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OPERA ARMIDA BARELLI LEVICO PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO CORSO PER OPERATORE SOCIO-SANITARIO SEDE DI LEVICO TERME LA RELAZIONE PROFESSIONALE DELL’OPERATORE SOCIO SANITARIO (MODULO GENERALE N.° 3 - UNITA’ DIDATTICA N.° 2) “Vi sono persone per le quali la relazione interpersonale e la comunicazione costituiscono non un fattore occasionale o facoltativo, ma il contenuto stesso del loro lavoro; sono persone per le quali il rapporto interumano è tutt’uno con l’apporto professionale e che quindi non possono commettere errori nel condurre l’incontro, perché ciò pregiudicherebbe il risultato stesso del loro lavoro” (Colombero). A.F. 2014 2015 Dispensa a cura di: Sandra De Carli Docente: Sandra De Carli Data di pubblicazione: 28 ottobre 2014

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OPERA ARMIDA BARELLI

LEVICO

PROVINCIA AUTONOMA

DI TRENTO

CORSO PER OPERATORE SOCIO-SANITARIO

SEDE DI LEVICO TERME

LA RELAZIONE PROFESSIONALE

DELL’OPERATORE SOCIO SANITARIO

(MODULO GENERALE N.° 3 - UNITA’ DIDATTICA N.° 2)

“Vi sono persone per le quali

la relazione interpersonale e la comunicazione

costituiscono non un fattore occasionale o

facoltativo,

ma il contenuto stesso del loro lavoro;

sono persone per le quali

il rapporto interumano è tutt’uno con l’apporto

professionale

e che quindi non possono

commettere errori nel condurre l’incontro,

perché ciò pregiudicherebbe

il risultato stesso del loro lavoro”

(Colombero).

A.F. 2014 – 2015

Dispensa a cura di: Sandra De Carli

Docente: Sandra De Carli

Data di pubblicazione: 28 ottobre 2014

Corso per Operatore Socio Sanitario La relazione professionale di assistenza

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LA RELAZIONE PROFESSIONALE

DELL’OPERATORE SOCIO SANITARIO

In questa unità didattica cercheremo di:

Acquisire conoscenze per mettere in atto una relazione professionale favorevole a creare un

clima di fiducia e consenso:

ascoltare con attenzione le richieste degli utenti e attivarsi per dare soddisfacimento al loro

bisogno, o riferire a chi di competenza;

rendere partecipe la persona assistita informandola sulle attività che verranno svolte, anche

se questa sembra non comprendere e partecipare;

consentire e favorire il diritto di autodeterminazione;

cogliere le richieste verbali e non;

utilizzare un linguaggio appropriato tenendo conto delle abilità/difficoltà comunicative

dell’utente;

tenere conto di fattori fisici e psichici che incidono sulla comunicazione;

utilizzare la forma di cortesia e presentarsi nel proprio ruolo di operatore;

fornire informazioni di propria competenza;

non sostituirsi nelle decisioni.

Affronteremo insieme questi contenuti:

a. cenni alle principali abilità cognitive: la percezione e la memoria e la formazione e

presenza di stereotipi e pregiudizi e la loro implicazione nella relazione con l’altro;

b. i diversi tipi di relazione: relazione sociale, relazione amicale, relazione parentale,

relazione di aiuto, relazione professionale dell’operatore di assistenza

c. caratteristiche della relazione professionale: rapporto di asimmetria, influenza del

contesto

d. atteggiamenti e comportamenti nella relazione professionale

e. la capacità di aiutare: l’aiuto materiale, l’aiuto psicologico, imparare ad aiutare

f. il rapporto operatore utente: osservazione, abilità per un ascolto attivo e suoi requisiti,

modalità di costruzione di un clima di fiducia, contatto empatico, il rispetto dell’altro,

autenticità e spontaneità, promozione dell’autodeterminazione, consenso informato

g. la “distanza” nella relazione operatore - utente

h. il tempo e la sua influenza nella relazione operatore - utente

Infine per ampliare ulteriormente le nostre conoscenze possiamo consultare la bibliografia

Buon lavoro !

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CAPITOLO 1

LA PERCEZIONE

DEFINIZIONE

Atto della coscienza con cui si acquista consapevolezza di un oggetto esterno attraverso

l’interpretazione degli stimoli sensoriali che da esso provengono o mediante un procedimento

intuitivo.

(da IL GRANDE DIZIONARIO GARZANTI della lingua italiana)

Noi siamo continuamente bombardati da messaggi che ci invia il mondo circostante e che

captiamo attraverso organi specializzati: gli organi di senso. Si è soliti dire che l’uomo è dotato di

cinque sensi, mentre in realtà sia essi che le forme di sensibilità sono più numerosi.

1. Nell’orecchio ha sede la sensibilità uditiva, grazie alla quale si possono distinguere i suoni e i

rumori anche in base all’intensità (suono forte o debole), all’altezza (suono acuto o grave) e al

timbro.

2. Nell’occhio ha sede la sensibilità visiva.

3. Nella mucosa orale e specificamente sulla lingua ha sede il gusto, con la capacità di distinguere

i quattro sapori fondamentali: amaro, dolce, acido e salato.

4. Nel naso ha sede l’odorato o olfatto, che permette di cogliere gli odori presenti nell’ambiente.

5. La cute, in modo più o meno concentrato, è sede della sensibilità cutanea nelle sue

differenziazioni:

sensazioni tattili, che si verificano quando tocchiamo qualcosa;

sensazioni termiche, che ci permettono di avvertire il caldo e il freddo;

sensazioni dolorose.

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6. Altre forme di sensibilità sono la cinestesia e la sensibilità interna ed organica, cioè i sensi

della posizione e del movimento che ci permettono di coordinare le nostre azioni in rapporto a

determinate situazioni. Questi sensi si integrano con quello dell’equilibrio, che ha sede

nell’orecchio interno.

7. I sensi interni sono quelli che ci informano sulle condizioni del nostro corpo e sulle sue

necessità. Per mezzo loro avvertiamo i crampi della fame, il desiderio di bere, la stanchezza dei

muscoli, lo stato di malessere e quello di rilassatezza.

Ciò potrebbe portarci a credere che con i sensi siamo in grado di afferrare tutta la realtà. Invece

ci sono stimoli che passano inosservati al nostro apparato ricettore, o perché è impossibile per

l’uomo percepirli (pensiamo alle luci infrarosse) o perché devono raggiungere una certa intensità

per essere avvertiti.

La quantità di stimolazione necessaria a provocare la reazione viene chiamata soglia. La soglia

è assoluta quando uno stimolo raggiunge l’intensità minima per essere percepito. Nel caso di un

rumore è la quantità di stimolazione necessaria per passare dal silenzio alla percezione. La soglia

differenziale indica la differenza di intensità minima percepibile tra due stimoli. E’ difficile

percepire la differenza di intensità di luce se a cento candele se ne aggiunge una, mentre si coglie la

differenza se si accende una seconda candela là dove ce n’è una sola.

L’ATTENZIONE

E’ impossibile, vista l’enorme quantità di stimoli che ci circonda, poter percepire tutti gli aspetti

della realtà allo stesso modo e nello stesso momento. L’attenzione è quel processo mentale per cui

la nostra coscienza riceve solamente alcuni aspetti della realtà che ci circonda, mentre altri restano

in secondo piano o vengono completamente trascurati.

L’attenzione viene generalmente distinta in attenzione volontaria e attenzione involontaria.

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L’attenzione volontaria è quella che il soggetto dedica coscientemente a qualcosa che suscita

il suo interesse. Essa dipende quindi dalla disposizione interna del soggetto. Può però accadere che

siano le cose stesse ad attirare la nostra attenzione, indipendentemente dalla nostra volontà. Si ha

allora l’attenzione involontaria, che viene imposta al soggetto dalle caratteristiche proprie dello

stimolo. Basti pensare alla pubblicità.

La caratteristica che lo stimolo deve avere, per attirare su di sé la nostra attenzione è data da

cinque fattori fondamentali:

1. L’intensità: una luce viva attirerà di più l’attenzione di una luce debole, così come un suono

acuto sarà più distinguibile di un brusio omogeneo;

2. La subitaneità: uno scoppio improvviso ci colpisce senz’altro di più del rumore di fondo del

mare in tempesta;

3. La novità: la persona vestita in modo insolito è quella che, in un gruppo, attrae per prima la

nostra attenzione; il cambiare argomento può servire ad interrompere la monotonia dello studio

o di un discorso;

4. L’intermittenza: uno stimolo, per quanto forte, se è continuo, rischia di non essere più

avvertito. Se interrompe e riprende regolarmente, viene senz’altro notato;

5. L’aderenza ai nostri bisogni: siamo molto più sensibili al suono della campanella che annuncia

la fine della lezione quando siamo stanchi, anziché quando siamo completamente coinvolti dalla

lezione che ci interessa. Se una persona è importante per me, sarò molto più sensibile ai suoi

comportamenti, all’espressione del suo viso e in genere all’insieme di tutti quei segnali che mi

fa pervenire.

E’ attraverso la PERCEZIONE che noi prendiamo contatto con il mondo che ci circonda. E’ il

mezzo con cui noi riceviamo le infinite informazioni che ci provengono dal mondo e che - spesso

inconsapevolmente - usiamo per regolarci e adattarci alla realtà presente.

Si tratta di un processo di selezione e di organizzazione.

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Studiosi della percezione (gestaltisti: da gestaltforma) hanno individuato alcuni principi

generali della percezione, in particolar modo sul tipo di organizzazione degli elementi che facilitano

la percezione.

LEGGI DELL’ORGANIZZAZIONE PERCETTIVA

“E’ raro che le persone abbiano sensazioni isolate. Le nostre menti organizzano costantemente

l’attività sensoriale in modo da percepire cose. Complesse sequenze di stimoli uditivi sono percepite

come parole; complesse configurazioni di stimoli visivi sono viste come persone, automobili, o

parole stampate.

Buona parte della nostra capacità di strutturare complesse configurazioni di attività sensoriale in

forme dotate di significato dipende dall’esperienza. Tuttavia, certi tipi di organizzazione percettiva

appaiono universali. Ne elenchiamo alcuni.

Il principio di prossimità o vicinanza: le parti che sono vicine nel tempo e nello spazio

tendono a essere percepite insieme.

I punti che formano il primo raggruppamento sono visti come quattro righe parallele, così come

nel secondo caso i punti vengono raggruppati in due righe oblique sempre parallele.

Il principio di somiglianza: le parti fra loro simili sono viste collegate insieme come se

formassero un gruppo.

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I punti che formano il primo raggruppamento sono visti come l’alternanza di colonne di

rombi e cerchi, mentre nel secondo caso è la ripetizione alternata di coppie di simboli uguali.

Il principio di chiusura: la nostra percezione tende a completare le figure incomplete, a

colmare le lacune.

Anche se le linee non sono continue, egualmente vediamo queste figure come un quadrato e un

cerchio – un esempio di come tendiamo a “chiudere” o “riempire” le parti mancanti a partire da

quel che sappiamo dell’intero.

L’organizzazione figura – sfondo: è la tendenza a vedere le cose stagliarsi come figure,

contro uno sfondo. Per esempio, quando leggete queste righe, le parole sono figure nere che si

stagliano sullo sfondo bianco della carta.

LE ILLUSIONI PERCETTIVE

I risultati finali dei processi percettivi non sono paragonabili a fotografie della realtà esterna.

C’è una discrepanza, a volte notevole, fra quest’ultima e il percetto fenomenico, che è sempre

un’elaborazione. Nel caso delle illusioni percettive è significativo il fatto che, pur conoscendo la

realtà oggettiva, la percezione è distorta, diversa.

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Nell’esempio sottostante, i due segmenti sono uguali, contrariamente a quanto appare. La

percezione della lunghezza diversa permane anche nel momento in cui conosciamo la realtà

oggettiva.

Ci sono persone che faticano a considerare come sfondo ciò che in un primo momento hanno

visto come figura e non sono in grado di muoversi su questi due piani.

Ma se riscontriamo una diversità tra ciò che elaboriamo e la realtà esterna sin nel momento della

percezione, e di fronte a realtà concrete, oggettive, misurabili da un punto di vista scientifico, cosa

accadrà nel momento in cui entreremo in contatto con situazioni meno definite, come le emozioni, i

sentimenti, i vissuti, i comportamenti, i bisogni, e così via?

Noi non vediamo automaticamente tutta la realtà: facciamo sempre una selezione di elementi

che elaboriamo secondo alcune configurazioni, secondo alcuni principi, secondo le esperienze

passate. E’ ciò che ci permette di muoverci nel mondo, ma bisogna esserne consapevoli per evitare

chiusure, rigidità, assolutizzazione dei propri punti di vista, fino alla costituzione di stereotipi e

pregiudizi.

