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Diritto Penale Marzo 2013 A cura di Valerio de Gioia (magistrato)

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Diritto Penale

Marzo 2013

A cura di

Valerio de Gioia

(magistrato)

Diritto penale

MATERIALE DI STUDIO

DDoottttrriinnaa

Il delitto tentato e i reati di attentato SOMMARIO 1. Le caratteristiche generali. – 2. L’idoneità … – 3. … e l’univocità degli atti. – 4. Il tentativo di reato in concorso. – 5. Il tentativo di delitto circostanziato ed il tentativo circostanziato di delitto. – 6. I delitti di attentato.

1. Le caratteristiche generali

Ricorre la figura del delitto tentato nei casi in cui l'agente non riesce a portare a compimento il proprio disegno criminoso, ma soltanto alcuni degli atti preparatori volti a realizzarlo. Il fondamento della punibilità del tentativo sta nell'esigenza di prevenire la messa in pericolo dei beni giuridicamente tutelati. Non sempre é agevole, tuttavia, individuare il momento in cui può dirsi perfezionata la fattispecie tentata; la maggiore difficoltà consiste proprio nel comprendere quale sia l'inizio dell'attività punibile, posto che alcuni degli atti compiuti dall'agente possono non avere rilevanza penale. Da un lato, infatti, il rischio é quello di arretrare eccessivamente la soglia di punibilità e considerare penalmente rilevanti condotte che di per sé non lo sono, in contrasto con il principio di materialità di cui agli artt. 25 Cost. 2 e 115 cod. pen. Dall'altro lato, non attribuendo rilievo penale a condotte che in qualche maniera già si inseriscono nel disegno criminoso, si potrebbe verificare uno spostamento in avanti della soglia di punibilità ed eludere, così, le esigenze preventive tipiche dell'istituto. Il problema, quindi, é proprio quello di stabilire quando un'azione, pur non portata a compimento rispetto alla fattispecie consumata, possa essere ritenuta penalmente rilevante e qualificarsi come delitto tentato. Nel codice Zanardelli l'inizio dell'attività punibile era individuato in base alla distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi; solo questi ultimi, in quanto aggressivi del bene giuridico protetto, assumevano rilevanza sul piano penale e quindi erano punibili.

2. L’idoneità …

Superata oggi la distinzione suddetta, data la difficoltà pratica di stabilire, il più delle volte, quando determinati atti possano considerarsi meramente preparatori, il vigente codice penale stabilisce che il tentativo si realizza quando sussiste il duplice requisito della idoneità ed univocità degli atti, sempre che l'azione non si compia o l'evento non si verifichi (art. 56 cod. pen.). L'azione é inidonea al compimento del reato quando non vi é alcuna efficacia causale con l'evento criminoso. Detta idoneità va valutata in base ad un giudizio ex ante ed in concreto (criterio c.d. della prognosi postuma; sul punto, vedi più approfonditamente Fiandaca-Musco e Antolisei), nel senso che bisogna stabilire se quegli atti posti in essere, qualora la causa impeditiva non avesse ostacolato il compimento dell'azione criminosa, sarebbero stati oggettivamente e concretamente idonei ad integrare il reato .

3. … e l’univocità degli atti

Il secondo requisito é l'univocità degli atti, vale a dire che l'attività posta in essere dall'agente, valutata nel contesto in cui essa é stata realizzata, deve essere atta a denotare in maniera non equivoca il proposito criminoso sotteso.

Posto, infatti, che in dottrina l'univocità viene intesa in una duplice accezione, secondo la tesi cosiddetta soggettiva essa andrebbe vista come la prova dell'intenzione criminosa in sede processuale. Si é sostenuto, tuttavia, che una tale definizione renderebbe superfluo il requisito dell'univocità, traducendolo nella necessità di fornire la prova dell'elemento soggettivo (Bricola-Zagrebelsky). Diversamente, la teoria cosiddetta oggettiva ritiene l'univocità come una caratteristica appunto oggettiva della condotta, da cui traspaia l'intenzione criminosa dell'agente. In tale ottica la prova dell'elemento soggettivo é problema diverso ed ulteriore rispetto all'accertamento dell'elemento materiale del delitto tentato. I requisiti dell'idoneità ed univocità degli atti, infatti, attengono alla sfera dell'elemento materiale del reato, il cui accertamento é diverso rispetto a quello dell'elemento soggettivo. In particolare, l'univocità degli atti va desunta dalla condotta in concreto posta in essere dagli agenti, senza dare rilievo, nella fase dell'accertamento dell'elemento materiale, ad atti di volizione interna che non si siano tradotti in attività obiettivamente valutabili Il proposito criminoso, infatti, va accertato solo successivamente, al fine cioè di stabilire se la condotta, idonea in maniera non equivoca al compimento del reato, sia posta in essere con dolo. In questa distinta fase il giudice potrebbe avvalersi di ogni elemento di prova, quali, ad esempio, le intercettazioni telefoniche. Non mancano, tuttavia, in giurisprudenza posizioni secondo cui nel tentativo la direzione univoca dell'atto può essere desunta sia dalle modalità oggettive della condotta, sia aliunde, ossia tenendo conto di altri elementi di prova (ad esempio le dichiarazioni dell'agente o le intercettazioni telefoniche).

4. Il tentativo di reato in concorso

Date le considerazioni che precedono, l'ulteriore problema é quello di individuare l'inizio dell'attività punibile con riferimento all'esecuzione del reato in concorso. Se, infatti, per la configurabilità di quest'ultimo nella fattispecie monosoggettiva é necessario che l'agente ponga in essere una condotta penalmente rilevante di per sé, nel senso che la propria azione deve essere diretta in maniera non equivoca alla commissione del reato , nella fattispecie concorsuale l'univocità degli atti va esaminata con riferimento alla complessiva situazione oggettivamente esistente. Più precisamente, nel caso di esecuzione del reato in concorso, a taluni correi spetta il compito di porre in essere azioni atipiche che, isolatamente considerate, non appaiono univocamente dirette alla commissione del reato . Dette azioni atipiche, riferite all'ipotesi monosoggettiva, potrebbero rimanere nell'area del penalmente irrilevante, in quanto non qualificabili come univocamente dirette alla commissione del reato; riferite, invece, alla fattispecie concorsuale, le medesime azioni potrebbero determinare l'inizio dell'attività punibile nel momento in cui coincidono con il

ruolo specifico che ciascuno dei correi doveva intraprendere. Dalla distinzione suddetta é agevole desumere una importante considerazione: il momento che rappresenta l'inizio dell'attività punibile, nell'ipotesi di esecuzione del reato in concorso, potrebbe risultare anticipato rispetto alla fattispecie monosoggettiva. Ciò in considerazione del fatto che, come sopra detto, le azioni atipiche normalmente penalmente irrilevanti, possono assumere rilevanza penale nella fattispecie concorsuale se, valutate nel complesso dell'attività posta in essere e con riferimento al ruolo specifico svolto da ciascun correo, sono rivolte alla commissione del reato. In altre parole, sembra quasi potersi affermare che nel caso di concorso nel reato, l'univocità dei singoli atti é valutata non soltanto rispetto alla commissione del delitto, ma anche rispetto allo svolgimento dello specifico compito che ciascuno dei correi deve portare a compimento per la commissione del delitto medesimo. É quindi necessario, al fine di valutare l'univocità nel caso di tentativo di reato in concorso, combinare due criteri: da un lato la necessaria visione di insieme delle condotte dei correi e dall'altro la considerazione delle condotte anche atipiche degli stessi. Se così non fosse, si sposterebbe troppo in avanti l'inizio dell'esecuzione del reato .

