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Modulo 7 Basi psicologiche e cognitive del linguaggio Silvana Contento e Francesca Gattullo Università di Bologna

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Modulo 7 Basi psicologiche e cognitive del linguaggio Silvana Contento e Francesca Gattullo Università di Bologna

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Indice: 7.1 Linguaggio e cognizione (Silvana Contento)

7.1.0 Rapporto fra insegnamento e apprendimento (Francesca Gattullo) 7.1.1 Esplorazione di alcuni termini (Francesca Gattullo)

7.1.1.1 L’interlingua (Francesca Gattullo) 7.1.2 Lo sviluppo linguistico e cognitivo (Silvana Contento) 7.1.3 Teorie dell’apprendimento linguistico (Francesca Gattullo)

7.1.3.1 Teorie innatiste (Francesca Gattullo) 7.1.3.2 Teorie interazioniste (Francesca Gattullo)

7.1.4 Rapporto fra l’apprendimento di una L1 e di una L2 (Francesca Gattullo) 7.1.4.1 Il ruolo della lingua madre (Francesca Gattullo)

7.2 Il bilinguismo precoce (Silvana Contento)

7.2.1 Tipi di bilinguismo (Silvana Contento) 7.2.2 Bilinguismo additivo / Bilinguismo sottrattivo? (Silvana Contento)

7.3 Approccio cognitivista (Silvana Contento)

7.3.1 Attenzione e memoria (Silvana Contento) 7.4 Componenti del linguaggio orale (Silvana Contento) 7.4.1 I fonemi e i morfemi (Silvana Contento) 7.4.2 La sintassi (Silvana Contento) 7.4.3 La semantica (Silvana Contento) 7.4.4. Il lessico (Silvana Contento) 7.5 Componenti non verbali (Silvana Contento)

7.5.1 I gesti simbolici (Silvana Contento) 7.5.2 Gestualità coverbale (Silvana Contento)

7.6 I fattori in gioco nell’acquisizione della L2 (Francesca Gattullo)

7.6.1 Fattori esterni/situazionali: input e interazione (Francesca Gattullo) 7.6.1.1 L’interazione in L2 deve riflettere quella in L1? (Francesca Gattullo) 7.6.1.2 L’attenzione al feedback (Francesca Gattullo) 7.6.2 Fattori / differenze individuali di apprendimento (Francesca Gattullo) 7.6.2.1 Età (Francesca Gattullo) 7.6.2.2 Motivazione (Francesca Gattullo)

7.6.2.3 Attitudine linguistica (Francesca Gattullo) 7.6.2.4 Personalità (Francesca Gattullo

7.6.2.5 Intelligenza (Francesca Gattullo)

7.7 Strategie (Silvana Contento) 7.7.1 Strategie cognitive (Silvana Contento)

7.7.2 Strategie metacognitive (Silvana Contento) 7.7.3 Strategie comunicative (Francesca Gattullo)

7.8 Guida bibliografica

7.8.1 Suggerimenti per ulteriori letture 7.8.2 Opere citate

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7.1 Linguaggio e cognizione (Silvana Contento) Diversamente dall’adulto il bambino è un sistema aperto che si modella nel corso dello sviluppo. La scuola, luogo di istruzione formale, consente di acquisire sia saperi "programmati" che competenze extrascolastiche le quali costituiranno l’insieme di conoscenze dell’individuo. In questo processo di acquisizione la lingua è un veicolo di sviluppo integrato di differenti componenti: cognitiva, sociale, affettiva, culturale. Nell’acquisizione delle conoscenze e nel corso dello sviluppo sociale e affettivo il bambino impara il linguaggio della propria comunità attraverso l'interazione con gli altri: familiari, pari, adulti, insegnanti. In una prospettiva cognitivista il sistema concettuale si sviluppa non solo attraverso il linguaggio ma attraverso l'attivazione di tutti i registri sensoriali e degli altri processi cognitivi che vengono poi codificati nel linguaggio. Si tratta di un processo complesso attraverso il quale si sviluppa anche la personalità, si acquisisce un sistema complesso di conoscenze sul mondo e sulle relazioni con gli altri. Il primo passo è quello di stabilire relazioni sociali con gli interlocutori, e questo è sicuramente uno dei ruoli principali della scuola. In questa attività di relazione il bambino utilizza strategie cognitive e sociali che gli permettono di connettere il dato comunicativo a quello linguistico, l'input comunicativo all'output linguistico. Anche attraverso il linguaggio e la comunicazione il bambino si impossessa lentamente di un insieme di conoscenze culturali cioè di un insieme di conoscenze riguardanti molteplici ambiti dalle credenze all’arte, al diritto, gli usi e i costumi, le abitudini, le idee, i sentimenti, le regole sociali, le credenze religiose, le regole economiche, gli stereotipi, ecc. Tutto ciò è acquisito, trasmesso socialmente e comunicato attraverso il linguaggio, vale a dire attraverso gli scambi verbali e non verbali con gli altri individui. La maggior parte degli studi, svolti in ambito evolutivo negli ultimi anni, indicano che le condizioni di bilinguismo precoce favoriscono lo sviluppo delle capacità cognitive. Molte ricerche indicano in effetti come i bilingui dimostrano di avere maggiore capacità metalinguistica, flessibilità cognitiva, capacità di riflessione sulla lingua, più capacità di astrazione, migliore percezione di indici concettuali, pensiero divergente, capacità cognitiva.

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7.1.0 Rapporto fra insegnamento e apprendimento (Francesca Gattullo) Chi insegna è consapevole del fatto che l'insegnamento non genera necessariamente e automaticamente

apprendimento. Per spiegare tale fenomeno (spesso frustrante) occorre tenere conto di tutti quei fattori che incidono sul processo di apprendimento linguistico. Inoltre, è necessario studiare il cosiddetto “sillabo incorporato nel discente” (Corder 1967), cioè quella sequenza naturale di fasi di acquisizione della lingua che viene percorsa da chi impara una L1 o una L2. La conoscenza dei processi di acquisizione della lingua madre (L1) e della L2 può infatti mettere in grado l’insegnante di facilitare l'apprendimento attraverso il miglioramento delle strategie pedagogiche e didattiche. Nello studiare il complesso processo di apprendimento linguistico i ricercatori hanno sempre presente due insiemi di fattori: l’insieme dei fattori in linea di massima uniformi (le sequenze di apprendimento, le fasi di acquisizione, l’interlingua) e l’insieme dei fattori variabili (le strategie di apprendimento, le differenze individuali, i fattori situazionali, l’ambiente di apprendimento). Per operare in modo efficace, l’insegnante, come il ricercatore, dovrà conoscere entrambi i gruppi di fattori.

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7.1.1 Esplorazione di alcuni termini (Francesca Gattullo) Innanzitutto è bene definire cosa si intende per “lingua seconda”. Una lingua seconda (L2) è quella lingua che si inizia a acquisire dopo il terzo o quarto anno di età, quando cioè gli elementi strutturali di base della lingua madre siano già stati appresi. Si parlerà di acquisizione in età infantile (child second language acquisition- o child SLA), se questa ha inizio fra i 3/4 anni e la pubertà, e di acquisizione in età adulta (adult SLA), se essa comincia dopo la pubertà (Klein 1986). In tal modo si distingue la conoscenza di una L2, accanto a quella della lingua madre (L1), rispetto a situazioni di bilinguismo (si veda, inoltre, il modulo 2, paragrafo 2.2), in cui le due lingue sono acquisite contemporaneamente (anche se possono essere usate in contesti diversi), come potrebbe essere il caso di un bambino nato da genitori parlanti lingue diverse fra loro che gli si rivolgono nella propria lingua sin dalla sua nascita. Alcuni autori operano una distinzione fra L2 e lingua straniera (LS), intendendo con L2 la lingua acquisita in un contesto e secondo modalità “naturali”, cioè nel paese dove si parla la lingua, e in modo “non controllato”, cioè non soggetto a insegnamento formale, e con LS la lingua straniera che si impara nel proprio paese, prevalentemente in contesti scolastici (pubblici o privati). Esempi di questa distinzione possono essere, rispettivamente, l’italiano per il lavoratore straniero in Italia e l’inglese per lo studente di scuola media in Italia. Tuttavia, nell'ambito della costruzione di modelli di acquisizione di una L2, non si fa solitamente quest'ultima distinzione, ed essa non è poi così ovvia come sembra. Alcuni autori, sulla base di una categorizzazione operata da Krashen (1977), distinguono fra acquisizione (acquisition) e apprendimento (learning), cioè fra processi inconsci e processi consci. L' "acquisizione" avrebbe luogo in maniera automatica in quelle circostanze in cui il discente è coinvolto in scambi comunicativi naturali, in cui cioè la sua attenzione è rivolta esclusivamente al significato, ovvero al contenuto della comunicazione; l'"apprendimento" sarebbe il risultato dello studio formalizzato della lingua, quando l'attenzione è rivolta prevalentemente alle proprietà formali e grammaticali. Secondo Krashen i due tipi di conoscenza sono interamente separati e l'uno non può essere convertito nell'altro. Questa posizione teorica viene anche definita col termine "non-interface position" (Ellis 1985). In Klein (1986) la distinzione di Krashen viene caratterizzata come psicolinguistica, mentre Ellis (1994) preferisce attribuirle un significato sociolinguistico, che rifletta cioè i contesti e le attività in cui i discenti sono impegnati; secondo questo autore, “sarebbe infatti sbagliato presupporre che l’apprendimento naturalistico sia sempre inconscio e quello formalizzato sempre conscio”. La distinzione psicolinguistica è inoltre estremamente difficile da stabilire in fase di ricerca, in quanto i due tipi di processi tendono a alternarsi e sovrapporsi in modo non controllabile. In senso sociolinguistico, invece, si considera l'istruzione formalizzata come uno dei fattori dell'apprendimento e si parla di acquisizione della seconda lingua insegnata (instructed second language acquisition).

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7.1.1.1 L’interlingua (Francesca Gattullo) Il termine interlingua venne coniato da Selinker (1972) ed è di fatto un costrutto teorico piuttosto che un

fenomeno osservabile. L'assunto fondamentale dell'ipotesi è che a ogni stadio di apprendimento le competenze linguistiche formino un'interlingua, cioè un sistema governato da proprie regole (Selinker 1972). L'interlingua del discente non è un sistema imperfetto o incompleto, ma un sistema completo in se stesso. Nel corso dell'apprendimento, la lingua del discente muta attraversando fasi diverse di sviluppo; dunque, l'interlingua è sistematica e dinamica al tempo stesso. Alcune fasi dell'interlingua sono simili alle fasi dell'apprendimento di una L1; altre sono dovute all'influenza / interferenza della L1 del discente. Ma non tutti gli aspetti del processo di apprendimento di una L2 sono sovrapponibili con le caratteristiche dell'apprendimento di una L1. Taluni aspetti dell'apprendimento di una L2, inoltre, appaiono universali, cioè indipendenti da quali che siano la L1 e la L2 considerate. Questa constatazione riconduce alla questione dell'universalità dei processi linguistici e, quindi, dell'esistenza di un dispositivo innato per l'apprendimento della lingua (LAD) (Chomsky 1965). Corder (1967) formulava il problema nei termini dell'esistenza di "sillabo incorporato nel discente" (incorporated learner syllabus).

