diritto dell economia
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Diritto dell’Economia Lezione V
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)
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Indice
1 Stato “finanziatore” e politiche di aiuto pubblico: dallo Stato sociale allo Stato
assistenziale ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 3
2 Agevolazioni ed esenzioni fiscali e parafiscali ------------------------------------------------------ 4
3 Ausili mediante trasferimenti finanziari pubblici -------------------------------------------------- 7
4 Forme del c.d. credito agevolato ----------------------------------------------------------------------- 8
5 Atti e attività di incentivazione ------------------------------------------------------------------------ 9
6 Le garanzie prestate dallo Stato quale forma di ausilio pubblico ----------------------------- 10
7 Interventi ripristinatori e politiche di “sostegno” di grandi imprese in crisi --------------- 11
Diritto dell’Economia Lezione V
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Stato “finanziatore” e politiche di aiuto pubblico: dallo Stato sociale allo Stato assistenziale
Dalla metà del secolo scorso si è andato affermando un nuovo modo di attuare la politica
economica generale, attraverso l’attribuzione ai privati di vantaggi di vario tipo.
Questi interventi ausiliatori, a scopo di impulso o di mero sostegno delle attività
economiche, si sostanziano in una miriade di strumenti e di soluzioni operative assai varie,
disomogenee e di ardua classificazione. Nascendo queste, almeno in origine, da scelte parallele di
opportunità politica, non appare agevolmente configurabile un sistema organico dei mezzi di aiuto
pubblico delle attività economiche rinvenibili nel nostro ordinamento, sembrando più corretto
parlare di una sequela di politica ausiliative attuate con modalità e strumentazioni diverse.
Si pensi, ad esempio, ai finanziamenti per i privati cittadini che assicurino risparmi
energetici o alle molte provvidenze (borse, alloggi gratuiti, ecc.) per singoli amministrati
nell’ambito del c.d. diritto allo studio. In genere si tratta però di previsioni favoritive molto
circoscritte, per le quali non si può quasi mai parlare di effettive “politiche” di ausilio.
A partire dal 1926 il regime liberò risorse da utilizzare, sia con gli accorgimenti classici del
sovvenzionamento alle imprese in difficoltà, sia attraverso altri e nuovi strumenti, emanati
all’epoca, per tamponare la grande crisi economica giunta in Italia negli anni ,30, nel quadro di una
politica economica ormai ispirata al protezionismo più spinto ed alla cosiddetta “autarchia”
economica.
In seguito, dalla fine degli anni ’40, le necessità della ricostruzione postbellica legittimarono
un ulteriore ricorso agli ausili per le industrie da ripristinare.
Il sistema dello Stato “assistenziale” si istituzionalizzò rapidamente, col consenso della
massa dei beneficiati, che potevano contare sul vantaggio aggiuntivo dell’incentivo non come
un’eventualità straordinaria ma come un risorsa attesa, ordinaria e scontata, a fronte della quale era
richiesto soltanto un trend di benevolenza elettorale, senza alcun altro vincolo di comportamento
quanto all’utilizzo effettivo della provvidenza ricevuta.
Il cosiddetto Stato “assistenziale”, nel quale anche l’apparato produttivo era diventato
dipendente del favor dei pubblici poteri, entrò da allora in una crisi lenta ma irreversibile, che ha
rischiato di comprimere ed immiserire anche la configurazione di “Stato sociale” emergente dalla
Costituzione, secondo cui – per il raggiungimento dei fini sociali – gli andamenti economici vanno
controllati, indirizzati e sorretti in forma pubblica.
Diritto dell’Economia Lezione V
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)
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2 Agevolazioni ed esenzioni fiscali e parafiscali Vi sono comportamenti pubblici costituitivi di vantaggi anche non pecuniari per le imprese
destinatarie e gli strumenti ausiliativi più usati consistono in precisi benefici patrimoniali. I più
importanti di sostanziano in flussi finanziari dal soggetto pubblico verso il soggetto privato.