5. Il tentativo di delitto circostanziato ed il tentativo circostanziato di delitto

Altra questione particolarmente dibattuta sia in dottrina che in giurisprudenza attiene all'applicabilità, al delitto tentato, delle circostanze aggravanti ed attenuanti. Posto, infatti, che si é soliti distinguere tra tentativo di delitto circostanziato (ipotesi in cui, se il delitto fosse giunto a consumazione, sarebbe stato caratterizzato dalla presenza di una o più circostanze; queste ultime, cioè, ancorché non realizzate compiutamente, rientrano nel proposito criminoso dell'agente) e tentativo circostanziato di delitto (ipotesi in cui le circostanze si perfezionano in tutto o in parte nel contesto della stessa azione tentata), in dottrina ed in giurisprudenza non sembrano esservi dubbi sulla compatibilità strutturale tra il tentativo e le circostanze compiutamente realizzatesi. Tuttavia, la questione va analizzata in maniera più approfondita, tenuto conto del fatto che le soluzioni trovate non sono univoche, sia con riferimento alle due figure sopra descritte, sia perché, anche all'interno di ciascuna figura, andrebbe ricercata la compatibilità strutturale del tentativo con le specifiche circostanze: alcune di esse, infatti, richiedono la necessaria consumazione del reato per la loro applicazione. Come già accennato, pare pacificamente ammessa la figura del tentativo circostanziato di delitto ed é invece controversa la configurabilità del tentativo di delitto circostanziato. Non mancano, inoltre, posizioni intermedie, secondo le quali anche la fattispecie del tentativo circostanziato di delitto non sarebbe configurabile sempre ed in ogni caso, ma andrebbe fatta una distinzione a seconda che le circostanze siano interamente o parzialmente realizzate ovvero se ci si trovi di fronte a circostanze comuni o speciali. Il problema é quello di valutare la compatibilità delle figure sopra descritte con il principio di legalità vigente nell'ordinamento penale. Orbene, non si ritiene che si verifichi la violazione del principio di legalità ammettendo la compatibilità tra tentativo e circostanze compiutamente realizzatesi, atteso che l'art. 59 cod. pen. prevede l'applicabilità di dette circostanze senza fare distinzione tra fattispecie tentata e consumata e che l'art. 56 cod. pen., nello stabilire che l'azione vada valutata in base ai criteri dell'idoneità ed

univocità degli atti, non può non tenere in considerazione, a tal fine, quelle circostanze che hanno contribuito a caratterizzare le modalità dell'azione medesima. Al contrario, se si applicasse la pena prevista per il tentativo semplice in caso di tentativo circostanziato, si correrebbe il rischio di violare o eludere il principio di eguaglianza, poiché si destinerebbe il medesimo trattamento sanzionatorio a situazioni differenti (Iannarone). Parte della dottrina, comunque, ha espresso perplessità in merito all'ammissibilità della figura già quando la circostanza da tenere in considerazione ai fini del trattamento sanzionatorio sia solo in parte realizzata, poiché, anche in tal modo, si violerebbe il principio di legalità che impone l'applicazione delle circostanze solo in presenza dei presupposti previsti dalla legge (presupposti che potrebbero non sussistere in caso di realizzazione delle circostanze solo in parte e che, a maggior ragione, non sussistono ove le circostanze non si siano affatto realizzate ma siano solo tentate). Non solo. Limiti di carattere strutturale impongono che talune circostanze siano compatibili solo con la fattispecie delittuosa consumata (Fiandaca-Musco). Altra parte della dottrina, invece, pur ammettendo la figura del tentativo circostanziato di delitto, ne ha limitato la configurabilità solo in presenza di circostanze comuni e non anche di quelle speciali, poiché queste ultime, in quanto previste solo con riferimento alla fattispecie consumata, non potrebbero essere valutate nell'ambito di quella tentata senza incorrere nella violazione del principio di legalità (Padovani; Gallisai Pilo). Coloro che invece tendono ad ammettere la fattispecie del tentativo circostanziato di delitto senza riserve, argomentano che l'art. 56 cod. pen. ha funzione estensiva della punibilità nel momento in cui consente di reprimere fatti che non raggiungono la soglia della consumazione (tesi del tentativo come reato autonomo, che deriva dalla combinazione di due norme, l'art. 56 cod. pen. e la norma di parte speciale di volta in volta violata) e che altrimenti si rischierebbe di differenziare immotivatamente il trattamento sanzionatorio, poiché l'unica distinzione tra circostanze comuni e speciali consiste nel rispettivo ambito di applicazione e non anche nella struttura (De Luca).

6. I delitti di attentato

Tra le forme di manifestazione del reato il codice penale annovera la categoria del cosiddetto attentato; l’elemento che lo accomuna alla figura del tentativo é rappresentata dalla circostanza che si tratta di previsioni finalizzate “a perseguire un illecito indipendentemente dall’effettivo conseguimento del risultato criminoso che l’autore persegue” (E. Gallo). La principale caratteristica dei delitti di attentato é data dal fatto che il legislatore considera “perfetto il compimento di “atti diretti a” offendere un bene ritenuto meritevole di protezione anticipata perché di rango particolarmente elevato” (Fiandaca-Musco). Con il termine delitti di attentato – detti anche a consumazione anticipata – si intendono quei delitti consistenti in atti diretti a ledere il bene protetto considerati dal legislatore come delitti perfetti e che, senza un tale espressa previsione, risulterebbero semplici delitti tentati. Fattispecie esemplare é quella disciplinata dall’art. 276 cod. pen. che sanziona la condotta di colui che attenta alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del Presidente della Repubblica. Condotte che normalmente refluirebbero nell’ipotesi dell’omicidio, delle lesioni o del sequestro di persona a