Per la ricerca le questioni fondamentali saranno quindi scoprire: 1) quali aspetti dei sistemi interlinguistici siano variabili tanto in senso sincronico (da un parlante all'altro) quanto in senso diacronico (per lo stesso individuo in fasi diverse); 2) quali aspetti siano uniformi.

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7.1.2 Lo sviluppo linguistico e cognitivo (Silvana Contento) La psicolinguistica evolutiva studia il linguaggio come modalità di produzione e di comprensione. Attorno ai 6 anni, età in cui inizia la scolarizzazione, sono già acquisiti ed espressi linguisticamente concetti come passato, possesso, aspetti progressivi, nozioni di spazio e tempo, ecc. L'ordine di acquisizione di queste nozioni in L1 può essere però differente da quello di L2. Esso dipende infatti dalla complessità e specificità con cui tali nozioni vengono espresse da lingua a lingua. Nel caso di bilinguismo precoce può accadere che vi siano sfasature temporali nella produzione di espressioni particolarmente complesse in una delle due lingue. Dal confronto di dati di natura crosslinguistica (Slobin ) emerge che l’acquisizione del linguaggio si basa sull’esplicitazione di universali di sviluppo e universali di contenuto. Rispetto agli universali di contenuto, che sono in relazione con i processi percettivi, notiamo che in qualsiasi lingua vi sono elementi per indicare i colori, le forme, le dimensioni e i termini spaziali della percezione visiva e tattile, l'espressione della dimensione temporale, le relazioni tra consimili e i termini di parentela. Inoltre in tutte le lingue si asserisce, si rifiuta, si chiede, si ordina, ecc. In altre parole le funzioni per le quali si fa uso del linguaggio parlato sono indipendenti dalla specificità delle singole lingue. Dal punto di vista grammaticale poi la lunghezza delle frasi è più o meno standard con non più di due o tre frasi inclusive. Circa l'80% delle lingue ha un ordine Soggetto-Verbo-Oggetto, cioè si cita prima il tema, l'elemento noto, poi in seguito l'informazione nuova. Infine le parole mentalmente vicine sono collocate in prossimità nella frase, ecc. Il linguaggio è universalmente un mezzo attraverso il quale si esprimono sostanzialmente relazioni fra le cose, le persone, gli eventi che ci circondono. Come si struttura il flusso dell'informazione data o nuova? Tutte le lingue condividono ad esempio le stesse funzioni pragmatiche dei sintagmi nominali. I frammenti di informazione nuova veicolati nelle frasi vengono resi percettivamente rilevanti: in alcune lingue questo processo è grammaticalizzato, in altre è dato dall'intonazione; in cinese, ad esempio, è dato dall'ordine delle parole nella frase. Un altro modo di considerare gli universali è di vedere quali sono le costanti dello sviluppo linguistico. Si parla in questo caso di universali ontogenetici del linguaggio. C'è in tutte le lingue un ordine comune di acquisizione in relazione a principi operativi di carattere percettivo. Ogni bambino costruisce la grammatica della lingua alla quale è esposto. Attraverso quali principi cognitivi il bambino riesce a mettere in relazione gli eventi fisici e sociali codificati dal linguaggio, con la realtà della propria lingua? Uno studio cross-linguistico (Slobin 1982, 1997) sullo sviluppo linguistico in molte culture ha consentito di verificare che vi sono delle costanti nell'acquisizione del linguaggio nel bambino. Le prime nozioni accessibili alla mente del bambino per salienza linguistico-percettiva. sono: le flessioni (per es. vocativo se c'è); la relazione V-O; l'ordine delle parole; la flessione per marcare l’oggetto (per es. accusativo se c'è); la negazione; l'intonazione. Ora lo sviluppo linguistico e quello cognitivo non procedono di pari passo. Il bambino deve trovare i mezzi linguistici per esprimere le proprie intenzioni.

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7.1.3 Teorie dell’apprendimento linguistico (Francesca Gattullo) La disciplina che ha per oggetto l'apprendimento della lingua seconda (L2) ha poco più di trent'anni; si è

soliti infatti stabilirne la nascita nel 1967, data della pubblicazione dell'articolo di Pit Corder "The significance of learners' errors". Questo articolo segna un cambiamento decisivo nella prospettiva metodologica e teorica dello studio dell'apprendimento della lingua. Secondo Ellis (1985), il problema centrale della ricerca in L2 consiste nella necessità di conciliare l'ipotesi di naturalità del processo di acquisizione con la nozione di variabilità contestuale e individuale. Presupposto fondamentale della possibilità di costruire una teoria dell'apprendimento è infatti quello di una certa uniformità dei processi psicologici individuali. Sebbene sia evidente dai risultati degli studi che non vi è un'omogeneità assoluta, sono riscontrabili caratteristiche comuni e generalizzabili. Sotto questo aspetto, quindi, l'acquisizione di L2 riflette quella di L1: entrambi i processi infatti mostrano alcune sequenze di sviluppo fisse per l’acquisizione delle competenze, non modificabili da fattori esterni (in situazioni di normalità). Non solo, entrambe le lingue attraverserebbero stadi di interlingua che mirano idealmente a un sistema finale (target). Anche da un punto di vista metodologico, gli studi sulla L2 sono stati fortemente debitori nei confronti di quelli sulla L1; non sorprende quindi che uno dei temi più dibattuti sia il grado di somiglianza fra i due processi di acquisizione. Inoltre, per quanto riguarda i contenuti della ricerca, questa, prendendo a modello le indagini sulla lingua madre, si è a lungo concentrata sulle modalità di apprendimento della sintassi e della morfologia. Solo negli ultimi anni altri importanti aspetti sono stati presi in considerazione, fra i quali, su un piano più strettamente linguistico, l'apprendimento della fonologia, del lessico, e su un piano pragmatico, le competenze testuali, discorsive e comunicative in senso ampio. Le teorie nel nostro campo di indagine sono numerose, ma in questa sede ne verranno prese in considerazione solo due tipi: quelle innatiste e quelle interazioniste; esse si differenziano rispetto al ruolo attribuito all’ambiente nel processo di acquisizione.

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7.1.3.1 Teorie innatiste (Francesca Gattullo) Ciò che caratterizza le teorie innatiste è il postulare l’esistenza di dispositivi innati nell’individuo che permettono l’acquisizione della lingua. Chomsky (1965) ha introdotto il concetto di Grammatica Universale (GU), come insieme di conoscenze innate riguardanti i meccanismi generali di funzionamento delle lingue, in senso sintattico, morfologico e fonologico. Sarebbe grazie all’esistenza di questo insieme di regole, che è possibile apprendere le lingue particolari a cui ogni bambino è esposto sin dalla nascita. L’argomento proposto da Chomsky e da altri è di tipo logico: senza postulare tale dispositivo sarebbe altrimenti inspiegabile il fenomeno dell’acquisizione linguistica. Innanzitutto, l’input che circonda il bambino è “degenerato”, cioè sgrammaticato e incompleto; secondo, esso non contiene dati negativi che possano correggere le forme sbagliate prodotte dai bambini; terzo, questi producono frasi scorrette che non sono riconducibili all’input, ma solo a implicite generalizzazioni sulla base dell’input; quarto, poiché i bambini non producono frasi scorrette di determinati tipi, devono esistere determinati vincoli di regole linguistiche a cui essi obbediscono. La GU consiste di principi e parametri, dove i primi rappresentano leggi universali che nessuna lingua vìola, mentre i secondi vengono fissati a seconda della lingua di apprendimento, funzionando come interruttori che vengono attivati o meno nelle prime fasi dell’apprendimento per poi essere fissati. Le teorie della grammatica generativa si sono principalmente occupate della lingua materna, si tratta quindi di capire se esse possono dar conto dei fenomenti di apprendimento della L2. Esistono al riguardo tre posizioni fondamentali rispetto alla possibilità che hanno di discenti di accedere alla UG per apprendere una L2. Una seconda teoria innatista è quella di Krashen (1977). La cosiddetta “teoria del Monitor” (Monitor Theory - MT) è in realtà un insieme di cinque ipotesi non tutte interdipendenti fra loro. In sintesi, la teoria è riconducibile a un enunciato generale: è possibile acquisire una seconda lingua soltanto se si ottiene input comprensibile e se i filtri affettivi sono abbastanza bassi (Krashen 1985, 4). Mentre in apparenza questo enunciato mette in relazione due variabili indipendenti (input e filtro) con una dipendente (acquisizione), esso implicitamente fa appello a un dispositivo innato per l’apprendimento del linguaggio (Larsen-Freeman e Long 1991, 244), riconducendosi dunque alla teoria innatista dell’apprendimento.

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7.1.3.2 Teorie interazioniste (Francesca Gattullo) Il secondo tipo di teorie che prendiamo in esame si contraddistingue per dare pari importanza tanto ai fattori interni al discente, quanto a quelli ambientali / situazionali. Esistono di fatto due caratterizzazioni di tali teorie, una di marchio sociologico (per es. Hatch, Peck e Wagner-Gough 1979) ed una di marchio cognitivo (per es. Clahsen, Meisel e Pienemann 1983). Nella prima accezione, l’interazione verbale fra il discente ed i suoi interlocutori è vista come centrale nel processo di acquisizione, in quanto essa rende salienti i “fatti” della L2 (Ellis 1994). Nel secondo senso, l’acquisizione è vista come prodotto dell’interazione fra fattori interni (attenzione, conoscenze, strategie), fattori esterni (l’input linguistico principalmente) e la stessa produzione del discente (Long 1996). Consideriamo per primo il “modello multidimensionale” del gruppo ZISA, di tipo cognitivo (Clahsen, Meisel e Pienemann 1983). Questo modello propone di concepire il processo di acquisizione della L2 secondo due dimensioni fondamentali: quella evolutiva e quella variabile. Sulla base dei risultati di indagini longitudinali e trasversali su soggetti adulti, questo gruppo ha infatti constatato l’esistenza di ordine naturale di acquisizione di certe regole sintattiche fisse e comuni, e parallelamente il fatto che vi fossero altre regole che apparivano in modo variabile nelle interlingue dei discenti, a diversi livelli di apprendimento. Gli aspetti di apprendimento variabile, al contrario, non seguirebbero sequenze fisse di apprendimento, ma dipenderebbero dall’interazione con fattori psicologici (la motivazione), sociali (l’integrazione) e di istruzione (l’insegnamento); aspetti di questo tipo sono la copula, gli articoli, le preposizioni. Da un punto di vista didattico, l’ipotesi rilevante che scaturisce da questa teoria è quella della insegnabilità (teachability hypothesis), secondo la quale un elemento linguistico appartenente alla dimensione evolutiva è insegnabile solo se apprendibile, cioè se il discente è “pronto” per apprenderlo; in altre parole, gli effetti dell’istruzione sarebbero soggetti alle limitazioni evolutive del discente. Pienemann (1989) suggerisce quindi un ruolo “facilitatore” dell’istruzione formale per il passaggio da uno stadio di apprendimento allo stadio di apprendimento successivo. D’altra parte, gli elementi linguistici variabili non saranno soggetti a tali vincoli e su di essi l’insegnamento potrà avere un effetto diretto in diverse fasi di apprendimento. Le teorie che intendono l’interazione da un punto di vista prevalentemente sociale prendono come punto di partenza le ricerche e i modelli sviluppati nell’ambito della lingua materna. Una teoria interazionista in questo senso cercherà di sviluppare modelli che predicano e spieghino il processo di acquisizione della L2 prendendo in considerazione l’interazione fra il discente e i suoi interlocutori, individuando nei processi di scambio principalmente verbale i fattori che influenzano quel processo. Hatch (1978), ad esempio, afferma che prima di tutto “si apprende a conversare, a interagire verbalmente, e da queste interazioni si sviluppano delle strutture sintattiche”.