Un vantaggio monetario è conseguibile anche – all’inverso – mediante la sottrazione del
privato dall’onere di determinate prestazioni patrimoniali, alle quali questi normalmente non
dovrebbe sottrarsi.
Se la prestazione imposta è un tributo e l’esclusione dall’assoggettamento è parziale, si ha
un’agevolazione fiscale, che diviene esenzione fiscale nel più raro caso di cancellazione totale
dell’obbligo tributario.
La materia è soggetta a riserva di legge ed è stata contemplata dalla riforma tributaria degli
anni ’70 nell’apposito DPR 601/72.
Si hanno molteplici forme di agevolazione tributaria, generalmente a termine predeterminato
(L. 408/90) ma prorogabile, individuabili nell’esonero parziale (più raramente totale) dal
pagamento di uno o più tributi; nella previsione di una riduzione della materia imponibile, e cioè
dell’oggetto dell’imposta (deduzioni, detrazioni, “abbattimenti alla base”); nell’apposizione di un
“tetto” massimo convenzionale all’imposizione; nell’applicazione di aliquote di favore (ridotte);
nella dilazione temporale e nell’ammissione alla rateazione dei versamenti; nell’introduzione di
regimi fiscali peculiari (“sostitutivi”), vantaggiosi per i limitati beneficiari.
Altri strumenti applicativi, peculiari dell’odierno favor fiscale, sono il “credito di imposta”,
che consente di ridurre automaticamente la misura di alcuni tributi dovuti, finalizzando però il
vantaggio al rispetto di determinate condizioni previste dalla legge (in generale, L. 59/97; L.
123/98). Già la L. 317/91 consentiva per le piccole imprese crediti d’imposta calcolati in percentuali
variabili sulle spese di investimento e di ricerca, da menzionare nella dichiarazione dei redditi (che
fungeva quindi da richiesta formale di ammissione).
Si ricordano, limitatamente all’ultimo decennio, tra le altre, la L. 489/94 (c.d. legge
Tremonti), che perfezionava l’esclusione dal reddito imponibile della metà del volume degli
investimenti in beni strumentali realizzati nel periodo rispetto alla media normalizzata del
quinquennio antecedente; il DL 79/97, che introduceva un credito percentuale sulle spese per
l’innovazione e lo sviluppo, non cumulabile con altre provvidenze statali e attribuibile secondo la
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tempestività della domanda; la L. 449/97, che introduceva un credito per le imprese commerciali; la
L. 448/98, sostituita dalla L. 388/2000, che ha concesso dapprima il credito d’imposta automatico
per l’assunzione di alcune tipologie di lavoratori (es.: in mobilità, LSU, handicappati), poi per
l’assunzione di nuovi lavoratori a tempo indeterminato; la L. 343/2001 (conosciuta come Tremonti
– bis e contestata in sede UE), che ha riproposto la detassazione parziale del reddito d’impresa
reinvestito, variando la convenienza, l’ambito oggettivo (sono comprese anche le spese per la
formazione e l’aggiornamento del personale) e l’ambito soggettivo (ricomprendendo anche le
banche, le assicurazioni ed i lavoratori autonomi); la L. 178/2002, che riserva un’attenzione più
minuta ai “settori sensibili”; le leggi finanziarie 2003, 2004 e 2005, che apportano continui ritocchi
restrittivi all’elargizione di crediti, via via orientandosi verso la loro sostituzione con finanziamenti
a restituzione.
Con la L. 311/2004 si dispone che, per prevenire e contrastare il rischio di utilizzazione
illecita di provvidenze pubbliche, tutti i soggetti che siano stati destinatari di finanziamenti pubblici,
anche dell’UE a anche sotto forma di agevolazioni ed esenzioni fiscali, debbano dotarsi entro il 31
ottobre 2005 di “specifiche misure organizzative e di funzionamento” idonee a scongiurare il
compimento di atti illeciti, direttamente predisposte o approvate, se approntate da terzi, dandone
notizia ad un Comitato di coordinamento finanziario regionale, perché provveda ad adottare
iniziative di verifica anche ispettiva, eventualmente a seguito di comunicazione dei soggetti
percettori da parte della competente Agenzia delle Entrate.