La realtà fin dagli aspetti più semplici, come quelli analizzati in questo capitolo, presenta una

complessità che chiede di essere scandagliata con attenzione, di essere abbracciata nella sua

interezza e guardata con lo stupore di chi sa scrutare oltre il già conosciuto per incontrare tutta la

novità che il mondo, le persone e le relazioni portano in sé.

DOMANDE GUIDA ALLO STUDIO

Definizione di percezione

Elenca i principali tipi di percezione e i canali attraverso i quali raggiungono la nostra mente

Perché è importante lo studio della percezione?

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CAPITOLO 2

LA MEMORIA

DEFINIZIONE

“Facoltà della mente di conservare e richiamare alla coscienza nozioni ed esperienze del

passato”. (dal Dizionario Garzanti)

Tale definizione sembra però oscurare l’importanza, la potenzialità, la ricchezza che stanno

dietro questa funzione del cervello e le possibilità che offre ad ogni persona. Ecco come ne parla

Sant’Agostino nelle “Confessioni”:

«Le distese e gli ampi ricettacoli della memoria, dove si trovano i tesori di

immagini senza numero accumulati da ogni genere di cose percepite…. Alcune

impressioni emergono subito, altre bisogna ricercarle più a lungo come si dovessero

cavar fuori dai ripostigli più segreti, altre si affollano tutte quante insieme mentre si

cerca o si vuole cose diverse e balzano in mezzo come per dire: “Siamo forse noi?”

(…) Io posso starmene all’oscuro, in silenzio, ma solo che lo voglia, richiamo alla

memoria i colori…e anche i suoni posso evocare, se lo voglio e subito accorrono; la

lingua rimane muta, silenziosa la gola e io canto a mio piacere… Così pure distinguo

senza fiutare il profumo del giglio da quello delle viole…Tutto ciò si svolge al mio

interno, nella sala immensa della mia memoria. E vi sono, pronti al mio cenno, il cielo,

la terra, il mare e tutte le sensazioni che mi hanno dato… E là anche mi faccio incontro

a me stesso, ricordo me stesso, quello che ho fatto e dove, quali emozioni ho provato

nel farlo… Grande assai la memoria, ricettacolo di ampiezza illimitata: e chi potrebbe

toccarne il fondo?» (pp 268-269)

Chi pensa che la memoria sia come un magazzino capace di conservare inalterati i ricordi, come

una cella frigorifera conserva i cibi o un registratore ad altra fedeltà mantiene immutata una

sinfonia, ha una concezione assai semplificata dei meccanismi del ricordo.

La memoria è un complesso di funzioni entro il quale sono stati distinti tre grandi settori:

1. il settore delle operazioni di acquisizione delle conoscenza;

2. il settore della “archiviazione”, cioè delle operazioni con cui tali conoscenze vengono

sistemate ed archiviate;

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3. il settore del recupero, cioè quello addetto alle operazioni di utilizzo delle conoscenze

archiviate.

La memoria è un processo dinamico e non un archivio, un processo capace di elaborare le

informazioni in entrata e quelle immagazzinate.

Gli studiosi sono abbastanza concordi nel ritenere che sono necessari tre differenti processi

perché si verifichi l’archiviazione delle informazioni provenienti dal mondo esterno o da quello

interiore:

L’immagazzinamento dell’informazione sensoriale o memoria percettiva

Il sistema della memoria a breve termine

Il sistema della memoria a lungo termine.

MEMORIA PERCETTIVA

Il sistema di immagazzinamento dell’informazione sensoriale (o registro sensoriale) mantiene

una rappresentazione dell’informazione esterna così come essa è stata ricevuta dal sistema

sensoriale. La durata di tale rappresentazione è assai breve (qualche decimo di secondo), il tempo

necessario ai processi di riconoscimento e di configurazione per operare delle scelte precise.

Cioè tutte le stimolazioni visive, uditive, tattili ecc… che arrivano agli organi di senso si fissano

per alcuni decimi di secondo in questo registro: giusto il tempo perché l’individuo – più o meno

consapevole - decida se le stesse, o parti di esse, vadano eliminate in quanto inutili o vadano

mantenute e memorizzate più stabilmente.

MEMORIA A BREVE TERMINE

Il sistema della memoria a breve termine (MBT) o memoria primaria serve a conservare per

breve tempo (in genere, per qualche secondo) in una specie di anticamera il materiale già

parzialmente elaborato dalla memoria percettiva.

Diversamente dal primo sistema, la MBT non registra passivamente gli stimoli, ma

immagazzina le informazioni elaborandole ed interpretandole.

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La memoria a breve termine ha una capacità di ritenzione relativamente ridotta. Viene anche

chiamata memoria di lavoro ed è considerata come un magazzino transitorio ove si conservano le

informazioni di cui abbiamo bisogno nell’arco di breve tempo.

Esempio: tenere a mente un n° di telefono, appena letto, fino a quando

lo riproduciamo sull’apparecchio.

La MBT è utile per una notevole varietà di compiti: come memoria di lavoro, cioè come un

sistema che consente di trattenere contemporaneamente diversi elementi di un’informazione e di

metterli in relazione tra loro, è costantemente impiegata nel calcolo mentale, nell’apprendimento di

brani e poesie, nel ragionamento deduttivo.

AD ESEMPIO:

ESEGUITE MENTALMENTE LA SEGUENTE MOLTIPLICAZIONE

26 x 7 = ___ Come avete fatto?

1. memorizzato i due numeri 26 e 7;

2. moltiplicato il numero 6 per il 7;

3. fissato il prodotto (42);

4. memorizzato il numero 2 accantonandolo;

5. moltiplicato il numero 2 per il 7;

6. fissato il prodotto (14);

7. recuperato il numero 4 di riporto e aggiunto al prodotto precedente (18);

8. richiamato il 2 accantonato e dato il risultato.

= 182

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La Memoria a breve termine - esaurito il compito – non ha più necessità di funzionare.

DIFFERENZA TRA REGISTRO SENSORIALE E MEMORIA A BREVE TERMINE

Nel registro sensoriale le informazioni in arrivo non hanno modo di essere ritenute, nella MBT

almeno una parte di esse può essere memorizzata per periodi di tempo più o meno lunghi.

Ciò avviene grazie al processo di reiterazione dell’informazione che consiste in una silenziosa

ripetizione mentale del materiale da memorizzare.

Il successo della reiterazione dipende dalla quantità di informazioni da ricordare.

LA MEMORIA A LUNGO TERMINE

Il sistema della Memoria a Lungo Termine (MLT) o memoria secondaria è in grado di

conservare il materiale a tempo indeterminato, o comunque molto a lungo, ricorrendo a diversi tipi

di elaborazione e di codificazione.

E’ un solido magazzino ove si depositano e permangono informazioni basilari per la vita

dell’uomo. E’ un magazzino con una capienza enorme (più di quella di un computer!).

«Studi compiuti negli anni 70 sono giunti alla seguente conclusione: ammettendo che un essere

umano potesse immagazzinare in memoria 10 nuove informazioni al secondo per tutta la durata

della vita, un cervello medio lascerebbe inutilizzato il 50% del proprio potenziale di memoria.

Dunque quello che noi immaginiamo come l’enorme contenitore della nostra memoria, quella

profondissima miniera di informazioni, altro non è che un magazzino che lasciamo semivuoto»

(Bonvini-Civettini (a cura di), I processi psichici, Scuola OSA di Riva del Garda, 1996).

Come in tutti i magazzini o biblioteche – per quanto ben ordinati e organizzati – il problema più

consistente è rintracciare in tempi rapidi l’informazione desiderata.

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I tempi di recupero variano da informazione a informazione: dipende se si tratta di episodi

(colazione con l’amica – il volto di un passante …) o conoscenze ( la capitale della Spagna - una

formula chimica).

Quindi la memoria umana non è costituita solo da registri o magazzini in cui depositare o

prelevare le informazioni che ci servono, ma esistono anche dei sistemi di analisi delle

informazioni, tali da decidere cosa archiviare – dove archiviare e come.

E’ infatti necessario procedere all’immagazzinamento ordinato delle informazioni, come in una

biblioteca, dove si ha poi a disposizione lo schedario in cui i testi sono catalogati per autori, titoli,

argomenti, …

Le informazioni, inoltre, non sono mai conoscenze isolate, ma vanno a inserirsi in una rete di

informazioni in cui maggiore è la connessione e la catalogazione e maggiore sarà la possibilità e la

capacità di ricordarle in seguito.

Il ricordo di fatti, concetti ed eventi non dipende, infatti, solo dai tempi più o meno lunghi nei

quali sostano nella MBT o dal tempo di reiterazione, ma anche dai legami significativi tra materiale

da apprendere e conoscenze già in possesso.

«La memoria a lungo termine può essere suddivisa in tre tipi:

1. EPISODICA: legata ai nostri fatti personali (es. quel che succede a me in un certo momento in

un determinato luogo: ricordare che film ho visto ieri sera è compito della memoria episodica).

E’ quella che, ad esempio, il malato di Alzheimer perde per prima e che lo rende così incerto e

titubante.

2. SEMANTICA: memoria delle conoscenze generali del mondo (di quelle nozioni che abbiamo

imparato durante la nostra vita, ma che non possiamo collegare a un dove e a un quando. Es.:

l’inverno è più freddo dell’estate; un pulcino è più morbido di una spina. Abbiamo imparato

queste nozioni nel corso della nostra esistenza, ma non sappiamo dire quando, dove o da chi; è

un patrimonio di conoscenze generali che ciascuno di noi ha accumulato nel corso della propria

esistenza). A questa sfera di memoria appartengono anche quelle norme che costituiscono un

po’ le “regole del gioco della vita”: perdere queste conoscenze può provocare comportamenti

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inadeguati e “antisociali” nel malato. Il patrimonio di conoscenze generali è tanto più vasto

quanto più una persona è colta.

3. PROCEDURALE: insieme di azioni e di gesti da compiere per ottenere un determinato

risultato. Es.: guidare l’auto, scrivere, sciare, suonare il pianoforte, ma anche vestirsi,

camminare. Per imparare queste attività abbiamo impiegato diverso tempo ma ora le eseguiamo

in modo quasi automatico. Questo tipo di memoria è la più tenace, la più resistente.

E’ importante capire che

la memoria è il pilastro su cui regge tutta la nostra vita; senza memoria noi in un certo senso non

esistiamo, perché perdiamo la nostra storia, la nostra identità, la rappresentazione di noi stessi e del

mondo che ci circonda.» (Braghetto (a cura di), Assistenza a persone affette da malattia di

Alzheimer e demenze correlate, Opera Barelli, 1999, p.27)

IL RECUPERO DELL’INFORMAZIONE

Buona parte delle informazioni depositate nella Memoria a Lungo Termine sono ricordate

automaticamente.

Per altre informazioni è necessario possedere precisi indizi che ci consentano di localizzare e

ricordare. Un esempio ci è dato dall’effetto “sulla punta della lingua”: spesso basta un suggerimento

o un immagine mentale e ciò che volevamo ricordare ritorna subito accessibile.

Il ricordo può avvenire secondo quattro processi:

IL RICONOSCIMENTO: è il processo per cui riconosciamo un oggetto, qualcosa o

qualcuno già visto in precedenza (è il meccanismo che si utilizza maggiormente nelle

risposte ai quiz che richiedono di individuare la risposta tra varie possibilità);

IL RICHIAMO: consiste nel cercare le informazioni e i relativi indizi richiamandoli

direttamente dalla MLT.

Possono essere richiamate anche le modalità con le quali sono state acquisite informazioni;

si ha così la

RIEVOCAZIONE ;

RIAPPRENDIMENTO: tutti hanno constatato che cose apprese e poi dimenticate sono più

facili da imparare di quelle che si imparano ex novo, per la prima volta.

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L’OBLIO

Per oblio si intende la perdita di informazioni che ha luogo nella memoria. I modi in cui ciò

avviene e i fattori che lo influenzano sono diversi.

IL PASSARE DEL TEMPO. In generale più è lungo l’intervallo tra l’apprendimento e la

rievocazione, minore è la probabilità di ricordare qualcosa. Vi sono però molte eccezioni a

questa regola generale. Spesso si ricordano eventi accaduti in un momento di crisi, come la

morte di un amico o una situazione di pericolo, anche se si sono verificati molti anni prima. In

realtà la vividezza del ricordo di eventi del genere è sorprendente. D’altra parte, ci si può

dimenticare il nome di una persona che ci viene presentata prima ancora di finire di stringerle la

mano. Perciò, il trascorrere del tempo, da solo, non costituisce un indice affidabile della

possibilità di ricordare o no un fatto. Di maggior importanza sono: l’accuratezza con cui

l’informazione è stata appresa o codificata originariamente, ciò che accade all’individuo durante

il periodo di ritenzione e la situazione in cui avviene il recupero.

