Diritto allo specchio...Gustavo Zagrebelsky Diritto allo specchio. Prologo Ubi societas ibi ius?...

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Gustavo Zagrebelsky

Diritto allo specchio

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PrologoUbi societas ibi ius?

Ordinamenti giuridici e non giuridici.

All’inizio di molti commentari di diritto, troviamo citata la massima ubisocietas ibi ius, rovesciata anche in ubi ius ibi societas. Sono luoghi comuniche i giuristi ripetono continuamente perché sembrano enunciare una veritàautoevidente. Prendiamoli anche noi come spunto per iniziare le riflessionisulla nostra materia con qualche parola introduttiva generale.

Non si sa chi ha coniato queste formule. Sappiamo, invece, che essecostituiscono l’impalcatura concettuale d’un testo classico, L’ordinamentogiuridico (1918) di Santi Romano, giurista famoso per la sua teoria del«diritto come istituzione». All’inizio troviamo queste proposizioni:

a) Anzi tutto il concetto di diritto deve ricondursi al concetto di società. Ciò in duesensi reciproci, che si completano a vicenda: quel che non esce dalla sfera puramenteindividuale, che non supera la vita del singolo come tale non è diritto (ubi ius ibisocietas); e inoltre non c’è società, nel senso vero della parola, senza che in essa non simanifesti il fenomeno giuridico (ubi societas ibi ius). Senonché quest’ultimaproposizione presuppone un concetto di società che è assolutamente necessario porre inrilievo. Per società deve intendersi non un semplice rapporto fra gli individui, comesarebbe, per esempio, il rapporto di amicizia, al quale è estraneo ogni elemento didiritto, ma un’entità che costituisca, anche formalmente ed estrinsecamente, un’unitàconcreta, distinta dagli individui che in essa si comprendono. E deve trattarsi di un’unitàeffettivamente costituita: tanto per addurre un altro esempio, una classe o un ceto dipersone, non organizzato come tale, ma determinato da una semplice affinità fra lepersone stesse, non è una società vera e propria […].

b) Il concetto di diritto deve, in secondo luogo, contenere l’idea dell’ordine sociale; ilche serve per escluderne ogni elemento che sia da ricondurre al puro arbitrio o alla forzamateriale, cioè non ordinata. Tale principio, del resto, è soltanto un aspetto del

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precedente, anzi deve intendersi nei limiti in cui si può dedurre da quest’ultimo comecorollario: ogni manifestazione sociale, pel fatto solo che è sociale, è ordinata, almenonei riguardi dei consoci 1.

I passi ora citati possono essere compresi e condivisi alla luce diqualsiasi concezione del diritto. Ma essi proseguono con altre affermazioniche valgono solo alla luce della concezione del diritto di Romano, laconcezione istituzionale del diritto, il «diritto come istituzione». Neparleremo piú avanti. Ora concentriamoci su quelle due formule che diconoche se non c’è diritto, c’è caos, lotta di tutti contro tutti, guerra civile: tuttecose che contraddicono l’idea della vita in società. Viceversa se c’è ordine,se c’è armonia, se c’è convivenza, ciò significa che esiste diritto.

Possiamo iniziare da qui le nostre considerazioni separando le dueformule, i due «ubi […] ibi». La massima ubi societas ibi ius contiene delvero solo se per diritto intendiamo il coacervo indistinto delle strutturenormative che danno consistenza e forma alle compagini sociali. Esse, lesocietates, esistono solo se le azioni e le reazioni di coloro che lecompongono sono stabilmente coordinate tra loro, ciò che richiede lavigenza di norme generalmente riconosciute. In questo generico senso diius, vale la formula che lega le società al diritto.

Se, invece, teniamo in considerazione il fatto che le strutture normativedella vita sociale sono numerose e hanno radici in diverse dimensionidell’umana esperienza, e che il diritto appartiene a una sola specificaesperienza differenziata dalle altre, l’espressione anzidetta è sbagliata (omanifesta una sorta di presunzione dei giuristi, come si spiegherà piúavanti). Sono esistite ed esistono, infatti, società e intere civiltà che nonhanno conosciuto e non conoscono il diritto e sono regolate da altro generedi norme: superstizioni, oracoli, prescrizioni religiose e miti, tradizione,necessità imposta dalla lotta per la sopravvivenza in ambienti umani onaturali ostili, per esempio. Queste norme, hanno i loro “sacerdoti”,equivalenti ai “sacerdoti del diritto” (come amano talora definirsi i giuristi)ma diversi da loro e, quanto a cogenza, non hanno nulla da invidiare allenorme giuridiche. Dire che sempre società e diritto coesistono è dunque unerrore che ingenera confusioni perché non distingue il diritto dalle altrestrutture normative del vivere sociale. Si può vivere in società anche senza

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diritto. È vero, invece, l’inverso: tutte le volte che c’è diritto, ivi esistesocietà poiché non può esserci diritto senza una base in un ordine sociale.

Dunque, se distinguiamo il diritto da altri sistemi di norme, dobbiamodire che ci possono essere società non giuridiche mentre non ci può esserediritto non sociale 2. Perciò, possiamo accettare come valida in generalel’espressione ubi ius ibi societas, ma non ubi societas ibi ius. Si può viverein società facendo a meno del diritto e dei giuristi, ma il diritto e i giuristinon possono fare a meno della società.

L’espressione ubi societas ibi ius presuppone, dunque, che si assegni atutti i sistemi normativi la patente di “diritto”. Naturalmente, nulla lo vietaperché tutte le definizioni, e anche la definizione di diritto, derivano dascelte classificatorie. In effetti, l’etnologia e l’antropologia culturale spessoparlano di diritto con riguardo a società arcaiche omologandoindifferenziatamente sistemi normativi molto diversi tra loro. Ma, sefacessimo lo stesso anche noi, perderemmo il significato del diritto in unsenso specifico, il senso che è quello che interessa quando ne parliamo conriguardo alle società nelle quali noi viviamo. Il nostro diritto è una forzastrutturante la società che ha caratteristiche proprie; le oscureremmo indefinizioni troppo comprensive.

Se dicessimo che qualsiasi società, cioè qualsiasi consorzio umanodotato di un suo ordine, per ciò stesso ha un diritto cioè è giuridica,faremmo uso di un concetto troppo vago per essere utile. A parte l’orda,mera forza bruta collettiva simile al branco, allo sciame, tutte le società, aincominciare da quelle che l’antropologia denomina “primitive”, conosconodifferenziazioni di funzioni, rapporti stabilizzati, premi e sanzioni, regolatiin modi non meno vincolanti di quelli che conosciamo nelle società“evolute” che si affidano al diritto: regole tradizionali che si trasformanoper evoluzione, regole strutturali funzionalistiche che garantiscono lacooperazione tra i membri e la difesa dai pericoli esterni, regole chedisciplinano e, per cosí dire, disarmano la lotta per il potere e la trasformanoin competizione: conoscono dunque istituzioni. Ma, possiamo dire che sitratta di “diritto”? L’Egitto dei faraoni, l’Atene del VI e V secolo a.C., gliIsraeliti sotto la guida di Mosè, le tribú dell’America del Nord, i popolidelle Americhe precolombiane, per esempio, erano società anche assaicomplesse. Il culto del sole e dei morti e delle erme, il legame al genos

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patrio, i segni della natura, come il volo degli uccelli o i movimenti delleviscere degli animali interpretati da auguri, aruspici e indovini, i messaggidivini interpretati dai sacerdoti, i ritmi delle acque dei grandi fiumi su cui siregolava la vita delle cosiddette “società idrauliche”, il totem e il tabú, legare canore tra gli Inuit e le gare tecnologiche nell’Isola di Pasqua cheservivano ad assegnare “legittimamente” il potere di governo e a regolare lavita sociale, e si potrebbe continuare, non erano forse capaci di modellare lavita di intere società? Capaci di modellare un ordine sociale stabile neltempo e di legittimare il potere garante di tale ordine?

Anche se queste norme assumono forma scritta, non necessariamentesiamo ancora nel campo di ciò che conviene denominare diritto. Il libro deldiritto, di cui taluno parla a proposito delle antiche istituzionimesopotamiche, pare raccogliesse informazioni a futura memoria sullenozioni utilizzate per la formulazione di atti d’imperio, come ausilio – sipotrebbe dire come un prontuario – nell’esercizio del potere. L’ordine e ilgoverno riposavano non su tali “leggi”, ma queste dovevano essere solotecniche al servizio di un ordine indipendente e preesistente. Il CodexHammurapi, inciso su una stele di basalto esposta al pubblico, corrispondea una fase successiva. La dichiarazione pubblica e solenne di regole delvivere comune, destinata a valere oltre il tempo del governo del re, parevolesse porre le basi d’ogni futuro governo e d’ogni futura decisione dellecontroversie tra i sudditi. Il Codex è la manifestazione della volontàlegislatrice del re che riassume significati dal passato e li fissaobbligatoriamente per il futuro in base alla sua autorità. È, al tempo stesso,consolidazione e imposizione in cui emerge non la legge, ma il re che laassume come sua e, essendo lui il re, diventa la legge di tutti. Non è uncodice in senso moderno – scrive lo storico delle società antiche e delle lororeligioni Jan Assmann 3 – ma la celebrazione d’un re giusto, una «iscrizionecommemorativa» che, invece di commemorare vittorie militari o operepubbliche, commemora la giustizia regia. La giustizia e il diritto stannodentro e sotto la sua volontà.

Differenziazione.

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Il punto di vista che qui si sostiene è che il diritto nasce distinguendosicon caratteri propri dal coacervo delle strutture normative della società,quando le norme del vivere comune si spersonalizzano, si rendonooggettive e non coincidono con l’immediata e contingente volontà del re,sia pure il re piú giusto di questo mondo, o con un’ansia immediata digiustizia non mediata da regole valide in generale. La “grazia” agli amici ola “lista di proscrizione” dei nemici del re, o il linciaggio dell’assassinoscoperto sul fatto e, in generale, il “farsi giustizia da sé” non sono diritto. Ildiritto nasce per differenziazione sia dal comando capriccioso, sia dallospontaneo istinto di giustizia. Rendendosi oggettivo può diventare oggettodi una scienza, una scienza alla quale si dedicano “i giuristi”, un cetosociale dedito a varie attività che assumono, tutte, il diritto comeprofessione.

La differenziazione anzidetta non compare nella vita delle istituzionisociali in un momento dato, già tutta quanta delineata, ma si vieneformando a poco a poco all’interno di istituzioni che, per cosí dire, latengono in incubazione fino a quando le condizioni esteriori politiche eculturali di un’epoca ne favoriscono la nascita.

In questa sede non è possibile fornire altro che piccoli accenniesemplificativi. Nelle società arcaiche, accanto al re-stregone-taumaturgo,spesso si formano collegi di saggi, depositari delle tradizioni e delle identitàtribali, ai quali il re si rivolge per avere consigli nel prendere le decisioniimportanti e dirimere le liti. Questo è già un rozzo embrione, replicato insocietà piú evolute, come quella dell’Egitto antico, in cui il faraone eracircondato dalla potente élite dei sacerdoti.

L’evento capitale nella storia della nostra civiltà giuridica è narrato informa mitologica da Eschilo nelle Eumenidi: diremmo noi, “le benevole” o“le benefiche”. Esso assume il valore di un paradigma permanente perchél’amministrazione della giustizia viene riservata a un luogo particolare,consacrato specificamente a questa funzione. È l’Areopago, dove Atena, ladea della pòlis ateniese schietta, benefica, saggia, impone che Oreste ilmatricida sia giudicato dai cittadini e, cosí, sottratto alla violenza dellavendetta, di cui ministre erano le Furie, istruite dalle Moire, capaci dimuoversi dappertutto e in ogni momento per esercitare le loro illimitaterappresaglie. Dice la Dea: «Ecco il consesso che istituisco: insensibile aldenaro, degno di venerazione, rigoroso d’animo, desto a vegliare i

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dormienti, presidio del Paese». L’Areopago è l’anticipazione di un carattereproprio d’ogni idea moderna della amministrazione del diritto: lo spaziochiuso, separato, protetto tanto dallo strepito della strada e della piazza,quanto dall’arroganza dei potenti. Del resto, anche la giustizia arcaicaamministrata sotto la quercia comportava che, con un cerchio, si separasseun dentro e un fuori. Il luogo era dunque “specializzato” ma non era(ancora) privilegio degli esperti del diritto; ci stavano i cittadini. Nelprocesso di Socrate, egli fu condannato non da giudici specialisti del diritto,ma dal popolo dei suoi concittadini. E, quando nel Critone egli mette inbocca alle leggi della città un eloquentissimo discorso circa la necessità dinon sottrarsi al castigo che quelle prevedevano, per quanto iniquamente,non lo fa da giurista, ma da buon cittadino, da cittadino virtuoso. NellaGrecia classica, le norme del vivere comune non appartenevano a qualcosadi specifico cui noi diamo il nome di diritto e si potevano trovareindifferentemente nei grandi miti, perfino nelle parole dei grandi oracoli,nelle epopee come quelle omeriche, nelle volontà dei legislatori avvolti nelmito come Licurgo o Solone, nelle opere dei filosofi e dei tragediografi, lecui rappresentazioni teatrali svolgevano una funzione di formazione dellacoscienza civica. Tutto ciò era il nómos e le deliberazioni dell’assembleapopolare potevano scalfirlo solo marginalmente. L’insieme di questielementi formava, per cosí dire, l’ethos della città e in esso non esisteva unadifferenziazione per cui si potesse dire: questo è diritto e quest’altro non loè 4.

Invece, il popolo d’Israele conobbe molto presto i suoi giuristi: erano irabbini che, nelle scuole rabbiniche (Yeshivot), elaboravano una vera epropria scienza normativa attraverso sofisticatissime e impervieinterpretazioni dei versetti della Torah. Erano (e sono) i giuristi che, come inostri, lavoravano per interpretare le clausole d’un contratto, spremevanodal patto di Yahveh col suo popolo tutto ciò ch’era possibile spremere conriguardo alle condizioni storiche in cui l’ebraismo si è trovato a vivere neisecoli. Ciò che è caratteristico di questo mondo è l’assenza di una gerarchiaformale, di un’autorità normativa cui spetti l’ultima parola. Ci sono maestripiú o meno autorevoli, la cui autorità è piú o meno riconosciuta, mal’elaborazione del diritto rabbinico è diffusa tra i maestri che vi si dedicano.Analogamente è per le scuole coraniche (Madrasah) nella civiltà dell’Islam.In questi ultimi esempi, l’aspetto giuridico e quello religioso sono

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intimamente connessi, cosicché il fine del diritto non è soltanto oprincipalmente la salvaguardia della vita sociale, ma è anche e soprattutto lafedeltà alla parola divina. È a Roma che si opera la separazione, in unosvolgimento storico che, a partire dal diritto sacerdotale dell’età arcaica,conduce alla creazione di una scienza autosufficiente, fondata su concettipropri che vivono e si combinano fino alla creazione di quel maestosoedificio che chiamiamo “diritto romano” che si consolida e si riproducecontinuamente attraverso il commento degli specialisti e le interpretazionidei magistrati. Roma ha inventato il diritto, s’è detto 5, e, con il diritto, igiuristi. Ma non è stata un’invenzione nel senso d’una creazione tutta d’unpezzo e tutto a un tratto. Nell’origine di questa vicenda, che si pone altempo delle Dodici tavole, l’intreccio con la religione è stretto: gli interpretisono i sacerdoti. Ma, nel corso del tempo, con la creazione di un sistemagiuridico che doveva valere per un impero sempre piú grande e dovevaessere applicato nella routine burocratica garante di stabilità, impersonalitàe omogeneità, la classe dei giuristi fa la sua comparsa e si afferma comefrazione specifica delle istituzioni romane, portatrice di un sapereautosufficiente.

Non solo autosufficiente, il sapere e l’agire giuridico, ma anche tecnico eprogressivamente spogliato dai caratteri misteriosi ed esoterici da cui lascienza delle regole in mano ai sacerdoti e ai consiglieri segreti dei principiera circondata nell’antichità. La scienza del diritto, da reservata alla sferadel potere diventa accessibile, pubblica e laica perché si rivolge non (piúsolo) ai principi e alla loro corte, e non vale (piú solo) a orientarne l’uso delpotere, ma si rivolge a tutti per tenerli uniti non con la forza, la corruzione ola seduzione, ma con una trama di regole oggettive. Il diritto si distaccaprogressivamente dagli arcana del potere e dai misteri della religione e, persvolgere la sua funzione, cessa d’essere una misteriosofia e diventa unascienza sociale, accessibile a un sempre piú vasto numero d’individui.Sebbene l’obbiettivo fosse lontano, il diritto doveva parlare una lingua solavalida per tutti. La distinzione tra il popolo semplice e gli iniziati allasapienza su cui le società arcaiche costruirono la propria “doppia verità”, il“doppio fondo” su cui ogni potere arbitrario, assoluto o totalitario, pone ilsuo fondamento: l’inganno per i semplici e il cinismo per i potenti,incominciano a essere intaccati (anche se non saranno mai completamentesconfitti).

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La codificazione di Giustiniano del 534 d.C., sistematizzando lalegislazione allora in vigore filtrata dall’opera immensa dei commentatoriantichi piú importanti, e ponendola sotto la sua autorità sovrana, diede aigiuristi la materia prima del proprio lavoro, un lavoro che proseguí nelcorso dei secoli, attraverso le glosse dei giuristi che avevano le lorouniversità, i propri tribunali, i propri trattati, perfino le proprie toghe, lapropria nobiltà, il proprio linguaggio, il proprio modo di pensare e di viverespesso lontano e dalla comune ragionevolezza, e la propria distinzionesociale. Il Codex giustinianeo sarà poi, in epoca moderna e in certi territori,sostituito dai Codici, il cui modello è rappresentato dal Code Napoléon del1804, massimo monumento della ragione giuridica della società borghese.Ma, a parte i contenuti, le codificazioni rappresentano altrettanti passaggi diun percorso politico e culturale di specificazione che si sviluppò nel tempofino a raggiungere il suo culmine nella cosiddetta dottrina pura del diritto,grandiosa costruzione intellettuale di Hans Kelsen 6, uno dei massimigiuristi-filosofi del secolo scorso, il cui obbiettivo era ed è quello didepurare il diritto e il lavoro dei giuristi da qualunque contaminazione daparte della morale, della religione, della filosofia, ecc., cioè da tutto ciò incui è invece immersa la vita degli esseri umani comuni. Se si legge ilprogramma scientifico della dottrina pura – rendere il diritto incontaminatoda idee morali, filosofiche, storiche, ecc., cioè da idee relative e disputabili,per poterne trattare scientificamente, cioè secondo il proprio metodoesclusivo, il «metodo giuridico» – e lo si confronta con le parole diGiustiniano che ordinano ai suoi giuristi di procedere alla codificazione –riunire tutto il materiale disponibile, ordinato e magnificamente ricomposto,come tempio duraturo della giustizia, in modo che fuori di esso non vi siapiú nulla che possa intaccarne la purezza 7 – si comprende la continuità nellungo tempo di un’idea, l’idea del diritto come cosa a sé e dell’esperienzagiuridica come cosa autosufficiente. Insomma: la specificazione diventòautonomia, l’autonomia si evolvette in separazione, e la separazionealimentò nei “giuristi puri” un certo loro compiaciuto orgoglio d’esseredepositari della vera luce che illumina veritieramente tutta la strutturanormativa della vita sociale. Una pretesa evidentemente assurda, cheimplicherebbe la totale “giuridificazione” delle nostre esistenze. La dottrinapura del diritto non arriva a tanto: semplicemente vuole “depurare” il dirittoda ciò ch’essa considera meramente “sociale” e trattarlo con i metodi a esso

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convenienti, ma molti giuristi l’assumono come ideologia totalizzante.L’ubi societas ibi ius, erroneo per quel che si è detto, si mostra per ciò cheè, cioè una tipica presunzione che alligna anche solo implicitamentenell’animo di giuristi, quelli che potremmo chiamare i “pan-giuristi”.

Pluralità degli ordinamenti.

Il passo del testo dal titolo L’ordinamento giuridico citato all’inizioprosegue cosí:

L’ordine sociale che è posto dal diritto non è quello che è dato dall’esistenza,comunque originata, di norme che disciplinino i rapporti sociali: esso non esclude talinorme, anzi se ne serve e le comprende nella sua orbita, ma, nel medesimo tempo, leavanza e le supera. Il che vuol dire che il diritto, prima di essere norma, prima diconcernere un semplice rapporto o una serie di rapporti sociali, è organizzazione,struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità,come ente per sé stante. Anche questo è un corollario di quanto si è sopra osservato perprecisare e delimitare il tipo di società in cui il fenomeno si produce.

Le proposizioni che precedono sono la premessa della concezione deldiritto che si denomina «teoria istituzionale». Essa ebbe proprio in Romanouno dei suoi piú acuti sostenitori. Di “istituzioni” ci occuperemo piú avanti.Qui basta osservare che, una volta che l’ordinamento giuridico siaidentificato nel rapporto di reciproca condizionalità tra diritto e società,rapporto compendiato nella parola “istituzione”, ogni organizzazionesociale avente le caratteristiche sopra indicate dovrebbe dirsi giuridica.Queste organizzazioni sono numerose, onde la teoria istituzionale conducealla teoria della «pluralità degli ordinamenti giuridici». Ovunque ci siaun’organizzazione di rapporti sociali stabile, quale che ne sia la struttura ela finalità, ivi ci sarebbero istituzioni, cioè ci sarebbe diritto: perfino leassociazioni segrete e le organizzazioni criminali apparterrebbero almedesimo mondo delle “istituzioni giuridiche”. Conclusione a prima vistasconcertante. Benedetto Croce lamentava: possibile che non si trovi unadifferenza essenziale tra la Magna Charta e le regole della mafia o dellacamorra 8?

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Vecchia questione. Sant’Agostino, nel capitolo 4 del libro IV del Decivitate Dei, scrive:

Fu davvero una risposta brillante e veritiera quella data da un pirata fatto prigionieroal famoso Alessandro Magno. Il re gli chiese qual era il suo pensiero, per cui infestava imari; e l’altro con franca impertinenza rispose: «Lo stesso per cui tu infesti il mondo.Solo che io, con la mia misera nave, vengo chiamato ladro, mentre tu, con la tua grandeflotta, imperatore».

Agostino mostra cosí di ritenere valida la risposta del pirata, ma non deltutto, cioè solo fino a quando non entra in gioco la giustizia, come criteriodi distinzione. Il passo ora citato, infatti, è preceduto dalla frase famosa:remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia? cui seguonoqueste considerazioni:

Anche le bande dei briganti che cosa sono, se non piccoli regni? Sono manipoli diuomini comandati da un capo, legati da un patto sociale, con la ripartizione del bottinosecondo una legge accettata da tutti. Basta che questa calamità si espanda conl’affluenza di molti malfattori, al punto da occupare un territorio e stabilire una base,occupare città e sottomettere popolo, perché assuma piú chiaramente il titolo di regno,che le viene apertamente riconosciuto non per l’abolizione delle razzie ma per ilconseguimento dell’impunità.

C’è una verità profonda e senza tempo in queste considerazioni. LeSignorie rinascimentali non avevano forse all’origine un avventuriero con lasua congrega che faceva il bello e il cattivo tempo, prima in piccolo e poi ingrande, fino a imporsi e a imporre il proprio ordine e la propria legge e, conessa, la propria legalità, cosí trasformandosi da bandito in signore temuto eriverito? Tanti sistemi di potere, anche moderni, non hanno forseattraversato un’analoga trasformazione, una trasformazione che da bandad’avventurieri dalle oscure e discutibili origini li ha gonfiati fino atrasformarli in potentati politici che esigono e ottengono rispetto di ciò chein origine era mera forza e, ora, si presenta come forza legittima, cioè comediritto? Forse che, per esempio, non ricordiamo come si affermarono iregimi totalitari del secolo scorso?

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Ritorniamo ad Agostino. Tutto ciò ci porta ad ammettere qualcosa discandaloso, ma non perciò meno veritiero: tra il pirata e l’imperatore ci puòessere continuità: non sempre, naturalmente, ma spesso, con buona pacedelle filosofie che fondano le società che chiamano “civili” sull’innatoistinto alla socievolezza o sul patto sociale tra soggetti liberi, razionali euguali.

Ubi ius ibi vis?

Il problema di Agostino era come distinguere quello che noichiameremmo “lo Stato”, cioè il massimo modello odierno di istituzionelegittima, da una volgare banda di ladroni che usa la nuda violenza per farebottino. La sua idea distintiva era la giustizia: un’idea che in varia formapercorre tutta l’elaborazione di questi nostri temi, dall’idealizzazione dellapòlis greca classica, alla civitas romana fino alle odierne dichiarazionicontenute in documenti delle Chiese cristiane e in documenti e convenzioniinternazionali. Soprattutto le tragedie dei totalitarismi novecenteschi hannomostrato con ogni evidenza che tra lo ius e la forza criminale che s’imponee si legittima con tutti i mezzi a disposizione – mezzi che possono ancheessere le procedure formali della democrazia come le elezioni – può esserciun legame germinale che poi, via via, viene oscurato dalla copertura dellalegalità che si è imposta con la forza.

Già all’origine della storia dei concetti che ci riguardano troviamo undenso ed enigmatico frammento di Pindaro 9, riferito da Erodoto e daPlatone, che può essere utilmente sfruttato con riguardo al nostro problema,perché ne contiene i termini principali. Facciamo cosí un salto all’indietrodi piú di due millenni e mezzo. Per tentare di capirne qualcosa, occorretenere presente la contrapposizione radicale di Bía e Díkē: Bía, forzasregolata, forza di fatto, costrizione, violenza (dià bías, a forza; biázomai,essere costretti con la forza); Díkē, la figlia di Thémis, forza regolatrice,costume, ordine tradizionale, giustizia (katà díkēn, secondo giustizia). Nelpasso di Pindaro che segue, nómos, la legge, crea un collegamento tra i duetermini, Bía e Díkē, ed è un collegamento sorprendente:

Nómos ó pántōn basiléus

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Thánatōn te kaí athánatōnÁgei díkaion tá biaiótatonYpértata cheirí: tekmaíromaiÉrgoisin Heracléos…

Una traduzione potrebbe essere: «Nómos [la legge], il sovrano di tutti,sia mortali sia immortali, trasforma in giustizia la violenza piú forte, conmano inesorabile. Lo arguisco dalle opere di Eracle…» Le opere del figlioprediletto di Zeus sono forza sovrumana scatenata, che rimuove e rinnova leanteriori condizioni e concezioni della giustizia, come accadde nella suadecima “fatica”, il furto dei buoi 10. Perciò, si può dire che il nómos, anzi ilnómos sovrano, è tale in quanto, in ultima istanza, rende giusta, cioègiustifica, la violenza creatrice di ordine 11. A questa interpretazionecorrisponde perfettamente un detto famoso di Blaise Pascal: «Non potendofar sí che si sia obbligati a ubbidire alla giustizia, si è fatto sí che sia giustoubbidire alla forza, affinché giusto e forte stiano insieme e la pace, che è ilbene supremo, sia assicurata» 12. Il nómos è sovrano in vista del benesupremo: l’ordine, per Pindaro; la pace, per Pascal.

La giustificazione della forza fondatrice.

Il nómos supremo, secondo quella che è una tra le varie interpretazionidel celebre frammento pindarico, si presenta cosí come la legittimazione delpiú forte, la legge del piú forte, dove “il piú forte” può essere un sovranobenefico ma può altrettanto, o forse piú facilmente, essere una banda diladroni. Nel momento fondativo, la giustizia, Díkē, non è nulla in sé, oppureè solo un modo di dire per giustificare a posteriori la pura forza cheraggiunge il suo fine: la forza che, secondo questa concezione, per cosí dire,eroica, sarebbe all’origine di qualsiasi ordinamento e lo pervaderebbe inogni suo elemento. Nel nómos supremo la giustizia si congiunge alla forzaestrema, ma non nel senso di limitarla, indirizzarla, condizionarla bensí nelsenso di sostenerla, legittimarla, stabilizzarla, assolutizzarla 13.

Questa interpretazione potrebbe fare di Pindaro il teorico ante litteramdel nichilismo giuridico, cioè della nuda effettività come fondamentooriginario ed esclusivo del diritto. La legge è pura forza, verrebbe da dire

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con lui, quale che ne sia il contenuto: se essa si afferma potentemente, nonle mancherà la benedizione della legge che la renderà giusta. La giustizia ègiustificatrice, è ancella della forza e, se qualcosa esige, è che la forza, «conmano inesorabile», non si arresti di fronte a nulla, pur di imporsi. È questaun’interpretazione selvaggia, che si addice ai momenti originari, agli statusnascentes degli ordinamenti politici, quando dal kaos di una guerra esternao intestina, di una rivoluzione, di una conquista, occorre trarre dal disordineprivo di legge un ordine pacificato: un momento di passaggio che è puroscontro di forza cruenta. In riferimento a questi casi, il realismo pindarico epascaliano si può ben dire adeguato a spiegare lo svolgersi delle situazioni.Non è nichilismo; è realismo.

Pensiamo al fascismo e al nazismo che si fregiarono perfino del titolo“scientifico” di Stati di diritto. Affaristi, avventurieri, ideologi fanatici eperfino movimenti criminali, organizzati con tecniche efficaci per laconquista spregiudicata del potere, hanno preteso legittimità per le loroazioni alla stregua di leggi fatte da loro stessi. Forse che questi criminalinon hanno creato le proprie istituzioni? Forse che non erano giuridiche? Ainostri occhi appaiono mostruose, ma questo riguarda la qualità nonl’essenza della cosa: proprio come dice Agostino, ciò che le distingue dalleistituzioni nelle quali noi oggi ci riconosciamo è un aggettivo: “ingiuste”,non il sostantivo: “istituzioni”.

Ubi ius ibi iniuria?

Chi presta attenzione all’origine degli ordinamenti giuridici potrebbefacilmente modificare uno dei due motti che abbiamo messo all’inizio diquesto Prologo in questi altri: ubi ius ibi iniuria. Il diritto è qualcosad’inquietante perché il terreno su cui si posa è un terreno di conflitti. Unavolta che il conflitto si sia spento con la vittoria d’una forza e la sconfittadelle altre, non è sempre vero che il diritto sia «l’altra faccia del potere»,che «lex et potestas convertuntur»: dipende dalle concezioni politiche chehanno avuto la prevalenza e dal loro contenuto che viene riversato neldiritto, diritto che può essere tanto la giustificazione, quanto la limitazionedel potere. Tuttavia, è indiscutibile ciò che Hans Kelsen, un nome cheabbiamo già incontrato e incontreremo spesso, disse in un tempo di

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turbamenti politici e sociali, a proposito di che cosa vi sia dietro il dirittointeso realisticamente come realtà effettuale: «chi cerca la risposta – temo –non trova né l’assoluta verità di una metafisica né l’assoluta giustizia di undiritto di natura. Chi solleva il velo e non chiude gli occhi, contro di lui sierge la testa di Gorgone della forza» 14.

L’ordine politico e sociale, cioè il nómos fondamentale, nasce dunquedal potere che dispone del potere di crearlo e questa ovvia affermazione,che i giuristi per comprensibili ragioni non amano, vale – questo è un puntoimportante – qualunque sia la nozione di diritto che facciano propria: dirittonaturale, diritto sociale, diritto legislativo. Una volta vigente, nei regimibasati sulla libertà, vale a regolare il potere, ma il presupposto della vigenzaè la lotta per l’acquisizione del potere di stabilirlo. Non può esserealtrimenti. La storia universale concorda: all’origine di ogni ordinamentogiuridico sta un atto, o piú atti di “differenziazione”, termine dolce chenasconde vicende di separazione, di sopraffazione piú o meno violente e piúo meno discriminanti. Perfino nelle situazioni storiche nelle quali si ricercala piú ampia integrazione in unità delle differenze politiche, non tutto può“integrarsi”. Costituzionalizzare ogni cosa e i suoi contrari significherebbenon costituzionalizzare nulla. Perfino le costituzioni piú aperte, pluraliste edemocratiche, come è la nostra Costituzione portano queste stigmate. Dietroe prima d’ogni costituzione sta una lotta per la costituzione. Darsi unacostituzione equivale a “fondare la città” e la mitologia ce lo insegna,raccontandoci di Caino fondatore di città e di Romolo fondatore di Roma. Esappiamo quali delitti ci sono, in genere, all’inizio della vita delle società.Si può dire che tanto maggiore è l’apertura, tanto minore è l’iniuria cheogni ordinamento giuridico originariamente porta in sé. E si può aggiungereche tanto piú l’ordinamento è democratico tanto maggiore è la suapropensione verso la costituzionalizzazione politica e sociale piú ampia, manon potrà mai costituzionalizzare i nemici della democrazia. Questi,necessariamente, si sentiranno oppressi da una discriminazione, da unainiuria.

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Queste pagine sono nate dalle lezioni tenute nel corso di laurea in Filosofia della Università Vita-Salute San Raffaele di Milano nell’anno accademico 2016-17. Esse mi hanno offerto la possibilità diallontanare per un poco il momento e il pensiero della «collocazione a riposo per raggiunti limiti dietà». L’interesse, l’acume e la passione di cui gli studenti hanno dato dimostrazione sono stati lostimolo che mi ha permesso di superare ogni stanchezza. A loro questo libro è dedicato.

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Diritto allo specchio

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Capitolo primoDiritto

Tre concezioni del diritto.

Finora, nel Prologo, abbiamo parlato del diritto in rapporto con lasocietà. Che cosa si possa intendere per “società” potrebbe essere il tema diun intero gruppo di lezioni, tante ne possono essere le concezioni, leesemplificazioni, le critiche che a partire dalle une si rivolgono alle altre.Ma ciò non rientra nel nostro piano e, tanto meno, nelle mie competenze.Qui, possiamo accontentarci di una nozione intuitiva come per esempioquesta: un insieme ordinato di coesistenze che formano una convivenzastabile nel tempo. La distinzione coesistenze-convivenza è ricca disignificati su cui si potrebbe esercitare la nostra riflessione. Ma dobbiamolasciarla in sospeso perché, invece, qui ci tocca domandarci in che cosaconsiste quell’oggetto della scienza che è la scienza giuridica, cioè il diritto.La risposta non è unica, ma triplice, a seconda che lo si guardi dal punto divista delle norme naturali, delle norme storico-sociali, delle norme statuitedal legislatore. Dai tre punti di vista anzidetti nascono tre grandi “scuole”della scienza giuridica: il giusnaturalismo, la scuola sociologica e ilpositivismo giuridico. Ognuna di esse colloca le “fonti del diritto” inqualcosa di diverso, cioè “ha le sue fonti”: la natura, i rapporti sociali, lalegge.

I. Giusnaturalismo. 1. Diritto naturale.

Il diritto naturale di cui si occupa quella corrente di pensiero chechiamiamo giusnaturalismo è indubbiamente una risorsa cui spesso si

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ricorre per appagare il bisogno di sicurezza (si noti: stiamo parlando non didiritti umani o diritti naturali, cioè di di quelli che i giuristi chiamano«diritti soggettivi», ma di «diritto oggettivo», cioè delle norme giuridiche).Di fronte a veri o presunti arbitrî e, perfino, ai veri e propri delitti compiutiin nome delle tradizioni sociali o, piú spesso, con l’avallo della legge fattadagli uomini, che cosa è piú rassicurante di una legge obbiettiva, sempreuguale e valida per tutti, la legge che vediamo impressa in quella realtàesterna in cui siamo immersi, la legge di natura, per l’appunto, che gliuomini non possono alterare e corrompere a loro piacimento, se non alrischio del loro stesso male? Che cosa c’è di piú confortante, ma anche de-responsabilizzante, che il poter dire: non dipende da me, da noi; dipendedalla natura ch’io, tu, nemmeno noi tutti insieme possiamo cambiare?Deresponsabilizzante perché esonera dall’assumersi il compito e il peso dicercare che cosa sia piú o meno giusto per noi, ma massimamenteobbligante nei confronti della ferrea legge di natura che non è lecitocambiare. Diffusa è la contrapposizione tra ciò che è naturale e sta fuori dinoi, e ciò che è artificiale e procede da dentro di noi. Questacontrapposizione sembra formare la struttura mentale originaria degli esseriumani che condiziona il rapporto tra loro e il mondo. Ciò che sta fuori èfermo, intero, vero, giusto. Ciò che sta in noi è variabile, parziale, fallace,sempre a rischio d’ingiustizia. La natura non sbaglia mai; è negli artificidegli esseri umani che s’annida l’errore.

La filosofia, tuttavia, ha distrutto la possibilità di ragionare cosísemplicemente, anzi semplicisticamente. Già in Aristotele c’èl’affermazione che la natura dell’uomo è l’artificio. Ma piú della filosofia, èil tempo attuale, il tempo in cui la “natura” e perfino la natura dell’essereumano può essere il prodotto del suo “artificio” – potenza della genetica; iltempo in cui il dentro e il fuori di noi, il soggetto e l’oggetto insieme siconfondono; il tempo in cui la sopravvivenza della natura richiede lamobilitazione di tante energie artificiali a sua difesa e rende vana quelladistinzione. Ciò non di meno, continuiamo a ragionare cosí: anzi, ciaggrappiamo ancor di piú a quella distinzione, come a un’assicurazione.Forse, ne abbiamo un bisogno “naturale”, per non cadere preda dellavertigine di un soggetto – l’essere umano – che, al tempo stesso, è o stadiventando oggetto di se stesso; un soggetto avvolto e sprofondato cosí inun circolo vizioso esistenziale. Il pensiero religioso vede in ciò la

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bestemmia dell’uomo che vuole farsi Dio, cioè imitare l’unico che, secondoun’interpretazione del libro dell’Esodo (3,1-6), può dire di «essere colui cheè», in forza solo della potenza della sua essenza. Colui che vuol esserequello che è in forza di se stesso è l’uomo-dio, cosí ben rappresentato daltragico e paradossale ingegner Kirillov in I demoni di Fëdor Dostoevskij, ilquale, per dare prova di totale libertà intesa come signoria sulla propriaesistenza, si faceva padrone della sua vita e della sua morte suicidandosi 1.

C’è il paradosso per nulla stupefacente che, proprio quando è diventatoinsostenibile a causa della caduta dei confini reciproci, il binomio natura-artificio sia stato riscoperto, per trovare in esso la norma delle azioniumane, una norma che assegna al “naturale” il primato sull’“artificiale”,sinonimo di inganno, abuso, adulterazione. Tale primato, tuttavia, habisogno d’una fondazione; deve rispondere a un “perché?” Perché ciò che ènaturale vale piú di ciò che è artificiale? La risposta è una sola: perché lanatura è il regno dell’ordine giusto e l’ordine è giusto perché è voluto daglidèi o da Dio, o è esso stesso dio, come credono coloro che si ispirano allospinoziano deus sive natura. Il diritto naturale, cosí concepito, è un attod’umiltà dell’essere umano nei confronti del sovrumano. Il sovrumano èstato per secoli il terreno delle religioni che si facevano interpreti dellavolontà divina nell’ordine delle cose umane. A partire dal Seicento, tuttavia,l’autorità delle Chiese è stata contestata come cattiva interprete dell’ordinedelle cose e combattuta in nome del deismo e del razionalismo: l’ordinepredicato dagli ecclesiastici che sostituiscono alla parola di Dio la loro o,semplicemente, la rivestono arbitrariamente dell’autorevolezza ch’essipretendono per sé da una loro presunta investitura divina, fu considerato unraggiro, un inganno al servizio dell’ignoranza e dell’oscurantismo. Ilculmine della denuncia fu raggiunto quando diversi testi di largacircolazione (e d’incerta attribuzione) denunciarono Mosè, Gesú il Cristo eMaometto, insieme ai loro epigoni, come colpevoli di «impostura» 2.

Non si trattò, peraltro, dell’abbandono dell’idea del carattere naturale deldiritto. Si trattò della contestazione dell’autorità che da questa nozionederivava. Si trattò non d’una distruzione, ma d’una usurpazione a favoredello spirito laico e della ragione illuminata degli esseri umani, affrancatidai dogmi chiesastici. Il diritto naturale diventò cosí «diritto di ragione»,insofferente nei confronti della tradizione e basato sulla sovranità non piú diDio, ma del pensiero critico di cui soprattutto i filosofi si riservano il

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deposito: la filosofia al posto della teologia. Immanuel Kant, con il suo«sapere aude» tratto dalla prima Epistola di Orazio e rivolto a tutti gliappartenenti al genere umano, può essere il nome di riferimento.

Il nucleo essenziale comune d’ogni giusnaturalismo è l’esistenza d’unordine giusto nelle cose umane, ma l’autorità di chi se ne assume larappresentanza può cambiare ed effettivamente allora cambiò sede: daiconcili e dai sinodi ecclesiastici alle società filosofiche. I “lumi” presero ilposto dei “dogmi”.

2. Rinascita del diritto naturale.

La storia del «diritto naturale» è fatta di corsi e ricorsi 3. Per lunghiperiodi può essere dato per morto, ma è sempre una morte apparente. Dopoi totalitarismi del secolo scorso, “dopo Auschwitz”, se ne è avuta una“rinascita”. Dei loro orrori non si ritenne indenne il diritto. Gli si imputòd’essere diventato il servizievole strumento nelle mani di autocrati mossi daideologie disumane. Disancorato da un fondamento oggettivo, lo Statototalitario aveva travolto lo Stato di diritto e l’aveva trasformato – come sidisse – in «Stato di delitto». La tesi fondamentale del giusnaturalismo è cheil diritto legale (cioè artificiale) deve arretrare di fronte alla giustizianaturale: le tragedie politiche del XX secolo avevano dimostrato quantaimportanza deve essere riconosciuta a questa scala di valore e quantonecessario fosse ripristinarla 4.

Nei decenni successivi, il diritto naturale perse la sua presa diretta,essendo mediato dalle tante dichiarazioni internazionali come laDichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assembleagenerale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1948, la Convenzioneeuropea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertàfondamentali del 1950, e dalle numerose norme poste dalle costituzioninazionali a protezione della dignità e dell’uguaglianza degli esseri umani.Questi testi incorporavano contenuti che si possono ritenere propri anchedel diritto naturale, secondo concezioni dominanti in quel periodo di tempo,ma erano testi di diritto positivo frutto di scelte determinate dalla volontà dilegislatori: non erano diritto naturale. Volendo si può anche dire cosí: erano

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la positivizzazione di contenuti di diritto naturale, ma questo, per valere, eratrasferito in un atto “artificiale” di legislazione. Cosí, del diritto naturale sicontinuò a trattare, ma piú nella sfera del discorso etico e religioso che inquella del discorso politico e giuridico. Perfino Joseph Ratzinger, nelcelebre dialogo con Jürgen Habermas su «Ragione e fede» svoltosi il 19gennaio 2004 presso la Katholische Akademie in Bayern, lo ha definito uno«strumento purtroppo spuntato» 5.

Ora, siamo di nuovo in un momento di rinascita 6: quando la legge fattadagli uomini secondo le loro mutevoli imposizioni e convenzioni appareingiusta, le si contrappone la legge obbiettiva della natura, che nessuno puòalterare. Cosí si fa soprattutto da parte della Chiesa cattolica, per contrastarei cambiamenti in tema di unioni tra persone, eutanasia, ricerca esperimentazione scientifica, manipolazioni genetiche, ecc.; e per ritornareall’antico, in tema di famiglia, contraccezione, aborto. Piú di recente, anchei temi della difesa dell’ambiente e dell’ecosistema sono stati attratti nelmagistero della Chiesa, in nome, si potrebbe dire, dell’intoccabile “naturadella natura”. In questo modo, essa viene a proporsi come granderassicuratrice che dispensa certezze etiche, in un mondo – si dice –moralmente sfibrato dal famigerato “relativismo”, sinonimo di puroedonismo, scetticismo antirazionalista, sfruttamento dei deboli da parte deiforti, nascosto sotto i panni accattivanti della tolleranza. Il relativismo eticotroverebbe nelle mutevoli maggioranze parlamentari e nei lassi costumidiffusi nella società il modo di tradursi in diritto e cosí attenterebbe allastabilità della vita e del suo naturale diritto a essere preservata.

3. Il conforto della natura.

Il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il bisogno disicurezza. Dà alle nostre esigenze di giustizia un fondamento che sta oltre lenostre propensioni individuali, le “oggettivizza”. Sennonché, proprio quiincominciano le difficoltà. Il diritto naturale non è affatto il terreno delconsenso che abbraccia l’umanità intera in nome di una giustiziauniversalmente riconosciuta. Basterebbe ricorrere a quel grande resocontodi viaggi che sono le Storie di Erodoto per sapere come cambia il concettodi natura e di naturale a seconda dei popoli e dei loro costumi; oppure alla

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infinita varietà dell’esperienza propria degli esseri umani di cui parlaMichel de Montaigne 7. È facile che le differenze che si vogliano fondare suqualcosa di duro come la natura si trasformino in inimicizie, quando sitrovano a dover coesistere nel medesimo spazio di vita. Esse, cosí, possonoalimentare i piú radicali conflitti, soprattutto quando le rispettiveconvinzioni non sono – come oggi si dice – negoziabili. La natura,certamente, non è negoziabile.

Innanzitutto, che cosa è la “natura” alla quale ci appelliamo? Se civolgiamo al passato, vediamo una grande confusione. Per qualcuno, icristiani ad esempio, è opera di Dio; ma per altri, gli gnostici, è opera deldemonio. I primi ameranno la natura, cosí come Dio ha amato le suecreature (Gen 1,31: «E Dio vide che era cosa buona, molto»), e trarranno laconvinzione di dover rispettarla intatta; i secondi la odieranno come cosacorrotta e demoniaca, e faranno di tutto per non farsi prendere dalla suabassezza. Indipendentemente da Dio e dal demonio, per alcuni la natura èmadre benefica e per altri matrigna malefica. La visione dell’illuminismoprotoromantico era quella dell’armonia della vita naturale, guastata dallaciviltà (il mito del buon selvaggio), ma Giacomo Leopardi nutriva ognigenere di disperazione verso quella che «per costume e per istinto ècarnefice impassibile e indifferente della sua propria famiglia, de’ suoifigliuoli e, per cosí dire, del suo sangue». «È funesto a chi nasce il dínatale», canta alla luna il pastore errante dell’Asia: e chi, nella sua vita, nonha mai avuto occasione di pensare cosí 8?

4. Natura e confusione delle idee.

Che cosa, poi, vediamo dentro il diritto naturale? Alcuni, come gli stoici,il regno dell’uguaglianza e della dignità umana. I Padri della Chiesasvilupparono questa visione nell’idea di uguaglianza e fratellanza dei figlidi Dio (non senza limitarla, però, ai soli credenti in Cristo). D’altra parte,Aristotele considerava la schiavitú conforme alla natura. Per i sofisti Gorgiae Trasimaco, secondo Platone, «la natura vuole padroni e servi», la giustizianaturale essendo «l’utile del piú forte». Con una pretesa ferrea legge dinatura divenuta ideologia corrente da un secolo e mezzo, il «darwinismosociale», si giustificò la politica coloniale europea, la soppressione per fini

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eugenetici dei soggetti deboli e ammalati, le guerre di conquista di “grandispazi” a favore delle nazioni piú potenti. Cioè si giustificarono senza battereciglio ecatombi di centinaia di milioni di esseri umani in tutto il mondo sucui il “nostro mondo” preferisce sorvolare 9. Herbert Spencer, il filosofo delcosiddetto darwinismo sociale, era sulla stessa linea, quando affermava chesolo la natura assicura i necessari «ricambi», e se lo Stato interviene afavore dei bisognosi e degli ignoranti, con ospedali e scuole, fa solosopravvivere – a danno della collettività che li deve poi mantenere – isoggetti piú deboli della razza umana, i «parassiti». Questa idea, applicatanon agli uomini ma alle razze, ha permesso di affermare che i veri difensoridel diritto naturale sono i razzisti.

Sono esempi raccolti a caso. Mostrano con evidenza che non esiste unanatura da tutti riconoscibile. Anzi: la natura è di per sé neutra, né buona nécattiva. Dipende da noi considerarla in un modo o nell’altro, e questaconsiderazione cambia a seconda dei tempi, delle circostanze della vita edelle visioni che ne abbiamo. Diritto naturale è concetto molto disponibile.Si può parlare di natura, e quindi di legge naturale, solo dall’interno di unsistema di pensiero, di una visione del mondo, ma i sistemi e le visioniappartengono alle culture, non alla natura. Possono perciò essere differenti,spesso antitetici. Si discute da sempre di aborto e, di questi tempi, dieutanasia: inizio e fine della vita. Il magistero della Chiesa ripeteinstancabilmente la sua convinzione: nessuna legge può sovvertire la normadel Creatore, senza rendere precario il futuro della società con leggi in nettocontrasto col diritto naturale. Dalla natura derivano principî che regolano ilgiudizio etico relativo alla vita da rispettare dal momento del concepimentoalla sua fine naturale. La natura umana è vincolante. Una massima famosache la Chiesa ha fatto propria, «si vero in aliquo, a lege naturali discordet,iam non erit lex sed legis corruptio» 10. Ma, leggiamo che cosa diceva unaltro documento che fa anch’esso appello al «diritto naturale», un opuscolonazista del 1940 dal titolo «Tu e il tuo popolo» 11, sul temadell’«annientamento dei malriusciti» (Vernichtung der Mißratenen) e delle«razze decadenti» (der verfallenden Rassen), destinato agli adolescenti,considerati facilmente influenzabili e capaci, a loro volta, di essere veicolidi diffusione ideologica attraverso i loro legami familiari e sociali e quindiconsiderati efficaci strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica e

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della comunità medica tedesca chiamata a partecipare alle politiche dieugenetica nazista:

Dovunque la natura [la natura, dunque!] sia lasciata a se stessa, le creature che nonpossono competere con i loro prossimi piú forti sono eliminate dal flusso della vita.Nella lotta per l’esistenza questi individui sono distrutti e non possono riprodursi.Questo è chiamato selezione naturale. Gli allevatori e gli orticoltori che desideranoparticolari peculiarità eliminano sistematicamente i soggetti con caratteristicheindesiderate, e “allevano” quelle creature che dispongono dei geni desiderati.L’allevamento non è diverso da una selezione artificiale. Nel caso degli esseri umani ilcompleto rifiuto della selezione ha condotto a risultati indesiderabili e inaspettati. Unesempio particolarmente chiaro è l’incremento delle malattie genetiche. In Germania nel1930 c’erano circa 150 000 persone in istituti psichiatrici e circa 70 000 criminali incarceri e prigioni. Essi erano, tuttavia, solo una piccola parte del numero reale dihandicappati. Il loro numero è stimato in oltre mezzo milione. Essi richiedonoun’enorme spesa da parte della società.

Si procedeva cosí alla quantificazione della spesa:

4 RM [Reichsmark] al giorno per un malato mentale, 3,5 RM per un criminale, 5-6RM per un mutilato o un sordomuto. All’opposto un lavoratore non specializzatoguadagna 2,5 RM al giorno, un impiegato 3,5 RM e un impiegato statale di basso livello4 RM […]. Precedentemente, coloro che erano affetti da tali handicap, se non collocatiin istituzioni, erano liberi di riprodursi e in particolare nel caso di alcolisti ehandicappati mentali il numero di figli era spesso molto elevato. Una singola alcolistanata nel 1810 aveva 890 discendenti nel 1939. Metà era mentalmente ritardata, 181erano prostitute, 146 mendicanti, 76 criminali, 7 assassini, 40 erano in ospizio. La donnaè costata allo stato 5 milioni di marchi, che sono stati pagati dalla gente in buona salute.Ciò ha alzato le tasse e ridotto le opportunità per gli altri.

Questa perorazione a favore della «naturale esigenza» di «allevamento»dei migliori e di soppressione degli individui «malriusciti» o appartenenti a«razze inferiori» avrebbe potuto trovare precedenti illustri nell’eugeneticasostenuta nel libro V della Repubblica di Platone o nella Città del sole diTommaso Campanella. L’opuscolo nazista si concludeva in bellezza:

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«questo mostra la saggezza delle parole di Goethe: “l’intelletto divieneun’assurdità, la carità una piaga”».

5. La natura come concetto della cultura.

Noi leggiamo con orrore queste espressioni che si sono riportate peresteso per mostrare fin dove può giungere l’attaccamento alle presunte«leggi di natura» alle quali ci si è voluti aggrappare. I critici del dirittonaturale hanno qualche ragione nel domandare: l’orrore viene dalla naturatradita o non, invece, dalla cultura, cioè dalla politica basata su certe idee diciviltà, di umanità o di religione? Si tratta di aspetti della coscienza che nonhanno a che vedere con la natura, intesa nella sua dura e obbiettiva realtà,cioè come “cieca natura” e necessità di natura, ma appartengono al campodella libertà.

Che sia cosí – che la natura possa essere apprezzata solo dal punto divista di qualche visione del mondo, dell’essere umano nel mondo, della suarelazione con il mondo metafisico, e non dal punto di vista di una pretesaessenza meramente esistenziale dell’essere umano – è un punto fermo nelladottrina cattolica del diritto naturale quando non si rifà, per cosí dire, aun’idea bruta di natura, una natura che del resto, per questa dottrina, oltreall’impronta divina, cioè la sua «immagine e somiglianza», porta il segno diuna “natura corrotta” dal peccato originale. Joseph Ratzinger cosí definiscela “natura” cui la teologia morale della Chiesa si attiene:

Se qui si parla di natura, essa non è […] semplicemente intesa come un sistema diritmi biologici. Piuttosto, viene detto che prima di ogni forma di ordinamento esistonodei diritti dell’uomo stesso, a partire dalla sua natura. L’idea dei diritti dell’uomo è, inquesto senso, anzitutto un’idea rivoluzionaria: essa si pone contro l’assolutismo delloStato, contro l’arbitrio della legislazione positiva. Ma è anche un’idea metafisica:nell’essere stesso si fonda una pretesa etica e giuridica. Non è la cieca materialità, che sipossa poi modificare secondo la mera convenienza. La natura reca in sé uno spirito,porta in se stessa ethos e dignità e costituisce cosí il diritto alla nostra liberazione e ne èinsieme la misura 12.

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Se si conviene su queste proposizioni, che, in verità, per molti secolisono state contraddette dalla dottrina e dalla pratica della stessa Chiesa cheoggi le proclama, non è però perché si concordi su verità di natura.Ammesso che si concordi, ciò è per ragioni non di natura ma di cultura e lacultura è un mondo labile, vario, variabile, tante e profonde sono lepremesse che essa dà per assodate e che potrebbero e, in effetti sono,contraddette, nell’ambito del pluralismo culturale di cui l’umanità si ènutrita, si nutre e si nutrirà.

La natura umana non è, dunque, un concetto biologico o sociologicobensí metafisico. Che cosa è l’essere umano secondo la dottrina dellaChiesa cattolica, dovrebbe comprendersi considerando il suo rapporto conDio. I precetti fondamentali del diritto naturale sarebbero percepibili soloper mezzo di un’intuizione metafisica delle finalità dell’esistenzadell’essere umano e del suo mondo. Dovrebbe essere un’intuizione di fede,possibile solo come dono: «la realizzazione pratica dell’ethos del dirittonaturale non è possibile senza la vita della grazia». Fides et gratia, dunque,come presupposto per il discorso cristiano sulla natura: che cosa c’è di piú“innaturale” di questa visione della natura, dal punto di vista di chilegittimamente non è credente in quella stessa fede?

6. Un concetto sopraffattore.

Dal punto di vista politico, ogni dottrina del diritto naturale, cioè delfondamento nella natura delle concezioni della giustizia, appare essere unamaschera ideologica della sopraffazione: chi è privo di fede e grazia saràconsiderato un errante, un reprobo, un contro-natura o, nella migliore delleipotesi, uno da convertire con l’aiuto di Dio misericordioso; in ogni caso,non uno al quale si possa riconoscere un valore da prendere inconsiderazione. Al piú – povero lui – per il suo bene gli si potrà proporre,cieco com’è di fronte all’autentica natura umana, la peregrina e umilianteidea di fidarsi, di essere e agire (secondo le parole del papa Benedetto XVI)veluti si Deus daretur, come se Dio esistesse, cioè, piú precisamente,secondo ciò che la Chiesa stessa, con la sua autorità, in fin dei conti dice diDio. Senza ch’egli “naturalmente”, con le sue sole forze, ne sia davverocapace, privo come è di grazia e di fede.

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I critici del diritto naturale concordano nel ritenere che non c’è nulla dimeno produttivo e di piú pericoloso che collocare cosí i drammaticiproblemi dell’esistenza nel nostro tempo sul terreno della natura. Evocare ildiritto naturale nelle nostre società, dove convivono valori, concezioni dellavita e del bene comune diverse, significa lanciare un grido di guerra civile.Non siamo a questo, ma non ci siamo molto distanti quando si incita adisobbedire alle leggi non solo i cittadini, non solo categorie di esercentifunzioni pubbliche (medici, paramedici, farmacisti) ma addirittura i giudici,cioè proprio i garanti della convivenza civile sotto il diritto. Questoincitamento, per quanto nobili a taluno possano sembrarne le motivazioni, èsovversivo; è espressione della pretesa di chi ha l’ardire di porsiunilateralmente al di sopra delle leggi e della costituzione. La democrazia èsempre aperta alla ridefinizione delle regole della convivenza, ma concedequesto potere a tutti, e quindi a nessuno in particolare e unilateralmente.

S’è detto nel Prologo che ogni nozione di diritto porta in sé il germedella forza che s’impone e, imponendosi, crea “differenziazioni”, cioè, conun linguaggio piú schietto, imposizioni. Il diritto naturale sembra a primavista immune dalla violenza e, invece, ne è il piú intriso perché mette incampo valori, principî, regole che si vorrebbero sottrarre alla liberadiscussione ponendoli sotto l’egida di un feticcio che chiunque disponga delpotere può brandire per i suoi fini.

7. Perché la rinascita attuale?

La rinascita odierna del diritto naturale, tuttavia, corrisponde aun’esigenza sulla quale molti, credenti e non credenti, possono concordarecon facilità: che non tutto ciò che è tecnologicamente possibile di fatto siaanche moralmente lecito. Questo, in fondo, è il carattere dei tentativiodierni di orientarsi eticamente in un mondo che deve fare i conti con unapotenza quale mai fu conosciuta, una potenza che sembra portatriced’illimitata libertà e, invece, avvinghia in un movimento che annunciadistruzioni, dal quale sembra non esserci scampo. Siamo in un mondonuovo, con forze nuove, potenti e difficili da contrastare. La tecnologia,alimentata da economia e concorrenza, è come travolta dalla sua stessapotenza, e questa potenza pare diventare il fine supremo. Perfino l’essere

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umano sta diventando un prodotto artificiale: cosí «l’uomo è giunto allasorgente del potere, nel luogo di origine della propria stessa esistenza» 13.L’epoca dei robot che si preannuncia fa intravedere la nascita nondell’uomo-macchina di cui si incominciò a parlare dal tempo di Cartesio,ma della macchina-uomo che potrà soppiantare, assoggettare o gareggiarecon la biologia dell’essere umano che, per millenni, si è considerata unprodotto autentico e inviolabile della natura. Che sarà di ciò? Sarà relegatoin un mondo dove l’artificiale si espanderà, nel bene e nel male,dappertutto?

A sua volta, ciò che noi chiamiamo globalizzazione, cioè quellasuperficie tutta liscia su cui tecnologia ed economia vogliono scorrere senzaincontrare ostacoli, ha bisogno di assopimento delle coscienze, dinichilismo e conformismo, affinché la sola logica del mercato possaaffermarsi. Il diritto naturale può sembrare un benefico ostacolo a questatendenza livellatrice. Ma, per i critici del diritto naturale non è la natural’àncora di salvezza di cui abbiamo bisogno. Esso è una risposta falsa,ingannatrice e aggressiva al tempo stesso, che divide pretestuosamente ilcampo degli uomini di buona volontà, che avrebbero invece molto daragionare insieme nella ricerca di ciò che è buono e giusto. Proprio inquesta ricerca, se mai, dovrebbe consistere la comune natura umana. Lalegge naturale che ne potrebbe derivare è che gli esseri umani non possonosfuggire al dovere di agire nel mondo con responsabilità e secondo la libertàche è loro propria: una legge dalla quale le antiche e venerande dottrine deldiritto naturale sembrano allontanarsi vistosamente, quando ripropongonovisioni della natura che sollevano sí dalla responsabilità, ma accentuano ilpotere di chi si appella a essa, a scapito della libertà.

Si può concludere questo paragrafo con la citazione che segue:

Ciò che rinasce continuamente è il bisogno di libertà contro l’oppressione, diuguaglianza contro la disuguaglianza, di pace contro la guerra. Ma questo bisogno nasceindipendentemente da ciò che i dotti pensano sulla natura dell’uomo. Piú che di unarinascita del giusnaturalismo, dunque, si dovrebbe parlare del ritorno di quei valori cherendono la vita umana degna di essere vissuta, e che i filosofi rivelano, proclamano ealla fine cercano di giustificare, secondo i tempi e le condizioni storiche, con argomentitratti dalla concezione generale del mondo, prevalente nella cultura di un’epoca. Di

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questi argomenti il giusnaturalismo è stata una durevole manifestazione: ma non è statala sola. E non sembra oggi, teoricamente, la piú accettabile 14.

II. Il diritto sociale. 1. Il diritto sociale.

Per il giusnaturalismo esiste la verità nel diritto. Le norme che gli uominisi danno sono “vere” se e in quanto corrispondono all’“essere”: se c’èquesta corrispondenza si può dire che esse, secondo la formula dellaScolastica, oltre a essere vere sono anche giuste e belle (ens verum iustumet pulchrum convertuntur in unum). Le leggi naturali sono dunque ilmodello dal quale le leggi prodotte dagli uomini possono discostarsi soloproducendo sgorbi che non meritano nemmeno il nome di leggi. Il modellosi chiama “natura”, natura idealizzata e quindi metafisica. Questaconcezione del “vero diritto” è rovesciata nelle concezioni del dirittosociale. Il diritto, secondo la concezione che ne colloca la radice nellasocietà storicamente concreta, è lo specchio della sua identità che si formaspontaneamente nella concretezza delle relazioni tra i suoi membri quandosono posti di fronte a problemi esistenziali da risolvere praticamente inrapporto gli uni con gli altri. La risoluzione, quando si afferma con generalesoddisfazione o almeno con accettazione preferita all’incertezza, al caos ealla momentanea sopraffazione del prepotente, si cristallizza in norme dicomportamento, spesso piú solide di quelle che si vogliano radicare inun’astratta nozione di natura o, come vedremo, in imposizioni legislativeautoritarie.

Il diritto sociale si dice essere un «diritto spontaneo», poiché nasce senzache vi sia qualcuno che lo pone. Sarebbe un diritto paritario, figlio dellibero gioco delle forze sociali che si stabilizzano in norme che esserispettano senza subire costrizioni esteriori. Questa è una idealizzazione chepotrebbe valere solo se nella società vi fosse perfetta uguaglianza. Poichécosí può essere solo nella testa di qualche sognatore o di qualche astrattoteorizzatore di modelli ideali; poiché le società reali sono fatte di unamiriade di rapporti di potere che pone alcuni piú in alto e altri piú in basso(la «microfisica del potere», secondo la felice espressione di Michel

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Foucault) 15, le norme sociali esprimono o, si potrebbe dire, fotografanoqueste disuguaglianze. Dietro il diritto sociale non c’è un idillio; dietro ogninorma sociale possiamo facilmente scorgere il regno delle imposizioni, ilregno della macro- e della microfisica del potere. Un esempio: le norme cheassegnavano al paterfamilias un diritto eminente, perfino di vita e di morte,sulla donna convivente, sui figli e sui servi, si sono formate nel temporemoto (e in parte si sono conservate fino in tempi recenti) sulladisuguaglianza di forza fisica e di potere economico nel rapporto tra i sessi,e sui bisogni di protezione del nucleo familiare in vista della riproduzionedella vita. La stessa cosa per la donna, nelle società matriarcali. Non c’erabisogno di norme imposte per configurare tali rapporti. Se mai, le normeimposte sono venute dopo, a sancire ciò che la società spontaneamenteaveva già configurato: spontaneamente non vuol dire ugualitariamente,liberamente. Ci può essere molta violenza anche nella spontaneità. Le teorieelaborate a proposito del diritto spontaneo, cioè del diritto sociale, spessotrascurano questo aspetto e parlano di simmetria dei rapporti, il che fapensare a ideali società dell’uguaglianza. Non ci si deve lasciar ingannareda queste rappresentazioni. La simmetria riguarda le aspettative di ciò checi si può attendere nei rapporti sociali. Tuttavia, non tutti, necessariamente,possono attendersi qualcosa di ugualmente buono. Dipende dalle posizionisociali. Onde, ciò che si dice subito dopo circa la “nascita spontanea” delleistituzioni e delle loro norme giuridiche deve intendersi con le anzidetteprecisazioni.

2. Il fondamento.

Le norme di cui si tratta non si fondano sulla verità o su un’autorità. Sifondano sulla reciprocità degli interessi e sulla simmetria delleaspettative 16. Sono denominate convenzioni nel linguaggio di David Hume:

osservo che è nel mio interesse lasciare a un altro il possesso dei suoi beni purchéegli agisca nello stesso modo nei miei confronti. Anche l’altro è consapevole di unanalogo interesse a regolare la sua condotta. Quando si manifesta reciprocamente questaconsapevolezza dell’interesse comune, cosí che essa risulti nota a entrambi, allora essaproduce una risoluzione e un comportamento adeguato. E questo, di certo, può

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chiamarsi abbastanza propriamente una convenzione o un accordo tra di noi, anche semanca qualsiasi promessa, dato che le azioni di ciascuno di noi sono in rapporto conquelle altrui e le compiamo in base alla supposizione che l’altro dovrà compierne certealtre 17.

Gli esseri umani, dunque, agiscono in un certo modo per soddisfarepropri bisogni individuali (dunque volontariamente e intenzionalmenterispetto a questi) e, cosí facendo, entrano in contatto con altri esseri umanimossi da analoghi bisogni. Se le loro azioni sono complementari, cioè seuno può ricevere vantaggio dall’azione dell’altro, esse si coordinanospontaneamente. Generando aspettative reciproche, tendono a ripetersi,adattarsi e consolidarsi. Ancora, con le parole di Hume a proposito dellanascita della norma che protegge il possessore dallo spossessamento e, poi,delle piú importanti istituzioni sociali:

La regola della stabilità del possesso non solo deriva da accordi tra gli uomini, masorge inoltre gradualmente e acquista forza attraverso un lento progresso, e in virtú diuna reiterata esperienza degli inconvenienti che sorgono a trasgredirla. Questaesperienza, anzi, ci dà ulteriori assicurazioni che la consapevolezza del reciprocointeresse è divenuta comune a tutti i nostri compagni e ci dà fiducia sulla futuraregolarità della loro condotta: solo su questa aspettativa si fondano la nostramoderazione e la nostra astensione dai beni altrui. Analogamente, anche le lingue sisono gradualmente stabilite grazie a delle convenzioni umane e senza alcuna promessa;e analogamente l’oro e l’argento sono diventati le comuni misure di scambio, e sonoconsiderati pagamento sufficiente per ciò che vale cento volte il loro valore. Dopo che siè consolidata questa convenzione relativa alla astensione dai beni altrui, e dopo cheognuno ha raggiunto la stabilità dei beni che possiede, sorgono immediatamente le ideedi giustizia e di ingiustizia, cosí come quelle di proprietà, diritto e obbligo. Questeultime sono completamente inintelleggibili se non si comprendono le prime 18.

A questo genere di spiegazione elementare circa la nascita spontaneadelle norme sociali si rifà spesso la scienza economica quando idealizza ilmercato dove si svolgono gli scambi di beni economici. Ecco un esempio:

In un villaggio di pescatori sulla costa dello Yorkshire era in uso una regola nonscritta a proposito della raccolta del legname portato dalla deriva dopo una tempesta.

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Chiunque si trovasse per primo sul tratto di spiaggia dopo l’alta marea era autorizzato aprendere tutto ciò che avesse voluto, senza intoppi da parte di chi fosse arrivato dopo, ead accatastarlo al di là della linea dell’alta marea. Una volta che avesse provveduto amettere due pietre sopra ciascuna pila, il legname sarebbe stato considerato di suaproprietà, a sua disposizione per essere portato via quando avesse voluto. Tuttavia, se illegname non fosse stato portato via dopo due altre alte maree, questo diritto di proprietàsarebbe decaduto 19.

Probabilmente le origini di questa regola del «chi primo arriva…» eranodimenticate da lungo tempo. Nessuno avrebbe potuto dire perché la gente larispettava. Ma certo gli abitanti di quel villaggio di pescatori non avevanobisogno di appoggiarsi a leggi, corti di giustizia o polizia per far valere laconsuetudine circa il legname alla deriva. La regola del «chi primoarriva…» è un esempio di ciò che Friedrich Hayek chiama «spontaneousorder». Non è nemmeno a dire che si trattasse della regola migliore.

Certo era piú economica di un sistema che avesse consentito alla gente diaccapigliarsi e il sistema delle cataste evitava l’onere di montare la guardia. Altrisistemi, altrettanto, se non piú funzionali avrebbero potuto essere escogitati, ma […]solo dopo che, in base alla prima convenzione, si fosse stabilito un clima di reciprocafiducia.

L’idea dell’ordine spontaneo sembra una scoperta dei moderni. Ma silegga questo racconto di Erodoto:

I Cartaginesi raccontano […] questo particolare: c’è una località della Libia e vi sonodegli uomini, situati al di là delle Colonne d’Ercole, con i quali essi commerciano inquesto modo: appena arrivati e sbarcate le merci, le dispongono in bell’ordine lungo laspiaggia; poi, imbarcatisi sui loro navigli, fanno salire del fumo; gli indigeni, quandovedono il fumo, scendono al mare e, dopo aver deposto la quantità d’oro che offrono incambio della merce, si ritirano lontani dalle merci stesse. I Cartaginesi, allora, sbarcanoe osservano: se giudicano che l’oro sia sufficiente a compensare le merci, lo prendonosu e se ne vanno; se, invece, non sembra sufficiente ritornano sulle navi e stanno inattesa. Quelli, accostatisi di nuovo, continuano ad aggiungere dell’altro oro, fino a chenon li abbiano soddisfatti. Nessun inganno, né da una parte, né dall’altra: né iCartaginesi toccano l’oro prima che, a loro giudizio, abbia raggiunto il prezzo delle

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merci, né gli indigeni toccano le merci, prima che quelli si siano preso l’orocorrispondente 20.

3. Consuetudini.

Questo schema può riprodursi per innumerevoli nuovi baratti trainnumerevoli altri soggetti. Cosí, ciò che all’inizio era frutto del casoindividuale, si trasforma nel prodotto di una reciprocità di comportamentiinteressati, riguardanti pluralità di soggetti; una reciprocità che, dopo prove,riprove e conferme può essere prevista. E quanto piú l’aspettativa non andràdelusa, avrà successo e si diffonderà fiduciosamente tra piú soggetti, tantopiú i comportamenti si stabilizzeranno, generalizzandosi con la ripetizione,in un rapporto sociale (secondo l’esempio di Erodoto, il mercato) che,all’inizio, non era nell’intenzione e nella volontà di nessuno. Questo“qualcosa” si potrà dire effetto involontario di atti che sono bensí volontarie intenzionali, ma rispetto ad altro, al perseguimento di interessi singolari.Si è parlato di mercato, ma lo stesso modo di vedere si può applicare perspiegare il sorgere della moneta, del linguaggio, dell’autorità, del diritto,della moralità, perfino di certe comunità monastiche 21, di ogni fenomenosociale stabile e, alla fine, della società stessa. È questa l’idea feconda delsorgere spontaneo delle istituzioni sviluppata da autori come Carl Menger 22

e Friedrich A. von Hayek 23, per la quale i giuristi hanno una parola:consuetudine (ancorché il loro concetto sia per lo piú rattrappito in unadefinizione “meccanica” – longa repetitio e opinio iuris – che non dà contodella profondità del fenomeno).

Quando parliamo di diritto, noi appartenenti alle società del XXI secolo,non pensiamo principalmente alle consuetudini, cioè a quel tipo di normeche, in altri tempi e in altri contesti sociali, erano invece le normeprincipali. Abbiamo, anzi, difficoltà a comprendere perché mai uncomportamento che si è tenuto in passato debba essere ritenuto vincolantenel presente e nel futuro. In altri termini, non ci è del tutto chiaro dove sta laforza normativa della consuetudine, noi che siamo abituati a identificarlacon un comando cui è connessa una sanzione. Si può ricorrere all’immaginedi un sentiero tracciato nel bosco 24: il sentiero nasce quando qualcuno fa i

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primi passi in una certa direzione e cosí inizia a segnare una traccia. Latraccia viene seguita da chi viene dopo e, a ogni passaggio, si fa piú netta epiú facile da percorrere. Da traccia diventa sentiero sempre piú comodo enessuno penserà di abbandonarlo per tracciarne un altro, affrontando dacapo le difficoltà iniziali. «Il sentiero non è, dunque, che un’infinità di passicostantemente ripetuti nel tempo»: piú lo si percorre, piú diventa facile dapercorrere e piú diventa attrattivo. La sanzione per chi lo abbandona sta nelrischio dell’ignoto e, come minimo, in un supplemento di fatica. Laconsuetudine è normativa non perché gli esseri umani, in quanto esserisociali, siano “imitativi” per natura 25, ma perché l’imitazione di unaprocedura che è già stata sperimentata con successo una o piú volte inpresenza delle medesime condizioni assicura il successo; perché, si puòdire, l’adeguarvisi sembra essere nella “natura delle cose”. Perciò, allaconsuetudine si attaglia la definizione di «fatto normativo»: formula chesembra contenere un ossimoro, una contraddizione. Di per sé i fatti sonofatti, e le norme non sono fatti. Nella consuetudine, invece, l’esserecoincide con il dover essere.

4. Norme sociali e necessità sociali.

Gli esempi che di solito si portano a spiegazione della nascita spontaneadelle norme di condotta riguardano i rapporti economici e le necessitàprimarie della sopravvivenza. Tuttavia, le necessità cui danno risposta lenorme convenzionali sono del piú vario genere. Ciò che importa è che essesiano avvertite come vere esigenze e non come futili ambizioni, in contestidi condizionamenti sociali, culturali, religiosi e affettivi nei quali il lorosoddisfacimento implichi l’aspettativa di risposte coerenti da parte d’altrisoggetti. Se l’aspettativa viene tradita, la convenzione viene travolta e nasceuna crisi, una rottura che può portare alla formazione di un’altraconvenzione o al tracollo degli equilibri sociali.

Un esempio eloquente di tracollo è rappresentato nella tragedia diSofocle Antigone, che tutti conoscono, anche se se ne danno tante e diverseinterpretazioni. Al corpo dei propri defunti, nella società greca tradizionale,era obbligo inderogabile dare onorevole sepoltura (anche l’Iliade, oltre allagrandiosa descrizione delle feste funebri per Patroclo, racconta che la

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guerra tra gli eserciti acheo e troiano si sospendeva affinché ciascunopotesse seppellire i propri morti). L’intreccio delle aspettative, in questocaso, era assai complesso. Coinvolgeva i parenti viventi, nella prospettivadella propria morte; l’intero ghenos di appartenenza e le autorità pubblichecui si chiedeva almeno di non porre ostacoli. Ora, Polinice ed Eteocle sierano uccisi l’un l’altro in duello, il primo come campione dell’esercitonemico della città di Tebe, il secondo come campione dell’esercito amico.Creonte, il tiranno della città, aveva disposto onori solenni per Eteocle e cheil cadavere del traditore fosse lasciato insepolto, esposto alla corruzione eagli oltraggi delle bestie feroci. Il coro riconosce al tiranno il diritto di usareogni legge, sia per i morti che per i vivi. Contro questo divieto che rompeuna tradizione inveterata, insorge Antigone, sorella di entrambi. Ecco come,con le parole celeberrime, giustifica la propria ribellione al decreto diCreonte:

Non veniva da Zeus la tua legge; né la Giustizia che convive con gli dèi di sotterral’aveva stabilita per i mortali. Né credevo che i tuoi decreti potessero avere tanta forzada abrogare quella delle leggi non scritte degli dèi, quelle leggi che non solo oggi o ieri,ma sempre vivono e nessuno sa quando apparvero. Io non potevo per volontà di nessunuomo pagare la colpa della loro trasgressione 26.

Antigone è talora additata come l’eroina del diritto naturale, talaltracome l’esempio della ribellione al diritto ingiusto in nome della sovranitàdella coscienza individuale. Interpretazioni legittime (forse la seconda menodella prima, poiché la coscienza individuale, il dáimon, apparirà solo nelsecolo successivo, il IV a.C., con Socrate), ma forse «quelle leggi che nonsono di oggi o ieri, ma sempre vivono e nessuno sa quando apparvero» sonoprecisamente quelle che corrispondono alle aspettative di coloro cheappartengono alla medesima cerchia familiare e sono consolidate neltempo. Sono sí benedette dagli dèi: tutte le società tradizionali tendono acollocare le proprie leggi in una sfera di vicende mitiche originarie, ma nonsono certo promulgate dagli dèi, come invece è, per esempio, il decalogo diMosè ricevuto dalle mani di Yahveh sul Sinai, accettato come patto dalpopolo d’Israele. Dove stava il grande scandalo che muoveva Antigone allaribellione? Non nel fatto che Creonte comandasse ciò che riteneva di

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comandare, ma nel fatto che il contenuto del comando rompeva unastruttura di relazioni, fondata – questa volta – non sull’interesse o, ancormeno, sull’interesse economico, come negli esempi fatti prima, ma sullapietà fraternale. Creonte poteva anche avere ragione dal suo punto di vista:dice lui stesso che sarebbe stata somma ingiustizia onorare allo stesso modole spoglie dell’eroe caduto per difendere la città (Eteocle) e il traditore cheaveva levato un esercito per conquistarla (Polinice). Ma, se si rompononorme cosí sante ed essenziali, si distrugge ogni fiducia sociale e ogniarbitrio diventa possibile.

5. Precedenza delle norme convenzionali su quelle intenzionali.

Le norme convenzionali, intese nel modo anzidetto, mostrano in modofacilmente visibile il loro carattere originario, fondativo, archeologico nelsenso etimologico del termine. Viste con occhi delle società in cui viviamo,esse appartengono al tempo delle piccole comunità che cercavano da sé, dalbasso, le vie della propria sopravvivenza nell’ambiente geologico, agricolo,economico ed etnico ristretto e autosufficiente. La consuetudine, per quantopossa estendersi, riguarda numeri e spazi piccoli, rispetto ai numeri e aglispazi grandi, addirittura “globali”, in cui si svolge la vita odierna dei popolisulla terra. La consuetudine è norma concretamente territoriale e, se iterritori come unità fisiche, economiche e sociali sono numerosi, leconsuetudini esprimono frammentarietà dei contesti sociali e non siprestano facilmente a reggere la vita di grandi collettività. Le normeconvenzionali e consuetudinarie sono probabilmente quelle originarie intutte le società, innanzitutto perché nascono come risposta a bisognielementari in presenza di risorse scarse, quando le istituzioni artificiali sonoben lungi dall’apparire sulla scena e, tuttavia, occorre trovare un modusvivendi comune. È ricco di significato il fatto che il terreno privilegiato diqueste norme, che sono rimaste vive pur essendo la loro sopravvivenzainsidiata dall’attacco del diritto posto dalla legge dello Stato, sia il dirittoagrario 27. I cosiddetti usi civici di origine medievale, sopravvissuti confatica fino a noi alla loro “liquidazione” in favore della speculazioneeconomica, erano per l’appunto i terreni destinati a non essere oggetto diappropriazione da parte di nessuno per restare a disposizione di chi ne

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avesse bisogno per il pascolo, la raccolta della legna, dei funghi, ecc. Eranosuppergiú ciò che oggi diremmo “beni comuni”. Dopo il crollo del sistemagiuridico romano e prima dell’avvento della civiltà industriale, nel lungoperiodo della cosiddetta Età di mezzo, si aprí un vero e proprio laboratoriogiuridico i cui materiali costruttivi emergono nella loro nudità. È soprattuttonei terreni agricoli che si formano le regole che consentono agli esseriumani di sopravvivere di generazione in generazione, formare famiglie e diregolare l’accesso alle risorse e di distribuire le fatiche, spesso in ambientinaturali poveri come quelli di montagna: i terreni che, significativamente,mantengono le tracce di quel tempo antico quando il diritto grondava,secondo l’espressione di Paolo Grossi, «fattualità» e «corporeità» di vitacomunitaria 28. Si comprende cosí perché, quando le relazioni tra i gruppiumani, gli scambi economici, lo sviluppo della tecnica creano sempremaggiori interdipendenze che richiedono regole comuni, necessariamenteindipendenti dalle condizioni locali e, perciò “astratte”, le consuetudinicadono in desuetudine, sostituite dal diritto artificialmente evolontaristicamente prodotto con lo strumento legislativo. In questo senso,il diritto sociale è archeologia. La stessa cosa accade quando società inmovimento richiedono diritto adeguato a ciò che di nuovo si manifesta e ildiritto sociale non è in grado di intervenire tempestivamente per darneforma giuridica, a causa dei tempi lunghi di formazione di convenzioni econsuetudini.

6. Archeologia delle norme sociali.

L’archeologia delle norme sociali, assumendo di archè il significatoproprio, significa origine, fondazione. Le convenzioni e le consuetudini sireggono sulla fiducia e, a loro volta, generano fiducia: una condizioneessenziale per l’esistenza di qualsiasi società. In questo loro carattere efunzione, esse non solo non hanno cessato d’esistere, ma addirittura se ne èdilatata la portata nell’epoca nostra, l’epoca del diritto volontariamenteprodotto attraverso accordi, costituzioni e trattati internazionali. Il diritto delcommercio odierno, quella che un tempo si denominava lex mercatorum,sorge spesso da accordi stipulati negli studi legali i quali, evidentemente,non hanno alcuna legittimazione autoritativa tra le parti. Sono accordi la cui

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efficacia è piú spesso garantita dalla fiducia reciproca che dal ricorso adarbitri o giudici. I trattati sovranazionali su che cosa possono basare la loroautorità se non sulla norma che non è posta da nessuno: la norma pacta suntservanda? Per quanto riguarda le costituzioni delle società in cui viviamo,vale la stessa affermazione che svilupperemo nel prossimo capitolo. Su checosa può fondarsi la legittimità e l’efficacia di una costituzione se non sullalibera convergente accettazione delle parti politiche e sociali, basata sullafiducia nel rispetto della reciprocità?

Con questa osservazione possiamo iniziare a raccogliere unaconclusione: il fattore convenzionale è un aspetto essenziale del diritto tantonelle piccole quanto nelle grandi e perfino grandissime dimensioni dellaconvivenza umana. Nelle piccole, il diritto sociale dice direttamente icontenuti delle norme; nelle grandi e grandissime, il diritto sociale simanifesta come fondamento e garanzia di norme il cui contenuto èdeterminato con il ricorso a procedure artificiali (contratti, leggi, trattati)che, peraltro, nulla potrebbero se non potessero porre le loro basi su unterreno fiduciario di natura convenzionale o consuetudinario.

III. La legge. 1. Il diritto legislativo.

Nel tempo che denominiamo della modernità, che è il tempo dellaformazione degli Stati che accentrano in sé il potere politico, quandopensiamo al diritto non pensiamo al diritto naturale e nemmeno a quellosociale, ma al diritto stabilito da chi dispone del potere di stabilirlo eimporlo per legge. Il diritto della modernità è la legge e la concezioneteorica di questo diritto è il positivismo giuridico. Esso afferma comepostulato che «solo la legge è diritto, e nulla è diritto fuori della legge».Poiché fuori della legge non c’è altro diritto, è chiaro che la legge è (dalpunto di vista giuridico) onnipotente e che l’onnipotenza della leggerappresenta il lato giuridico dell’onnipotenza politica del detentore delpotere legislativo.

Si noti l’apparizione della parola “potere”, che è consueta nei discorsidei giuristi e dei filosofi politici, per esempio nella teoria della

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«tripartizione dei poteri». Il diritto di natura e il diritto sociale nonconoscevano il potere nel senso moderno: le loro norme, certamente,sancivano rapporti di sovra- e sub-ordinazione e quindi ordinavano lasocietà in scale di potenza e impotenza. Ad esempio, il diritto naturale hadiviso lungo i secoli gli esseri umani in liberi e schiavi; il diritto sociale,fino a tempi a noi vicini, ha giustificato la subordinazione della donnaall’uomo nella famiglia, nella vita economica, ecc. Dunque, giustificavanorapporti di micro e macro potere, ma non si diceva che quellemanifestazioni del diritto avessero origine dall’esercizio di un poterenormativo nelle mani di un soggetto politico che distribuiva le posizioni e iruoli nella società: il diritto naturale era insito nella “natura delle cose”; ildiritto sociale nasceva involontariamente, spontaneamente dalle situazionisociali, senza che nessuno l’avesse voluto. Invece, il diritto legislativopresuppone la volontà legislatrice a disposizione di chi possa imporla. Unodei fondatori del positivismo giuridico, John Austin, scrisse: «il diritto è uncomando posto dal superiore all’inferiore» 29. In queste parole è insito ilpresupposto necessario del diritto legislativo, cioè il dislivello tra chi puòcomandare e chi deve ubbidire. I destinatari delle norme legislative sonoperciò spesso denominati subditi legum (la parola subditus non latroveremmo in trattati di diritto naturale o in raccolte delle consuetudini).

2. Lo Stato legislatore.

«Quando parlo delle leggi, intendo leggi vive ed armate», dice il primo eprincipale sostenitore dell’onnipotenza della legge, Thomas Hobbes 30:«vive» significa che esse sono nelle mani d’un soggetto storico concreto enon nei libri dei legisti che raccolgono norme morte che non hanno dietro disé la forza di qualcuno che possa imporne l’osservanza; «armate» significa,per l’appunto, che dietro le leggi deve esserci, come dicono i giuristi, unapparato “coercitivo” capace di sanzionare con pene adeguate coloro che leviolano. Il soggetto storico dotato d’un tale apparato è lo Stato, quello cheHobbes ha chiamato Leviatano, nel quale la moltitudine degli esseri umaniriuniti in società è rappresentata in unità e al quale deve soggezioneincondizionata, finché esso “rappresenta” e garantisce effettivamente taleunità. Ricordiamo il celebre passo:

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una reale unificazione di tutti quelli in una sola e medesima persona, fatta per mezzodi un patto di ogni uomo con ogni uomo, in tal maniera come se uno dicesse all’altro: ioautorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questaassemblea di uomini, a questa condizione, che anche tu offra il tuo diritto a lui, eautorizzi tutte le azioni allo stesso modo. Ciò fatto, la moltitudine cosí unita in unapersona è detta Stato, in latino civitas. Questa è l’origine di quel grande Leviatano, opiuttosto – per parlare con piú reverenza – di quel Dio mortale al quale noi dobbiamo, aldi sotto di quel Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa, poiché, a causa diquest’autorità datagli da ogni singolo uomo nello Stato, esso usa tanto di tanto potere edi tanta forza, a lui conferita, che col terrore è capace di disciplinare la volontà di tuttialla pace interna e al mutuo aiuto contro i nemici esterni. E in esso è l’essenza delloStato che – volendolo definire – è una persona, dei cui atti ciascun individuo di unagrande moltitudine, con patti vicendevoli, si è fatto autore, affinché possa usare la forzae i mezzi di tutti loro, secondo che crederà opportuno, per la loro pace e per la comunedifesa 31.

Il monopolio legislativo, insieme a ciò che Max Weber ha denominato«il monopolio della forza fisica legittima» 32 che per secoli culminava con lamorte come pena di Stato necessaria per assicurare alla legge la suaefficacia al massimo grado, è l’attributo di quel soggetto, il Dio mortale.

Non interessa qui la sostenibilità della premessa contrattualistica che fada sfondo alla costruzione dello Stato, premessa che Hobbes stesso indicacon un come se, cioè come finzione. Come spesso accade nelle cosepolitiche, anche in questo caso piú della fondazione (che può esserecontestabile) sono importanti le conseguenze, le quali valgono se e inquanto sono adeguate alle esigenze storiche e concrete della politica. Leconseguenze sono cosí bene definite da Hobbes stesso:

Perciò solo lo Stato prescrive e comanda l’osservanza di quelle regole chechiamiamo leggi […]. Il sovrano di uno Stato, sia un’assemblea o un uomo, non èsoggetto alle leggi civili perché, avendo il potere di fare e revocare le leggi, egli può,quando gli pare, liberarsi da quella soggezione, con l’annullare quelle leggi chel’impacciano e col farne altre nuove: per conseguenza egli era libero anche prima. Infattiè libero chi può essere libero tutte le volte che vuole, né è possibile che una persona sialegata a se stessa, perché chi può legare può sciogliere, e quindi chi è legato a se stessopuò anche sciogliersi 33.

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Ancora: «a quelle leggi che il sovrano, cioè lo Stato, fa, egli non èsoggetto, perché essere soggetto alle leggi significa essere soggetto alloStato, cioè al rappresentante sovrano, cioè a se stesso: il che non èsoggezione, ma libertà dalle leggi» 34. Cosí, la natura e la società legislatricisono scalzate a favore dello Stato legislatore sovrano.

3. Diritto scritto.

Il diritto di natura e il diritto sociale non erano diritto scritto, se noncome ricognizione ed elaborazione d’un diritto esistente in sé che i giuristiraccoglievano in trattati per fini pratico-conoscitivi, senza credere che taliraccolte creassero alcunché. I gius-naturalisti scrutano il diritto che, perloro, già esiste nel “grande libro della natura” o nelle loro categorie diragione naturale; i gius-sociologisti, invece, indagano nelle strutture sociali,quali storicamente esistono. Il diritto legislativo, invece, viene a esistenza inquanto scritto in testi dotati di ufficialità: i gius-legisti indagano i testiscritti. Questi testi non sono ricognitivi, ma creativi. I giuristi, da interpretidella giustizia naturale o delle relazioni sociali, diventano interpreti didocumenti giuridici. È un cambiamento di paradigma capitale nellaconcezione della loro professione. Non potrebbe, del resto, che essere cosí:chi comanda, per rivolgersi a coloro dai quali si esige ubbidienza, che cosapuò fare di diverso se non usare parole in cui sia impressa la sua volontàche i destinatari devono esprimere attraverso l’interpretazione (si vedainfra, par. IX.2). In breve, la scrittura è carattere necessario della legge,almeno fino a quando le neuroscienze non forniscano ai potenti altri modiper influire sui comportamenti degli impotenti. Fino a quando le società nonsi ridurranno a masse di automi eterodiretti, le parole saranno lo strumentonecessario per condizionare, influire, comandare. Le parole, però, cosícome stabiliscono un rapporto comunicativo, allo stesso tempo creano undiaframma: chi le emette ha un intento, ma tra colui che emette e coloro chericevono le parole, c’è uno iato. L’intento deve essere espresso e deveessere inteso e, per questo, le parole assumono la posizione decisiva:avvicinano ma, al tempo stesso, dividono impedendo l’identificazione, lafusione. Servono, ma schermano. Solo in un caso lo schermo cadrebbe,

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quando chi deve ubbidire non ha bisogno di capire ma basta che subisca,come è per la mandria sotto il bastone del mandriano: qui le bastonatesostituiscono le parole, ma le parole possono essere sostituite da altri mezzidi persuasione inconsapevole o occulta, che influiscono sulla psiche senzabisogno della violenza fisica (qui, la definizione di Weber sopra ricordatadovrebbe essere aggiornata: forza fisica sí, ma anche psichica). Nel nostrotempo, l’idea di psico-politica e di una psico-legge non è solo una lontanaminaccia fantascientifica.

Il “comando del superiore”, cioè dello Stato, in quanto si esprime inparole scritte, necessariamente si rende obbiettivo. Si traduce in parole allequali, una volta pronunciate e scritte in documenti giuridici ufficiali, èriconosciuta «forza di legge». Ma, una volta consegnate in questidocumenti, esse si obbiettivizzano e vivono, per cosí dire, di vita propria,fino a quando nuove leggi non le sostituiranno, per essere a loro voltaoggetto di analoghi processi di oggettivizzazione. Sotto questo aspetto, laformalizzazione e l’obbiettivazione della volontà legislatrice in testi scrittiufficiali, cioè pubblici e conoscibili da parte di tutti gli interessati,costituisce un limite all’arbitrio di chi dispone del potere di produrre norme.Nei regimi totalitari, al diritto scritto in documenti formali siaccompagnavano indicazioni per cosí dire confidenziali e informali,dispensate dal capo ai suoi sottoposti e destinate a rimanere celate ai piú: undoppio strato di “diritto” 35, in uno dei quali – quello effettivo, l’altroessendo di facciata – poteva albergare l’arbitrio puro, sottratto allapubblicità e quindi corrispondente al puro potere che non ha l’autorevolezzamorale, o non ritiene necessario di mostrarsi in pubblico. Tanto piú è invista infatti, tanto meno il potere è arbitrario. Il massimo potere sta nelmistero, nel nucleo piú profondo del segreto, ha scritto Elias Canetti 36.Prendiamo come esempio la “conferenza” che si svolse tra gerarchi nazisti aBerlino, a Wannsee, nel gennaio del 1942, in cui fu presa la decisione della«soluzione finale» nei confronti del popolo ebraico in Europa. Non ci funessuna legge e nemmeno nessuna “decisione” formale, ma qualiconseguenze! Esse, derivarono non da una legge, ma da allusioni,eufemismi di cui il senso venne recepito e redatto in un “verbale” destinatoa rimanere segreto e distribuito solo ai partecipanti 37. Le espressioni eranoambigue, reticenti, ma chiare erano le intenzioni del “capo”, nelle quali

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tutti, però, si immedesimarono mettendosi all’opera senza scrupoliermeneutici 38. Diremmo che quel documento può considerarsi una legge?

4. Il diritto come ordinamento.

La scrittura della legge crea, dunque, un distacco dalla mera volontà dellegislatore e colloca il diritto che da essa è prodotto in una dimensioneoggettiva: l’espressione «diritto oggettivo» deve intendersi in se stessa, non(solo) in opposizione all’espressione «diritto soggettivo». Diritto oggettivosignifica ch’esso non è la somma di tanti singoli e slegati impulsi di volontàdel legislatore, ma è legislazione, cioè insieme coerente di norme, cioèsistema legislativo le cui parti sono collegate e, per cosí dire, tenute insiemedal principio di razionalità (da non confondere col principio diragionevolezza; si veda infra, par. VIII.18). La razionalità delle leggiconsiste nella possibilità di concepire la loro congerie come una strutturanormativa dotata di ordine concettuale, tenuta insieme dal principio formaledi non contraddizione. Nella sentenza n. 204 del 1982, la Cortecostituzionale del nostro Paese ha usato quest’immagine: «la coerenza tra leparti è valore essenziale [del diritto] di un paese civile, in dispregio delquale le norme che ne fanno parte degradano al livello di gregge senzapastore». La coerenza è, dunque, un carattere strutturale del diritto, cosícom’è concepito nella cultura del nostro tempo. È uno di quei principîgiuridici fondamentali e fondanti che precedono le singole norme positive,rendendole intelligibili le une rispetto alle altre, evitando il rischio dellaguerra di tutte contro tutte. Perciò, l’impossibilità di rendere coerenti traloro le leggi determina un vizio della legislazione, la intrinsecairrazionalità, e a tale vizio si pone rimedio attraverso strumenti dieliminazione dei fattori della contraddizione. Si potrebbe dire cosí: in talmodo si garantisce la «società civile» delle leggi, in luogo del caotico statodi natura, o, secondo l’espressione consueta, si preserva l’esigenza di averea che fare con il «diritto come ordinamento». Ordinamento ha la stessaradice di ordine, e nessuno penserebbe che il diritto possa essere al seviziodel dis-ordine.

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L’idea del diritto come ordinamento è archeologica (nel senso detto piúsopra). Il Codex giustinianeo fu un maestoso esempio di “precipitato” deldiritto allora vigente in un contenitore sistematico. Ma non è solo un’ideacome altre. In certi momenti storici è una necessità politica del poteresovrano che si propone come compito l’ordine generale nelle province delproprio regno e, quindi, l’abbattimento delle strutture giuridicheparticolaristiche che garantiscono privilegi, immunità e impongono corvée estabiliscono dazi e divieti di circolazione 39. Questa necessità fu uno degliaspetti dell’assolutismo, il regime che, a partire dal XV secolo, mirava a faredei regni superfici tutte lisce su cui potesse scorrere senza intralci il poteredel Sovrano. Di tempo in tempo e, soprattutto al tempo delle “monarchieilluminate” del Settecento, il progetto dell’unificazione legislativa diedeluogo, prima, alle cosiddette consolidazioni, cioè alle raccolte ordinate insistema della congerie di norme anteriori, con l’eliminazione dellecontraddizioni e delle norme desuete. L’esigenza era la chiarificazione deldiritto, la cui stratificazione di norme e la loro natura eterogenea(consuetudini generali e locali, diritto canonico, editti dei principi, ecc.)creavano incertezze tra i sudditi e arbitrî nei tribunali. Nella prima parte diDei delitti e delle pene (1764), Cesare Beccaria descrive con eloquenza lostato penoso della giustizia (penale, in quello scritto famoso, mariscontrabile in tutti i campi del diritto). Tale esigenza divenne impellentecon la rivoluzione della borghesia. Essa, per ragioni sociali ed economiche,chiedeva uguaglianza e stabilità delle norme giuridiche, conformemente allaragione storica di quella “nuova classe” emergente. Non bastavano leconsolidazioni delle congerie normative dei tempi trascorsi. Occorrevanocodici di norme chiare, generali e astratte, valide per tutti, per il tempopresente e futuro. L’esempio classico è stato il Code Napoléon del 1804,che taluno ha definito lo «statuto della società borghese».

5. Il diritto come scienza teoretica.

In precedenza s’è parlato di ragione, a proposito del diritto naturale.Allora, la ragione riguardava i contenuti. Il positivismo giuridico cometeoria del diritto tace sui contenuti. Poiché i contenuti sono nella

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disponibilità del legislatore, i giuristi non possono che prenderne atto. Ma aigiuristi spetta mettere in forma le singole espressioni di volontà dellegislatore; spetta darne una configurazione formale razionale. Laconcezione moderna del diritto si è sviluppata parallelamente alleconcezioni cinque-seicentesche del cosiddetto Stato moderno e della suasovranità, rappresentate in modo eminente dai Sei libri della Repubblica diJean Bodin (1576) e dal Leviatano di Thomas Hobbes (1651). Questedottrine politiche si venivano accompagnando a concezioni “naturalistiche”(in contrapposizione alle concezioni “morali”) del diritto, modellatesull’esempio delle scienze esatte o teoretiche (nel senso aristotelico) le cui“regole” sono tanto “dispotiche” quanto dispotico è il potere politico di cuiil diritto si preparava a diventare strumento. Assolutismo politico e teoriagiuridica formale andavano di pari passo.

Queste concezioni non esistono piú come tali, ma la loro influenza sullaformazione, per lo piú inconsapevole, della mentalità “scientifica” dellanostra giurisprudenza è ancor oggi decisiva. Quanti sono i giuristi checredono o fingono di credere ancora di poter difendere una pretesa“purezza” della propria professione, e quanti non-giuristi credono anch’essiche il diritto possa e debba essere, per cosí dire, come una grande rete oragnatela 40 di regole valide in sé e per sé, collocate in una propria sfera diesistenza oggettiva, tese sulla società e pronte ad acciuffare i fatti della vitae i loro autori, non appena vi sia un uccellatore – fuor di metafora, ungiudice – che fa scattare la trappola? Questo atteggiamento è quello di chiconcepisce il diritto come un insieme di regole che richiedono solo di essereconosciute nella loro verità: regole che si possono solo o svelare per quelloche sono oppure tradire per quello che non sono, vivendo in una sferaastratta dalla realtà della vita da regolare, una realtà che la scienza deldiritto non solo può, ma deve ignorare per preservare la sua purezza.

L’aspirazione di questo modo di pensare la giurisprudenza come scienzache gareggi in esattezza e formalizzazione con le scienze teoretiche èrisalente. I modelli piú spesso evocati dai dotti sono la geometria e lamatematica. Il teologo Jean Gerson, già nel 1402, parlava del giudice come«geometer vel arithmeticus» 41. Queste immagini diventarono veri e propritopoi nel Seicento. Consideriamo quest’affermazione di Leibniz: «Lascienza del diritto è parte di quelle scienze che non dipendonodall’esperienza ma da definizioni, da dimostrazioni non dei sensi ma della

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ragione e si occupano non di fatti ma di validità» 42 (una proposizione che,trecento anni dopo, avrebbe potuto essere collocata all’inizio della«nomodinamica» di Hans Kelsen: si veda infra, par. I.7). Le proposizionidella giurisprudenza si sviluppano per mezzo della logica le une dalle altree producono proposizioni valide e vere per se stesse, cosí come l’obbiettivalegge dei numeri che sta sopra gli stessi matematici e valeindipendentemente dalla circostanza che ci sia qualcuno che fa di conto eche ci sia qualcosa da contare. Lo stesso è per il diritto, che ha la sua veritàe il suo valore indipendentemente dal fatto che ci sia o non ci sia qualcosa oqualcuno da giudicare, esattamente come «ciò che è vero rimarrebbe veroanche se non venisse conosciuto da alcun uomo; e ciò che è buonomanterrebbe la propria bontà anche se nessuno ne traesse profitto» 43. DiBaruch Spinoza, autore di una Ethica ordine geometrico demonstrata,possiamo menzionare questo passaggio del Tractatus politicus, riferito allapolitica ma altrettanto bene estensibile al diritto (la sua epoca è quella in cuila scienza del diritto è parte della filosofia politica):

Volgendomi […] a trattare di politica, non mi sono proposto nulla di nuovo ed’inaudito. Ho inteso solo dimostrare in modo certo e indubitato ciò che si accordaperfettamente con la prassi e dedurlo dalla condizione stessa della natura umana. Perindagare gli oggetti di questa scienza con la medesima libertà d’animo che di solitoutilizziamo nelle matematiche, ho curato attentamente di non deridere, né dicompiangere, né tanto meno detestare le azioni umane, ma di comprenderle 44.

Infine, tra tante altre, consideriamo queste proposizioni di Hobbes,giusnaturalista, per un verso, e fondatore del positivismo giuridico, per unaltro: convinto che il disordine della vita sociale dipendesse dalla mancanzadi una teoria scientifica delle leggi civili, fino ad allora lasciate all’arbitriodelle opinioni in lotta tra loro, a differenza della scienza matematica, dove,a suo dire, regnava la concordia, egli afferma che le disgrazie cheaffliggono l’umanità, l’ambizione, l’avidità il cui potere s’appoggia sullefalse opinioni del volgo intorno al giusto e all’ingiusto, si eviterebbero «sesi conoscessero con ugual certezza le regole delle azioni umane come siconoscono quelle delle grandezze in geometria» 45.

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6. Il metodo scientifico del diritto, la dimostrazione.

La separazione del diritto dalla mera volontà potestativa del legislatore,inteso come soggetto storico in carne e ossa, ha portato con sé unospettacolare sviluppo del diritto come scienza. A questo sviluppo hannocontribuito gli studi sulla natura del discorso normativo, l’analisi dellinguaggio, la giurisprudenza analitica, ecc. Il tempo del positivismo delleorigini, cioè del diritto come insieme di atti di volontà di un legislatorepersonale che dispone del potere di comando sui suoi sottoposti, è allenostre spalle. In fondo, il giusnaturalismo razionalista ha lasciato alpositivismo legale moderno, che è un suo figlio legittimo anche se, sottodiversi aspetti, alquanto degenere, questa aspirazione: che i giuristi non“dissertino” sulla società, ma la “calcolino” con le leggi che sono date loro.Leggi provenienti da un legislatore storico concreto, con tutti i suoi difetti,ma da trattare tuttavia, proprio come nella matematica e nella geometria,come leggi astratte, separate dal loro autore, e cosí oggettivate e rese validein sé. Il positivismo odierno, che si dice “critico” perché respinge quell’ideapersonalistica della legge come comando da individui a individui concreti(idea contenuta nella formula di Austin sopra riferita), crede di aver fatto unpasso in avanti verso la scientificità della propria scienza. In realtà, il suopostulato: la volontà oggettivata, è un discutibile incrocio, forse contronatura, tra un postulato del giusnaturalismo razionalista, il diritto comeratio obbiettiva, e la concezione positivista della legge come voluntassoggettiva.

Il positivismo giuridico attuale potrebbe fare propria l’immagine deldiritto (parole ancora di Leibniz) come «egregium opus architectonicum» 46.Ogni parte deve essere coerente con le altre e devono sorreggersimutuamente. La creazione e l’interpretazione del diritto non possono farsiper parti separate, cosí come la struttura architettonica e la stabilità d’unedificio devono essere considerate guardandolo da ogni sua parte. Nel casodel dubbio è l’edificio a fornire i materiali concettuali per risolverlo:l’analogia, il ragionamento a contrario, il riferimento a principî comuni,ecc. Il ricorso alla «intenzione del legislatore» che il positivismo delleorigini poteva interpretare con riferimento alla volontà soggettiva, ora èinteso in senso oggettivo: il legislatore non è il sovrano che detta leggesecondo i suoi intenti, ma è l’ordinamento giuridico inteso nella sua

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oggettività che vive nel tempo come un organismo in cui ogni sua parteinteragisce con le altre. L’interpretazione evolutiva, che sarebbeimpensabile se l’intenzione del legislatore fosse da intendere in sensopsicologico soggettivo, diventa possibile, anzi necessaria, se l’intenzione,da storico-concreta, si trasforma in senso fittizio, come risposta alladomanda: che cosa intenderebbe il legislatore che dettasse una certa normain questo momento, con riguardo all’ordinamento nel suo complesso?

Per ritornare alla matematica, potremmo dire che un problema giuridicoentro un ordinamento dato si deve affrontare non diversamente da ciò che sifa quando si cerca l’incognita entro i dati che sono forniti da un’equazioneche chiede d’essere risolta. Assumere, come modelli della giurisprudenza,la matematica e la geometria significa adottare il metodo dimostrativo eabbandonare il metodo persuasivo. Il primo è quello che, a partire dadeterminati assiomi indiscussi, conduce deduttivamente a determinateconseguenze certe in base al principio di non contraddizione: è il metododella verità che non ammette dubbi e che, fuori di sé, ha l’errore. Ilsecondo, il metodo persuasivo, è quello che, a partire da argomenti piú omeno condivisi e suggestivi, conduce a determinate convinzioni piú o menoforti e piú o meno appoggiate su sentimenti ed emozioni (il che non vuoldire infondati ma, semplicemente, non appartenenti alla logica delladimostrazione razionale). Il campo del diritto era sempre stato consideratoquello della retorica, cioè dell’arte della persuasione attraverso i discorsiefficaci sulle passioni. Nell’Etica nicomachea, Aristotele aveva affermatoche, nella conoscenza persuasiva, si rimane nel disputabile campo delprobabile: «Sarebbe altrettanto improprio esigere dimostrazioni da unoratore che accontentarsi della probabilità nei ragionamenti di unmatematico» 47. Il positivismo (non solo giuridico) afferma invece che ilrigore dimostrativo della matematica dovrebbe diventare l’abito mentaleanche di coloro che si occupano delle scienze dell’agire umano, tra cui igiuristi. La demonstratio deve soppiantare la interpretatio e il suo corredodi argomenti retorici è destinato ad agire piú sui sentimenti che suiragionamenti 48.

7. La scienza pura del diritto.

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L’odierna trattazione scientifica del diritto, pur nell’ambito dellepremesse generali di cui si è detto, ha dato luogo a un filone complesso diindirizzi che si usano designare sinteticamente con l’espressionepositivismo critico, per distinguerlo da quello “ingenuo” del tempo diAustin, sopra citato. Qui si può accennare soltanto alla piú compiutaelaborazione, offerta in numerose opere da Hans Kelsen, un nome cheabbiamo già incontrato. Egli ha esercitato una grande influenza sullarappresentazione del diritto e sulla autorappresentazione dei giuristi, fino altempo nostro. Lo scritto che contiene l’esposizione sistematica della suavisione porta il titolo La dottrina pura del diritto. Una dottrina del dirittoveramente scientifica – secondo il suo autore – deve innanzitutto depurare ilsuo oggetto da ogni contaminazione con ciò che diritto non è: sociologia,economia, filosofia, storia, concetti morali. Cosí “ripulito” dalleincrostazioni improprie, il diritto appare come scienza delle norme e lenorme esprimono dover essere (sollen) e il mondo del dover essere devetenersi distinto dal mondo dell’essere (sein). Conformemente a questavisione dicotomica, l’idea del diritto come scienza pratica (si veda infra,par. IX.12) è rigettata come contraddittoria: se è scienza non è pratica e se èpratica non è scienza. Dunque, la scienza del diritto si dovrebbe occuparesolo di norme e le norme di cui si occupa sono quelle appartenentiall’ordinamento giuridico secondo il criterio fondamentale della validità.Per validità si intende la possibilità di imputare una certa normaall’ordinamento secondo i criteri ch’esso stesso stabilisce attraverso lenorme di riconoscimento che si denominano «sulla produzione del diritto»:essenzialmente le norme che stabiliscono chi, come e con quali vincoli dicontenuto possono prodursi norme valide. Se queste norme non sonorispettate, non vi sarà diritto valido.

La vita del diritto è concepita come un processo a cascata, dalla normapiú alta e generale, detta Grundnorm, o norma fondamentale, fino allanorma piú bassa e particolare, contenuta nella sentenza del giudice o nelprovvedimento dell’amministrazione, passando per gradi di specificazioneintermedi progressivi, legislativi e regolamentari. In questo modo,l’ordinamento giuridico può essere descritto come una grande piramide agradini, al vertice della quale sta la costituzione, depositaria della maggiorforza normativa, condizionante tutti gli ulteriori sviluppi successivi. Si

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comprende che questa è, per cosí dire, una concezione monarchica eassolutistica, l’ultima e piú perfezionata teorizzazione del diritto conformealle esigenze dello Stato sovrano: come il potere sta in alto e si sviluppa peri rami discendenti gerarchicamente subordinati, cosí il fondamento deldiritto sta in alto e si sviluppa analogamente. Anzi, nella Dottrina pura deldiritto, lo Stato, considerato dal punto di vista giuridico (e non politico osociologico) finisce per identificarsi con l’ordinamento giuridico (ma sipotrebbe dire anche il contrario: che l’ordinamento giuridico, concepito neitermini anzidetti, finisce per identificarsi con lo Stato).

La Grundnorm è una «ipotesi normativa», necessaria a spiegarel’esistenza degli ordinamenti giuridici. Il suo contenuto, uguale perqualsiasi ordinamento quali che ne siano le norme che lo compongono(liberali, democratiche, socialiste, totalitarie), è il seguente: ogniordinamento effettivamente esistente è valido. Da qui prende origine la vitadelle norme giuridiche valide, la nomodinamica, indifferente ai lorocontenuti, purché conformi ai criteri di validità posti dalle norme che leprecedono gerarchicamente. Si comprende che questa dottrina corrisponde auna visione dello Stato di diritto puramente formale, indifferente a ogni suopresupposto di valore che non sia la mera legalità delle sue norme. È unadottrina che può quindi essere riempita di qualunque contenuto. Per questo,al tempo della «rinascita del diritto naturale» del secondo dopoguerra (siveda supra, par. I.2) essa è stata accusata di «giustificazionismo» rispetto aipiú aberranti sistemi giuridici dei piú aberranti regimi politici, purchéoperanti per mezzo di norme valide secondo la loro costituzione. Su questaaccusa si è aperta una discussione: una discussione giustificata per coloroche ritengono che il diritto non sia solo forma, ma totalmente insensata percoloro che, come Kelsen, programmaticamente espungono dal loro campovisivo tutto ciò che è politica, filosofia, storia, etica; per coloro, cioè, cheintendono preservare la purezza della loro scienza. Ma la questione è, perl’appunto, se abbia un senso e un senso che debba essere coltivata unascienza del diritto di questo genere. Quando la concezione del diritto siriduce alla sola dimensione della forma, cioè della forza formalizzata, lasocietà è in pericolo perché, come è stato detto, «il sistema giuridico-politico si [può] trasforma[re] in una macchina letale» 49.

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8. Rinvii al seguito.

Le anzidette concezioni del positivismo giuridico, culminate nellaDottrina pura del diritto, dominano tuttora il senso comune odierno, masono sempre piú spesso contestate. Esse sono insidiate da idee che ipositivisti, critici o non critici ch’essi siano, considerano moleste ma, nonperciò, meno aderenti alla realtà e meno insidiose nei confronti delle loropremesse. Innanzitutto, è in crisi l’idea della scienza giuridica come scienzateoretica. La funzione del diritto sta nel rapporto con la realtà, in unrapporto di reciproco condizionamento: la sua concezione come scienzapratica appare non solo non contraddittoria ma anche adeguata alla realtàdel diritto e delle operazioni che i giuristi compiono in suo nome.

In secondo luogo, pochi sosterrebbero che l’insieme delle normegiuridiche che proviene dal legislatore del nostro tempo abbia lecaratteristiche di sistematicità, coerenza, generalità e stabilità checonsentano di parlare di ordinamento giuridico come di un dato. Se mai, ildiritto appare un coacervo di norme settoriali, caotico, sempre inmovimento, sempre piú spesso rivolte non a dettare stabili discipline perl’avvenire, ma a risolvere situazioni critiche del passato attraversoprovvedimenti puntuali e spesso retroattivi. Basterebbe prendere in manouna qualunque raccolta di norme alla quale diamo ancora il nome di codice(civile, penale, processuale, ecc.), per vedere quante “novelle” sisedimentano sul corpo originario (segnate da bis, ter, quater, quinquies,sexties, ecc. aggiunti agli articoli originari) e quante leggi speciali sicontinuino ad aggiungere. Dopo l’età delle codificazioni che è alle nostrespalle, si è parlato, per l’età nostra, di età della decodificazione 50, comesegnale di decomposizione del diritto come ordinamento giuridico.L’ordinamento giuridico non è piú un dato ma, se mai, un problema.Sempre che le sia possibile e non debba rassegnarsi all’impotenza, ilcompito della scienza del diritto è di ricomporre la decomposizione. Ma,questo compito, la mera demonstratio di cui s’è detto sopra, è insufficiente.Occorrono strumenti idonei alla costruzione, e questi non li si possonotrovare tutti all’interno dell’ordinamento legale che, come tale, non c’è piú.

Di queste cose, piú avanti al tempo debito.

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Capitolo secondoIstituzioni

1. Istituzioni e bisogni consolidati.

Nel capitolo precedente abbiamo incontrato il tema della nascitaspontanea delle regole del vivere in società. Ora si tratta di andare un pocooltre e di entrare nel grande capitolo delle istituzioni che, di quelle regole,rappresentano il consolidamento, la stabilizzazione.

Molti di noi hanno incontrato nel loro percorso di studi giuridici i«manuali di istituzioni di…» (diritto romano, diritto privato, ecc.). Non sitratta solo di concetti generali e fondamentali, ma di concetti la cuiconoscenza permette di orientarsi nei dettagli. I concetti istituzionali sonoquelli che danno la direzione nella comprensione d’una materia, dannosenso alla comunicazione. Le istituzioni sono dunque mezzi d’intendersi indiscorsi comuni e strumenti di stabilizzazione delle relazioni. In certosenso, sono simili ai dogmi, sono cioè punti fissi comuni senza i quali lavita sociale sarebbe impossibile.

Di istituzioni si parla dappertutto nel vasto campo delle scienze sociali: èun’espressione e un concetto fondamentale, oggetto d’innumerevoliinvestigazioni da diversi punti di vista. Nel linguaggio giuridico, istituzioneequivale a ordinamento, considerato nella prospettiva, per l’appunto,istituzionalistica. Ma, nel linguaggio comune, istituzioni sono, piú o meno,gli organi costituzionali. Cosí si parla, per esempio, di crisi delle istituzioni,di istituzioni parlamentari o di governo, ecc. Nel linguaggio antropologico,istituzione indica qualcosa come prodotto sociale della cultura; in quellodegli etologi, qualcosa come prodotto sociale degli istinti o dei bisognifondamentali. I sociologi pensano alle istituzioni come funzioni socialiorganizzate e stabilizzate entro un “sistema” di cui esse sono “organi”. Lostesso, per la loro parte, gli economisti, dai quali, a partire dalla secondametà dell’Ottocento, provengono riflessioni sfociate nella cosiddetta «teoria

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dei giochi» che non può fare a meno di istituzioni in cui i giochi siano“istituzionalizzati”. Non manca poi un uso teologico di istituzione (laChiesa come institutio divina). Come si vede, le istituzioni penetranodappertutto dove vi sia una vita sociale. Potremmo dire, mutuando leespressioni che abbiamo trovato nel Prologo: ubi societas ibi institutiones, eviceversa.

Nelle attuali società altamente sviluppate, differenziate e al tempo stessointegrate: in una parola, nelle nostre società complesse, le istituzioni si sonosviluppate e moltiplicate, proporzionalmente allo sviluppo e allamoltiplicazione delle esigenze sociali, da quelle originarie legate ai piúelementari bisogni biologici, fino a quelle poste dalle pretese indotte nellacoscienza collettiva dallo sviluppo civile piú raffinato: esigenze familiari eriproduttive, politiche, economiche, professionali, religiose e ludiche; leesigenze poste dalla fame, dalla sessualità, dalla vanità e dal timoredell’ignoto; esigenze connesse a salute, ricchezza, socievolezza,conoscenza, bellezza, giustizia 1. Oggi, si tratta di piú immateriali esigenzedi tutela delle identità, individuali e collettive; di promozione dellapersonalità umana in tutti gli infiniti campi spirituali in cui essa puòesplicarsi; di tutela e promozione delle capacità di espressione degliindividui. Si è giunti a parlare, in questo quadro, di un «sovra-strato» dinuovi bisogni caratteristici di una «soggettività autoriflessiva» propriadell’uomo moderno che esige libertà personale, distanza e protezionedall’invasività del “sociale”, sfera di vita individuale privata gestitaautonomamente, libertà di pensiero e opinione nonché di criticadell’esistente, dunque perfino di critica nei confronti delle istituzioni stessee dunque di bisogno di cambiamento 2. Tutte cose, compresa la critica alleistituzioni, che si traducono in istituzioni.

Queste, a loro volta, si sono differenziate a seconda del compito specialeche sono chiamate a svolgere nell’espletamento delle loro funzioni. Cosí,abbiamo istituzioni cui è richiesto di rappresentare, di deliberare per tutti, diagire; altre chiamate a controllare le prime; altre ancora deputate a produrreconoscenze per chi deve deliberare, agire e controllare. E, nel maremagnum delle istituzioni, trattate a loro volta come soggetti che devonoessere istituzionalizzati, esistono istituzioni di secondo, terzo, quarto…grado, istituzioni di istituzioni. Onde è facile perdere l’immediatezza delrapporto con i bisogni vitali ai quali ognuna di esse, piú o meno

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direttamente, indubitabilmente serve. Le istituzioni possono sembrareespressioni organiche di astratti “sistemi sociali”, che si giustificano da sé,vivono da sé e di sé. Ma non è cosí. I bisogni sociali, per essere soddisfatti,necessitano di istituzioni, ma vale anche il contrario: le istituzioni, per nonridursi a gusci vuoti destinati a rovinare su se stessi, devono corrispondere abisogni effettivi, identificati e avvertiti nella società in cui operano.Dunque, le istituzioni sono funzioni dei bisogni, ma (il soddisfacimento de)i bisogni sono funzioni delle istituzioni. Quando mutano i bisogni, leistituzioni si adattano, cambiano, decadono, muoiono, diventano merooggetto di indagini storico-etologico-antropologiche.

Il fatto di parlare di istituzioni nei piú diversi campi della vita socialenon è un abuso della parola e del concetto. C’è qualcosa di fondamentaleche unisce tutti questi usi. Si parta dall’etimologia. La parola contiene lo stche, nelle lingue indoeuropee, indica sempre lo stare, il persistere,l’insistere, il costituire, lo stabilire, ecc. Nel greco ístemi tutti questisignificati, con tutte le possibili sfumature (ad esempio, eistèkein: Evangelodi Giovanni 19,25), sono raccolti. Perché l’organizzazione politica sovranaè denominata, a prima vista bizzarramente, per mezzo di un participiopassato, stato? La parola, in senso moderno (nell’antichità si parlava distatus per indicare la condizione giuridica particolare di singoli e gruppientro la struttura sociale), compare forse per una prima volta in una letteradi Lorenzo il Magnifico che annunciava il fallimento della congiura deiPazzi (1478). I congiurati «voleano torre la libertà e mutare questo stato ilquale si governava per mezzo di Lorenzo» 3. Trentacinque anni dopo, laparola sembra stabilizzarsi nel significato attuale: Il Principe di Machiavelliinizia affermando che «tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto ethanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche oprincipati». «Li stati», in questa frase, sono dunque, in genere, i sistemi digoverno degli uomini purché abbiano «imperio» e non siano effimeremanifestazioni di forza senza consistenza e senza stabilità. In Guicciardini,poi, nelle prime pagine della Storia d’Italia (scritta tra il 1537 e il 1540),accanto all’uso di «stato» come equivalente di “situazione”, “stato dellecose”, troviamo i «fondamenti dello stato», distinti dal «governo delloStato» ed espressioni come «insignorirsi dello stato». Lo stato stavadiventando “lo Stato”, cioè una, anzi la massima istituzione.

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2. Senza istituzioni?

Facciamo questo esperimento. Cerchiamo (anche se non è facile) diimmaginare un mondo senza istituzioni. Che cosa sarebbe l’esistenza diindividui che, ciò nonostante, vivessero insieme, gli uni tenendo contodell’esistenza degli altri, dovendo cioè prendere in considerazionepreventiva, passo dopo passo, le presumibili reazioni altrui? Che cosasarebbe l’esistenza se tutte le volte che si entra in una qualche relazioneinterpersonale si dovesse fare il calcolo che giustifica l’aspettativa direciprocità, quel calcolo che è alla base delle convenzioni che danno luogoalle regole di comportamento, di cui si è detto nel primo capitolo? Unasimile condizione è certamente congetturabile in astratto. In concreto, la suaesistenza sarebbe impossibile: ogni azione dovrebbe essere calcolata sullapresumibile risposta di tutti coloro che hanno la possibilità di entrare inrapporto con l’agente; questo calcolo, per avere un minimo di attendibilità,presupporrebbe il possesso di un numero elevato di informazioni di cui,peraltro, non si potrebbe controllare la veridicità; il rischio di errore sarebbegrande; l’affidamento che ciascuno può riporre nell’altro potrebbe esseresmentito volta per volta da comportamenti devianti di approfittatori deicomportamenti altrui, comportamenti distruttivi di socialità contro i qualinon ci sarebbe difesa.

In sintesi, si può dire cosí: nessuna società evoluta potrebbe reggersistabilmente soltanto su regole formate dall’intreccio di spontanee azioni ereazioni interindividuali calcolate sempre di nuovo, senza assicurazionipreventive. Gli esempi di relazioni esclusivamente convenzionaliriguardano sempre e solo situazioni sociali estremamente semplici,addirittura rudimentali e sempre esposte a rischio. Tra società e istituzionic’è un rapporto di implicazione poiché solo le istituzioni possono apportarealla vita in comune quel tanto di stabilità, prevedibilità e garanzia che ilgioco spontaneo delle reciproche aspettative non è in grado di assicurare. Siporta ad esempio il rapporto tra i sessi e quella istituzione che è il vincolomatrimoniale:

Il diretto estrinsecarsi della soggettività è sempre fautore di errori e, in ultima analisi,è sempre come nel rapporto tra i sessi: tra uomo e donna il rapporto piú appassionato,piú ricco e vivificante può reggersi direttamente e di per sé, come pathos dell’anima

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[noi diremmo: convenzionalmente], solo in condizioni eccezionalissime. Se lasciato a sestesso, non vi si può fondare sopra nulla. L’aspetto biologico, quello economico, lagenerazione successiva, il nutrimento e il bisogno sono piú importanti, e il rapportoamoroso deve farsi oggettivo, farsi cosa, generalizzarsi astraendo dalla sua singolaritàesclusiva, in una parola: deve estraniarsi nella istituzione (il matrimonio) se eprecisamente perché queste persone non debbano perdersi e divenire estranee l’unaall’altra. L’essere umano può tenersi fermo a un rapporto durevole con se stesso e con isuoi simili soltanto in modi indiretti; deve ritrovarsi […] per vie indirette, e qui si dannole istituzioni. […] Sono queste delle forme prodotte dagli uomini, nelle quali “lopsichico” – un materiale instabile anche nei casi di maggiore ricchezza e pathos – vieneoggettivato, intrecciato con il corso delle cose e, precisamente in tale maniera, iscritto inuna durata.

E poi un’annotazione disincantata: «Se non altro, gli uomini cosí sonobruciati e consumati dalle loro proprie creazioni e non dalla bruta natura,come gli animali» 4.

3. Istituzione e costituzione.

Le convenzioni, di cui si è trattato nel capitolo precedente, sononecessarie al vivere sociale, ma non sono sufficienti. Esse nascono e vivonosulla fiducia reciproca e, a loro volta, l’alimentano. Ma la fiducia è un labilestato spirituale sempre a rischio di contraddizioni e di smentite, tanto piú inquanto essa debba estendersi sull’infinita rete di relazioni che si sviluppanoin società tanto estese quanto sono quelle del mondo moderno, nelle quali siconvive per lo piú senza che ci si sia mai incontrati e guardati faccia afaccia. Le istituzioni sono precisamente ciò che vale ad aggiungere ciò chemanca. Dall’esempio sopra indicato possiamo trarre gli elementi di unadefinizione utile ai nostri fini. Le istituzioni sono innanzitutto tensionistabilizzate che consentono di andare al di là delle incertezze che il giocopuntuale delle reciproche aspettative soggettive può determinare; sono«nuclei cristallizzati» di rapporti sociali, per mezzo dei quali si fissano gliscambi interindividuali in comportamenti tipici, riducendone l’incertezza» 5;sono, è stato detto, «punti di snodo» o «punti d’orientamento» 6 dellerelazioni sociali che indicano le giuste direzioni per comportamenti

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relazionali dotati di razionalità rispetto agli intenti soggettivi e agli equilibrioggettivi. Sono grumi in cui azioni e reazioni si incontrano e dal rapportoelementare stabilito da individuo a individuo si dilatano in strutturerelazionali sempre piú ampie fin dove si estende la rete delle connessionisociali. Questi che abbiamo chiamato «grumi» d’azione sociale consistonoin oggettivizzazioni del piú vario genere (si usa mettere insieme cose comesimboli, sanzioni, tabú, miti, consuetudini, tradizioni, codici di condotta,costituzioni, leggi, diritti, fino a quelle che piú di consueto si indicano conquel nome: parlamenti, governi, magistrature d’ogni genere, con le relativefunzioni), tutte cose che rendono espliciti i rapporti sociali consolidati,fornendo le informazioni necessarie per promuovere le azioni conformi edescludere quelle difformi: informazione e repressione; nei nostri terminiconsueti, norme e sanzioni, le une e le altre del piú diverso genere.

Con il linguaggio idealistico, astratto e astruso di cui questeconcretissime realtà della vita sociale sono spesso rivestite, si parlahegelianamente di «spirito oggettivo». Altri hanno usato l’espressione «ideadirettrice» 7. Per dire piú o meno la stessa cosa con riguardo a quelle forzeistituzionali fondamentali delle società antiche (e non solo antiche) chesono i miti, il grande antropologo Bronisław Malinowski 8 ha usato iltermine charter, una sorta di scheda di riconoscimento della filogenesi diogni istituzione nella quale ritroviamo iscritte le funzioni che esse, nel corsodel tempo, sono venute svolgendo, e che rappresentano la loro ragiond’essere, cioè la garanzia del sistema dei bisogni precedenti e dei valoriconseguenti che stanno alla base delle istituzioni medesime. Noi potremmodire “costituzione”, usando una parola che ha una assai vasta area d’uso checomprende la costituzione politica, o dello Stato, ma non si esaurisce inquesta.

4. Istituzione ed emancipazione.

L’azione puramente convenzionale si basa, come si è detto nel capitoloprecedente, su una previsione: io agisco in un certo modo in quanto mirappresento in anticipo quella che sarà l’azione di risposta del mio partner.Ritengo cosí di determinare, con la mia azione, una certa reazione e laconoscenza anticipata della reazione determina la mia azione. Ma, questa

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previsione contiene inevitabilmente un fattore di azzardo che è già insitonella limitatezza della mia capacità di comprensione e di calcolo dei datidella situazione, limitatezza tanto maggiore in quanto la società sia digrande dimensione, sia una grande società; azzardo che è tanto piúrischioso quanto piú incomplete sono le informazioni che riguardanol’antagonista o gli antagonisti; azzardo che, in ogni caso, discende dallacircostanza che l’azione umana non è integralmente governata da qualchelegge deterministica, onde possa sempre dirsi: se è a, sarà b. Ildeterminismo è forse un modo sensato di considerare il mondo degli eventinaturali, ma non lo è di certo nel mondo delle azioni umane mosse dallalibertà di autodeterminazione (almeno fino a quando le neuroscienze nondimostreranno che viviamo nell’illusione della libertà solo perchéignoriamo la forza cogente delle cause oggettive e delle conseguenzenecessarie in cui anche noi, esseri umani, siamo pienamente immersi). Lateoria dei giochi prevede infatti non solo la vittoria, ma anche la sconfittanel caso in cui la reazione altrui non sia quella attesa. Quanti errori diprevisione, quante aspettative deluse, quanti conflitti, perfino quante guerresono scoppiate per errori di valutazione di questo genere 9!

Le istituzioni servono a evitare questi errori di previsione; servono astabilizzare i diversi campi in cui operano, a promuovere adattamenti eregolarità di comportamenti a partire dall’impossibilità in cui ciascuno sitrova di conoscere anticipatamente in dettaglio tutti i fattori che influenzanol’ordine della società 10. Esse dicono non solo quale deve essere il nostrocomportamento, ma anche quale dovrà essere e presumibilmente sarà quelloaltrui. L’agire istituzionalizzato, prima ancora che agire obbligato, è agireinformato. La conoscenza del contenuto delle istituzioni e la loro pubblicitàsono molto piú che un mero dato di fatto: sono invece una condizione disicurezza e di fiducia indispensabile della loro funzione di collante sociale.Abbiamo già detto che, dove esistono norme segrete, note solo a chi le deveeseguire, non c’è società ma c’è il dominio della paura: la stessa cosa si puòdire per le strutture sociali segrete, associazioni, cospirazioni, polizie, ecc.,che si sa che esistono ma non si sa dove e come sono e che cosa fanno. Iregimi totalitari, i quali hanno nel terrore di massa la loro risorsa, fannoinfatti grande uso di misure segrete, come una sorta di altro stratonormativo che opera sotto quello ufficiale e pubblico, e lo modifica o

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deroga, quando occorre, senza clamore, anzi nel silenzio totale cuicorrisponde il terrore capillare.

5. Emancipazione e repressione.

Riprendiamo l’espressione «idea direttrice». Essa indica il doppioaspetto di ogni istituzione: emancipante e repressiva, liberante e opprimenteal tempo stesso.

L’istituzione è emancipante perché solleva gli individui come singoli dauna quantità di oneri di calcolo che avvilupperebbero l’esistenza inlimitazioni, incertezze e paure paralizzanti. La civiltà progredisce conl’estensione del numero di operazioni importanti che possiamo compiere,come è stato detto con una formula che non è una boutade 11, «senzapensarci su» per poter pensare ad altro. L’agire istituzionalizzato noncomporta di per sé fossilizzazione sociale; al contrario, libera energie equindi promuove sviluppi sempre nuovi del vivere associato, e con ciònuovi bisogni e nuove istituzioni. Gli esseri umani ricorrono alle istituzioniperché solo per il loro tramite c’è appagamento della tensione a una vitasuperiore a quella unicamente biologica momentanea e, contro ogniapparenza, solo per loro tramite, ci può essere movimento, storia e cultura.Chi agisce conformemente a ciò che, secondo l’istituzione, ci si aspetta dalui, inoltre, non opera come se fosse la prima volta ma usufruisce diesperienze consolidate che normalmente consentono di raggiungere loscopo, uno scopo che, altrimenti, sarebbe probabilmente fuori della portataprevisionale solitaria. Chi opera “istituzionalmente” fruisce cosí di unalibertà superiore rispetto a chi crede di farne a meno: almeno in quanto siconsideri libertà non il velleitario ed estetizzante darsi da fare per niente oper farsi notare, ma la realistica capacità di realizzare i propri scopi.

