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16 EMERGENCY n. 32 • settembre 2004 2001 un conflitto su quattro aveva tra le sue motivazioni il controllo di importanti risorse naturali: una situazione paradossale nella quale le popolazioni di paesi ricchissimi vivono di stenti, e muoiono, a causa di guerre, fame, carestie. Guerra-controllo delle risor- se-guerra: il funzionamento di un circolo vizioso Da circa una decina d’anni, diverse organizzazioni e istituzioni interna- L a ricchezza non porta feli- cità e il detto non è mai stato tanto vero quanto per milioni di persone che scontano sulla propria pelle, finché riescono a salvarla, la maledizione di essere nate in un paese ricco di risorse naturali. Già, perché sul mappamon- do la distribuzione delle guerre coincide con la distribuzione delle risorse naturali. Il World Watch Institute di Washington ha calcolato che nel DIRITTI UMANI IL BOTTINO La mappa dei conflitti interni e quella della distribuzione delle ricchezze naturali sono quasi perfettamente sovrapponibili. Il ruolo dei gruppi di ribelli, dei governi nazionali e di alcuni paesi terzi. DAL LEGNO AI DIAMANTI IN CERCA DI TRASPARENZA Sul legame tra lo sfruttamento di risorse natu- rali e la presenza di conflitti armati sono stila- te numerose analisi volte a stabilire ruoli, responsabilità e possibili vie di uscita. Global Witness è un’organizzazione non governativa con sede a Londra e uffici in Africa e in Asia nata proprio per indagare e denunciare i legami esistenti tra risorse natu- rali, finanziamento di guerre e corruzione. Nata nel 1993, una delle sue prime campagne ha riguardato lo sfruttamento del legname in Cambogia da parte dei Khmer rossi e delle forze governative; sempre sul fronte del legname è di maggio di quest’anno l’ultimo rapporto sul futuro delle foreste liberiane, reso problematico da uno sconsiderato sfrut- tamento durante gli anni di guerra civile. Un altro importante fronte tuttora sotto osser- vazione è l’estrazione e l’esportazione di dia- manti. Il loro traffico si intreccia con almeno quattro conflitti africani. In Angola, devastata da oltre un quarto di secolo di guerra civile, il gruppo ribelle Unita controllava il 60-70 per cento della produzione di diamanti del paese; nella Repubblica demo- cratica del Congo, nonostante l’ufficiale “con- clusione” dell’ultimo conflitto, i gruppi ribelli sostenuti dalle nazioni vicine sono ancora in lotta per il controllo delle aree settentrionali ricche di diamanti; in Sierra Leone, il Fronte rivoluzionario unito (Ruf) ha estratto diamanti per un valore annuo stimato tra i 25 e i 125 milioni di dollari; infine in Liberia, dove il fron- zionali stanno studiando i possibili legami tra la presenza di conflitti o di gravi violazioni dei diritti umani e la distribuzione delle risorse naturali. La Banca Mondiale ha recente- mente formulato la teoria «greed versus grievance»: l’origine dei conflitti interni andrebbe ricercata non tanto, o non solo, in rivalse di tipo etnico e tribale, bensì nel ten- tativo di controllare le risorse natu- rali disponibili, fonte del denaro necessario al mantenimento delle milizie e all’arricchimento delle lea- dership. Si tratterebbe di un vero e pro- prio circolo vizioso: si combatte per il controllo di ricchezze indispensa- bili a continuare a combattere. I paesi con una maggiore disponi- bilità di risorse naturali commercia- bili con buoni profitti sarebbero cioè più a rischio di guerre rispetto ai paesi più poveri dal punto di vista naturale e i gruppi di ribelli sareb- bero motivati a combattere per avere il controllo di tali risorse piut- tosto che per un’opposizione di tipo politico o etnico. Anche al di là del petrolio, a sostegno della tesi vengono citate le guerre civili in Angola, in Sierra Leone e in Liberia per il traffico di diamanti, in Liberia e nella Re- pubblica democratica del Congo per il commercio di legname, anco- ra nella Repubblica democratica del Congo per l’estrazione del col- tan e in Colombia per il traffico di droga. 100% 80% 60% 40% 20% 0% RISERVE 2004 PRODUZIONE 2003 CONSUMI 2003 EUROPA OCCIDENTALE ASIA INDUSTRIALIZZATA E PACIFICO NORD AMERICA EUROPA CENTRALE EUROPA ORIENTALE ASIA CENTRALE MEDIO ORIENTE AFRICA ASIA IN VIA DI SVILUPPO E PACIFICO AMERICA LATINA RISERVE PRODUZIONE E CONSUMO DI PETROLIO (valori percentuali) fonte: O&G - Word Oil and Gas Review 2004

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2001 un conflitto su quattro avevatra le sue motivazioni il controllo diimportanti risorse naturali: unasituazione paradossale nella qualele popolazioni di paesi ricchissimivivono di stenti, e muoiono, a causadi guerre, fame, carestie.

Guerra-controllo delle risor-se-guerra: il funzionamento diun circolo vizioso

Da circa una decina d’anni, diverseorganizzazioni e istituzioni interna-

L a ricchezza non porta feli-cità e il detto non è maistato tanto vero quanto per

milioni di persone che scontanosulla propria pelle, finché riesconoa salvarla, la maledizione di esserenate in un paese ricco di risorsenaturali. Già, perché sul mappamon-do la distribuzione delle guerrecoincide con la distribuzione dellerisorse naturali.

Il World Watch Institute diWashington ha calcolato che nel

DIRITTI UMANI IL BOTTINOLa mappa dei conflitti interni e quella della distribuzione delle ricchezzenaturali sono quasi perfettamente sovrapponibili. Il ruolo dei gruppi di ribelli, dei governi nazionali e di alcuni paesi terzi.

DAL LEGNO AI DIAMANTI

IN CERCA DI TRASPARENZA

Sul legame tra lo sfruttamento di risorse natu-rali e la presenza di conflitti armati sono stila-te numerose analisi volte a stabilire ruoli,responsabilità e possibili vie di uscita.Global Witness è un’organizzazione nongovernativa con sede a Londra e uffici inAfrica e in Asia nata proprio per indagare edenunciare i legami esistenti tra risorse natu-rali, finanziamento di guerre e corruzione.

