesse al contatto, o anche solo all’eventualità di un contatto, con la sofferenza di bambini e adulti»71 «Guardare» e «ascoltare» sono atti diversi, ma sono eventi che possono accadere contemporaneamente: osservo il racconto che una persona fa della sua vita, e il modo in cui lo racconta, e nello stesso tempo oriento i miei pensieri ed il mio comportamento su una posizione di ascolto, che è ascolto della persona, comunicazione del mio ascolto verso la persona, ascolto interno delle emozioni che provo. La capacità di ascolto, peraltro, è una delle componenti dell’abilità relazionale dell’assistente sociale. Gli operatori sociali di un servizio non osservano ed ascoltano in modo neutrale, ma attraverso quadri culturali di riferimento. Io guardo, ascolto, classifico: ogni classificazione è arbitraria «includiamo degli oggetti sotto la stessa classe non perché sono intrinsecamente simili, ma li consideriamo simili perché guardiamo il mondo attraverso un certo sistema classificatorio. Non stupisce dunque che i sistemi di classificazione varino nel tempo e nello spazio, da società a società» (M. Douglas, 1995, p. 118, cit. in D’Angella, Olivetti Manoukian, 1998). L’operatore osserva ed ascolta utilizzando le proprie mappe cognitive – ogni mappa è un punto di vista, una prospettiva di ascolto e di osservazione su una molteplicità di segnali. Tanner e Le Riche (1999) distinguono l’o. intenzionale da quella informale o implicita. L’o. intenzionale è quel tipo di o. che ha una finalità e dei riscontri operativi ben definiti e che si distingue anche per il potere che caratterizza l’osservatore. L’osservatore osserva facendo riferimento alle proprie conoscenze teoriche, e alle tradizioni epistemologiche di cui è portatore.

70 F. D’Angella, L’ascolto e l’osservazione nella progettualità dialogica, Animazione Sociale, 11/1998 71 Dellavalle M., Minori da tutelare, genitori da aiutare. L’intervento sociale nel contesto italiano, in Crivillè A., Genitori violenti, bambini maltrattati, 1995, Liguori, Napoli

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Tanner e Le Riche evidenziano due tradizioni epistemologiche, il «modello scientifico» e il «modello narrativo»72. il «modello scientifico» è collegato alle scienze naturali e al loro sviluppo: gli elementi chiave, in questa prospettiva, sono l’oggettività, l’attendibilità e la validità della ricerca, nella quale l’osservatore dovrebbe essere il più oggettivo possibile. Questo modello è collegabile ad approcci di tipo quantitativo, ad esempio osservazione delle frequenze, come la frequenza di comunicazione ripetitiva da parte di un anziano che soffre di demenza e osservazione dell’effetto della comunicazione ripetitiva sul carer dell’anziano. Queste informazioni si possono tradurre in grafici e diagrammi. In questo tipo di o. è escluso il punto di vista dell’osservatore. In altre parole: l’osservatore è esterno al processo di o. I sistemici la pensano diversamente: in Campanini, 2002, p. 63, nel descrivere l’analisi di un’organizzazione si precisa che «anche se l’osservatore non è parte del sistema osservato (non è un membro dell’organizzazione), non può considerarsi esterno, in quanto con la sua osservazione partecipa, insieme all’oggetto osservato, alla creazione di una nuova realtà (il sovrasistema osservatore-osservato). Dal momento che chi compie l’analisi non può collocarsi in un punto equidistante, dall’osservatore, dall’oggetto e dall’osservazione stessa, ne consegue che ogni analisi è sempre soggettiva e pertanto definibile come punteggiatura». Ogni osservazione definisce un punto di vista, che, proprio perché uno, è parziale. I diversi punti di vista devono essere messi a confronto: l’o. fatta dall’assistente sociale si mette a confronto con l’o. fatta dalla persona sulla propria condizione, con l’o. fatta da un altro operatore. Queste considerazioni introducono al «modello narrativo» che valorizza la soggettività del processo di o. «In contrasto, con l’approccio scientifico, che sostiene la neutralità della conoscenza, nell’orientamento narrativo la conoscenza non potrà mai essere neutrale, essendo il frutto di esperienze personali e contestuali […] il modello narrativo si caratterizza […] per un approccio olistico: tende ad abbracciare l’intero (e complesso) panorama degli eventi e dei processi a cui assiste l’osservatore»73. L’o., sia che abbia come focalizzazione un particolare o l’insieme (rapporto madre-figli, il funzionamento della famiglia) viene registrata in forma narrativa. Questo comporta - la scelta fra ciò che va incluso e escluso - il livello di precisione adottato - la terminologia impiegata. Il ruolo di osservatore racchiude uno spazio per la riflessione: «l’o. inizia dalla visione, comporta un processo di riflessione e racchiude la possibilità di un monitoraggio riflessivo, da cui scaturisce lo spunto a cambiare»74 . L’o. è una metodologia che può essere applicata a tutti gli ambiti del lavoro sociale: nel lavoro diretto con le persone, nell’analisi dell’organizzazione, ecc.

3. ALCUNE GRIGLIE

La raccolta informazioni si modula in relazione ad ogni specifica situazione trattata. Ad esempio, ci si può attrezzare con delle griglie per rilevare informazioni rilevanti su situazioni simili. Le griglie non esauriscono il percorso di ricerca alle diverse domande. Le griglie sono utili, consentono di classificare, identificare, hanno un rischio: prescrivono i tempi, i modi, gli oggetti da vedere e da sentire. Le griglie hanno bisogno di essere integrate da altre informazioni, più narrative. Lo schema di Guay75 propone di pensare una griglia di v. iniziale in rapporto al quesito “qual è il problema”.

72 K. Tanner, P. Le Riche, Osservazione e valutazione, in I. Shaw, J. Lishman (a cura di), cit., pp. 191-192 73 K. Tanner, P. Le Riche, cit., p. 192 74 idem, p. 196

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Per gli anziani, può essere utile una griglia per la rilevazione del grado di autosufficienza, attraverso degli indicatori concreti, che ci danno la dimensione di come impostare un piano di assistenza domiciliare.

CHI HA IL PROBLEMA? CHI HA POSTO LA RICHIESTA DI AIUTO? Paziente designato, nucleo familiare, persona-sostegno, parenti, amici, conoscenti, vicini, comunità, operatore

PERCHE’ PROPRIO ORA?

Eventi critici, lutti, crisi esistenziale della persona-sostegno, problemi familiari o coniugali

QUAL E’ IL GRADO DI MOBILITAZIONE AL CAMBIAMENTO?

Si tratta di una situazione di degrado graduale o di crisi? Crisi ricorrenti? Chi è disposto a mobilitarsi?

QUAL E’ IL PROBLEMA?

La descrizione: attuale, futura – è in questo punto che s’inseriscono le griglie Il positivo: valutazione delle competenze

QUALI SONO LE RISORSE DELLA RETE?