LA DISTRAZIONE E I PROBLEMI DI ATTENZIONE. E’ improbabile che ricordiate il

nome delle persone se non vi avete prestato attenzione al momento della presentazione. Né vi

sarà facile ricordare i dettagli dell’ultima lezione mentre state guidando in mezzo al traffico o

state cercando di ricordare qualcosa che non c’entra niente. C’è una differenza tra questi due

esempi. Le distrazioni che si presentano quando cercate di recuperare un’informazione, di

solito, disturbano la vostra memoria solo temporaneamente (probabilmente la lezione vi tornerà

in mente quando sarete a casa). Ma se siete stati distratti quando l’informazione vi è stata

presentata per la prima volta, potete trovarvi nella condizione di non ricordarla più; è come se

non fosse mai stata codificata. Perciò un fattore determinante del ricordo è costituito da ciò cui

si presta attenzione.

L’INTERFERENZA DI ALTRI RICORDI. La capacità di ricordare qualcosa può essere

menomata, o disturbata, dal ricordo di altre cose, in particolare se queste sono simili o legate

concettualmente al materiale da ricordare. Immaginate che un agente immobiliare vi abbia fatto

vedere un certo numero di case. Alla sera, ripensando a ciò che avete visto, potrebbe essere

difficile ricordare le caratteristiche di ogni singola casa, arrivando ad attribuire una caratteristica

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di una casa ad un’altra casa. Quanto più sono simili le case visitate e quanto più è elevato il loro

numero, tanto più è possibile incontrare delle difficoltà nel ricordarle senza confondere le loro

caratteristiche.

FATTORI EMOZIONALI. In genere crediamo di ricordare con maggior vividezza gli eventi

caratterizzati da un forte vissuto emotivo. I momenti di grande gioia o eccitazione, di pena o

travaglio, sono spesso fortemente impressi nella nostra memoria. E’ anche vero che questi

eventi sono quelli che ricordiamo con maggior frequenza e, in questo modo, si moltiplicano le

occasioni per ripetere l’accaduto e fissarlo nella memoria. Inoltre i fatti in cui siamo

emotivamente coinvolti hanno la capacità di attirare la nostra attenzione, annullando tutto ciò

che può distrarci.

Va detto, tuttavia, che quando concentriamo l’attenzione sulle nostre emozioni tendiamo a

trascurare altri tipi di informazione. Per esempio, uno stato di grande ansietà può impedire di

seguire una lezione: uno studente può trascorrere tutta la lezione guardando fuori dalla finestra,

assorto nei suoi problemi.

Secondo Freud, inoltre, molte delle dimenticanze, apparentemente innocenti (come i lapsus),

che si possono verificare durante la vita quotidiana, sono in realtà delle dimenticanze motivate,

cioè il prodotto di motivazioni ed emozioni inconsce. Dimenticare le chiavi dell’auto a casa

potrebbe indicare il fatto di non volersi recare al lavoro; dimenticarsi l’appuntamento con una

determinata persona potrebbe voler dire inconsciamente che si prova un sentimento di

avversione nei suoi confronti.

I problemi emotivi possono far dimenticare gli eventi che per una persona sono spiacevoli da

ricordare. Se il dolore è stato molto grande, l’oblio può essere praticamente totale e così una

madre, ad esempio, si ritrova incapace di ricordare tutto ciò che è accaduto il giorno in cui il

figlio è morto in un incidente

CAUSE ORGANICHE. Alcuni tipi di oblio hanno all’origine delle cause organiche. Le

amnesie organiche di solito sono la conseguenza di danni cerebrali, provocati da malattie,

traumi cranici o interventi chirurgici al cervello. Per esempio, nel morbo di Alzheimer, come

abbiamo già visto, la memoria è una delle funzioni cognitive che viene seriamente danneggiata.

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Se la perdita della memoria è limitata ai fatti successivi al danno cerebrale, si parla di amnesia

anterograda; se la perdita riguarda, invece, i fatti accaduti in precedenza, si parla di amnesia

retrograda.

La psicosi di Korsakoff è una malattia associata all’alcolismo cronico e alla conseguente

malnutrizione; essa causa danni cerebrali permanenti. Di solito, le persone che soffrono di

questa malattia sono caratterizzate da una certa amnesia retrograda, ma da una grave amnesia

anterograda, che li porta a non trattenere nuove informazioni per più di qualche minuto. E’

come iniziare sempre da capo, sorretti solo dai ricordi della propria vita anteriore alla malattia, e

a volte non tutti.

Le amnesie retrograde sono temporanee e sono spesso causate da un colpo alla testa:

solitamente con il passare del tempo i ricordi vengono recuperati, a partire dai più lontani nel

tempo. A volte, però, il ricordo degli eventi che hanno preceduto di poco l’evento traumatico

viene perduto per sempre.

CONCLUSIONI

In questo capitolo abbiamo affrontato il tema della memoria, cercando di illustrarne sia il

significato e l’importanza che ha per la vita di ogni persona – con particolare attenzione verso la

profonda sofferenza originata dal venir meno di tale funzione -, sia il funzionamento. Questo

secondo aspetto vorrebbe anche essere fonte di suggerimenti utili alla memorizzazione di sempre

nuove conoscenze.

DOMANDE GUIDA ALLO STUDIO

Che cosa si intende per memoria episodica, semantica e procedurale? Fa’ un esempio per ogni

tipo di memoria.

Principali cause dell’oblio.

Perché è importante la memoria in una persona?

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CAPITOLO 3

STEREOTIPI E PREGIUDIZI

Quando abbiamo studiato la percezione abbiamo sottolineato come la medesima realtà viene

percepita in modi diversi da persone diverse. Anche se le fonti sono le stesse, ognuno vive

l'esperienza in maniera diversa, recependo cose diverse".

Le medesime informazioni fisico-sociali possono venir interpretate spesso in molti modi

diversi. I rumori di una festa sono motivo di gioia per qualcuno, di fastidio per qualcun altro. Un

sorriso di simpatia sul volto di un amico può essere gradevole per qualcuno, ma sgradevole per un

altro che sperava di vedere un sorriso più ampio di benvenuto.

Sono questi i problemi empirici della percezione sociale, che si incontrano quando si cerca di

scoprire in quali modi, e sono molti, può essere recepita la stessa situazione stimolo.

LA CATEGORIZZAZIONE

Il processo di categorizzazione consiste nell'organizzare l'informazione che riceviamo

dall'ambiente secondo determinate modalità. Infatti noi tendiamo ad ignorare certe differenze tra

singoli oggetti, se questi oggetti sono equivalenti l'uno all'altro per determinati scopi, come ad

esempio sgabelli, poltrone o sedie, nel momento in cui vogliamo sederci. Allo stesso tempo

ignoriamo certe somiglianze, se esse sono irrilevanti per i nostri scopi, se nascondono una

mancanza di equivalenza, per quanto concerne le nostre azioni, credenze, atteggiamenti intenzioni o

sentimenti. Per esempio, quando vogliamo individuare un amico in una folla, uno strumento in

un’orchestra, un sorriso amichevole da uno ironico. Senza queste due modalità di organizzazione

non sono possibili reazioni adeguate a quanto accade nell'ambiente o un’adeguata azione su di esso.

Dunque la funzione principale della categorizzazione consiste in un ruolo strumentale di

sistematizzazione dell'ambiente finalizzata all'azione, un processo di semplificazione e di

riordinamento mentale del mondo fisico e sociale.

E’ l'insieme dei processi che «tendono ad ordinare l'ambiente in termini di categorie: gruppi

di persone, di oggetti, di avvenimenti, nella misura in cui essi sono o simili o equivalenti tra loro in

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- 18 –

rapporto all'azione, alle intenzioni o agli atteggiamenti di un individuo. Per far ciò sono

indispensabili delle semplificazioni onde rendere accessibile ai nostri schemi cognitivo l'immenso

materiale informativo che ci viene offerto dall'esterno. Le conseguenze comportate da questo

processo di raggruppamento sono essenzialmente due:

a) Una tendenza ad accentuare le differenze tra persone e oggetti appartenenti a categorie

diverse;

b) Una tendenza a minimizzare le differenze tra persone e oggetti che appartengono alla

stessa categoria.

Questo processo è legato a fenomeni sottostanti alla formazione degli stereotipi. Così

valutando una persona che si conosce poco, si tenderà ad attribuirle le caratteristiche personali della

categoria in cui la si colloca.

GLI STEREOTIPI

Spesso collocare le persone e gli oggetti entro categorie è un'esigenza di ordine cognitivo

per evitare lo sforzo di ripartire da zero ogni volta che si prende in considerazione un nuovo

stimolo. E' prassi comune cercare di collocare ogni nuovo evento entro una delle categorie che già

possediamo nel bagaglio delle conoscenze che abbiamo acquisito nel corso della socializzazione. In

tal modo viene ridotta la quantità di energia psichica spesa per affrontare i problemi di tipo già

conosciuto ed essa può venire meglio impiegata per l'approccio a quesiti di nuovo tipo.

Tale processo, anche se vantaggioso per l'economia psichica, è anche la strada più sicura per

arrivare ad una certa inerzia nei processi cognitivi, la quale diminuirà la nostra capacità di

considerare le persone che incontriamo come portatrici di caratteristiche personali e come

individualità ben diverse le une dalle altre, la cui definizione non può essere costretta entro

categorie prestabilite. Se ciò avvenisse comporterebbe l'attribuzione di un comune profilo di

personalità a tutte le persone che, per una certa caratteristica che le accomuna (età, sesso,

professione) vengono riunite entro un unica categoria. Si viene cosi a creare lo stereotipo.

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Lo stereotipo e’ quindi uno dei fattori che guidano la percezione. Riuscire a cogliere il

significato di un comportamento, attribuire alle persone intenzioni, capacità, desideri, è senza

dubbio il risultato di un processo estremamente complesso, anche se nella maggior parte dei casi di

tipo inconsapevole. Nel tentativo di andare al di là dell’informazione data, l’individuo tende a

collocare gli esemplari di persone e di azioni entro classi e categorie che gli permettono di

semplificare e organizzare la complessità delle esperienze sociali. Un primo tipo di inferenza è

quella che si produce allorché le persone possiedono delle informazioni riguardanti uno o più

esemplari di una certa categoria e, mediante un processo di generalizzazione, attribuiscono alla

categoria di appartenenza le caratteristiche riscontrate nei singoli esemplari. Andamento inverso

hanno invece quelle inferenze che consentono alle persone di attribuire le caratteristiche di una

categoria sociale ai membri che ad essa appartengono.

Ad esempio, conosciuta l’appartenenza di un individuo ad un determinato gruppo (razziale,

etnico, religioso, professionale, sessuale) gli vengono automaticamente attribuiti tratti,

comportamenti, qualità distintive del gruppo di appartenenza.

Gli stereotipi possono essere formulali da qualunque individuo ed essere riferiti a qualunque

oggetto o categoria di oggetti; nel campo delle scienze sociali, tuttavia, come già accennato, hanno

particolare importanza quelli che un gruppo sociale crea e condivide nei riguardi di un altro gruppo

sociale: gruppi razziali, nazionali, sessi, classi sociali, classi di età, professioni, ecc.

Le molte definizioni formulate da studiosi e ricercatori concordano nel ritenere lo

"stereotipo" una credenza socialmente condivisa, articolata in un insieme di caratteristiche attribuite

ad una categoria di persone e formulata secondo criteri "non scientifici". Il termine stereotipo nasce

in tipografia e indicava quello stampo di cartapesta entro cui veniva fatto colare il piombo fuso che

riproduceva la pagina stampata e che poteva essere impiegato un numero illimitato di volte. Queste

caratteristiche di fissità, rigidità, ripetitività, che sono delle proprietà fisiche degli stereotipi

tipografici, indicheranno in seguito gli elementi distintivi di alcuni quadri sintomatici connessi a

gravi patologie psichiche.

Sarà un giornalista americano, W. Lippmann, a utilizzare per la prima volta, nel 1922, il

termine stereotipo in un libro in cui analizzava i processi di formazione e di diffusione di quei

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sistemi di credenze, che costituiscono l’opinione pubblica e di quelle strutture di semplificazione,

chiamate appunto da lui, per la prima volta, stereotipi.