Infine, l’istituzione trascende il tempo biologico di coloro che in essaoperano, prolungando nel tempo il significato e il valore dell’azioneindividuale e proiettandola al di là della sua stessa esistenza personale. Alleistituzioni sono estranei i limiti della biologia, sia verso il passato, sia versoil futuro 12. In qualche modo, l’essere umano che accetta l’istituzione come“ambiente” delle sue azioni le spersonalizza e attribuisce loro un significatoobbiettivo che sopravvive a se medesimo. Se non ci fosse rischio di

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retorica, diremmo che chi si identifica con l’istituzione superapsichicamente il confine della morte e salda la sua vita con quella di chil’ha preceduto e di chi lo seguirà.

Il puro gioco della aspettativa di reciprocità non sarebbe però sufficientea garantire la stabilità delle istituzioni. L’assenza di sanzione nei confrontidel comportamento deviante aprirebbe la strada a comportamentiopportunistici di coloro che non pagano alla collettività il loro contributo dilealtà verso le regole comuni e anzi approfittano, per trarne vantaggio, delrispetto medio che tali regole ricevono da parte degli altri. È il caso, moltostudiato in scienza politica ed economia, del free rider: un soggettopericolosissimo perché mina opportunisticamente l’atteggiamento di lealtàreciproca che vige tra i componenti di ogni società. Se uno può approfittareimpunemente dell’osservanza delle regole da parte degli altri, perché non nedovrebbe approfittare? Se uno, perché non due, tanti e via via poi tutti conle ovvie conseguenze di distruzione sociale? Le istituzioni hanno, dunque,un contenuto inevitabilmente costrittivo della spontaneità e livellatore degliimpulsi che agiscono nella società. Sono, come si dice, “repressive”,prevedendo reazioni e sanzioni contro i devianti. Si comprendono, perciò,accanto ai vantaggi, anche gli svantaggi che le istituzioni portano in sé e lediffidenze nei confronti dell’agire istituzionalizzato. Il conformistaperbenista, una volta spenta ogni spontaneità ed eliminata ogni possibilità dierrore e deviazione, potrebbe essere il modello dell’essere umanototalmente istituzionalizzato. Le cosiddette «istituzioni totali», come eranoper esempio i manicomi, come erano e in parte sono le carceri, comeintegralmente erano e sono i campi di lavoro, i Lager, sono esempi dellacapacità delle istituzioni di sostituire le spontanee azioni umane con mericomportamenti indotti, come nelle cosiddette società degli animali dove lalibertà è sostituita dalla necessità.

Possiamo ricordare, a questo proposito, le celebri espressioni di SigmundFreud sul disagio della civiltà, espressioni che possiamo leggere collegandoin un rapporto stretto civiltà e istituzioni, le quali del resto sonoprecisamente un’espressione della civiltà, anzi, in certo modo, sono civiltà:

Non vogliamo ammettere, non riusciamo a comprendere perché le istituzioni che noistessi abbiamo creato non debbano rappresentare una protezione e un beneficio per tutti.A ben vedere, se consideriamo che proprio sotto questo riguardo la prevenzione della

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sofferenza si è rivelata piú che mai fallimentare, ci viene il sospetto che anche qui ci sialo zampino della natura invincibile, che in questo caso sarebbe rappresentata dallanostra stessa costituzione psichica. Se la civiltà impone sacrifici tanto grandi non soloalla sessualità ma anche all’aggressività dell’uomo, allora intendiamo meglio perchél’uomo stenti a trovare in essa la sua felicità. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio,poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di goderea lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della suapossibilità di felicità per un po’ di sicurezza 13.

A questa visione si collega la «antropologia filosofica» di ArnoldGehlen 14, con la sua grandiosa visione della istituzionalizzazionedell’essere umano. La tesi centrale, costruita su una criticaall’evoluzionismo darwiniano e alla tesi della specializzazione progressivadegli esseri viventi, tesi che sarebbe inapplicabile agli esseri umani, è che leistituzioni, per questi ultimi, tengono il posto degli istinti strutturanti deglianimali. Per la natura dell’essere umano, la penultima legge è lapropensione alla sicurezza proiettata nel futuro; ma l’ultima è la credenza,che comporta un impulso esistenziale, di poter fare e diventare tutto ciò cheentra nella sua riflessione, tutto ciò che egli si propone. Qui sta il suopericolo, la sua contraddizione, la sua “imperfezione”, il suo “essere meno”rispetto agli animali, esseri che gli istinti strutturano in modo perfettamenteadeguato al loro vivere in società destinate a durare sempre uguali o amodificarsi lentissimamente. Le società animali sono possibili a causa dellaloro nulla o limitata plasticità. I comportamenti animali sono dettati dallareazione istintiva alle sfide modificatrici provenienti dall’esterno. Lapossibilità di scegliere, l’auto-modificabilità e le potenzialità di essere e dioperare in vista di ciò che si vuole essere e si vuole fare costituiscono perl’essere umano la sua “incompiutezza” e contraddicono perennemente il suobisogno di certezza, sicurezza, durata. Qui intervengono le istituzioni. Esserovesciano la penultima legge in ultima e l’ultima in penultima:l’inserimento nella durata della vita umana – l’ultima legge – viene adominare, come esigenza, sull’autocreatività – la prima legge. Per questofine fondamentale (un po’ di sicurezza, secondo l’espressione freudiana) gliesseri umani si sottopongono alla repressione e alla disciplina delle loropulsioni soggettive eccedenti la misura oltre la quale inizierebbe il rischioper l’autoconservazione.

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Noi sappiamo che proprio quella “imperfezione”, quella mancanza dispecializzazione con tutte le possibilità che ne vengono aperte hanno persecoli rappresentato un titolo di nobiltà rivendicato dall’uomo comecreatura, rispetto agli altri esseri animati, a partire ad esempio dallacelebrazione che ne fa Giovanni Pico della Mirandola nella Oratio dehominis dignitate («A te, Adamo, non assegnammo né un luogodeterminato, né un aspetto particolare, né un patrimonio esclusivo, affinchéquel luogo, quell’aspetto, quel patrimonio che tu sceglierai, secondo il tuodesiderio e la tua volontà, tu possa conservarlo. La natura determinata deglialtri esseri è costretta dalle leggi da noi stabilite. Tu non costretto invece danessun limite, te lo porrai secondo la libera volontà che io ti conferisco») 15.Ora, però, è come se l’essere umano, affacciato sul baratro che la libertà dipotere quel che è nel suo volere gli spalanca davanti, quasi indietreggi e siponga limiti, costrizioni, inibizioni che lo preservino dallo sprofondarenell’autodistruzione. Le istituzioni nascono dal timore delle possibilità dellaillimitata libertà. Preservano, ma limitano; danno sicurezza, ma bloccano;assicurano un futuro, ma intanto mortificano il presente.

6. Istituzioni e cultura.

Il già citato Arnold Gehlen ha impiegato a proposito di tutte leprestazioni delle istituzioni il termine «esonero» (Entlastung) e ha definitola cultura di una società come l’insieme dei suoi esoneri. L’essere umanototalmente istituzionalizzato sarebbe quello totalmente esonerato. Conun’altra parola: sarebbe l’essere totalmente represso, quello che non agiscema “si comporta” in modo quasi istintivo, prevedibile, regolare, adottandopassivamente gli standard che l’istituzione gli propone, rinunciando adavanzare pretese in nome delle proprie prerogative di essere libero. Questoessere è anche quello che, in condizioni date e con opportuni stimoli, puòessere sollecitato o mobilitato per non importa quale fine l’istituzione gliproponga: un represso, un automa, la cui aggressività latente può peròessere scatenata in funzione dell’istituzione.

Cosí siamo giunti a un rovesciamento tutt’altro che sorprendente perchiunque conosca l’insuperabile ambiguità di ogni forma umana di vitasociale. Abbiamo iniziato considerando i benefici effetti

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dell’istituzionalizzazione degli individui come strumento di liberazione dailimiti delle loro conoscenze e delle loro azioni, dall’incertezza dei lororapporti reciproci e, addirittura, in senso culturale, dal loro essere destinatialla morte. Siamo cioè partiti dalla considerazione delle istituzioni comestrumenti di potenziamento delle vite individuali. Ora vediamo invece leistituzioni rivoltarsi contro. Che si pensi in termini di «sistemi sociali» dicui i singoli diventano organi, oppure che idealisticamente si abbia in menteun organismo – la società – dotato di una sua vita superiore che ingloba isingoli per adempiere alla sua funzione tramite le sue istituzioni, il risultatoè la funzionalizzazione delle energie individuali in vista di qualcosa che litrascende, di qualcosa di “totale”. Un esito totalizzante o totalitario èsempre latente come possibile nella vita di qualunque istituzione. HannahArendt ha guardato l’aberrazione dei comportamenti di tanti esseri umaninormali nei regimi totalitari e l’ha spiegata con la formula «banalità delmale»: il male assoluto e banale non è quello di cui sono capaci i mostri, maè quello di cui sono capaci gli esseri umani totalmente normalizzati e,quindi, totalmente esenti dalla responsabilità delle proprie azioni 16. Lastoria è appena dietro di noi, per renderci avvertiti dei pericoli che possonofacilmente essere anche davanti a noi.

7. Oscillazioni.

La ricerca di antidoti, anch’essi di natura istituzionale, a questo tragicorovesciamento costantemente in agguato è quanto ha segnato la storia dellariflessione e delle realizzazioni circa le forme della vita sociale.Innanzitutto, la difesa attraverso il riconoscimento di una sfera di vitapersonale originaria che impedisca l’irruzione illimitata della forzaomologante: si tratta della dignità umana e dei diritti individuali, concepiticome un prius logico e valoriale rispetto alle istituzioni. L’enfasi che fino aoggi circonda i diritti umani è la dimostrazione inconsapevole del timoreincombente circa il riproporsi di tale rovesciamento, nell’attuale momentostorico e con riguardo alle potenti forze omologanti che plasmano le nostresocietà. In altri momenti – ad esempio, nell’Europa tra le due guerre – èprevalso invece il timore opposto: il timore della forza disgregatrice delle

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libertà individuali rispetto alla stabilità della vita sociale. Unondeggiamento dal quale non ci si sottrarrà mai.

L’altro antidoto è il pluralismo istituzionale, cioè l’esistenza diaggregazioni sociali che possano entrare in competizione creando istituzioni(politiche, culturali e religiose ed economiche) che si confrontano sia nellospazio pubblico, sia in quello privato delle coscienze individuali, ciò che siverifica quando lo stesso soggetto aderisca a piú d’una di esse. Se una e unasola è l’istituzione dominante, il totalitarismo è alle porte. Queste sono cosenote, magari in altra forma o sotto altre spoglie. E sono la premessa a undiscorso sulla massima istituzione politica, lo Stato, al quale volgiamo oralo sguardo.

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Capitolo terzoStato

1. Un prodotto della storia politica europea.

Nella selva delle istituzioni, spicca lo Stato. Non è l’unica di cui siinteressa il diritto, ma certo è la piú importante. Il diritto nel senso modernotrova il suo ambiente nello Stato. Anzi, dal punto di vista giuridico, Stato ediritto possono dirsi due modi per dire la stessa cosa; ciò vale sia per ledottrine normativiste 1 che per quelle istituzionali 2: sia le une che le altrefanno coincidere lo Stato con l’ordinamento giuridico, le primeconcependolo come l’insieme delle norme che provengono dai suoi organi,le seconde come istituzione giuridica.

Analogamente a quanto detto a proposito dell’origine storica dellacategoria “diritto”, anche per lo Stato (di cui già s’è detto circa il significatodi questa “voce” del verbo essere) possiamo ripetere ch’esso è un fenomenodella vita collettiva organizzata degli esseri umani che è venuto a formarsinel corso dei secoli.

Occorre distinguere un concetto generico di Stato da uno specifico. Insenso generico, si può parlare di Stato con riferimento a qualunqueordinamento sociale, cioè a qualunque sistema di relazioni che definisce unqualsiasi ordine, in qualsiasi modo stabile e garantito da una autorità. Cosí,potremmo chiamare “Stato” il regno assiro-babilonese; l’Egitto dei faraonie dei sacerdoti di Aton; il governo sugli Israeliti di Mosè e di Aronne,Davide e Salomone; i regni dei Filistei, dei Moabiti, degli Aramei, degliAmaleciti, degli Ammoniti, degli Idumei di cui parlano le storie bibliche; ilgoverno della pòlis greca; l’impero di Alessandro Magno; l’impero romano;il regno degli Inca o degli Aztechi sotto Montezuma; il branco armato diGengis Khan, passando per l’età feudale, per le libere città mercantili delRinascimento, per le monarchie assolute nate dallo smembramento delSacro Romano Impero, ecc. La parola “Stato”, in questo suo larghissimo

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uso perderebbe ogni pregnanza. Eventualmente, potremmo vedere in tuttequeste forme di coesistenza sociale tappe diverse del percorso, studiatodagli antropologi, dall’orda o banda all’alleanza di bande, alla tribú, allacittà fino allo Stato nel senso odierno 3.

Lo Stato di cui parliamo oggi è quel grande prodotto della storia e delpensiero politico europeo che ha preso avvio a partire dal XVI secolo, ilprodotto che chiamiamo «Stato moderno» e che ha conquistato quasi tutto ilmondo, ed è entrato nella nostra mentalità come una realtà naturale e unprincipio d’orientamento dei nostri pensieri, del quale i giuristi difficilmentesaprebbero fare a meno. Come vedremo, si tratta di un’astrazione, frutto diun’ardita costruzione concettuale di elementi storico-politici.

2. Potenza dell’idea.

Lo Stato è un’organizzazione, un modo di stare insieme di uomini e cose.È perciò una realtà immateriale, una creatura del diritto, capace tuttavia diazioni molto concrete: lo Stato può privarci della nostra libertà, può curarcie istruirci, può condurci in guerra contro un altro Stato, dispone del dirittodi vita e di morte, ecc. Esso dispone di una forza enorme, di gran lungasuperiore a quella di ciascuno di noi. Lo Stato moderno è sortoprecisamente allo scopo di concentrare in sé la violenza diffusa nella societàe di deprivarne i suoi membri per pacificarla.

Come dobbiamo, dunque, intendere questa realtà di cui spesso parliamo,con la quale abbiamo sovente a che fare e che condiziona profondamente lanostra vita, ma con la quale non ci troviamo mai faccia a faccia? Dobbiamofare uso delle nostre capacità di astrazione concettuale. Lo Stato non è unarealtà materiale che possiamo percepire con i sensi. È un concetto sinteticoche non si esaurisce nella somma delle sue parti, ma le trascende, e inquesta trascendenza trova il suo significato e il suo valore. Per quanto oggilo Stato non sia piú quel soggetto storicamente e ideologicamente trionfanted’un tempo e soffra oggi di un certo appannamento (si veda infra, par.III.14), da quanto ora detto si comprende l’arditezza del concetto: sommaarditezza concettuale in un momento della storia d’Europa segnata daferocissime e concretissime lotte politiche e religiose che nulla avevano di

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metafisico (a parte la loro giustificazione in nome di credenze religiose). Lospirito, proprio in quel momento, si è elevato sulla materia bruta perdominarla e ordinarla. Nello Stato, in questo dio mortale di cui avevaparlato Hobbes e di cui parlerà Hegel come del «razionale in sé e per sé», sicompendiò il progetto della pace interna assicurata da un potere, concepitocome astrazione dai poteri e dalle rivalità particolari. Come nel Dioimmortale tutte le contraddizioni che a noi mortali paiono tali – innanzituttol’impossibilità di spiegare il senso del male e dell’ingiustizia nella nostravita – trovano (troveranno, secondo la promessa dell’Apocalisse 4,3) la lorospiegazione e la loro giustificazione, cosí nel dio mortale si compongonotutti gli antagonismi che tormentano e disgregano le società umane.

3. Lo Stato come organismo.

Thomas Hobbes, nelle prime frasi del suo Leviatano parla dello Statocome di un artefatto creato in analogia con un animale naturale, come unuomo artificiale in grande, un megantropo che ha una vita del genere degliautomata, i congegni meccanici che, una volta che siano messi inmovimento, si muovono da sé, con molle e ruote, come gli orologi. Aquesta visione meccanica si contrappongono le visioni organiche delloStato, concepito come macro-antropo vivente attraverso l’espletamento difunzioni analoghe a quelle degli esseri della natura dotati di vita propria.Benché questa contrapposizione possa sembrare un’operazione diarcheologia costituzionale, essa continua a operare anche al tempo nostro,sebbene in modo per lo piú inavvertito, come si vedrà in seguito a piú di unproposito.

La concezione organica è quella antica, viva per tutto il Medioevo e l’etàfeudale. La sua immagine primitiva è nell’apologo di Menenio Agrippa,raccontata da Tito Livio nel libro II, capitolo XXXII, di Ab urbe condita. Daallora, il paradigma organico subí molte trasformazioni, ma modellò ilpensiero politico fino alla fine del Settecento e, dopo, sopravvivendo comecavallo di battaglia del pensiero politico controrivoluzionario e dellaRestaurazione. Un modello di riferimento fu la categoria canonistica del«corpo mistico» di cui trattano le Lettere di Paolo di Tarso (Rm 12,4-6; 1

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Cor 12, 12-27, e Ef 5,30), una categoria originariamente riferita alla Chiesache la «teologia politica» 4 estese alle organizzazioni delle società umane e,specificamente, a quel «corpo morale e politico» che era lo Stato: la Chiesacon a capo il Cristo e il suo vicario; lo Stato con a capo il Principe. Senzaminimamente tentare una filogenesi storica di questa concezione che arrivafino alle soglie della Rivoluzione francese quando i «tre stati» (nobiltà,clero e terzo stato) furono convocati da Luigi XVI nel Parlamento di AncienRégime a Versailles, bastino questi pochi esempi.

Durante il Medioevo, l’organismo statale era pensato alla stregua d’unaidea trinitaria (il tre è un numero ricorrente nella dottrina costituzionale: loincontreremo anche piú avanti), ispirata al Timeo di Platone, taloramodellata sulle tre persone della Trinità divina ed estesa dalla societàecclesiale alla società mondana 5: il Padre è il governo; il Figlio, ilnutrimento; lo Spirito Santo, il pensiero vivificante. In altri termini, lesocietà umane sono il prodotto di tre funzioni: la funzione dei depositaridella forza (i bellatores), la funzione economica dei produttori (ilaboratores) e la funzione culturale (gli oratores). I dettagli, pur nellacomune concezione dell’organismo vivente ispirata a immagini teologiche,furono molti e vari. Giovanni di Salisbury, segretario dell’arcivescovo diCanterbury Thomas Becket, scrisse nel Policraticus (1159):

Lo stato [res publica] è una specie di corpo che vive per concessione divina, agiscesotto l’impulso della suprema equità ed è retto dalla ragione […]. Come l’anima dominail corpo cosí i ministri della religione hanno la guida dell’intero corpo dello stato […]. Ilprincipe è il capo ed è soggetto solo a Dio e a quanti lo rappresentano in terra: infatti nelcorpo umano il capo è vivificato e governato dall’anima. Il senato svolge la funzione delcuore ed è all’origine di ogni iniziativa buona o cattiva che sia. I giudici e i governatoridelle provincie hanno il ruolo degli occhi, delle orecchie e della lingua. I soldaticorrispondono alle mani. I contadini corrispondono ai piedi che sono sempre come loroa contatto con la terra. Essi richiedono un’attenzione sempre viva da parte del capo,perché nello svolgimento del loro servizio, cioè nel camminare, possono incontrare nonpochi ostacoli; è giusto proteggere con calzature chi sostiene e muove la moledell’intero corpo. Si provi a togliere il sostegno dei piedi al corpo piú robusto: esso saràcostretto a trascinarsi in modo vergognoso, penoso ed inefficace sulle mani, o a farsiportare sulla groppa di qualche animale 6.

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Le dottrine politiche che si opposero alla Rivoluzione francese, in nomedella pura e semplice reazione o in nome delle idee organiche delRomanticismo, si avvalsero anch’esse di concezioni naturalistiche,spogliate dall’impronta teologica, ma di eguale ispirazione. Ad esempio, loStato come sintesi di tre Stände ugualmente indispensabili e rappresentatida tre ceti sociali differenziati: il Lehr-stand, o ordine insegnante, a queltempo composto essenzialmente dal clero; il Wher-stand, o ordinecombattente, consistente nell’amministrazione militare e nellagiurisprudenza, composta essenzialmente dalla nobiltà dedicata alle armi eall’amministrazione della giustizia; il Nähr-stand, o ordine dei produttori,composto

[dalla] massa del popolo divisa tra chi lavora la terra e ricava dai suoi frutti i mezzi disussistenza, chi nelle città trasforma questi frutti per i bisogni della società, e quelli che,come le api industriose, si occupano del trasporto e degli scambi commerciali di questimedesimi prodotti […]. I notabili di questi tre ordini assisteranno il principe,condivideranno le sue responsabilità, lo sosterranno col loro consiglio e, secondo i casi,sospingeranno o tratterranno l’autorità del sovrano, quali intermediari e mediatori tra ilpopolo e il suo governo 7.

Qui compare un’analogia, consapevolmente utilizzata, con l’alveare e lasocietà delle api, una metafora organica ricorrente quando si parla delloStato secondo questo genere di visioni 8.

La rappresentazione trinitaria o piú semplicemente tripartita delle società(ecclesiale o profana che sia) ha trovato una fondazione rigorosa nell’operadell’etnologo, glottologo e storico delle religioni Georges Dumézil 9.L’affascinante tesi di questo dotto studioso è l’esistenza costante nellesocietà indoeuropee di tre funzioni sociali fondamentali e di una strutturasociale tripartita relativa a esse. Le tre funzioni sono quelle della ideologia,della forza e della fecondità, esercitate dai sacerdoti (depositari dell’identitàculturale del gruppo sociale), dai guerrieri e dai produttori. I segni di questatripartizione, risorgente in molteplici forme, sono identificati nelle societàcastali dell’India, come nelle strutture religiose e giuridiche di Roma, finoal grande mondo delle tradizioni nordeuropee. Questa ricostruzione, basatasu dati storici (e perciò necessariamente rivolta all’indietro), aspira tuttaviaa essere una teoria generale delle società nella vasta area geografica e

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culturale alla quale anche noi apparteniamo e a porsi come modello diorganizzazione in ogni società che voglia rispettare i propri caratteri naturalioriginari: «nel mondo divino come in quello degli uomini, nel cosmo comesulla terra, il successo e la stessa vita ordinaria hanno origine dal giocoarmonioso, statico o dinamico, di tre modi o mezzi di azione checorrispondono rispettivamente ai bisogni magico-religiosi, militari,economici di una qualsiasi società», modi o mezzi di azione denominati «letre funzioni» 10.

4. Lo Stato come meccanismo.

Lo Stato, secondo questo altro concetto, è un «costrutto» 11. Comel’orologiaio fa con l’orologio (una metafora hobbesiana, insieme a quelladell’edificio), componendolo dei suoi elementi secondo i suoi propriintendimenti, cosí nella prospettiva meccanica fanno gli esseri umaniinventando e creando lo Stato, le sue articolazioni e i rapporti delle une conle altre secondo i propri progetti e i propri calcoli. Il meccanicismo èdunque anche intenzionalismo e volontarismo. Nella Filosofia del diritto diHegel leggiamo questa espressione di stupore nei confronti dello spettacoloofferto dai rivoluzionari francesi che, in assemblea, avevano giurato di nonsepararsi prima di «avere dato una costituzione alla Francia» (come fu dettonel «Giuramento della Pallacorda»):

[lo Stato] verrebbe fuori da questa volontà singola come volontà cosciente; ilrisultato è che l’unione degli individui nello Stato diviene un contratto, il quale haquindi per base il loro arbitrio, la loro opinione e il loro espresso consenso, dato apiacimento […]. Cresciute a potere, queste astrazioni pertanto hanno sí da un latoprodotto il primo, dacché sappiamo del genere umano, immane spettacolo di iniziare oradel tutto da capo e dal pensiero la costituzione di un grande Stato reale colsovvertimento d’ogni cosa sussistente e data, e di voler dare ad essa per base meramenteil pensiero razionale; dall’altro, giacché sono soltanto astrazioni prive di idee, essehanno trasformato il tentativo nell’avvenimento piú orribile e allucinante 12.

Cosí dicendo, si dimenticava che già in America era accaduto qualcosadi simile (anche se non di uguale, essendosi là mantenuto un legame con le

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tradizioni costituzionali d’origine), prima con le Costituzioni degli Statidella «Nuova Inghilterra» e poi con la Costituzione federale che laConvenzione di Filadelfia aveva approvata nel 1787. A questo propositoJohn Adams scrisse a Thomas Jefferson:

Tu ed io, caro amico, siamo stati inviati al mondo in un tempo nel quale avrebberovoluto vivere i grandi legislatori dell’antichità. Ben pochi della razza umana hanno maiavuto l’opportunità di scegliere un governo per sé e i figli, piú di quanta ne abbianoavuto di scegliersi l’aria, il suolo o il clima 13.

L’esercizio della libertà politica, massima nei tempi rivoluzionari,tentava cosí di operare una grandiosa sostituzione della volontà umanamossa da principî di ragione al cieco determinismo della necessità naturale,su cui si basavano fin ad allora le concezioni organiche dello Stato. Perl’uno, Hegel, si trattava d’una mostruosità; per l’altro, Adams, dell’iniziodella primavera dell’umanità.

La generazione rivoluzionaria si poneva cosí, per la prima volta, al disopra delle proprie istituzioni politiche, con la presunzione ch’essedipendano dalla sua volontà; che le si possa pianificare secondo un progettorazionale e che, date una volta, le si possa sempre cambiare quando nonpiacciono piú; che la storia si possa tagliare intenzionalmente,accelerandola per poi fermarla e rimetterla in moto; che l’azione umanadetermini il corso della storia (e non viceversa). I rivoluzionari francesi,rifondando da capo lo Stato, credevano di esercitare la piú piena e la piúcreatrice delle libertà. Per i controrivoluzionari, erano invece i fanatici einconsapevoli esecutori di un progetto provvidenziale che li sovrastava 14,che si sarebbe alla fine rivelato per quello che era: un immenso castigo peril peccato d’orgoglio compiuto dagli uomini del Secolo dei lumi 15.Rifondare lo Stato e darsi la costituzione significava promuoverel’instabilità e, come fu detto 16, aprire una gara mai chiusa tra chi avrebbepreteso di fare meglio, con tutte le tragedie che dai grandi sommovimentisociali e politici sarebbero scaturite.

Questa, tuttavia, è la concezione dello Stato (e della sua costituzione)che appartiene ai «moderni» e che si contrappone per caratteri essenzialiallo Stato (e alla costituzione) degli «antichi» 17. Da questa concezionederivano, come conseguenze, istituzioni e categorie giuridiche totalmente

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sconosciute nel tempo antico e, invece, del tutto naturali nel tempo nostro:come assemblee costituenti, costituzioni scritte, revisione e giustiziacostituzionale, ecc., sulle quali si avrà occasione di soffermarci in seguito.Poiché lo Stato divenne un artefatto nelle mani dei suoi artefici, questiritennero di poterlo organizzare a piacimento, per renderlo forte ma anche,al contempo e soprattutto, per renderlo inoffensivo e rispettoso dei diritti deicittadini, per esempio attraverso la tecnica della separazione dei poteri,secondo il progetto politico di quel movimento ideale che si denomina«costituzionalismo» e «Stato di diritto». Dal punto di vista della naturagiuridica della costituzione, essa iniziò a essere trattata come «dirittopositivo» posto dalla legge, la legge piú importante di tutte, la Costituzione.

5. Stato organico e meccanico.

La costituzione dello Stato è tradizionalmente rappresentata asomiglianza con la struttura degli organismi naturali collettivi, il cuiesempio classico (cui già si è accennato) è l’alveare, la struttura socialedelle api. La vita delle api è inconcepibile fuori dell’alveare. L’ape singolaesiste solo sul tavolo dell’entomologo. L’alveare dà vita alle api, marichiede a ciascuna di esse lo svolgimento di un compito precisonell’interesse della sopravvivenza dell’alveare intero. Ci sono l’ape regina,con i fuchi alla sua corte, le api guerriere e le api operaie: tutte svolgonouna funzione essenziale alla quale sono predestinate dalla nascita, perchénessuna può cambiare il proprio destino, sovvertendo i ruoli. Se potesserofarlo, tutte forse deciderebbero di trasformarsi in regine e nessuna sioccuperebbe piú della difesa e del nutrimento, ma in tal modo l’alveare econ esso le api medesime morirebbero. La vita dell’alveare si svolgedunque secondo una legge naturale, che non è stabilita ma è subita dalle api.È una legge oggettiva, inflessibile, necessaria, che sarebbe folliamodificare. Non importa se uno studioso di etologia possa avere qualcosada obbiettare a questa ricostruzione dell’alveare. Ciò che importa è chequesta è un’idea comune che frequentemente è stata estesa alla societàumana per raffigurarla come società chiusa su se stessa. Come nell’alveare,anche nelle società umane esisterebbero tre “ordini” naturali e necessari,occupati rispettivamente a mantenere l’unità e la riproduzione del gruppo, a

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garantire la sicurezza e a provvedere alle necessità di materialesopravvivenza. L’alveare è dunque un organismo complesso, una totalitàcomposita, che vive secondo la propria legge naturale.

Richiamando alla mente l’apologo di Menenio Agrippa, si può direanaliticamente che i caratteri dello stato organico sono quelli che seguono.Le istituzioni sociali, lo Stato tra queste, non hanno autore: nascono dabisogni naturali e sono necessarie agli uomini che la compongono, comel’organismo lo è per i singoli organi 18. Il cuore, il fegato, ecc. non esistonofuori dell’organismo e, staccati da esso, muoiono; la stessa cosa vale per gliuomini nelle società. L’individuo vive in funzione della società: l’uomo nonvive per sé, per il suo interesse particolare, ma vive per la società cuiappartiene e di cui è un dipendente o un funzionario, cosí come il cuorepompa il sangue, il fegato lo depura, non nel proprio interesse ma infunzione dell’intero organismo. Gli organi devono funzionare bene perchél’organismo non ne risenta e l’organismo in buona salute dà, a sua volta,energia e vita ai suoi organi. La società è una organizzazione differenziata,nella quale, cioè, ciascun individuo e ciascuna classe sociale sono destinatia compiti specifici. Tra essi non c’è uguaglianza, ma diversità e gerarchia. Ilcompito degli esseri umani in società è obbligato, non può essere scelto daisingoli, i quali non possono modificarlo o scambiarselo, cosí come il cuorenon può fare ciò che fa il fegato. La vita della società, infine, è regolata dauna legge naturale, oggettiva, necessaria, che non si può pretendere dicambiare con successo a piacimento.

Secondo le concezioni meccaniche, invece, lo Stato ha autori: nasce dadecisioni razionali di coloro che ne fanno parte (tutti, secondo democrazia;pochi, secondo oligarchia; uno, secondo monarchia): in ogni caso decisionivolontarie e, dunque, libere. Questo Stato è coevo alla teorizzazione dellalibertà degli esseri umani dai vincoli organici, i vincoli dell’Ancien Régime.Le società dipendono dagli individui, dalla loro libertà. Sono strutture nonnaturali ma artificiali, che gli uomini costruiscono per servirsene ai propriscopi. Come nella metafora dell’orologio, fatto di ruote e ingranaggicollegati tra loro in vista di uno scopo preciso, se qualcosa funziona malepuò essere riparato o modificato. Gli ingranaggi, le ruote sociali (per restarenella metafora) non sono gli individui considerati nella loro totalità dianima e corpo. Se cosí fosse, li si ridurrebbe a semplici rotelle, a robotdisumani, spersonalizzati, anonimi, privi di libertà e volontà. Per le

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concezioni fondate sugli individui che assegnano il primato agli uominiinvece che all’organizzazione, la società e lo Stato sono un insieme dirapporti e strutture, che non assorbono integralmente il tempo,l’intelligenza, l’attività, i sentimenti, in una parola, la vita degli uomini.Essi si riservano una parte della loro esistenza fuori delle ruote e degliingranaggi. Possono perfino decidere di uscire dalla società e fare parte perse stessi. Solo questa autonomia individuale consente loro di nonidentificarsi interamente con la società esistente e di porsi (tutti, alcuni ouno solo) in un osservatorio personale dal quale guardare le istituzioni e loStato, come qualcosa che è al di fuori di loro stessi, e sottoporlo a critica edeventualmente modificarlo e, perfino, di rovesciarlo: permette insomma alleparti di avanzare pretese nei confronti del tutto. In ciò sta il primatodell’uomo sulla società che è caratteristico dell’individualismo sociale. Ilrischio delle società fondate sugli individui è l’eccesso di individualismo,cioè l’egoismo. Esso minerebbe alla base le possibilità di costituire società,sarebbe la premessa dell’anarchia e della lotta di tutti contro tutti.

In che cosa questa rappresentazione contrasta con quella organicistica?Pressoché in tutto. Basti pensare, prendendo spunto dall’apologo diMenenio Agrippa, che se la plebe avesse ragionato in termini meccanici,avrebbe potuto facilmente replicare con molti argomenti. Per esempio,avrebbe potuto ribattere che la società romana, cosí com’era strutturata, nonera affatto necessaria alla plebe, la quale infatti stava assai megliosull’Aventino a far niente o a lavorare per sé che a Roma a farsi sfruttare daipatrizi; che vivere in società è buona cosa, ma a condizione che a tutti siaassicurata una vita decente e che poco importa a quelli che sono in miseriache la società sia prospera per gli altri; che le ingiustizie sociali che la plebedenunciava avrebbero ben potuto essere superate, abbassando la posizionedei patrizi ed elevando quella dei plebei o abolendo del tutto la distinzione;che appunto questo era ciò che la plebe chiedeva, perché era pronta arientrare a Roma, ma a condizione che ci si mettesse d’accordo su unanuova costituzione piú giusta per tutti.

6. Oscillazione.

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Le istituzioni e, tra queste, lo Stato, vivono in equilibrio precario tra ledue concezioni anzidette. Se l’essere umano fosse solo animale, avrebberopienamente ragione gli organicisti; se fosse solo libertà creatrice, volontà,puro spirito, avrebbero pienamente ragione i meccanicisti. È chiaro peròche gli uomini non sono interamente né l’una cosa né l’altra, ma sono unimpasto di tutte e due. Le società umane, nel concreto della storia, portano isegni di entrambe le concezioni; dipende dagli uomini e dal loro grado diciviltà la prevalenza dei caratteri dell’uno o dell’altro tipo di società. Vi èinstabilità permanente perché vi è contrasto tra due forze opposte, sempre inazione. La libertà creatrice dell’uomo deve farsi strada tra le difficoltà cui lasua natura biologica lo pone continuamente di fronte; viceversa, i caratteriorganici della società, quando riescono ad affermarsi, devono combatterecon l’aspirazione degli uomini alla libertà. La piena vittoria della societàorganica equivarrebbe a degradare l’uomo, contro la sua natura di esseredotato di libertà; ma la piena vittoria della libertà creatrice negherebbel’altra faccia della medaglia, la realtà biologica dell’essere umano.

La storia delle società è una continua oscillazione tra i due principî, lacui valenza politica non potrebbe essere sopravvalutata. In generale, puòdirsi che in Occidente il movimento sia stato dall’organicismo verso ilmeccanicismo e l’individualismo parallelamente allo sviluppo dellademocrazia, non senza interruzioni tragiche come al tempo dei totalitarismiche rappresentano l’esempio contemporaneo piú chiaro di societàorganiche. Il loro concetto-chiave era il popolo inteso come unità, comesoggetto totale che assorbe i singoli e quelli che non può assorbire li cacciao li elimina. L’espressione che definisce questo concetto è «comunità dipopolo» o Volksgemeinschaft (secondo la terminologia del Romanticismopolitico, fatta propria dal nazista). La democrazia, invece, parla illinguaggio dei cittadini, soggetti autonomi che creano la loro associazionepolitica secondo la loro volontà e i propri progetti (Volksgesellschaft) 19.Non c’è bisogno di parole per spiegare perché la democrazia odierna si basasui cittadini e sui loro diritti e non sulla «comunità di popolo» e sulle suepretese totalizzanti nei riguardi dei singoli 20.

Oggi, non si saprebbe dire con certezza qual è il moto: siamo in unmomento di oscillazione. In generale si può dire che le due tendenzeconcettuali opposte diventano forze che muovono la storia quando trovanogruppi, ceti, classi, partiti che li assumono come criteri della loro azione,

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della loro politica. Appare allora il loro significato storico-politico, al di làdi quello teorico astratto: la società chiusa è il programma delle forzeconservatrici che operano per il mantenimento dello status quo, temendo lalibertà e le sue opere e, col mutamento, la perdita delle proprie posizioni dipotere. La società aperta è invece il programma politico delle forzeinnovatrici che operano per il superamento dello status quo e per ilcambiamento sociale 21. Ottenuto lo scopo, però, le parti spesso si invertono,come mostrano tutti gli esempi storici di movimenti politici che siaffermano in nome della distruzione delle cristallizzazioni del passato e poi,una volta consolidatisi, si chiudono su se stessi e pretendono di trasformaretutte le forze sociali, politiche, economiche e culturali in propri organi.

7. L’esserci metaforico dello Stato.

Che l’essere dello Stato sia concepito come meccanismo o comeorganismo, l’idea che l’esprime è quella d’un ente trascendente le suesingole parti: sia l’orologio che l’organismo non si lasciano concepiresemplicemente come aggregati di componenti fisici. Necessitano d’unaforza che li tenga insieme e dia loro un significato d’insieme. Sono, per cosídire, enti metafisici. L’idea di Stato, quale che ne sia la concezione,contiene necessariamente questo elemento spirituale, al quale fa riferimentol’espressione, spesso usata senza particolare consapevolezza, «senso delloStato», una dote che si richiede ai veri “statisti”. Hegel, nel suo oscuro emolesto linguaggio, parla di «realtà e unità sostanziale, autocoscienzaparticolare innalzata alla sua universalità, assoluto immobile fine in sestesso, realtà dell’idea etica, spirito etico inteso come volontà sostanziale,manifesta, evidente a se stessa, che pensa e sa e porta a compimento ciò chesa e in quanto lo sa» 22. Noi non commenteremo qui queste espressioni checontengono una glorificazione della realtà metafisica dello Stato checorrisponde, nell’altro paradigma, all’idea hobbesiana del dio mortale, senon per notare che questo ente, che è in sé e per sé, deve calarsi nella storia.Per usare una terminologia di Heidegger, deve «esserci», cioè assumereforme storicamente concrete che gli consentano non solo di contemplare sestesso come spirito o idea, ma di presentarsi sulla scena della storia comeazione.

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Ciò si rende possibile attraverso i suoi organi. L’idea di Stato diventaidea concreta in quanto vi siano “organi” che operano in suo nome. Stiamoiniziando a usare un’altra delle tante metafore che dominano il linguaggiogiuridico e politico: persona giuridica, corpo politico, invalidità e sanatoria,vizio, giudice être inanimé o automa, macchina delle leggi, capo delloStato, governo e governatore, corpo dello Stato (di polizia, dei vigili urbani,ecc.), superiore e inferiore, sistema giuridico, sistema nervoso; non manca ilmondo animale: il leone, l’aquila, la pecora, il gregge. E, ora, la metaforaorganica. Ogni metafora è una trasposizione da un ambito di significatooriginario in un altro derivato (sarebbe interessante dedicarsi alla ricerca diqualcuna di queste trasposizioni: ne abbiamo incontrate e ne incontreremonumerose anche senza cercarle), spesso con intenti valutativi a seconda se ilriferimento è a realtà oggetto di apprezzamento o di disprezzo. Quando siusa una metafora, si dichiara l’insufficienza d’una scienza a fondare sestessa su se stessa e, al tempo stesso, la sua vicinanza o parentela conun’altra. Diversa ma prossima. Nelle università dell’epoca medievale, isimboli del sapere erano quelli della medicina e del diritto. È spontaneol’accostamento: la medicina cura il corpo umano; il diritto il corpo sociale.Molte metafore sono, infatti, tratte dal mondo della fisiologia e dellapatologia umana, cioè dal mondo organico. Altre, sono tratte dal mondomeccanico 23. Nel campo del diritto, le metafore piú frequenti appartengonoal mondo della vita organica, a dimostrazione del fatto che le radici dellenostre concezioni, pur se intenzionalmente le collochiamo soprattutto nelmondo meccanico, sono ancora quelle antiche. «Organo» è un esempio. LoStato non esisterebbe nel mondo se, come un essere vivente, non avesse isuoi organi. Questi organi sono bensí fatti di carne e ossa, come vedremo,sono tuttavia creature non biologiche, ma giuridiche. A questo puntooccorre addentrarsi un poco nelle categorie dei giuristi.

8. Personalità, capacità giuridica, capacità di agire dello Stato.

Gli organi non esisterebbero se non fossero ricondotti a un soggettounificatore dotato di vita propria: sarebbero membra sparse. Aristotele,all’inizio della Politica (1253a) dice precisamente che il piede di pietrad’una statua solo per analogia si dice “piede”, cioè “organo” della statua:

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appartiene bensí a una unità, ma gli manca la vita, la capacità di mettere inmovimento la statua. Nel caso dello Stato, l’unità vivente è unacaratteristica che non si trova nella natura. È il prodotto di una operazioneresa possibile dal diritto che lo concepisce come persona giuridica: è unarealtà concettuale, non naturale, che “vive” solo nel mondo del diritto.

Persona giuridica significa soggetto titolare di determinati poteri, diritti,doveri e responsabilità. Titolare, a sua volta, significa che poteri, diritti,doveri, responsabilità sono a lui riferiti o, come dicono i giuristi, imputati.In senso giuridico, persona significa imputazione. La somma delleimputazioni determina quella che si denomina capacità giuridica. Quandola personalità giuridica è attribuita a persone fisiche, queste hanno sia lacapacità giuridica che la capacità di agire, cioè la capacità di compiere attiimputati a sé medesime. Lo Stato è persona giuridica, ma non personafisica. Le persone giuridiche che non coincidono con le persone fisiche, chehanno capacità giuridica ma non capacità di agire, sono numerose, sonoquelle che un tempo si chiamavano «persone morali» per indicare che neiloro riguardi valgono considerazioni che non appartengono al regno dellerealtà naturali: si pensi a una società per azioni, a un’associazione o a unafondazione, ecc. Questi enti hanno capacità giuridica ma, quanto a capacitàdi agire, devono avvalersi di soggetti fisici che agiscono in loro nome e nelloro interesse. Quando ciò accade gli atti di questi loro agenti si imputanoall’ente morale di cui sono organi. Lo stesso è per lo Stato: è personagiuridica, in quanto titolare di posizioni giuridiche (diritti, doveri, ecc.), mala capacità giuridica è, per cosí dire, separata da quella di agire che èattribuita a sue strutture funzionali, fatte di uomini e cose, queste sí concretee visibili: non con lo Stato, ente astratto, noi cittadini veniamo a contatto,ma con queste sue strutture serventi.

Tutto ciò non è che un grande e ardito artificio giuridico che ha presocorpo nella storia europea degli ultimi secoli per l’esigenza dispersonalizzare la vita politica, creare una dimensione super partes dellaconvivenza e pacificare i rapporti sociali, turbati, anzi insanguinati, daquella che è stata definita la guerra civile europea che coincise con losfaldamento dell’unità cristiana del Sacro Romano Impero. Per“spersonalizzare” i rapporti politici e cosí pacificarli, occorreva una“persona in grande” che riassumesse in sé la dimensione politica della vitacollettiva e, contemporaneamente, li “spersonalizzasse”. Personalità dello

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Stato e spersonalizzazione della società nella sfera dei rapporti politicivanno di pari passo.

Lo Stato come persona è dunque un artificio, non trova riscontri nellarealtà naturale. Esso, come tutti gli artifici, sta in piedi non di per sé, masolo se, e fino a quando, riesce a farsi percepire come realtà. Il che è quantodire: fino a quando coloro che agiscono per lo Stato (i funzionari cheoperano nei suoi organi) sono percepiti come attori disinteressati rispetto aipropri interessi particolari, e interessati solo rispetto ai compiti dello Stato.Lo Stato è dunque una creatura del diritto, ma la sua esistenza e vitalità nondipendono dal diritto, bensí da un fattore psicologico, cioè da un’intuizionecollettiva che ha bisogno di qualcosa di concreto in cui riconoscersicollettivamente. Si deve notare questo dato significativo: lo Stato comepersona morale ha bisogno di simboli per rendersi visibile (bandiere, inni,divise, cerimonie, festività); le persone fisiche non ne hanno bisogno 24. Lasimbologia dello Stato non sta nell’esteriorità ma viene dalla sua interiorità.

9. Due corpi dello Stato.

L’attività dei funzionari è svolta da persone fisiche, ma è come se fossesvolta dallo Stato stesso con la sua autorità. Tale imputazione si ha solo acondizione che il funzionario abbia agito nella sua veste pubblica, comeorgano o agente dello Stato, non nella sua veste privata, come semplicecittadino. Quando e a quali condizioni può dirsi che una persona o uninsieme di persone (come, ad esempio, i parlamenti) agiscono come organodello Stato? La questione è ancora una volta una questione giuridica. Ildiritto a) prevede le regole secondo le quali si diventa funzionari dello Stato(elezioni, nomine, pubblici concorsi), b) fissa le competenze degli organi dicui i funzionari diventano “agenti” in suo nome, c) determina le modalitàdel loro esercizio, e d) ne stabilisce le finalità d’interesse pubblico. Questoinsieme di determinazioni giuridiche crea ciò che definiamo «organo».Fuori di queste regole e competenze, l’attività svolta dovrà essereconsiderata compiuta dall’“altro corpo”, cioè dalla persona privata, e dalpunto di vista dello Stato sarà sempre da considerare invalida e, nei casi piúgravi, non sarà imputata ad altri che al funzionario infedele il quale nerisponderà come abuso dell’ufficio che gli è conferito: sarà, dunque, priva

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dell’autorità che spetta allo Stato e, nel caso in cui sia attività illecita, daràluogo a responsabilità personale della persona privata che, arbitrariamente,s’è voluta rivestire d’una funzione pubblica.

I funzionari dello Stato hanno dunque – si può dire metaforicamente –due corpi: l’uno privato fisico e l’altro pubblico metafisico. Questosdoppiamento, che è all’origine dello Stato moderno, è tutt’altro che ovvio.Per molti governanti, oggi come un tempo, è naturale l’identificazione chederiva dal percepirsi integralmente come “Stato”. In una fase di sviluppodelle forme politiche, lo Stato fu identificato con la persona del Sovrano.«Lo Stato sono io» è il celebre detto di Luigi XIV, celebre perché segna conevidenza l’idea dell’incorporazione dello Stato nella persona delgovernante. All’opposto, è abitudine citare l’altrettanto celebre espressionedi Federico II di Prussia, il quale qualificava se stesso come «il primoservitore dello Stato». In questa espressione è insita l’idea della dualitàStato - uomini di Stato: dualità come reciproca implicazione. Lo Stato nonesiste se non ci sono suoi «servitori», ma i servitori non esistono se non c’èlo Stato e lo Stato ha un’esistenza e una vita che va oltre la vita dei suoiservitori.

L’immagine dei due corpi viene da lontano, dagli esordi dello Statomoderno, ed è stato oggetto d’uno studio magistrale di Ernst H.Kantorowicz dove troviamo citata una sentenza inglese del 1561 che fa ilcaso nostro:

Il re ha in sé due corpi, cioè il corpo naturale e il corpo politico. Il corpo naturale èmortale, soggetto a tutte le infermità naturali e accidentali, alla debolezza dell’infanzia edella vecchiaia e a tutti i consimili inconvenienti cui vanno incontro i corpi naturali dellealtre persone. Ma il suo corpo politico è un corpo che non può essere visto o toccato,consistente di condotta politica e di governo, e costituito per la direzione del popolo e laconservazione del bene pubblico, e questo corpo è palesemente privo di infanzia e divecchiaia e di tutti gli altri difetti e debolezze cui è soggetto il corpo naturale, e perquesto motivo, ciò che il re fa con il corpo politico non può essere invalidato o annullatoa causa di alcuna debolezza del suo corpo naturale 25.

10. La vita dello Stato.

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Da quanto ora detto, si comprende l’arditezza del concetto di Statomoderno. Lo spirito, proprio con quel concetto, si è elevato sulla materiabruta per dominarla e ordinarla. Nella concezione dello Stato, quel diomortale di cui aveva parlato Hobbes e quella sorta di «razionale in sé e persé», come «unità sostanziale fine a se stessa, assoluto, immoto», lo spirito siè dimostrato davvero «Spirito del tempo».

Un aspetto di questa arditezza è implicito nel passo della sentenza oracitata: lo Stato ha una sua vita, ma questa supera la vita biologica degliuomini che lo rendono operativo. Costoro spariscono, muoiono, sonosostituiti, ma lo Stato resta se stesso in perpetuo. Può morire, estinguersi,ma ciò accade patologicamente, in casi eccezionali (come si dice subitodopo). Lo si può constatare nei momenti rivoluzionari, quando alla radicalesostituzione di una classe politica non consegue automaticamente la cadutadelle obbligazioni precedenti contratte dallo Stato nei confronti di altri Statiattraverso trattati internazionali e nemmeno viene automaticamente meno ilsuo ordinamento giuridico. La fine di una classe dirigente, di per sé, nonequivale alla dissoluzione dello Stato. È, questo, il principio della continuitàdello Stato.

Poiché, peraltro, lo Stato non esiste se non per mezzo di suoi «servitori»,l’esistenza di questi ultimi è condizione di sopravvivenza del primo. Perquesto, in ogni istituzione statale, una delle prime preoccupazionicostituzionali è assicurare la regolare sostituzione nel tempo dei suoiservitori (norme sulla successione dinastica nelle monarchie; norme sulleelezioni nelle repubbliche), con la preoccupazione di evitare i «vuoti dipotere» («è morto il re, viva il re», nelle monarchie; la prorogatio deititolari di cariche pubbliche, fino al momento in cui entrano in carica isuccessori, nelle repubbliche). Si parla di dissoluzione o fine dello Statosolo nei casi estremi di debellatio (in seguito a una guerra perduta) o diguerra civile (nella quale l’ordine istituzionale è travolto dalla violenzaintestina).

11. Lo Stato sovrano.

“Sovrano” deriva da suzerain. Questa derivazione è uno dei tanti segnida cui si può arguire che i concetti politici sono piú spesso il prodotto di

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evoluzione e di adattamento di concetti noti a circostanze nuove. Il suzerainera il signore feudale che stava al di sopra di altri signori che traevano da luila fonte dei loro poteri. La parola indicava, dunque, una supremaziarelativa. Con la formazione dello Stato moderno, la supremazia si trasformain assoluta. «Sovrano è chi non riconosce nulla superiore a sé all’infuori diDio» (superiorem non recognoscens) e «per sovranità s’intende quel potereassoluto e perpetuo che è proprio dello Stato» 26, afferma lapidariamenteJean Bodin all’inizio della trattazione dell’argomento nel suo trattato su Larepubblica. Il sovrano è colui che dispone della «summa in cives,legibusque soluta, potestas» (con la precisazione, tuttavia, che non possonoessere derogate quelle leggi che riguardano la struttura stessa del regno e ilsuo assetto fondamentale – noi diremmo la costituzione della sovranità –,perché altrimenti il potere sovrano entrerebbe in contraddizione con sestesso; nemmeno possono essere violate le leggi divine e quelle di natura, apena di rivolta da parte dei sudditi). Lo Stato sovrano, erede del principesovrano, è, dunque, la massima autorità, che non ha di fronte a sé nessunoche gli si possa opporre o che gli si possa sovrapporre in nome d’un altropotere terreno.

La sovranità degli Stati è stato l’esito benefico d’un tempo terribile perl’Europa, il tempo delle guerre di religione che insanguinarono l’Europa dalXIII secolo in poi, opponendo (in nome della visione universale del SacroRomano Impero medievale) la Chiesa cattolica e i principî cattolici allevarie confessioni religiose cristiane non cattoliche (Valdesi, Catari,Dolciniani, Ugonotti, Anglicani, Calvinisti, Luterani) e ai principi che, viavia, se ne facevano protettori. Ragioni politiche e religiose si mescolarono alungo, tra i diversi regni e all’interno di essi, fino a deflagrare nella guerradei trent’anni (1618-48) durante la quale cattolici e protestanti siaffrontarono con armi e roghi in tutt’Europa. Il Trattato di Vestfalia del1648, affermando il principio «cuius regio, eius et religio» – in ogniterritorio (regio), la sua propria religione – pose le basi per superare ilconflitto, obbligando però le popolazioni di religione diversa da quellaprofessata dal sovrano ad allontanarsi dal suo territorio per non subirepersecuzioni come eretici e colpevoli di tradimento verso il principe. Venivaa cessare formalmente la pretesa dell’Impero universale cattolico enascevano gli Stati nazionali, all’interno dei quali il sovrano poté agire per

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affermare l’assolutezza dei suoi poteri. La sovranità è figliadell’assolutismo. Come suo motto, potrebbe assumersi la celebre formula:Rex in regno suo est imperator (adattandone ai tempi nuovi, cioè al sovranoassoluto, il significato: significato che originariamente, nel Medioevo,valeva a equiparare l’obbligo di ubbidienza dei sudditi al feudatario localeall’obbligo di ubbidienza all’imperatore stesso).

La sovranità dello Stato è un concetto che può sconfinare nella sferateologico-politica. Può diventare, contro le intenzioni originarie che, comes’è detto, non negavano l’esistenza di una sfera etica superiore allo Statostesso, una realtà esclusivistica, totalitaria che, sotto certi aspetti, prende ilposto che per millenni era occupato dal sovrano per eccellenza: dio, ilcreatore e padrone del mondo. È una nozione che si usa disinvoltamente, dicui non avvertiamo le implicazioni, l’ambiguità e i rischi. A ben pensarci,nella sovranità dello Stato sta il germe d’ogni deificazione blasfema eidolatrica della politica che si fa Stato, poiché la sovranità per sua naturanega che ci possa essere qualche cosa o qualcuno che possa contrastarlo.Quali che siano le forme in cui si manifesta, lo Stato sovrano presenta,come nucleo comune, venutosi a consolidare storicamente, la vocazioneall’ordine sociale e la reazione contro il disordine sociale e la guerra civile.Lo Stato, già nella teorizzazione del Leviatano, è portatore di pace, ordine esicurezza. Ma la storia insegna che può trasformarsi in un mostro chemangia i suoi figli quando diventa oggetto d’idolatria.

12. Sovranità interna.

Sovranità interna dello Stato significa che ogni altra struttura di potere –religiosa, economica, politica – cessa di vivere in un suo proprio mondoseparato, perché, nella sfera in cui lo Stato esercita la sovranità, il mondo èuno solo, integrato e unificato dalla legge che vale per tutti: la legge chesolo lo Stato può dettare, la cui osservanza, ove occorra, può essere impostaai recalcitranti con la forza (cioè, come si dice, «coercitivamente»).

In questa definizione si deve notare il collegamento tra l’uso della forzae l’osservanza della legge. Lo Stato usa la forza di cui dispone noncasualmente e capricciosamente, colpendo qua e là a vanvera, bensí quandoil diritto che esso stesso ha stabilito è violato.

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Tutto ciò si esprime sinteticamente dicendo che lo Stato sovrano ha ilmonopolio della forza, ma non della forza bruta, bensí della forza legale.Solo lo Stato può usare legalmente la forza nei confronti dei singoli perimporre l’ubbidienza e il criterio in base al quale si giudica se la forza èlegittima o non lo è la legge. Dunque, lo Stato è giudice della legalità dellesue azioni: è, come dicono i giuristi, giudice in causa propria. Esso puòtrasformare, legalizzandolo, il proprio arbitrio: basta che cambi la legge.

Anche se la forza non è il mezzo normale, né il solo di cui dispone loStato, la forza, accettata come legittima e non subita come arbitraria, è ilsuo mezzo caratteristico. Quali siano le ragioni di quest’accettazione (adesempio, l’ossequio alla tradizione, il fascino del carisma del capo, la forzadella legalità, secondo la celebre tripartizione elaborata dal grande studiosodelle istituzioni politiche Max Weber nella sua conferenza del 1918 daltitolo La politica come professione, da cui è tratta la citazione che segue) èquestione da lasciare alla filosofia e alla sociologia politica. Qui, dal puntodi vista giuridico-costituzionale, si può dire, come semplice constatazione,che «lo stato è quella comunità umana, che nei limiti di un determinatoterritorio – questo elemento del “territorio” è caratteristico – esige per sé(con successo) il monopolio della forza fisica legittima. Giacché questo èspecifico dell’epoca presente: a tutte le altre associazioni o persone singoleil diritto alla forza fisica viene attribuito solo in quanto lo stato dal cantosuo glielo conceda: è esso l’unica fonte del “diritto” alla forza» 27.

Il monopolio statale della forza non impedisce che, in concreto, qualcunovenga sottoposto a violenza da parte di altri o venga da questi privato deibeni, della libertà o perfino della vita. Ma quando ciò accade, si ha eserciziodi forza illegittima e infatti lo Stato interviene a punire chi abbia compiutoquesti crimini. Quando invece le stesse cose sono fatte dallo Stato, inapplicazione del diritto, ciò che per i privati è un delitto diviene un diritto,un esercizio di forza legittima.

Il monopolio statale della forza legittima è una grande conquista civile:serve infatti a pacificare la vita sociale, impedendo il caos che deriverebbedai singoli che si facessero giustizia da sé. Si comprende però anche che ilmonopolio statale della forza comporta il rischio che essa sia utilizzata inmodo distorto, al fine di opprimere i cittadini inermi, come avviene negliStati dittatoriali. Per questo motivo, lo Stato sovrano presenta un voltoambiguamente duplice: il protettore benefico della vita pacifica dei cittadini

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può facilmente trasformarsi in oppressore della loro libertà. Questo pericolocostituisce uno dei maggiori problemi del diritto costituzionale: comeassicurare la concentrazione della forza e, al contempo, impedire chenuoccia e assicurare che si rivolga al vantaggio della collettività.

La sovranità, abbiamo detto, è una caratteristica dello Stato. Ma si èanche visto che lo Stato, per agire, cioè esercitare i propri poteri, devedotarsi di una organizzazione nella quale operino i suoi organi. Proprio irischi appena segnalati di degenerazione arbitraria del suo monopolio dellaforza hanno dato luogo a una pluralità di soluzioni organizzative. Chi equale organo esercita la sovranità? Le risposte possono essere varie. Ingenerale, si può dire che a seconda del bisogno di autorità, il potere sovranoè piú o meno concentrato. Nei regimi autoritari, lo Stato è centralizzato. Neiregimi liberali, la sovranità dello Stato è, per cosí dire, diluita in strutturedecentrate (per esempio, le regioni e gli enti locali), oppure può esseredivisa in piú parti, come negli Stati federali (per esempio gli Stati Unitid’America), nei quali la sovranità spetta per alcuni aspetti alla Federazionee, per altri, agli Stati membri. Ciascuno di questi “enti” o personegiuridiche, a sua volta, può essere organizzato diversamente. Vi può essereun organo che domina su tutti gli altri ed esercita il supremo potere, oppureper il timore della concentrazione eccessiva dalla quale possono derivarepericoli pei diritti e le libertà dei cittadini, il potere sovrano può esseresuddiviso tra poteri reciprocamente indipendenti che si controllano e sibilanciano reciprocamente, conformemente alle concezioni del«costituzionalismo» (si veda infra, par. IV.1).

13. Sovranità esterna.

Per sovranità esterna s’intende l’indipendenza dello Stato nei confrontidegli altri Stati e si realizza quand’esso è in grado di respingere leinterferenze nei propri “affari interni” e trattare le questioni internazionali“da pari a pari” con gli altri Stati.

La somma delle sovranità esterne porta a quella che si denomina lacomunità internazionale, cioè all’insieme degli Stati (grandi o piccoli,ricchi o poveri, potenti o deboli che siano) che si riconoscono

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reciprocamente pienamente e ugualmente indipendenti dal punto di vistagiuridico. Le loro relazioni sono regolate da consuetudini e da patti trauguali, ma non da “leggi” in senso proprio. Anche se si parla comunementedi «leggi internazionali», si deve tenere presente che la comunitàinternazionale non conosce, dal punto di vista giuridico, un potere sovranoe, quindi, nemmeno un legislatore universale capace d’imporrecoattivamente proprie leggi. La sovranità degli Stati impedisce (per ora) chevi sia. Le norme del diritto internazionale nascono o per tacita adesione(consuetudini) o per liberi accordi (trattati o convenzioni). Il che nonesclude che per mezzo di trattati plurilaterali o universali si creinoistituzioni sovranazionali alle quali, sovranamente, gli Stati che viaderiscono conferiscono il potere di adottare atti (variamente denominati)ch’essi s’impegnano a osservare, cosí come s’impegnano ad assoggettarsi asanzioni in caso di violazione (come, ad esempio, l’art. 11 dellaCostituzione italiana). Non si tratta di spoliazione di sovranità e nemmenodi rinuncia perpetua e definitiva, ma di libera adesione nell’esercizio dellasovranità. Gli Stati sovrani permangono sullo sfondo e le loro prerogativepossono essere attivate in ogni momento perché persistono comunque, siapure talora allo stato latente. Questo discorso vale con riguardo aorganizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, l’Unione Europea conla sua Corte di Giustizia che ha sede in Lussemburgo, l’Assembleaparlamentare di Strasburgo con la sua Corte europea per i diritti dell’uomoo le organizzazioni militari come la Nato. Queste istituzioni internazionalihanno alla base i corrispondenti trattati (o convenzioni) ai quali gli Statihanno «sovranamente» aderito e, quindi, senza avere perso il diritto direcesso.

La guerra è insita, come diritto, nella idea stessa di sovranità. Solo loStato mondiale (aspirazione o incubo coltivati nel corso dei secoli) potrebbesvolgere il compito di gendarme internazionale, per porre la guerra fuorilegge (fuori della legge internazionale) e mettere ordine con la forza neldisordine mondiale (lo «stato di natura» internazionale). Ma ciò è, per ora,un’utopia o un miraggio che si allontana sempre di piú. Il principio direciproca uguaglianza sovrana degli Stati può portare tanto allacooperazione consensuale quanto alla guerra, rivendicata come diritto,quando esistano conflitti d’interesse non altrimenti risolvibili. Nessuno puòcostringerli a rinunciare all’uso della forza per regolare le loro reciproche

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relazioni. Ci può essere un’autorinuncia, come è nel caso del già citatoarticolo 11 della Costituzione italiana, ma anch’essa è manifestazione disovranità. Ecco la grande ambiguità della sovranità degli Stati, non solo,come s’è visto, dal punto di vista interno, ma anche dal punto di vistaesterno.

La sovranità giuridica, tuttavia, non sempre, anzi quasi mai, corrispondea un’effettiva sovranità politica, economica e militare. Se si guarda laquestione non dal punto di vista giuridico ma da quello realistico deirapporti di forza, si deve riconoscere che vi sono, infatti, Stati chedipendono integralmente o in varia misura da altri Stati. Uno dei massimiproblemi della comunità internazionale, indicato con la formula del «nuovoordine mondiale», è quello di garantire che la sovranità giuridica siaccompagni all’effettiva sovranità politica, economica e militare. Perchésolo cosí, nell’equilibrio delle potenze, si crede che il rischio del ricorso allaguerra possa essere allontanato.

14. La crisi dello Stato.

Da un secolo almeno, si dice che lo Stato è in crisi 28. Lo Stato, comeabbiamo detto, è una creatura storicamente determinata. Come s’è formato,s’è affermato e s’è diffuso quasi per tutta la terra, cosí sarà superato nonsappiamo come, quando le condizioni storiche che l’hanno generato nonesisteranno piú e saranno sostituite da altre. Già ora, nel tempo della finedelle certezze politiche, il tempo che è il nostro, vediamo con chiarezza chelo Stato è scosso profondamente nei suoi tre elementi: il popolo, il territorioe la sovranità. Gli Stati ne sono la combinazione. Tutti e tre sono oggetto ditrasformazioni, destinate a condizionare il prodotto.

Il popolo. A lungo, gli Stati si sono appoggiati su popoli stanziali che,nella lunga durata della loro storia, sono venuti formando i cosiddetti Stati-nazione. Questa espressione indica l’esistenza di un sostrato umano,nell’insieme, omogeneo: la nazione, per l’appunto, parola che indicacomunanza di cultura, esperienze storiche e aspirazioni a lungo termine,solidarietà. Questa unità spirituale è oggetto di erosione, sotto la pressionedi due fattori dai caratteri opposti ma concordi nella cospirazione

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antistatale, l’individualismo crescente e il multiculturalismo (si veda infra,par. VIII.17).

Le società modellate dall’economia odierna stanno progressivamentetrasformando i popoli degli Stati in una uniforme massa di consumatoriomologati, tutti uguali. La massificazione, un fenomeno straordinariamenteattuale, implica l’affievolimento, fino alla scomparsa, dei vincoli societari opolitici (nel senso etimologico). Su che cosa potrà poggiare lo Stato infuturo? Quale lealtà potrà pretendere da coloro ai quali indirizza una suaautorità sempre meno riconosciuta?

Oggi, sotto la spinta di forze evidentemente invincibili, comel’insicurezza e la miseria da cui fuggire e il benessere da ricercare, prevalela mobilità, le popolazioni si spostano e si mescolano, portando con sé leloro tradizioni e le loro culture. Le cosiddette società multiculturali sono ilprodotto di questi fenomeni. È in corso un processo lungo il qualel’omogeneità sociale degli Stati nazionali è probabilmente destinata a esseresoppiantata dall’eterogeneità. L’assolvimento dei tradizionali compiti dipace, ordine e sicurezza, in vista dei quali gli Stati si sono affermati, risultaproblematico.

Il popolo coincideva con i cittadini, e fuori del popolo stavano glistranieri. Il criterio distintivo era chiaro. Gli stranieri, almeno per quantoriguarda l’Europa moderna, rappresentavano quote minoritarie all’internodella popolazione, non chiedevano integrazione ma solo ospitalitàtemporanea, erano rappresentati per lo piú da individui di ceti socialibenestanti o da lavoratori cui spettava un posto definito (magari un postodiscriminato), non gravavano sulle risorse pubbliche e non insidiavano ilgrado di benessere dei cittadini. Oggi, non è piú cosí. I diritti fondamentalidella persona umana, compresi quelli che comportano costi per lo Stato (adesempio nel campo della sanità, dell’istruzione, dell’abitazione edell’accesso al lavoro), hanno assunto una valenza universale e, dunque,rispetto a essi non è possibile discriminare i non cittadini rispetto aicittadini. Perfino rispetto ai diritti di partecipazione politica, un temporiservati ai cittadini, si avverte la pressione della nuova situazione,pressione che si manifesta nelle proposte di allargamento del diritto di votoagli stranieri residenti.

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Che cosa riservi l’avvenire, è incerto. Si fronteggiano due orientamenti:la chiusura e la repressione, da un lato; l’apertura e l’integrazione,dall’altro. In entrambi i casi, la base umana su cui pacificamente e nonproblematicamente poggiavano gli Stati è messa in discussione.

Il territorio. Anche l’ambito spaziale di esercizio della sovranità delloStato non è piú garantito dalle linee di frontiera che ancora oggi tracciano iconfini. La loro capacità di includere ciò che cade sotto il governo degliStati e di escludere ciò che gli è estraneo è, sempre piú manifestamente,illusoria. La sovranità dello Stato s’è costruita in parallelo alla sovranitàdella legge da esso promanante, nella dimensione personale e territoriale sucui l’ordinamento giuridico riesce a imporsi: rilevanza per lo Stato di tuttociò che è interno all’ambito della sovranità e irrilevanza, in linea diprincipio, di tutto ciò che è esterno. Oggi non è piú cosí. La sovranità degliStati, cioè la loro reciproca indipendenza, s’è trasformata in dipendenza e ininterdipendenza. Il controllo di molti fattori condizionanti le loro singoleesistenze sfugge agli Stati nel territorio di loro competenza. Atti eaccadimenti di natura politica, culturale, economica, tecnologica,ambientale in altre parti del mondo si ripercuotono direttamente sulterritorio di Stati che nulla possono circa le loro cause. Si trovanosemplicemente travolti dalle conseguenze.

Queste considerazioni introducono a quella nebulosa nozione di confuserealtà e intricati problemi che si denomina «globalizzazione». In generale,ciò che si indica con questa parola è un fenomeno di connessione causale,tale che situazioni di un luogo sono influenzate da accadimenti in altriluoghi, la cui distanza supera, anzi ignora, i confini d’un tempo. Laglobalizzazione non è, dunque, soltanto un fenomeno di ampliamento delledimensioni spaziali dei fenomeni sociali (delocalizzazione dei fattoriproduttivi; circolazione illimitata di capitali finanziari, tecnologie,informazioni; mescolamento di etnie e culture; diffusione di malattie,epidemie, pandemie; deperimento delle risorse dell’ecosistema, ecc.),ampliamento che tende a superare ogni confine territoriale e ad abbracciarein un’unica dinamica d’interdipendenze i popoli della terra. Se si considerache gli Stati moderni sono sorti, precisamente, nel XVII secolo, come rotturadell’universalismo dell’impero cristiano medievale, in conseguenza

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dell’orgogliosa proclamazione della loro propria sovrana autosufficienza, sicomprende l’effetto destrutturante della globalizzazione del mondo.

D’altra parte, le appartenenze o identità stanno cambiando natura. Untempo ci si definiva italiani, tedeschi, francesi, ecc., con un evidente rinvioalle radici territoriali che definivano le comunità nazionali rispettive. Oggi,non è piú cosí. All’assorbimento delle particolarità in un’unica, tendenziale“grande identità” mondiale, che modella economie, politiche e culture,creando uguaglianze e disuguaglianze, potenze e impotenze che ignorano iconfini politici, si accompagna la creazione di nuove identità, rispetto allequali i confini statali sono perfettamente irrilevanti: comunità del denaro,delle industrie, delle arti e della cultura, della ricerca scientifica etecnologica, oppure della miseria, dello sfruttamento, della denutrizioneche, dei confini tra gli Stati, s’infischiano completamente.

Anche a questo proposito, l’avvenire dello Stato è incerto. Due tendenzeopposte sono in campo: il ripristino delle sue tranquillizzanti chiusure d’untempo, attraverso politiche a favore di identità localizzate sul territorio, unterritorio tanto piú facilmente difendibile quanto piú spazialmente eculturalmente delimitato e omogeneo; oppure l’invenzione di forme nuoved’integrazione e aggregazione territoriale, in vista di unità politicheadeguate alle dimensioni dei problemi odierni che si vogliono governare. Inbreve: separazione o unificazione territoriale. Ma, il futuro potrebbe perfinoriservarci una sorpresa: che del territorio, come stabile dimensionamentodelle organizzazioni umane, si faccia semplicemente a meno, perché lerelazioni che fino a ora si svolgevano sullo spazio concreto di unitàterritoriali definite, già da oggi sempre piú si svolgono nello spazio virtualedella comunicazione su reti telematiche. Con il che, tanto le chiusurelocaliste quanto le aperture sovranazionali, come quelle federaliste,apparirebbero irrimediabilmente fuori tempo.

La sovranità. Lo Stato in quanto organizzazione politica sovrana arrancaa sua volta, e non da oggi. Innanzitutto, sul versante interno 29.L’eterogeneità sociale del tempo presente e la pressione di fattoricondizionanti esterni, cioè l’evanescenza del popolo come unità sociale eculturale e del territorio come spazio chiuso di dominio, isteriliscono ladimensione politica dello Stato e la riducono a tecnica di conservazionedell’esistente, al servizio dei poteri impolitici che ne rodono

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progressivamente la sovranità. I «governi tecnici» – piú o meno mascherati– del nostro tempo sono, per l’appunto, un segno di questi nostri tempi.

Sul versante esterno, la crisi dello Stato come organizzazione politica simanifesta nella tendenza al trasferimento di quote di sovranità aorganizzazioni di natura sovranazionale: organizzazioni come l’UnioneEuropea e le istituzioni internazionali per la cooperazione economica(Organizzazione mondiale per il commercio, Banca mondiale, Fondomonetario internazionale, ecc.). Questi organismi hanno alla base trattatiinternazionali, rispetto ai quali, nominalmente, lo Stato ha fatto valere epotrà far valere la sua sovranità, per esempio decidendo di “denunciarli” esottrarsi alle obbligazioni che da essi conseguono. Nella realtà,l’inserimento in queste strutture appare definitivo, a meno del controllodell’intero sistema di relazioni economico-politiche e di conseguenze moltogravi sulla “governabilità” del mondo. Trattandosi, inoltre, di struttureprevalentemente burocratiche nelle quali la politica stenta a farsi strada, èdifficile credere che ci possa essere una compensazione delle perdite disovranità sul versante interno con acquisizioni sul versante esterno: cioè chela sovranità statale si possa spostare in quelle sovrastrutture, combinandosicon sovranità d’altri Stati. La realtà difficile da non vedere è, a questoproposito, l’arretramento della politica a favore del predominio dellagestione amministrativa secondo criteri tecnici. La sovranità, forse, si ètrasferita qui: nei comitati, nelle commissioni, nei boards, nei consiglid’amministrazione, ecc., composti d’individui scelti per lo piú percooptazioni informali tra persone che godono della fiducia presso i grandiportatori d’interessi privati. Con il che non solo retrocede la sovranità degliStati, ma si estende a dismisura l’influenza degli interessi particolari, adanno di quelli generali, sui quali lo Stato, per secoli, ha basato la suaragion d’essere.

Rispetto a tutti e tre i tradizionali elementi dello Stato sembra, quindi,affievolirsi la forza efficiente che stava in quella radice, lo st, che abbiamovisto, nel capitolo precedente, essere il nucleo profondo dell’esperienzastorica statuale nazionale. Con questo, sembra anche venir meno il polod’attrazione e di senso dei principali concetti del diritto costituzionale. LoStato, in misura e con velocità diversa da luogo a luogo, è oggetto dilogoramento, se non di detronizzazione, come pensano coloro che parlanoormai di «morte dello Stato». La sua sovranità politica si trova a fare i conti

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con un’altra sovranità che si va affermando, a prima vista irresistibilmente,anche perché su scala mondiale: è la sovranità dell’economia volatilizzatache viaggia sulle ali della finanza, che non si sa dove sia e, quindi, ancormeno, si sa come afferrare. Che ci sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun losa. Essa ha i suoi sudditi-cittadini, le sue istituzioni e la sua forza: non unaforza definibile come politica secondo le categorie tradizionali ma, non perquesto, meno efficace nel condizionare la vita dei popoli. In questo stadio ditransizione e di sospensione dell’esperienza politica organizzata attraversolo Stato, poli politici nuovi e alternativi ancora tardano a mostrarsi in mododefinito. Da ciò deriva che, per ora, in mancanza di nuova luce, nellascienza politica e nel diritto costituzionale si torna e si ritorna sui medesimiconcetti, per quanto progressivamente svuotati di contenuto.

Per quel che riguarda l’Europa, e l’Italia in Europa, si può forse dire che,probabilmente, ci si trova su un crinale: da una parte sta la prospettivad’una cessione ulteriore di sovranità a favore delle istituzioni europee, laprospettiva europea-federalista; dall’altra sta la prospettiva opposta dellariappropriazione di quanto in passato è stato ceduto, la prospettiva detta«sovranista». Al centro della disputa si porrà l’antica questione dellasovranità. Dove, alla fine, andrà a posarsi: di nuovo sugli Stati che, peraltro,hanno abbondantemente dimostrato le loro debolezze e insufficienze nel farfronte ai compiti storici loro propri, di fronte alle sfide del mondoglobalizzato; oppure sulle istituzioni europee comuni che, per come sonovenute sviluppandosi tecnocraticamente, hanno a loro volta mostrato lapropria debolezza e insufficienza di fronte alla domanda di democrazia.Quel che possiamo dire è che non si possono fare profezie e forse nemmenoprevisioni. Si è parlato di «agonia» dello Stato moderno, un’agonia «lenta»ma difficilmente «eterna», come è stato detto ironicamente 30. Lo Statocome forma esteriore della politica forse rimarrà, ma la sua sostanza? Nelmomento della piú grave crisi dello Stato, al tempo della sconfitta delledemocrazie in Europa, furono pronunciate queste parole:

la porzione europea dell’umanità ha vissuto, fino a poco tempo fa, in un’epoca i cuiconcetti giuridici erano totalmente improntati allo Stato e presupponevano lo Stato comemodello dell’unità politica. L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine: su ciònon è piú il caso di spendere parole. Con essa viene meno l’intera sovrastruttura diconcetti relativi allo Stato, innalzata da una scienza del diritto dello Stato e

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internazionale eurocentrica, nel corso di un lavoro concettuale durato quattro secoli. LoStato come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del piú straordinario ditutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, questa fulgida creazionedel formalismo europeo e del razionalismo occidentale, sta per essere detronizzato 31.

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Capitolo quartoCostituzionalismo

1. Il Leviatano degenere.

Lo Stato sovrano sarà pure – come è detto da Carl Schmitt nel passoappena citato – una «fulgida creazione» dello ius publicum europaeum.Tuttavia i suoi caratteri sovrani gli avevano fin dall’inizio attribuito unimmenso e pericoloso potere: il monopolio della decisione politica unito almonopolio della forza – quella che, diffusa nella società, è violenza e quindiresistibile; una volta che sia concentrata nello Stato, la si considera l’unicaforza legittima e, quindi, irresistibile. Dopo averlo costruito come il grandeonnipotente e pacificatore Leviatano, le rivoluzioni liberali della fine delSettecento posero il problema della limitazione e del controllo, contro glieccessi e gli arbitrî del potere che il corso della storia gli aveva attribuito.Prima, per il sovrano il popolo poteva e doveva pregare Dio d’illuminarlo:«I sudditi non hanno ad opporre alla violenza de’ Principi, se nonrimostranze senza sedizione e sussurro, ed orazioni per la lor conversione»,sentenziava il vescovo predicatore Jacques-Bénigne Bossuet nella suaPolitica estratta dalle proprie parole della Sacra Scrittura (1709) 1. Nelcaso estremo, le teorie dell’assolutismo monarchico bene rappresentatedallo scritto Du Pape di Joseph de Maistre (1819) 2, ammettevano che sichiedesse al papa di sciogliere i sudditi dal dovere d’ubbidienza al re.Oppure, secondo le teorie dei monarcomachi – di cui esemplari sono ilVindiciae contra tyrannos (1579) di Stephanus Junius Brutus (scritto pocotempo dopo la strage degli Ugonotti nella «notte di San Bartolomeo») e ilTenure of Kings and Magistrates (1649) di John Milton (scritto nell’annodella messa a morte di Carlo I per giustificare la sua condanna) – si potevatentare il tirannicidio 3.

Quando non si consigliava semplicemente la pia rassegnazione, sitrattava, dunque, di rimedi eccezionali, sediziosi, comunque extra ordinem.

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Per la legge delle azioni e delle reazioni, non erano risposte al problemadalle quali ci si sarebbe potuti aspettare di trovare un equilibrio. A uneccesso, sarebbe seguito un eccesso opposto. La ricerca della soluzione allaquestione del sovrano degenere si orientò dall’esterno all’interno del potereche si era costruito e dotato di poteri illimitati. In breve: dal potere assolutoal potere moderato. Qui appare sulla scena «il costituzionalismo». Ilcostituzionalismo è stato il movimento intellettuale che fece suo questoprogetto, ispirandosi alle istituzioni inglesi del XVIII secolo, comeinterpretate – non necessariamente in modo fedele all’originale – in testiche hanno fatto scuola per un secolo almeno: l’ottava e la nona delle Lettresphilosophiques ou Lettres Anglaises di Voltaire e il capitolo VI del libro IX,Constitution de l’Angleterre, dell’Esprit des lois di Montesquieu.

2. Il costituzionalismo moderno.

Il costituzionalismo non coincide con la costituzione, nel senso deldocumento giuridico che indichiamo con quel nome. Ci può esserecostituzionalismo senza costituzione (il Regno Unito e lo Stato d’Israele,per esempio) e costituzioni senza costituzionalismo (gli Stati le cuicostituzioni attribuiscono ai governanti poteri illimitati, ad esempio in Asiae in Africa). Ciò perché il costituzionalismo è un ideale politico, non unconcetto giuridico. Per ragioni storiche concrete, può accadere chel’aspirazione al costituzionalismo si accompagni alla richiesta di unacostituzione formale dai contenuti conformi a questo ideale, ma talicontenuti possono venire a esistere anche in assenza, per il libero giocodelle forze politiche e per la formazione di una cultura politica adeguata.

Come ideale politico, il costituzionalismo è senza tempo. Le sue formestoriche sono variabili e limitate a fasi precise della storia politica, e si èmanifestato già nell’antichità. Come esperienza storica, il costituzionalismomoderno delle origini è superato; come idea, invece, è vivo 4. Anzi,«costituzionalismo» è forse la parola che sintetizza nel modo piúcomprensivo, sia pure come orientamento generale, l’ostilità agli abusi delpotere e l’amicizia verso la libertà dei cittadini. Cosí essa ricomprendemolti o forse tutti gli ideali politico-costituzionali del presente e del futuro,

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in una dimensione spaziale e temporale sempre piú vasta: ideali tanto piúvivi quanto piú compromessi e indeboliti dalle ragioni dei poteri che siconfrontano allo stato brado nelle e tra le società.

Stiamo parlando del «costituzionalismo moderno», con esplicitoriferimento alla distinzione del costituzionalismo degli antichi dalcostituzionalismo dei moderni di cui tratta il celebre scritto di Charles H.McIlwain 5 del 1940, dove la storia è divisa in due; oppure con riferimentoalla triade, costituzionalismo antico, medievale, moderno. L’espressione, asua volta, rinvia non per sola assonanza ma per parentela concettuale alceleberrimo Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella deimoderni (1819) di Benjamin Constant. Il costituzionalismo come idea edottrina politica non è certo nato d’un colpo, come per folgorazione, maaffonda le sue radici nella storia della costituzione inglese, idealizzata nellaFrancia del Settecento, per esempio da Voltaire nell’ottava delle LettresAnglaises (1733), da Montesquieu nel capitolo VI del libro XI dell’Espritdes lois e da Jean-Louis De Lolme nella Constitution de l’Angleterre(1771). Tuttavia, per generale consenso, è Benjamin Constant il padrenobile di quella che consideriamo essere la versione moderna di quelladottrina, non solo da tenere distinta dall’antica, ma da distinguere anchedalla versione contemporanea e, forse, da quella futura, se mai si useràancora questo termine in relazione a qualcosa che ne giustifichi l’uso. Noiveniamo da lí, ma non certo per semplice ripetizione delle origini. Il nostrocostituzionalismo non è piú quello d’allora 6 e il costituzionalismo delfuturo, se ci sarà, sarà a sua volta diverso da quello attuale.

3. Costituzionalismo moderato e classista.

La storia del costituzionalismo moderno si fa normalmente iniziare allafine del Seicento, con la «gloriosa rivoluzione» inglese e il Bill of Rights del1689, che posero fine al governo assoluto del re. Ascendenza legittima peraffinità di aspirazioni e contenuti. Tuttavia, il termine e il concettonell’Europa continentale seguirono molto piú tardi. Constant scriveall’epoca della Restaurazione e a quell’epoca risalgono i programmi dei«partiti costituzionali». Il costituzionalismo della Restaurazione, il tempo

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della sua teorizzazione e denominazione, è stato concepito come reazioneagli eventi del 1794 in Francia (la dittatura giacobina) in nome dei principîdel 1789, sintetizzati dall’articolo 16 della Dichiarazione dei dirittidell’uomo e del cittadino: «senza garanzia dei diritti e senza separazione deipoteri, non c’è costituzione». In breve: governo moderato contro arbitriorivoluzionario o, se si vuole, costituzione inglese contro (gli eccessi della)Rivoluzione francese, Montesquieu contro Rousseau, per usare quelle che,per la filologia del pensiero politico, sono certo delle semplificazioni, mache, tuttavia, indicano contrapposizioni che hanno avuto largo corso nellaclassificazione e nell’orientazione degli ideali politici di fondo della primametà dell’Ottocento.

I principî del costituzionalismo di quell’epoca erano quelli dellacostituzione liberale: governo della ragione o «governo dei principî» controla dittatura delle passioni senza freni; principî non assoluti (come quelli delpuro razionalismo à la Rousseau), ma limitati e moderati da quelli che sidissero «principî intermediari» prudenziali che preservano dal rischio delladittatura di principî tratti senza mediazioni dalla pura ragione:rappresentanza politica entro la separazione dei poteri, contro il potereimmediato del popolo; legalità e garanzia delle libertà, tribunaliindipendenti, libertà di stampa e della pubblica opinione, habeas corpus;tutte cose che costituiscono punti fermi del costituzionalismo anche delnostro tempo. La Rivoluzione in Francia, che si era dapprima rivoltatacontro i privilegi dell’Ancien Régime – questa è l’interpretazione diConstant e dei «dottrinari» della sua epoca 7 –, aveva superato il segnoscatenando il popolo «senza intermediazioni». Alla sua violenza nonavrebbe potuto non seguire – come infatti ne seguí – una reazione terribile.Operò anche in quel caso l’universale legge storica del pendolo, una leggeche già troviamo descritta in Platone 8: «Ogni eccesso suole comportare unagrande trasformazione in senso opposto: cosí nelle stagioni come nellepiante e nei corpi e anche, in sommo grado, nelle costituzioni», una leggeche proprio Constant aveva indagato nel 1797, al tempo del Direttorio, nelloscritto su Le reazioni politiche.

4. La difesa della proprietà.

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In che cosa, per il costituzionalismo di quel tempo, il segno era statosuperato dalla Rivoluzione? Innanzitutto, nell’assalto alla proprietà. Qui è ilproblema politico-sociale del costituzionalismo moderno del tempo dellesue origini: trovare una forma di governo in cui, pur in presenza d’ungoverno fondato sul popolo o sulla Nazione, cioè non piú sullalegittimazione di diritto divino ma sui desideri e le aspettative dell’uomocomune, i diritti della proprietà fossero assicurati come assiomaindiscutibile della vita sociale, e quindi fossero sottratti alle vicende dellalotta politica. Si trattava di creare una organizzazione costituzionale tale daimpedire ogni concentrazione di potere popolare che a tali diritti potesseattentare. Secondo la formula del costituzionalismo d’allora, la monarchiaunita alla Camera rappresentativa basata sull’istruzione e sul censo – conesclusione dunque della massa del popolo minuto – avrebbe dovutorealizzare il juste milieu fissato nelle Carte costituzionali d’allora, le Carte«dualiste» della Restaurazione tra cui lo Statuto Albertino.

«Tutto ciò che è nella Carta, nulla piú di quel che è nella Carta» eral’espressione dell’equilibrio non solo tra principio monarchico e principiorappresentativo, ma anche e soprattutto tra proprietari e lavoratori. In questaformula oligarchica si sarebbero volute stabilizzare e contenere le spintedemocratiche che la Rivoluzione in Francia aveva conosciuto e che sistavano diffondendo in tutta Europa. Come tutte le cristallizzazioni, anchequesta sarebbe stata o travolta da eventi rivoluzionari, dalle “passionipopolari”, come avvenne ancora in Francia nel 1848, oppure si sarebbesciolta in una visione aperta a nuovi equilibri. È ciò che avvenne nelPiemonte statutario e liberale e poi nel Regno d’Italia dei suoi primidecenni, secondo un’evoluzione moderata ma dinamica (cioè compresaentro le possibilità della «monarchia dualista», cioè «parlamentare»,segnalate e auspicate fin da subito nel celebre articolo di Cavour del 10marzo 1848 su «Il Risorgimento», dal titolo Critiche allo Statuto) 9.

5. Visione dualista della società.

Il punto centrale, al quale tutto è collegato e rispetto al quale si possonomisurare le trasformazioni del costituzionalismo, da quello di allora a quellodi oggi, è la concezione della società: allora, una concezione in termini

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duali, da una parte i proprietari e dall’altra i non-proprietari, i proletari nellaterminologia marxista, che per Constant e per i suoi contemporanei eranosemplicemente i lavoratori. Già Immanuel Kant, il filosofo della sovranitàdella ragione 10, aveva precisato la divisione: sono proprietari anche coloroche vendono un proprio opus – gli artifices, gli artisti e gli artigiani; non losono gli operarii, che lavorano mettendosi al servizio di un padrone, purammettendo che «è difficile determinare i requisiti per definire lacondizione di uomo padrone di se stesso (sui iuris)».

A ogni modo, la difficoltà pratica non eliminava l’essenziale differenzatra chi vive delle sue proprietà e chi vive vendendo se stesso in quantolavoratore, i primi in condizioni di libertà, i secondi in condizione servile:questa era la visione di fondo, considerata naturale, perfino «di dirittonaturale», una visione che ha radici nella notte dei tempi. Perché ci possaessere la libertà di alcuni, ci deve essere il servaggio di altri. Senza ilsecondo, non ci può essere la prima. Il lavoro era dunque concepito comealternativo alla proprietà: alternativo nel senso che il riconoscimento deidiritti politici ai lavoratori avrebbe costituito la minaccia somma al diritto diproprietà, cioè alla libertà, perché la libertà poteva albergare solo nella sferadella proprietà. Da qui, il suffragio ristretto, cioè il rifiuto dell’idea dicittadinanza generale. E non per ragioni contingenti, cioè per lamomentanea e rimediabile condizione d’ignoranza e d’indigenza dellemasse lavoratrici, ma per ragioni strutturali che condizionavano lasopravvivenza della libertà.

Il costituzionalismo, come dottrina politica, nacque dunque con questomarchio classista che l’oppose alla democrazia radicale à la Rousseau, ilquale sognava la libertà politica di tutti in una sorta di stato di natura che sire-instaura col contratto sociale. Il fine della democrazia di Rousseau è unaforma politica che restituisca a tutti e a ciascuno la libertà originaria laquale, nelle vicende della storia, è stata ceduta dalla maggior partedell’umanità a una minor parte («ubbidire al potere comune, restandoliberi»: la quadratura del cerchio dell’utopia rousseauiana). In questavisione radicale della democrazia 11, possono essere solo le necessitàpratiche di «sbrigare gli affari» del governo a rendere necessario che ilpotere si concentri nel «minor numero» di coloro che compongono leistituzioni.

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Il costituzionalismo s’oppone anche, per altro verso, alla sociologiamarxiana. Anch’essa assume la divisione della società in proprietari elavoratori, ma non per ragioni naturali, bensí come effetto di rapporti diproduzione storicamente determinati, rapporti che la storia e le forze che inessa operano come “levatrici” si sarebbero dovute assumere presto ilcompito di distruggere e superare.

6. Il processo di generalizzazione.

Il costituzionalismo delle origini ha compiuto un lungo cammino chegiunge fino a noi. Se non l’avesse fatto, lo considereremmo soltantoun’anticaglia, e non invece una forza ideale che tuttora alimenta aspirazionipolitiche bene viventi. Per comprendere quanto lungo sia stato il camminoideale compiuto da allora, basta aprire, solo per esempio, la nostraCostituzione al suo primo articolo: «L’Italia è una repubblica democraticafondata sul lavoro». Quello che, all’inizio della storia, era criterio diesclusione dai diritti politici – essere lavoratore e non proprietario – diventail titolo d’inclusione. Un completo ribaltamento e la sanzione formaledell’esito d’un lungo processo storico di emancipazione politica dainterpretare non come rottura in senso classista, rovesciato rispetto al sensodel costituzionalismo originario, ma come implementazione di unmedesimo processo storico. La condizione di “lavoratore”, intesa non insenso classista (su questo i Lavori preparatori della Assemblea Costituentesono chiarissimi) ma nel senso dell’articolo 4 della Costituzione, comesoggetto addetto a «attività o funzione che concorra al progresso materiale ospirituale della società», è quella che connota nel modo piú comprensivotutti coloro che convivono in società, a condizione che non siano parassiti ospeculatori sul lavoro altrui. Comprende, in altri termini, tutti coloro chesono parti attive della società e non coloro che della società si approfittano.

Che cosa c’è stato tra quel lontano esordio del costituzionalismo e questopunto d’approdo? C’è stata l’ascesa alla vita politica e alle sue istituzionidelle masse popolari, cioè del mondo del lavoro. C’è stato, in una parola,l’innesto della democrazia e quindi la “generalizzazione” dei diritti dipartecipazione politica. Noi non sottolineeremo mai abbastanzal’importanza di questo movimento storico e il carattere davvero epocale

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della sua acquisizione finale: la democrazia come reggimento di tutti daparte di tutti. Oggi, un regime che privasse dei diritti politici una parte dellapopolazione lo definiremmo radicalmente anticostituzionale; all’inizio dellastoria del costituzionalismo questa esclusione si considerava, invece, ilfondamento costituzionale necessario.

Fin dall’antichità – contro il senso comune oggi imperante – lademocrazia, che i suoi fautori considerano il «regime di tutti», ha dovutoconfrontarsi con l’accusa d’essere il regime del démos, cioè della parteinferiore o infima della società, composta da coloro che, per vivere, sonocostretti a lavorare, cioè sono schiavi del lavoro. La democrazia, in questitermini, potremmo dirla il regime dei non possidenti, indicati cosí:«agricoltori, artigiani, marinai, manovali, commercianti» 12: dunque, unaparte soltanto della società, contrapposta a quella degli ottimati, cioè deiricchi, che non hanno bisogno di lavorare per vivere. Perfino Pericle, neldiscorso sulla costituzione ateniese che introduce l’epitaffio per i primimorti della guerra del Peloponneso, parla di democrazia come del governoche «si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza», cioè nonrispetto a tutti. L’orgoglio di Atene – per il quale egli poteva dire che «noinon copiamo nessuno; piuttosto siamo noi a costituire un modello per glialtri» – non stava tanto nella democrazia come governo di tutti, quanto nellaisonomia, cioè nell’uguaglianza nell’accesso alle cariche pubbliche, «invirtú del merito»: stava dunque nel carattere aristocratico del governo, siapure un governo aperto a tutti i meritevoli 13. Aristotele, che disprezzava lademocrazia e apprezzava la politèia, giungeva coerentemente ad affermareche sarebbe democrazia anche il regime del minor numero se – sia pureimprobabilmente – i poveri fossero meno numerosi dei ricchi:

La ragione sembra dimostrare che l’essere pochi o molti sovrani nella polis è unelemento accidentale, l’uno delle oligarchie, l’altro delle democrazie, dovuto al fatto chei ricchi sono pochi e i poveri sono molti dovunque […] mentre ciò per cui realmentedifferiscono tra loro la democrazia e l’oligarchia sono la povertà e la ricchezza: dinecessità, quindi, dove i capi hanno il potere in forza della ricchezza, siano essi pochi omolti, ivi si ha oligarchia; dove invece lo hanno i poveri, la democrazia: e tuttavia capita[…] che quelli siano pochi, e questi molti 14.

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È comprensibile, allora, quel giudizio negativo, anzi la condanna, cheper secoli ha aleggiato sulla democrazia, in quanto regime violento, doveregna la legge dell’invidia e della sopraffazione dei tanti poveri neiconfronti dei pochi possidentes.

Parlando di democrazia, che oggi finalmente definiamo come il regimedi tutti, non si dovrebbe dimenticare che, storicamente, essa è stata la parolad’ordine degli esclusi, che sottintendeva la pretesa di accedere alla vitapolitica, non come fine a se stessa ma per la propria ascesa sociale, cioè perpartecipare alla cerchia dei diritti “dei tutti”. Non lo dovrebbero dimenticareinnanzitutto le vittime dei processi odierni di esclusione sociale, quando siabbandonano all’indifferenza nei confronti della democrazia e credonoperfino che sia nel loro interesse rimettere la propria sorte nelle mani diqualche oligarca, diventandone massa di manovra passiva e assecondandocosí le sempre incombenti tendenze demagogiche del potere.

La generalizzazione della democrazia non è stata un bene in sé;l’universalizzazione del suffragio, che del progresso della democrazia è ilfenomeno piú chiaro, neppure. Il fine della partecipazione politica èrisultato essere, nel corso dei decenni in cui si è sviluppata la storia delcostituzionalismo, la sua apertura alle politiche sociali. Parallelamente,anche lo Stato ha subíto una trasformazione: da potere garante dell’ordinesociale basato sulla strutturale “grande divisione” che venivadall’Ottocento, a strumento di correzione di tale strutturazione. In sintesi,potremmo dire che tra il punto di partenza d’allora e quello d’arrivo di oggic’è stata la progressiva incorporazione della «questione sociale» nellestrutture dello Stato. Questa incorporazione ha riguardato innanzitutto lestrutture politiche con l’allargamento del suffragio, esteso progressivamentealla popolazione maschile e, poi, a tutti i cittadini indipendentemente dalsesso. Le funzioni dello Stato, a loro volta, si sono estese alla protezione eal benessere dei deboli attraverso politiche a favore dei cosiddetti «dirittisociali». Le strutture amministrative sono state caricate di compiti, vieppiúcrescenti, di natura non solo autoritativa ma, come si dice, «prestazionale»,in vista dell’elevamento delle condizioni materiali e spirituali della parte dipopolazione che sta alla base della scala sociale.

Che la strada del superamento della grande divisione non sia stata esenteda grandi conflitti, e che grandi sofferenze siano state inferte e patite, non ènemmeno il caso di dire. Ma non si sarebbe potuto arrestare il movimento

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con la pura e semplice restaurazione del passato. Cosí, perfino i regimitotalitari del Novecento, che pur intendevano invertire il cammino dellademocrazia, hanno a loro modo assunto, come elemento della propriaideologia e della propria azione, il riscatto sociale delle masse deidiseredati, tuttavia in visioni organiche dello Stato (si veda supra, par. III.5),dove non c’era posto per diritti e libertà, ma solo per doveri.

Il costituzionalismo ha registrato questo cammino e ne ha incorporato leacquisizioni, nel segno della sua tradizione, cioè come diritti e nonsemplicemente come semplici cedimenti di fatto o come sempre revocabiliconcessioni alla pressione sociale, una volta mutati i rapporti di forza. Inquanto diritti della persona umana, fattori della sua dignità (una parola e unconcetto che occupa il centro del costituzionalismo attuale solo dopo latragedia del fascismo e del nazismo), il costituzionalismo ha anche sottrattole aspirazioni di riscatto sociale al ricatto politico al quale avevano dovutocedere al tempo dei totalitarismi: rinuncia ai diritti politici in cambio dipolitiche sociali. In questa sede, non è possibile entrare nel merito dei dirittifigli della generalizzazione dei diritti politici. In breve: i diritti del lavoronei confronti dei titolari del diritto d’impresa, dal diritto di sciopero a quellodi contrattazione collettiva; in genere, i cosiddetti diritti sociali, connessialla sanità, all’istruzione e alla previdenza sociale in tutte le sue forme. Uncapitolo a sé meriterebbero poi i diritti necessari a promuovere l’effettivaparità tra gli esseri umani quando una parte di essi soffre di atavichedeprivazioni, come è per la componente femminile della società rispetto aquella maschile, mentre altre endemiche discriminazioni, come quelle chehanno colpito le comunità omosessuali, sono state affrontate da ultimo nelsolco del medesimo processo di generalizzazione. Se si volesse avereun’idea piú completa della dimensione di questo processo, basterebbeconsultare le dichiarazioni che compaiono in tutte le costituzioni delsecondo dopoguerra, con formule sintetiche che certo si prestano adapplicazioni ed estensioni progressive nelle diverse condizioni storiche eculturali: formule che certamente esprimono un orientamento generale, uno«spirito dei tempi».

Per concludere su questo punto, si può dire che la vicenda delcostituzionalismo ha comportato grandi innovazioni, circa il numero e laqualità dei diritti, circa i loro titolari, circa la loro funzione promotrice

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dell’uguaglianza e della giustizia tra gli esseri umani e circa lo Stato e i suoicompiti. Grandi mutamenti che, però, non contraddicono, anziarricchiscono ed estendono, l’originario ed essenziale significato delcostituzionalismo: l’essere un insieme di tecniche a tutela contro arbitrî eingiustizie, inizialmente di natura politica e poi di natura sociale. Esso hadimostrato di essere un ideale capace di riassumere in sé lo sviluppo diun’epoca storica che giunge fino a noi.

7. Il processo di diffusione nello spazio.

Caduti i regimi totalitari del secolo scorso, la memoria scottante di quelleesperienze nefaste, che avevano avuto la loro culla dentro i confini degliStati nazionali, ma erano state diffusive della loro violenza nel mondointero, ha promosso un mutamento nella concezione dei diritti umani, unmutamento la cui portata non potrebbe essere esagerata. Leggiamo, comesegno del mutamento, la prima proposizione della Dichiarazione universaledei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle NazioniUnite il 10 dicembre 1948: «Considerato che il riconoscimento della dignitàinerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali einalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e dellapace nel mondo…» «Dignità», «membri della famiglia umana», «diritti,uguali e inalienabili», «libertà, giustizia, pace nel mondo»: i diritti umaniinfrangono i confini degli Stati nazionali. Per la prima volta nella storia,sfuggono dalla mano dispensatrice delle sovranità statali. Questo passaggiocruciale nella storia della civiltà trovava certamente le sue basi filosofichenell’universalismo cristiano e nel cosmopolitismo del tempo dei Lumi. Ma,all’inizio, nessuno aveva dubitato che, quale che ne fosse il fondamento –politico, naturale o razionale –, il «governo dei diritti», per cosí dire,rientrasse nella sfera dei diversi ordinamenti giuridici statali. Fondazioneuniversalistica e statualità particolaristica convivevano.

Da allora non è piú cosí e, se c’è voluto tempo e altro ancora ce ne vorràper trarre le conseguenze pratiche di questa svolta, era fin da allora chiaroche un diritto costituzionale dell’umanità incominciava a muovere i suoiprimi passi. Per i costituzionalisti, si è trattato di un cambiamento diparadigma nei loro studi. Il diritto pubblico – prima di tutto il diritto

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costituzionale – in origine è stato il piú statalista dei diritti, essendo la suasorgente nel nucleo interno e gelosamente custodito della sovranità. Ora, ildiritto costituzionale è forse, tra tutti i «diritti interni», il piú aperto allasovra-nazionalità, almeno per quanto riguarda il capitolo dei diritti. Lecostituzioni nazionali rappresentano le tessere di un mosaico che forma unquadro di portata universalistica, ch’esse alimentano e da cui sonoalimentate. Un costituzionalismo nazionale, limitato dai confini dellesovranità degli Stati, non avrebbe piú senso e cosí anche gli studi siorientano sempre piú in senso sovranazionale. Le ragioni dello – per dircosí – «stato costituzionale chiuso» sono largamente al tramonto.

Per la verità, qualcosa di simile, ma non identico, era già fin dall’inizio.Il costituzionalismo dalle sue origini è stato un movimento ideale cheproclamava principî universali, che andavano realizzandosi nelle politichenazionali. Chi desse uno sguardo, anche rapido, per esempio allamonumentale Storia del Parlamento subalpino, iniziatore dell’Unitàd’Italia, dettata da Angelo Brofferio per mandato di Sua Maestà il Red’Italia 15 vi troverebbe una quasi quotidiana citazione, nei lavori delParlamento Subalpino, degli exempla forniti dai coevi regimi costituzionali(Francia, Belgio e, soprattutto, Inghilterra). Questa propensione, ladefiniremmo «comparatismo» 16. Oggi, è un’altra cosa: una cosa chepotremmo definire universalismo costituzionale, cioè la consapevolezza delvalore ultra-nazionale delle nostre pur particolari esperienze nazionali e, insenso inverso, la consapevolezza del valore anche particolare delleesperienze universali. La vita e la sicurezza, la dignità degli esseri umani,l’uguaglianza e la non discriminazione, il divieto di tortura e di trattamentiinumani e degradanti, la protezione delle minoranze, i diritti di libertàclassici, i diritti civili, sociali, politici e culturali, la riservatezza della vitaprivata individuale e familiare, la partecipazione d’ogni individuo algoverno del proprio Paese: questi sono, all’incirca, i contenuti dell’odiernouniversalismo costituzionale che trovano espressione nelle costituzioni e ininnumerevoli documenti della cooperazione giuridica internazionale, aiquali – desiderabilmente – si aggiungerà presto il divieto della pena dimorte in tutto il mondo che volesse qualificarsi civile. Questi contenuti e lerelative nozioni sono per loro natura orientati alla validità generale,indipendentemente dai confini delle realtà statali. Infatti, ogni violazione di

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questi diritti, in qualunque parte del mondo, è capace di determinarerisonanze e reazioni in qualunque altra parte.

Alla dilatazione nello spazio dei principî dell’odierno costituzionalismoha dato un contributo essenziale il diritto internazionale, tramitedichiarazioni, trattati globali e regionali e giurisprudenze di tribunalisovranazionali e internazionali, i quali concorrono alla realizzazione di ciòche si è denominato «supra-costituzionalità» e, dal punto di vista di unordinamento giuridico globale, «diritto costituzionale internazionale» –qualcosa che, in prospettiva, per quanto lunga possa essere la strada,dovrebbe estendersi ai popoli di tutta la terra per la sua stessa logica interna.Che ciò si possa avverare; che gli ostacoli provenienti dalla sovranitàrinascente degli Stati possano essere superati; che le culture politiche chedividono il mondo e le concezioni dei principî suddetti possano trovareconvergenze: tutto ciò è incerto sul piano storico e non è lecito formulareprofezie. Qui si sta discutendo d’altro: della tensione intrinseca dei principîdel costituzionalismo verso la loro dilatazione senza confini territoriali, finodove si incontrano le esigenze dell’umanità alle quali esso mira a darerisposte.

Ciò che in questa sede deve essere particolarmente sottolineato, è che laspettacolare espansione del costituzionalismo del nostro tempo non sarebbestata possibile se non fosse sostenuta a partire dalle realtà costituzionalinazionali: Carte, giurisprudenze e dottrine costituzionali. Senza questohumus comune di coltura e di cultura, che, pur nella differenza delletradizioni, ha avvicinato le concezioni costituzionali della vita politica esociale, nemmeno la supra-costituzionalità o il «diritto costituzionaleinternazionale» sarebbero possibili. Leggiamo il primo punto delPreambolo dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale del 17luglio 1999, un documento altamente rappresentativo dell’evoluzioneodierna del costituzionalismo che intacca uno dei capisaldi della sovranitàstatale: il monopolio della giurisdizione penale. Vi troviamo espressa laconsapevolezza «che tutti i popoli sono uniti da stretti vincoli e che le loroculture formano un patrimonio da tutti condiviso, un delicato mosaico cherischia in ogni momento di essere distrutto». Non è questo un esplicitoriconoscimento – in relazione alle piú gravi tra le violazioni dei dirittiumani: i crimini di Stato, i delitti contro l’umanità, gli attentati alla pace e leaggressioni militari – dell’esistenza di una generale interdipendenza delle

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parti singole e dell’esigenza che in tutte le tessere del mosaico, perutilizzare l’espressione del Preambolo, lo stesso standard di rispetto deidiritti umani sia garantito, come minimo comun denominatore di civiltàgiuridica? Non tutti gli Stati accettano questa giurisdizione, in particolaregli Stati piú potenti, i potenziali vincitori in caso di conflitto e dicommissione dei reati di competenza del Tribunale. Al costituzionalismodel nostro tempo duole quest’assenza di unanimità, e sulla giustizia penaleinternazionale continua a gravare l’accusa d’essere «giustizia dei vincitori»(si veda infra, par. X.15). Anche il costituzionalismo delle origini esprimevauna «giustizia dei vincitori», la classe borghese. Aveva però gettato un semeche sarebbe fruttato. Anche il cammino del costituzionalismo internazionaleè, per diversi aspetti, solo iniziato, ma il fatto stesso che si sia mossa neisuoi confronti quell’accusa di parzialità è significativo: denunciare un limitepuò valere per superarlo.

8. Il neocostituzionalismo.

L’universalizzazione dei principî del costituzionalismo non ha mancatodi influire, in una lenta crescita di consapevolezza delle implicazioni, sullastessa nozione di costituzionalismo. Si parla oggi di«neocostituzionalismo», un movimento d’idee ancora allo stato fluido, chenon ha prodotto una dottrina consolidata e riconosciuta, ma che certamentepossiede alcuni caratteri distintivi facilmente identificabili. Ilneocostituzionalismo aspira a presentarsi come visione delcostituzionalismo adeguata ai caratteri dello «Stato costituzionale aperto»odierno.

Innanzitutto, esso prende atto dei caratteri delle costituzioni del nostrotempo, in cui campeggiano principî di carattere universale, enunciatinecessariamente con formule non solo dal contenuto generico, ma ancheaperte all’opera, per cosí dire, di “riempimento” rimessa agli interpreti.Pensiamo alle clausole che riguardano la dignità umana, l’uguaglianza, lalibertà, la giustizia. Questi concetti non sono definiti, né potrebbero esserloin astratto, interpretando le parole. Essi rimandano a storie e tradizionigiuridiche, come l’habeas corpus; o a correnti filosofiche e religiose, come

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la dignità umana; oppure a visioni del mondo, come la libertà, l’uguaglianzae la giustizia. Cosí, i concetti costituzionali finiscono per rinviare a loroconcezioni che il diritto costituzionale positivo non fornisce, né può fornire.Nel diritto costituzionale dello Stato costituzionale odierno domina poi ilsuper-principio della ragionevolezza del diritto, presente, sottodenominazioni diverse, in tutte le giurisprudenze costituzionali statali einternazionali. Nulla è meno pre-determinato di questo principio; nulla è piúdipendente da presupposti concettuali antecedenti il diritto positivo.

Tramite il rinvio a indeterminate concezioni a priori dei concetticostituzionali, le quali a loro volta dipendono da visioni del bonum etaequum, o anche solo del ragionevole, la giurisprudenza «si moralizza»,secondo l’espressione di Jürgen Habermas. Il positivismo giuridico,applicato alla Costituzione – cioè l’idea che tutto il diritto sia detto nellaCostituzione e che tutto ciò che non lo è, non esista –, si trova in affanno acomprendere quest’evidente novità. E spesso preferisce chiudere gli occhiper non dover ammettere quello che non rientra nelle sue aspettative.Soprattutto, grida allo scandalo non solo perché vi vede rischi per lacertezza del diritto, ma anche perché la moralizzazione del diritto aprirebbela strada all’ingresso nella giurisprudenza d’un rinnovato giusnaturalismo,bestia nera d’ogni positivista che si rispetti. I neocostituzionalisti, tuttavia,hanno buon gioco nel replicare che non di diritto naturale – quale che ne siala concezione – si tratta. Si tratta invece di «diritto costituzionale culturale»,una nozione diversa, frutto di apporti plurimi tra i quali possono trovarespazio, purché tolleranti rispetto ad altre posizioni, visioni ispirate anche,ma non solo, al diritto naturale. La cultura costituzionale è l’humus fecondodel costituzionalismo del nostro tempo: universalistica l’una, universalisticoil secondo.

Il neocostituzionalismo tiene conto, poi, della circostanza che i principîcostituzionali come quelli anzidetti sono, come si dirà analiticamente inseguito (si veda infra, par. VII.12), «senza fattispecie». I principî siprecisano solo in relazione ai casi concreti. In astratto, sono possibili soloparafrasi, altrettanto generiche, delle generiche formule costituzionali. Inconcreto e sotto la forza del concreto, i principî assumono un aspettopratico. Le giurisprudenze costituzionali risultano cosí caratterizzate insenso casistico. Ciò, certamente, le relativizza nell’applicazione, ma le

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generalizza nell’ispirazione e, d’altro canto, permette un articolato efecondo rapporto con le altrui giurisprudenze che affrontano casi analoghi,contribuendo alla formazione di quel contesto culturale generale comune,del quale già s’è detto. Scambi, studi, ispirazioni e citazioni incrociatecircolano per naturale tendenza, senza che siano previsti da alcun testovincolante, vincendo progressivamente le resistenze che ancorapermangono, sia pure regredendo, in certe giurisprudenze “scioviniste” diPaesi che si considerano portatrici di identità costituzionali nazionali fortiche non vogliono essere “contaminate”.

9. La diffusione nel tempo.

Il costituzionalismo si trova oggi di fronte alla sua ultima sfida, chenasce da una vitale necessità: allargare lo sguardo in un’altra dimensionefinora ignorata, il tempo.

Per introdurre quest’argomento, mi avvalgo d’una digressione presa aprestito dal volume dell’archeologo-antropologo Jared Diamond 17: la storiadi Pasqua, l’isola polinesiana a 3700 chilometri a est delle coste del Cile,scoperta dagli europei nel 1722 per l’appunto nel giorno di Pasqua, celebreper i 397 megaliti – uno dei quali raggiunge il peso di 270 tonnellate –raffiguranti giganteschi ed enigmatici tronchi umani, sovrastati da cilindri dipietra colorati di rosso. Pasqua, quando gli esseri umani vi posero piede allafine del primo millennio, era una terra fiorente, coperta di foreste, ricca dicibo dalla terra, dal mare e dall’aria, che arrivò a ospitare diverse migliaiadi persone, divise in dodici clan che convivevano pacificamente. Quando vigiunsero i primi navigatori europei trovarono una terra desolata, comeancora oggi ci appare anche se il turismo internazionale vi ha messo manocon le sue esigenze di comfort: completamente deforestata, dal terrenodisastrato e infecondo, dove sopravvivevano poche centinaia di persone.Nel 1864, quando mercanti europei vi sbarcarono per i loro affari, il numeroera ridotto a 111 individui, denutriti e geneticamente degradati. Che cosaera avvenuto e com’era potuto avvenire? C’è un rapporto tra le grandi einquietanti teste di pietra e l’estrema desolazione di ciò che le circondava?

L’enigma di Pasqua, per com’è stato sciolto dagli studiosi, è ungrandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da

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sé il proprio futuro per gigantismo e imprevidenza. La causa prima delcollasso sarebbe stata la deforestazione, cioè la dissipazione della principalerisorsa naturale su cui la vita nell’isola si basava. La foresta ospitava uccellistanziali e attirava uccelli di passo; forniva il legname per le canoe utili allapesca in acque profonde; difendeva l’integrità del territorio coltivato a ortodalle devastazioni delle tempeste tropicali. A poco a poco, le risorsealimentari vennero a mancare e la dieta si ridusse, prima, a polli e piccolimolluschi e, poi, a topi e sterpaglia. La penuria dei fattori primi della vita,come sempre accade, alimentò le rivalità e la guerra tra i clan. Nellagenerale catastrofe, si finí all’ultimo stadio, l’antropofagia.

E le teste di pietra? Sembra che abbiano avuto una parte di rilievo. Colpassar del tempo e in concomitanza con le lotte per la supremazia ches’erano accese tra i clan, da piccole che erano all’inizio, esse si feceroprogressivamente sempre piú imponenti. La piú alta, sei volte un uomonormale (Paro, quella che vediamo sulle cartoline), è anche quella costruitaper ultima, quando la catastrofe incombeva. Motus in fine velocior. Eranoun simbolo di potenza tecnologica – la tecnologia di allora – che potevaessere speso nella lotta per la supremazia politica. Ma per scalpellarle dallacava, trasportarle e drizzarle – un lavoro, per quella società in quel luogo ein quel tempo, mostruoso – occorrevano tronchi d’albero d’alto fusto perfarle rotolare e fibre legnose per fabbricare funi. Alla fine, l’isola fudisboscata e desertificata mentre, parallelamente, si erigevano statue semprepiú alte; poi, nella generale guerra di tutti contro tutti, per la maggior partefurono abbattute e spezzate. Quando tutto fu compiuto, i sopravvissutipensarono a una via di fuga dall’inferno ch’essi stessi avevano creato con leloro mani. Ma il legno per costruire le barche – ciò che avrebbe potutoessere la loro salvezza – era già stato consumato per le teste di pietra.

Pasqua è un monito. Non parla soltanto di polinesiani d’un millennio fa.Parla di noi: di sfruttamento imprevidente delle risorse, con effetti funestisulle generazioni a venire. Diamond scrive:

L’isolamento di Pasqua spiega, probabilmente, perché il crollo di questa societàossessioni i miei lettori e i miei studenti piú di quelli di altre società preindustriali. Iparalleli che si possono tracciare tra l’isola di Pasqua e il mondo moderno sono cosíovvi da apparirci agghiaccianti. Grazie alla globalizzazione, al commerciointernazionale, agli aerei a reazione e a Internet, tutti i Paesi sulla faccia della Terra

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condividono, oggi, le loro risorse e interagiscono, proprio come i dodici clan dell’isoladi Pasqua, sperduti nell’immenso Pacifico come la Terra è sperduta nello spazio.Quando gli indigeni si trovarono in difficoltà, non poterono fuggire né cercare aiutofuori dell’isola, come non potremmo noi, abitanti della Terra, cercare soccorso altrove,se i problemi dovessero aumentare. Il crollo dell’isola di Pasqua, secondo i piúpessimisti, potrebbe indicarci il destino dell’umanità nel prossimo futuro 18.

10. L’ultima battaglia del costituzionalismo: per i posteri.

Che cosa è dunque avvenuto a Pasqua? Come possiamo condensare inuna sola frase la sua parabola? Per soddisfare appetiti di oggi, non si è fattocaso alle necessità di domani. Ogni generazione s’è comportata come sefosse l’ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietàesclusive, di cui usare e abusare. Il motto di quella gente fu quello diThomas Jefferson: «The earth belongs always to the living generation», mainteso in senso opposto a quello originario. Jefferson voleva liberare iposteri (cioè la sua stessa generazione) da ogni debito verso i predecessoriper fondare la repubblica; gli abitanti di Pasqua vollero agire liberi da ognidebito nei confronti dei successori per poter divorare le res publicae. Non èvero che in ogni tempo e in ogni luogo gli esseri umani vivano solo per sestessi: oggi dobbiamo prendere atto che viviamo e moriamo non solo pernoi stessi, ma anche per gli altri, anche per coloro che ancora non sonovenuti a esistere.

Il costituzionalismo può ignorare questioni di questo genere? Se il suonucleo minimo essenziale e la sua ragion d’essere sono, in sintesi, laprotezione del diritto di tutti all’uguale rispetto, la risposta, risolutamente, èno: non può ignorarle. Fino al tempo nostro non c’era ragione di affrontarle.Ogni generazione compariva sulla scena della storia in un ambiente naturalee umano che, se pure non era stato migliorato dai padri, certamente non erastato compromesso da loro. Il costituzionalismo non ha avuto finora ragioniper occuparsi delle prevaricazioni intergenerazionali. Ma molte ragioni haoggi, e drammatiche. Per quale ragione la cerchia de “i tutti” che hanno ildiritto all’uguale rispetto dovrebbe essere limitata ai viventi e noncomprendere anche i nascituri? Basta porre la domanda per rispondere chenon c’è alcuna ragione: gli uomini di oggi e di domani hanno lo stesso

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diritto all’uguale rispetto, perché uguale è la loro dignità. Il motto diJefferson dovrebbe, nelle condizioni della vita di oggi, suonare cosí: «Laterra appartiene ai già viventi, tanto quanto appartiene ai non ancoraviventi». Cosí, il legame tra generazioni e i debiti reciproci cambianodirezione: per secoli, i figli si sono considerati debitori nei confronti deipadri; oggi, i padri si devono sentire debitori nei confronti dei figli e deifigli dei figli.

Pasqua era un microcosmo. Il suo crollo può essere visto quasi comeun’esperienza in vitro, riguardante una sottrazione, un furto, anziun’estorsione di beni ambientali. Ma non si tratta solo di questo. I furtipossono riguardare ogni genere di risorse vitali. Certo, innanzitutto, lerisorse naturali, le materie prime e le fonti energetiche della terra, oggicome mai impoverita e degradata dallo sfruttamento intensivo al serviziodella produzione in grande stile di manufatti destinati al consumo a brevetermine. Ma la stessa cosa vale anche per le risorse finanziarie, quandosiano portate ad anticipata e fittizia esistenza da politiche d’indebitamento alunga scadenza, il cui peso si scarica sulla ricchezza e sul benessere di chi,venendo dopo, di quelle risorse non si è potuto giovare, né si potrà giovare,essendo già state consumate. E vale, infine, per le risorse della materiavivente, sottoposta a manipolazioni del piú vario genere che riducono labiodiversità, espongono a rischi d’estinzione specie vegetali e animali egiungono a toccare l’esistenza dell’essere umano, promettendogli il piúmostruoso di tutti i doni, l’immortalità.

Ciò che unifica queste operazioni è la separazione nel tempo dei benefici– anticipati – rispetto ai costi – posticipati: la felicità, il benessere, lapotenza delle generazioni attuali al prezzo dell’infelicità, del malessere,dell’impotenza, perfino dell’estinzione o dell’impossibilità di venire almondo, di quelle future.

La rottura della contestualità temporale segna una svolta che non puòlasciare indifferenti la morale e il diritto. Morale e diritto non possono piúvalere soltanto in un «presente comune» 19. Il «prossimo» di cui quellenorme, finora, si sono sempre occupate («ama il prossimo tuo come testesso»; «non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te», «nonuccidere», «non rubare», ecc.) è diventato un soggetto astratto che, quandodiventerà concreto, non avrà potuto alzare la sua voce al momento in cui sicompivano azioni a suo danno. Questa rottura della contemporaneità è oggi

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uno dei problemi, o forse il problema, da cui dipende l’avveniredell’umanità.

11. Dai diritti ai doveri.

In termini giuridici, la questione che si pone al costituzionalismo è laseguente: fin dall’inizio (ricordiamo, ancora, la formula dell’art. 16 dellaDéclaration), la sua nozione chiave è stata il diritto soggettivo, dacontrapporre in vario modo al potere arbitrario. Ma il diritto soggettivopresuppone un titolare presente. «Diritti delle generazioni future» è una diquelle espressioni improprie che usiamo per nascondere la verità: legenerazioni future, proprio perché future, non hanno alcun diritto da vantarenei confronti delle generazioni precedenti. Tutto il male che può essere loroinferto, perfino la privazione delle condizioni minime vitali, non è affattoviolazione di un qualche loro «diritto» in senso giuridico. Quando (e se…)incominceranno a esistere, i loro predecessori, a loro volta, sarannoscomparsi dalla faccia della terra, e non potranno essere portati in giudizio.I successori potranno provare riconoscenza o risentimento, ma in ogni casoavranno da compiacersi o da dolersi di meri e irreparabili «fatticompiuti» 20.

Bisogna prendere atto che la categoria del diritto soggettivo, in tutte lesue varianti di significato (diritti di, da, negativi, positivi, di astensione e diprestazione, ecc.), è inutilizzabile tutte le volte in cui è rotta l’unità ditempo. È invece la categoria del dovere, quella che può soccorrere. Legenerazioni successive non hanno diritti da vantare nei confronti di quelleprecedenti, ma queste hanno doveri nei confronti di quelle; esattamentecome la condizione della madre, nei confronti del bambino quando lo portaancora in grembo. Il costituzionalismo dei diritti, senza rinunciare alla suaaspirazione centrale a essere al servizio della resistenza all’arbitrio, devescoprire i doveri, non semplicemente in quanto riflessi, cioè in quantocontroparte dei diritti, ma come posizioni giuridiche autonome che vivonodi vita propria, senza presupporre l’esistenza (attuale) delle corrispondentisituazioni di vantaggio e dei relativi titolari. Insomma, dove l’unità ditempo è rotta, i doveri «priment» i diritti, secondo il celebre incipit

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dell’ultima, anticipatrice e tutt’altro che visionaria, riflessione di SimoneWeil:

La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Undiritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde […].L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quantotale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano 21.

Il passo citato è in L’enracinement, un testo preveggente del 1943 che,come sottotitolo, porta Prélude à une déclaration des devoirs envers l’êtrehumain.

Esiste, in effetti, un movimento pro-doveri, che nasce già al tempo deglieventi della Rivoluzione in Francia, come contraltare della Déclaration desdroits (progetto di una Déclaration des devoirs de l’homme et du citoyendel 23 Germinal dell’Anno III; Déclaration des droits et des devoirs del’homme et du citoyen del 5 Fructidor dell’Anno III). Allora si trattava didefinire il profilo morale del «bon citoyen» e dell’«homme de bien», conriguardo alla società di quel tempo. L’attenzione al tempo futurodell’umanità verrà dopo, da ambienti diversi, massonici o cattolicireazionari, mossi talora da propositi ambigui. Ma non necessariamente: ilteologo Hans Küng dirige una fondazione per una «etica mondiale» cheopera sulla base di un «Progetto» che parla di diritti umani comeconseguenza dei doveri dell’umanità verso se stessa 22, e l’InterActionCouncil (una sorta di “Parlamento delle Religioni”), su iniziativa dellostesso Küng e di Helmuth Schmidt, nel 1977, ha promosso un’iniziativa afavore di una Dichiarazione universale delle responsabilità dell’uomo,d’impostazione gandhiana, indirizzata al segretario generale delle NazioniUnite e ai governi di tutto il mondo, in cui l’attenzione ai problemiintergenerazionali è al centro del documento. E non si può non rammentareche, negli ultimi anni della vita, Norberto Bobbio soleva interrompere conuna certa rudezza chi fosse venuto a parlare del suo celebre L’età deidiritti 23: «Se avessi ancora il tempo e le energie, scriverei piuttosto L’età deidoveri».

12. Istituzioni dei tempi lunghi.

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Dobbiamo riconoscere che questo mutamento di paradigma vede ilcostituzionalismo completamente impreparato. In nome dei diritti, non deidoveri, da due secoli conduce la sua battaglia. I doveri sono stati e sonotuttora la parola d’ordine dei regimi autoritari e di quelli totalitari. Questodobbiamo ricordarlo come monito, anche se c’è una differenza, ed èevidente, tra i doveri d’ubbidienza all’autorità e allo Stato e i doveri diresponsabilità nei confronti degli esseri umani, presenti e futuri 24. Tuttavia,la questione è complessa e le soluzioni sono sdrucciolevoli. Si tratta dicostruire una mentalità, una cultura, e da ciò trarre spunto per conseguenzegiuridiche adeguate.

Innanzitutto, le norme che riconoscono diritti e facoltà dovrebbero essereinterpretate, tutte le volte in cui siano alle viste conseguenze potenzialmentepregiudizievoli sulla condizione di coloro che verranno, in una prospettivaoggettiva, in base alla massima: la terra appartiene tanto ai viventi quanto ainon ancora viventi; i diritti dei primi sono condizionati dall’uguale valenzaanche per i secondi. Il che – non si può non riconoscere – comportapossibili restrizioni ai diritti attuali. I diritti, nei casi anzidetti, devonoessere intesi come beni o istituzioni di lungo periodo. Per estenderli neltempo futuro, può essere necessario ridurne la portata nel tempo presente.Conosciamo già situazioni di questo genere, nelle quali entra in gioco ilcosiddetto «principio di precauzione» vigente, in forza di norme di dirittonazionale, europeo e internazionale, per esempio in materia ambientale,energetica e sanitaria. Qui, parlando di costituzionalismo, si dice che quelprincipio dovrebbe essere assunto come elemento conformativo dell’interomodo di concepire il diritto in senso oggettivo. Il diritto costituzionale,prima d’ogni altro diritto particolare, deve essere oggi un «dirittoprognostico», che guarda avanti fin dove, nel tempo, le previsioniscientifiche permettono di gettare lo sguardo.

Cosí inteso, il principio di precauzione diventa il criterio, adeguato aitempi tecnologici che sono i nostri, per intendere due dei tre venerandidoveri di giustizia, neminem laedere e suum cuique tribuere: il «nessuno» eil «ciascuno» devono abbracciare ormai gli esseri umani di oggi e didomani. E cosí anche a proposito del terzo dovere, honeste vivere: la vitadei viventi oggi non è onesta (la parola deriva dal latino onus, dovere) setrascura di assumere la responsabilità della vita dei viventi di domani.

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Che fine devono fare, allora, i diritti dei viventi? Si devono allineare,relativizzare e talora subordinare ai diritti dei non ancora viventi. Non sonoi morti, ma i non ancora viventi, che afferrano i vivi. Avvertiamoun’esigenza, e contemporaneamente esitiamo un poco perplessi, davanti aqueste prospettive. Sappiamo quale ideologia illiberale e quale tentazione dipotere possono nutrirsi di questa inversione, quando all’ipotetico benefuturo si chiede di sacrificare il concreto bene presente.

Ma c’è dell’altro. Il giudizio prognostico non è un giudizio politico; è ungiudizio tecnico-scientifico. Ora, a parte la difficoltà forse insuperabile –data la pervasività sociale della scienza, della tecnica e dell’economia, chesi sospingono reciprocamente – di individuare scienziati e tecnici realmenteindipendenti dagli interessi immediati da sottoporre a verifica (è un aspettodel cosiddetto «conflitto d’interessi», che è in realtà commistione impropriad’interessi), la prospettiva che si apre è la tutela tecnocratica sulla politica.È una prospettiva realistica, non solo nei casi eccezionali in cui unacatastrofe ecologica, economica e finanziaria o biologica incombe e lapolitica si autosospende e, per sortire dalle difficoltà, si affida, se non allaRepubblica dei filosofi, almeno alla Repubblica dei competenti. Ma laquestione non riguarda solo e principalmente i momenti eccezionali, perchéè proprio nella normalità che dovrebbero valere le condizioni che possonoprevenire l’insorgere di situazioni eccezionali. Orbene, la politica, nella suaversione democratica come nelle sue degenerazioni populiste edemagogiche, s’incarna in istituzioni dei tempi brevi. Le decisioni devonoessere in sintonia con l’interesse prevalente che la società, nelle sue diversearticolazioni, strati sociali, corporazioni, ecc., rappresenta piú o menoautonomamente e veridicamente. È quantomeno poco probabile che, nellaconsiderazione di tale interesse, entrino con il peso che meriterebbero ansiee preoccupazioni per la sorte di società diverse, ipotetiche, lontane neltempo. A questo interesse momentaneo, infatti, la politica deve rendereconto. I momenti elettorali sono rendiconti a scadenza ravvicinata. Lerilevazioni demoscopiche, a loro volta, riducono i tempi, annullandoli. Lamiopia della democrazia, che coincide con la sua tendenza a essere cicala,cioè a dissipare le risorse pubbliche, è un grave problema, nei momenti incui occorrerebbe la virtú della presbiopia.

Fermiamoci qui. Siamo nel regno delle contraddizioni. Ilcostituzionalismo, nel quadro d’allora, era il mondo dei diritti, ma ora il

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mondo ha bisogno di doveri. Il costituzionalismo ha prodotto democrazia,ma oggi la democrazia mostra di poter essere une regime di saccheggiodelle risorse, per i viventi e per i posteri. Per questo, si ricorre a momenti edelementi di natura scientifico-tecnocratica, ma la ragione del saccheggio staprecisamente nello sviluppo della tecnica senza altro fine che se stessa.Quindi, la tecnica, per essere benefica, dovrebbe poter essere a sua voltacontrollata. Ma da chi? Dalla democrazia? È adatta la democrazia a questocompito? Il costituzionalismo, che ha portato alla democrazia, potrebberivoltarsi contro la democrazia?

Doveri e tecnocrazia fanno paura, non c’è che dire. Ma sono necessariproprio alla luce delle premesse e delle promesse del costituzionalismo, unavolta che non lo si intenda come mero egoismo dei viventi. Lecontraddizioni sono intrinseche. Saranno distruttive? Non lo sappiamo.Quel che sappiamo è che esse chiamano a un compito non facile e su unterreno incerto tutti coloro i quali, nello studio e nella pratica, richiamandosiai valori permanenti del costituzionalismo, intendono agire«costituzionalisticamente». Il costituzionalismo ha avuto una storia. Laquestione è se avrà una storia e se, per avere una storia, dovrà adattarsi ametamorfosi incompatibili con la sua storia filogenetica.

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Capitolo quintoStato di diritto e Stato costituzionale

I. Stato di diritto 1. Un concetto aperto.

Il XIX secolo è stato il secolo dello «Stato di diritto» (o – espressionisimili ma non equivalenti – État de droit, Rechtsstaat, Rule of law). Larelativa nozione è una componente essenziale del «costituzionalismo» di cuis’è detto nel capitolo precedente.