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7.1.4 Rapporto fra l’apprendimento di una L1 e di una L2 (Francesca Gattullo) Tra l'apprendimento della L1 e di una L2 sussiste un rapporto complesso. Il discente di L2 possiede alcune competenze già acquisite con la L1: si tratta di competenze cognitivo-pragmatiche (per es. la deissi, cioè le espressioni linguistiche relative al contesto temporale e spaziale. Sono espressioni deittiche adesso, domani, a destra, davanti,… ); competenze sociali (per es. le modalità di interazione). Vi sono inoltre parallelismi nell'apprendimento di L1 e L2: i discenti procedono attraverso processi di semplificazione grammaticale; la lingua attraversa fasi di sviluppo in parte simili; vengono messe in atto strategie linguistiche simili: imitazione, pratica di ripetizione / modificazione, sovrageneralizzazione, memorizzazione di formule (Spada e Lightbown 1993). Sia in L1 sia in L2 i significati sono appresi contestualmente, attraverso la socializzazione, la comunicazione, l'interazione, il fare insieme. A seconda del grado di competenza del parlante in L1, un certo numero di significati saranno già stati appresi. Dobbiamo inoltre ricordare che esistono due tipi di competenze distinti, le competenze comunicative di base (BICS) e le competenze di studio (CALP). Se le competenze di studio non sono già bagaglio del discente, esse dovranno essere apprese per la prima volta in L2. L'acquisizione delle competenze comunicative di base richiede in media 2-3 anni di tempo, mentre le competenze per lo studio sono apprese mediamente in 7-9 anni (Cummins 1979).

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7.1.4.1 Il ruolo della lingua madre (Francesca Gattullo) Nell'apprendimento di una L2, occupa un posto importante il ruolo della lingua materna (L1), anche se l'accento su di essa si è spostato dagli anni Sessanta a oggi. Inizialmente si sosteneva, in accordo con la scuola "contrastiva" (Lado 1957), che la lingua madre avesse un effetto di transfer negativo sull'apprendimento della L2 e che tutti gli errori del discente fossero da ricondurre a tale causa. Solo agli inizi degli anni Settanta l’analisi degli errori mostrò come solo una minima parte di questi fosse riconducibile a transfer negativo dalla L1. Da allora si è cessato di vedere la competenza in L1 come una serie di “abiti” linguistici e il ruolo di L1 è stato studiato secondo direzioni nuove. Da una parte, si è andata formando la nozione di competenza comunicativa intesa come bagaglio positivo di cui il discente è già in possesso in partenza e che quindi gli permette di affrontare la nuova lingua in modo consapevole. Dall'altra, si è adottata una prospettiva cognitiva dell'influenza che L1 ha su L2, sempre attraverso uno studio sistematico degli errori. Si è visto ad esempio che i discenti, invece di trasferire meccanicamente le regole di L1 su L2, possono evitare di applicarle; oppure che la L1 può essere usata in modo consapevole come una risorsa linguistica da cui prendere elementi in prestito, in senso cosiddetto strategico (si parla appunto di "strategie comunicative").

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7.2 Il bilinguismo precoce (Silvana Contento) La maggior parte delle comunità del mondo usano nelle loro attività quotidiane, di studio o di lavoro più di una lingua. A un bilinguismo ufficiale, come quello del Canada ad esempio, dove l’inglese e il francese sono lingue giuridicamente equivalenti, o dell’Alto-Adige, dove italiano e tedesco condividono il medesimo ruolo di veicolo di comunicazione, si possono associare tante altre esperienze di contatto linguistico nel mondo date da eventi storici, politici e sociali. Venti anni fa Grosjean (1982) stimava che circa metà della popolazione mondiale fosse bilingue. Oggi con l’incremento dei flussi migratori da una parte e dall’altra con l’apprendimento precoce di lingue straniere si può considerare che il monolinguismo rappresenti quasi una eccezione. La tematica di come un individuo conosca e utilizzi più lingue può essere considerata secondo più punti di vista. Distinguiamo innanzitutto gli studi che riguardano il bilinguismo adulto da quelli che si occupano dell’acquisizione di più lingue in età evolutiva. Varie discipline si occupano da tempo di bilinguismo. Gli psicologi, per esempio, hanno approfondito in particolare gli effetti del bilinguismo sullo sviluppo dei processi cognitivi; i pedagogisti hanno considerato il bilinguismo in relazione alla politica scolastica e ai processi formativi; i sociologi, infine, hanno trattato il bilinguismo come un elemento di conflitto tra culture, concentrandosi sulle conseguenze dell’eterogeneità linguistica come fenomeno sociale (Romaine 1995). Gli studi più recenti sono orientati verso il bilinguismo infantile, per il peso che questo tipo di esperienza può avere sullo sviluppo intellettivo, linguistico, psicologico e sociale dell’individuo. In termini generali il bilinguismo indica la capacità, in alcuni soggetti cresciuti all’uso simultaneo di due lingue, di utilizzare un sistema coordinato di usi linguistici tali da consentire al soggetto di formulare pensieri collegandoli direttamente alle espressioni verbali appartenenti alle due lingue, senza essere costretti pertanto a operazioni di traduzione.

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7.2.1 Tipi di bilinguismo (Silvana Contento) Diverse sono le rappresentazioni di bilinguismo che si alternano nelle definizioni che troviamo nei lavori degli esperti in materia. Ognuna di queste definizioni è astrattamente collocabile su di un continuum che vede a un polo estremo l’indipendenza assoluta dei 2 sistemi linguistici (sistemi coordinati) e all’altro polo la stretta dipendenza delle 2 lingue a contatto (sistema composito) (de Groot e Kroll 1997). Secondo il senso comune bilingue è colui che parla con altrettanta fluenza 2 lingue differenti ma per altri bilingue può essere colui che ha una competenza minima (Hamers e Blanc 89) in 1 delle 4 abilità di base (parlare/scrivere/leggere/capire). Per alcuni autori il bilinguismo comporta competenza passiva in 2 lingue (ascolto e lettura), per altri invece competenza produttiva (parlare e forse scrivere). Si evincono da ciò due elementi importanti: il carattere multidimensionale del fenomeno e il fatto che il concetto di bilinguismo è abbastanza relativo, in quanto due bilingui non saranno mai identici. Prenderemo in considerazione alcune dimensioni del bilinguismo evolutivo sulla base del contesto di acquisizione (bilinguismo intrafamiliare/scolastico), dell’età di acquisizione (bilinguismo simultaneo/consecutivo); del ruolo che entrambe le lingue possono avere (bilinguismo additivo/sottrattivo) Soprattutto in riferimento all'infanzia le condizioni di contatto linguistico possono essere diverse e le lingue 1) acquisite entrambe contemporaneamente - parlando una delle 2 lingue con una persona o un gruppo - parlando entrambe le lingue alternativamente o indiscriminatamente - con i genitori e./o altri parlanti delle comunità bilingue 2) come seconda lingua fuori casa e/o a scuola - come lingua di scolarizzazione e di interazione con i pari

- come lingua di scolarizzazione in un contesto scolastico in cui i pari abbiano tutti la stessa lingua madre

L’apprendimento della e nella lingua italiana avviene nel contatto con parlanti nativi italiani, attraverso un processo di interazione complesso. Il mantenimento della L1 in famiglia ad esempio e la scolarizzazione in una L2 sono, in termini psicolinguistici, una condizione di potenziale bilinguismo coordinato e di separazione quindi dei due sistemi linguistici.

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7.2.2 Bilinguismo additivo/ Bilinguismo sottrattivo? (Silvana Contento) Il concetto di additività-sottrattività è legato più al campo affettivo e sociale che allo sviluppo cognitivo. Dipende dalle rappresentazioni sociali e da condizioni socio-culturali riguardanti le comunità di parlanti in contatto. La natura additiva è data da 4 fattori: 1) vitalità etnolinguistica del gruppo; 2) reti individuali di contatti linguistici; 3) competenza e credenze; 4) comportamento linguistico. Additivo sarà quindi il bilinguismo che offre potenzialità di sviluppo sociale e porta elementi positivi complementari per lo sviluppo del bambino. Sottrattivo invece viene considerato il bilinguismo che non offre risorse aggiunte. Le due lingue sono in concorrenza e non complementari. La lingua più prestigiosa tende a sostituire quella materna che si deteriorerà. Per i neurolinguisti (Fabbro 1996) il problema è: i centri e le localizzazioni linguistiche nei bilingui sono unità separate o simili ? Alcuni studi mostrano che fattori della dominanza cerebrale sono determinanti nel capire parametri specifici e meccanismi del bilinguismo. La dominanza cerebrale può variare per ogni lingua. Non è insensato sostenere che i differenti modi di apprendimento determinano diversi modelli di organizzazione delle 2 lingue nel cervello del bilingue e che vi possono essere diversi sistemi di organizzazione nei modelli di competenza ed esecuzione linguistica.

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7.3 Approccio cognitivista (Silvana Contento) La psicologia cognitiva studia differenti aspetti dei processi psichici di base come l’attenzione, la percezione, la memoria, l’apprendimento, il pensiero. Molti processi che sono alla base della nostra attività mentale non richiedono controllo, non sono intenzionali, richiedono poche risorse attentive, sono “eseguiti” senza consapevolezza e vengono per questo detti automatici. I processi controllati, invece, si basano sul controllo consapevole, richiedono più tempo di quelli automatici per essere eseguiti e assorbono più risorse attentive. Molte delle conoscenze che abbiamo acquisito e che utilizziamo in maniera automatica sono il frutto di una proceduralizzazione, cioè della pratica con la quale abbiamo appreso a eseguirle nel tempo. E’ così che quando apprendiamo un nuovo gioco di carte, ad esempio, impariamo a passare dalle spiegazioni a tentativi spesso ripetuti per applicare le regole che stiamo apprendendo. Questa esercitazione ci permette di eseguire in sequenza le mosse del gioco vero e proprio che verrà poi eseguito in maniera rapida e proceduralizzata per quel che riguarda l’applicazione delle regole di partenza. Anche i primi apprendimenti di base quali la lettura, la scrittura, il calcolo, richiedono l’impegno di risorse attentive e di memoria per essere eseguiti. In modo simile anche l’apprendimento di una lingua straniera può essere considerato come passaggio da uno stato controllato in cui si cercano le parole, si prova a ricordare come si pronunciano, si tenta di organizzare delle frasi, a uno stato automatico, in cui il monitoraggio della produzione linguistica è molto rapido e il discorso diviene quasi automatico a mano a mano che aumentano la competenza e la fluidità verbale. Anche in questo caso quindi la proceduralizzazione delle conoscenze ci permette di passare da una prima fase in cui le nozioni saranno “controllate”, cioè acquisite progressivamente, a una fase in cui esse saranno prodotte in maniera “automatica”. L’approccio cognitivo all’apprendimento delle lingue ipotizza che le informazioni acquisite in forma dichiarativa (tramite il linguaggio verbale, le spiegazioni, le regole esplicite, ecc.) debbano essere operazionalizzate per essere proceduralizzate