Ecco come un gioco, tratto da “Arte di ascoltare e mondi possibili”, di Marianella Sclavi,

può aiutarci a capire come tutti noi abbiamo degli stereotipi.

Storia.

La terra sta morendo. Unica possibilità di salvezza, una navicella spaziale con sette posti

che sta per partire per un altro pianeta. Intorno alla navicella vi sono undici persone che aspirano

a partire. Voi vi trovate nella posizione di dover scegliere le sette che partiranno e costituiranno

il primo nucleo di una nuova civiltà. Di loro sappiamo pochissimo, come vedremo, quasi niente,

e tuttavia su queste basi dovete scegliere e anche rapidamente, altrimenti nessuno rimarrà in vita.

Adesso dividete il vostro foglio in tre colonne verticali; in alto nella prima scrivete:

"candidati", sulla seconda: "sì" e sulla terza "no", non parte. Per ognuno dovete decidere se parte

o no e usare lo spazio relativo per giustificare in poche parole la vostra scelta; cioè in base a

quali considerazioni avete preso quella decisione. Poi per ogni candidato vedremo se prevale il

sì o il no. Le informazioni che abbiamo sono le seguenti:

1. Militante nero, 2. Poliziotto con fucile, 3. Atleta, 4. Architetto, 5. Cuoca, 6.

Falegname cieco, 7. Dottoressa, 8. Prostituta, 9. Ragazza di sedici anni incinta, 10. Musicista

gay, 11. Sacerdote.

Inutile far domande, questo è tutto quel che sappiamo. Dieci minuti di tempo.

Trascorsi i dieci minuti e riprodotto alla lavagna lo schema generale, si fa la conta. Per

ogni candidato si chiede quanti sono per il sì e quanti per il no. Poi si annotano le

considerazioni alla base di queste scelte. A titolo illustrativo riporto i risultati del corso del

1997 - 98 per l'unico motivo che me li ritrovo sottomano. Era una classe composta da

un'ottantina di studenti, grosso modo metà maschi e metà femmine.

Partono:

- l'atleta (ragazzo giovane, corpo robusto, riproduzione della specie);

- l'architetto (capacità progettuale, coordinazione, senso pratico; tenete conto che

siamo alla Facoltà di Architettura...);

- la cuoca (perché donna e per il valore di mangiare bene);

- la ragazza di sedici anni incinta (due piccioni con una fava; perché donna e

giovane);

- il musicista gay (la musica, la tolleranza, la varietà);

- la dottoressa (per curare e prevenire le malattie);

- il sacerdote (guida spirituale, supporto psicologico).

Rimangono a terra:

- il militante nero (la parola "militante" è sospetta, segno di mentalità settaria e rigida,

alcuni l'hanno inteso come fascista);

- il poliziotto con fucile (più che altro per il fucile, che potrebbe diventare uno

strumento di potere);

- la prostituta (non ha una competenza specifica; idea di malattia e promiscuità);

- il falegname cieco (falegname sarebbe utile, ma la cecità è un grande handicap in un

nuovo mondo tutto da costruire).

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Quando la navicella con i passeggeri da noi prescelti sta già viaggiando verso il nuovo

mondo, ci arriva un secondo documento, con informazioni più dettagliate su ognuno dei

candidati. Leggiamole.

- Il militante nero è un pacifista, esperto in non violenza e gestione creativa dei

conflitti.

- II poliziotto con fucile è un giovane e atletico leader dei Boy Scout, uno che

userebbe il fucile unicamente per procurare il cibo con la caccia.

- L'atleta è una donna di settant'anni che ha vinto le Olimpiadi delle" Grey Panthers" .

- L'architetto mangia solo rape rosse, pianta che non sembra crescere nel nuovo

pianeta.

- La cuoca ha lavorato unicamente nel carcere di Sing Sing e ha imparato a cucinare

solo quel tipo di pietanze.

- La prostituta è un'ottima cuoca, giovane, allegra e gode di ottima salute.

- La ragazza di sedici anni ha l'Aids.

- Il musicista gay sa suonare solo i piatti.

- Il falegname cieco è un famoso maestro delle costruzioni in legno e sarebbe in grado

di insegnare queste rare abilità a chiunque.

- La dottoressa è una laureata in legge, dirigente della Pubblica amministrazione

- Il sacerdote è il capo di una setta fondamentalista musulmana.

Reazioni degli studenti durante questa lettura: ilarità mista a sconcerto.

Dunque il "trucco" consiste nel proporre immagini divertenti e opposte a quelle alle

quali la maggioranza di voi si è affidata per compiere la scelta. Il gioco esige non solo che i

partecipanti producano stereotipi, ma che si affidino a questi stereotipi per le decisioni

successive. Che li diano per scontati. Questa fiducia viene stravolta dalle informazioni

successive. Noi adesso useremo questa esperienza di "spiazzamento" per riflettere su cosa

facciamo quando produciamo degli stereotipi e quando li usiamo per interpretare il mondo che ci

circonda.

Queste specifiche esperienze ci consentono di riflettere su cosa facciamo quando:

l. produciamo stereotipi

2. ci affidiamo a essi per interpretare la realtà.

Un buon osservatore deve infatti sapere come nascono gli stereotipi, a cosa servono

e non deve mai dare per scontato che essi siano delle rappresentazioni accurate della

realtà.

Cioè, deve fare il contrario di quello che questo gioco vi ha costretto a fare.

In particolare, questo gioco vi ha costretto:

a. Ad operare a partire da "astrazioni indeterminate", cioè sulla base di informazioni

insufficienti a orientare la produzione di immagini concrete. Ma voi queste immagini concrete le

avete prodotte automaticamente e senza rendervene conto, perché altrimenti non potevate

prendere le decisioni che il gioco richiedeva.

b. Ad operare in termini di "urgenza classificatoria".

c. A non tener conto dei "casi particolari".

1. Astrazioni indeterminate. Per ogni parola siamo stati costretti a chiederci: "Qual è il

suo significato più convenzionale?" e "Qual è l'immagine più convenzionale connessa con

questo significato?". Di conseguenza nel leggere la parola "atleta" ci è venuto in mente un

maschio giovane e nerboruto. Ma questo non era "nella parola", non è che quella parola “ha”

quel significato, siamo noi che abbiamo evocato quel significato nell'atto di interpretarla alla

luce della situazione in cui ci trovavamo e del problema che ci assillava.

“Atleta” per un cinese che non conosce l'italiano non è "una parola”, è un segno grafico.

A noi che conosciamo l'italiano, fa venire in mente prima di tutto il suo significato da dizionario:

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"chi pratica qualsiasi sport", "persona di grande forza e destrezza fisica”. Dunque anche questa

informazione pur così astratta e generale non è contenuta nel segno grafico, nasce dal rapporto

fra noi in quanto cresciuti in un certo ambiente linguistico e quel segno.

Il dizionario ci dà delle classificazioni puramente analitiche, i caratteri che tutti gli

elementi di un insieme devono avere in comune per far parte di quell'insieme. Una

classificazione analitica è un'astrazione indeterminata, dentro possiamo metterci di tutto: da mio

fratello che ha vinto molte gare di nuoto e di tiro a segno, a me stessa quando facevo salto in

alto, a nomi di atleti famosi, all'olimpionica di settant'anni delle "Grey Panthers". Potrebbe

anche essere una persona che vince le gare per portatori di handicap. Su queste basi non potevate

decidere niente e quindi, automaticamente, fra le innumerevoli possibilità, avete scelto e

prodotto quell'immagine che più spesso nella nostra società viene tipicamente associata a quella

parola, quella di un maschio giovane, prestante e nerboruto. Pensate a quanto vi siete dati da

fare, quanti tratti generali e particolari avete dovuto aggiungere. Probabilmente quel giovanotto

aveva pure un'aria serena e determinata, consapevole della propria vitalità. Avete dovuto

immaginare un "tipico atleta", cioè lo "stereotipo" dell'atleta e poi operare come se si trattasse di

una persona concreta, viva e vegeta.

2. Parole, contesti, e metafore. Se in un ufficio comunale ci dicono: "Deve parlare con

la dottoressa” interpreteremo normalmente questa parola nel senso della dirigente di

quell'ufficio. Se siamo in una corsia di ospedale o se siamo ammalati, la stessa parola evocherà

un'immagine diversa.

Di fronte a gesti e parole isolati (come in questo gioco) non ci resta altro che ricorrere ad

associazioni meccaniche: o la prima associazione che ci viene in mente o le associazioni che

valgono comunemente in una certa cultura.

In questo gioco dovevate prendere una decisione collettiva in una condizione di scarsità

di informazioni tale che vi obbligava ad affidarvi agli stereotipi dominanti o che ritenevate tali.

Ma questi stereotipi non sono qualcosa di "oggettivo", sono delle costruzioni al tempo stesso

sociali e arbitrarie.

3. Urgenza classificatoria. Qui viene a proposito la favola degli undici indiani ciechi e

l'elefante.

Agli undici indiani ciechi era stato posto questo quesito: "Che cos'è in realtà un

elefante?". Il primo prende in mano la coda e risponde: "Un elefante è qualcosa che assomiglia a

un serpente lungo e sinuoso". Il secondo tocca una gamba: "Un elefante assomiglia a un tronco

di un albero ruvido e solido". E così via.

Questa favola di solito viene usata per illustrare un concetto importante e cioè che non è

possibile risalire al tutto in base alla conoscenza delle parti. Il tutto non è riducibile alla somma

delle singole parti. Per arrivare al tutto dobbiamo guardare come le parti sono connesse fra loro e

quindi vedere ogni parte non isolatamente, ma nelle sue connessioni con tutte le altre.

Ma la stessa storia - come fa notare Don Idhe - è utilizzabile anche per illustrare le

dinamiche dell'urgenza classificatoria. Palpare la ruvida, pelosa e ossuta coda dell'elefante è una

esperienza molto diversa dal toccare il corpo liscio, squamoso e molle di un serpente. Le

descrizioni degli indiani sono sciatte, basate su similitudini e credenze tradizionali piuttosto che

su una cauta e meticolosa analisi della loro esperienza.

Può darsi benissimo che la prima immagine che ci viene in mente, toccando la coda, sia

quella del serpente. Ma appunto, "l'osservazione" inizia qui. Inizia prestando attenzione a tutti

quei particolari "marginali e irritanti" i quali potrebbero, se esaminati meglio, cambiare o

almeno mettere in dubbio quella immagine.

Questi indiani hanno troppa fretta di arrivare alle conclusioni sia rispetto al

fenomeno particolare che stanno esaminando, che rispetto al "tutto" di cui quel particolare è

parte. In questo senso sono "ciechi" non solo fisicamente, ma prima ancora mentalmente. E per

"mentalmente" intendo in questo caso anche e soprattutto emotivamente e socialmente.

Il contrario dell'urgenza classificatoria è infatti la capacità di convivere col disagio

dell'incertezza, di sopportare l'esplorazione prolungata e paziente; il rendersi disponibili e anche

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divertirsi non solo all'inizio, ma durante tutto il processo ad accogliere lo sconcerto e

disorientamento. Gli indiani ciechi ignorano queste dinamiche, le evitano e si accontentano delle

“prime impressioni”, delle “prime immagini” che vengono loro in mente.

Questo comportamento degli indiani illustra molto bene quello che anche noi facciamo

quando nella vita quotidiana ci affidiamo acriticamente agli stereotipi (pagg. 48-53).

LO STEREOTIPO NEI CONFRONTI DEGLI ANZIANI

Ho ritenuto opportuno affrontare il problema dello stereotipo in relazione alla condizione

dell'anziano, poiché è risaputo che certe caratteristiche vengono ritenute tipiche dell'anziano con

una frequenza che travalica un reale riscontro nella realtà. Comunque quello che più interessa non è

già il semplice rilievo dell'esistenza dello stereotipo, ma piuttosto il valutarne le funzioni, le

conseguenze, dal punto di vista psicologico e sociale.

Come abbiamo già visto, alla base del meccanismo della stereotipizzazione vi è una ingiusta

e spesso errata generalizzazione a tutto un gruppo di caratteristiche riscontrate in un sottogruppo.

Consideriamo, ad esempio, la classe “Anziani", all'interno di essa definiamo delle

sottoclassi:

a. anziani malati,

b. anziani inerti

c. anziani socievoli

Poi compiano un'operazione di moltiplicazione trattando le quattro classi come identiche tra

di loro; allora risulterà che gli anziani sono malati, inerti, socievoli. E' facile vedere come il

risultato di questa procedura non sia attendibile.

Così la vecchiaia è vista come una patologia sociale o come un comportamento antisociale:

diventare vecchi può voler dire diventare ostili, vendicativi, oppure nei casi più gravi può

significare cadere in una psicopatologia del comportamento (demenza senile, demenza

arteriosclerotica).

