DIRITTO E LEGISLAZIONE SOCIO-SANITARIA La Deontologia ...deontologia capaci di determinare i limiti...

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DIRITTO E LEGISLAZIONE SOCIO-SANITARIA - La Deontologia Professionale - Etica e Deontologia - Leggi sulla Privacy e Trattamento dei Dati Personali - Principi della Legge Quadro - Previdenza Sociale - Assistenza e Servizi Sociali - Legge 68: Disabili e Lavoro - Assistenza Domiciliare - I Contributi Istituzionali - I Sistemi di Accreditamento in Ambito Sociale - La Forma Giuridica delle Imprese Sociali - L’Educazione alla Salute

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DIRITTO E LEGISLAZIONE SOCIO-SANITARIA

- La Deontologia Professionale - Etica e Deontologia - Leggi sulla Privacy e Trattamento dei Dati

Personali - Principi della Legge Quadro - Previdenza Sociale - Assistenza e Servizi Sociali - Legge 68: Disabili e Lavoro - Assistenza Domiciliare - I Contributi Istituzionali - I Sistemi di Accreditamento in Ambito Sociale - La Forma Giuridica delle Imprese Sociali - L’Educazione alla Salute

                       

       

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La deontologia professionale

La deontologia professionale consiste nell'insieme delle regole comportamentali, il cosiddetto "codice etico", che si riferisce in questo caso ad una determinata categoria professionale. La definizione di "codice etico" rimanda quindi inesorabilmente all'antica e complessa problematica della morale ovvero dell'esistenza, o meno, di principi universali ai quali dovrebbero ispirarsi le azioni dell'uomo. In particolare, il termine "codice etico" acquisisce un suo valore specifico nella contemporaneità, proprio quando, parallelamente all'indebolimento dei cosiddetti "pensieri forti" tradizionali (le ideologie politiche, filosofiche e religiose che dettavano in modo rigido le norme della convivenza sociale), si assiste alla crescente domanda di regole di deontologia capaci di determinare i limiti e le condizioni della prassi umana in particolari contesti. Molte attività o professioni, a causa delle loro peculiari caratteristiche sociali, devono rispettare un determinato codice comportamentale, il cui scopo è impedire di ledere la dignità o la salute di chi sia oggetto del loro operato. Ecco perché gli ordini professionali hanno elaborato codici di deontologia di cui sarebbero tutori mediante l'esercizio dei poteri disciplinari. La deontologia, o etica deontologica, può essere intesa come l'insieme di teorie etiche che si contrappone al consequenzialismo. Mentre il consequenzialismo determina la bontà delle azioni dai loro scopi, la deontologia afferma che fini e mezzi sono strettamente dipendenti gli uni dagli altri, il che significa che un fine giusto sarà il risultato dell'utilizzo di giusti mezzi.

Il più famoso deontologo è stato, probabilmente, Immanuel Kant (1724 - 1804). Il suo imperativo categorico (diviso in tre differenti formulazioni) determina un insieme di principi universali attraverso cui può essere giudicata la bontà delle azioni. Il nome "deontologia" deriva dal greco "deon" che significa "dovere". L'obiettivo di Kant nella formulazione della deontologia era stabilire un sistema etico che non dipendesse dall'esperienza soggettiva ma da una logica inconfutabile. Quindi, la

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correttezza etica di un comportamento sarebbe un dovere assoluto e innegabile, alla stessa maniera in cui nessuno potrebbe negare che due per due fa quattro.

Kant assegna alla logica, quindi, attraverso l'imperativo categorico il dovere di determinare la correttezza o meno di un'azione. Esso si fonda sull'idea della massima che divenuta universale contraddice sé stessa. L'esempio adatto è quello di chi si rifiuta di aiutare gli altri, perché è indifferente alle loro sorti. Kant, in questo caso, ci dice che un mondo in cui ognuno pensi solo alla propria felicità è coerentemente immaginabile; Kant, tuttavia, ci mostra come una volontà che istituisse questo principio si auto-contraddirebbe, poiché ogni singolo perderebbe la possibilità di essere soccorso nel momento del bisogno e questo non è razionalmente desiderabile da alcuno. Anche John Rawls è un deontologo. Il suo libro A Theory of Justice sancisce che dovrebbe essere creato un sistema di sana redistribuzione che segua un insieme di regole morali. Altro deontologo è stato Arthur Schopenhauer, feroce critico di Immanuel Kant nel suo saggio Il fondamento della morale. Schopenhauer accusa Kant di riproporre sotto altre parole la morale teologica e che per evitare contestazioni, "con un minaccioso appello alla coscienza di chi dissente pretende di far tacere ogni dubbio" (Il fondamento della morale). Per Schopenhauer l'imperativo categorico di Kant altro non era che una vera e propria contradictio in adiecto poichè il concetto di dovere ha senso solo in relazione a una promessa di premio o a una minaccia di castigo. Stando cosi un imperativo può essere, per dirla alla maniera di Kant, soltanto ipotetico (condizionato a un premio o a una minaccia) e mai categorico (incondizionato).

Etica e Deontologia

Etica: branca della filosofia che studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di distinguere un comportamento positivo da uno negativo. Possiamo dire quindi che l’Etica è l’intento di applicare la Morale in un contesto di Disciplina. Essa può essere Descrittiva, ossia se descrive il comportamento umano o Normativa se fornisce indicazioni. Etica Applicata: compare agli inizi degli anni ’70 allo scopo di far riflettere su

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problematiche di tipo scientifico e tecnologico, con l uso di conoscenze e nozioni provenienti dalle scienze mediche e naturali.

Bioetica: è un termine che nasce nel 1970 dal cancerologo Potter e indica un’etica non incentrata sugli esseri umani, ma bensì si occupa delle questioni morali che sorgono nel processo di progressione che la ricerca biologica e medica hanno. Infatti si occupa di: biologia, medicina, filosofia, diritto ed altro ancora. La Bioetica Moderna, è caratterizzata da un contrasto fra la matrice cattolica e laica. La Bioetica Cattolica è professata dalla chiesa romana sostiene che l’uomo non è proprietario della sua vita e studia il paradigma dell’indisponibilità della vita e della sacralità. La Bioetica Laica invece, sostiene che l’importante non è la vita in sé, ma la sua qualità e disponibilità e che l’uomo è giudice ed artefice di essa.

Deontologia: o etica deontologica sostiene che per raggiungere un giusto fine si debbano usare i giusti mezzi. Si contrappone al consequenzialismo. Il più famoso deontologo è stato Kant che assegnava alla logica il dovere di etica. Ma non tutto può seguire un filo logico, ovviamente.

Deontologia Professionale: è l’insieme delle regole comportamentali, che si riferisce ad una determinata categoria professionale. Ogni professione ha un proprio codice comportamentale da seguire, onde evitare di violare i limiti della dignità e della salute della persona.

Testamento Biologico: è la dichiarazione anticipata di trattamento, riguardante la volontà espressa dalla persona sul tema dell’interruzione o non interruzione delle cure artificiali in caso di malattia che impediscano una vita “normale”, ricorrendo quindi a delle macchine per mantenere in vita il corpo del soggetto (consenso informato). Nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non dalla legge, e il paziente ha diritto di decidere per ciò che riguarda il testamento biologico (Convenzione di Oviedo del 1997). Il Testamento Biologico può essere comunque cambiato in qualsiasi momento dal paziente che può cambiare o non idea.

L’Obiettivo Principale dell’Assistenza alla persona è l’Autonomia, ovvero l’OSS in particolare, deve cercare di rendere la persona il più autonoma possibile. Io in qualità di OSS (a formazione completata), sarò

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seguirò il Codice Deontologico e l’Etica riguardante la mia professione e attenendomi a ciò che mi concerne fare/non fare, evitando di addentrarmi in situazioni “nocive” per la mia persona e per la mia carriera professionale, rispettando le altre figure sanitarie, ma cercando di mantenere la mia autonomia professionale e personale.

La Donazione d’Organi: si procede a questa operazione esclusivamente se la persona priva di vita, ha espresso la propria adesione. Se non lo ha fatto può decidere la famiglia. La prassi in certi casi prevede una conoscenza etica, psico-sociale e clinico – tecnica. Richiede una grande competenza e una specifica formazione del personale preposto.

Legge 40/2004 (Fecondazione Assistita): è una legge molto nota per aver posto dei limiti riguardo la fecondazione assistita e la ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni. Possono ricorrere a questo trattamento solo coppie di sesso diverso, coniugate o non, in età fertile e in vita, in caso di infertilità o sterilità. Nel 2004 ci fu un referendum che però nel 2005 non raggiunse il quorum e quindi non venne abrogata, rimanendo per certi versi ambigua.

L'accanimento terapeutico consiste nell'applicazione, in assenza di consenso informato, di tecniche mediche che prevedono l'uso di macchinari e farmaci al fine di sostenere artificialmente le funzioni vitali di individui affetti da patologie inguaribili e tali da determinare la loro morte in assenza dell'impiego di tali tecniche.

Lo stato vegetativo è una condizione di possibile evoluzione del coma caratterizzata dalla ripresa della veglia, senza contenuto di coscienza e consapevolezza di sé e dell'ambiente circostante.

Nel caso di Morte Cerebrale o di Coma Irreversibile è presente la completa e irreversibile perdita di attività dell'encefalo, confermata dalle registrazioni elettrofisiologiche, e delle funzioni vitali correlate, fra cui l'attività respiratoria.

La Morte, invece è la perdita totale ed irreversibile delle capacità dell’organismo di mantenere autonomamente le proprie funzionalità, cessando di essere un tutt’uno.

L’Organizzazione dei Servizi Socio-Sanitari, può incidere notevolmente

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sulla professionalità o meno degli operatori sanitari, in quanto le diverse figure devono collaborare fra loro, in piena autonomia, senza invadere gli spazi altrui e attenendosi al proprio codice deontologico, ma lavorando in un ambiente sano e in regola dal punto di vista legale e pratico/professionale, organizzando e gestendo autonomamente le proprie mansioni specifiche.

Il Metodo di Analisi di Complessità Assistenziale, si basa sull’analisi della complessità che presenta ogni paziente e sull’approccio assistenziale personalizzato: non basta individuare le prestazioni da erogare, ma è necessario tener conto di altri fattori tra cui l’autonomia del paziente, il suo grado di coscienza, la sua capacità di orientare delle scelte ecc. In questo ambito l’OSS dovrà favorire l’autonomia cooperando con gli altri operatori sanitari (in equipe). Vedi LEA (Livelli Essenziali Assistenziali).