Nella tipologia delle forme di Stato, lo Stato di diritto si distingue dalMachtsstaat, o «Stato di potenza», cioè lo Stato assoluto caratteristico delXVII secolo, e dal Polizeistaat, o «Stato di polizia», cioè lo Statodell’assolutismo illuminato, orientato alla felicità dei sudditi, caratteristicodel XVIII secolo. Con queste formule si indicano tipi ideali, chiari solo nelloro concetto. Rispetto allo svolgimento reale dei fatti, si devono dare perscontate approssimazioni, contraddizioni, contaminazioni e sfasaturetemporali che queste sequenze concettuali non registrano. Esse, tuttavia,sono utili per cogliere a grandi linee i caratteri principali del succedersieffettivo delle epoche storiche dello Stato moderno.

L’espressione «Stato di diritto» è certamente una tra le piú fortunatedella scienza giuridica contemporanea. Il suo contenuto, però, è unanozione generale, anzi generica, anche se non, come talora si dice perdenunciare un certo suo abuso, un concetto vuoto o una formula magica. LoStato di diritto indica un valore e accenna solo a una direzione di sviluppodell’organizzazione dello Stato, ma non contiene in sé precise implicazionie può prestarsi perfino a usi perversi. Il valore è l’eliminazione dell’arbitriodall’ambito delle attività facenti capo allo Stato e al potere ch’essoincorpora, incidente sulle posizioni dei cittadini. La direzione è l’inversione

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del rapporto tra il potere e il diritto che costituiva la quintessenza delMachtsstaat e del Polizeistaat: non piú il diritto sotto il potere, ma il poteresotto il diritto. Lo «Stato di diritto» si invoca non solo per contestare, percosí dire, l’eccesso di forza concentrata nello Stato ma anche il suo difettod’autorità nelle situazioni in cui esso non è in condizione d’imporre la sualegge e il suo ordine a classi, ceti, partiti, sindacati, corporazioni,consorterie varie. Già da queste prime osservazioni si comprende che loStato di diritto è nemico delle “degenerazioni” e degli arbitrî cheprovengano tanto dal versante dello Stato quanto dal versante della società.

Una nozione siffatta è cosí aperta che ogni epoca, secondo le proprieesigenze, ha potuto riempirla di contenuti diversi piú o meno densi,rinnovandone in tal modo continuamente la vitalità 1. Lo Statocostituzionale stesso, che è la forma originale di Stato del nostro secolo,viene presentato spesso come una versione particolare dello Stato di diritto.Non è necessariamente una forzatura, se si considera l’intrinseca elasticitàdel concetto, pur se, per meglio comprendere, è opportuno non farsiprendere dalla seduzione delle continuità storiche e cercare invece dimettere in luce nel modo piú chiaro anche le differenze.

2. Archeologia.

Non c’è dubbio che lo Stato di diritto abbia rappresentato storicamenteuno degli elementi essenziali delle concezioni costituzionali liberali.Tuttavia, non è affatto evidente che esso sia incompatibile con altriorientamenti politico-costituzionali. In origine, anzi, la formula è stataconiata per indicare lo «Stato di ragione» (Staat der Vernunft) 2, o «lo Statogovernato secondo la volontà generale di ragione e orientato al solo scopodel miglior bene generale» 3: espressioni in linea con l’assolutismoilluminato. In altro contesto, se ne poteva dare una definizioneesclusivamente formale, legata all’autorità statale e del tutto indifferente aicontenuti e agli scopi dell’azione dello Stato. Quando, secondo una celebredefinizione dovuta a un giurista della tradizione autoritaria del dirittopubblico tedesco 4, si metteva a fondamento dello Stato di diritto l’esigenzache lo Stato stesso «fissi esattamente e delimiti le vie e i limiti della suaattività, cosí come la sfera di libertà dei suoi cittadini, alla maniera del

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diritto (in der Weise des Rechts)» e si precisava che ciò non comportavaaffatto che lo Stato rinunciasse al suo carattere potestativo o si riducesse «amero ordinamento giuridico senza propri scopi amministrativi o a semplicedifesa dei diritti degli individui», ancora non si andava necessariamentecontro l’essenza dello Stato di polizia, anche se si spostava l’accentodall’azione libera del sovrano alla predeterminazione legislativa.

3. Perversione totalitaria.

Data la possibilità di ridurre lo Stato di diritto a una formula priva disignificato sostanziale dal punto di vista propriamente politico-costituzionale, non stupisce che, all’epoca dei totalitarismi tra le due guerre,possa essersi accesa una rivelatrice discussione circa la possibilità didefinire tali regimi come «Stati di diritto» 5. A una parte della scienzacostituzionale del tempo importava di presentarsi sotto un aspetto “legale”,cosí ricollegandosi al passato, proponendosi anzi come restauratori dellatradizione: rivoluzione nella conservazione. Si trattava, per i regimitotalitari, di qualificarsi non come frattura, ma come compimento dellepremesse dello Stato ottocentesco, nel segno della legalità. Per i giuristi diregime, non c’erano difficoltà. Addirittura poterono sostenere ch’essi stessirappresentavano la «restaurazione» – dopo la caduta di autorità dei regimiliberali, conseguente alla loro democratizzazione e “sindacalizzazione” (siveda supra, par. III.14) – dello Stato di diritto, come Stato che, secondo lapropria ed esclusiva volontà espressa dalla legge positiva, opera per imporrecon efficacia il diritto nelle relazioni sociali, contro le tendenze all’illegalitàalimentate dalla frammentazione e dall’anarchia sociale 6.

Con una simile nozione priva di contenuti propri, si perveniva tuttavia auno svuotamento che trascurava ciò che, dal punto di vista propriamentepolitico-costituzionale, era invece essenziale, cioè i compiti e i fini delloStato e la natura della legge. Lo «Stato di diritto» aveva in origine unaconnotazione precisa: la distinzione tra la politica e la società comepremessa della protezione della seconda dall’onnipotenza della prima, unadistinzione in radicale contrasto con le pretese dello Stato totalitario diassorbire in sé la società tutt’intera. Tuttavia, privata di tale contenuto

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sostanziale, la qualifica di Stato di diritto si sarebbe potuta applicare inqualunque situazione in cui fosse bandito, in linea di principio, l’arbitriopubblico e privato sregolato e il potere si esercitasse “per mezzo dellalegge”, e non secondo o sotto la legge. Alla fine, tutti gli “Stati”, in quantosituazioni dotate di leggi, si sarebbero dovuti dire genericamente “didiritto” 7. Diveniva irrilevante che la legge imposta si risolvesse in misurepersonali, concrete e retroattive; che la si facesse coincidere con la volontàdi un Führer, di Soviet dei lavoratori o di Camere senza libertà politiche,invece che con quella di un libero Parlamento; che il compito dello Stato,attraverso la legge, fosse il dominio totalitario sulla società invece che lagaranzia dei diritti dei cittadini.

Alla fine, si poteva perfino giungere a un rovesciamento dell’uso dellanozione di Stato di diritto, per sradicarla dalla sua origine liberale eacquisirla alla dogmatica dello Stato totalitario, dallo Stato di diritto alloStato delle leggi, quali che esse siano. Si giunse ad auspicare che questaacquisizione rovesciata dello «Stato di diritto» da parte dello Statototalitario si considerasse, da allora in poi, come il trofeo della vittoriastorico-spirituale del totalitarismo sull’individualismo borghese e sulladeformazione che, secondo i giuristi antiliberali di allora – essa avrebbecomportato della nozione di diritto 8. E questa vittoria poteva giungere alfanatismo della legge, come mostra il caso riportato in nota 9. Il delittoscritto in una legge diviene diritto? Lo “Stato di delitto” può esserequalificato come Stato di diritto solo perché il delitto è autorizzato dallalegge? (si veda supra, par. I.2). Sí, se della legge si ha una nozione soloformale, come esercizio di un potere che vale solo per il potere.

4. Stato liberale di diritto.

Il concetto di Stato di diritto, invece, ha radici nello Stato liberale e loStato liberale di diritto è necessariamente legato a una connotazionesostanziale, relativa ai compiti e ai fini dello Stato. In questa forma di Statopropria dell’Ottocento ciò che veniva in primo piano era «la protezione e lapromozione dello sviluppo di tutte le forze naturali della popolazione, comescopo della vita dei singoli e della società» 10 (si è visto supra, par. III.5, che

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a quel tempo le «forze naturali» della popolazione erano soprattutto quelledella classe borghese). La società con le sue esigenze autonome, nonl’autorità dello Stato, è stato il punto focale della comprensione di quellaformula. La legge, da espressione della volontà dello Stato capace diimporsi incondizionatamente in nome di propri trascendenti interessi,iniziava a concepirsi come strumento di garanzia dei diritti e di limitazionedella libertà d’azione dei governi dell’epoca.

In una classica esposizione del diritto pubblico ottocentesco 11, l’idea delRechtsstaat è caratterizzata dalla legge come atto deliberato da unParlamento rappresentativo ed è specificata attraverso: a) la supremaziadella legge sull’amministrazione; b) la subordinazione alla legge, e solo allalegge, dei diritti dei cittadini, con esclusione, quindi, di poteri autonomi delgoverno capaci di incidere su di essi; c) la presenza di giudici indipendenti,competenti in via esclusiva ad applicare la legge e solo la legge allecontroversie tra cittadini e tra cittadini e amministrazione dello Stato e,anche se non detto esplicitamente, il diritto di ricorrere a questi giudici,riconosciuto senza restrizioni. In tal modo, lo Stato di diritto veniva adassumere un significato riassuntivo della rappresentanza elettiva, dei dirittidei cittadini e della separazione dei poteri, un significato particolarmenteorientato alla garanzia dei diritti contro gli abusi del potere.

In queste formulazioni, la tradizionale concezione dell’organizzazionestatale, appoggiata sul solo principio di autorità, iniziava a compiere unarotazione. Il senso generale dello Stato liberale di diritto è ilcondizionamento dell’autorità dello Stato da parte della libertà della società,nell’equilibrio reciproco che viene stabilito dalla legge. Questa rotazione èil nocciolo di una grande concezione del diritto, gravida di molteconseguenze.

5. Il principio di legalità. Excursus su “État de droit”, “Rule of law” e“Rechtsstaat”.

Si sarà notato che gli aspetti dello Stato liberale di diritto ora indicatirinviano al primato della legge, che vale per tutti, nei confronti dellaamministrazione pubblica, della giurisdizione e dei cittadini. Lo Stato

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liberale di diritto era uno Stato legislativo che affermava se stesso attraversoil principio di legalità 12.

Il principio di legalità, in generale, esprime l’idea della legge come attoregolativo supremo e irresistibile al quale non è opponibile alcun diritto piúforte, quale che ne sia la forma e il fondamento: né il potere eccezionale delre e della sua amministrazione di sospendere la legge, in nome di unasuperiore «ragion di Stato»; né la disapplicazione da parte dei giudici o laresistenza dei singoli in nome di un diritto piú alto (il diritto naturale o ildiritto tradizionale) o di diritti particolari (i privilegi locali o sociali). Ilprimato della legge segnava cosí la sconfitta delle tradizioni giuridichedell’assolutismo e dell’Ancien Régime. Lo Stato di diritto e il principio dilegalità comportavano la riduzione del diritto alla legge e l’esclusione o,almeno, la sottomissione alla legge, di ogni altra forma di normazione (o«fonte del diritto») – per esempio, dei regolamenti del governo o delleconsuetudini locali.

Ma che cosa dobbiamo veramente intendere per principio di legalità? Lalegge è la legge del Parlamento, come la intendiamo noi; oppure se è leggenel senso di “diritto”, di diritto esistono concezioni diverse. Per cercare unarisposta, possiamo utilmente iniziare raffrontando il principio di legalità ditradizione francese (tradizione dalla quale deriviamo anche noi) con il Ruleof law inglese.

In tutte le realizzazioni dello Stato di diritto, la legge è espressione dellacentralizzazione del potere politico, indipendentemente dai modi in cuistoricamente essa si sia venuta determinando, e indipendentementedall’organo o dal complesso di organi in cui tale centralizzazione si siarealizzata. L’eminente “forza” della legge («force de la loi» – «Herrschaftdes Gesetzes») si lega cosí a un potere legislativo capace di decisionesovrana, in nome di una funzione ordinante generale.

Nella Francia della Rivoluzione, la sovranità della legge si appoggiavaalla dottrina della sovranità della nazione, espressa dall’Assemblealegislativa. In Germania, in una situazione costituzionale che non avevaconosciuto la vittoria livellatrice dell’idea francese di nazione, si trattavainvece della concezione dello Stato sovrano, impersonato nel«Monarchisches Prinzip» prima e poi nel «Kaiserprinzip», sostenuto elimitato dalle rappresentanze dei ceti.

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Nella sovranità legislativa era insita la forza normativa assoluta maanche il compito di dover reggere per intero il peso di tutte le esigenze dinormazione. Massima potenza, ma massima impresa 13. Sotto questoaspetto, il principio di legalità non era che il compimento della tradizioneassolutistica dello Stato e delle concezioni del diritto naturale razionale chene erano state lo sfondo e la giustificazione 14. Il fatto che il re, nellemonarchie “dualiste” della Restaurazione, fosse prima affiancato e poisostituito nella legislazione da assemblee parlamentari cambiava le cosesotto molti punti di vista, ma non sotto quello della legge come elementoportante o forza motrice esclusiva della grande macchina dello Stato. Ilbuon funzionamento della seconda coincideva con la forza incondizionatadella prima.

La vicenda del Rule of law inglese converge con quella del principio dilegalità in Europa continentale per quanto riguarda le finalità costituzionali.Se ne prenda una nozione classica 15: a) nessuno deve poter essere punito senon per una specifica violazione della legge (law, che significa sia leggeche diritto); b) tutti sono soggetti ai tribunali comuni del regno; c) i diritticostituzionali individuali sono sotto la protezione di tali tribunali. Sonoproposizioni sintetiche che, però, si ispirano alle medesime esigenze delloStato di diritto che abbiamo trovato altrove. Ma è diversa la filogenesi.Questa storia ha un’origine tutta sua 16.

«Rule of law and not of men» è una formula corrente che evocava nonsoltanto in generale il topos aristotelico del governo delle leggi in luogo delgoverno degli uomini, ma anche il contrasto storico-concreto che ilParlamento inglese aveva sostenuto e vinto contro l’assolutismo regio.Nella tradizione europea continentale, la contestazione dell’assolutismoregio significò la pretesa di sostituire al re un altro potere assoluto,l’Assemblea sovrana; in Inghilterra la lotta all’assolutismo consistette nelcontrapporre alle pretese del re «i privilegi e le libertà» ereditari degliinglesi, rappresentati e difesi dal Parlamento. Non c’è modo piú categoricoper indicare la differenza che questo: da una parte, l’assolutismo regiovenne sconfitto in quanto regio; dall’altra, in quanto assoluto 17. Pertanto,solo nel primo caso si aprí la strada a ciò che sarà l’assolutismoparlamentare espresso con legge; nel secondo, la legge come attoparlamentare fu concepita come uno soltanto degli elementi costitutivi di unsistema giuridico complesso, il Common law, fatto di elaborazione

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giudiziaria del diritto di natura e del diritto positivo, di ragione e dilegislazione, di storia e di tradizioni inglesi.

La storia inglese, di cent’anni in anticipo su quella continentale, fece delParlamento l’organo tutelare dei diritti contro l’assolutismo regio, mentre iparlamenti continentali post-rivoluzionari seguirono piuttosto la strada dellaconcentrazione in sé medesimi della somma potestà politica sotto formalegislativa. Nell’originaria concezione inglese la legge si considerava“prodotto di giustizia”, piuttosto che di volontà politica sovrana. Ciò puòsorprendere chi ha le idee modellate sulla tradizione costituzionale europeacontinentale ma, alla stregua delle vicende storiche del costituzionalismoinglese, non ha nulla di incomprensibile 18.

La natura di organo di garanzia delle libertà inglesi si accompagnavaperfettamente, del resto, con una concezione dell’attività parlamentare piú«giustiziale» che «politica» nel senso continentale 19. Il Parlamento ingleseha origine da consessi che il re consultava per il miglioramento del dirittoesistente, consessi aventi – dal punto di vista delle teorie odierne dei poterie della loro differenziazione e separazione – incerti caratteri. L’occasioneera spesso fornita dalla cattiva prova del Common law, in rapporto a casiconcreti. Secondo le categorie attuali, si potrebbe parlare di una funzione tranormazione e giurisdizione. Il Parlamento poteva considerarsi, al modomedievale, una Corte di Giustizia 20. La procedura parlamentare non era agliantipodi rispetto a un modello giudiziario. In entrambi i casi valeval’esigenza del due process che implicava la possibilità per tutte le parti incausa e per tutte le posizioni di far valere le proprie ragioni (principioaudiatur et altera pars) in procedimenti imparziali. La funzione legislativa,dal canto suo, si comprendeva come perfezionamento del diritto esistente,piuttosto che come legislazione ex novo.

Almeno all’origine del Parlamento inglese dell’epoca moderna, nonc’era perciò un salto netto tra la produzione del diritto attraverso l’attivitàinterpretativa delle corti di giustizia e la produzione che noi denominiamo«legislativa». Del Common law è caratteristica la “estrazione” del diritto daicasi pratici 21 attraverso l’esame di «circumstances, conveniences,expediency, probability». I progressi del diritto non dipendevano infattidalla deduzione sempre piú raffinata da immutabili grandi principî razionali(la scientia iuris), ma dalla induzione dall’esperienza empirica, illuminata

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dalle situazioni (la iuris prudentia), attraverso «challenge and answer, trialand error».

Qui è tutta la differenza tra lo Stato di diritto continentale e il Rule of lawbritannico. Il Rule of law si orienta originariamente alla dialettica delprocesso giudiziario, anche se si svolge in Parlamento 22. L’idea delRechtsstaat si richiama invece alla legalità come regolarità dei procedimentidell’azione degli apparati amministrativi, al servizio della volontà sovranadello Stato. Per il Rule of law, lo sviluppo del diritto è un processo duraturo,storicamente sempre aperto, concreto, attento alle ingiustizie ches’insinuano nei rapporti sociali. Il Rechtsstaat, in quanto intesogiusnaturalisticamente o idealisticamente, rappresenta l’ideale giuridicodello Stato burocratico-amministrativo prussiano, considerato il punto piúalto, il compimento storico dell’organizzazione politica del popolo. Per ilRule of law, il diritto si sviluppa da esperienze sociali concrete. Per ilRechtsstaat il diritto ha invece l’aspetto di un sistema efficiente nel quale dacerte premesse strutturali si traggono conseguenze operative, funzionali allastruttura. Per il Rule of law, la spinta allo sviluppo del diritto vienedall’esperienza dell’insufficienza del diritto già esistente, cioè dalla provadell’ingiustizia in concreto. L’idea di diritto che fonda il Rechtsstaat trova ilsuo punto d’avvio nell’ideale della giustizia come perfetta organizzazione.L’attenzione all’ingiustizia riempie il Rule of law di concretezza e vita.L’orientamento alla giustizia allontana lo Stato di diritto dall’aderenza aicasi.

Queste contrapposizioni rispecchiano le matrici iniziali. Molte cose sonocambiate, nel segno di una certa convergenza tra i vari sistemi. Il Rule oflaw, da due secoli a oggi si è trasformato nella «sovereignty ofParliament» 23 che, indubbiamente, ha accresciuto il peso del dirittolegislativo, anche se questo non ha affatto soppiantato il Common law,come testimonia l’assenza in Gran Bretagna di codici, nel sensocontinentale. Anche se oggi non sono piú possibili contrapposizioni cosínette come quelle appena formulate, esse valgono a chiarire i caratterioriginari dello Stato di diritto continentale e a mostrare l’esistenza dialternative, nel segno di concezioni non assolutistiche della legge.

Se volessimo sintetizzare in poche parole – comprensibili alla streguadelle considerazioni che precedono – le tre diverse concezioni dello Stato didiritto, conseguenti alle diverse versioni del principio di legalità, potremmo

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dire cosí: l’État de droit è uno Stato legislativo; il Rechtsstaat è uno Statogovernativo-amministrativo; il Rule of law è uno Stato giurisdizionale.

Tre forme del pensiero giuridico. Alle tre sopra indicate concezioni delprincipio di legalità corrispondono tre modi di pensare dei giuristi, ciascunodei quali ha, per cosí dire, la sua patria. La Francia è il Paese del vincolorigoroso alla legge del Parlamento, espressione della volontà generale(secondo la formula di Rousseau). I giuristi ragionano deducendo dallalegge la volontà del legislatore. La Gran Bretagna e i Paesi di Common lawportano in sé il segno dell’origine giudiziaria della legge. I giuristiragionano dibattendo ragioni pro e contra a partire da principî e precedenti.La Germania, è il Paese dello Stato amministrativo funzionante secondo lagerarchia della sua burocrazia, i giuristi ubbidendo all’autorità. Tutto ciònon è che uno schema oggi solo orientativo. Le mentalità, gli stili, letendenze, nella realtà delle cose, soprattutto oggi, quando le matrici sonolontane nel tempo, si sono avvicinati notevolmente.

6. Il significato liberale del principio di legalità.

Il principio di legalità si caratterizza in relazione alla posizione che, difronte al comando legislativo, diversamente assumono i cittadini e lo Stato,operante per mezzo dei suoi organi amministrativi.

La sottoposizione dell’amministrazione alla legge è affermata ingenerale. Le formulazioni di questa sottoposizione, peraltro, sono statevarie e di significato non coincidente. Non era lo stesso dire chel’amministrazione dovesse essere sorretta e quindi predeterminata dallalegge, oppure, semplicemente delimitata dalla legge 24. Nel primo ordine diidee, prevalente nel «monismo» parlamentare francese secondo il quale tuttigli organi dello Stato si consideravano autorità “derivate”, derivate dallavolontà dell’Assemblea legislativa che rappresentava originariamente laNazione sovrana 25, l’assenza di leggi – leggi attributive di poteriall’amministrazione – significava per essa l’impossibilità di operare; nelsecondo, diffuso in Germania 26 e nelle costituzioni «dualistiche» dellaRestaurazione, l’assenza di leggi – leggi delimitative dei poteridell’amministrazione – comportava in linea di massima la possibilità dioperare liberamente per i suoi fini. La «previa legge», come garanzia contro

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l’arbitrio, era qui, al massimo, una buona raccomandazione valida «fin doveè possibile» 27, non un principio inderogabile. Secondo la prima e piúrigorosa concezione del principio di legalità, il potere esecutivo, privo dilegittimazione originaria, era integralmente dipendente dalla legge che –come attraverso un contagocce 28 – gli poteva attribuire volta per volta ognisingolo potere. La capacità d’agire dell’esecutivo dipendeva da leggiautorizzative ed era valida solo in questi limiti. La seconda concezione, alcontrario, manteneva all’esecutivo l’originaria titolarità dei poteri per lacura degli interessi dello Stato, circoscrivendola, eventualmente, soltantodall’esterno per mezzo di leggi limitative.

In ogni caso, però, si concordava almeno su un punto, senza di che sisarebbe irrimediabilmente contraddetta l’essenza dello Stato liberale didiritto. Per quanto si sostenesse l’esistenza presso l’esecutivo el’amministrazione di poteri autonomi per la cura degli interessi unitari delloStato, ciò poteva valere solo fin dove non si determinassero contrasti con leesigenze di protezione dei diritti dei soggetti privati: la libertà e la proprietà.Secondo una direttiva imprescindibile dello Stato di diritto, ledeterminazioni relative a questo punto sensibile dei rapporti tra Stato esocietà era oggetto di una «riserva di legge» che escludeva l’autonomiadell’amministrazione. Compito tipico della legge era considerato infatti ladisciplina dei punti di collisione tra interesse pubblico e interessi privatiattraverso, per cosí dire, la misurazione rispettiva del potere pubblico e deidiritti privati, dell’autorità e della libertà.

7. Stato liberale di diritto: tutto ciò che non è permesso è vietato; tuttociò che non è vietato è permesso.

Caratteristico dello Stato liberale di diritto è il significato della linea diconfine tra Stato e cittadini. Rispetto alla legge, la posizionedell’amministrazione è essenzialmente diversa da quella dei privati.

La legge, in vista della protezione dei diritti dei privati, non stabilisceche cosa l’amministrazione non può ma, al contrario, ciò che può. Perciò, ipoteri dell’amministrazione, nel caso di collisione con i diritti privati, non sipotevano considerare come espressione di autonomia ma come esecuzionedi autorizzazioni legislative. La stessa cosa non avrebbe potuto dirsi per i

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privati, per i quali valeva il principio esattamente opposto: il principio diautonomia, fino a quando l’autonomia non avesse incontrato il limite dellalegge. Come dice l’articolo 5 della Déclaration des droits de l’homme et ducitoyen del 1789: «Tutto ciò che non è difeso dalla Legge non può essereimpedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina».Qui, la legge è una norma non da eseguire, ma semplicemente da rispettarecome limite “esterno” della «autonomia negoziale» («negoziale», danegotium) o, come anche si diceva, della «signoria della volontà»individuale.

È dunque diverso il senso della legge nei due casi: subordinazione dellafunzione amministrativa, in vista della garanzia dell’autonomia privata;mera regolazione e limitazione dell’autonomia individuale, quando ciòoccorre alla protezione di interessi pubblici.

Questa diversa posizione rispetto alla legge, che contraddistinguel’amministrazione pubblica e i singoli privati, è la conseguenzadell’assunzione del principio di libertà come pilastro dello Stato liberale didiritto ottocentesco, accanto al principio di legalità. La protezione dellalibertà esige che gli interventi autoritativi siano ammessi solo comeeccezione, perciò solo quando la legge li prevede espressamente. Per gliorgani esecutivi dello Stato, cui non è riconosciuta alcuna originariaautonomia nei confronti dei diritti privati, tutto ciò che non è ammesso, èvietato; per i privati, invece, la cui autonomia è presupposta come regola,tutto ciò che non è vietato è permesso. L’assenza di leggi è di impedimentoall’azione degli organi dello Stato incidente sui diritti dei cittadini; è inveceimplicita autorizzazione all’azione libera dei privati. Come è stato dettoefficacemente: libertà del singolo in linea di principio, potere dello Statolimitato in linea di principio 29.

Queste affermazioni non sono che un modo di esprimere il principiofondamentale di ogni costituzione autenticamente liberale, di ogni Statoliberale di diritto: la libertà (in mancanza di leggi) dei cittadini come regola,l’autorità dello Stato (sul presupposto della legge) come eccezione 30. Taleprincipio costituisce il rovesciamento dello «Stato di polizia», fondato nonsulla libertà ma sul “paternalismo” dello Stato, e dello Stato totalitario chenega ogni distinzione tra Stato e società, per assorbire la seconda nel primo.In generale, secondo queste visioni l’azione dei singoli è ammessa solo aseguito di autorizzazione rilasciata dall’amministrazione, previa valutazione

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della corrispondenza con l’interesse pubblico: dunque, una società dipersone libere, oppure una società di minorenni o di funzionari.

8. Stato di diritto e diritto come ordinamento.

Quanto alla conformazione giuridica dello Stato, il principio di legalitàvaleva a tradurre in termini costituzionali l’egemonia della borghesiaespressa dalla Camera rappresentativa e, contemporaneamente, il regressodell’esecutivo e dei giudici, da poteri autonomi ad apparati subordinati allalegge.

Rispetto alla giurisdizione, si trattava di sanzionare definitivamentel’avvenuto declassamento dei corpi giudiziari ad apparati di meraapplicazione di un diritto da loro stessi non deciso e l’eliminazione diqualunque loro funzione di contrappeso attivo del tipo di quello esercitatonell’Ancien Régime dai grandi corpi giudiziari. Rispetto all’esecutivo, il cuipotere era stato monopolio del re e dei suoi ministri, si trattava di unaquestione piú difficile, non solo politicamente ma anche costituzionalmente.Esisteva infatti l’esigenza di garantire il cosiddetto «privilegiodell’amministrazione», conformemente alla sua natura di attivitàautoritativa per la cura degli interessi pubblici. Difficilmente questa suafunzione eminente, collegata ancora a quanto restava della sovranità regia,poteva portare a una piena assimilazione alla posizione di un qualunquealtro soggetto dell’organizzazione statale. L’amministrazione era sísubordinata alla legge ma difficilmente, date le premesse costituzionali chederivavano dalle radici assolutistiche degli ordinamenti europeicontinentali, si poteva pensare che essa, come regola, scendesse su un pianodi parità con gli altri soggetti e con questi si legasse con veri e proprirapporti giuridici tra uguali con i cittadini, sotto le medesime regole postedalla legge.

Questa considerazione spiega le difficoltà e i limiti e, in ogni caso, leparticolarità che, pur nell’ambito dell’affermazione generalizzata delprincipio di legalità, si manifestarono per tutto l’Ottocento a propositodell’affermazione piena del principio di legalità nei confrontidell’amministrazione. Esse furono massime quando si trattò di organizzare

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concretamente la supremazia della legge attraverso controlli efficaci edesterni all’amministrazione stessa, cioè attraverso i controlli giudiziari 31.

Ma, pur con le difficoltà che incontrarono ad affermarsi pienamente,entrambe le valenze del principio di legalità, verso i giudici e versol’amministrazione (sempre tentata a superarli), operavano nel senso diassicurare la coerenza delle manifestazioni di volontà dello Stato, in quantotutte uniformate dal necessario rispetto della legge. Non si avvertiva,invece, l’esigenza di assicurare l’uniformità e la coerenza delle leggi stesseperché, nello Stato liberale, i padroni della legislazione, cioè la classeborghese dell’epoca, esprimevano visioni politiche nella sostanza“naturalmente” coerenti. Questo punto è di capitale importanza. Qualunqueordinamento giuridico, per essere tale e non una mera somma di regole,decisioni e provvedimenti sparsi e occasionali, deve esprimere un’intrinsecacoerenza, deve cioè essere riconducibile a principî e valori sostanzialiunitari. Altrimenti, si determinerebbe una sorta di “guerra civile” nel dirittovigente, premessa di anarchia nella vita sociale (si veda infra, parr. VI.1,VI.2 e VIII.19).

L’egemonia borghese si esprimeva nella legge alla quale, perconseguenza, era riconosciuto il primato fra tutti gli atti giuridici e ancherispetto ai documenti costituzionali di allora. Le Carte costituzionalidualistiche della Restaurazione, per lo piú attraverso vicende nonchiarissime dal punto di vista giuridico ma assai esplicite dal punto di vistapolitico-sociale, erano degradate a «costituzioni flessibili», cioè nonprotette nei confronti delle modifiche stabilite con legge. Come si disse, lecostituzioni di allora – cioè i compromessi tra monarchia e borghesia, perquanto previsti come «perpetui e irrevocabili», e in assenza di espliciteprevisioni di procedure per la loro modifica – dovevano considerarsi per laborghesia – e solo per questa – un punto di partenza, non di arrivo 32 (poi lamodificabilità con legge dello Statuto giocò a favore del fascismo e dellesue riforme costituzionali). Rimaneva un elemento di intangibilità, maquesto valeva in un’unica direzione, contro il «ritorno indietro» alleconcezioni assolutistiche, e non avrebbe potuto impedire alla legge dellaborghesia di «andare avanti» nella protezione dei propri interessi 33.

Le leggi, dunque, occupando il posto piú alto nell’edificio del diritto,non avevano sopra di sé alcuna regola giuridica che servisse a stabilire

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limiti e a mettere ordine. Ma non ce n’era bisogno. La legge tutto potevagiuridicamente poiché materialmente era vincolata a un contesto politico-sociale e ideale definito e omogeneo. Qui stavano le garanzie dei limiti edell’ordine nelle leggi, senza bisogno di alcuna misura giuridica previstaper assicurarli. Una società politica “monista” o “monoclasse” come quellaliberale del secolo scorso, le condizioni del proprio ordine le portava al suointerno.

Naturalmente, le considerazioni che precedono non sono che unadrastica schematizzazione e semplificazione di vicende anche moltodifferenziate, svoltesi con caratteristiche e a ritmi diversi nei vari Paesieuropei continentali. Ma in genere si può concordare nell’osservare unmovimento univoco: cioè nella garanzia dell’ordine borghese e nelcontrasto delle forze che avrebbero potuto metterlo in pericolo. Ilproletariato e le sue organizzazioni sociali venivano per il momento tenutilontano dallo Stato attraverso la limitazione al diritto di voto.

La coerenza della legislazione era dunque a priori assicuratanell’essenziale dalla coerenza della forza politica che la esprimeva. Essa eraassunta come presupposto dell’ordinamento, un suo carattere al tempostesso politico e logico. In base a questo presupposto, si poteva ritenere chele singole disposizioni di legge fossero come particelle costitutive di unedificio coerente e che l’interprete, facendo ricorso ai suoi principî portanti,potesse ricavare, attraverso semplici operazioni intellettive, tutte le normenecessarie per risolvere tutte le possibili controversie.

Questo è il fondamento dell’interpretazione sistematica e dell’analogia,due metodi dell’interpretazione che, nel caso di «lacune», cioè di mancanzadi disposizioni espresse per risolvere una controversia giuridica,consentivano d’individuare la norma occorrente, in coerenza con il“sistema”. La sistematicità si accompagnava perciò alla cosiddettacompletezza del diritto.

Noi non potremmo capire il significato pregnante di questa concezionese pensassimo alla legge come qualcosa di analogo alle leggi checonosciamo oggi, numerose, mutevoli, frammentarie, contraddittorie,occasionali. La legge per eccellenza era allora il codice, il cui modellostorico, per tutto l’Ottocento, sarà rappresentato dal Codice civile diNapoleone Bonaparte (si veda supra, il Prologo). Nei codici si trovavanoriunite ed esaltate tutte le caratteristiche della legge. Riassumiamole: la

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volontà positiva del legislatore capace di imporsi su tutto il territorio delloStato nei confronti di tutti i cittadini; la razionalità del sistema in cui ogninorma trovava la sua collocazione (la ragione-razionalità della borghesialiberale, assunta come punto di partenza); il carattere deduttivo dellosvolgimento delle norme; alcuni principî fondamentali quali la tutela dellaproprietà e la protezione della libertà nei confronti dell’autorità, lasistematicità e la completezza dell’ordinamento. Il codice è davverol’impresa rappresentativa di un’epoca del diritto 34.

Non che i regimi liberali non conoscessero altre leggi che queste.Soprattutto nei confronti degli strati sociali esclusi, le costituzioni flessibiliconsentivano interventi d’eccezione (stato d’assedio, bandi militari, leggieccezionali, ecc.) per contenere la contestazione politica e cosísalvaguardare il fondamento di omogeneità sostanziale del regimecostituzionale liberale. Tali interventi, consistenti in misure ad hoc,irriducibili ai principî, temporanee e concrete – in contrasto quindi con icaratteri essenziali della legge, secondo i canoni giuridici liberali –, siconsideravano fuori dell’ordinamento, come atti episodici incapaci dicontraddirne la fondamentale unità e omogeneità di ispirazione del diritto.

9. Stato di diritto e positivismo giuridico.

La concezione del diritto adeguata allo Stato di diritto, al principio dilegalità e alla nozione di legge di cui abbiamo parlato era il «positivismogiuridico», scienza della legislazione positiva. La concezione indicata daquesta formula presuppone una condizione storico-concreta: laconcentrazione della produzione del diritto in una sola istanzacostituzionale, l’istanza legislativa. Il suo significato è una riduzione ditutto ciò che appartiene al mondo del diritto – cioè le istituzioni e i lorocompiti, i diritti e i doveri dei singoli e i principî di giustizia – a ciò che lalegge dispone. Questa semplificazione conduce a una conseguenza:l’attività dei giuristi concepita come un semplice servizio della legge, senon addirittura come sua semplice esegesi, alla ricerca della volontà dellegislatore.

Una «scienza del diritto» ridotta a questo non avrebbe potuto rivendicarealcun autonomo valore, ma solo una funzione servente. A questa visione del

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diritto e della sua «scienza» fu rivolto il celebre motto di disprezzo: treparole di rettifica del legislatore e intere biblioteche vanno al macero 35.

Questa vocazione della scienza del diritto è quella che si è affermata colpositivismo acritico nel corso dell’Ottocento e – anche se c’è una distanzatra questa rappresentazione della realtà e la realtà stessa 36 – resiste ancoraoggi, come un residuo, nell’idea che, per lo piú inconsciamente, hanno di sestessi i giuristi che fanno uso del diritto in pratica (in primo luogo i giudici).Ma è, per l’appunto, un residuo spiegabile solo come vischiosità storica. LoStato costituzionale ha fatto giustizia di questa inerzia mentale.

II. Stato costituzionale. 1. La legge detronizzata.

A chi consideri il diritto del nostro tempo, di certo non riuscirà diriscontrare i postulati essenziali dello Stato di diritto legislativo. Lo Statocostituzionale non è semplicemente una specificazione o un arricchimentodello Stato di diritto legislativo. È una novità di certo riconducibile allavicenda storica del costituzionalismo e alla sua aspirazione alla regolazionedel potere per sottoporlo a limiti e garanzie, ciò di cui abbiamo già trattato.Ma l’entità della trasformazione deve indurre a pensare a un vero e propriomutamento strutturale.

La novità capitale riguarda la posizione della legge. Essa, per la primavolta in epoca moderna, viene messa in rapporto di conformità e quindisubordinata a uno strato piú alto di diritto, stabilito dalla Costituzione. Lalegge è stata “detronizzata”. Di per sé, questa innovazione potrebbeapparire, e in effetti è apparsa, come una semplice integrazione dei principîdello Stato di diritto che porta a termine il programma di integralesoggezione al diritto di tutte le funzioni ordinarie dello Stato, compresa lalegislazione. Con ciò, si potrebbe dire, viene a realizzarsi nella sua formapiú piena possibile il principio del governo delle leggi, in luogo del governodegli uomini, principio frequentemente considerato una delle basiideologiche dello stesso Stato di diritto 37. Tuttavia, se dalle affermazionigeneriche si passa alla considerazione comparativa dei caratteri concretidello Stato di diritto dell’Ottocento e dei caratteri dello Stato costituzionale

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attuale, ci si accorge che, altro che di un completamento, si tratta di unaprofonda trasformazione che coinvolge necessariamente perfino laconcezione del diritto e la sua funzione pratica.

Lo Stato costituzionale è la risposta che storicamente è stata data a dueproblemi che si sono manifestati in maniera acuta nel corso del secoloscorso: a) la moltiplicazione e la complicazione delle sue funzioni e dellesue norme, e b) il suicidio dello Stato di diritto legislativo.

2. La legge, l’amministrazione e i cittadini.

Nel tempo presente non vale come nel tempo originario dello Stato didiritto la distinzione tra la posizione dei singoli privati edell’amministrazione rispetto alla legge: una distinzione che è stata ilfondamento, addirittura il tacito presupposto dell’ordine giuridico liberale.Oggi sarebbe problematica la riproposizione in termini generali delladoppia regola che costituiva la base di senso del principio di legalità: libertàdel singolo in linea di principio, potere dello Stato limitato in linea diprincipio. Questa regola, di cui sopra si è parlato, è ormai erosa in entrambele direzioni, verso i privati e verso l’amministrazione.

Il vincolo dell’amministrazione alla previa legge è in crisi, una crisi chederiva dal superamento della funzione prevalentemente “di ordine” degliapparati dello Stato, cioè della funzione di garanzia particolare e concretadelle regole giuridiche generali e astratte attraverso atti applicativi (divieti,autorizzazioni, abilitazioni, decisioni, provvedimenti, ecc.), edall’assunzione di compiti di gestione diretta di grandi interessi pubblici. Sipensi, in generale, ai «servizi pubblici», come l’istruzione, la sanità, laprevidenza sociale, il risparmio. È lo «Stato imprenditoriale» in cui dominanon l’applicazione della legge, ma l’autonomia funzionale rispetto alloscopo. L’esercizio delle funzioni attive di gestione di interessi pubblicidetermina la necessità di complessi apparati organizzativi operanti secondola loro logica intrinseca, determinata da regole aziendalistiche di efficienza,da esigenze tecniche obbiettive di funzionamento, da norme deontologichedelle rispettive professioni e da interessi sindacali degli addetti. Questoinsieme di regole è espressione di una logica, intrinseca all’organizzazionee refrattaria alla normazione estrinseca. C’è qui un importante fattore di

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crisi del principio tradizionale di legalità 38. Chiunque rifletta sulla propriaesperienza, quando entra in contatto con le grandi organizzazioni prepostealla gestione di interessi pubblici, come per esempio la sanità o l’istruzione,sarà certo in grado di formulare molti esempi della forza ineluttabile diquella che potremmo dire la concreta «legislatività dell’organizzazione». Difronte a essa, il principio di legalità, cioè la predeterminazione legislativadell’azione amministrativa, è fatalmente destinato a retrocedere. Perfino losvolgimento di compiti amministrativi rivolti alla garanzia di diritti – sipensi ancora al settore della sanità e dell’istruzione – può frequentementecomportare restrizioni dei diritti non necessariamente predeterminategiuridicamente e, correlativamente, ampliamenti della sfera di azionediscrezionale degli apparati. In ciò sta la vanificazione del compito“liberale” della legge, in quanto regola della collisione tra autorità e libertà.

L’autonomia funzionale dell’amministrazione ripristina situazioni disupremazia necessarie allo svolgimento delle funzioni, nell’ambito di leggiche semplicemente indicano compiti, autorizzando implicitamente i poteriche si rendono necessari, volta a volta, per la loro realizzazione. In questicasi, non potrebbe parlarsi, se non a costo di un fraintendimento, di meraesecuzione della legge. In presenza di obbiettivi sostanziali di ampiaportata, indicati attraverso formulazioni di massima, la cui realizzazionecomporta una quantità e una varietà di valutazioni operative non dominabilein via preventiva, la legge si limita a individuare l’autorità pubblica e adautorizzarla ad agire in vista di un fine di interesse pubblico. Per tutto ilresto, l’amministrazione opera facendo uso di una sua specifica autonomiastrumentale, i cui confini, sul lato del rispetto delle posizioni soggettive deisoggetti terzi, risultano fondamentalmente incerti. Questa tendenza sottocerti aspetti potrebbe apparire un regresso a situazioni pre-liberali. Essaspiega le numerose istanze a favore di dichiarazioni settoriali dei diritti, nonnecessariamente legislative (dell’ammalato, dello studente, degli utenti ingenerale), garantiti da appositi “tribunali”, estranei all’organizzazionegiudiziaria dello Stato e inseriti nella logica dell’organizzazione cui siriferiscono: ad esempio, i codici etici dei diritti e dei doveri degli ammalati,degli studenti e dei docenti nei diversi ordini di istituti scolastici e neidiversi ordini professionali. Nulla di nuovo, per quanto riguarda le esigenzedi garanzie; molto di nuovo per quanto riguarda l’impotenza delle leggi e laloro surrogazione con altre modalità di regolazione: di fronte al riprodursi

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di situazioni di supremazia amministrativa, si manifesta un recupero in altreforme delle esigenze dello Stato di diritto.

In questi casi, infatti, è proprio dell’amministrazione e non della legge di«individuare l’area su cui deve spiegare i propri effetti nel momento in cuila applica» 39. Sarà cosí l’amministrazione a stabilire anche la linea diconfine tra la sua autorità e la libertà dei singoli. Ciò è particolarmenteevidente (e necessario) nei casi ormai numerosissimi in cui alleamministrazioni sono conferiti compiti a metà strada tra l’azione e laregolazione: i compiti di programmazione. Essi incidono normalmente nelcampo dell’attività economica: proprio un campo “privilegiato” della legge,secondo la concezione della legalità propria dell’Ottocento.

Inoltre, c’è uno smarrimento del senso originario della legge anchesull’altro lato del confine, quello dei privati. La loro originaria posizione dilibertà è andata affievolendosi in numerosi settori del diritto non piú ispiratialla premessa liberale dell’autonomia come regola e del limite legislativocome eccezione. Accade non solo che la legge intervenga a finalizzare, cioè– come si dice – a «funzionalizzare» la libertà individuale a fini collettivi(come è nel caso della proprietà e della iniziativa economica: ad esempio,artt. 41 sgg. della Costituzione), autorizzando l’amministrazione a metterein opera misure conformative dell’autonomia privata. In determinati settoriparticolarmente rilevanti rispetto alla connotazione sociale dello Statocontemporaneo, viene negato il principio della generale libertà salvi i limitidi legge. Vengono invece posti generalizzati divieti che possono essererimossi da norme o provvedimenti particolari, in situazioni specifiche espesso dietro pagamento di somme a vario titolo giustificate. Si pensi alleattività che hanno a che vedere con l’utilizzazione di beni scarsi di interessecollettivo, e perciò particolarmente preziosi (il suolo, i beni urbanistici eambientali in genere). La tendenza, in questi casi, è di considerarlegeneralmente vietate, salva autorizzazione in presenza di condizioni dicompatibilità con l’interesse pubblico precisato in programmi pubblici, davalutarsi caso per caso a opera dell’amministrazione, e a condizione delpagamento a carico del privato di somme compensative dell’incidenza sullacollettività della utilizzazione privata del bene.

A una logica non dissimile è poi presumibilmente destinata a ispirarsi –nei casi in cui il diritto riuscirà a stabilire il suo primato – la disciplinagiuridica delle applicazioni della tecnologia a un altro bene prezioso per la

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società, la vita e la salute. Ciò che ha a che vedere con gli interventiartificiali sulla vita umana (commercializzazione dei farmaci,manipolazioni genetiche, riproduzione, espianti e trapianti di organi,interruzione volontaria della gravidanza, suicidio ed eutanasia) è – e ancorpiú sarà – regolato in base a divieti generalizzati, salve le eccezionipositivamente stabilite. In questa forma, di fronte ai pericoli di una libertàsenza responsabilità, risorge l’appello a una sorta di paternalismo di Statodel quale forse, in campi come questi, non si può fare a meno.

Per questi motivi è difficile, oggi, ragionare in generale alla stregua dellepremesse dello Stato liberale di diritto. La questione del significatoattribuibile all’assenza di leggi ha perciò da risolversi a seconda dei diversisettori dell’ordinamento giuridico, in alcuni dei quali soltanto si potràsostenere l’esistenza di norme generali di libertà sottintese, mentre in altri sidovrà riconoscere se mai l’esistenza, per cosí dire, di norme generali didivieto. La regola liberale classica, che vuole che le attività private sianosempre lecite purché non espressamente vietate dalla legge, viene in varicasi rovesciata nel suo contrario e, comunque, non può piú essere affermatain via generale. I caratteri liberali della legge, come eccezione rispetto allacondizione di libertà “naturale” presupposta a favore dei singoli privati,dunque, oggi non esistono piú come regola generale. Disancorata da questocontesto di riferimento, nel quale la legge operava come traccia del confinetra due ambiti ben distinguibili, quello dell’autorità pubblica e quello dellalibertà privata, essa ha perso il senso dell’orientamento, divenendo temibileper l’imprevedibilità del suo uso.

3. Occasionalità delle leggi.

Quando parliamo della legge con riguardo al nostro tempo, occorretenere presente che parliamo di una cosa completamente diversa dal nómosdel tempo antico o dalla legge nella quale i legislatori all’epoca dellerivoluzioni di fine Settecento si compiacevano di riversare la loro ragionepolitica. Già qualche accenno in proposito abbiamo incontrato inprecedenza. Nel piccolo romanzo di Victor Hugo Novantatré 40 troviamouna descrizione del pathos che accompagnava la loi. Cosí è descritta la sala

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della Convenzione, alle Tuileries, dove sedevano i legislatori che andavanomettendo il mondo sulla linea retta della legge della ragione universale:

Sopra un lato della tribuna, incorniciato di legno nero, era appeso al muro un cartelloalto nove piedi che, su due riquadri separati da una specie di scettro, recava laDichiarazione dei diritti dell’uomo; sul lato opposto, uno spazio vuoto che piú tardi fuoccupato da un cartello simile, contenente la Costituzione dell’anno II, i cui due riquadrierano separati da un gladio. Al di sopra della tribuna, sovrastando l’oratore,sventolavano, uscendo da un profondo palco a due piani traboccanti di spettatori, treimmense bandiere tricolori disposte quasi orizzontalmente, appoggiate a un altare sulquale si leggeva: LA LEGGE. Dietro l’altare si levava, come sentinella della libertà diparola, un enorme fascio romano, alto quanto una colonna. Statue colossali ritte contro ilmuro fronteggiavano i rappresentanti del popolo. Alla destra del presidente, Licurgo;alla sua sinistra, Solone; al di sopra della Montagna, Platone.

«[…] sotto il primo piano, occupato dall’Assemblea, l’intero pianterrenodel palazzo costituiva una sorta di lungo corpo di guardia zeppo di fasci difucili e letti da campo delle truppe di ogni arma che vegliavano attorno allaConvenzione» e alla sua funzione legislatrice.

Il tempo nostro è quello d’una invasione di leggi e leggine, spessodestinate a durare lo spazio d’un mattino, di cui è difficile individuare unastabile ragion d’essere. Non sappiamo neppure quante sono le leggi vigenti:diecine o centinaia di migliaia? Anzi: non sappiamo neppure come contarle:leggi che si sovrappongono le une alle altre, modificandole qua e là, per ilpassato e per il futuro, per questa o quella categoria di destinatari. Comecomputarle? Dal 1996, ogni anno si pubblica un «Osservatorio sullefonti» 41 da cui deriva un quadro impressionante della ipertrofia di cui soffrela legge 42. Si tratta di un fenomeno generalmente deprecato. Tuttavia, lamera deprecazione senza esito significa che non si tratta di una deviazionedalla retta via, ma di una condizione strutturale, con la quale bisogna fare iconti, prendendola per quello che è, eventualmente per razionalizzarla. Ilresto sono ciance. La crisi in cui versano tutti i tentativi di “codificare” lenorme di diritto in grandi testi organici è la manifestazione saliente diquesto cambiamento.

L’ipertrofia legislativa si accompagna alla “polverizzazione”, attraversola moltiplicazione di leggi a carattere settoriale e temporanee, cioè «a

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generalità ridotta o a basso grado di astrattezza» 43, fino all’estremo delleleggi-provvedimento e delle leggi meramente retroattive, nelle quali unintento regolativo in senso proprio è totalmente assente: invece di norme,abbiamo misure provvisorie, emergenziali. Le ragioni della dissoluzioneattuale delle caratteristiche classiche della legge, su cui ci si soffermeràanaliticamente piú avanti, possono in sintesi essere colte soprattutto inrelazione ai caratteri della società attuale, segnata da un’estesadiversificazione di gruppi e strati sociali, tutti partecipanti al «mercato delleleggi» e minacciata da fattori d’instabilità che le società d’un tempo, piústatiche dell’attuale, non conoscevano. La legge, oggi, piú che a regolare eprevedere il futuro è chiamata a dare risposte a emergenze insorte nelpassato.

A ciò deve aggiungersi anche la sempre piú marcata“contrattualizzazione” dei contenuti della legge. L’atto creativo di dirittolegislativo è l’esito di processi politici di natura transattiva, nei qualioperano numerosi soggetti sociali particolari (gruppi di pressione, sindacati,partiti, lobbies). Il risultato di questo processo a piú voci è per sua naturasegnato dai caratteri della occasionalità. Ciascuno di tali attori, quandoritiene di aver acquisito forza sufficiente per spostare a proprio favore itermini dell’accordo, richiede nuove leggi che sanciscano il nuovo rapportodi forze. Questa occasionalità è la perfetta contraddizione della generalità edell’astrattezza delle leggi che un tempo si volevano legare alla razionalitàgenerale e non alle pressioni degli interessi particolari.

In questa situazione, si riduce il valore della legge come fattore diordine. Essa è piuttosto espressione di un disordine, al quale cerca di porrerimedi ex post factum con sempre nuovi interventi che si accavallano,spesso contribuendo ad aumentarlo.

4. L’ordinamento giuridico come problema.

Alla polverizzazione delle leggi si aggiunge l’eterogeneità dei suoicontenuti. Il pluralismo delle forze politiche e sociali in campo, ammessealla competizione per l’affermazione delle proprie istanze nelle strutturedello Stato democratico, conduce all’eterogeneità dei valori e degli interessiespressi nelle leggi. La legge – a questo punto della sua storia – non è piú

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l’espressione pacifica e pacificatrice di una società politica al suo internocoerente, ma è manifestazione e strumento di competizione e confrontosociale; non è la fine ma il proseguimento di un conflitto; non è attoimpersonale, generale e astratto, coincidente con interessi obbiettivi,coerenti, razionalmente giustificabili e generalizzabili, cioè, se si vuole,“costituzionali” dell’ordinamento. Diviene invece atto personalizzato (nelsenso di proveniente da gruppi individuabili di persone e rivolto ad altrigruppi egualmente individuabili) che persegue interessi particolari.

La legge, insomma, non è piú garanzia di stabilità, ma diviene essastessa strumento e causa di instabilità. Le conseguenze dell’occasionalitàdelle coalizioni di interesse che la esprime vengono a loro volta moltiplicatein ragione del numero progressivamente crescente di interventi legislativirichiesti dalle nuove condizioni costituzionali materiali. L’accesso allo Statodi forze numerose ed eterogenee che richiedono protezione attraverso ildiritto solleva pretese continue di regole sempre nuove e di interventigiuridici sempre piú diffusivi di sé in settori precedentemente lasciatiall’autonoma regolazione dei meccanismi sociali spontanei, come l’ordineeconomico, o lasciati alla libera iniziativa individuale, come era labeneficenza, oggi affiancata o sostituita dall’intervento pubbliconell’assistenza e nella sicurezza sociale. In questi campi, nei quali le leggioperano soprattutto come misure di sostegno di questo o quel soggettosociale e sono determinate piú da mutevoli rapporti di forza che da disegnigenerali e coerenti, l’instabilità è massima e grande diviene l’esigenza diprotezione dell’occasionalità delle coalizioni d’interessi che muovono lalegislazione.

L’estesa “contrattualizzazione” della legge, di cui si è già parlato,determina situazioni in cui la maggioranza legislativa politica è sostituita damutevoli coalizioni legislative degli interessi che operano attraverso sistemidi do ut des. La conseguenza è il carattere compromissorio del prodottolegislativo, tanto piú in quanto la contrattazione sia estesa a forze numerosee portatrici di interessi eterogenei. Le leggi contrattate, per poter conseguirel’accordo politico e sociale al quale mirano, sono contraddittorie, caotiche,oscure e, soprattutto, esprimono l’idea che tutto – al fine dell’accordo – siasuscettibile di transazione tra le parti, anche i valori piú alti, i diritti piúintangibili 44.

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Oltre che dal pluralismo politico-sociale che si manifesta nella legge delParlamento, gli ordinamenti attuali risultano poi anche da una molteplicitàdi fonti che è a sua volta espressione di un pluralismo di ordinamenti“minori” che vivono all’ombra di quello statale e non sempre accettanopacificamente una posizione di secondo piano 45. Si è parlato, a questoproposito, di «governi particolari» o «governi privati» che costituisconoordinamenti giuridici settoriali o territoriali. Di tali ordinamenti, alcunipossono essere considerati nemici di quello dello Stato e perciò combattuti,ma altri possono essere assunti a concorrere con le norme statali performare un ordinamento a composizione plurima. La statualità del diritto,che era una premessa essenziale del positivismo giuridico del secolo scorso,è cosí messa in discussione e la legge spesso si ritrae per lasciare campiinteri a normazioni di origine diversa, provenienti ora da soggetti pubblicilocali, conformemente al decentramento politico e giuridico che segnacaratteristicamente la struttura degli Stati odierni, ora dall’autonomia disoggetti sociali collettivi, come i sindacati dei lavoratori, le associazionidegli imprenditori, nonché le associazioni professionali. Tali nuove fonti deldiritto, sconosciute nel monismo parlamentare del secolo scorso, esprimonoautonomie inidonee a incanalarsi in un unico e accentrato processonormativo. La concorrenza delle fonti, che ha sostituito il monopoliolegislativo del secolo scorso, costituisce cosí un altro motivo di difficoltàper la vita del diritto come ordinamento.

Uguale negli esiti, ma opposta nelle ragioni, è infine la sovrapposizionealle norme di matrice statale di una congerie di norme di matrice sovra-statale, che implicano una restrizione della sovranità normativa dello Stato.Il fenomeno piú massiccio è rappresentato dalle norme che provengonodalle strutture politiche europee: Unione Europea (UE), e sistema dellaConvenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dellelibertà fondamentali (CEDU), aventi ciascuno il proprio giudice dellaconformità del diritto nazionale a quelle sovranazionali di cui essi sonogaranti – Corte del Lussemburgo e Corte di Strasburgo. I fenomenidisgregativi che si sono accennati a proposito delle leggi nazionali siriproducono anche a questo livello superiore, con ulteriori conseguenzecaotiche nel campo delle norme giuridiche. La linearità e la certezza deidiscorsi dei giuristi circa le norme giuridiche ch’essi maneggiano sonoscomparsi da tempo.

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Nelle condizioni che si sono appena descritte, l’idea che le leggi e lealtre fonti del diritto, nel loro insieme, costituiscano di per sé unordinamento – come poteva essere nel secolo scorso – è oggicompletamente da scartare. Ma l’obbiettivo della riconduzione a unità ètanto forte in quanto si senta l’esigenza di una compensazione della crisi delprincipio di legalità, determinata dall’accentuata perdita di senso,polverizzazione e incoerenza della legge e delle altre fonti del diritto.

5. Il compito unificatore della Costituzione. Il principio dicostituzionalità.

Non si deve pensare che questa inesausta fucina che produce insovrabbondanza leggi e leggine sia una perversione transitoria della nozionedel diritto. La fabbrica delle leggi corrisponde a una situazione strutturaledelle società attuali. Il XX secolo è stato definito come quello del«legislatore motorizzato», in tutti i settori dell’ordinamento giuridico,nessuno escluso. Il diritto, da allora, si è «meccanizzato» e «tecnicizzato» diconseguenza 46. A questi effetti distruttivi dell’ordine giuridico si cerca oggidi porre rimedio da parte delle costituzioni contemporanee attraverso laprevisione di un diritto piú alto, dotato di valore cogente anche per l’attivitàdello stesso legislatore. L’obbiettivo è quello di condizionare e quindicontenere, orientandoli, gli sviluppi contraddittori della produzione deldiritto, generati dall’eterogeneità e dalla occasionalità delle pressioni socialiche su di esso si scaricano. La premessa, affinché questa operazione possaavere successo, è il ristabilimento di una nozione di diritto piú profonda diquella alla quale il positivismo legislativo l’ha ridotta.

Poiché l’unità dell’ordinamento non è piú un dato di cui si possasemplicemente prendere atto, ma è divenuto un difficile problema, l’anticaesigenza di sottoporre l’attività dell’esecutivo e dei giudici a regole generalie stabili si allarga fino a investire la stessa attività del legislatore. Eccoallora la necessità di ancorarla a un insieme di valori e principîcostituzionali superiori sui quali, malgrado tutte le differenze, si realizzi unsufficientemente ampio consenso sociale. Il pluralismo non degenera inanarchia normativa a condizione che, al di sopra della divisione circa le

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strategie di autoaffermazione particolare dei gruppi sociali, vi sia unaconvergenza generale su alcuni aspetti strutturali della convivenza politica esociale e questi si prestino a essere messi in sicurezza, consacrandoli in untesto non disponibile da parte degli occasionali signori della legge.

La legge, un tempo misura esclusiva di tutte le cose nel campo deldiritto, cede cosí il passo alla Costituzione e diventa essa stessa oggetto dimisurazione. Viene detronizzata a vantaggio di un’istanza piú alta. Equest’istanza piú alta assume ora il compito immane di reggere in unità e inpace intere società divise al loro interno tra forze in competizione. Uncompito inesistente un tempo, quando la società politica era, o sipresupponeva che fosse, in se stessa unita e pacifica. Il principio dicostituzionalità è, nella nuova situazione, ciò che deve assicurare ilperseguimento di questo compito di unità.

6. Costituzione sovrana e costituzione sottana.

Con queste considerazioni, però, il tema del diritto nello Statocostituzionale è appena introdotto poiché la questione che si tratta dimettere a fuoco riguarda la natura di questa unificazione. Se pensassimo,con una trasposizione dal vecchio ordine concettuale, a una meccanicaunificazione dall’alto al basso, attraverso una forza giuridicagerarchicamente superiore che dalla costituzione si sviluppa unilateralmentee deduttivamente, pervadendo tutte le altre subordinate manifestazioni deldiritto, saremmo completamente fuori strada. Verremmo a riproporre unoschema che semplicemente sostituisce alla sovranità concreta del sovrano(un monarca o una assemblea parlamentare) che si esprimeva nella legge, lasovranità astratta della costituzione. Ma una simile sostituzione non èpossibile e ci distrarrebbe dalla comprensione dei caratteri dello Statocostituzionale odierno.

Si può dire che ciò che caratterizza lo «Stato costituzionale» odierno èprima di tutto la registrazione del pluralismo (sul concetto, si veda infra,parr. VI.11 e 12). La costituzione è una ricognizione del pluralismo e unasua «messa in forma» 47. Lo Stato costituzionale odierno è fondato sulladiversità delle sue forze costitutive e sulla varietà di contenuti ch’esse

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immettono nell’ordinamento giuridico. Le differenze culturali e d’interesseche sono la ragione della frammentazione e dell’instabilità della legge sonoa loro volta la ragione delle costituzioni democratiche del nostro tempo.Queste differenze devono essere composte in una qualche unità di gradosuperiore. Ci si può esprimere dicendo che l’esigenza prima e l’«unità digrado superiore» cui la costituzione deve corrispondere sono la convivenzadella e nella pluralità. Con la costituzione non si registrano semplicementetutte le differenze: si escludono quelle non integrabili in unità e, di quelleintegrabili, si pongono le condizioni e i limiti della loro convivenza.

Un tempo si poteva pensare la legge come «atto sovrano», come “attodel sovrano”, come forza unilaterale che mette fine a ogni discussione: italex. Della costituzione del nostro tempo non si può dire la stessa cosa: essanon opera al di sopra, ma nelle fondamenta dell’ordinamento giuridico; essaapre, non chiude, la competizione, per cosí dire, distribuendo le carte eregolando le procedure affinché il confronto e la concorrenza si svolganocorrettamente. In certo senso, sta alla base; è, come si dice, «normafondamentale». Deve porre i principî: principî, nel senso di punti da cui siprincipia, a partire dai quali le componenti della società possonolegittimamente muovere per trovare soddisfazione nella legge. Che ilrisultato sia spesso un “compromesso”, non è uno scandalo, ma laconseguenza del pluralismo costituzionale.

In breve: la sovranità della legge è stata sostituita dalla fondamentalitàdella costituzione. Pensare alla costituzione come «un grado in piú didiritto» sovrapposto al diritto legislativo significa proporre un’ideamonarchico-gerarchica della costituzione, contraddittoria rispetto al tempodemocratico-pluralista odierno.

La costituzione, dunque, in certo senso, “sta sotto” la vita politica: si puòdire che è “norma sottana”. In altro senso rispetto al passato, si può peròanche dire che è “norma sovrana”: precisamente in quanto ammette leposizioni e i soggetti conciliabili ed esclude quelli inconciliabili, e traccia lemodalità del corretto svolgersi la competizione tra loro, le cosiddette«regole del gioco» (con l’avvertenza che “il gioco” politico-costituzionalenon ha molto di “giocoso”). In questo senso, si può dire che nello Statocostituzionale odierno i caratteri propriamente costituzionali lo riguardanodal basso, per quanto concerne la competizione; per lo svolgimento della

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competizione e i soggetti che vi possono partecipare, lo riguardanodall’alto.

7. Suicidio dello Stato legislativo.

Se lasciamo da parte la kelseniana riduzione dello Stato a diritto (si vedasupra, par. I.7) e la conseguente perdita di significato dell’espressione«Stato di diritto» perché tutti gli Stati sono «di diritto» in quanto identificaticon la legge che è da esso creata, le altre nozioni che si richiamano a questoconcetto presentano connotazioni di giustizia materiale. E questeconnotazioni, come è soprattutto evidente nel Rule of law (si veda supra,par. V.I.5), sono destinate a trasformarsi, col maturare di nuove convinzionie aspirazioni. Si consideri, per esempio, questa definizione, data conriferimento alla odierna situazione costituzionale:

«Stato di diritto» può essere definito come la versione dello Stato moderno europeoche, sulla base di una filosofia individualistica […] e attraverso processi di diffusione edi differenziazione del potere, attribuisce all’ordinamento giuridico la funzione primariadi tutelare i diritti civili e politici, contrastando a questo fine l’inclinazione del potereall’arbitrio e alla prevaricazione 48.

Lo Stato di diritto finirebbe con coincidere con lo Stato dei diritti.Oppure, consideriamo queste altre proposizioni, con le quali si distingue trauna rule-book conception (noi diremmo una concezione puramenteformale) e una right conception del Rule of law (o dello Stato di diritto):

esso [lo Stato di diritto] significa la garanzia dei valori fondamentali di moralità egiustizia e l’esistenza di diritti umani, con un appropriato bilanciamento tra questi e lenecessità della società. […] il Rule of law non è soltanto l’ordine pubblico, è invece lagiustizia sociale basata sull’ordine pubblico. La legge esiste per assicurareun’appropriata vita sociale. Ma la vita sociale non è uno scopo buono in sé. Essoconsiste nel permettere ai singoli di vivere dignitosamente e di sviluppare la propriapersonalità. Ciò che è sotteso a questa concezione sostanziale del Rule of law sonol’essere umano e i diritti umani, con un adeguato bilanciamento tra i differenti diritti e

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tra i diritti umani e le necessità della società come tale. Il Rule of law sostanziale è ilrule di una legge adeguata, che bilancia le necessità della società con quelle degliindividui. Questo è il Rule of law che costituisce un bilanciamento tra i bisogni sociali invista dell’indipendenza della polis, l’eguaglianza sociale, lo sviluppo economico el’ordine interno, da una parte, e i bisogni dell’individuo, la libertà della sua persona e lasua dignità, dall’altra parte. Il giudice deve proteggere questo concetto di Rule of law,cosí ricco di contenuto 49.

Lo Stato di diritto sarebbe, cosí, lo Stato di giustizia.Quale che ne sia la definizione sostanziale, la storia l’ha contraddetta

radicalmente. La legge e la sua forza (armata) sono state strumenti per tuttele avventure del potere, quale che esso sia, democratico o antidemocratico,liberale o totalitario. La «forza di legge» è stata al servizio, di volta in volta,della ragione rivoluzionaria dei giacobini; del compromesso moderato tra ilmonarca e la borghesia liberale, contro il socialismo; dell’autoritarismoliberale della fine dell’Ottocento; delle riforme democratiche dell’inizio delNovecento e delle dittature di destra e di sinistra che ne sono seguite. Lalegge era la legge, benefica o malefica, moderata o crudele che fosse, enessun diverso diritto le si poteva contrapporre. Lo Stato che operavasecondo leggi era, per ciò solo, legale e legittimo. Il fascismo e il nazismo,come abbiamo visto, cercarono perfino di fregiarsi del titolo “scientifico” diStati di diritto, e lo poterono fare perché la forza di legge, di per sé, nondistingue diritto da delitto. Sotto governi d’ogni tendenza che, a ognilatitudine del mondo, fanno della violenza legalizzata la loro arma politicad’elezione, i trattati di diritto costituzionale parlano imperterriti di Stato didiritto, e lo possono fare quando e perché la legge ha rinunciato a esserequalcosa di sostanziale e si è resa disponibile a essere qualsiasi cosa perchiunque la possa prendere nelle sue mani. Affaristi, avventurieri, ideologifanatici e perfino movimenti criminali, organizzati con tecniche efficaci perla conquista spregiudicata del potere, hanno preteso legittimità per le loroazioni alla stregua di leggi fatte da loro stessi, per mezzo del controllototale, che avevano acquisito, delle condizioni della produzione legislativaincondizionata: apatia culturale, opinione pubblica artefatta, fattori tecniciparlamentari e governativi. Con la conseguenza che i poteri ch’essivenivano attribuendosi potevano certo dirsi legittimi nel senso di legali,essendo al contempo scientificamente qualificabili come usurpazioni, cioè

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poteri autoproclamati e autoconferiti per mezzo di leggi prostituite. Con ilche si è giunti al colmo: la legalità divenuta modo d’essere non solo diuomini di potere-per-il-potere, ma di veri e propri gangster, abili nell’usarela democrazia come trampolino di lancio, secondo non solo l’analisiscientifica di un sistema come quello nazista 50, ma anche secondo lavibrante denuncia di Bertolt Brecht 51 e perfino secondo l’ammissione diuno che certo se ne intendeva per esperienza diretta, Carl Schmitt. Egli,considerato incontestabilmente uno dei grandi giuristi del secolo scorso,coinvolto e, finita la seconda guerra mondiale, messo sotto processo inquanto ideologo della presa del potere di Hitler e del partitonazionalsocialista, scrisse alcuni brevi testi autobiografici e autoapologeticiin cui, quale componente dell’intellighenzia d’allora, dice d’essere stato«facile preda d’una compagnia di congiurati» 52, in verità dotata d’unformidabile sostegno di apparati industriali e finanziari di efficientiideologhi, tra cui Schmitt stesso in prima linea, che operavano per legge.Alla fine del dramma di Brecht, il capo dei gangster comanda: il lavorodeve essere legale, e Schmitt commenta: «La legalità finisce qui comeparola d’ordine di un gangster. Essa aveva incominciato comeambasciatrice della divinità della ragione» 53.

L’aspetto spaventevole insito nella legge come arbitrio legalizzato simanifestò allora a sufficienza. La memoria delle brucianti e umiliantiesperienze legali di allora ha reso le generazioni successive prudenti ediffidenti, perfino nei confronti della legge regolarmente votata inParlamento o deliberata direttamente dal popolo in referendum. La stessademocrazia, con le sue istituzioni e le sue procedure, aveva dimostrato dinon essere l’ultima e definitiva garanzia contro l’arbitrio, avendoconsentito, nel rispetto (per quanto molto discutibile) delle sue regole, lapresa del potere da parte di autocrazie totalitarie (il fascismo, il nazismo,ecc.). La fiducia nel giusto legislatore non poteva piú essere accordataacriticamente a nessuno, nemmeno al legislatore che si avvale di proceduredemocratiche. Il tema della giustizia era destinato a spostarsi dalla legge aldiritto, dalla lex allo ius: una distinzione che ha pervaso nei secoli l’interaesperienza giuridica, che tuttavia il positivismo legalista da un secolo emezzo aveva oscurato.

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8. Supplemento di diritto positivo?

Ma, per stabilire fondamenta, porre limiti e organizzare cautele, ognialtro strumento diverso dalla legge era andato perduto da un secolo emezzo. Nelle «società di massa», il diritto antico delle piccole cerchieumane, il «diritto sociale», era stato distrutto da gran tempo. I rapportisociali non potevano piú fondarsi su un ethos spontaneamente condiviso. Loius al quale i regimi fascisti si erano appellati per travolgere le istituzionidello Stato di diritto di origine liberale (l’istinto vitale del popolo tedesco, ilsuo sangue e la sua terra; la romanità del popolo italiano, il suonazionalismo, ecc.) si era rivelato un mito perverso, dagli effetti esiziali,che non aveva fatto altro che rendere assoluto e arbitrario il potere. D’altrocanto, in nessuna delle sue forme – teologica o razionale – il diritto naturaleera proponibile in società secolarizzate e pluraliste. Non c’era piú modo diprodurre legittimità se non, per l’appunto, attraverso le procedure dellalegislazione. La previsione di Max Weber: la legalità come unica formacontemporanea della legittimità, sembrava essersi realizzata pienamente,spianando la strada e alimentando forme degeneri di potere al tempo stessolegale e totalitario 54. A parte la dimensione internazionale, lo strumento adisposizione per tentare di limitare e stabilizzare la legislazione era, allora,ancora soltanto una legge, ma una legge dotata di valore e di una “forza”maggiori di quelli ordinari, il valore e la forza costituzionali. Allecostituzioni che si dissero «rigide» ci si affidò, scrivendovi cataloghi didiritti inviolabili e principî di giustizia inderogabili, e prevedendo in essameccanismi e organi di garanzia: procedure e cautele speciali per cambiarle;capi di Stato «garanti della costituzione», come sono i presidenti dellaRepubblica previsti da molte costituzioni; tribunali e corti costituzionali, dicui si discuterà piú avanti.

9. Un circolo vizioso?

Non c’era evidentemente altro da fare. Il positivismo giuridico, cioè lariduzione del diritto a sola legge positiva, precludeva ogni soluzione diversada quella di porre un’altra legge, la legge piú alta. Ma era davvero lasoluzione? Il seme del dubbio stava già in una piccola, profetica frase detta

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da Joseph de Maistre, il critico della Rivoluzione dell’89, da posizionitradizionaliste: «Come può dirsi che la Costituzione vincola tutti, sequalcuno l’ha fatta?» Come può impedirsi che quel qualcuno – individuo,assemblea o popolo –, come ha posto la costituzione, cosí la sospenda, laeluda, la violi o la modifichi, al di fuori delle garanzie che la costituzionestessa ha posto per difendersi da tutto questo? C’è una contraddizione,un’aporia, un circolo vizioso. Come si può contare sul potere per difendersidal potere? Le Carte costituzionali sono sí una garanzia, ma non ultima,solo penultima. L’elemento “politico”, cioè derivante dalla volontà concretadi chi dispone del potere di farsi valere, è semplicemente concentrato espostato in alto, nell’atto e nel momento costituente. Del resto, ancora deMaistre, col pensiero rivolto alle vicende del potere in Francia, avevaammonito: una costituzione scritta è un concorso sempre aperto a chi nescriverà una migliore 55, imponendola per forza.

Questo è il paradosso del costituzionalismo del nostro tempo; questo ilsuo sommo problema: prima dei contenuti, occorre fissare i fondamentidella costituzione. Se la costituzione, di cui molti parlano, ha da esserequalcosa di diverso da un pallido e beffardo inganno del potere, la ragionedeve essere cercata in ciò che la sostiene, non nella forza che la pone. E quiAntigone ritorna a far sentire la sua voce. Le leggi, e tra queste lacostituzione, possono molto ma non tutto. Esse formano come unagrandissima costruzione, ma non piú solida di un castello di carte, in quantoil loro fondamento sia posto solo in se stesse: cioè, in ultima analisi, nelpotere che legifera. Antigone ammonisce ancora: senza ius, la lex, anche lalegge che si vuole rivestita dei piú alti attributi, può diventare arbitraria e, altempo stesso, tirannica; con ciò, alla fine, può rovinare su se stessa. Lascommessa del costituzionalismo sta tutta qui: nella capacità dellacostituzione, posta come lex, di diventare ius; fuori dalle formule, nellacapacità di uscire dall’area del potere e delle fredde parole di un testo scrittoper farsi attrarre nella sfera vitale delle convinzioni e delle idee cheabbiamo care, senza le quali nessun gruppo umano può esistere e vivere, senon sotto la costrizione della forza ancorché legale, e alle quali si aderiscecon calore.

10. Costituzione e legittimità.

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Per usare ancora una terminologia dal significato di per sé intuitivo (cheverrà spiegata infra, par. VI.6), la costituzione, nel suo senso profondo, puòdirsi un tentativo di restaurare la legittimità nel diritto, insieme alla sualegalità. Sarà pur vero, come è stato detto, che la legittimità restaurata non èche un paradiso artificiale. Ma il primo compito di chi agisce per lacostituzione è, per l’appunto, di trascendere la volontà politica da cui essanasce nel tempo nostro, che è quello in cui il diritto è prodottoartificialmente, per trasformarla in forza culturale, vivente conimmediatezza e spontaneità; di trasferire progressivamente la costituzionedall’area della decisione politica che divide, crea inimicizie e conflitti aquella consensuale della cultura politica diffusa che ricompone fratture eassorbe il deinòs, l’elemento tragico e divisivo che è nell’essenza dellalegge. Si tratta di mostrare che essa può appartenere culturalmenteall’ambito dello ius, del diritto, piuttosto che all’ambito della lex, dellalegislazione.

Naturalmente, per sostenere questa possibilità – la rinascita dello iusattraverso la costituzione – occorre mostrare che essa non si può ridurre auna legge come le altre, nemmeno a una “super-legge”, come il positivismolegalistico ci invita a fare, per esempio attraverso la configurazionedell’ordinamento giuridico come un insieme di norme legislative poste sugradini diversi di una medesima scala (la concezione gradualistica dellefonti del diritto). Se cosí fosse, come di solito si ritiene che sia, se davverola costituzione non fosse che una manifestazione, tra le tante, della legge –anzi: la manifestazione piú eminente della legge –, il tentativo di ricostruireil diritto e contrastare il degrado della legge sarebbe infruttuoso.

11. Storicità della nozione di costituzione.

Ma questa riduzione della costituzione a legge in forma costituzionale 56

è fondata? Esistono ragioni per sostenere l’irriducibilità della costituzionealla legislazione? E queste ragioni sono tali da consentire di ascrivere lacostituzione al campo dello ius? È ciò che discuteremo qui di seguito, conquesta premessa, che è anche una cautela: non esiste una e una sola nozionedi costituzione. Le concezioni in proposito mutano col mutare dei tempi e

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delle condizioni politiche e sociali; l’adeguatezza di tali concezioni devedunque essere verificata non come corrispondenza a un’idea astratta, macome congruenza rispetto a situazioni storico-concrete. La costituzione dicui parleremo ora è quella che le società democratiche si sono date almomento della loro ricostruzione, all’inizio del tempo che si è aperto dopola seconda guerra mondiale, con la diffusione dei principî di democrazia,libertà e uguaglianza in contesti sociali e politici pluralisti.

La storicità e relatività della nozione di costituzione può essereconstatata mettendo a confronto le definizioni date nel passato. Esse nonsono né vere né false in assoluto. Sono piú o meno adeguate alle epoche o,meglio, alle interpretazioni politiche delle epoche in cui furono formulate.Lasciando da parte le nozioni antiche e limitandoci alle costituzionidell’epoca moderna, ecco qualche esempio: «Le società in cui la garanziadei diritti non è assicurata e la divisione dei poteri non è garantita nonhanno costituzione» 57; «La costituzione di un Paese sono i rapporti effettividi forza esistenti in quel Paese: un re al quale obbediscono l’esercito e icannoni, ciò è una parte della costituzione; una nobiltà che esercitaun’influenza sulla corte e sul re, ciò è pure una parte della costituzione; isignori Borsig, Egels ecc., i grandi industriali in genere sono parti dellacostituzione; i banchieri Mendelsohn, Schilke, la borsa, rappresentano unaparte della costituzione» 58; «La costituzione è lo statuto nazionale delloStato» 59; «La costituzione è l’organizzazione dei poteri pubblici» 60; «Lacostituzione è la legge nella quale si svolge il processo di integrazione chedà vita allo stato» 61; «La costituzione è la decisione d’insieme sul tipo esulla forma dell’unità politica» 62. Oppure, guardando la costituzione nonper quello che è ma per coloro che la fanno, si è detto che essa è opera del«potere costituente», che si distingue dai «poteri costituiti» 63; oppure,ancora, che «la costituzione è ciò che è dichiarato tale dai giudicicostituzionali» 64. Ognuna di queste formule rispecchia una visione dellavita politica del tempo in cui fu formulata. Non è difficile, per coloro cheabbiano una nozione anche solo rudimentale delle vicende dei due ultimisecoli della storia politica europea, cogliere il nesso tra definizioni esituazioni. In un corso di storia costituzionale, tutto ciò potrebbe essereanalizzato fruttuosamente. Ma noi, nel seguito, dobbiamo occuparci solodella nozione di costituzione che, a grandi linee, appare adeguata al nostro

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tempo costituzionale. Questa è la costituzione democratica della societàche, in mancanza d’altra piú precisa parola, definiamo «pluralista».

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Capitolo sestoCostituzione del pluralismo

1. Potere costituente.

Incontriamo un’altra volta la radice st, tanto importante non solo neldiritto (dopo istituzione, e Stato) ma in tutte le strutture (di nuovo st)complesse le cui componenti stanno insieme stabilmente (costituzione degliesseri umani e in genere degli organismi viventi, dello spazio celeste, delpianeta terra, ecc.). La costituzione di cui parlano i giuristi è lo “stareinsieme” fondamentale della società per mezzo del diritto. Il problema chedobbiamo affrontare ora è da dove nasce e su che cosa si fonda, qual è la“fonte” del diritto che chiamiamo costituzione. Ritorniamo ai primi capitoli.Il diritto naturale ha questa risposta: la fonte della costituzione è la naturaintrinseca della società, sia essa imposta da una divina autorità, sia essascoperta dalla retta ragione. Il diritto sociale ha un’altra risposta: la fontedella costituzione sono gli equilibri che si producono nella società tra le sueforze e nei loro rapporti, e che formano una tradizione storica concreta. Lanostra epoca – abbiamo visto – è l’epoca del positivismo. Il diritto e lacostituzione non sono né natura, né società. Sono statuizioni, cioè prodottivolontari di poteri che si esprimono mettendo per iscritto le loro norme: ilpotere legislativo e, per la costituzione, il potere costituente.

2. Il fondamento.

Perché le leggi sono leggi e non soltanto pezzi di carta? Perché unaproposizione scritta da uno qualsiasi di noi è un semplice esercizioletterario, mentre la stessa proposizione scritta dal Parlamento è una legge?Perché nessuno di noi può dettare leggi, mentre lo può fare l’organolegislativo?

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La risposta, in apparenza, è molto semplice, ma solleva importantiproblemi. È semplice dire che il Parlamento può dettare leggi perché c’èuna norma della costituzione che l’autorizza a legiferare (nel caso dellaCostituzione italiana, l’art. 70), mentre nessuna norma autorizza qualcunodi noi a fare altrettanto. La legge è legge quando è qualificata come taledalla costituzione. Questo è chiaro. Dobbiamo però chiederci perché, a suavolta, la Costituzione è una costituzione e non un semplice esercizio discrittura, un progetto, magari una proposta, ma niente di piú. Dov’è ladifferenza? Questo è meno chiaro.

La legge è legge perché si fonda sulla costituzione. E la costituzione, suche cosa si fonda? Questo modo d’intendere non apre forse quello che sichiama un regressus ad infinitum? Occorre un fondamento ultimo, unqualcosa che fondi senza essere fondato. La costituzione non può fondarsisu se stessa: sarebbe un circolo vizioso equivalente a dire ch’essa non sifonda su niente.

L’autorità della costituzione, cioè il suo essere costituzione e non unmero pezzo di carta, riposa su una condizione storico-concreta, su una forzache può essere, a seconda dei casi, un comando o un accordo. Nel primocaso, la costituzione deriva da una decisione presa unilateralmente; nelsecondo, da un accordo raggiunto plurilateralmente. Nel primo caso,l’efficacia della costituzione riposa sull’acquiescenza alla forza; nelsecondo, sull’accettazione d’un patto. Si tratta di due situazioniincomparabili che dipendono dalle condizioni storiche. Nella prima, esisteun dittatore, un dictator, nel significato di un potere in grado di dettare lenorme costituzionali (un dittatore, un partito, una maggioranzaparlamentare o popolare); nella seconda, esistono forze diverse chestipulano tra loro un accordo costituzionale. Tale accordo costituentepresuppone una condizione di lealtà di sfondo che consente di mettere periscritto le norme comuni e l’impegno tacito a rispettarle per l’avvenire.

Una precisazione ulteriore: le costituzioni-imposizione sono quelle dellesocietà moniste, le società dove esiste un potere politico dominante chedetta le sue regole per imporle; le costituzioni-accordo sono quelle dellesocietà pluraliste nelle quali nessuna forza, da sola, è in grado di imporsi e,dunque, è richiesta la convergenza a partire da presupposti, programmi,interessi, ideali diversi che si compongono tra loro. Dunque: comandioppure compromessi costituzionali. Le costituzioni democratiche del nostro

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tempo (tra cui la nostra Costituzione) appartengono a questa secondacategoria.

Naturalmente, anche le costituzioni-compromesso contengono qualcosache può dirsi, in senso lato, “decisione”. L’accordo deve riguardarel’assunzione di contenuti fondamentali (ad esempio, la democrazia, le sueprocedure e le sue garanzie, l’unità dello Stato e la definizione dellacittadinanza, i diritti civili e sociali, ecc.). Si può dire, allora, che le parti delcompromesso “decidono” su tali contenuti, cioè convengono di stabilirli edi metterli alla base degli sviluppi politici successivi come acquisizionifuori discussione. A questi contenuti devono, infatti, adeguarsi le norme chesaranno stabilite successivamente dal legislatore. In questo senso, puòleggersi la definizione di Carl Schmitt: «Prima di ogni normazione c’è unadecisione politica fondamentale del titolare del potere costituente» 1. Se talicontenuti mancassero, non ci sarebbe costituzione. Tra i due anzidetti tipi dicostituzione, tuttavia, c’è una differenza di fondo. Le costituzioni-decisionesono strumenti di governo nelle mani della forza politica che ha sconfitto, osi dispone a sconfiggere, quelle antagoniste. Sono decisioni in sensoetimologico, cioè separazioni degli avversari o tagli (qualche volta delleteste). Esemplare è l’Instrument of Government del 1653 con il quale, dopola decapitazione del re Carlo I Stuart, Oliver Cromwell ricevette poteridittatoriali come «Lord protettore» d’Inghilterra per imporre la supremaziaparlamentare contro il potere monarchico. Le costituzioni-compromesso,invece, tendono a unire e, in questo senso, non sono decisioni, anzi sono ilcontrario delle decisioni. L’optimum teorico sarebbe la raccolta in unità ditutte le forze in campo, cioè l’unanimità. Ma, la costituzione senzadecisione, cioè la costituzione illimitatamente inclusiva, non sarebbenemmeno possibile: essa sarebbe massimamente desiderabile, ma larealizzazione del desiderio vanificherebbe ciò che si desidera. I nemici dellacostituzione non possono essere costituzionalizzati. Per esempio, lecostituzioni liberali e democratiche – fra tutte, le piú aperte ai compromessi– non possono costituzionalizzare i partiti antidemocratici; le costituzionisocialiste non possono costituzionalizzare le forze capitaliste: se lofacessero, contraddirebbero se stesse. Tuttavia, le costituzioni-compromesso mirano alle intese piú larghe possibili e quindi di regola sonoapprovate ad ampia maggioranza (la Costituzione italiana, per esempio, fuapprovata con 453 voti a favore e solo 62 contrari).

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3. Costituzione materiale.

La situazione storico-concreta su cui poggia la costituzione si denominacostituzione (in senso) materiale; il documento che ne esprime i contenuti sidenomina costituzione (in senso) formale.

C’è stato un momento della storia politica moderna in cui sulladistinzione anzidetta si è aperta una discussione illuminante: il tempo deipropositi di codificazione delle norme costituzionali in testi sistematici,completi, corrispondenti a progetti di convivenza politica secondo le ideedell’illuminismo giuridico; il tempo del passaggio dall’Ancien Régime alnuovo regime delle rivoluzioni della fine del XVIII secolo.

Si poteva dire che le società dell’Ancien Régime, che non conoscevano lecarte costituzionali, fossero «prive di costituzione»? Questa domanda fucentrale nei dibattiti all’epoca della Rivoluzione francese tra fautori edetrattori del vecchio mondo. Non si poteva negare che la monarchiafrancese avesse un proprio assetto fondamentale e, quindi, in questo senso,una costituzione. Ma, tale assetto, secondo le convinzioni della dottrinacostituzionale illuminista, era la negazione di ciò che si sarebbe dovutaintendere per costituzione alla luce delle esigenze nuove: esso, infatti, si eraformato nel modo peggiore, arbitrariamente, senza alcun piano preordinato,per il gioco “spontaneo” o, per meglio dire, sregolato delle forze in campo,cioè «attraverso i continui tentativi della nazione [il “terzo stato”] e dellanobiltà, l’una per ottenere diritti, l’altra privilegi, e gli sforzi di gran partedei re per imporre il proprio potere assoluto» 2. Si contrapponevano cosí dueconcezioni di costituzione profondamente diverse.

La prima concezione, materiale (o anche “naturale”, nel senso dellanatura delle relazioni politiche, quali esse storicamente sono), indica unordinamento esistente di per sé; indipendentemente da qualunque attovolontario che l’abbia creato, e si riferisce a un ordine complessivo che nonconosce atti volontari che l’abbiano pianificato secondo un progettounitario. L’altra concezione, formale (o artificiale e, dunque,necessariamente scritta) si riferisce alle regole volontariamente create perdare un ordine sistematico ai rapporti politici.

La costituzione materiale è determinata dai rapporti politicifondamentali, anzi è l’insieme di tali rapporti. Perciò, da questo punto di

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vista si deve dire che ogni gruppo organizzato nel quale esista una certaquale stabilità che abbia sconfitto il caos, è (non ha) una costituzione.Secondo l’idea formale di costituzione, invece, i rapporti politici siconsiderano materia inerte, plasmabile con gli strumenti del diritto(costituzionale) positivo. La costituzione formale non è dunque la regolache sta nei rapporti, non è l’insieme di tali rapporti e l’ordine chestoricamente ne deriva, ma è la regola posta per dare quell’ordine. Daquesto punto di vista, si deve dire che ogni società organizzata da undocumento costituzionale formale ha (non è) una costituzione.

L’approfondimento dei due concetti di costituzione è dovutoinizialmente al pensiero politico della Restaurazione. Può sembrareparadossale – ma lo è solo a prima vista – che fino a quando le monarchiedell’Ancien Régime si mantennero senza dissensi radicali circa le loro basidi legittimità, cioè fino alla crisi della fine del XVIII secolo, non si siasviluppata una riflessione teorica in materia. La spiegazione sta nel caratterespontaneo, irriflesso, delle costituzioni materiali, che esistono senza chedebba preesistere una “dottrina” della costituzione. Quando, invece, lacritica illuminista portò i suoi colpi accusando il regime anteriore di “nonavere costituzione”, fu necessario replicare per distruggere la concezionerivoluzionaria e difendere quella controrivoluzionaria.

Il postulato essenziale della dottrina rivoluzionaria, il volontarismoilluminista applicato alle organizzazioni politiche, fu respinto daicontrorivoluzionari come errore capitale. Per le loro dottrine, le costituzioninon potevano essere volute astrattamente dagli individui riuniti inassemblee, poiché essi s’illudono d’essere sopra la costituzione e, quindi, dipoterla fare e disfare, mentre invece sono sotto: sono dominati dallacostituzione, non dominano su di essa. I rivoluzionari, invece, siconsideravano liberi nei confronti della costituzione. I controrivoluzionariconsideravano i tentativi attivistici di cambiare radicalmente il corso delleistituzioni politiche riscrivendole da capo, non segno di maturità e diconsapevolezza, come credevano i rivoluzionari, ma sintomo di una crisi econseguenza di un tragico e infecondo errore. Questo perché – secondo illoro modo di vedere questi sommi problemi politici – le costituzioni sonoleggi obbiettive iscritte nel corso della storia, la quale, per cosí dire, ha lasua legge di sviluppo che non si lascia manipolare dall’esterno. Avendo la

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storia una sua legge, e cosí essendo per la storia delle costituzioni, non èlecito a nessuno cercare di sovrapporne un’altra totalmente astratta.

Quale sia l’origine e il fondamento di tale legge obbiettiva che esclude orende tragicamente impotente la volontà degli uomini, è questione che insede politico-filosofica ha ricevuto molteplici risposte: dalprovvidenzialismo di de Maistre (la vita degli Stati e la loro costituzionesono mosse dai piani divini), al tradizionalismo di Burke (le costituzionisono il prodotto dello sviluppo dei costumi politici tradizionali dei popolinella serie delle generazioni); dallo storicismo hegeliano (le costituzionisono la forma organica dello «spirito oggettivo» di un popolo), alla suaderivazione materialista marxiana (le costituzioni sono l’organizzazionepolitica necessaria del rapporto di dominio di classe, determinato dairapporti di produzione), fino alle teorie del darwinismo applicate agliorganismi politici secondo Herbert Spencer (le costituzioni sono il prodottoevolutivo della selezione naturale applicata ai rapporti sociali).

Qui basta sottolineare l’aspetto comune di tutte queste pur diversissimerisposte: le costituzioni, in un momento dato, non possono che essere quelleche sono, poiché le forze che le muovono (la provvidenza, la tradizione, lalegge della storia, le leggi dell’economia politica, quelle dell’evoluzionesociale, ecc.) non dipendono dall’astratta volontà degli uomini: gli uominisono non gli artefici delle costituzioni ma i mezzi della loro realizzazione.

4. Costituzione materiale e teoria istituzionale.

Secondo tutti i modi di prospettare la costituzione materiale, ogniorganizzazione o organismo politico è animato da una costituzioneimmanente. Dove c’è una organizzazione, ivi c’è una costituzionemateriale; se non c’è una costituzione materiale, non può esserviun’organizzazione. Da ciò l’equiparazione tra organizzazione e costituzioneche è un’idea comune a tutto il pensiero organicistico e a tutte le concezioniconcrete della costituzione. È facile collegare queste proposizioni alla teoriaistituzionale del diritto di cui abbiamo parlato in un precedente capitolo.L’organizzazione necessariamente precede le norme giuridiche prodotte adhoc e, tra queste, quelle contenute nelle carte costituzionali (cioè lecostituzioni formali). Non è esclusa, in quest’ottica, la possibilità di carte

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costituzionali scritte, ma il loro valore è al piú ricognitivo o descrittivo, maidecisivo, non potendosi sostenere che la costituzione scritta crei dal nullauna qualsivoglia organizzazione politica. Dal che si comprende l’esistenzadi limiti intrinseci originari che circoscrivono anche il piú alto e libero deipoteri costituzionali, il potere di scrivere una costituzione.

Ad esempio, ove tale potere sia esercitato da una assemblea costituenteoccorre presupporre un’organizzazione-costituzione preesistente, sullaquale la qualifica di «costituente» e il relativo potere possano fondarsi esenza la quale tale assemblea non sarebbe altro che una accolitainsignificante di individui impotenti. Ugualmente, le costituzioni o statuticoncessi (octroyés) unilateralmente dai re nel corso dell’Ottocentopresupponevano appunto il re, cioè un’organizzazione costituzionaleanteriore nella quale il re era re e disponeva del potere di dare unacostituzione. Se non fosse stato cosí, se il re fosse stato solo un fantoccio,un re-travicello, la carta elargita non sarebbe stata altro, per l’appunto, cheun pezzo di carta senza valore. La costituzione formale, dunque, non èpensabile se non come prodotto dell’organizzazione effettiva o costituzionemateriale e non è nemmeno pensabile al di fuori di tale rapporto diderivazione.

L’anzidetta definizione ha larghi confini, comprendendo tutte lesituazioni politiche in cui sia ravvisabile un minimo di ordine, siano esse ilprodotto di un partito unico, del dominio carismatico di un capo, dellapluralità di forze portatrici di progetti concorrenziali, della coesistenza digruppi interessati al soddisfacimento di comuni bisogni materiali, ecc.;siano esse il prodotto di meri rapporti di forza o anche della adesione asistemi di valore o di fini collettivi. «Costituzione materiale», come delresto quella scritta, è una formula nella quale possono stare i piú diversicontenuti. Sarebbe del tutto fuorviante considerare la costituzione materialecome il regno del puro fatto politico, dello scontro di potere, della «materiacostituzionale» bruta: la costituzione materiale non è la sfera dell’essere chepossa contrapporsi alla sfera del dover essere, risultante dalla costituzioneformale. Costituzione materiale e formale sono entrambe normative, nelsenso che svolgono una funzione ordinante, conformemente agli assetti dipotere, alle relazioni politiche e sociali tra individui e gruppi che vengonostabilizzandosi. La differenza tra l’una e l’altra sta piuttosto nella diversanormatività. La costituzione materiale è l’insieme delle linee di tensione

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che risultano complessivamente, senza che nessuno abbia voluto taleinsieme. La normatività o funzione ordinante è la conseguenza generaleinvolontaria di atti particolari volontari rivolti ad altro scopo, per esempioaffermare o migliorare posizioni di potere individuali o di gruppo nellerelazioni politiche e sociali. L’esistenza di effetti generali involontari di attiindividuali volontari è coessenziale a ogni tipo di struttura sociale fondatasu relazioni di interdipendenza e costituisce ciò che nella scienza giuridicasi denomina (piuttosto oscuramente) fatto normativo (si veda supra, par.II.3). Nel caso della costituzione formale, si ha a che fare invece con unanormatività volontaria, nel senso che essa è frutto di scelte rivolteimmediatamente e coscientemente alla creazione delle regole costituzionali.Questo è, al contrario, il caso che si denomina dell’atto normativo. Nessunatto può essere normativo se non si appoggia su fatti normativi che glipermettono di essere tale.

5. La prima norma costituzionale materiale: la costituzione è scritta.

Il rapporto tra costituzione formale e costituzione materiale non è,dunque, di opposizione (come sarebbe un rapporto tra il dover essere el’essere): è invece un rapporto di derivazione. La prima deriva dallaseconda, in quelle condizioni storiche in cui si manifestino particolariesigenze di chiarificazione, razionalizzazione e stabilizzazione dellerelazioni politiche. Rispetto a tali esigenze, può accadere (ed è accaduto apartire dalla fine del XVIII secolo) che la costituzione materiale manifestil’esigenza largamente condivisa di porre in modo esplicito le regolecostituzionali comuni. È ciò che si è denominato Wille zur Verfassung,«volontà di costituzione», che nasce nella sfera dei rapporti costituzionalimateriali e si proietta verso la loro codificazione formale. La forzanormativa della costituzione scritta è dunque sempre sottoposta allacondizione precaria della diffusa, prevalente e operante, esplicita oimplicita, condizione di fatto: “volontà” che in determinate circostanzestoriche può essere volontà necessitata dal rischio del caos, della guerracivile. L’efficacia della costituzione scritta dipende dunque dallacostituzione materiale. In quest’ultima devono cercarsi la risposta alla

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domanda circa il fondamento della costituzione formale e la ragione dellasua forza o della sua debolezza.

Esiste però anche un rapporto di condizionalità reciproco nel quale,questa volta, la costituzione formale è chiamata a esercitare un’influenzacondizionante sui rapporti costituzionali materiali. Anzi, proprio questa è lafunzione essenziale della costituzione scritta, conformemente alla suaragion d’essere di strumento di razionalizzazione dei rapporti politici. Tantopiú la costituzione è rigida (si veda infra, par. VI.8), quanto piú questafunzione è evidente. Perciò si deve riconoscere l’esistenza di un rapportocircolare tra costituzione materiale e costituzione formale, un rapporto incui tuttavia gli aspetti materiali dominano. La costituzione formale non puòesistere se non insieme a una costituzione materiale congruente.

Una tra le ragioni piú importanti della limitata efficacia condizionantedelle regole costituzionali formali sta nella circostanza, constatabile a primavista, che le carte costituzionali regolano lo svolgimento del processopolitico, ma non possono determinare, alla fine, le forze storico-concreteche tale processo muovono. Le costituzioni scritte spesso le ignorano o, senon le trascurano, le loro prescrizioni sono spesso destinateall’inconsistenza pratica (a differenza di quanto avviene con qualchemiglior successo in altri settori del diritto, capaci di padroneggiare piúefficacemente – mai però decisivamente – le figure sociali che operanoattraverso le loro regole: ad esempio le famiglie nel diritto di famiglia, ildebitore e il creditore nel diritto delle obbligazioni, l’imprenditore neldiritto commerciale, l’attore e il convenuto nel diritto processuale, ecc.). Isoggetti reali della costituzione non sono né creati né significativamenteregolati dalla costituzione, per quello che essi storicamente sono. Èrivelatrice, con riguardo alla nostra esperienza costituzionale, a questoriguardo l’evanescente disciplina dei partiti politici e la pressoché totaledisapplicazione delle regole sul sindacato. Se si arrivasse a un’effettivaregolamentazione degli uni e degli altri, ciò significherebbe che essi sonostati sostituiti, in quanto soggetti decisivi della costituzione materiale, daaltre forze politico-sociali, a loro volta esenti da disciplina formale.

Quali e quanti siano i soggetti della costituzione materiale, quale ne siala struttura, quali i rapporti e gli schemi delle reciproche relazioni, quali leaspirazioni e i programmi: tutto ciò costituisce il campo del

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«precostituzionale» rispetto alla costituzione formale e il nucleofondamentale della costituzione materiale. Le mutazioni che si verificano suquesto terreno primigenio, scarsamente controllabile da parte dellacostituzione formale, si riflettono sull’efficacia di questa e consentonomolte spiegazioni sulla misura e sul modo della sua concreta efficacia esulle modalità della sua attuazione.

Constatata cosí la funzione determinante della costituzione materiale, ingenerale si può dire che dove c’è una costituzione scritta ivi deve esistereuna norma presupposta, non scritta ma essenziale. Come tutto ciò che èdavvero essenziale non può essere scritto, cosí è anche in questo caso.Questa norma presupposta dice semplicemente, ma decisivamente, chel’ordine politico, per generale consenso, deve basarsi su una costituzionescritta e non deve essere lasciato al libero gioco reciproco delle forze incampo.

La prima regola della costituzione materiale, quando è operante unacostituzione scritta, è dunque: l’ordinamento giuridico vigente è «acostituzione scritta». Questo principio è la Grundnorm (si veda infra, par.VI.9) dell’ordinamento giuridico ed è il punto di congiunzione tra la sferamateriale e quella formale della costituzione.

Tuttavia, «l’ordinamento giuridico a costituzione scritta» è un principiodal valore solo orientativo. Vi sono casi particolari in cui la costituzioneformale, pur vigente nel suo complesso, resta lettera morta in questa oquella parte. È il caso della inattuazione, diverso dalla violazione.L’inattuazione si ha quando le vicende della costituzione materiale sidiscostano stabilmente dalle previsioni della costituzione formale. Questepossono restare come sospese per qualche tempo o per sempre, oppurepossono resuscitare, per cosí dire, se e quando gli sviluppi della costituzionemateriale creano le condizioni della convergenza tra i due pianicostituzionali; se e quando l’andamento delle vicende politiche rimescola leforze e gli equilibri costituzionali materiali e ripropone esigenze inprecedenza accantonate. Cosí, con riguardo alla Costituzione italiana, permolti anni intere istituzioni sono rimaste solo sulla carta (la Cortecostituzionale, il Consiglio superiore della Magistratura, le Regioni, ilreferendum), salvo essere portate in vita quando nell’effettività della vitapolitica si affermarono le ragioni d’essere di tali istituzioni. In altri casi,

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quella convergenza non si è verificata e, perciò, le norme costituzionalisono rimaste vuote formule scritte sulla carta. Cosí accade per laregolazione dei partiti politici e dei sindacati: la spiegazione di questeinattuazioni è molto istruttiva circa i rapporti tra forma e sostanza dellaCostituzione. Se ne è detto qualcosa in precedenza: per quanto la lororegolazione sia prevista dalla Costituzione, la loro forza costituzionalemateriale è stata, finora, tale da porli al di là, anzi, al di sopra dellaCostituzione. Cosicché la loro esistenza e le loro azioni si possono dire a-costituzionali. Il giorno, se mai verrà, in cui si ponesse mano all’attuazionedella Costituzione, vorrà dire che partiti e sindacati, per ragionicostituzionali materiali, sono stati declassati da qualche nuova forza politicapredominante, che li ha presi da sopra e li ha messi sotto il diritto.

6. Legittimità ed effettività della costituzione.

Nella coerenza tra aspetto materiale e aspetto formale sta la legittimitàdella costituzione. La costituzione legittima è una costituzione valida.Questo “concetto materiale” di validità è proprio della sola costituzione. Pertutte le altre norme giuridiche, la validità ha un altro significato chepotremmo dire “formale”: la validità consiste nella conformità alle normesuperiori e, in ultima istanza, la conformità alla norma piú alta, cioè lacostituzione. Ma, di questo, parleremo piú avanti.

La «percezione soggettiva» della legittimità o illegittimità di unordinamento costituzionale può certo dipendere da giudizi di valore etico-politici. Ad esempio, per uno spirito democratico e libertario, ognicostituzione totalitaria è illegittima; per i «legittimisti» monarchici, laRepubblica, quando fu proclamata, era illegittima, ecc. In questi casi,democrazia, libertà e monarchia sono assunti soggettivamente come valori,potendo valere eventualmente come criteri di azione per la difesa o latrasformazione della costituzione esistente, quando la si considera incontrasto con tali ideali politici. Questi ideali possono contribuire, operandocome fattori di costituzione materiale, a «legittimare» o «delegittimare» lacostituzione esistente, tanto piú efficacemente quanto piú largamente diffusie condivisi. La «percezione soggettiva» ha dunque rilievo quando siincorpora nei rapporti costituzionali materiali, ma non è il canone attraverso

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il quale valutare la legittimità oggettiva di una costituzione. Quando si trattidella nozione non soggettiva (cioè adeguata al soggetto) ma oggettiva (cioèadeguata all’oggetto), non contano i giudizi dati puramente in base acategorie astratte e a preferenze individuali. Contano invece i carattericoncreti della società e il tipo di potere e di ordine che essi esprimono. Cosí,l’ordinamento anche piú lontano dagli ideali etico-politici di chi l’osservadall’esterno, e quindi ai suoi occhi totalmente illegittimo, dovrà invececonsiderarsi pienamente legittimo dal punto di vista oggettivo di chi vi viveall’interno, se adeguato ai caratteri dominanti della costituzione materiale.Da questo secondo punto di vista, la costituzione di Hitler era legittimarispetto al nazismo; la costituzione razzista del Sud Africa era legittimarispetto all’ideologia dell’apartheid, ecc.

La costituzione legittima è anche una costituzione effettiva. I due concetti(legittimità ed effettività) di fatto sono coincidenti. Si rincorronocontinuamente per comporre o ricomporre le eventuali dissociazionidell’uno dall’altro. Nessuna costituzione può affermarsi e confermarsi (cioèdivenire e rimanere effettiva) se non è altresí legittima, cioè se non vienegeneralmente avvertita come tale. Qualunque costituzione è sempre espostaalla critica in nome della sua illegittimità. E tale critica non può darsi che innome di una legittimità diversa (cioè di un’altra costituzione materiale,diversa da quella preesistente). Essa tenderà dunque a riversarsi in unanuova costituzione. Ogni cambiamento costituzionale, in via di riforma o dirivoluzione, è sempre partita dal discredito, cioè dalla negazione dilegittimità di quella precedente, e ogni trasformazione della costituzione èun suo adeguamento a un nuovo criterio di legittimità.

Nei periodi di stabilità politica, effettività e legittimità sono la stessacosa, o, meglio, l’una si confonde con l’altra. La dissociazione compare e siidentifica con l’instabilità e l’instabilità è il carattere sempre in agguatodelle costituzioni politiche dopo che, con le Rivoluzioni della fine delSettecento, si è aperta l’èra delle costituzioni scritte. Queste costituzionimirano a stabilizzare, ma hanno esse stesse bisogno d’essere stabilizzate,onde la stabilità è una aspirazione e, talora, un miraggio. Il suoconseguimento non dipende dalla costituzione formale, ma dalla stabilità diquella materiale. Quante numerose costituzioni, nel breve tempo post-rivoluzionario, ha avuto la Francia, il Paese che per primo in Europa si èdotato di una costituzione?

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Nei periodi di stabilità può dunque valere questo principio di legittimità:sono legittimi gli ordinamenti effettivi. Al vertice del sistema, vale alloracome principio supremo il «principio di effettività» 3. Nella condizionestorica attuale si è poi osservato che il principio di effettività è esso stessoun valore, cioè un criterio di valutazione della legittimità dell’ordinamentoda un punto di vista etico realistico e non idealistico: l’effettività è la nuovaregola della legittimità. Una costituzione non effettiva è considerata, per ciòstesso, illegittima. Alla costituzione, perché sia tale, si richiede d’essereeffettiva 4.

Dietro questo atteggiamento scettico sui valori nella vita organizzatapoliticamente, e dietro l’accettazione dello status quo, sta il timore deldisordine sociale che succede alla perdita di effettività della costituzione edel potere che essa organizza. Il primo (e massimo) teorizzatore di questaconcezione è certamente Thomas Hobbes che, nel Leviatano, giustificò ilpotere piú forte (quello del sovrano assoluto) con l’esigenza di porre finealla guerra civile tra gli uomini che le divisioni politiche e le guerre direligione del suo tempo alimentavano. Oggi il problema è ancora quellodell’ordine, ma ne sono cambiati i fattori che devono “ordinarsi”. È statoposto efficacemente in luce dalle «teorie sistemiche» che nelle societàcomplesse del nostro tempo, risultanti da un insieme inestricabile diorganizzazioni parziali (i «sottosistemi»), chiuse in sé ma tutteindispensabili alla sopravvivenza delle altre in un nesso onnicomprensivo diinterdipendenze, la legittimità della costituzione sta nella capacità diconservare se stessa nella complessità, riducendola alla misura compatibilecon la sopravvivenza, cioè con la sua «riproducibilità», nel tempo futuro 5.La legittimità sta dunque nella capacità di autoconservazione, il che è altromodo di far coincidere legittimità con effettività. Quelli che un tempo eranoconcepiti come valori in sé (la democrazia, il pluralismo, la giustizia, ecc.)tendono oggi, in questo contesto, ad assumere un valore meramente tecnicoo funzionale (e perciò precario), in quanto strumenti efficaci allo scopo: ilmantenimento della società esistente. Onde, quando non servono piú, osono d’intralcio, li si mette facilmente da parte.

7. Trasformazione del concetto di riforma costituzionale.

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Si è trasformato conseguentemente anche il concetto di “riforma”,riferito alla costituzione. La riforma costituzionale diviene “adeguamento”ai bisogni di autoconservazione: autoconservazione di rapporti socialiminacciati oppure, quando il governo della società è diventato affare di unaoligarchia al potere, autoconservazione dell’establishment che, nellinguaggio odierno, si chiama «stabilità» o «governabilità» 6.

L’autoconservazione diventa il valore supremo e unico, è un affaretecnico che prescinde completamente da altri valori politici. La «tecnicacostituzionale» (altrimenti detta «ingegneria costituzionale») prende il postodel discorso e del confronto tra fini politici che, infatti, non trovano piúposto. Se si riforma la costituzione è per mantenere lo status quocostituzional-materiale, impedire o reprimere i mutamenti. Quella che eraun tempo nemmeno troppo lontano da noi il terreno delle idee politiche si ètrasformato in terreno tecnico-funzionale, il che equivale alla fine dellapolitica nella sfera costituzionale, cioè nella sfera piú politica di tutte lealtre.

Questa tendenza alla contrazione del diritto in senso tecnico-funzionale èun dato ben noto da gran tempo. Le sue radici possono trovarsi nello Statodi diritto amministrativo, secondo la nozione spiegata in precedenza (siveda supra, par. V.I.5). Il diritto costituzionale diventa sempre piúvisibilmente – per cosí dire – un “diritto amministrativo della costituzione”.Ma già nel secolo scorso la tendenza era stata chiaramente messa in luce,con riguardo alla funzionalizzazione della costituzione alla macchina digoverno fine a se stessa, messa in movimento da burocrazie animate dallamera legalità. Max Weber 7 aveva osservato che il diritto stava perdendoogni valore «sacro», cioè legato a valori metafisici, e si stava appiattendo inun senso esclusivamente tecnico-funzionale, cosicché la legittimità finivaper perdersi nella legalità. La legalità routinaria e senza anima sarebbediventata la nuova legittimità, sotto un qualche «capo carismatico» sceltoallo scopo di garantirla e conferirle un surrogato alla legittimità perduta.Parallelamente, la burocrazia, cioè l’organizzazione anonima, impersonale,totalmente legalizzata e razionalmente orientata agli scopi di uno Stato (o,semplicemente “stato”, situazione) ha spento ogni spinta all’ascesi dalmondo per trasformarlo e serve solo ad acquisirne i beni esteriori, secondola descrizione che ne fece Max Weber quando usò la grande e terribile

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immagine della «gabbia d’acciaio». Carl Schmitt ha a sua volta osservato lastessa evoluzione 8, descrivendola come trasformazione del pensiero rivoltoalla sostanza in pensiero rivolto alla funzione: una trasformazione che ilpositivismo in tutte le sue manifestazioni, anche giuridiche, era statadecantata come un grande progresso scientifico e culturale e, già allora,presentava un quadro “tremendo” di funzionalizzazione di tutti gli apparati,fino a giungere ai singoli, per quanto riguarda tutte le loro attività, politiche,economiche e culturali, capaci di influenze sociali.

Fin qui ci si muoveva nella prospettiva dello Stato come fine e del dirittocome mezzo della sua autoconservazione. Piú tardi, ad analoghi aspettidella caduta della legittimità come conformità a valori politici, conriferimento alle società capitaliste di massa, hanno fatto riferimento leteorie del cosiddetto «Stato del capitalismo maturo», le quali hannosottolineato l’esigenza di lealtà diffusa ai fini dell’integrazione politica esociale, cioè di un certo grado di apatica disponibilità all’ubbidienza: «lalealtà di massa si distingue dal concetto tradizionale di legittimità in quantonon consiste in una stabile fiducia nel valore di un dato ordinamento ma, alcontrario, nella rinuncia totale all’esigenza del valore», in cambio distabilità e di un certo grado di benessere diffuso 9. Oggi, al «capitalismomaturo» dovrebbe sostituirsi il «capitalismo finanziario» come fine (finalitào anche termine finale che precede la catastrofe) al quale deve orientarsi larazionalità dell’agire politico e i suoi calcoli. Dati i suoi caratteri diinstabilità e la sua continua esposizione a crisi e pericoli di fallimento, la«riforma costituzionale» continua a essere tecnica e priva di valore ed èdappertutto finalizzata non piú allo Stato e alla sua stabilità (che sono infattientrambi in crisi), ma all’apprestamento degli strumenti per fare fronte allecriticità del sistema di acquisizione dei «beni esteriori», addirittura su scalamondiale. La sostituzione della legalità come ubbidienza a norme stabiliprecostituite cede il passo o ai poteri d’eccezione a quella legalità o allacreazione di sempre nuova e rapida legalità, cioè alla produzione di normeaccelerata o “motorizzata” (si veda supra, par. V.II.5). Qui sta la legittimità,confusa con questa idea degenerata di legalità.

8. Confusione di legittimità e legalità.

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La legittimità consiste, dunque, nell’adeguatezza della costituzione edell’ordinamento nel suo complesso alla base costituzionale materiale; lalegalità consiste, invece, nell’adeguatezza del diritto e delle sue variemanifestazioni ai criteri di validità stabiliti dal diritto stesso: innanzitutto,stabiliti dalla costituzione formale e poi, via via, dalle altre norme che, aloro volta, sono prodotte secondo le norme della costituzione stessa. Dopola costituzione formale, si sviluppa una concatenazione di norme –innanzitutto le norme legislative e poi, via via, i piú diversi regolamentiparticolari – che devono, a pena d’invalidità, essere legate dal rapporto dicongruenza con le norme che le precedono e ne stabiliscono le condizioni divalidità-legalità.

Se si usassero propriamente le parole “legittimità” e “legalità” nel loro(diverso) significato, la legittimità dovrebbe essere riservata allacostituzione; la legalità, alle sole norme che dalla costituzione derivano eche, nel loro insieme, formano l’ordinamento giuridico. Per tutto il tempo incui la legge si considerò la massima espressione del diritto, la legalitàpoteva riferirsi a tutto il diritto meno che alla legge, la quale forniva criteridi validità di tutto l’altro diritto che ne derivava, senza essere essa stessasottoposta a nessun giudizio di validità-legalità. Da quando poi, come si èvisto, la stessa legge è stata sottoposta a una norma superiore – lacostituzione rigida – la sua validità dipende dalla legalità, la «legalitàcostituzionale».

Si deve però osservare che nell’uso corrente il termine “legale” (oillegale) è spesso sostituito da quello “legittimo” (o illegittimo), onde siassiste a una certa confusione, che deriva dalla vischiosità del linguaggio.La legge in contrasto con la costituzione è detta costituzionalmenteillegittima (cosí nell’art. 134 della Costituzione); l’attodell’amministrazione in contrasto con la legge che lo regola è dettoillegittimo, come sinonimo di invalido o illegale. Anche qui, nel seguitodell’esposizione, accadrà di adeguarsi all’uso corrente. È tuttaviaimportante tener presente la distinzione concettuale 10.

La ragione dell’uso frequente di “legittimità” in luogo di “legalità” staprobabilmente nel discredito di cui fu circondato in passato il principio dilegalità, come insieme di procedure di carattere abitudinario, stabili,ripetitive, prevedibili, burocratizzate, spersonalizzate, prestabilite dallalegge. Tale principio, inteso come corrispondenza formale dell’attività dei

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pubblici poteri alla legge, sacrificava interessi sostanziali dei governanti odei governati. Nel linguaggio che abbiamo usato, si può dire che la meralegalità può apparire un ostacolo asfissiante nei confronti delletrasformazioni che si tenta di operare nella sfera delle relazionicostituzionali materiali; oppure, si può anche dire che in tali casi la legalitàconfligge con la legittimità. In epoche segnate dall’emergere di nuoverivendicazioni politiche e sociali, la legalità rischia di apparire un ostacolocontrario alle esigenze del rinnovamento sociale. Il conflitto di cui si parlasi manifestò storicamente contro il modo di intendere la legalitàformalistico e conservatore che fu caratteristico dei cosiddetti dottrinariall’epoca della Restaurazione in Francia e della Costituzione del 1814,contro i bisogni sociali emergenti ed esplosi in tutta Europa nel 1848(dottrine del juste milieu; «niente di piú, niente di meno» di quantoconcesso dalla borghesia in accordo col re e sancito dalla Cartacostituzionale). Ma, la «mera legalità», in momenti come quello disommovimenti sociali, può simmetricamente risultare un ostacolo per igovernanti che vogliono garantire l’ordine del passato e reprimere leaspirazioni di un ordine nuovo per il futuro. Ancora in quel periodo si parlòdi légalité qui tue 11, perché impediva di affrontare le difficoltà e proteggerel’ordine pubblico con mezzi energici, extra legem, fino al «colpo di stato»restaurativo dell’ordine.

Nei periodi di tranquillità sociale, invece, il principio di legalità prevalee oscura quello di legittimità, in quanto criterio razionale piú consono alleesigenze di stabilità, prevedibilità, misurabilità delle relazioni politiche esociali. Anzi, si è detto che la legalità, nelle situazioni ordinarie, è essastessa il criterio della legittimità: nel senso che si dicono legittimi i sistemicostituzionali che regolano l’attività giuridica secondo procedure e formelegali prestabilite, per evitare l’arbitrio delle decisioni dettate dalleemergenze caso per caso 12. La sottrazione di contenuto di questaconcezione della legalità, a favore della mera regolarità formale, è quellamessa in luce dalla concezione che considera il rispetto delle procedurel’ultimo, minimo, significato della legalità di cui si può parlare nel tempopresente, caratterizzato dal pluralismo politico e sociale 13. Questopluralismo non presuppone alcuna concezione sostanziale della legittimità ela riduce a regolarità procedurale nella produzione di norme giuridiche: una

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“forma” nella quale possano riversarsi le diverse istanze politiche e socialiper esprimersi e combinarsi tra loro.

9. La «pura legalità».

Nella prospettiva della costituzione materiale, il diritto (costituzionale)formale risulta essere il prodotto di un crogiuolo di forze matrici collocatenella storia politica, sociale e culturale che ne nutre la legittimità, daintendersi nel senso sopra indicato. Per molti giuristi legalisti, questaaffermazione rappresenta un oltraggio alla natura del diritto, una suacorruzione. Un tentativo di ridurre (il problema del) la validitàdell’ordinamento giuridico a (un problema di) mera legalità, con esclusionedi qualsiasi criterio originario di legittimità, è stato compiuto dallacosiddetta «dottrina pura del diritto» (reine Rechtslehre): tentativo compiutonel secolo scorso da Hans Kelsen. La «purezza» di tale dottrina starebbenella espunzione dal campo di indagine giuridica di tutto ciò che, nonessendo validamente posto secondo le norme positive che regolano laproduzione del diritto, dovrebbe considerarsi appartenente a una sfera pre- onon-giuridica.

Poiché la premessa di questa dottrina è che il fondamento di validità diuna norma può essere solo un’altra norma, occorre allora spiegare il diritto,dal punto di vista della considerazione giuridica, solo con altro diritto.L’ordinamento giuridico è visto come un sistema di riferimenti reciproci(imputazioni) tra norme, sistema che si arresta e si unifica in una primanorma fondamentale (Grundnorm), la quale sta a fondamento di validitàdella costituzione e, poi, per il suo tramite, dell’intero ordinamento. Lanorma fondamentale, tuttavia, non è una norma esistente, nel senso diprodotta da organi e con procedimenti ad hoc, o comunque identificabile inun atto o documento. Essa è invece un presupposto logico, una ipotesinormativa che non ha su di sé alcuna altra norma, una condizione dipensabilità dell’ordinamento in termini giuridici «puri», il punto focaledella rete di riferimenti o «imputazioni» giuridiche che si compongono inunità in tale punto. Diamo la parola al fondatore della dottrina pura deldiritto:

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La norma fondamentale è quella la cui validità non può essere derivata danessun’altra. Un ordinamento è un insieme di norme che può essere ricondotto adun’unica norma fondamentale. La ricerca del fondamento di validità di una norma non èun regressus ad infinitum: ad essa pone termine una norma piú alta, che è il fondamentoultimo della validità nell’ambito di un sistema normativo. La norma fondamentale èsoltanto il presupposto necessario di qualsiasi interpretazione positivistica (nel senso dicircoscritta al diritto positivo e chiusa a ogni realtà pregiuridica) del materiale giuridico:è condizione di pensabilità dell’ordinamento in termini positivistici 14.

La dottrina pura del diritto non esclude che al di là della normafondamentale vi sia una realtà costituzionale fatta di rapporti politici esociali concreti:

se non è possibile accettare l’estremismo paradossale della celebre tesi di Lassalle 15

che la costituzione di uno Stato sia, in definitiva, l’esercito e i cannoni dei quali ilgoverno dispone – giacché essa sottovaluta la forza delle idee e soprattutto delle ideegiuridiche – bisogna tuttavia concedere che la costituzione esprime le forze politiche diun determinato popolo, è un documento che attesta la situazione di equilibrio relativonella quale i gruppi in lotta per il potere permangono fino a un nuovo ordine. Se larichiesta di modifica della costituzione cresce a tal punto che non può piú essereaccantonata, è certo segno che c’è stato uno spostamento di forze che cerca diesprimersi sul piano costituzionale 16.

Ma questa realtà politica deve stare, secondo la dottrina pura del diritto,al di fuori della considerazione scientifica del diritto. La normafondamentale serve appunto allo scopo di «staccare» l’ordine normativodalla sua base costituzionale materiale e di consentirne la considerazione daun punto di vista esclusivamente formale, cioè dal punto di vista del doveressere e non dell’essere. Si può osservare, dal punto di vista delleascendenze filosofiche, che alla dottrina pura del diritto si attribuisce laqualifica di neokantismo, per il suo carattere trascendentale, ma che,tuttavia, essa opera il paradossale rovesciamento della trascendenza nellapiú totale immanenza. Il concetto ideale finisce infatti per coincidere con lasituazione reale e per rimuovere la tensione tra le due dimensionidell’esperienza, quella fattuale e quella normativa. È una dottrinariduzionista, il contrario d’ogni riferibilità all’ambito del kantismo.

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La norma fondamentale svolge un ruolo esclusivamente retorico,essendo un modo sintetico per qualificare come valido l’ordinamentoeffettivo. Essa può esprimersi cosí: è valida la costituzione effettiva. In altritermini, se c’è una costituzione effettiva, si deve presupporre una normafondamentale che le attribuisce validità. La norma suprema, dunque, è ilprincipio di effettività, è la celebrazione dell’effettività: ciò che è, è validoper il sol fatto di essere. Il carattere solo formale (e non sostanziale ocontenutistico) della norma fondamentale è poi dimostrato dallasignificativa circostanza che essa può applicarsi identicamente per qualsiasiordinamento concreto, liberale, autoritario, totalitario, ecc.

Questa dottrina è una giustificazione generale dell’effettività, cioè dellaforza vincente, ma è una giustificazione esclusivamente dal punto di vistagiuridico; non è invece una giustificazione etico-politica della realtà deirapporti politici come tali. Non lo è per la risolutiva ragione che questadottrina non si pone alcun problema di legittimità dell’ordinamento da unpunto di vista esterno all’ordinamento stesso (cioè dal punto di vistadell’osservatore e non del “partecipante”): essa si limita a spostare il puntodi vista etico-politico fuori del campo dell’indagine giuridica «pura», nonnegandone peraltro l’ammissibilità in quel diverso ambito. Per questo, ladottrina in esame non può confondersi con i tentativi di legittimazione dellamera forza, i tentativi di trasformare la forza in valore: l’effettività, per ladottrina pura del diritto, non è un valore, ma l’oggetto di una constatazione.

La dottrina pura del diritto, dunque, assume una premessa allaricostruzione dell’ordinamento giuridico estremamente realista: cosa c’èinfatti di piú adeguato alla realtà che prendere atto della sua effettività?Tuttavia, tale metodo è destinato a sfociare in una sorta di formalismo cherecide i legami con le vicende e le trasformazioni dell’ordinamento. Lateoria della norma fondamentale consente infatti un’adeguata comprensionedell’ordinamento solo a una condizione: quando vi sia perfetta coincidenzatra legittimità ed effettività dell’ordinamento, cioè in un ordinamento fisso.Ma la fissità è una ipotesi teorica, mentre la realtà è il divenire. Ora, lateoria della norma-base consente di prendere atto di un tipo solo ditrasformazione, quella radicale che consiste nel passaggio da unordinamento a un altro, cioè la trasformazione rivoluzionaria.

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Proprio il fenomeno della rivoluzione mostra chiaramente il significato della normafondamentale. Supponiamo che un gruppo di individui tenti di conquistare il potere conla forza, allo scopo di togliere di mezzo il governo legittimo (nel senso di legale) di unoStato, fino a quel momento monarchico, ed introdurvi una forma di governorepubblicana. Se essi vi riescono, se il vecchio ordinamento cessa ed il nuovo cominciaad avere efficacia, perché gli individui la cui condotta è regolata dal nuovo ordinamentosi comportano effettivamente, in complesso, in conformità col nuovo ordinamento, alloraquesto ordinamento è considerato come valido. È ormai sulla base di questo nuovoordinamento che viene giudicato come lecito o illecito il comportamento degli individui.Ma ciò significa che si presuppone una nuova norma fondamentale 17.

Il riferimento alla norma fondamentale consente dunque di considerare iltrapasso da un ordinamento a un altro, attraverso il mutamento di questa, omeglio attraverso il mutamento delle forze storiche che ne alimentanol’effettività. Ma, cosí si trascurano le trasformazioni graduali e quotidianedel sistema costituzionale. La norma fondamentale non le vede, almeno finoa che non si possa considerare il vecchio ordinamento sostituito ormai, peril tramite di progressive modificazioni, da un ordinamento nuovo. La teoriadella norma fondamentale è insomma inservibile per la costruzionedell’ordinamento quale esso è e si trasforma storicamente e concretamente.Essa si riferisce all’ordinamento nel suo complesso, inteso nella sua«effettività media»; ci dice che un ordinamento mediamente effettivo èanche un ordinamento valido. Impone però anche, proprio perché siriferisce al caso medio, di trascurare tutto ciò che se ne distacca; inparticolare comporta che si debba trascurare il diritto che ha origine al difuori o contro la validità formale, cioè il diritto non positivistico (si vedasupra, par. III.4) che costituisce uno degli aspetti piú interessanti e rilevantidell’esperienza costituzionale, mai riducibile completamente alla sola formagiuridica.

Un modo per uscire dalla difficoltà sarebbe quello di considerare nonl’ordinamento nel suo complesso, in una visuale media, ma ciascuna parteche lo costituisce, cioè ogni sua norma. Ma questa strada, che porterebbe aconsiderare valida ogni regola per il sol fatto della sua effettività, aprirebbela strada ad altre difficoltà insormontabili, alla stregua delle premesse delladottrina pura del diritto: in particolare, renderebbe impossibile la riduzione

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a unità di tutte le parti dell’ordinamento (riduzione che è appunto lo scopodella norma fondamentale) e aprirebbe la via a una sorta di anarchiagiuridica, dominata dal principio di effettività – un principio che, perdefinizione, non può avere né una regola e neppure una logica 18.

La dottrina della norma fondamentale, in quanto orientata allaspiegazione di ordinamenti strutturalmente statici, si accorda poco e malecon l’instabilità poliarchica permanente delle forme della vita collettivatipica del nostro tempo, instabilità che porta a sviluppi graduali, non atrasformazioni radicali (come monarchia-repubblica, autocrazia-democrazia, democrazia liberale - democrazia socialista, ecc.). Questetrasformazioni, nella dottrina della norma fondamentale vanno perdute, enello scarto che deriva tra ordinamento formale, legato alla costituzione«mediamente efficace», e ordinamento concreto si manifesta il suoformalismo.

10. Il problema e il dato costituzionale.

D’altro canto, in sistemi politici come l’attuale in cui la poliarchia e ilcompromesso sono condizioni strutturali, l’unità del sistema giuridico, chesi vorrebbe assicurata o riassunta nella norma fondamentale, è un problema,non un dato riassumibile in un’ipotesi normativa; è un processo diunificazione, non una condizione naturale dell’ordinamento. Per quantoesso tenda a una unità sistematica, è sempre piú difficile comprenderlo sottoun unico punto di vista. Le condizioni della vita costituzionalecontemporanea ci insegnano che occorre rassegnarsi alla mancanza di unitàa priori del sistema delle norme giuridiche, in conseguenza alla carenza diun unico principio informatore della vita collettiva (instabilità comeconseguenza del politeismo dei valori politici e del pluralismo delle forzeche li sostengono).

Invece, per la dottrina pura del diritto, l’unità è pensata come esistente(la norma fondamentale in quanto ipotesi normativa ideale e reale alcontempo), come un dato non problematico di ordinamenti effettivi. Ma ciòpuò avvenire o in un sistema di diritto puramente razionale (diritto naturaleo diritto utopico) dedotto da un principio unificatore o, tendenzialmente, inordinamenti che si sviluppano a partire da una unica forza politico-

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ideologica dominante (per esempio, nel periodo del regime liberaleoligarchico «monoclasse» del secolo scorso) 19. Il problema, trattandosi diordinamenti dotati di efficacia e dunque basati su concrete relazionipolitiche e sociali, è invece proprio quello di spiegare, non di “ipotizzare” o“ipostatizzare”, come e in che misura un’enorme quantità di regole positivepossa essere ricondotta a unità attraverso un unico punto di riferimentoideale. Come se fosse un punto pacifico, la dottrina pura del diritto parladappertutto di una unità dell’ordinamento che si sviluppa progressivamente:come se esistesse un’armonia naturale che i giuristi possano dare perscontata 20.

11. A-storicità del concetto, storicità delle concezioni.

Fermo il concetto comune di costituzione che si trova in ogni concezionedella costituzione – concetto racchiuso in quella particella st di cui abbiamoparlato a piú riprese – la costituzione non è intesa sempre nello stessosignificato. Ogni epoca e ogni condizione politica professano concezioniche si reputano conformi alle esigenze dei tempi. Poco sopra si sonoriportate diverse definizioni di costituzione, adeguate alle esigenzedominanti al tempo in cui furono formulate (si veda supra, par. V.II.11). Oradobbiamo affrontare la costituzione secondo la sua natura adeguata allasocietà pluralista di cui siamo figli.

12. Che cosa intendere per pluralismo.

Il secolo scorso ha conosciuto la novità di maggior rilievo per il diritto,una novità che ha dato inizio a un nuovo ciclo storico, tuttora in corso. Ildiritto come concepito dal positivismo giuridico era stato incentrato fino adallora sull’idea dell’esistenza di una forza portante, concretamenteidentificabile, titolare del potere ultimo, cioè della sovranità: lo Stato, comeinvolucro formale del potere che si esprime nella legge. «La sovranità ènello Stato e per lo Stato: discende dagli organi che la esercitano, ma nonemana da essi: un re, o un’assemblea, non è fonte della sovranità, ma il

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potere di essi deriva dallo Stato, in quanto appare rivestito di impero» 21. Ilsecondo dopoguerra mostra invece la maturazione degli elementi che giàdall’inizio del Novecento avevano iniziato a minacciare questo postulatodella vita degli Stati europei e contro i quali, per un fine di restaurazione, sierano tragicamente dati da fare i regimi totalitari tra le due guerre.Osservando il crescere spontaneo di forze sociali – partiti, sindacati,associazioni, gruppi di pressione, chiese, ecc. – si era teorizzata la crisi oaddirittura la «fine dello Stato» (si veda supra, par. III.14). Fu denunciatocome una degenerazione fatale il fatto che nella vita politica non esistessepiú un potere dominante effettivo, come quello di un monarca o di unaclasse egemone o di un popolo in sé unito e concorde, e che ogni decisionecollettiva dovesse essere frutto di negoziazioni estenuanti, in cui entravanosoggetti formalmente privati, come i partiti, i sindacati e le associazioniprofessionali: privati, ma dotati di capacità d’influenza e perfinod’interdizione delle procedure pubbliche.