Componenti della rete Tipi di supporto (ADATTAMENTO DA GUAY, 2000)

75 J. Guay, Il case management comunitario, 2000, Liguori, Napoli

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QUESTIONARIO PER LA VALUTAZIONE DEL LIVELLO DI AUTOSUFFICIENZA DELL’ANZIANO (CASCIOLI, 2001)

ATTIVITA’ LIVELLO DI AUTOSUFFICIENZA AUTOSUFFICIENTE PARZIALMENTE

AUTOSUFFICIENTE NON AUTOSUFFICIENTE

MOBILITA’ � Entrare e uscire dal letto � Muoversi in casa � Uscire di casa � Salire le scale

CURA DELLA PERSONA ♦ Lavarsi ♦ Vestirsi e spogliarsi ♦ Fare il bagno ♦ Tagliarsi le unghie dei piedi ♦ Mangiare ♦ Tagliare il cibo ♦ Medicarsi ♦ Farsi la barba ♦ Piegarsi a prendere una scarpa

dal pavimento ♦ Usare i servizi igienici ♦ Mordere e masticare cibi duri ♦ Dormire e riposare ♦ Attività ricreative e del tempo

libero

CURA DELLA CASA • Cucinare • Pulire i pavimenti • Fare lavori giornalieri usuali • Fare lavori domestici leggeri • Fare lavori domestici pesanti • Coordinamento facoltà mentali

in altri compiti (specificare): • ……………………………………

COMUNICAZIONE � Vedere � Leggere un giornale � Vedere un volto a 4 metri � Sentire � Udire una conversazione con

più persone � Udire una conversazione con

una persona � Parlare � Organizzazione del pensiero in

linguaggio chiaro o altra forma di comunicazione

ALTRE ATTIVITA’ � Sedersi e muoversi senza

sbandamenti � Controllo minzione e sfinteri � Capacità di controllo della dieta � Capacità di gestione di

eventuali terapie � Altro (specificare): � …………………………………..

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4. L’INDAGINE SOCIALE

L’INDAGINE SOCIALE è una valutazione richiesta da un terzo a un servizio e a specifici professionisti – gli assistenti sociali - nei confronti di un singolo o di una famiglia. Per quanto riguarda i rapporti con l’autorità giudiziaria minorile, gli assistenti sociali, attraverso l’indagine sociale, esprimono un parere in merito alla sussistenza di condizioni di pregiudizio di un minore in una famiglia. Anche nei rapporti con la Procura della Repubblica o con il Tribunale Ordinario si effettuano delle indagini sociali, che andranno a far parte del materiale istruttorio (si pensi alle relazioni in risposta a richiesta di indagine per l’interdizione o le risposte a segnalazioni della magistratura per reati nei confronti di un incapace). L’indagine sociale è quindi una valutazione che comporta delle conseguenze: limitazioni della potestà, per esempio, attivazione o meno di un’indagine giudiziaria su un’ipotesi di reato. Questo è un primo elemento di complessità dell’indagine sociale. Un altro aspetto di complessità è dato dal fatto che l’indagine sociale si svolge in una situazione di relazione tra il singolo/la famiglia: il valutatore e il valutato interagiscono, si conoscono, si scambiano idee sui contenuti dell’indagine, in un clima che può essere poco sereno o addirittura conflittuale; infatti - se l’assistente sociale sta svolgendo un’indagine sociale per conto del Tribunale per i

Minorenni, sta esplicitamente mettendo in dubbio le capacità parentali di quei genitori - se sta cercando di capire se un anziano/un disabile stanno in una situazione di

maltrattamento, sta mettendo in dubbio le capacità di cura di chi dovrebbe provvedere a quell’anziano, a quel disabile (che spesso è l’unica persona di riferimento dell’anziano/del disabile).

L’indagine sociale evidenzia come gli aspetti di aiuto e di controllo siano intrecciati, nel mandato deontologico e professionale dell’assistente sociale: - controllo, in questo contesto, significa accertare o meno se vi siano elementi di pregiudizio,

e di quale gravità - aiuto significa individuare quali percorsi siano possibili per la riduzione o l’eliminazione del

pregiudizio, quale protezione per le vittime, quali proposte di intervento – anche coattive - per gli autori del pregiudizio. Il bambino ha diritto a crescere nella sua famiglia e prima di qualunque intervento di separazione occorre mettere in atto dei programmi di assistenza per la rimozione delle difficoltà familiari (l. 184/83, l. 149/01). L’obbligo – l’intervento coatto – è necessario laddove non c’è la collaborazione degli adulti ed è dimostrato che è percorribile e proficuo un intervento terapeutico in un contesto costrittivo, soprattutto nel situazioni più gravi. La collaborazione degli adulti ai programmi di assistenza, perlaltro, è un elemento di valutazione importantissimo.

La famiglia – nucleare ed allargata - non è l’unico interlocutore del servizio nella costruzione di un’indagine sociale: l’assistente sociale incontra altri soggetti significativi nella vita dei soggetti per i quali sta effettuando l’indagine: gli insegnanti, i medici di base, gli operatori dei servizi di neuropsichiatria infantile (per i minori), ma anche con i volontari. Ovvero interagisce con tutti coloro che possono fornire informazioni utili alla comprensione della situazione. Nell’indagine sociale nei confronti di minori, vi sono due momenti valutativi che è opportuno tenere separati: - il giudizio sulla gravità delle condizioni del minore – il minore sta bene, è in una condizione

di rischio, al danno conclamato - i possibili programmi di intervento per ripristinare delle condizioni di sufficiente benessere

per il bambino. A questo aspetto contribuiscono le risorse e le difficoltà della famiglia e il grado di trattabilità dei problemi e le risorse del sistema organizzato di servizi.

Nel 2003, su Prospettive Sociali e Sanitarie, è stata presentata una ricerca76 che ha coinvolto un gruppo di assistenti sociali esperte (con una esperienza pluriennale), condotto da un

76 T. Bertotti, U. De Ambrogio, La valutazione nelle indagini sociali, in Prospettive Sociali e Sanitarie, n. 2/2003

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ricercatore del CBM di Milano, assistito da due ricercatori IRS, nel periodo settembre 2000 – marzo 2002. La ricerca aveva il fine di individuare quali criteri di valutazione utilizzassero gli assistenti sociali quando dovevano esprimere un parere in merito alla situazione di pregiudizio in cui si trova un minore. La metodologia utilizzata è stata quella della ricerca partecipata. È stato costruito un protocollo per scomporre le diverse fasi del processo valutativo, che si articola in cinque tappe: 1. la definizione del campo: si definisce qual è l’oggetto della valutazione (cosa stiamo

valutando), chi è che ha chiesto la valutazione e l’ipotesi che si intende verificare (nello specifico di questa ricerca il quesito è dove è collocato il bambino nel continuum che va da benessere a danno)

2. la descrizione della situazione: è un spazio narrativo, è il luogo dove descritta la “storia di vita”, così come il servizio sociale la conosce. Vi sono indicati gli indicatori di analisi ( fattori di rischio, fattori protettivi, segni di benessere, segni di malessere/maltrattamento) così come si presentano nel contesto di vita del minore, le fonti delle informazioni, la valutazione dell’attendibilità delle fonti

3. la griglia di analisi: è uno strumento per interpretare i dati raccolti (tavola 1) 4. la diagnosi della situazione: dove si indica se le ipotesi iniziali hanno trovato o meno

conferma, le responsabilità circa gli autori dell’eventuale maltrattamento. È lo spazio della valutazione in senso stretto

5. le strategie per migliorare la situazione. Si indicano le risorse presenti nella rete. TAVOLA 1 griglia di analisi

INDICATORI AREE

Fattori di rischio

Fattori protettivi Segni di benessere Segni di malessere/maltrattamento

Contesto sociale ed ambientale

Come sta il bambino e i fratelli/sorelle

Rapporto genitori/figli Nonni

Storia dei genitori/storia della coppia

Relazione con i servizi

In conclusione, l’indagine sociale: - è una raccolta di informazioni complessa, che si traduce in una relazione scritta - è richiesta da un terzo - è circostanziata rispetto al destinatario dell’indagine - ha dei personaggi e delle relazioni tra questi personaggi - contiene un percorso di raccolta dati (i dati e il modo in cui sono stati raccolti) - contiene la lettura dei dati (il dato diviene informazione, elemento di conoscenza) - da cui discende una ipotesi di progetto - che può contenere un contratto fra i soggetti (i personaggi e il servizio sociale) - oppure delle richieste ad altri (per esempio al richiedente l’indagine) L’indagine sociale, nella sua forma finale, è una relazione che mette in condizione l’interlocutore (il ricevente l’indagine) di poter decidere: - se assumere delle iniziative di competenza

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- gli sviluppi futuri del caso.