Il Buon Senso, l’Etica e la Deontologia Professionale, devono sempre guidare i comportamenti degli operatori sanitari, che dovranno cooperare e collaborare fra di loro, per migliorare le condizioni di salute dell’individuo.

Linee di Comportamento dei professionisti sanitari: di solito ci sono delle Linee Guida, ovvero dei documenti scientifici con specifici protocolli da seguire in determinate situazioni. Ovviamente l’Etica ricopre sempre un ruolo fondamentale nelle linee comportamentali, oltre al Codice Deontologico.

Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – UNGA, 10/12/1948: Documento Storico, prodotto in quanto durante la seconda guerra mondiale ci furono molte atrocità. Questo Documento fa parte dei documenti più importanti delle Nazioni Unite. È un codice etico fondamentale per la storia in quanto è il primo documento che sancisce i diritti dell’uomo a livello mondiale. Essa fu la base di molte conquiste civili e costituisce poi l’ideale di Costituzione Europea, nata nel 2004. è composta da 30 articoli che sanciscono i diritti civili, politici, sociali e culturali di ogni persona.

L’OSS deve esserci senza imporsi. È molto difficile, ma importante! Inoltre l’obiettivo fondamentale per l’operatore è il miglioramento delle potenzialità psico-fisiche del paziente, mettendo da parte il pensiero e il

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volere dell’operatore. Il tutto ovviamente nel contesto della Relazione d’Aiuto, ovvero la relazione che si instaura fra l’OSS (helper) e il paziente (utente).

Leggi sulla privacy e trattamento dei dati personali Per trattamento dei dati personali si intende qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca dati. Rispetto alla definizione accolta dalla previgente L. 675/96, è stato precisato espressamente che nella nozione di trattamento devono essere fatte rientrare anche le operazioni relative a dati non registrati in una banca dati.

Il titolo III della parte I del D.Lgs. 196/03 ("Codice della privacy") detta le regole generali per il trattamento dei dati, distinguendo tra regole per tutti i trattamenti (capo I), regole ulteriori per i soggetti pubblici (capo II), regole ulteriori per privati ed enti pubblici economici (capo III).

Il Codice della privacy disciplina i casi in cui la gestione dei dati personali è autorizzata, quali sono le misure di sicurezza ed i codici deontologici da osservare. Il Regolamento disciplina altresì i tipi di dati trattabili e le operazioni eseguibili per ciascuna delle attività previste ed assicura a tutti i soggetti che concedono informazioni e dati personali opportune garanzie in ordine al trattamento degli stessi da parte degli operatori dell’Amministrazione Pubblica, di Enti privati e di altri soggetti che per loro li trattino.

Il Codice della privacy fino al 1996 non si limitava a disciplinare le banche di dati, intese - ai sensi dell’art. 1 comma 2 lett. a – come <<qualsiasi complesso di dati personali, ripartito in una o più unità dislocate in uno o più siti, organizzato secondo una pluralità di criteri determinati tali da

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facilitarne il trattamento>>, ma regolava anche operazioni singole compiute su dati personali, intesi come <<qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale>>. In base alla normativa di cui agli artt. 20, comma 2, e 21, comma 2, del d.lg. 30 giugno 2003, n. 196, i sistemi informativi ed i programmi informatici dovranno essere predisposti in modo da assicurare che i dati sensibili (o personali) siano utilizzati esclusivamente nella misura necessaria per il raggiungimento delle specifiche finalità che il titolare si prefigge (espressamente elencate nel d.lg. n. 196/2003 artt. 59, 60, 62-73, 86, 95, 98 e 112). In caso contrario sarà necessario utilizzare dati in forma anonima o adottare modalità che permettano di identificare l’interessato solo in stretto caso di necessità.

Con riguardo alle regole valide per tutti i trattamenti contenute nel Codice della privacy, l’art. 11 del citato provvedimento stabilisce innanzitutto che i dati personali oggetto di trattamento sono:

1. trattati in modo lecito e secondo correttezza; 2. raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, ed

utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi;

3. esatti e, se necessario, aggiornati; 4. pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali

sono raccolti o successivamente trattati; 5. conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato

per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati.

Il medesimo art. 11 introduce inoltre il divieto di utilizzare, in qualsiasi modo, i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali.

Il Titolare, unitamente al Responsabile dei sistemi informativi, deve quindi preventivamente adottare procedure organizzative, informatiche e materiali che permettano al singolo incaricato l’accesso nel database ai soli dati necessari alle sue specifiche mansioni. Tale accesso è consentito, oltre al titolare ed al responsabile, soltanto ad incaricati dotati di credenziali di

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autenticazione che consentano il superamento di una procedura di convalida relativa ad uno specifico trattamento o ad un insieme di trattamenti.

Il Codice della privacy stabilisce che ogni Titolare debba eseguire vari adempimenti che consentano al Garante e ai terzi di conoscere esattamente se, perché e come una determinata azienda o ente gestisca dati sensibili. Il Garante, per non sovraccaricare di adempimenti i settori nei quali la gestione di dati sensibili è obbligatoria per legge (ad esempio i dati dei lavoratori dipendenti), emana delle Autorizzazioni Generali che ogni anno sono rinnovate. Tali provvedimenti sollevano il titolare del trattamento dall'obbligo di notificazione all'Autorità Garante, ferma restando l'autorizzazione dietro fornitura di una informativa sul trattamento, da parte dell'interessato.

I dati personali così individuati sono trattati previa verifica della loro pertinenza, completezza e indispensabilità rispetto alle finalità perseguite nei singoli casi, specie nel caso in cui la raccolta non avvenga presso l'interessato. Le operazioni di interconnessione, raffronto, comunicazione e diffusione sono ammesse soltanto se indispensabili allo svolgimento degli obblighi o compiti di volta in volta indicati, per il perseguimento delle rilevanti finalità di interesse pubblico specificate e nel rispetto delle disposizioni rilevanti in materia di protezione dei dati personali, nonché degli altri limiti stabiliti dalla legge e dai regolamenti.

Gli adempimenti principali che consentano al Garante e ai terzi di conoscere esattamente se, perché e come una determinata azienda o ente gestisca dati sensibili sono:

• la notificazione all’Autorità Garante; • l’informativa all’interessato; • la raccolta dei consensi; • la suddivisione dei compiti con l’attribuzione delle relative

responsabilità all’interno dell’organizzazione del Titolare; • l’adozione delle misure di sicurezza.

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PRINCIPI DELLA LEGGE QUADRO 328/2000

Scopo della legge quadro n. 328/2000 è quello di realizzare un sistema integrato di interventi e servizi sociali che, attraverso politiche sociali universalistiche, persegua i seguenti obiettivi:

• garantire la qualità della vita • assicurare pari opportunità • rimuovere le discriminazioni • prevenire, eliminare o ridurre le condizioni di bisogno e di

disagio degli individui e delle famiglie derivanti da:

a. disabilità b. inadeguatezza del reddito c. difficoltà sociali d. condizioni di non autonomia

Il sistema si dice integrato perché nella realizzazione delle reti di servizi coinvolge sia soggetti del pubblico che del privato. Altre sue caratteristiche fondamentali sono il coordinamento degli interventi assistenziali con quelli sanitari e l’importanza data al livello territoriale di zona. Il sistema si fonda infatti sul coinvolgimento di tutti i livelli istituzionali (Stato, Regioni, Province e Comuni) in una logica di decentramento rispettoso delle autonomie e delle specificità locali (il Comune diventa così il nodo cardine per la realizzazione di reti di servizi che, per progettazione e caratteristiche, rispondano ai bisogni cittadini), ma al contempo attento a salvaguardare e promuovere obiettivi, standard e diritti comuni a livello nazionale. Anche a questo scopo la legge introduce il Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali (da qui in poi Piano nazionale), elaborato ogni tre anni dal Governo, che indica gli obiettivi di priorità sociale e le linee di indirizzo per l’attuazione degli interventi, le modalità di realizzazione del sistema integrato dei servizi, i criteri generali per i parametri di valutazione dei livelli di integrazione sociale e di verifica del rapporto costi/benefici, e altri punti fondamentali per garantire un’omogeneità di base, su tutto il territorio nazionale, degli interventi e dei servizi essenziali e dei diritti

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fondamentali. La programmazione e l’organizzazione del sistema integrato degli interventi sociali, compete agli enti locali, alle Regioni e allo Stato e deve realizzarsi secondo i principi di sussidarietà, cooperazione, efficacia ed economicità, omogeneità, autonomia organizzativa e regolamentazione degli enti locali.

Un’importante innovazione della legge quadro sull’assistenza è l’aver introdotto, fin dl suo primo articolo, gli organismi del Terzo settore accanto ai soggetti istituzionali, chiedendo a questi ultimi di riconoscere e agevolare il ruolo del non profit in quanto soggetto attivo nella progettazione e nella realizzazione del sistema integrato dei servizi. Ciò non solo perché si riconosce al Terzo settore il ruolo, in quanto fornitore dei servizi sociali, di promotore del benessere sociale, ma anche perché tra gli scopi del sistema integrato c’è quello della promozione della solidarietà sociale e la valorizzazione delle iniziative che partono dalla società civile. Allo scopo di rispondere proprio ai principi di sussidiarietà e di cooperazione a vari livelli, su cui si deve reggere l’organizzazione del nuovo welfare, il Piano nazionale 2001-2003 introduce il metodo della programmazione partecipata. Per il Terzo settore ciò significa che se fino ad oggi è stato prevalentemente coinvolto nella realizzazione del welfare in quanto "soggetto fornitore", con questa nuova impostazione le organizzazioni non profit hanno la possibilità diventare "progettiste" dei servizi che andranno a erogare; infatti, potranno partecipare al momento della programmazione dei Piani di zona (declinazione territoriale dei Piani regionali che a loro volta seguono, nel rispetto delle specificità locali, le linee di indirizzo del Piano nazionale), secondo i principi di concertazione e cooperazione. Un altro criterio cardine della rete dei servizi che la legge quadro vuole avviare è la qualità. Essa è definita nei suoi parametri generali dal Piano nazionale e riguarda sia i servizi pubblici che quelli privati. Anche per rispondere a procedure di autorizzazione e di accreditamento i cui criteri sono definiti dalle Regioni e applicati dai Comuni. Per stimolare il raggiungimento di alti livelli di qualità nei servizi sociali, la legge introduce due strumenti in cui i cittadini-utenti hanno un ruolo determinante: la carta dei servizi, di cui si devono dotare sia gli enti pubblici che il non profit, e ti titoli per l’acquisto di servizi sociali. In questo modo si riconosce il diritto dei cittadini a rivolgersi ai servizi che reputano essere i migliori per la risposta che danno alle loro specifiche e

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soggettive esigenze. Inoltre, si ritiene che l’introduzione dei "titoli" possa essere di stimolo a una positiva competitività tra i soggetti erogatori (pubblici e privati).