Si differenzia concettualmente dal credito d’imposta il buono o bonus fiscale, previsto fin
dalla riforma generale dell’imposizione di oltre trent’anni fa, ma disciplinato compiutamente solo
dalla L. 341/95 e dal D.LGS. 123/98. Il bonus non è generalmente legato al raggiungimento di un
fine ed è in sostanza un’alternativa alla ricezione di un contributo pecuniario statale.
Quanto alle modalità di utilizzo, il buono fiscale – a differenza del credito d’imposta – non
va indicato nella dichiarazione dei redditi, perché si computa solamente in sede di riscossione dei
tributi, in compensazione del debito fiscale del beneficiario, quasi fosse uno sconto sull’ammontare
di qualsiasi imposta dovuta.
Analoghi fenomeni favoritivi sono da registrare in tema di contribuzioni previdenziali e
assistenziali, che come si sa sono onerosissime per l’imprenditore, giungendo a gravare, col TFR,
fino al 50 per cento dei salari corrisposti, a causa di un determinato sistema di gestione delle risorse
coattivamente raccolte per il Welfare (Stato sociale).
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La riduzione (o la soppressione) degli oneri per le contribuzioni sociali è stata uno strumento
principe delle politiche ausiliative statali per gli imprenditori, con usi ed abusi molteplici (si giunse
all’accollo del debito aziendale, verso gli enti di protezione sociale da parte dello Stato, evento
impropriamente chiamato fiscalizzazione degli oneri sociali).
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3 Ausili mediante trasferimenti finanziari pubblici Nel linguaggio corrente sovvenzione significa elargizione o finanziamento in aiuto di
qualcuno. Se sovventore è lo Stato, questi attinge al proprio bilancio per trasferire denaro ad altri
soggetti bisognevoli, per fini di pubblico interesse.
L’ipotesi che qui ci riguarda è quella del destinatario imprenditore.
Il sovvenzionamento non prevede restituzione da parte del beneficiato: da qui il rischio che
l’erogazione venga sperperata, nel senso che non venga utilizzata per conseguire lo scopo che ha
determinato l’interessamento pubblico. Originariamente la sovvenzione era scarsamente
condizionata al risultato.
Con l’esperienza delle prime insoddisfacenti applicazioni, le sovvenzioni vennero
successivamente adoperate con utilizzi più mirati, maggiormente sottoposti a condizioni e quindi
più verificabili, ma la disponibilità preventiva rese ancora possibile usi distorti del finanziamento
(in quanto una percentuale della sovvenzione veniva già erogata al momento dell’approvazione
della domanda). Si intese allora ovviare a queste deviazioni dallo scopo dell’erogazione pubblica
mediante la concessione del finanziamento a posteriori, in un certo senso dando un premio
all’imprenditore per aver già effettuato particolari investimenti o intrapreso azioni in tal senso: ma
qui il difetto sta nella previa liquidità necessaria che il privato deve impegnare, senza sicurezza del
ristoro pubblico e con le consuete difficoltà di reperimento dei mezzi.
In dottrina si è cercato di distinguere questi trasferimenti finanziari pubblici, che sono
sempre a domanda, in contributi, senza l’obbligo di restituzione agevolata. Questi ultimi non vanno
comunque confusi con il credito agevolato, in quanto per questi finanziamenti il rapporto giuridico
di sovvenzionamento è bilaterale e diretto, per l’intero importo, tra lo Stato e il beneficiario: è il
caso di molteplici prelievi da Fondi di rotazione – istituiti nel bilancio statale per svariati scopi –
nelle cui casse rientrano nel tempo le somme restituite dai percepenti e alle quali attingono i nuovi
destinatari, determinando appunto un flusso rotativo senza bisogno di incrementare la dotazione
originaria di questo fondo del bilancio pubblico.