Nata nel 1993, una delle sue prime campagneha riguardato lo sfruttamento del legname inCambogia da parte dei Khmer rossi e delleforze governative; sempre sul fronte dellegname è di maggio di quest’anno l’ultimorapporto sul futuro delle foreste liberiane,reso problematico da uno sconsiderato sfrut-tamento durante gli anni di guerra civile.Un altro importante fronte tuttora sotto osser-vazione è l’estrazione e l’esportazione di dia-manti. Il loro traffico si intreccia con almenoquattro conflitti africani.

In Angola, devastata da oltre un quarto disecolo di guerra civile, il gruppo ribelle Unitacontrollava il 60-70 per cento della produzionedi diamanti del paese; nella Repubblica demo-cratica del Congo, nonostante l’ufficiale “con-clusione” dell’ultimo conflitto, i gruppi ribellisostenuti dalle nazioni vicine sono ancora inlotta per il controllo delle aree settentrionaliricche di diamanti; in Sierra Leone, il Fronterivoluzionario unito (Ruf) ha estratto diamantiper un valore annuo stimato tra i 25 e i 125milioni di dollari; infine in Liberia, dove il fron-

zionali stanno studiando i possibililegami tra la presenza di conflitti odi gravi violazioni dei diritti umanie la distribuzione delle risorsenaturali.

La Banca Mondiale ha recente-mente formulato la teoria «greedversus grievance»: l’origine deiconflitti interni andrebbe ricercatanon tanto, o non solo, in rivalse ditipo etnico e tribale, bensì nel ten-tativo di controllare le risorse natu-rali disponibili, fonte del denaronecessario al mantenimento dellemilizie e all’arricchimento delle lea-dership.

Si tratterebbe di un vero e pro-prio circolo vizioso: si combatte peril controllo di ricchezze indispensa-bili a continuare a combattere.

I paesi con una maggiore disponi-bilità di risorse naturali commercia-bili con buoni profitti sarebbero cioèpiù a rischio di guerre rispetto aipaesi più poveri dal punto di vistanaturale e i gruppi di ribelli sareb-bero motivati a combattere peravere il controllo di tali risorse piut-tosto che per un’opposizione di tipopolitico o etnico.

Anche al di là del petrolio, asostegno della tesi vengono citatele guerre civili in Angola, in SierraLeone e in Liberia per il traffico didiamanti, in Liberia e nella Re-pubblica democratica del Congoper il commercio di legname, anco-ra nella Repubblica democraticadel Congo per l’estrazione del col-tan e in Colombia per il traffico didroga.

100%

80%

60%

40%

20%

0%RISERVE 2004 PRODUZIONE 2003 CONSUMI 2003

EUROPA OCCIDENTALE

ASIA INDUSTRIALIZZATA E PACIFICO

NORD AMERICA

EUROPA CENTRALE

EUROPA ORIENTALE

ASIA CENTRALE

MEDIO ORIENTE

AFRICA

ASIA IN VIA DI SVILUPPO E PACIFICO

AMERICA LATINA

RISERVE PRODUZIONE E CONSUMO DI PETROLIO (valori percentuali)

fonte: O&G - Word Oil and Gas Review 2004

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Un altro esempio significativo èquello dell’Angola, dove l’Unita(Unione nazionale per l’indipenden-za totale dell’Angola), autofinanzia-ta per anni attraverso il traffico didiamanti, ha accettato il cessate ilfuoco mentre avrebbe potuto gua-dagnare ancora parecchio dal com-mercio di queste preziose pietre.

Quando comprare un diaman-te contribuisce a sovvenzio-nare una guerra

La seconda obiezione è il ruolo gio-cato dai governi dei paesi in causa,essi stessi sfruttatori in modo indi-scriminato e illecito di tali ricchezze,i cui ricavati finanziano l’opposizio-ne ai gruppi dissidenti e finiscononelle tasche di pochi a scapito delbene pubblico, della società e deidiritti della popolazione.

Infine, non va sottovalutato ilruolo di paesi terzi che approfittanodel conflitto per trarne benefici eco-nomici. I casi più significativi sonol’intervento dell’Uganda e delRuanda nel conflitto della Repubblicademocratica del Congo e il coinvolgi-mento di Charles Taylor, a capo dellaLiberia, in quello della Sierra Leone.

Un coinvolgimento sicuramentemeno diretto riguarda anche paesimolto lontani dai luoghi del conflit-to: i diamanti estratti e commercia-ti illegalmente arrivano nelle gioiel-lerie del mondo occidentale, cosìcome il legno di iroko riveste lenostre case.

È perciò necessaria una maggio-re trasparenza su come, dove e inche modo il combustibile, il legno, ilcoltan che usiamo sono arrivati nelnostro paese, spesso anche inperiodo di embargo, e soprattutto aprezzo di quali sofferenze.

VALERIA CONFALONIERI

La distribuzione della respon-sabilità dei conflitti fra tuttigli attori in gioco

Il rapporto di Human Right Watchdel 2004 sottolinea la riduttività diun approccio che consideri l’”avi-dità” una molla d’azione che agiscesolo sui gruppi ribelli.

Secondo il documento, infatti, lateoria della Banca Mondiale trascu-ra il ruolo svolto dai governi locali –spesso colpevoli di una dissennatagestione delle risorse, di un utilizzopersonale dei profitti derivanti e diviolazioni dei diritti umani – e dipaesi terzi.

In realtà, per intervenire effica-cemente in queste situazioni è fon-damentale considerare tutti gli atto-ri in gioco e le loro motivazioni.

Secondo Hrw, la prima debolezzadella teoria «greed versus grievan-ce» consiste nell’attribuire ai grup-pi ribelli la volontà di controllo dellerisorse come motivazione esclusivadel loro agire.

Vengono riportati numerosi esempidi brutali conflitti interni che non ave-vano come obiettivo il controllo dellericchezze naturali, come in Salvador,in Sri Lanka e in Costa d’avorio.

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te di Charles Taylor è stato mantenuto anchegrazie ai diamanti sierraleonesi.Risale a gennaio 2003 l’impegno da parte del-l’industria dei diamanti per un miglioramentodei sistemi di autoregolazione, al fine di pre-venire conflitti collegati al prezioso minerale efornire ai consumatori garanzie sulla sua pro-venienza. Un’indagine di Global Witness svolta a unanno di distanza dall’assunzione di questoimpegno mostra tuttavia risultati a dir pocosconfortanti.