1. IL COLLOQUIO

Credere molto nella comunicazione, ma non nel senso che la mia parola sia terapeutica per te, ma nel senso che attraverso la mia parola tu puoi acquisire il dialogo con te stesso, e se diventi loquente con te sei già fuori dal dolore o comunque hai la possibilità di leggerlo, e

leggerlo vuol dire metterlo in un contesto, visualizzarlo, non lasciarsi assorbire completamente da esso.

Umberto Galimberti, 1996 Premessa Il colloquio è la tecnica base del servizio sociale. La capacità tecnica non è in contrasto con la spontaneità, essa consente una forma di maggiore spontaneità: 1) l’operatore capace può derogare dalle tecniche nel caso lo ritenga necessario, 2) la capacità tecnica lascia libero l’operatore di rispondere da essere umano al cliente. Possesso e padronanza di una conoscenza tecnica hanno vantaggi: conoscere significa essere preparati, essere preparati vuol dire avere meno ansia, ridurre l’ansia dà all’operatore la possibilità di rispondere al cliente con sensibilità ed in modo soddisfacente. Colloquio e conversazione Un colloquio è diverso da una conversazione in quanto l’interazione è volta a raggiungere uno scopo scelto coscientemente (spesso il fine del colloquio è di trovare uno scopo reciprocamente accettabile). 1. dal momento che il colloquio ha uno scopo preciso il suo contenuto è scelto per facilitare il

raggiungimento di tale scopo. Viene escluso ogni contenuto non pertinente allo scopo; il contenuto avrà un’unità, una progressione ed una continuità tematica.

2. se si vuole raggiungere lo scopo qualcuno si deve prendere la responsabilità di dirigere l’interazione in modo da farla procedere verso la meta. Questo comporta una distribuzione di compiti fra i vari partecipanti: uno è l’operatore - intervistatore, l’altro è l’utente - intervistato. I rapporti di ruolo sono strutturati, l’operatore conduce il colloquio. In una conversazione non esiste niente del genere.

3. il fatto che un partecipante sia l’operatore e l’altro l’utente implica una relazione non reciproca. Per due ragioni principali: una persona formula delle domande e un’altra risponde; inoltre, l’operatore agisce in modo tale da incoraggiare l’utente a rivelare molto di sé, mentre lui non rivela quasi niente. L’utente rivela un’ampia parte della sua vita, l’operatore solo il suo io professionale.

4. il comportamento di ogni persona, in una conversazione può essere spontaneo e non programmato, le azioni dell’operatore, invece, devono essere programmate, deliberate e scelte coscientemente per raggiungere lo scopo.

5. nessuno è costretto ad iniziare una conversazione. Il professionista, invece, è obbligato ad accettare la richiesta di un colloquio da parte di un cliente, qualunque siano le idee riguardo alla riuscita del colloquio stesso. L’operatore non può far terminare il colloquio per motivi personali, senza essere imputato di abbandono di responsabilità. Un colloquio richiede un’attenzione precisa all’interazione. Si ritiene che l’impegno dell’operatore a partecipare al colloquio sia più intenso.

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6. avendo uno scopo il colloquio di solito è un incontro formalmente organizzato. Momento, luogo, periodo di tempo definito, al contrario di quanto succede in una conversazione.

7. poiché lo scopo del colloquio non è il divertimento non si evitano i fatti e i sentimenti spiacevoli. Anzi c’è un impegno specifico ad evocare i fatti spiacevoli se questo si rivela d’aiuto; in una conversazione c’è l’accordo implicito di tralasciare argomenti spiacevoli.

In sintesi: il colloquio si differenzia da una conversazione in quanto implica l’interazione personale per uno scopo conscio, reciprocamente accettato; ha una struttura formale, una divisione di ruoli chiaramente definita e un insieme di norme che regolano il processo di interazione. Il colloquio nel servizio sociale Il colloquio nel servizio sociale riguarda il contenuto del servizio sociale, viene fissato per raggiungere gli scopi del servizio sociale e ha luogo prevalentemente – non esclusivamente - nei centri di assistenza sociale. Il colloquio è la tecnica più importante - ma non l’unica - attraverso la quale si raggiungono gli scopi del servizio sociale. Agli scopi generali si aggiungono gli scopi dell’ente al cui interno il colloquio effettivamente si svolge (i vari tipi di servizi, con le loro specifiche competenze). Nel colloquio ci si sforza di ottenere la massima partecipazione da parte dell’utente (mentre nelle interviste effettuate per i sondaggi di opinione si fa esattamente il contrario: l’intervista è standardizzata e si cerca di contenere le opinioni individuali) e di rendere massima l’individualizzazione del contenuto. Kadushin distingue tre grandi categorie di colloqui: informativi (svolgere un’indagine sociale), diagnostici (giungere ad una valutazione) e terapeutici (effettuare un cambiamento). Le tre categorie di colloqui a volte sono intrecciate e possono coesistere in un medesimo colloquio. Colloqui d’informazione o di indagine sociale Questo tipo di colloquio è una raccolta selettiva di materiale biografico (della persona), collegato alla sua situazione sociale ed al problema per cui si è rivolto all’ente. Quindi i parametri relativi al colloquio informativo riguardano sia informazioni relative alla comprensione della domanda, sia relative al tipo di aiuto che l’ente può fornire. Generalmente i primi colloqui vengono dedicati in modo più esclusivo ed esplicito ad ottenere informazioni; è una fase che può preludere ad un intervento sociale (dopo avere effettuato una valutazione). Il colloquio non è l’unica fonte possibile di informazioni, l’osservazione diretta è un’altra fonte. Si possono raccogliere dati in altri modi (leggendo materiali già in possesso al servizio, ad esempio la documentazione su un caso). Attraverso altri colloqui, non più con l’utente. Colloqui diagnostici , finalizzati alla determinazione di idoneità per un servizio. In questa categoria si possono includere i colloqui di selezione delle famiglie adottive o affidatarie. Lo scopo di questi colloqui è di ottenere informazioni utili per prendere delle decisioni. Quindi anche la decisione se fare o meno un progetto d’intervento e di che tipo. Colloquio terapeutico, serve per definire un accordo - scritto o orale - sulla base delle potenzialità della persona (e della sua rete) che individui i compiti dei diversi soggetti e per sostenere, razionalmente ed emotivamente, le persone nel percorso di svolgimento dei compiti. È possibile, rivedendo queste categorie alla luce delle trasformazioni intervenute nei paradigmi del servizio sociale negli ultimi vent’anni (l’intervento del servizio sociale come un processo di aiuto, con finalità promozionali-educative) ridefinire le ultime due categorie. “Il colloquio di valutazione”, quindi, anziché “il colloquio diagnostico” ed “il colloquio promozionale - educativo” anziché “il colloquio terapeutico”. Un’altra classificazione del colloquio in servizio sociale può essere fatta facendo riferimento ai contesti relazionali dell’utente.