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4 Forme del c.d. credito agevolato Con la locuzione credito agevolato, si ricomprendono molteplici ipotesi di ammissione
privilegiata dell’impresa a ricorrere all’indebitamento bancario. La condizione di favore, promossa
e soprattutto garantita dallo Stato, consiste nel tasso di interesse ridotto del prestito ottenuto, ma
anche nella conveniente durata del mutuo e nelle migliori condizioni di restituzione.
Lo sforzo finanziario dello Stato consiste nell’addossarsi il differenziale di tasso tra quello
normale di mercato e quello, minore, praticato dall’ente creditizio al beneficiario. Questa sorta di
accollo assume il nome di contributo in conto interessi, e non è da restituire.
Lo strumento può giungere così a realizzare un’ ingerenza pubblica nella direzione e nella
gestione dell’impresa, con efficaci remore (sospensione o revoca del contributo) in caso di
inadempienza – per inerzia o per scostamento dagli obiettivi che erano stati ritenuti meritevoli di
ausilio pubblico.
Non va confuso con il credito agevolato il c.d. credito speciale, espressione giuridicamente
imprecisa, con la quale si descrivono invece i procedimenti di erogazione delle sovvenzioni e dei
finanziamenti pubblici, originariamente messi a disposizione tramite “istituti di credito speciale”,
prima della despecializzazione del credito introdotta dal nuovo Testo Unico bancario. Infatti le
ipotesi di credito speciale sono diversissime tra loro, a seconda del fine pubblico parziale
individuato dalla legge sussidiatrice. Si rammentano: il credito agrario, il credito peschereccio, il
credito fondiario e quello edilizio; il credito alle opere pubbliche; il credito alberghiero; il credito al
commercio; il credito sportivo; il credito teatrale; il credito cinematografico; il credito navale; il
credito industriale; il credito all’artigianato; il credito all’esportazione, ecc.
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5 Atti e attività di incentivazione Agevolazioni, sovvenzioni e finanziamenti pubblici sono species degli ausili finanziari.
Poiché gli ausili finanziari interessano la finanza pubblica (spesa o entrata) il loro
fondamento non può essere che la legge, il principio costituzionale quello dell’art. 41, c. 3
(indirizzo a fini sociali dell’economia). Ciò esclude ogni aspetto di liberalità nel comportamento
dello Stato erogatore: gli atti di ausilio sono pur sempre atti amministrativi e non sembrano rientrare
affatto nell’attività di diritto privato della P.A.
I provvedimenti sono quasi sempre adottati su istanza del beneficiario (molte agevolazioni,
che pur spettano automaticamente vanno giustificate nelle dichiarazioni tributarie) e scaturiscono
da procedimenti nei quali le situazioni giuridiche del concedente e del richiedente si fronteggiano
fino all’emanazione del provvedimento.
Maggiore interesse dell’atto incentivatore presenta l’attività ausiliatrice: a) funzionalizzata a
un fine pubblico – costituzionalmente previsto in via generale al citato art. 41 cosicché l’eventuale
erogazione “di mero conferimento”, svincolata dalla sovvenzione per la specifica attività, non
sarebbe un vero e proprio ausilio, ma un obolo; b) organizzata con l’intermediazione di altri soggetti
pubblici (regioni, enti strumentali, ecc.) preposti alla distribuzione della provvista conferita o messa
a disposizione dello Stato.
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6 Le garanzie prestate dallo Stato quale forma di ausilio pubblico
Hanno radici addirittura nell’800 le garanzie assunte dallo Stato o da altri enti sia per
l’indebitamento (con emissioni obbligazionarie) di enti pubblici (ad es. gli enti di gestione) sia per
favorire l’instaurazione di rapporti di credito tra privati beneficiari ed istituti di credito.