L’organizzazione londinese, nel rapporto dimarzo 2004 dal titolo esplicito «Time for tra-sparency», ha approfondito anche la “questio-ne petrolio”, prendendo in particolare conside-razione Kazakistan, Congo-Brazaville, Angolae Guinea equatoriale. Anche in questo caso, la richiesta è di mag-giore trasparenza: solo sapendo dove finisco-no i soldi pagati ai governi dalle aziendepetrolifere (o minerarie) sarà possibile porreun freno agli abusi di potere e alla povertàsempre più radicata di questi paesi.

In questa stessa ottica si colloca l’iniziativa«Publish what you pay», che vede 200 orga-nizzazioni non governative unite nel chiedereuna legislazione che imponga alle compagniedi dichiarare i loro pagamenti a tutti i governi(www.publishwhatyoupay.org). L’esempio dell’Angola è particolarmente si-gnificativo: si perdono le tracce di un dollarosu quattro dei profitti derivati dal petrolio eun bambino su quattro muore prima dei cin-que anni.

VC

23%

11%10%9%9%

7%

6% 3% 3% 3% 16%

Arabia Saudita

Iran

Iraq

Kuwait

Emirati Arabi Uniti

Venezuela

Russia

Stati Uniti

Libia

Nigeria

Resto del mondo

RISERVE DI PETROLIO 2004 - PRIMI DIECI PAESI

fonte: O&G - Word Oil and Gas Review 2004

32%

9%8%4%4%4%3%3%

3%

3%

27%

Stati Uniti

Cina

Giappone

Germania

Russia

India

Corea del sud

Canada

Brasile

Francia

Resto del mondo

CONSUMO DI PETROLIO 2003 - PRIMI DIECI PAESI

fonte: O&G - Word Oil and Gas Review 2004

13%11%

10%5%5%4%4%4%3%3%

38%

Arabia Saudita

Russia

Stati Uniti

Iran

Messico

Cina

Norvegia

Canada

Emirati Arabi Uniti

Venezuela

Resto del mondo

PRODUZIONE DI PETROLIO 2003 - PRIMI DIECI PAESI

fonte: O&G - Word Oil and Gas Review 2004

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zioni, diminuendo anche del 40% laproduzione giornaliera e mettendoin ginocchio migliaia di famiglie.

Non sono rari i rapimenti di stra-nieri che lavorano per le compagniepetrolifere e i furti di quantità ingen-ti di petrolio dagli oleodotti locali,tanto che le perdite di greggioammonterebbero a circa il 10% ditutta la produzione nigeriana.

Se lo stato difende gli inte-ressi delle multinazionaliinvece dei diritti della popo-lazione

La tregua recente è stata presenta-ta come il risultato di una decisioneimprovvisa delle due comunità dellazona, che avrebbero deciso dideporre le armi dopo l’omicidio didue dipendenti americani dellaChevron Texaco il 23 aprile scorso.

In realtà, la decisione è parsa benpoco spontanea. È molto più realisti-ca l’ipotesi di pressioni esercitatesul governo nigeriano dai gigantipetroliferi Chevron Texaco e Shell,non più disposti a perdere un terzodel petrolio per furti, contrabbandoe sabotaggi agli impianti.

A Warri, in una vasta operazionecondotta alla ricerca di armi enascondigli delle bande armate ope-ranti nella zona, sono stati distruttitre sobborghi e 2.000 persone sonorimaste senza casa.

Grazie a questo colpo di manosponsorizzato dal presidente Obasanjoe dal governatore del delta JamesIbori, ora i petrodollari potranno tor-nare ad arricchire le tasche delleautorità nigeriane, mentre l’oro neroprenderà il largo verso i porti europeie americani.

E, come ha ricordato Bello Oboko,uno dei leader della comunità Ijaw,nessuno dei problemi delle popola-zioni locali è stato affrontato.

Sia gli Ijaw sia gli Itsekiri chiedo-no da anni una più equa distribuzio-ne dei proventi petroliferi e un mag-gior potere decisionale sui destinidel loro territorio, ma il governonigeriano e le multinazionali ignora-no le loro richieste.

Fatto non trascurabile, sono statele stesse multinazionali a foraggiareil conflitto, fornendo armi alle milizieperché proteggessero i propri im-pianti dalle altre bande.

La palese violazione dei dirit-ti umani non disincentiva gliinvestitori stranieri

La maggiore incognita per il futurodella regione riguarda proprio lemigliaia di giovani armati che si con-tendono il controllo del territorio.

Ci sono molti dubbi sulla possibi-lità che polizia e leaders locali rie-scano a disarmarli e si teme che laloro presenza continuerà a delegit-timare il governo nigeriano agliocchi dei grandi poteri economicimondiali.

Al momento Chevron e Shell sidimostrano poco fiduciosi. Il deltadel Niger, infatti, è la seconda zonaal mondo per attività di pirateria,dopo i mari dell’Indonesia.

Secondo le denunce dell’opposi-zione nigeriana, durante i primiquattro anni del regime “civile” dell’ex generale Olusegun Obasanjoe del suo braccio destro Atiku

È tregua fra le etnie che daanni combattono nella re-gione petrolifera del delta

del fiume Niger, contendendosi age-volazioni e contratti con i colossi del-l’industria estrattiva statunitense.

La Nigeria è infatti l’ottavo pro-duttore di petrolio al mondo, oltreche uno dei principali alleati diWashington e suo quarto fornitore.

Malgrado la sua enorme ricchezzanaturale, però, il paese è uno dei piùpoveri dell’Africa e la maggior partedella popolazione vive con meno diun dollaro al giorno.

L’operazione «Restore Hope» hariportato la pace tra le due comunitàrivali: gli Ijaw, la maggioranza dellapopolazione – tra i cinque e gli ottomilioni – e gli Itsekiri, la minoranzaaccusata di essere favorita dalgoverno nigeriano e dalle compa-gnie petrolifere, da cui riceverebbeun miglior trattamento lavorativo.

La lotta per accaparrarsi le bricio-le dell’«affare petrolio» è statacausa di numerose uccisioni nellaregione e ha costretto le compagniepetrolifere a interrompere le estra-

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NIGERIA

Nel delta del Niger, multinazionali dell’energia fanno grandi affari e gruppi rivali si combattono per contendersene le briciole.A uso e consumo del business, il governo nigeriano reprime violente-mente disordini e contestazioni, chiudendo gli occhi di fronte a graviviolazioni di diritti umani e a disastri ambientali.