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7.3.1 Attenzione e memoria (Silvana Contento) Il nostro sistema attentivo è in grado di fermarsi su stimoli nuovi attraverso funzioni particolari. Possiamo scegliere di fermarci su uno stimolo ignorandone altri (attenzione selettiva), possiamo decidere di mantenere l’attenzione su uno stimolo specifico (attenzione sostenuta) o ancora coordinare la nostra attività tenendo controllati più stimoli differenti contemporaneamente (attenzione divisa). Queste capacità che, nelle situazioni quotidiane così come in quelle formali e scolastiche, permettono di realizzare differenti tipi di compiti, si associano alla capacità di mantenere e riattivare le informazioni in memoria. Molti autori sono concordi nel sostenere che il sistema attenzionale abbia una funzione esecutiva e che sia in qualche modo fortemente associato all’ “esecutivo centrale”, quella parte della memoria che tiene sotto controllo nello svolgimento dei compiti sia le informazioni linguistiche che quelle visive. La memoria può essere considerata in due modi: come architettura o come funzione. Come architettura si distingue una memoria sensoriale da una memoria iconica (per stimoli visivi) e ecoica, (per stimoli acustici), una memoria a breve termine o memoria di lavoro, una memoria a lungo termine. Come funzione, in riferimento a “compiti” specifici si parlerà di una memoria procedurale, una memoria dichiarativa, semantica, episodica/autobiografica.

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7.4 Componenti del linguaggio orale (Silvana Contento) Benché nella lingua parlata gli enunciati che vengono proferiti dai parlanti costituiscano una catena di suoni legati che vengono riconosciuti sulla base della loro specificità e dei loro significati espressi, gli esperti del linguaggio analizzano le componenti del linguaggio orale per la loro specificità .

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7.4.1 I fonemi e i morfemi (Silvana Contento) I fonemi sono unità di suono (circa 30 per la lingua italiana) la cui concatenazione in ordine definito e specifico in ogni lingua produce morfemi distinti. La sostituzione di suoni all’interno della parola modifica il significato. I morfemi sono le più piccole unità di significato la cui concatenazione produce parole (Beccaria 1994). In lingue flessive come l’italiano è possibile distinguere, nella parola tavolo ad esempio, due sottocomponenti "tavol" e "o" entrambi dotati di significato: lessicale, il primo, grammaticale, il secondo.

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7.4.2 La sintassi (Silvana Contento) La sintassi corrisponde allo studio delle regole con le quali le parole si combinano in frasi per esprimere rapporti di significato tra i diversi elementi che le compongono. Si distingue solitamente la “grammatica del parlato” dalla grammatica della lingua scritta in quanto alcuni elementi paralinguistici come l’intonazione e le pause variano l’organizzazione sintattica.

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7.4.3 La semantica (Silvana Contento) La semantica studia il modo in cui le parole sono collegate a concetti e in quale maniera sono riferite a oggetti, situazioni, eventi. Scorrendo le pagine di un dizionario, e leggendo la definizione di molti dei termini presenti a noi noti, siamo in grado di condividerne il significato linguistico, anche se ognuno di essi può attivare altri significati più soggettivi, non letterali. Ciò significa che non vi è un rapporto di stretta dipendenza tra le parole che utilizziamo e ciò a cui si riferiscono. Le parole sono veicoli tramite i quali, nel processo comunicativo, i locutori si riferiscono convenzionalmente a ciò che è rappresentato dalle parole. Si parla, in questo caso, dell'aspetto referenziale del significato. Più parole possono riferirsi a un insieme di rappresentazioni. Si parla in questo caso di aspetti denotativi del significato. La differenza che si fa tra "questa sedia" e " la sedia in generale" coincide con l'accezione dei due significati di cui si è appena detto. Si intende quindi che il rapporto parole-significato non è di stretta dipendenza ma si modifica in funzione di quanto si vuole esprimere, del senso che viene espresso nella relazione tra le parole delle frasi. La polisemia lessicale spiega la nostra capacità di comprendere messaggi ironici o metaforici anche quando questi sono formulati con espressioni non convenzionali, coniate spontaneamente dai locutori. Il significato risiede quindi nell'uso che i locutori fanno delle parole che compongono frasi e discorsi.

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7.4.4 Il lessico (Silvana Contento) Il lessico è il repertorio di tutte le parole di una lingua. Il lessico che ci è necessario per comporre e produrre messaggi, frasi e discorsi è costituito da un insieme di termini le cui relazioni interne sono complesse. Quante parole conosce all'incirca un parlante adulto di media cultura ? Si calcola che il lessico passivo, che si comprende senza necessariamente usare attivamente, sia per "un italiano colto e giovane con memoria ancora vigile... tra 60.000 e 80.000 vocaboli" (De Mauro 1998, 76). Questa prima definizione non esaurisce ovviamente la natura complessa del lessico ma ci permette di operare una distinzione tra parole contenuto o piene (nomi, verbi, aggettivi, avverbi) e parole funzione o vuote (articoli, preposizioni, congiunzioni). La maggior parte degli studi riguardanti il significato si riferiscono alla prima classe di parole e a quell'insieme di termini quindi non dotati di significato grammaticale.

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7.5 Componenti non verbali (Silvana Contento) La comunicazione orale coinvolge interlocutori che scambiano messaggi attraverso il codice linguistico ma occupano anche uno spazio fisico all'interno del quale si muovono, producono gesti, interagiscono, ecc. Questi movimenti non sono casuali ma significanti, in quanto fanno parte a pieno titolo dei messaggi comunicati. Ciò significa quindi che anche le componenti prossemiche, cinesiche, paralinguistiche (canali non verbali) che rappresentano a loro volta oggetto di studio di singole discipline, partecipano ugualmente all'attività linguistica.

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7.5.1 I gesti simbolici (Silvana Contento) Mettere il dito indice a bacchetta davanti alla bocca per invitare a fare silenzio, “fare le corna”, sollevando l’indice e il mignolo in segno di scongiuro, salutare agitando la mano, sono messaggi non verbali che esprimono, senza necessitare parole, il contenuto di una frase. Questi gesti definiti gesti simbolici o gesti emblematici (Ricci Bitti 1987, Diadori 1990) sono molto utilizzati nella comunicazione faccia-a-faccia e accompagnano spesso, nelle situazioni di interazione naturale, i nostri messaggi verbali. Ingenuamente si considera che questi segni non verbali siano universali, condivisi quindi da parlanti appartenenti a comunità differenti e possano nel caso di comunicazione con parlanti stranieri supplire a difficoltà comunicative di tipo linguistico costituendo quindi una forma di comunicazione primaria preverbale. I gesti simbolici sono però gesti fortemente culturalizzati e socialmente appresi. Ciò significa che il loro significato cambia da contesto a contesto culturale e vengono acquisiti unitamente alla lingua dai parlanti di ogni singola comunità. Mostrare la lingua può significare fare un dispetto in Italia ma essere sottomessi in India; si possono fare “spallucce” in Italia per chiedere scusa ma questo stesso segno verrà interpretato in buona parte dei paesi del Medio-Oriente come “chi se ne frega”; l’anello costituito da indice e pollice per dire “è OK, va bene” ha in America Latina valore di insulto. Rispetto all’origine di questi comportamenti non verbali gli esperti antropologi, etologi e psicologi che si sono interessati a essi indicano che sono specie-specifici, per quanto riguarda l’uso invece, essi sono prodotti in condizioni esterne; sono in relazione con la produzione verbale e assieme a essa implicano consapevolezza e intenzionalità e un feedback esterno. Questi gesti, da tempo raccolti in dizionari (Munari 1984) , (Poggi 1997), Morris (1995) hanno carattere informativo nella misura in cui se ne possono specificare in qualsiasi momento il carattere semantico, comunicativo, interattivo.

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7.5.2 Gestualità coverbale (Silvana Contento) Un discorso differente può essere fatto invece per la gestualità coverbale (Contento 1998, 1999), cioè quei segni che accompagnano il linguaggio parlato, anticipano, illustrano, completano, enfatizzano il contenuto espresso verbalmente sottolineando, attenuando o addirittura modificando il contenuto degli enunciati. Dal punto di vista articolatorio una frase richiede tempi maggiori del segno non verbale per essere prodotta. La rapidità, la sinteticità del gesto fa sì che esso possa essere espresso assieme alle parole, utilizzando un canale parallelo, per realizzare l'attività discorsiva elaborata nella mente dei parlanti. Per quanto riguarda questa gestualità prodotta nel corso dell'attività linguistica vi sono diverse ipotesi sulla funzione che essa assume in termini semantico-pragmatici. In ambito neuropsicologico una certa dissociazione tra componenti (verbale e gestuale) è documentata dall'osservazione di pazienti adulti afasici nella misura in cui, ad esempio, un deficit linguistico secondario è accompagnato da un aumento di produzione gestuale (Feyereisen s.d.). E’ stato riscontrato anche che pazienti adulti con patologie acquisite di linguaggio sono in grado di mimare la funzione di un oggetto senza poterlo nominare. Per gli psicolinguisti, invece, in una visione più interattiva dei due sistemi, opposta a quella appena presentata, il canale verbale e quello gestuale appartengono entrambi alla stessa struttura cognitiva (McNeill 1992; McNeill 2000) e il gesto è considerato come nesso tra capacità concettuale e abilità linguistica. La produzione verbale e quella gestuale sono interdipendenti in quanto sono il prodotto di una unica rappresentazione mentale sottostante. Il ritmo cognitivo si esprime nella conversazione non solo a livello fonologico, prosodico, paralinguistico (pause, trascinamenti, ecc.) ma anche a livello prossemico e gestuale. Il linguaggio simbolizza e rappresenta oggetti, fatti, eventi ma soprattutto relazioni tra queste astrazioni.