Infine, poiché la ricerca della qualità passa anche attraverso il sostegno all’innovazione, la legge ricorda in più punti l’importanza di dare spazio alla sperimentazione di servizi innovativi di cui possono farsi ideatori e gestori anche gli organismi del Terzo settore.

Caratteristiche del sistema nazionale di previdenza sociale

Ad eccezione del sistema sanitario, il sistema italiano di tutela sociale non è organizzato secondo criteri universali, perché per avere diritto ai benefici devono essere soddisfatti alcuni criteri (ad esempio in termini di età, di periodi di contribuzione e, in alcuni casi, di condizioni reddituali). Il sistema italiano di welfare prevede la copertura dei seguenti settori di previdenza sociale: vecchiaia, pensionamento anticipato, invalidità, pensione ai superstiti, malattia, disoccupazione, famiglia, maternità e paternità, oltre che prestazioni in materia di infortuni sul lavoro, malattie professionali e benefici per singoli o famiglie in difficoltà. Tutti i lavoratori che svolgono la propria attività nel territorio italiano sono soggetti a copertura assicurativa previdenziale e sia gli impiegati che i lavoratori autonomi devono obbligatoriamente essere iscritti all’AGO “Assicurazione Generale Obbligatoria”. La maggior parte dei citati benefici gestiti dal regime di assicurazione obbligatoria sono concessi alle seguenti categorie di lavoratori: impiegati del settore privato, lavoratori autonomi – inclusi commercianti, artigiani, mezzadri, coloni e lavoratori parasubordinati, tutti iscritti all’Inps. L’Inps gestisce anche una serie di fondi speciali di previdenza per determinate categorie di lavoratori – fondo trasporti, fondo esattoriale, fondo telefonici, fondo gas, fondo clero e fondo volo. Dal 2012 l’Inps gestisce anche prestazioni erogate a dipendenti pubblici (già iscritti all’Inpdap). I professionisti (avvocati, medici, ingegneri e architetti) sono invece

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obbligati ad iscriversi al fondo specifico gestito dal loro ordine professionale (ad esempio Cassa Forense per gli avvocati e Inarcassa per gli ingegneri e gli architetti). Tutti i professionisti privi di un fondo pensione specifico sono obbligati ad iscriversi alla gestione separata gestita dall’Inps. Il regime assicurativo provvede alla tutela dei lavoratori in caso di malattie professionali, incidenti o morti sul lavoro, è finanziata dai datori di lavoro e gestita dall’Inail (Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul lavoro) e concede benefici temporanei o rendite vitalizie in caso di invalidità permanente o di morte. Il sistema prevede per determinate condizioni reddituali indennità di sostegno e benefici a lungo termine per famiglie in stato di necessità, per vecchiaia, basso reddito e disabilità. Tali benefici sono finanziati dalla fiscalità generale, dall’Inps o dai Comuni interessati. L’assistenza sanitaria è fornita dal Sistema Sanitario Nazionale finanziato attraverso la fiscalità generale e gestito dalle regioni. I fondi degli Ordini professionali gestiscono sia la raccolta dei contributi che l’erogazione delle prestazioni. Essi agiscono, in attuazione delle norme di sicurezza sociale, sotto la guida e supervisione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il Ministero dell’Economia e Finanza e il Ministero della Salute. L’assistenza sanitaria in particolare rientra nella competenza del Ministero della Salute che gestisce le risorse, la ripartizione delle stesse agli enti regionali o comunali che si occupano dei servizi sanitari (le cosiddette Aziende sanitarie locali), e fa in modo che le prestazioni minime, vale a dire i livelli di assistenza sanitaria essenziale (LEA Livelli Essenziali di Assistenza) sono garantiti alle persone che vivono in tutte le Regioni italiane. Il sistema italiano di previdenza sociale è finanziato sia dai datori di lavori che dai lavoratori mediante il versamento dei contributi, sia attraverso la fiscalità generale. Per quanto riguarda i dipendenti, i contributi obbligatori (ad esempio per pensioni, disoccupazione o malattia) sono calcolati in base ad una percentuale sui guadagni con tariffe fissate dalla legge. L’aliquota applicabile, in ogni caso, dipende dal settore (industria, commercio, artigianato), dal tipo di contratto (dipendente, parasubordinato, artigiano, commerciante), dalla qualifica del lavoratore, dal numero dei dipendenti e dall’ubicazione dell’attività. Ai fini della

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determinazione della base contributiva sono da considerare gli utili che il lavoratore riceve dal datore di lavoro, in denaro o in natura, prima della deduzione, solo con l’eccezione delle esenzioni applicabili per legge. Il datore di lavoro è tenuto a pagare all’ente previdenziale competente sia i contributi personali che quelli dei dipendenti. I contributi generalmente sono pagati su base mensile. Per quanto riguarda i lavoratori autonomi, (a parte i professionisti iscritti al fondo privato di competenza che può stabilire le proprie regolare in accordo con la legge nazionale) i contributi sono calcolati in base alla dichiarazione annuale dei redditi. Sono previste delle riduzioni per i membri della famiglia che partecipano attivamente alle attività, come agricoltori, mezzadri e piccoli proprietari. I contributi possono essere pagati anche su base volontaria. Le persone assicurate che interrompono o cessano la loro occupazione possono continuare a pagare volontariamente i contributi al fine di preservare o migliorare i loro diritti alla pensione. Per beneficiare di tale diritto il lavoratore deve aver pagato contributi per almeno cinque anni nella sua vita lavorativa, o almeno 3 anni negli ultimi cinque anni che precedono l’opzione del pagamento dei contributi volontari. Per alcune categorie di lavoratori (stagionali, part-time, parasubordinati) è richiesto il pagamento dei contributi per almeno un anno nei cinque anni precedenti la domanda. In alcuni casi è possibile pagare i contributi volontari per riscattare periodi in cui non si è lavorato. Ciò vale ad esempio per gli anni dell’università o per periodi lavorati in un paese con il quale non sono stati sottoscritti accordi con l’Italia. In alcune circostanze i periodi di contribuzione possono essere considerati validi anche se effettivamente non sono stati pagati. Il riscatto dei contributi può essere preso in considerazione con lo scopo di accedere al diritto ad una prestazione o ad aumentare l’importo della prestazione stessa. Tuttavia i periodi di malattia o di disoccupazione in cui il titolare è stato beneficiario di un’indennità non possono essere presi in considerazione ai fini della maturazione del diritto alla pensione. I contributi presunti possono essere accreditati per: servizio militare, persecuzione politica e razziale, infortuni o malattie professionali, disoccupazione, malattia tubercolosi, gravidanza, congedo parentale, disastri naturali, integrazione della contribuzione per lavoratori con ridotte capacità lavorative, assistenza a familiari con gravi disabilità, contratti di solidarietà, donazione del sangue, congedi straordinari per attività

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sindacali, pubblici servizi di rilevanza sociale. Come già detto, per ogni settore del sistema di welfare, in particolare per le pensioni, c’è una specifica amministrazione che è responsabile della raccolta dei contributi e l’erogazione delle prestazioni. Ricapitolando le autorità responsabili sono le seguenti: – il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che legifera e supervisiona relativamente al sistema pensionistico e l’Inps che è responsabile dell’implementazione del sistema per i dipendenti privati e pubblici (dal 2012) e per alcune categorie di lavoratori autonomi (agricoltori, commercianti e lavoratori parasubordinati). Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, la competente istituzione è il Ministero della salute che amministra le risorse alle regioni e agli enti locali che si occupano dell’erogazione delle prestazioni attraverso le Aziende sanitarie locali. Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali è competente per le prestazioni erogate per malattia e maternità ai lavoratori del settore privato, mentre l’Inps gestisce i contributi e le prestazioni. I lavoratori dello Stato non percepiscono benefici economici in caso di malattia e maternità, ma conservano il loro stipendio. Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali è competente anche per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, mentre la raccolta dei contributi viene effettuata dall’Inail Istituto nazionale contro gli infortuni sul lavoro. La legislazione e la supervisione relativa ai benefici di disoccupazione è sempre di competenza del Ministero del lavoro, mentre la raccolta dei contributi e l’erogazione delle prestazioni è affidata ad una amministrazione ad hoc che fa capo all’INPS e che comprende anche tutte le prestazioni non contributive, ad esempio: pensioni anticipate, pensioni sociali, pensioni al minimo. Il Ministero dell’Interno ha la responsabilità di garantire le risorse sufficienti. Tuttavia i benefici sono concessi a livello locale e gestiti dalle regioni e dall’Inps.

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Assistenza e Servizi Sociali

L’assistenza sociale comprende l’insieme di compiti della pubblica amministrazione consistenti nella fornitura di prestazioni, normalmente gratuite, dirette all’eliminazione delle disuguaglianze economiche e sociali all’interno della società.

Profili costituzionali. - È espressione dello stato sociale, che si preoccupa di promuovere il benessere di tutti i cittadini, di eliminare le condizioni di bisogno in modo da consentire a tutti l’effettivo godimento dei diritti civili e politici e garantire il libero sviluppo della personalità. L’ordinamento costituzionale considera compito fondamentale della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (art. 3, co. 2, Cost.). Dal secondo dopoguerra ha iniziato a diffondersi il concetto di sicurezza sociale, che trova la sua espressione nel principio di solidarietà sociale enunciato all’art. 38, co. 1, della Costituzione, secondo cui ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.

L’evoluzione della disciplina legislativa. - Il d.P.R. n. 617/1977 ha fatto confluire le funzioni di beneficenza pubblica nell’ambito delle attività di sicurezza sociale che attengono alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti o a pagamento, o di prestazioni economiche, in denaro o in natura, a favore dei singoli o gruppi, qualunque sia il titolo in base al quale sono individuati i destinatari, anche quando si tratti di forme di assistenza a categorie determinate.