Questo rapporto di malleveria venne configurato in dottrina come una particolare
fideiussione quando all’attività del beneficiario, sussidiaria di quella dei pubblici poteri, il soggetto
pubblico garante avesse un interesse diretto, mentre si ipotizzò un contratto di garanzia atipico
quando il destinatario del vantaggio svolgeva attività produttive non immediatamente collegabili al
raggiungimento di finalità pubbliche.
Di questo fenomeno diffusissimo si parla tra gli aiuti di Stato perché si sostanzia in un
vantaggio di matrice pubblica per il beneficiario. Infatti, ancorché non avvenga alcuna erogazione
effettiva da parte dello Stato verso il privato, l’intervento pubblico realizza un sensibile favor,
poiché rende possibile la concessione di un prestito, altrimenti non ottenibile per la mancanza di
idonee garanzie patrimoniali da parte del richiedente il credito agevolato o il credito speciale.
La garanzia all’operazione creditizia è prestata mediante provvedimento amministrativo,
conclusivo di un’istruttoria tecnica e contabile (nella quale è coinvolta anche la banca erogante),
atta a scongiurare pregiudizi patrimoniali e inadempimenti a scapito dell’ente garante. Questo
perché il buon fine dell’operazione, e cioè la restituzione del prestito senza coinvolgimento del
mallevadore, non è assolutamente certo. Normalmente la concessione della garanzia pubblica non
comporta esborsi a carico del bilancio statale, ma l’evenienza non è esclusa.
La garanzia pubblica è quindi una forma di ausilio, che agevola in modo decisivo
l’operazione di credito, rendendola comunque un’operazione dispendiosa per il fruitore.
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7 Interventi ripristinatori e politiche di “sostegno” di grandi imprese in crisi
Soprattutto nel settore secondario e in congiuntura di crisi economica, la dottrina ha da
sempre incluso nel capitolo delle incentivazioni gli interventi di politica industriale c.d. difensiva,
mirante cioè soltanto a frenare il declino delle attività produttive.
Con la legge 1470/61, recante finanziamenti a favore di programmi di riconversione, era
stato istituito presso l’IMI un fondo per la ristrutturazione delle imprese da salvare e perfino
inattive, che erogò poco, male e troppo a lungo.
E’ con la legge 675/77 che si assiste ad un organico tentativo di sistemazione dell’intervento
pubblico favoritivo, mediante: l’abrogazione delle leggi precedenti; l’istituzione di un Comitato
interministeriale per la politica industriale (CIPI, ora soppresso).
Nei tre anni successivi i settori di intervento interessavano già dieci comparti produttivi
vastissimi, cioè troppi, per di più individuati non sulla base della loro rilevanza per la crescita del
Paese, ma per la gravità della crisi – sovente oggettivamente irreversibile – in cui versavano.
I programmi settoriali divennero occasione di intervento generico per il salvataggio – o il
prolungamento dell’agonia – di apparati produttivi in crisi.
Appurato il criterio riparatore dell’intervento sollecitato e l’assenza di qualsiasi strategia di
prevenzione pubblica del malanno, si ricorda negli anni ’80 l’esperienza del Fondo (fuori bilancio),
costituito presso il Ministero dell’industria, per ristrutturare (cioè riorganizzare, rinnovare,
ripristinare o aggiornare) o per riconvertire (vale a dire variare il comparto merceologico di
produzione modificando tecnologie ed impianti) le aziende industriali in difficoltà, soprattutto con
finanziamenti di favore di ciascuno dei tipi conosciuti.
A distanza di molti anni, si può affermare che questa grossa esperienza ausiliativa ha
prodotto meri effetti conservativi, non propulsivi né migliorativi sia del sistema produttivo sia del
suo risanamento finanziario (L. 787/88), non raggiungendo il rango di una politica di indirizzo.