livello di tentativo, con conseguente applicazione della disciplina di cui all’art. 56 cod. pen., assurgono, quindi, a delitti perfetti, in ragione della particolarità del bene protetto. Altrettanto é a dirsi con riguardo alle previsioni di cui agli artt. 295 e 296 cod. pen. che offrono la medesima disciplina allorché l’attentato sia posto in danno dei Capi di Stati esteri. Talvolta, peraltro, vengono elevate a delitti perfetti fattispecie che non meriterebbero, in via ordinaria, neppure una sanzione a livello di tentativo: é quanto si verifica nelle ipotesi in cui nella formulazione della norma si richiede solo la direzione, non anche l’idoneità ed univocità degli atti. Tipiche ipotesi sono quelle delineate dall’art. 241 cod. pen., che sanziona gli attentati contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato, e l’attentato contro la costituzione dello Stato, di cui all’art. 283 cod. pen. Ciò posto, va anche rimarcato, sulla base di un’agevole disamina finalistica delle disposizioni volte ad enucleare ed incriminare siffatta tipologia delittuosa, che si é per lo più al cospetto di reati contro la personalità dello Stato, “radicati in quella tradizione di pensiero che per i crimina lesae maiestatis rifiutava la distinzione tra consumazione e tentativo, atti preparatori e atti esecutivi”, rispondendo “alla finalità politica di una più rigorosa tutela di certi interessi statuali”. Illeciti che talvolta “esprimono anche la esigenza reale di bloccare sul nascere fenomeni che altrimenti potrebbero non essere più controllabili e travolgere le stesse istituzioni, con conseguente impossibilità di punire il reato consumato (es.: artt. 241, 283, 286)” (Mantovani). La mancanza di una disposizione di parte generale intesa a dettare una omogenea disciplina dei delitti di attentato ha determinato il sorgere di una accesa disputa dottrinaria tra chi ritiene che il delitto di attentato sanzioni già l’attività “preparatoria”, e chi, invece, individua la soglia della rilevanza penale della condotta solo in presenza degli elementi che la parte generale del codice penale richiede per il tentativo. Il problema si é riproposto con l’entrata in vigore del codice Rocco posto che, sotto il vigore del codice Zanardelli, non vi erano dubbi sulla “completa omogeneità concettuale e funzionale del tentativo e dell’attentato: solo gli atti esecutivi potevano configurare sia l’uno che l’altro tipo delittuoso” (Fiandaca-Musco). In generale, si é assistito alla contrapposizione frontale tra due diverse impostazioni ricostruttive. Nel prime applicazioni giurisprudenziali i delitti di attentato furono interpretati in chiave di atti preparatori sul presupposto secondo cui anche la punibilità del tentativo era stata anticipata all’area degli atti preparatori; si ritenne, infatti, che con l’introduzione nell’ordinamento del principio dell’idoneità ex art. 56 cod. pen. si era finalmente superata la dibattuta questione della distinzione dell’iter criminis in atti preparatori e atti esecutivi. Secondo un indirizzo di pensiero i compilatori del codice “adottando fideisticamente il principio causale condizionalistico e risolvendo l’idoneità in termini causali, … potevano, infatti, ragionevolmente sostenere che anche un atto preparatorio possedesse capacità causale, e quindi idoneità, a cagionare l’evento naturalistico significativamente rilevante” (E. Gallo). Sul punto é opportuno richiamare le stesse parole usate da Alfredo Rocco nella Relazione ministeriale ove si legge che “una volta estesa, come oggi fa l’art. 56, la nozione di tentativo agli atti preparatori, é evidente che le due nozioni oggi equivalgono, di modo che l’attentato, sin dal primo stadio degli atti preparatori, é elevato a reato perfetto”. Successivamente, mentre per il tentativo si cominciarono a sanzionare le condotte costituenti attività esecutiva, per

l’attentato, invece, si sviluppò la tendenza ad attribuirgli una sostanziale autonomia che lo svincolasse, sul versante strutturale, dalla disciplina dettata in tema di tentativo; si ritenne così di poter ricondurre nell’alveo dei delitti di attentato gli atti più remoti purché sintomatici di una volontà intesa a ledere il bene protetto. Si é quindi affermata, tanto in giurisprudenza quanto nel dibattito dottrinale (Zuccalà) un’interpretazione di tipo soggettivistico secondo cui il delitto di attentato deve intendersi come un reato di mera disubbidienza. Elemento qualificante della categoria sarebbe, pertanto, la finalità criminosa perseguita dall’agente: sarebbe quindi sufficiente qualunque atto intenzionalmente diretto a produrre il risultato lesivo. Si tratta, tuttavia, di ricostruzione che, pur avendo il pregio di rispecchiare fedelmente un sistema ordinamentale nel quale, effettivamente, sussistono ipotesi di reato a consumazione anticipata che appaiono sanzionare la mera intenzione criminosa dell’autore del reato, di contro, presenta il grosso limite di trascurare l’idoneità offensiva della condotta; ciò in netto dispregio al principio di necessaria offensività del reato così come delineato dalla dottrina maggioritaria e dalla più recente giurisprudenza, anche costituzionale. Successivamente, quindi, il recupero e la valorizzazione del principio di offensività, ormai desunto dalla dottrina prevalente e dalla stessa Consulta dai principi costituzionali e dall’art. 49 del codice penale, e lo svilupparsi della concezione realistica del reato, hanno indotto la scienza giuridica a porre un freno a questa tendenza di criminalizzazione anticipata. Il meccanismo seguito a livello dottrinale é stato quello di interpretare l’inciso “fatto diretto a“ – tipico delle fattispecie a consumazione anticipata – come “fatto idoneo diretto a”, ponendo, in tal modo, i paletti necessari ad evitare forme di straripamento della rilevanza penale di condotte la cui offensività talvolta veniva incentrata esclusivamente sulla ricerca della volontà di ledere il bene protetto. Allo stesso modo l’inciso “chiunque attenta a” é stato interpretato come “chiunque compie atti idonei diretti a”, recuperando così il requisito dell’idoneità forgiato specificamente per il tentativo. Alla luce dell’indirizzo dottrinale allo stato prevalente (E. Gallo; Musco), si é tornati quindi all’originario riconoscimento di una sostanziale omogeneità strutturale fra tentativo e attentato: l’attentato é considerato punibile solo allorquando risulti accertata la sussistenza di un’attività idonea a ledere il bene protetto con conseguente esclusione dalla sfera del penalmente rilevante di tutte le condotte meramente preparatorie. La dottrina dominante e la costante giurisprudenza hanno così accolto un’interpretazione oggettiva delle fattispecie di attentato al cui interno si individuano due diversi orientamenti: taluni evidenziano una coincidenza strutturale delle fattispecie di attentato e del tentativo (E. Gallo); altri ritengono, invece, che tra le due intercorra più semplicemente un rapporto di analogia strutturale (De Francesco; Padovani). Tale ultimo assunto – maggiormente convincente per l’attenzione prestata alla ratio ed alle finalità dei delitti di attentato – é stato in passato fatto proprio dalla Suprema Corte che, a Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 18 marzo 1970, Kofler), ha confermato un indirizzo giurisprudenziale già in atto (Cass. 27 novembre 1968, Muther). Ebbene, secondo la teoria oggettiva, i delitti di attentato devono essere inquadrati nello schema del reato inteso come offesa ai beni giuridici di modo che potranno dirsi integrati solamente allorché siano stati posti in essere atti esecutivi idonei a realizzare l’intento proprio dell’agente.