Il sistema assistenziale ha la sua disciplina quadro nella l. n. 238/2000, la quale stabilisce che «la Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità,

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di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli art. 2, 3 e 38 della Costituzione». Ai sensi della legge in questione, per «interventi e servizi sociali» si intendono le attività previste dall’art. 128 del d.lgs. n. 112/1998: le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della vita (a esclusione delle prestazioni previdenziali e sanitarie).

Alla gestione e all’offerta dei servizi possono partecipare, accanto ai soggetti pubblici, anche soggetti privati (tra i quali, organismi non lucrativi di utilità sociale, organizzazioni di volontariato di assistenza e beneficenza, organismi di cooperazione ecc.), in qualità di soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi.

Per quanto riguarda i destinatari, la legge stabilisce che hanno diritto di usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato di assistenza e servizi sociali i cittadini italiani e, nel rispetto degli accordi internazionali, con le modalità e nei limiti definiti dalle leggi regionali, anche i cittadini di Stati appartenenti all’Unione Europea e i loro familiari, nonché gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a 1 anno e i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno (d.lgs. n. 286/1998, art. 41).

Relativamente alla ripartizione di competenze in materia di servizi sociali, allo Stato spettano le funzioni espressamente indicate dalla legge, tra le quali stabilire la programmazione e il coordinamento della politica sociale e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; alle regioni e agli enti locali spetta una competenza residuale su tutte le funzioni non espressamente attribuite allo Stato e all’INPS.

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Legge 68

Disabili e Lavoro La legge 104/92 è intervenuta a introdurre in modo chiaro nella nostra normativa i diritti all'integrazione sociale della persona handicappata con particolare attenzione alle tematiche dell'integrazione lavorativa, diritti questi che trovano la loro concreta realizzazione con la legge 68 del 12 marzo 1999.

La legge 68, in particolare:

1. prevede l'accesso al mondo del lavoro delle persone con handicap anche attraverso percorsi formativi;

2. prevede forme di incentivazione per i datori di lavoro che assumono i soggetti svantaggiati (in quest'ambito un ruolo importante e ancora scarsamente applicato viene attribuito all'INAIL).

L'articolo 1 della legge 68 prevede che rientrano nella norma:

• gli invalidi civili in età lavorativa portatori di minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali e i portatori di handicap intellettivo, con percentuale di riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%;

• infortunati o tecnopatici che abbiano visto il riconoscimento di una percentuale superiore al 35 ai sensi delle tabelle annesse al TU 1124 del 1965, con necessità di una doppia valutazione per i casi avvenuti o riconosciuti dopo il 25 luglio 2000 (introduzione della tutela del danno biologico);

• i non vedenti (colpiti da cecità assoluta o con residuo visivo non superiore a un decimo in entrambi gli occhi);

• i sordomuti con sordità dalla nascita o precedente all'apprendimento della lingua parlata;

• gli invalidi di guerra, gli invalidi per servizio con minorazioni rientranti nelle categoria di cui alla tabella A del d.p.r. 915/781.

L'iscrizione nelle liste dei disabili riguarda anche i lavoratori extracomunitari regolarmente residenti in Italia e che siano stati

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riconosciuti disabili a seguito di visita ad opera della Commissione Medica o che abbiano acquisito una invalidità al lavoro come definito dalla Corte Costituzionale.

Infatti, con sentenza 454/1998, la Consulta ha affermato il diritto di tali soggetti a iscriversi tra le categorie protette in condizioni di assoluta parità con i cittadini italiani.

La legge precisa inoltre che non devono considerarsi modificate o implicitamente abrogate le norme relative ai centralinisti telefonici non vedenti ai massaggiatori e massofìsioterapisti non vedenti, ai terapisti della riabilitazione non vedenti e ai sordomuti.

La legge 68 ha poi previsto l'emanazione di uno specifico atto di indirizzo e coordinamento da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, per l'individuazione dei criteri per l'accertamento della disabilità, nonché dei criteri e delle modalità per l'effettuazione delle visite sanitarie di controllo della permanenza dello stato invalidante, atto che è stato pubblicato, per una volta, in tempi rapidissimi.

L'accertamento delle condizioni di disabilità per l'accesso al collocamento è demandato, dalla legge, alle Commissioni mediche preposte in via ordinaria, ai sensi dell'ari. 4 della legge 104/92, all'accertamento dell'handicap e può essere effettuato anche in più fasi temporali sequenziali, contestualmente all'accertamento delle minorazioni civili.

La Commissione per l'accertamento delle condizioni di disabilità è chiamata a formulare una diagnosi funzionale della persona disabile, diretta a individuare la capacità globale per il collocamento lavorativo.

La Commissione deve dunque valutare in positivo le capacità dell'individuo seguendo criteri di scientificità, obiettività e riproducibilità, elaborando sia un profilo socio-lavorativo che una diagnosi funzionale della persona disabile.

Con l'istituzione del collocamento mirato si vuole far riferimento a strumenti di supporto destinati alla valutazione adeguata dei disabili sotto ogni aspetto (minorazione, capacità professionale, esperienza) con lo scopo di inserirli nel posto adatto.

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Questo inserimento deve comportare un'analisi dei posti di lavoro, delle forme di sostegno, delle azioni positive e delle soluzioni connesse sia con gli ambienti che con le relazioni interpersonali nei posti di lavoro.

In questo ambito è da ritenere che un ruolo di primaria importanza possa e debba essere svolto dal medico competente, laddove presente.

La legge prevede, infatti, diversi meccanismi per incentivare l'inserimento lavorativo dei disabili. In particolare, è prevista la possibilità da parte degli uffici competenti di stipulare con i datori di lavoro accordi e convenzioni aventi ad oggetto specifici programmi volti a conseguire gli obiettivi occupazionali indicati dalla legge stessa, con facoltà in taluni casi di effettuare da parte del datore di lavoro la scelta nominativa del soggetto (disabile) da assumere, oltre alla possibilità - ovviamente di particolare interesse - di prevedere, per il disabile assunto, periodi di prova più lunghi di quelli stabiliti dalla legge o dai contratti collettivi; in proposito occorre però sottolineare come sia espressamente (e opportunamente) previsto dalla legge in discorso che «l'esito negativo della prova, qualora sia riferibile alla menomazione da cui è affetto il soggetto, non costituisca causa di risoluzione del rapporto di lavoro».

In altre parole l'esito negativo della prova, per condurre alla risoluzione del rapporto di lavoro, può essere riferito solo ed esclusivamente alle residue capacità lavorative del soggetto, concetto questo non nuovo per la giurisprudenza, ma per la prima volta espresso in una disposizione normativa.

Oltre a ciò, è previsto un rimborso parziale in favore del datore di lavoro per quanto concerne le spese necessario per trasformare o comunque adeguare i posti di lavoro da assegnare ai disabili «con riduzione della capacità lavorativa superiore al 50 o per l'apprestamento di tecnologie di telelavoro ovvero per la rimozione delle barriere architettoniche che limitano in qualsiasi modo l'integrazione lavorativa del disabile».

La legge 68 non contempla disposizioni relative all'igiene e alla sicurezza sul lavoro (tranne quelle appena citate all'art. 13) e questa mancanza di legame diretto e visibile con il corpo della legislazione prevenzionale e di igiene del lavoro è derivata dalla convinzione che il dettato del d.lgs. 626/94, nell'imporre al datore di lavoro l'obbligo di tenere conto - nella

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strutturazione dei luoghi di lavoro - delle caratteristiche dei lavoratori e della presenza di lavoratori portatori di handicap, rendeva inutile uno statuto normativo particolare.

Il contrario, e cioè la creazione di uno statuto normativo particolare in tema di sicurezza e igiene sul lavoro dei disabili, avrebbe determinato una ulteriore e inutile frammentazione della materia e questo proprio quando si tende a pervenire a un'opera di omogeneizzazione della normativa. Pertanto la legge 68/99 va vista in relazione e unitamente a tale corpo normativo.

Se analizziamo più dettagliatamente tale decreto legislativo rileviamo che esso prevede che i luoghi di lavoro debbano essere strutturati tenendo conto - se del caso - di eventuali lavoratori portatori di handicap. Vi è specificato poi che l'obbligo vige in particolare per le vie di comunicazione, le scale, le docce, i gabinetti e i posti di lavoro utilizzati od occupati direttamente da lavoratori portatori di handicap.

Tale disposizione si presenta come una norma aperta, nel senso che essa non indica quali siano i singoli specifici interventi in favore della sicurezza del lavoratore disabile, bensì obbliga il datore di lavoro a predisporre tutte quelle necessario misure di prevenzione e di protezione derivanti dalla combinazione dei fattori di rischio propri dell'attività lavorativa e del tipo di handicap del quale il lavoratore addetto è portatore.

Ma la prevenzione prevista dal decreto 626, oltre ad essere rivolta alle esigenze dei portatori di handicap (con particolare riguardo - come detto - alle vie di circolazione orizzontali e verticali (scale) e ai servizi igienico sanitari), impone di valutare quanto la presenza del disabile possa interagire con l'intero sistema aziendale senza che il soggetto possa egli stesso costituire un ulteriore fattore di rischio.

Vero è che tale particolare strutturazione del luogo di lavoro deve essere operata soltanto nel caso in cui siano effettivamente presenti lavoratori portatori di handicap, così come viene specificamente indicato nella prima circolare ministeriale esplicativa del decreto 626, ma restano, per altro verso, fermi in ogni caso gli obblighi legati al rispetto della normativa sull'abbattimento delle barriere architettoniche.

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ASSISTENZA DOMICILIARE

Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) garantisce alle persone non autosufficienti e in condizioni di fragilità, con patologie in atto o esiti delle stesse, percorsi assistenziali nel proprio domicilio denominati “cure domiciliari” consistenti in un insieme organizzato di trattamenti medici, infermieristici e riabilitativi, necessari per stabilizzare il quadro clinico, limitare il declino funzionale e migliorare la qualità della vita. Le cure domiciliari si integrano con le prestazioni di assistenza sociale e di supporto alla famiglia, generalmente erogate dal Comune di residenza della persona. Il bisogno clinico-assistenziale viene accertato tramite idonei strumenti di valutazione multiprofessionale e multidimensionale che consentono la presa in carico globale della persona e la definizione di un “Progetto di assistenza individuale” (PAI) sociosanitario integrato. L’assistenza domiciliare è, dunque, un servizio compreso nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) in grado di garantire una adeguata continuità di risposta sul territorio ai bisogni di salute, anche complessi, delle persone non autosufficienti, anche anziane, e dei disabili ai fini della gestione della cronicità e della prevenzione della disabilità.