L’esposizione delle industrie – per debiti aziendali – nei confronti del sistema finanziario
privato, le dimensioni delle sofferenze e l’elevatezza del rischio di insolvenza e comunque di
inesigibilità per la gran mole dei prestiti (concessi magari nell’aspettativa proprio di un generoso
accollo da parte dello Stato) indussero il legislatore – in ragione anche del contemporaneo dilagare
del ricorso all’indebitamento statale – a non addossare allo Stato gli oneri di salvataggio, provando
a distribuirli tra i creditori. Alle banche venne chiesto o di consolidare temporaneamente i debiti
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dell’impresa per consentirle la ripresa ovvero di costituire con le industrie società consortili, con la
sottoscrizione di titoli emessi in connessione con piani aziendali di risanamento in tempi stretti.
Occorreva comunque l’autorizzazione della Banca d’Italia.
Questa ibrida normativa innovativa (L. 95/79 – legge Prodi) che nella sostanza e
nell’applicazione è di mero salvataggio, rappresentò un espediente macchinoso per scaricare parte
del peso soccorso al comparto industriale sugli intermediari creditizi, compensati però con misure di
alleggerimento tributario e quindi in parte a carico dell’Erario. La sua applicazione fu limitata per le
diffidenze del sistema bancario.
Della legge Prodi va sottolineato il rilievo della predominanza, nell’applicazione, della
valutazione degli aspetti sociali, quali l’insolvenza retributiva e la salvaguardia dell’occupazione,
che ne ha distorto l’uso anticrisi per l’impresa in difficoltà da risollevare. Emarginando così
l’interesse dei creditori, resi ostili alle procedure di questa amministrazione straordinaria, basata su
un programma commissariale non finanziato dallo Stato, che tuttavia ne garantiva i debiti (quelli di
tipo salariale godevano già di privilegio sugli altri). La legge non funzionò bene per molteplici
cause, oltre al cennato favor per i lavoratori con pregiudizio dei creditori; applicata – per congiunte
spinte sindacali e imprenditoriali – a troppe industrie già decotte, non fece opera di pronto soccorso,
ma di imbalsamazione di complessi già non operativi, con perdita di pubblico denaro ed esosi
palliativi per la forza lavoro: ciò perché vennero volutamente elusi i criteri chiaramente indicati
dall’art. 2 della legge Prodi, e cioè quello dell’effettiva risanabilità dell’impresa e quello della
coerenza dell’intervento agli indirizzi della politica industriale.
I numerosi ritocchi, durante gli anni ’80, a questa legge “alternativa al fallimento” furono
quasi tutti “con biglietto da visita” (o “intitolati”), cioè caratterizzati da interventi in realtà costruiti
per una singola azienda.
L’ostilità della Comunità Europea verso il salvataggio generalizzato, che portò la
giurisprudenza interna a disapplicare, nel 1999 (caso Piaggio), la vecchia legge Prodi per contrasto
con la disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato, indusse il Parlamento – in un periodo di
espansione economica dovuta alla “bolla” della new economy ad approvare due successive deleghe
(1997 a 1998) per disciplinare diversamente l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in
stato d’insolvenza, in primis abrogando la legge 95/79 e ribaltandone le logiche.
Con il D.LGS. 270/99 (impropriamente appellato Prodi-bis), si innova profondamente la
materia quanto ai presupposti soggettivi ed oggettivi di questo tipo di intervento statale, che
richiede un numero di occupati non inferiore a 200 da almeno un anno (50 in meno di quelli
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prescritti dalla Commissione di Bruxelles); un’esposizione debitoria non inferiore a 2/3 dell’attivo
dello stato patrimoniale dell’azienda e dei ricavi delle vendite e delle prestazioni dell’ultimo
esercizio; soprattutto una valutazione giudiziale positiva nel merito, basata su una perizia sollecita
sulle concrete prospettive di recupero ( nella legge Prodi originaria l’ammissione era invece
automatica in presenza dei requisiti dimensionali). L’ampliamento della platea dei possibili fruitori
dell’amministrazione straordinaria aveva il probabile intento di allargare verso la media e piccola
impresa gli apporti finanziari pubblici, meglio tollerati dalla CEE solo per le PMI, comunque degne
di salvezza.