La costituzione degli Stati pluralisti, nella fase politica che noiattraversiamo, è una costituzione frutto di accordi tra numerosi soggetti,nessuno dei quali decisivo. È insomma una costituzione senza sovrano. Sipuò dire che, mancando un “sovrano politico”, “la sovranità in pezzi” siricompone nella costituzione, nella quale ciò che prima era forza concretadiventa astratta esigenza di convivenza. Dire, come fa la nostraCostituzione (art. 1), che la sovranità appartiene al popolo è, da questopunto di vista, un puro espediente che in realtà apre la strada ai molteplicisoggetti sociali e ai loro conflitti e ai loro accordi. La democrazia possibilein questo contesto è solo quella basata su compromessi 22 e la costituzione,espressione giuridica maggiore della convivenza, non fa eccezione allaregola.

Questa è la costituzione del pluralismo: in essa non c’è piú un sovranoeffettivo e non c’è piú neppure la lotta per la sovranità, come nei periodidualisti (si veda supra, par. IV.4). Ogni soggetto sociale lotta per migliorarele proprie posizioni, ma all’interno di un contesto segnato dalla presenza dimolte forze, politiche, economiche, culturali, tanto numerose da rendereirrealistica la pretesa di una soltanto di queste di fare piazza pulita di tutto ilresto e ricostruire attorno a sé il potere ultimo, cioè illimitato, come quellod’altri tempi. La costituzione pluralista è certamente conflittuale, anzi:

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capillarmente conflittuale, ma il conflitto, rispetto alla lotta della borghesiacontro l’assolutismo regio o alla lotta di classe del passato, è svigorito, nonavendo la stessa potenziale carica distruttiva del contesto generale in cui sisvolge; riguarda non il quadro generale ma le posizioni all’interno di questoquadro.

La costituzione dello Stato pluralista presenta cosí il carattere saliented’essere il frutto di accordi e convergenze tra numerosi soggetti particolari,i quali cercano in essa la protezione della propria identità politica. Ciò checontraddistingue quest’accordo costituzionale da quelli dell’Ancien Régimeè il suo carattere generale. Nell’Ancien Régime, i «corpi sociali» agivanociascuno nel proprio interesse e la costituzione era il risultato di tantiaccomodamenti, di tanti status prodotti da storie particolari. La costituzionepluralistica è invece lo sforzo comune di dettare, attraverso uncompromesso, un disegno sociale e politico generale. Il dirittocostituzionale s’irradia non solo in ogni angolo del «politico», ma anche inogni angolo del «sociale». Per quanto il diritto costituzionale dello Statopluralista dia vita a un «sistema aperto», conformemente alla pluralità delleforze che in esso si sono incontrate, costituisce comunque un quadro diideali etici (come libertà, eguaglianza, giustizia, dignità, sicurezza,autonomia, solidarietà, garanzia della vita, ecc.) che disegna assetti sociali epolitici comprensivi. Da qui, la principale differenza tra la costituzionepluralista del nostro tempo e la costituzione dei ceti dell’Ancien Régime.Mentre, in quest’ultima, ciascuna sua componente operava direttamente perla propria autotutela nei confronti di quelle antagoniste e per ilmiglioramento della propria posizione relativa, essendo quindi refrattaria auna disciplina costituzionale d’insieme, le società odierne, pur essendo ilrisultato di una pluralità di forze, non rifuggono da una disciplinacostituzionale dell’antagonismo che opera nella società. Alla pluralità deipatti particolari, viene a sostituirsi un patto generalizzato e la garanzia delrispetto delle sue clausole è confidata, come si dirà infra (parr. VIII.1 e 2), aun’apposita istituzione, sconosciuta in passato: la giustizia costituzionale.

Quali siano le caratteristiche della costituzione di questo nostro tempo(un tempo che pare, tuttavia, avvicinarsi a una crisi con esiti che nonsappiamo prevedere) vediamo ora, di seguito.

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13. Norma costitutiva.

Il carattere della costituzione che per primo cade sotto gli occhi – puòsembrare un’ovvietà – è la sua costitutività. La costitutività presupponel’inesistenza e, insieme, l’esigenza di unità politica a partire dallamolteplicità; presuppone una comune speranza riposta in una costituzionemessa per iscritto, una «volontà di costituzione» (si veda supra, par. VI.5)che si esprime per realizzarsi. Questa volontà è condizione dellacostituzione, ma non è ancora costituzione. La costituzione – possiamo direcosí – sarà l’esito della volontà che realizza il suo intento, cioè laconvivenza formata, anzi la forma della convivenza che è stata perseguitacon successo. Confrontiamo questa definizione della costituzione comeforma della convivenza con la definizione che si può dare della legge in cuisi esprime ordinariamente e quotidianamente la volontà del legislatore: laforma della forza. Comprendiamo immediatamente la radicale differenzatra convivenza e forza, entrambe “messe in forma”, la prima nellacostituzione, la seconda nella legge.

Si può cercare di spiegare che cosa sia la costitutività della Costituzioneprendendo lo spunto dall’immagine della sabbia, usata per constatare lacondizione politica di disfacimento della vita sociale dell’Italia, inconseguenza degli eventi che seguirono all’8 settembre 1943, quando ogniautorità, ogni forza coesiva preesistente, lo Stato stesso sembravano esserevenuti meno e aver lasciato il posto all’anarchia. «Come costituire lasabbia?», ci si chiese 23. La costituzione è per l’appunto il mezzo attraversoil quale l’informe prende forma. È una risorsa alla quale le società umane sirivolgono dopo le catastrofi, come guerre intestine, crolli di regimi politici,rivoluzioni, sconfitte belliche, che abbiano distrutto le forme politicheprecedenti, quando occorre darsene di nuove. Una costituzione, cioè, è unacostituzione quando – può sembrare una ovvietà, ma è una ovvietà decisiva– crea un ordine a partire da un disordine. Ogni grande rottura dellacontinuità della vita politica porta con sé una nuova costituzione, onde sipotrebbe dire che, contando il numero delle costituzioni, si può conoscere ilnumero delle crisi politiche attraversate dai popoli.

Noi, in Italia, abbiamo una testimonianza del significato “costitutivo”della costituzione, nel modo stesso in cui fu elaborata la Costituzione del

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1948, dopo il crollo del fascismo e la decomposizione delle strutture statali.Esistono numerose e convergenti testimonianze eloquenti di che cosa fosseallora quella «volontà di costituzione» di cui si è detto sopra 24. La societàitaliana, per quanto lacerata, non si dimostrò fatta di sabbia informe eincapace di assumere una forma, secondo l’immagine sopra ricordata esecondo una certa storiografia che parla, con riferimento a quegli anni, di«morte della patria», «fine della nazione», «dissolvimento dello Stato» 25.Nella pur varia presenza di posizioni politiche, sociali, culturali e religiose,si manifestò una forza etica piú grande delle divisioni: la comuneconsapevolezza che non si poteva fallire nell’opera di “ri-costituzionalizzazione”; che la costituzione era il traguardo obbligatorio,pena l’anomía. Il fallimento sarebbe stato la premessa di ulteriori divisionilaceranti, se non di rinnovata guerra civile, col rischio che alla fine tuttiquanti dovessero rinunciare a se stessi per mettersi nelle mani di un qualchepotere imposto dall’esterno, da una qualche potenza mondiale. Per questo, isoggetti costituenti si obbligarono da sé o, per cosí dire, furono«intimamente necessitati» 26 a cercare e trovare una costituzione. Non è quida farsi la storia, una storia che sarebbe assai meno lineare di quel che leparole ora scritte farebbero immaginare (la Costituzione si trovò aconvivere con una costituzione di fatto che recuperava molti elementi delregime precedente, cosicché i decenni successivi furono, per cosí dire, unatensione tra due costituzioni, quella ufficiale e quella ufficiosa).

Il periodo costituente (1946-47) è una manifestazione sul piano storico,prima che concettuale, della differenza di significato che esiste tra la sferadella costituzione e quella della legge: mentre insieme si elaborava laCostituzione, cioè si costituiva un’unità politica, ci si dividevaquotidianamente nelle vicende del governo e della legislazione ordinaria,senza che queste divisioni si ripercuotessero, pregiudicandola, sull’operacostituente. La distinzione tra i due campi – favorita anche dalla scelta,allora molto disputata, ma, col senno di poi, provvidenziale, di sottrarreall’Assemblea Costituente l’attività legislativa ordinaria, assegnandola algoverno (con l’eccezione delle leggi piú importanti, come quella elettorale)– spiega quello che è stato definito il «miracolo costituente», cioè ilraggiungimento dello scopo in presenza di divisioni politiche moltoaccentuate. Nelle due sedi, la costituente e la legislativa, dominavano due“spiriti” profondamente diversi, coerenti con ciò che chiamiamo

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rispettivamente costituzione e legge: lo spirito della concordiasull’essenziale; lo spirito del conflitto sul contingente. I caratteri dellacostituzione, che la distinguono dalla legge, sono tutti riscontrabili negliAtti della Assemblea costituente. Essi rappresentano l’argomento storicoconcreto maggiore di convalida dell’idea, adeguata alla nostra epoca, dellacostituzione come una sostanza normativa niente affatto assimilabile aquella della legge.

14. Costituzioni che costituiscono e costituzioni che statuiscono.

Il carattere delle costituzioni ora in esame permette di stabilire, sia puresoltanto come orientamento generale, alcune distinzioni e differenze nelgenerico campo delle costituzioni.

Innanzitutto, si deve stabilire la distinzione tra le “costituzioni checostituiscono” (la nostra, ad esempio) e le carte, che si dicono anch’essecostituzionali, emanate da poteri politici pre-costituiti che si dannocostituzioni al fine di fissare, prescrivere e imporre col massimo della forza,giuridica e ideologica, i caratteri essenziali del loro stesso regime politico.Queste “costituzioni” non costituiscono ma statuiscono. Alle primesoltanto, si adatta il termine «costituzione» in senso proprio; le secondeappartengono al campo delle «leggi costituzionali», cioè degli strumenti digoverno in forma costituzionale.

Delle costituzioni che statuiscono, un esempio chiaro (anche nella suastessa intitolazione) è rappresentato dal già ricordato Instrument ofGovernment del 1653, che codificò il potere dittatoriale di Cromwell come«Lord protettore» del Parlamento, al tempo della cosiddetta «primarivoluzione» inglese. Ma analogo significato di strumenti di governo hannole “costituzioni” dei regimi totalitari o autoritari, di destra o di sinistra, dovechi prende il potere dà la propria costituzione, come momento normativoiniziale e piú significativo di esercizio del potere appena acquisito. Altroesempio è la costituzione giacobina del 1793, mai entrata in vigore a causadell’instabilità della situazione politica («non si vara una nave nellatempesta», disse Robespierre), pensata come strumento di governo dellafazione radicale della Convenzione rivoluzionaria. Il Giuramento dellaPallacorda («L’Assemblea nazionale, mentre è chiamata a fissare la

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Costituzione del Regno, operare la rigenerazione dell’ordine pubblico, emantenere i veri principî della monarchia […]») 27, è invece unatestimonianza di una situazione intermedia (a riprova che le classificazioni,in questa materia, non escludono i caratteri misti), in cui una componenteessenziale della società, il «terzo stato», chiedeva di “costituzionalizzarsi” o“costituirsi” (secondo l’espressione usata sopra) attraverso un compromessocon la monarchia, secondo la celebre espressione dell’abate Sieyès che aprecosí il suo libello contro la monarchia assoluta: «che cosa è il terzo stato:tutto; che cosa rappresenta: niente; che cosa chiede: qualcosa» 28. LaCostituzione del 1791, insieme alla Déclaration dei diritti del 1789,contiene in sé, originariamente ben visibili, le tracce di una doppia natura:costituzione, rispetto al futuro; statuizione, nei confronti delle strutturedell’Ancien Régime ch’essa era venuta ad abbattere.

15. Costituzione come accordo.

Le “costituzioni che costituiscono” differiscono anche dagli statuti dellemonarchie del XIX secolo, anch’essi genericamente denominati“costituzioni”. Questi “statuti” furono il frutto di situazioni politicheinstabili, in cui due soggetti lottavano – il primo, per conservare il poteresovrano; il secondo, la borghesia, per conquistarlo. Tale condizione sirifletté sulla natura degli Statuti dell’Ottocento. Formalmente, essi eranocarte emanate (concesse) dal sovrano, nell’esercizio di suoi poteri sovraniprecostituiti. Sotto questo aspetto, gli statuti erano leggi costituzionali;sostanzialmente, invece, furono accordi per la sopravvivenza di fronte aimoti sociali rivoluzionari che, in nome del socialismo, si ripromettevano dieliminare sia la monarchia che la borghesia. Questi patti di sopravvivenza“costituirono” un nuovo regime politico, la monarchia parlamentare, dettamonarchia costituzionale (si veda l’art. 2 dello Statuto Albertino). Daquesto punto di vista, si possono dire costituzioni. Sennonché, lecostituzioni dualiste vivono di vita precaria, perché presentano un’intrinsecacontraddizione destinata a esplodere alla prima occasione in cui una parteriesce a imporre il proprio predominio sull’altra: storicamente, o con larevoca dello statuto da parte del sovrano, oppure con l’interpretazione dello

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statuto a favore del Parlamento. Nel primo caso, nulla quaestio: dicostituzione non si parlerà piú; nel secondo, si dovrà parlare di leggecostituzionale, cioè di costituzione come strumento di governo. In breve, sipuò dire cosí: gli statuti monarchici ottocenteschi furono costituzionisoltanto nel breve e incerto tempo in cui essi corrisposero all’equilibrioeffettivo tra il re e la rappresentanza parlamentare.

16. Norma inclusiva.

La costituzione, inoltre, costruisce lo spazio della inclusione politica esociale. Questo, precisamente ed essenzialmente, è il suo compito,adempiendo il quale essa, per converso, stabilisce il confine al di là delquale sta la esclusione. Si può anche dire cosí: la costituzione stabilisce lalinea che divide il campo tra legittimità e illegittimità. Questo è il suocompito, profondamente diverso da quello svolto dalla legge, che è quellodi stabilire il confine tra la legalità e l’illegalità (secondo le precisazioniterminologiche di cui s’è detto supra, par. VI.8). Queste espressioni, chepossono apparire, almeno parzialmente, ovvie, richiedono una spiegazione.

Nelle condizioni sociali e politiche pluraliste, l’optimum sarebbe lacostituzione totalmente inclusiva, che non escludesse nulla della realtàsociale e politica. Questa tendenza, che è anche l’aspirazione a un modellodi convivenza la piú possibile ampia e aperta, incontra perònecessariamente un limite. Una costituzione che pretendesse di“costituzionalizzare” tutto, cioè una cosa e il suo opposto, modi diconvivenza contraddittori, libertà e oppressione, individualismo e olismo,egualitarismo e classismo, cosmopolitismo e razzismo, ecc., noncostruirebbe nulla: non sarebbe una costituzione. “Costituire” è anche“differenziare”. Ogni costituzione deve scegliere e, scegliendo, non può nonprendere le distanze da ciò che viene messo da parte, e questo “mettere daparte” – si capisce senza dover spendere parole – è denso di minacce edrammaticità. In breve, ogni costituzione, anche quella piú inclusiva, èun’opera di distinzione tra ciò che è legittimato e ciò che è delegittimato. Lamisura di tale differenziazione è la misura dell’apertura e della chiusurarispetto all’inclusione sociale e politica. Nell’inclusione, c’è la mitezza

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delle costituzioni; nell’esclusione, la loro ferocia. Questo doppio volto dellacostituzione, come inclusione e come esclusione, si può mostrare con unacomparazione esemplare. Il già ricordato Commonwealth Instrument ofGovernment di Oliver Cromwell era norma escludente là dove (art.XXXVII) stabiliva che la libertà di professione della fede e di eserciziodelle pratiche religiose non si estendeva al «papismo» (Popery) e ai prelati.Al contrario, l’articolo 8, primo comma, della nostra Costituzione, «Tutte leconfessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge», e l’articolo19, «Tutti hanno diritto di professare la propria fede religiosa», sono invecenorme di una costituzione includente.

D’altra parte, si ricordi ciò che si è detto al punto precedente, a propositodelle costituzioni come conseguenze di fratture storiche. Lacostituzionalizzazione di una nuova situazione politica e sociale comportanecessariamente misure costituzionali contro: contro la vecchia situazione,le sue forze, la sua ideologia, le sue strutture di potere. Dove la frattura èprofonda, come nelle situazioni rivoluzionarie che pretendono di rovesciareil passato, si può parlare della costituzione come «decisione» in un «sensoparticolarmente intensivo», cioè nel senso della separazione polemicaamico-nemico, secondo la famosa definizione di «politico» dovuta a CarlSchmitt 29. In questo senso, la decisione costituzionale rappresenterebbe lapiú pregnante manifestazione del “politico”.

17. Inclusione ed esclusione, secondo la Costituzione italiana.

Anche la vigente Costituzione italiana contiene una parte che esclude,rappresentata dalle norme che stabiliscono la frattura rispetto all’immediatopassato monarchico e fascista. Il riferimento è agli articoli con i quali siprendono le distanze, per condannarli con un giudizio di invalidità storica, ilfascismo e la monarchia. La discontinuità rispetto alla monarchia è sancitain termini cosí tassativi che la forma di Stato repubblicana è esplicitamentesottratta alla revisione costituzionale. Ma la stessa irreversibilità vale ancheper il fascismo, non solo per il divieto di «ricostituzione» del Partitofascista, ma anche, e soprattutto, in quanto i principî fondamentali dellaCostituzione – come quelli riguardanti i diritti di libertà, l’uguaglianza tra icittadini, l’internazionalismo e il ripudio della guerra, il carattere

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rappresentativo ed elettivo degli organi di indirizzo politico, la garanziadella Costituzione contro gli abusi politici, la struttura statale basata sulleautonomie, ecc. – sono tutti principî opposti a quelli professati dal fascismoe sono anch’essi sottratti alla revisione costituzionale, come è stato stabilitonumerose volte dalla Corte costituzionale (si veda infra, par. VI.21).

La natura inclusiva della Costituzione, invece, è riflessa nell’amplissimoconsenso che essa ottenne nella votazione conclusiva dell’AssembleaCostituente (453 sí e 62 no). Questo carattere delle costituzioni inclusive, aldi sopra delle parti, è un dato di tutte le costituzioni del pluralismo. Alcontrario, le costituzioni deliberate a stretta maggioranza sono lecostituzioni di parte, contrarie al pluralismo, e normalmente destinate a vitabreve, non proiettandosi oltre il momento in cui sarà l’“altra parte” adascendere al potere 30. Piú che alle “costituzioni”, si avvicinano a “coupsd’état” costituzionali, cioè a fattori piú d’instabilità e conflitto che distabilità e pacificazione.

18. La materia oggetto di inclusione e di esclusione costituzionale.

In generale, tuttavia, e salve le eccezioni che (come quelle contenutenelle Disposizioni transitorie e finali XII e XIII della Costituzione italiana,sul fascismo e la monarchia) confermano la regola, le costituzioni, inquanto siano tali, cioè “costituiscano”, e non siano mere leggi in formacostituzionale, cioè non siano atti d’inimicizia concreta ed esercizio di forzaformalizzata in norme costituzionali, includono nella ed escludono dallasfera della legittimità oggetti astratti, come concezioni della vita sociale,principî e fini politici, idee di giustizia, culture, ecc. Non hanno di mirasoggetti storici specifici, cioè individui e gruppi politici e sociali. Lecostituzioni derivano certo da determinate forze politiche e sociali concrete,storicamente determinate, ma non sono un mezzo attraverso il quale taliforze possano pretendere, esse stesse, di “costituzionalizzarsi”, cioè direndersi insostituibili, assegnandosi un plusvalore e un privilegio rispetto adaltre forze concorrenziali. Se fosse il contrario, le costituzionidiventerebbero strumenti di lotta politica e non «ordinamenti»costituzionali, come accade quando esse si identificano con il regime di un

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partito o, addirittura, consacrano il potere di una persona e della suadiscendenza autoattribuendosi la carica a vita di capo dello Stato, presidentedel partito di governo, ecc. Nei casi in cui ciò accade, ogni passaggio o crisipolitica si trasforma automaticamente in crisi costituzionale. Le verecostituzioni sono prodotti storici astratti che perdurano indipendentemente eoltre il cambiamento dei partiti e degli uomini al potere. Sono quelle checontinuano a valere anche quando non esistono piú le forze storiche che lehanno fatte e si proiettano su quelle che ne prendono il posto. Le altre,quelle che nascono e muoiono con chi le ha fatte, sono invece – ripetiamo –strumenti del loro potere, cioè mere leggi in forma costituzionale.

Le concezioni della vita sociale, i principî e i fini politici, le idee digiustizia, le culture, cioè le forze spirituali costituzionali, non si affermanoper forza propria, ma in quanto vi siano soggetti storici che li sostengono ecombattono per loro. Onde è facilmente comprensibile che la forzalegittimante e delegittimante della costituzione si riflette, a partire daicontenuti della costituzione, sulle forze costituenti: nel duplice senso dilegittimazione di chi si è incluso tra queste e di delegittimazione di chi se neè escluso. Ciò vale, ovviamente, per le fasi iniziali di vigenza di unacostituzione, quando sono presenti sulla scena politica le stesse forze chehanno operato nel momento costituente. Cosí, per esempio, si spiega l’usoche in Italia si è fatto fino agli anni Ottanta del secolo scorsodell’espressione e del concetto di «arco costituzionale», per includere ipartiti che avevano partecipato al patto costituzionale e per escludere leforze che non vi avevano partecipato. È un segno di perdita d’efficacialegittimante della Costituzione il fatto che essa, dopo di allora, non vale piúcome pietra di paragone al fine della inclusione (e della esclusione) delleforze che si presentano sulla scena della politica. Quando la costituzionenon è piú, oltre che inclusione, anche selezione, e in essa fingono diriconoscersi tutti indistintamente, si può essere sicuri che la sua forzacostitutiva è in fase di caduta libera.

Nulla di tutto ciò che precede accade normalmente nelle decisionilegislative. In questa considerazione sta l’essenziale diversità tra lacostituzione e la legge. Il fatto di essere inclusi o esclusi o, in altre parole,di avere o non avere partecipato alla confezione d’una legge qualsiasi, nonassume affatto il significato di “essere ancora” o “non essere piú in gioco”per l’avvenire. Chi è stato incluso, potrebbe in avvenire essere escluso; e

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viceversa, nella normale alternanza di potere, nel quadro di regolecostituzionali comuni. Anzi, nella dialettica legislativa, questa possibilità ènormale, fisiologica. Non è qui questione, infatti, di legittimazione odelegittimazione: le minoranze che esercitano l’opposizione non sono menolegittime della maggioranza.

Poiché la costituzione, quando è dotata di forza costituzionale, puòsegnare i confini tra un “dentro” e un “fuori” lo spazio politico legittimo, equindi distribuire patenti di legittimità ma anche di illegittimità aiconcorrenti nell’arena politica, si comprende che, aperta da qualcuno per ipropri fini una qualsiasi «fase costituente», si apre automaticamente unacorsa generalizzata a parteciparvi (non necessariamente a concordare con icontenuti della riforma). A tale corsa, finiscono per prendere parte anche leforze che, dal proprio canto, non avvertirebbero minimamente la necessità ol’opportunità della riforma. Il rischio che essi scorgono, infatti, èl’autoemarginazione, una volta che la nuova costituzione da progetto sitrasformasse eventualmente in realtà. «Bisogna partecipare», sembra esserelo slogan vincente all’inizio. Quando, però, ci si avvicina alla faseconclusiva dei processi di cambiamento costituzionale, quella che prima erala speranza d’inclusione diventa consapevolezza del rischio dell’esclusione.Cosicché la disponibilità iniziale si trasforma in ostilità finale. Questaconsiderazione può trovare numerose conferme fattuali nella vicenda dellariforma costituzionale italiana, trascinatasi per diversi decenni con esitofallimentare, una volta messa in moto da una piccola forza politica alla finedegli anni Settanta del secolo scorso (il Partito socialista), alla quale perlungo tempo si sono acconciate passivamente e senza convinzione le forzemaggiori, partecipando a vicende che, alla fine, si sono dimostratefarsesche 31.

19. Costituzione come compromesso.

Nelle situazioni costituzionali pluraliste, l’inclusione avvienenecessariamente attraverso compromessi tra le parti. La costituzione perciòè, e non potrebbe non essere, un testo compromissorio. Solo a unavalutazione superficiale, chi si aspettasse che le costituzioni fosseromanifesti ideologici obbedienti a una logica rigorosa, vedrebbe in questo

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loro carattere un difetto. Se la costituzione rispecchiasse una sola ideasemplice (ad esempio la tutela assoluta della libertà oppure della proprietà)e ignorasse tutte le altre (ad esempio l’uguaglianza, la giustizia sociale,ecc.), sarebbe sí lineare e consequenziale, ma scarsamente inclusiva e nonsarebbe idonea a reggere la complessità delle attuali società. Sarebbe chiara,ma selettiva; univoca, ma di parte; unilaterale, e oppressiva per l’altra parte.

Il carattere della Costituzione italiana come compromesso fu rilevato giàdurante i lavori dell’Assemblea Costituente. Piero Calamandrei, uomo digrande prestigio appartenente al Partito d’azione (un partito di ispirazioneliberale e democratica), denunciando «una impressione di eterogeneità» 32

parlò di «compromesso tripartito» fra le tradizioni liberale, cattolica esocialista. Altri 33, successivamente, hanno visto nella Costituzione uncompromesso bipartito, tra cultura socialista e cultura cattolica, le qualituttavia, per una loro certa inadeguatezza di fronte ai problemi dellariorganizzazione dello Stato democratico, avrebbero finito per rifluire suconcezioni liberali provenienti dal passato prefascista. Quale che sia ilgiudizio su queste diverse valutazioni, il carattere compromissorio dellaCostituzione non può essere contestato 34.

Della Costituzione come compromesso si diedero fin da subito duegiudizi diversi, anzi opposti. Soprattutto da parte di esponenti dellatradizione liberale vi si vedeva l’origine di contraddizioni, confusioni,debolezza e inconcludenza. Si sarebbe preferita una Costituzione semplice,breve, lineare 35. Ma questo era precisamente ciò che il caratterepoliticamente composito dell’Assemblea Costituente rendeva impossibile.Contro questa interpretazione negativa del compromesso costituzionale, sene avanzò un’altra, di segno positivo. Con le parole di Palmiro Togliatti,l’allora segretario del Partito comunista:

Che cos’è un compromesso? I colleghi che si sono serviti di questa espressioneprobabilmente l’hanno fatto dando ad essa un senso deteriore. Meglio sarebbe dire cheabbiamo cercato di arrivare a un’unità, cioè di individuare quale poteva essere il terrenocomune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, un terrenocomune che fosse abbastanza solido perché si potesse costruire sopra di esso unacostituzione, cioè un regime nuovo, uno Stato nuovo abbastanza ampio per andare al dilà anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti.Se questa confluenza di diverse concezioni su un terreno ad esse comune volete

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qualificarlo come “compromesso”, fatelo pure. Per me, si tratta invece di qualcosa dimolto piú nobile ed elevato, della ricerca di quell’unità che è necessaria per poter fare lacostituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o dell’altra ideologia, ma lacostituzione di tutti i lavoratori italiani, di tutta la nazione 36.

Una sfumatura diversa, si coglie nelle parole di Lelio Basso, esponentedi rilievo del Partito socialista. In queste, svolge una parte importante lanecessità alla quale occorre piegarsi, accettando rinunce:

noi voteremo in questa Costituzione degli articoli che certamente non corrispondonoalle tradizioni del nostro partito e altri che contraddicono quelle che sono le nostreaspirazioni lontane; ma voteremo degli articoli che siano l’espressione della complessarealtà oggi in atto e li voteremo con perfetta lealtà 37.

20. Il “non-detto” costituzionale.

Il significato della costituzione come compromesso comporta, come si èdetto sopra, la rinuncia delle “parti costituenti” a riversare nel pattocostituzionale tutte le proprie posizioni e aspirazioni, nella loro integralità.Accanto al “detto”, nelle costituzioni pluralistiche di compromesso, c’èsempre un “non detto”. Questo – il “non detto” costituzionale – è il puntodecisivo per comprendere se il compromesso deve essere inteso comesemplice armistizio, destinato a essere rotto non appena si presentil’occasione favorevole a qualcuna delle parti coinvolte, oppure come pattoduraturo, vero e proprio trattato di pace su cui costruire un avvenirecomune. Nel primo caso, il “non detto” costituzionale è tale perché le partilo lasciano temporaneamente da parte, rinunciano solo per il momento afarlo valere, in vista dell’accordo momentaneo. Nel secondo caso, il “nondetto” è tale perché è stato abbandonato, dimenticato; perché le parti, ipartiti, che sono entrati nel processo costituente armati delle loro identitàstoriche e ideologiche, ne escono trasformati dalla costituzione: si sono, incerto senso, costituzionalizzati essi stessi, e la loro originaria identità è, percosí dire, filtrata dai principî costituzionali cui essi hanno aderito. Nelprimo caso, la costituzione è un accordo transitorio, destinato a non durare;nel secondo, l’accordo diventerà il terreno comune che plasmerà le stesse

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identità delle parti, in senso costituzionale. Normalmente, le costituzionipluraliste nascono nel primo modo; se perdurano nel tempo – come,malgrado tutti i tentativi in contrario, è stato finora della Costituzioneitaliana – è perché, nell’insieme, sono venute a vivere nella secondamaniera, il compromesso essendosi trasformato da una necessità, impostadalle circostanze storiche, in un ethos consistente nel riconoscimentogeneralizzato delle buone altrui ragioni di fondo, con le quali, non solo perevitare tragedie ma anche perché è buona cosa per tutti che sia cosí, occorreconvivere.

Il compromesso costituzionale comporta rinunce da tutte le parti, inquanto esse perseguono la propria inclusione nel campo della legittimitàcostituzionale: rinunce reciproche in vista dell’accordo nel quale possanoriconoscersi. Senza concessioni che implicano rinunce, esse sicondannerebbero all’autoesclusione. Questa realistica constatazione nondeve tuttavia far pensare che le costituzioni di compromesso siano sempremalinconici documenti che registrano soltanto incrociate impotenze,accettate al solo scopo di trovare un accordo quale che sia, per porre fine aicontrasti di parte e partecipare a una sorta di banchetto costituzionale. Secosí fosse, esse sarebbero ben poca cosa; sarebbero mere sospensioni diconflitti latenti. Ma le costituzioni non sono abdicazioni, sono ancheacquisizioni positive. Presuppongono rinunce, ma non sono solo rinunce.Sono invece il riconoscimento dell’esistenza di un “minimo comunedenominatore” costituzionale, che è sostenuto dalla generale adesione attivadi tutti coloro che partecipano al compromesso e che costituisce la solidabase per costruire una convivenza comune, capace di andare al di là deirapporti di forza del momento. Tale “minimo comune denominatore” è ilnucleo essenziale della Costituzione, la sua parte intangibile che non potràessere sottoposta a revisione se non facendo rovinare l’intero edificio. LaCorte costituzionale (ad esempio, sentenze n. 1146 del 1988 e 238 del 2014)ha parlato, a questo proposito, di «principî supremi» intangibili: l’unità el’indivisibilità della Repubblica, il valore della persona umana e i suoidiritti individuali e sociali inviolabili, l’uguaglianza, la democrazia, lalaicità, il diritto di difendere in giudizio i propri diritti.

Ovviamente, anche questi principî si prestano a interpretazioni pluraliste:essi non sono intesi da tutti nello stesso modo e devono trovare modalità dicontemperamento tra concezioni diverse. Ma il contrasto sulle

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interpretazioni si svolgerà anch’esso nel quadro di quella «volontà dicostituzione» di cui si è parlato e non si risolverà in un conflitto distruttivo,in quanto si opererà con lo spirito del compromesso attraverso la tecnica del«bilanciamento» (si veda infra, par. VIII.17). In ultima istanza, quellavolontà reciproca è la garanzia ultima del valore della costituzione.

21. Costituzione duratura.

Le costituzioni in senso moderno nascono per mezzo dell’esercizio di ciòche si denomina «potere costituente», il potere di deliberare e mettere periscritto i contenuti della deliberazione. Piú che di «potere», nelle situazionipluraliste, sarebbe meglio parlare di «momento» costituente, nel quale, percosí dire, si raccolgono le fila. Ma, usiamo anche noi la terminologiatradizionale. Sotto questo aspetto, la costituzione si presenta come legge.Ma c’è una differenza essenziale: la legge è espressione di una funzionenormativa permanente; la costituzione, istantanea. Ciò significa che ilpotere legislativo è sempre potenzialmente in opera e quindi nessuna leggeè mai sicura della sua durata; il «potere costituente», il «momentocostituente», invece, una volta esaurita la funzione di “dare la costituzione”,si sciolgono. La costituzione quindi – se è davvero una costituzione – èassicurata, quanto alla sua stabilità, dal fatto che, una volta approvata, nonc’è piú il potere, è esaurito il suo momento.

Istantaneità e durevolezza sembrano contraddittorie. In realtà,l’istantaneità del momento costituente è complementare alla durevolezzadella norma costituzionale. Il potere costituente che si prolungasse neltempo, dopo avere “fatto la costituzione”, sarebbe una minaccia permanenteper la costituzione stessa, perché, come l’ha fatta, cosí potrebbe semprerifarla e ciò si porrebbe in contrasto con la natura stessa della costituzionecome norma costitutiva: la costituzione “rifatta” sarebbe norma distruttiva,cui potrebbe seguirne un’altra e poi un’altra ancora, con un effetto dipermanente instabilità, di stásis nel senso greco antico.

Per comprendere la natura del pericolo insito in un potere costituenteprolungato nel tempo, occorre porre mente alla sua onnipotenza. Il poterecostituente è, nella prospettiva della «teologia politica» di Carl Schmitt

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(«Tutti i concetti piú pregnanti della moderna dottrina dello Stato sonoconcetti teologici secolarizzati») 38, il potere sommo o sovrano, come ilpotere creatore di un Dio. Ma anche si dice che, una volta creato il mondo,Dio si è «ritirato» per lasciarlo vivere e permettergli di reggersi sulle sueforze. Un potere di questo genere, sempre in potenza che minaccia di porsiin atto, sarebbe refrattario a qualunque limite giuridico; da lui ci si potrebbedunque aspettare qualsiasi cosa. Di fronte al potere costituente, cioè alpopolo riunito in assemblea, «tacciono tutte le leggi preesistenti», ha dettoRousseau. La democrazia pura, di cui egli era fautore, basata per l’appuntosul popolo riunito in assemblea e che legifera senza incontrare limiti, èun’idea in puntuale contrasto con quella di costituzione, cioè con l’idea diuna norma che si impone, regolandolo, anche al potere politico piú elevato.Un potere costituente permanente sarebbe l’equivalente del potererivoluzionario, capace di distruggere in ogni momento la costituzioneesistente e di contraddire la sua funzione, che è una funzione d’ordine. Ilpotere costituente può bensí nascere da una rivoluzione che si avvale di“leggi rivoluzionarie” rivolte a porre un nuovo ordine, ma la costituzione siafferma come tale – secondo l’espressione di Napoleone Bonaparte,pronunciata per l’appunto per stabilizzare l’ordine, dopo anni di tantodisordine – solo quando «la Révolution est finie», perché la rivoluzione nonsa che farsi d’una costituzione, ma solo di «leggi rivoluzionarie» 39.

Il potere costituente è una nozione (e una realtà) che ha sempre postoproblemi alla dottrina della costituzione. Se la costituzione deriva dalmassimo potere politico, come può dirsi che questo ne sia vincolato? Comeabbiamo già ricordato (si veda supra, par. V.II.9), Joseph de Maistre haformulato questa domanda chiedendo come si possa dire che la costituzioneè al di sopra di tutti, se qualcuno l’ha fatta 40. E Thomas Hobbes, perargomentare il suo punto di vista favorevole all’illimitatezza del poteresovrano, ha fatto osservare la contraddittorietà insita nell’idea dicostituzione come «regola del potere che deriva dal potere»; «una opinioneripugnante alla natura dello Stato è che colui che dispone del potere sovranosia soggetto alle leggi civili […]. Alle leggi che il sovrano ha posto [noipossiamo sostituire “leggi” con “costituzione”, che il sovrano ha posto],egli non è soggetto, perché essere soggetto alla legge […], cioè a se stesso[…] non è soggezione, ma libertà» 41. A sua volta, Santi Romano, nella sua

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critica alle costituzioni scritte, riferendosi a de Maistre, ha affermato che«pubblicare e mettere nelle mani di tutti […] una carta costituzionale,significa quasi aprire un concorso perpetuo a chi saprà far meglio» 42. Alladifficoltà che sta alla base di queste considerazioni – l’onnipotenza delpotere costituente vis à vis della stessa costituzione ch’esso ha posto – si èovviato con la distinzione che segue.

22. Potere e momento costituente – poteri costituiti.

La risposta al problema anzidetto è stata cercata nella distinzione trapotere costituente e poteri costituiti e nella separazione dell’uno dall’altro,attraverso la loro attribuzione a organi diversi. Questa distinzione è dovutaall’abate Sieyès, uno dei maggiori protagonisti degli svolgimentirivoluzionari in Francia, prima dell’ascesa al potere dei giacobini 43. Allastregua di questa impostazione, i poteri ordinari o «costituiti» possonoconsiderarsi vincolati a quanto disposto dal potere costituente: i primi,infatti, per la loro esistenza e i loro poteri, sono debitori al secondo e,quindi, necessariamente subordinati. Ciò – si noti – costituisce unasoluzione soddisfacente al problema, per cosí dire,dell’“addomesticamento” delle forze brute della politica solo in un sensorelativo, cioè dal punto di vista dell’efficacia concreta che l’ordinamentocostituzionale è capace di assumere. Quando l’efficacia della costituzione èdeclinante perché si attenuano le ragioni costituzionali materiali sulle qualiessa si regge, riprende spazio la politica, come luogo di forze produttrici didiritto che trascendono il diritto positivo – cioè, innanzitutto, chetrascendono la costituzione stessa e non danno alcuna importanza allasuddetta distinzione. Essa vale, infatti, solo nei periodi di quietecostituzionale. In altri termini, il «momento costituente» può sempre essererievocato e chi può farlo sono le forze politiche che operano per incrinare lalegittimità della costituzione preesistente.

Noi, in Italia, abbiamo conosciuto questi problemi all’epocadell’elaborazione della Costituzione vigente. Si discusse l’eventualità diriconoscere all’Assemblea Costituente anche il potere legislativo, maprevalse l’idea opposta, per evitare quella confusione di poteri che avrebbecomportato la creazione di un potere illimitato. Il punto fu oggetto di una

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disputa strettamente politica che vedeva innovatori e conservatoricontrapposti, i primi favorevoli alla confusione dei poteri, i secondi allaseparazione. Ma, al di là della contingenza politica, stava una questioneeminentemente costituzionale. Prevalse la tesi della separazione, essendosistabilito che, durante il periodo della Costituente e fino alla convocazionedel Parlamento a norma della nuova Costituzione, il potere legislativo eranormalmente (salve alcune eccezioni) «delegato» al governo. Fu stabilitoaltresí che l’Assemblea Costituente si sarebbe sciolta di diritto il giornostesso dell’entrata in vigore della Costituzione: norma che esprimeva nelmodo chiaro l’idea della consumazione, come si suol dire, uno actu delpotere costituente stesso (vi furono poi diverse, ma limitate autoproroghe,dovute peraltro a ragioni essenzialmente tecniche, che determinarono nonpoche discussioni, alimentate dal timore che la Costituente si trasformassein un’assemblea sovrana permanente) 44.

La distinzione potere costituente - poteri costituiti svolge funzioneanaloga a quella potere originario - poteri delegati, formulata negli StatiUniti d’America per far fronte allo stesso problema: come limitare il potere,il potere popolare, una volta che la Costituzione sia diventata opera sua. La“dottrina ufficiale” in proposito, che sarà alla base della celeberrimasentenza della Corte suprema Madison versus Marbury del 1803 (si vedainfra, par. VIII.4), fu formulata nel 1788 da Alexander Hamilton, nel celebresaggio n. 78 del Federalist:

Non esiste affermazione alcuna che discenda da piú ovvi presupposti, di quella chesostiene che ogni deliberato di un’autorità delegata, che sia contrario allo spiritodell’atto di delega in virtú del quale esso viene esercitato, è nullo [void]. Pertanto,nessuna legge contraria alla Costituzione può essere valida. Il negarlo varrebbe adaffermare che colui che è delegato ha funzioni di maggiore importanza di chi lo delega;che il servitore è al di sopra del padrone; che i rappresentanti del popolo sono superiorial popolo stesso; che, infine, coloro che deliberano in virtú di determinati poteri nonsolo possono fare ciò che non è autorizzato da questi poteri ma, addirittura, ciò chesarebbe loro proibito 45.

Questa prospettiva, tuttavia, non era tale da risolvere il problema dellastabilità della Costituzione, poiché il popolo delegante avrebbe potuto in

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ogni momento riprendere in mano il proprio destino costituzionale. Lasovranità, in ultima istanza, risiede nel popolo, come è richiesto da «quelprincipio repubblicano che stabilisce il diritto del popolo di intervenire amodificare o abolire la costituzione esistente, ogni qual volta essa siareputata contraria al proprio benessere». Ma,

fino a che il popolo, con deliberazione solenne e autorevole, non avrà annullato omutato il regime vigente, sarà vincolato a esso, sia in quanto collettività, sia in quantocomposto da singoli individui; né i loro rappresentanti saranno giustificati se sidiscosteranno dalla Costituzione prima che una tale deliberazione sia stata pronunziata,anche se la loro condotta fosse determinata da una supposizione o perfino dalla positivaconoscenza di quelli che sono i sentimenti del popolo.

23. Sovranità della costituzione.

In questo modo, poteva costruirsi l’idea della «sovranità dellacostituzione», ma solo fino al momento in cui il popolo non avesse fatto dinuovo appello al proprio potere costituente, che queste formulazionipresuppongono sempre esistente, anche se normalmente quiescente.

Per risolvere – almeno dal punto di vista interno all’ordinamento – ilproblema della stabilità costituzionale e venire incontro all’aspirazionedella costituzione di valere illimitatamente nel tempo, occorreva fare unpasso in piú: proclamare che il potere costituente (o delegante, secondo laversione americana), una volta esaurita la sua funzione originaria, non puòpiú essere evocato: in altri termini, che il suo potere sovrano si esaurisce.Cosí, ad esempio, l’articolo 1, secondo comma, della Costituzione italiana,nello stabilire che «la sovranità appartiene al popolo, che l’esercita nelleforme e nei limiti della Costituzione», nel momento stesso in cui riconoscela «sovranità popolare», la nega in quanto sovranità, cioè in quanto potereche non riconosce vincoli a regole di validità. I vincoli, infatti, sono posti:sono «le forme e i limiti costituzionali». Onde, si è potuto coerentementesostenere, nella prospettiva del diritto costituzionale positivo, che, conl’entrata in vigore della Costituzione, il concetto di sovranità concreta, cioèriferito a un soggetto storico quale il «popolo», è morto e il suo posto èpreso da un soggetto astratto, la Costituzione 46. Non esiste dunque piú –

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sempre dal punto di vista interno all’ordinamento: dall’esterno, cioè conmezzi contra ius, tutto è sempre possibile – la possibilità di esercitare unpotere che si è esaurito; non esiste piú la possibilità di deliberare sullacostituzione come tale, ma esiste solo piú il potere di deliberare leggi,riguardanti la Costituzione. Le «leggi di revisione» costituzionale non sonodunque «costituzione» nuova, ma modificazioni della Costituzione cheesiste e che continua a esistere. Leggi che volessero essere costituenti e noncostituite, mirassero cioè a sovvertire la Costituzione e non a modificarlasemplicemente, sarebbero illegittime, anche se approvate in formacostituzionale: illegittime, ovviamente, alla stregua della legittimitàpreesistente.

24. Costituzione e autonomia sociale.

Le costituzioni pluraliste traggono la loro forza dalla società che in essesi esprime. La loro forza è un incontro, un punto di equilibrio. Taleequilibrio c’è o non c’è di per sé, e non può essere imposto da una manosovrana, che sovrasta e mette ordine. Se ciò accadesse, sarebbe unacontraddizione patente della costituzione pluralista; saremmo in un’altrasituazione costituzionale e si dovrebbe pensare alla costituzione in altrisignificati, come norma che impone, non che compone.

La differenza capitale è dunque tra la costituzione che ci si dà e lacostituzione che ci è data. Questa differenza rinvia a una differenza dinatura politica concreta tra le situazioni in cui alla costituzione preesiste unsoggetto dotato di potere supremo, cioè un sovrano, capace di statuire sullacostituzione, e le situazioni in cui tale soggetto non preesiste allacostituzione e viene a “costituirsi”, per l’appunto, nello stesso “fare”costituzione, cioè nel processo di costituzionalizzazione. Nel primo caso,possiamo dire che un’organizzazione politica, uno Stato, ecc. «hanno unacostituzione», come un dato estrinseco; nel secondo caso che essi «sono unacostituzione», in quanto quest’ultima è un fattore intrinseco senza il qualenon esisterebbero. Noi possiamo vedere nella storia concreta la differenza:se un potere organizzato preesiste alla costituzione, questa può venire amancare, senza che quello si dissolva, come nel caso delle monarchie del

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XIX secolo che, data la “costituzione”, nel senso di allora (lo “statuto” dellamonarchia), potevano revocarla, senza venir meno per questo. Se nonpreesiste, allora il mancato raggiungimento dell’obbiettivo costituzionale,cioè la mancata costituzionalizzazione delle forze in campo – ad esempio ilfallimento di un’assemblea costituente – significherebbe il caos o la guerracivile. Nelle diverse definizioni di costituzione la differenza si manifesta aseconda che il soggetto cui la costituzione è riferita sia una forza storico-concreta (un monarca, uno Stato, un partito politico, ecc.), ovvero sia unsoggetto astratto, che la costituzione trasforma in concreto (il popolo, lasocietà, la nazione, ecc.).

Detto in breve: la costituzione nasce e si regge a partire dalle stesse forzeche essa deve regolare, organizzare, disciplinare e non può fare affidamentosu nessuna forza a priori. Se la situazione è pluralista, questo carattere diautonomia che presiede alla costituzione è particolarmente visibile, oltreche problematico. Se una forza precedente esistesse, non sarebbe piú unacostituzione ma sarebbe propriamente una legge, cioè un’imposizione, informa costituzionale. Qui si vede, per cosí dire, allo stato puro la differenzatra la costituzione e la legge: la costituzione esprime una condizioneoriginaria; la legge esprime invece una forza derivata. La condizioneoriginaria, in quanto tale, non può che basarsi su se stessa; la forza derivatasi basa invece su quella originaria da cui deriva. La (forza della)costituzione è dunque autonoma; la (forza della) legge, eteronoma. Conriferimento alle situazioni democratiche pluraliste, possiamo dunque anchedire cosí: la forza della costituzione si basa sull’autonomia, mentre la forzadella legge si basa sull’eteronomia che le viene attribuita dalla costituzione.L’eteronomia nasce dall’autonomia.

25. Costituzione sul vuoto?

Le considerazioni che precedono introducono la domanda capitale diogni teoria della costituzione: cosa è ciò che trasforma in testo vivo quelloche, di per sé, non sarebbe che un foglio di carta morto su cui qualcuno hascritto qualcosa in forma di norme? Non risulta che, nei trattati e neimanuali di diritto civile, penale, amministrativo, ecc., ci si interroghi circa

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le ragioni in virtú delle quali il codice civile, il codice penale, le leggiamministrative, ecc. contengono norme efficaci. Il fatto stesso che questadomanda sia posta con riguardo alla costituzione, e non con riguardo alleleggi, è di per sé la spia di una differenza essenziale. La risposta alladomanda non può che riguardare atteggiamenti di natura spontanea, comel’adesione leale. A differenza della legge, che è norma coercitiva, lacostituzione è norma che, se vive, vive senza imposizione, per tacitaaccettazione.

L’accettazione è un fatto, non una norma; è però un «fatto normativo»,un fatto dal quale nasce la forza della costituzione come norma. Questofatto rinvia a sua volta alle cause che lo determinano, cioè a «situazionicollettive» nelle quali l’adesione trova le sue ragioni. I fattori chedeterminano questa situazione sono di natura costituzionale materiale,secondo quanto già si è detto. Tali fattori sono molteplici e mutano colmutare dei caratteri economici, sociali, culturali della società che nessunacostituzione scritta può pretendere di imbrigliare in ultima istanza. Ciò cheoccorre, per la forza della costituzione, è che questo intreccio di fattoriproduca una norma non scritta, generalmente accettata, la vera normafondamentale di ogni ordinamento costituzionale di natura pluralista, lanorma la cui legittimità ed effettività genera la validità di tutto ciò che neconsegue: la costituzione deve valere. Si deve aggiungere, con riguardo allesituazioni costituzionali pluraliste e secondo quanto già detto a propositodella costituzione come compromesso: deve valere per ciascuna delle parti,anche se esse non vi trovano integralmente rispecchiate le proprieaspettative. Questa norma costituzionale in senso materiale può essereulteriormente specificata osservando che l’adesione alla costituzione di unaparte presuppone analoga adesione da parte delle altre parti. Questogenerale intreccio ed equilibrio delle attese giustifica il sacrificio di atteseparticolari: rinuncio a qualcosa di mio, perché anche gli altri rinunciano aloro volta a qualcosa di loro in vista di un fine piú elevato, la convivenza.

Quanto testé osservato costituisce la risposta alla questione-prima delcostituzionalismo pluralista: la costituzione nasce dall’autonomia delleparti, ma, una volta nata, l’autonomia deve trasformarsi in eteronomia,senza di che non si potrebbe parlare di costituzione come norma obbiettiva.Come può accadere questa trasformazione? La risposta può esseresintetizzata dicendo che la forza obbligante delle costituzioni pluralistiche

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deriva da una convenzione costituzionale fondamentale, analoga alleconvenzioni particolari che spiegano la nascita spontanea di tanteistituzioni, secondo ciò che abbiamo già avuto modo di discutere.

26. Tre modi della vincolatività delle norme.

La convenzione è uno dei tre modi in cui vengono a esistenza normevincolanti: il comando, il contratto e, per l’appunto, la convenzione.L’efficacia della costituzione non può derivare da un comando provenienteda un potere che ne impone l’osservanza (a differenza di ciò che è per lalegge): per definizione, nelle situazioni costituzionali pluraliste, un similepotere non esiste prima della costituzione ma viene a esistere con lacostituzione. Non deriva neppure da un contratto: contrattualmente, sipossono stabilire i contenuti di norme, anche costituzionali (il compromessocostituzionale, di cui si è parlato, è assimilabile a un contratto plurilaterale),ma non le si può rendere obbligatorie. I contratti vincolano le parti che lihanno liberamente stipulati in quanto esiste un’autorità terza, un giudice, alquale ci si possa rivolgere in caso di violazione, per ottenere una pronunciadi condanna all’adempimento che mette in moto, eventualmente, unaesecuzione forzata. Nel caso della costituzione pluralista non può esserecosí, poiché questo terzo soggetto non esiste, onde il vincolo che le particostituzionali contraenti assumono non può fondarsi su nulla di estrinseco,su nessun potere che stia fuori di loro stessi. La convenzione è il terzo modoed è quello che interessa precisamente la questione del fondamento delcarattere vincolante della costituzione. La nozione di convenzione, sullaquale ci si è ampiamente soffermati in precedenza, trova con riguardo allacostituzione la sua applicazione piú appariscente e incontrovertibile.

C’è ancora da osservare, per prevenire una obiezione, che, come già si èaccennato, le costituzioni pluraliste prevedono normalmente istituti digaranzia o di “giustizia” costituzionale (delle quali, con riguardo all’Italia,si parlerà in un capitolo successivo). Ma ciò non significa ch’esse possanobasare la propria forza su queste istituzioni. È vero il contrario: la giustiziacostituzionale, per esistere ed esercitare la sua funzione in maniera efficace,presuppone una costituzione nel suo insieme legittima ed effettiva, non ilcontrario.

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27. Le differenze tra la costituzione e la legge, in sintesi.

La costituzione, dunque, è forma della convivenza, la legge è forma dellaforza; la costituzione segna i confini dell’inclusione e dell’esclusionerispetto alla vita costituzionale, la legge è l’espressione di questa vita; lacostituzione è la norma di compromesso mediato tra le forze che lacostituzione include, la legge è la decisione che sceglie tra le possibilità cheil compromesso ammette; la costituzione è norma che aspira a durare, lalegge è norma fuggevole che dipende dalle circostanze; la costituzione ènorma nella quale si esprime l’autonomia delle componenti sociali, la leggeè norma che esprime la prevalenza di una parte delle componenti socialisulle altre. Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che trattare lacostituzione come una legge tra le altre, sia pure piú elevata delle altre,significa trascurarne o travisarne i caratteri profondi. Questo modo diconsiderarla sarebbe un fraintendimento. Sono le leggi costituzionali quelleche possono essere considerate leggi tra le leggi. Non la costituzione.

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Capitolo settimoNorme giuridiche

1. Norme.

La parola “norma” è generica. In ogni caso allude a un qualche modod’essere normale. Ma, una cosa è la normalità che è; un’altra è la normalitàche si vuole che sia. Le norme del diritto sono non descrizioni maprescrizioni. Esse dicono ciò che si vuole che sia, non ciò che è. Ciò che sivuole che sia non necessariamente corrisponde a ciò che è; ciò che è nonnecessariamente corrisponde a ciò che si vuole che sia. Il regno del diritto èil regno della volontà che prefigura ciò che deve essere in un mondo doveregna l’essere. Chi parla di diritto parla di una tensione tra due lati dellarealtà che si vorrebbero unificare (aggiungo: senza mai riuscircicompletamente e definitivamente) facendo prevalere il dover essere sulmero essere.

Questa distinzione-separazione tra essere e dover essere è il nucleo dallacosiddetta legge di Hume, ch’egli enuncia quasi en passant nel terzo libro(«Sulla morale») del Trattato sulla natura umana 1 con riguardo al mondomorale nel suo insieme, per criticare quella che, in seguito, sarà definita la«fallacia naturalista» 2, cioè la pretesa di trarre i principî morali riguardantiil bene e il male, il giusto e l’ingiusto, ecc. (cioè il regno del «voler-doveressere») dall’essere fisico o metafisico. Il passo famoso in cui è denunciatala confusione dice:

In ogni sistema morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato chel’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo piú consueto, e afferma l’esistenza diun Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro consorpresa che al posto delle abituali copule è o non è incontro solo proposizioni che sonocollegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma cheha, tuttavia, la piú grande importanza. Infatti, dato che questi deve o non deve esprimono

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una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati espiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tuttoinconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altrerelazioni da essa completamente differenti.

La legge di Hume è stata oggetto d’infinite dispute nel campo che le èproprio, la filosofia morale, ma non può esserlo nel campo del diritto ingenerale. Perfino nel diritto consuetudinario è incontestabile: laconsuetudine è un fatto storico, appartiene cioè all’essere. Ma non è capacedi trasformarsi da sé in dover essere. Perché ciò accada, occorre che sipresupponga una norma, sia pure non dichiarata, che le attribuisca forzanormativa e dica che ciò che è deve essere: una norma che vuole che ciòche è consueto debba anche esserlo, come nelle società tradizionaliste.Nella consuetudine l’essere e il dover essere sembrano confondersi l’unonell’altro, l’essere e il dover essere apparentemente collimano. I giuristiparlano di «forza normativa del fatto», traducendo cosí la massima ex factoius oritur. Ma la forza normativa è non nel fatto, bensí nella normapresupposta che prescrive che ci si deve adeguare al fatto. Altrettanto è adirsi per il diritto naturale, quando lo si concepisca come diritto«naturalistico», il diritto che da sempre, secondo natura, gli esseri umaninelle loro società seguono, ciò che lo porta ad assomigliare al dirittoconsuetudinario (Antigone insegna ancora). Quanto al «diritto naturaledivino», non è nemmeno il caso di dilungarsi sulla separazione dei duemondi, il mondo del dio che impone il suo sigillo sull’ordine del mondo e ilmondo che a quell’ordine deve conformarsi. Non diversamente, anzidichiaratamente, è per il diritto positivo, inteso come diritto posto dallalegge (si veda supra, par. III.5).

Esistono, tuttavia, punti di vista che guardano al diritto non comefenomeno normativo, ma «come fatto» 3. Si tratta delle (numerose) visioniche si possono riunire sotto l’espressione «realismo giuridico». Il realismogiuridico è piú interessato al «diritto in pratica» (cioè a ciò che si fa in nomedel diritto) che all’astratto “diritto nei libri”. Il diritto nei libri, secondoquesto modo di vedere, non ci dice nulla di importante poiché può tradursiin molti modi pratici e perché, fino a che non è tradotto in pratica, è solo uninsieme di teoriche possibilità che potrebbero non realizzarsi affatto. Perciò,

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ci si interessa piú delle attività effettive dei giudici e della previsione oprofezia di ciò che da essi ci si può attendere e che, per le piú diverseragioni, può accadere nelle aule di giustizia, che non delle misteriose eopinabili ragioni legali che troviamo nelle motivazioni delle sentenze(motivazioni considerate spesso poco piú che delle “coperture”) 4. Oppure,secondo un’altra versione del realismo giuridico, si porta l’attenzione alcosiddetto «diritto vivente», cioè ai piú diversi «atti legali», cioè agli attiche sono compiuti in nome del diritto. Il diritto non starebbe, dunque, neicodici e nelle leggi, ma nell’insieme delle attività concrete compiute innome o sulla base del diritto: sentenze dei giudici, decreti delle autoritàamministrative, contratti, matrimoni celebrati e sciolti, testamenti, attinotarili, decisioni individuali come quelle di abortire, di porre fine allapropria esistenza 5. Questo modo di considerare la “vita del diritto” in unacerta cerchia umana è perfettamente lecito. Tuttavia, è oggetto dellasociologia del diritto e non della scienza giuridica, una scienza che è, perdefinizione, dedicata al «dover essere» inscritto nelle norme di diritto 6.

Il diritto positivo, per come è considerato dalla scienza giuridica e nondalla sociologia del diritto, mira non alla normalità delle azioni umane, maalla normalizzazione, cioè all’adeguamento di una realtà che ha in sé le sueleggi naturali a una idealità alla quale la realtà si vuole ricondurre:autonomia del sociale, eteronomia del giuridico. Il diritto positivo oriturnon ex facto ma ex voluntate, la volontà di adeguare l’essere al doveressere: la separazione e la tensione sono presupposte dal diritto. Ilsuperamento della separazione è il problema, è lo scopo del diritto. Nellospazio della scissione si annida la libertà naturale, cioè l’autonomia deisoggetti produttrice di disordine. In vista dell’ordine, tale spazio deve esserecolmato e l’auto-nomía deve cedere all’etero-nomía, cioè dall’adeguamentodelle volontà soggettive all’oggettività del diritto. Ciò può darsi o conpersuasione o con coazione e sanzioni. Dal punto di vista giuridicoadeguarsi si deve, volenti o nolenti.

2. Diritto, forza, convinzione, sedizione.

Se cosí non fosse, tutte le volte che le convinzioni, le convenienze, lemotivazioni individuali differissero tra loro l’incontro delle azioni

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conseguenti determinerebbe disordine o anche generale conflitto. Lamancanza di leggi oggettive, valide ed efficaci per tutti, determinerebbe lacondizione favorevole alla violenza e quindi alla prevaricazione, caso percaso, del piú forte. La ragion d’essere del diritto è dunque il coordinamentodelle innumerevoli azioni che costituiscono la trama della vita sociale. Lasua azione è innanzitutto psicologica: sostituire le motivazioni individualisoggettive dell’agire con il riferimento a un tessuto normativo generale,oggettivo, esterno, cui nessuno possa sottrarsi. Questa “sostituzione”,tuttavia, poiché realisticamente non può avvenire soltanto in base alconvincimento soggettivo, deve ricorrere alla forza: la legge è tale se èassociata alla forza di imporsi ai recalcitranti.

Nella sostituzione delle ragioni soggettive con una ragione oggettiva, ildiritto (sia esso naturale, sociale o positivo, secondo le categorie esaminatesupra, par. I.1) fa sue le massime di Hobbes, di Pascal e di Montaigne: lalegge non è che un mezzo che le società si danno per espropriare i singolidel loro giudizio sul bene e sul male; non per annullarlo, ma per metterlonelle mani esclusive del legislatore. Nel foro interno, ogni individuo èlibero di giudicare la legge, ma nel foro esterno si esige che si obbediscaalla legge perché è legge, non perché è giusta. Se si obbedisse alla leggeperché (ci pare) giusta, si abiliterebbe chiunque a disobbedire quando laconsidera ingiusta. Ciò non sarebbe diritto, ma confusione o, come scriveHobbes, sedizione.

Leggiamo qualche passo. Per Pascal, la pretesa umana di attingere alcriterio del giusto e dell’ingiusto (e del vero e del falso) è «un equivoco»,poiché esso è prerogativa divina 7.

La giustizia è soggetta a essere discussa; la forza [invece] è perfettamentericonoscibile e non è discussa. Perciò non si è potuto dare forza alla giustizia, poiché laforza ha contestato la giustizia dicendola ingiusta e proclamando giusta se stessa. Cosí,non riuscendosi a rendere forte il giusto, si è fatto giusto il forte.

[…]Se si fosse potuto, si sarebbe messa la forza nelle mani della giustizia, ma siccome la

forza non si lascia trattare come si vuole, essendo una qualità palpabile, mentre lagiustizia è una qualità spirituale, di cui si dispone come si vuole, la si è messa [lagiustizia] nelle mani della forza. Cosí si chiama giusto ciò che si è forzati di osservare.

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Da qui deriva il diritto della spada, poiché la spada conferisce un vero diritto. Altrimentisi vedrebbe la violenza da una parte e la giustizia dall’altra.

In questo modo, in nome della pace, la forza assume su di sé ilmonopolio della giustizia:

non potendo far sí che l’obbedienza alla giustizia sia forzata, si è fatto in modo chesia giusta l’obbedienza alla forza; non potendo fortificare la giustizia, si è giustificata laforza, affinché giustizia e forza fossero unite e si stabilisse la pace, cioè il bene supremo.

I discorsi sulla giustizia, infatti, generano conflitti, mentre l’argomentodella forza non ammette contrasti o indecisioni. Da ciò, la giustificazionedella forza in nome della giustizia: «La giustizia è ciò che è stabilito. Perciòtutte le nostre leggi stabilite saranno necessariamente considerate giustesenza esame, poiché sono stabilite». Le leggi devono essere obbedite senzaesame, in quanto leggi, non in quanto giuste:

Sarebbe dunque buona cosa che si obbedisse alle leggi […] in quanto sono leggi, chesi sapesse che non vi sono leggi vere e giuste da introdurre, che non ne abbiamo alcunanozione, per cui bisogna seguire solo quelle che abbiamo ricevute. In questo modo nonsi abbandonerebbero mai. Sennonché il popolo non sa recepire questi principî. Credendoche la verità si può trovare e che deve stare nelle leggi […], obbedisce a esse ma anchesi ribella se gli si dimostra che non tutte hanno lo stesso valore; cosa che si puòdimostrare per tutte, se le si osserva da un certo punto di vista 8.

Qui, circa l’esigenza che alle leggi si ubbidisca perché sono leggi, nonperché sono giuste, Pascal si allinea allo scetticismo di Michel deMontaigne, con la differenza che il primo evoca l’autorità di Dio e ilsecondo la suggestione del mistero:

Le leggi mantengono la loro considerazione non perché sono giuste, ma perché sonoleggi. È il fondamento mistico della loro autorità; non ne hanno altro […]. Chiunqueobbedisca loro perché sono giuste, non obbedisce loro giustamente, come dovrebbe 9.

3. L’ideologia positivista.

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Le proposizioni che precedono bene esprimono l’ideologia delpositivismo giuridico legalista: la contrazione nella legge positiva, cioènella volontà del legislatore rivestita della forma della legge, d’ognicontrasto circa ciò che deve valere obbligatoriamente come giustizia in senoa una società – precisando: come «giustizia legale». Il concetto metafisicodella giustizia ne resta fuori e gli esseri umani sono liberi di disputarne, manon di contrapporlo alla giustizia legale. Possono certo agire per tradurlo inlegge, sfidando eventualmente l’autorità costituita ma, fino a quando ciònon avviene, quella nozione non legale di giustizia resta affare privato. Sepretende di diventare pubblico, è sovversione.

A proposito del positivismo giuridico legalista, si è distinto metodo,teoria e ideologia 10. L’ideologia si fonda su un giudizio di valore: cheobbedire alla legge sia obbligatorio perché è buona cosa, o perché la legge ègiusta in sé. In breve: il positivismo legale come ideologia pretende chel’ubbidienza alla legge – attenzione: ubbidienza a ogni costo, quale che nesia il contenuto – costituisca una obbligazione morale. Se consideriamo leobbligazioni morali come precetti della coscienza individuale, è chiaro chenon esiste affatto un’obbligazione d’ubbidienza di questo genere. Lacoscienza si ribellerebbe a una simile schiavitú morale. Ma la morale non èl’etica. Se guardiamo la questione dal punto di vista etico, cioè dell’ethosoggettivo che vale a tenere insieme la società, e se una società, per darsiordine, pace e giustizia, adotta la concezione del diritto come esclusivaproprietà della legge, è altrettanto chiaro che, da questo punto di vista, devevalere il positivismo legale come ideologia. Sarebbe assurda unaproposizione proveniente dal legislatore che dicesse: questa è bensí lalegge, ma trasgredirla è cosa buona e giusta o, almeno, non è cosa cattiva eingiusta.

L’aspetto ideologico del positivismo è guardato con sospetto. Come si èvisto (supra, par. I.2), la rinascita del diritto naturale nel secondodopoguerra è stata giustificata anche con l’accusa ch’esso sia stato unaideologia funzionale alla politica e ai crimini dei regimi totalitari, assolti peril sol fatto d’essere stati rivestiti della forma della legge. Il sospetto ècertamente giustificato, soprattutto in certe società come quella tedesca diallora, dove l’ubbidienza all’autorità si considerava coincidere con il buoncittadino cui si chiedeva d’essere «buon servitore dello Stato» 11. Bisogna

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tuttavia aggiungere che non solo il positivismo giuridico ma anche qualsiasialtra concezione del diritto (diritto naturale o diritto sociale) è esposto almedesimo rischio. Storicamente, sono proprio queste altre concezioni deldiritto quelle che piú hanno penetrato le coscienze, per modellarle ereprimere il dissenso (basterebbe pensare ai Tribunali della SantaInquisizione). Il positivismo giuridico ha questo di caratteristico: di offrirsicome strumento nelle mani di forze dispotiche le quali si siano impadronitedella macchina della legislazione. Qui, in questa macchina e nella suaartificialità, stanno i germi delle degenerazioni. Non stanno, di per sé,nell’essere ideologia – ideologia che nessuna concezione del diritto puòevitare d’essere. Anzi, se mai, il positivismo giuridico, dato il carattere diartificialità, consente quella distinzione tra foro interno e foro esterno di cuisi è detto e che consente alle coscienze individuali di coltivare se stesse.

4. Norme e sanzioni.

Delle norme giuridiche il proprium è l’efficacia, cioè la capacità dimodellare sui propri contenuti le relazioni sociali, la capacità di tradurre glischemi di comportamento ch’esse descrivono in criteri effettivi dei rapportisociali. Prive di questa capacità non sono nulla. Non sono semplicementenorme giuridiche a cui manca qualcosa: radicalmente, non sono nulla.Onde, si dice che condizione d’esistenza delle norme giuridiche èl’effettività, cioè la concreta efficacia nel modellare le umane azioni. Lanorma è potenzialmente efficace ma, di per sé, non è attualmente efficace.Come si può garantire il passaggio dal poter essere all’essere?

La risposta piú ovvia alla domanda è: vi sono norme che prescrivono, maesse si accompagnano a norme che sanzionano la violazione delleprescrizioni. In mancanza, non vi sarebbero vere prescrizioni, ma sempliciconsigli facoltativi. Per questo, si parla di norme primarie – quelle cheprescrivono – e di norme secondarie – quelle che prevedono la sanzione. È,questa, una risposta sufficiente a spiegare «l’effettività del diritto»?Certamente no, per la semplice ragione che anche le norme sanzionatricisono schemi di comportamento astratti che devono essere tradotti in praticaeffettiva. Per esempio: il debitore è tenuto a onorare il suo debito presso ilcreditore (norma primaria); in caso contrario, può essere condannato

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all’adempimento tramite una sentenza d’un giudice (norma secondaria); maquesta norma secondaria è a sua volta primaria rispetto ad altra norma(secondaria) che prevede sanzioni a carico del giudice che viola il suodovere di applicare la norma primaria; e questa ulteriore norma dovrà essereaccompagnata da altra che preveda ulteriori sanzioni per il caso dellamancata osservanza di essa. In conclusione: l’effettività del diritto non puòbasarsi soltanto attraverso il rapporto tra norme primarie e secondarie.Finché si rimane nella rete delle norme, è inevitabile finire in un regressusad infinitum di cui non può vedersi la fine.

È inevitabile riconoscere che il diritto legislativo non è autosufficiente,che le sue norme non si possono fondare (solo e in ultima istanza) su altrenorme giuridiche e che non corrisponde alla verità (ma forse solo aun’esigenza scientifica basata su un come se) il postulato che il diritto crease stesso, che l’idea di un “diritto puro” può stare sul tavolo del giurista-entomologo (di cui c’è comunque bisogno, anche se non basta) quando sene considerano gli elementi singoli, ma perdendo di vista l’insieme:l’insieme deve essere vivo, cioè efficace. Il diritto effettivamente operantepresuppone un complesso dato di fatto: che nella società sia presente eoperante una forza di sostegno dell’ordinamento giuridico che ne mette inmoto le singole norme, una forza che comprende interessi, cultura,aspirazioni, credenze, istituzioni – tutte cose che formano un intero sistemasociale, cioè in senso molto comprensivo, una ideologia operantestoricamente. Anche se i giuristi non amano parlarne. Questa forza cogente,che opera in ciò che, con una terminologia corrente, si denomina Stato-società per distinguerlo dallo Stato-organizzazione che della prima è solouna manifestazione, rende operative tanto le norme primariepromuovendone l’osservanza media, quanto le norme secondarie,assicurando la loro messa in azione nei casi eccezionali della violazionedelle prime.

I giuristi si concentrano di solito sull’eccezione e considerano il dirittocome un insieme di norme indirizzate alle forze coercitive dello Stato,messe in moto dai giudici chiamati a pronunciare sentenze. Per esempio,quando si dice che i veri destinatari delle norme giuridiche sono i giudici,cui spetta applicarle in caso di violazione, si presuppone la società comeuna somma di relazioni libera dal diritto e il diritto come quella rete in cui isingoli possono occasionalmente incappare; oppure quando si dice, in certo

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senso all’opposto, che il diritto non è che uno strumento per circoscrivere,in nome della legalità, il potere dello Stato per proteggersi dall’arbitrarietàdel suo uso: quando si dicono cose come queste si finisce per concentrarel’attenzione solo sul momento della violazione del diritto e sulle sue normesecondarie. Le norme primarie sarebbero rilevanti solo come condizione perl’operatività delle norme secondarie. Con il che, contro il senso comune, sipuò perfino arrivare a rovesciare i termini e concepire come primarie lenorme che prevedono sanzioni, e secondarie quelle che determinano lecondizioni in cui le prime entrano in funzione 12. Oppure, si può arrivare adire, per essere fedeli alle premesse teoriche generali della «dottrina pura»del diritto, che non esistono atti malvagi, “fatti”, o “colpe”, o “delitti” primadella legge: che è dalla legge che derivano i delitti e non viceversa, cioè che“esistono” i delitti solo perché esistono leggi che li puniscono. È una teoriacome un’altra. Essa concentra l’attenzione sulla forza che è implicita nellenorme giuridiche e trascura le ragioni in presenza delle quali quella forzaviene prevista dalla legge. Insomma: viene prima la sanzione o viene primail delitto che la legge sanziona? Questa paradossale visione del diritto comeregola delle sanzioni e non come regola delle azioni ha il grave difetto dinon corrispondere affatto al modo in cui il diritto entra in scena, modo nelquale sono proprio i fatti, o meglio i «casi», con le loro “cariche” di valore edisvalore, a mettere in moto le sanzioni e a promuovere le norme che leprevedono. Questo punto fu evidente nel diritto romano, quando l’attoreportava un caso davanti al pretore e questi gli accordava (o gli negava)azione in giudizio. Oggi, non è il pretore ma è la legge ad accordare azione,quando il legislatore ritiene che il caso meriti d’essere preso inconsiderazione giuridicamente. Ma, talora, la pressione del caso creadirettamente la norma giuridica e il giudice che la applica. Il riferimento èai processi contro i grandi criminali della storia che, essendosi fatta la leggea proprio uso e consumo, pretendevano che proprio questa legge che avevatrasformato il diritto in delitto li proteggesse dal dover dar conto del male, il«male radicale», il male che prima di quegli eventi non era stato“nominato” giuridicamente. L’allusione è, come è ovvio, ai processi(Norimberga, Gerusalemme soprattutto) che seguirono alla sconfitta deitotalitarismi europei tra le due guerre mondiali (si veda infra, par. X.15).

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Queste visioni del diritto come mero strumento della repressione sonodunque parziali. Il diritto non può vivere senza la normale adesionespontanea alle sue norme primarie. La loro violazione, e il connessointervento della repressione, possono essere solo eccezioni. Se l’agireconforme al diritto non fosse la normalità, se cioè la normalità fosse laviolazione, l’intervento sanzionatorio del giudice invece che restaurativodella normalità svolgerebbe una funzione contraria a quella che dovrebbeessere la sua: invece che ripristinatoria dell’ordine, sarebbe fautrice didisordine e determinerebbe una reazione di ripulsa. Quando il diritto nellesue norme primarie è in debito di efficacia, rispetto al divenire spontaneodei rapporti sociali, l’intervento del giudice risulta spesso a sua voltacontraddittorio rispetto al suo fine: invece che promuovere ordine, inserisceragioni d’incertezza, disordine e disuguaglianza nella vita sociale. Ladomanda che si pone colui al quale, nella violazione generalizzata dellalegge, capita di impigliarsi nelle maglie delle norme secondarie (si vedasupra, par. VII.4) è: perché io e tutti gli altri no? Non è forse ingiustizia?Cosí, se si mettono da parte le norme primarie e si pensa al diritto comesemplice insieme di norme sanzionatorie (secondarie), si corre il rischio ditrasformare l’azione dei giudici, apparentemente rivolta a promuoverel’ordine sociale, in contributo al disordine, in incentivo alla ribellione aldiritto.

5. La pena e la colpa.

Il rapporto di priorità tra norma primaria e norma secondaria, cioè tra ilprecetto (tu devi o non devi) e la sanzione (se non fai quello che devi o sefai quello che non devi, allora…) è talora discusso nei termini di priorità trapena e colpa. Che cosa viene per prima? Per pena intendiamo qui lasanzione comminata dalla legge; per colpa, l’azione riprovevole che lalegge sanziona 13. Celebri passi di Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani (7;8; 13) sembrano dire che se non ci fosse la pena (cioè la legge che minacciala sanzione) non ci sarebbe la colpa. La legge è venuta e, venendo, hagenerato la colpa, ma il Messia è venuto perché chi crede in lui «muoia allalegge» e sia liberato dal comando che generava le passioni del peccato. Da

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questi tormentatissimi passi 14 si è preso lo spunto per rovesciare quello chepare essere l’ordine di priorità. Si è detto 15 che «a ben guardare […] l’ideache il principio secondo cui “non c’è pena senza colpa” vada rovesciato eche, in realtà, se non ci fosse la pena non vi sarebbe nemmeno la colpa». Latesi, «che avrebbe buone probabilità d’essere veritiera», sarebbe dunque chela colpa non esisterebbe se non ci fosse la previsione d’una pena e illegislatore, prevedendo la pena, crea la colpa. Tesi paradossali che, seapplicate alla legge che vale nel campo del diritto, giustificherebbero il direironicamente che, per abolire la colpa, basterebbe abrogare il codicepenale 16.

Se non ci fosse un fondamentale equivoco alla base di questeproposizioni – l’equivoco di cui si dirà tra poco – Paolo di Tarso sarebbe daconsiderare un precursore della teoria pura del diritto. Kelsen, infatti, negacon tutta coerenza l’autonomia delle norme primarie, che stabiliscono ilprecetto, dalle norme secondarie, che stabiliscono la sanzione. Se siconcepisce come primaria la norma che prescrive che «non si deve rubare»e secondaria quella che irroga la sanzione («se qualcuno ruba, sarà punito»),«la formulazione della prima delle due norme è superflua, in quanto il nondover rubare consiste giuridicamente nel dover essere punito collegato allacondizione del rubare» 17. Il nesso tra un atto illecito e la sanzionecorrispondente non consisterebbe, come ritiene invece il buon senso, in unaqualità immanente nell’atto, definibile attraverso criteri che precedono lalegge che perciò lo sanziona; al contrario, «un’azione o un’omissione sonodefinite illecite unicamente perché sono previste come condizioni di un attocoercitivo statuito dall’ordinamento giuridico» 18. Dal punto di vista deldiritto positivo, non esiste, secondo Kelsen, alcuna fattispecie che siaillecita o delittuosa in sé, cioè indipendentemente dalla sanzione che laprevede e la punisce. «Non ci sono mala in se, ma solo mala quia prohibita[allusione a una distinzione che si fa nel diritto penale]. E questa sarebbesoltanto la conseguenza del principio generalmente riconosciuto nullumcrimen, nulla poena sine lege». Dal momento che la sanzione ha in generela forma di un atto coercitivo, si può dire che il diritto consisteessenzialmente nella previsione o produzione di violenza lecita, cioè in unagiustificazione della violenza. Cosí, però, si trascura l’ubbidienza spontaneaalle norme primarie del diritto, come se ciò non fosse l’intento essenzialed’ogni legislazione. Diremmo forse che nella situazione d’una legge che

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non è violata da nessuno “non c’è diritto”, che la legge non ha nessunaragion d’essere? Non diremmo invece che proprio questa è la situazioneideale in cui la legge raggiunge pienamente la sua finalità, senza doverricorrere alla sanzione?

L’equivoco di cui si è detto poco sopra, a proposito dei passineotestamentari citati, deriva dall’avere trasferito le proposizioni paolinedal contesto teologico che è loro proprio a quello politico, cioè di averlipresi dal cielo e portati sulla terra. Paolo dice che la legge moltiplica lecolpe perché pensa che il rapporto tra il cristiano e Dio debba essere unrapporto libero di adesione, illuminato dalla grazia. La legge della Bibbiaebraica è la conseguenza d’un patto, ma il cristiano non si consideravincolato da nessun patto, bensí chiamato dalla grazia e mosso dallo slanciodella fede. Ciò non ha nulla a che vedere con la legge. La colpa del cristianosta solo nell’avere fatto esperienza della fede e nell’averla ripudiata (si vedaanche Lettera ai Galati, 3, 19; 24-26). Parlare di legge e colpa nello stessosenso in cui ne parlano i giuristi, in questo caso, significa confondere ipiani.

6. Generalità e uguaglianza.

Poiché lo scopo del diritto è la normalizzazione dei comportamenti edelle relazioni sociali, le sue norme devono essere, anzitutto, generali.Questo è il primo carattere.

Generalità significa che le norme giuridiche valgono per tutti aesclusione delle norme personali, individuali. Generalità della legge euguaglianza di fronte alla legge sono i due lati della stessa medaglia. Iprivilegi, favorevoli o odiosi che siano (le leges privatae), sono vietati.Perciò si può dire che la generalità della legge è una esigenza, un «valoreeterno», dello Stato di diritto 19. In effetti, il fatto che la norma legislativavalga indifferentemente nei confronti di tutti senza discriminazioni apparenecessariamente connesso ad alcuni postulati fondamentali dello Stato didiritto, quali la moderazione del potere, la separazione dei poteri el’uguaglianza di fronte alla legge, che ne costituiscono l’essenza. In sintesi,la generalità è funzionale alla «sicurezza giuridica» contro l’arbitrio, controi pericoli d’un legislatore estremista: «la legge può essere cattiva, ingiusta

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quanto si vuole, ma la sua redazione generale […] rende minimo questopericolo. Il carattere difensivo della legge, anzi la sua stessa ragiond’essere, stanno nel suo carattere generale» 20.

L’uguaglianza di fronte alla legge e il divieto di privilegi legali sono statile parole d’ordine delle rivoluzioni che hanno messo fine all’AncienRégime, cioè al regime dei ceti e degli status sociali differenziati. Questocarattere della legge, oltre ad avere dalla sua ragioni storiche oggi evidenti,ha ascendenze filosofico-politiche facilmente identificabili. Tutticonoscono, ad esempio, la teoria di Rousseau 21 secondo la quale il popololegislatore non può che deliberare in generale, avendo di fronte a sé ilpopolo stesso en corps, non sue singole frazioni. Il XIV Emendamento dellaCostituzione degli Stati Uniti d’America contiene la Equal ProtectionClause (in base alla quale, ad esempio, fu dichiarata incostituzionale lasegregazione razziale nelle scuole); la Déclaration francese del 1789esordisce proclamando che «gli uomini nascono e rimangono liberi e ugualinei diritti» (formula che in poche parole condanna la precedente concezioneorganicista della società e la sostituisce con la visione individualista). Daallora, il principio di uguaglianza di fronte alla legge e la connessaconcezione della legge come norma generale sono entrate a far parte di tuttii documenti costituzionali in ogni parte del globo (per esempio, l’art. 1 dellaDichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assembleagenerale delle Nazioni Unite nel dicembre 1948 afferma che «tutti gli esseriumani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti»). La generalità dellalegge e il connesso principio di uguaglianza di fronte alla legge non sonoperò, di per sé, garanzia di giustizia e di libertà. Vi può essere uguaglianzanell’oppressione. Tuttavia, è pur vero che, se viene meno l’uguaglianza,nasce l’oppressione. Si può dire dunque cosí: l’uguaglianza non garantiscecontro l’oppressione, ma l’oppressione è garantita nella disuguaglianza.

La generalità, come si è accennato, è inoltre la condizione per larealizzazione del grande principio della separazione dei poteri. Se le leggipotessero rivolgersi agli individui come singoli si sostituirebbero aiprovvedimenti dell’amministrazione e alle sentenze dei giudici. Illegislatore accentrerebbe in sé tutti i poteri dello Stato. Se il dirittocostituzionale dell’età post - Ancien Régime avesse sortito questo esito, tuttala lotta dello Stato di diritto contro l’assolutismo del monarca avrebbe avutoper esito che al vecchio assolutismo sarebbe subentrato soltanto un

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assolutismo di tipo nuovo, l’assolutismo di un’assemblea e, in essa, diquanti ne costituiscono la maggioranza politico-partitica 22.

Generalità della legge e uguaglianza di fronte alla legge non significanouniversalità. I destinatari della legge non sono “gli esseri umani” o “icittadini”, tutti quanti considerati come un’unica categoria. La leggeprocede sempre, necessariamente, attraverso categorie e a ogni categoriapuò corrispondere un proprio trattamento legale: i minori di diciotto anninon sono uguali (giuridicamente) ai maggiori; i datori di lavoro, ailavoratori; le lavoratrici ai lavoratori; gli occupati ai disoccupati; i portatoridi handicap a chi ne è privo; i giovani agli anziani, ecc. La generalità el’uguaglianza non significano che la legge non possa stabilire differenze,ma che non può stabilire determinate differenze, cioè differenze fondate sudeterminati criteri. Si prenda l’articolo 3, comma 1 della Costituzioneitaliana: «Tutti i cittadini […] sono eguali davanti alla legge, senzadistinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, dicondizioni personali e sociali»: non basta dire generalità e uguaglianza,occorre stabilire chi è uguale a chi, e rispetto a che cosa. Cosí, il citatoarticolo 3 stabilisce che uguali sono i cittadini (con la conseguenza che aglistranieri possono applicarsi norme diverse) e che il divieto didiscriminazioni vale rispetto ai criteri enunciati e non oltre (salvo ilprincipio generale di ragionevolezza delle differenziazioni, su cui si vedainfra, par. VIII.21). Del resto, lo stesso articolo 3, nel secondo comma,accolla alla Repubblica il compito di promuovere la cosiddetta«uguaglianza sostanziale» e, a tale scopo, legittima le leggi che proteggonocoloro che si trovano in condizioni di inferiorità economica, politica,culturale. Non tutti, dunque, devono essere trattati ugualmente dalla legge.La generalità della legge e l’uguaglianza di fronte alla legge si traducononella massima: a situazioni ragionevolmente uguali, leggi generali; asituazioni ragionevolmente disuguali, leggi disuguali.

La legge che prende in considerazione classi di situazioniragionevolmente diverse e le regola come tali, differenziandole, noncontraddice il suo carattere di generalità. La contraddizione può nascere conle leggi speciali. Già l’espressione «legge speciale» suscita sospettid’arbitrio, perché il pensiero corre ai regimi autoritari che usavano la leggeper colpire avversari politici o discriminare categorie di cittadini. Tuttavia,

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non sempre la specialità è incompatibile con la generalità. L’individuazionedella species rispetto al genus può basarsi su un criterio di giustificazione asua volta generale nel senso della massima sopra citata. Per esempio,nell’ambito della categoria generale «contribuenti alle spese pubbliche» puòessere identificata la categoria dei redditieri con introiti superiori a certesoglie, cui applicare aliquote progressive, oppure contribuenti evasori omorosi, per prevedere sanzioni che riguardano costoro e non,evidentemente, i contribuenti che onorano l’obbligo di fedeltà tributaria.

Come si evince dall’esempio citato, entrano in relazione plurimi criteridi classificazione generali, che si relativizzano reciprocamente. Laspecialità che contraddice la generalità della legge si ha quando è in gioco ilmedesimo criterio di classificazione, quando plausibilmente non se ne puòindicare un altro, ugualmente giustificabile in generale. In sintesi: generalitàe specialità, nel campo del diritto, non sono concetti che valgono secondocategorie esclusivamente logiche. Poiché chiamano in causa criteri di«giustificatezza» delle distinzioni, sono concetti politico-culturali, come talisoggetti a valutazioni che possono cambiare nel tempo. Gli esempi, ognunodi noi può trovarli facilmente nella storia.

7. Astrattezza e stabilità.

Il secondo carattere delle norme giuridiche è l’astrattezza. Esso ha a chevedere con l’esigenza di stabilità o continuità nel tempo e, quindi, con lacertezza del diritto e la sicurezza giuridica. Astrattezza significa che lenorme giuridiche valgono tutte le volte in cui si verifica la fattispeciech’esse prevedono (sul concetto di fattispecie, si veda infra, par. VII.10). Ilcontrario dell’astrattezza è la concretezza. Da che cosa si fa “astrazione”?Dalle circostanze di tempo. Le norme astratte sono norme “a-temporali”,non hanno, per cosí dire, date di scadenza, sono aperte verso il futuro. Lageneralità ha a che vedere con l’uguaglianza sincronica; l’astrattezza, si puòdire, con l’uguaglianza diacronica. Con ciò s’intende che la legge vale tuttele volte in cui i soggetti ai quali essa si riferisce si trovano o si troveranno inquella certa situazione che la legge descrive “astrattamente”, cioèindipendentemente dal fatto ch’essa si realizzi in una o in un’altra certa

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situazione concreta. Si può dire anche cosí: l’astrattezza della legge è la suaindifferenza rispetto alle situazioni (cosí come la generalità è l’indifferenzarispetto ai soggetti). Anche per l’astrattezza vale la stessa radice storicadella generalità: la reazione all’insicurezza che nell’Ancien Régimedominava nel rapporto capriccioso tra il sovrano e i sudditi. Tutti conosconol’elogio della sicurezza giuridica che Montesquieu, nella sua operamaggiore 23, tratta come presupposto della libertà.

L’astrattezza è funzionale alla stabilità del diritto. Ma non significaeternità: le norme giuridiche, nelle nostre società (a differenza delle societàtradizionali d’altri tempi) possono essere cambiate, modificate, abrogate daaltre norme successive. Ma, fino a quando ciò non accade, esse valgono aprescindere dalle circostanze temporali in cui devono trovare applicazione.Da un altro punto di vista, si può dire che l’astrattezza delle normegiuridiche si basa sulla premessa che il legislatore fondi le sue decisioni suragioni non contingenti. Le ragioni degli esseri umani cambiano nel tempoe, con esse, cambiano le leggi. Ma quando si legifera, si deve fare come sesi legiferasse per sempre. Il buon legislatore che agisce secondo un correttoconcetto di legge non è mosso da una riserva mentale come: è come dico io,ma si sappia che mi riservo di cambiare idea a mia discrezione.

8. Affanno delle leggi.

La generalità e l’astrattezza della legge sono caratteri relativi. In sensoassoluto, generalità significherebbe universalità, cioè trascuranza dellediversità che esistono fra i destinatari; astrattezza significherebbe perennità,cioè trascuranza dei mutamenti di circostanze nel tempo. Generali e astrattein senso assoluto sono, per esempio, le norme contenute nel decalogobiblico: non uccidere, non mentire, non rubare, ecc. Sono norme chevalgono per tutti e per tutti i tempi. Le leggi che compongono gliordinamenti giuridici, invece, vengono dagli uomini e gli uomini devonoconfrontarsi non con l’assoluto, ma col contingente che muove le vicendedelle società. Per quanto questi caratteri classici della legge valgano solotendenzialmente, è pur vero che il diritto non può fare a meno di un certotasso di generalità e di un certo grado di stabilità. Diremmo che esistediritto se ciascun individuo fosse soggetto a misure personali e

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continuamente cangianti? Non diremmo che quello sarebbe il regnodell’arbitrio assoluto e del caos, cioè precisamente l’opposto del diritto?

Per quanto possa dispiacere ai giuristi, il nostro tempo, pur tenendo inonore la generalità e l’astrattezza delle leggi, è il tempo delle leggi ageneralità e dell’astrattezza sempre piú ridotta. Si tratta di quelle che unaformula onnicomprensiva designa come «leggine». Le leggi a generalità eastrattezza ridotte sono una caratteristica delle società che – si dice – sonoin sempre piú rapida trasformazione: sempre nuove differenziazioni socialisi manifestano, sempre nuove emergenze premono sul legislatore, spessodeterminate da leggi precedenti che hanno provocato effetti non previstiallora oppure ora considerati nefasti. Le leggi, sempre piú frequentementenascono non per durare, ma per essere presto corrette. La legislazione è inaffanno, travolta dall’instabilità dei fatti sociali. La stabilità nel diritto sidovrebbe tradurre in astrattezza delle sue norme, ma proprio qui si nota lafatica di legiferare prospettivamente. La manifestazione piú evidente delledifficoltà è la legislazione che dispone retroattivamente.

9. Leggi retroattive.

L’affanno della legge si può misurare con la diffusione crescente di leggiretroattive, cioè delle leggi che stabiliscono ora una nuova e diversadisciplina per allora. La retroattività delle leggi è considerata da sempreun’anomalia: i cittadini dovrebbero sapere nel momento in cui compionoatti giuridicamente rilevanti qual è la legge che li regola. Le leggi retroattiveescludono questa conoscenza. Se esiste un dovere di fedeltà alle leggi, essoè completamente vanificato dalle leggi retroattive. Dalle leggi retroattive isingoli sono trattati come individui privi di coscienza e volontà, come coseinanimate, come oggetti inerti. Essi sono privati del postulato primo delrapporto di fiducia che deve intercorrere tra i singoli e il legislatore: lapossibilità di adeguare le proprie condotte a quanto prescrive il diritto. Perquesta ragione, si dice che la legge, di norma, «non dispone che perl’avvenire». Ma solo «di norma». Il divieto assoluto di leggi retroattive valesolo nella materia penale, dove è in gioco il bene massimo della vita, lalibertà: nullum crimen, nulla poena sine previa lege penali. In tutte le altrematerie le leggi retroattive sono ammesse, pur essendo considerate

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“sospette”. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha stabilitoil principio che le leggi retroattive sono valide solo se dettate da evidenti e«impellenti motivi di interesse generale» e pertanto devono esseresottoposte dai giudici a uno «scrutinio stretto». Infatti esse non soloinfrangono il rapporto di fiducia tra i singoli e il legislatore ma si traduconoanche in norme non generali e non astratte: non generali perché illegislatore legifera potendo conoscere la platea di coloro che già hannosubíto le conseguenze della legge modificata retroattivamente; non astratte,perché la retroattività si riferisce a periodi chiusi nel tempo trascorso e afattispecie non replicabili nel tempo.

L’ingiustizia delle leggi retroattive risulta con evidenza quando essemirano a ri-disciplinare in senso restrittivo quelli che si denominano dirittiquesiti o acquisiti. Si tratta di diritti sorti in un tempo secondo le previsionidella legge in quel momento vigente: ad esempio, diritti «reali» (da res,cosa) come il diritto di proprietà, oppure diritti di credito, come il diritto aun determinato trattamento economico (salario, stipendio, pensione, ecc.). Ilproblema si pone quando la legge retroattiva è in malam partem, cioè miraa eliminare o ridurre il diritto per il periodo trascorso o anche solo asopprimerlo o limitarlo per il futuro, con riguardo a coloro che l’avessero«acquisito». Anche in questo secondo caso si parla di retroattività, perchéuna legge che, ad esempio, riduce un trattamento pensionistico in corso, siapure solo per il futuro, viola quello che si chiama l’affidamento dei cittadininei confronti dei propri diritti. Ciò non di meno i diritti quesiti non sono unlimite assoluto alla retroattività della legge. Se lo fossero, si comprendefacilmente ch’essi rappresenterebbero un impedimento insuperabile alleriforme sociali consistenti nella redistribuzione della ricchezza 24. In questicasi, soprattutto, trova applicazione la cautela nell’ammettere la retroattivitàdella legge, cautela che si riassume nella formula «impellenti motivi diinteresse generale».

Fra le leggi retroattive, un posto particolare occupano le cosiddette leggidi interpretazione autentica: quando i giudici o le autorità amministrativeinterpretano la legge come non piace ai legislatori, questi intervengono conuna legge che impone una certa interpretazione della legge precedente. Talelegge è per sua natura retroattiva perché quella nuova interpretazione dovràvalere tutte le volte in cui la legge interpretata dovrà applicarsi, per esempiodai tribunali che giudicano casi già verificatisi. Ci si può chiedere perché

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non si dice esplicitamente che si fa una legge retroattiva ma si finge che lanuova interpretazione sia quella che già fin dall’inizio avrebbe dovutoessere data alla prima legge e, quindi, non sia in realtà retroattiva. In altriordinamenti, leggi di questo genere non esistono. Da noi sí, perché si credein tal modo, attraverso una finzione, di superare le obiezioni che sisollevano contro le leggi retroattive. Ma, spesso, le cose si complicanoperché i giudici reagiscono contestando queste leggi che irrompono nei lorogiudizi, privandoli di quello che è il loro diritto garantito dalla Costituzione:il diritto d’interpretare la legge senza intromissioni. È in gioco un aspettoimportante della separazione dei poteri.

10. Regole, principî, programmi.

Fin qui si è parlato di norme giuridiche come se si trattasse di unacategoria omogenea. Non è cosí e occorre ora fare distinzioni. Tra le normegiuridiche troviamo regole, principî e programmi. Procediamo da questiesempi: il governo che ha perso la fiducia delle Camere deve dimettersi; ladignità delle persone è inviolabile; il lavoro deve essere garantito a tutti.Sono tre (ri)formulazioni di norme che troviamo nella Costituzione. Laprima è una regola; la seconda è un principio; la terza un programma.

11. Regole.

Le regole, secondo una formula celebre del filosofo del diritto RonaldDworkin 25, valgono nella logica del o-tutto-o-niente: esse sono cogenti nelsenso che o le si rispetta integralmente o le si viola altrettantointegralmente. Esse descrivono fatti (le fattispecie legali: facti species,immagini del fatto) al verificarsi dei quali devono seguire le conseguenzeprestabilite. Questo è il modello di regola giuridica che Hans Kelsen haespresso con l’altrettanto celebre formula della «ipotesi normativa»: se è a,allora deve essere b, dove – una volta stabilito che cosa è a – non c’è spazioper un c, ma solo per il b. Ritorniamo per un momento alla distinzione traregole del mondo fisico e regole del mondo morale (tra le quali, le regolegiuridiche). La differenza, abbiamo visto, è netta. E nel mondo sociale?

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Anche la sociologia e l’economia, ad esempio, stabiliscono rapporti dicondizionamento: se la pressione demografica cresce in misuraincompatibile con le risorse disponibili, seguono politiche di controllo dellenascite o di eliminazione dei soggetti improduttivi; se le prospettive delsistema economico tendono al brutto, allora crescono i risparmi ediminuiscono gli investimenti, ecc. Queste sono previsioni (se è a, allora èb). Le regole giuridiche (se è a, allora deve essere b) non sono previsioni,ma prescrizioni. A differenza delle previsioni che (giuste o sbagliate chesiano) si basano su regolarità osservabili nell’esperienza, le prescrizioni sibasano sulla constatazione opposta: l’irregolarità constatata nell’esperienza.In assenza della norma giuridica, la realtà sociale si orienterebbediversamente e, proprio per questo, la norma è necessaria (se non fosse cosí,sarebbe superflua). Le regole giuridiche mirano a stringere i comportamentinelle maglie ch’esse pongono, in base al convincimento che, in assenza,essi andrebbero per conto loro. Dunque, le regole giuridiche, pur seformulabili come proposizioni ipotetiche che collegano certe conseguenze acerte premesse, non sono previsioni di fatto, ma sono aspettative di dirittoche si realizzano o per lo spontaneo adeguamento dei comportamenti socialio per la forza coercitiva messa in campo dall’istituzione statale.

Questa messa in campo è ciò che si chiama applicazione, espressione dacui trapela l’idea della norma che viene attaccata al fatto per conformarloalla sua forma. Lo schema logico è il sillogismo giudiziario: la normaprevede in astratto una certa fattispecie (premessa maggiore); questafattispecie si è verificata in concreto (premessa minore): ergo si concludeche devono seguire le conseguenze prestabilite, come la validità,l’invalidità, l’illiceità di un atto, la sanzione, ecc. (la stessa cosa, ma inmodo inverso, si esprime con l’idea della sussunzione del fatto nellafattispecie prevista dalla norma). Vedremo che non è cosí semplice, che lavita del diritto non si presta a essere “meccanizzata” in questo modo. Loschema, comunque è questo e, nell’essenziale, sembra a prima vistareggere: chi, con le proprie azioni, si avventura tra le fattispecie legali, sache non ha scampo. Deve ubbidire. Può contestare la norma, per esempioopponendo la sua obiezione di coscienza (si veda infra, par. X.13), o può difatto farla franca, ma questa è altra questione, che riguarda non l’aspetto

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giuridico della norma bensí la sua pratica efficacia, sulla quale possonoinfluire molti fattori extra- o anti-giuridici.

12. Principî.

Il mondo del diritto è popolato dalle regole. Tuttavia, non solo dalleregole. Anzi: per le ragioni che sono state dette quando si è parlato dellaCostituzione e del suo carattere pluralistico, i principî sono sempre piúimportanti, numerosi e diffusivi.

La prima e piú evidente differenza tra regole e principî sta già nellastruttura delle norme che li contengono. Le norme di principio riguardano«dati», «elementi», «acquisizioni», «valori» oggettivi: dignità umana, dirittiinviolabili, guerra e pace, libertà, salute, lavoro, istruzione e cultura,interesse dei minori, ecc. Le norme di principio sono lapidariequalificazioni di questi dati 26. Se la qualificazione è favorevole, possiamoparlare di «beni giuridici» 27; ma può essere anche sfavorevole, e allora sitratterà di «mali giuridici». Le norme di principio sono queste qualificazionidi valore o disvalore. A differenza delle regole, di cui è elementocaratteristico il «dover essere», per lo piú le norme di principio sonoespresse con la voce del verbo essere cui segue un aggettivo qualificativo: ildiritto è…, la libertà è…, la salute è…, ecc. Poiché, però, siamo nel campodel diritto, cioè di un’esperienza non descrittiva ma prescrittiva, laqualificazione avviene per mezzo di aggettivi modali (tipici quelli in -bile:inviolabile, incomprimibile, intoccabile, inalienabile, ecc.) i quali, pursenza indicare il contenuto specifico di un dover essere (a differenza delleregole), esprimono tuttavia un orientamento pro o contra quel tale bene omale indicato nella norma di principio.

In secondo luogo, le norme di principio sono prive di fattispecie.Attraverso l’indicazione della fattispecie, le regole stabiliscono in anticipoquando esse devono trovare applicazione e, per converso, quando nondevono. Per i principî non è cosí: il loro raggio d’azione è illimitato; essientrano in campo in tutte le circostanze, a priori indefinibili, in cui siritengano implicati i beni o i mali cui essi si riferiscono. Hanno unsovrappiú di contenuto normativo (una «eccedenza di contenutodeontologico» o assiologico, si è detto) 28 al prezzo, però, di una minore

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precisione. Inoltre, le regole, oltre a essere formulate attraverso laprevisione d’una fattispecie astratta che indica quando le previsioni in essecontenute devono entrare in azione in concreto, indicano altresí laconseguenza, il dover essere che ne deriva, cioè le sanzioni in senso ampio(responsabilità, pene, invalidità, ecc.). Per i principî non è cosí: una voltache si ritenga leso il bene o realizzato il male cui essi si riferiscono, laconseguenza non è definita, se non nel senso generico dell’indicazione diorientamento: il bene è da proteggere e favorire, il male da combattere eostacolare. Per questo si può dire che alle regole si ubbidisce (o sidisobbedisce), mentre ai principî si aderisce (o non si aderisce).L’operatività delle regole riposa sull’acquiescenza; l’operatività dei principîscaturisce dalla condivisione di un ethos. Un atteggiamento passivo, nelcaso delle regole; un atteggiamento attivo, nel caso dei principî.

In terzo luogo, i principî sono espressi per mezzo di concetti aperti, iquali possono assumere un contenuto solo per mezzo di concezioni deiconcetti medesimi. In queste concezioni si condensano spesso secoli distoria politica, visioni e sentimenti religiosi e morali, idee sociali efilosofiche. Senza il riferimento a queste realtà che non sono poste, ma sonopresupposte dalle norme di principio, esse sarebbero prive di contenuto. Iconcetti delle norme di principio sono, per dir cosí, molto accoglienti. Essisi prestano a incorporare le concezioni che, di essi, vengono affermandosiin una sfera d’esperienza che trascende quella giuridico-positiva. Le normedi principio, con la loro stessa esistenza, mostrano quanto sia infondata lapretesa di certe concezioni legalistiche che vorrebbero separare la vita deldiritto dall’ambiente culturale in cui essa è immersa e da cui trae linfavitale. Questa «immersione» è ciò che spiega la dinamica storica deiprincipî: ferme le loro formulazioni, i contenuti nascono, vivono e sisviluppano conformemente all’evoluzione della cultura che li alimenta.

Vediamo qualche esempio. L’VIII Emendamento della Costituzionedegli Stati Uniti d’America proibisce le «pene crudeli e inusuali». Neltempo in cui fu approvato, era in uso la fustigazione e l’esposizione allaberlina, che non si consideravano né crudeli né inusuali. Oggi diremmo lastessa cosa? E quanto all’esecuzione della pena capitale dopo anni di attesanei «bracci della morte», non arriverà il giorno in cui la riterremoinammissibile perché crudelissima? E la pena di morte in quanto tale? E lacarcerazione per la vita intera o per periodi cosí lunghi da distruggere la

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speranza, per di piú in istituti di pena in condizioni di estremo degrado?Venendo ad alcune delle norme costituzionali di principio della nostraCostituzione, che cosa è la dignità della persona umana e, ancor prima, checosa è la persona umana? La norma non lo dice, e l’interprete deveconsultare la filosofia. Che cosa è la libertà personale e la sua inviolabilità?L’interprete deve apprendere dalla storia dell’habeas corpus e,considerandola insieme al principio di dignità, deve dire se vi rientra laprotezione dell’integrità mentale e spirituale, la difesa contro il plagio,l’autodeterminazione circa i momenti terminali della vita, l’eutanasia, ilsuicidio, ecc. Che cosa è la guerra che l’Italia ripudia, secondo l’articolo 11della Costituzione? L’interprete deve consultare la morale internazionale e,insieme, tenere conto dell’evoluzione nel modo di concepire la comunitàumana mondiale e non deve dimenticare le nuove forme di conflitto, perstabilire se vi rientrano le azioni militari promosse a fini umanitari, perproteggere popolazioni da stermini e genocidi, per impedire le persecuzionidegli oppositori politici; se è guerra anche quella non dichiarata dagli Stati econdotta da guerriglieri senza divisa e, perfino, se è guerra quella che simuove contro i popoli con strumenti non bellici, come quelli finanziari, econ mezzi di pressione materiale, quali l’«embargo» di materie prime,generi alimentari o sanitari, con effetti disastrosi sulla popolazione civile.

Le regole si esprimono per mezzo di descrizioni di atti o fatti della vitareale, non con riferimento a “beni” giuridici (anche se, sullo sfondo di ogniregola, compare il bene ch’essa vuole proteggere). Per quanto sempre isegni linguistici, che sono non simboli della logica formale ma consuetudinicomunicative, portino in sé margini d’indeterminatezza; per quanto nellinguaggio giuridico, poi, adoperandosi termini classificatori generali eastratti, questi margini siano anche piú ampi che in altri linguaggispecialistici; per quanto, dunque, la comunicazione normativa si svolgasempre sotto il segno dell’incertezza; per quanto tutto questo corrispondaalla realtà, non si deve confondere la caratteristica “apertura” del linguaggiodei principî con il difetto di determinatezza del linguaggio delle regole. Nelprimo caso si tratta, per l’appunto, di una caratteristica adatta a esprimereciò che ci aspettiamo dai principî; nel secondo, l’oscurità del linguaggio èun difetto, rispetto a ciò che desidereremmo dalle regole, cioè la precisadeterminazione di ciò che sta dentro la loro previsione e di ciò che cadefuori. Il linguaggio indeterminato dei principî è invece perfettamente

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conforme a ciò che intendono coloro che lo usano: preciso rispetto aconcetti aperti.

13. Programmi/valori.

Il valore, nel senso che qui interessa, è un bene finale che sta innanzi anoi come una meta che chiede di essere perseguita attraverso attivitàteleologicamente orientate 29. Il valore “deve valere” e perciò contienel’autorizzazione all’azione o al giudizio diretti al risultato.

La parola “valore” è circondata da un alone sentimentale positivo. Chipuò dirsi «senza valori»; le società occidentali odierne non si dice forse chesono «in crisi di valori»? Tuttavia, si deve considerare quanto segue. Ilcriterio di legittimità dell’azione o del giudizio non è nel valore in quantotale, ma nell’efficienza rispetto al valore-fine, nel successo nella suarealizzazione. Per chi ragiona «per valori», il fine giustifica i mezzi, inquanto siano funzionali alla sua realizzazione. La norma fondamentaledell’agire «per valori» è: «agisci quanto piú efficacemente puoi rispetto alfine». Il fine contiene la giustificazione di ogni azione efficace, di ogniprezzo che s’intenda pagare per raggiungerlo. Che poi sia effettivamenteraggiunto è altra questione che, comunque, potrà essere posta e valutatasolo ex post factum, a cose fatte. L’agire per valori è infatti refrattario acriteri regolativi e delimitativi a priori. Per questo, l’etica dei valori èl’etica della potenza. Tutti i mezzi possono, nelle diverse circostanze, essere(spacciati per) utili o necessari, e quindi acquistare legittimità. Tra l’inizio ela fine dell’agire «per valori», può esserci di tutto, perché il valore copre disé qualsiasi azione che possa essere messa in rapporto di strumentalitàefficiente rispetto al valore stesso. Il piú nobile valore può giustificare la piúabietta delle azioni; il diritto può nobilitare il rovescio: la pace, la guerra (laguerra preventiva) 30; la libertà, gli stermini di massa; i diritti umani, l’usodella forza contro gli innocenti (le guerre umanitarie) 31; la difesa della vita,la pena di morte; la democrazia, la dittatura; la felicità del genere umano.Perciò chi, soprattutto nel mondo del diritto, troppo sbandiera questaapparentemente innocente, anzi virtuosa parola – valori –, è spesso unimbroglione. «Quando i fini [i valori] sono grandi – questa era anche laconvinzione di Raskolnikov, il protagonista di Delitto e castigo di

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Dostoevskij – l’umanità […] non giudica piú il delitto come tale, anche seusasse i mezzi piú spaventosi» 32.

Questa portata dei valori è stata “messa in valore” da Nietzsche ed èstata chiarita, con riferimento alle concezioni giuridiche del diritto, nelfamoso scritto di un allievo di Carl Schmitt, Ernst Forsthoff, su «latrasformazione della legge costituzionale» del 1959: i valori, come tali(indipendentemente quindi dai loro contenuti), sono incompatibili con leesigenze dello stato di diritto perché contengono implicitamente unapropensione totalitaria ed esprimono un’incontenibile e incontrollabileconcezione vitalistica dell’esistenza individuale e collettiva, essenzialmentea-giuridica. Quando Carl Schmitt nel 1967 scriveva della «tirannia deivalori», intendeva non solo indicare esangui fantasmi in lotta tra loro perconquistarsi il primo posto nella «gerarchia dei valori», ma anchedenunciare l’uso illimitato di qualsiasi mezzo per (farli) prevalere 33. Ilprincipio, al contrario, è un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraversoattività conseguenzialmente orientate. Esso ha contenuto normativo rispettoall’azione o al giudizio. Il criterio di validità dell’azione e del giudizio è lariconducibilità logica al principio. L’agire e il giudicare «per principî» sonointrinsecamente regolati e delimitati dal principio medesimo di cui sonoconseguenza: ex principiis derivationes. La massima del principio è: agisciin ogni situazione concreta che ti si presenta in modo che nella tua azione sitrovi all’opera un riflesso del principio stesso. Il principio è come un bloccodi ghiaccio che, a contatto con le circostanze concrete della vita, si spezzain molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza delblocco originario. Tra il principio e l’azione c’è un calcolo di adeguatezzanel caso concreto che rende la seconda prevedibile, almeno nella direzionelungo la quale si muove. I principî ben possono attecchire nello Stato didiritto; anzi, la nozione stessa di Stato di diritto è la sintesi di numerosiprincipî che esprimono una concezione moderata e razionale dell’esistenzaindividuale e collettiva.

14. Valori contro principî.

Valore e principio sono dunque nozioni per diversi aspetti antitetiche.Eppure hanno in comune il nucleo: entrambi si riferiscono a beni, come ad

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esempio la persona umana, la vita, la natura, la cultura, l’arte, oppure lasicurezza, l’espansione economica, il benessere, la potenza dello Stato, lanazione e perfino la razza. Ciò spiega la confusione dei due concetti, l’usoquasi sempre promiscuo dei due termini e la critica che spesso vieneimpropriamente rivolta al secondo (il principio) con argomentipropriamente riferibili al primo (il valore).

Poiché essi riguardano spesso gli stessi beni, questi possono essereincorporati in proposizioni di valore o in proposizioni di principio, sia purecon formule non coincidenti. In entrambi i casi, si usano verbiall’indicativo, ma i valori (positivi o negativi) si esprimono attraversopredicati che indicano qualità morali di fronte alle quali si presume esclusala neutralità e l’indifferenza (buono o cattivo; giusto o ingiusto, utile oinutile, ecc.), e quindi promuovono l’azione, senza peraltro indicarne icontenuti; i principî si esprimono invece attraverso predicati «modali»,orientati alla prassi, al modus agendi, che fanno appello all’agireconsequenziale, di cui si è detto in precedenza. Anche in questa differenzaespressiva si manifesta la radicale differenza. In sintesi: ethos nietzscheano,nei valori; ethos kantiano nei principî.

E tuttavia, sotto un altro aspetto è ben vero che si tratta di una differenzasottile e, soprattutto, che lo stesso bene può essere trattato come valore ocome principio, con esiti diametralmente opposti. Ad esempio, il richiamoal bene della vita, come valore, vale per i fanatici a giustificare le azioniviolente contro le équipe mediche delle cliniche che operano aborti; laprotezione della vita come principio, invece, apre la discussione sulleconseguenze che razionalmente il principio implica rispetto a un fatto comel’interruzione volontaria della gravidanza, nelle diverse circostanze dellavita in cui può presentarsi come possibilità o necessità. Molte delle criticherivolte alla «giurisprudenza per valori» non si dovrebbero applicare alla«giurisprudenza per principî». Il fatto che ciò accada si spiega,precisamente, o in base all’improprio scambio tra principî e valori o in baseall’indebita confusione dei primi con i secondi.

In sintesi, si potrebbe dire cosí: i valori, in quanto stanno davanti a noi,ci attirano; i principî, in quanto li abbiamo dietro di noi, ci sospingono. Ivalori ci dicono: vieni a noi; i principî, procedi da noi. I primi ci indicano lameta, ma non la strada; i secondi, la strada, ma non la meta. Chi si ispira aivalori sa dove vuole andare, ma non gli è dato di sapere come arrivarci. Chi

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si attiene ai principî, sa come procedere, ma non sa dove arriverà. L’uomo“di valori” è colui che mira al passo ultimo; l’uomo “di principî”, colui chesi occupa dei passi intermedi. Due etiche incompatibili sono a confronto:l’una riguarda le premesse del nostro agire (i principî), l’altra leconseguenze (i valori). Secondo la prima, un’azione potrà essere giudicatapositivamente o negativamente in base alla conformità o alla difformitàrispetto alla norma che la precede; per la seconda, il giudizio si servirà diqualcosa che viene dopo, cioè del risultato, e dipenderà dalla circostanzache quest’ultimo sia stato o non sia stato raggiunto. Nella filosofia morale,la prima è l’etica del dovere kantiana; la seconda, l’etica di tutte le filosofieutilitariste 34.

Si può proporre un esempio di come, nella condotta della vita, i principîimpegnano e i valori affrancano. Raffrontiamo lo stile di vita di un “uomodi principî” e quello di un rivoluzionario, entrambi dediti alla libertà,all’uguaglianza, alla giustizia ecc., da far regnare nel mondo. C’è unadifferenza tra l’uno e l’altro? La risposta è che colui il quale assumesse lalibertà e la giustizia come principî vedrebbe una patente contraddizionenella proclamazione di tali principî e, contemporaneamente,nell’approfittare eventualmente di uno stile di vita da privilegiato. Coluiche, diversamente, opera secondo valori non vede in ciò alcunacontraddizione. Egli potrà sempre sostenere che una vita vissuta daarricchiti, approfittatori, sfruttatori, rentiers, o una vita anche soltanto liberadalle ordinarie preoccupazioni quotidiane (scaricate sulle spalle degli altri)non è in contrasto con gli ideali ch’egli propugna, poiché può addiritturaservire la rivoluzione del mondo meglio di quella che è condotta negli stentie nelle difficoltà generate dalla fedeltà ai principî. E, soprattutto, potràsostenere che, comunque, i giudizi si daranno alla fine, non all’inizio.Insomma: i valori esonerano da responsabilità; i principî pretendonocoerenza (da qui, la regola: se vedi due che proclamano entrambiuguaglianza, libertà, giustizia, umanità, ecc., l’uno cercando di godersi lavita finché può e il piú a lungo possibile, l’altro cercando di adeguarla piúche può a ciò che predica, il primo è uomo di valori, il secondo di principî).«Stavrogin, siete bello! – gridò Pëtr Stepànovich, quasi in uno stato diebbrezza. […] Siete un aristocratico tremendo. Un aristocratico, quando vaverso la democrazia, è affascinante! Per voi non significa nulla sacrificare la

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vita, la vostra e l’altrui», cosí dice Dostoevskij in un passo de I demoni chemeriterebbe la nostra riflessione 35.

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Capitolo ottavoGiustizia costituzionale

1. La costituzione come diritto.

L’assenza di un “momento giudiziario” della costituzione è il motivo inbase al quale, per lungo tempo, fino alla creazione dei Tribunali (o Corti)costituzionali, si è negato che il diritto costituzionale fosse un diritto a pienotitolo. L’inesistenza di un giudice, abilitato a interpretare e applicare lacostituzione, faceva regredire le sue norme nell’incerto limbo che un temposi denominava «diritto politico», un ossimoro nel quale l’aggettivo, nellasua accezione piú immediata, contraddice il sostantivo. In assenza delgiudice, ciascuna parte coinvolta in una controversia costituzionale sitrovava nella condizione di usare la costituzione come argomento a favoredelle proprie pretese contro quelle altrui, ma non ci poteva esserne una“applicazione” obbiettiva e disinteressata. Le norme giuridiche, per esseretali, devono valere super partes e indipendentemente dai rapporti di forza.In mancanza di un giudice, cioè di un soggetto terzo imparziale, non c’èapplicazione del diritto; anzi, non c’è diritto. Ci potranno essere«argomentazioni» costituzionali, ma non «applicazioni» della costituzione.

2. L’àncora dello Stato.

La giustizia costituzionale è un’acquisizione recente, un’acquisizione delnostro tempo. Eppure, l’esigenza e i tentativi di difesa della strutturafondamentale della vita sociale e politica sono antichi tanto quanto lariflessione sui problemi piú importanti della convivenza tra gli esseri umani.Possiamo assumere come archetipo le considerazioni di Platone su «icustodi» della pòlis e del suo nómos: il nómos, questa gloriosa invenzionedello spirito greco per difendere il quale «occorre – dice Eraclito 1 – che il

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popolo combatta come per le mura della città». Nell’ultima parte delPolitico 2 si dice che le leggi appartengono all’«arte regia», cioè alla scienzae alla filosofia applicate alla società bene ordinata, la politéia. La «veracostituzione» sarebbe quella in cui sorgesse «un re quale s’ingenera neglialveari, uno che di corpo subito appaia superiore e d’anima». A questo reche possiede l’arte regia occorrerebbe affidarsi completamente senzabisogno di rigide leggi, leggi che non sanno adattarsi all’irriducibile varietàdella vita e sono, perciò, prepotenti e ignoranti:

Meglio di tutto non è che abbiano vigore le leggi, ma che lo abbia l’uomo il quale perla sua intelligenza sia regio. E sai perché? Perché la legge non può mai, abbracciandociò che è ottimo e giustissimo, prescrivere nello stesso tempo con precisione ciò che è ilmeglio per tutti. Giacché le disuguaglianze degli uomini e delle azioni e il non rimaneregiammai, per cosí dire, in quiete nessuna delle cose umane, non permettono chealcun’arte possa per alcuna cosa indicar nulla di semplice che serva a tutti i casi e in tuttii tempi […]. Ora, la legge noi vediamo che suppergiú tende proprio a questo, come unuomo prepotente e ignorante che a nessuno non lascia far nulla senza il suo ordine, anzinon permette nemmeno che altri lo interroghi, nemmeno se a qualcuno venga in menteun partito nuovo, migliore e differente dalla disposizione che egli aveva imposta.

Analoga critica della legge, scritta o non scritta che sia, troviamo nelpasso dell’Etica nicomachea che parla del «regolo di piombo usato nellacostruzione di Lesbo» che si adatta alla configurazione della pietra,immagine di flessibilità. Ma, mentre Aristotele, per ammorbidire la ciecarigidità della legge che violenta la mai completamente prevedibile varietàdella vita, spende la sua autorità a favore dell’equità contro la mera legalità,Platone, in mancanza dell’«uomo regio», spende la propria a favore dellaforza della legge. Poiché accade che un simile re-filosofo, dotato di talieccelse virtú politiche, non sempre, anzi quasi mai, esiste, «è pur necessarioche i cittadini adunatisi scrivano delle leggi, seguendo le tracce della formadi governo piú vera tra tutte». Da qui, cioè dall’imperfezione deigovernanti, derivano sia la necessità di leggi che siano semplici«imitazioni» o tracce della costituzione piú vera, sia, per conseguenza, lanecessità che queste leggi siano rispettate: le diverse forme di governo –monarchia, aristocrazia e democrazia – saranno tanto migliori quanto piúsarà garantito tale rispetto da parte di «custodi» o «guardiani» delle leggi

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preposti a questo compito supremo. Che cosa sia il «buon guardiano», ècompito della pedagogia politica, poiché non tutti possono esserlo 3. In altritermini, il governo delle leggi è un male minore, rispetto al governo degliuomini dotati di virtú regia; ma è un bene maggiore, rispetto al governodegli uomini, se questi sono tiranni crudeli.

Proprio al termine e quasi a coronamento delle Leggi platoniche,leggiamo:

Nel nostro Stato ci deve essere un Consiglio formato di dieci custodi delle leggi,sempre i piú anziani, coi quali devono adunarsi tutti quelli che hanno ottenuto il premiodi virtú; v’interverranno inoltre coloro che sono andati all’estero allo scopo diapprendere qualche cosa che possa essere utile all’opera di vigilanza esercitata sulleleggi, e che, ritornati salvi in patria, saranno ritenuti degni di partecipare al Consiglio, inseguito ad esame a cui saranno sottoposti dagli altri membri; […] ciascuno deveprendere con sé un giovane, d’età non inferiore ai trenta anni, e proporlo agli altri, dopoche egli stesso avrà giudicato che il giovane è meritevole, per indole e per educazione,d’essere ammesso; e se anche agli altri parrà tale, lo ammetteranno; in caso contrario, ilgiudizio dato deve rimanere celato cosí agli altri come, e soprattutto, a colui che è statorespinto; […] infine le riunioni devono tenersi di buon mattino, quando ognuno èmaggiormente libero dagli altri affari, sia privati che pubblici […]. Se facciamo diquesto Consiglio come l’ancora di tutto lo Stato, questa ancora, fornita di tutto ciò che siconviene, ci conserverà tutto quello che noi vogliamo 4.

Altrove, il Consiglio dei dieci custodi è descritto come un «consiglionotturno»:

Bisogna vedere adesso […] se a tutte le leggi, […] intendiamo aggiungere anchequella che istituisce il Consiglio notturno di magistrati, forniti di tutta quella cultura chenoi abbiamo indicata, perché costituisca una custodia legalmente stabilita per laconservazione dello Stato […]. Non è ancora possibile […] far leggi su tale oggetto, seprima tutto non sia messo in ordine; allora si stabilirà per legge quale autorità questimembri del Consiglio debbano avere. Ma gli insegnamenti circa il modo di ordinarecose di questo genere, perché riescano bene, devono essere accompagnati da moltapratica e lunga esperienza […]. Allorché questo nostro divino Consiglio sarà costituito,ad esso […] bisognerà affidare lo Stato […]. E cosí veramente sarà pressoché compiutonella realtà quello che […] abbiamo visto come in sogno, formando l’immagine

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dell’unione della testa e dell’intelligenza; e ciò naturalmente se i nostri uomini sarannoscelti accuratamente, se riceveranno un’educazione conveniente, e dopo, collocati nellacittadella del paese, sapranno mostrarsi custodi forniti di tanta virtú, per conservare loStato, quali noi precedentemente nella nostra vita non vedemmo mai 5.

Cosí termina il grande trattato sulle Leggi.Intravediamo qui in nuce una duplicità perenne, che verrà ad assumere

poi, nel corso dei secoli, un suo profilo politico e giuridico definito quandocompariranno le «costituzioni rigide» (si veda supra, par. V.II.9). Si trattadella distinzione tra due livelli normativi. Piú forte e profondo è il nómosper eccellenza, il nómos basileús – carico di elementi mitici e religiosi,talora indicato come thesmós da poeti e scrittori –, di cui i Greci andavanofieri, per il quale si doveva combattere e perfino morire, come testimoniaTeseo, nelle Supplici di Euripide. Piú deboli ed effimeri, come strumenti digoverno contingente, erano gli psephísmata o nomizómena (dichiarazioni divolontà oppure comandi dell’assemblea o di chi temporaneamentedisponeva del potere) che potevano essere osteggiati in nome dei nomòi,come nell’Antigone di Sofocle. Il nómos era in funzione della stabilità dellavita dello Stato, allora insidiata dagli interessi egoistici dei potenti di turno,i quali trovavano appoggio nelle concezioni della legge sostenute dai sofisti(Trasimaco, Gorgia, Callicle) 6.

Queste sono idee antiche. Nella storia esse sono state riproposteinnumerevoli volte, ogni volta con innumerevoli variazioni. L’elencooccuperebbe un libro intero. Si trattava in ogni caso di predisporreprotezioni contro il potere tirannico e la legge ingiusta. Le tante propostecostituiscono un capitolo importante del «costituzionalismo». Qui nericordiamo particolarmente due, appartenenti al pensiero illuministico, chesintetizzano le diverse ragioni su cui si fonda la giustizia costituzionale.

3. Emmanuel-Joseph Sieyès.

La garanzia costituzionale che l’abate Sieyès, nel 1795, propose alregime del Termidoro – un jury constitutionnaire, un’assemblea di piú di

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cento membri, a metà tra il «politico» e il «giudiziario» – è spiegata inquesti termini:

Una costituzione è un corpo di leggi obbligatorie, oppure non è niente. Se è un corpodi leggi, ci si domanda dove ne sarà il guardiano, dove sarà la magistratura di questocodice? Occorre poter rispondere. […] Le leggi, quali che siano, suppongono lapossibilità della loro violazione, da cui deriva un’esigenza pratica di farle osservare.Sono quindi autorizzato a chiedere: chi avete nominato per accogliere i ricorsi contro leviolazioni della Costituzione? La magistratura ordinaria vi sembrerebbe poter svolgerequest’alta missione? No, non si può disconoscere cosí tanto l’importanza dell’attocostituzionale per ridurlo a essere nient’altro che un titolo del codice civile. Tali errorisono troppo lontani dai vostri pensieri e voi mi dite che sarebbe perdere tempo sevolessi insistere a dimostrare la necessità di un freno costituzionale […]. Io attribuiscotre compiti al jury constitutionnaire: 1) che vegli fedelmente al mantenimentodell’eredità costituzionale; 2) che si occupi, al riparo di ogni funesta passione, di tutte leopinioni che possano servire a perfezionare la Costituzione; 3) infine, che metta adisposizione della libertà civile una risorsa di equità naturale, nelle occasioni gravi incui la legge posta a tutela dei diritti abbia dimenticato la loro giusta garanzia. In altritermini, io considero il jury constitutionnaire: 1) come tribunale di cassazionenell’ordine costituzionale; 2) come laboratorio per la proposta degli emendamenti che itempi potrebbero richiedere che vengano apportati alla Costituzione; 3) infine, comesupplemento di giurisdizione naturale, valido per riempire i vuoti della giurisdizionepositiva. Ci si diletta d’illusioni, quando si fa conto sull’osservanza fedele di una leggeche non abbia altra garanzia che la buona volontà. Una legge la cui esecuzione è basatasolo sulla buona volontà è come un’abitazione il cui pavimento appoggiasse sulle spalledi coloro che l’abitano. È inutile dire che cosa, presto o tardi, succederà 7.

Queste idee rimasero allo stadio di proposte. In Francia prevalse ladottrina della sovranità dell’assemblea legislativa e dell’incontestabilitàdella legge «espressione della volontà generale». Tuttavia esse contenevanospunti legati a esigenze che la storia successiva avrebbe ripreso. Ciò nonsolo per quel che riguarda il primo punto, che prefigura un controllo dicostituzionalità accentrato presso un organo di giurisdizione ad hoc e unaconcezione della costituzione come «lascito» ereditario da una generazionea quelle successive (una concezione moderata e «continuista», opposta a

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quella dell’onnipotenza d’ogni living generation; si veda supra, par. IV.10),ma anche per ciò che riguarda la seconda e la terza competenza. La riservadella proposta di emendamento costituzionale era giustificata dallanecessaria cautela nel mettere in moto processi rivolti alla modificazionedella costituzione in vigore. È proprio in tali momenti che i conflitti politicisi manifestano con la massima virulenza (fin dall’antichità classica ilsospetto circondava chi proponeva modifiche al nómos della città: sospettodi mire tiranniche). Il «supplemento di giustizia naturale», a sua volta,richiama la questione, anch’essa classica, sui limiti del «governo delleleggi», cioè delle prescrizioni generali e astratte, quando esse entrano incontatto con l’inesauribile varietà dei casi della vita (questione riemersa neitempi recenti con riguardo ai cosiddetti «automatismi legislativi»: si vedainfra, par. VIII.27).

4. John Marshall.

Nell’altra terra d’origine del costituzionalismo moderno, gli Stati Unitid’America, la giustizia costituzionale trovò un terreno piú fertile. Il primoseme, gettato con la decisione della Corte suprema nel celebre casoMarbury versus Madison del 1803, dopo un lungo periodo di incubazione sisviluppò fino a divenire un modello.

La «dottrina» che prende il nome dal giudice Marshall, a quel tempopresidente della Corte suprema, spogliata degli argomenti specificamente didiritto costituzionale degli Stati Uniti, è svolta con un’argomentazione dicarattere generale, presentata nella forma di un ragionamento logico-conseguenziale, a partire da una premessa di fatto incontestabile, lapresenza di una costituzione quale norma avente valore superiore a quellodella legge: un’argomentazione proponibile, perciò, dovunque si dia unatale premessa. La sua formulazione, che ricalca le idee di AlexanderHamilton, uno dei «padri costituenti» americani, contenuta ne Ilfederalista 8, la celebre apologia della Costituzione federale, è la seguente:

È affermazione troppo ovvia per essere contestata che o la costituzione impedisce chele leggi contrastino con le sue prescrizioni, o il legislatore può modificare la costituzione

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con una legge comune. Tra queste proposizioni alternative non c’è via di mezzo: o lacostituzione è la legge suprema immodificabile con i mezzi ordinari, oppure è allostesso livello delle leggi ordinarie e, come queste, è modificabile ogniqualvolta piacciaal legislatore. Se è vera la prima alternativa, allora, la legge contraria alla costituzionenon è una legge; se è vera la seconda, allora le costituzioni scritte sono un assurdotentativo per limitare un potere per sua natura illimitabile. Ma – prosegue la decisione –,certamente tutti gli artefici della Costituzione hanno ritenuto di aver elaborato la leggefondamentale e suprema della nazione: di conseguenza, il principio valido in questocaso come in ogni altro regime a costituzione scritta deve essere che un atto del poterelegislativo contrastante con la Costituzione è nullo. In conclusione, se una leggecontrasta con la Costituzione, il giudice si trova a dover scegliere tra l’applicazione dellalegge con conseguente disapplicazione della Costituzione e l’applicazione dellaCostituzione con conseguente disapplicazione della legge: evidentemente, solo laseconda strada è compatibile con i principî anzidetti.

La Costituzione degli Stati Uniti non attribuisce espressamente allaCorte suprema e, in genere, ai giudici, il potere di disapplicare le leggicontrarie alla costituzione. Alcuni tra i «padri costituenti», timorosidell’arbitrio del legislatore, avevano personalmente auspicato che le Corti siconquistassero un potere di supervisione sulla legge del Congresso, secondola concezione del Rule of law (si veda supra, par. V.I.5) irrobustita dallaCostituzione come higher o paramount law e conformemente a unatradizione giudiziaria mai spenta nella Common law. Ma tale orientamentoera fortemente contrastato in nome della supremazia del Parlamento. Perciò,per evitare un ostacolo all’approvazione della Costituzione, si preferí noninsistere nella proposta di iscrivervi la judicial review of legislation. Ci fuuna sorta di rinvio alle potenzialità logiche insite nella stessa Costituzionescritta, potenzialità che, non appena se ne fossero date le condizioni storicheconcrete, avrebbero dato i loro frutti 9. Cosa che avvenne, precisamente, conla sentenza Marbury versus Madison. In sintesi, l’argomentazione di questasentenza è contenuta in queste tre proposizioni: a) la Costituzione è leggesuprema; b) la legge ordinaria non può contraddire la Costituzione poiché,altrimenti, questa non sarebbe suprema; c) nel caso di contrasto fra legge eCostituzione, i giudici devono disapplicare la legge, per poter applicare laCostituzione.