I fautori della interpretazione oggettiva muovono principalmente da una duplice constatazione. La prima, esposta dalla prevalente dottrina (Marinucci-Dolcini; Pannain), muove dallo stesso tenore letterale dei delitti di attentato che, impiegando l’espressione “fatto diretto a”, non lascia dubbi sul fatto che il concetto di direzione debba essere riferito anche alla condotta materiale e non al solo atteggiamento psicologico dell’autore del reato. La seconda constatazione alla base dell’interpretazione oggettiva é di natura sistematica: l’interpretazione soggettiva si pone in contrasto con la previsione, inserita nella maggior parte delle fattispecie di delitto di attentato, dell’aumento di pena in presenza della verificazione dell’evento dannoso (é quanto si riscontra nell’ipotesi di reato prevista dall’art. 433 cod. pen. e nelle fattispecie di cui agli artt. 420 e 432 del codice penale). Solo l’accoglimento di una interpretazione in chiave oggettiva spiegherebbe una differenziazione sanzionatoria a fronte di una volontà delittuosa destinata a restare identica in colui che solo persegue e nel soggetto che, invece, anche consegue l’evento lesivo (Marinucci-Dolcini). Quest’ultima interpretazione raccoglie, del resto, il plauso di chi pone in luce la necessità di un rispetto incondizionato del principio di offensività sia che lo si desuma dalle norme costituzionali, sia che lo si enuclei dall’art. 49, secondo comma, cod. pen.; un’interpretazione diversa ben difficilmente potrebbe sottrarre le norme esaminate ad una declaratoria di illegittimità costituzionale. L’abbandono delle interpretazioni soggettivistiche da parte della più attenta dottrina e della più recente giurisprudenza evita, inoltre, le pericolose strumentalizzazioni politiche di tali fattispecie; si é rimarcato, infatti, che, ritenendo “sufficiente qualunque “atto intenzionalmente diretto” al risultato lesivo (la cui direzione criminosa può essere desunta aliunde e non necessariamente dalla condotta,

che é mero sintomo rilevatore, assieme agli altri mezzi probatori, della volontà ostile), e prescindendo del tutto dal pericolo dell’evento, si trasformerebbe il delitto di attentato in un reato di mera disubbidienza (Mantovani). Delineate le linee generali della categoria, é necessario distinguere le varie tipologie di delitti di attentato presenti nel nostro ordinamento. In dottrina é stato ravvisato un primo gruppo in quelle fattispecie che vengono già indicate dalla rubrica legislativa con la formula “attentato” e la cui condotta viene descritta con l’inciso “chiunque commette un fatto diretto a”. Caso tipico é la norma sugli attentati contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato (art. 241 cod. pen.), cui si affianca quella riguardante l’attentato contro la costituzione dello Stato (art. 283 cod. pen.). Oltre a queste fattispecie, rinvenibili sotto il titolo primo del libro secondo del codice penale, afferenti i delitti contro la personalità dello Stato, deve menzionarsi anche la figura dell’attentato a impianti di pubblica utilità (art. 420 cod. pen.) che trova la sua disciplina nel titolo quinto del libro secondo del codice penale in tema di delitti contro l’ordine pubblico. La seconda categoria individuata dalla dottrina é quella dei delitti designati nella rubrica legislativa con la formula “attentato” ma caratterizzati da una condotta che, a livello descrittivo, si atteggia a condizione obiettiva di punibilità: é il caso della norma sugli attentati alla sicurezza degli impianti di energia elettrica e del gas ovvero delle pubbliche comunicazioni (art. 433 cod. pen.) che, dopo aver riportato in apertura il “chiunque attenta” – tipico dei delitti a consumazione anticipata – conclude con “qualora

dal fatto derivi pericolo per la pubblica incolumità”. L’ultima tipologia, infine, riguarda i delitti che, pur non espressamente denominati come attentati, risultano strutturati con caratteristiche tipiche dei delitti di attentato: é il caso della fattispecie delineata dall’art. 286 cod. pen. che, sotto il titolo “guerra civile”, incrimina la condotta di “chiunque commette un fatto diretto a”..

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Massima

Il tentato omicidio é incompatibile con il dolo eventuale, occorrendo quantomeno il dolo alternativo. (Cass. pen.,

sez. II, 28 marzo 2012, n. 14034).

Sentenza per esteso Cass. pen., sez. II, 28 marzo 2012, n. 14034

Osserva

1 - Con sentenza in data 25.3/23.6.2011 la corte di appello di Torino, in parziale riforma della pregressa sentenza, in abbreviato, del gup del tribunale di Ivrea datata 1.10.2009, condannava, tra gli altri, S.E. e B.F. alle pene, il primo, di anni nove e mesi due di reclusione, il secondo di anni nove e mesi quattro di reclusione per i delitti, in continuazione, di tentato omicidio, rapina, lesioni personali aggravate, così riqualificati i fatti da tentato omicidio plurimo ritenuti in primo grado, e furto. 2 - In breve i fatti come ricostruiti dai giudici di merito: i due imputati, insieme ad altri due correi, V.V.I., alias P.I. e B.G. il (OMISSIS) si introducevano, travisati, nel convento dei frati minori francescani di Nostra Signora di Belmonte, in (OMISSIS), si munivano di pesanti bastoni reperiti in un deposito - attrezzi del convento e, dividendosi i compiti, aggredivano, ognuno per frate, i quattro religiosi, M.G. di anni 86, Ba.Gi. di anni 81, G.B. di anni 76 e Ba.Se. di anni 49, colpendoli al capo ed al torace, specie il V. accanendosi contro quest'ultimo tanto da cagionargli gravi danni cerebrali che imponevano un immediato intervento chirurgico che valse a salvargli la vita. Quindi si impossessavano di due carte di credito e di una somma imprecisata, allontanandosi dalla scena del delitto dopo aver legato ed imbavagliato i frati tranne Ba.Se.. lasciato agonizzante a testa in giù in una pozza di sangue. Tutti gli imputati, tranne il V., si erano resi responsabili nei mesi precedenti di furti ai danni del convento: precisamente di quattro il, B.F., di tre lo S., di due il B. G.. Nel corso del giudizio S. ed i due fratelli B. rendevano ampia confessione al P.M. In esito alle indagini, le imputazioni come poco sopra indicate, modificata solo quella di tentato omicidio inizialmente contestato a tutti gli imputati ai danni di tutte le persone lese, in lesioni aggravate ai danni di M., Ba. e G. e confermando il delitto di tentato omicidio per tutti ma solo ai danni di B.S.. Con riferimento a quest' ultimo delitto, per la cui configurazione si rivolgono le critiche più diffuse dei due ricorrenti, i giudici dell'appello, premesso che l'azione dell'autore materiale, il V. V.I., doveva ritenersi sorretta dal dolo intenzionale, per le caratteristiche della condotta lesiva, reiterata, sorretta da violenza inaudita, mirata a zone corporee vitali, attuata con uno strumento micidiale per peso e solidità, hanno ritenuto, in base ad un duplice criterio di ragione, di attribuirne la responsabilità anche agli altri correi in forza dell'accettazione,da parte loro, del rischio che l'azione potessi trasmodare in evento letale. E,su questo versante hanno ritenuto di attribuire il tentativo di omicidio ai concorrenti morali del fatto a titolo di dolo eventuale: perché l'azione omicidiaria era collegata da un rapporto di regolarità causale con quella preordinata e realizzata al fine di cagionare le lesioni, immobilizzare i frati per impossessarsi dei valori rinvenuti nel convento e perché con riferimento al solo padre B. vi erano motivi di rancore e di risentimento da parte dello S. che proprio B. aveva allontanato dal convento, dove aveva in precedenza lavorato, per via delle sue pretese economiche e per via di presunti pregressi rapporti intimi intessuti tra lo S., B. ed altri due frati. 3 - Le ragioni di doglianza dei due ricorrenti, pur contenuti in due rispettivi atti di impugnazione, sono peraltro comuni: la prima contesta, in prima battuta, in radice ed in diritto che sia possibile attribuire il tentativo di omicidio ai concorrenti morali che agiscono con dolo eventuale, rappresentandosi cioè in positivo la possibilità che l'azione diretta a ledere tracimi nella volontà di uccidere. In seconda battuta i ricorrenti deducono che al più si potrebbe solo ritenere che a caratterizzare la loro azione in relazione all'evento morte fosse solo la rappresentazione, ma in negativo, della possibile causazione dell'evento più grave con la conseguente applicazione dell'attenuante di cui all'art. 116 cpv. c.p.. La seconda ragione sorregge il comune tentativo di indurre questa Corte a riconoscere la manifesta illogicità della motivazione in merito alla determinazione della pena, la cui riduzione dovrebbe collegarsi al riconoscimento della ingiustificata equivalenza,e non della prevalenza, delle attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, ingiustificata per via della confessione tempestiva dei due imputati e per la contraddittorietà del medesimo trattamento a loro riservato, in punto di giudizio di equivalenza dell'attenuante, con quello riconosciuto all'autore materiale del tentato omicidio che si era indotto alla confessione solo nel corso dello svolgimento del giudizio abbreviato. 4 - I due ricorsi non sono fondati e pertanto vanno respinti. Deve subito rimarcarsi una incongruenza, anche se non influente sul dispositivo di condanna nel discorso giustificativo giudiziale in ordine alla ritenuta responsabilità dei due imputati per il delitto di tentato omicidio ai danni i B.S.. Invero costituisce regola iuris ormai consolidata l'incompatibilità del tentativo con il dolo eventuale, elemento soggettivo del reato, quest'ultimo, che ricorre allorquando l'agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di una diversa conseguenza della propria condotta ciononostante, agisca accettando il rischio di cagionarla (v., per tutte, Sez. 1, 31.3/2.7.2010, Vismarq, Rv. 247707). Ne consegue che il dolo eventuale non é configurabile nel caso di delitto tentato, in quanto é ontologicamente incompatibile con la direzione univoca degli atti compiuti nel tentativo, che presuppone il dolo diretto. Ora una tale conclusione non può registrare eccezioni una volta che l'attribuibilità del delitto tentato venga collegata al