Le cure domiciliari sono erogate con modalità diverse, in base all’organizzazione dei servizi territoriali della ASL; tuttavia, sono generalmente gestite e coordinate direttamente dal Distretto sociosanitario (DSS) delle Aziende Sanitarie Locali (ASL), in collaborazione con i Comuni. Per le prestazioni sociali il cittadino deve fare riferimento al Comune di residenza.

In relazione al bisogno di salute dell’assistito ed al livello di intensità, complessità e durata dell’intervento assistenziale, si distinguono alcune tipologie di cure domiciliari:

• Assistenza domiciliare programmata (ADP) • Assistenza domiciliare integrata (ADI) • Ospedalizzazione domiciliare

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Dalla salute al benessere: I Contributi Istituzionali

Il concetto di salute si è costantemente modificato nel tempo, per arrivare a assumere, oggi, un'accezione molto più ampia che associa strettamente una condizione di assenza di patologie ad uno stato di benessere "globale" della persona. Il primo ambizioso impegno a porre in essere una strategia globale della salute per tutti, assunto dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), risale al 1978 con la Dichiarazione di Alma Ata, ma per comprendere come sia nato e si sia sviluppato il concetto di promozione della salute occorre rifarsi alla "Carta di Ottawa", risultato della prima Conferenza Internazionale per la Promozione della Salute che, nel 1986, progettò azioni finalizzate a tale obiettivo a livello mondiale. Nella "Carta di Ottawa" la promozione della salute, percepita come risorsa della vita quotidiana che mira al benessere, viene definita come un processo che conferisce alle popolazioni i mezzi per assicurare un maggior controllo sul loro livello di salute e per migliorarlo, e questo pone in evidenza non solo gli aspetti individuali ma anche quelli collettivi e politici che ne condizionano le caratteristiche e i mutamenti. La promozione della salute deve portare a condizioni di vita e di lavoro sicure, stimolanti, soddisfacenti, alla protezione degli ambienti naturali e artificiali, alla conservazione delle risorse naturali. Deve consentire una valutazione sistematica degli effetti dell'ambiente sul benessere delle persone e garantire strategie e azioni mirate ad indurre cambiamenti nel singolo e nella collettività. La promozione della salute passa quindi necessariamente attraverso l'adozione di politiche pubbliche coordinate e tese a favorire e sviluppare beni e servizi più sani, ambienti igienici e non pericolosi, cambiamenti legislativi coerenti, mutamenti nell'organizzazione sociale e ambientale. La carta di Ottawa, che si conclude con un appello rivolto all'OMS e agli altri organismi internazionali affinché sostengano la causa della promozione della salute in tutte le sedi appropriate, rappresenta idealmente il punto di partenza di tutti i progetti e le iniziative che successivamente sono state poste in essere a livello internazionale per la salvaguardia della salute. La 4° Conferenza internazionale sulla promozione della salute,

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svoltasi a Jakarta nel 1997 offre l'occasione per riflettere su quanto, negli anni intercorsi dalla conferenza di Alma Ata, è emerso circa l'efficacia della promozione della salute, per analizzare i fattori che incidono su di essa e identificare le strategie che si rendono necessarie per fornire linee di indirizzo utili all'elaborazione di programmi di promozione della stessa nel 21° secolo. Nella conferenza della Rete europea delle scuole che promuovono la salute (Haelth promoting school - HPS), tenutasi a Salonicco nel maggio del 1997, viene sottolineato il ruolo fondamentale della scuola nell'attivazione di processi atti a realizzate la salute delle giovani generazioni: "Tutti i bambini e i giovani hanno diritto e dovrebbero avere l'opportunità di essere educati in una scuola che promuove la salute". Viene ribadito il concetto che educazione e salute costituiscono un binomio inscindibile e che, come dimostrato dall'esperienza della scuole della Rete, "il successo nella realizzazione di politiche, principi, metodi per la promozione della salute nelle scuole può contribuire in modo significativo all'esperienza educativa da parte di tutti i giovani che in queste scuole vivono e apprendono". Nel Maggio 1998 l'OMS adotta la "Dichiarazione Mondiale sulla Salute", con la quale gli Stati membri si impegnano a realizzare un vasto programma per l'attuazione di una "Strategia della Salute per tutti per il 21° secolo". Successivamente gli Stati Membri della Regione Europea dell'OMS (51 Paesi, 870 milioni di abitanti) traducevano la "Dichiarazione mondiale sulla salute" in un Documento di carattere politico-tecnico ed operativo con cui venivano stabiliti 21 punti chiave per la promozione della salute nella Comunità Europea (HFA, Health For All). I 21 punti impegnano gli stati membri della Comunità Europea a raggiungere, entro il 2020, i seguenti obiettivi:

• Solidarietà per la salute nella regione europea - ridurre di almeno un terzo la disparità dello stato di salute ancora riscontrabile tra gli Stati membri della regione europea.

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• Equità nella salute - ridurre di almeno un quarto le disuguaglianze dello stato di salute esistenti, all'interno di ciascuna nazione europea, tra i vari gruppi socioeconomici.

• Iniziare la vita in buona salute - assicurare un sano inizio di vita a tutti i neonati e i bambini in età pre-scolare.

• La salute dei giovani - creare le condizioni per una migliore salute dei giovani, quale premessa indispensabile per un inserimento attivo e proficuo nella società.

• Invecchiare in buona salute - assicurare alle persone con più di 65 anni uno stato di salute che permetta loro di svolgere ancora un ruolo nella società.

• Migliorare la salute mentale - migliorare il benessere psicosociale di tutti e offrire una migliore assistenza sanitaria alle persone con problemi di salute mentale.

• Ridurre le malattie trasmissibili - ridurre l'impatto negativo sulla salute delle malattie trasmissibili.

• Ridurre le malattie non trasmissibili - ridurre la morbilità, disabilità e mortalità prematura provocata dalle principali malattie croniche.

• Ridurre le lesioni provocate da violenze e da incidenti - ridurre in maniera sostanziale il numero di lesioni, invalidità e morti provocati da eventi traumatici.

• Un ambiente fisico sano e sicuro - rendere l'ambiente più sano e sicuro controllando e riducendo gli agenti inquinanti dannosi.

• Stili di vita più sani: (entro il 2015) - far adottare da tutti i gruppi della popolazione stili di vita più sani.

• Ridurre i danni provocati da alcol, droga e tabacco - limitare i danni alla salute provocati dall'uso di sostanze che creano dipendenza come il tabacco, l'alcol e la droga.

• Ambienti favorevoli alla salute - offrire a tutti, in ogni spazio di vita quotidiana (casa, scuola, luogo di lavoro e propria località), maggiori opportunità di fruire di un ambiente fisico e sociale salutare.

• Responsabilità multisettoriale per la salute - coinvolgere la responsabilità di tutti i soggetti interessati nei processi di promozione della salute.

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• Sistema sanitario integrato - offrire a tutta la popolazione un migliore accesso a un'assistenza sanitaria di base e un sistema ospedaliero rispondente alle diverse esigenze.

• Gestire la qualità dell'assistenza sanitaria - garantire una gestione del sistema sanitario coerente con l'obiettivo della salute per tutti.

• Finanziamento della sanità e allocazione delle risorse - assicurare ai sistemi sanitari un finanziamento atto a consentire equità di accesso alle cure, efficienza e qualità dei servizi.

• Migliorare le risorse umane per la salute - garantire una formazione del personale sanitario e di altri settori atta a far acquisire le competenze necessarie per la tutela della salute.

• Ricerca e conoscenze per la salute - disporre di sistemi di ricerca, informazione e comunicazione atti favorire l'implementazione delle conoscenze e la loro circolazione.

• Mobilitare i partner per la salute - avviare alleanze e collaborazioni a livello di individui, di organizzazioni pubbliche e private e di società civile per la messa in atto di strategie condivise per la "Salute per tutti".

• Politiche e strategie della "salute per tutti" - coinvolgere tutti gli stati membri nell'adozione e nell'attuazione di politiche per la "Salute per tutti" a livello nazionale, regionale e locale.

Fra le azioni realizzate dall'OMS per la prevenzione delle malattie croniche non trasmissibili si segnala la Giornata Mondiale della Sanità 2002, dedicata al tema "Attività fisica e salute" ("Move for Health"). Successivamente OMS e FAO, al fine di promuovere un complesso di azioni mirate alla prevenzione delle malattie croniche non trasmissibili, hanno indetto una Consultazione Congiunta di Esperti, con il compito di individuare le basi scientifiche della conoscenza dei rapporti tra alimentazione e salute. Gli esiti della Consultazione sono stati resi noti nel documento intitolato "Diet, Nutrition and the Prevention of Chronic Diseases", pubblicato nel 2003, ed utilizzati per definire una specifica proposta di Strategia Globale per la Dieta, l'Attività Fisica e la Salute, presentata nel gennaio 2004 e ancora da approvare da parte degli Stati membri dell'OMS. Per la prima volta sono presi in considerazione i condizionamenti ambientali che interferiscono sulla facoltà decisionale dell'individuo e che

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rendono difficile la messa in pratica di un percorso consapevolmente scelto per la salvaguardia della salute. A partire da questa osservazione di fondo, la Strategia Globale rimarca la pressante necessità di un'azione coordinata da parte dei Governi, tesa a monitorare regolarmente il contesto ambientale e ad intervenire là dove si frappongano ostacoli, indipendenti dalla volontà dell'individuo, all'adozione di corretti stili di vita. Vanno cioè create condizioni favorevoli sia perché ciascuno faccia proprio il bisogno di orientare la sua volontà verso scelte salutari sia perchè non intervengano a deviare le buone intenzioni fattori esterni, non controllabili o non sempre facilmente percepibili a livello individuale. In questa ottica, appare chiaro che occorre in primo luogo formare la volontà del singolo per determinare in ciascuno una propensione interiorizzata e stabilizzata ad operare scelte consapevolmente indirizzate al proprio benessere. Occorre, cioè, predisporre un percorso educativo che, attraverso la conoscenza (sapere) induca comportamenti (saper fare) coerenti con un modello di vita improntato al benessere globale della persona (saper essere). La visione del mondo, le modalità di approccio alla soluzione dei problemi, gli stili di vita che l'uomo adotta nella maturità trovano la loro matrice nella varietà delle esperienze vissute in età evolutiva, negli atteggiamenti e comportamenti che in quella fase di rapida crescita più stabilmente si strutturano nella sua personalità. Un intervento precoce, a partire già dai primi anni di vita, rappresenta, pertanto, lo strumento più idoneo a sviluppare nelle nuove generazioni l'attenzione verso i fattori dai quali dipendono il benessere individuale e della collettività. La famiglia in prima istanza e la scuola secondariamente, ma solo da un punto di vista temporale, non possono trascurare tra i loro compiti educativi questo ambito della formazione dei giovani: non è dato "saper essere" se la dimensione psichica non si integra con la fisicità, se al benessere della mente e dello spirito non si accompagna costantemente anche quello del corpo.