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Una volta affermato a, ne derivano necessariamente b e c? Di solito sidice di sí e, conseguentemente, si ritiene che il controllo giudiziario dicostituzionalità delle leggi sia il naturale sviluppo di ogni ordinamentogiuridico basato su una costituzione rigida (o «legge fondamentale» o«suprema»). Ciò è tanto vero che, sulla base di analoghe considerazioni, lajudicial review si è affermata «spontaneamente» anche in altri sistemigiuridici. Si vedano i due esempi seguenti.

In Germania, tra le due guerre, una sentenza del Tribunale del Reich del1925 (il Aufwertungsurteil, decisione sulla rivalutazione 10: una questionecruciale nei rapporti creditori-debitori nella Germania), contiene le seguentiargomentazioni similissime a quelle del giudice Marshall: il principio disottoposizione dei giudici alla legge

non esclude che il giudice possa disconoscere la legittimità di una legge del Reich odi qualcuna delle sue disposizioni quando esse contrastino con altri precetti che ilgiudice deve osservare. Questo è il caso che si verifica quando una legge contraddiceuna norma contenuta nella Costituzione, per l’approvazione della quale non si sonorispettate le condizioni stabilite […] per riformare la Costituzione. Infatti, i precetti dellaCostituzione del Reich possono essere derogati solo da una riforma della Costituzioneregolarmente approvata. Perciò, essi restano vincolanti per il giudice, a fronte didisposizioni contrarie contenute in una legge posteriore […], obbligandolo a nonapplicare le disposizioni contrarie di una legge posteriore. Dato che la Costituzione delReich non contiene alcuna disposizione in virtú della quale la decisione circa lacostituzionalità di una legge del Reich sia sottratta ai tribunali e sia deferita ad altraistanza, si deve riconoscere il diritto e il dovere del giudice di controllare lacostituzionalità delle leggi del Reich 11.

Anche lo Stato d’Israele ha il suo caso Marbury versus Madison. Sitratta della «monumental decision» 12 della Corte suprema United MizrahiBank versus Migdal Cooperative Village del 1995 redatta dal suo presidenteAharon Barak 13. I dati costituzionali rilevanti di partenza potevano apparirescoraggianti. Israele, per una serie di ragioni storico-politico-religiose, nonsi è dato una costituzione in senso proprio, sebbene la «Dichiarazioned’indipendenza» (15 maggio 1948) prevedesse l’elezione di un’Assembleacon compiti costituenti. Nel corso degli anni, invece, la Knesset (Cameradei rappresentanti) andò approvando una serie di «leggi fondamentali»

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(basic laws), in una sorta di processo costituente «a tappe progressive»,riguardante diversi argomenti di rilievo costituzionale (per esempio, laKnesset stessa, i territori d’Israele, il governo, l’economia pubblica,l’esercito, Gerusalemme capitale, l’ordinamento giudiziario). Queste leggi,dal punto di vista formale, non sono diverse da tutte le altre (salvo chenell’intitolazione). Nel 1992, infine, sono state approvate due leggifondamentali, l’una sulla libertà di lavoro, l’altra sulla dignità e libertàumane. Esse contengono un sia pur incompleto (dal punto di vista delledemocrazie liberali: mancano l’uguaglianza, la libertà religiosa e dicoscienza, per esempio, ma possono essere «recuperate» nel concetto didignità) catalogo dei diritti, al cui rispetto sono tenute «tutte le autorità delloStato». Alcune loro norme prevedono, per la propria modificazione, un«rafforzamento»: in particolare, la modifica deve essere espressaconsapevolmente e deve essere deliberata con maggioranze speciali. Questacircostanza aprí un dibattito circa la possibilità del Parlamento diautovincolarsi e circa la sorte di leggi approvate senza il richiesto rispettodelle clausole di aggravamento. Già a partire dal 1969, la Corte supremaaveva affermato l’invalidità di tal genere di leggi. Ma la questione di fondo– se Israele avesse una costituzione, cioè se le leggi fondamentali potesseroconfigurarsi, in quanto tali, come una costituzione, e se una similecostituzione potesse essere la base per una funzione di garanzia contro leleggi incostituzionali – fu risolta soltanto con la citata decisione del 1995.

La sua argomentazione è perfino piú audace di quella del giudiceMarshall. Eccone i passaggi principali, l’uno circa la costituzione, l’altrocirca il controllo delle leggi incostituzionali. a) La prima Knesset fuconvocata, in base alla «Dichiarazione d’indipendenza», col compito didare a Israele una costituzione. Questo potere fu espressamente trasmessodalla prima Knesset a quelle successive, col consenso diffuso del popolo,titolare della sovranità. Nel momento in cui la Corte suprema riconoscevalore costituzionale, cioè valore di norma suprema, alle Leggifondamentali non fa che dare voce alla sovranità popolare, di cui essa èorgano. b) Ma, se la costituzione è norma suprema, quale sarà la sanzioneper le leggi incostituzionali? In generale, si può dire che la risposta dipendeinnanzitutto dalle previsioni della costituzione stessa, che può statuiresanzioni e procedure contro tali leggi. Qual è, però, la regola se lacostituzione tace in proposito? La risposta a questa domanda dipende dalla

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cultura e dalla tradizione di cui il sistema legale è parte. Esistono duetradizioni giuridiche. La prima, prevalente in Europa per tutto l’Ottocento,attribuisce alla costituzione carattere obbligatorio ma, in virtú del principiodella sovranità parlamentare e della separazione dei poteri, la violazionedella costituzione non determina la nullità della legge e le Corti non hannoil potere di dichiararla. Ma questo è un punto di vista superato. Un’altratradizione e un’altra cultura giuridica vogliono invece che le leggiincostituzionali siano messe da parte, in modo di evitare la contraddizione.Questa responsabilità non è del legislatore (che è l’autore stesso della leggeincostituzionale), ma è delle Corti. Ecco la conclusione: il fatto che lacostituzione taccia su questo punto (come in effetti tacciono le Leggifondamentali d’Israele) implica il potere delle Corti di sindacare lacostituzionalità delle leggi e il loro potere di dichiarare nulla la leggeincostituzionale. Anche la Corte suprema concorda dunque con l’ideastatunitense: una volta che vi sia una costituzione, intesa come «leggesuprema» (e questo era lo scoglio maggiore da superare, in Israele), nederiva «naturalmente» la competenza delle Corti a sindacarel’incostituzionalità della legge. L’argomento di Marshall è di tipo logico;Barak integra la logica con la storia e la cultura, ma il punto centrale è ilmedesimo: il silenzio tenuto dalla costituzione non significa esclusione, maespansione di principî impliciti, favorevoli alle Corti.

I sistemi di giustizia costituzionale pensati in Europa in alternativa aljudicial review sono incentrati su organi e procedure ad hoc. Questasoluzione è stata caldeggiata, precisamente, anche allo scopo di contrastarel’anzidetta tendenza spontanea all’autoinvestitura da parte dei giudici diquel potere di sindacato sulla legge. In breve: sí a un controllo dicostituzionalità delle leggi, ma no alla forza “naturalmente” espansiva delprincipio della higher law e no all’implicito potere dei giudici comuni difarlo valere contro la legge incostituzionale.

5. Il «privilegio del legislatore».

In Europa, si temeva il «governo dei giudici». Cosí, quando l’idea dellagiustizia costituzionale prese irresistibilmente piede come reazione allacorruzione della legge nei regimi totalitari del secolo scorso, ci si rifece a

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un modello alternativo a quello americano: organi e procedimenti ad hoc,pensati precisamente a questo scopo e con l’intento di contenere lo sviluppoillimitato del potere giudiziario nei casi di leggi incostituzionali. Le Corticostituzionali europee rappresentano un «privilegio del legislatore». Taleespressione può sembrare impropria, con riferimento a una istituzionecreata, per l’appunto, allo scopo di porre limiti all’onnipotenza dellegislatore. Eppure non è cosí. Il controllo di costituzionalità adottato inEuropa rappresenta effettivamente un privilegio, rispetto a ciò che sarebbepotuto accadere se i giudici europei avessero imitato i giudici statunitensi.

In presenza di una costituzione concepita come norma giuridicasuperiore alla legge, infatti, l’alternativa è tra la «naturale» e implicitacompetenza dei giudici (tutti i giudici) a sindacare la legge incostituzionalee la «artificiale» ed esplicita previsione di sistemi di controllo alternativi,con la conseguenza che il silenzio tenuto in proposito dalla costituzionesignificherebbe non l’assenza del controllo, ma il suo esercizio diffuso daparte dei tribunali. Tertium non datur: una costituzione intesa come normagiuridica (e non solo come direttiva politica o morale) superiore alla legge,senza controllo di costituzionalità, sarebbe infatti una contraddizione, unnon senso. Alla luce di queste considerazioni, si comprende chel’accentramento del controllo di costituzionalità presso Corti e Tribunaliistituiti ad hoc, diversi da quelli comuni, si sia definito un «privilegio dellegislatore», un «privilegio» che il sistema descritto in Marbury versusMadison non conosce.

Il termine «privilegio» indica, in primo luogo, che il legislatore ha il suogiudice speciale, operante attraverso procedimenti particolari e formato conpersonale non esclusivamente giudiziario, capace di tenere nel debito contole esigenze di assetto politico-costituzionale nel loro complesso; in secondoluogo, significa che la legge deve essere obbedita e applicata dai giudici (equindi da tutti i «giustiziabili») fino a quando essa non sia dichiarataincostituzionale dall’unica istanza competente, la Corte costituzionale, coneffetti erga omnes, cioè obbligatori per tutti. L’efficacia vincolante dellalegge in quanto legge, e non in quanto legge legittima, nei sistemi dicontrollo organizzati su istanze costituzionali ad hoc può ritenersi laconseguenza di una «presunzione di legittimità» della legge. In assenza ditale presunzione, la costituzione, maneggiata dai Tribunali a propriopiacimento, si trasformerebbe in un pericoloso fattore d’incertezza e

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confusione (diversamente dagli Stati Uniti, dove la «dottrina» delprecedente vincolante – si veda infra, par. VIII.6 – assicura alla Cortesuprema un potere direttivo eminente nell’interpretazione dellaCostituzione). Carl Schmitt ha espresso il concetto di presunzione a favoredel legislatore parlando di «über-legale Prämie auf den legalen Besitz derlegalen Macht» 14. Da parte di altri 15, si è parlato di «obéissance préalable»(«il s’agit de savoir de quel côté est le préalable, si c’est du côté del’autorité qui commande ou si c’est du côté du sujet qui obéit; si le sujet,avant d’obéir, peut soulever la question préalable de la légalité de l’ordre oubien si, au contraire, il est obligé d’obéir avant de soulever la question de lalégalité. Faire passer le préalable du côté de la légalité, c’est détruirel’obéissance préalable aux ordres du gouvernement, c’est détruire le droitpropre du gouvernement. L’autorité souveraine […] est celle qui n’a pasbesoin d’avoir raison pour justifier ses actes») 16.

Il significato del controllo di costituzionalità affidato a un organospeciale, sottratto perciò alla competenza dei giudici comuni, è cosíespresso in una decisione del Tribunale costituzionale federale tedesco(Bundesverfassungsgericht) nella quale si chiarisce perché le leggi, e non leordinanze amministrative, sono assistite dall’anzidetto «privilegio»:

è compito del Tribunale costituzionale federale evitare che i singoli giudici sisovrappongano alla volontà del legislatore federale o dei Länder, non applicando leleggi che hanno deliberate perché ad avviso dei giudici stessi quelle leggicontravvengono alla Legge fondamentale [Grundgesetz] […]. In caso di negazione dellacostituzionalità della legge i giudici dispongono solo di un diritto di esame preliminare.[…] Proprio il pericolo per la potestà legislativa, derivante dall’allargamento del dirittodei giudici di controllare la validità della legge, fu una delle preoccupazioni principalicontro l’ammissione di un loro potere di controllo generalizzato.

A questo potere, «in quanto può condurre alla negazione della validitàdelle norme giuridiche, si collegano anche il pericolo per la certezza deldiritto e il rischio di dissoluzione dell’ordinamento giuridico». Questopericolo è

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evitato affidando il controllo di costituzionalità a organi speciali, “partecipati” dallegislatore stesso [attraverso l’intervento nella scelta dei giudici] […]. Da ciò si trassel’ulteriore indicazione che il giudice è vincolato alla legge promulgata in modoformalmente corretto, fino a quando non se ne sia dichiarata espressamente lacontrarietà alla Costituzione. Infine, dal principio fondamentale di separazione dei poterisi trasse l’obbligo della giurisprudenza di riconoscere [la forza obbligante de]gli atti delpotere legislativo 17.

6. Controllo diffuso e accentrato.

Per le ragioni dette sopra, nell’Europa continentale sono stati adottatisistemi di controllo della costituzionalità delle leggi accentrati e non si èadottato il modello di controllo diffuso, proprio degli Stati Uniti.

Il controllo diffuso comporta la disapplicazione della leggeincostituzionale da parte di ogni giudice, incidentalmente nell’ambito diogni giudizio, con efficacia inter partes. Poiché nei giudizi comuni si trattadi questioni attinenti alle pretese delle parti, la disapplicazione della leggevale a difesa del diritto individuale contro la legge incostituzionale; ilgiudizio è «di diritto soggettivo»; la costituzione assume efficacia diretta,come vera e propria legge regolatrice dei rapporti di cui si controvertedavanti al giudice (significativo il fatto che le decisioni d’incostituzionalità,come ogni altra decisione giudiziaria, siano citate col nome delle parti:Marbury – versus – Madison, ad esempio). L’incostituzionalità della legge èdichiarata “incidentalmente” nel corso di giudizi che vertono non sullalegge in sé, ma sui diritti e sui doveri delle parti in causa che cadono sotto laprevisione legislativa. La legge incostituzionale è dichiarata nulla (void) e alsuo posto il giudice fa applicazione diretta della costituzione. Il sistema dicontrollo diffuso, incidentale e dichiarativo della nullità della leggeincostituzionale è il sistema detto judicial review of legislation.

Il controllo di costituzionalità «diffuso», in Europa e in Italiaspecificamente, è stato preso in considerazione ma generalmente rifiutato,sulla base delle considerazioni che seguono. Esso avrebbe messo la legge«nelle grinfie» dei giudici e avrebbe comportato l’«esplosione» della forzanormativa della Costituzione, applicabile direttamente nei rapporti giuridici,con risultati caotici. Queste conseguenze del sistema diffuso si temette che

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potessero essere particolarmente accentuate in presenza di cartecostituzionali «lunghe» e di compromesso, come sono quelle degli Statipluralisti del Novecento. L’autorità della legge sarebbe stata seriamentemessa in gioco, per di piú di fronte a soggetti (i giudici) consideratistrutturalmente inidonei a svolgere le valutazioni che l’interpretazione dellaCostituzione comporta. A queste controindicazioni, si deve aggiungerel’incertezza che avrebbe dominato nei rapporti giuridici sulla questioneessenziale della validità della legge, validità che ogni giudice avrebbepotuto valutare secondo il suo punto di vista. Questo rischio parve esserel’argomento insormontabile contro l’adozione del sistema diffuso, inordinamenti giuridici nei quali vale la libertà dei giudici d’interpretareautonomamente le norme giuridiche, sancita dal principio della lorosoggezione esclusiva alla legge (art. 101 della Costituzione), con esclusionedi quel fattore di coerenza giurisprudenziale che nei Paesi anglosassoni ècostituito dalla dottrina del «precedente vincolante» (o stare decisis).

Il modello di controllo di costituzionalità adottato generalmentenell’Europa continentale comporta dunque la riserva del controllo dicostituzionalità a favore di una istanza unica, costruita ad hoc. Il sistemaaccentrato cerca un equilibrio tra due principî, la superiorità dellacostituzione e la forza della legge, attraverso il privilegio del legislatore, dicui s’è detto appena sopra.

La separazione della giustizia costituzionale da quella comune comportauna serie di conseguenze caratteristiche del controllo accentrato.

Il controllo di costituzionalità si svolge in un contesto procedimentale«di diritto obbiettivo» (e non «di diritto soggettivo»). Il controllo, infatti,tende primariamente ad assicurare la coerenza del sistema normativo e solosecondariamente, o per conseguenza, a proteggere i diritti soggettivi neiconfronti della legge incostituzionale.

La decisione sull’incostituzionalità delle leggi assume valore erga omnes(e non piú solo inter partes), come atto di «legislazione negativa»vincolante in generale. Cosí si superano d’un sol colpo tutte le incertezzeche sarebbero derivate dall’inesistenza del principio del precedentevincolante e si assicura la certezza del diritto.

Come, dopo la dichiarazione d’incostituzionalità, la legge non haefficacia nei confronti di tutti, cosí essa, prima di tale dichiarazione, è

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efficace nei confronti di tutti e nessuno può appellarsi a un suo vizio diincostituzionalità per sottrarsi alla sua forza legale.

La «giurisprudenza costituzionale» è unificata presso un solo soggetto,specialmente composto al fine di questa particolare funzione. Il «senso» e la«vita» della costituzione sono cosí conferiti all’opera di un organoparticolarmente qualificato, e sono sottratti alle innumerevoli, possibiliinterpretazioni della giurisprudenza dei giudici comuni.

Il piano della costituzione viene tenuto distinto da quello della legge: sulprimo, opera la Corte costituzionale, garante della costituzionalità delleleggi; sul secondo, operano i giudici comuni, privi di competenza circal’incostituzionalità delle leggi.

7. L’interpretazione conforme.

Quelli descritti sono i caratteri tipici di un giudizio di costituzionalitàaccentrato. Se si vogliono cogliere le peculiarità di quello radicatosi inItalia, però, si devono mettere in evidenza alcuni altri aspetti. Primo fratutti, la modalità con la quale è consentito di portare alla Cortecostituzionale una «questione di costituzionalità». I singoli cittadini nonpossono farlo direttamente. Occorre che esista un giudizio, di fronte a ungiudice penale, civile o amministrativo, e che il giudice ritenga che la leggech’egli dovrebbe applicare presenti aspetti d’incostituzionalità. Ma, adifferenza del sistema diffuso, egli non può disapplicare la legge: deverimettere la questione al giudizio della Corte costituzionale sospendendoper il momento il suo giudizio. Il giudizio è dunque accentrato, mal’iniziativa è diffusa.

Tale iniziativa “incidentale”, inoltre, presuppone che il giudice, prima disollevare la questione d’incostituzionalità, debba esperire le possibilità dellacosiddetta interpretazione conforme alla Costituzione: egli è tenuto averificare se dalla disposizione legislativa sia possibile ricavare unsignificato conforme ai principî costituzionali; solo quando ritenga chenessuna armonizzazione sia possibile attraverso l’interpretazione, può (anzi,deve) sollevare la questione. Il dovere dell’interpretazione conforme èconseguenza della diffusione dei valori costituzionali e della capacità dellaCostituzione di operare come regola diretta nei rapporti giuridici (e quindi

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del superamento della separazione tra la Costituzione e la legge). Ilpostulato essenziale del sistema europeo di controllo della costituzionalitàdelle leggi – alla Corte, la costituzione; ai giudici, la legge – risulta cosísuperato: non esiste separazione, ma integrazione dei due livelli del diritto.

8. Giudizio «a posteriori» e concreto.

Controllo a posteriori significa che esso riguarda la legge già entrata invigore (i giudici applicano nei loro processi, da cui può scaturire laquestione di costituzionalità, solo leggi vigenti). Il controllo a posteriori sidistingue da quello a priori che si inserisce nel procedimento di formazionedella legge, impedendone la promulgazione quando l’esito sia negativo. Ilcontrollo a priori è un controllo astratto, sulla legge per come è scritta,piuttosto che sulla legge per come è applicata. È un sistema che sicaratterizza per la sua semplicità, non fosse altro perché esclude perdefinizione il problema del ripristino di una situazione conforme allacostituzione e della rimozione degli effetti determinati dalla legge, una voltadichiarata incostituzionale. Il legislatore potrà modificare la legge persuperare lo scoglio, oppure superare la stessa decisione d’incostituzionalità,se lo ritiene, modificando la costituzione. Il controllo a priori, dato il suoessenziale riferimento al (solo) legislatore, tende a isolare il controllo dicostituzionalità in un ambito separato dall’ordinaria vita applicativa deldiritto, non agevolando l’assunzione da parte della costituzione di una pienaefficacia in tutte le articolazioni dell’ordinamento giuridico, come regoladirettamente applicabile. Sono queste le ragioni che hanno indotto, inFrancia – la patria del controllo a priori –, all’approvazione, nel 2008, diuna legge di modifica della Costituzione che introduce una forma dicontrollo a posteriori in via incidentale. Viene cosí attenuandosi il mitodella sovranità parlamentare, di origine rivoluzionaria, che per lungo tempoha impedito, nella patria della «legge espressione della volontà generale»,qualsiasi controllo sulla validità di una legge, una volta entrata in vigore.

In Italia si è preferito un sistema di controllo a posteriori poiché si èpresa in considerazione la legge non per quel che potenzialmente essadispone, ma per il modo concreto in cui essa opera rispetto ai casi dadecidere nei giudizi. Il controllo di costituzionalità è cosí agganciato

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all’applicazione del diritto, attivabile in qualunque momento, dopo l’entratain vigore della legge, e anche ripetutamente. In questo modo, il controllo dicostituzionalità si lega strettamente all’evoluzione dei costumi e dellacultura e, conseguentemente, dell’ordinamento giuridico. La possibilità dichiedere e richiedere in ogni momento l’intervento della Cortecostituzionale consente di provocare continui aggiustamenti della leggevigente e continue interpretazioni della Costituzione che non la fossilizzanonel tempo.

Un esempio è rappresentato dalle due decisioni della Cortecostituzionale in tema di adulterio. In una prima circostanza (sent. n. 64 del1961) la norma del codice penale che puniva l’adulterio della donna, manon dell’uomo, non è stata considerata lesiva del principio d’uguaglianzatra i coniugi. Disse la Corte, testualmente:

l’ordinamento giuridico non può del tutto prescindere, e di fatto non prescinde, dallevalutazioni che si affermano, spesso imperiosamente, nella vita sociale. Ora, che lamoglie conceda i suoi amplessi a un estraneo è apparso al legislatore, in base allaprevalente opinione, offesa piú grave che non quella derivante dalla isolata infedeltà delmarito.

La motivazione della sentenza proseguiva mostrando perché la punizionedell’adulterio femminile e non di quello maschile, pur rappresentando unaderoga al principio di uguaglianza, dovesse considerarsi un presidiodell’«unità della famiglia», bene di cui parla l’articolo 29 dellaCostituzione. Nella seconda circostanza (sent. n. 126 del 1968), la Corte haconcluso, all’opposto, per l’illegittimità costituzionale della norma, e laconclusione è stata presentata non come punto d’arrivo finale di un diversomodo di vedere il problema, ma come sviluppo coerente della precedentedecisione. Si legge: la discriminazione a danno della donna, alla streguadell’attuale realtà sociale,

lungi dall’essere utile, è di grave nocumento alla concordia ed alla unità dellafamiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all’adulterio del marito, e punendo invecequello della moglie, pone in stato di inferiorità quest’ultima, la quale viene lesa nella suadignità, è costretta a sopportare l’infedeltà e l’ingiuria, e non ha alcuna tutela in sedepenale. Per l’unità familiare costituisce indubbiamente un pericolo l’adulterio del marito

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o della moglie, ma, quando la legge faccia un differente trattamento, questo pericoloassume proporzioni piú gravi, sia per i riflessi sul comportamento di entrambi i coniugi,sia per le conseguenze psicologiche sui soggetti.

Questa seconda decisione, dunque, è stata motivata alla streguadell’evoluzione delle concezioni sociali prevalenti (a distanza di sette anni!)che ha indotto a intendere diversamente il concetto di unità della famiglia edi dignità della donna.

9. Un dibattito all’origine della giustizia costituzionale in Europa.

La possibilità di una funzione di garanzia costituzionale assegnata a untribunale o corte, «terzo» rispetto alle parti politiche, ha dato origine a ungrande dibattito, svoltosi a cavallo degli anni Venti e Trenta del secoloscorso, quando la situazione costituzionale in Europa era in bilico, tral’autoritarismo fascista e l’apertura verso sviluppi democratici. Queldibattito epocale, che sta all’origine della diffusione della giustiziacostituzionale in Europa, si incentrò sulla questione cruciale se sia possibileuna «giustizia» in materia costituzionale; se essa non sia un assurdo evelleitario tentativo di «giuridicizzare la politica» che si tradurrebbeinevitabilmente nella «politicizzazione della giustizia». I nomirappresentativi di questo confronto, che assunse i toni dello scontro, sonoquelli di Carl Schmitt e Hans Kelsen, quest’ultimo il piú autorevole fautoredella creazione di una funzione giudiziaria di garanzia della costituzione 18.

10. La critica alla giustizia costituzionale in nome delle distinzionilegislazione-giurisdizione, politica-giustizia.

L’opposizione di Schmitt alla proposta formulata da Kelsen per lacreazione di un tribunale chiamato a dirimere in via giurisdizionale lecontroversie costituzionali è motivata, specificamente e tecnicamente, inbase alla nozione di giurisdizione come «sussunzione conforme allafattispecie legale» della fattispecie materiale (si veda supra, par. VII.11). Se

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il giudice non dispone di norme di diritto sufficientemente precise,nonostante le forme e le apparenze, non vi potrebbe essere alcuna attivitàdavvero giurisdizionale, poiché nessuna sussunzione è realmente possibilein norme generiche. Questa sarebbe la situazione del diritto costituzionaleche abbonda di svariati principî, richiami a generici valori, programmi edirettive, espressi per di piú in compromessi puramente verbali. «Se sichiama “norme” tutto questo complesso di principî disparati – scriveSchmitt – allora la parola norma diventa del tutto priva di valore e inutile» 19

e, allo stesso modo, il dire che il giudice decide secondo norme risulta unnon-senso fuorviante. In realtà, in ogni questione di «diritto» costituzionale,il dubbio che un tribunale fosse chiamato a dirimere riguarderebbeprincipalmente il contenuto della norma costituzionale. Ma ladeterminazione di una legge costituzionale che sia dubbia nel suo contenutoè, in effetti, legislazione costituzionale, non giurisdizione 20. Il compito del«giudice» costituzionale sarebbe quello di porre fuori discussione e didichiarare autentico, vero, il contenuto contestato di una normacostituzionale. Questa rimozione di dubbi, però, sarebbe in effetti«decisione», una decisione che determina il contenuto della normacostituzionale: quindi attività politica, avente natura addiritturacostituzionale. Certamente non sarebbe atto di giustizia 21. Il valore diquesta decisione legislativa non si troverebbe in una «argomentazioneincontrovertibile, ma nella rimozione autoritaria del dubbio che sorge dallapossibilità di diverse soluzioni argomentative». Il fatto che, nellarisoluzione delle controversie costituzionali, non vi possa essere decisionesulla base di una legge, non vi possa essere, cioè, determinazionecontenutistica di volontà «dedotta» da un’altra decisione già racchiusa «inmodo misurabile e calcolabile» 22 nella costituzione, proverebbel’impossibilità di configurare una competenza relativa a tali controversieche sia affidata a un giudice indipendente e imparziale. La conclusione diquesta argomentazione è che il ventilato tribunale costituzionale nonpotrebbe non portare in sé un equivoco impasto di politica (sostanziale) e digiurisdizione (formale), dal quale «la politica non ha niente da guadagnare ela giustizia ha tutto da perdere» 23. Si vede bene che queste critiche mettonoin discussione radicalmente la legittimità della giustizia costituzionale,questa acquisizione che il costituzionalismo del XX secolo considera

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addirittura una svolta nelle concezioni giuridiche, e ne denuncianol’impostura.

L’argomentazione «tecnica» di Schmitt è condotta attraverso l’esame diconcetti come giurisdizione, legislazione, norma, sussunzione, ecc. Kelsenreplica, osservando essere troppo facile costruire concetti a proprio uso, perorientarli verso la soluzione voluta per altre ragioni (per ragioni, come sivedrà, non di tecnica, ma di politica costituzionale). Per Kelsen,l’impostazione che Schmitt dà al problema – cioè l’assunzione a priori diuna definizione di giurisdizione per arrivare a dire che tale giurisdizione«non sta» nella definizione – è un modo di procedere arbitrario, checonduce a una conclusione in realtà irrilevante. Dalla soluzione in un sensoo nell’altro della questione di che cosa sia giurisdizione non deriva nullache impedisca di affidare l’indicata funzione a un organo collegiale ai cuimembri sia garantita la piena indipendenza – un’indipendenza nei riguardidel Parlamento e del governo: una funzione che si chiama «giudiziaria» peril fatto che nelle moderne costituzioni essa suole essere concessa aitribunali. Dedurre da un qualunque concetto di «giurisdizione» che l’istitutoindicato come «tribunale costituzionale» sia impossibile o inattuabile, è perKelsen un caso tipico di quella «giurisprudenza dei concetti» che allontanadai problemi reali e si perde nella fumisteria delle definizioni 24.

11. Una concezione non meccanica di giurisdizione.

Per quanto riguarda la distinzione tra la giurisdizione e la legislazione,Kelsen rimprovera al suo antagonista un fondamentale errore, sorprendentein chi, come Schmitt, professava concezioni non formaliste del diritto:l’idea che la decisione giudiziaria, già bella e pronta nella norma giuridica,possa e debba essere solo dedotta mediante un’operazione logica; l’idea,cioè, della giurisdizione come automatismo giuridico 25. Ecco, dice Kelsen,un modo di costruire falsi concetti per poi combatterli piú facilmente! Lagiurisdizione, invece, è intrinsecamente legata al dubbio interpretativo sullenorme da applicare. Le «questioni di diritto» che i giudici di qualunquegenere sono chiamati a risolvere non smentiscono, anzi avvalorano il lorocarattere giudiziario. Dire che giudice è solo colui che si occupa

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esclusivamente del fatto, della fattispecie concreta, e non della fattispecienormativa, è un fraintendimento della realtà.

Quando Schmitt parla «della fondamentale differenza tra decisione diuna causa e decisione di dubbi e divergenze circa il contenuto di unadisposizione costituzionale», ci si può limitare a obiettare – dice Kelsen –che la maggior parte delle decisioni delle cause sono decisioni circa dubbi edivergenze sul contenuto di una disposizione di legge. E, in effetti –aggiunge –, sulla giurisdizione non era mai stata fatta, fino a ora [cioè: finoa quando non è arrivato Schmitt], un’affermazione che ne disconosca lanatura al pari di questa: «ogni giurisdizione è legata alle norme e cessaquando le norme diventano dubbie e controverse nel loro contenuto».Esattamente il contrario di quella verità, semplice e visibile da ognuno, perla quale la giurisdizione comincia di solito proprio nel momento in cui ilcontenuto delle norme diventa dubbio e controverso, giacché altrimenti visarebbero solo controversie su fatti e mai controversie giuridiche 26.

D’altro canto, nella visione gradualistica dell’ordine giuridico propostada Kelsen (si veda supra, par. I.7), gli atti giuridici – tutti gli atti giuridici –stanno in rapporto tra ciò che condiziona (la validità di un altro) e ciò che ècondizionato (circa la propria validità): ogni atto è al tempo stessocreazione (di diritto nuovo) ed esecuzione di diritto (già esistente), in vistadi fattispecie progressivamente piú limitate, fino all’applicazione afattispecie individuali e concrete. La giurisdizione è soltanto una delleespressioni di quel tipo di rapporto, avente le sue caratteristiche distintiverispetto alla legislazione e all’amministrazione. Cosí è anche per la«giurisdizione costituzionale» che, al di là della forma, è un modo di crearenorme di esecuzione della costituzione:

Annullare una legge significa porre una norma generale, giacché tale annullamentoha lo stesso carattere di generalità della formazione della legge, essendo per cosí direuna formazione di segno negativo, e quindi una funzione legislativa. E un tribunale cheha il potere di annullare le leggi è di conseguenza organo del potere legislativo 27.

Con questa costruzione – che travolge d’un sol colpo le idee tradizionalicirca la differenza, per cosí dire, ontologica tra legis-latio e juris-dictio – sisuperano (in verità, in modo non meno concettualistico di quello con il

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quale l’antagonista di Kelsen, Schmitt, concepisce la giurisdizione) tutti idubbi circa la delimitazione delle sfere della giustizia e della politica, dellagiurisdizione e della legislazione, dubbi che per Kelsen deriverebberosoltanto da vecchie e tralatizie dottrine della separazione dei poteri 28.

12. La critica alla giurisdizione costituzionale, in nome del monismocostituzionale.

Il contrasto Schmitt-Kelsen, tuttavia, ha una ragione piú profonda chederiva dalle opposte concezioni della costituzione e dalle opposte opzioni dipolitica costituzionale pensate per far fronte alla situazione costituzionalemateriale di quel tempo.

Per Schmitt, tutto ciò che attenta alla costituzione intesa come unitàsostanziale, sociale e politica di una società, è disfacimento dello Stato, inquanto nega il fondamento di qualunque concezione «positiva» dicostituzione: questo fondamento è la sovranità, da intendersi come forzareale, decisiva in tutti i casi costituzionali controversi. La vita politica nellasua essenza, secondo Schmitt, è distrutta dalla presenza di innumerevoligruppi sociali, partiti politici, unioni di interessi e altre organizzazioni cheintavolano fra di loro interminabili trattative destinate a concludersi sempresolo provvisoriamente in tanti compromessi, subito dopo rimessi indiscussione. Il compito storicamente piú importante del dirittocostituzionale è, sempre per Schmitt, la restaurazione storica della sovranitàche il pluralismo del suo tempo insidiava: qualunque nozione«compromissoria» di costituzione era per lui un’aberrazioneanticostituzionale (cioè nemica dell’«autentica» costituzione). Di fronte aquesta sua concezione, «la letteratura teoretica [il riferimento è agli scritti diKelsen] ha già proclamato con grande superficialità teorico-costituzionalela tesi che lo Stato parlamentare è fondamentalmente nella sua essenza uncompromesso» 29. La risposta alla dissoluzione pluralistica dello Stato deveessere invece, per Schmitt, non la ricerca di procedure per realizzarecompromessi, come quelle che si attuano negli organi parlamentari, ma laproposizione dello «Stato totale», in cui l’abolizione della distinzione traStato e società, a tutto favore dello Stato, permetta di spingere indietro leforze sociali a esso ostili e di offrire una forza dittatoriale a garanzia ultima

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dell’unità politica del popolo. A questo fine, la giustizia costituzionale ècontroproducente proprio perché i tribunali costituzionali forniscono tutelagiuridica alle pretese dei gruppi nei confronti dell’unità e dell’autorità delloStato, contribuendo cosí alla sua dissoluzione.

13. La replica al monismo, in nome del pluralismo e della politica comecompromesso.

Per Kelsen, non solo nello Stato parlamentare, ma piú in generale nelloStato democratico possibile nella nostra epoca, l’essenza della vita politicaè il compromesso tra le parti, che espunge dal panorama tanto teoricoquanto storico l’idea di una sovranità concreta, cioè il comandoincondizionato. L’unica entità che negli ordinamenti democratici potrebbedefinirsi sovrana, per Kelsen, è la costituzione o l’ordinamento giuridico,cioè un’entità astratta 30. L’alternativa rispetto al compromesso è, perl’appunto, lo Stato totale schmittiano, il «totalitarismo». Se del totalitarismoè possibile una versione democratica (sostenuta dallo stesso Schmitt neglianni della polemica sulla giustizia costituzionale), questa è necessariamentenel senso della «democrazia totalitaria»: il potere del popolo intesoorganicamente come un’unità, dove non c’è posto per minoranze edissidenze di alcun genere. L’opposizione di Kelsen a Schmitt, su questopunto, coincide con la sua posizione antitotalitaria, cioè democratico-liberale.

Qui troviamo l’ideale politico-costituzionale probabilmente piúpregnante dell’intero dibattito. La giustizia costituzionale, secondo Kelsen,è una funzione indipendente di garanzia del pluralismo tramite procedured’integrazione in funzione del compromesso politico. L’unità possibile èformale e procedurale, non sostanziale o materiale, come vorrebbe Schmittinsieme a tutti gli esponenti delle concezioni concrete della costituzione 31.Tuttavia è pur sempre un’unità effettiva che impedisce la dissoluzione dellavita sociale, organizzandola in procedure di cui lo Stato è garante. In ognicaso, è questo l’unico tipo di unità compatibile con la democrazia pluralistanel nostro tempo: tale è la tesi kelseniana di fondo, circa la democrazia e lagiustizia costituzionale come funzione necessaria alla democrazia.

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14. Due nozioni di costituzione, in antitesi.

Cosí, per quanto i due contendenti usino gli stessi termini – costituzionee garanzia della costituzione – le rispettive nozioni sono antitetiche. PerSchmitt, la costituzione è la situazione di concreta unità del popolo; perKelsen è una norma giuridica, la norma giuridica fondamentale (si vedasupra, par. VI.9). Da qui derivano due nozioni altrettanto lontane di garanziadella costituzione. Per Schmitt si tratta di investire un organo dei pienipoteri per consentirgli di affrontare il caso di crisi della costituzione, cioècombattere i nemici dell’unità del popolo, con mezzi tempestivi e adeguatiagli avvenimenti 32, quindi con poteri illimitati (si pensi alla situazionepolitica lacerata della Germania di allora e al conflitto di classe, ove lagaranzia “sostanziale” dell’unità avrebbe presto portato a misure estremecontro i rappresentanti del movimento socialista e comunista). L’organochiamato a questo compito doveva essere, sempre secondo Schmitt, il capodello Stato plebiscitato dal popolo e dotato di poteri eccezionali, secondol’articolo 48 della Costituzione di Weimar relativo allo «statod’eccezione» 33: poteri che Schmitt stesso interpretava assai estensivamente.La «custodia della costituzione» portava dunque, come notato da Kelsen 34,all’«apoteosi» dell’articolo 48: per chi ha della costituzione una nozionecome «regola» fondamentale, è certamente paradossale che persalvaguardarla si pensi a un potere d’ordinanza eccezionale, che consente disospenderla. Che cosa poi questa concezione effettivamente significasse, èancora Kelsen a mettere in luce 35: l’elemento di perturbazione, per Schmitt,era il sistema pluralistico, cioè, in chiare lettere, il Reichstag, cioè ilParlamento rappresentativo del pluralismo politico. La sua stessa esistenzaavrebbe avuto, dunque, la funzione di giustificare permanentemente l’usodei poteri eccezionali dell’articolo 48.

15. Garanzia contro le irregolarità, per Kelsen; contro le emergenze, perSchmitt.

Per Schmitt, la garanzia della costituzione guarda alle situazioni diemergenza; per Kelsen, invece, alle situazioni di irregolarità. Per

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quest’ultimo – si potrebbe dire cosí – la giustizia costituzionale è chiamataa svolgere un ruolo di routine, cioè non di difesa contro la minacciaall’esistenza stessa dell’unità costituzionale come situazione concreta, ma dicontrollo sulla costituzionalità o «conformità alla costituzione» degli atti incui si sviluppa quotidianamente la vita politica. Per Kelsen 36, lacostituzione si difende organizzando la vita politica in modo regolare,consolidandola e rendendo sopportabile alla minoranza il potere dellamaggioranza, cioè limitandolo. Il problema cui Kelsen vuole dare rispostariguarda il pericolo dell’irregolarità costituzionale interna e la soluzionech’egli propone mira a irrobustire la costituzione attraverso una pratica aessa conforme. Il suo problema non è, e la sua soluzione non riguarda, ilpericolo che può derivare da una forza eversiva: «il miglior modo con cuiuna democrazia può difendersi dai vari attacchi […] che attualmente levengono mossi è proprio quello di organizzare tutte le possibili garanziedella regolarità delle funzioni statali. Piú essa si democratizza, piú deveessere rafforzato il controllo». La giustizia costituzionale può cosí dirsistrumento di unità, ma in un senso diverso da quello di Schmitt: in vistacioè della costituzione come regolazione della vita costituzionale, nei limitiin cui essa può svolgersi pluralisticamente.

Sembra dunque avere ragione Kelsen, quando conclude 37 che tra la suagiustizia costituzionale e il custode della costituzione di Schmitt esistonoirriducibili differenze. Le due funzioni e i due organi, però, non si negano avicenda perché operano in situazioni storiche diverse e sono chiamati acompiti che non coincidono. Si negano invece a vicenda le opzioni dipolitica costituzionale. Ciò che è desiderabile per l’uno, non lo è per l’altro:per Kelsen, l’unità politica deve essere perseguita, democraticamente,inglobando forze diverse in procedure comuni e orientando versocompromessi; per Schmitt, autoritariamente, contemplando lo scontro checonduce alla vittoria di una forza sulle altre e, pertanto, alla semplificazionedella scena politica.

16. Chi guardava vicino e chi lontano.

Quanto poi alla questione della “preveggenza storica” dei due modelli, sipuò dire oggi, col senno di poi, che Schmitt guardava vicino: la sua

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concezione del potere d’eccezione in vista della difesa di situazionicostituzionali concrete fu consona alle vicende che portarono alnazionalsocialismo, attraverso i poteri dittatoriali conferiti al Führer dalla«Legge per rimediare alle necessità del popolo e del Reich» del 24 marzo1933 (Ermächtigungsgesetz), dopo che il decreto del 28 febbraio (anch’essoadottato «per la difesa del popolo e del Reich», col pretesto dell’incendiodel Reichstag) aveva consentito l’arresto di deputati comunisti esocialdemocratici. Kelsen, invece, vedeva piú lontano, come la grandediffusione della giustizia costituzionale nei Paesi europei rinati allademocrazia dopo la seconda guerra mondiale avrebbe poi largamentedimostrato. Perché l’uno ebbe storicamente ragione nel breve periodo el’altro nel lungo? La risposta non deve essere cercata nelle visioni dellagiustizia costituzionale che in quel dibattito si affrontarono senza esclusionedi colpi, ma nelle condizioni storico-concrete della costituzione cui esse siriferirono: Kelsen ebbe ragione nel piú lungo periodo, perché il conflittoradicale e distruttivo dualista che contrassegnò il tempo di Schmitt sisarebbe stemperato nel meno distruttivo e piú facilmente“costituzionalizzabile” confronto pluralistico di forze concorrenti. Kelsenebbe dunque ragione, ma in un contesto, tuttavia, diverso da quello deltempo in cui avanzò la sua proposta.

17. La questione costituzionale del multiculturalismo.

Si è detto in precedenza che la condizione costituzionale materialefavorevole allo sviluppo delle garanzie costituzionali affidate a organieffettivamente indipendenti e super partes, e quindi caratterizzati comegiurisdizioni costituzionali, è il pluralismo. Il pluralismo è tale se le forze incampo, ancorché diverse, si riconoscono come parti componenti di uncontesto comune. Il contesto è l’appartenenza a una medesima esperienza ea una medesima storia. Ne è condizione il reciproco riconoscimento diuguale, legittima appartenenza. Il pluralismo, in sintesi, presuppone bensí ladiversità e l’autonomia di piú soggetti sociali e politici, ma mira alla lororiconduzione in unità, sia pure un’unità dinamica. In una parola,l’obbiettivo del pluralismo come dottrina politica è l’inclusione e, perquesto, non è compatibile con le pretese di esclusività, chiunque sia chi le

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avanza. Il contesto spirituale simbolico del pluralismo è una cultura di basecondivisa, cultura fatta di cose comuni: memorie, arte, letteratura, vicende,difficoltà affrontate e superate, lotte e sfide vinte o perse, da cuiscaturiscono principî di convivenza non contestati, cioè propriamentecostituzionali. La comunanza di cultura consente di integrare le diversità,sottrarre loro la violenza aggressiva e renderle non solo compatibili, maanche feconde di dinamica sociale e politica. La norma fondamentale delpluralismo è la tolleranza, intesa non come “male minore” da sopportare se,quando e fino a quando non si sia in condizione di sopraffare chi non ècome noi, ma come “bene maggiore”, cioè come la virtú politica in basealla quale ci si riconosce diversi, ma ugualmente degni e portatori dibenefici nella dialettica sociale e politica. Sotto il segno della tolleranza, sisono sviluppati la libertà di coscienza, di culto e di opinione, i diritti dilibertà e i diritti politici, associazioni e partiti e, alla fine, la democraziaintesa come l’arena entro la quale si svolge la libera competizione tra leforze sociali e politiche per affermare le proprie posizioni, i propriprogrammi e le proprie visioni del “vivere insieme”. Perfino le lotte socialie la lotta di classe che hanno segnato i secoli XIX e XX sono riconducibilialla storia del pluralismo politico, ovviamente solo fino al punto oltre ilquale l’obbiettivo non fosse quello di distruggere l’antagonista e affermarela propria dittatura, come è peculiare di tutte le rivoluzioni.

Precisamente su questo punto – cioè sull’esistenza d’un contesto comune–, si misura la distanza tra il pluralismo e il multiculturalismo. Lo scenario èinedito, non si è preparati e le strutture costituzionali traballano.Multiculturalismo è parola che troviamo per la prima volta nella Carta deidiritti e delle libertà approvata in Canada nel 1982 (art. 27 sul «patrimoniomulticulturale dei Canadesi»): il Canada è Paese ricco di etnie e relativeculture, cosí come lo sono molti altri Paesi del mondo in cui sopravvivono,pur se ormai marginalizzati per effetto della pressione della globalizzazionee delle forze egemoni che la promuovono, gruppi sociali, etnici e culturalinon integrati. È una parola entrata nel dibattito pubblico, a quel temposembrando riguardare i problemi di protezione che le «società avanzate» sipongono nei confronti delle minoranze storiche che vivono entro i loroconfini come residui di epoche trascorse (per esempio, da noi, i rom, i sinti).Oggi, la questione investe ormai anche l’intero mondo occidentale, sotto la

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pressione continua e crescente dell’emigrazione da Paesi di civiltà e culturelontane, i Paesi islamici innanzitutto 38, e ha, per cosí dire, cambiato segno:sono le nostre società che avvertono l’esigenza di protezione della propriacultura e del proprio modo di vivere, nei confronti di quella che è percepitacome un’invasione. L’invasione che, storicamente, è stata dell’Europa versoil resto del mondo si sta ritorcendo contro l’invasore. Le «società aperte»che il mondo occidentale ha costruito nei secoli, scrivendone i caratterinelle sue costituzioni, tendono a diventare società chiuse su se stesse 39.L’esigenza è la difesa della propria «identità», parola chiave del lessicopolitico attuale. «Identità» significa corrispondenza tra il sé ideale e il séreale: tale corrispondenza esclude le «diversità» cioè, propriamente, lacondizione multiculturale, e minaccia perfino la convivenza pluralistica dicui s’è detto in precedenza.

Non sappiamo se, in futuro, il multiculturalismo si trasformerà inpluralismo, cioè in una forma attenuata di concorrenza tra forze diversecompatibile con il contesto di convivenza comune garantito dallacostituzione come patrimonio di tutti. E non sappiamo se il pluralismoreggerà all’urto. Non lo sappiamo, ma sappiamo che, se ciò non avverrà, ilprogetto di «regolarità costituzionale» à la Kelsen avrà a che fare con larinascita delle dottrine delle «emergenze costituzionali» à la Schmitt. Lestesse strutture normative giuridiche costituzionali saranno messe sottopressione e la legge verrà piegata allo scopo di trasformare l’arbitrio indiritto.

18. Il diritto e l’arbitrio.

Abbiamo già incontrato questo argomento trattando della legge e dellesue degenerazioni nel corso della storia: le costituzioni rigide e la giustiziacostituzionale sono il tentativo di impedire e reagire a tali degenerazioni.Quando si determina un contrasto fra una norma costituzionale e una normalegislativa, la prima prevale sulla seconda che dovrà essere dichiarataincostituzionale dalla Corte costituzionale e, cosí, annullata. L’arbitrio dellalegge si verifica, tuttavia, raramente in questo modo cosí chiaro e diretto,come contraddizione tra due norme. Piú spesso, si tratta di incoerenza,

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incongruenza, ignoranza, prepotenza, ingiustizia, ecc. In una parola: abusodella funzione legislativa.

La legislazione, nello Stato costituzionale, non è il mezzo per conferireforza di legge a qualunque parola, a qualunque volontà, in vista diqualunque interesse: non è «un qualunque». È una funzione il cui senso èdare alla società strutture normative coerenti, pacificatrici, giustificabili. Èl’espressione della convivenza, come massimo scopo della politica. Unalegge priva di questo scopo è un non-senso dallo stesso punto di vista dellalegislazione; non è un uso, ma un arbitrio. Tra legge e arbitrio c’ècontraddizione. Siamo qui di fronte a una concezione del diritto a tal puntofondamentale, a tal punto «costitutiva», che non ha nemmeno bisognod’essere scritta in norme positive. Si fatica ad ammettere, in clima dipositivismo giuridico, l’ideologia secondo la quale il diritto è legge e lalegge non ha bisogno di fondamento se non in se stessa. L’arbitrarietà dellalegge è un carattere che va oltre il caso della contraddizione di una leggesuperiore da parte di una legge inferiore; non un gioco tra le leggi, un giocoin cui il positivismo legalista esaurisce il capitolo della invalidità dellalegge. L’arbitrarietà, invece, riguarda il diritto a partire da esigenzeessenziali che riguardano il modo stesso di concepire la legge.

In quali casi e in quali limiti l’arbitrarietà della legislazione deve esserericonosciuta e dichiarata, è difficile determinare con categorie e concettirigorosi, come provano le numerose costruzioni teoriche che sono stateproposte e la sempre sfuggente realtà della giurisprudenza costituzionaleche largamente porta il suo sindacato di validità delle leggi sulla loro palesearbitrarietà 40 o, come si trova scritto in numerose decisioni della Cortecostituzionale, sull’assenza d’ogni loro giustificazione o, ancora, perfinosulla loro «irragionevolezza intrinseca». Si ha a che fare con criterisviluppati essenzialmente nella pratica, criteri che devono essere assuntiormai come paradigmi dell’invalidità delle leggi. La loro giustificazione stanel nostro modo di concepire l’ordinamento giuridico e le fonti del diritto.Non si tratta, perciò, di invenzioni arbitrarie. Si tratta invece dellaricognizione pratica di limiti categoriali di portata generale cheappartengono, prima che al diritto positivo, a condizioni e strutture culturalipresupposte allo stesso diritto positivo, senza le quali quest’ultimodiventerebbe impensabile, inconoscibile, inintelligibile, non ordinabile, non

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comunicabile, non accettabile. Siamo nella sfera del «pre-positivo», sulquale il «positivo», per avere un senso, deve appoggiarsi.

Si può dire in sintesi che nel vizio di arbitrarietà rientrano tutti i casi dileggi contro la natura del diritto. Questa è tuttavia una formula che, peressere chiarita, esige un esame analitico. Le categorie che proponiamo,nell’ambito del concetto generico di «non arbitrarietà» della legge, sonoquelle della «razionalità», della «ragionevolezza» e della «giustizia ogiustezza».

19. Irrazionalità.

Il primo caso da esaminare – l’irrazionalità – è la rottura dell’unitàdell’ordinamento giuridico. L’irrazionalità della legge ha a che vedere conla possibilità di concepire la congerie di norme che compongono il dirittocome struttura normativa dotata di ordine concettuale, tenuta insieme dalprincipio formale di non contraddizione. Si è già sfiorato questo argomentoe si è ricordata l’affermazione della Corte costituzionale a proposito del«diritto di un paese civile» che deve essere necessariamente coerente al suointerno: dove non c’è coerenza «le norme che ne fan parte degradano allivello di gregge senza pastore» (si veda supra, par. III.4). La coerenza è,dunque, un carattere implicito del diritto, cosí com’è concepito nella culturadel nostro tempo. È uno di quei principî giuridici fondamentali e fondantiche precedono le singole norme positive, inserendole in un «sistemagiuridico» ed evitando il rischio della guerra di tutte contro tutte. Perciò, lairrazionalità intrinseca dell’ordinamento come vizio della legge – come siesprime talora la Corte costituzionale – nasce ancora prima della lesione dispecifiche norme costituzionali: nasce dal nostro bisogno di concepire ildiritto in modo ordinato. Questo modo è, per cosí dire, la «società civile»delle leggi, in luogo del caotico stato di natura dove domina il caos,associato all’arbitrio. L’ordine nelle leggi equivale all’ordine politico,poiché esclude trattamenti giuridici arbitrari, occasionali, ad personam, ecc.

L’articolo 3 della Costituzione – l’uguaglianza – è il passe-partout che sievoca all’occorrenza, trattandosi di problemi di equiparazione edifferenziazione. L’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge esclude,

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ovviamente, i privilegi personali (favorevoli e odiosi), certamente inidonei aessere sistematizzati (una somma di norme personali di mero privilegio nonformerebbe infatti un ordinamento) e induce a una concezione della leggecome norma dotata di generalità nei confronti dei cittadini (si veda supra,par. VII.6). Il principio di razionalità anzidetto è però qualcosa di diverso:esso non esclude, anzi esplicitamente ammette le differenziazionilegislative, implicando l’abbandono della concezione assoluta dellageneralità. Al suo posto, colloca il differente criterio della «giustificazione»delle classificazioni legislative. Qui è il fondamento del principio dirazionalità e dell’irrazionalità come vizio di incostituzionalità della legge.Ma, la coerenza dell’ordinamento sarebbe una esigenza fondamentale anchese non la si potesse derivare da alcuna norma costituzionale. Il principio dirazionalità è un dato caratterizzante il vigente ordinamento e il controllo dicostituzionalità che in esso si svolge. Del resto, solo la riluttanza – in climadi perdurante, seppur declinante, positivismo giuridico nella sua versionepiú angusta – ad ammettere l’esistenza di principî giuridici fondanti e,perciò, pre-positivi, può far ritenere cruciale la ricerca di una base testualedi tutti i principî dell’ordinamento: il riferimento all’articolo 3 dellaCostituzione nelle questioni di costituzionalità delle leggi spesso non è, delresto, molto piú che una clausola di stile.

La giurisprudenza costituzionale, come detto in precedenza, ha ormai dagran tempo fissato il principio di razionalità come un’esigenzadell’uguaglianza espressa cosí: «a situazioni uguali, legge uguale; asituazioni diverse, leggi diverse». Si ha irrazionalità, dunque, non solo seall’uguaglianza delle situazioni corrispondono leggi che diversificano, maanche se alla diversità di situazioni corrisponde una legge che omologa. Laquestione centrale e decisiva consiste nel determinare se le situazioni – ofattispecie concrete – siano uguali o diverse (meglio dire equivalenti o nonequivalenti: se fossero uguali, ricadrebbero necessariamente sotto una soladisciplina). La legge di sviluppo della legislazione è il continuo procedereper assimilazioni e per differenziazioni. Ciò presuppone che le situazionisiano valutate alla luce di criteri di classificazione. Tuttavia, una situazionepuò considerarsi equivalente secondo un criterio, cioè da un certo punto divista, ma non equivalente secondo un altro criterio. Dove sono, quali sono icriteri? La razionalità, intesa come non contraddizione, significa che il

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punto di vista da assumere è interno alla legislazione. Per questo, la regolasopra citata deve essere intesa e specificata cosí: «a situazioni dallegislatore considerate uguali, legge uguale; a situazioni dal legislatoreconsiderate diverse, leggi diverse».

Il legislatore può dunque stabilire le differenze tra le situazioni sociali,secondo le proprie valutazioni politiche, ma l’imperativo di razionalitàimpone in primo luogo a lui stesso di essere coerente con sé medesimo.Non c’è coerenza se le sue scelte classificatorie non sono armonizzabili insistema: dove le diversità di regolamentazione non possano spiegarsi, peresempio, come rapporto di specie a specie sotto un principio comune, digenere a specie, di regola a eccezione, di permanenza a transitorietà, distabilità a provvisorietà, ecc. Se in tali modi non è possibile razionalizzarele differenze, la razionalità del diritto impone che la contraddizione siaeliminata attraverso la soppressione di uno dei due termini del contrasto el’equiparazione della disciplina delle diverse situazioni. Quest’opera dirazionalizzazione non comporta l’impiego di criteri materiali valoriali che sisovrappongano a quelli cui si è ispirato il legislatore. Implica invece unavalutazione della struttura formale all’ordinamento; si potrebbe dire, non«contro» ma «al servizio» di esso, precisamente del suo essereordinamento. L’incostituzionalità non dipende dal contenuto in sé dellalegge considerata, ma dalla circostanza che, esistendo un’altra legge, tra ledue si determina una contraddizione logica insuperabile.

20. Problemi del giudizio di razionalità.

Ristabilire l’armonia nell’ordinamento significa annullare la normadissonante. Quale, tra le due messe a confronto? La scelta della norma daeliminare (e, correlativamente, di quella da salvare) deve prendere inconsiderazione la struttura logica del problema, nonché l’esigenza dirispettare la volontà prevalente del legislatore. Solitamente, sono le normespeciali, eccezionali o derogatorie a dover cedere di fronte a quelle piúcomprensive. La pronuncia d’incostituzionalità presuppone una scelta diprevalenza che non può non tenere conto della volontà del legislatore:l’operazione contraria – ad esempio, l’annullamento della norma generale ela trasformazione della norma di specie in norma generale – configurerebbe

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una vera e propria usurpazione di funzioni legislative. Ciò non esclude,però, la possibile estensione di norme particolari ad altri casi particolari,attraverso decisioni cosiddette «sentenze additive». Esse dichiaranol’incostituzionalità della legge non rispetto a ciò ch’essa dice, ma rispetto aciò che non dice e deve dire, affinché sia ristabilita l’uguaglianza violata dauna scelta discriminatoria del legislatore. Ad esempio: la legge cheprevedeva il congedo parentale solo a favore della madre, in vista delleesigenze dei figli neonati, è stata dichiarata incostituzionale «nella parte incui non prevede» ch’esso valga anche a favore del padre. Qualora nonricorra un rapporto da genere a specie o eccezione (come nel caso delledifferenziazioni o discriminazioni per ragioni di sesso), l’equiparazioneavviene per mezzo di valutazioni sostanziali. Cosí, nel caso della punizionedell’adulterio solo femminile, l’equiparazione è avvenuta non estendendo lapunizione anche a quello maschile, ma eliminandolo in entrambi i casi; difronte alle discriminazioni riguardanti i diritti delle lavoratrici rispetto aidiritti dei lavoratori, l’equiparazione avviene portando i primi al livello deisecondi.

21. Irragionevolezza.

Il livello successivo di approfondimento del sindacato circa l’arbitrarietàdelle scelte legislative è rappresentato dal controllo di ragionevolezza.Dicendo “ragionevolezza”, si dice qualcosa di diverso da “razionalità”. Perquanto le due espressioni siano vicine nel significato e nella radice, essenon devono essere confuse o usate promiscuamente. In molte lingue, comenella nostra, il linguaggio distingue i concetti. «Razionale» – o rationnel,rationnell, racional, rational – indica la coerenza logica, cioè la noncontraddizione, tra elementi di uguale valore; «ragionevole» – raisonnable,vernünftig, razonable, reasonable – indica piuttosto la congruenza rispettoa valori sostanziali d’insieme. La razionalità è un carattere formale; laragionevolezza, materiale. Razionalità e ragionevolezza si valutanoentrambe dall’interno di un sistema; ma, la prima senza, la seconda conl’assunzione di scale di valore. Ciò che è razionale si può comprenderesecondo il principio di coerenza indipendentemente dal valore; ciò che èragionevole si può comprendere rispetto a un criterio di valore. Cosí, ciò

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che è razionale può non essere ragionevole. Un esempio: i Tribunali dellaSanta Inquisizione erano parti di un sistema perfettamente razionale, le cuicomponenti funzionavano armonicamente e in reciproca sinergia; eranoanche ragionevoli, alla stregua dei valori un tempo dominanti (la fede el’unità cattolica da difendere dall’eresia disgregatrice). Ma, cambiando ivalori (la tolleranza e la libertà di coscienza da proteggere dalle imposizionidi verità dogmatiche) quel sistema, cui non si poteva negare d’essererazionale, diventò totalmente irragionevole. Possiamo estenderel’esemplificazione, pensando ad Auschwitz e al suo significato, pienamenterazionale e radicalmente folle.

La virtú della razionalità è la coerenza; la virtú della ragionevolezza è laprudenza (iuris-prudentia). Nelle scienze teoretiche, ci può essere solorazionalità. Diremmo a un matematico: «sii ragionevole», «sii prudente»?Nelle scienze pratiche, invece, esigiamo ragionevolezza. Anche dal giuristapretendiamo che si comporti ragionevolmente, prudentemente. La parolaragionevolezza è per lo piú impiegata nell’uso comune senza pensarci su.Ma proprio quest’uso spontaneo, che rasenta la banalità di ciò che nonpotrebbe essere altrimenti (chi si farebbe paladino dell’irragionevolezza?), èrivelatore della sua imprescindibilità. Che cosa intendiamo dire con: «cercad’essere ragionevole»? Non che sei in errore, ma che sei fazioso, settario,fanatico; che vedi una parte sola della questione; che semplifichi la realtàcomplessa; che tieni conto solo dei tuoi argomenti e non anche di quellidegli altri. In breve, possiamo dire che la ragionevolezza è ciò di cuiabbiamo bisogno per muoverci in un mondo plurale. In un mondo in cuideve esserci spazio per molte cose, dove non si procede per deduzioni:«se…, allora…»; dove si procede invece per combinazioni. Dellecombinazioni non esiste una scienza, ma solo prudenza, e la prudenza nonsi presta a essere codificata in paradigmi, algoritmi, regole logiche. Questaovvia constatazione spiega ciò che, altrimenti, sarebbe incomprensibile: ladifficoltà, anzi l’impossibilità di proporre una teoria della ragionevolezza,di cui sono testimonianza gli studi che si moltiplicano sull’argomento e lesempre nuove ricostruzioni del concetto e della struttura del relativogiudizio, proposte dalla dottrina giuridica.

La legge ragionevole è, dunque, quella che, per cosí dire, tiene contodell’ambiente giuridico entro il quale deve muoversi: ambiente formato daprincipî e valori costituzionali molteplici. Il giudizio di costituzionalità sulla

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legge in nome della ragionevolezza, però, non è la duplicazione, spostata inaltra sede, delle stesse valutazioni che il legislatore ha svolto in quellapolitica. La combinazione, o composizione delle prescrizioni costituzionalidi principio e di valore, cioè la ragionevolezza delle determinazionilegislative entro la cornice costituzionale, è ciò in cui propriamente siesprime la politica legislativa. Di fronte alla Corte costituzionale, si tratta diun controllo, per cosí dire, estrinseco o tangenziale, che si esprimenell’espressione manifesta irragionevolezza. Si tratta cioè di valutare se lalegge effettivamente opera all’interno di quell’«ambiente giuridico» senzacontraddirlo o alterarlo. Il legislatore fa valere «la sua ragionevolezza»; laCorte fa valere la «manifesta irragionevolezza». Il confine, chiaro in teoria,può essere incerto in pratica e ciò spiega perché il controllo di nonarbitrarietà sotto il profilo qui considerato può, di fatto, degenerare incontrollo politico delle scelte del legislatore.

22. Ingiustizia.

La giustizia si distingue dalla razionalità e dalla ragionevolezza inquanto il criterio di valutazione ch’essa implica appartiene a una sfera divalore prepositiva, la rispondenza alla quale si considera condizionemateriale necessaria della legittimità dell’ordinamento positivo e delle suesingole norme. Dunque, il punto di vista della giustizia precede ogni puntodi vista interno. L’ordinamento giuridico positivo, se esiste e opera comeforza strutturante la vita politica e sociale e non come mero strumento dellaforza arbitraria, è perché presenta un lato aperto a un ethos pubblico diffusoche il diritto deve presupporre, per poter esistere a sua volta 41. Se nonesistesse, il diritto si confonderebbe contraddittoriamente con il merocomando di chi dispone di poteri di dominio e nessun ordinamentogiuridico sarebbe possibile. Tale base pre-positiva, se esiste, forniscetacitamente e capillarmente alimento quotidiano all’esperienza giuridica.Ma, se il canale di comunicazione è interrotto e tra il diritto e le esigenze digiustizia si creano discrepanze, esse cercano comunque la loro strada perimmettersi, come criterio di giudizio d’ultima istanza, nel diritto positivo.Tale immissione avviene normalmente in modo indiretto, attraverso lenorme costituzionali di valore (principî e fini) che, come si è detto sopra,

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vivono attraverso il loro continuo alimento a partire dalle concezioni digiustizia presenti nella società. Questa apertura e questa loro capacitàricettiva, lungi dall’indebolire il valore della costituzione, lo rafforza.Eccezionalmente, l’immissione forza addirittura la porta delle normegiuridiche e chiede di valere direttamente, scavalcando la legge. Si veda ciòche si dirà in seguito sulle vicende successive alla seconda guerra mondialeriguardanti i crimini contro l’umanità (infra, par. X.15).

23. Giustizia e convivenza.

L’esistenza d’un rapporto fra il diritto e la giustizia è un carattere deldiritto del nostro tempo. Tutte le concezioni del diritto possonocomprendersi in una grande dicotomia: diritto al servizio del potere o dirittoal servizio della convivenza. O l’uno o l’altro: o la costituzione imposta daun vincitore ai vinti e garantita dalla forza, oppure la costituzione condivisatra tutti o dal maggior numero possibile e fondata sul consenso. Come testiesemplari dell’una, si può portare ancora una volta l’Instrument ofGovernment, la Costituzione del 1653 che codificava il potere del «Lordprotettore» del Parlamento inglese (si veda supra, par. VI.2); come esempiodell’altra, il Mayflower Compact del 1620, nel quale, in poche righe, i Padripellegrini, sbarcati in Virginia, diedero vita a «un corpo politico per meglioordinare e preservare la [loro] esistenza […] e in virtú del quale [potessero]essere applicate, stabilite e formulate giuste ed eque leggi e ordinamenti».Ogni costituzione ha un retroterra storico-culturale nel quale affonda le sueradici: o la preminenza del potere, oppure la preminenza della convivenza.Tertium non datur. Tali esigenze si esprimono, ma non si consumano, nellacostituzione. Che cosa dobbiamo pensare nel caso di leggi non difformidalla costituzione formale, ma in contrasto con le esigenze sostanziali chesono la ragion d’essere della costituzione medesima? Penseremmosemplicemente che queste leggi sono contro la natura della legge, qualedeve essere, secondo un criterio non di legalità, ma di legittimitàcostituzionale: la legalità è la conformità al diritto positivo; la legittimità(come abbiamo visto supra, par. V.II.10) è la coerenza con le ragioni pre-positive del diritto positivo. Queste ragioni pre-positive sono ciò che

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chiamiamo «giustizia». Il giudizio di giustizia nel tempo della democrazia edei diritti umani è quello che mette in diretto rapporto la legge e le ragionidella convivenza, per le quali la costituzione e le leggi esistono. Su questopunto devono convergere oggi tutti i discorsi di diritto.

24. Giustizia e cultura.

Sarebbe incongruo pensare a concezioni della giustizia estranee alcontesto storico-culturale della comunità di diritto per la quale la legge devevalere non come arbitrio ma come diritto. Sarebbe incongrua l’assunzionedi una qualsivoglia concezione assoluta della giustizia – filosofica,razionale, naturale. I modi d’intenderla nascono, cambiano, si estinguono esono sostituiti da altre concezioni. Sono fenomeni della cultura e le culturesono figlie del loro tempo. Se pensassimo alla giustizia della legge comecorrispondenza a una verità metafisica dell’ordine delle cose, riapparirebbesulla scena il diritto naturale, in una qualche riedizione, con tutte le suedifficoltà e aporie, e con la sua pericolosa aggressività. Sostenere oggi, insocietà pluraliste come le attuali, l’idea di un diritto naturale assoluto, cioèdi un diritto che deve essere quel che è per comando divino, per natura oper ragione, significherebbe lanciare parole d’ordine incompatibili con ilfine ultimo della legge, cioè la convivenza. Significherebbe alimentarediscordia e conflitti. Ogni appello a concezioni ontologiche e metafisichedella giustizia, come l’appello al diritto naturale in tutte le sue forme e isuoi contenuti, è solo un modo per rinforzare le proprie ragioni, conargomenti che si pretendono indiscutibili, e per squalificare le ragioni altrui.Il diritto naturale appartiene alla retorica del conflitto, non dellaconvivenza. Sebbene oggi vi sia una ripresa dei discorsi sulla giustizianaturale e sul diritto naturale, non c’è nulla da aggiungere a quanto è giàstato detto sulla loro insostenibilità teorica: chi riveste le proprie aspirazionidi giustizia della corazza del diritto naturale usa falsi argomenti, ingannatoridi se stesso e dei propri simili. Le leggi che essi dicono derivare dallanatura, in realtà, se sono conservatori, le traggono dai costumi di un passatoche approvano, per contrapporle a quelle del presente che non approvano 42;oppure, se sono innovatori, le traggono da ciò che essi preferiscono per ilfuturo, secondo il loro proprio modo di considerare il bene della vita

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sociale, per contrapporle a quelle del presente. Nulla è piú relativo evariabile dei costumi e delle preferenze.

Sulle definizioni solo formali della giustizia può esserci concordanza, masolo su quelle. Chi non aderirebbe alla formula: «Iustitia est constans etperpetua voluntas ius suum cuique tribuens» (Digesto, I, 1)? Dare aciascuno il suo, espressione attribuita sí a Ulpiano ma, in realtà, risalentenel tempo e rintracciabile in diversi testi greci classici (la Repubblica, 434a,di Platone, ad esempio: «la giustizia consiste nell’avere e nel fare ciò che èproprio di ciascuno») e in passi biblici (Lettera ai Romani, 12,19: «Spetta ame fare giustizia, io darò a ciascuno il suo, dice il Signore»). Ma già ladiffusione in contesti storico-sociali diversi ci mette sull’avviso. Formulecome queste – o altre che troviamo nella storia del pensiero politico, come«a ciascuno secondo il suo merito» o «a ciascuno secondo il suo bisogno» o«tratta in modo uguale gli uguali, e in modo diverso i diversi» –, in quantoassolute, sono prive di contenuto. Se sono assolute, sono vuote; se avesseroun contenuto, sarebbero relative e varrebbero per uno, ma nonnecessariamente per un altro, essendo storicamente variabili e relative aidiversi contesti sociali e culturali. È una constatazione diffusa 43. Infatti, ledefinizioni formali della giustizia lasciano indeterminato proprio ciò che èessenziale: che cosa è il suum, il «merito», il «bisogno»; in che cosa si èuguali e in che cosa si è diversi? Senza una determinazione in proposito,questi criteri di giustizia sono involucri vuoti, capaci di nasconderequalsiasi cosa. Per esempio, «a ciascuno il suo» può essere il motto delfilantropo che divide il suo patrimonio con gli indigenti; ma esso stava adaccogliere, come formula di benvenuto irridente – ma non fuori postonell’ideologia nazista –, gli internati nel campo di Buchenwald. Quello chedavvero conta, sta fuori di queste formule della giustizia e dipende da chi eda come si riempie di sostanza. Questo è il compito della legge. In questo, ilpositivismo giuridico, anche nella sua espressione piú cruda, ha ragione: lagiustizia, nella sua dimensione sociale-materiale, è ciò che il legislatoredice ch’essa sia. In vista della vita sociale pacifica, occorre questaespropriazione della misura della giustizia, dai singoli individui alla legge.Ma c’è tuttavia un limite finalistico, intrinseco alla legge stessa: la vitapacifica, la convivenza. Se essa lo tradisce, promuovendo discordia econflitto, è una legge contro la sua stessa natura.

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La giustizia della legge sta dunque nel rapporto ch’essa istituisce con laconvivenza. Le condizioni della convivenza non sono definibili a priori, ecosí nemmeno è predeterminabile il contenuto di giustizia della legge. Nonsarà, questa, la constatazione che, soggettivamente, ci piacerebbe di piú, né,tanto meno, è la giustizia assoluta. Sarà perfino una giustizia che, avalutarla secondo concezioni e parametri esterni ai singoli ordinamenti –per esempio secondo la giustizia che vale presso popoli diversi o in tempidiversi, o che discende da altre visioni filosofiche o religiose della vita –,potrebbe apparire ingiusta: «Io credo che, se qualcuno ordinasse a tutti gliuomini di radunare in un sol luogo tutte quelle usanze che ciascuno credeturpi, e poi di questo cumulo ordinasse di prendere quelle che ciascunoreputa piú belle, neppure una ne resterebbe, ma tutti prenderebbero tutto» 44.Tutto, a seconda dei tempi e dei luoghi e delle culture, può sembrare bello,giusto, buono oppure brutto, ingiusto e cattivo.

Il rapporto tra la legge e questo lato materiale dell’esperienza giuridicache ha a che vedere con un’idea di giustizia non assoluta ma relativa, validasoltanto dal punto di vista interno a ogni ordinamento, potrebbe definirsirapporto di giustezza: una nozione che rinvia non a concetti astorici, ma aquell’esperienza spirituale collettiva che noi chiamiamo «cultura», cioè allecategorie di significato e di valore profonde ed essenziali, necessarie perchéun conglomerato di esseri umani possa trasformarsi in una società. La leggee la sua giustezza, dunque. Una legge che non pretendesse una sua«giustezza» sarebbe qualcosa non solo di ingiustificabile e assurdo, maanche di contraddittorio. Sarebbe violenza in forma di legge, qualcosa di«intollerabilmente ingiusto» 45.

25. Giustizia e casistica giuridica.

Il giudizio di giustizia o giustezza riguarda l’arbitrarietà della legge e siaffianca perciò al giudizio di razionalità e di ragionevolezza. C’è però unadifferenza strutturale: il giudizio di razionalità e di ragionevolezza, secondole nozioni indicate in precedenza, si svolge per mezzo di confronto tranorme, o tra norme e principî e valori giuridici. Il giudizio di giustizia (ogiustezza) prende in considerazione i casi della vita, non per applicare lenorme di diritto, ma per valutarne la legittimità. Come può constatarsi

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quella «intollerabile ingiustizia» di cui s’è detto? Non certo per mezzo dicontemplazione e confronto di norme legislative e costituzionali. In questomodo, si può cogliere la coerenza dell’ordinamento, nel senso della suarazionalità e della sua ragionevolezza. La giustizia-giustezza comporta altrogenere di giudizio: un giudizio esterno alle norme giuridiche che le mette inrapporto con l’esperienza pratica. Il giudizio di razionalità e ragionevolezzasi configura come valutazione circa l’arbitrarietà del diritto positivo rispettoai suoi valori formali e materiali; il giudizio di giustizia-giustezza, comegiudizio di adeguatezza rispetto alla funzione sociale della legge. Cosí, nelgiudizio entra la considerazione dei casi della vita e delle loro esigenzenormative.

Un esempio. Il legame necessario tra il giudizio di giustizia o digiustezza della legge con il caso concreto risulta con chiarezza in unasentenza recente (n. 236/2016) della Corte costituzionale: una sentenza chemerita di essere considerata esemplare. Si trattava della norma legislativache punisce con la reclusione da cinque a quindici anni l’alterazione di statocivile (fatto di per sé molto grave, attraverso il quale si potrebbe assumereun bimbo altrui come proprio). Dalla motivazione della decisione sicomprende che si aveva a che fare con un uomo convivente con la madred’un bimbo il cui padre naturale s’era dileguato. L’alterazione di stato, cioèla falsa dichiarazione che il bimbo era figlio del convivente, serví, nel casodi specie, ad attribuire un legame familiare al neonato, che altrimenti nesarebbe restato privo: un fine, dunque, eticamente apprezzabile. Tuttavia,anche se si fosse irrogata la pena nella misura minima e si fossericonosciuta l’attenuante dei «motivi di particolare valore morale osociale», quell’uomo avrebbe dovuto patire la pena del carcere. Questaconclusione è apparsa incostituzionale per una ragione “intrinseca”, cioèper la manifesta sproporzione tra la condotta del reo e la sanzione previstadalla legge. L’applicazione di quella legge a quel caso avrebbe alimentatouna rivolta contro il diritto in nome del senso di giustizia e avrebbe distruttolegami di convivenza.

26. Intrinseca ingiustizia.

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Che il diritto legislativo non sia fine a se stesso, non trovi in se stesso ilproprio valore, non sia simultaneamente mezzo e fine, ma siaessenzialmente regola pratica, posta a un fine regolativo concreto dirapporti sociali, pare una di quelle evidenze e ovvietà che, in quanto tali,spesso non si prendono in considerazione. Se non esiste un seppur minimolegame giustificativo tra regola e caso, se la legge è priva di finalità pratica,la regola ch’essa stabilisce risulta intrinsecamente arbitraria: in sé e per sé.Il rapporto è con il caso. Il giudizio di giustizia è un giudizio casistico: ilsuo obbiettivo è riportare la legge non alla coerenza con il diritto, maall’adeguatezza con la realtà della vita ch’essa pretende di regolare.

Tramite questa nozione non si apre la strada all’arbitrio e allecontestazioni arbitrarie delle scelte del legislatore, non appena questeappaiano soggettivamente incongrue, inopportune, sconvenienti. Si trattainvece del legame funzionale tra il diritto positivo e la sua funzione sociale.Se la distanza è tale che nessun rapporto può essere istituito e se, quindi, lalegge risulta sotto qualunque aspetto arbitraria, non giustificata da alcunaesigenza sociale, anzi contraria, si può parlare di legge espressione di unalegislazione contro natura: natura dei casi e natura della legislazione.

A onta della pervasività del controllo di giustizia, non è facile esibirneesempi in cui non si mescolino motivi di irrazionalità e di irragionevolezza.Sempre, o quasi sempre, è possibile evocare un qualche parametrocostituzionale, l’articolo 3 innanzitutto. Ma la soluzione del problema dicostituzionalità non si trova lí. Si consideri la sentenza n. 15 del 1982, sulladurata dei termini della carcerazione preventiva (oggi denominata «custodiacautelare»). La Corte era chiamata a dire se fosse o non fosse accettabilech’essa potesse durare per tanti anni (piú di dieci, nella specie) in assenza diuna sentenza definitiva di condanna. Il parametro invocato era,principalmente, l’articolo 13 della Costituzione, dove è previsto che «lalegge [stabilisca] i termini massimi della carcerazione preventiva». Laquestione non consisteva, però, nel rispetto di tale norma da parte dellalegge: che la carcerazione preventiva fosse ammissibile, era fuoridiscussione; i termini massimi erano stabiliti. La questione, sottol’apparente copertura dell’articolo 13, era un’altra: quanto tempo potevadurare? Questa domanda non trovava risposta, né nella normacostituzionale invocata, né in altre. La norma sottintesa (in questo, come intanti altri casi) era ed è la non-arbitrarietà: il legislatore può e deve stabilire

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un limite e il limite deve essere non arbitrario (nella terminologia corrente,«non manifestamente irragionevole»). Ovvio, si dirà: ma da dove traiamol’impressione di questa ovvietà? Dall’implicita premessa che il diritto non èstrumento d’arbitrio. La legge deve rispettare le esigenze regolative del casoche vuole regolare. La Corte respinse allora la questione. Erano anni diterrorismo e le esigenze di ordine pubblico erano massime, al limite dello«stato d’eccezione». Queste esigenze illuminarono il caso, nel suosignificato relativamente al momento in cui fu posto, e indussero la Corte asalvare la legge, sia pure attraverso una visione «non normale» della non-arbitrarietà. A riprova dell’incidenza di valutazioni casistiche in questogenere di problemi, nella motivazione si legge che l’esito del giudiziosarebbe stato diverso, una volta resesi meno acute le esigenze eccezionalialle quali la legge era chiamata a rispondere.

27. Equità e irragionevoli automatismi.

Il contatto principî-casi nell’applicazione del diritto comportatrasformazioni importanti nella concezione tradizionale del diritto. Sipotrebbe dire in sintesi, riprendendo Aristotele (si veda supra, par. VIII.2),che in molti casi la regola cede al regolo.

All’inizio di questo capitolo, con le parole delle Leggi di Platone, si èmenzionato il raffronto – che è un’opposizione – tra la cieca legge (il nómosgenerale e astratto, prepotente e ignorante, che trascura le innumerevolidifferenze delle cose umane) e la sapiente e provvida saggezza concreta delre-filosofo. Secondo la concezione platonica della giustizia, la preferenza,in teoria, va a questa saggezza ma, in pratica, va alla legge, poiché èimprobabile che nascano individui della cui sapienza ci si possa fidare.Perciò, la fredda legge è da preferire alla discrezionalità dei governanti chepossono rivelarsi despoti corrotti. Nell’Etica nicomachea, Aristoteleriprende la contrapposizione e descrive, con l’immagine del regolocontrapposto alla regola, qualcosa che sta accadendo sotto i nostri occhi:

Quando la legge parla in universale, e in seguito avviene qualcosa che non rientranella norma universale, allora è legittimo, quando il legislatore ha trascurato qualcosa e

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non ha colto nel segno, per avere parlato in generale, correggere l’omissione, econsiderare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e cheavrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione. Perciòl’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giustizia, non in senso assoluto, bensídella giustizia che è approssimativa per il fatto di essere universale. Ecco la naturadell’equo: un correttivo della legge, quando è difettosa a causa della sua universalità.Questo, infatti, è il motivo per cui non tutto può essere definito dalla legge: ci sonosituazioni in cui è impossibile dettare una legge, ed è necessario un provvedimentospecifico. Infatti, rispetto a una cosa indeterminata anche la norma deve essereindeterminata, come il regolo di piombo usato nella costruzione di Lesbo: il regolo siadatta alla configurazione della pietra e non rimane rigido, come il provvedimento siadatta ai fatti. […] Da ciò risulta manifesto anche che l’uomo giusto è […] chi non èpignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersiindietro, anche se ha il conforto della legge. Questa disposizione è l’equità, che è unaforma speciale di giustizia e non una disposizione di genere diverso 46.

A questa contrapposizione tra regola e regolo, tra legalità ed equità, contutto ciò che di problematico essa comporta, ci si può collegare utilmente esenza forzature, per intendere il significato della giurisprudenzacostituzionale in tema di incostituzionalità dei cosiddetti «automatismilegislativi». Gli «automatismi» della legge sono quelli che, al verificarsid’una fattispecie concreta descritta con precisione dalla norma generale eastratta, fanno seguire la conseguenza doverosa, altrettanto precisamentedefinita dalla norma: se è a, deve essere b. Secondo le idee ricevutedall’illuminismo giuridico, ciò che nella giurisprudenza costituzionale sichiama «automatismo legislativo» sarebbe l’ideale perfetto delle normegiuridiche: leggi chiare, semplici e uniformi, uguaglianza di fronte allalegge, sicurezza giuridica, giudici «bocca della legge», garanzia dimonopolio normativo a favore del legislatore, ecc. Ora, quello che alloraera l’optimum – la legge come regola inderogabile che prescinde dallecomplicazioni della vita – diventa addirittura motivo d’incostituzionalità,proprio in quanto regola inderogabile, generale e astratta che mortifica ladiscrezionalità del giudice. Un vero rovesciamento. Montesquieu, Bentham,Beccaria e tutta la schiera dei loro ripetitori avrebbero di che esseresconcertati. Quando un «automatismo legislativo» è dichiaratoincostituzionale, è perché si ritiene che, per motivi costituzionali (vedremo

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tra poco quali), la legge non possa fare tutto da sé e abbia bisognodell’intervento «casistico» del giudice, a contatto con peculiarità di casiconcreti che non si prestano a essere previsti o, per cosí dire, pianificatidalla legge: proprio ciò che si considerava il suo vanto – l’uniformità –diventa il suo vizio.

Si può prendere come esempio una decisione del 1996 (n. 303). La leggesull’adozione fissava in non piú di quarant’anni il divario d’età tra i coniugiadottanti e il minore adottato. Questa regola, di per sé, non è irragionevole,ma irragionevole è apparsa alla Corte la sua assolutezza. Non essendoprevista eccezione alcuna per il caso in cui l’adozione risponda all’interessedel minore, quando la famiglia d’accoglienza sia stata giudicata idoneaall’adozione e il divario d’età previsto dalla legge sia superato di poco(nella specie: tre mesi per uno solo dei due coniugi) pur rimanendocompreso in quello che di solito intercorre tra genitori e figli, la norma èstata dichiarata incostituzionale, in quanto regola inderogabile. Cosí, algiudice è stato consentito di disapplicarla in concreto, quando la suaapplicazione dà luogo a palesi ingiustizie.

Questa decisione ha il valore di un paradigma che ha aperto unaprospettiva. La legge deve riconoscere la sua impotenza a far frontecompiutamente alle mutevoli esigenze della giustizia del caso concreto. Ècome se la Corte avesse detto: questa è la regola – una regola, in generale ein astratto, non contestabile – ma tu, giudice, puoi avere buone ragioni, inparticolare e in concreto, per metterla da parte e le tue buone ragionipossono valere piú di quelle del legislatore. Queste «buone ragioni» nonsono rimesse all’arbitrio del giudice, ma sono specificate col richiamo aprincipî che non si prestano a essere trascritti in regole generali. La sentenzacitata tenta, in verità, di porre regole. Ma è solo apparenza. La decisione ècosí formulata: la legge è incostituzionale «nella parte in cui non prevedeche il giudice possa disporre l’adozione, valutando esclusivamentel’interesse del minore, quando l’età di uno dei coniugi adottanti superi dioltre quaranta anni l’età dell’adottando, pur rimanendo la differenza di etàcompresa in quella che di solito intercorre tra genitori e figli, se dallamancata adozione deriva un danno grave e non altrimenti evitabile per ilminore». La regola dei quarant’anni resta, ma è come se fosse sottoposta auna clausola di ragionevolezza o di equità nel caso concreto, e l’arbitro

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della ragionevolezza e dell’equità non è piú il legislatore, ma è diventato ilgiudice.

Nei casi dell’incostituzionalità degli «automatismi legislativi», il rinvio ènon alla discrezionalità del legislatore, ma a quella del giudice. Non si trattadi esigere una legislazione piú analitica, perché si prende atto che la leggenon è strutturalmente idonea a prefigurare tutte le possibili fattispecie chemeritano un trattamento specifico. Il giudice prende il posto del legislatorenel caso concreto.

I casi di automatismi legislativi incostituzionali sono numerosi, in tutti icampi in cui si deve tenere conto delle «condizioni personali e sociali» dicui parla l’articolo 3 della Costituzione, sotto la clausola di cui già si è detto(si veda supra, par. VII.6) che richiede che ogni situazione ragionevolmentediversa trovi una sua regolamentazione specifica: si tratta di materie comele sanzioni, il regime dell’esecuzione delle pene, la detenzione di sostanzestupefacenti, le misure cautelari, la condizione dei minori di fronte al dirittopenale, i rapporti familiari e l’adozione, l’espulsione di migranti irregolari,il diritto all’abitazione, ecc.

La vastità del fenomeno non permette di considerarlo una deviazioneoccasionale. Si tratta infatti d’un carattere pervasivo del diritto del nostrotempo che, per realizzare ciò che richiede la sua natura, abbisogna dellapartecipazione attiva del giudice. Quando i commentatori prendono notadell’espansione della giurisdizione nel sistema costituzionale dei poteri,sbaglierebbero di grosso se lo considerassero un’aberrazione e non unfenomeno strutturale, certo denso d’incognite e pericoli che richiedonorisposte, anche sul piano dell’organizzazione della giurisdizione, dellaformazione e della responsabilità dei giudici, ma inevitabile nell’odiernoStato costituzionale. È propria del tempo in cui viviamo l’aspirazioneall’uguaglianza, intesa come adeguatezza del diritto alle situazioni concrete:un’aspirazione che, essendosi spinta molto avanti, giunge perfino a insidiareil venerando principio dell’uguaglianza di tutti, indifferenziatamente. «Itutti», nell’epoca della «personalizzazione del diritto», quandol’uguaglianza assume il valore della differenziazione di ciò che è diverso,non esistono piú. Esistono «i tanti», indefinitamente diversi, fino al puntoche ciascuno di essi, nei casi della vita in cui si trova inserito, merita, per

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ragioni costituzionali, un trattamento ad hoc, guidato non da regole ma daprincipî, secondo la loro natura, messa in luce nel settimo capitolo.

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Capitolo nonoInterpretazione e applicazione del diritto

1. Realtà duplice.

Volgiamoci ora al diritto nel suo aspetto pratico, cioè nel momento in cuiil diritto è «applicato»: parola che – come vedremo – contiene già una certaconcezione di che cosa significa il diritto in azione. L’applicazione ècompito del giudice (i soggetti al diritto «ubbidiscono»; gli amministratorilo «eseguono»; solo i giudici lo «applicano»). Un diritto senza giudice, cioèsenza applicazione, non sarebbe diritto; sarebbe letteratura.

Che nel diritto non vi sia applicazione senza interpretazione può apparirechiaro, fino alla banalità; meno chiaro, ma altrettanto vero, è però anchel’inverso: che non c’è interpretazione senza applicazione. L’essenza deldiritto è in questo nesso, nel quale si manifesta il suo valore pratico. Checosa significhi, al di là della prima impressione, l’aggettivo “pratico”riferito al diritto, si cercherà di precisare piú in là. Qui, questo accenno èsufficiente per giustificare l’attenzione concentrata sul «momentogiudiziario» del diritto, il momento in cui il diritto vale a risolvere concretecontroversie.

Nell’uso giudiziario del diritto, l’applicazione è in funzionedell’interpretazione e l’interpretazione è in funzione dell’applicazione.Poiché l’interpretazione riguarda il diritto e l’applicazione riguarda i fattidella vita, la proposizione che precede – l’essere l’interpretazione el’applicazione mutuamente intrecciate – significa che qualunque teoria deldiritto e del suo uso giudiziario deve prenderle in considerazione entrambe,per riconoscere il posto che loro compete, e significa anche che, diconseguenza, l’ignoranza dell’una rispetto all’altra produce risultatimonchi.

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2. Concezioni unilaterali dell’interpretazione giuridica.

Nelle concezioni correnti dell’uso giudiziario del diritto, l’applicazionequasi scompare dietro la presenza assorbente dell’interpretazione. Tutto ciòche fa problema si concentra nel momento dell’interpretazione, mentrel’applicazione finisce per ridursi a una semplice operazione di logicaconseguenziale. Posta l’ovvia premessa che, per esercitare una concretafunzione regolatrice, qualunque norma giuridica deve essere determinatanel suo significato, secondo il modo di vedere abituale l’interpretazioneessa è concepita come un processo intellettivo che, dall’esame delle formulelinguistiche rinvenute negli atti normativi, perviene alla determinazione delloro contenuto: dai significanti (gli enunciati, o, secondo altra terminologia,le disposizioni) ai significati (le norme) 1. Quando si parla diinterpretazione, “interpretare” significa attribuire significato – senso-importanza-rilevanza – a un qualche frammento di linguaggio (vocaboli,locuzioni, enunciati) 2.

Detto altrimenti, secondo una terminologia entrata nell’uso, l’attonormativo si manifesta in disposizioni. Nelle disposizioni, per mezzo dienunciati idonei a essere compresi in generale dai soggetti cui esse sirivolgono, è impresso un certo contenuto normativo. Le disposizioni, cosícreate e immesse nel mondo oggettivo del diritto, devono poi, a loro volta,esprimere il loro significato con riguardo a coloro cui spetta il compito diapplicarle. A ciò varrebbe l’interpretazione, mezzo di espressione dellenorme impresse nelle disposizioni. L’interpretazione sarebbe, per esprimerciin breve in altro modo, l’attività, di competenza dei soggetti cui spettal’applicazione, di trasformazione delle disposizioni in norme. Le norme chescaturiscono dalle disposizioni interpretate o, piú semplicemente, leinterpretazioni delle disposizioni, secondo questo punto di vista, sono ildiritto nel suo significato pratico-concreto. L’insieme delle disposizioni,come tali, cioè in assenza di interpretazioni, sarebbe invece solo un numeroindefinito di potenzialità interpretative, cioè un coacervo astratto di normeche potrebbero essere tratte in vita, ma che, per il momento, non lo sono e, aquesto fine, attendono qualcuno – l’interprete, appunto – che svolga questafunzione “maieutica”, lavorando esclusivamente sul «materiale normativo»di cui dispone. In questo lavoro di ex pressione della «norma» che èracchiusa nella «disposizione», tutto si compirebbe, in un rapporto diretto

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ed esclusivo dell’interprete con l’oggetto dell’interpretazione:l’interpretazione sarebbe un vis à vis dell’interprete con le «prestazionilinguistiche» del legislatore.

3. Cognizione e volizione.

«Attribuire significato» è un atto di conoscenza o di rispecchiamento,oppure, almeno in parte, un atto di volontà creatrice, cioè un’attribuzione,un “far dire” alla legge ciò che di per sé non dice o non dice ancora, o nondice in modo univoco.

Secondo un modo di vedere, l’interpretazione è un processo conoscitivodel contenuto delle disposizioni le quali, una volta conosciute, sitrasformerebbero in norme. L’interprete fedele sarebbe quello che nontoglie e non aggiunge nulla a ciò che già sta nella legge per giungereall’esatta esplicitazione del suo contenuto, sia che tale contenutocorrisponda a ciò che il legislatore, soggettivamente, ha voluto disporre –secondo l’idea del diritto come atto di comando personale di chi comandarivolto a chi è comandato 3 –, sia che la disposizione si consideri nella suaoggettività, per quello che essa, indipendentemente dalla intenzionesoggettiva del legislatore, sta a significare. In entrambi i casi, l’interpretefedele deve andar cercando significati che stanno fuori di lui e che gli sirivelano tramite la legge: la volontà soggettiva del legislatore, oppure ilcontenuto oggettivo dell’ordinamento giuridico. Sono due diversi modid’intendere l’interpretazione ma, entrambi, si possono dire «cognitivisti»: ildiritto è quello che è, e l’interprete deve rispettarne la realtà, la “verità”.

Dalle concezioni cognitiviste dell’interpretazione devono distinguersi leconcezioni che, per differenza, si possono definire volontariste. Questeultime riconoscono l’esistenza, nella attività interpretativa, di fattori esternialle disposizioni da interpretare, messi in moto nell’attività diinterpretazione. Le concezioni volontaristiche sono numerose. Esse sidistinguono tra di loro a seconda del tipo e del grado di “discrezionalità”che viene riconosciuto all’interprete.

4. Difetti e limiti della legislazione.

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Alla discrezionalità corrisponde un certo grado di creatività. Spesso sidice che la discrezionalità è una deviazione da quella che dovrebbe essere laretta e pura interpretazione e la si fa risalire ai difetti della legislazione,difetti che sono esperienza quotidiana di chi esercita qualunque professionegiuridica. L’imperfezione della legge alimenta il risentimento nei confrontidel legislatore che esercita male il suo compito, e promuove l’invocazionedi leggi chiare, di cui l’interprete possa essere solo lo specchio fedele.Sarebbe cosí dunque il “cattivo legislatore” a impedire all’interprete (ilgiudice, per esempio) di essere un “buon interprete”, fedele conoscitore eapplicatore della legge. Per essere tale, egli dovrebbe poter maneggiare“buone leggi”; in mancanza, invece, è costretto dalla necessità a fare unaparte che non dovrebbe competergli, ricercando criteri d’interpretazioneintegrativi della legge, correttivi e perfino sostitutivi.

Fin qui, il senso comune. La scienza del diritto non è su questa linea.Essa concorda con la pratica, circa l’impossibilità di una giurisprudenzasolo “riflettente” il diritto posto dal legislatore – non per una ragioneempirica (la cattiva qualità della legislazione), ma per una ragionestrutturale. Gli studi sulla natura del discorso normativo, le indagini sullinguaggio e i concetti del legislatore e la giurisprudenza analitica hannoanche in Italia superato l’idea del positivismo delle origini: l’idea cioè deldiritto come insieme di atti di volontà, perduranti nel tempo, di unlegislatore personale o di un ordinamento impersonale. Fermo il postulatodel diritto come dato oggettivo, la giurisprudenza teorica ha rigettato, haanzi ridicolizzato l’idea del giudizio giuridico come esclusiva applicazionedella legge per quella che essa è, tramite “deduzioni” relative a fatti“sussunti” nella descrizione normativa. Lo schema logico del sillogismonormativo non è affatto abbandonato, ma da gran tempo ormai si è fattastrada l’idea che la premessa maggiore (la norma da applicare) non siaquasi mai integralmente determinata dalla legge e che quindi, per la partecarente, le decisioni dei giudici contengano elementi creativi che dipendonodalla sua scelta, cioè dalla sua volontà discrezionale. Tale “discrezionalità”è ammessa in linea di principio e non soltanto come conseguenza deldeplorevole stato in cui versa la legislazione. Queste teoriedell’interpretazione giuridica si richiamano per lo piú a due punti diriferimento del positivismo giuridico, Hans Kelsen e Herbert Hart,

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rimanendo perciò in quell’ambito, sebbene il loro positivismo sia noningenuo ma, come si dice, «critico».

Per Kelsen 4, ogni attuazione del diritto è, al tempo stesso, in parteapplicazione vincolata di norme esistenti e, in altra parte, creazionediscrezionale di norme nuove. Nello sviluppo “a gradi” dell’ordinegiuridico, il vincolo inizialmente generico derivante dai principî dellacostituzione si fa via via piú stringente, fino alla determinazione, in tutto eper tutto cogente, dell’ordine contenuto nella sentenza del giudice o nelprovvedimento dell’amministrazione. Le norme giuridiche diventanoprogressivamente vieppiú dettagliate e la discrezionalità dell’interprete siriduce parallelamente, fino a scomparire, mano a mano che dal verticedell’ordinamento ci si avvicina all’applicazione al caso concreto. Ilcarattere creativo della giurisprudenza, secondo questo modo di vedere,dipende dal linguaggio utilizzato nei diversi “gradi di sviluppo”dell’ordinamento giuridico: dipende cioè strutturalmente dal diritto stesso.Struttura del diritto e discrezionalità del giudice si tengono l’una con l’altra.Presso i filosofi del diritto di impronta analitica, particolarmente interessatiai problemi del linguaggio normativo, la spiegazione della discrezionalitàdel giudice piú popolare è invece quella di Hart 5. La radice delladiscrezionalità starebbe in «ragioni comunicative» connesse alla naturaleopen texture del linguaggio, in generale, e del linguaggio giuridico, inparticolare. Quest’ultimo, essendo costruito da nozioni di genere,presenterebbe, attorno a un nucleo linguistico compatto al quale l’interpretenon può sfuggire, un «alone di incertezza ai margini»: sarebbe il prezzo dapagare all’uso di termini classificatori generali e astratti, un uso inevitabilein ogni forma di comunicazione normativa riguardante questioni relative afatti considerati come classi e non come eventi particolari, storicamenteindividuati. L’incertezza del linguaggio deriverebbe dunque dalla varietà deicasi della vita che sfuggono alle maglie delle formule legislative.

5. Visioni riduttive.

Possiamo lasciare per ora da parte questi problemi, che verranno presi inconsiderazione piú avanti, a proposito dei metodi dell’interpretazionefinalizzati a colmare le cosiddette lacune del diritto. Qui interessa notare

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che, in ogni concezione unilaterale dell’interpretazione giuridica, il latopratico del diritto, cioè il suo legame con la realtà della vita da regolare, èsemplicemente ignorato. L’interpretazione del diritto è funzionale al solodiritto; l’applicazione non sarà altro, poi, che il suo “calare” sul fatto.Questa visione, tipica negli studi sull’interpretazione giuridica di matricepositivistica, orienta verso una visione parziale e riduttiva del compito delgiudice, una visione che risulta, alla fine, fondamentalmente inesatta,perché inidonea a rispecchiare la realtà pratica del diritto. Essa rappresentauna vera e propria falsa coscienza 6, che si autoalimentanell’autocomprensione degli «operatori giuridici» ed è avvaloratadall’educazione che, per lo piú, viene impartita negli studi digiurisprudenza.

La difesa ostinata e la straordinaria forza di sopravvivenza di quellaconcezione unilaterale dell’interpretazione, e quindi della funzione delgiudice quale esperto di norme e spregiatore dei casi pratici che cadonosotto il suo giudizio, è un dato di fatto di dimensione universale, almeno neiPaesi di tradizione di diritto legislativo – un dato di fatto che meriterebbe diper sé uno studio di sociologia delle professioni giuridiche. Di solito, si diceche questa concezione, per quanto falsa, vale a difendere la giurisprudenzacome scienza, l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, insieme al lororuolo sociale di esperti in una scienza riservata, separata e non turbata daifatti della vita. È in gioco l’immagine del giudice che si vuole non“sporcata” dal coinvolgimento nella bassura dell’esperienza sociale,un’immagine che, per quanto falsa, avrebbe effetti socialmente utili,offrendo argomenti contro le mire di altri poteri e le pretese di altre scienzesociali 7.

Si può dubitare dell’utilità di questa finzione. Non si tratta solo dei rischie delle conseguenze negative che ogni mascheramento della realtà, prima opoi, produce, non fosse altro perché impedisce ai problemi di mostrarsi peressere affrontati nella loro giusta luce. Gli anzidetti «effetti socialmenteutili» potevano forse ipotizzarsi con riferimento a sistemi giuridici diversidall’attuale e in contesti sociali autoritari oggi superati. L’effetto odierno è,per esempio, di non riconoscere le giuste ragioni delle contraddizioni dellagiurisprudenza, in cause diverse su casi simili o addirittura nel medesimoprocesso tra i suoi diversi gradi, oppure di alimentare l’idea ch’esse sianonecessariamente effetto di errori o leggerezze, se non di parzialità, arbitrio,

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partito preso o perfino corruzione: mentre spesso esse non sono che l’onestosforzo di ricercare le soluzioni piú conformi al diritto, al di là delle carenzedella legge. Si forniscono cosí argomenti per alimentare campagne contro igiudici e la loro indipendenza. Insistendo su una falsa rappresentazionedella loro funzione, si privano i giudici dell’argomento difensivo piú forte aloro disposizione: la vera essenza del giudicare secondo diritto.

6. ”Inter-praestatio”.

Si consideri la struttura composta delle parole inter-prete, inter-pretazione, inter-praes, inter-praestatio.

Alla radice praes (da cui il francese prêter) si collegano molti derivati,cui ha “prestato” la sua attenzione Émile Benvéniste, nel suo grande studiosulla lingua delle istituzioni indoeuropee 8, ricostruendo, anche in questocaso, la vita affascinante di una parola. L’avverbio praesto, riferito a esse –stare al cospetto, a disposizione – si collega alla voce verbale praestare –stare davanti, ma anche assicurare, garantire (da praes: garanzia) 9. Mapraesto può essere anche collegato a facere, da cui praestare nel senso diessere pronto o mettere a disposizione, fare in modo che si possa contare suqualcosa; da cui, per estensione, farsi garante, rispondere di qualcosa pressoqualcuno e, per ulteriore estensione, manifestare, offrire: da cui l’odierno“prestare”, come dazione di un bene in vista della restituzione.

Alla polisemia dei sostantivi praes o praestatio (garanzia o prestazionegenerica), si accompagna però la certezza circa il valore della preposizioneinter, indicante una situazione o un’attività mediana o mediatrice,un’attività di intermediazione. L’interprete – si pensi all’interprete da unalingua a un’altra – sta in mezzo e fa da tramite, da collegamento fra partidiverse che devono o vogliono entrare in rapporto. L’interpretazione non èdunque un rapporto a due, tra chi interpreta e ciò che è interpretato, come siritiene entro le visioni semplificate del diritto come sola legge, le qualiimmaginano un movimento semplice di estrazione, ricerca, determinazioneo assegnazione di senso, a partire da un “segno”. È invece un rapporto a trelati, fra ciò che è interpretato, chi interpreta e il destinatariodell’interpretazione, che può essere un pubblico terzo o può frequentementeessere lo stesso interprete che, in certo senso, si sdoppia in quanto autore e

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in quanto ricettore dell’interpretazione. L’interpretazione implica dunque un“essere in rapporto” e in tensione, in posizione intermedia entro un campodeterminato da ciò che è oggetto di interpretazione e chi è destinatariodell’interpretazione. Si perde il senso complesso della parola quando sitrascura il valore del suo prefisso o lo si sostituisce con un altro: nellalingua tedesca, che pure conosce l’espressione Interpretation, la parolaAuslegung – interpretazione come ex posizione – elude, con l’uso di aus, ilcarattere relazionale, espresso invece in modo cosí pregnante da inter.

Possiamo guardare i problemi dell’interpretazione dicendo che essa ècome un ponte gettato tra le parole e le cose del diritto, e che l’interprete è ilpontiere. Per differenza, pensiamo al tempo mitologico in cui le parole e lecose erano le une compenetrate nelle altre (nomen omen, ancor oggi sidice). La parola di Dio era la cosa che veniva a esistere appena pronunciata,all’inizio del Libro della Genesi. La parola dell’oracolo era unapremonizione di avvenimenti messi in moto da quella stessa parola. Dabar,in ebraico, è parola produttiva di accadimenti, parole divine. Nel SeferHakmoni, commento al Sefer Yetzirah o Libro della creazione, o dellaFormazione, appartenente alla letteratura teologico-cosmogonica ebraica, siracconta di Elohím che si trastulla con le lettere dell’alfabeto creandol’universo:

Durante i duemila anni che precedettero la creazione del mondo, il Santo, sia Eglibenedetto, si dilettò con la scienza delle lettere. Le metteva insieme, le faceva ruotare, lecombinava in un’unica frase, le girava tutte e ventidue avanti e indietro. Le componevain frasi complete, mezze frasi, un terzo di frase. Rovesciava le frasi, le univa, leseparava, trasformandole tanto nelle lettere quanto nella puntazione vocalica. Necontava il numero sino a completarlo. Queste erano le operazioni del Santo, sia Eglibenedetto, quando decise di creare il mondo con la propria parola e con l’espressionedel proprio Nome grande e terribile 10.

Potremmo dire cosí: quelle erano lettere, parole, frasi concrete che nonavevano bisogno di interpretazione per raggiungere il loro oggetto: tra “direla parola” e “fare la parola” non c’era spazio intermedio. Erano, quelle,parole che, oggi, si dicono «performative»: parole che fanno cose 11, parolenon separate dall’essere. Le nostre parole non sono creative nel sensoanzidetto, ma sono allusive a ciò che è o a ciò che può essere o a ciò che

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deve essere, e l’allusione richiede d’essere decrittata. Per raggiungere il suoscopo, cioè per creare conoscenza, offrire possibilità o trasmettere valori,cioè per arrivare alle cose che il linguaggio indica, occorre che si riempia lospazio vuoto dal quale il parlare e l’essere sono separati. L’inter e lapraestatio sono il riempitivo.

Si è accennato poco sopra al linguaggio performativo. Si può aggiungereche l’odierno «performativo» è molto distante da quello originario: le nostreparole, per creare cose, necessitano di una qualche convenzione superioreche attribuisca loro quella potenza: ad esempio, il «sí» pronunciato in unacerimonia nuziale crea il coniugio solo perché una norma precedente gliattribuisce quella capacità. E qui entra in gioco l’interpretazione.

7. Caratteri comuni di ogni interpretazione.

I problemi dell’interpretazione sono, nella loro struttura fondamentale,comuni a ogni campo nel quale questa parola ricorre. Lasciando da partel’“interpretazione” di fatti naturali, assunti come messaggi divini, direttiagli uomini in circostanze eccezionali (ad esempio, nell’imminenza di unabattaglia) e “interpretati” da sacerdoti, auguri e aruspici in contesti dominatidalla magia e da credenze irrazionali, si parla di interpretazione biblica,letteraria, artistico-figurativa, storica, musicale, ecc. Sono possibili teoriegenerali dell’interpretazione, che abbracciano l’insieme di questeesperienze 12. Chi è l’interprete e qual è la sua funzione, per esempio,nell’interpretazione musicale? Prendiamo, ad esempio, un Preludio e fugadi Johann Sebastian Bach: l’interpretazione che se ne dava in epoca baroccaera certamente molto diversa da quella di un interprete di epoca romantica,e ancora diversa dalle interpretazioni “postmoderne” di oggi, in cui nonesiste canone accettato e tutto è possibile, compresa l’esecuzione sustrumenti elettronici e sintetizzatori. Prendiamo ancora l’Antigone diSofocle: gli attori del V secolo a.C. l’interpretavano in modo a noitotalmente sconosciuto, tra canti, balli e coinvolgimenti orgiastici delpubblico; l’interpretazione antinazista, che identificava Creonte con Hitler eAntigone con gli eroi della resistenza al despota (nella Antigone di JeanAnouilh, ad esempio), è lontanissima dall’interpretazione odierna che vede

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in Creonte la dolente figura dell’uomo di governo che, per le sueresponsabilità politiche, deve far tacere quella voce del cuore che loavvicinerebbe ad Antigone.

Qual è la posizione dell’interprete? È quella di colui che fa da mediatoretra un autore che ha consegnato il suo messaggio a un testo destinato asopravvivergli, e un pubblico che ne riceve il contenuto. L’interprete èvincolato al testo, ma è gravato anche da un altro vincolo, che gli provienedai destinatari del messaggio: deve essere comprensibile, anzi, convincente.Ciò significa il dover “tenere in conto” il contesto culturale in cui si svolgela ricezione. Qualunque interprete consapevole del suo compito, inqualsivoglia campo dell’interpretazione, si interroga inevitabilmente sul suorapporto con i ricettori delle sue interpretazioni; sa perfettamente che questolato dell’interpretazione è altrettanto importante di quello che lo lega aldocumento, al testo da interpretare. Egli deve dunque assegnare rilevanzaanche al suo pubblico, non necessariamente per adularlo o assecondarloconformisticamente, quanto per provocarlo, incalzarlo, perfino irritarlo oterrorizzarlo. È questa la radice delle sue “scelte interpretative” e tutto ciò ècompreso nel “tenere in conto”. Non è buon interprete né quello che sforzail testo per superficiale narcisismo o per altri suoi fini personali, né quelloche gli si incolla con un filologismo cosí esasperato (ad esempio, leesecuzioni musicali su lamentosi strumenti d’epoca) da rendersi, lui stesso,estraneo al suo tempo, e da rendere il testo muto nei confronti di unpubblico indifferente.

L’interpretazione, cosí, è al centro di due flussi di influenza, checonvergono da opposte direzioni, provenienti dal testo e dai destinatari deltesto. E qui opera il fattore tempo. L’interprete è colui che congiunge ilpassato (il tempo del testo) al presente (il tempo dell’interpretazione), omagari al futuro (il tempo in cui l’interpretazione, oggi non ancoraconvincente, lo diventerà). La posizione inter-pretativa è fonte di tutte ledifficoltà, ma anche di tutte le potenzialità dell’interpretazione, potenzialitàche si manifestano nell’essere sempre aperte a nuove domande e nuoverisposte, pur fermi restando i dati testuali da interpretare. La mutevolezzadelle interpretazioni è la manifestazione del flusso di influenza che idestinatari, nel tempo culturale che è il loro, esercitano sull’interprete,introducendolo all’ininterrotto procedere verso sempre nuove meteinterpretative. L’influenza del presente sul “dato” che viene dal passato,

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quale che ne sia la natura: un testo letterario, musicale, giuridico, ecc., èparticolarmente visibile nella interpretazione degli eventi della storia.Quando si ripete il celebre detto «ogni storia è sempre storiacontemporanea» 13, anche quando tratta di vicende risalenti a secoli omillenni precedenti, si dice precisamente questo: che è l’ambiente culturalee politico presente, con le sue incertezze e i suoi conflitti attuali, a porre ledomande e a sollecitare risposte. Ogni re-interpretazione storica è larisposta alle domande nuove che sorgono non dal passato, ma dal presente.

8. Presente, passato, futuro.

Ritorniamo al diritto e diamo l’importanza che merita, anche per lateoria, all’ordinario e necessario svolgersi delle cose. Da qui, soltanto, puònascere la possibilità di una teoria adeguata alla realtà. Il giudice, comequalunque interprete e applicatore del diritto, ha necessariamente di fronte asé un fatto o caso della vita, da regolare giuridicamente e prospettato conl’azione in giudizio. Da mihi factum, dabo tibi ius, dice l’antico e soloapparentemente banale adagio 14 che, in origine, esprimeva la posizione delpretore di fronte all’esposizione di un caso al quale non corrispondevaancora un’azione legale, e che oggi assume, nelle regole del dirittoprocessuale che escludono l’agire ex officio del giudice, un significato disintesi dell’essenza del giudicare.

Il dato di fatto o caso è dunque la molla dell’interpretazione 15. Questodato è il presente. L’interprete procede da questo punto dello svolgersi deltempo, per rivolgersi all’indietro, alla norma che è stata posta in un tempoanteriore, ma deve guardare al tempo a venire affinché la suainterpretazione sia storicamente feconda. Ecco il campo di tensione: il fattoo caso al centro, il diritto all’inizio, la ricezione del diritto alla fine. Ilgiudice sta nel mezzo per stabilire un collegamento tra l’inizio e la fine.

Il punto intermedio è essenziale. Che l’interpretazione sia mossa indietroe avanti dal caso da decidere è di solito l’elemento dell’interpretazione cheviene trascurato e proprio per questo occorre sottolinearlo particolarmente.Precisamente da ciò che si trascura si sviluppa il “senso”, come significato ecome direzione, dell’interpretazione. Rivolgendosi al diritto, si prenderannoin considerazione le norme che possono apparire conferenti (sguardo

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all’indietro). “Conferenti” significa adeguate a risolvere il caso in coerenzacon le aspettative che si ripongono nella risoluzione (sguardo in avanti).Dopo di che si ritornerà al caso, per precisarlo nei suoi contorni,eventualmente anche attraverso un’attività probatoria sui fatti, un’attivitàche non è mai rivolta, alla cieca, a determinare tutte le infinitecaratteristiche oggettive del fatto stesso ma è mirata ad accertare nelconcreto la presenza o l’assenza degli elementi significativi rispetto allanorma ipoteticamente individuata come idonea alla decisione (sguardoall’indietro). Se da tale individuazione deriveranno conseguenzeinaccettabili (sguardo in avanti), si andrà alla ricerca di altri elementi difatto che possono rilevare alla stregua di una norma diversa; da questaulteriore determinazione, si ritornerà al diritto, perché forse le norme che, inun primo tempo, apparivano rilevanti, non lo sono piú e altre devono essereprese in considerazione. Queste sono le operazioni che chi si trova adapplicare il diritto compie abitualmente, per lo piú senza pensarci su.

L’interpretazione giuridica sta, dunque, tra due poli: uno retrospettivo el’altro prospettivo. Il polo retrospettivo è la norma da interpretare; il poloprospettivo è l’impatto dell’interpretazione sull’avvenire. Il caso chepromuove l’interpretazione sta in mezzo, e con il caso anche l’interprete:ecco che cosa significa l’inter dell’interpretazione. Il fatto non puòcomprendersi giuridicamente se non in riferimento alla norma e questa nonha significato se non in riferimento a quello, poiché il fatto deve orientarsialla norma e la norma deve orientarsi al fatto 16. L’interpretazione è l’attivitàche mira a congiungere l’uno all’altra, fino a farli «combaciare» in unrisultato appagante su entrambi i lati. Ma l’“appagamento” ha un significatosolo in quanto il presente sia rivolto all’avvenire, proiettato nell’avvenire.L’interpretazione – si potrebbe dire a questo punto – è il medium checollega passato e futuro nel presente.

9. Interpretazione scientifica.

Solo nell’interpretazione scientifica, quella che si compie a tavolinodagli studiosi, l’attività interpretativa procede all’inverso, prendendo inconsiderazione innanzitutto la legge. Ciò modifica l’ordine di priorità deifattori, ma non i caratteri formativi dell’interpretazione stessa: il fatto alla

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cui regolazione la norma è destinata non sarà un dato storico concreto –come nell’interpretazione giudiziaria – ma sarà la sua concettualizzazioneipotetica, operata dall’interprete. Non si può guardare alla norma se nonipotizzando fattispecie particolari cui applicarla. La «interpretazione inastratto», che escluda la considerazione di fatti, non è possibile. Anche chiritiene ammissibile una «interpretazione solo in astratto», contrapposta alla«interpretazione in concreto», non può non concedere che «non si puòidentificare una norma se non identificando al tempo stesso almeno i casiparadigmatici ai quali essa è applicabile» 17, il che smentisce l’assuntogenerale circa la possibilità di un’interpretazione totalmente rivolta aldiritto. Se non ci fosse questo processo di interrogazione pratica dellanorma, a partire dalla realtà o a partire da congetture, l’interpretazione siridurrebbe, infatti, in una semplice e vuota parafrasi della legge. Ciò è tantopiú vero quanto piú le norme si esprimono attraverso «principî». «Ilprincipio astratto non è un principio» 18 che serva a qualcosa: può soloprodurre parole su parole. Esso incomincia a valere come norma solo acontatto con la concretezza dei fatti della vita, a partire dai quali il principioè sollecitato a dire qualcosa di utile.

La stessa cosa accade tutte le volte in cui nasce un dubbio. Essorappresenta l’alimento dell’interpretazione cui si dedica la scienza deldiritto. Il dubbio interpretativo si presenta quando e perché ci si pone dalpunto di vista di un fatto nuovo oppure tale da meritare di essereconsiderato in modo nuovo. Da questa base di partenza nascel’interrogazione sul significato della norma. L’interpretazione scientifica, inbreve, non procede altrimenti che attraverso domande circa la possibilità diinclusione o di esclusione nella previsione normativa di determinatefattispecie concrete, solo formulate in ipotesi. Da questa inversione deifattori deriva, come conseguenza, un atteggiamento della dottrina menofantasioso della giurisprudenza, poiché la ricchezza dei «casi della vita»supera l’astratta immaginazione dei giuristi che, sui testi, formulano i lorocosiddetti «casi di scuola».

10. L’interpretazione come esperienza di risoluzione di problemi.

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Quanto si è venuti fin qui dicendo può sintetizzarsi qualificandol’interpretazione giuridica come attività mossa da finalità essenzialmentepratiche, poiché essa si giustifica con l’esistenza di fatti concreti daregolare ed è finalizzata non alla conoscenza ma all’azione, cioèall’applicazione tramite decisione 19. Se non esistessero problemi pratici darisolvere, nessuno si rivolgerebbe al diritto; se non ci fosse nulla dagiudicare, non ci sarebbe il diritto. In questo orientamento problematico, siè detto 20, consiste il carattere del diritto come esperienza, una formula forseoscura a prima vista, che potrebbe far pensare ad atteggiamentiesistenzialisti, ma che semplicemente significa che la scienza del diritto è«conoscenza applicata» e «condizionata dalla concretezza del fine». «Lacontroversia è produttiva di diritto» 21, è stato detto giustamente, e lo spaziodella controversia è, per l’appunto, quello in cui si genera l’interpretazione.

11. I fatti come casi.

L’interpretazione giuridica può cosí essere definita – salva la necessità divari successivi chiarimenti – come ricerca della norma regolatriceadeguata sia al caso che al diritto. È necessario insistere sull’importanzadel «caso», che ora dobbiamo distinguere dal «fatto» di cui, genericamente,abbiamo parlato finora.

Tutte le concezioni unilaterali, esclusivamente legalistiche,dell’interpretazione, quali che ne siano le tante e piú o meno elaboratevarianti, trattano l’attività di applicazione del diritto come quella checonsiste in una semplice operazione deduttiva: dalla norma individuata apriori, valida in generale e in astratto, alla sentenza ricavata a posteriori,cioè al precetto individuale e concreto riguardante il fatto sub iudice econtenente qualificazioni giuridiche (liceità, illiceità, validità, invalidità,doverosità, facoltatività, ecc.) ed eventualmente misure conseguenti(sanzioni, risarcimenti, annullamenti, ecc.). Un’actio simplex dal mondodelle norme – la parte attiva – a quello dei fatti – la parte passiva – tramitel’opera del giudice che «applica», cioè appoggia le prime, «facendolediscendere» 22 sui secondi. I «casi» di cui queste teorie parlano sono infattiniente piú che fatti inanimati, da ricomprendere in schemi normativi. Il«caso», secondo queste concezioni, consisterebbe nel rapporto norma-fatto,

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cioè si risolverebbe integralmente nell’applicazione del diritto al fatto:sarebbe – si potrebbe dire – «operazione giuridica» o, anche, operazione dichirurgia giuridica sui fatti della vita.

In questa linea di pensiero, si ritiene di perseguire un apprezzabileduplice fine, l’uno di ordine teorico, l’altro pratico: preservare innanzituttola sfera delle norme dalle “perturbazioni” dei fatti, mantenendo ferma lagrande dicotomia mondo del dover essere - mondo dell’essere; configurare,inoltre, la risoluzione giuridica dei casi alla stregua dell’applicazionerigorosa di una regola, secondo ciò che si ritiene sia la risoluzione deiproblemi secondo le leggi delle scienze teoretiche, come la matematica o lageometria. Abbiamo già incontrato in precedenza (si veda supra, par. I.5) ilgiudice-matematico o il giudice-geometra, quello che piú si avvicinaall’idea della formalizzazione della giurisprudenza e all’ideale della scienzadel diritto come scienza esatta, con quel che segue quanto a prevedibilità,stabilità, certezza delle sue soluzioni: un ideale effettivamente coltivato,soprattutto dal razionalismo giuridico del Seicento e Settecento.

Il diritto come geometria o matematica sociale rimanda alla nozione discienza o ragione teoretica. Aristotele, nel libro VI dell’Etica nicomachea,distingue scienza teoretica e scienza pratica in questi termini: la prima(epistéme) riguarda le entità che esistono di per sé, indipendentemente danoi (gli universali, le cose che esistono necessariamente, ciò che è oggettodi conoscenza dimostrativa); la seconda (phrónesis) le cose che nonesistono indipendentemente da noi e, come tali, richiedono unatteggiamento non solo speculativo (rispecchiare ciò che c’è fuori di noi)ma anche autoriflessivo (valutare noi e il nostro agire rispetto a ciò che c’èfuori di noi). Nella scienza pratica, inevitabilmente essere e dover essere,oggettivo e soggettivo, realtà e norma, si misurano e compongono“dialetticamente”. L’esempio sommo di scienza teoretica è la teologia,posto che esista un’incommensurabile distanza che separa Dio da noi e lo faessere quello che è indipendentemente da noi (a meno che, con LudwigFeuerbach 23, non si ritenga il contrario, che proprio Dio sia il piú chiaroesempio di creazione a opera degli uomini, proiettata in una sferaultramondana dove essi cercano soddisfazione alle loro domande e angosceultime, derivanti dalla loro finitezza esistenziale). Ma altri esempi sono, perl’appunto, la geometria e la matematica, le cui regole e proporzioni si

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considerano vere anche se nessuno di noi se ne occupa. Esempi di scienzapratica possono essere la politica e l’economia, le quali, nel momento in cuiformulano le proprie proposizioni o «leggi», orientano l’azione e cosícontribuiscono a formare il proprio oggetto e dunque, in certo senso, lo“vogliono” o lo “fanno essere” quello che è.

12. Interpretazione-applicazione come sola “quaestio iuris”: sillogismoe sussunzione.

I problemi propriamente giuridici che il giudice deve porsi finirebberocosí per essere solo quelli relativi alla ricognizione del contenuto dellenorme, relativi cioè alla determinazione di fattispecie giuridiche attraversole quali, come attraverso una lente, i fatti della vita vengono osservati. Ladeterminazione di questi ultimi rappresenterebbe una semplice quaestiofacti, e tra quaestio facti e quaestio iuris non vi sarebbe alcun rapporto direciproco condizionamento. E quanto piú la determinazione delle fattispecielegali è «pura», scevra cioè da influenze di fattori ch’essi ritengono nonnormativi, tanto piú questi giuristi si ritengono soddisfatti e credono che laloro sia una buona interpretazione. Per questo, massima è l’attenzionededicata ai temi dell’interpretazione (come essi l’intendono); minima oaddirittura inesistente è invece la riflessione sui casi e sul ruolo che essiassumono nell’interpretazione stessa e nell’applicazione del diritto 24. Unavolta determinata la norma, la sua applicazione al caso – tramitesussunzione o deduzione sillogistica – sarebbe «uno scherzo da bambini» 25.Sussunzione e deduzione esprimono punti di vista opposti, la prima dalfatto alla norma e la seconda dalla norma al fatto; ma non cambia laseparazione tra norma e fatto che entrambe implicano. Sempre solo lanorma è viva e il fatto è come un corpo morto che deve essere soltantoconformato alla norma. Solo la norma è esigente; il fatto è totalmenteamorfo e attende solo di essere rapportato alla norma. Che si parta dallanorma o dal fatto, non cambia la concezione dell’una e dell’altro e deireciproci rapporti. Questa è la posizione di quelli che possiamo chiamare gliunilateralisti.

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13. Quando l’interpretazione può dirsi riuscita?

Tutto ciò trascura la circostanza – il nocciolo di tutta la questione – chenel processo interpretativo davanti al giudice il fatto o, meglio – come ora sidirà –, il caso, è la molla che lo mette in moto e dà la direzione. Muovendoda esso, ci si rivolge al diritto, per interrogarlo e avere una risposta. Dalcaso, l’interprete procede e a esso ritorna, in un andamento circolare (il«circolo interpretativo») di riconduzione bipolare che trova la sua pace nelmomento in cui si compongono nel modo piú soddisfacente possibile leesigenze del caso e quelle del diritto 26. Quando il risultato interpretativonon fa violenza né all’uno né all’altro (o fa la violenza minore possibile),allora l’interpretazione potrà dirsi «riuscita». Ove vi sia conflitto insanabile,non soccorrerà piú l’interpretazione ma si dovrà mettere in discussione lanorma stessa, sotto il profilo della sua inadeguatezza, irragionevolezza,arbitrarietà, eccessiva rigidità dei suoi automatismi. L’esistenza di questicanoni di giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi dimostraun’essenziale novità nei caratteri fondamentali del diritto, nella situazionespirituale del nostro tempo: nel conflitto del diritto con il caso, cioè con leesigenze del caso, l’ordinamento sceglie queste ultime. Per ragioni di dirittovigente (non per il capriccio dell’interprete che vuole ergersi al di sopra dellegislatore), la massima centrale del positivismo acritico, dura lex sed lex, oita lex, non vale piú.

14. Il dualismo come separazione di fatti e norme.

Il dualismo di cui si è detto postula l’esistenza di un rapporto di tensionetra fatti o casi, da un lato, e norme, dall’altro: postula cioè la possibilità diun collegamento e di un reciproco condizionamento; che dal mondo dellarealtà, di “ciò che è”, nasca un’aspettativa normativa, un’aspettativa di “ciòche deve essere”. Questa aspettativa contraddice quanto la ragione mostraessere impossibile: tra i due mondi, considerati ciascuno per sé, non c’èinfatti collegamento. A partire dalla realtà, si può solo dire che una cosa è onon è; si possono enunciare solo asserzioni. A partire dalle norme, si puòsolo dire che una cosa deve essere o non deve essere; si possono enunciaresolo prescrizioni. In ogni caso: che una cosa “sia” non significa che “debba

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essere”; che una cosa “debba essere”, non significa che “sia”. Questodualismo non ammette contaminazioni tra due piani che obbediscono alogiche del tutto indipendenti. Su questo punto, che si riassume nella «leggedi Hume», ci siamo già intrattenuti (si veda supra, par. VII.1). A quantodetto, aggiungiamo solo che l’accettazione di questa «legge» implica lasconfessione dell’idea della «ragion pratica» che, invece, è fondamentalenella concezione dualista dell’interpretazione. Il sostantivo e l’aggettivosarebbero in contraddizione, come dice con chiarezza Hans Kelsen:

Noi definiamo ragione la funzione conoscitiva dell’uomo. Ma la statuizione dinorme, la legislazione, non è una funzione conoscitiva. Con la statuizione di una normanon si conosce com’è un certo oggetto già dato, ma si richiede qualcosa che deve essere.In questo senso la statuizione di una norma è una funzione del volere non del conoscere.Una ragione che statuisca norme è una ragione che conosce e al tempo stesso vuole, ècioè conoscere e volere a un tempo. È il contraddittorio concetto di ragion pratica 27.

Tuttavia, il nostro tempo conosce una rinascita della aristotelica «ragionpratica», anche con riferimento al diritto 28. Questa rinascita è collegata, ingenerale, alla grande e mai conclusa controversia sulla pretesa di a-valutatività delle scienze umane, segnata dal nome di Max Weber 29. Conriguardo al diritto, questa rinascita è funzionale ai caratteri delle costituzioniodierne che, come si vedrà tra poco, con le loro disposizioni di principio ele loro opzioni di valore orientano, prima ancora che l’interpretazione deldiritto, l’atteggiamento valutativo da assumere di fronte ai fatti 30.

15. Superamento della separazione: l’essere delle cose non come fatti,ma come casi.

Dato il rapporto di radicale separazione tra la realtà di cose-che-sono e lapretesa di cose-che-siano, la definizione di interpretazione che si è datasopra (p. 307) – ricerca della norma regolatrice adeguata sia al caso che aldiritto – risulterebbe insensata. Il caso, inteso come fatto, non esprimerebbeinfatti alcuna richiesta, non potrebbe esigere alcuna regolazione adeguata asé medesimo: la norma sarebbe la norma e l’interprete dovrebbe agire per

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un solo fine di adeguatezza: l’adeguatezza alla norma. Sennonché, la «leggedi Hume» e le conseguenze che ne derivano presuppongono che si abbia ache fare con «meri fatti», ciò che, nella giurisprudenza, è smentito dal piúforte degli argomenti, l’esperienza. Nel campo del diritto non si ha a chefare con «meri fatti», come possono essere quelli oggetto di osservazionedelle scienze naturali o delle scienze sociali descrittive (come la sociologianella sua forma piú elementare, la conoscenza statistica), fatti analizzabili intermini quantitativi e comprensibili, quando si è in grado di comprenderli,alla stregua delle leggi di causalità: il diritto ha a che fare con «fatti umani»,comprensibili in tutt’altro modo, cioè secondo categorie di senso e divalore. I «fatti umani» intesi nel loro senso e nel loro valore fornisconoall’interprete del diritto i «casi» da regolare giuridicamente e questi «casi»,come si dirà nel paragrafo che segue, sono densi di aspettative normative.Con riguardo alla giurisprudenza, il limite della «legge di Hume» e delleconseguenze che se ne traggono, sta in questo: essa parla di fatti, ma nelgiudizio giuridico non si hanno fatti, bensí casi, e tra fatti e casi occorre ora– dopo averne finora parlato in modo pre-analitico – stabilire la differenza.

16. Interpretazione come “actio duplex”.

La «ricerca della norma regolatrice, adeguata sia al caso che al diritto» èuna definizione dell’interpretazione nella quale l’actio simplex delpositivismo normativo è sostituita con un’actio duplex. La scienza deldiritto, in quanto scienza pratica, non si occupa di regole che si giustificanointegralmente in e da se stesse, regole che hanno in sé la propriagiustificazione. Il valore delle norme giuridiche si misura guardando fuoridi loro, nella capacità di regolamentazione adeguata alle aspettative che ladinamica dei rapporti sociali propone, in relazione ai casi che sonoespressione di tale dinamica. In presenza di certi casi, varranno certe norme;mutando i casi, si manifesterà la tendenza – indipendentemente dal fatto cheil legislatore provveda a cambiare la legge – a ricercarne nell’ordinamentodi nuove, diverse da quelle anteriori, regolatrici di casi ormai superati. Anzi,come è stato notato in relazione alla massima in claris non fit interpretatio,«un testo, che sulla carta o alla luce della esperienza applicativa precedentesembra chiaro, può oscurarsi di fronte alla provocazione di un nuovo

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caso» 31, ove per «nuovo» deve intendersi sia ciò che finora mai si èverificato, sia ciò che, pur già verificatosi nella sua materialità, appare orasotto una nuova luce problematica.

I principî morali non falliscono il loro scopo né entrano in crisi perchél’evoluzione delle aspettative sociali li contraddice: essi esprimono valoriassoluti ed è perciò comprensibile che valgano indipendentemente dai casi.A meno che la morale relativizzata si giuridifichi anch’essa snaturandosi 32,la percezione del valore delle sue norme aumenta, anzi, in proporzionediretta con l’allontanamento della vita sociale. Tanto piú ci si allontana,tanto piú se ne avverte la forza moralmente cogente. Le condizioni socialipotranno, se mai, influire sulle modalità di attuazione dei principî dellamorale, non sul loro contenuto. La regola giuridica, invece, si caratterizzaprecisamente in questo: nel non aspirare a un’astratta e immobile giustizia,ma alla composizione nel modo piú adeguato possibile (adeguato a checosa, è altro e successivo problema) della convivenza umana.