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7.6 I fattori in gioco nell’acquisizione della L2 (Francesca Gattullo) Sebbene non vi sia accordo completo fra i ricercatori su quale siano le teorie e le ipotesi che rendano conto dei processi di apprendimento, vi è una certa intesa nell'identificazione di quei fattori che influiscono sull'apprendimento. Al di là delle differenze di formulazione ed enfasi, è possibile pertanto rintracciare un nucleo comune di variabili. A partire dall'inizio degli anni Ottanta, i modelli teorici e le indagini empiriche hanno cercato di tener conto dei seguenti raggruppamenti di fattori: • Fattori situazionali • Differenze individuali • Processi cognitivi del discente

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7.6.1 Fattori esterni / situazionali: input e interazione (Francesca Gattullo) Obiettivo di una parte delle ricerche sull’acquisizione di una lingua è quello di studiare il processo di apprendimento ponendo il discente all’interno dei fattori situazionali che lo circondano: l’input che egli riceve dai suoi interlocutori, le modificazioni che tale input subisce, le risposte che vengono date al discente, le modificazioni che l’interazione subisce negli scambi verbali fra discenti e altri interlocutori. Le unità di analisi di questo tipo di indagini sono il discorso e la sequenza dell'interazione. Definiamo prima di tutto i termini principali: l’input linguistico è ciò che il parlante non nativo riceve da ciò che lo circonda; nel caso dell’interazione in classe, tale input sarà soprattutto costituito dalla produzione dell’insegnante. All’input può seguire la risposta (output) del discente stesso. In questa il discente può fare anche un uso immediato dell’input che riceve, producendo materiale che direttamente o indirettamente riprende elementi dell’input (risposta ‘elaborata’, in inglese uptake). Non tutto ciò che è input si trasforma in elemento appreso e utilizzabile dal discente (intake); come e perché l’input si trasformi in materiale appreso è una delle questioni principali della ricerca sulla L2. Infine, l’input può essere funzionalmente separato in due insiemi: l’insieme di dati positivi e l’insieme di dati negativi (positive vs negative evidence) (Carroll e Swain 1993, Spada 1997). Il primo comprende le forme ‘autentiche’ corrette, per quanto modificate, della lingua a cui il discente è esposto; il secondo invece contiene le informazioni rivolte al discente su ciò che non è corretto o appropriato nella L2 (in queso caso si parla di feedback). Il ruolo dei dati positivi e di quelli negativi nel processo di acquisizione della L2 è stato ed è tuttora oggetto di dibattito.

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7.6.1.1 L’interazione in L2 deve riflettere quella in L1? (Francesca Gattullo) Vi sono posizioni teoriche differenti sui rapporti fra l'apprendimento della L1 e di una L2. A uno dei due estremi, troviamo chi sostiene che i due processi siano identici. Le implicazioni per la didattica che discendono da questa posizione teorica sono le seguenti: l'apprendimento di L2, proprio come quello della L1, avverrebbe quando vi sono circostanze di comunicazione e interazione naturali, per cui sarebbe sufficiente un input comprensibile. Secondo altri autori, i processi di apprendimento della L2 non coincidono con quelli della L1. Dunque, per imparare una L2 non è sufficiente l'esposizione all'input comprensibile. Secondo questa posizione teorica, è necessario anche che nelle conversazioni venga offerto un input opportunamente “modificato”. Nelle interazioni con il discente, la lingua dei parlanti nativi deve essere modificata, semplificandola grammaticalmente, scegliendo parole comuni anziché ricercate, scandendo bene le parole, rallentando il ritmo d'elocuzione, ecc. per renderla comprensibile al discente. Solo così l’input diviene utile all’apprendimento della L2. Occorrono inoltre dati negativi, cioè è necessario che il discente riceva un feedback, ossia una reazione che lo informi sugli errori linguistici che commette. Tale reazione sarà diversa a seconda del contesto di apprendimento. Nell’aula scolastica, il dato negativo può provenire dall’insegnante, attraverso la correzione dell’errore e/o un eventuale commento metalinguistico su di esso (per es., ‘Non si dice così, questo vuol dire un’altra cosa’). Nella conversazione spontanea con parlanti nativi, l’apprendente riceve indizi utili sulla propria produzione linguistica dalle reazioni dell’interlocutore, che può reagire all’errore con richieste di chiarimento o altri inviti a riformulare il discorso.

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7.6.1.2 L’attenzione al feedback (Francesca Gattullo) Nell’indagare il rapporto fra input e acquisizione, è sorta un’importante questione, che possiamo formulare come segue: pur essendo chiaro che un input comprensibile è necessario per l’acquisizione, esso è anche condizione sufficiente? Oppure è necessario perché l'acquisizione di una L2 avvenga, che il discente sia anche esposto ai dati negativi e che la sua attenzione sia rivolta a tale feedback? In White 1987 e 1989 l'autrice ha messo in dubbio che l’input comprensibile sia una condizione sufficiente per l’acquisizione della lingua seconda. Il fatto che soggetti in programmi di immersione (come è il caso della full immersion in Canada) non raggiungano i livelli di competenza che ci si aspetterebbe, pur essendo circondati da un ricchissimo input comprensibile, porta infatti in gioco fattori cognitivi come l’attenzione e la consapevolezza metalinguistica. Conclusioni simili sono state tratte da studi su soggetti italiani che non raggiungevano livelli di accuratezza media dopo anni di soggiorno e lavoro in Scozia (Pavesi 1986). Paradossalmente, un input comprensibile potrebbe addirittura inibire l’acquisizione, in quanto è spesso possibile comprendere un messaggio senza prestare attenzione alla sua struttura e alle sue parti (ibid.). L’importanza del feedback negativo per l’emergere di alcuni aspetti linguistici nel discente è stata studiata anche dal punto di vista più strettamente interazionale, focalizzando l’attenzione sugli aspetti della negoziazione. I dati negativi possono essere forniti in modo diretto / esplicito o indiretto / implicito (per es. Oliver 1995), a seconda che si diano informazioni esplicite sulla correttezza e accettabilità della produzione o che ci si limiti a riformulare la forma corretta o a sollecitare l’autocorrezione. Le ricerche hanno mostrato innanzitutto che in conversazioni spontanee fra parlanti nativi e non nativi, il feedback negativo compare prevalentemente in forma indiretta. Per quanto riguarda l'utilizzazione da parte dei discenti di L2, si è visto che questi incorporano il feedback negativo quando gliene viene data la possibilità, ovvero quando l’interlocutore non continua il discorso o pone domande aperte e quando il feedback è interno allo spettro di apprendibilità (learnability range) del discente (Oliver 1995). In secondo luogo, come viene suggerito da Schachter (1983, 1986), richieste di conferma, di chiarimento e simili attivatori della negoziazione possono sensibilizzare il discente spingendolo a un uso più accurato della L2. Un altro importante fattore è quello della produzione da parte del discente stesso (ouput): come suggerisce Swain (1985), è questa che richiama poi il feedback negativo da parte dell’interlocutore.

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7.6.2 Fattori / differenze individuali di apprendimento (Francesca Gattullo) Non c'è una teoria che renda conto di tutte le differenze individuali rilevanti per l'apprendimento linguistico; una teoria adeguata dovrebbe anche spiegare le interrelazioni fra le differenze individuali e quale rapporto esse hanno con il processo di acquisizione linguistica. In generale, non si può affermare che tutti i fattori individuali siano necessari per l'apprendimento linguistico, bensì possiamo dire che essi costituiscono condizioni tipiche per l'apprendimento (Ellis 1994). In altre parole, per imparare una lingua non occorre possedere una forte attitudine, o uno stile particolare di appprendimento, o un tipo particolare di personalità; d'altra parte, come vedremo, è vero che iniziare a apprendere una lingua prima della pubertà e con una forte motivazione costituiscono condizioni decisive per il raggiungimento di un alto livello di competenza. I fattori o differenze individuali di cui si può tener conto nello studio del processo di acquisizione linguistico sono molto numerosi. In questa sede ci occuperemo soltanto dei principali. Età Motivazione Attitudine linguistica Personalità Intelligenza Fattori cognitivi Strategie di apprendimento

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7.6.2.1 Età (Francesca Gattullo) Le questioni che sono state indagate rispetto al fattore dell’età possono essere formulate come segue: • imparare una lingua prima della pubertà costituisce effettivamente un vantaggio o nel lungo periodo le

differenze si annullano? • l’età ha effetti:

- sul livello finale di competenza? - sulla velocità di acquisizione? - su alcuni aspetti linguistici piuttosto che su altri? (per es. sulla pronuncia piuttosto che sulla grammatica)

• le differenze sono di natura biologica, sociale o cognitiva? L’argomento in questione è doppiamente importante in quanto riveste interessi sia da un punto di vista teorico sia da un punto di vista pratico. Sul primo versante, conclusioni a favore o contrarie all’esistenza di differenze fra l’acquisizione da parte dei bambini rispetto agli adulti saranno a sostegno di modelli di apprendimento diversi fra loro (per es. riguardo al fatto che presunte facoltà innate possano funzionare dopo un certo periodo di maturazione). Sul campo pratico, è fondamentale sapere quale sia l’età ottimale per iniziare a apprendere una lingua straniera, ed è sulla base dei risultati delle ricerche empiriche che certe scelte di programmazione curricolare dovrebbero essere compiute (Singleton e Lengyel 1995). Ellis (1994) ha tentato una sintesi dei risultati principali nei seguenti punti: − gli adulti hanno un vantaggio iniziale rispetto alla grammatica, che però viene colmato dai discenti più

giovani che siano stati esposti abbondantemente alla L2; − i bambini sono gli unici a poter acquisire un accento nativo in contesti naturalistici (l’età critica è stata

individuata intorno ai 6 anni). Gli adulti possono raggiungere risultati simili a condizione che ricevano un’istruzione specifica;

− i bambini hanno maggiore probabilità di acquisire una competenza nativa della grammatica (l’età critica sarebbe intorno ai 15 anni);

− il processo di acquisizione della grammatica non sembra essere influenzato dall’età; − il processo di acquisizione della pronuncia è fortemente influenzato dall’età. Per spiegare alcuni dei risultati visti sopra, sono state avanzate diverse ipotesi, ciascuna facente appello a domini separati. Le più importanti sono almeno quattro (Larsen-Freeman e Long, 1991): spiegazione socio-psicologica: i fattori chiamati in causa sono la presenza negli adulti di filtri inibitori e di atteggiamenti negativi che renderebbero l’apprendimento più difficoltoso. Spiegazione cognitiva: le differenze di età sarebbero in questo caso riconducibili al tipo di operazioni cognitive che l’adulto è in grado di fare e che quindi lo faciliterebbero nell’acquisizione della grammatica; d’altra parte, l’esistenza nei bambini di un dispositivo per l’acquisizione del linguaggio permetterebbe a questi di apprendere la lingua seconda in modo simile alla lingua madre. Spiegazione dell’input: anche in questo caso i bambini si troverebbero avvantaggiati, potendo godere di un input qualitativamente migliore: maggiormente focalizzato sul “qui ed ora”, quindi meno complesso, e caratterizzato in situazioni di gioco, a stretto contatto con i propri pari. Spiegazione neurologica: infine, sulla base di studi neurologici generali, si fa appello alla lateralizzazione degli emisferi cerebrali, per cui prima che questa avvenga il bambino possiede una maggiore plasticità funzionale. In particolare, ciò avrebbe un effetto sulla programmazione neurologica dei meccanismi di coordinazione neuromuscolari, e quindi sugli organi fonatori. Ciò spiegherebbe il maggior successo dei bambini nell’acquisire la pronuncia nativa. Anche in mancanza prove certe legate al fattore cronologico ed evolutivo a favore di un apprendimento precoce di L2, vi sono autori che si appellano a argomenti quali la desiderabilità di una precoce stimolazione dello sviluppo in generale e i meriti pedagogici di un precoce contatto con altre culture (Titone 1991). E’ su questo tipo di motivazioni che si sono presumibilmente basate le recenti innovazioni curricolari avvenute nel nostro e in altri paesi europei.