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concorrente morale, dal momento che anch'egli deve rappresentarsi l'idoneità e l'inequivocità degli atti propri della autore materiale del delitto. Ne consegue che é erronea l'affermazione di diritto contenuta nella sentenza che ripete una risalente massima, anch'essa erronea, che recita testualmente: "perche il concorrente morale risponda del delitto di tentato omicidio, non é necessario, come per l'esecutore materiale, che l'evento-morte sia stato da lui voluto con dolo diretto, ma é sufficiente che sia stato voluto con dolo eventuale: il che significa che il concorrente morale deve aver concorso all'azione dell'esecutore materiale non soltanto prevedendo in concreto l'evento-morte come possibile conseguenza dell'azione concordata, ma addirittura accettandone il rischio di accadimento, pur di realizzare l'azione concordata (Sez. 1, 12.6/8.7.1991 Ventura Rv. 187758). Sennonché dalla lettura della sentenza impugnata si trae con particolare chiarezza che l'effettiva situazione psicologica dei concorrenti doveva correttamente inquadrarsi nel dolo diretto o alternativo che sia. In tema di delitti omicidiari, deve qualificarsi come dolo diretto, e non meramente eventuale , quella particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo, che sussiste quando il soggetto attivo prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l'uno o l'altro degli eventi (nella specie, morte o grave ferimento della vittima) causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, con la conseguenza che esso ha natura di dolo diretto ed é compatibile con il tentativo. I giudici dell'appello hanno richiamato in proposito, quale referente per la decisione de qua, la massima giurisprudenziale alla cui stregua il 1' omicidio ad opera di uno dei concorrenti in seguito alla rapina a mano armata deve ritenersi legato alla rapina da "un rapporto di regolarità causale e può considerarsi un evento che rientra secondo l'id quod plerumque accidit nell'ordinario sviluppo della condotta di rapina". Hanno aggiunto poi che la morte del religioso non poteva non essere contemplata ed accettata nella particolare situazione di fatto come possibilità non remota o straordinaria, ma come possibilità costituente prevedibile sviluppo della azione concordata. Ed hanno infine concluso che tutti i concorrenti, accettandone la possibilità di accadimento - morte - "ne hanno preventivamente approvato la verificazione". Il che costituisce l'esplicitazione chiara di una rappresentazione in positivo della figura del dolo alternativo che in tanto sussiste in quanto l'agente si rappresenta, accettandoli, e vuole indifferentemente l'uno o l'altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché già al momento della realizzazione del fatto di reato egli deve prevederli entrambi. Vi é allora piena compatibilità tra tentativo penalmente punibile e dolo alternativo, poiché la sostanziale equivalenza dell'uno e dell'altro evento, che l'agente si rappresenta indifferentemente, entrambi come eziologicamente collegabili alla sua condotta o a quella altrui, alla quale concorre, comporta che questa forma di dolo é diretta, atteso che ciascuno degli eventi é ugualmente voluto dal reo. 5- Inammissibile invece la seconda ragione di doglianza: i giudici di merito hanno valutato, per ritenere solo equivalenti le attenuanti generiche, pur concesse, la gravità dei fatti, le modalità cruente delle rispettive condotte, pervenendo ad una valutazione, che ha tenuto conto del numero dei reati satelliti di furto attribuiti, in maggior e o minore misura, ai singoli imputati, e che si sottrae come tale al sindacato che tende a soppesare, sul piano squisitamente di merito, la maggior correttezza o meno del discorso giustificativo. Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati in solido al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 28 marzo 2012. Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2012

Massima

Il dolo eventuale non é compatibile con il delitto tentato. (In applicazione del principio, la Corte ha cassato la

sentenza impugnata che aveva configurato un tentativo di lesioni, pur ravvisando l'elemento psicologico nella

sola finalità dell'imputato di intimidire la parte offesa, con accettazione del rischio di ferirla). (Cass. pen., sez. VI,

20 marzo 2012, n. 14342).

Sentenza per esteso Cass. pen., sez. VI, 20 marzo 2012, n. 14342

Fatto e diritto

1.-. Il difensore di R.R. ricorre per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di Appello di Torino, in parziale riforma della condanna pronunciata in primo grado nei confronti del predetto, riqualificato il reato di tentato omicidio di cui al capo 1) in minaccia grave, ha rideterminato la pena a lui inflitta, valutata come violazione più grave quale di cui all'art. 572 c.p., nella misura di anni uno, mesi otto e giorni dieci di reclusione, eliminando la misura di sicurezza e le pene accessorie e confermando nel resto. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di affermazione della responsabilità del R. per il reato di cui al capo 1). In particolare, si segnala che detto capo di imputazione vedeva originariamente rispondere l'imputato di duplice tentato omicidio ai danni della figlia e della convivente. In primo grado si era ritenuto il R. responsabile di tentato omicidio ai danni della convivente, mentre si era derubricato l'episodio ai danni della figlia e si era condannato il prevenuto per tentate lesioni aggravate ai danni di quest'ultima. La Corte di Appello, in riforma della decisione di primo grado, ha confermato la sola responsabilità per il reato di tentate lesioni ai danni della figlia,