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Sistemi di accreditamento in ambito sociale

Nel contesto sanitario e sociosanitario italiano è sempre più sentito il tema dell’adeguamento delle esigenze di razionalità ed efficacia alle garanzie di qualità, trasparenza e di sicurezza da fornire ai cittadini. La qualità nell’approccio gestionale e relazionale con gli utenti/cittadini è stata oggetto di numerosi interventi legislativi tra i quali si inserisce l’accreditamento. Infatti anch’esso nasce da un dettato normativo che lo definisce come lo strumento di verifica e garanzia della qualità e sicurezza dell’assistenza, in un contesto dove i requisiti tecnico-professionali, organizzativi, strutturali e i comportamenti attesi sono definiti a livello regionale. L’istituto dell’accreditamento nel contesto sociale è stato introdotto con la legge quadro 328 del 2000 sulla falsariga di ciò che, alcuni anni prima, era stato disciplinato nel settore sanitario, ma con una regolamentazione assai più scarsa e carente. In campo sociale la normativa prevede sostanzialmente due momenti, l’autorizzazione al funzionamento e l’accreditamento, anche se nessuno dei due processi viene definito e dotato di obiettivi specifici, mentre il terzo momento, relativo alla stipula del contratto o dell’accordo, non viene esplicitato, a differenza di ciò che la normativa prevede in ambito sanitario.

La suddetta legge attribuisce alle regioni il ruolo di programmazione e definizione dei criteri di rilascio dell’autorizzazione e dell’accreditamento e ai comuni principalmente quello di predisposizione e verifica dei requisiti minimi strutturali ed organizzativi di un servizio o struttura sociale pubblica o privata, non creando alcuna differenziazione tra i soggetti pubblici e privati, in quanto entrambi necessitano dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività comprese le stesse strutture comunali che al contempo rivestirebbero il duplice ruolo di autorizzanti e autorizzatori. Definire l’accreditamento secondo il disposto della Legge 328/2000, pertanto, risulta complesso e richiede uno sforzo di carattere interpretativo per arricchire ed eventualmente chiarire alcuni aspetti che non sono definiti dalla normativa nazionale.

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Questo è riscontrabile anche nel panorama nazionale dove la situazione è piuttosto variegata: alcune regioni si sono dotate di sistemi quadro di accreditamento definendo leggi di sistema o specifiche leggi sull’accreditamento, altre hanno regolamentato solo alcuni servizi per via amministrativa e hanno consentito agli enti locali un’autonoma regolazione degli altri. E anche se l’istituto dell’accreditamento sembra essere principalmente predisposto per i servizi residenziali e semiresidenziali, escludendo abbastanza singolarmente i servizi domiciliari, le regioni, in virtù della propria autonomia, hanno allargato il campo di applicazione dell’istituto anche ai servizi territoriali. Le esperienze e le sperimentazioni a livello nazionale sono quindi molteplici e diversificate in entrambe le tipologie di servizi. Tuttavia, il modello che emerge dalla normativa nazionale è quello dell’accreditamento istituzionale effettuato dal comune senza il quale una struttura pubblica non è autorizzata ad operare e una struttura privata non è autorizzata ad operare per conto del pubblico.

Le differenze sostanziali tra l’autorizzazione e l’accreditamento riguardano principalmente il fatto che solo il soggetto accreditato può operare per conto del pubblico alle tariffe da quest’ultimo determinate e il presupposto necessario per ottenere l’accreditamento è il possesso di ulteriori requisiti rispetto all’autorizzazione, stabiliti autonomamente dalla regione. Finalità dell’accreditamento

L’istituto dell’accreditamento rappresenta una nuova modalità di affidamento dei servizi che mira al raggiungimento di un duplice obiettivo: da un lato può essere considerato come uno strumento di regolazione dell’ingresso nel mercato di soggetti che intendono erogare servizi per conto del pubblico e dall’altro come un processo di promozione e miglioramento della qualità dei servizi.

Quindi si delineano due scenari possibili: un primo scenario che può essere definito come “accreditamento per il mercato” prevede la definizione pubblica di tariffe da corrispondere ai soggetti accreditati per le prestazioni erogate attraverso la diffusione del sistema dei voucher/buoni di servizio agli utenti per l’acquisto diretto delle prestazioni dagli enti accreditati

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(pubblici e privati) posti in concorrenza tra di loro per attirare il maggior numero di utenti possibili.

Un secondo scenario potrebbe essere definito come “accreditamento per la qualità” dove gli operatori che operano per conto del pubblico sono obbligati a garantire livelli strutturali ed organizzativi previsti per l’accreditamento che diventa così lo strumento con il quale si persegue il miglioramento della qualità.

I cittadini richiedono sempre di più servizi personalizzati, flessibili, relazionali, vicini alle proprie esigenze e che assicurino possibilità di scelta libera e diretta. L’istituto dell’accreditamento appare più adatto dei classici schemi di appalto dei servizi a rispondere a queste aspettative. Infatti la procedura di appalto è per sua natura rigida e non consente di sviluppare e consolidare nel tempo gli aspetti più qualitativi dei servizi. Il processo di accreditamento consente di recuperare tali elementi consentendo una nuova modalità di rapporto tra soggetti pubblici, titolari della funzione di programmazione e di committenza e i soggetti privati, titolari della funzione di produzione. Un sistema di accreditamento è caratterizzato dall’obbligo di rispettare requisiti più elevati rispetto a quelli autorizzatori (rispetto di standard ulteriori a quelli di autorizzazione); si pone come atto concessorio, di abilitazione di secondo livello, che il soggetto pubblico adotta legando la decisione a procedure imparziali e a criteri e requisiti di qualità. Per le sue caratteristiche l’accreditamento costituisce un percorso dinamico e temporalmente delimitato, che deve prevedere valutazioni periodiche sia in ordine ai fabbisogni di prestazioni che di verifica del mantenimento dei requisiti e delle condizioni di accreditamento.

Si costruisce di conseguenza un insieme di atti della pubblica amministrazione che hanno come finalità la disposizione di un sistema definito di regole che offrono maggiori garanzie per i committenti (regione, ASL, comune) e per i fruitori finali dei servizi (cittadini/utenti) che comprendono:

• la verifica dei requisiti di legalità e sicurezza (processo autorizzatorio);

• la rispondenza degli erogatori accreditandi a requisiti ulteriori di qualificazione;

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• la selezione e il monitoraggio degli erogatori ai fini della continuità, tempestività ed appropriatezza degli interventi (accreditamento);

• la garanzia di un uso efficiente ed efficace delle risorse attraverso il monitoraggio continuo della qualità delle prestazioni erogate.

L’implementazione del sistema di accreditamento dovrebbe fornire garanzie nel contesto più ampio dell’offerta di prestazioni in quanto assoggetta gli erogatori pubblici e privati alle stesse regole, sostituendo il convenzionamento con un meccanismo più equo e trasparente di richiesta dell’accreditamento da parte di coloro che ritengono di possedere i requisiti, e di verifica, proceduralizzata, degli stessi, introducendo il meccanismo della competizione delle strutture accreditate, tramite l’offerta di prestazioni aggiuntive rispetto ai fabbisogni. Pertanto, è di fondamentale importanza concepire l’accreditamento in sinergia con il concetto “qualità” inteso come processo di miglioramento continuo. Dall’integrazione dinamica dei due concetti si creano le situazioni organizzative che facilitano l’allineamento delle persone a comportamenti idonei al raggiungimento di questi obiettivi.

Accreditamento: uno strumento per selezionare i soggetti erogatori Le prime esperienze di accreditamento hanno introdotto una modalità tesa a valorizzare le capacità organizzative, gestionali, tecnico-professionali dei soggetti erogatori, qualificate sulla base di requisiti e criteri predeterminati. L’accreditamento, nell’accezione più ampia, ha dunque anche il compito di selezionare e monitorare in itinere gli erogatori di prestazioni, in riferimento a condizioni definite ex ante. Ciò sta a significare che una istituzione (nella fattispecie regione/comune) definisce e implementa un processo con il quale:

• si riconosce il possesso da parte di un soggetto o di un organismo di requisiti specifici (standard di qualificazione) definiti a monte del processo stesso che si conclude con l’iscrizione in un elenco dei soggetti accreditati, da cui altri soggetti possono attingere per l’utilizzazione dei servizi e delle prestazioni offerte;

• si verifica la permanenza dei requisiti ulteriori di qualificazione richiesti per l’accreditamento (DPR 14/1/1997 art. 2, comma 6);

• si individuano le modalità per l’esercizio delle attività di vigilanza sul permanere delle condizioni che hanno consentito.

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Si configurano così le attività che da un punto di vista tecnico possono essere definire come verifiche “pre-contrattuali” inerenti la capacità dei fornitori di far fronte alle specifiche definite dal committente, verificate le quali si procede con la costituzione di un apposito albo dei fornitori accreditati. I modelli di accreditamento nel panorama nazionale

L’interpretazione dell’attuazione dell’istituto dell’accreditamento nelle varie regioni ha portato alla definizione di alcuni modelli, i cui aspetti caratterizzanti sono individuati nella definizione di limiti nella concessione dell’accreditamento e nella definizione delle modalità di affidamento dei servizi ai soggetti accreditati. Pertanto, alcune regioni concedono l’accreditamento solo se compatibile con la propria programmazione sociale – quindi stabilendo il fabbisogno regionale delle singole strutture –, altre concedono l’accreditamento a tutte le strutture che lo richiedono e che, naturalmente, possiedono i requisiti definiti ex ante.