IN FONDO AL POZZO

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Abubakar, più di 20.000 personehanno perso la vita negli scontri tradiversi gruppi etnici o in manifesta-zioni di protesta sedate dall’esercitoe dalla polizia.

Secondo Amnesty International,«in molte occasioni, questa violenzaè apparsa priva di ogni controllo etollerata, se non apertamente soste-nuta, dal governo; nell’ambito dellaloro attività ordinaria la polizia fede-rale e le forze armate si rendonoresponsabili di numerose violazionidei diritti umani, quali esecuzioniextragiudiziali, uccisioni in custodia,torture e trattamenti crudeli, inuma-ni e degradanti, ai danni di presunticriminali».

Sebbene la Nigeria sia costante-mente denunciata per gravi violazio-ni dei diritti umani, il paese continuaa esercitare una forte attrazionesulle imprese straniere.

Il livello di corruzione degli ammi-nistratori pubblici è altissimo, ilfinanziamento illecito dei partiti edei dirigenti politici è prassi consoli-data prima, durante e dopo ognicompetizione elettorale.

A queste dinamiche non si è sot-tratto il governo attuale, al puntoche le opposizioni e gli osservatoridell’Unione Europea hanno denun-ciato brogli in almeno 13 statidurante le elezioni politiche presi-denziali e amministrative dello scor-so aprile.

La Nigeria svenduta almiglior offerente nei piani diprivatizzazione del governo

Anche la realizzazione delle rifor-me neoliberiste del programma digoverno sta esasperando la popo-lazione.

Il vice presidente Abubakar, per20 anni direttore generale delDipartimento doganale nigeriano,esperto dell’export di petrolio, diassicurazioni, di agricoltura, deimass media, presidente di settegrandi compagnie private, nonchédirettore generale della NigerianUniversal Bank Ltd, oggi dirige il«Consiglio nazionale sulle privatiz-zazioni» e ha già concluso la primafase del piano di privatizzazione conil trasferimento di 14 società pubbli-che a compagnie private nazionalied estere.

La seconda fase, già avviata,riguarda la svendita di importantiaziende statali e di infrastrutture delsettore turistico, automobilistico e industriale e della società telefoni-ca nazionale Nitel; la terza e ultimafase del programma di privatizzazio-

ne riguarderà il settore energetico(pozzi petroliferi, oleodotti) e laNational Electric Power Authority(Nepa), l’ente di produzione e didistribuzione di elettricità.

Parallelamente al trasferimentodelle risorse energetiche in manistraniere, il governo ha avviato laprivatizzazione delle maggiori raffi-nerie di greggio del paese (PortHarcourt I e II, Warri, Kaduna) eoggi la Nigeria è costretta ad acqui-stare il prodotto raffinato all’esterodalle stesse compagnie con cui hasottoscritto «joint venture» per losfruttamento del greggio.

Petrolio e gas naturale nonpagano la sanità, né l’istru-zione dei nigeriani

La macchina amministrativa si dedi-ca a tempo pieno a programmarefacilitazioni per gli investimenti stranieri.

Molto è stato speso per la crea-zione di «joint venture» con le tran-snazionali energetiche, rilasciandoun numero elevatissimo di conces-sioni in previsione dell’innalzamen-to della produzione giornalieranazionale a 5 milioni di barili entroil 2010.

Il paese, inoltre, dispone di riser-ve di gas naturale per 124.000miliardi di metri cubi, al nono postotra quelle esistenti a livello mondia-le. Ancora una volta sono stateChevron Texaco, TotalFinaElf, Shell,Agip ed ExxonMobil ad aver sotto-scritto gli accordi per lo sfruttamen-to dei giacimenti e per l’estrazionedel gas naturale, uno dei settori piùappetibili per il prossimo futuro.

Nel frattempo è anche rapida-mente cresciuto il numero dei pove-ri e dei disoccupati; circa il 40%della popolazione vive al di sotto deilivelli di sussistenza, il 70% non haaccesso ad acqua, elettricità, sanitàdi base, istruzione.

Solo un adulto su due sa leggeree scrivere; due bambini su diecimuoiono prima di aver compiuto cin-que anni e circa la metà della popo-lazione infantile soffre di gravi ritar-di della crescita per cause legatealla malnutrizione.

Disastri ambientali e viola-zioni dei diritti umani effetticollaterali dell’estrazione delpetrolio

Il fiume Niger è sempre più vittimadel versamento di petrolio, dellacontaminazione dei composti chimicie dei gas utilizzati negli impianti.Negli ultimi 40 anni si sono registra-

ti più di 4.000 spargimenti di greggionelle acque del delta del Niger, conun impatto ambientale devastanteraramente sanzionato dalle autorità.

Gli studi di una commissione spe-ciale hanno dimostrato che «le fuo-riuscite di petrolio dagli impiantidella compagnia straniera Shell,hanno danneggiato la produzioneagricola e le fonti idriche dello statodi Bayelsa, assumendo proporzioniepidemiche tra il 1993 e il 1994 ecausando l’esplosione di malattiecontagiose che hanno ucciso oltre1.400 persone e costretto moltealtre a ricorrere a cure sanitarie».

A causa di questa situazioneallarmante, l’organizzazione HumanRights Watch ha chiesto al governonigeriano di intraprendere «misureimmediate per prevenire un ulterio-re deterioramento della situazione»e un’analoga richiesta è stata rivol-ta anche alle compagnie petrolifereoperanti nell’area interessata, che«non vengono assolte dalla respon-sabilità negli abusi dei diritti umaniche hanno luogo nel delta del Niger.Nessuna delle compagnie pubblicaregolarmente rapporti completisulle denunce relative a danniambientali, sabotaggi, richieste diindennizzi, azioni di protesta o ope-razioni militari che si sono realizzatinei pressi delle loro infrastrutture».

Denunce dello stesso tenore arri-vano anche dal mondo della cultura,come è avvenuto alla fiera del librodi Francoforte dell’ottobre 2003,quando il premio Nobel nigerianoWole Soyinka ha denunciato pubbli-camente la collusione tra i militari alpotere e le multinazionali.