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derubricando la condotta ai danni della convivente in quella di minacce gravi. Ma, nel confermare la responsabilità per il tentativo di lesioni ai danni della figlia, la Corte di merito avrebbe ritenuto di ravvisare quale elemento soggettivo a sostegno dell'azione posta in essere dall'imputato lo "scopo intimidatorio verso la figlia" e quindi il dolo generico della minaccia con la "accettazione del rischio concreto di ferirla", e cioè la mera eventualità del dolo di ledere. Così facendo, la Corte distrettuale si sarebbe discostata dalla concorde giurisprudenza di legittimità che esclude che le fattispecie di reato tentato possano essere sorrette dall'elemento soggettivo nella forma del dolo eventuale. A parte il fatto che la sentenza impugnata sarebbe contraddittoria e incomprensibile e avrebbe ignorato tutti i rilievi addotti nei motivi di gravame. Con il secondo motivo si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione in punto di affermazione della responsabilità dell'imputato in riferimento al reato di cui all'art. 572 c.p., in quanto non sarebbe stato in alcun modo determinato l'arco temporale in cui collocare le singole condotte vessatorie e conseguentemente non sarebbe stato possibile analizzare l'elemento tipico della abitualità caratterizzante il delitto di maltrattamenti. Inoltre la Corte di Appello, pretermettendo ogni valutazione in ordine agli elementi di fatto ed alle argomentazioni prospetti nei motivi di gravame, avrebbe basato sostanzialmente la responsabilità del R. sul memoriale da lui manoscritto, senza considerare che si trattava di un atto indirizzato esclusivamente a discolparsi dal reato di tentato omicidio. Con il terzo motivo si lamentano gli stessi vizi in riferimento al trattamento sanzionatorio riservato all'imputato, per la mancata applicazione delle attenuanti generiche nella loro massima estensione, per la eccessività della pena-base e per gli eccessivi aumenti di pena determinati ex art. 81 cpv c.p. anche peggiorativi rispetto alle sanzioni inflitte in primo grado. Con l'ultimo motivo si eccepiscono gli stessi vizi in riferimento alla mancata concessione del beneficio della sospensione della pena. 2 .-. Il primo motivo di ricorso é fondato. A R.R. é stato originariamente ascritto al capo 1) il reato di duplice tentato omicidio ai danni della figlia e della convivente. Il Tribunale di Torino, all'esito del giudizio di primo grado, ha dichiarato il R. colpevole di tentato omicidio ai danni della convivente, mentre ha derubricato l'episodio ai danni della figlia, condannando il predetto per tentate lesioni aggravate ai danni di quest'ultima. La Corte di Appello, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha confermato la sola responsabilità per il reato di tentate lesioni ai danni della figlia, riqualificando il reato di tentato omicidio ai danni della convivente in minaccia grave, con conseguente rideterminazione della pena, valutata come violazione più grave quella di cui all'art. 572 c.p., capo 2), nella misura di anni uno, mesi otto e giorni dieci di reclusione e con eliminazione della misura di sicurezza e delle pene accessorie e conferma nel resto. Tuttavia, nel confermare la responsabilità per il tentativo di lesioni ai danni della figlia, la Corte di merito ha ravvisato quale elemento soggettivo a sostegno dell'azione posta in essere dall'imputato (il primo colpo sparato) lo "scopo intimidatorio verso la figlia con accettazione del rischio concreto di ferirla". Ne deriva che nella sentenza impugnata si é imputato al R. il tentativo di lesioni ai danni della figlia a titolo di dolo eventuale. La giurisprudenza di questa Corte é sostanzialmente costante nel ritenere che il dolo eventuale non sia compatibile con il delitto tentato (Sez. 1, Sentenza n. 25114 del 31/03/2010, Rv. 247707, Vismara). In particolare, si é chiarito che in tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale non é configurabile nel caso di delitto tentato, poiché, quando l'evento voluto non sia comunque realizzato e quindi manchi la possibilità del collegamento ad un atteggiamento volitivo diverso dall'intenzionalità diretta, la valutazione del dolo deve avere luogo esclusivamente sulla base dell'effettivo volere dell'autore, ossia della volontà univocamente orientata alla consumazione del reato, senza possibilità di fruizione di gradate accettazioni del rischio, consentite soltanto in caso di evento materialmente verificatosi (Sez. 1, Sentenza n. 44995 del 14/11/2007, Rv. 238705, Strimaitis; Sez. 1, Sentenza n. 5849 del 18/01/2006, Rv. 234069, Taddei). Ne deriva la erroneità delle conclusioni alle quali é pervenuta la Corte di merito, che, pur confermando la condanna del prevenuto per il tentativo di lesioni ai danni della figlia, da un lato imputa al R. tale tentativo a titolo di dolo eventuale e, dall'altro, sembra in realtà iscrivere anche questo fatto (come quello successivo ai danni della moglie) in un contesto di gravi minacce. 3 .-. In questo quadro incerto e non privo di contraddizioni, si impone l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata per una rivisitazione più attenta, anche in riferimento all'elemento psicologico del reato, dell'intera vicenda oggetto del presente processo. Nell'espletare il nuovo giudizio, la Corte di Appello avrà cura di rideterminare anche il trattamento sanzionatorio, non esente, nelle attuali statuizioni, da interne contraddizioni, soprattutto in riferimento agli aumenti fissati per la continuazione e alle percentuali di riduzione per le concesse attenuanti generiche.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Torino. Così deciso in Roma, il 20 marzo 2012. Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2012

Massima

Al fine del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del delitto

pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze

concrete (di luogo - di tempo - di mezzi ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come

l'insieme del suddetti atti - abbia la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si

trovi ormai ad un punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sarà commesso a

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meno che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità, dovendosi, a tal fine,

escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volontà del soggetto agente atteso che costui ha

solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria, ex art.

56 c.p., comma 3 o il recesso attivo, ex art. 56 c.p., comma 4 (nella specie, la Corte ha ritenuto integrato il

tentativo di rapina nei confronti dell'imputato che era stato trovato con armi e con strumenti diretti al

travisamento della persona nei pressi di una banca, il quale si era poi dato ad una precipitosa fuga per sottrarsi

all'intervento dei carabinieri). (Cass. pen., sez. II, 13 marzo 2012, n. 12175).

Sentenza per esteso

Cass. pen., sez. II, 13 marzo 2012, n. 12175

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 8/6/2011, la Corte di appello di Bari, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trani, in data 9/6/2006, dichiarato estinto per prescrizione il reato di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 4, rideterminava la pena inflitta a N. G. per il reato di rapina tentata in anni uno, mesi sette di reclusione ed Euro 400,00 di multa. 2. Avverso tale sentenza propone ricorso l'imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando un unico motivo di gravame con il quale deduce violazione di legge ed illogicità della motivazione. Ai riguardo eccepisce che nella fattispecie non sussistano gli estremi del tentativo nella condotta dell'agente, il quale veniva fermato dai Carabinieri, quando l'azione delittuosa si trovava ancora allo stadio degli atti preliminari non punibili.