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7.6.2.2 Motivazione (Francesca Gattullo) Il ruolo giocato dalla motivazione ha interessato gli studiosi di L2 sin dall'inizio degli anni Settanta. Il concetto di motivazione è complesso essendo strettamente connesso ai concetti di atteggiamento e di bisogno. Il lavoro di Gardner e Lambert (1972), in contesti bilingui di apprendimento in Canada e in altri paesi, rappresenta a tutt'oggi una delle ricerche più esaustive. Questi autori pongono una distinzione che rimane ancora valida fra motivazioni strumentali e motivazioni integrative all'apprendimento. Un orientamento strumentale mette in rilievo il valore utilitario del grado di padronanza della L2, di cui sono esempi l'ottenere un lavoro o un buon voto scolastico. Un orientamento si dice integrativo se riflette un'apertura verso l'altro gruppo culturale, apertura che può andare dal desiderio di essere accettati alla volontà di assimilazione completa. Tali orientamenti non sono certo in opposizione, anzi, è verosimile che un atteggiamento integrativo succeda a uno inizialmente strumentale, una volta che il discente si sia impadronito di mezzi comunicativi sufficienti. D'altra parte è possibile che, per svariati motivi, un atteggiamento integrativo non compaia affatto. Una modalità che ha destato interesse è quella dell'interruzione del processo di apprendimento ben prima del raggiungimento di un livello di competenza avanzato. Una volta che il discente ha acquisito quei mezzi linguistici che gli permettono di comunicare secondo i suoi bisogni affettivi e sociali, si può verificare il cosiddetto fenomeno della "fossilizzazione" (Selinker 1972). Avviene cioè che, indipendentemente dalla quantità e qualità dell'input, il discente cessi di imparare e si mantenga al proprio stadio di interlingua come stadio finale. Negli anni Ottanta la nozione di motivazione è stata a volte sostituita da quella di propensione (Klein 1986). Il discente si muoverebbe fra i due poli dei bisogni comunicativi e dell'integrazione sociale e deve cercare di raggiungere due obiettivi contemporaneamente: quello comunicativo, attraverso l'utilizzazione dei mezzi a lui disponibili, e quello di apprendimento, per approssimazione graduale alla L2.

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7.6.2.3 Attitudine linguistica (Francesca Gattullo) E’ vero, come si dice comunemente, che esistono individui più predisposti a imparare le lingue? Mentre possiamo affermare che la capacità di acquisire una (o più) prima lingua è propria di tutti gli individui, dobbiamo riconoscere che le persone differiscono rispetto alla facilità e ai tempi di apprendimento di una lingua seconda o straniera. L’attitudine sarebbe dunque proprio quel fattore che riguarda la “propensione a imparare una lingua”. Il problema della definizione e della misurazione dell’attitudine è però simile a quello dell’intelligenza: l’attitudine è ciò che viene misurato dai test attitudinali. Il test maggiormente utilizzato nelle ricerche sull’apprendimento linguistico è il MLAT (Modern language aptitude test); un altro test abbastanza diffuso è il PLAB (Pimlseur Language Aptitude Battery). I fattori che contribuiscono a comporre l’attitudine linguistica e che sono riflessi nelle prove di attitudine citate sopra sono definibili:

1. l’abilità di codificare i suoni (collegata con la capacità di individuare la relazione suono / simbolo); 2. la sensibilità grammaticale (l’abilità di riconoscere le funzioni grammaticali delle parole all’interno

della frase); 3. l’abilità induttiva di apprendimento linguistico (l’abilità di riconoscere modelli di corrispondenza fra

forma e significato); 4. l’abilità di memorizzazione (l’abilità di formare e richiamare alla memoria associazioni fra stimoli).

Come le misurazioni dell’intelligenza, quelle attitudinali hanno due aspetti principali che sono correlati con abilità linguistiche distinte: le abilità mnemoniche e di discriminazione fonetica sono correlate con le abilità comunicative di base (BICS), mentre quelle di inferenza sintattica con le abilità cognitivo-accademiche (CALP). Carroll afferma che l’attitudine è un fattore stabile dell’individuo, non soggetto a cambiamento; essa definirebbe il tempo necessario per raggiungere un certo livello di competenza in una lingua (Pallotti 1998), piuttosto che la capacità di apprendimento tout court. In conclusione, piuttosto che discriminare gli individui sulla base della loro supposta capacità di apprendimento linguistico, i test attitudinali ci possono aiutare a prevedere i tempi di acquisizione. Una seconda importante finalità di tali test può essere quella di individuare i punti di forza e di debolezza di un discente per la predisposizione di percorsi di apprendimento individualizzati (si potrà così distinguere fa apprendenti analitici e mnemonici, cioè fra persone che hanno maggiore facilità a imparare “pezzi” di lingua a memoria e persone che invece hanno una maggiore sensibilità grammaticale).

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7.6.2.4 Personalità (Francesca Gattullo) E’ opinione comune sia di molti insegnanti sia di molti studenti che la personalità influenzi i risultati dell’apprendimento linguistico. Dal punto di vista dei risultati della ricerca, al contrario, difficilmente la personalità emerge come un fattore determinante per l’apprendimento. Come osserva Ellis (1994), la “personalità” comprende una serie eterogenea di variabili che sono definite in modo vago e si sovrappongono fra loro. Mancano spesso riferimenti chiari a teorie della personalità o i tratti studiati sono derivazioni spurie di costrutti psicologici. Infine, gli strumenti con cui tali variabili vengono misurate (o controllate) sono diversi fra loro (questionari di autovalutazione, griglie di osservazione, scale di misurazione) e privi di validità o affidabilità statistica, p1er cui i dati non sono comparabili. Il problema maggiore è quello dell’assenza di una base teorica da cui predire quali variabili siano positivamente o negativamente correlate con il profitto linguistico. Soltanto un aspetto della personalità sembra promettente per la ricerca psicolinguistica, la distinzione introversione / estroversione. Tale coppia rappresenta un continuum i cui estremi sono personalità idealizzate: l’estroverso è socievole, ama la compagnia, il rischio, l’azione; l’introverso è invece tranquillo, solitario e preferisce la lettura alla compagnia. I risultati delle ricerche svolte prendendo in considerazione il rapporto fra estroversione e risultati dell’apprendimento mostrano una correlazione positiva con l’acquisizione delle competenze comunicative di base (BICS). Ciò si spiegherebbe grazie alla socialità, tratto fondamentale della estroversione, che porterebbe i soggetti a creare situazioni in cui possono interagire più facilmente con i nativi e in contesti di apprendimento scolastico avrebbero alti livelli di partecipazione in classe che li portano a sollecitare l’interazione con l’insegnante. Dall’altra parte, non è altrettanto chiaro se l’introversione inibisca l’apprendimento o se invece favorisca l’acquisizione delle competenze accademiche (CALP). In generale, sembrerebbe che le variabili della personalità siano dipendenti dalla situazione e non incidenti direttamente sui risultati dell’apprendimento.

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7.6.2.5 Intelligenza (Francesca Gattullo) Il problema fondamentale nel mettere in relazione l’intelligenza con l’apprendimento riguarda la definizione stessa di intelligenza e le sue modalità di misurazione. Generalmente, per la misurazione del Quoziente di Intelligenza (QI) si fa uso di test che tuttavia possono incontrare critiche da parte di alcuni ricercatori, in quanto in essi si richiede di fare uso di abilità che vengono sviluppate soltanto in contesti scolastici (solitamente tipiche dei paesi industrializzati occidentali) e che quindi possono essere assenti in individui non scolarizzati o appartenenti a culture diverse da quelle occidentali. Di fatto, quando si parla di “intelligenza”, si intende quell’insieme di abilità e capacità cognitive di base misurate appunto dai più comuni test definiti “di intelligenza”. Indipendemente dalla componente culturale, è utile tener presente che le capacità intellettive sono il risultato dell’interazione di più fattori, spesso indipendenti dalla sola competenza linguistica. Inoltre, la “quantificazione” di tali competenze non è indipendente né dalla comprensione del compito (il soggetto deve capire la consegna), né dall’aggiornamento delle performance richieste (vi sono oggetti oggi desueti che erano invece frequenti trent’anni fa e che un giovane adolescente avrebbe difficoltà nel riconoscere o nel denominare). Infine, è bene evidenziare che, mentre il fattore intelligenza può essere correlato con le competenze linguistiche cognitivo-accademiche (CALP), di lettura, scrittura e lessicali, esso non è predittivo dello sviluppo di capacità orali di base (BICS), dalla produzione orale libera e informale alle abilità di ascolto in contesti quotidiani.

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7.7 Strategie (Silvana Contento) Possiamo definire una strategia come un "insieme di azioni coordinate in funzione del raggiungimento di un obiettivo." Dallo Zingarelli leggiamo che una strategia è una "abilità nel raggiungere lo scopo voluto, specialmente in situazioni non facili". A partire dagli anni Settanta, e sulla scia di un approccio computazionale all’apprendimento del linguaggio e della comunicazione, si sviluppa un vivace dibattito in glottodidattica che vede nella nozione di strategia un aspetto importante della didattica delle lingue seconde. Con essa si riconosce il ruolo attivo dell’apprendente e si condivide l’idea che alla nozione di strategia sia associata quella di azione finalizzata al raggiungimento di obiettivi e di intenzionalità. Emerge tuttavia la problematicità della consapevolezza nell’apprendente dell’utilizzo di tali strategie. Dice Cornoldi (1995) che una strategia:

• costituisce un uso particolare della memoria generalmente (non necessariamente) consapevole, deliberato che utilizza principi cognitivi di solito funzionali al ricordo;

• ha un programma d’azione preciso, (come un software), definibile, ripetibile, ricorsivo; • è distinta da un più generale atteggiamento strategico che compie valutazioni, decisioni, e dà avvio

in maniera flessibile all’uso di strategie; • è diversa da un “piano” (che è più complesso e può basarsi su una diversa combinazione di

strategie più semplici); • implica il consumo di notevoli risorse cognitive, quindi non è né passiva né meccanica; • l’uso di una strategia può presentare caratteri di familiarità soggettiva; • le strategie sono generalmente già possedute in memoria.

Di solito le strategie di produzione linguistica vengono differenziate dalle strategie comunicative. Occorre fare una distinzione tra strategia come "possibilità che ha il discente di esercitare un controllo sui processi di apprendimento" siano essi cognitivi o comunicativi, (Skehan 1989) dagli apprendimenti proceduralizzati. Nel primo caso sono presenti livelli di consapevolezza sull'operatività di scelte finalizzate al raggiungimento di scopi, nel secondo parliamo invece di tecniche di acquisizione, spesso inconsapevoli perché appartenenti all'automatismo dei processi. Se assumiamo i parametri della consapevolezza e non consapevolezza dei processi in atto possiamo distinguere: - gli stili di apprendimento e le tecniche -> consapevoli - gli atteggiamenti e gli stili cognitivi -> solo in parte consapevoli ed osservabili - le strategie di apprendimento -> totalmente non consapevoli La ricercatrice canadese Ellen Bialystok (1990) ha ripreso la nozione di strategia individuandone tre aspetti fondamentali che sono condivisi generalmente nel processo comunicativo senza essere necessariamente specifici di una situazione di apprendimento L2. I tre aspetti di base dell’utilizzo di strategie comunicative sono: PROBLEMATICITA': il parlante usa una strategia quando si presentano nodi comunicativi e percepisce che c'è un problema che può interrompere la comunicazione. Ciò implica però il distinguere modi e situazioni in cui i parlanti usano il linguaggio non strategicamente nelle comunicazioni ordinarie. In cosa differisce l'uso linguistico di queste due situazioni? Anche tra loro i nativi usano spesso atti linguistici per spiegare. CONSAPEVOLEZZA: se le strategie sono consapevoli i parlanti sanno di averle usate. Non è detto che sia così, ai bambini ad esempio manca questa consapevolezza, non è detto inoltre che le scelte linguistiche siano fatte sempre in funzione degli altri. INTENZIONALITA’: implica il controllo di un repertorio di strategie con selezione di quelle adatte alla situazione. Distingueremo in questo ambito le strategie cognitive, finalizzate al miglioramento delle capacità di apprendimento, dalle strategie metacognitive finalizzate alla gestione delle proprie competenze cognitive e dalle strategie comunicative, finalizzate a un migliore utilizzo delle intenzioni comunicative.