Per quanto riguarda la modalità di affidamento dei servizi, l’orientamento prevalente prevede la possibilità di utilizzare le diverse modalità di affidamento dei servizi (es. appalto, buoni di servizio, retta) sfruttando al meglio le caratteristiche dell’accreditamento in relazione agli obiettivi che si intendono privilegiare. La combinazione di questi due aspetti porta all’identificazione di tre modelli di accreditamento regionale:

1. modello del governo pubblico, caratterizzato dalla limitazione nel numero dei soggetti accreditabili sulla base della programmazione regionale e locale del fabbisogno;

2. modello dell’accreditamento libero, caratterizzato dall’assenza di limiti nell’accesso ma il cui apporto al servizio pubblico sarà definito da accordi contrattuali senza nessuna garanzia di accesso ai fondi;

3. modello degli accordi contrattuali, caratterizzato dall’assenza dell’accreditamento che viene sostituito dai contenuti degli accordi contrattuali.

Il modello del governo pubblico è quello che meglio può gestire il sistema in quanto mette in campo più strumenti di governo del mercato sociale da

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utilizzare in modo flessibile in relazione agli obiettivi che si vogliono perseguire.

MODELLO REGIONE PROCEDURE DI ACCREDITAMENTO

GOVERNO PUBBLICO

Emilia Romagna, Molise, Veneto, Campania, Liguria, Toscana, Umbria, Bolzano

Accreditamento chiuso. Concesso solo se coerente con la programmazione regionale.

ACCREDITAMENTO LIBERO

Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Marche, Puglia, Calabria, Valle d’Aosta, Sardegna

Accreditamento aperto. Concesso solo a coloro che posseggono requisiti. No garanzia di accesso ai fondi.

ACCORDI CONTRATTUALI Trento L’accreditamento è sostituito

dal contratto.

Alcuni spunti di riflessione

L’accreditamento istituzionale rappresenta un impegno richiesto alle strutture che intendono erogare prestazioni per conto del pubblico, per dare garanzie e certezza al cittadino/utente di un buon livello qualitativo delle stesse e della loro funzionalità rispetto agli indirizzi di programmazione regionale. Quindi la finalità principale di questo sistema è quella di promuovere un processo di miglioramento continuo della qualità delle prestazioni, dell’efficienza dell’organizzazione, dell’uso delle risorse e della formazione. Nel settore sociale, a differenza del sanitario, la scarna previsione normativa insieme alla mancata, o meglio non chiara, definizione degli

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obiettivi a livello nazionale e regionale, che con l’accreditamento si vogliono raggiungere, rappresenta un punto di debolezza dell’intero sistema. Infatti la normativa nazionale lascia aperti diversi scenari laddove l’accreditamento può essere sia uno strumento di governo del mercato sia un processo di promozione e miglioramento della qualità. I due scenari comportano una diversa strutturazione dell’accreditamento ed un diverso sistema di affidamento dei servizi.

Risulta di fondamentale importanza la definizione degli obiettivi e delle regole di sistema, altrimenti il rischio maggiore riguarderebbe la perdita dell’efficacia dello strumento e addirittura, se mal interpretato, potrebbe costituire un elemento di appesantimento e di burocratizzazione ulteriore. Al contrario la definizione di regole chiare e ben definite può costituire l’occasione per la modernizzazione del mercato sociale e per il miglioramento della qualità delle prestazioni. La gestione di questo complesso sistema (definizione del modello, attuazione, controllo, modifica e aggiornamento) richiede un cambiamento culturale importante in quanto si tratta di fare un passaggio da un sistema rigido di controlli di legittimità ad un sistema dinamico di miglioramento in cui si effettua non tanto un controllo ma una valutazione. Pertanto, occorre una forte volontà politica e una notevole competenza tecnica nel fissare gli obiettivi che con tale sistema si vogliono raggiungere, se non sono chiari gli obiettivi anche gli strumenti rischiano di essere inefficaci se non inutili. Altra riflessione riguarda la valutazione dell’impatto dell’accreditamento e gli effetti attesi.

La difficoltà del tema è ben rappresenta dalla scarsità della letteratura disponibile su questo argomento, tuttavia la valutazione che deve essere fatta non può essere fondata solo nel valutare una diversa e migliore qualità dell’assistenza, benché sia la prima aspettativa rispetto allo strumento dell’accreditamento, ma il vero aspetto innovativo e la vera sfida sta nel verificare la natura e la tipologia dei cambiamenti che l’essere sottoposti ad un processo di accreditamento ha stimolato all’interno del mercato sociale. Il processo di accreditamento impatta qualitativamente sulla collettività generando l’equità nell’accesso alle prestazioni, favorendo il confronto e la comunicazione a vari livelli (tra professionisti, organizzazioni e istituzioni), aumentando la trasparenza verso gli stakeholders attraverso il cambiamento culturale ed organizzativo che porta sempre più a rendere pubblici i risultati del processo. Verificare quanto queste aspettative si siano tradotte in effetti e valutare questi ultimi,

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significa considerare l’accreditamento non tanto come la semplice applicazione di criteri e standard, bensì esaminare, da una parte il carattere di agente di cambiamento e dall’altra cogliere la relazione tra gli strumenti dell’accreditamento e gli ambiti di applicazione e valutarne quanto questi siano funzionali a specifiche opzioni di politica sociale.

LA FORMA GIURIDICA DELLE IMPRESE SOCIALI

Le forme giuridiche che possono essere assunte dalle imprese sociali sono sostanzialmente di due tipi: • associazioni, fondazioni, comitati (forme “non imprenditoriali”); • società di persone, società di capitali, cooperative, consorzi (forme “imprenditoriali”). Associazioni, Fondazioni, Comitati Associazioni Si ha una associazione quando due o più persone si uniscono in maniera più o meno duratura per il raggiungimento di un determinato scopo, non lucrativo e non mutualistico: ad es. etico, culturale, assistenziale, ricreativo, sociale, educativo, religioso, sportivo ecc. Le associazioni svolgono la loro attività prevalentemente attraverso prestazioni lavorative o in denaro, volontarie o meno, degli aderenti (associati). Le associazioni possono essere: • riconosciute: in tal caso il patrimonio personale degli associati è separato da quello dell’ente e quindi chi risponde delle obbligazioni contratte dall’associazione (es. debiti) è sempre e soltanto il patrimonio dell’ente (e non quello degli associati); inoltre i creditori personali degli associati non possono rifarsi sul patrimonio dell’ente; • non riconosciute: in tal caso il patrimonio personale degli associati non

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è separato da quello dell’ente e, delle obbligazioni contratte dall’associazione possono rispondere, oltre al patrimonio dell’ente, i soggetti che hanno agito in nome e per conto dell’associazione stessa (anche se non sono iscritti). Per ottenere il riconoscimento l’associazione deve costituirsi con atto pubblico: deve cioè redigere un “atto costitutivo”, tramite notaio o pubblico ufficiale, e un altro documento – lo “statuto” – che detta le regole generali per il funzionamento dell’associazione stessa e dei relativi organi. Fondazioni Si ha una fondazione normalmente quando un fondatore mette a disposizione un patrimonio per determinati scopi diversi da quello di lucro (culturali, educativi, religiosi, sociali, scientifici o comunque di utilità pubblica). La fondazione forse più nota al mondo è quella realizzata dal chimico svedese Alfred Nobel, l’inventore della dinamite, la quale insignisce ogni anno del premio omonimo personaggi che si sono distinti nel campo delle arti, delle scienze e per il bene dell’umanità. Anche la fondazione per ottenere il riconoscimento deve costituirsi con atto pubblico (in questo caso si chiama “atto di fondazione”) e redigere uno statuto. Comitati Si ha un comitato quando più persone perseguono uno scopo altruistico o di pubblica utilità, e – non disponendo di mezzi patrimoniali adeguati – promuovono una pubblica sottoscrizione per raccogliere i fondi necessari a tal fine. Ne sono esempi i comitati di soccorso o di beneficenza, nonché i comitati promotori di opere pubbliche, monumenti, esposizioni, mostre, festeggiamenti ecc. L’atto costitutivo, in questo caso, non richiede formalità particolari (può essere redatto anche tramite scrittura privata) ma deve comunque specificare lo scopo per il quale il comitato è stato costituito. Delle obbligazioni assunte dal comitato verso i terzi rispondono tutti i componenti del comitato stesso in modo illimitato e solidale. Che significa “responsabilità illimitata e solidale” • “Responsabilità illimitata” significa che un socio, se la società non è in grado di pagare i creditori, risponde con tutto il suo patrimonio personale. • “Responsabilità solidale” significa che un socio risponde anche dei debiti

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contratti, in nome della società, dagli altri soci; se quindi i beni personali di un socio non sono sufficienti, la sua quota di debito deve essere pagata da tutti gli altri. Società Se due o più persone si accordano per svolgere insieme un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili, abbiamo un’impresa collettiva, cioè una società (art. 2247 C.C.). Ogni socio ha l’obbligo di “conferire beni o servizi”: deve cioè dare un contributo alla società sotto una o più delle seguenti forme: • denaro contante; • crediti; • beni in natura (locali, attrezzature, ecc.); • prestazioni di lavoro (per alcuni tipi di società). In genere questo accordo risulta formalmente dall’atto costitutivo, integrato in certi casi dallo statuto, che detta le regole generali per il funzionamento della società e degli organi sociali. Nel caso dell’impresa collettiva quindi occorre: • la stipula di un “contratto di società” tra due o più persone per lo svolgimento di un’attività economica; • l’effettivo esercizio comune dell’attività da parte di coloro che sono intervenuti nell’accordo: tutti i soci cioè partecipano in qualche modo, direttamente o indirettamente, alla gestione (anche se questa è affidata a qualcuno in particolare, ciò avviene pur sempre per volontà di tutti i soci). Le società si distinguono in: • società di persone (società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice); • società di capitali (società a responsabilità limitata, società unipersonale a responsabilità limitata, società per azioni, società in accomandita per azioni); • società cooperative. La scelta di un tipo di società piuttosto che di un altro dipende da molti fattori (tecnici, giuridici, amministrativi, fiscali ecc.). In generale comunque si può dire quanto segue.