Considerato in diritto

1. Il ricorso é infondato. 2. In punto di diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo, l'argomento é stato compiutamente esaminato da questa Sezione con la sentenza n. 28213/2010, Rv. 247680 (da ultimo con la sentenza n.36536/2011, Rv. 251145) che ha affermato quanto segue. 3. L'art. 56 c.p., disciplina il tentativo nei delitti e, essendo una fattispecie autonoma rispetto al reato consumato (ex plurimis Cass. 13/6/2001 riv. 220330), richiede, come tutti i reati, la sussistenza sia dell'elemento soggettivo che oggettivo. L'elemento soggettivo é identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere. L'elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità In quanto ruota intorno a tre concetti: - l'idoneità degli atti; - l'univocità degli atti; - il mancato compimento dell'azione o il mancato verificarsi dell'evento. La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda proprio attraverso l'esatta comprensione del suddetti principi. 4. Una premessa di natura sistematica: sebbene l'art. 56 c.p., sia l'unica norma che disciplini espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono trarre, ai Fini sistematici, anche dall'art. 115 c.p., a norma del quale "qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa é punibile per li solo fatto dell'accordo". La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortori, il semplice averlo pensato) non é punibile (salva l'applicazione della misura di sicurezza) ponendosi all'estremo opposto del delitto consumato. Ma é proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo (non punibile) ed il delitto consumato che si colloca la problematica del delitto tentato che consiste, appunto, nello stabilire quando un'azione, avendo superato fa soglia della mera cogitatio, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, dev'essere ugualmente punibile. 5. Il codice penale del 1889 (c.d. codice Zanardelli), influenzato dal codice napoleonico, all'art. 61, punendo "colui che, a) fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi Idonei l'esecuzione", poneva la soglia di punibilità del delitto programmato nel momento in cui l'agente avesse cominciato l'esecuzione dell'azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili. 6. La distinzione, però, creò notevoli problemi interpretativi tanto che il legislatore del 1930 - peraltro anche per precise ragioni ideologi che - abbandonò espressamente il suddetto criterio, introducendo l'attuale art. 56 c.p. che ruota intorno a due criteri l'idoneità e la inequlvocltà degli atti compiuti dall'agente, nel senso che solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente può essere punito a titolo di tentativo. 7. Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), però, si é riacutizzato perché, mentre prima la domanda era quali fossero i alteri per stabilire la differenza fra atti preparatori (non punibili) ed atti di esecuzione (punibili), ora la questione consiste nell'individuare la linea di confine che separa il semplice accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili. In ordine al concetto di idoneità degli atti (e non del mezzo come prescriveva il codice Zanardelli), l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, é alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere Idoneo quando, valutato ex ante ed In concreto (c.d. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed criterio di valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino, rv 206562), il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti - Indipendentemente dall'insuccesso determinato da

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fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv 241649 (in motivazione) - Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915. Tanto risulta confermato anche dall'art. 49 c.p., comma 2 che é la norma speculare dell'art. 56 c.p., nella parte in cui dispone la non punibilità per l'Inidoneità dell'azione. Più controversa é la nozione di univocità degli atti. Secondo una prima tesi: anche gli atti preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall'Insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto (Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720). L'atto preparatorio può Integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto (Cass. 40702/2009 Rv. 245123). 8. E' la c.d. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito dell'univocità dell'atto può essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in sé considerato ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti preparatori qualora rivelino la finalità che l'agente intendeva perseguire. 9. Ad avviso, Invece, di un'altra tesi: gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio df esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata. In quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue che non sono punibili, a titolo di tentativo, I meri atti preparatori (Cass. 9411/2010 Rv. 246620 - Cass. 40058/2008 cit. - Cass. 36283/2003 riv 228310 - Cass. 43406/2001 riv 220144). Se é vero, infitti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell'epoca, aveva ritenuto di allargare l'area del tentativo punibile redigendo il testo dell'art. 56 c.p., non é men vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l'illusorietà del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Ciò perché atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi. In quanto se l'idoneità df un atto può denotare al più la potenzialità dell'atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'Inizio di esecuzione df una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente (Corte Cost. 177/1980). E' la ed, tesi oggetti va secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta, valutati In quel singolo contesto, rivelano, in sé e per sé considerati, l'intenzione dell'agente (ed criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la "direzione non equivoca" indica, Infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sé rivelare l'Intenzione dell'agente. L'univocità, intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma Impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro aggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo te norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente (Cass. 4005/2008 cit.). 10. E' evidente il punto di frizione fra le due tesi. Infatti, mentre per la tesi soggettiva, l'univocità va valutata sulla base delle circostanze concrete (con la conseguenza che si determina, sul piano della repressione penale, un arretramento della soglia di punibilità, in quanto anche gli atti in sé preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al contrario per la tesi oggettiva, l'univocità coincide con l'inizio degli atti tipici di un determinato reato (con conseguente spostamento in avanti della soglia di punibilità, escludendosi l'univocità negli atti meramente preparatoli). 11. Questa Corte ritiene che la tesi ed oggettiva non sia condivisibile perché, riproponendo, di fatto, l'antica problematica di cui si discuteva sotto il codice Zanardelli, opera un'interpretazione abrogans della nuova normativa, lasciando insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli stessi Interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l'intera normativa. Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto: "innovazioni radicali sono state Introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi". Si ritiene, quindi, che la tesi più corretta sia quella soggettiva per ( motivi di seguito indicati. 12. Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'art. 56 c.p., non può che essere il dato storico: come si é detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dell'Individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile nei reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione". Nel nuovo art. 56 c.p., infatti, non si parla più di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti Inidonei di cui all'art. 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica. La terminologia adoperata dal legislatore é molto importante: una cosa é parlare di cominciamento dell'esecuzione con mezzi idonei, altro é parlare di azione non compiuta e di atti idonei a commettere il delitto. 13. E' evidente, infatti, l'arretramento della soglia di punibilità, laddove si consideri che i termini "azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico, una maggiore estensione rispetto alla più ristretta categoria degli atti esecutivi, in altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo sull'esecuzione ma anche sull'azione. 14. Ora, siccome l'azione é quell'attività umana composta da uno o più atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo é punibile non solo quando l'esecuzione é compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto. Sul punto, é lo stesso art. 56 c.p., che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il defitto tentato si verifica in due ipotesi; 1) quando l'azione non si compie (c.d. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verìfica (c.d. tentativo compiuto). Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato più gravemente), il dato di fatto semanticamente rilevante é che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non compiuta e di