Un tale pericolo può presentarsi nelle indagini psicologiche sull'anziano, ossia quello di

oggettivizzarlo perdendone di vista i referenti sociali ed umani e quindi psicologici del suo essere.

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La suddivisione della vita dell'uomo a compartimenti stagni è indice di una operazione di

spezzettamento e di oggettivazione che viene agita sull'uomo. Si fanno studi sulla prima infanzia,

sulla seconda infanzia, sull'adolescenza e così via, fino a giungere a studiare la vecchiaia; per

ognuna di queste epoche vengono individuate delle caratteristiche precise e dei parametri per

valutarne l'adattamento e la maturità. In questo modo vengono create delle categorie di riferimento

facilmente accessibili, ma una completa ed acritica fiducia in tali categorie le rende prescrittive, nel

senso che l'individuo può sentire l'esperienza della sua vita come maggiormente valida quando

coincide proprio con queste schematizzazioni.

La frammentazione dell'individuo accade ogni qual volta viene spezzettato il corso della sua

esistenza o il significato delle sue esperienze che vengono poi collocate dentro delle caselle di pura

speculazione scientifica.

Così la suddivisione della vita per età, che originariamente corrispondeva ad una esigenza di

tipo tassonomico simile a quella che ha portato alla classificazione dei vegetali e dei minerali a

seconda delle loro proprietà, ha avuto come conseguenza di convincere le persone che la loro vita

passa proprio attraverso questi compartimenti e ciò viene legittimato ogni volta che si affronta una

ricerca su uno di questi periodi. In questo modo si conferma l'esistenza della realtà della giovinezza,

della maturità e della vecchiaia come periodi ben distinti.

Ma è più giusto pensare che per ogni persona la vita dovrebbe essere un tutt'uno in cui non si

avvertono queste frammentazioni, a meno che non si convincano gli individui a confermare

l'esistenza in loro di queste realtà.

Fino a qualche tempo fa la maggior parte delle ricerche condotte su persone anziane si

basavano su campioni tratti da "Case di Soggiorno per Anziani" o cronicari, quindi su campioni

rappresentativi di una realtà anomala e particolarmente stigmatizzata. Non stupisce quindi che i

risultati di tali ricerche fossero in gran parte atti a confermare certi stereotipi. Tali indagini

riscontravano negli anziani una diminuzione delle capacità intellettuali, fisiche e motorie, nonché un

disinteresse per ogni tipo di nuovo apprendimento e di partecipazione alla vita comunitaria.

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I risultati ottenuti con questi tipi di indagini venivano poi estesi a tutte le persone anziane,

attuando così un errore di ipergeneralizzazione che andava ad incrementare un stereotipo negativo

nei riguardi della vecchiaia.

GLI ATTEGGIAMENTI VERSO GLI ANZIANI

Ogni corretta soluzione del problema degli anziani è connessa in modo determinante

all’orientamento psicologico e operativo che la società assume consapevolmente e

inconsapevolmente verso di esso.

Nella società contemporanea è possibile rilevare la presenza di due tendenze apparentemente

contraddittorie, che si configurano in atteggiamenti e comportamenti diversi: la tendenza verso la

rimozione, l'eliminazione degli anziani dalla sfera di coscienza, e la tendenza verso la

commiserazione e l'assistenza. Questi atteggiamenti, che si rivelano anche nel modo in cui la

società cerca di risolvere il problema degli anziani, o almeno di quegli anziani che sono diventati

estranei all’attività produttiva, esprimono in effetti lo stesso fondamento di aggressività, non tanto

verso i vecchi quanto verso la vecchiaia e verso la morte, non tanto verso gli altri quanto verso se

stessi.

Questo orientamento è influenzato anche da pregiudizi, da stereotipi sociali, da opinioni non

fondate, da ignoranza circa i fenomeni biologici e quelli psichici dell'uomo che invecchia, dal

rifiuto di tutto ciò che non è piacevole, da fattori connessi alla immaturità e all’insufficienza

culturale.

Risultati di numerose ricerche condotte dagli anni '50 ad oggi possono essere sintetizzati in

tre affermazioni fondamentali:

1. L'immagine dell’anziano è sostanzialmente negativa e sostenuta da stereotipi e

generalizzazioni arbitrarie;

2. L'immagine è tanto più negativa e restrittiva quanto più giovane è colui che giudica;

3. L'immagine dipende anche dalla situazione esistenziale: migliore se l'anziano è in buona

salute e fruisce di uno stato d'animo positivo, e se il giudicante ha convissuto con anziani; peggiore

se chi giudica è autoritario, pessimista, esistenzialmente disorientato.

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IL PREGIUDIZIO

Il termine, derivato dal latino "praejudicium", ha subito nell'uso comune un cambiamento di

significato attraverso i tempi; il senso originale era quello di giudizio basato su precedenti, su

esperienze e decisioni già sperimentate; successivamente, acquisì il senso del giudizio aprioristico,

formulato prima dell'esame e senza la considerazione dei fatti; infine, a questo secondo

significato venne associata anche la connotazione emozionale di favore e sfavore che accompagna

il giudizio aprioristico. Quest'ultimo è anche il significato con cui il termine viene generalmente

utilizzato nelle scienze sociali.

Nel pregiudizio si possono individuare tre componenti:

a) cognitiva: credenze relative all'oggetto dell'atteggiamento, tra cui particolarmente

importanti le credenze valutative, che compartano la attribuzione all'oggetto di qualità

favorevoli o sfavorevoli;

b) affettiva: sentimenti positivi o negativi nei confronti dell'oggetto dell'atteggiamento;

c) attiva: disponibilità a intraprendere un'azione a favore o contro.

Gli stereotipi rappresentano le componenti cognitive dei pregiudizi, poiché definiscono le

caratteristiche possedute dai gruppi verso i quali si nutre il pregiudizio. Un atteggiamento negativo,

pregiudizievole verso un gruppo ha bisogno di essere giustificato, e sono proprio gli stereotipi che

forniscono tali giustificazioni, in quanto sono delle entità razionalizzatrici del nostro

comportamento.

Sovente il pregiudizio si applica a eventi o persone che sentiamo diversi da noi, e questo in

fondo ha una giustificazione e persino una propria dignità. Ciò che conosciamo, infatti, ci rende

inquieti, evoca un bisogno di spiegazioni comunque sia, purché capaci di abbassare la nostra ansia

dell’ignoto.

Le origini di un pregiudizio possono essere di natura psicologica, economica o storica, ma

l'atteggiamento che indirizziamo verso il gruppo vittima viene giustificato in modo più

semplicistico e cioè attribuendogli caratteristiche negative.

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Tali caratteristiche vengono riunite insieme per formare lo stereotipo che accompagnerà quel

ruolo ed in tal modo ci sentiremo autorizzati ad emarginare le persone che ne fanno parte.

Se, ad esempio, un adulto non riesce a trovare lavoro, oppure non riesce a migliorare la sua

condizione lavorativa, può attribuire queste sue difficoltà anche al fatto che i posti di lavoro migliori

sono occupati dalle persone che hanno molti anni di anzianità nell'azienda e che molti di loro

continuano a lavorare anche dopo l'età del pensionamento, limitando in tal modo il numero di posti

di lavoro che si rendono liberi. Egli avvertirà un'intensa avversione verso i colleghi anziani, e

svilupperà un atteggiamento pregiudizievole nei loro confronti. E' evidente che le cause delle

difficoltà sul lavoro non dipenderanno dall'elevato numero di lavoratori anziani, ma piuttosto

saranno dovute ad una inadeguata ripartizione del lavoro tra tutte le forze disponibili. Tuttavia per

avvertire come legittimo l'astio verso gli anziani si incomincerà ad assegnare loro attributi negativi,

si dirà che sono poco produttivi e incapaci e così si costruirà uno stereotipo che accompagnerà la

realtà della vecchiaia ed autorizzerà quella persona a nutrire astio verso di essa.

Racconta Marianella Sclavi:

Una delle mie prime ricerche sul campo come parte di una più ampia équipe,

riguardava la raccolta di storie di vita di giovani dei quartieri "ricchi" e "poveri" a Roma.

Era un tema che mi interessava moltissimo. Ma i giovani "ricchi" che mi sono capitati

erano per la maggioranza appartenenti a gruppi di estrema destra e io ho avuto enormi

difficoltà a stabilire con loro quei rapporti che ci avrebbero consentito di sentirci

pienamente a nostro agio e di collaborare attivamente e lietamente. Infatti, non ci sono

riuscita. C'era una differenza abissale fra i colloqui con gli altri giovani e con questi.

Dagli uni ottenevo solo dei racconti smozzicati, dagli altri una quantità incredibile di

esperienze dettagliate narrate con reciproca soddisfazione e divertimento. Con i primi

ero bloccata sulle mie tipizzazioni e stereotipi e questo, sebbene cercassi di nasconderlo,

si rifletteva nel mio modo di ascoltare e nelle domande che facevo; con i secondi ero

un'esploratrice di mondi possibili e dopo un po' lo diventavano anche loro.

Ho riflettuto molto su questo mio blocco e alla fine ho preso una decisione che

poi ho adottato in situazioni analoghe e ha funzionato bene.

È questa. Quando mi capita di dover intervistare una persona verso la quale ho

dei radicati pregiudizi (relativi al ruolo che svolge, al suo carattere, alla sua fama morale

o altro) prima di recarmi al suo cospetto cerco di immaginare una persona che conosco

che, pur avendo anche quelle caratteristiche, mi è simpatica o se questa non esiste, me la

invento o attingo a dei personaggi della letteratura o altro. Shakespeare per esempio va

benissimo, una si immagina Riccardo III o Lady Macbeth, così repellenti ma così

complessi e affascinanti, e non ha più paura di niente. Questo non implica che dobbiamo

fingere di essere diversi da quello che siamo.

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Si tratta di diventare più flessibili e aperti, senza fretta di arrivare alle

conclusioni. Non è la sostituzione di uno stereotipo con un altro; è una sovrapposizione

che ci rende più avveduti e disposti ad accogliere particolari che giudicheremmo

marginali e irritanti, a vedere "le stesse cose" anche da altri punti di vista. (ibidem, pag

54 - 55)

Ecco allora che nell'individuare le caratteristiche (e quindi i bisogni) dell'anziano e di

qualsiasi utente è necessario che l'operatore sia consapevole delle distorsioni percettive causate sia

da stereotipi e pregiudizi, sia dai bisogni e dagli affetti dell'operatore stesso.

A tal fine è bene ricordare e sottolineare come sia fondamentale nell’instaurare una relazione

professionale di assistenza l’attivare un atteggiamento di osservazione e di ascolto attivo, in

modo da uscire dalle cornici di cui siamo parte e dagli schemi che ci siamo costruiti. Marianella

Sclavi, nel suo libro, che abbiamo più volte citato, individua le sette regole dell’arte di ascoltare,

qui di seguito riportate, che vogliono essere un’indicazione su come impedire che stereotipi e

pregiudizi non permettano l’accoglienza e l’accettazione incondizionata che ogni persona desidera

per sé e che noi stessi chiediamo continuamente a chi ci incontra.

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- 29 –

LE SETTE REGOLE

DELL'ARTE DI ASCOLTARE

11.. NON AVERE FRETTA DI ARRIVARE A DELLE CONCLUSIONI. LE CONCLUSIONI SONO LA

PARTE PIÙ EFFIMERA DELLA RICERCA.

22.. QUEL CHE VEDI DIPENDE DAL TUO PUNTO DI VISTA. PER RIUSCIRE A VEDERE IL TUO

PUNTO DI VISTA, DEVI CAMBIARE PUNTO DI VISTA.

33.. SE VUOI COMPRENDERE QUEL CHE UN ALTRO STA DICENDO, DEVI ASSUMERE CHE HA

RAGIONE E CHIEDERGLI DI AIUTARTI A VEDERE LE COSE E GLI EVENTI DALLA SUA

PROSPETTIVA.

44.. LE EMOZIONI SONO DEGLI STRUMENTI CONOSCITIVI FONDAMENTALI, SE SAI

COMPRENDERE IL LORO LINGUAGGIO. NON TI INFORMANO SU COSA VEDI, MA SU

COME GUARDI. IL LORO CODICE È RELAZIONALE E ANALOGICO.

55.. UN BUON ASCOLTATORE È UN ESPLORATORE DI MONDI POSSIBILI. I SEGNALI PIÙ

IMPORTANTI PER LUI SONO QUELLI CHE SI PRESENTANO ALLA COSCIENZA COME

TRASCURABILI E FASTIDIOSI, MARGINALI E IRRITANTI, PERCHÈ INCONGRUENTI CON

LE PROPRIE CERTEZZE.