Crisi economica e insicu-rezza: i nigeriani iniziano a ribellarsi al regime diObasanjo

La grave crisi economica attuale,scoppiata negli anni ’90 in seguitoall’applicazione delle misure neoli-beriste e negli anni della riduzionedel prezzo internazionale del petro-lio, ha acuito ulteriormente gli oditra le elite nazionali e i diversi grup-pi etnico religiosi.

Gli Ibo, cristiano-animisti con-centrati nel sudest del paese, siscontrano sempre più ferocementecon i gruppi Hausa-Fulani, musul-mani del nord, e gli Yoruba delsudovest, metà cristiani, metàmusulmani.

Nello scorso maggio, il presidenteObasanjo ha decretato lo stato d’e-mergenza nel Plateau, lo stato fede-rale in cui all’inizio del mese centi-

naia di musulmani sono stati massa-crati da milizie cristiane.

Il presidente ha inoltre lanciatoun appello a musulmani e cristiani,perché pongano fine a quello cherischia di diventare «un vero e pro-prio genocidio reciproco».

Solo negli ultimi mesi le violenzenel Plateau hanno provocato più di 400 vittime e il clima di insicurez-za rischia di allargarsi a tutta lanazione.

Negli ultimi 3 anni, la contrapposi-zione tra le due comunità religioseha provocato centinaia di morti edecine di migliaia di sfollati: nel feb-braio del 2000, più di mille personepersero la vita durante gli scontritra cristiani e musulmani a Kaduna;negli stessi giorni scontri anche tragruppi nazionali Haussa e Yorubache causarono più di 100 vittime e400 feriti a Lagos. Il 14 ottobre2002, durante una manifestazionecontro l’intervento degli Usa inAfganistan nella città di Kano, ven-nero uccise più di 200 persone.

Ciò è accaduto anche in seguitoall’applicazione della «Sharìa», lalegge islamica, in un terzo deglistati della federazione nigeriana,alcuni dei quali a forte presenzanon musulmana, in palese violazio-ne dei principi costituzionali dell’u-guaglianza tra i cittadini e della lai-cità delle istituzioni.

Intanto, i nigeriani reclamano unasvolta: non si placano le manifesta-zioni contro il presidente accusato diaver truccato le elezioni presiden-ziali e quelle politiche, di affamare lapopolazione e di essere incapace dibloccare il diffondersi della violenza.

Il 15 maggio di quest’anno centi-naia di persone, tra cui WoleSoyinka, sono scese in piazza aLagos per chiedere le dimissioni diObasanjo, ma sono state dispersedalla polizia con i gas lacrimogeni.

Forse, però, le proteste che ini-ziano a sollevarsi contro il governonigeriano sono il primo segno di unpossibile cambiamento nella so-cietà nigeriana. Che si tratti di uncammino verso un futuro migliore,è oggi piuttosto un auspicio che unaprevisione.

ANNA CLAUDIA FURGERI CARAMASCHI

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cifre ufficiali. Stime, per megliodire, azzardi.

Altri elenchi aggiungono qualcheinformazione. Solo il 3 per centodella terra è coltivato a caffè, cannada zucchero, palma da olio, manioca,banane, mais, ma il sottosuolonasconde oro, argento, zinco, man-ganese, diamanti, rame, cobalto,uranio, cadmio, petrolio.

E anche cassiterite e coltan. Il primo è biossido di stagno. Il

secondo è l’abbreviazione di columbi-te-tantalite, un minerale leggermen-te radioattivo che contiene niobio e,soprattutto, tantalio.

La cassiterite è salito alla ribaltadell’interesse commerciale globaliz-zato da pochi mesi, quando unaumento della domanda mondiale distagno ne ha fatto esplodere il prez-zo – non aumenta solo il petrolio –

da 6.500 a 9.600 dollari per tonnella-ta in pochi mesi.

Il coltan è una fanghiglia nerastradalla quale proviene uno degli ingre-dienti fondamentali per i microchip,componenti di computer, telefonicellulari, telecamere digitali, video-games.

Un paese minacciato da riva-lità interne e da paesi viciniche mirano alle sue ricchezzeminerarie

Cassiterite e coltan sono particolar-mente abbondanti nella regione piùorientale del Congo, il Kivu, la zona diconfine con Uganda e Ruanda, dove –dopo un anno di tregua apparente –sono scoppiati i recenti tumulti.

All’inizio di giugno le truppe delgenerale Laurent Nkunda, un migliaiodi uomini malconci e male armati,

U na superficie di due milionie mezzo di chilometri qua-drati per quasi 60 milioni di

abitanti, di cui la maggior parte vivenella grande e turbolenta capitale,Kinshasa, dove sono ammassati quasisette milioni di persone, e nelle altrearee urbane: Lubumbashi, Mbuji-Mayi, Kolwezi, Kisangani, Goma.

Più di 200 gruppi etnici e altrettan-te lingue, decine di religioni; almenoil 70 per cento della superficie delpaese coperta da una delle più vasteregioni di foresta vergine del mondo,compresa nella grande ansa delsecondo fiume africano; un Prodottointerno lordo di circa 36 miliardi didollari, un reddito pro capite di 600dollari.

Questo è il Congo – la Repubblicademocratica del Congo, ex Zaire,per la precisione – almeno nelle

CONGO

Dal 1998 al 2002, il Congo è stato teatro della «prima guerra mondiale afri-cana» tra gli eserciti regolari di sei paesi per i diamanti, l’oro, la cassiteri-te e il coltan. Nonostante un accordo di pace e le elezioni previste per il2005, il paese continua a pagare il prezzo del suo ricchissimo sottosuolo.

LE FERITE DEL GIGANTE AFRICANO

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hanno puntato su Bukavu, che insie-me con Goma è il centro più impor-tante della regione.

La resistenza dell’esercito regola-re è stata scarsa: la città è statapresa in un paio di giorni ed è rima-sta nelle mani dei ribelli per una settimana, prima che l’“armataBrancaleone” di Nkunda battessetemporaneamente in ritirata.

Armata Brancaleone fino a uncerto punto, però, perché nelle setti-mane successive i “ribelli” del gene-rale hanno continuato a minacciare lecittà del Kivu, appoggiati non troppovelatamente dal governo di Kigali delvicino Ruanda, che ufficialmente con-tinua a negare ogni responsabilità.