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SOCIETÀ DI PERSONE Nelle società di persone: • le qualità dei singoli soci (competenza, abilità, onestà, ecc.) sono più importanti dei beni conferiti alla società: il lavoro costituisce infatti il mezzo principale con cui i soci contribuiscono all’attività sociale; • il numero dei soci è ristretto, e di conseguenza il capitale conferito nella società non è, di norma, molto elevato; • tutti i soci (eccetto gli accomandanti nelle S.a.s.) sono responsabili con il loro patrimonio personale per i debiti sociali (“responsabilità illimitata”) e rispondono anche della parte di debito non pagata dagli altri soci (“responsabilità solidale”); • l’amministrazione (quindi la parte più significativa delle attività d’impresa) può spettare solo ai soci o a parte di essi. SOCIETÀ DI CAPITALI Nelle società di capitali: • i beni conferiti alla società hanno maggiore importanza delle qualità personali dei soci: i capitali costituiscono infatti il mezzo principale con cui i soci contribuiscono all’attività sociale; • è più facile cedere le proprie quote sociali che nelle società di persone; • i creditori possono rivalersi esclusivamente sul patrimonio sociale (cosiddetta “responsabilità limitata”); • l’amministrazione può spettare anche ai non soci. SOCIETÀ COOPERATIVE Nelle società cooperative: • i soci devono essere almeno nove (possono essere almeno tre quando i soci sono persone fisiche e la società adotta le norme della società a responsabilità limitata); • il capitale sociale è variabile; ciò significa che l’ammissione, il recesso o l’esclusione dei soci non comporta una modifica dell’atto costitutivo, ma avviene semplicemente con una annotazione nel libro soci da parte degli amministratori; • lo statuto prevede lo scopo di fornire beni o servizi o occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione (“scopo mutualistico”). Ai fini della possibilità di godere delle agevolazioni fiscali previste dalla legge, la

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cooperativa deve operare prevalentemente a favore dei soci secondo i criteri ed i requisiti previsti agli articoli 2513 e 2514 del codice civile; • nelle società cooperative i creditori possono rivalersi esclusivamente sul patrimonio sociale e pertanto il rischio dei soci è limitato esclusivamente all’ammontare del capitale sociale sottoscritto durante la permanenza nella società. Le cooperative sociali Regolate dalla L. 381/91, le cooperative sociali operano nell’interesse della collettività attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi oppure lo svolgimento di qualsiasi tipo di attività, se finalizzato all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Esse beneficiano di apposite agevolazioni. Le cooperative sociali, che rispettino le norme previste dalla L. 381/91, sono considerate società cooperative a mutualità prevalente indipendentemente dal rispetto dei criteri indicati nell’articolo 2513 del codice civile e sono inoltre riconosciute dal D.Lgs. 460/97 quali ONLUS (Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale). Quasi sempre le cooperative sociali hanno i requisiti per essere riconosciute anche come “imprese sociali”. CONSORZI Il consorzio merita un cenno a parte. È un contratto con cui più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese. La differenza sostanziale tra il consorzio e la società è che la seconda è finalizzata all’esercizio di un’impresa, mentre il primo è costituito da più imprese per condividere risorse o servizi o per meglio organizzare un’attività economica. Anziché con un consorzio vero e proprio, l’attività svolta con finalità consortili può essere perseguita anche con una società (tipicamente la S.p.a. o la S.r.l., che assumono rispettivamente la denominazione di “Società consortile per azioni” o “Società consortile a responsabilità limitata”).

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I settori ammessi Come già detto, i beni e i servizi prodotti e venduti dall’impresa sociale devono appartenere ad uno specifico settore di attività di particolare utilità etico-sociale. Per la precisione, l’oggetto (o scopo) sociale deve rientrare in uno o più dei seguenti settori: a) assistenza sociale; b) assistenza sanitaria; c) assistenza socio-sanitaria; d) educazione, istruzione e formazione; e) tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, con esclusione delle attività, esercitate abitualmente, di raccolta e riciclaggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi; f) valorizzazione del patrimonio culturale; g) turismo sociale ; h) formazione universitaria e post-universitaria; i) ricerca ed erogazione di servizi culturali; l) formazione extra-scolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica ed al successo scolastico e formativo; m) servizi strumentali alle imprese sociali, resi da enti composti in misura superiore al 70% da organizzazioni che esercitano un’impresa sociale. Possono altresì acquisire la qualifica di impresa sociale, indipendentemente dai settori di attività sopra elencati, le organizzazioni che esercitano attività d’impresa al fine dell’inserimento lavorativo di soggetti che siano lavoratori svantaggiati e disabili, a patto che rappresentino almeno il 30% del personale impiegato a qualunque titolo nell’impresa.

L'educazione alla salute: tra famiglia e scuola

Un recente studio (febbraio - marzo 2004) condotto dall'Istituto DOXA per conto di FEDERALIMENTARE allo scopo di conoscere le abitudini dei bambini ( 6-11 anni) e dei giovani (12-17 anni) relative all'alimentazione,

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all'attività motoria e al benessere fisico, ha evidenziato che la maggior parte dei giovani conosce i comportamenti connessi ad uno stile di vita corretto, ma la complessità e i ritmi della quotidianità pongono degli ostacoli all'adozione di buone pratiche, soprattutto per quanto riguarda il movimento. Dall'indagine emerge una figura di adolescente pigro ed insoddisfatto, poco propenso a svolgere attività motoria, scontento della propria forma fisica: un bambino su due ed un giovane su tre si muove a piedi meno di 30 minuti al giorno, il 39% desidera un corpo più snello, il 19% un aspetto più robusto. Di certo i cambiamenti economici, tecnologici, sociali e culturali intercorsi negli ultimi 50 anni, hanno determinato una vera e propria rivoluzione nei modi di vita giornalieri dell'uomo: dagli spostamenti per lo più a piedi, all'utilizzo massiccio dei trasporti pubblici o privati, dal cibo, preparato con cura e consumato tutti riuniti intorno ad un tavolo raccontandosi gli accadimenti della giornata, ai pasti fuori casa durante le brevi pause di lavoro o nei luoghi di socializzazione divenuti sempre più frequentemente spazio abituale per l'incontro con gli amici. Anche la sana scampagnata domenicale di un tempo è sostituita da gite automatizzate, con interminabili code ai caselli autostradali che consumano gran parte del tempo a disposizione. Le attività lavorative e il tempo libero, sempre meno impegnativi dal punto di vista del consumo energetico, le abitudini alimentari diverse da quelle tradizionalmente basate su pasti preparati e consumati in famiglia, necessariamente si riflettono sugli attuali comportamenti e modelli di vita di bambini e adolescenti, per i quali si fa sempre più difficile l'acquisizione di corrette e motivate abitudini ad una vita attiva e ad una sana alimentazione. Tali abitudini risultano invece essenziali per la salute e il benessere della persona, in quanto proprio le scorrette scelte alimentari e la sedentarietà rappresentano non solo per gli adulti, ma anche per i ragazzi e i giovani, fattori elevati di rischio per l'insorgenza di sovrappeso, obesità anche infantili che a loro volta possono determinare ed aggravare diverse malattie, nonché per le possibili conseguenze di natura psicologica. Questi dati sono posti in particolare evidenza dai risultati di ricerche e indagini realizzate a livello nazionale ed internazionale dalle quali emerge che le cosiddette malattie non trasmissibili rappresentano attualmente la causa prima di morte e di disabilità nei paesi industrializzati. Per quanto riguarda

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specificatamente il diffondersi del fenomeno del sovrappeso e dell'obesità, la comunità scientifica internazionale, pur essendo concorde nel ritenere che esso è causato da numerosi e complessi fattori che interagiscono tra loro (sesso, età, patrimonio genetico, condizioni socio-economiche, ambientali e culturali), è altresì concorde nel riconoscere un ruolo sempre maggiore agli scorretti stili di vita basati su una limitata attività fisica ed un corrispondente stile alimentare squilibrato. Le percentuali di crescita del "fenomeno obesità" sono del resto allarmanti: dalla fine degli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta è aumentata tra il 10% e il 40% nei diversi paesi europei. Il dato più significativo evidenziato dalle ricerche è che le malattie croniche non trasmissibili sono in gran parte prevenibili, ed i principali fattori di rischio, tra cui gli errati stili di vita, sono modificabili. Dalle stesse indagini si rileva che tali fattori di rischio sono ben noti ad adulti e giovani; il problema da affrontare oggi diventa pertanto "come" modificare stili di vita ormai radicati nelle abitudini della popolazione nelle diverse fasce di età. I bambini e i giovani con problemi di peso, a rischio di patologie future, sono troppo spesso figli non dell'ignoranza, quanto piuttosto della superficialità, della disorganizzazione, della distrazione. Certo, mettere in pratica i buoni propositi non è semplice, ma i bambini sono carta assorbente: le figure parentali a loro più vicine rappresentano i modelli prioritari ed indiscussi di riferimento; gli adulti quindi, hanno l'obbligo di non abdicare al loro ruolo di educatori. Alla famiglia, primo naturale contesto socializzante in cui si trova inserito il bambino, spetta il difficile ma stimolante compito di seguirlo passo passo nella sua crescita, formarlo in tutti gli aspetti della persona per renderlo, da adulto, artefice consapevole della sua vita, soggetto attivo e capace di scegliere, in ogni campo dell' esistenza, il meglio per sé e per gli altri. Tutti i genitori, nella consapevolezza che l'età evolutiva è la fase della vita maggiormente implicata con la comparsa di scorrette abitudini, hanno il dovere di creare le condizioni favorevoli affinché i loro figli instaurino un rapporto sano con il proprio corpo, attraverso l'esercizio di un'autodisciplina che, mentre genera benessere fisico, si struttura anche come tratto permanente e qualificante della personalità.

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La scuola condivide con la famiglia questo ruolo educativo e dunque, se in seno al nucleo famigliare si strutturano i primi modelli di comportamento corretti, spetta alla scuola, in parallelo, consolidarli e proteggerli da stimoli devianti. I risultati di una recente indagine (inserire link) condotta in 5 stati membri dell'Unione Europea (Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Repubblica Ceca) su "Cosa pensano gli Europei della loro alimentazione e della loro salute?", ha evidenziato che i programmi di educazione scolastica sono considerati di gran lunga il mezzo più efficace per promuovere salutari stili di vita e abitudini alimentari equilibrate: in tutti e cinque i Paesi coinvolti essa infatti risulta al primo posto tra cinque possibili opzioni, con una media del 43% di risposte. L'azione educativa e formativa della scuola risulta quindi essenziale per favorire l'acquisizione e la messa in pratica di quelle conoscenze e competenze che, in modo motivato, possano condurre a stili di vita orientati al benessere e alla prevenzione.