66.. UN BUON ASCOLTATORE ACCOGLIE VOLENTIERI I PARADOSSI DEL PENSIERO E DELLA

COMUNICAZIONE. AFFRONTA I DISSENSI COME OCCASIONI PER ESERCITARSI IN UN

CAMPO CHE LO APPASSIONA: LA GESTIONE CREATIVA DEI CONFLITTI.

77.. PER DIVENIRE ESPERTO NELL'ARTE DI ASCOLTARE DEVI ADOTTARE UNA

METODOLOGIA UMORISTICA. MA QUANDO HAI IMPARATO AD ASCOLTARE,

L'UMORISMO VIENE DA SÉ.

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CAPITOLO 4

LA RELAZIONE PROFESSIONALE DI ASSISTENZA

DEFINIZIONE DI RELAZIONE

Per relazione si intende il legame, il vincolo che si crea tra persona e persona. Ogni relazione

che viene ad instaurarsi tra due persone è un sistema, in quanto ognuno dei soggetti coinvolti

influenza l’altro attraverso parole e comportamenti e a sua volta ne rimane influenzato.

TIPI DI RELAZIONE

Si possono instaurare diversi tipi di relazione a seconda del livello di coinvolgimento

affettivo, degli obiettivi e del contesto in cui esse si attuano.

A. LA RELAZIONE SOCIALE

Per relazione sociale si intendono tutti quegli scambi che intercorrono tra persone che si

incontrano casualmente o abitualmente, ma che non sono caratterizzati da condivisione di

sentimenti di amicizia o da rapporti professionali. Sono condizionati dalle abitudini e dalla cultura

locale, dalla società in cui avvengono. E’ incontrare una persona in treno, o al supermercato o

abitualmente alla fermata dell’autobus.

Questo tipo di relazione è caratterizzata da:

una certa formalità

regole della “buona educazione”

cortesia

uso del lei

poca gestualità (stretta di mano)

B. LA RELAZIONE AMICALE

Per relazione amicale si intende il legame tra persone basato su affinità di sentimenti,

schiettezza, disinteresse e reciproca stima.

E’ caratterizzata da:

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scelta della persona con cui si vuole condividere un’amicizia

fedeltà

interessi comuni

disinteresse

familiarità

confidenza

affiatamento

intimità

affetto

stima

aiuto reciproco e paritario

simmetria

gestualità condivisa come abbraccio, bacio, …

condivisione di spazi (ci si può recare a casa dell’amico o invitarlo a casa propria)

condivisione di tempo (vacanze comuni, hobby, gite, shopping, chiacchierate)

gioco

complicità

C. LA RELAZIONE PARENTALE

Per relazione parentale si intende il rapporto che intercorre tra persone appartenenti alla

stessa famiglia o parentado: possono essere di diverse tipologie:

1. genitori / figli: caratterizzata da sentimenti di profondo affetto, di amore, dedizione,

responsabilità, cura, gestualità condivisa, condivisione di spazio e tempo per lunghi periodi,

autorevolezza, predilezione, …

2. figli / genitori: caratterizzata da sentimento di profondo affetto, dipendenza, cura,

gratitudine, stabilità, …

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3. moglie / marito: caratterizzata da sentimento di amore, forte intimità, sessualità,

progettualità, complicità, forte conoscenza reciproca, condivisione di spazio e tempo,

affinità, condivisione di esperienze,…

4. fratelli: caratterizzata da sentimento di profondo affetto, solidarietà, confidenza, confronto e

aiuto reciproco, consigli,….

D. LA RELAZIONE D’AIUTO

Per relazione d’aiuto si intende il processo di cambiamento che viene attivato e attuato

attraverso la relazione tra un operatore che ha acquisito una specifica formazione (psicologo,

assistente sociale,…) e una persona in stato di bisogno, malessere o disagio. E’ un processo che

porta ad una crescita della persona, che vive il disagio, proprio per mezzo della relazione e delle

risorse che da essa possono scaturire.

La relazione d’aiuto accompagna la persona che cerca aiuto a prendere coscienza del proprio

stato di disagio, per individuare delle possibili soluzioni e poter così prendere delle decisioni in

merito al possibile cambiamento.

E. LA RELAZIONE PROFESSIONALE DI ASSISTENZA

DELL’OPERATORE SOCIO SANITARIO:

La relazione professionale di assistenza è un processo di aiuto che si differenzia dai tipi di

relazione descritti finora, per la maggior parte delle caratteristiche, e per gli obiettivi che si pone. La

relazione professionale riguarda da vicino la figura dell’Operatore Socio-Sanitario, perché definisce

il particolare rapporto che è chiamato a instaurare e costruire con gli utenti che incontra nello

svolgere il proprio servizio di assistenza.

Per questo motivo, di seguito, l’argomento verrà trattato in modo approfondito.

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LA RELAZIONE PROFESSIONALE

DELL’OPERATORE SOCIO SANITARIO

Dalla definizione emerge con forza che la relazione professionale non può non rappresentare

lo sfondo, la trama, la base su cui costruire tutto il processo assistenziale: diventa uno strumento

fondamentale per l’operatore e per l’utente stesso, a patto che l’operatore se ne assuma la

responsabilità e l’iniziativa.

La relazione operatore/utente non può essere lasciata al caso o considerata un qualcosa che

nasce da sé, spontaneamente, senza alcun valore o importanza e in base alla buona disposizione o

volontà dell’utente. E’ un processo di aiuto messo in atto dall’operatore e finalizzato al

raggiungimento di alcuni obiettivi.

OBIETTIVI

DALLA DEFINIZIONE:

La relazione professionale è il processo di aiuto messo in atto dall’operatore, per consentire

all’utente di utilizzare l’aiuto offertogli al fine di mantenere, potenziare, valorizzare le sue risorse.

L’obiettivo della relazione operatore/utente può essere riassunto nello slogan: Lavorare con

l’utente e non sull’utente. E’ fare in modo che l’utente sia sempre più il protagonista del processo

di assistenza, che non può e non deve attuarsi senza la collaborazione dell’utente stesso. Non

LA RELAZIONE PROFESSIONALE DI ASSISTENZA È IL

PROCESSO DI AIUTO MESSO IN ATTO DALL’OPERATORE,

PER CONSENTIRE ALL’UTENTE DI UTILIZZARE L’AIUTO

OFFERTOGLI AL FINE DI MANTENERE, POTENZIARE,

VALORIZZARE LE SUE RISORSE. TALE RELAZIONE,

CARATTERIZZATA DA UNA FORTE INFLUENZA DEL

CONTESTO E DA UN RAPPORTO DI ASIMMETRIA TRA

OPERATORE/UTENTE, È FONDATA SUL DESIDERIO

DELL’OPERATORE DI AIUTARE L’UTENTE E SULLA

FIDUCIA DI QUEST’ULTIMO NELLA COMPETENZA E

CAPACITÀ DI COMPRENSIONE DELL’OPERATORE.

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sempre questo è facile: dobbiamo tenere presente che la persona assistita si trova in una situazione

di disagio e/o sofferenza, in cui spesso il supporto emotivo, affettivo, la condivisione di problemi,

sentimenti, tempi e spazi che veniva assicurato dalla rete familiare, amicale e sociale, è venuto

meno in modo più o meno definitivo. La persona è appena entrata in una struttura oppure vi è ospite

già da anni e non ha più contatti con persone esterne, oppure è in uno stato di malattia, o ha appena

subito la perdita di una persona cara, o sta attraversando un momento di difficoltà…

Ecco allora che l’operatore, ritrovandosi ad occupare spazi e ad essere presente nella vita di

queste persone, può mettere in atto una relazione in grado di offrire aiuto.

Si possono fornire diversi tipi di aiuto:

1. Sostegno emotivo: è permettere all’utente di esprimere le proprie emozioni, è offrire un clima

di accettazione incondizionata in modo che la persona possa mantenere la stima di sé. Si tratta

di dare spazio all’utente perché si possa aprire, comunicando le proprie difficoltà, i propri

bisogni, e, nel limite delle proprie competenze e risorse, attivarsi per il loro soddisfacimento.

2. Informazione: consiste nell’accompagnare ogni attività e intervento dando informazioni,

coinvolgendo l’utente. E’ permettere all’altro di partecipare e contribuire; è lavorare con

l’utente.

3. Aiuto strumentale: consiste nel fare concretamente qualcosa per l’altro, dall’aiutarlo a

mangiare, a lavarsi, a deambulare, al prendersi cura dell’ambiente in cui vive, sia esso l’alloggio

o la stanza di una struttura. “Limitarsi a dare questo tipo di aiuto al di fuori di un rapporto di

conoscenza e accettazione dell’altro riduce nella persona la stima di sé perché aumenta il senso

d’inutilità e dipendenza” (Saiani, Di Giulio, in Cavazzuti, Cremonini, Assistenza geriatrica

oggi, Ambrosiana, p. 86)

Se così articolata e integrata, la relazione può provocare un miglioramento nell’umore

dell’utente, contribuire a modificare l’atteggiamento verso l’aiuto che gli viene offerto, che non

viene quindi subìto, ma accolto e completato dalla collaborazione attiva dell’utente stesso.

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Può infatti portare ad un recupero o mantenimento dell’autostima, e aumentare così la

motivazione e la percezione di essere in grado di superare le difficoltà o la capacità di accettazione

della propria situazione senza sentirsi sminuito nella dignità.

CARATTERISTICHE

DALLA DEFINIZIONE:

Tale relazione è caratterizzata da una forte influenza del contesto e da un rapporto di

asimmetria tra operatore/utente.

“Che cosa distingue un qualsiasi rapporto interpersonale dal rapporto professionale tra

operatore e utente? Un elemento importante che deve essere tenuto in considerazione è il puntuale e

costante riferimento al contesto in cui il rapporto operatore/utente si verifica: il contesto

determinerà quindi l'obiettivo del rapporto, che diventa scambio interpersonale nel quale l’utente

collabora e l'operatore attivamente esercita la propria mansione.

Ciò si verifica solo se l’operatore tiene sempre presente che l'altro è un individuo in stato di

disagio/sofferenza/malattia e che nello specifico contesto in cui il rapporto si crea, l'operatore

svolge un ruolo ben determinato, all'interno del quale individua di volta in volta i propri spazi di

azione e i propri confini rispettando quelli dell'altro” (cfr. Manai - Siracusano, Appunti di

psicologia).

Altre caratteristiche:

“La relazione non è volontaria. Il rapporto, infatti, non si crea spontaneamente per libera

scelta di entrambi i membri e raramente è esclusivo (più operatori possono assistere,

alternandosi, lo stesso utente) ” (cfr. Manai – Siracusano).

“In questa specifica situazione, pur non essendo il rapporto affettivamente privilegiato,

l’operatore invade lo spazio vitale dell’utente (e non viceversa) sia fisicamente tramite il

contatto corporeo sia perché partecipa a momenti di vita che, in altri contesti, sono per principio

estremamente privati (sofferenza, paura, gioia, dolore, morte) ” (Manai – Siracusano).

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Esiste nel rapporto una evidente differenza di potere o asimmetria. La situazione asimmetrica

dipende dal fatto che l’utente si ritrova in una situazione in cui possiede minori risorse

dell’operatore: meno salute, serenità, relazioni affettive e contatti sociali,… L’operatore, invece,

si presenta come soggetto che ha una professionalità, delle competenze e delle risorse che

possono aiutare l’assistito a superare la situazione di disagio, di parziale incapacità e/o

impossibilità a compiere anche le più semplici attività della vita quotidiana. Inoltre, se la

relazione si attua all’interno di una istituzione, come ad esempio la Casa di Soggiorno, l’utente

può ritrovarsi a vivere una diminuzione di potere anche a livello decisionale e/o gestionale.

Quest’ultimo aspetto è molto importante e contiene in sé elementi oggettivi ed elementi

soggettivi. L’istituzione nasce e si organizza per raggiungere degli obiettivi che individualmente

non sono raggiungibili, ma che di fatto sovrastano gli obiettivi dei singoli dipendenti e degli

utenti che si avvalgono di essa: al suo interno vigono norme, regole, strutture e procedure che

permettono ad una collettività di interagire per raggiungere gli scopi prefissati. L’operatore che

lavora all’interno dell’organizzazione deve conoscere tali obiettivi, confrontarsi con essi e

adoperarsi per il loro raggiungimento.