Joseph Kabila, il giovane presiden-te della Repubblica democratica delCongo, ha risposto inviando nel Kivu10.000 soldati e accusando aperta-mente il Ruanda di sostenere i ribel-li, facendo riferimento anche a uneloquente rapporto della Monuc, lamissione dell’Onu in Congo.

Il Ruanda ha chiuso i confini, inco-minciando ad ammassare truppe nellacittadina di Cyangugu, a pochi chilo-metri da Bukavu. E, per un momento,è sembrato che la regione dei laghistesse per ripiombare nel caos del1998, data d’inizio della cosiddetta«prima guerra mondiale africana».

Di padre in figlio, una tristestoria che si ripete allarovescia

E pensare che l’irresistibile avanzatadi Laurent Kabila, padre di Joseph,che nel 1997 rovesciò il presidenteMobutu Sese Seko dopo 32 anni di dit-tatura, era cominciata proprio dal Kivue proprio con l’appoggio del Ruanda,grazie alla promessa di rimpatriaredecine di migliaia di hutu che – secon-do Kigali – si erano macchiati di atro-ci crimini nella pulizia etnica del 1994.

Poi, appena un anno più tardi,Kabila aveva manifestato l’intenzionedi togliere la terra ai «banyamulen-ge», popolazioni tutsi che si eranostabilite in territorio congolese allafine del XVIII secolo, per restituirlaalle popolazioni locali.

Così, nell’aprile del 1998, le partisi rovesciano: i membri dell’Alleanzacongolese per la democrazia (Rcd),già membri del partito fondato daKabila, formano un piccolo gruppoarmato che comprende rifugiati tutsied ex soldati dell’esercito congolese.

Con l’appoggio del Ruanda edell’Uganda, che forniscono finan-ziamenti, armi e truppe, in pochimesi l’Rcd conquista metà del ter-ritorio nazionale.

Kabila oppone la sua resistenza,lanciando l’allarme per la «minacciaalla civiltà bantù». Con notevole abi-lità diplomatica, stringe un accordocon Zimbabwe, Namibia e Angola,che inviano truppe in suo soccorso.

In agosto, le sorti del conflittosembrano rovesciarsi, ma con il coin-volgimento di sei paesi più il timidotentativo di mediazione di Libia eSudafrica l’etichetta di «prima guer-ra mondiale africana» sembra davve-ro azzeccata.

Il 1999 è un anno di sangue, alme-no nella prima metà. Più che i com-battimenti, sono fame e malattie adecimare la popolazione del Congoorientale.

L’11 luglio, dopo che il Ruanda ha dichiarato un cessate-il-fuoco unilaterale, Congo, Ruanda, Uganda,Zimbabwe, Namibia e Angola firmanoa Lusaka in Zambia una prima tregua,alla quale però non si allineano i dueprincipali gruppi ribelli.

Il cessate-il-fuoco definitivo arrivasolo il 31 agosto.

Un accordo di pace e unanuova costituzione alla basedel governo di unità nazionale

Ufficialmente, il Ruanda si impegna a ritirare le proprie truppe dal Congoe l’esercito di Kabila, ripreso il controllo, s’impegna a rispedire inpatria gli ex militari ruandesi e gli «Interahamwe», la milizia civilehutu colpevole di molti dei crimini nel 1994.

In realtà, l’esercito ruandeseresta a controllare il traffico di mate-rie prime che dal Kivu (e non solo)prendono la strada del confine, perarrivare a Kigali ed essere spedite aMombasa, in Kenia, dove sarannovendute sul mercato internazionale.

In questo modo, il Ruanda detieneil monopolio delle risorse del Congoorientale, coltan e cassiterite, maanche oro e diamanti.

In teoria la maggior parte delleminiere dovrebbe essere chiusa, madecine di migliaia di congolesi siammazzano di fatica nel fango percavarne quel poco che basta allasopravvivenza della famiglia. Dellegrandi compagnie estrattive chehanno sfruttato le risorse congolesida quando il paese era una coloniabelga fino all’era di Mobutu non c’èpiù traccia.

Sono “minatori illegali” quelli chelavorano senza sosta per strappareal Congo le ricchezze del suo sotto-suolo. E sono i militari ruandesi quel-li che ne traggono profitto, per contodel proprio governo.

Così gli scontri continuano, fino al31 luglio 2002.

Joseph Kabila, subentrato nellaguida del paese al padre assassinatoa Kinshasa da una delle sue guardiedel corpo, e Paul Kagame, presidentedel Ruanda, s’incontrano a Pretoriaper firmare un accordo che sembrauna fotocopia di quello del 1999.

Poche settimane dopo, il giovanerampollo di Kinshasa sigla la pacecon il presidente ugandese YoweriMuseveni. E in dicembre, di nuovo inSudafrica, i gruppi paramilitari ribelli,tra cui l’Rdc, sottoscrivono un accor-do per rientrare pacificamente nellefile dell’esercito della Repubblicademocratica del Congo.

Nell’aprile 2003 l’ultimo atto:Joseph Kabila promulga la nuovacostituzione che gli consegna ilgoverno del paese per due anni, finoalle annunciate elezioni «democrati-che» del 2005.

Del governo transitorio fannoparte anche i leader dei maggiorigruppi ribelli, tutti imbarcati con lacarica di vice presidente.

Un paese abbandonato a sestesso aspetta le elezioni e ilritorno della guerra

Dal 1998 al 2002, la prima guerramondiale dell’Africa ha lasciato sulterreno 3 milioni di vittime, secondo lestime della Monuc, 4,7 milioni secon-do l’International Rescue Committee.

Tra esse, pochi i militari, legali oillegali; moltissimi i civili.

Negli anni della guerra, la morta-lità neonatale si è attestata intorno al97 per 1000.

Nel 1998 e nel 2000 le piene sta-gionali del Congo sono state tra le piùdisastrose degli ultimi decenni, e il18 gennaio 2001 si è scatenato il vul-cano Nyiragongo. La lava ha attraver-sato la città di Goma, centro nevral-gico del Kivu a pochi chilometri dalconfine ruandese e dalla catena deivulcani Virunga, ultimo habitat deigorilla di montagna.

In poche ore, ha travolto tuttoquello che ha trovato sul suo cammi-no, facendo decine di vittime, costrin-gendo 300.000 persone alla fuga elasciando una coltre larga un chilo-metro e spessa diversi metri nelcuore della città.