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I possibili contesti in cui l’operatore può intervenire sono: - l’individuo - la coppia - la famiglia77. Si possono analizzare i tre contesti facendo riferimento alle caratteristiche, alle problematiche e alle potenzialità dell’interazione (Zini, Miodini, 1997, p. 83-92). CARATTERISTICHE PROBLEMATICHE POTENZIALITA’ INDIVIDUO a) la costruzione di una

relazione diadica, che ha l’obiettivo di sviluppare l’interazione tra operatore e utente e favorire l’esplicitazione di contenuti utili per la conoscenza del problema

b) la possibilità di interagire in uno scambio faccia a faccia, senza intermediari e dove il feedback78 è immediato.

a) il pericolo di un coinvolgimento emotivo che non consente la possibilità di mantenere lo scopo del colloquio

b) l’uso del tempo che tende ad allungarsi: il confronto con l’individuo singolo, nel caso di problemi di tipo familiare, rallenta il processo di cambiamento

c) l’assenza di più punti di vista; non si conoscono le prospettive degli altri membri della famiglia

d) l’impossibilità di lavorare con le altre persone coinvolte nel problema non permette di cogliere se il sistema familiare abbia consapevolezza del disagio.

a) possibilità di ascoltare con attenzione

b) comprensione della sofferenza e dell’emotività che accompagnano la condizione problematica

c) sostegno diretto alla persona in un rapporto privilegiato

d) valutazione/verifica immediate

e) influenzamento79 per sviluppare le capacità personali

COPPIA a) rapporto plurale – vi sono tre persone in interazione

b) attenzione non solo all’effetto prodotto dall’intervento diretto nei confronti di una delle due persone presenti, ma anche

a) la possibilità di creare alleanze o coalizioni. Possono essere giocate strategicamente, oppure creare triangolazioni relazionali

b) la difficoltà di

a) comprensione dei due punti di vista che hanno portato la coppia alla consulenza sociale

b) possibilità di osservare la dinamica relazionale di coppia

c) possibilità di lavorare 77 Zini M.T., Miodini S., Il colloquio di aiuto, 1997, Carocci, Roma 78 Il feedback è l’informazione di ritorno, nel percorso emittente-ricevente, ricevente-emittente. 79 Processo di influenzamento: nel colloquio è impossibile non influenzare e non essere influenzati. L’operatore influenza quando pone le domande e la persona tenderà ad influenzare l’operazione nella direzione del suo punto di vista sul problema. L’operatore deve utilizzare la propria capacità di influenzamento per costruire la dimensione di aiuto, porre molta attenzione alle retroazioni, cercare di gestire i feedback, non colludere con le idee dell’utente, riconoscere i propri pregiudizi.

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all’effetto indiretto (reazione emotiva indiretta) sulla persona che ascolta, soprattutto in termini di comunicazione non verbale

scoprire ciò che entrambi i soggetti custodiscono come segreto, pericoloso da svelare alla presenza di entrambi

c) la gestione da parte dell’assistente sociale del possibile conflitto nella diade

sulle differenti aspettative

d) esplicitazione dei meccanismi che scatenano conflittualità e ostilità

e) osservazione della congruenza tra comunicazione verbale e non verbale nella coppia

f) emersione delle regole, dei riti, dei miti familiari e la distribuzione informale dei ruoli

g) possibilità di riflettere insieme agli operatori su una terza punteggiatura, differente da quelle individuali, che le comprende entrambe, come opportunità per uscire dal conflitto

FAMIGLIA a) rapporto plurale; l’assistente sociale conduce un colloquio con un gruppo di persone che ha una storia comune

b) possibilità di lavorare in modo circolare per cogliere tutte le retroazioni e inviare feedback all’intero sistema

a) aggancio, collaborazione, contrattazione sull’impegno a costruire un percorso comune

b) gestione e comprensione di aspettative diverse

c) giochi relazionali, espressioni di possibili alleanze o coalizioni

d) comunicazione non verbale molto complessa

e) gestione del conflitto evidenziato in sede di colloquio

f) decodifica dei messaggi impliciti ed indiretti

g) necessità di lavorare sul sistema nel suo complesso

a) lavoro hic et nunc con tutti (o quasi) i componenti della famiglia

b) ascoltare tutte le punteggiare soggettive

c) confronto diretto fra le parti in una situazione controllata e protetta

d) invio di messaggi diretti ed espliciti a tutti i componenti della famiglia

e) risoluzione del problema in tempi più rapidi

f) capacità di migliorare l’interazione e di costruire rapporti diversi nella famiglia

g) maggiore obiettività nel leggere regole, ruoli, riti del sistema familiare

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Colloquio e comunicazione Il colloquio è una forma specializzata di comunicazione; l’interscambio comunicativo interessa due persone, dotate entrambe di un sistema di ricezione, di un sistema di elaborazione e di un sistema di trasmissione. Il sistema ricevente è costituito dai cinque sensi, i recettori - i più usati in un colloquio sono gli occhi e le orecchie. Vi possono essere delle barriere nella comunicazione. Un possibile livello di barriera: la sensazione della distanza sociale tra operatore ed utente. Un altro è la differenza di linguaggio tra assistente sociale ed utente: ogni gruppo sociale ha il suo gergo ed il suo particolare uso della lingua, per cui l’assistente sociale dovrà essere in grado di farsi capire anche da coloro che “non parlano la sua lingua” - tradurre, appunto, le proprie parole, come segno di rispetto e per facilitare la comunicazione. La ricezione del messaggio: la persona che riceve il messaggio ha il suo bagaglio personale di barriere mentali, schermi e filtri che la proteggono dalla ricezione di messaggi che la rendono ansiosa o la mettono a disagio. I meccanismi di difesa costituiscono una distorsione del messaggio udito; nella proiezione sentiamo il messaggio non nei termini in cui è stato pronunciato ma come lo avremmo detto noi in quella situazione. Non sentiamo soltanto ciò che decidiamo di ascoltare ma ciò che ci aspettiamo di sentire, che venga detto o meno. Il sistema di credenze (la cultura dell’operatore) include le attese che lo predispongono a dare certe risposte. Si tende a pensare per categorie, si danno agli individui gli attributi dei gruppi ai quali sembra che appartengano e si tende a sentire ciò che ci si aspetta che essi dicano piuttosto che ciò che dicono in realtà. Durante un colloquio l’operatore investe una notevole dose di energia nell’elaborazione delle comunicazioni che ha ricevuto, cercare di capire, analizza le comunicazioni che riceve. Spesso l’operatore non si rende conto di non capire - il correttivo per l’ignoranza presumibile è il rimando: si controlla la comprensione del messaggio chiedendo delle conferme o dei chiarimenti. Si effettuano, ad esempio, una serie di colloqui con due genitori per capire la loro storia: poi si collegano i diversi dati, si definisce - dal punto di vista dell’operatore - qual è l’aspetto centrale (o gli aspetti centrali) della loro storia: si restituisce a loro la comprensione della loro storia, per discuterla insieme. Attraverso questo procedimento si può giungere, per gradi, ad un “accordo di realtà”, il che vuol dire lavorare insieme su fatti che l’operatore e l’utente hanno riconosciuto come problematici. L’accordo di realtà, spesso, è parziale: un pezzo di accordo è comunque un inizio, mantiene l’aggancio tra la persona ed il servizio, consente di definire dei precontratti. Si può definire «la competenza comunicativa come l’insieme di quelle capacità che favoriscono lo scambio di informazioni attraverso il linguaggio verbale e attraverso i segnali non verbali […] utilizzate prevalentemente nell’interazione faccia a faccia. Questa competenza si esprime in: - funzione di invio efficace dei messaggi - funzione di ricezione dei segnali e delle informazioni che essi forniscono - funzione di decodifica dei messaggi inviati - meccanismi interni all’individuo, quali consapevolezza, congruenza interna, feedback

interno, ecc., necessari al monitoraggio dei propri comportamenti comunicativi»80 Quando ci si parla, si parla anche con se stessi, vi sono monologhi interiori dell’utente e dell’operatore. Un esempio, dal testo di Kadushin: un’intervista fatta dopo un colloquio ad un utente e ad una assistente sociale, su cosa pensavano mentre si parlavano; l’ultima parte è interessante: l’utente - una donna con figli, sola, che ha chiesto assistenza per i bambini poiché deve essere