Ecco allora che oggettivamente l’operatore si trova a vivere un rapporto di asimmetria nei

confronti dell’utente, in quanto rappresentante dell’organizzazione e garante, in un certo qual

modo, del suo funzionamento, che sicuramente in alcuni momenti non può non limitare la

libertà di azione dell’utente. Se l’ospite, inoltre, ha un’immagine soggettiva dell’istituzione

come di una entità che sovrasta in tutto e per tutto la propria capacità e possibilità decisionale,

può elaborare vissuti di annullamento o di passività e mostrare una dipendenza fisica e psichica

nei confronti dell’operatore, a cui delega completamente la propria gestione.

Va precisato, però, che l’asimmetria non è di per sé un elemento negativo, perché permette

all’operatore di mantenere la giusta distanza emotiva dall’utente, di rimanere all’interno del

proprio ruolo e di promuovere con autorevolezza (non con autoritarismo!) l’intervento

assistenziale necessario. La differenza nella relazione operatore /utente è solo ed esclusivamente

legata al ruolo e al rispettivo potere e competenza: non è di certo a livello di dignità e valore

delle persone coinvolte. La relazione da un punto di vista etico è totalmente paritaria.

Quindi la relazione professionale si differenzia da tutte le relazioni presentate

precedentemente, anche se racchiude in sé elementi comuni ad esse.

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In particolar modo:

si differenzia dalla relazione amicale perché non c’è la scelta reciproca e spontanea, anche se è

opportuno, laddove è possibile (ad esempio nelle Case di soggiorno e Strutture), tenere in

considerazione le affinità di carattere che si possono creare tra utente e operatore.

Si differenzia inoltre perché non c’è un rapporto di simmetria e di aiuto reciproco/paritario:

questo non significa che l’utente non possa arricchire o insegnare qualcosa all’operatore, ma lo

scambio non è sullo stesso livello. Non c’è confidenza reciproca: l’operatore può venire a

conoscenza di problematiche, vissuti, sentimenti, esperienze, bisogni, desideri, affetti, ma

questo tipo di condivisione è unidirezionale, accade solo dall’utente verso l’operatore, e non

viceversa.

Anche la condivisione di spazio e tempo segue la stessa direzione: l’operatore si trova ad entrare

in casa o nella stanza dell’utente, ad entrare in contatto con persone e oggetti cari alla persona

assistita, ma non può, anzi non deve accadere il contrario. Sarebbe scivolare su un piano, quello

amicale, che non va in accordo con il ruolo e il contesto in cui si verifica la relazione, arrivando

molto spesso a mettere in discussione e a vanificare il processo di aiuto fin lì attuato, oltre che a

generare nell’assistito disistima, vissuti di tradimento e sensi di colpa, nel momento in cui le

aspettative di intimità, condivisione, fedeltà, e confidenza vengono deluse dall’operatore.

Si differenzia dalle relazioni di tipo parentale, proprio perché gli obiettivi e il contesto sono

completamente diversi, anche se è vero che l’operatore deve avere degli atteggiamenti “come

se” fosse un padre e/o una madre. E’ necessario accostarsi all’utente con responsabilità,

dedizione, cura, ascolto, rispetto, come se si fosse un padre o una madre, ma facendo attenzione

a non essere madre, padre, fratello o sorella a livello affettivo e normativo.

C’è una differenza netta e a tutti livelli con la relazione marito/moglie: l’operatore deve fare

molta attenzione nell’uso della gestualità. Entrando in contatto con l’intimità della persona,

anche a livello fisico, si invade una parte dell’altro legata alla sessualità, che può emergere

come bisogno. Questo bisogno va sicuramente riconosciuto, ma ovviamente non soddisfatto

dall’operatore.

La relazione professionale si differenzia inoltre dalla relazione d’aiuto, perché non può avvalersi

degli strumenti, del contesto, inteso come setting, e delle competenze che sono necessarie per

attivare nell’utente un processo di auto-esplorazione, di individuazione di soluzioni e di

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conseguente cambiamento. La relazione professionale può collaborare ed essere sicuramente un

valido sostegno alla relazione d’aiuto.

CONDIZIONI E FONDAMENTA

DALLA DEFINIZIONE:

Tale relazione è fondata sul desiderio dell’operatore di aiutare l’utente e sulla fiducia di

quest’ultimo nella competenza e capacità di comprensione dell’operatore.

Per mettere in atto una relazione professionale di assistenza devono quindi essere presenti

alcune condizioni:

Il desiderio dell’operatore ad aiutare l’utente.

La motivazione dell’operatore al lavoro, inteso non solo come mezzo di sussistenza, ma anche

come strumento per l’espressione e la valorizzazione di sé e per la collaborazione al bene

comune.

La consapevolezza e la stima di sé.

L’accoglienza e la valorizzazione dell’altro, fondate sul riconoscimento che la persona e la vita

umana hanno una sacralità, una dignità ed un valore irrinunciabili, in qualsiasi momento ed in

qualsiasi condizione, e che il rapporto con gli altri è costitutivo.

Il rispetto per la persona, le sue scelte, le sue azioni e i suoi valori.

“Il possesso di conoscenze e competenze: un’attività assistenziale comincia con

l’identificazione di un bisogno assistenziale e l’attuazione di un intervento per dare una risposta

e migliorare, se possibile, la situazione”(Saiani, Di Giulio, in Cavazzuti, Cremonini, Assistenza

geriatrica oggi, Ambrosiana, p. 86).

L’attuazione di tali condizioni favoriscono un clima di fiducia e di consenso che permette

all’utente di fidarsi e affidarsi alla competenza e capacità di comprensione dell’operatore.

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ATTEGGIAMENTI E COMPORTAMENTI DELLA RELAZIONE

PROFESSIONALE

Come si declina concretamente la relazione professionale? In una serie di atteggiamenti e

comportamenti, che l’operatore consapevolmente mette in atto. Devono essere presenti,

sicuramente, tutti i seguenti:

ascoltare con attenzione le richieste degli utenti e attivarsi per dare soddisfacimento al loro

bisogno, o per riferire a chi di competenza;

rendere partecipe la persona assistita, informandola sulle attività che verranno svolte, anche se

questa sembra non comprendere e partecipare;

cogliere le richieste verbali e non;

utilizzare un linguaggio appropriato, che tenga in considerazione le abilità/difficoltà

comunicative dell’utente;

tenere presente i fattori fisici e psichici che incidono sulla comunicazione;

non sostituirsi nelle decisioni;

consentire e favorire il diritto di autodeterminazione dell’utente;

rispettare la privacy, intesa come riservatezza nell’uso delle informazioni, rispetto del pudore,

protezione della vita privata, ricerca di informazioni finalizzata;

non esprimere giudizi di valore,

usare la forma di cortesia;

presentarsi all’utente nel proprio ruolo di tirocinante e, in seguito, nel proprio ruolo di operatore;

fornire informazioni di propria competenza;

avere cura del contesto in cui si svolge la comunicazione;

essere consapevole dei diversi ruoli assunti;

collaborare con l’équipe di lavoro al raggiungimento degli obiettivi assistenziali definiti per

ogni singolo utente;

essere un testimonial positivo dell’Ente o Servizio, di cui si avvale l’utente.

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ABILITA’ DI AIUTO DELL’OPERATORE

L’operatore per poter mettere in atto una relazione professionale e dei comportamenti

adeguati deve sviluppare delle abilità fondamentali, che gli permettano di funzionare efficacemente

nei rapporti che va a costruire quotidianamente durante il proprio lavoro.

Va detto che queste abilità, di per sé, non sono esclusive della relazione professionale, ma

dovrebbero essere trasversali ad ogni tipo di relazione, anche se risultano essere indispensabili e, di

conseguenza, ricercate e attivate all’interno della relazione professionale.

PRESTARE ATTENZIONE

Significa attivare una “attenzione totale e incondizionata. Prestare attenzione è il pre-

requisito attraverso cui chi aiuta concentra le abilità di ascolto e di osservazione sulle diverse forme

verbali e comportamentali con cui gli utenti esprimono le loro esperienze, i loro bisogni, i loro

vissuti” (Carkhuff, L’arte di aiutare, p. 54)

Concretamente, significa

prestare attenzione fisica

osservare

ascoltare

Queste abilità, che in seguito affronteremo in modo più dettagliato, non sono caratteristiche

personali, dipendenti dal carattere di una persona. Certo, ci sono persone che per carattere, indole,

personalità sono più facilitate ad attivare tali abilità, ma sono capacità che si possono acquisire e

mettere in atto anche attraverso degli accorgimenti.

Fondamentale è prepararsi all’attenzione, che consiste nel

1. preparare l’utente: non possiamo dare per scontato che l’utente è sempre disponibile ad

interagire con l’operatore, in qualunque momento o situazione. Quando la comunicazione o

la proposta è particolarmente importante, delicata o complessa è importante coinvolgere

Corso per Operatore Socio Sanitario La relazione professionale di assistenza

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l’utente, fornendo tutte le informazioni necessarie che possono motivarlo per un suo

coinvolgimento.

2. preparare il contesto: non tutti i luoghi sono adatti per comunicare. Se il saluto o uno

scambio breve può avvenire in ogni ambito, sul corridoio, in mezzo ad altre persone, di

sfuggita, mentre ci si sta recando in un altro luogo, ci sono comunicazioni e interazioni, che

richiedono la preparazione di un ambiente adeguato, che possa mettere a proprio agio

l’utente. Può voler dire trovare un luogo o un momento in cui l’assistito può parlare da solo

con l’operatore, senza altre persone, che possano sentire o che gli impediscano di

manifestare le proprie emozioni, sentimenti, bisogni o difficoltà. Predisporre un momento o

un luogo adeguato, inoltre, comunica all’altra persona che c’è una reale disponibilità e

attenzione, per cui tutto il resto è sospeso per porre attenzione a lei e alla sua situazione

3. preparare l’operatore: significa fare mente locale su chi è la persona che andiamo ad

assistere, su quali sono le sue esigenze, le sue caratteristiche, la sua storia, gli obiettivi che

sono stati prefissati, in modo da continuare il lavoro che tutta l’équipe sta cercando di

mettere in atto.

E’ ricordarsi ciò che l’utente in altre occasioni ha riferito per poter dare continuità alla

relazione e non provocare così sentimenti di abbandono o di rifiuto. E’ prendere

consapevolezza del proprio stato d’animo, delle proprie preoccupazioni, dei propri

sentimenti per allontanarli, in modo che non si riversino sull’utente.

PRESTARE ATTENZIONE FISICA

Significa assumere una posizione che permetta di dare alla persona piena e completa

attenzione:

di fronte, in modo da poter guardare l’assistito in faccia,

piegati leggermente in avanti

cercando di mantenere un costante contatto oculare.

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Criterio sottostante è cercare di assumere una posizione che permetta all’utente di sentirsi al

centro dell’attenzione, cosa non possibile se durante la comunicazione l’operatore guarda altrove,

gira le spalle o è preoccupato solo di trovare una posizione in cui stare comodo.

OSSERVARE

Ancora una volta, all’interno del percorso formativo per Operatore Socio-Sanitario,

ritroviamo come una delle abilità e, allo stesso tempo, una delle competenze di questa figura

professionale sia l’osservazione.

Anche in ambito relazionale, le abilità di osservare risultano essere fondamentali: richiedono

la capacità dell’operatore di vedere d di comprendere il comportamento non verbale dell’utente. Si

devono osservare tutti quegli elementi dell’aspetto esteriore e del comportamento che possono

aiutare a capire qual è il livello di energia fisica, lo stato emotivo e la disponibilità all’aiuto

dell’assistito.

Cosa osservare?

I movimenti del corpo

Le espressioni del viso

La cura di sé

La corporatura

La postura

Questo tipo di informazioni possono aiutare l’operatore ad inferire:

1. Il grado di energia: “è la quantità di sforzo fisico che si è in grado di investire nello

svolgimento di un compito” (Carkhuff, L’arte di aiutare, p. 76). Le osservazioni che

principalmente ci danno informazioni riguardo al livello di energia sono la postura, la cura di sé

e la corporatura. Un utente che siede scomposto, con le spalle abbassate, che ha poca cura di sé

ci fa capire che non ha a disposizione una dinamicità e una voglia di fare, di agire. Mostra una

mancanza di interesse verso di sé e verso il mondo circostante, al punto che non ritiene

necessario nemmeno mantenersi pulito e in ordine, ad esempio. Diversamente incontrare un

Corso per Operatore Socio Sanitario La relazione professionale di assistenza

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utente che desidera impegnare le proprie energie, riesce a mantenere una posizione eretta,

dinamica, piena, che richiede un’attenzione ad essere in ordine, pulita, bella (magari con un

“velo di rossetto”, come raccontava un operatore), dà un’immagine di sé di una persona che

vuole vivere in pienezza la propria vita. Aiutare un utente ad aver cura del proprio aspetto è

aiutarlo ad investire energia e a ritrovarla dentro di sé.