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7.7.1 Strategie cognitive (Silvana Contento) Sono operazioni mentali che permettono di svolgere più tipi di compiti per l’apprendimento, la comprensione orale o scritta, la produzione. Associare, inferire, classificare sono strategie di base. Tra le strategie cognitive quelle che riguardano la memorizzazione sono di notevole importanza e possono essere guidate nel processo di studio. Quali sono i fattori che contribuiscono a un’efficace memorizzazione ed a mantenere vivo e presente il ricordo? La positività: è necessario partire con la convinzione di possedere le capacità per acquisire le informazioni necessarie. La corretta gestione delle fasi di studio: osservare tempi di studio equilibrati, alternandoli a momenti di pausa e di ripasso delle nozioni apprese. La ripetizione e l’utilizzo di più modalità sensoriali favoriscono inoltre l’acquisizione, consolidamento e il recupero delle competenze acquisite.

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7.7.2 Strategie metacognitive (Silvana Contento) Implicano la capacità di riflettere sul funzionamento delle proprie competenze. Le strategie metacognitive permettono di pianificare, controllare e valutare sia il prodotto che il processo di apprendimento. Sono riferite quindi sia alla conoscenza in generale che a conoscenze specifiche

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7.7.3 Strategie comunicative (Francesca Gattullo) Chiunque parli una lingua straniera si può trovare in difficoltà nel voler esprimere con precisione un determinato pensiero o concetto, o nel voler trasmettere una certa informazione a parlanti nativi. Invero, tale situazione si riscontra anche quando parliamo la nostra madre lingua con parlanti nativi. Inoltre, possiamo incontrare difficoltà di comunicazione quando ci troviamo a interagire con chi non possiede la nostra stessa padronanza della lingua (bambini o stranieri). Sono questi i fenomeni che stanno alla base dello studio delle strategie comunicative. Il termine “strategie comunicative” (SC) fu introdotto per primo da Selinker (1972), per definire l’insieme di produzioni interlinguistiche del non-nativo nel tentativo di esprimere un significato all’interno di un sistema linguistico limitato. Le SC sono qui viste all’interno di un modello di acquisizione linguistica in cui il parlante attraversa una serie di stadi di interlingua che si approssimano via via al sistema finale. Il discente impiega dunque tali strategie per colmare l’incompletezza del proprio sistema interlinguistico; al livello di produzione linguistica le SC si presenterebbero allora come una classe particolare di errori. Faerch e Kasper (1980) assumono le CS all’interno di un modello di elaborazione linguistica. Questi autori distinguono fra processi e piani di elaborazione e concepiscono la produzione “normale” come una complessa sequenza di processi il cui risultato è prima un piano di comunicazione e successivamente una produzione fisica. Se il parlante incontra delle difficoltà durante il processo dovrà fare ricorso a una pianificazione ausiliaria, il cui risultato è una strategia comunicativa. Le CS sono così definite: “piani potenzialmente coscienti finalizzati a risolvere un problema che il parlante incontra nel realizzare un particolare obiettivo comunicativo”. Tarone (1981) insiste invece sulla funzione interattiva delle CS; secondo questa autrice, le CS si presentano come mezzi “per negoziare un accordo fra due interlocutori”. Da questa prospettiva, la competenza del parlante non è inadeguata rispetto a un sistema finale ideale, ma rispetto alla “conoscenza linguistica e sociolinguistica dell’interlocutore”. Canale e Swain (1980) hanno inserito le CS all’interno di un quadro di competenza comunicativa generale che comprende quattro moduli: competenza linguistica, competenza sociolinguistica, competenza discorsiva e competenza strategica. Le CS sono viste come strumenti che il parlante utilizza nell’attuare la propria competenza strategica. Le CS sarebbero dunque un insieme di mezzi linguistici ed extra-linguistici impiegati per due motivi: come aiuto in caso di “incidenti” di comprensione e comunicazione dovuti all’inadeguatezza di uno degli altri tre componenti della competenza comunicativa, oppure, in senso positivo, per migliorare l’efficacia della comunicazione. Tassonomia delle Strategie comunicative da Faerch e Kasper (1983) Strategie di riduzione formale sottotipi il parlante comunica per mezzo di un sistema ridotto per evitare di produrre frasi scorrette o non scorrevoli

riduzioni fonologiche riduzioni morfologiche riduzioni sintattiche riduzioni lessicali

Strategie di riduzione funzionale sottotipi il parlante riduce il proprio obiettivo comunicativo per evitare un problema

riduzione di azione riduzione modale riduzione del contenuto proposizionale (senso, messaggio, argomento)

Strategie di realizzazione sottotipi il parlante tenta di risolvere un problema comunicativo espandendo le proprie risorse comunicative

strategie compensative: code-switching, transfer interlinguistico, transfer intralinguistico, strategie di interlingua, (generalizzazione, parafrasi, creazione di parole, ristrutturazione) strategie extra-linguistiche,

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strategie di cooperazione L’osservazione in aula delle modalità comunicative di un gruppo di studenti francofoni di scuola media impegnati in un gioco di squadra in L2 (inglese) permette all’autrice di individuare la frequenza e il tipo di strategie utilizzate in funzione degli obiettivi della comunicazione. Durante il gioco due distinti gruppi di studenti in gara dovevano il più rapidamente possibile ricostruire un pannello sulla base delle indicazioni fornite da compagni nascosti dietro al pannello. Sulla base di 328 nodi comunicativi l’autrice rileva la seguente distribuzione di strategie: 1. EVITAMENTO (7%) - Evitamento dell’argomento - Abbandono del messaggio

2. PARAFRASI (70%) - Approssimazione - Conio di nuove parole - Circomlocuzione - 3. TRANSFER CONSAPEVOLE

(17,9%) - Traduzione letterale

- Language switch 4. APPELLO ALL’ASSISTENZA (5,1

%)

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IV. Bologna: CLUEB

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Nuove forme esprimono vecchie funzioni e nuove funzioni vengono espresse inizialmente a partire da vecchie forme. I principi operativi, intesi come regole o principi cognitivo-percettivi, consentono l'acquisizione del linguaggio. Dal flusso linguistico che lo circonda il bambino apprende a: - fare attenzione alle terminazioni delle parole; - modificare sistematicamente le forme morfologiche delle parole; - fare attenzione all'ordine dei morfemi e delle parole; - evitare le interruzioni; - segnalare con chiarezza le relazioni semantiche; - evitare le eccezioni; - dare semanticamente senso agli indicatori grammaticali.

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I termini “teoria” e “teorico” hanno diverse valenze e connotazioni nel linguaggio quotidiano e vengono spesso visti con scetticismo da insegnanti e altri soggetti coinvolti nei processi di insegnamento e programmazione educativa (Stern 1983). Si può infatti intendere con teorico ciò che è avulso dalla pratica, “disancorato dai dati”, che non tiene conto dei vincoli e delle esigenze di chi opera nella realtà scolastica quotidiana. Non è chiaramente questo il senso che viene qui attribuito alla teoria. Al contrario, crediamo che la teorizzazione nel campo dell’apprendimento (e dell’insegnamento) sia inestricabilmente legata ai dati empirici; d’altro lato, è necessario per chi svolge ricerca empirica fare riferimento a strutture teoriche il più possibile rigorose: ciò non potrà che accelerare il progresso della ricerca in questo campo (Larsen-Freeman e Long 1991, 220). Infine, una teorizzazione più solida potrà essere di sostegno e guida agli insegnanti, che troppo spesso cadono vittima delle “mode” della didattica e dell’ideologia. Lo scopo della ricerca scientifica è da un lato quello della costruzione di teorie, modelli e ipotesi predittive ed esplicative, dall’altro quello della descrizione dei fatti osservati. Teorie, ipotesi e descrizioni stabiliscono relazioni fra oggetti, fatti o costrutti teorici e trovano espressione in enunciati. La ricerca empirica mira a stabilire rapporti tra variabili osservabili. Nelle scienze umane le variabili si possono classificare in tre gruppi: le variabili individuali e ambientali (come l’età, il sesso, la classe sociale, il livello di istruzione, la provenienza geografica), che possono essere censite o controllate; le variabili d’intervento (come alcuni aspetti della organizzazione scolastica, dei metodi e delle tecniche di insegnamento, di controllo scolastico, ecc.), che possono essere manipolate; e infine, le variabili obiettivo, ovvero i risultati (come i risultati di un test cognitivo, di profitto, ecc.), che sono misurabili.

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Esempi di generalizzazione per l’italiano sono: aprito (da apr- + ito) romputo (da romp + uto)

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White (1985) formula quest’ultimo punto come segue. Come fa un bambino che sente (a), (b) e (c) a sapere che (d) è giusto ed (e) sbagliato? (a) The car is expensive (b) Is the car expensive? (c) The car which is advertised in the paper is expensive (d) * Is the car which advertised in the paper is expensive? (e) Is the car advertised in paper expensive?

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Un esempio di parametro è quello dell’omissione o della obbligatorietà del soggetto: l’italiano prevede la prima opzione (è una lingua pro-drop), mentre l’inglese prevede la seconda (non pro-drop). La GU di qualsiasi bambino conterrebbe il parametro “pro-drop” che deve essere successivamente verificato a seconda della lingua d’apprendimento; i bambini inglesi “spegnerebbero” l’interruttore “pro-drop”, mentre i bambini italiani lo attiverebbero.

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Le posizioni si possono riassumere come segue • la posizione dell’inaccessibilità • la posizione dell’accessibilità parziale • la posizione della completa accessibilità White (1989) prende in esame le diverse ipotesi. Innanzitutto, afferma che la prima è insostenibile, alla luce delle ricerche effettuate che dimostrano che i discenti posseggono il tipo di conoscenze sofisticate derivanti dalla UG. La terza ipotesi, al contrario, prevederebbe l’equivalenza totale fra apprendimento della L1 ed L2; anche questa ipotesi viene scartata da White. La posizione su cui questa autrice dichiara esservi consenso generale è la seconda, quella dell’accessibilità parziale della UG da parte di chi impara una L2. La questione che rimane aperta è dunque per quali aspetti la UG sia accessibile e per quali il discente si basi invece sulla propria lingua madre. Risposte a questi interrogativi possono forse venire dai fenomeni di transfer osservabili.