80 Zini, Modini, idem, p. 19

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ricoverata in ospedale, dice “avrò veramente bisogno di un aiuto se dovrò farmi operare. I bambini non sanno badare a se stessi, sono troppo piccoli” e intanto pensa “perché devono rendere tutto così complicato? Non mi ha nemmeno chiesto l’età dei bambini e quanti sono. E ora vuole parlare con qualcun altro (il medico). Parli con me, sono io quella che conosce la situazione meglio di tutti.” L’operatore competente L’operatore che si comporta da persona cordiale e che ha un atteggiamento di accettazione stabilisce un’atmosfera che fa diminuire l’ansia. Una buona interazione fra l’operatore e la persona si può collegare ad un accordo sul fine del colloquio. Questi due aspetti possono coesistere separatamente, senza rapporti fra loro - succede quando l’operatore enfatizza gli aspetti di accettazione ed empatia, perdendo di vista gli scopi: l’operatore ascolta, accoglie, comprende, vuole fare delle proposte - per esempio una rilettura di una situazione familiare - ma non ci riesce, viene assorbito dalla dimensione dell’accoglienza, che è importantissima, ma non si può dimenticare che il colloquio sta in una sequenza, di un processo di aiuto, per cui dovrebbe inserirsi in un percorso di cambiamento. Ci sono delle regole, per l’operatore, appropriate ad un colloquio: 1. incoraggiare l’autodeterminazione della persona 2. atteggiamento non giudicante: l’operatore non è lì per lodare o biasimare, ma unicamente

per comprendere (non giudizio ed accettazione si coniugano insieme: il che non vuol dire che l’operatore aderirà acriticamente allo schema di riferimento dell’utente, ma ne riconoscerà la validità, per quella persona - ovvero sottolineerà costantemente, dentro di sé, la relatività culturale dei propri punti di riferimento).

3. non fare fretta alle persone (concludere le frasi al posto loro, avere già capito tutto, non dare il tempo di ordinare ed esprimere i propri pensieri)

4. fare attenzione (ovvero controllare e gestire) il conflitto tra la promessa di libertà fatta alla persona e il doversi prendere delle responsabilità nei confronti dei suoi bisogni

5. l’interesse per la persona, che dev’essere alto - interesse che le persone riconoscono, se c’è 6. rispetto per l’individualità delle persone - trattare le persone come individui singoli,

particolari, unici 7. comprensione empatica: comprendere con sensibilità ed accuratezza la natura

dell’esperienza dell’utente - si attua una comunicazione del tipo “sono con te”. L’operatore sente con l’utente - qui inizia l’esperienza della com/partecipazione al dolore. Empatia significa entrare, con l’immaginazione, nella vita interiore di qualcun altro;bisogna comunicare all’utente che si sta percependo e sentendo la sua situazione

8. genuinità ed autenticità: essere veri ed umani durante il colloquio. Il che implica spontaneità e sensibilità - l’operatore dà un esempio concreto di disponibilità alla comunicazione, se non si pone in tal modo non può chiedere di essere disponibile all’utente. È un gioco di equilibri tra “non posso essere tuo amico perché la mia posizione nella tua vita è diversa da quella di un amico, io sono un tecnico, un professionista” e “ti sono accanto come essere umano e perché il mio essere un buon tecnico è dato dalla vicinanza che provo e ti dimostro”, quindi un gioco di equilibri tra trasmettere emozioni e, di nuovo, neutralità (è evidente che non si può esprimere rabbia o insofferenza, anche se in quel momento sono i sentimenti dominanti). Un autocontrollo mirato

9. la garanzia della riservatezza: ciò che viene detto tra l’utente e l’operatore rimarrà tra loro, non verrà divulgato in giro. La storia della persona è un bene privato. Occorre però ricordare che esiste un sistema di servizi, al cui interno sta il servizio sociale, che possono parlarsi e comunicare tra loro: questo occorre dirlo, occorre precisare che il contenuto dei colloqui verrà riferito ad altri operatoti, se è necessario, motivando il significato di queste comunicazioni, e chiedendo comunque alla persona il consenso.

Queste regole attengono ad ogni colloquio, sia che l’interazione sia positiva o no.

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Qualità personali idonee a stabilire un buon rapporto: cordialità, pazienza, comprensione, tolleranza, sincerità. Inoltre quanto meno l’operatore è ansioso ed incerto tanto maggiore è la sua probabilità di essere competente. In genere l’operatore esperto è più competente. L’operatore che ha maggior successo è cordiale, disponibile, aperto psicologicamente e capace di un controllo elastico su stesso e sulla situazione di colloquio. Un operatore competente è un operatore che ascolta. L’ascolto contiene quattro aspetti conseguenti: l’attenzione, la percezione, l’elaborazione e la risposta. - L’attenzione è «la volontà di proiettarsi verso l’altro con l’intenzione e il desiderio di

cogliere tutti i segnali di richiesta, nello sforzo di sospendere temporaneamente ogni giudizio e nel controllo del coinvolgimento emozionale, per mettersi realmente a disposizione dell’altro e del suo problema»81

- «percepire il messaggio significa riceverlo effettivamente, cioè permettere allo stimolo di arrivare al cervello attraverso gli organi di senso e riconoscere il tipo di stimolo ricevuto; accettarlo a livello cosciente, cioè decodificare e comprendere il messaggio inviato nei termini in cui è stato emesso. […] nelle relazioni umane è molto difficile distinguere ciò che è situazione obiettiva da ciò che è opinione soggettiva»82

- «elaborare il messaggio significa approfondirne il contenuto, non tanto alla ricerca del senso attribuito dall’operatore, ma per comprendere ciò che sente e vive l’utente, per arrivare ad una comprensione comune, attraverso feedback e restituzioni […] approfondire come viene vissuto il problema aiuta a comprendere se c’è accordo o disaccordo tra operatore ed utente e se vi sono tutti i requisiti per approfondire la presa in carico»83

- «nel rapporto tra cliente ed assistente sociale la risposta assume il valore di riformulazione sistematica della domanda e di restituzione rielaborata delle informazioni date e raccolte dall’utente; comunica all’utente che la sua domanda è stata accolta e che è stata compresa la situazione affettiva che la accompagna. La riformulazione scaturisce, quindi, da una operazione di valutazione e di scelta del materiale raccolto […] la scelta del materiale richiede all’operatore capacità decisionale […][e] capacità di riorientamento delle linee e dei comportamenti idonei alla realtà»84

Vi possono essere due tipi di risultati in un colloquio, strumentali ed espressivi. Le soddisfazioni espressive sono tratte dal rapporto instaurato; i risultati strumentali derivano da ciò che l’assistente sociale di fatto fa per aiutare il cliente a risolvere i problemi per cui l’utente è venuto. Facendo riferimento ad una ricerca del 1956, interviste post colloquio ad alcuni utenti emergevano questi due tipi di soddisfazione: risultato strumentale, c’è la speranza che l’operatore dica o faccia qualcosa per risolvere almeno in parte il problema; risultato espressivo: il piacere, la gratificazione derivanti dal contatto con una persona interessata che comprende ed accetta e appare disponibile ad ascoltare la tua storia. Dalla parte dell’utente, un aneddoto: una signora ad un gruppo di incontro fra utenti «chi dice che essere assistiti non sia un lavoro! Si deve imparare come comportarsi quando si va giù per un colloquio. Devi essere sicura di tenere giù la testa e di sembrare triste, di non parlare forte e così via. Ci vuole proprio una certa preparazione per essere assistiti. Non voglio dire che si debba far finta, no, voglio dire che quando hai bisogno dell’assistenza non puoi entrare e sembrare troppo orgogliosa perché possono indisporsi. Le persone che ti fanno compilare i moduli si aspettano che tu abbia un certo aspetto. E a volte bisogna lavorare duro per arrivarci» (1970). Ogni singolo colloquio di una serie di colloqui è parte di un processo, di una successione di passaggi che, nel tempo, realizzano gli obiettivi del rapporto tra l’ente e l’utente. 81 Zini, Miodini, cit., p. 56 82 idem, p. 56 83 Zini, Miodini, cit., p. 57 84 idem, p. 58