Anche la corporatura ci può dare delle indicazioni: le persone che sono in sovrappeso o

sottopeso o che hanno un tono muscolare ridotto tenderanno ad avere bassi livelli di energia.

2. I sentimenti: “Le espressioni del viso rappresentano la fonte più ricca di informazioni sui

sentimenti dell’utente. Anche altri aspetti come la posizione del corpo e i movimenti possono

essere di aiuto nel comprendere le esperienze dell’altra persona.

Ad esempio, la fronte corrugata, lo sguardo corrucciato, l’atteggiamento scomposto, gli occhi

bassi, l’aspetto trascurato e dei movimenti lenti sono tutti segni del sentirsi “giù”. Un sorriso

aperto, le sopracciglia sollevate, una posizione vigile, il contatto degli occhi, un aspetto curato,

dei movimenti rapidi e reattivi, si possono associare al sentirsi “su”. (Carkhuff, L’arte di

aiutare, p. 77).

3. Disponibilità all’aiuto. Questi stessi elementi possono aiutarci a capire se l’utente ha una

disponibilità a collaborare e ad accettare l’aiuto: una persona con livello basso di energia e che

si senta “giù” avrà una bassa motivazione e disponibilità ad essere aiutato.

E’ importante dare il giusto peso alle osservazioni raccolte: non sono la fotografia dell’utente e

del suo mondo interno. Sono delle ipotesi che col tempo possono venire smentite o confermate

dall’utente, degli indizi che vanno tenuti in considerazione per poter personalizzare l’approccio e la

relazione.

Come abbiamo già detto, la relazione è un sistema che vede coinvolti due o più persone, che

si influenzano reciprocamente. E’ importante essere consapevoli che anche l’utente osserva più o

meno consapevolmente tutti questi indizi e fa le proprie inferenze. Ne deriva che “nella stessa

maniera in cui osserviamo gli altri possiamo osservare anche noi stessi. Cosa ci possono dire di noi

il nostro aspetto e il nostro comportamento? Siamo in grado di esprimere un alto livello di energia,

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sensibilità e determinazione ad aiutare? Siamo congruenti nel nostro comportamento e nel nostro

desiderio di aiutare?” ” (Carkhuff, L’arte di aiutare, p. 79).

La manifestazione esteriore della motivazione e del desiderio dell’operatore di aiutare,

attraverso gli indizi appena descritti, va ricercata e scelta, tenendo presente però che non può

bastare da sola, se non come soluzione temporanea in un momento in cui la vita extra professionale

può risultare faticosa e carica di sofferenza e/o difficoltà: per risultare genuina e efficace deve

ancorarsi in una motivazione intrinseca reale e basata sulle dimensioni che abbiamo visto in

precedenza.

ASCOLTARE

L’ultima grande abilità che l’operatore deve costruirsi e attivare è l’ascolto: ascoltare ciò che

le persone dicono e il modo in cui lo dicono. Vi sono molti modi in cui è possibile affinare le nostre

capacità di ascolto:

Avere un motivo per ascoltare: fondamentalmente per raccogliere tutte le informazioni

possibili collegate ai problemi o agli obiettivi legati all’utente. Si dovranno cogliere tutte le

indicazioni che ci vengono dai diversi livelli di funzionamento: le parole daranno informazioni

sul contenuto intellettuale di ciò che le persone vivono; il tono della voce sui sentimenti, il

modo di esprimersi sul livello di energia.

Sospendere i giudizi personali: è accogliere l’altro nella sua interezza e unicità. Si tratta di

ascoltare quello che l’altro vuole dire, secondo il suo modo di vedere la vita e la situazione,

secondo i suoi valori e desideri. Ne deriva che l’operatore deve sospendere quelle che possono

risultare solo opinioni personali, giudizi secondo i propri valori. Sospendere, non annullare. Si

tratta di essere prudenti nell’offrire consigli e/o soluzioni premature, anche se si pensa di sapere

cosa è bene fare, perché lo si è già affrontato in altre occasioni con altre persone.

Concentrarsi sulla persona: significa resistere alle distrazioni. “Nella stessa maniera in cui

abbiamo resistito alla voce “giudicante” dentro di noi, così dobbiamo resistere alle tentazioni

esterne. Vi saranno sempre un sacco di cose che ci renderanno difficile l’ascolto” (Carkhuff,

L’arte di aiutare, p. 82), ma è fondamentale riuscire a indirizzare la nostra persona verso

l’utente e quello che desidera comunicare.

Corso per Operatore Socio Sanitario La relazione professionale di assistenza

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Concentrarsi sul contenuto: significa ascoltare cosa dice l’utente, cercando di cogliere se ci

sono temi ricorrenti che possono raccontarci qualcosa di lui, cercando di cogliere tutte le

informazioni e poterle ricordare, in modo da dare continuità alla relazione che si sta costruendo

e un reale riconoscimento alla persona, che le sta comunicando.

EMPATIA

“E’ la capacità di entrare nei panni dell’altro cognitivamente ed emotivamente, senza

contagio emotivo” (Brunialti, Formazione psicologica e relazione di aiuto, p.71), è la capacità di

mettersi accanto all’altro, sapendo cogliere e accogliere in sé i sentimenti e i vissuti che la persona

sta vivendo in quel momento. Non è vivere lo stesso sentimento, né prendere su di sé il carico

emotivo: è riconoscere il sentimento che la persona prova, essere consapevoli che ha una sua

origine e un suo significato, e di conseguenza sapersi accostare e, usando una metafora, fare un

tratto di strada assieme, assecondando il passo, la fatica o l’esultanza: non tutta la strada, ma un

tratto; non uno dentro l’altro, in una con-fusione (nel senso anche di fusi assieme) di sentimenti e

vissuti, ma uno accanto all’altro. E’ sapere dove l’altro si trova e con quale vissuto, per potergli

andare incontro e aiutarlo, con tutto il rispetto, la delicatezza e la fermezza che sono necessari.

L’empatia si compone di due elementi:

una rappresentazione cognitiva: l’altro cosa pensa? Cosa prova? Cosa si può fare? Come vi si

può rispondere? È assumere la prospettiva e il ruolo dell’altro, il suo modo di vedere e

considerare la situazione;

una disponibilità emotiva, che permette di entrare in contatto con il vissuto emotivo,

continuando però a mantenere con chiarezza il proprio ruolo, la propria identità, le proprie

emozioni, sentimenti e pensieri, riconoscendoli come altro, come separati da tutto ciò che

accade all’utente.

Quindi l’empatia implica il mantenimento dell’oggettività necessaria per osservare, analizzare e

gestire la situazione senza farsi travolgere dalle emozioni.

Per riuscire a comprendere le emozioni altrui è necessaria una buona capacità di cogliere,

comprendere e definire le proprie emozioni, è difficile dare un nome ai vissuti dell’altro se non

Corso per Operatore Socio Sanitario La relazione professionale di assistenza

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sappiamo darlo nemmeno ai nostri, tenendo presente però quanto appreso nelle precedenti pagine

sulle emozioni.

E’ fondamentale che l’OSS sappia entrare in empatia e comprendere le emozioni dell’assistito

per:

saper cogliere le emozioni dell’altro e quindi comprenderne i vissuti e individuarne i bisogni

decodificare il feed-back, comprendere degli effetti del suo operato sullo stato di benessere

dell’assistito

creare un rapporto di fiducia, di comprensione ed ascolto

relazionarsi in modo appropriato con i familiari dell’assistito

relazionarsi in modo appropriato con i colleghi

E’ fondamentale che l’OSS sappia entrare in contatto con le proprie emozioni per:

decodificare le emozioni dell’altro

comprendere le proprie emozioni e sapersene opportunamente difendere

individuare emozioni causate da eccessivo coinvolgimento o da situazioni di transfert o

controtransfert

cogliere i primi segni di burn-out

DOMANDE GUIDA ALLO STUDIO

Definizione di relazione. Quali sono le principali tipologie di relazione? Quali sono le principali

caratteristiche, soprattutto in relazione alla condivisione di tempo e spazio, gestualità,

simmetria/asimmetria, tipologia di contesto?

Definizione di relazione professionale di assistenza.

Quali sono gli obiettivi, le caratteristiche principali, gli atteggiamenti e i comportamenti che ne

derivano?

Che cosa si intende per relazione asimmetrica? In che modo influisce il contesto sulla relazione

professionale di assistenza?

Quali sono le principali abilità di aiuto richieste ad un operatore? Descrivile brevemente

cercando di individuare degli esempi concreti.

Che cosa si intende per ascolto attivo? Cosa significa in concreto prestare attenzione all’utente?

Che cosa si intende per empatia? Perché è importante la comprensione empatica dell’utente?

Corso per Operatore Socio Sanitario La relazione professionale di assistenza

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BIBLIOGRAFIA

AMERIO, Teorie in Psicologia Sociale, Il Mulino

ARCURI, Conoscenza sociale e processi psicologici, Il Mulino

BONVINI M., CIVETTINI K., I processi psichici, Scuola per Operatore Socio Assistenziale di

Riva del Garda, Opera Armida Barelli, 1996.

BRAGHETTO F. (A CURA DI), Assistenza a persone affette da malattia di Alzheimer e demenze

correlate, Opera Armida Barelli, 1999.

BRUNIALTI C., Dispensa Scuola OSA di Rovereto

BRUNIALTI C., Formazione psicologica e relazione di aiuto. Riflessioni per il volontariato

Avulss. Collana Quaderni AVULSS n 35, Ed Oari, 1999

CORNOLDI C., Psicologia generale, Ed. Il Mulino

DE MARCHI F., ELLENA A. (A CURA DI), Dizionario di sociologia, Ed. Paoline

F. CAVAZZUTI, G. CREMONINI, Assistenza geriatrica oggi. Ed. Ambrosiana

O. OLIVO, La Mission e la Vision Formativa dell’Opera Armida Barelli, aprile 2000

S. MANAI, L. SIRACUSANO, L’insegnamento della psicologia nella Scuola per Infermieri

Professionali, in S. Manai, Appunti di Psicologia

SANT’AGOSTINO, Le confessioni, BUR, Milano 1980

SCLAVA M., Arte di ascoltare e mondi possibili,

Corso per Operatore Socio Sanitario La relazione professionale di assistenza

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INDICE

Premessa ………………………………………………………………………………. pag. 01

Capitolo 1. La percezione …………………………………………… pag. 02

Definizione …………………………………………………………...…………….. pag. 02

L’attenzione …………………………………………………………..…………….. pag. 03

Leggi dell’organizzazione percettiva ………………………………....……………. pag. 05

Le illusioni percettive ………………………………………………...…………….. pag. 06

Domande guida allo studio …………………………………………...…………….. pag. 07

Capitolo 2. La memoria ……………………………………………….. pag. 08

Definizione ………………………………………………………….....…………… pag. 08

La memoria percettiva …………………………………………………..…………. pag. 09

La memoria a breve termine …………………………………………..……………. pag. 09

La memoria a lungo termine ………………………………………….……………. pag. 11

Il recupero dell’informazione ………………………………………...……………. pag. 13

L’oblio ………………………………………………………………..…………….. pag. 14

Conclusioni …………………………………………………………...……………. pag. 16

Domande guida allo studio …………………………………………...…………….. pag. 16

Capitolo 3. Stereotipi e pregiudizi …………………………………… pag. 17

La categorizzazione ……………………..…………………………...…………….. pag. 17

Gli stereotipi .…………………………..……………………………..…………….. pag. 18

Lo stereotipo nei confronti dell’anziano ……………………………....……………. pag. 23

Gli atteggiamenti verso gli anziani …………………………………...…………….. pag. 25

Il pregiudizio ………………………………………………………………………... pag. 26

Le sette regole dell’arte di ascoltare .………………………………...…………….. pag. 29

Capitolo 4: La relazione professionale di assistenza ………………………………... pag. 30

Definizione di relazione ..…………………………………………………………… pag. 30

Tipi di relazione ……...…………………………………………………………….. pag. 30

La relazione professionale dell’Operatore Socio Sanitario ...………...…………….. pag. 33

Obiettivi …………………………………………………………………………….. pag. 33

Caratteristiche ………………………………………………………………………. pag. 35

Condizioni e fondamenta …………………………………………………………… pag. 38

Atteggiamenti e comportamenti …………………………………………………….. pag. 39

Abilità di aiuto dell’operatore ………………………………………………………. pag. 40

Domande guida allo studio ………………………………………….…………….... pag. 46

Bibliografia …………………………………………………………….. pag. 47