Il gigante dell’Africa Nera, poten-zialmente uno dei paesi più ricchi delpianeta, è tornato indietro di duesecoli. Basta superare la frontiera diBunagana, al confine con l’Uganda,per accorgersi di un mondo abbando-nato a se stesso e ai soprusi di chiun-que indossi una divisa.

I bambini dei villaggi più viciniattraversano ogni giorno quel confi-ne per andare a scuola.

Spingendosi lungo le modestesterrate che solcano la foresta,appena punteggiata di minuscolepiantagioni di banane, si attraversa-no villaggi fantasma, dove mancaqualsiasi tipo di organizzazione, qual-siasi bene di consumo non prodottolocalmente.

Non esistono nemmeno quegliimprobabili negozietti che in tutti i vil-laggi dell’Africa vendono qualchesaponetta, dentifricio, batterie, cara-melle, fiammiferi.

Rutshuru, la cittadina più impor-tante a nord di Goma, si supererebbequasi senza notarla, se non fosse perla gigantesca chiesa della missione,abbandonata da tempo, dove qualchecanonico locale dice messa la dome-nica mattina alle migliaia di fedeliche affollano i banchi.

All’imbrunire, lungo la strada cheporta a Goma, non c’è nemmeno untaxi collettivo: la gente torna a casain fila indiana, portando in testa il far-dello delle proprie povere cose.

Qualche chilometro più in là, nelcuore della foresta, Walikale è diven-tata una città fantasma.

Quasi tutti i suoi 15.000 abitanti sene sono andati. Sulle pareti di fangodelle case, i buchi delle pallottolericordano gli scontri del giugno scor-so, quando i ribelli dell’Rdc si sonoimpadroniti del piccolo centro.

A Walikale ci sono coltan e cassi-terite in un territorio deserto grandequasi quanto il Ruanda.

Oggi il Congo va incontro allenuove elezioni, le prime, dopo le pro-messe mai mantenute di Mobutu e diKabila padre. Ma c’è da scommettereche a qualcuno andranno strette.

Lo scontro per lo sfruttamentodelle risorse del Congo orientale èsolo sopito e difficilmente Ruanda eUganda si accontenteranno di fare daspettatori.

La regione dei laghi è abitata da 15milioni di persone, e le pressioni etni-che ed economiche si faranno sem-pre meno sopportabili.

La Monuc, una forza di pace checonta poco più di 10.000 unità, nonpotrà fare molto mentre serve unintervento umanitario immediato.

I fuoristrada dai vetri azzurratidelle agenzie internazionali e dellemaggiori organizzazioni umanitariesfrecciano nel centro di Kigali e tra igrattacieli di Kampala.

Al di là del confine, però, nonabbiamo visto nessuno.

MARCO CATTANEO

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22 EMERGENCY n. 32 • settembre 2004

Sebbene il governo eritreo siaffanni a nascondere, in patria comeall’estero, i crescenti malumoriinterni nei confronti del presidenteAfewerki e del suo entourage, latensione, ad Asmara come nelle pro-vince, è ben oltre i livelli di guardia.

L’Eritrea è ancora ostaggio dellaguerra combattuta – e vinta, almenomoralmente, senza alcun aiuto ester-

no se non lo strenuo appoggio econo-mico della diaspora eritrea in Europa,come tengono a precisare ad Asmara– contro il più grande vicino ed “ex-padrone”, l’Etiopia. Le aspre e san-guinose controversie sui confini tra idue paesi, sfociate in una guerradurata due anni e costata la vita a70.000 persone, sono ancora aperte.

Oggi, nonostante il dispiegamentodi 4.200 uomini del contingenteUnmee (Missione delle Nazioni Unitein Etiopia e Eritrea), il trattato dipace sembra sempre più solo unpezzo di carta.

Le radici profonde di un con-flitto duraturo e dimenticato

Il conflitto tra i due paesi ha originilontane.

Alla fine della seconda guerramondiale la Gran Bretagna, cheaveva un mandato su entrambi ipaesi, pur contro ogni evidenza sto-rica, decide di riunirli sotto l’auto-rità del fidato e riconoscente Hailé

Selassié, l’ex imperatore etiope cheaveva trascorso a Londra gli annidell’esilio.

Nel 1952, le Nazioni Unite conce-dono all’Eritrea lo status di regioneautonoma dell’Etiopia, arbitraria-mente revocato dall’imperatoreetiope una decina d’anni più tardi.

Ridotti a meri sudditi, gli eritreicominciano a coltivare sempre piùpressanti ambizioni indipendenti-ste: molti di loro si riuniscononell’Elf (Fronte di liberazione eri-treo) e intraprendono azioni diguerriglia.

I l 24 maggio scorso, mentre ilpresidente dell’Eritrea IsaiasAfewerki rivolgeva il suo ottimi-

stico messaggio alla nazione in occa-sione del tredicesimo anniversariodell’indipendenza, a Barentu, nellazona occidentale del paese, un atten-tato provocava la morte di cinque per-sone e il ferimento di altre 88.L’indomani Yemane Gebremeskel,

portavoce del governo eritreo, accu-sava apertamente dell’accaduto grup-pi terroristici foraggiati dall’Etiopia edal Sudan «…che si incontrano perio-dicamente ad Addis Abeba dove godo-no dell’appoggio delle autorità».

Una tesi, questa, sostenuta conforza anche in seguito alla comparsadi un comunicato su «Meskerem» – ilportale eritreo che dà voce al dissen-so – che rivendicava l’attentato comefrutto della collaborazione tra alcunimembri dell’opposizione e cellule sov-versive delle forze armate e negavaqualsiasi legame con paesi stranieri.

AFRICA

Dopo due anni di guerra e 70.000 vittime, Etiopia ed Eritrea si sonoaffidate all’Onu per raggiungere un accordo su mille chilometri di confini contesi. Nonostante l’accordo sia stato formalmente raggiunto,la tensione tra i due paesi è ben lontana dall’essere risolta.

LA GUERRA SILENZIOSADEL CORNO D’AFRICA

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23EMERGENCY n. 32 • settembre 2004

Negli anni sessanta, all’influenzabritannica si sostituisce quella sta-tunitense, che però – secondo unassurdo gioco delle parti deciso benlontano dal Corno d’Africa – nonriesce a contrastare il sorgere dimovimenti filosovietici in Eritrea, esoprattutto in Etiopia.