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Si può fare una distinzione tra i colloqui anche a seconda di chi ha preso l’iniziativa di effettuare il colloquio. Le combinazioni possono essere: - colloqui richiesti dall’utente - colloqui richiesti dall’assistente sociale all’utente - colloqui richiesti dall’assistente sociale ad altre persone coinvolte o da coinvolgere nel

processo di aiuto - colloqui richiesti all’assistente sociale da altre persone. Questi elementi sono importanti per capire il contenuto del colloquio e la motivazione degli interlocutori (Dal Pra Ponticelli, 1987). Le fasi del colloquio Un colloquio può essere diviso in fasi 1. il cammino verso il colloquio. Inizia, prima che i soggetti si incontrino, nei loro pensieri

man mano che si muovono verso l’incontro. L’utente decide di chiedere assistenza, attraverso una riflessione - questa riflessione a volte viene esplicitata “non sono venuto prima perché volevo arrangiarmi da solo” “ho parlato con una mia amica e mi ha detto di venire” “ho pensato che avreste potuto aiutarmi per”. Ciò vuol anche dire che prima del colloquio reale vi sarà un colloquio immaginario, che lo prepara. Alcune decisioni sono obbligate: nel nostro sistema di servizi occorre rivolgersi all’ente pubblico per una domanda di adozione, per esempio, o per un’assistenza economica continuativa, per inserire un minore in comunità alloggio, per accedere ad un servizio per disabili. Altre decisioni obbligate attengono alle prescrizioni dell’autorità giudiziaria. Non solo l’utente può effettuare la scelta di contatto, ma a sua volta l’assistente sociale può essere il soggetto che decide che l’utente deve essere sentito. Il colloquio è influenzato da ciò che l’ha preceduto, sia dal punto di vista dell’utente che dell’operatore (che avrà pensato a cosa dire, con più o meno profondità, a seconda del tempo a sua disposizione o dei dati che ha, anche per l’operatore esiste un colloquio immaginario prima del colloquio reale). Sia l’operatore che l’utente portano con sé al momento del colloquio il proprio retroterra culturale, le proprie storie personali. Il momento che precede il colloquio è anche il momento delle motivazioni: l’utente può avere molta resistenza e lo stesso si può dire dell’operatore (all’utente può essere prescritto di andare ad un colloquio, l’assistente sociale anche può trovarsi in una situazione di prescrizione: un dato colloquio può essere necessario, obbligatorio, per la gestione di un caso ma magari si è in ansia, o ci si sente incompetenti). L’operatore, comunque, ha compiti precisi: esserci, orientare il colloquio in rapporto allo scopo, incoraggiare la partecipazione, il che vuol dire trasformare, per quanto è possibile, la non volontarietà in volontarietà - aprire delle brecce nella comunicazione possibile.

2. la programmazione del colloquio: la disponibilità di tempo dell’ente (e dell’operatore) influenza l’inizio del colloquio - il tempo d’attesa e l’orario, che dovrà tenere conto delle esigenze dell’utente (può/non può prendere permessi dal lavoro, deve accompagnare i bambini a scuola, ha un parente anziano da accudire, ecc.). Il rispetto del tempo è rispetto del tempo dell’operatore, come pure di quello dell’utente.

- la preparazione dell’operatore: è chiaramente un’azione di anticipazione mentale sul colloquio stesso. Possiamo evidenziare due grandi aree: il colloquio di cui si conosce l’argomento ed il colloquio ignoto. Esempio del primo tipo di colloquio: la convocazione di una famiglia per il rimando di quanto scritto al Tribunale: l’operatore può agevolmente strutturare la sequenza degli argomenti, trovare “le parole per dirlo”, immaginarsi le obiezioni possibili, studiare le risposte, avere un’idea dell’impatto delle proprie parole, anticipare il clima comunicativo - tenendo anche conto dell’imprevisto; oppure una richiesta di colloquio su un tema definito, una richiesta di assistenza economica. Secondo tipo: segretariato sociale, ricevimento senza appuntamento: l’assistente sociale non sa chi verrà né che cosa verrà chiesto. Entrambe le tipologie presentano difficoltà diverse: trovare “le parole per dirlo” in maniera comprensibile e corretta - cioè tale da non interrompere immediatamente la comunicazione, con una reazione aggressiva o depressiva - non è semplice, occorre riuscire a definire esattamente lo scopo del colloquio stesso, i termini adatti (rivedere il nostro vocabolario a seconda dell’interlocutore), la sequenza dei passaggi

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logici, valutare le ipotetiche risposte possibili; non è neppure semplice mettersi in una posizione di flessibilità tale da reagire congruentemente verso domande diverse - qui l’operatore ascolta ed accoglie, valuta e fa proposte limitate: anzitutto, proposta numero uno, definisce se quella data domanda è di competenza dell’ente e se sì, quali passaggi ulteriori sono necessari per una presa in carico effettiva (un altro colloquio - sulla situazione nel suo insieme o su un argomento specifico: la donna sola con figlio che viene per una questione economica e nel corso del colloquio dice che ha problemi con il padre del bambino: se il tempo del colloquio è stato destinato al discorso economico si concorda un’altra occasione per parlare di quest’altro aspetto, con altre persone, una visita domiciliare, la presentazione di documenti, ecc.).

- il tempo: nella preparazione dell’operatore è di particolare importanza l’aspetto temporale: un buon tempo per un colloquio è variabile tra mezz’ora, un’ora. Fare colloqui troppo lunghi è improduttivo: l’attenzione dell’operatore scende, ci si comincia a ripetere: si può anche dire che più il colloquio è lungo più ci si allontana da una vera conclusione - che è una decisione su qualcosa. L’assistente sociale deve quindi imparare a rispettare il tempo, ad usarlo efficacemente: non fare fretta alle persone, ma neppure lasciare che lo spazio si dilati senza controllo. Avere sempre in mente lo scopo del colloquio aiuta moltissimo. Tempo vuol anche dire scegliere di programmare un colloquio difficile in un momento in cui l’operatore è più lucido; vuol anche dire agevolare il più possibile l’utente nella scelta di un orario adeguato ai suoi impegni.

- il luogo del colloquio: possibilmente una stanza tutta per sé, come direbbe Virginia Woolf. Dove si riducono al minimo - possibilmente a zero - le interruzioni: sono segnali di poco rispetto per l’utente e sono elementi che deconcentrano l’operatore. I libri suggeriscono una stanza accogliente, ordine sulla scrivania: posso fidarmi a consegnare la mia storia ad un assistente sociale che ha visibilmente, sotto forma di cartelle, bigliettini, carte varie, un sacco di altre storie in mente, in modo abbastanza arruffato? Qui sta molto all’operatore: dare la sensazione dell’ordine mentale, della presenza, dell’attenzione, oppure inviare il messaggio “è proprio così, come vede, non c’è più spazio per nulla, molto probabilmente la sua richiesta andrà perduta”. Inoltre non è detto che il colloquio avvenga sempre e solo in un ufficio: la visita domiciliare, ad esempio, è un colloquio che non avviene nei locali dell’ente; oppure il colloquio può essere effettuato in moltissimi altri luoghi: l’ufficio di un altro operatore, la scuola, l’ospedale, la casa di riposo, il carcere ecc.