17. Interpretazione evolutiva.

Quando il diritto, per come anteriormente interpretato, non risulta piúidoneo a questo fine, il caso nuovo preme attraverso l’interpretazione,affinché nell’ordinamento si ricerchi una norma nuova e piú adeguata. Inquesto senso, si può parlare di «produttività del caso concreto» 33,produttività che è alla base e spiega la cosiddetta interpretazione evolutiva.

Solo nelle situazioni storiche statiche questa pressione svolta dal casosulle norme giuridiche può non essere avvertita, riscontrandosi allora unarresto del flusso innovatore delle interpretazioni, arresto che deriva dallastaticità delle esigenze cui il diritto deve provvedere; solo alloral’interpretazione può scambiarsi per un’attività unilaterale, concentrataunicamente sul diritto. Ma nemmeno in queste situazioni vi sarebbeirrilevanza del caso, ai fini dell’interpretazione. Semplicemente, esso, nonsollevando in quel momento problemi inediti, farebbe passare sotto silenzio,nasconderebbe il giudizio di senso e di valore che lo riguarda. Ma chipretendesse di fermare l’interpretazione di fronte alle trasformazioni sociali,chiudendola in un gioco intellettivo puramente interno all’insieme dellenorme, pretenderebbe in realtà che tali trasformazioni si fermassero,

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assegnando al diritto una funzione di blocco che esso non ha mai potutosvolgere e che sarebbe assurdo pretendere che svolgesse.

18. Casi vivi.

I casi premono dunque sul diritto 34. Ma che cosa è, propriamente, il casoche pretende di cadere sotto una regola adeguata? Di nessuna norma, di persé, può dirsi ch’essa sia adeguata o inadeguata a un caso; né di un caso puòdirsi ch’esso pretenda una norma adeguata, finché esso sia inteso comemera situazione di fatto. Il mero fatto, come si è visto in precedenza, èmuto, morto, non avanza pretese. Il punto cruciale dell’interpretazionegiuridica è che il «caso» non è puro accadimento ma «accadimentoproblematico». Cosí considerato, esso solleva interrogativi: precisamentegli interrogativi che devono risolversi attraverso una risposta giuridica. Ilnudo fatto incomincia a porre domande quando ha di fronte a sé qualcunoche a esso deve «reagire» e questo «qualcuno» lo comprende (nel senso incui tale parola indica un’attività irriducibile a quella dello “spiegare”,secondo sequenze di cause ed effetti che legano i fatti) attribuendogli un«senso» o significato, per mezzo delle proprie categorie di significato, e un«valore», per mezzo delle sue categorie di valore. Il fatto, allora, diventa«caso» attraverso l’inevitabile comprensione di significato e valore da partedi colui che è chiamato a dare risposte in termini di diritto.

La comprensione di senso o di significato consiste nella percezione diciò che il mero fatto rappresenta dal punto di vista della vita sociale. Ogniindividuo e ogni società dispongono di categorie in cui gli avvenimenti cheli riguardano vengono inquadrati per essere compresi, affinché si possarispondere alla domanda: non semplicemente, che cosa sta accadendo? mache significa ciò che sta accadendo? Nessun individuo, nessuna societàumana può esistere se non ha risposte a questa seconda domanda. Lamancata risposta e l’incapacità di decifrare gli avvenimenti sono causa didisorientamento, angoscia e terrore, come di fronte all’inatteso eall’enigmatico. L’esistenza degli esseri umani e delle loro società è unaperenne attribuzione di senso e di valore alle cose e alle azioni o, dettoaltrimenti, è un’incessante operazione di astrazione e generalizzazione disignificanza dalle cose e dalle azioni.

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Questa operazione, che in una vita individuale e collettiva solidamentestrutturata dà normalmente risultati convergenti, in momenti instabili ocritici può dar luogo a risultati diversi e, addirittura, confliggenti. Unostesso fatto, prima ancora di introdurre i valori nel giudizio, può essereinteso in sensi profondamente diversi, generando con ciò un conflittointerpretativo. Il senso dell’atto può essere dunque problematico. Nonsempre e non tutti gli atti, gli avvenimenti, si prestano a essere intesi in unsolo e univoco senso. Anzi, in una società aperta, i sensi o significati dellecose sono anch’essi aperti al multi-intendimento e, dunque, al fra-intendimento.

19. Il senso come significato sociale: esempi.

Per “senso” o “significato” si deve intendere qui la connessione traun’azione, una parola, un’espressione e il loro prodotto sociale. Lacomprensione del senso o significato oggettivo di un’azione, cioè della sua«logica sociale» 35, si ha sempre solo in connessione con ciò che essa èidonea a determinare nella sfera plurisoggettiva che la riceve. Questaconnessione non è determinata dal diritto, ma è presupposta: è una condiciosine qua non dell’applicabilità delle norme che sfugge alla capacitàregolatrice del diritto. Le norme giuridiche rispecchiano necessariamentel’assunzione di un determinato significato sociale dei fatti ch’esseprevedono ma, per l’appunto, lo assumono e non lo determinano. Quando sicrea uno scarto o una contraddizione tra l’assunzione di senso da parte dellegislatore e il significato di cui il fatto è dotato socialmente, questa èl’ipotesi di una legge inadeguata al caso, nel linguaggio della nostra Cortecostituzionale: è un caso di manifesta irragionevolezza. Le categorizzazionidi senso del legislatore cedono dunque di fronte a quelle che vigono nellasfera sociale.

Lo stesso fatto materiale della morte procurata può essere inteso in moltidifferenti significati: come mezzo rivolto contro la vita altrui (omicidio),oppure contro le sofferenze altrui (eutanasia); contro la degenerazione dellaspecie umana (eugenetica) oppure come strumento o prezzo, anche nonvoluto («effetto collaterale»), della guerra; oppure come difesa di un beneprimario proprio o altrui (legittima difesa), o come sanzione di un delitto

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(pena capitale), o ancora come prezzo della sperimentazione medica suesseri umani per il bene futuro di altri esseri umani; oppure come misura dicontenimento della sovra-popolazione o come interruzione volontaria dellagravidanza a tutela dei diritti della donna o come soppressione d’una vita infieri; infine, come via obbligata per l’espianto di organi utilizzabili pertrapianti, quando l’attività cardiocircolatoria ancora non è interrotta.

Nella seconda metà del mese di gennaio 1998 si compí la tragedia diGabriele, un bimbo nato senza cervello che i genitori, nella certezza ch’eglinon sarebbe sopravvissuto, vollero ugualmente che venisse alla luce perpoter donare i suoi organi ad altri bambini in attesa di trapianto. Il 28, dopodue settimane di vita artificiale, si arrestarono i supporti tecnologici che lomantenevano alla sua vita vegetativa, e si provvide all’espianto del cuoreche viene impiantato nel piccolo Maurizio, appena nato con una letalemalformazione cardiaca. Che cosa fu: un atto d’amore o un’efferatacrudeltà, la produzione di “materiale organico” per mezzo di un essereumano ridotto a “materia prima”?

L’acquisto di minori, figli di genitori indigenti, può essere considerato uncommercio di bambini, oppure atto benefico rivolto a migliorarne lecondizioni di vita, oppure ancora la soddisfazione di un’esigenza affettivadegli adulti acquirenti che se la possono permettere 36?

La costrizione fisica e psichica di un tossicodipendente può essere vistacome mezzo di sopraffazione della sua libertà o come mezzo per liberarloda un’altra e piú profonda sopraffazione. La questione fu discussa a metàdegli anni Ottanta del secolo scorso, a proposito del «caso di SanPatrignano» 37.

Il crocifisso esposto in un luogo pubblico può essere inteso comeriferimento a una tradizione politico-religiosa; come simbolo dellapredominanza di una fede sulle altre; come richiamo del messaggio diconciliazione e amore tra gli esseri umani contenuto nel Vangelo di GesúCristo e persino come rappresentazione sintetica dell’insieme dei valori suiquali l’ordinamento costituzionale si basa 38. Oppure, si può pensare a un«simbolo muto» o «vuoto» che, di per sé, non dice nulla, cosicché tuttiquelli che lo guardano lo possono intendere a modo loro, anche solo comela riproduzione di un uomo che pende da una croce 39.

Il velo islamico indossato in Occidente può essere considerato un segnodi identità e appartenenza, a difesa delle donne di cultura islamica contro

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l’omologazione nella cultura dominante; oppure un segno dell’oppressionemaschile sul mondo femminile in quella cultura; oppure, ancora, unadichiarazione di ostilità, portatrice di provocazione ideologica e poi forse diviolenza materiale, contro i modi di vivere delle società occidentali.

Qualche tempo fa, la storia d’amore tra un giovanissimo studente e lasua matura professoressa si considerava simile a un plagio. Oggi (maggio2017), un presidente di una Repubblica vicina a noi ha fatto di questa storiaun argomento a suo favore nella campagna che ha portato alla sua elezione.

Eccetera, eccetera, eccetera. Qualunque lettore potrebbe portare altriesempi ed è anzi esortato a farlo. Si accorgerebbe come sono variabili imodi d’intendere i fatti della vita. Del resto, già Erodoto di Alicarnasso, neisuoi resoconti di viaggio raccolti sotto il titolo di Storie, ci aveva mostratol’infinita varietà e relatività dei costumi degli uomini, e Michel deMontaigne, nei suoi Essais (1589-92), ha magistralmente documentatocome gli stessi fatti possono essere intesi diversamente dagli uomini, per ilsemplice fatto di abitare al di qua o al di là d’un fiume o di una catenamontuosa.

20. Attribuzioni di senso e limiti della legge.

Sulle controversie di senso intervengono il legislatore quando intendestabilire una norma ad hoc, e il giudice quando occorre dirimere unacontroversia. Questo legislatore o questo giudice non determinano il senso enon lo possono imporre, ma semplicemente lo prescelgono, tra quelli che sicontendono il campo delle interpretazioni dei fatti sociali e che continuanoa contenderselo, anche dopo che la norma è posta o la sentenza èpronunciata. Le contese di senso non sono affatto fermate definitivamente,poiché esse vivono di ragioni proprie, la cui natura precede il diritto, e sonodi natura essenzialmente culturale, tali che da nessuna legge e da nessunasentenza, in una società libera, potranno mai essere fermate (potranno forseessere soffocate, ma in società illiberali, oppressive). Rispetto alla legge, leperduranti contese sul senso, una volta che il legislatore abbia legiferato, sitrasformano da controversie sulla legge in controversie sull’interpretazionedella legge, secondo la concezione di questa come ricerca della normaadeguata al caso e alla percezione del suo senso.

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Il positivismo legalista, che riduce la vita concreta del diritto allameccanica sussunzione del fatto nello schema legale o nella deduzionesillogistica della conseguenza concreta dalla previsione legale astratta,ignora o, meglio, intende spegnere tutto ciò che s’è ora detto. La fattispecieconcreta sarebbe infatti solo un insieme di bruti dati di fatto, deprivati diogni significato culturale, da confrontare con la fattispecie legale. Ma chel’interprete operi cosí ciecamente è una pretesa semplicemente impossibile,perché contro la natura del giudizio rimesso a esseri umani facenti parte dicomunità che sono necessariamente comunità-di-senso. Il giudice e, ingenerale, il giurista, per non dire ogni “essere umano riflessivo”, sonocostantemente e inevitabilmente immersi in contesti di senso: ogni atto ofatto di fronte al quale vengano a trovarsi e ogni situazione su cui devonoportare il loro giudizio appaiono sempre e necessariamente sotto l’aspetto disignificato della cosa e della situazione, e non come cosa e situazione in- oa-sensate. Poiché l’interpretazione del diritto è attività umana, e fino a tantoche tale sarà, in attesa che qualcuno riproponga qualche macchinagiudicante, secondo un’idea da folli che ogni tanto riemerge, la pretesa delpositivismo legalista di considerare i fatti come «meri fatti», oltre chearbitraria è anche impossibile.

21. Dal senso al valore.

La comprensione del senso conduce e condiziona la comprensione divalore, in vista del giudizio. Si tratta di due momenti logicamente distintima collegati. Innanzitutto, la categorizzazione di significato mette in azionecerti valori e non altri. Non è indifferente, rispetto al valore, che, perriprendere un esempio già fatto, la soppressione di una vita sia intesa comepuro e semplice atto contro la vita stessa, o come mezzo di controllo elimitazione delle nascite, o come mezzo per impedire la prosecuzione disofferenze insensate, o come atto di autodifesa, oppure come operazioneeugenetica. La valutazione secondo il valore e la comprensione di sensosono dunque due momenti collegati. Tuttavia, sono separabili e da teneredistinti concettualmente. Lo si può constatare osservando che, in ipotesiassumendo concordemente – ad esempio – che la soppressione della vita delfeto sia un mezzo per contrastare l’esplosione demografica; oppure che la

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sospensione di trattamenti medici sia la fine di sofferenze senza speranza;oppure ancora che l’eliminazione di esseri umani portatori di malattiegenetiche riproducibili nel succedersi delle generazioni sia una profilassipreventiva; accade tuttavia che uno consideri il controllo delle nascite o lapolitica per il miglioramento della specie umana o la sospensione, in certicasi di sofferenza, dei trattamenti medici senza alcuna prognosi favorevole,buona e necessaria cosa, e un altro cattiva e pericolosa, cioè un beneficio afavore dell’umanità, o una bestemmia contro Dio o contro l’umanità.Dunque, si può fissare questo punto: la comprensione del significato è lapremessa dell’attribuzione del valore, pur trattandosi di due momentilogicamente distinti. Senso e valore, quindi, sono cose diverse, mas’intrecciano indissolubilmente.

Logicamente distinti, dunque, ma inestricabilmente legati econdizionantisi reciprocamente. Restiamo, ai fini dell’esemplificazione, altema della vita e della morte. Chi assume la vita umana come valore sommoin tutte le sue manifestazioni, anche in quelle meramente biologiche, nonfarà differenze di senso, di fronte alla morte procurata, quale che siano lesituazioni: sempre omicidio sarà, sia che si tratti di uccisione di un nemicoo di un estraneo in guerra; di esecuzione di una condanna alla pena capitale;di distacco dalla vita di un essere senza speranza, privo di coscienza esofferente; di soppressione di un embrione umano, ecc. Al contrario,l’adesione a valori diversi comporterà l’adozione di diverse categorie disenso. La difesa della libertà, dell’indipendenza o la potenza della patria,come valori preminenti, faranno sí che il fatto dell’uccisione in esecuzionedi attività belliche sarà considerata cosa diversa dall’omicidio comune,perfino come atto di eroismo; la difesa della società dal crimine, come benesupremo, comporterà la distinzione di senso e valore tra l’omicidio di stradae la sedia elettrica o l’iniezione letale per il condannato a morte; la pietàverso i sofferenti senza speranza, come valore prevalente, comporteràanch’essa che la morte procurata si consideri non come omicidio, ma comeeutanasia, ecc.

Si noti che i conflitti sull’attribuzione di senso e di valore conduconospesso a utilizzare termini diversi per indicare i medesimi fatti, cioèpromuovono usi partigiani del linguaggio: non hanno lo stesso contenutovalutativo parole come aborto o interruzione volontaria della gravidanza;soppressione di malati terminali o eutanasia; giustiziare o uccidere un

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condannato a morte, ecc. Da qui, l’avvertimento: ogni qual voltaverifichiamo che i medesimi fatti materiali, nel linguaggio comune, sonoindicati con termini diversi, lí è probabile che si nasconda un conflitto; lí lasaldezza del diritto legislativo è messa in forse.

22. Il caso come fatto interpretato.

In un certo senso, dunque, anche il caso deve essere interpretato 40, inquanto deve attribuirglisi un significato e un valore. La «categorizzazione disenso e di valore» dei fatti è quanto muove l’interpretazione del diritto,poiché da essa scaturiscono le domande alle quali l’interprete deve darerisposte in termini giuridici, ricavandole cioè dall’ordinamento giuridico.Questa categorizzazione è quanto si denomina «precomprensione», perindicare anticipazioni e attese che richiedono di essere confermate intermini di diritto. L’anticipazione e l’attesa racchiuse nel caso valgono aindicare in linea di massima e provvisoriamente il tipo di soluzione chenella situazione specifica si richiede, un’anticipazione e un’attesa chenecessitano di conferme al di là della prima comprensione soggettiva, cheindicano soltanto la direzione della ricerca che deve essere compiuta. Sipotrà dire, con Luis Borges 41, che, stando cosí le cose, lo sguardodell’interprete che si rivolge al diritto non è puro, ma è pregiudicato:«qualcuno osserverà che le conclusioni precedettero senza dubbio le“prove”. Ma chi si rassegnerebbe a cercare prove di cose che già non credae di cui non gli importi?» Questa è la risposta che si può dare a coloro che,seguendo la legge di Hume, insistessero nel ridurre i casi della vita a merifatti inerti e a ritenere conseguentemente insensata la definizionedell’interpretazione come adeguazione reciproca di casi e norme.

Quanto precede significa aprire la strada all’arbitrio? Significa checiascuno è autorizzato a procedere secondo le proprie categorie a quellacomprensione preliminare che, come abbiamo visto, orienta l’attivitàdell’interprete? Se fosse cosí, che fine farebbero le attese di certezza,oggettività, prevedibilità, stabilità, ecc., che da sempre sono associate aldiritto e che le concezioni unilaterali dell’interpretazione promettono diassicurare nella misura maggiore possibile? La domanda apre allo sguardoproblemi difficili, ma non li si risolve semplicemente ignorandoli, come

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fanno coloro che, per allontanare i pensieri spiacevoli e le crepe che lasemplice osservazione della pratica apre nelle loro costruzioni, tuttopensano di poter ridurre alla oggettività della norma e nulla concedere allasoggettività della percezione dei casi. Questa è semplicemente falsacoscienza, come dimostra il fatto che anche l’appello alla piú rigorosainterpretazione della legge, l’interpretazione esclusivamente letterale, puònascondere (ma con una menzogna) la piú impellente ragione sostanzialeche muove nella considerazione del caso da regolare. Anzi: la lettera strettadella legge può essere l’occasione del piú spudorato “cavillo” (a fin di beneo a fin di male, non è questo il problema), come mostra il giudizio di Porzianell’affare Shylock-Antonio nel Mercante di Venezia di WilliamShakespeare.

23. Soggettività e tipi diversi d’interpretazione.

La comprensione di significato e valore può appartenere alla sferaesclusivamente soggettiva, ad esempio, nella creazione artistica, dovel’artista è pienamente abilitato – è anzi chiamato dalla sua arte – a nonriposarsi sulla routine dei canoni estetici ricevuti, nella comprensione delsenso e del valore dell’oggetto della sua creazione artistica. Egli è chiamatoa sempre nuove ricerche e provocazioni, se non vuol passare per uno privodi personalità. Ma un simile atteggiamento non può appartenere al mondodel diritto che dal soggettivismo interpretativo sarebbe puramente esemplicemente distrutto. La libertà di comprensione di senso e valore non ècompatibile con l’ordine giuridico delle società. Esso deve necessariamenteappoggiarsi su visioni obbiettive comuni dei fatti sociali. In assenza, sideterminerebbe solo la contrapposizione di orientamenti, tutti ugualmentesoggettivi, e il caos prenderebbe piede nel diritto che, da luogo dicomposizione delle controversie, diverrebbe terreno di coltura di conflitti.

Ciò che piú conta, nell’interpretazione dei testi giuridici, è il contestoculturale. Non c’è società senza cultura, cioè senza comunanza di visioni disenso e di valore dei fatti che la investono e richiedono di essere compresi;non c’è, al contrario, cultura senza società, cioè senza una struttura socialecapace di sviluppare comprensioni collettive dei medesimi fatti 42.

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Se a determinati fatti o eventi consegue un’identica comprensione disenso e di valore, saremo in una società monoculturale; se, nell’ambito diuna medesima visione del mondo, esistono diverse comprensioni deglistessi fatti ed eventi, saremo in una società pluralista; se, infine, siconfrontano diverse visioni del mondo, saremo in una societàmulticulturale. La coincidenza delle valutazioni anticipatorie che muovonol’interpretazione sarà massima nel primo caso, assente nel terzo. Nel primocaso, anzi, mancherà la stessa consapevolezza di queste valutazioni, a causadel loro carattere irriflessivo, automatico. Negli altri casi, invece, laconsapevolezza sarà imposta dalle forze predominanti nel contesto culturaledisomogeneo pervaso da tensioni che raggiungeranno il punto massimoquando interi sistemi culturali si contrappongono. La giurisprudenza stadentro questi contesti, come è dimostrato dai conflitti cui l’interpretazione el’applicazione del diritto danno sempre piú spesso motivo per esplodere neltempo attuale. Si considera “buona giurisprudenza” quella che si colloca inciò che è stato denominato «orizzonte di attesa» (Erwartungshorizont)culturale. Non si tratta di alimentare e giustificare gli atteggiamenticonformistici dei giuristi. La considerazione di tale orizzonte è, invece, «unmomento essenziale di comunicazione e di controllo dei motivi delladecisione» 43 secondo parametri non effimeri, capaci di radicarsi e quindi, incerto senso, oggettivi. La cattiva giurisprudenza, invece, è quella che ne stafuori solitariamente, come se non ne avesse bisogno 44. Il contesto culturale,se unitario, favorisce l’uniformità delle interpretazioni e permette, in caso didivergenza, di distinguere tra di loro quelle accettabili e quelle che i giuristidenominano significativamente «ab-erranti» (cosa diversa dalleinterpretazioni semplicemente «erronee»). I giuristi non amano riconoscereche, quando però il contesto è percorso da conflitti, la loro giurisprudenzane è inevitabilmente coinvolta.

24. Domande.

Questo ricorso alla cultura in quanto contesto del diritto significa, incerto modo, immettere le attese sociali nell’interpretazione giuridica. Ma seil contesto culturale non è univoco, se non uno, ma numerosi «orizzontid’attesa» sono all’opera con le loro aspettative, le loro lusinghe e forse

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anche i loro ricatti, non dovremmo rassegnarci alla frantumazione dellagiurisprudenza e, con essa, alla dissoluzione del diritto come ordinamento?Non dovremmo rassegnarci a subire le assunzioni soggettive di senso e divalore dei giudici, privati dalla garanzia di saperci partecipi del medesimocontesto di cultura? Se non possiamo contare sulla garanzia di strutturecomuni di senso e di valore che si formano e si trasformano attraversoesperienze, lezioni e tempi lunghi della storia, siamo forse condannati asottostare a qualunque imprevedibile alzata d’ingegno “creativo”, che sioppone al contesto, magari in nome di rispettabilissimi valori morali, macon effetti soltanto polemici; oppure, al contrario, dobbiamo rassegnarci altriste conformismo d’una giurisprudenza che si fa forte del «senso comune»piú influente e riduce la sua funzione a «un indecoroso guardare con la codadell’occhio il favore del pubblico» 45 o il consenso dei piú forti? Perduto ilterreno comune, siamo condannati a subire questa alternativa:l’improvvisazione o il servilismo? Come potremo ancora credere allagiurisprudenza e alla sua funzione di garanzia obbiettiva del diritto (ilcontrario dell’improvvisazione) e di protezione dei diritti (il contrario delservilismo)?

Sono domande destinate a rimanere senza risposta da parte dei giuristi.Qui, però, entra in gioco la costituzione. Come s’è detto in precedenza,essa, soprattutto attraverso le sue norme di principio e di valore, è il quadroculturale entro il quale deve stare l’interpretazione sia dei casi che deldiritto. Anch’essa, tuttavia, è oggetto d’interpretazione e, dunque, il terrenod’unificazione culturale ch’essa offre è anch’esso sottoposto alle tensioniche derivano dall’evoluzione della cultura e dalle fratture che in essastoricamente si verificano. Non è dunque la soluzione definitiva, ma è giàqualcosa, sempre che la costituzione sia presa dagli interpreti come unacosa seria.

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Capitolo decimoIl diritto e i suoi limiti

1. Modestia e presunzione della legge.

Iniziamo ora a considerare l’estensione del campo giuridico e i suoilimiti, dal doppio punto di vista di ciò che può starci dentro e di ciò che nonsi riesce a farci stare dentro. Inclusione ed esclusione.

Prendiamo spunto da un’espressione che è diventata addiritturaproverbiale, attribuita a un ammiratore della costituzione inglese cheabbiamo già incontrato, Jean-Louis De Lolme, il quale pubblicò nel 1771un’opera a suo tempo famosa, Constitution de l’Angleterre. Èun’espressione «grottesca» 1, corrente tra i giuristi inglesi del temposuccessivo al Bill of Rights del 1689: il Parlamento [la legge delParlamento] può fare qualsiasi cosa, salvo che trasformare un uomo indonna (e una donna in uomo) 2. Era un modo di banalizzare il principiodella Sovereignty of the Parliament. Si voleva dire con una boutade che lalegge non poteva ignorare le leggi della natura ma, per il resto, cioè in tuttociò che dipende dall’opera dell’uomo, poteva estendersi liberamente; cioèpoteva operare senza limiti di materie e di persone.

Dal punto di vista giuridico, quel detto è perfettamente sbagliato: lalegge, infatti, può tranquillamente operare quella trasformazione, cioè puòimporre di considerare e di trattare l’uomo come donna e viceversa, oppuretrattarli indipendentemente dal sesso o come soggetti asessuati, salvoverificare la ragionevolezza del trattamento (cosa che i fautori dellanaturalità della divisione sessuale, infatti, contestano citando quella frase,per esempio a proposito della legalizzazione delle unioni omosessuali). Noninteressa qui il rapporto tra “verità legali” e “verità naturali”, cioè ilsignificato del “può” e del “non può”. Ammettiamo che “possa”, nel sensoanzidetto di “essere capace di”. Ci interroghiamo, invece, sul “può” e “nonpuò” in altro senso: nel senso di “essere autorizzato” a travolgere tutti i

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limiti che vuole e a ricondurre al diritto ogni diversa sfera di relazionisociali (economiche, culturali, sentimentali, ecc.) subordinando a sé edeventualmente annullando le ragioni che valgono in quelle sfere. Il discorsosugli spazi e sui limiti della legge riguarda la sua tendenza all’espansione:necessaria, forse, o, forse, eccessiva e omnipervasiva e, per cosí dire,onnivora dal punto di vista della complessità e della spontaneità dellerelazioni sociali. Tante leggi, ma utili e necessarie, oppure inutili einopportune?

Per dare un ordine alle prossime considerazioni, seguiremo questatraccia, trattando dell’estensione della legge con riguardo al suo spaziorispetto agli artifici di cui sono capaci gli esseri umani, alle relazioni socialich’essi stabiliscono tra di loro e alle loro convinzioni morali. Rispetto agliartifici, alle relazioni sociali e alle convinzioni morali i confini del dirittosono storicamente variabili ma, tuttavia, esistono. Se li si ignora, laconseguenza è l’inconcludenza o la perturbazione delle esistenze.

2. Espansione del campo giuridico.

Lo spazio del diritto sono le opere degli uomini: «nulla di ciò che èumano può essere considerato estraneo al diritto» 3. Rispetto al tempo dellafrase sopra citata di De Lolme, e anche a quella assai piú recente appenaricordata, le opere degli uomini si sono grandemente estese e hanno erosoprogressivamente il dominio della natura. l’“artificiale” insidia il“naturale”. La vita degli esseri umani dipende (nel bene o nel male) semprepiú dalle loro scienze e tecniche che riguardano ormai non solo la vita delsoma, ma anche quella della psiche, che inizia a diventare dominio delleneuroscienze e delle neuro-pratiche. Ma, anche la vita di quel tale,straordinariamente complesso, essere vivente che è la terra oggi dipende(nel bene o nel male) dalle opere dei suoi figli. Tradizionalmente, il“naturale” si concepiva come il dato primario, come ciò che viene primadell’“artificiale”. La strada su cui siamo incamminati ci fa intravedere,invece, un mondo in cui ci sarà posto solo piú per l’artificio o, meglio, unmondo in cui sarà l’artificio a rendere possibile quella che una volta era lavita naturale. Se fosse vero – come s’è detto – che «la natura umana èl’artificio», l’artificialità dell’esistenza umana in entrambe le sue

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dimensioni, somatica e psichica, finirebbe per confondersi con la sua totaleartificialità. La stessa riduzione varrebbe per la vita del cosmo nella qualesiamo immersi. Cosí, l’umanità tecnologicamente sviluppata si è assunta ilcompito immane di reggere da sola il mondo che, in passato, poggiava suindiscusse sue proprie “leggi”. Il che, ragionando sulla distinzionearistotelica natura-artificio 4, piú che un paradosso, è un parossismo che cideve mettere all’erta: anche l’intelligenza artificiale, capace di espandersi,fecondarsi e riprodursi sempre piú potentemente, tale da assorbire eannichilire la povera intelligenza degli uomini, sarebbe ancora “natura”?Non proviamo inquietudine al solo pensiero?

Queste sono «considerazioni morali». Dal punto di vista giuridico, lagrande espansione della scienza e della tecnica significa che sono cadute estanno cadendo molte delle barriere che un tempo costringevano ariconoscere che, di fronte alle dure leggi della natura, «non c’è niente dafare». Oggi, invece, c’è sempre piú da fare. Le leggi della naturaretrocedono di fronte all’artificio che, per non vagare insensatamente,dev’essere assoggettato anch’esso a una legge: non potendo essere la leggenaturale, dovrà essere la legge artificiale, cioè la legge giuridica: artificialecome artificiali sono le opere degli uomini ch’essa si dispone a regolare. Difronte alla legge si spalancano campi un tempo inimmaginabili.

3. Saturazione dello spazio fisico, sociale e morale.

Quella anzidetta è l’espansione degli spazi a disposizione delle leggigiuridiche, a danno delle leggi naturali. A essa si associa l’occupazionedello spazio sociale. Espansione e occupazione operano congiuntamenteprovocando un’esplosione delle leggi quale mai finora si era verificata. Ilmondo contemporaneo è saturo di leggi.

Che cosa intendiamo per saturazione? Innanzitutto, un concetto spaziale:il demografo Massimo Livi Bacci 5 ha mostrato, dati alla mano, che a causadell’aumento della popolazione mondiale, il pianeta si è ristretto di millevolte negli ultimi diecimila anni, i contatti e i traffici tra gli esseri umanisono migliaia di volte piú veloci, il consumo delle risorse energetiche si èmoltiplicato fino al punto di insidiare gli equilibri ecologici. Quando siparla di «globalizzazione», questo ne è uno degli aspetti salienti. Contro la

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prima apparenza, il mondo globalizzato non è un vasto mondo; è un mondopiccolo, chiuso, che sta stretto: anzi, sta sempre piú stretto a causa dellecrisi per sovrapopolazione e per esplosioni demografiche in vaste parti delpianeta (a meno che, come di tempo in tempo è annunciato, non ci sirivelino realisticamente nuove frontiere in spazi siderali abitabili, dove siapossibile trasportare, esportare o deportare le masse d’individui insovrappiú, e cosí aprirsi a un nuovo «nuovo mondo»). La società mondialeglobalizzata occupa tutto lo spazio e, non essendocene altro, è avvolta,stretta e costretta. La celebre distinzione di Karl Popper tra società aperte esocietà chiuse 6 ha certamente a che vedere con visioni del mondo, ma èinnanzitutto una distinzione tra opzioni ideologiche possibili solo acondizione che gli spazi disponibili alla vita delle società siano a loro voltaaperti. In mancanza, le società si chiudono inesorabilmente, assegnando aciascuno posti fissi, nemici della libertà naturale. Appartiene alla nostrapreistoria il tempo in cui si poteva cercare la propria felicità in spazi vuoticome quelli «all’Ovest» che nell’Ottocento si offrivano ai coloni americani.La Dichiarazione d’indipendenza delle tredici colonie britanniche sullacosta orientale dell’America del Nord poteva proclamare il «diritto allalibera ricerca della felicità» perché alle loro spalle si estendeva unvastissimo territorio considerato vuoto. Quella ricerca – pensavano – nondava fastidio a nessuno perché c’era posto per tutti (a parte la popolazioneindigena, vittima di uno dei tanti genocidi che segnano le storie dei popolisulla terra). Dove si potrebbe riproporre oggi un analogo «mito dellafrontiera» 7?

Il concetto spaziale deve, però, essere integrato da un aspetto qualitativoche si allaccia alle osservazioni precedenti circa la potenza delle opere degliuomini, generata dalla scienza e dalla tecnica, oggi potentemente alimentatedall’economia e dall’ideologia dello sviluppo. Difficilmente possiamoimmaginare ai nostri giorni opere degli uomini che non producano effetti erisonanze sugli altri uomini o, addirittura, sull’umanità tutta intera che viveoggi e che (forse) vivrà in futuro. Occorre regolarne le interferenze,renderle compatibili le une con le altre, impedire le prevaricazioni,premunirsi contro i disastri collettivi o globali. Secondo la teoria modernadella libertà, alla libertà individuale era consentito di espandersi fino aquando non interferisse con quella altrui. La libertà, dice la Costituzionerivoluzionaria del 1791, consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce agli

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altri, e questa definizione è confermata nella Costituzione giacobina del1793. Cosí, la libertà, sintesi di tutti i diritti, si basava sull’isolamento diciascun soggetto da ciascun altro e, alla fine, dalla società stessa. Era ildiritto all’isolamento, il diritto dell’individuo che operava limitatamente ase stesso. La funzione della legge, secondo questa concezione che, comesappiamo, si trova elaborata in Kant, è espressa nell’articolo 5 dellaDéclaration del 1789, in questi termini: «la legge non è che il diritto divietare le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla leggenon può essere impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essanon impone».

La legge, secondo questa concezione, dovrebbe dunque essere soltanto«norma di collisione» che garantisce la libertà tra i diversi ambiti diautorealizzazione, cioè impedisce la sovrapposizione della libertà dell’unosulla libertà dell’altro. Questa concezione presuppone che esistano “spaziaperti” alla signoria della volontà particolare: “aperti” in quanto non sianoda temere collisioni con la libertà altrui. Perciò, si poteva ben sostenerecome principio generale che ciò che non è vietato dalla legge è perdefinizione permesso, ossia rientra nella libertà naturale dei soggetti cheagiscono alla ricerca della propria felicità, una ricerca che non danneggianessuno. La legge era un’eccezione; era l’eccezione alla libertà. Illegislatore, per potere pretendere di limitare legittimamente la libertànaturale, doveva poter dimostrare che questa, lasciata a se stessa, avrebbenuociuto a qualcun altro o a tutti gli altri.

È ancora cosí? Faremo tra poco qualche esempio, ma fin d’ora possiamoessere sicuri nel dire che, nella società odierna nella quale l’artificio umanoopera con potenza mai conosciuta nel passato, le attività che non provocanoripercussioni sulla vita di altri o di tutti si riducono progressivamente e,quindi, cresce la necessità di regolare le “collisioni delle libertà”. Questa èla condizione che può definirsi come saturazione. La saturazione è lacondizione in cui la massa di elementi interdipendenti compresi e compressiin un ambiente chiuso sta in equilibrio precario, costantemente minacciatodal caos o dal collasso derivante da qualche sommovimento imprevisto.Ecco il punto: quanto piú ci avviciniamo a quella condizione, tanto piúcresce il bisogno di leggi, “leggi di collisione”. Per evitare l’esplosionedello spazio saturo, abbiamo l’esplosione delle leggi. Poiché i fattori dellasaturazione sono sovranazionali, le “leggi” di cui si parla non sono solo

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quelle prodotte dagli Stati, ma anche e sempre di piú quelle elaborate inambito internazionale (trattati e convenzioni).

4. Esempi.

Se cerchiamo una rappresentazione evidente, impressiva, non realisticama tragicamente reale di che cosa significa la saturazione degli spazi,rivolgiamoci innanzitutto alle centinaia di migliaia di persone che, mossedalla necessità di sopravvivenza ed espulse dai loro Paesi, si accalcano aiconfini d’altri Paesi in masse che non sanno dove andare e sopravvivono incondizioni subumane. Quasi una nazione informe, respinta ma nonriconsegnata ai Paesi di partenza, e quindi sospesa in non-luoghi comestazioni ferroviarie, giardini pubblici, centri provvisori di transito, non si saper quanto tempo e per quale destinazione, baracche e tendopoli provvisoriesorte nel fango o nella calura, in attesa di smantellamento. In questi casi, sicreano spazi per queste masse di esseri umani, ma non sono spazi liberi:sono piuttosto campi di concentramento. Qui si vedono gli effetti globalidelle azioni umane: sfruttamento intensivo di porzioni della terra, guerre,inquinamenti e rottura degli equilibri ambientali, mutamenti climatici; aquesti, seguono spostamenti di parti dell’umanità in spazi chiusi o che sichiudono; tensioni crescenti, politiche che si esprimono in leggi nazionali einternazionali per contenerne gli effetti esplosivi.

Dagli anni Ottanta del secolo scorso si è sviluppata una tecnologiainformatica di raccolta dati e di comunicazione dalla potenza che pareillimitata. Un prodigio della scienza e della tecnica digitale che ha avvolto ilmondo. Nel 1964, lo studioso delle comunicazioni di massa MarshallMcLuhan aveva parlato di «villaggio globale» e sembrava una profezia, edora eccolo qua. Il mondo si è ristretto: le notizie, le comunicazioni, leimmagini, i suoni fanno ogni giorno migliaia di volte il giro del mondo,come se fossimo, a casa nostra, tutti nella stessa cameretta. Ora noisappiamo quante “collisioni” questo strumento è in grado di produrre:raccolta di dati intimi e privati intercettati per ragioni di sicurezza o disfruttamento commerciale e politico, operazioni di speculazione e diterrorismo finanziarie compiute in frazioni di secondo, accesso allecomunicazioni e spionaggio nei sistemi di sicurezza di Stati e imprese,

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connessioni in rete di strutture globali criminali e terroristiche, ecc. Non c’èsolo la possibilità di accedere a Wikipedia, di acquistare col computerbiglietti aerei o fare pagamenti per acquisti on-line. Sono in gioco equilibrimondiali. Il diritto annaspa, a dimostrazione di come gli sviluppi ditecnologia ed economia corrono piú veloci della politica e delle sue leggi,che peraltro si moltiplicano creando «autorità indipendenti», a loro voltaproduttrici di norme regolatrici in un campo dove un tempo valevaesclusivamente la libertà di comunicazione cartacea e poi telefonica, che giàsembrava un miracolo.

Possiamo infine rivolgerci, come ultimo tra gli innumerevoli esempipossibili, ai momenti che paiono a prima vista riguardare solo le decisionipiú intime e singolari dell’esistenza, i momenti che scandiscono la vitadegli individui, dall’inizio alla fine. Per millenni il concepimento,l’esistenza e le malattie, le fasi conclusive della vita erano lasciateprevalentemente alle leggi naturali: «prevalentemente», poiché da sempre letecniche hanno cercato di ridurre i rischi e i dolori, e di prolungarel’esistenza o di accorciarla, a seconda delle esigenze, personali, sociali opolitiche. Tuttavia, oggi viviamo in un tempo diverso. Tecnicamente sonopossibili interventi di programmazione dell’essere umano un tempoinimmaginabili: fecondazioni programmate in laboratorio, interventi sulgenoma, innesti di cellule staminali, gestazioni separate dal concepimento efuori dal corpo materno, sviluppi di embrioni in vitro, trapianti di organi e“produzione” di esseri umani in vista di espianti di organi, clonazioni,progettazione di esseri super- e sub-umani o dotati di aggressivitàaccresciuta o diminuita, produzione di tessuti giovani per sostituzione diquelli vecchi, ecc. L’orizzonte dell’immortalità, coltivato follemente neisecoli, oggi non pare piú essere fuori dell’orizzonte del possibile,appartenere alla fantascienza, soprattutto per le possibilità dovute aitrapianti di organi (oggi si è avanzata perfino l’ipotesi del trapianto delcervello, con il problema della identità del soggetto che potrebbederivarne). D’altra parte, le tecniche di mantenimento in funzione di organivitali attraverso macchine di sostegno pongono domande circa la liceità delproseguimento artificiale dell’esistenza. Questi sviluppi, tuttavia,coinvolgono fondamentali problemi etici, sociali e giuridici che nonpossono non essere affrontati da un punto di vista generale, con riguardocioè al futuro degli esseri umani e delle loro società. Gli esseri umani

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(almeno quelli che ne possono sostenere i costi) sembrano poter infrangereil confine della morte o essere costretti a procedere oltre anche contro laloro volontà. Da qui i gravi problemi connessi all’accanimento terapeutico,al diritto di lasciarsi morire e dei suoi limiti, all’eutanasia, al cosiddettotestamento biologico, ecc. Un tempo, la natura faceva il suo corso e quandoappariva necessario agevolarlo nel giungere al suo esito, le comunitàfacevano appello a tradizioni inveterate. Un libro istruttivo di MichelaMurgia 8 racconta di come fino a qualche tempo fa – o forse ancora adesso –in certi paesi del centro della Sardegna, quando in famiglia c’era un malatoterminale, secondo una consuetudine che non interpellava la sfera del dirittoma la sfera della cultura tradizionale, il morente veniva steso su un giaciglioal pianterreno della casa, si lasciava la porta aperta e una persona,l’accabadora, entrava e con un colpo di martello metteva fine allesofferenze. Gli indiani dell’epoca precolombiana, di fronte ad analoghenecessità, prendevano i vecchi, li portavano in capanne nel bosco, lidenudavano, li ricoprivano di miele, e li lasciavano lí la notte; il mattinopassavano a ritirare lo scheletro ripulito dalle termiti. Noi nonammetteremmo queste pratiche e, per questo, il diritto è entrato nella casa onella capanna a far valere le sue ragioni.

La “natura” è sempre di nuovo convocata nella discussione, per trarreargomenti utili a tracciare un confine rispetto a ciò che si dice essere«contro natura». La “natura” è convocata nei termini di qualcosa che oggisiamo capaci d’insidiare e, dunque, ci interroghiamo su quanto e comedebba essere protetto. Abbiamo iniziato il nostro discorso sui limiti deldiritto rispetto alle leggi della natura, citando quella frase di De Lolme: ora,però, i termini della questione sono addirittura rovesciati. Questo è un puntod’importanza capitale che ci rende consapevoli del mutamento dei tempi.Allora le leggi della natura erano intoccabili “per natura” e, dunque, non cipotevano essere leggi umane che potessero contraddirle; alla naturarepelleva il diritto. Oggi è il contrario. La natura è insidiata dall’artificio egli spazi che l’artificio ha conquistato ai suoi danni consentono, anzichiedono, l’intervento delle leggi degli uomini: leggi e normedeontologiche sulla sperimentazione in organismi viventi, sul consensoinformato, sulla ricerca della paternità e maternità naturale, sul trapiantodegli organi, sui cosiddetti «fine vita», «dolce morte», eutanasia, ecc. Ildiritto sembra ormai potere tutto: al cosiddetto «biodiritto», oggetto di una

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vastissima letteratura e di pratiche corrispondenti, si chiede di definireaddirittura che cosa è la vita (per esempio, in materia di interruzionevolontaria della gravidanza, alias aborto, si discute da quale momento dalconcepimento si può parlare di essere umano vivente) e che cosa è la morte(per esempio, in materia di espianto di organi, si discute di morte comearresto cardio-circolatorio o di arresto irreversibile delle funzioni cerebrali,a partire dal «Rapporto di Harvard» del 1968 che ha proposto questosecondo criterio, poi adottato non senza contrasti da molte legislazioni).Può sembrare che il diritto stia celebrando il suo trionfo nel momento in cuiè chiamato a sostituirsi alle leggi della natura. La realtà è che è la tecnicaquella che celebra la sua strapotenza, mentre il diritto è chiamato a porrelimiti in nome non della natura, ma dell’etica e della prudenza rispetto asviluppi possibili e inquietanti. Con la parola “natura” usiamo un terminesorpassato per indicare preoccupazioni ed esigenze nuove e chiamiamo ildiritto al compito di provvedervi.

5. Giuridificazione del sociale.

Oltre all’espansione del diritto nel campo delle tecniche, èimpressionante quanto si sia estesa la presenza del diritto nell’ambito dellerelazioni sociali che un tempo erano dominio o della pura e semplicespontaneità oppure di norme di condotta diverse da quelle giuridiche.Questa estensione è dovuta, innanzitutto, alla perdita di efficacia dellestrutture sociali tradizionali che si reggevano su poteri, autorità e rapportigerarchici riconosciuti, accettati o subiti; su abitudini inveterate; sucredenze religiose e perfino su superstizioni; in breve, su ruoli socialiindiscussi: nelle relazioni tra i sessi, nella famiglia, nella scuola, neirapporti di lavoro, ecc. Cadute queste strutture sociali organiche, le normeche ne scaturivano “naturalmente” e quasi tacitamente garantivano unaqualche, anzi una qualunque stabilità (non è da dirsi se frutto e produttricedi giustizia o d’ingiustizia) sono cadute anch’esse e hanno dovuto esseresostituite per necessità con norme artificiali, di cui quelle giuridiche erano esono l’archetipo. La crisi della società tradizionale – un effetto di lunghi eprofondi processi storico-culturali ed economici che si è manifestato conprepotenza al tempo dello sconvolgimento sociale della prima guerra

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mondiale, sconvolgimento che il fascismo in Europa ha tentato dicontrastare con un nuovo e impotente organicismo imposto – è stataaccompagnata dall’esplosione della legislazione in tanti settori nei quali ildiritto non era fino ad allora penetrato ed erano dominio di comportamentisociali “comunicativi”.

A ciò si deve aggiungere il progressivo aumento delle funzioni delloStato. Il cosiddetto Stato sociale, per effetto della democratizzazione dellesue strutture e dell’ingresso in esse di strati sociali portatori di domande diuguaglianza e protezione il cui soddisfacimento andava al di là delle liberedinamiche sociali, si è caricato progressivamente di nuovi compiti. Essihanno richiesto non solo regolazione e limitazioni delle attività privatecome quelle economiche incidenti sulla libertà del mercato e sullaprotezione di beni collettivi come la salute e l’ambiente, ma ancheinterventi diretti attraverso apparati pubblici, operanti nel campo economico(lo «Stato imprenditore»), nel campo scolastico (lo «Stato educatore»), nelcampo previdenziale (lo «Stato provvidenza»), nel campo sanitario (lo«Stato assistenziale»), ecc. Questo enorme sviluppo delle funzioni statali sidoveva svolgere sotto il principio di legalità (si veda supra, par. V.I.5), unprincipio che in origine era nato per contenere entro limiti giuridicil’invasione dell’amministrazione dello Stato nella sfera delle libertà socialie che, nella nuova condizione, è diventato l’opposto, cioè il volano per laproduzione intensiva di norme giuridiche.

6. Esempi.

Chiunque può facilmente darsi esempi di regressione di norme sociali e,correlativamente, di espansione di leggi rivolte a colmare i vuoti lasciati. Nérisultano campi in cui si sia verificato o si verifichi il fenomeno opposto,cioè la liberazione da norme giuridiche a vantaggio di norme sociali.

Un esempio particolarmente significativo è rappresentato dal cosiddettostalking e dal cosiddetto «femminicidio». Lo stalker è colui che sottoponeun’altra persona ad atti molesti di qualunque tipo, atti che non costituisconoreati di per sé, quali sono invece le violenze fisiche, le minacce, leaggressioni, ecc., ma danno comunque luogo a una pressione morale che

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incide sulla altrui libertà di condotta nella vita quotidiana, sia domestica cheextradomestica. Si tratta di comportamenti che si verificano non solo, maprincipalmente, ai danni di persone con le quali si sia, si sia stati o si vogliaessere legati da rapporti sentimentali e sessuali esclusivi, quasi sempredovuti al partner maschile a danno di quello femminile. Il femminicidio è ilproseguimento di questa condizione di soggezione fino alle estremeconseguenze, quando di fronte alla dominanza maschile, spesso alimentatada incontenibile gelosia, si manifestano desideri di liberazione della partefemminile del rapporto di coppia. Si tratta di fenomeni, in entrambi i casi,che hanno radici in strutture mentali tradizionali che resistono all’ideadell’uguaglianza di diritti tra i due sessi e non accettano il diritto diautodeterminazione sentimentale e sessuale della donna, consideratapiuttosto oggetto che soggetto di desiderio. Ora, la dissoluzione progressivadi quel mondo sta provocando situazioni di anomia nelle quali si libera e sirende visibile quella violenza che in passato era come celata eistituzionalizzata dalla diffusa accettazione della subordinazione senzaribellione dell’universo femminile a quello maschile. Cosí, a partire dalprimo decennio di questo secolo, si sono prodotte leggi e sentenze nazionalie internazionali per contenere e reprimere queste manifestazioni di violenzacosiddetta «di genere».

Perfino i rapporti interni a quella «cellula della società» che per secoli siè considerata refrattaria all’ingresso del diritto, dovendo appartenereessenzialmente alla sfera della “eticità” che produce da sé le sue norme 9, èstata ormai invasa dal diritto ed è diventata materia giudiziale: diritto difamiglia insegnato nelle università, avvocati e giudici, assistenti socialispecializzati in materia. Eppure, fino a pochi decenni fa si poteva parlareenfaticamente da parte di un maestro del diritto, Arturo Carlo Jemolo, di«un’isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto»: «lafamiglia è la rocca sull’onda, ed il granito che costituisce la sua baseappartiene al mondo degli affetti, agli istinti primi, alla morale, allareligione, non al mondo del diritto» 10. Oggi, chi ripeterebbe similiaffermazioni, se non qualche sognatore d’epoche che non esistono piú, nécome constatazione effettuale, né come accettazione morale? Dov’è finita la«famiglia tradizionale» o «naturale» (come si esprime l’art. 29 dellaCostituzione), patriarcale, eterosessuale, monogamica, duratura fino allamorte, incentrata sull’autorità paterna e sulla soggezione della moglie e dei

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figli? Non sarebbe, del resto, nemmeno accettabile alla stregua dellauguaglianza, della dignità e del rispetto reciproco, valori che hanno invasol’isola della famiglia portando con sé una sequela di leggi, trattati giuridici,sentenze di giudici. La preoccupazione di Jemolo riguardava le ingerenzetotalitarie che si manifestarono sotto il fascismo, quando la famiglia eraconcepita come struttura primordiale dello Stato totalitario; oggi, leingerenze sono state e sono dovute precisamente per la ragione opposta,cioè per ragioni di libertà e dignità individuale. La cristallizzazione della«famiglia tradizionale» comporterebbe, infatti, violazioni di dirittifondamentali dei componenti di quella che oggi si considera «cellula dellasocietà», non dello Stato. Dunque: no all’intervento della legge totalitaria;sí alla legge liberatrice. L’esempio della famiglia bene mostra non esserevero ciò che tanto superficialmente spesso si dice: che quante piú leggiesistono, tanta meno libertà sussiste. Ciò vale rispetto alle leggi oppressive,ma rispetto alle leggi liberatrici vale il contrario.

Questa linea di pensiero potrebbe essere sviluppata in numerosi altricampi in cui la legge è penetrata per svolgere un compito di riforma diassetti sociali oppressivi, non piú accettabili per ragioni sociali, morali,politiche. Il diritto del lavoro, per esempio, non è sempre esistito: esso si èsviluppato a partire dalla metà del XIX secolo, nelle maglie del principiodella pari libertà contrattuale dei datori di lavoro e dei lavoratori, primacome eccezione a favore del contraente debole (il lavoratore), poi comeformazione di un corpus autonomo di norme regolatrici riguardante il dirittosindacale, le relazioni industriali, la contrattazione collettiva, i diritti deilavoratori nelle organizzazioni aziendali. Oggi, la tendenza si è invertita afavore di un ritorno all’antico, cioè alla contrattazione tra le due parti vis àvis e sullo stesso piano, attraverso l’abolizione o la riduzione delle tutelecollettive e individuali della parte debole. Ma anche questo risultato non èun obbiettivo perseguibile abolendo leggi, bensí sostituendole, cioèmoltiplicandole. Perfino la cosiddetta e sempre velleitaria semplificazionelegislativa che, ogni tanto, viene messa in campo, produce per l’intantoulteriori complicazioni legislative: addirittura la creazione, qualche tempofa, di un ministero ad hoc il cui unico prodotto visibile è stato un falòdimostrativo di pagine di leggi organizzato da chi crede che le leggi siabroghino bruciando i fogli su cui sono scritte.

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Questo può bastare. Chiunque è in grado di fornire esempi inabbondanza della progressiva invasione da parte della legge nei piú diversiambiti della vita sociale. Poiché siamo qui a trattare questi temi in una sedescolastica e universitaria, tutti noi siamo perfettamente consapevoli deldiluvio incessante di leggi, regolamenti, circolari, linee guida che affligge lanostra esistenza: moltiplicazione delle norme inizialmente orientata adiffondere la democrazia, a proteggere la libertà degli studenti, acircoscrivere l’arbitrio degli insegnanti – cioè, in origine giustificata in unsenso e poi rovinata nel suo contrario.

7. La rete delle leggi e l’“homo legalis”.

Quanti giuristi e, soprattutto, non-giuristi credono che il diritto sia comeuna grande rete o ragnatela di regole valide in sé e per sé, collocate in unapropria sfera di esistenza oggettiva, tese sulla società e pronte ad acciuffarei fatti della vita e i loro autori, non appena vi sia un uccellatore – fuor dimetafora, un giudice – che fa scattare la trappola? La saggezza popolareparla, per l’appunto, delle leggi in questi termini, aggiungendo cinicamenteil riferimento alle differenze sociali: la rete o la ragnatela vale per i piccoli,non per i grandi: «La legge è come una ragnatela: se la mosca ci cascadentro è finita; ma se casca un moscone, ci fa un bucone» 11. Ciò vale ingenerale, ma tanto piú quando le maglie della legge siano numerose eomnipervasive.

Il viluppo legale implica una generalizzata trasformazioned’atteggiamento nei confronti del diritto, cioè la trasformazio-ne deisoggetti di diritto gelosi della propria libertà contro le altrui prevaricazioni,secondo la concezione kantiana della legge come «regola di collisionisociali, in oggetti conformati giuridicamente». Si assiste al passaggio dallalibertà regolata sui confini esterni tracciati dalla legge, alla legge cheplasma dall’interno la personalità dei soggetti. Per sopravvivere in unospazio sempre piú occupato da leggi esteriori, ci si conformerà alla leggecome atteggiamento a priori, a meno che si sia quel moscone di cui s’èdetto che può farsi beffe del diritto e vivere in uno spazio suo proprio dovevige l’arbitrio. Quando l’esistenza individuale è saturata dalle leggi il mottociceroniano «legum omnes servi sumus ut liberi esse possimus» 12 diventa

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un patetico mascheramento di una realtà in cui la libertà sociale si spegneprogressivamente e i «soggetti di diritto» si trasformano in «soggettiplasmati dal diritto», in homines legales, in «osservanti», secondo il titolodi un vasto studio sugli atteggiamenti passivi di fronte alle norme dicondotta cui si sottopongono gli esseri umani 13.

Tutti noi abbiamo esempi a volontà di questa trasformazione in corso. Leleggi, le direttive, le guidelines ministeriali hanno progressivamenteavviluppato la vita scolastica e universitaria in una rete di adempimentiburocratici in vista di concorsi, finanziamenti, orari, trasferimenti, ecc., chemirano, anche se involontariamente, a fare dei professori degli «osservanti»la cui libertà accademica diventa una chimera. Per ottenere un supportofinanziario a una tua ricerca, non importa la genialità della proposta, ma lacoerenza con standard modulistici la cui osservanza è a pena di nullità delladomanda. Per riempirli come richiesti, devi inventare rapporti,collaborazioni nazionali e internazionali, équipe di ricerca che saibenissimo che in gran parte resteranno sulla carta.

In tutt’altro settore della vita, si è richiamato alla memoria un film didiversi anni fa (1979) che riscosse un certo successo, Kramer controKramer 14. Vi si illustra la patologia sociale insita nella legge intesa noncome limite negativo alla libertà, ma come conformazione positiva aimodelli di comportamento pretesi dalla legge e dai suoi apparati applicativi.Si narra di una controversia relativa all’affido del figlio in una causa didivorzio e dei tentativi patetici, contro la natura dei sentimenti e deicomportamenti spontanei del padre, fino alla perdita della dignità, peradeguarsi alle aspettative dei giudici, degli assistenti sociali, in genere dellaopinione pubblica, circa la pertinenza d’una decisione a lui favorevole. Allafine, la figura paterna si era trasformata in una grottesca figura giuridica,spogliata della sua umanità.

8. Persona giuridica in azione.

A quella che un tempo si chiamava persona naturalis (per distinguerladalla persona moralis, indicante soggetti fittizi: associazioni, società,fondazioni, fino allo Stato) si sovrappone un’idea di persona giuridica per laquale sono calzanti le definizioni date da Hans Kelsen:

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[la personalità giuridica] consiste soltanto nel fatto che l’ordinamento giuridicoimpone doveri o accorda diritti agli uomini, cioè nel fatto che il comportamento degliuomini viene elevato a contenuto dei doveri e dei diritti. “Essere persona” o “avere lapersonalità giuridica” coincide con l’avere doveri giuridici o diritti soggettivi. Lapersona titolare di doveri giuridici o di diritti soggettivi non è qualcosa di diverso daidoveri giuridici e dai diritti soggettivi di cui la persona viene rappresentata cometitolare 15.

Piú sinteticamente, la persona dal punto di vista giuridico non è altro cheun «punto di riferimento di diritti e di doveri» 16. La validità di questeelaborazioni concettuali dipende dal fatto che la realtà è guardata come sefosse solo giuridica. In tal caso esse non sono prive di attendibilità.

Tuttavia, quando la persona come tale inizia a considerarsi in quel certomodo facendo prevalere il suo essere persona giuridica sul suo esserepersona umana, qui inizia la perversione. Il suo fine diventa lacorrispondenza dei suoi atti alle fattispecie legali. Quando ciò si realizzassecompletamente, invece che un essere umano avremmo di fronte a noi unautoma legale o magari, come scrive Stefano Rodotà riportandoun’espressione di Joseph Roth, una serie di «canaglie giuridiche» 17. Allimite estremo, la società si perderebbe in una folla di fantasmi cheagiscono armati della loro corazza legale e che, non appena qualcosa vastorto, si rivolgono al giudice per chiedergli d’imporre autoritativamente aun’altra persona giuridica la riparazione del torto subíto. Cosí, va persa ladimensione orizzontale dei legami tra persone fisiche in cui consistepropriamente la vita in società. Questa è una vera e propria patologiadeterminata dalla dissennata espansione della legge, causa ed effetto, altempo stesso, della caduta dei legami sociali, cioè pre-giuridici.Esagerazioni, si dirà. Ma qui stiamo parlando di tendenze e la tendenzaassume talora caratteri preoccupanti per ciò che annuncia. Per esempio, tragiugno e luglio 2017, si è discusso accanitamente del caso di un bimbo didieci mesi, di nome Charlie Gard, affetto da una gravissima malattiainguaribile, che sopravviveva artificialmente in stato d’incoscienza:nell’incapacità di relazione costruttiva tra i medici e i genitori, questi ultimisi sono persuasi a percorrere la strada della giustizia che li ha condotti finoalla Corte europea dei diritti di Strasburgo. E i commentatori, senza neppureben conoscere i dati umani grezzi della questione, si sono dati a discutere e

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a litigare sugli astratti princi-pî giuridici ch’essi hanno ricavato daaltrettanto astratti principî morali. Cosí, un caso umano concreto si ètrasformato in una questione giuridica dove si sono scontrati principî,dottrine, ideologie riguardanti diritti e doveri dei medici e dei genitori, sullatesta del povero bambino.

Il ricorso alla legge e al giudice, «l’andar per avvocati» come siamoabituati a dire e fare a ogni piè sospinto, anche in casi assai menodrammatici di quello appena indicato, è il prodotto della patologicaassolutizzazione del lato giuridico della propria personalità. Mentre lacomposizione dei conflitti nella dimensione discorsiva porta alla tolleranzae al riconoscimento dei diversi lati dai quali essi possono essere guardati, ilricorso alla legge amplifica l’autoreferenzialità dei soggetti e l’usoaggressivo e vendicativo dello strumentario giudiziario, uso che non rifuggeda possibili esiti catastrofici: se la legge mi dà ragione, bisogna andare finoin fondo e i fallimenti parziali in cui si può incorrere nel corso dellacontroversia legale non fanno che accrescere l’accanimento: ciò che, a uncerto punto, interessa davvero è l’avere ragione a ogni costo – costoemotivo e finanziario – dell’avversario; l’oggetto della controversia passa insecondo piano, può perfino diventare progressivamente indifferente. Inquestione è un dato non negoziabile, cioè il prestigio che conferisce lasentenza che ti riconosce dalla parte della ragione; per converso, èl’umiliazione inferta a colui dal quale hai ritenuto di avere subíto il torto.

La letteratura ha spesso trattato di queste “maschere giuridiche”,contagiate dal diritto e dal processo. Ad esempio, in Casa desolata (1853)di Dickens 18. Il racconto Michael Kohlhaas (1810) di Heinrich von Kleist èun apologo circa le conseguenze dell’accanimento giudiziario. All’inizioc’è una pur giustificata reazione a un piccolo torto subíto (l’ingiustificatosequestro di due cavalli), che poi, di fronte alle progressive frustrazionidell’ansia di giustizia, s’accresce e si allarga fino a diventare una voraginedi sventure: alla fine, essa ingoia lo stesso protagonista della primainiziativa giudiziaria, che aveva come antagonista un signorotto locale ma sisviluppa fino a coinvolgere il principe di Sassonia, provocando brigantaggi,sommosse e repressioni. Aveva pur avuto ragione all’inizio, ma finiràimpiccato, soddisfatto perché anche il suo nemico farà analoga brutta fine.

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9. Giustizia retributiva e riconciliativa: il “ryb”.

L’homo legalis di cui s’è detto ha nel suo profondo un’idea dellagiustizia come vendetta ritualizzata e, quindi, solenne, simbolica, giusta. Èla «giustizia vendicativa»: mi hai fatto del male, devi subire un malealmeno equivalente affinché la mia dignità violata sia ripristinata. In breve:devi “darmi soddisfazione”; io sono al centro della vicenda processuale edevo essere riabilitato; tu conti solo come strumento della miariabilitazione, dopo di che sparisci, ché non ho alcun interesse a mantenerevivo un qualsivoglia rapporto con te. A questa idea si contrappone quelladella giustizia come riconciliazione, ricostituzione o restaurazione(restorative justice), altrettanto antica della giustizia vendicativa, maprogressivamente andata dissolvendosi di fronte agli effetti che l’estensionedell’intervento legislativo comporta nelle relazioni sociali, riducendone ilvalore alla conformità o difformità rispetto ad astratte fattispecie legali.L’aspirazione fondamentale della giustizia riparativa, cioè laricomposizione delle fratture sociali, ha suscitato molto interesse e haportato a qualche realizzazione concreta; ma ha comportato altresí riserve aproposito della capacità di questa concezione della giustizia, perseguita nelconfronto diretto tra le parti, di rispettare le esigenze di paritàprocedimentale e di uguaglianza sostanziale, quando nella controversia siaffrontino “potenze sociali” non equivalenti. In fondo, lo schema delgiudizio triadico – due parti e al di sopra il giudice che divide i torti e leragioni in astratto – sembra soffrire meno l’influenza delle disuguaglianzesociali, in quanto il giudizio è condotto dal punto di vista “freddo” dellalegge 19.

Per chiarire il concetto di giustizia restaurativa, possiamo fareriferimento a due esempi, tratti l’uno dal mondo antico, l’altro a noicontemporaneo.

Nell’antico diritto ebraico, esistevano due procedure per riparare i torti.La prima, il nišpat o giudizio, era una procedura a tre, analoga al processoche conosciamo: l’offeso conduce l’offensore, per ottenerne la condanna,davanti a un giudice, terzo imparziale. Questa giustizia valeva tra duenemici o, almeno, tra due estranei. Dove invece i contendenti erano legatida un rapporto vitale non accidentale (padre e figlio, marito e moglie,fratello e fratello, Dio e Abramo, Dio e il popolo eletto o il popolo dei

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credenti) si apriva soltanto la possibilità di una disputa a due, il ryb, illitigio. Il ricorso a un soggetto estraneo, in questi casi, infatti, sarebbe statoimpossibile, inimmaginabile 20.

Il ryb è uno scontro il cui scopo non è la punizione del colpevole ma ilcomponimento della lite attraverso il riconoscimento del torto compiuto, ilperdono e quindi la riconciliazione e la pace. È l’umanità dell’avversarioche si cerca di toccare e su questa si vuol influire, perché si è interessatiprima di tutto a questo scopo. L’obbiettivo non è dunque la vendetta: cioè ilripianamento del torto tramite “soddisfazione”. È invece il ristabilimento diuna comunanza, incrinata o infranta dal torto commesso e subíto.L’immagine non è la superbia del vincitore della giustizia vendicativa, nél’occhio per occhio di quell’altra idea di giustizia che si denominaretributiva. È il nodo da riallacciare. Per reintegrare il diritto e quindi ilrapporto, l’offeso assume il ruolo di accusatore ma, in un certo senso, anchedi giudice, perché la sua azione contro l’altra parte non si ferma finchéquest’ultima giunga a riconoscere il torto commesso, manifesti l’interesse aristabilire con l’offeso il legame vitale infranto e si disponga per l’avvenirea una condotta conseguente. L’eventuale risarcimento non è propriamenteun’umiliazione, una sanzione, ma è l’ovvia conseguenza dell’ammissione dicolpa. I due contendenti vedranno cosí ristabiliti i legami originari,rinnovati e persino resi piú forti.

C’è una traccia di questa concezione della giustizia in Matteo (5,25):«Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario, mentre sei per la via con lui,perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tuvenga gettato in prigione» (idem in Lc 12,58). In ogni caso, per lecontroversie che strutturalmente non possono avere un essere umano qualegiudice al di sopra delle parti – ad esempio quelle in cui sono implicati i re(Saul contro Davide) o un profeta e un re (Samuele e Saul, Elia e Acab)oppure, nell’ambito dell’Alleanza, per le controversie dove c’è di mezzoDio stesso, come parte offesa (nei casi piú frequenti) o anche comeoffensore (come nel caso di Giobbe) – il ryb resta l’unica proceduraconcepibile. Perfino il processo di Gesú può essere visto in questa luce e isuoi silenzi di fronte alle accuse (la pecora muta di Isaia, 53,7) possonofacilmente apparire come una pressione morale sugli accusatori affinchériconoscano il loro torto e aprano l’animo alla riconciliazione.

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Il rito è aperto dall’iniziativa della vittima offesa. L’accusa è ditradimento, di ingratitudine, di rottura di un patto, di un rapporto, di unaconfidenza. I fatti specifici non sono che un segno, talora di piccolaimportanza, di queste colpe piú gravi. Alla contestazione seguono accusesempre piú violente, “improperi” del tipo di quelli del Venerdí santo(«Popolo mio, che cosa ti ho fatto…»), scoppi di collera (l’ira di Dioveterotestamentaria: Ez, 20,33: «Com’è vero ch’io vivo – parola delSignore Dio –, io regnerò sopra voi con mano forte, con braccio possente erovesciando la mia ira») e perfino violenze fisiche e pressioni morali, comeil pianto che induce al pentimento o il silenzio del giusto che mette inazione il senso di colpa del malvagio. La sofferenza, secondo la tradizione,è una «bontà nascosta». Ma il dolore dell’offensore non vale comepunizione o sanzione. Vale come percorso necessario in vista delravvedimento. E quindi anche la piú dura delle misure impiegata per questofine rappresenta un agire non soltanto secondo giustizia, ma anche secondoamore per l’altro. Come dice la Scrittura: «Chi risparmia il bastone odia suofiglio; ma chi lo ama è pronto a correggerlo» (Pr, 3,11-12; 13,24).

10. Giustizia punitiva e riconciliativa: le commissioni per la verità e lariconciliazione.

Esempi di giustizia restaurativa nel mondo contemporaneo sono datidalle numerose Commissioni per la verità e la riconciliazione istituite inPaesi del Sud America e del Nord Africa usciti da guerre civili, violenze esopraffazioni di parti della società su altre parti. La principale, presa amodello, è quella istituita in Sud Africa nel dicembre 1995 con il compitodi condurre la società multietnica sudafricana fuori dall’odio e dallaviolenza generati dalla precedente politica dell’apartheid e di aprire a unPaese dilacerato la strada della pacifica convivenza. Il fondamento moraledi questa istituzione fu – secondo il vescovo anglicano, premio Nobel per lapace, Desmond Tutu, presidente della Commissione, che ha scritto un librodi testimonianza 21 – l’appello allo spirito africano tradizionale dell’ubuntu.È un termine pieno di significato, comparso nel preambolo dellaCostituzione provvisoria sudafricana del 1993, che ha attirato l’attenzioneanche di giuristi e antropologi europei. Secondo le parole di Desmond Tutu,

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esso distingue l’idea della giustizia europea, piuttosto orientata alla vendettao anche alla «giustizia del vincitore», dallo spirito della giustizia africana,piuttosto orientata alla riconciliazione, alla reciproca accettazione, alriconoscimento dell’umanità delle persone, per farla riemergere quando èstata umiliata dal crimine non solo patito ma anche commesso. A noi fapensare a una forma di spirito comunitario, inteso in senso benevolo,comprensivo, pacificatore. Una persona è tale attraverso altre persone. Lapersona, cosí, non è concepita nei termini «esisto, quindi ho diritti epretese», ma nei termini: io sono un essere umano perché faccio parte diuna cerchia di persone che riconoscono reciprocamente il loro valore, chenon sono minacciate dalla reciproca concorrenza e che hanno una giusta,non smodata, stima di se stessi e degli altri. Per questo, si sentono sminuitiquando altri vengono umiliati, torturati e oppressi, o trattati come esseriinferiori. Il fare giustizia diventa allora un processo salvifico tanto di chi hasubíto il torto quanto di chi lo ha commesso. Richiede di risanare le ferite,correggere gli squilibri, ricomporre le fratture e riabilitare tanto le vittimequanto i criminali, anch’essi degradati nella loro umanità.

Secondo la legge istitutiva della Commissione, il riconoscimento pienodelle responsabilità e delle colpe dei criminali dava luogo all’applicazionedell’amnistia. Il riconoscimento di responsabilità avveniva spontaneamentee pubblicamente di fronte alla Commissione, e ciò costituiva unalleggerimento, al tempo stesso, della coscienza dei criminali e della penadella vittima. Il conseguente esonero da sanzioni, sia penali che civili, noncomportava oblio, rimozione, come è invece secondo la nostra nozione diamnistia, ma, al contrario, memoria ed elaborazione del male commesso esubíto. Non si trattava di transazioni private della giustizia, poiché leprocedure e le decisioni facevano capo a organi dello Stato (leCommissioni) e le misure di riparazione, quando possibili, erano assunteanch’esse a carico dello Stato, cioè della collettività, interessata allapacificazione, e altresí a carico dei colpevoli, come naturale conseguenzadel riconoscimento di colpa. Non era propriamente un risarcimento deldanno, poiché non vi è denaro che possa ripianare il dolore, maconsistevano, ad esempio, in borse di studio a favore dei figli delle vittime,in programmi di recupero tramite l’addestramento professionale,nell’accollo delle spese per interventi medici, nell’assegnazione di

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abitazioni, o anche nel recupero e nell’identificazione dei cadaveri e nellaloro inumazione con onore. L’effetto cui si mirava era la catarsi sociale.

Pur non richiedendosi il perdono individuale da parte delle vittime, èchiaro che una generale disponibilità al perdono, in nome di qualcosa di piúelevato del sentimento di vendetta – cioè in nome della concordia –, èrichiesta da questo tipo di giustizia. Altrimenti le vittime, private dellacondanna dei loro carnefici, si sarebbero potute ritenere vittime diun’ingiustizia supplementare. Il miracolo sudafricano – peraltroincompiuto, dati gli enormi problemi di giustizia sociale che residuano – èqui: in quella disponibilità che ha reso possibile la pacificazione e ha evitatonuove e opposte violenze, ha impedito che l’ingiustizia producesse nuovaingiustizia, ha pacificato gli animi una volta che le colpe sono statericonosciute. A differenza di altri falliti tentativi di superare le fratturesociali attraverso strumenti analoghi, in Sud Africa verità, giustizia e pace –le tre cose che reggono il mondo – sono state rese possibili dallo spirito delperdono, in una misura che ha almeno evitato ulteriori, piú gravi violenze eingiustizie. Questa esperienza rappresenta un modello che ha attirato losguardo del mondo intero e indicato una prospettiva che si è cercato dipercorrere, con alterni risultati, anche altrove 22.

Una pallida imitazione della giustizia conciliativa si è avutarecentemente in Italia. Nell’intento di deflazionare la litigiosità giudiziariache, nel nostro Paese, ha raggiunto livelli insostenibili dalle strutturegiudiziarie esistenti, con l’accumulo di un arretrato imponente e con ladurata eccessiva dei processi, nel 2010 è stata approvata una legge sulla«mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili ecommerciali», apparentemente ispirata all’idea della giustizia riconciliativadi cui si è detto poc’anzi. Si tratta di procedure che si svolgono senzaparticolari formalità davanti a un «organismo pubblico» (ad esempio leCamere di commercio) che ha il compito non di giudicare ma di «facilitare»un accordo tra le parti. L’avvenuta conciliazione, evidentemente, escludel’apertura di un processo vero e proprio. Questa legge e le procedurecomplesse che sono previste sono state oggetto di molte critiche, soprattuttoda parte degli ambienti forensi. Malgrado gli incentivi previsti, come iminori costi e i tempi ridotti, non pare avere raggiunto gli obbiettivi che illegislatore si era proposti. La deflazione auspicata non pare essersirealizzata. Il successo avrebbe dovuto presupporre l’esistenza di una

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«cultura del confronto», cioè un atteggiamento discorsivo fra le parti,disposte a riconoscersi reciprocamente come interlocutori aventi, ciascuna,qualche buona ragione da far valere e unite dall’intento di trovare un puntod’incontro fra le rispettive ragioni. Se le parti, invece, si presentano l’una difronte all’altra corazzate da «persone giuridiche» nel senso kelseniano dicui s’è detto, è chiaro che le premesse per una mediazione vengono meno ela mediazione non ha prospettive di successo. Si potrebbe dire cosí: ilnostro contesto culturale manca di ubuntu.

11. Riconciliazione: sempre meglio della punizione?

La giustizia riconciliativa vale di piú di quella punitiva? Sembrerebbe disí: ricostruire il legame sociale, distrutto dall’ingiustizia, dovrebbe essere ilfine ultimo della giustizia. La giustizia riconciliativa sembra stare su ungradino della scala etica piú alto di quella punitiva poiché è associata ai piúelevati sentimenti degli esseri umani: la solidarietà o la fraternità, labenevolenza, la pietà. Tuttavia, c’è qualche motivo per andare cauti nelsalire su questo gradino e lo possiamo trarre dalla “tentazionericonciliativa” che troviamo al tempo della tragica conclusione dellaparabola del nazismo e del suo progetto di sterminio delle «razze inferiori».Anche le cose piú belle possono contenere qualche dose di veleno. AlReichsführer-SS Heinrich Himmler (suicidatosi al momento della cattura) eal capo del Deutsche Arbeitsfront Robert Ley (suicidatosi a Norimberga),due sinistri figuri, sarebbe piaciuto – si racconta – creare un «comitato diriconciliazione» costituito da nazisti responsabili dei massacri e da ebreisopravvissuti 23. Adolf Eichmann aveva a sua volta condiviso questa idea,un’idea certamente insolente e repulsiva. Osserva Hannah Arendt cheprobabilmente coloro cui era venuta in mente quest’idea di riconciliazionesi confortassero per la loro «grandezza d’animo». Noi rimaniamo sbalorditi.Ci sembra un’oscenità. Altro che giustizia. Se ci chiediamo il perché, forsesaremmo d’accordo nel dire che una società che si proponesse procedureper giungere a perdonarsi di delitti tanto mostruosi perderebbedefinitivamente il suo onore, la rispettabilità verso se stessa. La punizione ela pena sono qualche volta, al di là di tutte le discussioni sulla lorogiustificazione e sulla loro funzione, una questione fondamentale di

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autostima. Come potrebbe una società vivere in pace con se stessa avendorinunciato a punire il male estremo che alligna nelle sue pieghe, ch’essa haprodotto e poi decide di tollerare? La pena, prima di tutto, non è un malecontro un altro; è una presa di posizione rispetto a se stessi. È una forma diriscatto. Ciò che nell’episodio riferito appare repulsivo è che la mano tesavenisse dagli aguzzini, nel momento prossimo alla loro fine. Molto diversosarebbe stato se fosse venuta dalle vittime, nel momento del loro riscatto.Ma anche allora, da un popolo che non avesse rinunciato al proprio onore,ci si sarebbe potuto aspettare che al confronto con le vittime si arrivasse nonscansando la pena, ma accettandola come via per diventare degni dellariconciliazione.

12. Ideologia del legalismo e convinzioni etiche.

Per «legalismo» intendiamo una particolare ideologia giuridica (le paroleche terminano in -ismo indicano ideologie, cioè fondazioni etiche diconcetti politici): precisamente, intendiamo la pretesa della legge diincontrare ubbidienza incondizionata al di là ed eventualmente contro leconvinzioni morali di coloro ai quali si indirizza. La «forza della legge» ètale che nessuna obiezione contro di essa è ammissibile fintanto che è invigore: obéissance préalable, abbiamo già detto ad altro proposito (si vedasupra, par. VIII.5). Anche se l’ubbidienza alla legge porta alla catastrofe e ladisubbidienza alla salvezza, per i legalisti la prima opzione schiaccia laseconda e chi agisce al contrario deve essere punito, perfino con la morte,come è detto da Heinrich von Kleist nel suo capolavoro Il principe diHomburg. Secondo tale ideologia, ci si deve accontentare di dire: questaazione è conforme alla legge e quindi è giusta, e non si deve pretendere diporsi il problema se la legge stessa sia giusta. Per chi adotta tale punto divista, l’ubbidienza alla legge lo solleva da ogni problema di coscienza. Il«legalista» è uno che, per cosí dire, consegna la sua coscienza al legislatoree dice: io ubbidisco alla legge non perché è giusta, ma perché è legge.Subditi legum, dicono i giuristi alludendo alla passività che il legislatorepretende da coloro che devono seguire i suoi precetti, fino a quando illegislatore stesso, secondo i suoi intenti, non si disponga a cambiare la

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legge vecchia a favore di una legge nuova, rispetto alla quale varrà poi lastessa pretesa d’incondizionata ubbidienza.

Questa pretesa ha dalla sua, a sua volta, buone ragioni etiche, prima fratutte il bisogno di ordine che solo la legge è in grado di garantire al di là e aldi sopra del caos delle opinioni personali. Ma ci sono dei limiti allacostrizione etica che la costrizione giuridica può invocare a suo favore,limiti che la legge deve rispettare poiché al di là corre il rischio concretod’essere contraddetta dalla coscienza degli esseri umani che fa valere le sueragioni a costo di infrangere l’ordine legale. È il caso della legge ingiusta(su cui ci soffermeremo anche nell’ultimo capitolo, con riguardo allaposizione del giurista). Non credo che si possa voler vivere rinunciando auna parte importante di sé, cioè al primordiale diritto di distinguere il benedal male e al diritto-dovere di agire di conseguenza. Queste rinunce erano ilprogetto politico dell’Inquisitore di Dostoevskij, modello di ogni poteretotalizzante che per raggiungere il suo scopo usa l’addormentamento e laseduzione delle coscienze 24. Un progetto del genere – una massa di meri«osservanti» – è semplicemente una distopia, cioè una utopia al rovescio.Ogni ordinamento giuridico deve temere l’assolutizzazione della legge,perché il mancato riconoscimento del limite conduce non alla forza dellalegge, ma alla sua fragilità.

Nei capitoli precedenti, in particolare quelli sul costituzionalismo e sullagiustizia costituzionale – si è trattato dei modi escogitati per contrastarel’arbitrio delle leggi, cioè la contraddizione con i sentimenti morali dicoloro ai quali si rivolgono per ottenerne l’ubbidienza. Per quantoimportanti siano, quella contraddizione non può mai del tutto escludersi,quali e quanti siano i rimedi giuridici consentiti. Ecco, allora che fanno laloro comparsa i limiti etici del diritto.

13. L’obiezione di coscienza.

L’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea fariferimento al diritto di obiezione di coscienza, rinviando peraltro allelegislazioni nazionali il compito di prevederne casi e modi. È come se sidicesse: questa è l’obbligazione legale che vale per tutti, salvo che siabbiano validi motivi morali, religiosi o filosofici in contrario (motivi sulla

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serietà dei quali lo Stato può esercitare un controllo). La legge, allora, sirende “cedevole” o, se si vuol dire cosí, “si arrende” di fronte alle buoneragioni che possono esserle opposte e ch’essa stessa riconosce come valide.Si tratta d’un compromesso tra eteronomia (della legge) e autonomia (dellacoscienza). L’obiezione di coscienza legale è, per cosí dire, l’espressionedel convincimento del legislatore di non poter tirare troppo la corda quandosi verte nel campo delle cosiddette materie «eticamente sensibili». Illegislatore, in certo senso, prende atto che esistono limiti etici che èprudente non tentare di valicare, limiti oltre i quali non si può pretenderel’ubbidienza senza pregiudicare la propria stessa autorevolezza.

Talora, la legalizzazione segue a fenomeni di obiezione di coscienzacontra legem, cioè di violazione intenzionale e conclamata della leggeavente lo scopo di denunciarne l’ingiustizia e promuoverne la modifica. Ciòè accaduto rispetto al servizio militare di leva che entrava in conflitto con leconvinzioni etiche di appartenenti a certe confessioni religiose (Testimonidi Geova, Valdesi, Cattolici, che prendevano sul serio il precetto evangelico«non uccidere»), oppure di persone che laicamente rifiutavano la violenza ele macchine burocratiche che l’organizzano. Il rifiuto di «portare le armi»diede luogo a numerosi processi penali per renitenza alla leva o diserzione,con conseguenti condanne che si ripetevano a catena quando, scontata lapena, si ricominciava da capo con una nuova chiamata, cui seguiva la nuovacondanna. Una situazione aberrante denunciata da campagne d’opinionepubblica. Due testi particolarmente influenti furono scritti da don LorenzoMilani nel 1965, raccolti sotto il titolo L’obbedienza non è piú una virtú 25.Il legislatore raccolse quelle istanze in una legge del 1972 che, a certestringenti condizioni e controlli sull’autenticità e sincerità dei motivi dicoscienza, riconobbe la possibilità d’essere addetti a servizi civili sostitutivi(oggi, la questione è superata dall’abolizione del servizio militareobbligatorio «di leva», a meno che non si decida – come da qualche parte sipropone – di reintrodurlo). Il diritto positivo si adattò a qualcosa di pre-positivo. Si legge nel testo appena citato:

a Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito:l’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gliuomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel lorocuore. Una gran parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge

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della Coscienza. Quelli che non credono né nell’una né nell’altra non sono cheun’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca 26.

Il riconoscimento del diritto all’obiezione per motivi di coscienza è undato importante che induce a riflettere sui limiti della legge nei confrontidelle concezioni etiche entro le quali essa opera. Fino a qualche decennio fanon se ne parlava neppure. L’obiezione era un fatto individuale di ribellionealla legge, punito come tale. Da qualche decennio, invece, i casi diobiezione come diritto secundum legem crescono, a dimostrazione di unasensibilità nuova rispetto agli obblighi legali. Sono tutti casi in cui, perlegge, non si è chiamati a ubbidire alla legge perché è legge, ma solo perchéè giusta. Una legge del 1993 ha introdotto l’obiezione a proposito della«sperimentazione animale», a favore di tutti coloro che abbiano a che farecon le relative attività (medici, ricercatori, personale sanitario, studentiuniversitari) e che ritengano tali pratiche contrarie alle proprie concezionietiche. La legge sulla «procreazione medicalmente assistita» del 2004 haprevisto anch’essa il diritto di obiettare a favore del personale medicocoinvolto e lo stesso dovrebbe valere, quando sarà il momento d’una leggein materia, in tema di esecuzione delle «disposizioni anticipate ditrattamento sanitario» (il cosiddetto biotestamento). I casi sonoprobabilmente destinati ad aumentare. È possibile che, se si arriverà maialla legalizzazione di qualche ipotesi di eutanasia – anche in conseguenzadella crescita di un’opinione pubblica che inizia a manifestarsi in favoredella cosiddetta «buona morte» o «morte dignitosa» –, anche lí, allora, faràla sua comparsa il diritto all’obiezione di coscienza per consentire a coloroche, per ragioni professionali, vi dovrebbero avere parte attiva e si ispiranoperò a una qualche concezione assoluta del valore della vita, di far prevalerela propria visione su quella della legge.

Ma il caso attuale piú noto (non si dovrebbe dire piú importante: inmateria di coscienza non si possono fare graduatorie) riguardal’interruzione volontaria della gravidanza. La legge del 1978 (la celebre econtestata legge n. 174) riconosce il diritto all’obiezione di coscienza deimedici e del personale paramedico che operano nelle strutture pubblichedella sanità, le quali sono pur tuttavia tenute a dare seguito alla decisionedella donna di abortire, alle condizioni previste dalla legge. Si comprende, apartire da questo esempio, come l’obiezione di coscienza all’osservanza dei

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doveri legali implichi talora conseguenze non sempre facili da gestire,quando a fronte di tali doveri stanno diritti di altre persone. In effetti, visono situazioni in cui l’alto numero di «obiettori» rende problematico eincerto l’esercizio del diritto pur riconosciuto alle donne, le quali sonocostrette dalla necessità a ricorrere (contro le finalità della legge) a pratichedi privati che operano clandestinamente, oppure ad affrontare spostamentiin altri luoghi. Difficoltà che, nel 2016, hanno indotto il Consiglio d’Europadi Strasburgo a denunciare la possibile violazione di fatto d’un diritto delladonna in conseguenza dell’obiezione in massa da parte del personaleospedaliero.

Anche tenendo conto di quanto or ora detto, e sebbene la tendenza aintrodurre, per cosí dire, delle parentesi nelle leggi generali a favore deidiritti della coscienza sia di solito considerata con favore, ci si deve tuttaviainterrogare sui limiti di tale tendenza. La legge uguale per tutti è unagaranzia di tenuta d’unità della vita sociale e la proliferazione delleobiezioni di coscienza attenua o vanifica questa garanzia. Si pensi, comeesempio-limite, alla pretesa dei giudici di rifiutare l’applicazione dellalegge. È il caso del giudice e dei suoi drammi di coscienza davanti allalegge ingiusta, di cui parleremo nel capitolo seguente. C’è stato un tentativodi contestare il principio della soggezione del giudice alla legge (art. 101,secondo comma, della Costituzione), ancora in materia di aborto. La leggeprevede, per le ragazze minorenni, che in taluni casi il giudice tutelare siachiamato a convalidare o non convalidare la loro volontà di abortire,quando non si possa coinvolgere nella decisione i parenti piú prossimi. Puòsuccedere che il giudice, per ragioni sue, sia contrario all’aborto. È lecitoch’egli possa rifiutarsi di partecipare alla procedura autorizzativa? Laquestione è stata portata alla Corte costituzionale la quale, prevedibilmente,non ha dato accesso alla pretesa di quel giudice. Egli può dimettersi, manon può pretendere d’essere giudice e, contemporaneamente, di porsi al disopra della legge.

14. Il diritto di resistenza.

Su una scala piú ampia che riguarda non questa o quella legge, ma leleggi nel loro complesso e il rispetto del limite di tollerabilità etico-politica

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dei comandi legislativi, si pone la questione del cosiddetto «diritto diresistenza». Se la resistenza è riconosciuta come diritto, l’interoordinamento giuridico è posto, come dicono i giuristi, sotto una«condizione risolutiva» dell’obbligazione politica, cioè sotto la clausola:l’ordinamento giuridico gravemente ingiusto non obbliga a rispettarlo.Quando si verifica questa condizione, cioè quando le leggi non coincidonocon un minimo etico-politico, la ribellione alla legge cessa di essere uncomportamento antigiuridico per diventare, al contrario, il comportamentopiú altamente giuridico, per riportare la legge al diritto, la legge di Creonteal nómos di Antigone (si veda supra, par. II.4).

La resistenza nei confronti del diritto ingiusto è prima di tutto un fatto.Se ha successo, si avrà la fondazione di un nuovo ordinamento e il nuovoordinamento legittimerà gli atti di insubordinazione compiuti in precedenza.In altri termini, il criterio di legittimità di questi atti non è il diritto vigente(il diritto ingiusto) al momento in cui sono stati commessi, ma il lorosuccesso. Chi partecipa a una ribellione sa di agire a proprio rischio epericolo. I poteri costituiti, tanto piú in quanto ingiusti, agiranno persoffocarla e, se ci riusciranno, i ribelli saranno trattati non come coloro chehanno agito nel nome di un diritto (il diritto di resistenza), ma come coloroche hanno compiuto un delitto, violando il fondamentale dovere di fedeltàallo Stato e di ubbidienza al suo diritto.

C’è dunque un’aporia: la resistenza in sé, dal punto di vista giuridico,non è né un diritto né un delitto: il giudizio dipende da un fattore esterno edex post factum, il successo o l’insuccesso, esattamente come il tirannicidio:un tema classico della letteratura politica dall’antichità classica a oggi(Armodio e Aristogitone, uccisori dei Pisistrati; Bruto, uccisore di Cesare;Claus Philipp Graf von Stauffenberg, attentatore di Hitler, ecc.). Si potrebbeconcludere che la resistenza non è un tema da trattare dal punto di vista deldiritto positivo, ma solo eticamente. Eppure, non mancano i riconoscimentidella resistenza come diritto e, talora, come dovere civico, contenuti in testidi natura costituzionale. Per esempio, nella Dichiarazione di indipendenzadegli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 si legge:

Noi riteniamo che […] tutti gli uomini sono stati creati uguali, che il Creatore hafatto loro dono di determinati inalienabili diritti […] che ogni qualvolta una determinata

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forma di governo giunga a negare tali fini, sia diritto del popolo modificarla o l’abolirla,istituendo un nuovo governo che ponga le basi su questi principî […]. Allorché unalunga serie di abusi e di torti […] rende manifesto il disegno di ridurre l’umanità a unostato di completa sottomissione, diviene allora suo dovere, oltre che suo diritto,rovesciare un tale governo.

La Rivoluzione francese ha fatto proprio questo concetto: l’articolo 2della Déclaration des droits del 1789, fra i diritti «naturali eimprescrittibili» dell’uomo, pone la «resistenza all’oppressione», e laCostituzione giacobina del 1793 affermava che «la resistenzaall’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo» (art. 33) e che«quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo ilpiú sacro dei diritti e il piú indispensabile dei doveri» (art. 35). Dopo lacaduta dei regimi totalitari del secolo scorso, si comprende che questo temasi sia riproposto e, infatti, la Costituzione della Repubblica FederaleTedesca (art. 20, quarto comma) stabilisce che «tutti i tedeschi hanno ildiritto di resistenza contro chiunque metta in opera azioni rivolte arimuovere l’ordinamento vigente, se non è possibile alcun altro rimedio».Tuttavia, in generale, nei confronti della resistenza come diritto, lecostituzioni tengono un atteggiamento sospettoso e se ne comprende laragione: la costituzione fonda la legittimità del potere, e come potrebbefacilmente ammettere che qualcuno possa agire contro? D’altra parte, lecostituzioni prevedono esse stesse rimedi e garanzie per impedire leinvoluzioni autoritarie dei poteri ch’esse stesse istituiscono.

All’Assemblea Costituente italiana fu discussa un proposta (di GiuseppeDossetti) che si allacciava alla tradizione della resistenza al tiranno e chediceva: «Quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali ed i dirittigarantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e doveredel cittadino». La proposta non ebbe seguito. Si ritenne che una similestatuizione avrebbe in qualche misura delegittimata la stessa Costituzione.L’articolo 1 della Costituzione stabilisce, infatti, che al popolo appartiene lasovranità, ma che questa deve essere esercitata «nelle forme e nei limiti»della Costituzione, mentre la resistenza è tipicamente una forza che nonconosce né forme né limiti. Il silenzio costituzionale sul diritto di resistenza,tuttavia, significa semplicemente ch’esso non ha una base nel diritto(costituzionale) positivo, ma non significa anche che non abbia un

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fondamento in uno strato di diritto piú profondo del diritto positivo, eprecisamente nella sovranità popolare che è il corollario della democrazia epreesiste alla stessa proclamazione dell’articolo 1 della Costituzione che lacirconda delle cautele sopra dette.

Nei momenti costituzionali eccezionali alla legalità si sovrappone lalegittimità e in democrazia la legittimità deriva non dalla legge positiva madalla corrispondenza alla norma prepositiva che sta nella forza fattuale dicui dispongono le forze della «costituzione materiale» (sul cui concetto siveda supra, par. VI.4). La costituzione materiale sorge da un campo dibattaglia in cui si incontrano e si scontrano potenze e forze storiche: quellaè la sede della resistenza e della repressione della resistenza. John Lockeusa l’immagine dell’«appello al cielo»: quando non ci sono autoritàcostituite che proteggono dal potere tirannico, quando queste autorità sonoaddirittura esse stesse sedi di tirannia, quando non v’è giudice sulla terra,ogni cittadino deve fare appello al cielo, cioè alla sua libertà e alla suacoscienza «di cui dovrà rispondere nel gran giorno, davanti al giudicesupremo di tutti gli uomini» 27. A differenza dei regimi autocraticidell’Ancien Régime, quando l’appello al cielo si poteva risolvere soltantonella preghiera a Dio affinché egli illuminasse la mente del principe (si vedasupra, par. IV.2), l’appello al cielo in democrazia è un appello ai diritti e aidoveri del popolo verso se stesso. Che l’appello al cielo sia l’oggetto di undiritto giuridico o di un diritto originario pre-giuridico, in fondo, interessapoco. In ogni caso, si tratta di riconoscere che la legge positiva non puòtutto e che incontra limiti, superando i quali mette a rischio la sua stessasopravvivenza.

15. Il diritto al di là della legge.

Il positivismo giuridico alimenta la presunzione della legge di esaurire ildiritto. Tocchiamo qui l’aspetto piú inquietante di tutta la dottrina del dirittofondata sull’idea che la legge positiva definisce lo spazio del diritto e chefuori di quello spazio non vi sia diritto. L’obiezione di coscienza e laresistenza riguardano situazioni in cui la legge, per il suo contenuto osingolare o complessivo, si scontra con le concezioni etico-politiche di

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coloro ai quali si vorrebbe applicarla. Qui, parliamo di qualcosa di diverso:precisamente del fatto che il diritto positivo, per la sua stessa essenza e inparticolari circostanze, è superato da un’altra, piú ampia e profonda, ideadel diritto. Superato, ma non contraddetto nei suoi contenuti particolari ogenerali; o, meglio, è superata la pretesa che la legge circoscriva l’area del“giuridico”. Il carattere piú evidente di tale superamento, che vuole nonessere una contraddizione, consiste in ciò che, della civiltà giuridica in cuila legge dovrebbe radicarsi, si cerca di mantenere qualcosa di essenziale,per quanto è possibile. In sintesi: l’obiezione di coscienza e la resistenzasono delitti dal punto di vista della legge vigente che si legittimanoinvocando il diritto violato dalla legge vigente. Alla violazione del diritto sireagisce violando la legge. Il doppio strato in cui muove il mondo giuridico(lex et ius) non potrebbe mostrarsi con maggiore evidenza.

Alla fine della seconda guerra mondiale, quando si è alzato il velo sulleaberrazioni dei regimi fascisti, sono venuti alla luce quelli che si sono detti«crimini fino ad allora sconosciuti». Alcuni furono giudicati a Norimberga,Tokyo e Gerusalemme. Tali processi, non sfuggiva a nessuno cherappresentassero eventi straordinari che non potevano essere ricondottinelle forme procedimentali ordinarie. Infatti, i legalisti ne contestarono lalegittimità. Ma, l’enormità dei delitti ha determinato le norme giuridiche.Qui, nel caso estremo, s’è visto con chiarezza che non è vero che è la leggea far sorgere il delitto (si veda supra, par. VII.5), ma qualche volta è ildelitto che fa nascere la legge. Il positivismo estremo, quello che perl’appunto afferma che se non c’è la legge non c’è il delitto, non temel’assurdo. I suoi giuristi hanno protestato, ma hanno dovuto rassegnarsi difronte all’evidenza (a meno di dire che Hitler, Göring, Himmler, Frank,Ribbentrop, Eichmann e i loro camerati erano perfettamente innocenti,avendo essi obbedito alla legge che, peraltro, era stata fatta da loro stessiper se stessi).

I processi si svolsero di fronte a Tribunali istituiti ex post facta, contro ilprincipio generalmente vigente del «giudice precostituito per legge», ecreati ad hoc dalle potenze vincitrici nella seconda guerra mondiale(Norimberga e Tokyo) o dallo Stato che aveva assunto la rappresentanzamorale dei milioni di vittime della Shoah e delle sofferenze patite nei secolidal popolo ebraico (Gerusalemme); la legge applicata non era quella in

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vigore negli Stati al tempo dei fatti, contro il principio di irretroattività dellalegge penale, ma era quella scritta negli atti istitutivi di quelle giurisdizionistraordinarie, o in leggi successive approvate da altri legislatori oppure,addirittura, in proclami dell’autorità militare che aveva vinto la guerra(come quello del generale MacArthur, comandante delle forze americaneoperanti in Estremo Oriente). Per conseguenza, furono considerati criminaliatti che quando erano stati commessi erano addirittura doverosi secondo lalegge del tempo e del luogo. I critici di queste terribili vicende parlarono di«giustizia dei vincitori», cioè di regolamento dei conti e di vendetta informa giudiziaria: una perversione della giustizia i cui riti, secondoconcetto, dovrebbero svolgersi davanti a giudici imparziali chiamati agiudicare secondo la legge vigente al tempo dei fatti commessi. Rispettoalla giustizia penale dei tempi ordinari ci furono certamente delle forzature,che in tempi normali non sarebbero state accettate. I giuristi si arrovellaronoper trovare soluzioni e superare obiezioni.

La letteratura in materia è sterminata. Il testo piú famoso (e piúcontroverso), dedicato al processo di Gerusalemme, è certamente il giàcitato La banalità del male, che tratta anche di questioni già presentatesi altempo di Norimberga. Partendo dalle concezioni normali del processovalide per i tempi normali, vi si svolge una requisitoria contro le finalitàimproprie di tali processi: in entrambi i casi, tracciare un quadro del regimehitleriano destinato a passare alla storia; nel 1946, altresí legittimare sulpiano etico gli Alleati che l’avevano sconfitto; nel 1961, anche cementarel’identità dello Stato d’Israele come soggetto portatore storico del riscattodel popolo ebraico, secondo l’intendimento del capo del governo BenGurion. La punizione dei criminali, secondo questa visione, sarebbe passatain secondo piano, pur dovendo essere la funzione primaria, anzi la funzioneunica, della giustizia penale. Cosí fu detto esplicitamente e cosí furonopercepiti dall’opinione pubblica mondiale quei tre grandi riti della giustiziapolitica.

Non possiamo ripercorrere qui, analiticamente, tali questioni. Ai nostrifini è interessante notare che si fece di tutto per velare i caratteri di«giustizia dei vincitori», che è quella in cui difficilmente a favore deglisconfitti può valere la presunzione di non colpevolezza che nei Paesi civiliassiste sempre gli imputati nei processi penali fino alla sentenza definitiva;in cui, anzi, vale l’opposta presunzione di colpevolezza. Il diritto

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dell’accusato di richiedere l’audizione di testimoni a suo favore è sempregrandemente indebolito dal fatto che tali ipotetici testimoni correrebbero ilrischio d’essere incriminati a loro volta. Che Eichmann fosse un colpevolea priori era indubitabile: chi mai avrebbe potuto immaginare ch’egli aGerusalemme potesse essere assolto? Non c’è giudizio se la condanna è giàscritta prima. Solo sulla base dell’assunzione indiscutibile dellacolpevolezza si poté sostenere davanti all’opinione pubblica mondiale lanon arbitrarietà del suo rapimento in Argentina e del suo trasporto in statodi cattività a Gerusalemme. Sulla questione decisiva della legge retroattiva,si discusse se già si fossero formate in precedenza norme del dirittointernazionale generale, uno ius gentium sui delitti contro l’umanità econtro la pace tra i popoli (il Trattato di pace di Versailles del 1919 avevaprevisto norme – che non furono applicate – per mettere sotto processodavanti a un tribunale speciale il Kaiser Guglielmo II Hohenzollern, comeresponsabile di una guerra d’aggressione). Si era discusso al tempo diNorimberga se fosse accettabile incorporare tra i delitti contro l’umanità ildelitto di genocidio, una nozione specifica che comprende omicidi,stermini, distruzione fisica e mentale, sterilizzazioni e interruzioni dellegravidanze «con l’intenzione di distruggere una stirpe umana» nel suoinsieme 28. Questo delitto fece la sua apparizione nel mondo giuridico solonel 1948, con la Convenzione per la prevenzione e la punizione del delittodi genocidio approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, edentrò nella giurisprudenza per la prima volta solo col processo Eichmann (aNorimberga, esso non faceva parte dei capi d’accusa, pur essendosi apertauna discussione in proposito: i magistrati chiamati a svolgere le lorofunzioni avrebbero potuto essere messi in difficoltà dal fatto che anche iloro Paesi avrebbero potuto incappare nella medesima accusa) 29. Sidiscusse la norma secondo la quale l’ubbidienza all’ordine superioregiustifica il compimento di atti che sarebbero altrimenti crimini di guerra esi mise in discussione il principio dell’insindacabilità degli «atti di Stato»,cioè compiuti dalle piú alte autorità politiche. Questa grande interrogazionesullo stato del diritto internazionale umanitario, quale si presentava giàprima dell’avvento del nazismo, fu promossa dall’intento di ricondurre queisingolari processi nell’alveo del diritto ordinario vigente già prima deltempo in cui furono celebrati. I giudici stessi erano in una condizioneimbarazzante e fecero molto per scrollarsi di dosso l’accusa di essere di

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parte, di essere prevenuti nei confronti degli imputati. Il giudice Landau,presidente del Tribunale di Gerusalemme, rispose cosí al difensoredell’imputato che aveva sostenuto che nessun ebreo avrebbe potuto esseregiudice degli esecutori della «soluzione finale» perché certamente nonsarebbe stato imparziale:

Noi siamo giudici di professione, avvezzi a soppesare gli elementi che ci vengonosottoposti e a svolgere il nostro lavoro sotto gli occhi del pubblico, esposti alle critichedel pubblico […]. Quando una Corte siede in giudizio, i giudici che la compongonosono esseri umani, sono persone in carne e ossa, dotate di sensi e sentimenti, ma dallalegge sono obbligati a reprimere questi sensi e sentimenti. Altrimenti, non si potrebbemai trovare un giudice per giudicare un crimine che suscita orrore. Non si può negareche il ricordo dell’Olocausto turba ogni ebreo, ma finché questa causa sarà dibattutadinanzi a noi, sarà nostro dovere reprimere questi sentimenti, e noi rispetteremo questodovere.

Nobili parole, ma sufficienti? Certamente insufficienti se si fosse trattatodi processi ordinari nei quali devono valere le leggi ordinarie. Ma eranoprocessi ordinari? Si disse anche che in quei processi avesse fatta la suariapparizione l’antica e venerabile figura del diritto naturale, un diritto chedi tutte le garanzie artificiali del diritto legale può facilmente fare a meno.Ma, allora, il diritto naturale si dimostra essere talora, come in questo caso,una comoda copertura di argomenti, pretese e interessi eterogenei. Diciamo,piuttosto, che in casi come questi la dea Giustizia brandisce la spada e nonsa che farsene della bilancia (si veda infra, par. XI.5). Quando ciò accade difronte a «crimini finora sconosciuti», siamo di fronte al summum ius o allasumma iniuria?

Da allora molto è cambiato. I principî affermati con riguardo ai crimininazisti si sono estesi ad altri casi; altri Tribunali internazionali sono statiistituiti per giudicare i grandi crimini commessi nel corso di conflitti politicied etnici: nella ex Iugoslavia (1993), in Ruanda (1994). Altri tribunali, detti«misti» o «internazionalizzati», sono stati previsti in base allacollaborazione tra uno Stato e le Nazioni Unite, per esempio per giudicare icrimini commessi in Sierra Leone, Timor Est, Cambogia e Libano. A pocoa poco la natura di «giustizia dei vincitori» si è stemperata nella giustizia

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esercitabile nei confronti dei delitti commessi da tutte le parti in conflitto.Finalmente, con l’accordo internazionale stipulato (non da tutti gli Stati:anzi, non dai piú potenti o da quelli piú a rischio d’incriminazione) nel1998, entrato in vigore nel 2002, è stata creata una Corte penaleinternazionale, con sede all’Aja, il cui Statuto supera molte delle criticherivolte in passato alle Corti create ad hoc ed ex post facta per decisionedelle potenze vincitrici in conflitto. La strada è lunga, incontra difficoltà eripensamenti soprattutto da parte dei Paesi che dispongono o credono didisporre della potenza di farsi giustizia da sé e non accettano di sottoporsiad autorità terze, ma la direzione è chiara: la «positivizzazione» giuridica diistanze che, all’inizio, apparivano appartenere a una sfera prepositiva. Ildiritto, su queste questioni supreme, conduce una lotta per trasformare lalegittimità in legalità.

16. ”Lex contra ius”.

Dopo avere esaminato in questo capitolo il posto della legge neiconfronti delle conquiste della tecnica, delle strutture pre-giuridiche dellaconvivenza sociale e delle aspirazioni morali ed etiche; dopo avereesaminato le tortuosità e le aporie che apre il conflitto tra la legittimità e lalegalità, la domanda è che fine fa l’idea che coltivano i giuristi circa lacapacità della legge di porsi come «l’istanza normativa d’ultima istanza».Davvero la legge positiva può pretendere ubbidienza cieca e ci si deverassegnare a perseguire comportamenti tuttavia eticamente validi o, alcontrario, a lasciare impuniti comportamenti ripugnanti, fino a quando illegislatore non provveda a modificare la legge? In altri termini, lo ius ha onon ha una sua autonomia vitale rispetto alla lex? Ne dipende totalmente?

Ritorniamo alla giustizia penale internazionale. In nomedell’insufficienza della legge positiva, si sarebbe dovuto lasciare impunitidelitti quali non si erano mai constatati nella civilissima Europa, a causadell’impossibilità di formare Corti imparziali, della carenza di leggipunitive non retroattive, o dell’effetto giustificante dell’ubbidienzaall’ordine ricevuto? Oppure, come si disse anche, si sarebbe potuto e dovutopassare per le armi i responsabili direttamente senza processo, comeavvenne per Bin Laden, o lasciarli nelle mani della folla inferocita, come

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avvenne per Gheddafi? Oppure, ancora, avremmo preferito una resa deiconti senza tante complicazioni all’orribile farsa del processo messo inscena a Baghdad contro Saddam Hussein? Queste, in fondo, sarebbero statele alternative. Che cosa preferire? È in corso un movimento per la «giustiziaglobale» che inevitabilmente si scontra con grandi difficoltà. Come può lagiustizia valere quando sono in campo soggetti che sono mossi secondo lalogica della potenza e della pre-potenza, e quando questa stessa logica piegaa sé la giustizia e le sue opere 30?

Mi pare molto significativa la conclusione, «la sentenza» cui pervieneHannah Arendt in La banalità del male, dopo avere lungo le pagineprecedenti portato argomenti a favore d’un processo «legale» e controdeterminati aspetti illegali del processo di Gerusalemme. Rivolgendosiidealmente ad Eichmann, ella cosí si pronuncia:

Tu hai ammesso che il crimine commesso contro il popolo ebraico nell’ultima guerraè stato il piú grande crimine della storia, ed hai ammesso di avervi partecipato. Ma tuhai detto di non avere mai agito per bassi motivi, di non avere mai avuto tendenzeomicide, di non avere mai odiato gli ebrei, e tuttavia hai sostenuto che non potevi agirediversamente e che non ti senti colpevole. A nostro avviso è difficile, anche se nonimpossibile del tutto, credere alle tue parole; in questo campo di motivi e di coscienza visono contro di te alcuni elementi, anche se non molti, che possono essere provati al di làdi ogni ragionevole dubbio. Tu hai anche detto che la parte da te avuta nella soluzionefinale fu casuale e che, piú o meno, chiunque avrebbe potuto prendere il tuo posto;sicché quasi tutti i tedeschi sarebbero ugualmente colpevoli, potenzialmente. Ma ilsenso del tuo discorso era che dove tutti o quasi tutti sono colpevoli, nessuno lo è.Questa è in verità un’idea molto comune, ma noi non siamo disposti ad accettarla. E setu non comprendi le nostre obiezioni, vorremmo ricordarti la storia di Sodoma e diGomorra, di cui parla la Bibbia: due città vicine che furono distrutte da una pioggia difuoco perché gli abitanti erano ugualmente colpevoli. Tutto questo, sia detto per inciso,non ha nulla a che vedere con la nuova idea della “colpa collettiva”, secondo la quale gliindividui sono o si sentono colpevoli di cose fatte in loro nome ma non da loro, cose acui non hanno partecipato e da cui non hanno tratto alcun profitto. In altre parole, colpae innocenza dinanzi alla legge sono due realtà oggettive, e quand’anche ottanta milionidi tedeschi avessero fatto come te, non per questo tu potresti essere scusato. […] Tustesso hai affermato che solo in potenza i cittadini di uno Stato che aveva eretto i criminipiú inauditi a sua principale finalità politica erano tutti ugualmente colpevoli, non in

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realtà. E quali che siano stati gli accidenti esterni o interiori che ti spinsero a diventarecriminale, c’è un abisso tra ciò che hai fatto tu realmente e ciò che altri potevano fare,tra l’attuale e il potenziale. Noi qui ci occupiamo soltanto di ciò che tu hai fatto e nondell’eventuale non-criminalità della tua vita interiore e dei tuoi motivi, o dellapotenziale criminalità di coloro che ti circondavano. Tu ci hai narrato la tua storiapresentandola come la storia di un uomo sfortunato e noi, conoscendo le circostanze,siamo disposti fino a un certo punto ad ammettere che in circostanze piú favorevoli bendifficilmente tu saresti comparso dinanzi a noi o dinanzi a qualsiasi altro tribunale. Maanche supponendo che soltanto la sfortuna ti abbia trasformato in un volontariostrumento di sterminio, resta sempre il fatto che tu hai eseguito e perciò attivamenteappoggiato una politica di sterminio. La politica non è un asilo: in politica obbedire eappoggiare sono la stessa cosa. E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politicail cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altrerazze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deveabitare la terra) noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitarecon te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato 31.

Questo punto d’arrivo è comprensibile ma sconcertante. Dopo averecercato le buone ragioni legali del processo di Gerusalemme e aver dubitatod’averle trovate, si finisce per ricorrere allo stato di natura e al piúfondamentale diritto naturale: il diritto all’autoconservazione che precede lastessa fondazione della società civile. Ma, quando si apre un conflitto cheha come posta l’autoconservazione è inevitabile arrivare a giustificare ildiritto del piú forte, cioè del vincitore, lo stesso diritto al quale si appellavaanche Hitler quando si rifaceva alla brutale legge di Darwin, dominatricedella natura delle relazioni in tutto il mondo dei viventi: vivere esopravvivere a spese dei piú deboli.

La conclusione è una sola: quando si aprono conflitti ultimi, come quelliche riguardano la sopravvivenza fisica e morale delle parti in causa, ildiritto positivo regredisce di fronte alla forza, cioè alla violenza che cerca dipresentarsi in vesti giuridiche. Il compito delle leggi che si danno gli uominiper vivere gli uni con gli altri in pace è un compito, per cosí dire,penultimo: precisamente intervenire prima che quel momento supremo simanifesti in tutta la sua violenza e impedire che quando, ex post facto, simette in moto la giustizia, questa non si mostri nella sua forma piúselvaggia, per esempio travolgendo le regole che distinguono la giustizia

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dalla vendetta che riporta in onore perfino la piú disumana di tutte lepunizioni legali, la pena di morte.

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Capitolo undicesimoIl diritto come professione

1. Da un lato e dall’altro.

Giuristi e non-giuristi, chierici e profani sono ugualmente autorizzati adavere la loro visione del diritto; i primi, se è permesso l’uso di unlinguaggio aziendale, come produttori e i secondi come consumatori. Èsuperfluo dire che non tutti hanno del diritto come professione la stessaimmagine. I giuristi amano autocelebrarsi e vedersi in un certo modo, manon possono ignorare che gli altri li vedono in modi diversi che essi nonamano affatto. Una volta, e nemmeno molto tempo fa, si parlava deimagistrati come di una sorta di «asceti» appartenenti a un «ordinereligioso» 1 i cui membri sono gravati d’una missione, e un Autore non certoportato alla retorica, ancora di recente, ha parlato, sia pure tra virgolette, di«sacerdoti del diritto» 2. Oggi si dice se mai «cultori» del diritto, parola cheorigina da “culto”, perciò anch’essa carica di richiami a qualcosa di sacro.Può sembrare che sia qui un residuo di epoche passate, ma anche i residuihanno una loro spiegazione: tanto piú i giuristi si considerano depositarid’una scienza che nasce non dalla vita quotidiana ma da concetti validi inuna sfera a priori, tanto piú forte è l’esigenza di circondarli di sacralità.

Quelle espressioni oggi susciterebbero sarcasmi e ironie e sirovescerebbero in dileggio presso chi porta o teme i segni o le piaghe diqualche incursione nel mondo del diritto come utente e, soprattutto, comevittima; o anche presso coloro che studiano le professioni giuridiche con imetodi della sociologia. La visione profana del diritto, dei suoi rituali, delsuo linguaggio, delle sue architetture e dei suoi operatori ha alimentatoun’immensa letteratura dissacrante e una vasta iconografia, dove troviamoper lo piú vignette beffarde e denunce sarcastiche, quando non anche accuseamare e brucianti di animi disillusi nelle loro speranze di giustizia. HonoréDaumier ha costruito la sua fama di feroce caricaturista ritraendo i

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personaggi della giustizia borghese, ma non è stato il solo 3. Invece disorridere delle espressioni del sentimento popolare, degradandole a scherzi,impertinenze piú o meno divertenti, o a incomprensioni da perdonare inquanto provenienti da dilettanti incompetenti, si farebbe buona cosa aprenderle sul serio perché colgono spesso nel segno e, per cosí dire,smontano quando è il caso una pretesa di nobiltà che è contraddetta dallaspocchia, dalla vanagloria e dalla presunzione, e produce l’effetto, taloracomico, talora tragico, di miseria morale.

Non sono, queste, rappresentazioni necessariamente piú aderenti allarealtà delle cose di quanto i giuristi pensino di se stessi e del diritto in nomedel quale compiono le loro opere e trascorrono i loro giorni, ma spessomostrano legittimamente l’altro lato della medaglia del diritto e dellagiustizia: la giustizia attorno alla quale si affannano gli esseri umani. Su unafaccia della medaglia stanno coloro che esercitano il diritto e sull’altra iclienti del diritto esercitato dai primi. Tutti pensano, e sono, in diritto di direla loro.

Non chiudere gli occhi su quello che c’è sull’altra faccia della medagliaqualche volta può essere un utile esercizio di umiltà da parte dei giuristi eun antidoto alla presunzione di sé e alla retorica che l’avvolge. Ma, alcontrario, può anche giustificare da parte di chi esercita una professionetanto difficile la richiesta di una certa non immeritata indulgenza. Ci sonoinnumerevoli testimonianze dello stridore che può generarsi quando i duelati vengono a contatto. Basta ricordarne una contenuta in un diario d’ungiudice 4 che mette a nudo le miserie umane che si riversanonell’amministrazione della giustizia, la giustizia che vuole presentarsi nellevesti d’una funzione sovrana, incontaminata e degna della Giustizia. Lavicenda di quella testimonianza è significativa: invece d’essere stataapprezzata come incoraggiamento al miglioramento, fu interpretata comevilipendio e il suo autore fu punito con una “censura”. La maschera nonpoteva essere tolta e la tranquilla autocomprensione non doveva essereturbata.

2. Comprensione di sé.

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Il diritto, oltre che le tante cose di cui abbiamo parlato, è anche unaprofessione, anzi un insieme di professioni particolari che si richiamanotutte a una qualche idea della giustizia. I professionisti del diritto amanopensare se stessi attraverso l’immagine della Giustizia, una dea di cui siconsiderano discepoli, paladini, servitori, addirittura, come detto sopra,«sacerdoti». Forse, le professioni giuridiche sono quelle che piú di tutte lealtre mantengono aspetti di sacralità, pur in un’epoca come è quella in cuiviviamo, in cui il sacro quasi dappertutto è evaporato, lasciando il posto alculto dell’efficienza e al calcolo strumentale costi-benefici. Il diritto haresistito all’opera dissacrante della cultura moderna, assai piú validamentedella medicina con la quale un tempo rivaleggiava in simboli idealizzanti.Quale medico o quale farmacista penserebbe di trasmettere ancora il senso eil valore della sua professione per mezzo del serpente avvinghiato albastone di Asclepio o attraverso l’immagine del doppio serpente cheavvolge il caduceo di Hermes, simboli carichi di riferimenti mitologici dicui abbiamo perduto il ricordo? Chi ne conosce oggi ancora il significato?Per i giuristi non è cosí. Essi hanno il loro simbolo professionale al qualesono tuttora particolarmente affezionati e che usano tutte le volte che èpossibile, come segno di nobiltà. La fanciulla vittoriosa che tiene in mano laspada e la bilancia resta malgrado tutto ferma al suo posto, refrattaria alledemistificazioni del nostro tempo disincantato.

Il simbolo è un medium, un messaggio concentrato in un’immagine cheintroduce chi l’osserva in un mondo suggerito per similitudini e analogie.Non è una descrizione, ma una allusione. Talora può essere un mezzo chepromette e alimenta aspettative, le quali facilmente possono diventareillusioni, e le illusioni possono rovesciarsi in disillusioni quando la realtànon schermata dal simbolo si mostra nella sua incontrovertibile crudezza.Pericolosi sono i simboli quando l’esperienza mostra che sono mentitori.Possono ritorcersi contro chi li usa. Cosí è per quella fanciulla chechiamiamo Giustizia delle cui virtú i giuristi vogliono ornare la loroprofessione.

3. Identificazione con la giustizia.

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Nel corso della loro lunga e complicata avventura, i giuristi, da quandosono venuti a configurarsi come un ceto professionale (si veda supra, ilPrologo), hanno assunto posizioni diverse e sono stati chiamati ainterpretare in molti modi la propria funzione sociale. Per quanto de-sacralizzata e ridotta a scienza profana, la giurisprudenza porta un segnotrascendente al quale i giuristi di ogni tempo non sono disposti a rinunciare,al quale si appellano quando c’è da difendere le proprie opere e la propriaprofessione dagli attacchi ai quali sono spesso sottoposti dal pubblicoprofano. Ne comprendiamo facilmente la ragione. C’è, insomma,un’altissima immagine ideale che li accomuna da sempre e che rappresentail loro titolo di nobiltà. È probabile che quando parlano tra loro ci credanopoco, ma quando c’è da celebrarsi in pubblico è difficile che non vifacciano ricorso.

Come addetti a una professione che oggi definiamo «liberale», nel sensodella sovrana neutralità e superiorità spirituale rispetto alle bassure dellavita, ci riferiamo volentieri a Themis, la dea garante dell’armonia universaleche abbraccia tanto gli dèi quanto gli uomini o, piú spesso, con Díkē, suafiglia, la dea garante dell’ordine divino incarnato nelle istituzioni umane.Díkē è raffigurata come vergine saggia, figlia del pudore, nemica dellamenzogna 5, pensosa e bella in tutti i sensi, che assurge a simbolo universalediffuso in prossimità delle aule dei tribunali, sui manuali di diritto chediamo da studiare ai nostri studenti o sul frontespizio di collane giuridicheintitolate alla «civiltà del diritto». Che i giuristi si considerino adepti diquella divinità è forse un atto d’orgoglio ma non un’arbitraria sostituzione oidentificazione: tra il diritto e la giustizia c’è un legame intimo, essenziale.Ci potremmo immaginare, secondo la nostra cultura, un testo giuridico cheesordisse dicendo: il diritto che racconto nelle mie pagine è ingiusto?oppure, che quel diritto non è né giusto né ingiusto, cioè è neutrale rispettoalla giustizia? oppure, che è espressione di puro potere in forma di legge?Oppure, potremmo concepire una sentenza o una memoria difensiva chenon si richiamassero a una qualche concezione della giustizia, sia purefiltrata attraverso la legge, e che affermassero di essere pure e sempliciespressioni di brutali “decisioni” o di “difese” pretestuose? Anche la criticaalle leggi positive che spesso proviene dai giuristi trova alimento, e nelmodo piú esplicito, in qualche idea di giustizia che essi intendonopromuovere. Nelle aule della vita accademica, coloro che trattano il diritto

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come una mera tecnica per risolvere problemi pratici non godono certo digrande appeal, come se a loro manchi qualcosa di essenziale. Nel diritto sideve poter «avere fede» 6 e, allo stesso modo, nella giustizia 7. Non è affattoprivo di significato che questa parola, «fede», possa risuonare appropriatase l’applichiamo alla giustizia, mentre nessuno – credo – direbbe di «averefede» nella sua storica e antagonista sorella, la politica. Fede nella politica?Semmai aspettative e speranze; ma la fede è un’altra cosa e non è il caso didilungarci su una differenza evidente. D’altra parte, quale giurista non haalmeno una volta rivolto il suo deferente pensiero al mugnaio di Sanssouci?

Vediamo dunque, non per ragioni estetiche o artistiche ma diautocoscienza, come è fatta questa Giustizia nelle sue rappresentazioni che,spesso, sono sovraccaricate di simboli, sovente angosciosi, dove gli incubiprevalgono sui sogni, come nel Klimt della Pallade Atena o nell’affresco(andato distrutto) dell’Aula Magna dell’Università di Vienna.

4. La dea Giustizia.

Innanzitutto, colpisce una ricorrenza: la giustizia è ascritta al mondofemminile. La politica, luogo del potere, è stata per secoli pensata comedominio prevalentemente maschile. Il Leviatano, l’animale marino scelto daThomas Hobbes come simbolo del potere sovrano, è rappresentato da unafigura imponente che brandisce spada e scettro, i cui elementi semplici sonopiccolissimi lillipuziani che, insieme, concorrono a formare il corpo di unimmane «uomo in grande». Si dirà: il Leviatano è un trattato politico ed èstato scritto in un’epoca in cui la politica era “naturalmente” cosa di uomini.Nel Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, a Siena, per fare soltanto unaltro esempio, sulla destra campeggia la figura del principe governante e,sulla sinistra, la figura della Giustizia. Ancora una volta troviamol’identificazione del potere con il sesso maschile e l’identificazione deldiritto e della giustizia con quello femminile. Esistono nella storia,eccezionalmente, “donne di politica” (Vittorie, Elisabette, Caterine, MarieTerese, Margarete), ma ciò non ha indotto nessuno a identificare in generaleStato e Governo con la loro femminilità, del resto non sempre evidente. Laseparazione dei sessi nell’iconografia politica è rigorosa. Il sesso maschile èidentificato non soltanto con il potere e il governo, ma talora è contrapposto

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come ingiustizia alla giustizia-donna. Cosí è, per esempio, nel ciclo dei vizie delle virtú di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Del resto, gli uominidi governo possono imbracciare la spada ma, nell’altra mano, non hanno labilancia bensí lo scettro. Probabilmente, nel mondo cristiano d’Occidente, ilmonopolio simbolico femminile della giustizia è stato confortato dallapossente venerazione che dal Medioevo in poi si è rivolta a Maria diNazareth, nella quale risplende la giustizia, la giustizia perfetta di Dio, nonquella corrotta degli uomini. Per questo è speculum iustitiae e virgoclemens, come è appellata nelle Litanie lauretane 8. Cosí si dice, ma sipotrebbe anche dire il contrario, cioè non che dai doni di Maria sia derivatoil monopolio femminile della giustizia, ma dal monopolio femminile dellagiustizia siano derivati i doni di Maria.

Forse, queste considerazioni potrebbero estendersi oltre l’ambito dellacultura che viene dalla Grecia classica e da Roma, se è vero che la giustiziacosmica nell’antico Egitto era rappresentata dalla dea Ma’at, che il Librodei morti (XIII secolo a.C.) raffigura bensí con la bilancia (per la pesa deicuori), ma con la piuma al posto della spada (si veda infra, par. XI.5).Occorrerebbe un’indagine a largo raggio ma, per quel che si sa, è probabileche, da quando si pose, la contrapposizione governo-giustizia (unacontrapposizione non “ontologica”, ma storica) abbia dato luogo a diffuseraffigurazioni basate sulla contrapposizione tra i mondi maschile efemminile. In ogni caso, questo dato vale nella nostra cultura e possiamotenerlo per certo.

Ogni società ha bisogno di confidare in una sfera di relazioni scevre dalpotere, cioè dalla legge del piú forte, dove cercare rifugio quandol’oppressione passa la misura; ha, forse, bisogno di una camera didecompressione psicologica, dove non regni la prepotenza e si possapensare che il potente è sullo stesso piano dell’impotente. Lí c’è il desideriodi trovare la pialla che uguaglia l’uno all’altro, come nell’immagine senesedel Buon Governo, o di trovare la bilancia su cui il debole può deporre lesue buone ragioni che valgono quanto quelle del potente. Occorre dunqueuna immagine che al potere e alla violenza dell’uomo contrapponga il suoopposto: la donna, mite rappresentante di virtú passive, grembo paziente ecomprensivo, vas in cui posare peccati e dolori, garante dell’equilibrio dellanatura, freno alle violenze e alle intemperanze dei suoi figli, allibita di

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fronte alle loro crudeltà. Questa è l’immagine che compare nel frontespiziodelle edizioni del 1765, del 1780 e del 1797 di Dei delitti e delle pene diCesare Beccaria: la fanciulla che si ritrae con orrore e sgomento davanti alboia che le presenta un mazzo di teste mozze. Non ha piú in mano glistrumenti consueti: la spada è in mano al boia, la bilancia giace ai suoipiedi, insieme ad altra ferraglia che probabilmente sta a indicare i lavori neiquali piú utilmente la pena capitale avrebbe potuto essere convertita.

La giustizia, nell’immaginazione sociale è dunque dominio femminile,ma la sua “amministrazione” lungo i secoli e ovunque è stata riservata agliuomini. Perfino la donna-serpente che esercitava la giustizia nelle societàdell’America precolombiana in nome della «madre del mondo» Tonantzin(diventata Nostra Signora di Guadalupe a seguito della “inculturazione”cristiana) era un uomo, Cihuacoatl. Nel nostro Paese fino al 1963 l’accessoalla magistratura è stato precluso alle donne e questa preclusione eraconsiderata perfettamente ragionevole, perfino giustificata dalla fisiologiafemminile. Maschile, la realtà; femminile, l’immagine. Come possiamoconsiderare questa contraddizione? Forse qui possiamo già cogliereun’ambiguità e un primo segno d’ipocrisia. Perché simulazione? Il mondomaschile, quando opera in nome della giustizia, ha bisogno di assumere unamaschera femminile. Non di giustizia si tratta realmente, ma di potere(maschile) dissimulato. Qui, la funzione mentitoria del simbolo – checontinua da allora a tenere il campo – appare con evidenza.

Già, dunque, l’incarnazione della giustizia in una figura femminile èricca di significati simbolici. Essa, tuttavia, si arricchisce e si complica pergli elementi, anch’essi altamente simbolici, che la caratterizzano: labilancia, la spada, la benda sugli occhi, il ginocchio nudo.

5. La bilancia.

La Giustizia tiene sempre in mano la bilancia. La mano è (quasi) semprela sinistra. La destra porta la spada. Un primo elemento di riflessione è chenon si tratta della stadera, cioè dello strumento a un piatto solo che misura ilpeso rispetto a un contrappeso, per cosí dire astratto. Chi ha esperienza deimercati di frutta e verdura d’altro tempo, sa a che cosa ci si riferisceparlando della stadera. La giustizia non si avvale di questo strumento di

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pesatura che darebbe un responso, per cosí dire, assoluto alla domanda:quanto pesa ciò che sta sul piatto? Il responso della bilancia, invece, èrelativo: non dice nulla sul peso in sé, ma dice in quale piatto sta ciò chepesa di piú e ciò che pesa di meno, non essendo escluso che i pesi siequivalgano. In secondo luogo, la bilancia solleva la domanda successivache riguarda il compito della Giustizia: deve prendere atto dei pesi e dellosbilanciamento dei piatti o della loro equivalenza, per trarne leconseguenze; oppure, deve operare per bilanciarli, in modo che il debole siarisarcito e posto sullo stesso piano del forte? In breve: deve constatareoppure deve equilibrare? Sono due prospettive che rinviano a dueconcezioni inconciliabili della giustizia.

In ogni caso, la bilancia ci dice, realisticamente, che la giustizia possibilenelle aule dei tribunali sta in un rapporto concreto, non in una veritàastratta. In piú: dice che anche il piatto della bilancia che pesa menodell’altro può pesare anch’esso, cioè avere ragioni dalla sua parte: ragioninon sufficienti a vincere la causa ma, non per questo, indegne d’essereconsiderate dalla Giustizia. La differenza può stare anche solo nell’ineziad’una piuma, come nella già ricordata figura della dea Ma’at che fa penderela bilancia proprio col peso d’una piuma, oppure nel ramoscello d’ulivo checompare in certe rappresentazioni. La pesa è l’atto finale di un percorsospesso guidato dalla virtú dell’equilibrio tra sfumature. Si può allora direche il giudice è un equilibrista? Forse sí, purché ciò non sia un invitoall’opportunismo. Di sicuro, però, è colui che, volterrianamente, fa suo ilmotto écraser l’infâme, dove l’infamia è il pregiudizio e il fanatismo, fossepure il fanatismo della giustizia.

Che cosa, poi, deve essere pesato? Poiché noi, nell’età moderna,concepiamo il giudizio come arbitrato fra le ragioni delle parti che siaffrontano in un’aula di giustizia, ci è quasi spontaneo pensare che nei duepiatti siano da posare le ragioni delle parti, dell’attore e del convenuto,dell’accusatore e dell’accusato. La giustizia deve constatare quali sianoquelle che pesano, cioè che valgono di piú per distribuire conseguentementele ragioni e i torti nella sua sentenza. Noi immaginiamo il processo, dicono igiuristi, come actus trium personarum: due parti in conflitto e, al di sopra, ilgiudice imparziale che ascolta le ragioni dell’una e dell’altra, le confronta etrae le conclusioni. Questo è ciò che chiamiamo «processo contenzioso»,cioè che si sviluppa attraverso il «contraddittorio». Ma non è detto che i

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piatti della bilancia siano contenitori delle ragioni dei litiganti. Potrebberoperfettamente simboleggiare il doppio lato della giustizia, del quale laGiustizia deve tenere conto. La Giustizia che guarda solo da una parte e nonanche dall’altra – ci dice la metafora della bilancia – non adempie comedovrebbe il suo compito.

La Giustizia, prima che fosse concepita come attività unilaterale di meraapplicazione della regola di giustizia che, secondo il positivismo legalista, èla regola legale, era vista come incontro di giustizia e misericordia, di rigoree clemenza. Nel Decretum Gratiani, una compilazione delle norme deldiritto canonico del XII secolo, troviamo questa evocazione della bilancia auso di chi «iuste iudicat» (parte II, C. X):

Chiunque giudica con giustizia porta in mano la bilancia e pone nell’uno e nell’altropiatto la giustizia e la misericordia; ma se condanna i peccati secondo giustizia, secondomisericordia addolcisce la pena del peccato, affinché con un certo equilibrio per equitàpunisca e con una certa compassione effettivamente sia indulgente 9.

Cosí, la fredda iustitia che uccide è posta in equilibrio con caldamisericordia che vivifica, presso il giudice che dà prova di aequitas.