Oggetto della L. 270/99 era infatti sempre, da parte degli amministratori straordinari, o il
risanamento programmato in due anni mediante ristrutturazione economica e finanziaria
dell’azienda, la cui titolarità permaneva all’imprenditore, ovvero lo smembramento dell’impresa,
con cessione a terzi di complessi aziendali e con garanzia di prosecuzione dell’esercizio per un
anno.
Le procedure spettavano all’inizio ad un commissario giudiziale sia nella fase accertativa del
grado di insolvenza sia in quella propositiva della redazione del programma, sulla base del quale al
giudice spettava di decidere se ammettere l’impresa al recupero ovvero dichiararla fallita, dopo due
mesi di “osservazione”.
La nuova legge configurava l’interessamento pubblico alla soluzione della crisi d’impresa di
grandi dimensioni già come uno strumento, anche preventivo, di politica ausiliativa di per sé;
migliorava la posizione dei creditori ed elevava il grado di compatibilità dell’intervento con i
principi comunitari in tema di ausili pubblici per il salvataggio delle imprese in difficoltà, dato che
questi potevano anche essere esclusi su diniego della Commissione europea.
Sull’onda dell’emergenza economica conclamata è stato invece adottato il DL 23 dicembre
2003 n. 347, convertito in L. 39/2004 e già modificato con legge 5 luglio 2004 n. 166, di
conversione del DL 119/2004. Alcuni gruppi societari in crack poteva essere percorsa la strada
della Prodi-bis nella direzione inevitabile della liquidazione: le caratteristiche di questi disastri
societari, quali il coinvolgimento di milioni di risparmiatori in incauti prestiti obbligazionari non
rimborsabili e l’emersione di gravissimi e ripetuti illeciti societari non scongiurati dal sistema delle
vigilanze pubbliche e private spinsero il governo ad emanare il decreto legge 347/2003, recante
“Misure urgenti per la ristrutturazione industriale delle grandi imprese in crisi” per le quali si
ipotizza la continuazione ordinata delle attività produttive nonostante lo stato di dissesto.
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Il c.d. decreto Marzano (poi L. 39/2004) non abroga affatto, ma “integra e corregge” la
Prodi-bis soprattutto per le imprese grandissime, elevando per l’applicazione i dipendenti a 1000 e
l’indebitamento in valore assoluto ad un milione di euro: tuttavia crisi “minori” insorte
posteriormente hanno indotto ad abbassare ancora queste soglie a 500 addetti e a 500 milioni di
debiti, fra l’altro computandole per gruppo e non per singola impresa.
Con un’accelerazione della procedura sparisce il commissario giudiziale preliminare ed
agisce solo un commissario straordinario nominato dal Ministro delle Attività Produttive, con
operatività immediata per la redazione di un piano di ristrutturazione e con la capacità successiva di
alienare beni o rami di azienda, purché non connessi con l’oggetto principale dell’impresa. Il
tribunale del luogo è soltanto contestualmente informato mediante il ricorso dell’impresa e può al
massimo dichiarare preliminarmente con sentenza lo stato di insolvenza se accertato oppure
disporre la conversione della procedura accelerata di amministrazione straordinaria in fallimento, se
il ministro non autorizza il piano di risanamento e di ristrutturazione.
Se non di salvataggio, esplicite funzioni di supporto ha infine il nuovo Fondo rotativo di
sostegno alle imprese, istituito presso la gestione separata della Cassa Depositi e Prestiti S.p.a. dai
commi 354 a 361 della Finanziaria 2005 (L. 30 dicembre 2004 n. 311) e, successivamente,
ridenominato “Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e agli investimenti in ricerca”.