3. la fase iniziale del colloquio. Istruzioni elementari: salutare chiamando la persona per nome, essere cortesi, sorridere, offrire una sedia, uso delle frasi rituali (tecnicamente “comunicazioni empatiche”: “come sta?” , “Prego, si accomodi”, “Buongiorno”). Può essere utile intavolare, all’inizio e alla fine del colloquio una conversazione generale - le condizioni meteorologiche possono essere un ottimo pretesto -, per agevolare il passaggio dall’informalità delle relazioni sociali all’interazione formale del colloquio (alla fine, è il contrario). Questa conversazione ha il vantaggio di dare all’utente il tempo di familiarizzarsi con l’operatore e di farsi un’idea della sua persona. Questa non è una regola obbligatoria: la regola obbligatoria è sicuramente quella di mettere la persona a proprio agio, quindi la conversazione generale, centrata su aspetti di esperienza dell’utente (“ha trovato facilmente l’ufficio?”, “come si trova in questa nuova casa?”, “riprenda fiato, non c’è fretta”, “la capisco, oggi fa davvero caldo” e simili), può essere usata all’inizio, alla fine, durante, se è necessaria per smussare una situazione di tensione (come dare il permesso di fumare o offrire un fazzoletto di carta ad una persona che piange), fare delle pause o dimostrare, in modo non verbale, partecipazione. Lo scopo del colloquio non è quello di fare conversazione, quindi non bisogna eccedere nei tempi di quest’ultima, altrimenti si crea confusione nell’utente (“ho aspettato tre settimane per parlare del tempo?”). Di solito, è l’assistente sociale che chiede qual è il motivo per cui l’utente si è presentato al servizio - si può essere generici “mi dica pure” o specifici “per quale problema si è rivolto ad un assistente sociale”. Se qualcun altro ha fatto un precolloquio ed ha compilato una scheda si può partire dai dati raccolti. Lo scopo del colloquio dev’essere circoscritto e non troppo ambizioso, altrimenti è facile cadere nella genericità (conoscere una persona è un obiettivo ambizioso). Un obiettivo generale nei primi colloqui è quello di definire perché una persona è venuta al servizio e che aspettative ha nei confronti dell’ente, iniziare a stabilire un contatto (il contatto è una fase, non si esaurisce quindi in un incontro); i colloqui all’interno

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di un progetto di aiuto sono, da un certo punto di vista più facili, perché lo scopo di ogni colloquio s’inserisce in un quadro più ampio. Il compito principale dell’operatore nella fase introduttiva del colloquio è quello di favorire il rapporto interpersonale. Un altro compito è quello di spiegare chiaramente all’utente il significato del colloquio stesso (il “perché siamo qui”).

4. la fase di sviluppo del colloquio. Due aspetti: l’estensione (molti punti) e la profondità

(un argomento trattato a fondo, ed anche che cosa la persona prova rispetto ad un dato fatto della propria vita - su ciò che prova la persona s’inserisce “il rapporto col dolore” dell’operatore sociale); sono in posizione antitetica. Alcune tecniche per incoraggiare l’utente a parlare:

♦ espressioni di comprensione ed interesse (“certo”, “capisco”, “ continui”) o cenni di assenso col capo, sorrisi: sono ricompense sociali che incoraggiano a parlare. Dicendo inoltre “continui” l’operatore ha l’opportunità di raccogliere più dati

♦ riflessione: il commento riflessivo indica che si è attenti e si vuole approfondire un argomento, si può ripetere una parola o una frase dell’utente, o dire una frase che riprende quella dell’utente, leggermente modificata. In un certo senso, l’operatore fa da specchio. Le risposte riflessive sono affermazioni, non domande

♦ chiarificazione ed interpretazione: la chiarificazione rispecchia ciò che l’utente ha detto, ma lo traduce in un linguaggio più familiare affinché divenga più comprensibile. Si gioca su un piano di comprensione intellettiva. L’interpretazione come esplicitazione delle deduzioni dell’operatore su ciò che è stato narrato.

♦ riassunto: l’assistente sociale riesamina ciò che è stato detto e dà alla persona una direzione, esplicita gli argomenti trattati e quelli non ancora discussi; in sostanza l’operatore dice che cosa ha capito del racconto dell’utente. Questo serve all’utente per “capire se e che cosa l’operatore ha capito” e per effettuare eventuali correzioni.

♦ domande: è la tecnica usata più frequentemente per incoraggiare a comunicare fatti rilevanti. Le domande fatte bene - non inquisitive - aiutano la persona ad organizzare l’esposizione del suo problema; le domande indicano una direzione, senza imporre limitazioni (digressioni rispetto alla risposta vera e propria). L’atteggiamento con cui si fa una domanda è importante quanto la domanda stessa; se la persona è depressa, il tono della domanda dovrebbe indicare comprensione ed appoggio; se è ostile, riconoscimento ed accettazione dell’ostilità (il che vuol dire non forzare verso una vicinanza relazionale impossibile in quel momento). La domanda può contenere informazioni (“vi è la possibilità di avere un aiuto domiciliare, che cosa ne pensa?”). Le domande possono essere aperte o chiuse (“da dove cominciamo?” - aperta; “quando era adolescente com’era il suo rapporto con i suoi genitori?” - chiusa). Ci sono domande più astratte e domande più concrete “come punisce i suoi figli?” è più astratta di “quando i suoi figli non ubbidiscono e la fanno arrabbiare, che cosa fa?”. Nella categoria domande concrete si possono collocare le domande investigative (servono per chiarire i dettagli): un aspirante genitore adottivo dice che ama i bambini, la domanda investigativa è “che bambini conosce? Cosa fa con loro? Cos’è che le piace di quei bambini?”. Le domande investigative ipotetiche pongono situazioni ipotetiche ma realistiche per vedere la reazione “cosa succederebbe se...”. Un tipo particolare di domanda investigativa ipotetica è la richiesta di immaginare un futuro che corrisponde al desiderio (una giornata con il bambino adottato, con il nipote per cui si chiede l’affido): la ricchezza o la povertà di questo racconto forniscono molti elementi di comprensione. Far domande è un’arte difficile: le domande devono essere chiare e comprensibili e corte, e l’operatore deve dare il tempo alla persona di pensare la risposta; non bisogna suggerire la risposta - “vero che...”. Le domande inoltre dovrebbero consentire un’elaborazione da parte della persona, non risposte sì/no; non bisogna fare più domande insieme “che cosa pensa dell’adozione? Come si vede come genitore adottivo? Ha intenzione di adottare più fratelli?” “la salute va meglio? Le è arrivata la pensione? Come va con quello sfratto?”. Una domanda classica che riguarda la profondità è “che cosa pensa di ciò” o anche “come sta, come si sente in questa situazione?”. Rivelare i propri sentimenti porta con sé la paura del rifiuto (dei sentimenti stessi): quindi l’assistente sociale deve dimostrare di non avere paura dei sentimenti, di poterli accogliere, dare degli incoraggiamenti di ricompensa (“lo so che è difficile parlare di questo ed è un segno della

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sua forza il discuterne”). Gli eufemismi (le attenuazioni), le metafore, le generalizzazioni (“è normale che gli adolescenti non vadano d’accordo con i genitori”) ammorbidiscono le domande, riducono l’ansia, diminuiscono le resistenze.

♦ cambiamenti di argomento nel corso del colloquio: in alcuni momenti è necessario (un argomento è esaurito, si gira attorno senza venire al dunque, ecc.). Il cambiamento di argomento dev’essere chiaro e spiegato alla persona. “Potremmo approfondire questo punto?”, “possiamo parlare di quest’altro aspetto?”

♦ ascoltare più che parlare: un buon ascolto parte dal riconoscimento e dall’accettazione di una situazione d’ignoranza. Vuol dire lasciare che i nostri preconcetti vengano messi in crisi (non distrutti, messi in crisi). L’ascolto può anche essere simulato (si parla con se stessi invece di ascoltare): è una difesa dell’operatore, quando si annoia, quando ha i fatti suoi, ecc., non va bene; è vero che l’operatore pensa ed ascolta, ma dovrebbe pensare al colloquio, non alle vacanze. Non distrarsi richiede autodisciplina: la comunicazione verbale è caratterizzata dal fatto che svanisce rapidamente, se uno non fa più che attenzione, la comunicazione è perduta.