6. La spada.

Nella mano destra impugna la spada. Il significato simbolico cheimmediatamente si coglie, in collegamento con la bilancia che pesa leragioni delle parti, è l’aspetto esecutivo della Giustizia che, dopo averepesato le buone e le cattive ragioni, passa alle vie di fatto. Qui potrebbeapparire di nuovo la bilancia, affinché la pena inflitta con la spada siaproporzionata alla colpa. Ma, non è cosí: la spada taglia in due, è impugnatadall’altra mano e il taglio non è affatto misurato sulla colpa, non conoscecompromessi. Rappresenta la sconfitta del male da parte del bene, lasconfitta definitiva che – dicono i giuristi –s ha la forza definitiva del«giudicato». Tra pesare e tagliare c’è opposizione. Insomma, dopo averepesato la Giustizia è spietata, deve incutere paura. La spada è simbolo diterrore: non diciamo sempre che una delle funzioni della Giustizia è la

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dissuasione? Le immagini della Giustizia che brandisce la spada sonoduplicate in quelle dell’arcangelo Michele, capo dell’esercito celeste che, innome dell’Onnipotente, trafigge le forze demoniache. Pensiamo al Mont-Saint-Michel e alla figura, che è una contro-figura del male assoluto, chedomina l’Abbazia. Dove è finita la misericordia che abbiamo visto essereuna delle virtú della Giustizia? La misericordia è la sua virtú iniziale, maalla fine essa conosce solo la risolutezza senza sfumature. È ben dispostaverso tutti quelli che cadono sotto la sua azione, ma poi abbandona ogniequidistanza e s’abbatte senza sfumature ed esitazioni sulla partesoccombente. Materna prima, crudele poi. È attrattiva per chi non l’hasperimentata, è repulsiva quando se ne fa esperienza. Qualche voltaverrebbe da dire, imitando Erasmo, dulcis iustitia inespertis. Cosí, molti siabbandonano nelle sue braccia senza immaginare che ne potranno esserestritolati. La spada è simbolo della sovranità, simbolo regale nel qualegiustizia e forza s’incontrano e si danno la mano fino a disporre dello iusgladii, del potere di vita e di morte.

Della spada colpiscono altre suggestioni. Ponendo la spada su uno deipiatti della bilancia, il capo dei Galli, Brenno, pronunciò il suo fatidico vaevictis!, ciò che fa pensare alla «giustizia dei vincitori», la giustizia servadella forza. La spada di Alessandro il Grande tagliò di netto il nodo diGordio, aprendogli la strada alla conquista militare dell’Asia Minoresollevandolo dall’onere di districarsi tra i suoi filamenti: fuor di metafora,dall’onere del pensiero problematico.

Ma, infine e soprattutto, in alcune raffigurazioni la spada non sta perabbattersi sul condannato ma è protesa verso un ipotetico pubblico diastanti, come per tenerlo lontano dal luogo dove la Giustizia celebra i suoiriti. Il reo è sottoposto alla Giustizia ma, fino a quando non è condannato, èsotto la sua protezione. Del resto, la forza pubblica che assiste alle udienzein Tribunale, è lí per proteggere i giudici o per proteggere il reo? LaGiustizia è nemica della folla vociante; per essere tale, rifugge dallavendetta e dal linciaggio. Ne è anzi l’alternativa. Il pensiero corre all’Atenadelle Eumenidi di Eschilo, la quale sottrae Oreste alla violenza delle Furie eistituisce l’Areopago, luogo distinto dalla città, dove si amministra lagiustizia tenendo fuori le passioni piú elementari.

Ma la simbologia della giustizia, anche in questo caso, si presta a essererovesciata in certe circostanze. C’è un episodio della giustizia del Terrore

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parigino che fa riflettere 10. Il 2 settembre 1792, il Tribunale rivoluzionario,da pochi giorni costituito, stava giudicando il maggiore Bachmann, dellaguardia svizzera del re. La sala delle udienze improvvisamente si riempídelle urla d’una folla che, nel cortile, aizzata da mestatori, stava trascinandoquanti piú prigionieri poteva per farne scorrere il sangue in un grandemacello. Improvvisamente, si sparge la voce che al piano superiore sicelebrava il processo contro un ufficiale del re, insieme ad altre guardiesvizzere convocate come testimoni. La folla imbestialita corre su per lescale e fa per entrare nella sala delle udienze. Lo spavento è tale che glisvizzeri si gettano a terra, strisciando sotto le panche per sfuggire allacaccia. L’accusato Bachmann, solo, poiché sicuro di morire, che sia perfatto dei giudici o per fatto di questi assassini, scende dalla poltrona ove datrentasei ore è seduto, e si presenta alla sbarra come per dire: uccidetemi. Siracconta che avvenne un fatto sorprendente. Il presidente, si chiamavaLaveau, ferma con un gesto gli invasori. Con poche parole intima dirispettare la legge: «l’accusato è sotto la nostra spada». Si vedono allora imassacratori, in silenzio, ripiegare docilmente verso la porta. Chi ha riferitol’episodio commenta cosí: «Essi hanno compreso che l’opera che essicompiono là in basso, le maniche rivoltate e la picca tra le mani, questiborghesi in mantello nero e cappello a piuma la portano a compimento(parachèvent) dai loro scranni». Il commentatore dà la sua interpretazione:la folla non solo aveva compreso che i giudici stavano facendo ciò che essastessa si sarebbe accinta a fare, ma stava dando al Tribunale la suainvestitura, il suo battesimo di sangue, alla giustizia rivoluzionaria. Perquesto, quella banda d’assassini poté ritirarsi soddisfatta. La spada di quellagiustizia aveva affratellato gli assassini e gli uomini in tocco e toga.

7. La benda.

La fanciulla bendata è un altro luogo comune dell’iconografia dellagiustizia. È un luogo comune ma non costante pur essendo, nei tempimoderni, prevalente. Sui suoi significati, l’attenzione si è concentrataparticolarmente a causa della sua ambiguità 11.

La benda impedisce di vedere e, quindi, di cadere preda di influenzeesterne improprie rispetto alle pure ragioni della giustizia: le differenze di

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rango sociale, di appartenenze familiari, professionali, cetuali, di potere, diprestigio, ecc., tra le parti. In questo senso, la benda traduce in modosimbolico il motto che campeggia in tutte le aule dei tribunali: la giustizia èuguale per tutti. Ma, questo è un significato attuale che può esserleattribuito solo quando il processo storico di costruzione della figura astrattadell’individuo, titolare di uguali diritti e doveri, trovò il suo compimento: ilcittadino della Rivoluzione francese, insomma. La benda non è un dettagliooriginario della giustizia, a differenza della spada e della bilancia. Inizia acoprire gli occhi della Giustizia solo a partire da un’epoca storica precisa:quando la politica dei principî si impegnò a contrastare la divisione dellasocietà in corpi sociali differenziati aventi ciascuno una propria diversadignità che richiedeva d’essere presa in considerazione davanti allaGiustizia. La benda è un segno d’un diritto pubblico che si fa strada innome dell’uguaglianza solo a partire dai primi decenni del XVI secolo,quando entrò in vigore la constitutio criminalis detta Carolina, emanata inquell’anno dall’imperatore Carlo V d’Asburgo, destinata a valere in tutti iterritori dell’impero senza distinzione di ceto sociale.

Il dettaglio della benda a noi pare, dunque, il simbolo necessariodell’imparzialità della «giustizia giusta», ma il celeberrimo Narrenschiff (la«Nave dei folli») del 1494 di Sebastian Brant, tra le tante illustrazioni dellastoltezza umana, contiene una xilografia che mostra la Giustizia, attrezzatacon spada e bilancia, alla quale un pazzo, alle sue spalle, annoda una bendasugli occhi. Che cosa significa? Probabilmente, che il matto vuol trascinareanche la Giustizia nella sua follia e la follia consiste nell’uso cieco deglistrumenti di cui dispone, nel pesare senza guardare e nel menare la spada adestra e manca. La Follia, insomma, vuole arruolare nelle sue numerosetruppe anche la Giustizia e, per questo, deve impedirle di vedere quello chefa. Noi, figli dell’illuminismo e dell’uguaglianza giuridica, approviamocerto la Giustizia «che non guarda in faccia nessuno». Ma c’è un senso incui, però, quell’immagine trasmette un’assurdità: la giustizia dovrebbetenere gli occhi bene aperti per vedere dove stanno i torti e le ragioni, percolpire giusto e per poter tenere conto delle conseguenze dei suoi verdetti.La giustizia con la benda sugli occhi è irresponsabile e può sempregiustificare con la sua cecità i disastri che provoca. Il caso sostituisce ilgiusto.

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Ma, la benda potrebbe stare sugli occhi della fanciulla anche a suaprotezione, innanzitutto per impedirle di vedere gli orrori che si compionoin suo nome, ond’ella possa seguitare a svolgere un lavoro assai menodegno del nome che il mondo maschile, il mondo del potere, le hacommissionato. Non vedere, ma anche non essere veduta negli occhi. Siteme che il volto della fanciulla che si vuol far credere tutta bella appaiadeturpato da orbite vuote, globi spenti, pupille corrotte? Che cosa proteggedavvero la benda? Forse, la fanciulla che si presenta come vergineincorrotta dell’iconografia ufficiale è talora una prostituta compiacentecapace di tutto per accondiscendere ai desideri dei potenti e in danno degliinermi. Questa è l’estrema confessione del «giudice distrettuale» nellaAntologia di Spoon River scritta nel 1915 dall’avvocato Edgar LeeMasters 12. Nella stessa raccolta della sapienza che si affaccia al terminedella vita e viene scritta sulla pietra tombale, troviamo l’epitaffio di certoCarl Hamblin. Lo si citerà piú tardi per denunciare lo scandalo dellasentenza capitale servilmente pronunciata dalla giustizia americana controgli anarchici Sacco e Vanzetti per compiacere un’opinione pubblicaavvelenata 13. La metafora della donna bendata, simbolo d’armonia edequilibrio, si rovescia in un’immagine opposta e disgustosa. Leggiamo:

Ho visto una donna bellissima con gli occhi bendatisui gradini di un tempio di marmo.Una grande folla le passava dinanzi,i volti imploranti alzati verso di lei.Nella sinistra impugnava una spada.Brandendo quella spada,colpiva ora un bimbo, ora un operaio,ora una donna in fuga, ora un pazzo.Nella destra teneva una bilancia:nella bilancia venivano gettate monete d’oroda chi scampava ai colpi della spada.Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:«Non guarda in faccia nessuno».Poi un giovane con berretto rossole fu accanto con un balzo e le strappò la benda.Ed ecco, le ciglia erano state corrose

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dal marcio delle palpebre;le pupille bruciate da un muco lattiginoso;la follia di un’anima morenteera scritta su quel voltoallora la folla capí perché portasse la benda.

8. Il ginocchio nudo.

È stato notato un altro particolare, meno evidente e, perciò, per lo piútrascurato 14, un particolare che compare in non poche raffigurazioni dellaGiustizia. La donna mostra in evidenza un ginocchio nudo, come offertointenzionalmente a chi la guarda. All’interpretazione piú triviale checonduce all’idea della giustizia che si prostituisce, se ne contrapponeun’altra che ne suggerisce una diversa: la giustizia che pesa e punisce, mache al tempo stesso, anzi prima della punizione, induce a chiedere pietà,clemenza. Le ginocchia, in una lunga tradizione, sono ciò che i derelittiabbracciano per umiliarsi di fronte ai titolari di un potere su di loro, sianoessi governanti o, come nel nostro caso, giudici. Tra le altre virtú dellaGiustizia rappresentate dalla bilancia, dalla spada e dal velo: laponderatezza, l’inesorabilità e l’imparzialità, si aggiungerebbe cosí ladisponibilità verso il supplicante, cioè l’addolcimento della meccanicitàdella bilancia e l’inesorabilità della spada garantite dall’indifferenza che siprotegge col velo. Parcere subiectis, sí, ma a condizione ch’essi si umilinodavanti a lei. Non basta il giudizio, non basta la pena, occorrono anche lamortificazione, l’autoumiliazione e il riconoscimento della propriaindegnità.

9. Ambiguità.

Ecco, cosí documentata, la sconcertante duplicità che domina i modi divedere il diritto e la giustizia: da Díkē, la vergine saggia, figlia del pudore,nemica della menzogna, alla donna di tutte le corruzioni. Ladocumentazione di questa storia per diritto e per rovescio possiamo trovarlain un’avvincente e dotta ricostruzione di Adriano Prosperi 15. La prostituta,

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comprensibilmente, non viene proposta dai giuristi, ma dalle loro vittime. Ilche ci dice, come già anticipato fin dall’inizio, che le professioni giuridichesono oggetto di giudizi contraddittori, a seconda che la si consideri dadentro o da fuori, o da parte dei potenti o degli inermi. Esiste una alquantodiffusa incisione che rappresenta la «Giustizia bifronte». Siamo alla metàdel Cinquecento e in commento alla «praxis rerum criminalium» un Autoredel tempo (il fiammingo Joost de Damhouder) introduce l’immagineconsueta della fanciulla assisa sul trono della giustizia, con spada e bilancia.Essa, però, ha una particolarità: due volti. L’uno, bendato, guarda la poveragente d’un villaggio con in mano un rotolo di carta che presumibilmentecontiene gli argomenti con i quali spera di difendere le proprie ragioni;l’altro, senza benda, si rivolge con sguardo attento ai ricchi d’un castelloche fanno mostra della borsa di denari che pende alla loro cintura. A qualiargomenti quella figura ambigua sarà piú sensibile e chi vincerà la causa, èsuperfluo domandare. Bertolt Brecht ha svolto questo tema in Il cerchio digesso del Caucaso, mettendo in scena un giudice, Azdak, lontanissimo dainostri stereotipi, ignorante di diritto, ubriacone e ben disposto ad accettaredenaro. Egli, chiamato a pronunciarsi in una causa come quella famosadecisa da Salomone, fa realmente giustizia, forse a sua insaputa, solo nelmomento in cui i potenti sono in rotta e il diritto può fiorire senzacondizionamenti. La morale è amarissima: dove ci sono potenti e impotentianche i giudici finiscono per entrare nella spirale del potere.

E, ora, l’ultimo rovesciamento del simbolo. Abbiamo parlato all’iniziodella Giustizia come fanciulla bella in tutti i sensi, la donna per eccellenza,Maria speculum iustitiae, virtú divina. Di tutta la simbologia della giustizia,quest’immagine sembra essere quella che si sottrae a possibilirovesciamenti di significato. È davvero cosí? C’è un’altra donna nel nostroimmaginario, Eva, la traditrice della parola data, la tentatrice per eccellenza,l’origine di tutti i mali. Eva o Maria? Del resto, l’immagine della bilancia èstata avvicinata a quella della croce: due bracci, in entrambi i casi, cheabbracciano il mondo. Ma che cosa reggono? Una figura della vittoria o unafigura della sconfitta? Christus triumphans o Christus patiens?

Immagini, pensieri, simboli che si rincorrono. Non si finirebbe mai, maora basta.

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10. Giudizi e pregiudizi diffusivi.

I giuristi, nell’opinione comune, sono temuti e, al tempo stesso,disprezzati. Difficilmente sono tenuti in onore come ci aspetteremmo se ilpubblico profano condividesse la nostra autocomprensione, cioèl’associazione che facciamo alla figura della fanciulla incorrotta. Ildisprezzo e il timore sottintendono valutazioni e giudizi, talora basatisull’esperienza personale, che riguardano la categoria nel suo complesso.Qui c’è un non invidiabile privilegio che condividiamo con poche altreprofessioni, forse solo con la politica e il giornalismo. I giuristi, i politici e igiornalisti sono una triade professionale con comuni problemi di integrità edi credibilità.

Non risulta che i medici e gli odontoiatri, gli ingegneri e gli architetti, iferrovieri e i tranvieri, gli idraulici e gli elettricisti, in quanto categorie,siano accomunati in giudizi di tal tipo. Diremmo che ci sono medici,architetti, elettricisti, ecc. che fanno bene il loro mestiere e altri che lo fannomale. Ma la loro considerazione positiva o negativa si ferma qui. Per coloroche si dedicano a professioni giuridiche è diverso. Basta, invece, laqualifica di “giurista”, con le specificazioni piú consuete di “giudice”, di“avvocato” o di addetto a un qualunque “ufficio legale”, per subire unpregiudizio sociale. Sono eccezioni i “grandi giuristi” che si distinguonodalla massa, si sottraggono ai pregiudizi che la riguardano e brillano di lucepropria.

Perché le attività giuridiche hanno ripercussioni che vanno al di là deisingoli casi e dei singoli atti? Cento buoni giuristi non fanno buonaopinione quanto un solo cattivo giurista fa cattiva opinione sull’intera suacategoria sociale. Non è solo perché il buono, essendo ciò che deve essere eci si attende che sia, non fa notizia, mentre il cattivo, essendo ciò che nondeve essere, fa scandalo e lo scandalo si propaga fino a fare opinione. Unsolo esempio: si ricorderà il «caso Tortora». Egli, nota e rispettatapersonalità del mondo televisivo, fu arrestato nel 1983 con gravi einfamanti accuse che dopo quattro anni furono riconosciute dalla Corte dicassazione totalmente infondate. Fu una vicenda che, giustamente, fecegrande scalpore. La vittima ne morí un anno dopo. Sull’onda delloscandalo, nel 1988 si tenne un referendum per rendere possibile chiamare arispondere i magistrati che abbiano commesso ingiustizie inescusabili; il

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corpo elettorale si pronunciò a grandissima maggioranza (piú dell’ottantaper cento dei votanti) a favore della loro «responsabilità civile», cosa chepoi venne sancita in una legge. Non è eccessivo ritenere che quel solosingolo scandalo della giustizia sia stato sufficiente a provocare unmovimento di opinione pubblica che mosse milioni di elettori, prima, e, poi,il Parlamento della Repubblica.

Non si tratta però solo dell’ovvio maggiore interesse che suscita il malerispetto al bene, non è solo che la cattiva fama è piú diffusiva sui dellabuona. È che ogni atto giuridico (parere, atto defensionale, sentenza)trascende l’occasione specifica. Le proposizioni giuridiche, anche quando siapplicano a un caso particolare, pretendono di valere come applicazioni di«verità giuridiche» e, in definitiva, come riflesso di quella cosa chechiamiamo giustizia. In altri termini, si “impegna”, si coinvolge la giustiziacome tale, tutte le volte che ci si pronuncia usando il linguaggio del diritto.

Nessuna parola in diritto è, dunque, degna d’essere pronunciata se noncon la consapevolezza ch’essa deve poter essere ripetuta in innumerevolialtri casi simili. Sono parole pronunciate bensí con riguardo a questo o quelcaso, ma sono anche parole che pretendono di contenere verità (giuridiche)generali e astratte. Il diritto è una trama di relazioni sociali e sarebbe unatrama lacera se lo si concepisse come una sommatoria di decisioniscoordinate e indipendenti le une dalle altre. Per questo, la responsabilitàdei giuristi, in tutte le diverse professioni legali, è qualitativamente diversada quella di altre professioni. Il cattivo ingegnere che calcola male ilcemento armato, il chirurgo che sbaglia un’operazione, ecc., fanno danni aquesto o quell’edificio, a questo o quel paziente, ma non a tutti gli edifici, atutti i pazienti. Non cosí i giuristi che per questo aspetto, come si èaccennato in precedenza, sono assimilabili ai politici e ai giornalisti. Come igiuristi impegnano la giustizia, cosí i politici e i giornalisti, a loro volta,impegnano categorie generali come “il bene comune” e “la verità”, qualeche ne sia la concezione. Ci deve essere, in queste professioni, un sovrappiúdi responsabilità. Insomma, giuristi, politici e giornalisti fanno parte dicategorie professionali sospette, ambigue agli occhi dei piú e, peralimentare il sospetto, basta la cattiva condotta di pochi rispetto ai molti. Lasimbologia della fanciulla che rappresenta la giustizia, con il facilerovesciamento dei suoi significati di cui sopra s’è detto, si spiega cosí.

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11. Excursus I: letteratura del servilismo.

La letteratura, l’iconografia e la vignettistica riflettono e amplificano. Ilmotto medievale «Juristen, böse Christen» aveva ragioni storichespecifiche, ma non da oggi il discredito si è fatto, per cosí dire, astratto epervasivo, coinvolgendo non solo i «cattivi giuristi» ma, spesso, “i giuristi”come tali. I “professori di diritto” ne sono parzialmente immuni, forseperché stanno dietro le quinte come i registi e non ci si rende conto deldanno che essi – non immediatamente ma certo non senza efficacia –possono fare nella formazione dei cosiddetti «operatori giuridici», gli attori,cioè coloro i quali, stando davanti alle quinte, sono a contatto con ilpubblico e mostrano in azione, concretamente, che cosa è il «diritto comeprofessione».

La categoria dei giuristi, nelle sue diverse professioni, ha una sualetteratura, i suoi modi di dire popolari: una mole immensa di scritti, dimotti, di lazzi non inventariabile. Il diritto entra in gioco quando c’èqualcuno nei guai ed è difficile estirpare l’idea che di questi guai i giuristisiano profittatori.

Solo qualche esempio tra i meno triviali. Adriano Prosperi, nella suaindagine sulla pena di morte nei tempi delle Inquisizioni 16, riporta questanotizia: «c’era (a Firenze) un proverbio che girava sulla differenza tra gliavvocati e i carnefici: i carnefici vendono carne, gli avvocati vendono lalingua: con la differenza che i carnefici vendono davvero la loro merce(sangue e grasso dei giustiziati) mentre l’avvocato la sua lingua se la tieneanche se l’ha venduta». Mercuzio racconta di Mab, la regina dei sogni inRomeo e Giulietta, che visita i dormienti sul suo minuscolo cocchio dinocciola e risveglia desideri riposti attraversando i loro cervelli ostimolando le loro mani (nel caso dei giuristi). Come gli amanti sognand’amore, le dame sognan di baci e i cortigiani sognano di riverenze, ilegulei (lawyers) sognan direttamente, immediatamente, di onorari (straightdream on fees) 17. Dostoevskij, da qualche parte del suo Diario riferendo lesue impressioni sull’andamento di processi penali per fatti che facevanoparlare i giornali, si riferisce ai giuristi, precisamente agli avvocati, come a«coscienze all’incanto».

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Quanto questi giudizi siano diffusi e radicati è bene rappresentatonell’immagine manzoniana di Renzo Tramaglino davanti all’avvocato chela voce popolare chiamava l’Azzeccagarbugli (ma non glielo si doveva dire,perché si sarebbe offeso). Il passo è celeberrimo ma, non essendo certoch’esso sia conosciuto dai lettori di oggi, conviene ricordarne i sommi capi.Nel capitolo III de I Promessi Sposi si mostra il povero postulante conquattro capponi sgozzati in mano, legati per le zampe, destinati a omaggiarel’esperto di diritto, per promuoverne la buona disposizione d’animo: «nonbisogna mai andare a mani vote da que’ signori», gli aveva detto Agnese. Inpiedi davanti allo scrittoio ingombro d’allegazioni, di suppliche, di libelli,di gride, con tre o quattro seggiole all’intorno e da una parte un seggiolonea braccioli, con una spalliera alta e quadrata terminata agli angoli da dueornamenti di legno che s’alzavano a forma di corna che dava l’impressioneminacciosa della violenza, con una mano nel cocuzzolo del cappello, chefaceva girar con l’altra, il ragazzo inizia con: «vorrei sapere… da lei che hastudiato», io che non so parlare bene. Ecco il primo atto di soggezione.«Ditemi il fatto come sta», chiede il dottore. «C’è penale se a minacciare uncurato perché non faccia un matrimonio, c’è penale?» «Sí, c’è penale. Lodice chiaramente una grida severa che, essendo “fresca”, non lascia dubbi».Il postulante si sente sollevato perché la legge fa precisamente il caso suo. Ildottore, invece, si meraviglia: credeva che gli fosse davanti l’autore delsopruso, non la vittima. All’avvocato non bisogna dire bugie, precisamentecome al medico. Una volta che Renzo si sia confessato sinceramente – glidice – lui saprà andare a chiedere protezione dal potente di turno e l’otterràpurché non ci sia di mezzo qualche «persona di riguardo». Quandol’equivoco si chiarisce e il dottore capisce che l’autore del sopruso èprecisamente una di quelle «persone di riguardo», don Rodrigo, e che ilpovero Renzo ne è la vittima, lo caccia via con stizza. La divisa che ilManzoni attribuisce a Renzo non è quella del servilismo, anche se gli mettein mano i capponi. È il timore proprio dei deboli, di coloro che piú di altriavrebbero bisogno della protezione della legge. È la timidezza dellosprovveduto che sa di esserlo. Invece, vero servilismo è quellodell’Azzeccagarbugli nei confronti del potente, alla tavola del quale, civiene detto, era ammesso come abituale arredamento del potere. È proprio

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degli animi servili, del resto, l’arroganza con i deboli e la piaggeria con ipotenti.

12. Excursus II: giuristi e giornalisti.

Si è già accennato a un raffronto tra la professione del giurista e quelladel giornalista (facilmente estensibile a quella del politico). Ecco che cosadice Max Weber a proposito di certi giornalisti e chiediamoci se nonpotrebbe suggerire a qualche giurista esercizi di autocoscienza. Eglidenuncia casi di irresponsabilità che si imprimono nella coscienza sociale,anche a motivo delle conseguenze «spesso spaventevoli».

C’è un misto di disprezzo, viltà, complessi d’inferiorità e piaggeria. Il singologiornalista conta sempre di meno, a vantaggio del magnate della stampa. Sono proprio igiornalisti piú in voga a essere sottoposti a prove particolarmente difficili nel dominiointeriore. Non è cosa da poco essere ricevuti su un apparente piede di parità nei salottidei potenti della terra, ed essere spesso generalmente adulati, perché temuti, sapendo altempo stesso che, non appena fuori della porta, il padrone di casa dovrà forsegiustificarsi con gli ospiti a causa dei suoi rapporti con quello “zotico d’un giornalista”;cosí come non è certo un’inezia doversi esprimere con prontezza eppure con forza dipersuasione su tutti i possibili problemi che gli vengono sottoposti, senza incorrere nonsolo nell’assoluta superficialità ma anche e soprattutto nell’avvilimento e nella perditadella propria dignità, con tutte le immancabili conseguenze. V’è da stupire, non che visiano molti giornalisti privi di orientamento o di valore come uomini, bensí che,nonostante tutto, proprio questa categoria comprenda un numero di uomini di verovalore e di assoluta probità cosí grande come difficilmente potrebbe supporlo chi nevive al di fuori 18.

Sono affermazioni che noi possiamo leggere sostituendo giurista agiornalista, trovando somiglianze. Pensiamo ai consigli di amministrazione,in cui deve esserci sempre un giurista-consigliere esperto in affari legali; o –lungi da ogni equiparazione – alle riunioni di cosca in cui non manca ilgiurista - avvocato penale in funzione di “consigliori”. Parlano tutti, e poi sichiede al “giurista”: come si può, si deve fare, per “mettere in bella copia”

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decisioni difficili senza correre rischi? Ovviamente, non sempre è cosí edegli rifiuterà i servizi contrari all’integrità della sua professione. Ma, sesotto minaccia o sotto allettamento, ciò non accade, al giurista che si mettea servizio si attaglia il giudizio di Max Weber: giurista complice, perinteresse, servilismo o paura, d’una società basata sull’ingiustizialegalizzabile.

13. Excursus III: giustizia causidica.

C’è poi un aspetto paradossale nel rapporto tra i profani e i giuristi, anzi igiuristi ai loro occhi piú abili. È una complicità proprio in ciò che, da unaltro punto di vista, costituisce ai loro occhi uno dei difetti maggiori dellanostra professione e che si riassume nella parola manzoniana che abbiamoincontrato sopra: leguleio. Il leguleio è colui che imbroglia gli argomenti,confonde le ragioni chiare, trasforma le cause semplici inmeravigliosamente e magicamente complicate; “produce” (nel linguaggioavvocatesco si parla di «produzione di atti giudiziari») montagne didocumenti,

protestazioni, aggiornamenti, comparizioni, nomi del relatore, istruttorie prima delprocesso, e dichiarazioni, allegazioni, richieste di prova, contraddittorie, inchieste,repliche, dupliche, tripliche, processi verbali, ricuse di testimoni, riserve opposte allericuse, deposizioni, confronti, impugnazioni, depignatorie, anticipatorie, evocazioni,invii, rinvii, conclusioni, dichiarazioni di non luogo a procedere, dilatorie, rilievi,confessioni, transazioni, ordini esecutori, e simili confetti e spezierie 19.

Una selva oggi resa sempre piú impenetrabile a causa dell’intreccio tranorme nazionali, regionali, locali, internazionali, sovranazionali, europeecon le relative giurisprudenze e precedenti, tutte rinvenibili in internet e dalí “scaricabili” e riversabili senza fatica nelle citazioni, memorie, repliche,ordinanze, sentenze e via scrivendo, tagliando e incollando. Il giudiceBridoye, di cui diremo tra poco, il quale fa giustizia tirando i dadi, meritatutta la nostra comprensione. Ma c’è anche chi gode di questa confusione da

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cui si possono trarre «conclusioni» d’ogni genere, cosí come sintetizza il«dottor Bartolo» nel libretto di Le nozze di Figaro di Lorenzo Da Ponte:

Con l’astuzia, con l’arguzia,Col giudizio, col criterioSi potrebbe… Il fatto è serio;Ma, credete, si farà.Se tutto il codiceDovessi volgere,Se tutto l’indiceDovessi leggere,Con un equivoco,Con un sinonimoQualche garbuglioSi troverà.

Non è detto che il «garbuglio» sia necessariamente un male. Potrebbeanzi fornire l’esca a qualche cavillo a fin di bene, come nel Mercante diVenezia (si veda supra, par. IX.23): ma garbuglio resta 20.

Questo è il «causidico», dileggiato dalla voce popolare ma cercatoproprio per questo. Il profano non ci capisce niente ma crede nella grandesapienza di «chi ha studiato» e, se certo non legge le carte, è peròparticolarmente grato al suo avvocato se può ascoltare, anche senza capirle,le «difese orali», spesso prolisse, inutili e irritanti per i giudici che ascoltanoper dovere d’ufficio. Crede che la mole delle parole e delle carte siasinonimo di dedizione alla causa. Cosí il motivo di canzonatura dellaprofessione legale diventa il pregio del leguleio quando è posto al serviziodella propria causa.

14. Excursus IV: giustizia giocata ai dadi.

L’ideologia del diritto come “matematica” deduzione e applicazionedella legge ha difficoltà a farsi valere nella selva oscura delle leggi. C’è unaltro modo per venirne fuori, raccontato con meravigliosa ironia da

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François Rabelais: l’azzardo. Nel capitolo XXXIX del Tiers Livre diGargantua et Pantagruel si racconta la storia del giudice Bridoye che sidiscolpa dall’aver deciso una questione tirando ai dadi il torto e laragione 21. Aveva fatto cosí lungo tutta la sua quarantennale carriera enessuno aveva avuto motivi di contraddirlo. L’ultima sua sentenza, però, erasembrata strana, bizzarra. Perciò l’avevano chiamato a giustificarsi.

Il diritto canonico, nel Decretum Gratiani e nella Summa theologiae diTommaso d’Aquino, aveva approfondito il tema del ricorso alla sorte ed eragiunto alla conclusione che non si dovesse tentare Dio invocando il suogiudizio per cose terrene. Bridoye non ne faceva una questione teologica,ma esclusivamente pratica: potremmo dire, una questione di economiaprocessuale. Per lui, si trattava di un metodo come un altro, anzi di unmetodo migliore degli altri e non senza buone ragioni, che tra il serio e ilfaceto (piú il serio che il faceto), Rabelais, attraverso le parole dei suoipersonaggi, mostra di prendere molto sul serio. L’errore non consistevanell’avere giudicato secondo il responso dei dadi, ma nell’averli letti male:dadi troppo piccoli per una vista che l’età aveva reso difettosa.

Diffidando del suo sapere e delle sue capacità, ben conoscendo leantinomie e le contraddizioni delle leggi, degli editti, delle consuetudini edei decreti, Bridoye in tutta la sua vita di giudice si era avvalso di quelmetodo «ben sapendo il pericolo cui siamo esposti da parte del Calunniatoreinfernale, […] per mezzo dei suoi Ministri, e cioè dei cattivi Avvocati,Consiglieri, Procuratori, e simil genia», i quali si divertono «a far vedernero quel che è bianco e ad accendere le fantasie dell’una e dell’altra partein causa, facendo lor credere di aver ragione – e voi ben sapete, Messieurs[rivolto ai giudici davanti ai quali deve discolparsi], che non c’è causa cosícattiva che non trovi il suo avvocato, senza di che non ci sarebbero maiprocessi a questo mondo». In queste parole, a ben vedere, non c’èprecisamente una discolpa, ma un’accusa rivolta contro coloro che credonoin buona fede o fanno finta di credere in malafede ai giuristi comescienziati.

Dunque: giudici, avvocati e giuristi al servizio del demonio, onde ilgiustificato e diffuso timore nei loro confronti e la saggia prudenza dirimettersi al verdetto dei dadi, piuttosto che all’ingannevole sapienza deidottori della legge. Se non è possibile eliminarli del tutto, come talora non

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si è mancato di fantasticare, almeno occorre temerli e impedire loro dinuocere. La loro scienza è maligna, anche perché è “riservata”, sottratta agliocchi profani e, quindi, probabilmente, appartiene a una sorta di settainiziatica al servizio di chissà quali potenze, come poteva essere quelladegli aruspici e degli auguri. Il diritto di oggi, in molti settori, non è menocomplicato e ambiguo dei movimenti dei visceri degli animali o delleformazioni degli uccelli in volo.

Bridoye è un testimone prezioso delle pericolose ambiguità del mestieredi giudice: prezioso perché la sua testimonianza viene dall’interno.Affidandosi alla sorte, egli si sottrae agli argomenti pretestuosi degliavvocati, alla confusione, ai cavilli che riempiono i sacchi processuali (isacs à procès, gli antenati dei nostri «fascicoli»), li ingrossano col tempo ealla fine li rendono inutilizzabili per sovrabbondanza. In piú, la sorte, forseè mossa dalla Provvidenza e, se anche non lo è, certo non è influenzata dalpregiudizio nei confronti di una parte o dell’altra del processo, dall’erroreumano, dal cedimento alle pressioni cui il giudice, consapevolmente oanche inconsapevolmente, è sottoposto da parte dei potenti e dall’ambientedi cui fa parte. Insomma, il giudice Bridoye poteva ben dirsi un buoncristiano e da buon cristiano sapeva quanto fallace è la giustizia umana,come del resto insegna il Vangelo: non giudicate, se non volete esseregiudicati. Alla fine, poi, dalla statistica apprendiamo che la sorte, inun’alternativa duale, rende giustizia nel cinquanta per cento dei casi.Giudicando, cioè inoltrandoci nel vasto, intricato e contrastato mondo degliargomenti giuridici, siete sicuri, Messieurs, di poter dire altrettanto? Infondo, è questa l’ironica domanda che Bridoye rivolge ai suoi giudici, senzada loro ottenere risposta.

15. Il principio primo dell’integrità d’ogni professione giuridica.

Prima che ci si sia presa la libertà di qualche digressione letteraria,eravamo giunti al punto in cui è apparsa chiara una verità: il primo doveredel giurista che esercita con integrità la sua professione è dunque laconsapevolezza del valore sociale dei suoi atti individuali. Egli dovrebbesempre domandarsi: generalizzando i miei argomenti e le mie decisioni, chene sarebbe della società? Sarebbe compatibile con la visione di una società

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giusta o, quantomeno, di una qualunque coesistenza che voglia fregiarsi deltitolo di convivenza?

Ecco, dunque, il primo imperativo dell’integrità del giurista, qualcosa disimile al precetto della ragion pratica kantiana: «la massima della tua“azione in diritto” sia tale da poter essere generalizzata, cioè possa valere aldi là del tuo caso, per tutti i casi simili. Se non puoi dimostrarlo; se anzi,generalizzandola, la vita sociale ne sarebbe turbata o sconvolta, allora la tuaè una cattiva azione».

Tuttavia, sono diverse le posizioni del consulente, dell’avvocato e delgiudice (per parlare solo di alcune attività professionali giuridiche), purrimanendone sempre uguale e comune la finalità ultima del servizio allagiustizia. Qui di seguito prendiamo l’argomento dal lato che normalmente sipreferisce non vedere, il lato oscuro, nella fiducia che quello chiaro simostri da sé per contrasto.

16. Il consulente.

Al giurista si richiede talora, come al medico, un «consulto», unaconsulenza che produce un parere da utilizzare in una trattativa, in unarbitrato, in un procedimento giudiziario. La richiesta può esseredisinteressata: si può o non si può; se si può, come si deve fare. Il diritto èanche una tecnica che non tutti possiedono ed è ovvio che si possa chiederelumi all’esperto per non incorrere in errori. Tuttavia, se la richiesta non èdisinteressata, come spesso avviene, l’affidamento di una consulenzacontiene implicitamente un mandato: ch’essa sia favorevole. Onde si puòassumere come rispondente al vero che la gran parte, o forse tutti i pareriprodotti ed esibiti in una controversia, siano segnati fin dall’iniziodall’interesse di parte.

Quando esiste una controversia sul diritto, nessun giurista, per quantoautorevole egli sia, può presumere d’essere in possesso della verità. Se sipronuncia, la sua è solo un’opinione, piú o meno bene fondata, ma pursempre un’opinione. Eppure, queste opinioni sono talora intitolatepomposamente «pareri pro veritate», come se esistessero anche «pareri promendacium» che, naturalmente, varrebbero meno. O, meglio, magariesistono, ma certo non sarebbero denominati cosí. Del resto, che cosa si può

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pensare quando due pareri si contrappongono contraddicendosi, ed entrambiaffermano d’essere alla ricerca o figli della verità? Forse uno dei due è unamenzogna, o forse tutti e due? Cosí, si finisce per far fare una pessimafigura proprio al diritto in nome del quale ci si pronuncia. D’altra parte, laconsulenza non è mai disinteressata. Tra il committente e il consulente c’èun rapporto di scambio, un sinallagma dicono i giuristi: la prestazioneintellettuale dell’uno e il corrispettivo offerto dall’altro. Tale corrispettivopuò consistere nei beni di cui gli esseri umani sono particolarmente golosi:non solo ovviamente denaro, ma anche associazione a giri di potere epromessa di fama. Cosí la verità è messa all’incanto.

L’odierna tendenza alla trasformazione dei giuristi in consulenti è unapreoccupazione seria per lo stato di salute della scienza del diritto perché nemina l’autonomia e quindi la credibilità. Anzi, a pensarci bene, distrugge ildiritto come tale, cioè come terreno di convergenza degli sforziinterpretativi, e ne fa un terreno di battaglia tra affiliati chestrumentalizzano le loro conoscenze. In un modo o nell’altro, per un potenteo per un altro, i giuristi sono sempre stati disponibili. Il posto di «giuristidella Corona», i Kronjuristen, è molto ambito e, anche senza accorgersene, icompromessi cui si è disposti sono sull’uscio della coscienza. In società incui da una parte stanno i potenti e dall’altra gli impotenti, è assai difficilemantenere l’equilibrio necessario per diventare parassita dei potenti e noncadere nel calderone dei giuristi delle tante varie teste coronate che hannoin mano le risorse per chiedere e ottenere fedeltà 22. Le professionigiuridiche, nelle società libere (non in quelle totalitarie) sono professioniliberali, nel senso di non-servili. È un valore che la Giustizia chiedeinnanzitutto ai giuristi di preservare.

17. L’avvocato.

«Un avvocato probo non si arrende mai all’ingiustizia e deve semprelevarsi a combatterla in ogni circostanza con le armi della sua tenacia, dellasua preparazione, della sua onestà». Nel mondo della giurisprudenza c’èuna figura importante quasi come quella del giudice. La Giustizia non puòfare a meno dei suoi avvocati, al punto che se i loro diritti, che sono inrealtà il riflesso dei diritti di coloro ch’essi difendono, non sono rispettati,

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gli atti che si compiono in suo nome sono nulli. La Giustizia aborre ildisprezzo delle difese, le onora come necessità d’ogni suo agire, ne habisogno per fare buon uso della bilancia che tiene in mano. Ciò è tanto veroche non c’è processo senza difesa «tecnica», dell’avvocato, che si aggiungealla cosiddetta «autodifesa»: all’avvocato normalmente (salvo che in casilimitati di importanza minore) non si può rinunciare e, se non c’è ancora,viene nominato «d’ufficio»; e se non si hanno risorse sufficienti per pagarnele prestazioni, si viene ammessi al «gratuito patrocinio»: gratuito perl’imputato e a spese dello Stato.

Si è evocata sopra la figura dell’avvocato probo. Come possiamospecificare la probità dell’avvocato? Egli si trova al centro di una duplicetrazione. Da un lato, c’è il «cliente» che gli si rivolge per essere difeso, ilche equivale a dire: per vincere la causa, prevalere sull’altra parte, volgereil processo a suo vantaggio o, almeno, al suo minor danno. Qui sta il suodovere professionale. D’altra parte, però, sta il servizio alla giustizia. Sidice spesso che l’avvocato è collaboratore del giudice e ciò conferisce a lui,che soggettivamente è un libero professionista, una funzione pubblica. Hauna responsabilità verso il «cliente» e una, al tempo stesso, verso la«giustizia». Nessun problema se la difesa del proprio assistito coincide conla promozione della giustizia. Ma se la coincidenza viene meno? Se sihanno in mano strumenti per far prevalere l’interesse del proprio assistito ascapito della giustizia o, al contrario, se le considerazioni di giustiziaimplicano il sacrificio dell’interesse del cliente?

Domande difficili, alle quali non si può rispondere a “frasi fatte”, deltipo: la Giustizia fiorisce attraverso lo scontro delle difese e, quanto piúqueste mettono in campo ogni risorsa di cui dispongono, tanto piú essa sicompiace. Forse, può rispondersi con le considerazioni che seguono. Ilcompito delle difese, nel processo non equivale a quello del giudice delprocesso. Il giudice deve «fare giustizia» sulla base degli argomenti offertidalle difese delle parti. Queste non hanno tale compito, ma quello di fornirele diverse visioni necessariamente di parte tra le quali il giudice, alla fine,«farà giustizia». L’avvocato collabora col giudice, ma collaborazione nonsignifica affatto ch’egli debba giudicare a sua volta, preliminarmente aquello che sarà il giudizio finale contenuto nella sentenza. L’avvocato nonha da domandarsi se l’imputato nel processo penale è innocente, o se ildebitore nel processo civile ha effettivamente adempiuto alla sua

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obbligazione: questo spetta al giudice stabilirlo. Se dovesse porsi questadomanda e assumere o non assumere una difesa a seconda della suarisposta, si porrebbe come un complice. E se, nel processo penale avesseassunto la difesa d’una persona condannata, sarebbe da considerare unfavoreggiatore: cosa totalmente estranea alla nostra civiltà giuridica.

Una domanda ricorrente tra i profani è come possa l’avvocato spendersia favore d’un criminale; come può difendere un imputato se non loconsidera innocente? Domanda mal posta: l’avvocato che liberamenteaccetta di assumere la difesa in una certa causa (può rifiutarsi di assumerla,naturalmente), o l’avvocato d’ufficio (che, invece, non può), non hanno daporsi queste domande. Se se le pongono, esse devono restare nel loro forointerno. Nel foro esterno, sono irrilevanti. Il loro compito non è «faregiustizia» ma contribuire a che sia fatta giustizia. Il che implica ch’eglipossa, anzi debba, prospettare tutti gli argomenti idonei a contribuire alladecisione del giudice, naturalmente gli argomenti a favore della parte chedifende. Tutto gli è concesso a questo fine, ma solo nell’ambito di ciò chepuò entrare lecitamente tra i motivi della sentenza. Non si parla qui di provefalse, costruite artatamente, di testimoni subornati, di comportamentiprocessuali sleali, di abuso di diritti come ad esempio la ricusazione delgiudice o la rinuncia alla difesa per allungare i tempi del processo eapprodare alla prescrizione. In questi casi, l’avvocato «probo» saperfettamente ciò che non gli è permesso. Il resto gli è permesso, compresoil tacere argomenti di fatto o di diritto dei quali potrebbe avvalersi la parteavversa. Egli difende una parte e non l’altra e questa ha, a sua volta, il suoavvocato (diversa è la posizione del pubblico ministero nel processo penale:egli, piú che un avvocato dell’accusa, nel nostro ordinamento è «organo digiustizia» e, come tale, è tenuto a ricercare le ragioni a carico dell’imputato,ma anche quelle che potrebbero valere a discarico, in vista dellasostenibilità, per cosí dire, oggettiva dell’accusa davanti al giudice).

La Giustizia non fiorisce comunque, ma solo entro un contraddittoriocorretto. Contraddittorio corretto implica ciò che i processualisti chiamano«parità delle armi», ciò che fa pensare a un duello con armi giuridiche. Quinasce un problema, un problema di uguaglianza. Posto che, astrattamente, ildiritto processuale riconosca alle difese di tutte le parti i medesimi diritti,facilmente in concreto non tutte sono in condizioni di avvalersene con lamedesima efficacia. Non sempre le ragioni piú agguerrite sono anche quelle

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giuste o, al contrario, quelle ingiuste sono le meno agguerrite. Entrano ingioco le disponibilità di mezzi materiali e organizzativi nella ricerca deglielementi che configurano «il fatto», le capacità culturali necessarie pertrasformare il fatto in «caso» per orientare il giudizio, l’abilità nelricostruire la trama del diritto (si veda supra, par. IX.22) conformementealle aspettative del proprio «assistito». Non basta, per assicurare la «paritàdelle armi», che tutti possano disporre dell’assistenza di un avvocato. Nelmondo forense esistono differenze profondissime, i costi da sostenere peruna buona difesa sono elevati, talora elevatissimi, tanto elevati che ilgiudice Bridoye che già abbiamo incontrato poteva a ragione affermare che,a un certo punto, i litiganti che si sono estenuati psicologicamente e hannodilapidato i propri patrimoni nelle spese processuali, sono disposti adaccettare qualunque sentenza, perché una sentenza qualunque diventameglio del processo che non giunge mai alla fine. Ed è ovvio che questogenere di rassegnazione arriva tanto prima quanto meno si dispone didenaro per sostenere le spese della causa.

Non c’è motivo perché gli studi professionali non siano anch’essi espostialla logica del mercato. Infatti lo sono. La concorrenza tra i grandi studiriguarda i grandi clienti che conoscono perfettamente quelli che possonooffrire i servizi migliori. Fuori di questo giro ristretto, si pongono gli stessiproblemi della concorrenza sul mercato e, cosí, anche nella vita del sacromondo d’una professione liberale come l’avvocatura è entrata la pubblicitàper reclamizzare il prodotto offerto. Fino a qualche decennio fa, l’ideastessa che l’attività dell’avvocato potesse porsi sullo stesso piano di quellad’una qualunque agenzia di servizi era respinta con sdegno dagli avvocatistessi. Oggi la barriera è caduta. Non la si chiama brutalmente «pubblicità»ma «pubblicità informativa», che può riguardare la specializzazione, i titoliprofessionali, le strutture dello studio, e deve svolgersi secondo veridicità,correttezza e trasparenza. Per un certo periodo, era ammesso anche il«tariffario»: quanto sarebbe costata una causa di divorzio, di responsabilitàcivile, di responsabilità penale, ecc. Oggi non piú, perché quella possibilitàavrebbe innescato una concorrenza al ribasso piú consona a unaconcorrenza da supermercato che non all’attività intellettuale del liberoprofessionista. Ma resta il fatto che l’attività forense è ormai immersa nellalogica mercantile.

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Da qui dobbiamo prendere lo spunto per una considerazione importantecirca la giustizia. Nella logica mercantile, chi offre la prestazione migliorepuò pretendere la retribuzione piú alta. Dunque, chi dispone di maggiorecapacità economica può disporre degli avvocati migliori (salve,naturalmente, le eccezioni degli avvocati, anche di grandi avvocati, chetalora si prestano a fornire la loro assistenza indipendentementedall’onorario per qualche motivazione civile). Che ne è della «parità dellearmi» in concreto se le armi nelle mani dei contendenti sono le une piúpotenti delle altre? Il fattore economico e le disuguaglianze sociali entranocosí inavvertitamente, schermate come sono dall’uguaglianza formale deidiritti della difesa in giudizio riconosciuti a tutte le parti in causa. Labilancia della Giustizia è davvero garanzia di giustizia?

18. Il giudice.

Qui entra in scena il giudice. Egli non ha da temere mali né da sperarebeni dalle sue sentenze e quindi può guardare al diritto disinteressatamente,come fine della sua opera. Ma, proprio l’esistenza degli avvocati è previstaintenzionalmente per inserirlo nel gioco degli interessi e delle forze che daqueste si sprigionano. Il giudice deve districarsene, per fare trionfare non ipiú forti ma i piú giusti, secondo la giustizia inscritta nelle norme del diritto.Non sarà la Giustizia, ma è già moltissimo, e la fanciulla bendata potrebbecompiacersene. Ma il giudizio può essere davvero oggettivamente equo, sele forze in campo che sono previste precisamente per esercitare unainfluenza sulla sua decisione non si equivalgono?

Il processo «contenzioso», costruito sul litigio delle parti che siaffrontano con i loro argomenti e sul giudice che siede serafico, impassibile,tra di loro, è qualcosa di davvero strano. Sembra ovvio pensarlo come untriangolo isoscele col giudice al vertice, equidistante, arbitro. Nonvorremmo certo un giudice che parteggia: sarebbe ancora un giudizio o noninvece un sopruso? Ma, guardando alle diverse componenti dell’iter in cuisi snoda, il processo è stato definito un «mistero» da un grandeprocessualista 23. Come può pretendersi un giudizio indipendente dainfluenze, se il giudizio dipende da un giudice presso il quale èdeliberatamente organizzato un coro a due o piú voci che devono fare di

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tutto per portarlo dalla propria parte, cioè per influenzarlo, quando ci sonovoci interessate, alcune piú potenti di altre? Davvero, c’è qui un mistero chenon risolveremmo dicendo che le voci discordanti servono per consentirglidi scorgere, attraverso la discordia, la via alla fine della quale si puòintravedere qualcosa di giusto o, almeno, di giustificabile. Che da piúpartigianerie possa scaturire l’obbiettività; che dallo scontro tra piú opinioniinteressate possa sortire non il disinteresse del giudice, che è normalmentefuori discussione, ma la non partigianeria del giudizio; al limite estremo,che da piú menzogne possa uscire una verità: sono cose che si dicono taloraa sprezzo del ridicolo. Diremmo allora che il processo è tanto piú giustoquanto minori sono i poteri riconosciuti alle difese delle parti? Paradossale!Siamo nel regno dell’assurdo.

In piú, qualsiasi idea di «processo giusto» esclude ch’esso miri a farvincere il piú furbo, il piú abile, il piú dotato di mezzi, cioè il piú forte,come se fosse un gioco, una competizione oratoria o una gara sportiva.Sebbene spesso si dica proprio cosí, cioè «il processo come gioco» 24, nonpuò essere cosí. Il processo mira a qualcosa di diverso. Potrebbe essere soloun gioco se i giocatori fossero tutti ugualmente dotati. «La legge è ugualeper tutti» sta scritto nelle aule dei tribunali, e ci si potrebbe chiedere perchélo si scriva. Se fosse una constatazione, sarebbe un’evidente menzogna inmolti casi. La legge “deve” o, sconsolatamente, “dovrebbe” essere ugualeper tutti. Oltre che una minaccia e al tempo stesso una speranza per coloroche incappano in essa: una minaccia per i potenti, i ricchi e i famosi checredono di farla franca, e una speranza per i deboli che subisconoingiustizie e sperano nella riparazione, quel motto è principalmente unmonito rivolto ai giudici affinché non siano passivamente in balía delledisuguaglianze sociali che si riversano nel processo attraverso attivitàdefensionali che le rispecchiano.

In un mondo in cui, come norma, regnano le disuguaglianze, spetta algiudice correggere le sperequazioni davanti alla legge, quando ne derivache i piatti della bilancia che la fanciulla bendata regge con la sua manosono fin da principio uno piú pesante dell’altro. Qui si pone l’arduoproblema dei poteri esercitabili d’ufficio dal giudice nello svolgimento delprocesso: arduo perché non possono non esistere ma, al tempo stesso, nonpossono trasformare il giudice stesso in una parte. Ne procedat iudex exofficio, è il motto che precisamente esprime, in generale, un’esigenza di

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«terzietà», di non coinvolgimento nella lite che si svolge davanti a lui. A luisi chiede di deciderla, non di orientarla.

Riprendiamo i discorsi già fatti in precedenza circa l’applicazione deldiritto. S’è detto ch’essa consta di tre passaggi: la ricostruzione del fatto, latrasformazione del fatto in caso e la ricerca nell’ordinamento giuridico dellanorma adeguata al caso (si veda supra, par. IX.15). Il giudice si trova difronte a fatto, caso e norma come sono prospettati dalle parti, cioè dai lorodifensori, conformemente all’interesse di «vincere» la causa. È un camminoche anch’egli deve percorrere per giungere alla decisione la quale non puòessere una mera duplicazione. Il compito che gli si chiede di svolgereriguarda gli stessi, per cosí dire, materiali di cui si avvalgono le difese delleparti, ma questi, di fronte al giudice sono come materiali grezzi che devonoessere valutati, lavorati da lui, in vista d’una decisione che supera i punti divista particolari che si affrontano nel giudizio. Il giudice non è solo unarbitro tra parti. Il suo giudizio è super partes non solo perché non deveessere mosso da pregiudizi. È super partes perché il suo fine è un fine digiustizia che, per questo, non si esaurisce nella prevalenza delle ragionidell’uno o dell’altro litigante. Queste ragioni devono essere sottoposte nonsolo a valutazioni comparative di attendibilità, ma anche di sostenibilità insé, rispetto a quella cosa che chiamiamo diritto. Ecco il significatodell’espressione super partes. Il giudice non è intra partes come l’arbitro diun gioco, ma è super. Deve perciò disporre degli strumenti per occuparequesta posizione.

Rispetto ai fatti, logica vorrebbe ch’egli potesse disporre del potere diaccertamento anche al di là della prospettazione delle parti. Anzi,normalmente è il contrario. Vale il principio secondo cui il giudice decideiuxta alligata et probata. Le parti sono libere di prospettare il fatto comevogliono: se la prospettazione è carente, non spetta al giudice integrarla; seè falsa o inattendibile, spetta all’altra parte confutarla e al giudice decidere.Ma questo principio, che si chiama «dispositivo», non è assoluto. Quandosono in gioco interessi che vanno al di là di quelli esclusivamenteindividuali, come ad esempio nel processo penale, il giudice può disporre dimezzi di prova di sua iniziativa. In tali casi, il suo punto di vista sta sopraquello delle parti. Per quanto riguarda la trasformazione dei fatti in casi, èovvio che le parti tenderanno a proporne interpretazioni conformi ai propri

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interessi, ma è altrettanto ovvio che il giudice non deve soggiacere anessuna interpretazione diversa da quella ch’egli stesso è chiamato a dare.Infine, egli deve disporre autonomamente delle conoscenze giuridichenecessarie affinché quella «ricerca della norma adeguata al caso» di cuitante volte abbiamo parlato sia libera, conforme al principio secondo ilquale il giudice è «soggetto solo alla legge», dunque sovrano in quellaricerca.

In conclusione, ecco le tre qualità del giudice ideale: esperienza (deifatti) della vita, cultura idonea a comprenderne il senso e il valore,conoscenza tecnica necessaria a muoversi con disinvoltura nel grovigliodelle leggi e, in ogni caso, sufficiente a non essere irretito dagli argomentidelle difese non raramente pretestuosi.

19. Conflitti di lealtà.

Siamo giunti infine alla questione delle questioni, quella che interpellasenza mediazioni, scuse o alibi, la morale del giudice e, in generale, delgiurista: che fare di fronte alla legge ingiusta? Intendo la leggeradicalmente ingiusta, rispetto alla quale non si possono accampareaccomodamenti della coscienza. Il positivista etico nega addirittura lapossibilità di porre una simile domanda: per lui, la giustizia coincide con lalegge. Come disse Blaise Pascal (e qui piú volte abbiamo ricordato) allalegge si deve ubbidienza perché è legge, non perché è giusta. Si può direanche cosí: la giustizia non può essere cosa diversa dalla legge. Ritenere ilcontrario, significherebbe pretendere di sovrapporre il proprio giudizioindividuale a quello del legislatore, e ciò sarebbe arroganza e anarchia, cioè,a sua volta, il massimo dell’ingiustizia. Soffocare il proprio senso digiustizia di fronte alla legge, soprattutto di fronte alla legge piú aberrante,sarebbe allora l’atto piú eticamente apprezzabile che quel tale giuristapositivista potrebbe compiere. Per chi rifiuta questa posizione in nome delleirrinunciabili ragioni della coscienza anche dei giuristi, la questione, invece,si pone inevitabilmente. Il giurista teorico si trova nella posizione piú facile:può limitarsi a denunciare l’ingiustizia e, finché la libertà accademica èrispettata, ciò non farà problema. Ma, che dire per chi, per «libera

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professione», come l’avvocato, o per dovere d’ufficio, come il magistrato, ètenuto a operare secondo quella legge?

Antichissima questione che nei decenni trascorsi poteva sembrare soloteorica, appartenere a tempi bui in cui lo Stato di diritto si era trasformato –come fu detto – in «Stato di delitto». Ma i tempi cambiano e il futuro nonsappiamo che cosa ci potrà riservare. La questione di costituzionalità sullalegge ingiusta può non essere una difesa sufficiente e, comunque, il giudizioindividuale sull’ingiustizia legislativa va al di là dei criteri e degli strumentiche l’ordinamento positivo prevede per ovviare alla legge ch’esso considerainvalida. La coscienza è sovrana anche nei confronti del diritto convalidatoda una qualunque istituzione esteriore, fosse pure un tribunalecostituzionale.

L’avvocato può sempre rifiutare di patrocinare la causa che sarebbe dadecidere secondo una legge ch’egli aborre. Altri se ne occuperanno al postosuo. Ma per il giudice è diverso. Il suo dovere di decidere lo pone in unasituazione senza uscita. Bridoye potrà uscirne tirando i dadi e scaricare cosíla coscienza: la sua può sembrare una trovata geniale nei casi di comunebanalità o in quelli in cui le ragioni di una e dell’altra parte appaionoequivalenti. Ma quando la legge e la coscienza sono in lotta, rivolgersiall’azzardo sarebbe il massimo della viltà. Si potrà, allora, cercare diimpiegare tutte le risorse dell’interpretazione per addolcire la legge; oppure,si potrà scavare nelle risorse della coscienza che offre giustificazioni, manon è detto che sia sempre possibile risolvere cosí il conflitto. Rifiutarsi allalegge violando gli obblighi legali, o piegarsi violando i dettami dellacoscienza, questo è il dilemma. Non esiste una soluzione per tutti. Ognuno èsolo di fronte a se stesso e dipende dalla forza rispettiva che esercita ildovere professionale e il dovere morale.

Guardando alla storia della nostra professione, dobbiamo umilmentericonoscere che spesso noi giuristi, che pur avremmo gli strumenti percomprendere il senso e il valore delle nostre azioni, il dovere morale loteniamo in assai scarsa considerazione. Il riferimento alla legge, dagiustificazione giuridica, per la mentalità legalistica diventa in quanto talemetro di valutazione morale. Anzi: quanto piú la legge è dura, spietata,priva di manifesta giustificazione, tanto piú per il giurista a una soladimensione è degna cosa l’assoggettarsi completamente. Il che comportaun’evidente amputazione della personalità di coloro che appartengono

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completamente al mondo del diritto: diciamo cosí, di coloro che vendonocompletamente l’anima alla legge, quale ch’essa sia, quali che ne siano leconseguenze. Victor Hugo ha dipinto questa distorsione del caratteredell’ispettore Javert ne I miserabili, distorsione tanto piú pericolosa einvasiva in quanto le leggi del nostro tempo hanno permeato quasi perintero l’arco delle relazioni sociali 25. Il rischio è che si prenda per buono,nella vita reale, il rimpicciolimento kelseniano della persona umana inpersona giuridica (si veda supra, par. X.8): una riduzione che può valere nelmondo del diritto ma che diventa un’amputazione quando si scambia ilmondo del diritto con il mondo tutt’intero. I giudici e giuristi formatisi altempo della Repubblica democratica di Weimar che sotto il nazismogiustificarono con i loro pronunciamenti il terrore, gli arbitrî, le politicherazziali ed eugenetiche di Hitler; i giuristi, al contrario, che avevano servitoil regime nazista e poi, in massa, si convertirono servendo leggidemocratiche avevano di sé, in entrambi i casi, l’autocomprensione comefasci di diritti e doveri integralmente modellati dalla legge 26.

20. Un giudice saggio e un evangelico disperato.

Di recente, la questione del conflitto tra doveri è stata affrontata da ungiudice saggio che opera negli Stati Uniti d’America, Guido Calabresi, conriguardo alla pena di morte e alla tortura. Dopo avere esplorato tutte leeventualità: tormentarsi per trovare una mediazione e cercare di convincerei suoi colleghi a perseguirla con lui, applicare la legge denunciandonecontemporaneamente l’ingiustizia, astenersi dal giudizio, oppuresemplicemente dimettersi, ha concluso cosí:

So di non aver atteso ai miei intenti e di non avere offerto alcuna risposta alledomande con cui ho cominciato. Purtroppo, però, piú di questo non so dirvi. In fondo,per una ragione o per un’altra, non ho fatto altro, dall’inizio di questa lezione, che direno a ogni possibilità che ho attraversato: no alla ricusazione, no alle dimissioni, no altradimento della legge, no al giudice “bocca della legge”, no alla disapplicazione dellalegge. E quindi? Ho solo una certezza: si fa il proprio meglio e si chiede perdono 27.

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Si chiede perdono? È una risposta? Il nodo che stringe tra le due oppostelealtà, al diritto e alla coscienza, resta irrisolto. Soprattutto, si può viveresenza scioglierlo? In piú: si chiede perdono, ma lo si può ottenere?Purtroppo, nei casi piú gravi si può solo stare o di qua o di là: o dalla partedella legge, o dalla parte della coscienza. Stare in mezzo è impossibile.Fatta una scelta, si dovrà accettare la condanna per non avere fatta l’altra.Altro che perdono. E allora?

Per usare un’espressione dello stesso Calabresi, siamo di fronte a una«scelta tragica» 28 le cui conseguenze ricadono sugli altri ma che,innanzitutto, investono chi si trova a doverle fare senza potersi sottrarreperché tutte le strade diverse sono ostruite. La possiamo illustrarericorrendo a una vicenda eticamente lacerante in cui molte persone sitrovarono dovendo fare i conti con se stesse al tempo dei totalitarismi.Scriveva ai suoi genitori un giovane evangelico al tempo di Hitler:

Vorrei informarvi di una situazione che è per me di estrema gravità […]. Durantequesti ultimi tre anni sono stato fatto oggetto di misure estremamente spiacevoli da partedella Gestapo. Ne sono causa le mie convinzioni religiose […]. Sul piano politico, noiabbiamo sempre e largamente approvato il nazionalsocialismo e reso a Cesare quel che èdi Cesare […]. Viene quindi a porsi il seguente dilemma: il popolo tedesco, la gioventútedesca devono essere istruiti seriamente alla fede in Dio o devono credere solo allabandiera rossa, al sangue, ai confini, alle razze? Bisogna insegnare alla Germania che ilconcetto di giustizia si colloca al di sopra di ogni altro, che sfugge alle mani dell’uomo e«si trova nelle stelle», come dice Schiller? Bisogna insegnarle che chi esercita lagiustizia ne deve essere pienamente autorizzato dal giudice supremo e ne rispondedavanti a lui? Oppure il diritto è «ciò che serve al popolo», è un semplice affare diopportunità, e la stessa giustizia è una prostituta di Stato? 29.

Chi scrive cosí nel novembre del 1938, al massimo della potenza diHitler, è un giovane che aveva aderito al nazionalsocialismo in base alduplice precetto del dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è diDio, credendo che Cesare e Dio non sarebbero entrati in conflitto. Essendoingegnere minerario, fu impiegato nella produzione dei gas tossici usati neicampi di sterminio. L’ubbidienza a Cesare che Paolo di Tarso raccomandanel famigerato passo della Lettera ai Romani (13,1-2) («Ogni anima siasottomessa alle autorità superiori; non vi è alcuna autorità se non da Dio;

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quelle che esistono, infatti, sono ordinate da Dio. Chi si oppone all’autoritàsi oppone all’ordine stabilito da Dio») poteva esigere tanto? Dopo diversedrammatiche vicende, poche settimane prima dell’apertura del processo diNorimberga, incarcerato dalle autorità di occupazione per la suacollaborazione col regime nazista, il 25 luglio 1945, s’impicca. Forse, gli fudi modello Giuda Iscariota che non poté perdonarsi d’avere tradito Dio perCesare (Mt, 27, 5) 30. Basta sostituire all’ubbidienza a Cesare o a Diol’ubbidienza alla legge o alla coscienza perché si sia totalmente immersi nelnostro sommo problema di giuristi.

E, allora, che dire? Non c’è via di scampo se non quella di toglierci dimezzo, con un atto di coerenza stoica, e cosí sottrarci alla scelta? Masarebbe davvero uno scampo o non piuttosto una disfatta? Forse, possiamosolo dire che non c’è soluzione e che ciò che spetta a chiunque avverta ilpeso insopportabile di queste contraddizioni è operare perché ci sianorisparmiate, prima che sia troppo tardi. Ma questa è una questione che nonriguarda i giuristi o, meglio, solo i giuristi.

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EpilogoIl diritto nella spelonca

1. Un caso critico di legge e di giustizia.

Il rapporto tra legge e giustizia, cioè la «giustezza» del diritto sulla qualeci siamo già soffermati (si veda supra, par. VIII.25), è un tema che siripropone continuamente e costituisce una spina nel fiancodell’esclusivismo della legge, cioè delle concezioni il cui motto è ita lex, eil resto è irrilevante. Il filosofo del diritto americano Lon L. Fuller, la cuifigura è restata a lungo offuscata dal positivismo legalista imperante, nel1949 scrisse un saggio in forma di novella giudiziaria che mirava a minarele certezze dei suoi avversari, quelli per i quali la «norma di chiusura»d’ogni discorso dei giuristi è, per l’appunto, il motto ita lex: la legge èlegge, e quel che dice la legge non può essere contraddetto da nessuno,beninteso da nessuno che operi come giurista (se fosse come politico,moralista, sociologo, ecc., sarebbe altro discorso). Si tratta del «caso deglispeleologi» 1 sul quale ci soffermiamo in queste pagine conclusive, perché,oltre a illustrare lo stile argomentativo o, come si dice meglio,«deliberativo», con il quale procedono i giudici problematici, vi possiamotrovare l’applicazione di gran parte degli argomenti incontrati nelle pagineprecedenti e, forse, se ci applicassimo noi stessi, potremmo trarne spunti perulteriori riflessioni, oltre a quelle suggerite dal novelliere giurista 2.

Si tratta del caso immaginario d’un gruppo di uomini, imprigionati inuna grotta, che per sopravvivere alla fame uccidono uno di loro per cibarsidelle sue membra: un caso estremo che si cita perché proprio il parossismodelle teorie applicate ai casi critici ne mostra il piú profondo e veritierosignificato. Si tratta, dunque, di vita di alcuni contro vita di altri, quandonon c’è posto per tutte le vite. Non è in questione l’antropofagia e il tabúche oggi (a differenza di un tempo), in quasi tutti i luoghi e presso tutti gli

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esseri umani civilizzati (salvo i pervertiti che addirittura lo celebrano comeun rito) l’accompagna. Il cibarsi dei corpi dei propri simili aggiungesoltanto un tocco d’orrore alla questione principale che è quella racchiusanella frase latina: mors tua, vita mea.

Ecco il racconto. Quattro membri di una Speluncean Society sonoimputati di omicidio e condannati all’impiccagione per avere ucciso unquinto compagno al fine di cibarsi delle sue carni. Essendosi questispeleologi introdotti in una grotta, s’era verificata una frana che avevaostruito l’unica via di fuga, imprigionandoli. In precedenza, avevano datoindicazioni sulla loro missione esplorativa e, dunque, non essendo rientratinel tempo previsto, si erano mossi i soccorsi; soccorsi assai piú difficili delprevisto, durante i quali dieci volontari avevano a loro volta persa la vita,investiti da una frana. I tentativi di raggiungere gli speleologi bloccati nellacaverna si protrassero per molti giorni. Non c’era piú cibo e il rischio dimorire tutti e cinque di fame si faceva sempre piú incombente, tanto piúche, messi in contatto con i soccorritori via radio, venne loro confermatoche, a causa delle difficoltà incontrate, la liberazione non era imminente eun gruppo di medici aveva dato loro scarsissime possibilità disopravvivenza. Era seguito un silenzio per otto ore. Quando il contatto furistabilito, i cinque chiesero di parlare con il medico a capo dell’équipe disoccorso e Roger Whetmore – uno degli speleologi –, anche a nome deglialtri, chiese se sarebbero stati in grado di sopravvivere fino al prevedibilearrivo dei soccorritori se avessero mangiato la carne di uno di loro. Ilmedico, sia pure con riluttanza, rispose di sí. Whetmore, poi, chiese unparere sulla questione se fosse accettabile che si tirasse a sorte chi dovesseessere mangiato e che si consultasse per questo un giudice, un funzionariogovernativo, un ministro, un sacerdote. Nessuno volle assumersi laresponsabilità di dare un consiglio. Poi cadde il silenzio. I soccorritoricredettero (erroneamente) che le batterie della radio si fossero scaricate.Quando gli speleologi finalmente furono liberati, si vide ciò che erasuccesso: quattro speleologi erano vivi e il quinto, proprio Whetmore, erastato mangiato.

I sopravvissuti testimoniarono che era stato proprio Whetmore a farsipromotore di quel ch’era seguito, compresa l’estrazione a sorte. Gli altri, inun primo momento, s’erano mostrati riluttanti ad accogliere la proposta ma,dopo le conversazioni con i soccorritori fuori della caverna, avevano

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acconsentito, avendo anche risolto qualche problema matematico connessoall’uso dei dadi ch’erano stati usati per tentare la sorte. Prima però che siprocedesse alla messa in atto di un progetto cosí spaventoso e disgustoso,Whetmore aveva dichiarato di voler ritirare il suo consenso per aspettareancora sette giorni e vedere che cosa sarebbe potuto accadere dei soccorsi,ma gli altri l’avevano accusato di voler venir meno alla parola data. Alloraprocedettero regolarmente senza altre obiezioni e la scelta cadde proprio suWhetmore che cosí fu messo a morte e mangiato dai compagni.

I sopravvissuti furono accusati di omicidio. I fatti erano chiari e noncontestati. Al processo, i cittadini che formavano la giuria, che avrebbedovuto essere presieduta da un giurista, chiese e ottenne di essere esoneratadal pronunciarsi sulle responsabilità degli imputati, lasciando l’incombenzaai giudici togati, derogando cosí alla procedura normale data l’eccezionalitàdel caso. Gli imputati furono giudicati colpevoli e condannati alla pena dimorte per impiccagione, secondo la legge del luogo. Questa legge nonprevedeva scappatoie, del tipo dello stato di necessità o dell’omicidio delconsenziente, che potessero evitare tale crudelissima decisione. Tuttavia,sciolta la giuria, i suoi membri indirizzarono al governatore dello Stato unasupplica affinché egli provvedesse alla commutazione della pena di mortein sei mesi di reclusione. Il governatore non aveva ancora deciso il da farsiessendo in corso il processo d’appello davanti alla Corte suprema diNewgarth. La storia che segue riguarda precisamente ciò che avvennedavanti alla Corte investita del giudizio d’appello.

Questa storia e i nomi che vi compaiono sono di pura fantasia (hanno,però, significati allusivi), ma il caso che i cinque giudici furono chiamati atrattare secondo la fantasia di Fuller è simile ad altri che s’erano verificatirealmente in passato. Sembra anzi ricalcato sul cosiddetto Mignonette Case.S’era trattato (nel 1884) d’un naufragio reale, a seguito del quale duenaufraghi (Dudley e Stephens) s’erano resi autori d’un omicidio di unuomo, peraltro in fin di vita, con l’intento di mangiarne la carne nell’attesadei soccorsi. L’Alta Corte di giustizia britannica aveva pronunciato unasentenza di morte, ma la pena era stata commutata in sei mesi di carcere(come nella supplica dei giurati nel nostro caso). Non fu un episodioisolato: ce n’erano stati altri nel corso dell’Ottocento, sempre relativi anaufragi e a naufraghi.

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Ora, i nostri speleologi sono davanti alla Corte suprema di Newgarth e aicinque giudici che la compongono.

2. Dura è la legge, ma la grazia può addolcirla.

Il Chief Justice, C. J. Truepenny, formulò per primo la sua opinione,favorevole alla conferma della sentenza di colpevolezza di primo grado, neitermini seguenti.

Non si sarebbe potuto fare altrimenti. C’era un’unica possibilità e dove la possibilitàè una sola, diventa necessità. In quello Stato c’è una legge la cui lettera è chiarissima:«Chiunque volontariamente si prende la vita di un altro sarà punito con la morte». Lacondanna pronunciata in primo grado è dunque indiscutibile. La legge non ammetteeccezioni. Tuttavia, la sorte di questi uomini ci sta a cuore e possiamo facilmenterenderci conto della tragica situazione in cui questi uomini si sono trovati ad agire.Proprio per casi come questo è prevista la grazia e per questo mi sento di raccomandaredi seguire l’esempio della giuria di primo grado. Ci sono tutte le ragioni per credere cheil Governatore avvertirà le buone ragioni della domanda di commutazione della pena,provenendo da coloro che hanno studiato approfonditamente il caso. Se la grazia saràconcessa, giustizia sarà fatta senza compromettere né la lettera né lo spirito delle nostreleggi e senza incoraggiare nessuno a violarle.

Queste le parole del Chief Justice: semplici, troppo semplici a giudiziodel giudice che prende la parola dopo di lui, il giudice J. Foster.

3. Legalità non equivale a stupidità.

La condanna a morte unita a richiesta di grazia sembra al giudice Fosterun escamotage, banale e piuttosto sordido. Ai giudici è chiesto di faregiustizia applicando la legge, non di lavarsi le mani rivolgendosi ad altri.Soprattutto, ai giudici spetta difendere la legge e, per far questo, non è loropermesso esporla al ridicolo. Egli dice:

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C’è qualcosa di piú rispetto al destino dei quattro sfortunati esploratori. Sedichiarassimo questi uomini colpevoli, la legge stessa sarebbe condannata di fronte altribunale del buon senso. Condannare, ma poi implorare la grazia dal capriccio delGovernatore non significa affermare che la legge non ha alcun rapporto con la giustizia?Non credo che la nostra legge ci costringa a una simile mostruosità. Anzi, credo ch’essaci indichi che questi uomini non sono assassini. Ho due argomenti. Il primo si fonda suuna premessa che può non essere condivisa solo se non la si esamina francamente.L’obbligo che discende dalla legge positiva si basa sulla possibilità di coesistenza degliesseri umani in società. Quando questa possibilità non esiste, siamo nella condizione chegli Antichi, in Europa e in America, chiamavano «legge di natura» e in questacondizione la forza della nostra legge sparisce. Viene meno la ragion d’essere dellalegge e vale allora il motto cessante ratione legis, cessat et ipsa lex. L’affermazione chetutta la legislazione positiva si basa sulla possibilità della coesistenza degli uominisuona strana, non perché sia strana la verità che contiene, ma semplicemente perché èuna verità cosí ovvia che raramente l’esprimiamo in parole. Come dimentichiamo chel’aria che respiriamo esiste fino a quando non ne siamo improvvisamente privati, cosí èper la convivenza entro la quale opera la legge. Quando l’ipotesi che gli uomini possanovivere insieme perde di validità, come evidentemente è in questa straordinaria situazionein cui la vita è stata resa possibile solo dall’appropriazione di un’altra vita, allora lepremesse fondamentali che sorreggono l’intero ordinamento giuridico perdono il lorosignificato e la loro forza. Se i tragici eventi di questo caso avessero luogo unchilometro oltre i limiti territoriali della nostra comunità politica, nessuno pretenderebbedi applicare la nostra legge. Si può imporre un solo ordinamento giuridico su un gruppodi uomini soltanto se essi vivono insieme entro i confini di una determinata area dellasuperficie terrestre. Se teniamo conto dei fini del diritto e del governo e delle premesseche sono alla base della nostra legge positiva, questi uomini quando hanno preso la lorodecisione fatalmente erano lontani dal nostro ordinamento giuridico come se fosserostati mille miglia oltre i nostri confini. Anche in senso fisico, la loro prigione sotterraneaera separata dai nostri tribunali e ufficiali giudiziari da una solida cortina di roccia chepoteva essere rimossa solo dopo sforzi straordinari. Concludo perciò che, quando questiaccusati misero fine alla vita di Roger Whetmore, essi non erano – per usare il pittorescolinguaggio ottocentesco – in uno «stato civile», ma in uno «stato di natura». Ciòcomporta che la legge applicabile non è quella stabilita da questa comunità, ma quellache deriva dai principî adeguati alla loro condizione. Sotto tali principî essi non sonocolpevoli di alcun reato. Infatti, ciò che questi uomini hanno fatto è stato fatto in virtú diun accordo accettato da tutti e proposto dapprima da Whetmore stesso. Poiché era

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evidente che la loro straordinaria situazione avrebbe reso inapplicabili i soliti principîche regolavano le relazioni tra gli uomini, era necessario che essi si dessero, per cosídire, una nuova Carta fondamentale, adeguata alla situazione in cui si trovavano. Findall’antichità è stato riconosciuto che il principio piú fondamentale del diritto o delgoverno si trova nella nozione di contratto o accordo. I pensatori antichi, soprattutto nelperiodo dal 1600 al 1900, usavano basare il governo stesso su un presunto patto socialeoriginario. Gli scettici hanno sottolineato che questa teoria contraddice i fatti noti dellastoria e che non esistono prove scientifiche per sostenere l’idea che qualsiasi governosia mai stato fondato su tale presupposto. Alcuni filosofi morali hanno replicato che, seil patto fosse una finzione dal punto di vista storico, quella nozione forniva comunquel’unica giustificazione etica su cui potessero riposare le prerogative del governo, cheincludono il potere sulla vita delle persone. I poteri del governo possono esseregiustificati moralmente solo per il fatto che gli uomini ragionevoli sarebbero d’accordodi accettarli per costruire ex novo un ordine che garantisse la loro vita in comune.Fortunatamente, la nostra comunità non è turbata dalle perplessità che affliggevano gliantichi. Sappiamo infatti, come verità storica, che le nostre istituzioni sono state fondatesu un libero accordo gratuito. È provato che subito dopo il «grande crollo» [allusione aun fantastico momento iniziale, successivo a una distruzione dopo la quale occorrevaricominciare da capo] i sopravvissuti alla strage si sono riuniti e hanno elaborato unaCarta di governo. Dei sofisti hanno sollevato dubbi sul potere di quegli accordi diobbligare a distanza le generazioni future, ma resta il fatto che il nostro governo sicollega in una linea ininterrotta a quella carta originale. Pertanto, se i nostri boia hannoil potere di eseguire sentenze capitali, se i nostri sceriffi possono buttare sulla strada gliinquilini morosi, e la nostra polizia ha il potere di incarcerare i disturbatori ubriachi,questi poteri trovano la loro giustificazione morale in quell’accordo originario dei nostriantenati. Se non possiamo trovare una fonte piú alta per il nostro ordinamento giuridico,a quale fonte piú alta del loro accordo dovremmo aspettarci che questi sfortunatiabbiano fatto ricorso per giustificare la decisione ch’essi stessi hanno preso?

Il giudice Foster prosegue cosí:

Credo che l’argomento che ho appena esposto non possa essere contestatoragionevolmente. Mi rendo conto che probabilmente verrà accolto con un certo disagioda parte di molti che, leggendo la mia opinion, saranno inclini a sospettare che possaesserci un qualche inganno nascosto, se essa giunge a conclusioni tanto inusuali.L’origine di questo disagio è tuttavia facile da identificare. Le consuete condizioni

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dell’esistenza umana ci inducono a pensare alla vita umana come valore assoluto, danon sacrificare in nessuna circostanza. Questa concezione, però, è una finzione anchequando si applica ai rapporti sociali ordinari. Abbiamo una riprova di questa veritàproprio nel caso che sta davanti a noi. Dieci operai sono stati uccisi durante la rimozionedelle rocce dall’apertura alla grotta. Forse che gli ingegneri e i funzionari governativiche hanno diretto le operazioni di salvataggio non sapevano che erano operazionipericolose e comportavano un grave rischio per la vita degli operai che le eseguivano?Se era opportuno che queste dieci vite venissero sacrificate per salvare la vita dei cinqueesploratori imprigionati, perché allora sarebbe sbagliato per questi speleologi accordarsiper salvare quattro vite al costo di una? Ogni autostrada, ogni tunnel, ogni edificio cheprogettiamo comporta un rischio per la vita umana. Prendendo questi progetti inaggregato, possiamo calcolare con precisione quante morti la loro costruzionerichiederà. Gli statistici possono dirci il costo medio delle vite umane di un migliaio dichilometri di un’autostrada in cemento a quattro corsie. Eppure, deliberatamente econsapevolmente assumiamo e paghiamo questo costo in base all’ipotesi che ilbeneficio ottenuto da coloro che sopravvivono superi la perdita. Se queste cose sipossono dire di una società che funziona in superficie in modo normale e ordinario, cosadiremmo del preteso valore assoluto di una vita umana nella disperata situazione in cuiquesti imputati e il loro compagno Whetmore si sono trovati?

Cosí si conclude il primo motivo della decisione del giudice Foster. Cen’è un altro che riguarda il senso della legge che deve essere applicata:

Se io sbaglio nel dire che la situazione di questi uomini li ha sottratti alla vigenzadella nostra legge positiva, e se si potesse supporre che la legge positiva abbia la forzadi penetrare attraverso cinquecento piedi di roccia e di imporsi a questi uomini affamatiche erano radunati nella prigione sotterranea, allora è del tutto evidente che questiuomini hanno compiuto un atto che viola la formulazione letterale della legge secondola quale colui che «volontariamente toglie la vita di un altro» è un assassino. Ma unantichissimo frammento della saggezza giuridica antica dice che si può infrangere lalettera della legge senza infrangere la legge stessa. Ogni proposizione giuridica positiva,contenuta in una legge o in un precedente giudiziario, deve essere interpretataragionevolmente alla luce del suo scopo manifesto. Questa è una verità cosí elementareche non è necessario diffondersi su di essa. Gli esempi della sua applicazione sonoinnumerevoli e si trovano in ogni settore del diritto. In Commonwealth v. Staymorel’imputato era stato condannato in base a una legge che prevedeva l’obbligo di

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rimuovere la propria auto parcheggiata da due ore nello stesso posto. L’imputato avevatentato di spostarla, ma era stato impedito perché le strade erano ostruite da unamanifestazione politica alla quale non aveva preso parte e che non aveva motivo diprevedere. La sua condanna è stata annullata da questa Corte, anche se il caso cadevaprecisamente nella previsione della legge. Ancora, in Fehler v. Neegas, di fronte aquesta Corte si trattò di una legge in cui la parola «no» era stata chiaramente spostatadalla posizione voluta nella sezione finale e cruciale della norma. Questo spostamentoera contenuto in tutte le bozze successive, apparentemente trascurate dagli artefici e daisostenitori della legge. Nessuno è riuscito a dimostrare come è avvenuto l’errore, ma èevidente che, tenuto conto del contenuto della legge nel suo complesso, era statocommesso un errore, poiché una lettura letterale della clausola finale la rendevaincompatibile con tutto ciò che stava scritto prima e con l’oggetto stesso dellastatuizione, come indicato nel suo preambolo. La Corte ha rifiutato di accettareun’interpretazione letterale della legge e, in effetti, ne ha rettificato il linguaggioleggendo la parola «no» nel luogo in cui era evidentemente destinata a collocarsi. Lalegge che abbiamo davanti a noi e che dobbiamo interpretare non è mai stata applicataletteralmente. Secoli fa si è stabilito che un’uccisione per autodifesa è scusata. Non c’ènulla nella formulazione della legge che suggerisca questa eccezione. Sono stati fattidiversi tentativi per conciliare il trattamento legale dell’autodifesa con le parole dellalegge, ma a mio parere sono solo semplici sofismi. La verità è che l’eccezione a favoredell’autodifesa non può essere riconciliata con le parole della legge, ma solo con il suoscopo. Il vero modo di conciliare la non punizione dell’autodifesa con la legge cheprevede come delitto l’uccisione di una persona si trova nella seguente linea diragionamento. Uno degli obbiettivi principali che sottendono ogni legislazione penale èquello di dissuadere gli uomini dalla criminalità. Ora è evidente che se fosse emanatauna legge che dichiarasse che l’uccisione per autodifesa è omicidio, una tale regola nonavrebbe nessun valore dissuasivo. Un uomo la cui vita è minacciata respingerebbecomunque il suo aggressore, qualunque cosa la legge possa dire. Guardando pertantoagli scopi generali della legislazione penale, possiamo dichiarare in modo sicuro chequesta legge non è stata intesa applicarsi ai casi di autodifesa. Lo stesso ragionamento èapplicabile al caso che deve essere giudicato. Se in futuro qualsiasi gruppo di uomini sitroverà mai nella tragica situazione di questi imputati, possiamo essere sicuri che la lorodecisione di vivere o morire non dipenderà certo dal contenuto del nostro codice penale.Di conseguenza, se leggiamo questa legge in modo intelligente, risulta che non si puòapplicare a questo caso, proprio per le stesse considerazioni che i nostri predecessorisecoli fa fecero a proposito dell’autodifesa.

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A questo punto, il giudice Foster vuol prevenire la classica obiezionecirca il dovere del giudice di applicare la legge e di resistere alla tentazionedi farsi legislatore del caso concreto.

Ci sono coloro che sollevano il grido di usurpazione giudiziaria quando un tribunale,dopo aver analizzato lo scopo di una legge, dà alle sue parole un significato che non èimmediatamente evidente al lettore casuale che non ha studiato la legge da vicino o nonne ha esaminato gli obbiettivi. Io accetto senza riserva la proposizione che questa Corteè vincolata dalle nostre leggi e che esercita i suoi poteri in virtú della volontàdebitamente espressa dalla Camera dei Rappresentanti. La linea argomentativa che hoseguito non solleva questione di fedeltà alla legge statuita, anche se può suscitare unaquestione di distinzione tra la fedeltà intelligente e inintelligente. Nessun superiorevuole un servitore che manca della capacità di leggere tra le righe. La domestica piústupida sa che quando le viene detto di «sbucciare la zuppa e sfogliare le patate» la suapadrona non vuol dire ciò che le parole significano. Sa anche che quando il suo capo ledice: «lascia perdere tutto quel che stai facendo e vieni di corsa» ha trascurato lapossibilità che al momento sia in atto il salvataggio d’un bambino che sta per annegarein un torrente. Certamente abbiamo il diritto di pretendere la stessa modica quantitàd’intelligenza dal sistema giudiziario. La correzione di errori evidenti o di equivocilegislativi non è sostituire la volontà legislativa, ma renderla efficace.

A questo punto, esposti gli argomenti dei due giudici intervenuti perprimi, la partita è pari, uno a uno.

4. Chiacchierare senza costrutto.

Le posizioni sono cosí nettamente delineate e divise: confrontati ipossibili argomenti a favore dell’una o dell’altra, sembra che siaimpossibile non stare da una parte o dall’altra. Invece no. Il giudice J.Tatting svolge una serrata argomentazione contro l’una e contro l’altrasoluzione proposta. Inizia con una premessa circa la sua deontologia:

Nello svolgimento delle mie funzioni di giudice, sono solitamente in grado didissociare emozioni e ragioni e di decidere i casi che ho davanti esclusivamente sullabase di queste ultime. Ma, guardando questo tragico caso mi accorgo che le mie solite

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risorse professionali non sono sufficienti. Emotivamente, sono lacerato tra la simpatiaverso questi uomini e una sensazione di disgusto per l’atto mostruoso che hannocommesso. Avevo sperato di poter mettere da parte queste emozioni contraddittorie, inquanto irrilevanti, e di poter decidere il caso sulla base di una dimostrazioneconvincente e logica della soluzione richiesta dalla nostra legge. Purtroppo, questacondizione liberatoria non mi è stata concessa.

Quando analizzo l’opinione del collega Foster, mi pare ch’egli incorra incontraddizioni ed errori. Cominciamo dalla sua prima proposizione: questi uomini nonerano soggetti alla nostra legge perché non erano «in stato di società civile» ma in «statodi natura». Non mi è chiaro perché sia cosí: per lo spessore della roccia che li tenevaprigionieri o per la fame, oppure perché avevano istituito un nuovo «patto di governo»per mezzo del quale le leggi ordinarie erano sostituite da un tiro dei dadi. Altre difficoltàsi intravedono. Posto che questi uomini siano passati dalla giurisdizione della nostralegge a quella della «legge di natura», in che momento questo avvenne? Quandol’ingresso alla grotta fu bloccato o quando il morso della fame raggiunse un certo gradod’indefinita intensità, oppure quando quegli uomini si accordarono per tirare a sorte?Queste incertezze sono tali da creare reali difficoltà alla proposta del mio collega.Supponiamo, ad esempio, che uno di questi uomini abbia compiuto ventun anni mentreera imprigionato nella montagna. A quale data dovremmo considerare che abbiaraggiunto la maggior età – al compimento degli anni nel cui momento in cui, per ipotesi,la nostra legge non valeva per lui, oppure solo quando, liberato dalla caverna, ritornò aessere soggetto a ciò che il collega chiama il nostro «diritto positivo»? Queste difficoltàpossono sembrare fantasiose, ma servono solo a rivelare l’altrettanto fantasiosa naturadella dottrina che ne è all’origine. Ma non è necessario indugiare su queste sottigliezzeper dimostrare l’assurdità della posizione del mio collega. Il giudice Foster e io siamostati nominati giudici di un tribunale della comunità di Newgarth, abbiamo giurato esiamo autorizzati ad amministrare le leggi di questa comunità. In forza di quale legge cirisolviamo a essere una Corte di diritto naturale? Se questi uomini erano effettivamentesotto la legge della natura, da dove viene la nostra autorità per esporre e applicare quellalegge? Certamente noi non siamo in uno stato di natura.

Ma, al giudice Tatting la legge di natura invocata da Foster come la piúequa e umana appare ingiusta e disumana.

Vediamo il contenuto di questo codice di natura che il mio collega ci propone diadottare e di applicare a questo caso. Che codice stupido e odioso! È un codice in cui la

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legge dei contratti è piú fondamentale della legge dell’omicidio. È un codice in cui unuomo può fare validamente un accordo che autorizza i suoi compagni a mangiare ilproprio corpo. Secondo le disposizioni di questo codice, inoltre, un accordo di questogenere è irrevocabile e se una delle parti tenta di ritirarsi, gli altri possono impugnare lalegge e imporre il contratto con la violenza (anche se il mio collega passa comodamentesotto silenzio l’effetto del ritiro di Whetmore dall’accordo), questa è la necessariaimplicazione del suo argomento. I principî ch’egli espone contengono altre implicazioniche non possono essere ammesse. Egli sostiene che quando gli imputati si gettarono suWhetmore e lo uccisero (non sappiamo come, forse colpendolo con le pietre) stavanosolo esercitando i diritti derivanti dalla loro negoziazione. Supponiamo, però, cheWhetmore avesse nascosto sulla sua persona un revolver e che, quando vide gli imputatiche stavano per macellarlo, avesse sparato a morte per salvare la propria vita. Ilragionamento del mio collega, applicato a questi fatti, avrebbe reso Whetmore unassassino, poiché la scusa di autodifesa gli si sarebbe dovuta applicare. Se i suoiaggressori hanno agito a buon diritto per cercare di provocare la sua morte, alloranaturalmente non si può giustificarlo sostenendo ch’egli difendeva la propria vita, cosícome non giustificheremmo un condannato che ammazzi il carnefice che cercalegalmente di mettergli il cappio al collo. Tutte queste considerazioni mi impediscono diaccettare la prima parte dell’argomentazione del mio collega. Non posso accettare la suaidea che questi uomini fossero sotto un codice di natura applicabile da questa Corte, néposso accettare le regole odiose e perverse che egli vorrebbe leggere in quel codice.

Ma, anche la parte dell’argomentazione di Foster circa l’interpretazionedella legge sull’omicidio gli appare insostenibile, oscura e ambigua. Lariassume cosí e cosí la confuta:

Nessuna legge, quale che ne sia la lettera, deve essere applicata in un modo dacontraddire il suo scopo; uno degli scopi di qualsiasi legge penale è la dissuasione;l’applicazione della legge nel senso che l’omicidio nelle condizioni particolari di cui sitratta in questo caso è un crimine sarebbe in contrasto con quello scopo, perché èimpossibile credere che il contenuto di quella legge penale possa operare in mododissuasivo sugli uomini di fronte all’alternativa tra la vita e la morte. Il ragionamentotramite il quale questa eccezione si rinviene nella legge, osserva il mio collega, è ugualea quello che viene applicato per fornire la giustificazione all’autodifesa.Apparentemente, questa dimostrazione sembra davvero convincente. L’interpretazioneche il mio collega dà alla logica dell’autodifesa è infatti sostenuta da una decisione di

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questa corte, Commonwealth v. Parry, un precedente che ho incontrato nello studio diquesto caso. Anche se Commonwealth v. Parry sembra generalmente trascurato nei testie nelle decisioni successive, essa sostiene inequivocabilmente l’interpretazione che ilmio collega dà della ratio dell’autodifesa come giustificazione. Adesso, però, desideroesporre brevemente le perplessità che mi assalgono quando esamino quelladimostrazione piú da vicino. È vero che una legge dovrebbe essere applicata alla lucedella sua finalità e che uno degli scopi riconosciuti della legislazione penale è ladeterrenza. La difficoltà sta nel fatto che anche altri scopi possono essere attribuiti allalegge penale. È stato detto che uno dei suoi scopi è anche quello di fornire una richiestaordinata all’istintiva e umana richiesta di retribuzione (Commonwealth v. Scape). È statoanche detto che un suo scopo è la riabilitazione del malfattore (Commonwealth v.Makeover). Sono state proposte anche altre teorie. Supponendo che dobbiamointerpretare una legge alla luce del suo scopo, cosa dobbiamo fare quando ha molti scopio quando le sue finalità sono contestate? Una simile difficoltà deriva dal fatto che,sebbene esista un’opinione autorevole a favore dell’interpretazione del mio collega circala giustificazione dell’autodifesa, ne esiste un’altra che attribuisce a questa scusante unarazionalità diversa. Infatti, finché non mi sono imbattuto in Commonwealth v. Parry,non avevo mai sentito parlare della spiegazione fornita dal mio collega. La dottrinainsegnata nelle nostre scuole di diritto, mandata a memoria da generazioni di studenti didiritto, si svolge nei seguenti termini: la legge sull’omicidio richiede un atto«volontario». L’uomo che agisce per respingere un’aggressione alla propria vita nonagisce «volontariamente», ma in risposta a un impulso profondamente radicato nellanatura umana. Sospetto che in questa comunità non ci sia un giurista che non abbiafamiliarità con questo ragionamento, soprattutto perché è uno dei preferiti dagliesaminatori nell’ammissione all’avvocatura. Orbene, la comune giustificazionedell’autodifesa appena esposta ovviamente non può essere applicata per analogia ai fattidi questo caso. Questi uomini agirono non solo «intenzionalmente» ma con attentadeliberazione e dopo ore di discussione su cosa dovessero fare. Ancora una voltaincontriamo un percorso biforcuto, con una linea argomentativa che ci conduce in unadirezione e un’altra in una direzione che è esattamente all’opposto. Questa perplessità èin questo caso aggravata, perché dobbiamo estrarre una spiegazione contenuta in unprecedente praticamente sconosciuto di questa Corte, contro un’altra spiegazione che faparte della tradizione giuridica insegnata nelle nostre scuole di diritto, ma che, perquanto ne so, non è mai stata adottata in nessuna decisione giudiziaria.

Riconosco la pertinenza dei precedenti citati dal mio collega a proposito deglisfrattati e dell’imputato che ha parcheggiato oltre l’orario consentito. Ma cosa dobbiamo

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fare con uno dei punti di riferimento della nostra giurisprudenza, che ancora una volta ilmio collega passa sotto silenzio? Questo è Commonwealth v. Valjean [allusione alprotagonista de I miserabili di Victor Hugo]. Anche se il caso è stato descritto in modoalquanto oscuro, sembra che l’imputato fosse stato accusato per il furto di una pagnottadi pane e ha avanzato, a sua difesa, di avere sempre piú fame. La Corte ha rifiutato diaccettare questa difesa. Se la fame non può giustificare il furto di alimenti sani enaturali, come può giustificare l’uccisione di un uomo e il cibarsene? Ancora una volta,se guardiamo la cosa in termini di dissuasione, si può immaginare che un uomo moriràdi fame piuttosto che subire una condanna alla prigione per il furto di una pagnotta dipane? Le dimostrazioni del mio collega ci obbligano a superare Commonwealth v.Valjean e molti altri precedenti relativi a quel caso.

Ancora: ho difficoltà a credere che nessun effetto deterrente può essere attribuito auna decisione che qualifichi questi uomini come colpevoli di omicidio. Lo stigma dellaparola «assassino» è tale che è abbastanza probabile, credo, che se questi uominiavessero saputo che il loro atto sarebbe stato giudicato dalla legge come omicidio,avrebbero aspettato almeno alcuni giorni prima di eseguire il loro piano. Durante queltempo sarebbe potuto arrivare un aiuto inaspettato. Mi rendo conto che questaosservazione riduce solo la distinzione a una questione di grado, e non la distruggetotalmente. Infatti, è certamente vero che l’elemento di deterrenza sarebbe minore inquesto caso rispetto a quanto normalmente è implicito nell’applicazione del dirittopenale.

C’è ancora un’altra difficoltà nella proposta del collega Foster. Qual è la portatadell’eccezione all’applicazione della legge? Qui si è tirato a sorte e la vittima è stataoriginariamente parte di un accordo. Cosa dovremmo dire se Whetmore avesse rifiutatofin dall’inizio di partecipare al piano? La maggioranza sarebbe stata autorizzata aprevalere su di lui? Oppure, supponiamo che nessun piano fosse stato adottato e gli altrisemplicemente cospirassero per provocare la morte di Whetmore, giustificando il loroatto dicendo ch’egli era nella condizione di maggiore debolezza. O ancora, che un pianodi selezione fosse stato seguito, ma basato su una giustificazione diversa da quellaadottata, ad esempio che gli altri, essendo atei, sostenessero che Whetmore dovessemorire perché era l’unico a credere in una vita nell’aldilà. Queste ipotesi potrebberoessere moltiplicate, ma sono sufficienti a rivelare il ginepraio di difficoltà nascoste nelragionamento del mio collega.

Il giudice Tatting si rende conto che forse si sta preoccupando diproblemi che non sorgeranno mai piú, perché è improbabile che un gruppo

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di uomini possa ancora essere portato in futuro a commettere un attoterribile come quello in questione. Tuttavia, osserva:

Forse che gli argomenti che ho portato non mostrano la mancanza di un principiocoerente e razionale nella regola che il mio collega propone? La veridicità di unprincipio dovrebbe essere testata sulle conclusioni che comporta, senza fare riferimentoa ciò che potrebbe accadere nella storia di controversie successive. Posto che sia cosí,perché abbiamo cosí spesso discusso la questione se un principio che ci prospettiamo inun caso precedente possa avere un’occasione di applicazione in un caso successivo? Èquesta una situazione in cui una linea di ragionamento in origine non corretta si èconsolidata in precedenti, in modo che diventa non solo possibile, ma ancheobbligatorio applicarla successivamente.

Ecco la non-conclusione:

Piú esamino questo caso e ci penso su e piú profondamente mi trovo impelagato.Poiché la mia mente si impiglia nelle maglie di vere e proprie reti, mi butto fuori persalvarmi. Trovo che quasi tutte le considerazioni che portano alla decisione del casosono controbilanciate da qualche considerazione che conduce nella direzione opposta. Ilmio collega Foster non mi ha fornito, né posso scoprire da me una formula in grado dirisolvere gli equivoci che mi tormentano da ogni parte. Ho dedicato a questo caso ilmeglio di cui sono capace. Non ho dormito da quando ne abbiamo parlato tra di noi.Quando mi sento disposto ad accedere alla visione del collega Foster, mi sento respintodalla sensazione che i suoi argomenti sono intellettualmente fragili e sono piuttostosemplici razionalizzazioni a posteriori. D’altra parte, quando propendo per la condanna,mi colpisce l’assurdità di disporre che questi uomini vengano messi a morte quando leloro vite sono state salvate a costo della vita di dieci eroici operai. Per me è motivo dirammarico che il procuratore abbia ritenuto opportuno muovere un’accusa per omicidio.Se avessimo una norma nelle nostre leggi che facesse dell’antropofagia un delitto,sarebbe stata questa un’accusa piú appropriata. Se non era possibile muovere neiconfronti degli imputati un’accusa adeguata ai fatti di questo caso, era piú saggio, credo,non accusarli affatto. Purtroppo, però, questi uomini sono stati accusati e processati enoi, quindi, siamo stati tirati dentro questa sciagurata vicenda. Dal momento che sonostato completamente incapace di risolvere i dubbi giuridici che riguardano questo caso,mi dispiace di annunciare un passo che è, credo, senza precedenti nella storia di questotribunale. Dichiaro di astenermi dalla decisione.

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5. La legge sta nelle sue stesse parole e il resto è vaniloquio.

Il giudice J. Keen precisa all’inizio il suo punto di vista. Vuolecircoscrivere la questione da decidere alla sola portata letterale della legge.

Desidero iniziare mettendo da parte due questioni che non si pongono davanti aquesta Corte. La prima di queste è se debba essere concessa la grazia o la commutazionedella pena a questi imputati. Nel nostro ordinamento, questa è una questione cheriguarda non noi, ma il Governatore dello Stato. Per questo motivo, disapprovo quelpassaggio dell’opinione del Chief Justice in cui egli dà effettivamente istruzioni inmerito a ciò che il Capo dell’Esecutivo dovrebbe fare in questo caso e suggerisce l’ideach’egli incorrerà in qualche scorrettezza se queste istruzioni non venissero prese inconsiderazione. Questa è una confusione di funzioni governative – una confusione di cuiil giudice dovrebbe essere l’ultimo a rendersi colpevole. Affermo che, se fossi ilGovernatore, andrei anche piú in là in direzione della clemenza rispetto a ciò cheprospettano le suppliche a lui indirizzate. Io perdonerei del tutto questi uomini, dato checredo che abbiano già sofferto abbastanza perché debbano pagare per qualsiasi reato chepossano avere commesso. Voglio che sia capito che questa osservazione è fatta inqualità di cittadino privato al quale, a causa delle incombenze del suo ufficio, è capitatod’acquisire un’intima conoscenza dei fatti di questo caso. Nello svolgimento dei mieidoveri di giudice, non è mia funzione né dare indicazioni al Capo dell’Esecutivo, néprendere in considerazione ciò che egli può o non può fare nel prendere conoscenzadella mia decisione, la quale deve essere sottoposta interamente alla legge di questacomunità. La seconda questione che vorrei mettere da parte è se ciò che questi uominihanno fatto è «giusto» o «sbagliato», «malvagio» o «buono». Anche questa è unaquestione irrilevante per l’esercizio del mio ufficio come giudice che ha giurato diapplicare non le mie concezioni della moralità, ma la legge del paese. Nell’accantonarequeste domande, credo di poter tranquillamente respingere senza commentare la prima epiú lirica parte del parere del collega Foster. L’elemento di fantasia contenuto negliargomenti ivi sviluppati è stato sufficientemente messo in rilievo nello sforzo piuttostosolenne del mio collega Tatting di prenderli sul serio.

L’unica domanda che abbiamo davanti a noi alla quale dobbiamo rispondere è sequesti imputati, ai sensi della legge sull’omicidio, si siano volontariamente presi la vitadi Roger Whetmore. L’espressione esatta della legge è la seguente: «Chiunquevolontariamente prenderà la vita di un altro, sarà punito con la morte». Ora credo dipoter supporre che qualsiasi osservatore sincero, in grado di estrarre da queste parole il

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loro significato naturale, concederebbe immediatamente che questi imputati abbiano«preso volontariamente la vita» di Roger Whetmore. Da dove nascono tutte le difficoltàdel caso e quindi la necessità di tante pagine di discussione su ciò che dovrebbe esserecosí evidente? Le difficoltà, in qualsiasi forma tormentata possano presentarsi, risalgonotutte a una sola fonte: la mancata distinzione dell’aspetto morale da quello legale diquesto caso. Per dirlo esplicitamente, ai miei colleghi non piace che la legge scrittarichieda la condanna di questi imputati. Neppure a me, ma a differenza dei mieicolleghi, io rispetto gli obblighi di un ufficio che mi impone di mettere a tacere nellamia mente le mie predilezioni personali quando mi accingo a interpretare e applicare lalegge di questa comunità.

Il giudice Keen chiama in causa la distinzione tra i poteri e lasubordinazione del giudice alla legge:

Ovviamente, il collega Foster non ammette di essere mosso da una personaledisapprovazione della legge scritta. Invece sviluppa una ben nota linea diargomentazione secondo cui la Corte può ignorare il linguaggio espresso di una leggequando qualcosa che non è contenuto nella legge stessa, chiamato il suo «scopo», puòessere impiegato per giustificare il risultato che la Corte considera corretto. Poichéquesta è una vecchia questione aperta tra me e il mio collega, prima di discutere dellasua particolare applicazione ai fatti di questo caso, vorrei dire qualcosa sullo sfondostorico di questo argomento e sulle sue implicazioni per il diritto e per il governo ingenerale.

C’era un tempo in cui, in questo paese, i giudici legiferavano con molta leggerezza, etutti noi sappiamo che durante quel periodo alcune nostre leggi sono state quasicompletamente stravolte dalla magistratura. Quello è stato un momento in cui i principîaccettati della scienza politica non indicavano con chiarezza la posizione e le funzionidelle varie articolazioni dello Stato. Conosciamo tutti la tragica conseguenza di quellaincertezza nella breve guerra civile che è nata dal conflitto tra la magistratura, da unlato, e l’esecutivo e il legislativo, dall’altro. Non c’è bisogno di enumerare qui i fattoriche hanno contribuito a questa indecorosa lotta per il potere, anche se tra questi c’era ilcarattere non rappresentativo della Camera, derivante da una divisione del paese indistretti elettorali che non si erano piú uniformati alla distribuzione effettiva dellapopolazione, nonché la forte personalità e il largo seguito popolare di chi, in quelmomento, stava al vertice della giustizia. È sufficiente osservare che quei giorni sonoormai dietro di noi e che, al posto dell’incertezza che allora regnava, abbiamo ora un

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chiaro principio, che è la supremazia del potere legislativo nella nostra organizzazionedi governo. Da questo principio scaturisce l’obbligo del giudice a far rispettarefedelmente la legge scritta e di interpretare quella legge secondo il suo semplicesignificato senza fare riferimento ai nostri desideri personali o alle nostre concezioniindividuali della giustizia. Non mi preoccupo per la questione se il principio che vieta aigiudici di sottoporre a revisione la legge sia giusto o sbagliato, desiderabile oindesiderabile. Osservo semplicemente che questo principio è diventato una premessatacita che sottende l’intero ordine giuridico e governativo che sono tenuto adamministrare. Sebbene il principio della supremazia del legislatore sia stato accettato inteoria da secoli, tale è la tenacia della tradizione professionale e la forza di abitudini dipensiero consolidate che molti dei giudici non si sono ancora acconciati al ruolo limitatoche il nuovo ordine impone loro. Il collega Foster è uno di loro. Il suo modo di trattarele leggi è esattamente quello di un giudice che fosse vissuto nel 3900.

Abbiamo tutti dimestichezza con il processo argomentativo attraverso il quale sicompie la revisione delle leggi che non piacciono a opera della magistratura. Chiunqueabbia seguito le opinioni scritte del giudice Foster avrà avuto l’opportunità di vederecome ciò opera in ogni settore del diritto. Sono personalmente cosí abituato a questomodo di procedere che, in caso di incapacità del mio collega, sono sicuro che potreiscrivere un’opinione soddisfacente al posto suo senza alcun suggerimento, salvo essereinformato se gli va a genio l’effetto che le parole della legge avrebbero sul caso che glista innanzi. Il processo per riformare giudizialmente la legge richiede tre passi. Il primoè divinare un qualche singolo «scopo» al cui servizio è posta la legge. Ciò si fa sebbenenemmeno una legge su cento abbia un tale scopo unico, e sebbene gli obbiettivi di quasiogni legge siano interpretati in modo diverso dalle diverse categorie dei suoi sponsor. Ilsecondo passo è scoprire che un essere mitico chiamato «il legislatore», nelperseguimento di questo suo «scopo» immaginario, ha trascurato qualcosa o ha lasciatoqualche lacuna o imperfezione nel suo lavoro. Poi arriva la parte finale e piú gradevoledell’impresa, naturalmente riempire il vuoto cosí creato. Quod erat faciendum.

La predisposizione del collega Foster a trovare vuoti nelle leggi ricorda una storiaraccontata da un antico autore dell’uomo che mangiò un paio di scarpe. Alla domandase gli piacevano, rispose che la parte che gli piaceva era quella vuota. Questo è il modoin cui il mio collega percepisce le leggi; piú vuoti hanno, piú gli piacciono. In breve, leleggi non gli piacciono.

Non si potrebbe desiderare un caso migliore di quello che abbiamo davanti, perillustrare la natura speciosa di questo processo di riempimento di vuoti. Il mio collegacrede di sapere esattamente quello cui si mirava quando si fece dell’omicidio un

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crimine, e questo era qualcosa ch’egli chiama «deterrenza». Il collega Tatting ha giàmostrato quanto superata è quella interpretazione. Ma credo che la difficoltà sia piúprofonda. Dubito fortemente che la nostra legge che considera crimini gli omicidi abbiarealmente uno «scopo» in qualsiasi senso comune del termine. Innanzitutto, una talelegge riflette una convinzione umana profondamente sentita, cioè che l’omicidio èsbagliato e che qualcosa deve essere fatto a chi lo commette. Se fossimo costretti aessere piú analitici, probabilmente ci rifaremmo alle piú sofisticate teorie deicriminologi, che naturalmente non erano certo presenti alle menti di chi ha redatto lanostra legge. Potremmo anche osservare che gli uomini faranno il loro lavoro in modopiú efficace e vivranno vite piú felici se sono protetti contro la minaccia di violenteaggressioni. Tenendo presente che le vittime di omicidi sono spesso persone sgradevoli,possiamo aggiungere una raccomandazione: che la questione di sbarazzarsi degliindesiderabili non sia una funzione adatta all’impresa privata, ma debba essere unmonopolio statale. Quante giustificazioni sovrabbondanti dell’ovvietà!

Se non conosciamo lo scopo della legge in questione, come possiamo dire che forsevi è un «divario»? Come possiamo sapere che cosa i suoi autori pensavano sullaquestione dell’uccisione di uomini per mangiarli? Il collega Tatting ha manifestato unareazione all’antropofagia comprensibile, anche se forse un tantino esagerata. Comepossiamo sapere se i suoi lontani antenati non avevano la stessa ribellione a un gradoperfino superiore? Gli antropologi dicono che il terrore che si prova per un atto proibitopuò essere aumentato dal fatto che le condizioni della vita di una tribú creano tentazionispeciali al suo riguardo, come mostra il fatto che l’incesto è condannato piú gravementetra coloro le cui relazioni di villaggio hanno piú probabilità di verificarsi. Certamente ilperiodo successivo al Grande Crollo era uno di quelli che avevano comportatotentazioni all’antropofagia. Forse per questo motivo i nostri antenati hanno espresso illoro divieto in una forma cosí ampia e incondizionata. Tutto questo è congettura,naturalmente, ma resta sufficientemente chiaro che né io né il mio collega Fostersappiamo quale sia lo «scopo» della legge sull’omicidio.

Nemmeno l’argomento dell’autodifesa pare convincente al giudice Keen.

Ovviamente è vero che in Commonwealth v. Parry un obiter dictum giustificavaquesta eccezione in base all’ipotesi che lo scopo della legislazione penale sia quello didissuadere. Può anche essere vero che a generazioni di studenti di diritto sia statoinsegnato che la vera spiegazione dell’eccezione risiede nel fatto che un uomo cheagisce in autodifesa non agisce «volontariamente» e che gli stessi studenti abbiano

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superato i loro esami di abilitazione ripetendo ciò che loro professori hanno detto loro.Potrei respingere queste ultime osservazioni in quanto ovviamente irrilevanti, per lasemplice ragione che i professori e gli esaminatori non hanno per ora alcunaautorizzazione a imporre a noi le loro leggi. Ma la vera difficoltà è ancora piú profonda.Come nel trattare la legge, cosí nell’affrontare l’eccezione, in questione non è lo scopodella regola che ci immaginiamo, ma la sua portata. Ora, il campo di applicazionedell’eccezione a favore dell’autodifesa, come è stato applicato da questa Corte, è chiaro:si applica quando si tratta di resistere alla minaccia di aggressione alla propria vita. Èperciò fin troppo chiaro che questa ipotesi non ha a che fare con la giustificazione degliimputati, poiché è chiaro che Whetmore non ha minacciato la loro vita.

La fondamentale vacuità del tentativo del collega Foster di rivestire la sua riflessionesulla legge scritta con un’apparenza di legittimità viene tragicamente in superficie nelparere del collega Tatting. In quel parere, egli controbatte fermamente i vuoti moralismidel suo collega per mezzo del proprio senso di fedeltà alla legge scritta. La posta ingioco in questo contrasto non potrebbe essere se non quella che già abbiamosperimentato, un completo fallimento nell’adempimento della funzione giudiziaria.Semplicemente, non si può applicare una legge come è stata scritta econtemporaneamente rifarla per soddisfare i propri desideri.

C’è poi da preoccuparsi delle conseguenze che avrebbe una sentenza diassoluzione.

So bene che la linea argomentativa che ho sviluppato in questo parere non saràaccettabile per coloro che guardano solo agli effetti immediati di una decisione eignorano le implicazioni a lungo termine dell’assunzione da parte dei giudici di unpotere di deroga alla legge. Una decisione dura non è mai una decisione popolare. Igiudici sono stati celebrati dalla letteratura per la loro subdola abilità nell’inventarequalche cavillo per privare una parte d’un processo dei suoi diritti, quando l’opinionepubblica credeva che fosse sbagliato difenderli. Credo, tuttavia, che la derogagiudiziaria alla legge alla distanza fa piú male delle decisioni difficili. I casi difficilipossono addirittura avere un certo valore morale nel richiamare la gente alle proprieresponsabilità verso la legge che, in ultima analisi, è la loro creazione e nel rammentareche non esiste un principio di grazia personale che possa attenuare gli errori dei lororappresentanti. Anzi, dirò di piú: che non solo i principî che sto esponendo sono i piúsani nelle nostre attuali condizioni, ma che avremmo ereditato un sistema giuridicomigliore dai nostri antenati se questi principî fossero stati osservati sin dall’inizio. Ad

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esempio, per quanto riguarda la giustificazione dell’autodifesa, se i nostri tribunalifossero stati saldamente legati alle parole della legge, il risultato sarebbe stato senzadubbio una revisione legislativa. Una tale revisione sarebbe stata preparata con ilconforto di filosofi della natura e di psicologi, e la regolamentazione risultante avrebbeavuto una base comprensibile e razionale, senza i verbalismi e le distinzioni metafisicheche sono emerse nel trattamento giudiziario e professorale della questione. Questeconsiderazioni finali vanno evidentemente al di là del compito che ho da svolgere inrelazione a questo caso, ma le inserisco qui perché avverto profondamente che i mieicolleghi non sono sufficientemente consapevoli dei pericoli impliciti nelle concezionidell’ufficio giudiziario sostenute dal collega Foster. Concludo per la conferma dellacondanna.

6. Saggezza pratica.

Fin qui il rigore senza increspature del positivismo della legge scritta,rappresentato dal giudice J. Keen. A questi si oppone il giudice J. Handycon questa argomentazione che sposta l’attenzione su un piano diverso, laresponsabilità sociale dei Tribunali.

Ho ascoltato con stupore le tormentate elucubrazioni a cui questo semplice caso hadato origine. Non ho mai smesso di meravigliarmi della capacità dei miei colleghi dioscurare con artifici legalistici ogni argomento presentato a loro per la decisione.Abbiamo ascoltato questo pomeriggio e imparato varie disquisizioni sulla distinzione tralegge positiva e legge della natura, sulla lingua e lo scopo della legge, sulle funzionigiudiziarie e le funzioni esecutive, sulla legislazione dei giudici e sulla legislazione dellegislatore.

Che cosa hanno a che fare tutte queste cose con il nostro caso? Il problema davanti anoi è che cosa noi, come organi del sistema di governo, dovremmo fare con questiimputati. Questa è una questione di saggezza pratica, da esercitarsi in un contesto non diteoria astratta, ma di realtà umane. Quando si affronta la questione in questa luce,secondo me diventa uno dei piú facili da decidere tra quelli mai discussi davanti aquesta Corte.

Prima di arrivare alle mie conclusioni sul merito del caso, vorrei discuterebrevemente alcune delle questioni piú importanti coinvolte: questioni su cui i mieicolleghi e io siamo stati divisi fin da quando sono entrato a far parte della Corte. Non

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sono mai riuscito a far vedere ai miei colleghi che il governo è un rapporto umano e chegli uomini sono governati non da parole su carta o da teorie astratte, ma da altri uomini.Sono governati bene quando i loro governanti comprendono i sentimenti e le visionidelle masse. Sono governati male quando questa comprensione manca. Di tutti i settoridel governo, la magistratura è quello che piú probabilmente è esposta alla perdita dicontatto con l’uomo comune. Le ragioni, certo, sono abbastanza evidenti. Mentre lemasse reagiscono a una situazione secondo le sue caratteristiche salienti, noifrazioniamo in piccoli pezzi ogni situazione che ci si presenta. Gli avvocati sono assuntida entrambe le parti per analizzare e dissezionare. I giudici e gli avvocati gareggianol’uno con l’altro per vedere chi può scoprire il maggior numero di difficoltà e distinzioniin un unico insieme di fatti. Ciascuna parte cerca di trovare casi, reali o immaginari, chemettano in imbarazzo le dimostrazioni dell’altra. Per sfuggire agli intoppi, si inventanoancora altre differenze e le si innestano nella situazione. Quando una serie di fatti è statasottoposta a questo tipo di trattamento per un tempo sufficiente, tutta la vita e la suasostanza se ne sono andate via e abbiamo lasciato una manciata di polvere.

Orbene, io mi rendo conto che ovunque ci siano regole e principî astratti, gli avvocatidevono essere in grado di fare distinzioni. In una certa misura il genere di cose che hodescritto è un male necessario che si collega a qualsiasi forma di regolazione degli affariumani. Ma penso che l’area che ha veramente necessità di tale regolamentazione ènotevolmente sovrastimata. Ci sono, naturalmente, alcune regole del gioco fondamentaliche devono essere accettate se il gioco deve procedere per tutti. Includerei tra queste leregole relative alla gestione delle elezioni, alla nomina di funzionari pubblici e alladurata delle cariche pubbliche. Qui una certa limitazione della discrezionalità e dellederoghe, una certa adesione alla forma, un certo scrupolo rispetto a ciò che rientra e ciòche non rientra nella regola, è, ammetto, essenziale. Forse l’area del principio di basedovrebbe essere ampliata per includere alcune altre regole, come quelle progettate perpreservare la libertà del vivere civile. Ma al di fuori di questi campi credo che tutti ifunzionari governativi, compresi i giudici, svolgeranno il loro compito al megliotrattando forme e concetti astratti come strumenti. Dovremmo prendere a modello ilbuon amministratore, che aderisce alle procedure e ai principî al caso da trattare,selezionando tra gli strumenti disponibili quelli piú adatti per raggiungere il risultatocorretto.

Il vantaggio piú ovvio di questo metodo di governo è che ci permette di affrontare inostri compiti quotidiani con efficienza e buon senso. La mia adesione a questa filosofiaha però radici piú profonde. Credo che solo con la prospettiva che questa filosofia ci dàpossiamo preservare la flessibilità che è essenziale se dobbiamo mantenere le nostre

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azioni in rapporto ragionevole con i sentimenti di coloro che sono soggetti alle nostreregole. I governi sono andati in rovina, e la miseria umana è cresciuta piú a causa dellamancanza di questo accordo tra governanti e governati che per qualsiasi altro fattore chenella storia si possa ravvisare. Una volta inserito un cuneo tra la massa delle persone ecoloro che dirigono la loro vita legale, politica ed economica, la nostra società èrovinata. Quindi né la legge della natura di Foster né la fedeltà alla legge scritta di Keenci potranno servire a qualcosa.

Ora, quando applichiamo queste concezioni al caso che abbiamo davanti, la decisionediventa, come ho detto, perfettamente facile. Per dimostrarlo, dovrò introdurre alcunidati di fatto che i miei colleghi hanno potuto pudicamente passare sotto silenzio, anchese ne sono altrettanto consapevoli di me.

Il giudice Handy è sensibile alla pressione dell’opinione pubblica.

Questo caso ha suscitato un enorme interesse tra il pubblico, sia qui che all’estero.Quasi tutti i giornali e le riviste hanno pubblicato articoli al riguardo; gli editorialistihanno condiviso con i loro lettori informazioni confidenziali riguardo alla prossimamossa del governo; sono uscite centinaia di «lettere al direttore». Una delle grandicatene di giornali ha fatto un sondaggio sull’opinione pubblica domandando: «Che cosalei pensa che la Corte Suprema dovrebbe fare con gli speleologi?» Circa il novanta percento ha espresso la convinzione che gli imputati debbano essere perdonati o lasciatiandare con una piccola sanzione. È perfettamente chiaro, quindi, come il pubblico èorientato sul caso. Lo sapremmo anche senza il sondaggio, naturalmente, sulla base delsenso comune, o addirittura osservando che in questa Corte ci sono apparentementequattro persone e mezza, cioè il novanta per cento, che condividono l’opinione comune.Ciò rende evidente non solo quello che ci tocca fare, ma che cosa dobbiamo fare sevogliamo preservare tra noi stessi e l’opinione pubblica un ragionevole e decorosorapporto di fiducia: dichiarare che non c’è bisogno che, per questi uomini innocenti, cicoinvolgiamo in nessun indecoroso cavillo o trucco. Non occorre nessun costruttivismolegale non coerente con le prassi passate di questa Corte. Certamente nessun profanopenserebbe che lasciando andare indenni questi uomini noi allarghiamo la portata dellalegge piú di quanto i nostri antenati hanno fatto quando hanno creato la giustificazionedell’autodifesa. Se fosse necessaria una dimostrazione piú dettagliata del metodo diconciliazione della nostra decisione con la legge, mi accontenterei di appoggiarmi agliargomenti sviluppati nella seconda e meno fantasiosa parte dell’opinione del miocollega Foster. So bene che i miei colleghi resteranno orripilati dal mio suggerimento di

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tener conto dell’opinione pubblica. Vi diranno che l’opinione pubblica è emotiva ecapricciosa, che si basa su mezze verità e ascolta i testimoni che non si soggettanoall’esame incrociato. Vi diranno che la legge circonda il processo di un caso comequesto di raffinate garanzie, concepite per assicurare che la verità possa esserescoperchiata e che ogni argomento razionale sia preso in considerazione. Metteranno inguardia sul pericolo che tutte queste garanzie non valgano niente, se si consente aun’opinione di massa formatasi al di fuori di questo quadro di avere qualche influenzasulla nostra decisione.

Ma guardiamo francamente alcune delle realtà del nostro sistema penale. Quando unuomo è accusato di un crimine, ci sono generalmente quattro modi per sfuggire allapunizione. Uno di questi è la decisione giudiziaria ch’egli non ha commesso alcun reatosecondo la legge vigente. Questa è, naturalmente, una decisione che si svolge inun’atmosfera piuttosto formale e astratta. Ma guardiamo gli altri tre modi in cui si puòevitare la condanna. Questi sono: 1) una decisione del Procuratore di non promuoverel’accusa; 2) l’assoluzione da parte della giuria; 3) il perdono o la commutazione dellapena da parte dell’esecutivo. Qualcuno può pretendere che queste decisioni siano presein un quadro di regole rigido e formale che impedisca l’errore di fatto, escluda i fattoriemotivi e personali e garantisca che tutte le forme legali siano rispettate? Nel caso dellagiuria, certamente, ci diamo da fare per circoscrivere la sua deliberazione nell’ambitolegale pertinente, ma non dobbiamo ingannarci dicendo di credere che questo tentativoabbia davvero successo. Se il caso che ci sta davanti fosse stato prospettato davanti auna giuria, possiamo essere sicuri che ci sarebbe stato il proscioglimento o almeno unadivisione tra i giurati che avrebbe impedito una condanna. Se alla giuria fosse statospiegato che la fame degli speleologi e il loro accordo non sono una difesa dall’accusadi omicidio, il suo verdetto avrebbe probabilmente ignorato questa istruzione, e avrebbecomportato un impegno a stravolgere la lettera della legge maggiore di quantopresumibilmente noi stessi saremmo spinti a fare. Il capo della giuria, in questo caso, eraun avvocato. Le sue cognizioni gli hanno permesso di inventare una formulazione cheha permesso alla giuria di schivare le sue ordinarie responsabilità.

Il mio collega Tatting esprime disagio per il fatto che il procuratore non abbia risoltoil caso per conto suo senza chiedere il giudizio. Rigoroso come è lui stesso nel rispettarele esigenze della dottrina giuridica, si sarebbe ritenuto soddisfatto se la decisione suldestino di questi uomini fosse stata presa fuori del tribunale dal procuratore sulla basedel buon senso [cioè, se non avesse proceduto a incriminarli]. Il Chief Justice, d’altraparte, vuole che l’applicazione del senso comune sia rinviata alla fine [con l’interventodel Governatore], e, come Tatting, desidera non partecipare personalmente.

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Si può fare conto sulla grazia per ristabilire la giustizia violata da unasentenza ingiusta? chiede Handy.

Prima di discutere direttamente questo argomento, desidero però fareun’osservazione sul sondaggio dell’opinione pubblica. Come ho già detto, il novanta percento della popolazione vuole che la Corte Suprema prosciolga completamente gliaccusati o infligga una pena piú o meno nominale. Il dieci per cento costituisce ungruppo molto stranamente assortito, con le opinioni piú curiose e divergenti. Uno deinostri esperti universitari ha fatto uno studio su questo gruppo e ha scoperto che i suoimembri sono classificabili secondo certi standard. Una consistente parte di loro èabbonata a giornali di bassa lega e inattendibili che hanno dato ai loro lettori unaversione distorta dei fatti. Alcuni pensavano che «Speluncean» significasse «cannibale»e che l’antropofagia è un cardine della società. Ma il punto che vorrei fissare ècomunque questo: sebbene in questo gruppo sia rappresentata quasi ogni varietà esfumatura di opinione, non c’è, per quanto ne so, nemmeno uno di loro, e neppurequalcuno della maggioranza del novanta per cento, che ha dichiarato: «Penso chesarebbe una cosa bella che i Tribunali condannino questi uomini all’impiccagione,perché poi il Governatore li perdoni». Eppure, questa è una soluzione che piú o meno hadominato le nostre discussioni e che il nostro Presidente propone come modo per evitareun’ingiustizia e allo stesso tempo tenere fermo il rispetto della legge. Egli può esseresicuro che se sta tutelando la moralità di qualcuno, questa è la sua moralità, e non quelladel pubblico che non se ne fa nulla delle sue distinzioni. Parlo di questo argomentoperché voglio sottolineare ancora una volta il pericolo che possiamo perderci nellecategorie astratte del nostro pensiero e dimenticare che esse spesso non fanno la minimaombra sul mondo esterno.

Si può fare dell’ironia sulle certezze dei legalisti.

Vengo adesso alla circostanza che piú incide su questo caso, una circostanza nota atutti noi in questa Corte, sebbene i miei colleghi hanno ritenuto opportuno nasconderesotto la cappa delle loro toghe. È il terribile timore che, se il problema è lasciato a lui, ilGovernatore rifiuterà di perdonare questi uomini o anche commutare la loro pena. Cometutti sappiamo, è un uomo ormai avanti negli anni, con idee molto rigide. Il clamorepubblico, solitamente, su di lui fa l’effetto contrario. Come ho detto ai miei colleghi,accade che la nonna di mia moglie sia un’amica intima della sua segretaria. Ho imparatoin questo modo indiretto ma, credo, in modo assolutamente affidabile, che egli sia

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fermamente determinato a non commutare la sentenza se questi uomini sono dichiaraticolpevoli di avere violato la legge. Nessuno si dispiace piú di me della necessità di fareaffidamento, in una questione cosí importante, su informazioni che potrebbero essereconsiderate pettegolezzi. Se avessi potuto, ciò non sarebbe accaduto, perché avreiseguito la via ragionevole di sedermi con il Governatore, esaminando il caso con lui,scoprendo quali sono le sue opinioni e forse elaborando con lui un programma comuneper gestire la situazione. Allora, naturalmente, i miei colleghi non avrebbero mai sentitoparlare di questo genere di cose. Il loro scrupolo circa l’acquisizione diretta di accurateinformazioni non impedirà loro di essere molto turbati di ciò che cosí apprendonoindirettamente. La conoscenza dei fatti di cui ho appena parlato spiega perché il ChiefJustice, di solito un modello di decoro, abbia ritenuto di potersi spogliare di fronte alGovernatore togliendosi la toga, e di minacciarlo di discredito in caso di grazia negata.Ciò spiega, sospetto, l’impresa del collega Foster che ha fatto montare sulle spalle diquesti imputati un’intera biblioteca di libri giuridici. Spiega anche perché il miolegalista collega Keen abbia emulato il Pooh-Bah [personaggio che assomma tantecariche] della vecchia operetta, passando dall’altra parte del palcoscenico per indirizzarequalche osservazione all’Esecutivo «in qualità di cittadino privato». (Posso osservare,per inciso, che il parere del privato cittadino Keen apparirà nella raccolta delle decisionidi questo tribunale).

Devo confessare che, invecchiando, divento sempre piú perplesso di fronte al rifiutodegli esseri umani di applicare il loro buon senso ai problemi del diritto e del governo, equesto caso veramente tragico ha approfondito il mio senso di scoraggiamento esgomento. Vorrei soltanto convincere i miei colleghi della saggezza dei principî che hoapplicato all’ufficio giudiziario fin da quando l’ho assunto. Di fatto – una sorta dichiusura del cerchio – mi sono imbattuto qui in questioni analoghe a quelle del primocaso di cui ho fatto esperienza come giudice della Corte di Grande Istanza nella conteadi Fanleigh. Una setta religiosa aveva sospeso dalle sue funzioni un ministro del cultoche, dicevano, era passato alle visioni e alle pratiche di una setta rivale. Il ministrodiffuse un volantino che conteneva accuse contro le autorità che lo avevano espulso.Alcuni membri laici della chiesa annunciarono una riunione pubblica in cui siproponevano di spiegare la posizione della chiesa. Il ministro ha partecipato a questariunione. Si disse che, inosservato, si fosse intrufolato travestito; la sua testimonianza fuinvece che egli era circolato apertamente come un membro qualsiasi del pubblico. Inogni caso, quando iniziarono i discorsi, egli li interruppe con alcune domande circa itraffici della chiesa e fece alcune dichiarazioni in difesa delle proprie opinioni. Essendostato aggredito e percosso da alcuni del pubblico che, tra il resto, con un pugno gli

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ruppero la mascella, presentò ricorso per i danni contro l’associazione che avevasponsorizzato l’incontro e contro dieci persone, ch’egli asseriva essere i suoi aggressori.