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evento non verificatosi. 15. Il suddetto dato non può non avere una sua rilevanza giuridica. Infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" é chiaro che ipotizza il caso dell'agente che ha compito l'esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, ma che questo non si é verificato per un fatto indipendente dalla sua volontà (ad es. l'agente ha sparato a Tizio ma questi, all'ultimo momento, casualmente, si é spostato, facendo, quindi, fallire l'attentato). Se, quindi, la legge ha già previsto la punibilità dell'esecuzione degli atti di un delitto, quando prevede la punibilità anche dell'azione, necessariamente non può che far riferimento ad un qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'Insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiamo l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato. L'azione, io si ripete, é un termine molto ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o più atti, e contiene, in sé, tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex post, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare il delitto programmato. Ciò, quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso In ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. 16. Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e quarto dell'art. 56 che, ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo punibile (sanzionati in modo differente): la desistenza dell'azione nel senso sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l'agente risponde degli atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l'impedimento, da parte dell'agente, dell'evento determinato dal compimento degli atti esecutivi veri e propri, nel quale caso, l'agente risponde pur sempre del tentativo, sebbene con una diminuzione della pena. 17. E' evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto distinguere le due tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, vengono puniti allo stesso modo (primo comma), mentre se il delitto non si verifica per la resipiscenza dell'agente, vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l'azione che non si compie (o dalla quale l'agente desiste) é un qualcosa che precede l'evento che non si verifica (o compie). 18. Ed ulteriore conferma può trarsì dall'art. 49 c.p., comma 2, (che rappresenta, per così dire, il lato speculare e contrario dell'art. 56 c.p.) che esclude la punibilità per "l'inidoneità dell'azione" non degli atti esecutivi: il che significa che, per stabilire se d si trova di fronte ad un tentativo punibile, a parte l'ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi considerata espressamente, come si é detto, dall'art. 56 c.p., comma 1, ultima parte), occorre aver riguardo più che all'idoneità dei singoli atti, all'idoneità dell'azione valutata nel suo complesso così come appare cristallizzata in un determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed Interni, conosciuti e conoscibili. Solo se l'azione viene valutata unitariamente, può aversi un quadro d'insieme dei singoli atti che, se valutati singolarmente, possono anche sembrare in sé inidonei, ma che se inseriti in un più ampio contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una più complessa ed unica catena, l'uno funzionale all'altro per il compimento dell'azione finale destinata a sfociare nella consumazione del delitto programmato. 19. Si può, quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930, arretrando la soglia di punibilità del tentativo, ha completamente ribaltato l'impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono punibili non solo gli atti di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per comodità descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori, a condizione però che posseggano quelle caratteristiche si cui si é detto. Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: "al fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo - di tempo - di mezzi ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come l'insieme del suddetti atti - abbia la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sarà commesso a meno che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità, dovendosi, a tal fine, escludere solo quegli eventi Imprevedibili non dipendenti dalla volontà del soggetto agente atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (art. 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (art. 56 c.p., comma 4)". 20. Tanto premesso In diritto, richiamata la dinamica del fatti così come accertata dal giudici del merito, la censura risulta infondata. Come ha correttamente osservato la Corte territoriale, in questo caso il possesso di armi, anche se di fatto non utilizzate, unitamente ad altri strumenti diretti al travisamento della persona, costituisce manifestazione univoca del tentativo di rapina aggravata, ove la si valuti alla luce, sia della condotta anteriore all'intervento del CC, caratterizzata dal sopralluogo e dall'attesa del momento migliore per Irrompere In banca, sia di quella successiva. estrinsecatasi in una fuga tanto precipitosa, quanto pericolosa. Non v'é dubbio, pertanto, che nel caso di specie il comportamento dell'agente abbia varcato la soglia della punibilità penale sotto il profilo del tentativo. 21. Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, l'imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 13 marzo 2012. Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2012

ssionale.it

Massima

Perché possa essere ritenuta sussistente la causa di non punibilità prevista dall'art. 56, comma 3, c.p., é

necessario che la volontà di desistere si sia formata per motivi di una qualsiasi natura, anche pratici, pur se si

prescinde da quelli ideologici o dall'autentico pentimento, ma in maniera del tutto libera, non quando i motivi di

desistenza prevalgano su quelli di persistenza nell'iter criminoso a cagione di fattori esterni, che coartino la

volontà del reo, la quale in tal modo é viziata nella sua formazione (la Corte ha ritenuto sussistente la causa di

non punibilità di cui all'art. 56, comma 3, c.p., nella condotta dell'imputato, che si era allontanato dall'abitazione,

dopo averne forzato la porta di ingresso e rovistato all'interno di essa e messo tutto a soqquadro, senza avere

prelevato nulla, pur se in presenza di tante cose, che potevano essere asportate, anche se di scarso valore).

(Cass. pen., sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 203).

Sentenza per esteso

Cass. pen., sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 203 Fatto e diritto

D.G.A. ricorre per cassazione contro la sentenza in data 4/6/2010, con la quale la Corte di Appello di Palermo ha confermato la decisione in data 21/11/2008 del Tribunale di Trapani, che lo aveva dichiarato colpevole del reato di tentato furto aggravato in appartamento, ex artt. 110 - 56 - 624 bis - art. 625 c.p., n. 2 e condannato alla pena di giustizia. Il predetto aveva fatto da palo al figlio, introdottosi in una abitazione, previa forzatura della finestra, e ne era uscito, dopo avere rovistato all'interno, senza asportare alcunché. A sostegno della richiesta di annullamento dell'impugnata decisione il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della norma penale in riferimento all'art. 56 c.p., comma 3, e sostiene che l'imputato avrebbe dovuto essere mandato assolto per desistenza volontaria, avendo arrestato la sua condotta prima del compimento dell'azione esecutiva, interrotta da motivi di ordine pratico, legati alla circostanza del mancato rinvenimento di beni da asportare, per cui o si versava nell'ipotesi del reato impossibile ex art. 49 c.p., comma 2, ovvero doveva ritenersi che l'agente non abbia voluto, pur potendolo fare, impossessarsi di beni di cui valeva la pena asportare. Il ricorso é fondato sia pure nei limiti e con le precisazioni, che seguono. La giurisprudenza di questa corte, che qui pienamente si condivide, ha chiarito che, perché possa essere ritenuta sussistente la causa di non punibilità prevista dall'art. 56 c.p., comma 3 é necessario che la volontà di desistere si sia formata per motivi di una qualsiasi natura, anche pratici, pur se si prescinde da quelli ideologici o dall'autentico pentimento, ma in maniera del tutto libera, non quando i motivi di desistenza prevalgano su quelli di persistenza nell'iter criminoso a cagione di fattori esterni, che coartino la volontà del reo, la quale in -tal modo é viziata nella sua formazione (Cass. Sez. 2^ 29/9-28/10/2009 n. 41484 Rv.245233; Sez. 4^ 24/6-20/8/2010 n. 32145 Rv.248183; Sez. 1^ 21/3-27/6/1989 n. 8864 Rv. 181644). Nel caso in esame non é condivisibile la decisione del giudice di merito, che nella condotta dell'imputato, che si era allontanato dall'abitazione, dopo averne forzato la porta di ingresso e rovistato all'interno di essa e messo tutto a soqquadro, senza avere asportato nulla, pur correttamente escludendo l'ipotesi del reato impossibile, non ha ravvisato comunque l'esimente della desistenza volontaria. Non ha valutato la corte di merito che tra le tante cose presenti, che potevano essere asportate, pur se di scarso valore, trattandosi di una abitazione rurale, l'imputato ha preferito non persistere nel suo proposito criminoso e di non asportare niente, determinandosi liberamente a tale scelta senza che intervenissero fattori esterni, a nulla rilevando che tale volontà si sia formata per l'assenza di oggetti di suo gradimento. Non corrisponde ai criteri della logica e alle regole del diritto punire colui, che abbandona volontariamente il proposito criminoso e di conseguenza nella specie anche il corresponsabile dell'azione criminosa, attuale ricorrente. Va da sé che negli atti già compiuti é ravvisabile l'ipotesi del reato di concorso in violazione di domicilio aggravata, procedibile di ufficio, onde qualificata la condotta criminosa ex art. 110 - art. 614 c.p., comma 4, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo, che nel demandato nuovo giudizio proceda a carico dell'imputato in ordine a tale ipotesi di reato.

P.Q.M.

Qualificato il fatto come violazione di domicilio aggravata dall'art. 614 c.p., comma 4, annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di - Palermo. Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2012