♦ il silenzio nel colloquio: ha molteplici significati, è una pausa per riordinare le idee, per cercare una risposta, perché non c’è più niente da dire, un modo per esprimere una confusione così grande che non ha parole. L’operatore aspetta - rispetta il silenzio - ma non ci si può perdere nel silenzio e il troppo non va bene (perché ostacola il colloquio), quindi deve assumersi la responsabilità di rompere il silenzio (direi dopo qualche minuto): un silenzio troppo lungo genera tensione e rende difficile il proseguimento del colloquio

♦ prendere appunti durante il colloquio: ovvero la memoria di ciò che è stato detto. Kadushin sostiene che prendere appunti distrae e riduce l’attenzione all’interazione. Ci sono però dei colloqui dove è essenziale prendere appunti, anche perché la memoria meglio allenata non riesce a seguire tutti i passaggi ed i dettagli, chi ha detto che cosa (soprattutto se gli interlocutori dell’assistente sociale sono più di uno). Con un buon allenamento, è possibile scrivere e fare attenzione, se lo scrivere non disturba le persone con cui si è in colloquio. Certo ci sono colloqui più semplici, dove non è necessario seguire tutti i passaggi, per cui si può effettuare una registrazione finale, dopo il colloquio. Per registrare bene un colloquio (e non farne solo una sintesi dei contenuti: si presenta la signora e chiede il rinnovo del sussidio) ci vuole abbastanza tempo (forse di più che fare il colloquio) e si pone una domanda fondamentale: cosa deve essere registrato e come? Lo scopo, che guida il colloquio, guida anche la scelta della registrazione. Si nota, in genere, nelle cartelle di servizio sociale che l’operatore, pur essendo quello che registra, non compare mai: non fa domande, non dice nulla. Sono contenute soltanto le affermazioni dell’utente. Ma all’operatore servirebbe sapere come ha condotto il colloquio, per apprendere dalla propria esperienza, anche scrivendola.

♦ la conclusione del colloquio: un colloquio sfuma, verso la fine, non si conclude bruscamente ma gradualmente, l’intensità emotiva si allenta, si evidenziano gli accordi raggiunti. L’assistente sociale deve saper dire delle frasi conclusive, che concludono il colloquio ma mantengono aperta la relazione tra operatore ed utente. Il confine naturale di un colloquio è il tempo. L’altro confine è lo scopo, ma un colloquio può deviare e l’operatore può non essere in grado di mantenere la direzione del colloquio.

♦ l’operatore, dopo ogni colloquio, dovrebbe fare un colloquio con se stesso e rivedersi in azione e capire che cosa è stato efficace e cosa no e capire come le proprie reazioni (collegate ad aspetti emotivi e culturali: sentimenti e pensieri) hanno condizionato il colloquio, facendolo andare in una direzione piuttosto che in un’altra.

2. IL COLLOQUIO DI GRUPPO

Nel colloquio di gruppo, le regole sono simili a quelle del colloquio individuale. C’è un conduttore, e ci sono delle fasi, c’è uno scopo. Per essere produttivo, un colloquio di gruppo richiede che i membri si attengano a delle norme - permettere a ognuno di esprimersi senza interruzioni - ascoltare attentamente ciò che gli altri stanno dicendo - rispondere a ciò che gli altri hanno detto

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- fare in modo che il proprio contributo e la propria risposta siano attinenti al tema discusso - portare in discussione materiale significativo e importante senza arrestarsi di fronte ai tabù

sociali (gli argomenti di cui non si deve parlare) - accettare l’aperta discussione e la critica del gruppo - accettare le limitazioni che vengono poste a comportamenti aggressivi, sia verbali, che di

altra natura, che potrebbero creare una frattura nel gruppo - incoraggiare l’espressività emotiva. I vantaggi dei colloqui di gruppo: - il fatto di incontrare una famiglia insieme, piuttosto che separatamente, consente

all’assistente sociale di ottenere in meno tempo una comprensione e una conoscenza della famiglia, delle relazioni al suo interno, degli stili di comunicazione fra i membri, di ciò che ogni membro ritiene importante, se esiste o meno una visione unitaria del desiderabile, di evitare “i segreti di famiglia”, di fare un esame di realtà collettivo. Questo assunto è vero sia nella fase di conoscenza che nella fase successiva, di trattamento della situazione;

- consente anche lo sblocco dell’interazione (pensiamo a membri di una famiglia che non si parlano fra di loro), e quindi la mediazione fra le istanze e le visioni dei singoli;

- i problemi possono essere affrontati da più prospettive, le ipotesi di soluzione sono affrontate da più soggetti, la definizione di un contratto è con tutti i soggetti coivolti nel problema

- inoltre il colloquio di gruppo consente una maggiore efficienza: incontrare insieme più coppie che hanno fatto domanda di adozione consente di trasmettere informazioni a più persone, e di consentire la circolazione delle informazioni possedute dalle coppie fra di loro.

Gli svantaggi dei colloqui di gruppo: - il timore di mettere in evidenza aspetti intimi del proprio pensiero - il gruppo può inibire - il gruppo può centrarsi su antichi rancori, e quindi la comunicazione può risultare bloccata,

o centrarsi su un unico punto critico. - il centro d’interesse, per l’operatore, non è più l’individuo ma il gruppo; l’assistente sociale

deve mantenere aperta la comunicazione fra sé e ogni membro del gruppo e fra ogni membro del gruppo e gli altri

- nel colloquio di gruppo si devono conciliare gli scopi di più persone, che possono distorcere lo scopo per cui era stato fissato il colloquio

- nel gruppo il silenzio è una responsabilità condivisa da tutti. Il colloquio individuale non ha preistoria. La diade operatore - utente non si è mai incontrata prima. Al contrario, i fratelli, le coppie di coniugi, i parenti, hanno interagito prima del colloquio di gruppo e hanno una storia di interazioni, degli schemi già collaudati di comunicazione. Questa storia viene portata nel colloquio di gruppo. Questo è un dato di fatto con cui l’operatore si deve confrontare quando incontra la famiglia.

3. LA VISITA DOMICILIARE

Si ha una visita domiciliare quando la persona, la famiglia viene raggiunta nel suo ambiente di vita quotidiana, nel suo domicilio. Nasce dalla pratica medica, si diffonde nell’attività filantropica – rappresenta il segno della disponibilità del benefattore. La visita domiciliare accompagna la nascita della professione assistente sociale � toccare con mano, vedere le condizioni reali di povertà (primo novecento, anni 40). Prima connotazione - verifica (i vigili sanitari anni 50/60 aiutano gli assistenti sociali)

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- controllo La visita domiciliare è un particolare tipo di colloquio che si svolge in uno spazio diverso dallo spazio istituzionale in si svolge la attività quotidiana dell’assistente sociale (Cellentani, 1995): - la richiesta di fare questo tipo di colloquio parte dall’operatore (l’operatore a domicilio è

l’istituzione a domicilio) - l’uso della visita domiciliare non può essere un automatismo – è una scelta (una scelta che

può essere definita stabilmente, nelle procedure del servizio: per poter effettuare dei colloqui con persone che hanno una mobilità ridotta, è necessario incontrarle nella loro casa)

- attraverso la visita domiciliare si estorcono delle informazioni prima ancora che la persona abbia scelto di darle

- è un momento di intensità nella relazione operatore utente quando? - è un cambiamento di setting - quando la relazione lo consente, quando la relazione lo richiede perché - dev’essere chiaro per l’operatore e per l’utente - quindi esplicitare i motivi della visita domiciliare ambiti di utilizzo prevalenti della visita domiciliare - per raccogliere informazioni (per conoscere) - per sostenere la relazione - per verificare che determinati accordi siano stati rispettati (verifica) Spazio - è lo spazio della persona, si riduce la distanza tra operatore e utente Da soli o in due? - che cosa significa per la persona arrivare in due? - È un’invasione? - È un segno di attenzione? Se si è in due (o più di due) - esplicitare il motivo per cui si è in due o più di due - non parlare tutti insieme, fare una domanda per volta

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