Quando arrivammo al processo, il caso in un primo momento mi sembrò moltocomplicato. Gli avvocati avevano sollevato una serie di problemi legali. C’erano dellequestioni sulla ricevibilità delle prove e, in relazione alla causa contro l’associazione,alcuni problemi difficili che riguardavano la questione se il ministro fosse uno che agivaper conto o contro la setta. Come novizio in tribunale, ero ansioso di applicare gli studidel mio corso di laurea in giurisprudenza e ho iniziato a studiare da vicino questequestioni, leggendo i testi autorevoli e preparando decisioni ben documentate. Studiandoil caso, mi sono sempre piú coinvolto nelle sue complicazioni legali e ho iniziato aentrare in uno stato mentale simile a quello che il collega Tatting mostra in questo caso.All’improvviso, tuttavia, mi resi conto che tutti questi motivi di perplessità non avevanonulla a che fare con il caso, e ho iniziato a esaminarlo alla luce del buon senso. Esso si èpresentato immediatamente in una nuova prospettiva, e ho visto che l’unica cosa da fareera di decidere prosciogliendo gli imputati per mancanza di prove. Sono stato condotto aquesta conclusione dalle seguenti considerazioni. La rissa in cui l’attore era stato feritoera una grande confusione, con alcune persone che cercavano di arrivare al centro delpestaggio, mentre altre cercavano di allontanarsene. Alcune colpirono il ricorrente,mentre altre sembravano tentare di proteggerlo. Ci sarebbero volute settimane perscoprire la verità. Ho deciso che nessuna mascella rotta valeva tanto per la comunità.(Le ferite del ministro, per inciso, non ne mutarono i connotati, né danneggiarono lenormali facoltà delle mascelle). Inoltre, avevo la prova che l’attore aveva largamenteattirato l’attenzione su di sé. Sapeva che l’affare infiammava le passioni e avrebbepotuto facilmente trovare un’altra tribuna per esprimere le sue opinioni. La miadecisione fu ampiamente approvata dalla stampa e dall’opinione pubblica che nonapprovavano né le opinioni né le pratiche che quella persona stava tentando didifendere.

Ora, trenta anni dopo, a causa di un ambizioso procuratore e di un leguleio a capod’una giuria, mi trovo di fronte a un caso che solleva questioni che, in fondo, sonomolto simili a quelle coinvolte in quel caso. Il mondo non sembra cambiare molto,tranne che questa volta non si tratta di un giudizio per cinque o seicento frelari [lamoneta in vigore in quel tempo in quel luogo di fantasia], ma della vita o della morte diquattro uomini che hanno già subíto piú tormenti e umiliazioni di quanti molti di noiavrebbero da subire in mille anni. Concludo che gli imputati sono innocenti del criminea loro carico e che la condanna e la sentenza appellata deve essere annullata.

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7. Conclusione del processo.

Il Chief Justice, a questo punto interpella il giudice Tatting per sapere se,per caso, dopo avere udito i pareri dei suoi colleghi, non crede di ritornaresulla sua decisione di astenersi. Ciò non accade, poiché anzi la suaconvinzione di non sapere che pesci pigliare si è semmai rinforzata. Perciò,essendo la Corte suprema di Newgarth spaccata in due parti uguali, secondoquel sistema giudiziario la sentenza di primo grado viene confermata. Iquattro speleologi, perciò, sono condannati a finire sul patibolo.L’esecuzione della sentenza è ordinata per le ore 6 del venerdí 4 aprile 4300e il boia è invitato a prepararsi con sollecitudine ad appendere per il collociascuno dei condannati.

Il confronto tra i giudici del processo agli speleologi antropofagi che lafavola descrive cosí tanto realisticamente è collocato in un tempoirrealistico. L’autore della favola si preoccupa della sorpresa e dellaperplessità del lettore di fronte a questa collocazione nel tempo, che pare aprima vista priva d’una ragione evidente. Spiega che i secoli che ciseparano dall’età di Pericle equivalgono piú o meno ai secoli che ciseparano dal processo del tribunale di Truepenny. Questa legatura cheunisce tempi cosí lontani con noi che stiamo sempre al centro tra l’inizio,che non sappiamo quando sia stato, e la fine, che non sappiamo se e quandosarà, sta a dire che i temi di cui trattano i bravi cinque giudici di quellaCorte suprema sono temi perenni. La riflessione sul diritto e sui giuristigira, rigira e ritorna a certi punti di partenza e di arrivo da cui non si scappa.Nei capitoli precedenti se ne sono trattati alcuni: l’arbitrarietà della legge ela sua giustizia, lo scopo nel diritto, l’interpretazione della legge e dei fattiche cadono sotto la legge, il rapporto tra il creare la legge e il dire la legge,le responsabilità dei giuristi, il diritto e la cultura, e molti altri. Alla fine, sipuò avere l’impressione che, almeno nei casi difficili come quellodell’uccisione di propri simili giustificata in ragione della propriasopravvivenza, ci si trovi in una situazione senza sbocco. Gli argomenti sisviluppano gli uni sugli altri e si avvolgono in una spirale che li trascinatutti in basso nell’inconcludenza. Può darsi perfino che i giudici diTruepenny non abbiano sceverato tutti quelli possibili. Per esempio, nonhanno fatto uso dell’argomento utilitarista secondo il quale il sacrificio diuno è preferibile alla catastrofe di tutti. Né si è considerato il valore morale

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della disponibilità manifestata da ciascuno dei cinque speleologi con ilconsenso espresso a mettere a disposizione la propria vita per la vita deglialtri quattro.

È possibile che altri motivi possano spendersi per argomentare o l’uno ol’altro verdetto. La prosecuzione del confronto che i cinque giudiciimbastirono tra loro sarebbe certo interessante, ma non farebbe altro checonfermare e rafforzare il sentimento d’inconcludenza attraversol’introduzione di nuovi materiali argomentativi destinati a entrare anch’essinella spirale che li fa girare su se stessi. Ciascun giudice ha le sueradicatissime convinzioni circa il diritto e la giustizia ma, quando le si mettele une accanto alle altre, invece di sommarsi, si elidono reciprocamente.Che sia questa la deludente condizione da cui quella che chiamiamo«scienza del diritto» non riesce a sollevarsi, cioè la condizione di chi cercail vero e il giusto e non riesce ad afferrare né l’uno né l’altroincontrovertibilmente? Onde, la necessità di procedure che assegnino lavittoria, volta a volta, a una delle posizioni sulle altre. In nome del diritto edella legge si deve pur sempre arrivare a un punto finale che coincide conuna decisione.

Cosí, presso la Corte suprema di Truepenny la parità dei voti feceprevalere la conferma della sentenza di condanna di primo grado. Laquestione fu chiusa cosí, non in virtú della maggiore giustezza degliargomenti con i quali essa era stata sostenuta, ma in conseguenza d’unaregola procedurale che si giustificava soltanto perché, alla fine, occorre purarrivare a una decisione, chiudere la questione e passare ad altro. Non sipuò discutere in eterno.

Davvero, però, la sentenza ebbe quell’effetto definitivo che ciimmaginiamo pensando ai quattro corpi che pendono dalla forca alle ore 6del venerdí 4 aprile 4300? Non sappiamo se il Narratore di questa storiafosse al corrente che il 4 aprile dell’anno 4300, se mai arriverà, cadrà non divenerdí ma di mercoledí. E allora, che ne sarà di quella sentenza che avevafatto tanto e tanto sottilmente e dottamente discutere?

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Indice dei nomi

Adams, JohnAgamben, GiorgioAgostino Aurelio, vescovo d’Ippona, santoAinis, MicheleAlessandro I Magno, re di MacedoniaAlexander, Jeffrey C.Alexy, RobertAllorio, EmilioAnouilh, JeanArena, CelestinoArendt, HannahAretin, Johann Christoph vonAristogitone, tirannicida atenieseAristoteleArmodio, tirannicida atenieseAscarelli, TullioAssmann, JanAustin, John

Bach, Johann SebastianBachmann, Niklaus Leodegar Franz Ignaz vonBalladore Pallieri, GiorgioBarak, AharonBarbera, AugustoBarberis, WalterBarsotti, VittoriaBasso, LelioBeccaria, CesareBeck, LudwigBellini, PieroBenedetto XVI, vedi Ratzinger, JosephBen Gurion, DavidBentham, JeremyBenvéniste, ÉmileBerlusconi, SilvioBerri, MarioBerti, Silvia

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Betti, EmilioBianchi, EnzoBinder, JuliusBin Laden, OsamaBiscardi, ArnaldoBiscaretti di Ruffia, PaoloBobbio, NorbertoBöckenförde, Ernst-WolfgangBodda, PietroBodin, JeanBognetti, GiovanniBolaffi, AngeloBollati, GiulioBonazzi, TizianoBorges, Jorge LuisBorghesi, MassimoBorsig, famigliaBossuet, Jacques-BénigneBottai, GiuseppeBovati, PietroBoyer, LaurentBranca, GiuseppeBrant, SebastianBrecht, BertoltBrenno, capo dei GalliBretone, MarioBrowning, Christopher R.Bruneteau, BernardBruto, Marco GiunioBrutus, Stephanus JuniusBurdeau, GeorgesBurke, EdmundBusi, Giulio

Cacciari, MassimoCalabresi, GuidoCalamandrei, PieroCalamo Specchia, MarinaCallicleCammeo, FedericoCampanella, TommasoCamus, AlbertCanetti, EliasCapograssi, GiuseppeCaracciolo, AntonioCarlo I Stuart, re d’Inghilterra, Scozia, Irlanda e FranciaCarlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano ImperoCarlo Alberto di Savoia, re di Sardegna

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Carozza, PaoloCarré de Malberg, RaymondCartabia, MartaCartesio (René Descartes)Cassese, SabinoCassirer, ErnstCastignone, SilvanaCavallone, BrunoCavour, Camillo Benso, conte diCazzetta, GiovanniCesare, Gaio GiulioCheli, EnzoCicerone, Marco TullioCicu, AntonioCoing, HelmutComanducci, PaoloConetti, MarioConstant, BenjaminConte, Amedeo GiovanniCordero, FrancoCosta, PietroCotta, SergioCraig, Paul P.Crisafulli, VezioCrispi, FrancescoCroce, BenedettoCromwell, OliverCruz Villalón, Pedro

Damhouder, Joost deDa Ponte, LorenzoDarwin, CharlesDaumier, HonoréDe Lolme, Jean-LouisDe Maistre, JosephDerrida, JacquesDe Ruggiero, LuigiDiamond, JaredDicey, Albert VennDickens, CharlesDieni, EdoardoDi Lucia, PaoloDiogene LaerzioDombois, HansDonati, DonatoDon Milani, vedi Milani, don LorenzoDossetti, GiuseppeDostoevskij, Fëdor Michajlovič

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Dreier, RalfDuguit, LéonDumézil, GeorgesDworkin, RonaldDyevre, ArthurDyzenhaus, David

Egels, famigliaEhrlich, EugenEichenberger, KurtEichmann, AdolfElkins, ZacharyElster, JonEngels, FriedrichEngisch, KarlEnriquez, EugèneEraclitoErasmo da Rotterdam (Desiderius Erasmus Roterodamus)Ernout, AlfredErodoto di AlicarnassoEschiloEsser, JosefEuripide

Falzea, AngeloFalzone, VittorioFaralli, CarlaFederico II di Hohenzollern, detto il Grande, re di PrussiaFerrajoli, LuigiFerrari, AlessandroFerrari, Giuseppe FrancoFeuerbach, LudwigFioravanti, MaurizioFiorita, NicolaFirpo, LuigiFlores, MarcelloFois, SergioForsthoff, ErnstFoucault, MichelFrank, HansFreud, SigmundFriedländer, PaulFriedländer, SaulFuller, Lon L.

Gadamer, Hans-GeorgGambaro, AntonioGard, Charlie

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Gehlen, ArnoldGengis Khan, sovrano mongoloGentile, FrancescoGeraci, CarmeloGerhardt, Carl ImmanuelGerson, Jean deGheddafi, Muammar (al-Qadhdhāfī, Mu’ammar)Giacomo I Stuart, re d’InghilterraGiannotta, MicheleGigante, MarcelloGinsburg, ThomasGiotto da BondoneGiovanni di SalisburyGiovanni Evangelista, santoGiustiniano I, imperatore bizantinoGoerdeler, Carl FriedrichGoethe, Johann Wolfgang vonGorgiaGöring, HermannGörres, JosephGötz, VolkmarGrande, ElisabettaGrasso, Pietro GiuseppeGraves, RobertGrenier, RogerGrimm, DieterGroppi, TaniaGrossi, PaoloGrossi, PierfrancescoGuastini, RiccardoGuglielmo II Hohenzollern, imperatore tedescoGuicciardini, FrancescoGuizot, FrançoisGünther, KlausGutfel, Arnon

Häberle, PeterHabermas, JürgenHamblin, CarlHamilton, AlexanderHart, HerbertHauriou, MauriceHayek, Friedrich August vonHegel, Georg Wilhelm FriedrichHeidegger, MartinHendel, SamuelHeye, Uwe-KarstenHimmler, Heinrich

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Hitler, AdolfHobbes, ThomasHolmes, Oliver WendellHonneth, AxelHuber, EugenHugo, VictorHume, DavidHusson, Édouard

Illuminati, GiulioIrti, NatalinoIsnardi Parente, MargheritaItzcovich, Giulio

Jakab, AndrásJay, JohnJefferson, Thomas, presidente degli Stati Uniti d’AmericaJemolo, Arturo CarloJonas, Hans

Kant, ImmanuelKantorowicz, Ernst H.Kaufmann, ArthurKaufmann, ErichKelsen, HansKirchmann, Julius Hermann vonKleist, Heinrich vonKlima, IvanKlimt, GustavKluxen, KurtKoellreutter, OttoKriele, MartinKüng, Hans

Lachmann, Ludwig M.Landau, MosheLanducci, SergioLarenz, KarlLassalle, FerdinandLauterpacht, HerschLavagna, CarloLaveau, presidente del Tribunale rivoluzionarioLeibniz, Gottfried Wilhelm vonLemkin, RaphaelLenoir, NoëlleLenotre, G. (pseudonimo di Léon-Théodore Gosselin)Leopardi, GiacomoLevi, Alessandro

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Levi, PrimoLey, RobertLicurgoLinton, RalphLivi Bacci, MassimoLivio, TitoLocke, JohnLodigiani, Giovanni AngeloLoewenthal, ElenaLópez de Oñate, FlavioLorenzetti, AmbrogioLorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, signore di FirenzeLosano, Mario G.Luca Evangelista, santoLuciani, MassimoLuhmann, NiklasLuigi XIV di Borbone, detto il Re SoleLuigi XVI di Borbone, re di FranciaLuther, Jörg

MacArthur, DouglasMacCormick, NeilMachiavelli, NiccolòMacrobio, Ambrogio TeodosioMadame de Staël (Anne-Louise-Germaine Necker, baronessa di Staël-Holstein, detta)Madison, JamesMagris, ClaudioMalinowski, BronisławMannozzi, GraziaManzoni, AlessandroMaometto (Muḥammad)Marbury, WilliamMarch, James G.Marinelli, VincenzoMarshall, JohnMartineau, AnneMarx, KarlMasters, Edgar LeeMathieu, VittorioMattei, UgoMatteo Evangelista, santoMatteucci, NicolaMayer, OttoMcIlwain, Charles H.McLuhan, MarshallMeillet, AlfredMelton, JamesMendelsohn, famiglia

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Menenio AgrippaMenga, Ferdinando G.Menger, CarlMengoni, LuigiMessineo, AntonioMeyer, AhlrichMiglio, GianfrancoMignini, FilippoMilani, don Lorenzo (Lorenzo Milani Comparetti)Milton, JohnMirabeau, Gabriel-Honoré de Riqueti, conte diMohl, Robert vonMollat, GeorgMonnier, HenryMontaigne, Michel Eyquem deMontesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e diMontezuma II, re del MessicoMoore, George EdwardMortara Garavelli, BiceMortati, CostantinoMüller, Friedrich vonMurgia, MichelaMusatti, Cesare L.

Napoleone I Bonaparte, imperatore dei FrancesiNatoli, SalvatoreNavot, SuzieNeumann, Franz L.Nietzsche, Friedrich WilhelmNitti, Francesco SaverioNorth, Douglass C.

Occhiocupo, NicolaOffe, ClausOlivecrona, KarlOlsen, Johan P.Omaggio, VincenzoOnida, ValerioOrazio Flacco, QuintoOrlando, Vittorio EmanueleOskian, Giulia

Pace, AlessandroPacillo, VincenzoPadoa-Schioppa, TommasoPaolo di Tarso, santoPascal, BlaisePasquino, Pasquale

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Perelman, ChaïmPericlePicascia, Maria LuisaPico, Giovanni, conte della Mirandola e della ConcordiaPierandrei, FrancoPindaroPino, GiorgioPiovani, PietroPischedda, CarloPisistrato, tiranno di AtenePlatonePopper, KarlPortinaro, Pier PaoloPorzio, DomenicoPredieri, AlbertoProsperi, AdrianoPrzwozny, BernardoPugliatti, SalvatorePugliese Carratelli, Giovanni

Quaritsch, Helmut

Rabelais, FrançoisRabin, YoramRadbruch, GustavRanelletti, OresteRatzinger, Joseph (Benedetto XVI, papa)Rehberg, Karl-SiegbertRenzi, MatteoRepaci, AntoninoRibbentrop, Joachim vonRichelieu, Armand-Jean Du Plessis deRigaux, FrançoisRigotti, FrancescaRipoli, MariangelaRizzi, MarcoRobespierre, Maximilien-François-Isidore deRodotà, StefanoRöhrich, WilfriedRoland, HenriRomano, AlbertoRomano, SantiRomeo, RosarioRomilly, Jacqueline deRommen, HeinrichRoss, AlfRossi, PietroRoth, Joseph

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Rottleuthner, HubertRousseau, Jean-JacquesRubio Llorente, FranciscoRuffilli, RobertoRuffini, FrancescoRusconi, Gian EnricoRüthers, Bernd

Sacco, Ferdinando NicolaSacco, RodolfoSaddam Hussein, dittatore irachenoSanders, Ed ParishSands, PhilippeSandulli, Aldo M.Satta, SalvatoreSbriccoli, MarioSchelsky, HelmutSchiavone, AldoSchiera, PierangeloSchilke, famigliaSchiller, FriedrichSchlanger, JudithSchlesinger, PieroSchmidt, HelmutSchmitt, CarlSchnur, RomanSelmer, PeterShakespeare, WilliamSieyès, Emmanuel-JosephSimoncini, AndreaSimoni, CarloSmend, RudolfSocrateSofocleSoloneSordi, BernardoSpadolini, GiovanniSpencer, HerbertSpinoza, Benedictus deSpirito, UgoStaff, IlseStahl, Friedrich JuliusStauffenberg, Claus Philipp, conte diSternberg, TheodorStier, Hans ErichStolleis, MichaelStortoni, LuigiSuber, Peter

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Sugden, Robert

Talamanca, MarioTalamo, GiuseppeTanzarella, PalminaTarde, GabrielTarello, GiovanniTaylor, CharlesThayer, James BradleyThomas Becket, arcivescovo di Canterbury, santoTierney, BrianTocqueville, Alexis deTogliatti, PalmiroTommaso d’Aquino, santoTommaso Moro (Thomas More)Tönnies, FerdinandTortora, EnzoTrasimacoTroisi, DanteTroisi Spagnoli, GiovannaTucidideTurner, Frederick JacksonTutu, Desmond

UlpianoUntersteiner, Mario

Vanzetti, BartolomeoVassalli, GiulianoVattimo, GianniVilla, VittorioViolini, LorenzaVirga, PietroVirgilio, MariaVitzthum von Eckstädt, Wolfgang Nikolaus, conte diVoltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet)

Wade, Henry William RawsonWalde, AloisWeber, MaxWeil, SimoneWelcker, Karl TheodorWhitehead, Alfred NorthWilson, Richard A.Witte, John jrWolf, EricWolf, ErnstWolfrum, Rudiger

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Yehoshua, Abraham B.

Zaccaria, GiuseppeZagrebelsky, GustavoZanetti, GianfrancescoZanzucchi, Marco TullioZolo, Danilo

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1. S. ROMANO, L’ordinamento giuridico. Studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto, Enrico

Spoerri, Pisa 1918, pp. 26-28.2. Cfr. N. BOBBIO, Teoria della norma giuridica, Giappichelli, Torino 1958, p. 13; P. BELLINI, “Ubi

societas ibi societas”. Considerazioni critiche sul fortunato adagio “ubi societas ibi ius”, in«Rivista internazionale di filosofia del diritto», LXXXVIII (2011), n. 2, pp. 155 sgg., e n. 3, pp.354 sgg.

3. J. ASSMANN, Potere e salvezza. Teologia politica nell’antico Egitto, in Israele e in Europa (2000),

Einaudi, Torino 2002, p. 178.4. Una sintesi essenziale in A. BISCARDI, Diritto greco antico, Giuffrè, Milano 1982, pp. 13 sgg.; M.

BRETONE e M. TALAMANCA, Il diritto in Grecia e a Roma, Laterza, Roma-Bari 2015.

5. Cfr. A. SCHIAVONE, Ius, Einaudi, Torino 2005, p. 5 e passim.

6. H. KELSEN, La dottrina pura del diritto (1960), Einaudi, Torino 1966.

7. Il testo in SCHIAVONE, Ius cit., p. 8.

8. B. CROCE, Filosofia della pratica. Economia ed etica, Laterza, Bari 1909, p. 333.

9. Fr. 152 Bowra, su cui M. GIGANTE, Nomos Basileus, Bibliopolis, Napoli 1993 (ristampa dell’ed.

1955).10. Cfr. R. GRAVES, I miti greci (1954), Longanesi, Milano 2005 19, pp. 409 sgg.

11. Cfr. C. SCHMITT, Il nomos della terra (1974), Adelphi, Milano 1991, pp. 62 sgg.; G. AGAMBEN,

Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, pp. 36 sgg.; ID., Karman.

Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 37.12. B. PASCAL, Pensées, n. 299.

13. Sulle infinite ricezioni, alterazioni e interpretazioni della formula di Pindaro, J. DE ROMILLY, La

legge nel pensiero greco. Dalle origini ad Aristotele (1971), Garzanti, Milano 2005, pp. 45 sgg., eH. E. STIER, “νόμסς βασιλϵύς”, in «Philologus», LXXXIII (1928), pp. 225 sgg., e GIGANTE,

Nomos Basileus cit.

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14. H. KELSEN, Veröffentlichungen der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer, Quaderno n. 3,

W. de Gruyter, Berlin-Leipzig 1927, p. 53.

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1. F. DOSTOEVSKIJ, I demoni (1872), parte III, cap. VI (Einaudi, Torino 1994).

2. Cfr. S. BERTI (a cura di), Trattato dei tre impostori, Einaudi, Torino 1994; G. MINOIS, Il libro

maledetto, Rizzoli, Milano 2010; S. LANDUCCI, Il punto sul “De tribus impostoribus”, in «Rivista

storica italiana», CXII (2000), n. 3, pp. 1036-71.3. Cfr. N. BOBBIO, Il giusnaturalismo come teoria della morale – La rinascita del giusnaturalismo

non è una novità (1962), in ID., Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità,

Milano 1965, pp. 178 sgg.; H. A. ROMMEN, L’eterno ritorno del diritto naturale, Studium, Roma

1965.4. Cfr. G. RADBRUCH, Ingiustizia legale e diritto sovralegale (1946), in A. G. CONTE, P. DI LUCIA e L.

FERRAJOLI (a cura di), Filosofia del diritto, Cortina, Milano 2002, pp. 149 sgg. Significativo il

fatto che l’Autore di questo scritto, che assunse il valore di un “manifesto”, fosse stato, prima delnazismo, un difensore del positivismo giuridico, nemico delle dottrine del diritto naturale.

5. J. HABERMAS e J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Venezia 2005, p. 75.

6. A parte le recenti numerose riprese e riproposizioni di idee tradizionali, una prospettiva innovativadi diritto naturale minimo, antidogmatico e antirazionalista, è in A. SIMONCINI, L. VIOLINI, P.

CAROZZA e M. CARTABIA, Esperienza elementare e diritto, Guerini e Associati, Milano 2011. La

premessa di questo tentativo è un’antropologia cristiano-cattolica, ma i punti d’arrivo mirano atrovare condivisione in ambiti piú vasti.

7. M. DE MONTAIGNE, Essais, libro III, cap. XIII, De l’expérience («Bibliothèque de la Pléiade»,

Gallimard, Paris 1962).8. Sulla visione leopardiana della natura, S. NATOLI, Natura matrigna, in C. SIMONI (a cura), Per

un’etica del XXI secolo, Grafo, Brescia 1998, pp. 93-107, e, nello stesso volume, sull’opposta

visione francescana, B. PRZWOZNY, Sorella nostra madre terra, pp. 109-26.

9. Un memento delle dimensioni della tragedia di cui il mondo sconta ora le conseguenze nel capitolo«Aux racines du comportement génocidaire contemporain» di B. BRUNETEAU, Le siècle des

génocides, Armand Colin, Paris 2004, pp. 23-47.10. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologica, I-II, q. 95, a. 2.

11. Du und dein Volk, Deutscher Volksverlag, München 1940.12. J. RATZINGER, Libertà e verità (1996), ora in ID., Fede, ragione, verità e amore, Lindau, Torino

2009, p. 531.13. HABERMAS e RATZINGER, Ragione e fede in dialogo cit., p. 72.

14. BOBBIO, Il giusnaturalismo come teoria della morale – La rinascita del giusnaturalismo non è

una novità cit., p. 195.15. M. FOUCAULT, Microfisica del potere (1977), Einaudi, Torino 1977 3.

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16. Cfr. B. MALINOWSKI, Diritto e costume nella società primitiva (1926), Newton Compton, Roma

1972.17. D. HUME, Trattato sulla natura umana, libro III, parte II, sez. II (Laterza, Roma-Bari 1982).

18. Ibid.19. Tratto da R. SUGDEN, Spontaneous Order, in «Journal of Economic Perspectives», III (1989), n.

4, p. 85.20. ERODOTO, Storie, IV, 196.

21. Cfr. E. BIANCHI, Introduzione a Regole monastiche d’Occidente, a cura di E. Bianchi, Einaudi,

Torino 2001, pp. XIV-XIX. L’Autore è stato all’origine della Comunità monastica di Bose.

Leggiamo la sua testimonianza: «Nel cammino […] intrapreso, [il fondatore] finisce perincontrare altri uomini a loro volta abitati dagli stessi sentimenti e attirati dalla stessa ricerca.Cosí, da incontri apparentemente fortuiti, si intrecciano legami di amicizia che sono ancheconferme della bontà dell’intuizione avuta: diviene allora naturale trasformare, quasiinavvertitamente [corsivo mio] questa sintonia in un abbozzo di ricerca comune. Non è ancora ungruppo, ma piuttosto una “banda”, cioè un insieme di individui che si riuniscono per un tempolimitato in vista di un’attività per la quale i gruppi sociali già esistenti sono da loro percepiti comeinadeguati. […] Per gli stessi componenti della “banda” lo scopo non è ancora messo a fuoco, maintanto è estremamente prezioso poterlo precisare insieme a persone con le quali l’intesa èspontanea. Dal momento che i membri si sono incontrati grazie ad aspirazioni simili, è per loronormale sentirsi tutti sullo stesso piano, fratelli, e come tali vivere: nessuno viene chiamatosuperiore o padre. Frutto di una libera adesione, il loro associarsi non conferisce alcun diritto néimpone alcun obbligo: è la carità che provvede a tutto […]. Ma questo tempo idilliaco non puòdurare a lungo. Attraente e nel contempo repellente verso chi è all’esterno, la banda si trova difronte a un bivio: se rifiuta l’apertura, vedrà intensificarsi i legami interni al punto da non aver maibisogno di leggi né di strutture, e vedrà rinsaldarsi l’amicizia al punto che solo la morte potràseparare i membri; ma il prezzo pagato sarà altissimo: nessun estraneo si sentirà in grado diinfrangere quell’intimità e di aggregarsi, cosí le opzioni della banda si irrigidiranno, le intuizionisi cristallizzeranno in eccessi, capaci, questi sí, di attirare altre persone, ma a loro volta prive diequilibrio e di misura. È la deriva settaria, dovuta al fatto che, come ha giustamente osservato IvanKlima, “quanto piú bizzarra è la fede, tanto piú fanatici sono i suoi adepti”. Per evitare sia questaimplosione che il disfacimento uguale e contrario, la banda ha una sola alternativa: lametamorfosi, cioè, letteralmente, il “cambiamento di forma”, la trasformazione in “gruppo”. Maquesta scelta non è programmabile, avviene quando uno dei membri diviene, quasiinavvertitamente all’inizio, fermento dinamico per tutti. Nessun incarico ufficiale, nessuna volontàdeliberata da parte sua, ma solo l’emergere sotto gli occhi di tutti di alcune qualità umane e

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spirituali: il discernimento, l’audacia, la lucidità, la saldezza lo spingono a vivere in modo piúintenso e piú profondo le aspirazioni che tutti nutrono. […] mutuo affinamento di caratteri, unacorrezione reciproca che placa gli eccessi e vince il torpore, un travagliato aggiustamento trarealismo e utopia, un equilibrio instabile tra un progetto che inizia a delinearsi con chiarezza e unarealtà che fatica a tenerne il passo […] conflitti e […] riconciliazioni […] precisarsi e […]delineare con maggior precisione l’identità ricercata […] capire come l’incanto dell’intesa inizialee la meraviglia della carità che copre tutto – cosí essenziali all’inizio – sui tempi lunghi non hannoil valore […] che nasce da un confronto schietto vissuto fino alle estreme conseguenze. […] Aquesto punto la banda, non piú ripiegata su se stessa e non piú tentata di sciogliersi, scopre diessere diventata un “gruppo” con un’identità e un volto precisi e, perciò, riconoscibili anchedall’esterno. A volte i componenti accettano di darsi un nome, in grado di esprimere l’esperienza ela ricerca vissute in comune. In ogni caso il gruppo, non piú sulla difensiva rispetto a chi loaccosta, lascia trasparire un equilibrio interno capace di attrazione verso un numero sempre piúconsistente di persone. […] Nonostante il prodigarsi dei componenti del nucleo iniziale, questinon riescono a far fronte alle richieste che pervengono loro e alle esigenze, anche pratiche, chequeste suscitano. L’estensione del gruppo, favorita dal loro fervore, spinge verso una dispersionedei membri o quanto meno a una ripartizione in sottogruppi: si fa strada cosí l’esigenza diun’organizzazione capace di assicurare in altro modo quell’unanimità che non può piú essereraggiunta tramite i contatti personali quotidiani. Questa organizzazione nasce quindi dalla crescitastessa del gruppo e non è assolutamente imposta da istanze esterne, anche se in alcuni casi c’èbisogno di una voce autorevole – amica, ma non direttamente implicata – per convincere i fratellidi questa necessità ineludibile. Se il gruppo iniziale ha elaborato una propria coerenza interna e hasaputo esprimerla in una strutturazione solida e duttile insieme, allora saprà agevolmentearticolare anche la nuova organizzazione: si tratterà solo di trasporre nella realtà allargata learticolazioni già sperimentate, ufficializzandole e formalizzandole. È un lavoro affascinante edelicato […]: bisogna rendere conto in forma scritta della speranza che ha abitato i cuori durantetutto il tempo della gestazione, della fede che ha accompagnato i momenti difficili, della caritàche ha saputo coprire una moltitudine di peccati. Nasce cosí una nuova regola».

22. C. MENGER, Il metodo nella scienza economica («Nuova collana di economisti stranieri e

italiani», diretta da G. Bottai e C. Arena, vol. IV), Utet, Torino 1937, pp. 97 sgg.23. F. A. VON HAYEK, Legge, legislazione e libertà (1982), il Saggiatore, Milano 1986, pp. 48 sgg., e

ID., Lo scientismo e lo studio della società (1942-44) e La presunzione del sapere (1975), in ID.,

Conoscenza, mercato e pianificazione, il Mulino, Bologna 1988, pp. 97 sgg. e 211 sgg.24. L’immagine è di P. GROSSI, L’Europa del diritto, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 23 sgg.

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25. Cfr. G. TARDE, Les lois de l’imitation, Kimé, Paris 1890, pp. 63 sgg., che, in preda al fascino del

tema, parla di legge della ripetizione universale (a sua volta imitazione della newtoniana leggedella gravitazione universale), di socialità perfetta dovuta ad agenti nascosti e originari nellanatura umana, e giunge a proclamare in sintesi: «la società è l’imitazione».

26. SOFOCLE, Antigone, a cura di M. Cacciari, Einaudi, Torino 2007, p. 15.

27. Ad esempio, G. CAZZETTA, Natura delle cose e superbia del legislatore, in AA.VV., Ordo iuris.

Storia e forme dell’esperienza giuridica, Giuffrè, Milano 2003, pp. 289 sgg.28. GROSSI, L’Europa del diritto cit., pp. 29 sgg.

29. J. AUSTIN, Delimitazione del campo della giurisprudenza (1832), il Mulino, Bologna 1995, p. 81.

30. TH. HOBBES, Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra, in ID.,

Opere politiche, vol. I, Utet, Torino 1988, p. 406.31. ID., Leviatano, parte II, cap. XVII.

32. M. WEBER, La politica come professione, in ID., Il lavoro intellettuale come professione (1918),

Einaudi, Torino 1983, p. 48.33. HOBBES, Leviatano cit., parte II, cap. XXVI.

34. Ibid., cap. XXIX.

35. Cfr. H. ARENDT, Le origini del totalitarismo (1948), Einaudi, Torino 2001, pp. 546 sgg.; ID., La

banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano 1964, p. 135, a propositodei «decreti segretissimi» del nazismo.

36. E. CANETTI, Massa e potere (1960), in ID., Opere, 1932-1973, Bompiani, Milano 1990, p. 1331.

37. Il testo si può leggere in É. HUSSON, Heydrich e la soluzione finale (2008), Einaudi, Torino 2010,

pp. 374-80.38. Cfr. C. R. BROWNING, Le origini della Soluzione finale (2004), il Saggiatore, Milano 2008, pp.

423 sgg.; ID., Procedure finali. Politica nazista, lavoratori ebrei, assassini tedeschi (2000),

Einaudi, Torino 2001, pp. 29 sgg.; HUSSON, Heydrich e la soluzione finale cit., passim.

39. Cfr. G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, vol. I, Assolutismo e codificazione del

diritto, il Mulino, Bologna 1976.40. Da cui la saggezza popolare espressa ironicamente – con la sostituzione degli uccelli con le

mosche – nel modo di dire: «la legge è come una ragnatela: se la mosca ci casca dentro è finita;ma se casca un moscone, ci fa un bucone»: cfr. B. MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia.

Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Einaudi, Torino 2001, p. XI, ove si

menziona anche la versione culta, risalente a Solone, secondo il racconto di Diogene Laerzio: «Leleggi sono simili alle ragnatele: se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; mase è piú pesante, le strappa e se ne va».

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41. B. TIERNEY, L’idea dei diritti naturali. Diritti naturali, legge naturale e diritto canonico, 1150-

1625 (1997), il Mulino, Bologna 2002, p. 328.42. G. MOLLAT, Mitteilungen aus Leibniz’ ungedruckten Schriften, Haessel, Leipzig 1893, pp. 21-22,

sotto il titolo Juris et aequi elementa: «Doctrina juris ex earum numero est, quae non abexperimentibus, sed definitionibus nec a sensuum, sed rationis demonstrationibus pendent [comela matematica] et sunt, ut ita dicam, juris, non facti». Si vedano anche G. W. LEIBNIZ, Elementa

iuris naturalis, in ID., Scritti politici e di diritto naturale, Utet, Torino 1961, p. 86; ID.,

Méditations sur la notion commune de la justice, ibid., p. 219. Su questi passi, cfr. E. CASSIRER,

Vom Wesen und Werden des Naturrechts, in «Zeitschrift für Rechtsphilosophie in Lehre undPraxis», VI (1932-34), pp. 2 sgg., pubblicato ora, a cura di A. Bolaffi, col titolo In difesa deldiritto naturale, in «MicroMega», n. 2 (2001), pp. 94 sgg.

43. G. W. LEIBNIZ, Die philosophische Schriften, vol. I, a cura di C. I. Gerhard, Berlin 1875, p. 434.

In proposito, M. BRETONE, Diritto e tempo nella tradizione europea, Laterza, Roma-Bari 2004, pp.

91 sgg.44. B. SPINOZA, Tractatus politicus, I, 4 (in ID., Opere, a cura di F. Mignini, Mondadori, Milano

2007, p. 1108).45. TH. HOBBES, De cive, lettera dedicatoria. Per queste e altre citazioni, cfr. N. BOBBIO, Il

giusnaturalismo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, vol. IV,tomo I, Utet, Torino 1980, pp. 499 sgg.

46. Pagine di Leibniz (insieme ad altre di Hobbes), sono in Testi per la storia del pensiero giuridico,a cura di T. Ascarelli e M. Giannotta, Giuffrè, Milano 1960, con introduzione dello stessoAscarelli.

47. ARISTOTELE, Etica nicomachea, 1904b.

48. Sulla rivoluzione metodologica introdotta dalla scuola del diritto naturale razionale (o dirittonaturale moderno, in antitesi al diritto naturale “antico” aristotelico-scolastico), si veda ancoraBOBBIO, Il giusnaturalismo cit., pp. 502 sgg.

49. G. AGAMBEN, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 100.

50. Cfr. N. IRTI, L’età della decodificazione, Giuffrè, Milano 1979.

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1. Cfr. H. SPENCER, Introduction à la science sociale, Librairie Germer Baillière, Paris 1878 3, pp.

351 sgg.2. Cfr. H. SCHELSKY (a cura di), Zur Theorie der Institution, Bertelsmann, Gütersloh 1982 2.

3. A. PROSPERI, Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana,

XIV-XVIII secolo, Einaudi, Torino 2013, p. 173.

4. K.-S. REHBERG, Introduzione a A. GEHLEN, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo

(1978), Feltrinelli, Milano 1983, p. 30.5. D. C. NORTH, Institutions, in «Journal of Economic Perspectives», inverno 1991, pp. 97 sgg.; ID.,

Understanding the Process of Economic Change, Princeton University Press, Princeton 2005; ID.,

Institutions, Institutional Change and Economic Performance, Cambridge University Press,Cambridge 1990.

6. L. M. LACHMANN, The Legacy of Max Weber, Glendessary Press, Berkeley 1970, pp. 38 sgg.

7. M. HAURIOU, La théorie de l’institution et de la fondation (Essai de vitalisme social) (1925), ora in

Bibliothèque de philosophie antique et juridique. Textes et documents, Centre de philosophiepolitique et juridique, Caen 1986, pp. 90-128.

8. B. MALINOWSKI, Myth in Primitive Psychology, in ID., Magic, Science and Religion and Other

Essays, Doubleday, New York 1954, pp. 100 sgg.9. Cfr. G. E. RUSCONI, Rischio 1914. Come si decide una guerra, il Mulino, Bologna 1987.

10. Cfr. HAYEK, Legge, legislazione e libertà cit., pp. 18 sgg.

11. A. N. WHITEHEAD, Introduzione alla matematica (1911), Sansoni, Firenze 1961, p. 61.

12. Cfr. J. G. MARCH e J. P. OLSEN, Riscoprire le istituzioni (1989), il Mulino, Bologna 1992, p. 70.

13. S. FREUD, Il disagio della civiltà (1930), in ID., Opere, a cura di C. L. Musatti, vol. X, Inibizione,

sintomo e angoscia (1924-1929), Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 575 e 602.14. A. GEHLEN, L’uomo (1940), Feltrinelli, Milano 1983.

15. G. PICO DELLA MIRANDOLA, De hominis dignitate. Heptaplus, De ente et uno, e scritti vari,

Vallecchi, Firenze 1942, p. 105.16. ARENDT, La banalità del male cit.

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1. Cfr. KELSEN, La dottrina pura del diritto cit., pp. 350 sgg.

2. Cfr. ROMANO, L’ordinamento giuridico cit.

3. Cfr. E. ENRIQUEZ, Dall’orda allo Stato. Alle origini del legame sociale (1983), il Mulino, Bologna

1986; R. LINTON, Lo studio dell’uomo (1936), il Mulino, Bologna 1973, pp. 257 sgg.

4. Una sintesi storica in M. BORGHESI, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine

dell’era costantiniana, Marietti, Genova-Milano 2013.5. Antologia di testi e Introduzione in La società trinitaria. Un’immagine medioevale, a cura di M. L.

Picascia, Zanichelli, Bologna 1980. Sulle prospettive della riflessione in ambito evangelico, E.

WOLF, “Trinitarische” oder “christologische” Begründung des Rechts?, in H. DOMBOIS (a cura

di), Recht und Institution, Luther, Witten 1956, pp. 9-33.6. GIOVANNI DI SALISBURY, Policraticus (l’uomo di governo), libro V, cap. II.

7. J. GÕRRES, Die künftige deutsche Verfassung, in «Rheinischer Merkur», n. 15 (1815).

8. Cfr. P. COSTA, Le api e l’alveare. Immagini dell’ordine fra “antico” e “moderno”, in Ordo iuris

cit., pp. 375 sgg.9. Di questo Autore, tra le molte opere, cfr. Jupiter, Mars Quirinus, Einaudi, Torino 1955; Gli dèi dei

Germani, Adelphi, Milano 1974; Il libro degli eroi, Adelphi, Milano 1969; Matrimoniindoeuropei, Adelphi, Milano 1984; Mythe et Épopée I. II. III., Gallimard, Paris 1995; Exquissesde mythologie, Gallimard, Paris 2003.

10. ID., Matrimoni indoeuropei cit., p. 13. Un’applicazione recente in T. PADOA SCHIOPPA, La veduta

corta, il Mulino, Bologna 2009, p. 79: «È una tripartizione classica che esiste – per cosí dire –nella realtà e alla quale si fa spesso riferimento anche senza conoscerne le ascendenze nel pensierofilosofico. Le attività umane sono riconducibili a questi tre campi cui corrispondono la formazionedella ricchezza, l’esercizio del potere e la coltivazione del sapere».

11. N. BOBBIO, Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 1989, pp. 35 sgg.

12. G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, § 258.

13. Citato da T. BONAZZI, Un “costituzionalismo” rivoluzionario. Il Demos basileus e la nascita

degli Stati Uniti, in «Filosofia politica», V (1991), n. 2, p. 283.14. Cfr. J. DE MAISTRE, Essai sur le principe générateur des constitutions politiques (1809), in ID.,

Considérations sur la France; suivi de l’Essai sur le principe générateur des constitutionspolitiques; et des Lettres à un gentilhomme russe sur l’Inquisition espagnole, Publié par la sociéténationale, Bruxelles 1838, pp. 211 e 240: «Uno dei grandi errori di un secolo che li professò tuttifu di credere che una costituzione politica potesse essere scritta e creata a priori, mentre la ragionee l’esperienza sono d’accordo nello stabilire che una costituzione è un’opera divina e che quindiciò che c’è di piú fondamentale e di piú essenzialmente costituzionale nelle leggi di una nazione

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non potrebbe essere scritto». «Poiché ogni costituzione è divina nel suo principio, ne deriva chel’uomo non può nulla in questo campo, a meno che non si leghi a Dio, per diventarne strumento».

15. «Bisogna tenerci pronti a un avvenimento immenso nell’ordine divino, verso il quale marciamocon una velocità accelerata che deve colpire tutti gli osservatori. Paurosi oracoli annunciano giàche i tempi sono maturi» (ID., XI Entretien delle Soirées de St. Pétersbourg).

16. Cfr. S. ROMANO, Le prime carte costituzionali (1906), in ID., Scritti minori, vol. I, Giuffrè,

Milano 1990, p. 323, riprendendo idee correnti del pensiero costituzionale controrivoluzionario.17. C. H. MCILWAIN, Costituzionalismo antico e moderno (1940), il Mulino, Bologna 1990.

18. Le metafore organiche pervadono, spesso implicitamente e inavvertitamente, le discussioni circa iproblemi sociali e politici: cfr. E. KAUFMANN, Über den Begriff des Organismus in der Staatslehre

des 19. Jahrhunderts, Carl Winter, Heidelberg 1908; J. E. SCHLANGER, Les métaphores de

l’organisme, Librairie philosophique J. Vrin, Paris 1971.19. Sulla distinzione di cui si parla nel testo, l’opera classica è tuttora F. TÖNNIES, Comunità e società

(1887), Laterza, Roma-Bari 2011.20. Cfr. N. BOBBIO, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 1999, pp. 323 sgg.

21. «Società aperta» e «società chiusa» sono espressioni diventate d’uso comune, che danno il titoloalla celebre opera di K. POPPER, La società aperta e i suoi nemici (1945), 2 voll., Armando, Roma

1973 e 1974.22. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto cit., § 258.

23. Cfr. C. SCHMITT, Lo Stato come meccanismo in Hobbes e in Cartesio (1936), in ID., Scritti su

Thomas Hobbes, Giuffrè, Milano 1986, pp. 45 sgg.; A. MEYER, Mechanische und organische

Metaphorik politischer Philosophie, in «Archiv für Begriffsgeschichte», XIII (1969), n. 2, pp. 128sgg.; F. RIGOTTI, Metafore della politica, il Mulino, Bologna 1989. Su Aria, terra, acqua, fuoco,

come elementari metafore politiche, si veda il volume dal medesimo titolo a cura di F. Rigotti e P.Schiera (il Mulino, Bologna 1993).

24. Cfr. G. ZAGREBELSKY, Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza, Einaudi, Torino 2012.

25. E. H. KANTOROWICZ, I due corpi del Re (1957), Einaudi, Torino 1989, p. 7.

26. J. BODIN, I sei libri dello Stato (1576), libro I, cap. VIII (Utet, Torino 1964, pp. 349, 345 e 368).

27. WEBER, La politica come professione cit., p. 48.

28. Cfr. R. RUFFILLI (a cura di), Crisi dello Stato e storiografia contemporanea, il Mulino, Bologna

1979, la cui lettura è utile per fare il punto sullo stato di salute di quasi quarant’anni fa,paragonandolo a quello attuale.

29. La «Rivista trimestrale di diritto pubblico», n. 1 (2006), pp. 97-177, contiene gli scritti di SantiRomano (Lo Stato moderno e la sua crisi), Vittorio Emanuele Orlando (Lo Stato e la realtà),

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Oreste Ranelletti (I sindacati e lo Stato), Donato Donati (La persona reale dello Stato), VittorioEmanuele Orlando (Lo Stato sindacale nella letteratura giuridica contemporanea) e SantiRomano (Recensione al volume di Alfredo Rocco, “La trasformazione dello Stato. Dallo Statoliberale allo Stato fascista”), tutti incentrati sulla disgregazione dello Stato sovrano a opera delcosiddetto «sindacalismo» dell’inizio del XX secolo. Un quadro di sintesi in A. M. SANDULLI,

Santi Romano, Orlando, Ranelletti e Donati sull’“eclissi dello Stato”. Sei scritti di inizio secoloXX, ibid., pp. 77-97.

30. F. RUBIO LLORENTE, La eterna agonía del Estado, in «Saber Leer», n. 113 (marzo 1998), pp. 8

sgg.31. C. SCHMITT, Le categorie del “politico” (1932), il Mulino, Bologna 1972, p. 90.

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1. J.-B. BOSSUET, Politica estratta dalle proprie parole della Sacra Scrittura, Libro VI, art. II, § VI

(citato dall’ed. Hertz, Venezia 1730). Bossuet fu un fecondo produttore di sermoni e pamphlet che,testi sacri alla mano, inneggiavano al potere assoluto del re, rappresentante di Cristo, eargomentavano la conseguente assoluta soggezione del popolo, gregge nelle sue mani (dello stessosi veda, ad esempio, Della sovranità, Marietti, Torino 1822).

2. J. DE MAISTRE, Du Pape, libro II, capp. II e III.

3. Cfr. J. MILTON, Uccidere il tiranno, Raffaello Cortina, Milano 2011.

4. Cfr. N. MATTEUCCI, Breve storia del costituzionalismo, Morcelliana, Brescia 2010.

5. Cfr. MCILWAIN, Costituzionalismo antico e moderno cit. Altrettanto importante N. MATTEUCCI,

Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno (1988), il Mulino,Bologna 2016.

6. Cfr. A. PACE, Le sfide del costituzionalismo del XXI secolo (2003), in ID., I limiti del potere, Jovene,

Napoli 2008, pp. 1 sgg.7. Sul tempo dei «dottrinari», cfr. G. OSKIAN, Tocqueville e le basi della democrazia, il Mulino,

Bologna 2015.8. PLATONE, Repubblica, 563e, 564a.

9. C. CAVOUR, Critiche allo Statuto, in «Il Risorgimento», 10 marzo 1848 (ora in Tutti gli scritti di

Camillo Cavour, a cura di P. Pischedda e G. Talamo, Centro studi piemontesi, Torino 1976, vol.III, p. 1113), dove, teorizzandosi la modificabilità dello Statuto – contro le formuledell’irrevocabilità contenute nel suo Preambolo – ammette audacemente (rispetto alle ideeconservatrici di allora) l’esistenza del «potere costituente» che sta «nel seno della società». «Èpericolosa grettezza politica, che rovinò tanti principi, quella di commisurare le riforme non alleesigenze dei tempi e ai bisogni dei popoli, ma “allo stretto indispensabile” per allontanare ilprossimo pericolo di politici sconvolgimenti». Sugli eventi che circondarono la concessione delloStatuto e le sue prime interpretazioni, R. ROMEO, Cavour e il suo tempo, 1842-1854, vol. I,

Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 280 sgg.10. I. KANT, Sopra il detto comune: “Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”

(1793), in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V.Mathieu, Utet, Torino 1956, p. 260.

11. J.-J. ROUSSEAU, Du contrat social, libro III, cap. IV.

12. ARISTOTELE, Politica, 1291b.

13. TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, II, 37.

14. ARISTOTELE, Politica, 1279b.

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15. Storia del Parlamento subalpino, iniziatore dell’Unità d’Italia, dettata da Angelo Brofferio permandato di Sua Maestà il Re d’Italia, Eugenio Belzini, Milano 1865.

16. G. ZAGREBELSKY, Costituzione e comparazione, in ID., Intorno alla legge, Einaudi, Torino 2009,

pp. 149-78.17. J. DIAMOND, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino 2005.

18. Ibid., p. 129.19. H. JONAS, Frontiere della vita, frontiere della tecnica, il Mulino, Bologna 2011, p. 131.

20. Sul «rapporto intergenerazionale», la letteratura è assai vasta. Una trattazione di sintesi in F. G.

MENGA, Lo scandalo del futuro. Per una giustizia intergenerazionale, Edizioni di Storia e

Letteratura, Roma 2016.21. S. WEIL, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano (1943),

Mondadori, Milano 1990, pp. 13-14.22. H. KÜNG, Progetto per un’etica mondiale. Una morale ecumenica per la sopravvivenza umana

(1990), Rizzoli, Milano 1991.23. N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990.

24. Cfr. G. ZAGREBELSKY, Diritti per forza, Einaudi, Torino 2017.

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1. Cfr. K. EICHENBERGER, Gesetzgebung im Rechtsstaat («Veröffentlichungen der Vereinigung der

Deutschen Staatsrechtslehrer», n. 40), de Gruyter, Berlin - New York 1982, p. 8.2. K. T. WELCKER, Die letzten Gründe von Recht, Staat und Strafe (1813), nuova ed. Scientia Verlag,

Aalen 1964, pp. 25-26 e 71 sgg.3. J. C. F. VON ARETIN, Staatsrecht der konstitutionellen Monarchie (1824), citato in E.-W.

BÖCKENFÖRDE, Entstehung und Wandel des Rechtsstaatsbegriffs (1969), ora in ID., Recht, Staat,

Freiheit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991, p. 145.4. Cfr. F. J. STAHL, Philosophie des Rechts, vol. II, Rechts- und Staatslehre auf der Grundlage

christlicher Weltanschauung, parte II, libro IV (1878), nuova ed. G. Olms, Hildesheim 1963, pp.137-38.

5. La discussione – che in Germania non riguardò soltanto l’ambito di giuristi come Carl Schmitt,Otto Koellreutter, Julius Binder, Eugen Huber e Ernst Forsthoff (al riguardo: I. STAFF, Costantino

Mortati. Verfassung im materiellen Sinn: ein Beitrag zur Rechtsentwicklung im faschistischenItalien und im Deutschland der weimarer Zeit und im Nationalsozialismus, in «Quaderni fiorentiniper la storia del pensiero giuridico moderno», vol. XXIII, Giuffrè, Milano 1994, pp. 331 sgg.), maanche una cerchia di uomini del regime, come Hans Frank e Hermann Göring – è ricostruita da F.

NEUMANN, Die Herrschaft des Gesetzes (1936), Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980, pp. 249 sgg.

Fra tutte, eloquente è la duplice posizione assunta da Schmitt, il quale in un primo tempo avevasostenuto l’irriducibilità del nazionalsocialismo ai principî del Rechtsstaat, quest’ultimoconsiderato come un concetto sostanziale del liberalismo (Nationalsozialismus und Rechtsstaat, in«Juristische Wochenschrift», LXII (1934), n. 12-13, pp. 17 sgg.) e poi, adeguandosi all’ambienteufficiale, si dispose ad accettare la tesi della continuità tra regimi politici, pur svalutando ilsignificato complessivo della discussione attraverso la riduzione dello «Stato di diritto» a unconcetto esclusivamente formale (Was bedeutet der Streit um den „Rechtsstaat”?, in «Zeitschriftfür die gesamte Staatswissenschaft», XCV (1935), pp. 189 sgg.). In questa seconda occasione, dalconcetto di Rechtsstaat veniva rimossa ogni connotazione (o, secondo Schmitt, incrostazione)sostanzial-costituzionale, attraverso la sua totale formalizzazione, tecnicizzazione e privazione dicontenuto storico-concreto, tale da poter essere impiegato nella aberrante formula «der deutscheRechtsstaat Adolf Hitlers» (C. SCHMITT, Der Rechtsstaat, in Nationalsozialistisches Handbuch für

Recht und Gesetzgebung, a cura di H. Frank, Zentralverlag der NSDAP, München 1935 2, p. 32).Oltre al fondamentale capitolo «Der Streit um den Rechtsstaat» in M. STOLLEIS, Geschichte des

öffentlichen Rechts in Deutschland, vol. III, Beck, München 1999, pp. 330-38, cfr. W. N.

VITZTHUM, L’État de droit dans la pensée politique de la Résistence allemande, in V. GÖTZ, P.

SELMER e R. WOLFRUM (a cura di), Liber amicorum Günther Jaenicke – Zum 85. Geburtstag,

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Springer, Berlin 1998, pp. 1013 sgg., ove si mette in luce la tensione morale che tale formularivestí nel pensiero di quanti parteciparono al tentativo di assassinio di Hitler, guidatodall’ammiraglio Canaris e che trovò espressione nel primo punto del progetto (ibid., pp. 1026sgg.) di «Dichiarazione» del governo Ludwig Beck - Carl Friedrich Goerdeler (destinati adiventare, in caso di successo, rispettivamente capo dello Stato e cancelliere). Vi si leggeva ilproposito di ristabilire la vollkommene Majestät des Rechts: cioè diritti fondamentali, separazionedei poteri, sicurezza giuridica, ecc. Il pensiero sottinteso da questa e da altre consimili posizioni èche il Terzo Reich – contro la visione di Gustav Radbruch e di coloro che, al crollo del regime,riportarono in vita il pensiero giusnaturalista – abbia sofferto non di un eccesso di positivismogiuridico, ma di un difetto. Il Führerprinzip (Befehl ist Befehl ) fu la contraddizione dello Statocome concetto oggettivo; Hitler non fu una realizzazione storica dell’organo “cancellierato”, mal’incarnazione soggettiva organica del “movimento” nazionalsocialista. Per l’Italia, P. BODDA, Lo

stato di diritto. A proposito di alcune recenti opinioni, Giuffrè, Milano 1935; E. ALLORIO,

L’ufficio del giurista nello Stato unitario, in «Jus», 1942, p. 282. Sul dibattito in argomento, C.

LAVAGNA, La dottrina nazionalsocialista del diritto e dello Stato, Giuffrè, Milano 1938, pp. 71

sgg.; F. PIERANDREI, I diritti subbiettivi pubblici nell’evoluzione della dottrina germanica,

Giappichelli, Torino 1940, pp. 225 sgg.6. Cfr. M. FIORAVANTI, Costituzione e Stato di diritto, in «Filosofia politica», V (1991), n. 2, pp. 325

sgg.7. Cosí, in conformità alla sua programmatica svalutazione di ogni concetto giuridico non

esclusivamente normativo, KELSEN, La dottrina pura del diritto cit., p. 345; ID., Der soziologische

und der juristische Staatsbegriff. Kritische Untersuchung des Verhältniesses von Staat und Recht,Mohr, Tübingen 1928 2, p. 191. L’ideale storico dello Stato di diritto è, invece, denso di contenutisostanziali: si veda il quadro di P. P. CRAIG, Formal and substantive conception of the Rule of Law.

An analytical framework, in «Public Law», XXI (1997), pp. 467-87.8. Cfr. SCHMITT, Was bedeutet der Streit um den „Rechtsstaat”? cit., p. 201.

9. A. BARAK, A Judge on Judging. The Role of a Supreme Court 2001 Term, in «Yale Law School

Legal Scholarship», Faculty Scholarship Series, Paper 3692 (2002), p. 125, riferisce il racconto diun amico. Durante la seconda guerra mondiale, alcuni ebrei erano in prigione in Germania inconseguenza di condanne pronunciate prima dello scoppio della guerra. La Gestapo non li toccò.Il Rule of law prescriveva che essi non dovessero essere sterminati nei lager prima che terminasseil periodo di prigionia, e questa regola giuridica doveva essere rispettata. Ma quando finirono discontare le loro condanne, la Gestapo pretese la loro consegna. Essi furono inviati nei campi dimorte e le sentenze vennero eseguite. Il Rule of law fu cosí formalmente rispettato.

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10. Cfr. R. V. MOHL, Encyclopädie der Staatswissenschaften, Siebeck, Freiburg-Tübingen 1872 2, p.

106. Sulle trasformazioni rispetto alle concezioni originarie del Rechtsstaat, D. GRIMM, Die

deutsche Staatsrechtslehre zwischen 1750 und 1945 (1984), ora in ID., Recht und Staat der

bürgerlichen Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1987, pp. 298-99, e BÖCKENFÖRDE,

Entstehung und Wandel des Rechtsstaatsbegriffs cit., pp. 144 sgg.11. Cfr. O. MAYER, Deutsches Verwaltungsrecht, vol. I, Duncker & Humblot, Leipzig 1895, pp. 64

sgg.12. Cfr. P. COSTA e D. ZOLO (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano

2002; G. PINO e V. VILLA, Rule of Law. L’ideale della legalità, il Mulino, Bologna 2016.

13. Cfr. C. SCHMITT, Legalità e legittimità (1932), in ID., Le categorie del “politico” cit., pp. 223

sgg.14. A. DE TOCQUEVILLE, L’Antico regime e la Rivoluzione (1856), Rizzoli, Milano 1981, cita

un’illuminante lettera del 1790 di Mirabeau a Luigi XVI in cui dice: «Confrontate il nuovo statodi cose con l’antico regime; da questo confronto nascono il conforto e la speranza. Una parte degliatti dell’Assemblea nazionale, ed è la parte maggiore, è palesemente favorevole a un Governomonarchico. Non vi sembra nulla essere senza Parlamento [il Parlamento nobiliare dell’Anticoregime che controllava gli atti del re], senza città privilegiate, senza ordini del clero, della nobiltà,dei privilegiati? L’idea di formare una sola classe di cittadini sarebbe piaciuta a Richelieu: questasuperficie tutta uguale facilita l’esercizio del potere. Parecchi periodi di governo assoluto nonavrebbero fatto per l’autorità regia quanto questo solo anno di rivoluzione».

15. Cfr. A. V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, Macmillan, London

1915, cap. IV. Secondo H. W. R. WADE, Administrative Law, Clarendon Press, Oxford 1982 5, pp.

22-26, il Rule of law comprende: a) il necessario fondamento legale di tutti gli atti dell’autorità; b)l’esigenza che la legge non abbia un qualsiasi contenuto, ma stabilisca una cornice di regole e diprincipî che circoscrivono l’arbitrio dei poteri pubblici; c) la possibilità di ricorso a giudiciimparziali e indipendenti per la difesa dei diritti violati.

16. Cfr. N. MACCORMICK, Der Rechtsstaat und die Rule of Law, in «Juristenzeitung», XXXIX

(1984), pp. 65 sgg., e ID., Diritto, “Rule of Law”, e democrazia, in P. COMANDUCCI e R.

GUASTINI, Analisi e diritto 1994, Giappichelli, Torino 1994, pp. 193-94.

17. Sullo sviluppo del Rule of law, all’epoca del conflitto tra Giacomo I e il Parlamento nei primidecenni del XVII secolo, K. KLUXEN, Geschichte und Problematik des Parlamentarismus,

Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983, pp. 50 sgg.18. Cfr. R. DREIER, Recht und Gerechtigkeit (1982), ora in ID., Recht - Staat - Vernunft, Suhrkamp,

Frankfurt am Main 1991, pp. 24 sgg., e G. BOGNETTI, I diritti costituzionali nell’esperienza

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costituzionale, in Diritti fondamentali dell’uomo («Quaderni di Justitia», n. 27), Giuffrè, Milano1977, p. 27, nota 4.

19. Cfr. J. HABERMAS, Morale, Diritto, Politica, Einaudi, Torino 1992, p. 70; M. KRIELE, Einführung

in die Staatslehre, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1975, pp. 106 sgg.20. Cfr. U. MATTEI, Common Law. Il diritto anglo-americano, Utet, Torino 1992, pp. 77-78.

21. Cfr. K. KLUXEN, Die geistesgeschichtlichen Grundlagen des englischen Parlamentarismus, in ID.

(a cura di), Parlamentarismus, Verlagsgruppe Athenäum, Berlin 1980 5, p. 103.22. Cfr. KRIELE, Einführung in die Staatslehre cit., pp. 109 sgg.

23. Cfr. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution cit., pp. XXXVI-XXXVII.

24. Cfr. EICHENBERGER, Gesetzgebung im Rechtsstaat cit., p. 9.

25. Si veda ad esempio R. CARRÉ DE MALBERG, La legge espressione della volontà generale (1931),

a cura di M. Calamo Specchia, Giuffrè, Milano 2008, pp. 45 sgg.26. Cfr. MAYER, Deutsches Verwaltungsrecht cit., pp. 62-63 e 66: al potere esecutivo spetta «vivere e

agire, anche se manca la legge che diriga la sua azione».27. Si veda ad esempio O. RANELLETTI, Principi di diritto amministrativo, vol. I, Pierro, Napoli

1912, p. 143.28. Cfr. CARRÉ DE MALBERG, La legge espressione della volontà generale cit., pp. 45 sgg.

29. C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione (1928), a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, p.

173.30. La questione indicata nel testo tornò d’attualità a proposito del cosiddetto «Stato

amministrativo», una ripresa tardo-ottocentesca di tematiche dello Stato di polizia. Si trattava didefinire il significato del «silenzio legislativo», cioè dello «spazio vuoto di diritto». La dottrinaliberale, in contrasto con quella orientata all’autorità, sosteneva che gli interventi amministrativipraeter legem dovessero ritenersi come illegittimi, in quanto contrastanti con la cosiddetta «normagenerale esclusiva» di libertà, per la quale tutto ciò che non è espressamente vietato ai singoli èpermesso. I termini della discussione in F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello

Stato nel campo del diritto amministrativo, in V. E. ORLANDO (a cura di), Primo trattato completo

di diritto amministrativo italiano, vol. III, Società Editrice Libraria, Milano 1901, p. 143; D.

DONATI, Il problema delle lacune nell’ordinamento giuridico, Società Editrice Libraria, Milano

1910; RANELLETTI, Principi di diritto amministrativo cit., vol. I, pp. 279 sgg. (i primi, a favore dei

principî dello Stato di diritto; l’ultimo, a favore di quelli dello Stato amministrativo). Su questostorico dibattito, R. GUASTINI, Completezza e analogia. Studi sulla teoria generale del diritto

italiana del primo Novecento, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», VI (1976), pp.513 sgg., e M. FIORAVANTI, Costituzione, amministrazione e trasformazione dello Stato, in A.

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SCHIAVONE (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Laterza,

Roma-Bari 1990, p. 36.31. Questo è il grande tema della «giustizia nell’amministrazione», a proposito del quale occorre

notare la difficoltà di considerare l’amministrazione come parte di un rapporto sul quale ungiudice sia chiamato a giudicare in un contraddittorio paritario tra le parti: l’amministrazione e ilcittadino («l’amministrato»). Resta per lo piú un residuo riconoscimento della posizione diautorità dell’amministrazione nei confronti della libertà degli amministrati che porta allacreazione di sistemi di giustizia amministrativa differenziati dai sistemi giurisdizionali comuni,sistemi speciali che chiamano il «giudice amministrativo» a proteggere la legalità dell’attodell’amministrazione piuttosto che le pretese giuridiche soggettive dei cittadini. Il modello, nellegrandi linee, è certamente rappresentato dal napoleonico Conseil d’État francese. L’alternativa è ilsistema di «diritto comune» vigente in Gran Bretagna, dove, in applicazione del Rule of law, gliamministratori (civil servants) sono posti sul medesimo piano degli amministrati e le lorocontroversie si svolgono davanti alle corti giudiziarie ordinarie (sia pure con varie limitazioni): inargomento, il capitolo XII della parte II (dal titolo «Rule of Law compared with Droit

administratif ») della Introduction to the Study of the Law of the Constitution cit., pp. 213 sgg., diDicey. Per il dibattito in Italia, nell’ambito di quello europeo, B. SORDI, Giustizia e

amministrazione nell’Italia liberale, Giuffrè, Milano 1985; sinteticamente, A. ROMANO, Premessa

a ID., Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Cedam, Padova 1992, pp. IX

sgg. Un quadro comparativo in G. F. FERRARI, «Giustizia amministrativa in diritto comparato», in

Digesto delle discipline pubblicistiche, Utet, Torino 1991 4, vol. VI, pp. 567 sgg.32. La “dottrina” della concezione delle Carte octroyées come costituzioni flessibili può essere

rappresentata in Italia dal celebre articolo, già citato, di Cavour apparso su «Il Risorgimento» del10 marzo 1848, sul quale cfr. J. LUTHER, Idee e storie di giustizia costituzionale nell’Ottocento,

Giappichelli, Torino 1990, pp. 170 sgg.33. Espressione di Francesco Crispi alla Camera dei deputati, 23 giugno 1881, ripresa da Francesco

Ruffini nella seduta del Senato del Regno del 12 maggio 1928, durante la discussione sullariforma fascista della rappresentanza politica, a difesa del libero voto e del sistemarappresentativo: il legislatore si doveva considerare autorizzato dallo Statuto ad apportaremodifiche nel senso del progresso, «ma non mai di tornare indietro».

34. Cfr. H. COING, Allgemeine Züge der privatrechtlichen Gesetzgebung im 19. Jahrhundert, in ID. (a

cura di), Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte,vol. III/I, Beck, München 1989, pp. 4 sgg., e, in breve, P. GROSSI, Il costituzionalismo moderno fra

mito e storia, in «Giornale di storia costituzionale», n. 11 (2006), pp. 43 sgg.

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35. L’Autore di questa espressione (entrata nell’uso nella forma: «un tratto di penna del legislatore eintere biblioteche diventano carta straccia») è J. H. KIRCHMANN, Della mancanza di valore della

giurisprudenza come scienza (1847), a cura di P. Frezza, Arti grafiche Pacini Mariotti, Pisa 1942,p. 19 (ora anche in J. H. KIRCHMANN e E. WOLF, Il valore scientifico della giurisprudenza, Giuffrè,

Milano 1964, p. 18). Il contesto dell’affermazione sopra riferita è la rappresentazione dellagiurisprudenza come mero lavorio sui difetti della legislazione positiva: «L’ignoranza, latrascuratezza, la partigianeria del legislatore sono l’oggetto» degli studi dei giuristi. «Il geniostesso non si rifiuta di servire alla irragionevolezza; di esibire, per giustificarla, tutto il suo spiritoe la sua dottrina. La legge positiva ha trasformato i giuristi in larve, che si nutrono soltanto dilegno putrido; allontanandosi da tutto ciò che è sano, essi si annidano soltanto nel marcio, e vitessono le loro tele» (ibid.). Su questa vocazione dei giuristi, C. SCHMITT, Die Lage der

europäischen Rechtswissenschaft (1943-44), ora in ID., Verfassungsrechtliche Aufsätze aus den

Jahren 1924-1954, Duncker & Humblot, Berlin 1985 3, p. 400. Kirchmann propose tesi che locollocarono tra gli antesignani del cosiddetto «diritto libero», una visione eretica rispetto alle ideedominanti nel suo tempo che lo portò all’espulsione senza pensione dalla magistratura prussiana.Su questa figura di giurista, T. STERNBERG, Julius Hermann von Kirchmann und seine Kritik an

die Rechtswissenschaft. Zugleich ein Beitrag zum realpolitischen Liberalismus, W. Rothschild,Berlin-Leipzig 1908.

36. Si veda ad esempio A. GAMBARO, «Codice civile», in Digesto delle Discipline privatistiche, IV,

Sezione civile, vol. II, Utet, Torino 1988, pp. 450 sgg.37. In argomento, SCHMITT, Dottrina della costituzione cit., pp. 174 e 190-91, e N. BOBBIO, Governo

degli uomini o governo delle leggi?, in «Nuova Antologia», CXVIII/ DLII (1983), n. 2145, pp.135 sgg.

38. Per tutti, S. FOIS, «Legalità (principio di)», in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano 1973, vol.

XXIII, specialmente pp. 696 sgg.39. A. PREDIERI, Pianificazione e costituzione, Edizioni di Comunità, Milano 1963, p. 272.

40. V. HUGO, Novantatré (1874), libro III, §§ 2 e 3.

41. «Osservatorio sulle fonti», Giappichelli, Torino.42. Cfr. M. AINIS, La legge oscura. Come e perché non funziona, Laterza, Roma-Bari 1997.

43. PREDIERI, Pianificazione e costituzione cit., p. 270.

44. Cfr. J. HABERMAS, Fatti e norme (1992), Guerini e Associati, Milano 1996, p. 288.

45. Il fenomeno della «pluralità degli ordinamenti giuridici» è stato messo a fuoco e tematizzatocome carattere proprio dello Stato contemporaneo (contro i lamenti di chi, all’inizio del secolo, vivedeva semplicemente la crisi dello Stato tout court) da Santi Romano, nella sua opera piú

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celebre, già citata, L’ordinamento giuridico. Studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto. Inargomento P. BISCARETTI DI RUFFIA (a cura di), Le dottrine giuridiche di oggi e l’insegnamento di

Santi Romano, Giuffrè, Milano 1977 (soprattutto N. BOBBIO, Teoria e ideologia nella dottrina di

Santi Romano, ibid., pp. 25 sgg.). Nello stesso volume, per la critica alle visioni correnti delloStato pluralista come modello statico e per l’affermazione del pluralismo come fenomeno ditransizione da una vecchia a una nuova obbligazione politica «monista», G. MIGLIO, La soluzione

di un problema elegante, p. 214. L’accettazione di questo punto di vista condurrebbe a svalutareassai il significato dell’odierna strutturazione pluralistica degli Stati e a ribadire, sul piano dellateoria, il suo contrario, cioè la versione forte della sovranità statale.

46. SCHMITT, Die Lage der europäischen Rechtswissenschaft cit., pp. 404 sgg. e 420.

47. Per questa concezione della Costituzione, adeguata al tempo del pluralismo, al tempo dellapostmodernità, cioè al tempo della crisi dell’identificazione legge-diritto e della legge comecomando sovrano, P. GROSSI, L’”invenzione” del diritto, Laterza, Roma-Bari 2017, passim.

48. D. ZOLO, Teoria e critica dello Stato di diritto, in COSTA e ZOLO (a cura di), Lo Stato di diritto

cit., p. 45. Si veda anche supra, nota 5.49. BARAK, A Judge on Judging cit., p. 77.

50. Cfr. F. NEUMANN, Behemoth (1942), Bruno Mondadori, Milano 1999.

51. B. BRECHT, La resistibile ascesa di Arturo Ui (1941), Einaudi, Torino 1988.

52. C. SCHMITT, Ex captivitates salus (1950), Adelphi, Milano 1987, p. 20, ove si usano espressioni

analoghe a quella – «gruppo di criminali» – pronunciata dal papa Benedetto XVI nel discorso adAuschwitz-Birkenau del 28 maggio 2006, quando egli si disse «figlio di quel popolo sul quale ungruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde» (promesse di grandezza, direcupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza internazionale, previsioni di benessere) «eanche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato edabusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio» (testo completo in«Corriere della Sera», 28 maggio 2006). È da notare la sottovalutazione dell’adesione del popolotedesco alle «promesse bugiarde», che sembrano da condannare solo perché bugiarde e non ancheperché mostruose (l’antisemitismo e la distruzione degli ebrei sta già a chiare lettere nel MeinKampf di Hitler, come non si stancava di ricordare Primo Levi). Da notare, anche, è che Schmittinserisce quella definizione in un lungo passo che tende a minimizzare il coinvolgimento etico delpopolo tedesco nel nazismo, il quale lo avrebbe sfiorato solo superficialmente. Dunque, si tratta diun passo di ripudio culturale del nazismo che vale anche come tentativo di autoassoluzione. Apagina 23, leggiamo: «Nemmeno uno studioso o un dotto può scegliersi i regimi politici a suopiacimento. In generale, in un primo momento li accetta come ogni altra persona, da lealecittadino. Se poi la situazione si fa del tutto abnorme e nessuno dall’esterno lo protegge nei

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confronti del terrore all’interno, egli stesso deve fissare i limiti della sua lealtà, segnatamenteallorché la situazione diviene cosí abnorme che neppure piú si sa in quali acque versi l’amico piúcaro. Il dovere di scatenare una guerra civile, di compiere sabotaggi e di farsi martiri ha i suoilimiti. Qui si dovrà pur concedere qualcosa alla vittima di simili situazioni e non ci si limiterà agiudicare dall’esterno. Platone fu collaboratore dei tiranni di Siracusa e insegnava che un buonconsiglio non si può negare nemmeno al nemico. Tommaso Moro, il santo protettore della libertàspirituale, ha attraversato parecchie fasi e ha fatto al tiranno concessioni che sorprendono, primache le cose giungessero al punto ch’egli divenne martire e santo. Del resto, in ogni epoca diconcentrazione del potere politico, vale per ogni pubblicista l’antico principio dei Saturnalia diMacrobio: non possum scrivere in eum qui potest proscrivere». In ARENDT, Le origini del

totalitarismo cit., p. 558, si trovano importanti chiarimenti sull’evoluzione “istituzionale” dellaconsorteria (la «gang») che prese il potere in Germania sotto l’ideologia nazionalsocialista. Dopoaver ricordato la tesi di Neumann, secondo il quale «la Germania nazista è molto piú simile a unagang i cui capi siano ogni volta costretti ad accordarsi dopo i dissensi», fa però notare la completaassenza di rivoluzioni di palazzo, il che rappresenterebbe una caratteristica delle dittaturetotalitarie e uno dei piú importanti segni che quello totalitario, a dispetto delle apparenze incontrario, non è un regime di gang o di cricca, poiché il capo distrugge sistematicamente ogniaccolita attorno a lui, con epurazioni, spostamenti, stragi, ecc., in assenza di lealtà, anche quellaminima che regola i rapporti tra i banditi riuniti in organizzazione. Ma questa è la fase successivaa quella della presa del potere e del consolidamento del regime, quando esso si trasforma in poterepuramente personale, dove le regole fisse e garantite dalla lealtà cedono il passo al dispotismopersonale. Nella Germania hitleriana come nell’Unione Sovietica staliniana. In quella fase, leleggi perdono ogni significato, a favore degli ordini del capo, addirittura ordini dati in segreto,puramente verbali, di cui non resta traccia alcuna, la cui forza è garantita non dalla lealtà ma dallapaura.

53. C. SCHMITT, Abbozzo di storia del rapporto legalità legittimità, in ID., Le categorie del

“politico” cit., p. 290.54. WEBER, La politica come professione cit., pp. 49 sgg.; ID., Economia e società (1922), Edizioni di

Comunità, Milano 1961, vol. I, pp. 34 e 210: un ordinamento può essere ritenuto legittimo in virtúdella semplice legalità delle sue regole.

55. Per queste citazioni, DE MAISTRE, Essai sur le principe générateur des constitutions politiques

cit., pp. 211 sgg.56. Riduzione che è alla base della visione nichilistica del diritto proposta da N. IRTI, Nichilismo

giuridico, Laterza, Roma-Bari 2004; ID., Il salvagente della forma, Laterza, Roma-Bari 2007; ID.,

Nichilismo e metodo giuridico, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», LVI (2002), n.

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4, pp. 1161 sgg. Invece, notevoli rilievi nel senso indicato nel testo sono in P. GROSSI, Prima

lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 84 sgg.57. Art. 16 della Déclaration des droits de l’homme et des citoyens.58. F. LASSALLE, Sulla natura delle costituzioni (1862), Ambrosiana, Milano 1945, p. 46 e passim.

59. M. HAURIOU, Précis de droit constitutionnel, Sirey, Paris 1929, p. 216.

60. G. BURDEAU, Droit constitutionnel et institutions politiques, Librairie générale de Droit et de

Jurisprudence, Paris 1977 13, p. 77.61. R. SMEND, Costituzione e diritto costituzionale (1928), Giuffrè, Milano 1988, p. 150.

62. SCHMITT, Dottrina della Costituzione cit., p. 39.

63. J.-E. SIEYÈS, Che cosa è il Terzo Stato? (1789), in ID., Opere e testimonianze politiche, a cura di

G. Troisi Spagnoli, vol. I, tomo I, Giuffrè, Milano 1993, pp. 252 sgg. (si veda anche, nelmedesimo volume, P. PASQUINO, Il pensiero di Sieyès, pp. 7 sgg.).

64. Parole attribuite al Chief Justice degli Stati Uniti Hughes dal suo biografo S. HENDEL, Charles

Evan Hughes and the Supreme Court, Kings Crown Press, New York 1951, p. 11.

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1. SCHMITT, Dottrina della costituzione cit., p. 41.

2. MADAME DE STAËL, Considérations sur les principaux événements de la Révolution française, vol.

I, Delaunay, Bossange et Masson, Paris 1818 2, p. 143.3. Cfr. N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Giappichelli, Torino 1955, p. 177.

4. Cfr. P. PIOVANI, Il significato del principio di effettività, Giuffrè, Milano 1953.

5. Cfr. W. RÖHRICH, Sociologia politica (1977), il Mulino, Bologna 1980, pp. 105 sgg., e ivi

l’esposizione delle principali tesi di Niklas Luhmann, il massimo studioso delle «societàcomplesse».

6. Sul significato della parola e sul suo uso politico improprio, G. ZAGREBELSKY, Moscacieca,

Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 51 sgg.7. M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1922), Sansoni, Firenze 1945, p. 69.

8. C. SCHMITT, Il problema della legalità (1950), in ID., Le categorie del “politico” cit., p. 287.

9. Cfr. C. OFFE, Dominio di classe e struttura di classe, in ID., Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas,

Milano 1977, p. 57.10. Cfr. SCHMITT, Legalità e legittimità cit., pp. 211 sgg.

11. Questa espressione – légalité qui tue – è un paradossale luogo comune degli uomini d’ordine chesi liberano della legalità per salvaguardare la legittimità. In nome di quel motto si sostenne lalegittimità delle misure eccezionali prese dal governo contro i monarchici legittimisti e contro isocialisti: cfr. K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in K. MARX e F. ENGELS,

Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1969 2, p. 422; F. ENGELs, Prefazione a K.

MARX, Le lotte di classe in Francia, ibid., p. 1274. Approfondimenti in SCHMITT, Il problema

della legalità cit., p. 285.12. Cfr. WEBER, Economia e società cit., vol. I, pp. 34 e 210: un ordinamento può essere ritenuto

legittimo in virtú della semplice legalità delle sue regole.13. Cfr. N. LUHMANN, Legitimation durch Verfahren, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001 6.

14. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), a cura di S. Cotta e G. Treves,

Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 112-13.15. Ferdinand Lassalle, esponente della cultura socialista tedesca della metà dell’Ottocento, nei due

discorsi Über Verfassungswesen del 1862 espresse polemicamente la nozione di costituzione giàmenzionata (si veda supra, p. 178) che la fa coincidere con gli strumenti di coazione utilizzabiledai poteri dominanti per piegare a sé i dominati. Da tale concezione trasse la conclusione che lecostituzioni scritte non sono che «un pezzo di carta» (ein Stück Papier) e che le questionicostituzionali, alla fine, sono questioni non di diritto ma di forza (LASSALLE, Sulla natura delle

costituzioni cit.).

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16. H. KELSEN, Sulla riforma costituzionale della Costituzione austriaca del 1920, in ID., La giustizia

costituzionale, a cura di C. Geraci, Giuffrè, Milano 1981, p. 49.17. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato cit., p. 119; ID., La dottrina pura del diritto cit.,

pp. 235 sgg.18. A questo punto finale giunge lo stesso Kelsen, nell’opera incompiuta Teoria generale delle norme

(1979), Einaudi, Torino 1985.19. Cfr. N. LUHMANN, Die Einheit des Rechtssystem, in «Rechtstheorie», XIV (1983), n. 2, pp. 129

sgg.20. Cosí C. SCHMITT, Il problema della sovranità, in ID., Le categorie del “politico” cit., p. 46.

21. V. E. ORLANDO, Le teorie fondamentali, in Primo Trattato completo di diritto amministrativo, a

cura di V. E. Orlando, vol. I, Società Editrice Libraria, Milano 1901, pp. 20-21.22. Cfr. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato cit., p. 293; ID., I fondamenti della

democrazia (1929), il Mulino, Bologna 1981, pp. 94 sgg.23. G. CAPOGRASSI, Dubbi sulla costituzione (1945), in ID., Opere, vol. VI, Giuffrè, Milano 1959, p.

108. Il passo, dal tono altamente retorico, comprensibile nel clima immediatamente successivoalla guerra di liberazione e alla guerra civile, è questo: «Nella catastrofe queste poverepopolazioni, eredi di tanta storia […] tendono a rassomigliare, per un processo di mimetismo chediventa sempre piú imperativo, a popolazioni primitive e selvagge che non hanno ancora scopertal’arte di portare le umane belve a essere pietose di se stesse e di altrui […], che hanno perduto onon ancora arrivano ad avere il senso del carattere spirituale e sacro della vita associata; che presenella ricerca delle cose elementari della vita sono agitate da un desiderio cupo e indeterminato diuna radicale rinnovazione di tutto il loro mondo, e non hanno la forza di alzare questo lorodesiderio, che è la sola nota vivace e nobile della loro coscienza alla luce del pensiero […]. Checostituzione dare a ciò che non presenta alcuna solidità per essere costituito? Come costituire lasabbia?» Considerazioni di questo genere appartengono alla letteratura della catastrofe,esplicitamente o implicitamente reazionaria, incapace di vedere il nuovo che viene formandosidietro le apparenze e la sua forza costruttiva. Le vicende costituzionali degli anni 1946-47dimostrarono però che, in Italia, non c’era affatto solo sabbia.

24. Ad esempio G. DOSSETTI, I valori della Costituzione, S. Lorenzo, Reggio Emilia 1995, pp. 63

sgg. («Le radici della Costituzione»).25. Espressione usata, per primo, da S. SATTA, De profundis, Adelphi, Milano 1980, p. 16, poi

innumerevoli volte ripresa da certa storiografia scettica sul cosiddetto «carattere degli italiani» (inproposito, G. BOLLATI, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi,

Torino 1996, e W. BARBERIS, Il bisogno di patria, Einaudi, Torino 2004).

26. DOSSETTI, I valori della Costituzione cit., p. 122.

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27. In L. DUGUIT e H. MONNIER, Les constitutions et les principales lois politiques de la France

depuis 1789, Pichon, Paris 1898, p. V.

28. SIEYÈS, Che cos’è il Terzo Stato? cit.

29. SCHMITT, Le categorie del “politico” cit., pp. 108-9. Di Schmitt è la definizione di «politico»

come opposizione radicale amico-nemico, avente come esito naturale ed estremo niente di menoche l’annientamento dell’uno da parte dell’altro. Il «nemico» è semplicemente l’estraneo, lostraniero (der Fremde), come dice Schmitt stesso, «in un senso particolarmente intensivo».

30. Sulla durata delle costituzioni scritte e i suoi fattori storico-politico-sociali, T. GINSBURG, Z.

ELKINS e J. MELTON, The Lifespan of the Written Constitutions (2007), reperibile in numerosi siti

internet.31. Il riferimento è al fallimento delle diverse «Commissioni bicamerali per la riforma

costituzionale» istituite a partire dal 1983 e ai piú recenti tentativi naufragati nei referendumpopolari del 25 e 26 giugno del 2006 (progetto di riforma Berlusconi) e del 4 dicembre 2016(progetto Renzi).

32. P. CALAMANDREI, Come nasce la nuova Costituzione (1947), in ID., Scritti e discorsi politici, vol.

I, tomo 1, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 292. Nella seduta del 4 marzo 1947 dell’Assemblea

Costituente (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente,Camera dei deputati – Segretariato generale, Roma 1970, p. 157), Calamandrei aveva addiritturaparlato di proposizioni costituzionali che non sono «vere e proprie norme giuridiche nel sensopreciso e pratico della parola, ma sono precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi,manifesti elettorali, magari sermoni: che tutti sono camuffati da norme giuridiche, ma normegiuridiche non sono». Dello stesso Autore, si veda Introduzione storica alla Costituente, inCommentario sistematico alla costituzione italiana, diretto da P. Calamandrei e A. Levi, LaNuova Italia, Firenze 1950.

33. A. BARBERA, art. 2, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, vol. I, Zanichelli,

Bologna 1975, pp. 50 sgg.34. E. CHELI, Il problema storico della Costituente (1973), Esi, Napoli 2008, pp. 57-62.

35. A. C. JEMOLO, Che cos’è la Costituzione (1946), nuova ed., Donzelli, Roma 1996, pp. 59 sgg., e

soprattutto ID., La Costituzione. Difetti, modifiche, integrazioni, Accademia Nazionale dei Lincei,

Quaderno n. 79, Roma 1966. Al riguardo, si vedano le considerazioni di Norberto Bobbio eGiovanni Spadolini nella Commemorazione di Arturo Carlo Jemolo all’Accademia dei Lincei del19 dicembre 1991. Secondo Bobbio, egli «trovava la Carta costituzionale retorica, magniloquente,piena di promesse che a un giurista non potevano non apparire generiche: la Repubblica è fondatasul lavoro, la Repubblica tutela il paesaggio. Immagino che si domandasse: che cosa vuol dire?»;secondo Spadolini, «trovava che l’antico testo di Carlo Alberto era scritto in maniera secca,

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requisito che non trovava nella prosa dei nostri costituenti. E in questo era in pieno accordo conCroce, che dava anche lui un giudizio negativo della Costituzione. Gli sembrava impossibile chedalla collaborazione di tante persone potesse venire fuori qualcosa di sensato: ciascuno si sarebbefatalmente adoperato per aggiungere al documento i propri slanci oratori. Considerava la cartacostituzionale un testo “parenetico”: cioè moraleggiante, ammonitorio, esortativo. E, in sostanza,poco applicabile». Si vedano, in proposito, le opinioni di G. Capograssi, P. Calamandrei, O.Ranelletti, A. Messineo, P. Virga, M. T. Zanzucchi, V. E. Orlando, G. Balladore Pallieri, F. Nitti,A. C. Jemolo, U. Spirito, in F. GENTILE e P. G. GRASSO (a cura di), Costituzione criticata, Esi,

Napoli 1999.36. Palmiro Togliatti, intervento alla seduta dell’Assemblea Costituente dell’11 marzo 1947.37. Lelio Basso, intervento alla seduta dell’Assemblea Costituente del 6 marzo 1947.38. C. SCHMITT, Teologia politica (1934), trad. it. in ID., Le categorie del “politico” cit., p. 61.

39. R. SCHNUR, “La Révolution est finie”. Su un dilemma del diritto positivo nella fattispecie del

positivismo giuridico borghese (1974), in ID., Rivoluzione e guerra civile, Giuffrè, Milano 1986,

pp. 91 sgg.40. DE MAISTRE, Essai sur le principe générateur des constitutions politiques cit.

41. HOBBES, Leviatano cit., parte II, cap. XXIX.

42. ROMANO, Le prime carte costituzionali cit., p. 323.

43. SIEYÈS, Che cos’è il Terzo Stato? cit.

44. Sui problemi discussi in questo paragrafo, si veda C. MORTATI, La Costituente, Giuffrè, Milano

1945. Sulle autoproroghe della Costituente, V. FALZONE e P. GROSSI, «Assemblea costituente

italiana», in Enciclopedia del diritto cit., vol. III, pp. 370 sgg.45. A. HAMILTON, J. JAY e J. MADISON, Il federalista, Nistri-Lischi, Pisa 1955, pp. 529 sgg. (da cui

sono tratte le proposizioni che seguono nel testo).46. Cfr. V. ONIDA, La Costituzione, il Mulino, Bologna 2008 2.

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1. HUME, Trattato sulla natura umana cit., vol. II, libro III, sez. I, pp. 496-97.

2. Terminologia di G. E. MOORE, Principia Ethica (1903), Bompiani, Milano 1964, cap. I, §§ 6-7.

3. K. OLIVECRONA, Il diritto come fatto (1939), Giuffrè, Milano 1967.

4. Ad esempio, O. W. HOLMES, The Path of the Law, in ID., Collected Legal Papers (1897), Peter

Smith, New York 1920, pp. 166-202 (p. 173: «Le profezie di ciò che faranno i tribunali, e nulla dipiú pretenzioso, sono ciò che io intendo per diritto»). Sul tema, S. CASTIGNONE, C. FARALLI e M.

RIPOLI, Il diritto come profezia. I realisti americani: antologia di scritti, Giappichelli, Torino

2002.5. Cfr. E. EHRLICH, Gesetz und lebendes Recht, Duncker und Humblot, Berlin 1986.

6. Sulla distinzione, KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato cit., pp. 165-81.

7. M. CONETTI, Simbolicità del giuridico e realtà teonomica nelle Pensées di Pascal, in I simboli

religiosi tra diritto e cultura, a cura di E. Dieni, A. Ferrari e V. Pacillo, Giuffrè, Milano 2006, pp.59 sgg.

8. Le citazioni dai Pensieri di Pascal si riferiscono ai nn. 135, 119, 532, 454. Si vedano anche i nn.100 e 101: «È pericoloso dire al popolo che le leggi non sono giuste, poiché obbedisce a esse soloperché le crede giuste. Perciò bisogna dirgli in pari tempo che alle leggi bisogna obbedire inquanto tali, cosí come bisogna obbedire ai superiori non perché siano giusti ma perché sonosuperiori. In questo modo, ecco prevenuta ogni sedizione: basta farglielo intendere, e fargliintendere che quella è la definizione propria della giustizia». «La giurisdizione si stabilisce nonper chi la esercita ma per chi vi sottostà. È pericoloso dirlo al popolo. Ma il popolo ha troppafiducia in voi, ciò non gli nuocerà e può servirvi. Bisogna renderlo noto. Pasce oves meas, nontuas. Voi mi dovete la pastura».

9. MONTAIGNE, Essais, libro III, cap. XIII, De l’expérience cit., p. 1049. Su questo passo di

Montaigne, anche in raffronto con quelli di Pascal sopra ricordati, cfr. J. DERRIDA, Forza di legge.

Il “fondamento mistico dell’autorità” (1994), Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 60 sgg.10. Cfr. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico cit., pp. 103-26.

11. SCHMITT, Il problema della legalità cit., p. 286: «non si può dubitare che i tedeschi siano, in

grandissima misura, un popolo di impiegati con una disposizione assai accentuata verso lo Statoburocratico». Le stesse affermazioni troviamo in un memoriale redatto da Schmitt stesso nel 1947,a propria difesa per gli interrogatori cui fu sottoposto a Norimberga con l’accusa d’essere statouno dei piú importanti ideologhi del Terzo Reich: si veda ID., Risposte a Norimberga (2000), a

cura di H. Quaritsch, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 136 sgg.12. Cfr. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato cit., p. 61.

13. Sulla questione, da ultimo, AGAMBEN, Karman cit., cap. I, «La causa e la colpa», pp. 9-43.

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14. Cfr. E. P. SANDERS, San Paolo (1991), il Melangolo, Genova 1997, pp. 94 sgg.

15. Ibid., pp. 26-27.16. Cfr. C. SCHMITT, Über Schuld und Schuldarten. Eine terminologische Untersuchung, Schletter,

Breslau 1920, p. 19, il quale respinge questo punto di vista dando la priorità alla colpa rispetto allapena.

17. KELSEN, Teoria generale delle norme cit., p. 209.

18. ID., La dottrina pura del diritto cit., p. 133, che cita in nota l’autorità di Tommaso d’Aquino,

secondo cui «boni non sunt sub legge; sed solum mali».19. F. NEUMANN, The Rule of Law. Political Theory and the Legal System in Modern Society (1936),

Leamington, Berg 1986, p. 33.20. L. DUGUIT, Traité de droit constitutionnel, Fontemoing, Paris 1923, vol. II, p. 145.

21. ROUSSEAU, Du contrat social cit., vol. II, cap. VI.

22. Cfr. SCHMITT, Dottrina della Costituzione cit., p. 205.

23. MONTESQUIEU, Esprit des lois, IX, 6.

24. Alla luce della considerazione nel testo, si comprende l’importanza politica del tema dei dirittiquesiti e si comprende ch’esso sia stato messo a fuoco fin dal tempo dei primi movimentisocialisti, per esempio da quel tale Ferdinand Lassalle (Das System der erworbenen Rechte, F. A.Brockhaus, Leipzig 1861) che abbiamo già incontrato in precedenza.

25. R. DWORKIN, I diritti presi sul serio (1977), il Mulino, Bologna 1982, p. 93.

26. Dal linguaggio traspare questa consapevolezza, quando comunemente si parla di «interpretazionedei diritti» (e non d’interpretazione delle norme circa i diritti): si veda, per esempio, E.-W.

BÖCKENFÖRDE, Grundrechtstheorie und Grundrechtsinterpretation (1974), in ID., Staat,

Verfassung, Demokratie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991, pp. 115 sgg.27. P. HÄBERLE, Le libertà fondamentali nello Stato costituzionale (1973), Nuova Italia Scientifica,

Roma 1993.28. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Giuffrè, Milano 1971 2, p. 211.

29. HABERMAS, Fatti e norme cit., pp. 302 sgg.

30. Su questo tema, altamente istruttivo è stato il dibattito tra Norberto Bobbio e i suoi critici, aproposito del giudizio legittimante dato dal primo all’intervento armato degli Stati Unitid’America nella prima guerra del Golfo: N. BOBBIO, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo,

Marsilio, Venezia 1991.31. Cfr. D. ZOLO, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000.

32. «“Come trar partito dal delitto?” Si interrogava Nietzsche, da buon professore fedele al suometodo. “Quando i fini sono grandi”, scrisse per sua sventura Nietzsche, “l’umanità applica un

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altro criterio e non giudica piú il delitto come tale, anche se usasse i mezzi piú spaventosi”»: A.

CAMUS, L’uomo in rivolta (1951), in ID., Opere, a cura di R. Grenier, Bompiani, Milano 2000, p.

704.33. I riferimenti contenuti in questo capoverso sono a F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1887-1888,

in ID., Opere, vol. VIII, tomo II, Adelphi, Milano 1971, p. 247 (su cui le considerazioni circa la

«trasvalorizzazione di tutti i valori precedenti» che segna l’epoca del dominio della tecnica, ilnuovo valore assoluto, in M. HEIDEGGER, Holzwege. Sentieri erranti nella selva (1950),

Bompiani, Milano 2002, pp. 261 sgg.; E. FORSTHOFF, La trasformazione della legge

costituzionale (1959), in ID., Stato di diritto in trasformazione, Giuffrè, Milano 1973, pp. 197

sgg.; C. SCHMITT, La tirannia dei valori (1960), Morcelliana, Brescia 2008; HABERMAS, Fatti e

norme cit., pp. 302 sgg.).34. Cosí BOBBIO, Teoria generale della politica cit., pp. 139 sgg., a commento del commento alle

«due etiche» weberiane.35. DOSTOEVSKIJ, I demoni cit., p. 390.

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1. ERACLITO, Frammento n. 44, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, 2 voll., Laterza, Roma-

Bari 2004 8, col. I, p. 206.2. PLATONE, Politico, XXXIII, 294a-c. I passi platonici citati di seguito sono nella edizione di ID.,

Tutte le opere, a cura di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974.3. Questo è il tema principale dei libri II e III della Repubblica: P. FRIEDLÄNDER, Platone (1930),

Bompiani, Milano 2004, pp. 804 sgg.4. PLATONE, Leggi, XII, 962a-c, come specificazione, forse, dei «guardiani» della Repubblica di cui

si parla nel grande trattato omonimo (484b).5. Ibid., 968b-969c.6. Cfr. M. ISNARDI PARENTE, Platone, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 42 sgg.

7. J.-E. SIEYÈS, Convenzione nazionale. Opinione di Sièyes sulle attribuzioni e l’organizzazione del

Giurí costituzionale, proposta il 2 Termidoro [20 luglio 1795] pronunciata alla Convenzionenazionale il 18 [5 agosto] dello stesso mese l’anno III della Repubblica (1795), in ID., Opere e

testimonianze politiche, a cura di G. Troisi Spagnoli, Giuffrè, Milano 1993, vol. II, tomo I, pp.811-35.

8. HAMILTON, JAY e MADISON, Il federalista cit. La «dottrina» della Costituzione come norma

fondamentale e della giurisdizione come garanzia della sua prevalenza sulle altre manifestazionidel diritto è nel § 78.

9. Cfr. J. B. THAYER, The Origin and Scope of the American Doctrine of Constitutional Law, in ID.,

Legal Essays, The Boston Book Company, Boston Mass. 1908, pp. 1-39.10. Si trattava d’una questione cruciale nella Germania del primo dopoguerra, affetta da

un’inflazione galoppante che nullificava i crediti pagabili in marchi secondo il valore nominaleche avevano perso pressoché integralmente valore reale.

11. Un commento che valorizza l’importanza della decisione, in P. CRUZ VILLALÓN, La formación

del sistema europeo de control de constitucionalidad (1928-1939), Centro de EstudiosConstitucionales, Madrid 1987, pp. 89 sgg., e uno che la svaluta, in C. SCHMITT, Il custode della

costituzione, Giuffrè, Milano 1981, pp. 31 sgg.12. S. NAVOT, The Israeli Supreme Court, in A. JAKAB, A. DYEVRE e G. ITZCOVICH (a cura di),

Comparative Constitutional Reasoning, Cambridge University Press, Cambridge 2017, p. 472.13. A. BARAK, The Judge in a Democracy, Princeton University Press, Princeton 2006, p. 20. Sulla

decisione citata nel testo, Y. RABIN e A. GUTFEL, Marbury v. Madison and its impact on Israeli

Constitutional Law, in «University of Miami International and Comparative Law Review», XVI(2007), n. 1, pp. 303 sgg., e T. GROPPI, La Corte suprema di Israele: la legittimazione della

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giustizia costituzionale in una democrazia conflittuale, in «Giurisprudenza costituzionale», 2000,pp. 3543 sgg.

14. SCHMITT, Legalità e legittimità cit.

15. Ad esempio, M. HAURIOU, Principes de droit public, Sirey, Paris 1916 2, pp. 799 sgg.

16. Questo è l’argomento-principe di ogni assolutismo giuridico, che Blaise Pascal (Pensées, n. 100,già citato supra) esprime cosí: «È pericoloso dire al popolo che le leggi non sono giuste, poichéobbedisce a esse solo perché le crede giuste. Perciò bisogna dirgli in pari tempo che alle leggibisogna obbedire in quanto tali» (si veda anche n. 454; ibid., p. 353).

17. La decisione del Tribunale costituzionale federale tedesco si trova in BVerfGE, n. 1 (1951), pp.184 sgg. L’acronimo significa «Decisioni del Tribunale costituzionale federale».

18. Lo scritto da ricordare per primo è di H. KELSEN, La garanzia costituzionale della costituzione

(La giustizia costituzionale) (1928), in ID., La giustizia costituzionale cit., pp. 143 sgg., che

costituisce la rielaborazione della relazione tenuta dallo stesso autore – dal titolo Wesen undEntwicklung der Staatsgerichtsbarkeit – ai lavori delle giornate del 23 e 24 aprile 1928dell’Associazione degli «Staatsrechtslehrer» tedeschi (in Wesen und Entwicklung derStaatsgerichtsbarkeit. Veröffentlichungen der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer, W.de Gruyter, Berlin-Leipzig 1929). Sulle tesi esposte in questi lavori intervenne Carl Schmitt con ilsaggio Der Hüter der Verfassung, in «Archiv des öffentlichen Rechts», XVI (1929), pp. 161 sgg.,successivamente rimaneggiato e ampliato nel volume dallo stesso titolo, Duncker & Humblot,Berlin 1931. Alla stroncatura di Schmitt replicò Kelsen con una controstroncatura dal titolo Wersoll der Hüter der Verfassung sein?, in «Die Justiz», VI (1930-31), n. 11-12, pp. 576 sgg. (i lavoricitati sono pubblicati, rispettivamente, in KELSEN, La giustizia costituzionale cit., pp. 143 sgg. e

229 sgg., e in SCHMITT, Il custode della costituzione cit.; i riferimenti che seguono riguardano

queste versioni italiane).19. Ibid., p. 72.20. Cfr. ibid., p. 62.21. Cfr. ibid., p. 74.22. Ibid., pp. 63-64.23. L’espressione citata è di François Guizot (Giustizia e politica (1846), a cura di A. Repaci, 2 voll.,

Chiantore, Torino 1945, vol. I, pp. 73 sgg.), il quale la espresse con riguardo alla politicizzazionedel giudice penale quando lo si chiama a giudicare i reati politici.

24. KELSEN, La giustizia costituzionale cit., pp. 239 e 174 sgg.

25. Ibid., p. 250.26. Ibid., p. 245.27. Ibid., p. 173.

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28. «Esaminare qui i motivi politici dai quali è scaturita l’intera dottrina della separazione dei poterici condurrebbe troppo lontano»: cosí si dice per evitare uno scoglio, cioè il confronto conun’antica, anzi antichissima dottrina che viene riduttivamente collocata in una fase particolaredella lotta per il predominio nella dualistica monarchia costituzionale (ibid., p. 173).

29. SCHMITT, Il custode della costituzione cit., p. 99.

30. Su questa «rarefazione» teorica della sovranità, come attributo non piú di un soggetto storico o diun organo costituzionale, ma di un sistema di norme, Kelsen ha insistito innumerevoli volte: siveda per esempio Teoria generale del diritto e dello Stato cit., pp. 389 sgg.

31. Si veda C. SCHMITT, Introduzione a SMEND, Costituzione e diritto costituzionale cit.

32. SCHMITT, Il custode della costituzione cit., p. 56.

33. «Il presidente del Reich può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e dellasicurezza pubblica, quando essi siano seriamente turbati o minacciati, e, se necessario, puòintervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere, in tutto o in parte, l’efficacia deidiritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114 [libertà personale], 115 [inviolabilitàdell’abitazione], 117 [riservatezza delle comunicazioni], 118 [libertà di manifestazione delpensiero e di stampa], 123 [libertà di riunione], 124 [libertà di associazione] e 153 [diritto diproprietà]».

34. KELSEN, La giustizia costituzionale cit., p. 288.

35. Ibid.36. Ibid., p. 201.37. Ibid., p. 286.38. Cfr. J. HABERMAS e C. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli,

Milano 1999.39. Questi concetti si devono a POPPER, La società aperta e i suoi nemici cit. L’epoca di questo testo

classico del pensiero politico è quella della sconfitta dei totalitarismi che avevano assuntol’identità razziale e nazionale come carattere costituzionale dominante.

40. Cfr. G. BRANCA, Relazione di sintesi, in N. OCCHIOCUPO (a cura di), La Corte costituzionale tra

norma giuridica e realtà sociale, il Mulino, Bologna 1978, p. 463.41. Il «doppio lato del diritto» è il filo conduttore di G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, il

Mulino, Bologna 2008.42. MONTAIGNE, Essais cit., libro I, cap. XXIII: «le leggi della coscienza che diciamo nascere dalla

natura, nascono invece dai costumi; poiché ciascuno di noi tiene in gran conto le opinioni e leabitudini approvate e ricevute nel suo ambiente, non se ne può allontanare senza rimorso e,quando le applica, viene applaudito».

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43. Cfr. N. BOBBIO, Introduzione alla filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1948, p. 197; ID.,

Prefazione a C. PERELMAN, La giustizia (1944), Giappichelli, Torino 1991, pp. 5-11; A. ROSS,

Diritto e giustizia, Einaudi, Torino 2001, p. 260; H. A. HART, Il concetto di diritto (1961), Einaudi,

Torino 2002, pp. 187 sgg.; H. KELSEN, Il problema della giustizia (1960), a cura di M. G. Losano,

Einaudi, Torino 1975; ID., Che cos’è la giustizia?, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 125 sgg.

44. Dissói Lógoi, in M. UNTERSTEINER (a cura di), Trasimaco, Ippia, Anonymus Iamblichi, Dissoi

logoi, Anonymus peri nomon, Anonymus peri moysikes, La Nuova Italia, Firenze 1954, p. 569.45. R. ALEXY, Concetto e validità del diritto (1992), Einaudi, Torino 1997, pp. 34 sgg.; HABERMAS,

Fatti e norme cit., pp. 129-30 e 388; R. DREIER, Neues Naturrecht oder Rechtspositivismus?, in

«Rechtstheorie», XVIII (1987), n. 2, pp. 368-69. Una ricapitolazione dei termini della questione,in M. BARBERIS, Filosofia del diritto. Un’introduzione teorica, Giappichelli, Torino 2008 3, pp. 1-

49 e 255-60. I temi accennati nel testo si presentano oggi soprattutto come commento dellacosiddetta «formula di Radbruch», secondo la quale nella definizione del diritto non rientral’esigenza della coincidenza tra legge posta e giustizia presupposta, ma l’esigenza minima che lalegge non risulti «intollerabilmente ingiusta». Al riguardo, si veda R. ALEXY, A Defence of

Radbruch’s Formula, in D. DYZENHAUS (a cura di), Recrafting the Rule of Law. The Limits of

Legal Order, Hart Publishing, Oxford-Portland Ore. 1999, pp. 15 sgg., e, nella nostra letteraturarecente, G. VASSALLI, Formula di Radbruch e diritto penale. Note sulla punizione dei delitti di

Stato nella Germania postnazista e nella Germania postcomunista, Giuffrè, Milano 2001.46. ARISTOTELE, Etica nicomachea, 1137b, 30.

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1. Su disposizione e norma, V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Cedam, Padova 1984 5,

vol. II, pp. 39 sgg., cui si deve la distinzione terminologica.2. Citazione con piccola variante da R. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, in

Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni e P.Schlesinger, Giuffrè, Milano 2004, pp. 3-4.

3. Questa idea, che i positivismi contemporanei considerano ingenua perché improntata adantropomorfismi e psicologismi, ma si scorge ancora facilmente, al di là della scorza, al fondodelle loro concezioni, risale a AUSTIN, Delimitazione del campo della giurisprudenza cit., p. 81.

4. KELSEN, La dottrina pura del diritto cit.

5. HART, Il concetto di diritto cit.

6. Cfr. P. GROSSI, Oltre le mitologie giuridiche della modernità, in ID., Mitologie giuridiche della

modernità, Giuffrè, Milano 2001, pp. 74-75: «La norma giuridica è quella astrattamenteconfezionata dal legislatore. È certo che segue il momento della sua applicazione, cioè della vitadella norma a contatto con la vita degli utenti, ma senza dare alcun apporto a una realtà che nascee resta compatta e rigida, impermeabile alla storia […] questa mentalità è tipicamente illuminista,e non è soltanto peculiare agli entusiasti uomini del secolo XIX cosí impregnati di positivismo

giuridico; è calata […] nel profondo dell’animo del giurista europeo continentale e, malgradotutto, malgrado tutto quel che è avvenuto a livello esperienziale e scientifico durante il corso delfertilissimo Novecento, vi rimane intatta investendo sicuramente il suo subconscio ma trovandoanche una compiaciuta accettazione da parte della sua opaca autocoscienza».

7. In proposito, ROSS, Diritto e giustizia cit., p. 146.

8. É. BENVÉNISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee (1969), vol. I, Economia, parentela,

società, Einaudi, Torino 1976, pp. 149 sgg.9. A. WALDE, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, vol. I, Carl Winter, Heidelberg 1965 4, pp.

710 sgg., e A. ERNOUT e A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des

mots, Librairie C. Klincksieck, Paris 1951 3, pp. 571-572, con svariate ipotesi ricostruttive, alcunelegate all’attività materiale di intermediazione d’affari, altre all’intelligenza del pensiero e dellavolontà altrui.

10. Citato da G. BUSI, Introduzione a Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo

dal III al XVIII secolo, a cura di G. Busi e E. Loewenthal, Einaudi, Torino 1995, p. XXXV.

11. Cfr. J. L. AUSTIN, Come fare cose con le parole (1962), Marietti, Genova 1987.

12. Cfr. E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, 2 voll., Giuffrè, Milano 1955.

13. B. CROCE, Teoria e storia della storiografia (1916), Adelphi, Milano 1989, p. 14; «è evidente che

solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato; il quale, dunque,

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in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, mapresente. Il che anche è detto e ridetto in cento modi nelle formole empiriche degli storici, ecostituisce, se non il contenuto profondo, la ragione della fortuna del motto assai trito: che lastoria sia magistra vitae. [… codeste formole tolgono] aspetto di paradosso alla proposizione: che“ogni vera storia è storia contemporanea”». Si veda anche ID., La storia come pensiero e come

azione (1938), Laterza, Bari 1938, p. 5: «Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudiziostorico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea” perché, per remoti oremotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempreriferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale i fatti propagano le loro vibrazioni».

14. Cfr. H. ROLAND e L. BOYER, Adages du droit français, Litec, Paris 1999 4, pp. 135-38.

15. Cfr. G. ZACCARIA, Complessità della ragione giuridica, in «Ragion pratica», n. 1 (1994), p. 9, ora

in ID., Questioni di interpretazione, Cedam, Padova 1996, p. 15, citando K. GÜNTHER, Der Sinn

für Angemessenheit. Anwendungsdiskurse in Moral und Recht, Suhrkamp, Frankfurt am Main1988, pp. 311 sgg.: «poiché ogni applicazione delle norme non può che muovere da undeterminato contesto, ossia da una situazione concreta e da un ambito di vita comune nel quale lesingole azioni individuali possiedono e precisano un loro significato, occorrerà […] chel’interprete tenga davvero conto, in modo preciso, di tutti gli aspetti rilevanti che connotano quellasituazione […]: e questa valutazione si porrà come preliminare rispetto alla decisione circa lanorma o le norme che debbano applicarsi ad un caso determinato».

16. Cfr. N. LUHMANN, Sistema giuridico e dogmatica giuridica (1974), il Mulino, Bologna 1978, p.

48, e F. MÜLLER, Richterrecht. Elemente einer Verfassungstheorie, Duncker & Humblot, Berlin

1986, pp. 46 sgg., a proposito sia dell’illusione di una lex ante casum, sia del concetto di«concretizzazione» del diritto, in termini analoghi a quelli del testo.

17. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi cit., p. 83, nota 16. Si veda, a p. 281, nota

34, una riduzione delle tesi qui esposte e una critica. Tale critica e la «critica della critica» possonocostituire un utile esercizio di apprendimento.

18. S. SATTA, Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994, p. 58.

19. In argomento, N. BOBBIO, Scienza e tecnica del diritto, Giappichelli, Torino 1934, p. 35; ID.,

Teoria della scienza giuridica, Giappichelli, Torino 1950, pp. 117-18, ove si discutono le posizionidi G. RADBRUCH, Rechtsphilosophie, Quelle u. Meyer, Leipzig 1932 3, pp. 119 sgg., e di S.

PUGLIATTI, La giurisprudenza come scienza pratica, in «Rivista italiana di scienze giuridiche», IV

(1950), pp. 49 sgg. Nello scritto da ultimo ricordato, si distingue la scienza del diritto, rivolta allaconoscenza dello stesso come tale, indipendentemente dalle esigenze applicative, dalla tecnica deldiritto, rivolta all’applicazione dei risultati della conoscenza scientifica. Il che equivale alla

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proposizione della separazione tra scienza del diritto e giurisprudenza, contro la quale BOBBIO,

Teoria della scienza giuridica cit., pp. 57 sgg.20. Cfr. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (1937), Giuffrè, Milano 1962, p. 32. In

proposito, si veda L. MENGONI, Attualità di Giuseppe Capograssi, in «Europa e diritto privato», n.

4 (2000), pp. 1017 sgg., e P. PIOVANI, Prefazione a CAPOGRASSI, Il problema della scienza del

diritto cit.21. G. CAPOGRASSI, Prefazione a F. LÓPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto (1942), Giuffrè, Milano

1968, p. 13.22. Secondo l’espressione di Rodolfo Sacco, in L’interpretazione, in Trattato di Diritto civile, diretto

da R. Sacco, Le fonti del diritto italiano, vol. II, Le fonti non scritte e l’interpretazione, Utet,Torino 1999, p. 166.

23. L. FEUERBACH, L’essenza del Cristianesimo (1841), Feltrinelli, Milano 1962 (non è Dio che ha

creato l’essere umano, ma l’essere umano che ha creato Dio; la teologia è antropologia; l’essenzadella religione è l’essenza dell’umano); ID., L’essenza della religione (1845), Einaudi, Torino

1972 (la religione ha base nella natura; l’essere umano ha necessità fisiologica di oggettivarla inun ente distinto, che chiama Dio).

24. Cfr. P. GROSSI, Codici: qualche conclusione tra un millenio e l’altro, in ID., Mitologie giuridiche

della modernità cit., pp. 111-12: «La legolatria illuministica immobilizza il diritto nel momentodella produzione; il procedimento produttivo si esaurisce con la rivelazione (è il caso di insisteresu questo termine teologico) di una suprema volontà, restando ad esso estraneo il momentointerpretativo-applicativo […]. Il procedimento di normazione si risolve nel momento in cui lanorma viene prodotta; si risolve e si esaurisce. Il resto conta poco, perché la norma giuridica èquella astrattamente confezionata dal legislatore. È certo che segue il momento della suaapplicazione, cioè della vita della norma a contatto con la vita degli utenti, ma senza dare alcunapporto a una realtà che nasce e resta compatta e rigida, impermeabile alla storia […]. Questamentalità è tipicamente illuministica, e non è soltanto peculiare agli entusiasti uomini del secoloXIX cosí impregnati di positivismo giuridico; è calata – confessiamolo pure – nel profondo

dell’animo del giurista europeo continentale e, malgrado tutto quel che è avvenuto a livelloesperienziale e scientifico durante il corso del fertilissimo Novecento, vi rimane intatta investendosicuramente il suo subconscio ma trovando anche una compiaciuta accettazione da parte della suaopaca coscienza […]. All’idea di Codice, ossia a una geometria di regole astratte semplici, lineari,è concettualmente estranea la possibilità di una incidenza del momento applicativo. L’ideologiagiuridica post-illuministica è profondamente turbata dalla visione di una norma che vive oltre lasua produzione ed elasticamente si modifica a seconda del percorso, che – insomma –continuamente si produce ricevendo i messaggi dei diversi terreni storici su cui si adagia».

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25. GROSSI, Oltre le mitologie giuridiche della modernità cit., p. 74.

26. Il concetto di «circolo interpretativo» si trova espresso in vario modo, anche al di fuori dellateoria del «circolo ermeneutico», cui si fa riferimento con le indicazioni bibliografiche della notasuccessiva. Karl Engisch (Logische Studien zur Gesetzanwendung, Winter, Heidelberg 1963 3, p.15) parla di continua interazione, di andare e venire dello sguardo dalla premessa maggiore alfatto e viceversa; Karl Larenz (Methodenlehre der Rechtswissenschaft, Springer, Berlin 1975 3, p.189) mette in luce il rapporto dialettico tra norma astratta e decisione concreta; Arthur Kaufmann(Analogie und Natur der Sache, Decker & Müller, Karlsruhe 1965, p. 32) parla di unWiedererkennen della norma nel fatto e, viceversa, di un ininterrotto «tastare all’indietro»(hinübertasten) dal campo dell’essere in quello del dover essere e viceversa. Per queste e altreindicazioni, L. DE RUGGIERO, Sul concetto di precomprensione, in «Politica del diritto», n. 4

(1984), p. 580.27. KELSEN, Il problema della giustizia cit., pp. 86-87.

28. Cfr. V. M. KRIELE, Diritto e ragione pratica (1979), a cura di V. Omaggio, Editoriale Scientifica,

Napoli 2006.29. M. WEBER, Il metodo delle scienze storico-sociali (1922), a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino

1958.30. II contesto di queste osservazioni è quello dell’interpretazione giuridica come ermeneutica.

Alcuni riferimenti, oltre che a H.-G. GADAMER, Verità e metodo (1965), a cura di G. Vattimo,

Bompiani, Milano 1972, sono a J. ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di

individuazione del diritto (1972), Esi, Napoli 1983; H. ROTTLEUTHNER, Richterliches Handeln.

Zur Kritik der juristischen Dogmatik, Athenäum Verlag, Frankfurt am Main 1973; F. MÜLLER,

Juristiche Methodik, Duncker & Humblot, Berlin 1971 2; ID., Juristische Methodik und politisches

System. Elemente einer Verfassungstheorie, Duncker & Humblot, Berlin 1976. Nella dottrinaitaliana, cfr. L. MENGONI, Problema e sistema nelle controversie sul metodo giuridico (1976), La

polemica di Betti con Gadamer (1978), Ancora sul metodo giuridico (1983), raccolti ora in ID.,

Diritto e valori, il Mulino, Bologna 1985; ID., Interpretazione e nuova dogmatica. L’autorità della

dottrina, in «Jus», n. 3 (1985), pp. 469 sgg.; L. DE RUGGIERO, Tra consenso e ideologia. Studio di

ermeneutica giuridica, Jovene, Napoli 1977; ID., Sul concetto di precompressione cit., pp. 577

sgg.; G. ZACCARIA, Ermeneutica e giurisprudenza, 2 voll., Giuffrè, Milano 1984.

31. MENGONI, Interpretazione e nuova dogmatica cit., p. 480.

32. Al riguardo, GADAMER, Verità e metodo cit., p. 63.

33. Ibid.

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34. Cfr. ZACCARIA, Complessità della ragione giuridica cit., p. 15: «Poiché ogni applicazione delle

norme non può che muovere da un determinato contesto, ossia da una situazione concreta e da unambito di vita comune nel quale le singole azioni individuali possiedono e precisano un lorosignificato, occorrerà anche che l’interprete tenga davvero conto, in modo preciso, di tutti gliaspetti rilevanti che connotano quella situazione e quella comunanza di discorsi: e questavalutazione si porrà come preliminare rispetto alla decisione circa la norma o le norme chedebbano applicarsi ad un caso determinato».

35. S. NATOLI, La logica delle azioni. Senso, regole, valori, in «Filosofia politica», n. 2 (1991), pp.

399 sgg.36. Una discussione sulle conseguenze giuridiche di questo «conflitto di senso», in relazione a un

caso concreto (il «caso Serena»), in G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1999, pp.

192 sgg.37. Si veda Tribunale di Rimini, 16 febbraio 1985 (in «Il Foro Italiano», 1985, parte II, pp. 431 sgg.)

e Corte d’appello di Bologna, 28 novembre 1987 (ivi, 1988, parte II, pp. 588 sgg.).38. Questa è l’affermazione contenuta in Consiglio di Stato, sez. VI, 13 febbraio 2006, n. 556, in

«Quaderni di Diritto e Politica ecclesiastica», n. 3 (2006), pp. 776 sgg. Si veda altresí Tar Veneto,III sezione, 17 marzo 2005, n. 1110, in V. BARSOTTI e N. FIORITA, Separatismo e laicità,

Giappichelli, Torino 2008, pp. 123 sgg.39. Cosí la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Lautsi contro Italia deciso nel marzo 2011, su

cui Palmina Tanzarella e John Witte jr, in M. CARTABIA (a cura di), Dieci casi sui diritti in Europa,

il Mulino, Bologna 2011, pp. 81-108.40. Cfr. R. GUASTINI, Problemi di analisi logica della motivazione, in «Contratto e impresa», n. 1

(1986), pp. 122 sgg.41. L.. BORGES, Tre versioni di Giuda (1944), da ID., Finzioni, in ID., Tutte le opere, a cura di D.

Porzio, Mondadori, Milano 1984, vol. I, p. 784.42. La cultura è dunque un fenomeno sociale, non solo nel senso tradizionale della sociologia della

cultura, che studia le radici e le cause sociali dei fenomeni culturali (la cultura – arte, religione,politica, economia, diritto, scienze in generale – come prodotto sociale), ma anche nel senso dellasociologia culturale, cioè della scienza che studia la società come conseguenza delle sue strutturedi senso e di valore (la società come prodotto culturale). Una voce influente della «sociologiaculturale» è Jeffrey C. Alexander, di cui si vedano Teoria sociologica e mutamento sociale,Angeli, Milano 1990; I paradossi della società civile, in «Rassegna italiana di sociologia»,XXXVI (1995), n. 3, pp. 319 sgg., e il capitolo dal titolo «Il compito di una sociologia culturale»,in ID., La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre, il Mulino, Bologna 2006, pp. 19

sgg.

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43. ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto cit., p.

140.44. Cfr. ibid.45. Ibid., p. 171.

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1. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution cit., p. 5.

2. Sull’argomento, G. ZANETTI, I limiti del diritto. Aspetti del dibattito contemporaneo, in I limiti del

diritto, numero speciale di «Rivista di filosofia del diritto», 2017, pp. 25-40.3. Cosí F. RIGAUX, La loi des juges, Odile Jacob, Paris 1977, p. 7.

4. ARISTOTELE, Politica, 1253a.

5. M. LIVI BACCI, Il pianeta stretto, il Mulino, Bologna 2015.

6. POPPER, La società aperta e i suoi nemici cit.

7. F. J. TURNER, La frontiera nella storia americana (1893), il Mulino, Bologna 1975, pp. 31-69.

8. M. MURGIA, Accabadora, Einaudi, Torino 2009.

9. Cfr. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto cit., §§ 158-81.

10. A. C. JEMOLO, La famiglia e il diritto (1948), in ID., Pagine sparse di diritto e storiografia,

Giuffrè, Milano 1957, p. 241.11. MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia cit., p. XI, che menziona anche la versione culta,

risalente a Solone, secondo il racconto di Diogene Laerzio: «Le leggi sono simili alle ragnatele: sevi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è piú pesante, le strappa e se neva».

12. CICERONE, Pro Cluentio, 146.

13. F. CORDERO, Gli osservanti, Giuffrè, Milano 1967.

14. Cfr. A. HONNETH, Il diritto della libertà. Lineamenti per un’eticità democratica (2011), Codice,

Torino 2015, pp. 112 sgg.15. KELSEN, La dottrina pura del diritto cit., p. 197; mio il corsivo.

16. A. FALZEA, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Giuffrè, Milano 1939, p. 60.

17. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano 2007 4, p. 17.

18. Su cui B. CAVALLONE, La borsa di Miss Flite. Storie e immagini del processo, Adelphi, Milano

2016, pp. 39 sgg.19. Cfr. E. GRANDE, L’”ingiustizia riparativa” nel nome di Nils Christie. Rischi e pericoli di una

composizione privata del conflitto, in «Antigone», n. 2 (2015), pp. 31 sgg., con una riccabibliografia.

20. Cfr. P. BOVATI, Ristabilire la giustizia, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1986; ID., Vie della

giustizia secondo la Bibbia. Sistema giudiziario e procedure per la riconciliazione, Edb, Bologna2014.

21. D. TUTU, Non c’è futuro senza perdono (1999), Feltrinelli, Milano 2001.

22. Sulla giustizia nelle transizioni politiche, J. ELSTER, Chiudere i conti (2004), il Mulino, Bologna

2008, in particolare pp. 166 sgg.; sulle Commissioni per la verità e la riconciliazione, R. A.

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WILSON, The Politics of Truth and Reconciliation in South Africa. Legitimizing the Post-Apartheid

State, Cambridge University Press, Cambridge 2001, p. 11; M. FLORES (a cura di), Verità senza

vendetta. L’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione,Manifestolibri, Roma 1999; G. ILLUMINATI, L. STORTONI e M. VIRGILIO (a cura di), Crimini

internazionali tra diritto e giustizia. Dai Tribunali internazionali alle Commissioni Verità eRiconciliazione, Giappichelli, Torino 2000; G. MANNOZZI e G. A. LODIGIANI (a cura di), Giustizia

riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, il Mulino, Bologna 2015.23. ARENDT, La banalità del male cit., pp. 60-61.

24. Cfr. G. ZAGREBELSKY, Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere, Einaudi, Torino

2015.25. Ora in DON MILANI, Tutte le opere, Mondadori, Milano 2017, tomo I, pp. 929-961, a commento

dei quali (pp. 963 sgg.) si danno le informazioni necessarie circa le discussioni e le polemiche chealimentarono il dibattito.

26. Ibid., p. 952.27. J. LOCKE, Secondo trattato sul governo, § 21.

28. Sulla problematica definizione dei confini della nozione di genocidio, che solo a prima vistaappare non problematica, BRUNETEAU, Le siècle des génocides cit., pp. 5-22, e P. P. PORTINARO,

L’imperativo di uccidere. Genocidio e democidio nella storia, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 15sgg.

29. Sul ruolo svolto da due protagonisti della vicenda, Hersch Lauterpacht e Raphael Lemkin, si vedaPH. SANDS, La strada verso l’Est (2016), Guanda, Milano 2017.

30. A questo tema, la Global Justice, è dedicato il n. 1 del 2017 della «Rivista di filosofia del diritto -Journal of Legal Philosophy».

31. ARENDT, La banalità del male cit., pp. 283-84.

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1. P. CALAMANDREI, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Le Monnier, Firenze 1989: un libro

che farebbe sorridere chi lo leggesse oggi.2. S. CASSESE, La democrazia e i suoi limiti, Mondadori, Milano 2017, p. 29.

3. La justice de Daumier à nos jours, diretto da N. Lenoir, Somogy, Paris 1999.4. Cfr. D. TROISI, Diario di un giudice, Einaudi, Torino 1962.

5. Cfr. PLATONE, Leggi, 943e.

6. Ad esempio, P. CALAMANDREI, Fede nel diritto, Laterza, Roma-Bari 2008 (testo d’una conferenza

tenuta in pieno regime fascista, nel 1940: testimonianza d’una fede davvero a prova di bomba).7. Ad esempio, M. BERRI, Fede nella giustizia, Giuffrè, Milano 1984.

8. Cfr. A. PROSPERI, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Einaudi, Torino 2009.

9. «Omnis, qui iuste iudicat, stateram in manu gestat; in utroque penso iusticiam et misericordiamportat; sed per iusticiam reddit peccatis sententiam, per misericordiam peccati temperat penam, utiusto libramine quedam per equitatem corrigat, quedam uero per miserationem indulgeat».

10. Il resoconto è in G. LENOTRE, Le Tribunal révolutionnaire, Perrin, Paris 1947, p. 52. Un

commento è in SATTA, Il mistero del processo cit., pp. 11 sgg.

11. Ad esempio, M. STOLLEIS, Das Auge des Gesetzes. Geschichte einer Metapher, Beck, München

2008; M. SBRICCOLI, La benda della giustizia. Iconografia, diritto e leggi penali dal medioevo

all’età moderna, in Ordo iuris cit., pp. 43-95.12. E. L. MASTERS, Antologia di Spoon River (1915), Einaudi, Torino 1971, p. 76.

13. Ibid., p. 128.14. Cfr. SBRICCOLI, La benda della giustizia cit., pp. 92 sgg.

15. PROSPERI, Giustizia bendata cit.

16. ID., Delitto e perdono cit., p. 343.

17. W. SHAKESPEARE, Romeo e Giulietta, Atto I, IV, 72.

18. WEBER, La politica come professione cit., p. 74.

19. F. RABELAIS, Gargantua e Pantagruele (1532-64), Einaudi, Torino 2004, p. 452.

20. Cfr. C. MAGRIS, Ragioni della legge – Ragioni del cuore, in «Corriere della Sera», 13 maggio

2002.21. Cfr. A. MARTINEAU, La farce de Maistre Bridoye, cahierscelec.ish-

lyon.cnrs.fr/sites/.../Anne%20Martineau.pdf; V. MARINELLI, I dadi del giudice Bridoye, in

«Materiali per una storia della cultura giuridica», n. 2 (2002), pp. 529-32; CAVALLONE, La borsa

di Miss Flite cit., pp. 170 sgg.22. Su questo tema e su altri connessi, c’è stato l’inizio di un difficile confronto tra chi qui scrive (I

costituzionalisti, in «Giurisprudenza costituzionale», LVI (2011), n. 4, pp. 3291 sgg.; La brutta

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figura di noi giuristi sullo scandalo dei vitalizi, in «la Repubblica», 15 aprile 2015), e chi harisposto vehementer (M. LUCIANI, Le salmerie della scienza giuridica, in «Rivista AIC», 15

maggio 2015).23. Cfr. SATTA, Il mistero del processo cit.

24. Cosí P. CALAMANDREI, Il processo come giuoco, in «Rivista di diritto processuale», I (1950), pp.

23-51. Da allora questa formula è stata ripetuta pedissequamente innumerevoli volte.25. Cfr. A. B. YEHOSHUA, Il potere terribile di una piccola colpa. Etica e letteratura, Einaudi, Torino

2000, pp. XIII-XIV.

26. Cfr. B. RÜTHERS, Entartetes Recht. Rechtslehren und Kronjuristen im Dritten Reich, Beck,

München 1988; U.-K. HEYE, I Benjamin. Una famiglia tedesca (2014), Sellerio, Palermo 2015, p.

207. Sulla parallela vicenda del mondo dei giuristi in Italia, mancano studi.27. G. CALABRESI, Il mestiere di giudice, il Mulino, Bologna 2016.

28. ID., Scelte tragiche, Giuffrè, Milano 2006.

29. S. FRIEDLÄNDER, L’ambiguità del bene. Il caso del nazista pentito Kurt Gerstein (1967), Bruno

Mondadori, Milano 2002, pp. 44-45.30. Cfr. M. RIZZI, Cesare e Dio. Potere spirituale e potere secolare in Occidente, il Mulino, Bologna

2009, pp. 7 sgg.

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1. L. L. FULLER, The Case of the Speluncean Explorers, in «Harvard Law Review», LXII (1949), n. 4,

pp. 616-45.2. P. SUBER, The Case of the Speluncean Explorers. Nine New Opinions, Routlegde, London 2002.

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D

Il libro

IRITTO ALLO SPECCHIO È UNA RIFLESSIONE SUL DIRITTO CHE, PER CHIAREZZA E

profondità, si volge a un ampio pubblico. Nato dalle lezioni tenutedall’autore presso l’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, il

libro già dal titolo segnala il suo intento: chiarire la natura del diritto attraverso i tantiproblemi in cui s’imbatte chiunque, per qualsiasi ragione, entra nel mondo giuridico,incontrandone molteplici e spesso confliggenti concezioni. Tra queste, non solo ilgiurista di professione ma anche il singolo cittadino consapevole deve destreggiarsi.Che cos’è il diritto? Come si cerca di definirlo? Che cosa sono il diritto naturale, ildiritto sociale, la legge? In che modo si interpreta e si applica la legge? Che cosasono le istituzioni e perché ci si affida a loro e con quali vantaggi e pericoli? Checosa è lo Stato, lo Stato di diritto e lo Stato costituzionale? Quale posto occupa lagiustizia nel diritto?

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L’autore

GUSTAVO ZAGREBELSKY è professore emerito di diritto costituzionale

all’Università di Torino. Ha pubblicato presso Einaudi Il diritto mite (1992), Il«crucifige!» e la democrazia (1995 e 2007), La domanda di giustizia, insieme conCarlo Maria Martini (2003), Principî e voti (2005), Imparare democrazia (ultimaedizione 2016), Intorno alla legge (2009), Sulla lingua del tempo presente (2010),Giuda (2011), Simboli al potere (2012), Fondata sul lavoro (2013), Fondata sullacultura (2014), Liberi servi (2015), Senza adulti (2016) e Diritti per forza (2017).

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Dello stesso autore

Il diritto miteIl «Crucifige!» e la democrazia

La domanda di giustizia (con Carlo Maria Martini)Principî e voti

Imparare democraziaIntorno alla legge

Sulla lingua del tempo presenteGiuda

Simboli al potereFondata sul lavoro

Fondata sulla culturaLiberi serviSenza adulti

Diritti per forza

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