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Ipotesi della dicotomia acquisizione/apprendimento1. ipotesi dell’ordine naturale di acquisizione 2. ipotesi dell’input 3. ipotesi del monitor (con la “m” minuscola) 4. ipotesi del filtro affettivo “Il monitor è quella parte del sistema interno dell’apprendente che sarebbe responsabile dell’elaborazione linguistica consapevole” (Dulay, Burt e Krashen 1982, 99). La produzione linguistica può quindi consistere di due fasi, una inconscia iniziale (frutto dell’acquisizione) e una consapevole elaborativa (risultato dell’apprendimento). Tutte le volte che operiamo correzioni e trasformazioni consce della nostra produzione linguisitca, il monitor è in funzione. Il filtro affettivo darebbe conto delle differenze individuali di profitto raggiunte da parlanti esposti alla stessa quantità di input comprensibile. Esso comprende vari fattori, come la motivazione, la fiducia in se stessi e l’ansietà. I problemi principali della MT sono innanzitutto che l’ipotesi del filtro affettivo e quella dell’input non sono fra loro collegate, e in secondo luogo che esse contengono costrutti teorici non riconducibili a variabili operazionali. La conseguenza di ciò è che la MT non è falsificabile e quindi “vera” in senso troppo vago e generico, senza un vero e proprio potere esplicativo o predittivo.

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Una serie di studi hanno fatto emergere, ad esempio, la seguente sequenza di sviluppo per la frase interrogativa in inglese (da Larsen-Freeman e Long 1991):

1. Intonazione crescente =you like chicken?

2. Uso dell’avverbio di domanda, con mancata inversione Soggetto/Ausiliare

=who you are ?

3. Doppia inversione = do you know what time is it ?

4. Differenziazione = do you like what you do? Un altro esempio in tedesco è quello dell’acquisizione di regole sintattiche di crescente complessità, dalla frase affermativa semplice alla frase relativa subordinata:

1. SVO Die kinder spielen mim ball

2. Avv + SVO Da kinder spielen

3. S Mod OV Alle kinder muss die pause machen

4. Avv Aus SOV Dann hat sie wider die knoch gebringt

5. Frase principale SOV Er sagte, dass er nach hause kommt

S= soggetto; V= verbo; O= oggetto; Avv= avverbio, Mod= modale; Aus= ausiliare (da Pienemann 1987)

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La dimensione variabile del modello rende conto inoltre delle diverse strategie individuali di produzione osservabili in discenti che si trovano nella stessa fase evolutiva di apprendimento. Si possono individuare strategie di produzione “semplificative” e strategie “normative”: le prime sono proprie di quei discenti orientati in senso “segregativo” verso la comunità ospite ed interessati all’efficacia comunicativa, a scapito dell’accuratezza formale; mentre le seconde caratterizzano discenti orientati verso il rispetto delle norme della L2, in quanto motivati a integrarsi nella comunità straniera.

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MEMORIA SENSOMOTORIA: è caratterizzata dal processo percettivo, attraverso il quale vengono captati vari stimoli provenienti dai sensi. Qualsiasi tipo di informazione (immagine, suono, sensazione tattile o olfattiva) deve essere in qualche modo trattenuto al fine di poter essere elaborata in modo più specifico o essere immediatamente abbandonata.

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MEMORIA A BREVE TERMINE o MEMORIA DI LAVORO: questo tipo di memoria è attiva per ricordare informazioni di cui si sta facendo uso. Essa ha una capacità limitata. Non si tratta di un magazzino di informazioni, ma piuttosto di un processo di integrazione di informazioni, di una modalità che permette di svolgere funzioni concettuali complesse portando a termine compiti specifici.

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MEMORIA A LUNGO TERMINE: il sistema della MLT è in grado di contenere un numero elevatissimo di informazioni e di conservare il materiale a tempo indeterminato, ricorrendo a diversi tipi di codificazione e rievocazione, ad esempio in forme verbali o di immagine mentale. La MLT offre la possibilità di rievocare nomi, riconoscere volti e luoghi, di recuperare talvolta in maniera anche approssimativa o distorta conoscenze precedentemente acquisite.

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MEMORIA PROCEDURALE: buona parte delle azioni che costituiscono il nostro comportamento è procedurale. E’ esperienza di tutti noi notare come molte cose siano più facili da fare e mostrare che da dire esplicitamente. La memoria procedurale permette di recuperare informazioni in maniera implicita, senza esserne quindi consapevoli. Rispetto alla memoria semantica la memoria procedurale presenta: minore flessibilità, minore correggibilità, minore accessibilità e maggiore efficienza.

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MEMORIA DICHIARATIVA: Le nostre conoscenze sono organizzate attorno a rappresentazioni di attività comuni. Quando queste sono espresse linguisticamente si dice che vengono rappresentate nella memoria dichiarativa. L'insieme di conoscenze attorno a tali attività o sequenze di azioni viene definita SCRIPT. Quando diciamo ad esempio “sono arrivato in stazione…” ci riferiamo implicitamente a un insieme più o meno ordinato di azioni, legate da inferenze (Lorenzetti 1999) di cui presumibilmente il nostro interlocutore è a conoscenza, come: recarsi in stazione, acquistare un biglietto, obliterarlo, andare a un binario, salire su un treno, cercare un posto, ecc… Il contenuto dello script che è condiviso da tutti ci fa risparmiare nel resoconto; nel parlare di una nostra esperienza ci limitiamo a commentare eventi non previsti o anomali. Nell’esempio sopracitato, ad esempio dire che si è viaggiato in piedi, che il treno è arrivato in ritardo, ecc.

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MEMORIA SEMANTICA: frutto di processi di astrazione e generalizzazione costituisce le nostre conoscenze di base organizzate in concetti ed esprimibili in parole. Molte delle informazioni veicolate dalle parole, dagli schemi o dagli script sono condivise con gli altri parlanti, sono rappresentabili in modelli (a rete gerarchica, del confronto delle caratteristiche, ecc.) e si sviluppano assieme alle capacità linguistiche

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MEMORIA EPISODICA: Le nostre esperienze personali di eventi e fatti, esperite in tempi e luoghi specifici, sono distinguibili dalla conoscenza generale e sono dette episodiche. La memoria autobiografica è un tipo di memoria episodica. Poiché questi eventi non possono essere riferiti che attraverso la narrazione, e quindi attraverso il linguaggio verbalizzato, alcuni autori sostengono che la distinzione rispetto alla memoria semantica sia un artefatto concettuale.

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McNeill (1992) distingue nella gestualità del parlato una funzione di volta in volta iconica, metaforica o deittica. Ognuna di queste funzioni rappresenterebbe in forma visiva il legame che il parlante si rappresenta mentalmente tra contenuti narrativi e metanarrativi. In questa tipologia di gesti l’autore tiene separati i gesti batonici, deputati a enfatizzare o sottolineare porzioni di parlato e che sono particolarmente presenti in situazione narrativa o metadiscorsiva, e i gesti coesivi che marcano, nella produzione orale, la continuità dell'attività discorsiva. Questa è governata, infatti, da una dinamicità comunicativa all'interno della quale possono essere distinte strategie di tipo sia costruttivo che anticipatorio. In questo modo la verbalità non può essere dissociata dalla gestualità in quanto parole e gesti qualificano assieme lo status comunicativo. Nell'oralità, la complessità della forma linguistica in cui si realizza la referenzialità è data dal contesto antecedente anche se ascoltatore e parlante dipendono da un contesto comunicativo non-immediato. Quello che viene codificato in un enunciato è la rappresentazione di tale enunciato in un discorso più ampio. Le unità di discorso sono marcate verbalmente, gestualmente e prosodicamente e ciò segnala in quale maniera il locutore rende nota all'interlocutore l'attivazione della coscienza (Chafe 1996).

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La sequenza di input - risposta - nuovo input - riposta, ecc. non è un insieme di interventi giustapposti, ma dà luogo a una entità nuova: l’interazione. In essa l’input e la risposta hanno forti dipendenze reciproche. Lo stesso vale per la sequenza, detta tripletta, di input - risposta - feedback, tipica dell’interazione scolastica.

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Anche nell’apprendimento della lingua madre è necessario che l’input sia comprensibile. Il bambino, infatti, impara per primi solo quegli elementi linguistici che può comprendere associandoli a oggetti, immagini o comportamenti che può osservare abitualmente.

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Una delle ipotesi maggiormente citate e che le indagini hanno cercato di confermare o confutare è la cosiddetta “ipotesi del periodo critico di apprendimento” (critical period hypothesis, Lennenberg 1967). I risultati sono tuttora controversi rispetto a quale sia l’età limite del periodo critico e a quali siano gli aspetti linguistici coinvolti dal superamento di tale periodo. La quantità di indagini che hanno trattato la questione del fattore età è straordinaria ed è quindi difficile riassumerne i risultati in modo univoco. Inoltre, spesso gli studi differiscono in senso metodologico: alcuni sono stati svolti in senso longitudinale su pochi soggetti ed è quindi impossibile metterne a confronto i risultati; altri sono trasversali, ma hanno preso in esame soggetti con età di partenza diversi; infine, le misurazioni dell’apprendimento sono state effettuate con mezzi diversi, e quindi non sono comparabili.

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Se andiamo a vedere nei particolari, le conclusioni appena elencate si articolano a seconda degli aspetti linguistici considerati. Per quanto riguarda la morfologia e la sintassi, i vantaggi di chi apprende precocemente sono sì la tendenza generale, ma non la regola assoluta: sono numerosi infatti i casi di discenti maturi che sono altrettanto competenti di quelli che hanno cominciato da bambini. Sul versante della fonologia, invece i vantaggi dei discenti precoci sono quasi incontrastati. Infine, per quanto riguarda il lessico, i principianti maturi mostrano un vantaggio iniziale che però tende a essere colmato e anche superato dai principianti precoci nel lungo periodo. Singleton rileva tuttavia che è probabilmente sbagliato assumere che fonologia, morfo-sintassi e lessico siano blocchi monolitici e che occorrono studi differenziati su aspetti particolari della lingua (Singleton e Lengvel 1995).

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In realtà, il MLAT non ha prove distinte per il fattore (3), l’abilità di apprendimento induttivo, presumibilmente perché essa è molto vicina al (2), la sensibilità grammaticale; mentre il PLAB non ha una prova per il fattore (4), la memoria verbale (Ellis 1994).

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Molti studiosi concordano oggi nel considerare l’intelligenza come un complesso di più fattori indipendenti fra loro. Altri autori sostengono la necessità di sostituire il concetto unitario di intelligenza con quello della molteplicità delle intelligenze (per es. Gardner 1987 ipotizza l’esistenza di più intelligenze: linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, motoria, interpersonale e intrapersonale, di cui ciascun individuo sarebbe dotato, seppure in maniera differenziata) benché non siano stati prodotti fino ad oggi studi sistematici che confermino questa ipotesi L’interesse per nuove interpretazioni delle funzioni intellettive risiede tuttavia in una loro maggiore capacità esplicativa nei confronti di problemi di acquisizione delle competenze linguistiche, particolarmente delle abilità di lettura e scrittura. Test di intelligenza differenziati permettono infatti di costruire profili individuali che mettono in luce il maggiore o minore grado delle diverse componenti di tipo verbale o non verbale.

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