E infatti nel 1974 Hailé Selassiéviene deposto dal generale HaileMariam Menghistu, con un colpo distato finanziato da Mosca.

È ancora ignoto il numero dellepersone (almeno 200.000) uccise oscomparse nel nulla in Etiopia e inEritrea durante l’era Menghistu, tri-stemente ricordata come il «Terrorerosso». Noti, invece, sono i risultaticatastrofici della collettivizzazionedell’agricoltura, culminata in unacarestia di enormi proporzioni nel-l’annata 1984-85.

L’indipendenza assoggettataa una presunta e malintesa“sorellanza”

Anche sotto Menghistu, in Eritrea,prosegue la lotta armata guidatadall’Eplf (Fronte popolare di liberazio-ne eritreo) di Isaias Afewerki.

In origine frangia di matrice comu-nista dell’Elf, all’inizio degli anniottanta, questa organizzazione strin-ge una solida alleanza con l’analogoTplf (Fronte popolare di liberazionedel Tigrai) di Meles Zenawi, cherivendica la separazione della regio-ne del Tigrai, confinante con l’Eritrea,

da Addis Abeba. Poco più tardi, a Eplfe Tplf si aggiungono i militanti di etnia«amhara» del Mdpe (Movimentodemocratico del popolo etiope).

Impegnate su più fronti, nel 1991 letre organizzazioni riescono a conqui-stare Asmara e Addis Abeba e a scac-ciare Menghistu.

Sebbene a livello internazionalel’Eritrea sia stata riconosciuta statosovrano solo dopo due anni – neces-sari all’Etiopia per indire le prime libe-re elezioni della sua storia e per orga-nizzare il paese su modello federale –il piccolo paese del Corno d’Africa è difatto indipendente dal 1991.

E, almeno agli occhi poco attentidell’occidente, Etiopia ed Eritreadiventano “sorelle”, governate comesono da due amici e compagni d’armi:la prima da Zenawi, la seconda daAfewerki.

Confini incerti e la mancanzadi uno sbocco al mare rinno-vano i motivi della guerra

È forse l’amicizia tra i due a far sotto-valutare anche a livello internazionalela necessità di definire in modo ine-quivocabile il confine tra Etiopia edEritrea.

Ben presto, però, l’Etiopia cominciaad avvertire il peso della mancanza diuno sbocco a mare che la fa dipende-re dal porto di Gibuti, mentre l’Eritrea– la piccola Eritrea – può disporredell’importante scalo marittimo diAssab, in Dancalia, a una cinquantina

di chilometri dal confine gibutino. L’Etiopia – la grande Etiopia, che

era stata il più antico impero del con-tinente – coltiva inoltre ambizioniimperialiste sul Corno d’Africa, forteanche del massiccio appoggio degliStati Uniti che, ancora oggi, finanzianoil paese con 900 milioni di dollariall’anno, in gran parte sotto forma di«aiuti umanitari».

L’Etiopia non rivendica direttamen-te Assab, né il territorio dancalo, macon una serie di provocazioni si insi-nua oltre il labile confine eritreo, inzone più interne e strategicamentemeno importanti.

Il deterioramento dei rapporti trai due paesi è veloce e irreversibile e,nel maggio 1998, l’Eritrea passaall’attacco sconfinando in Etiopiacon truppe di fanteria e carri arma-ti. È guerra.

Mentre la diplomazia internaziona-le – Stati Uniti, Onu e Unione Africanain testa – si affanna a cercare unamediazione tra le parti, l’aviazioneetiope bombarda Asmara e Adigrat e icannoni eritrei colpiscono Mekele,capoluogo del Tigrai.

Nel febbraio 1999 e nel maggio2000, gli etiopi, meglio armati e piùnumerosi, riescono a penetrare in ter-ritorio eritreo, da dove vengonorespinti anche dai blindati sequestratiloro in precedenza dagli avversari.

Sebbene le milizie eritree sianomolto meno numerose e organizzate,

esse combattono per la sopravviven-za stessa del paese, mentre buonaparte dei militari etiopi provengonodalle regioni meridionali del paese,lontane – dal punto di vista geografi-co, storico ed etnico – da una guerrache, fuori dai palazzi del governo diAddis Abeba e dal Tigrai, la già affa-mata popolazione percepisce comel’ennesima disgrazia.

Un piccolo paese contesoindebolisce gli accordi di pace

Il 18 giugno 2000 viene proclamato ilcessate il fuoco, seguito dopo seimesi dal trattato di pace di Algeri incui Etiopia ed Eritrea acconsentonoalla formazione della «HagueBoundary Commission», la commis-sione internazionale dell’Onu con ilcompito di disegnare definitivamente imille chilometri del confine.

Con le risoluzioni 1.298 e 1.312,inoltre, le Nazioni Unite, adottanomisure per prevenire la fornitura diarmi e munizioni a entrambi i paesi;viene istituita la missione Unmeeche prevede dapprima l’invio di uncentinaio di osservatori militari esuccessivamente di un’ampia forzamultinazionale per sorvegliare lazona contesa.

In parallelo, l’Onu si impegna afronteggiare l’emergenza umanitaria:nel 2000 la guerra, che aveva giàcoinvolto direttamente 350.000 etiopie 370.000 eritrei, ha ulteriormente

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24 EMERGENCY n. 32 • settembre 2004

aggravato gli effetti della carestia,mettendo in pericolo la sopravvivenzadi otto milioni di persone.

Come spesso accade negli ufficidella diplomazia, la «Boundary Com-mission» dà una risposta (quasi)definitiva solo nell’aprile 2002,ricalcando i confini antecedenti alconflitto.

L’Eritrea accetta, ma l’Etiopiacontesta l’assegnazione di Badme,un agglomerato di poche, poverecase, una scuola, un ospedale fati-scente e qualche arido campo avvol-to dalla polvere dell’altopiano.

Badme, tuttavia, per il primo mini-stro etiope Zenawi, originario diquelle parti, è un luogo fortementesimbolico, essendo stato per tutti glianni ottanta una delle principali basidelle guerriglie alleate del “suo”Tplf e dell’Eplf dell’attuale presiden-te eritreo Afewerki.

E infatti, anche se l’obiettivo prin-cipale del contendere rimane Assab,Badme è lo scoglio su cui minacciad’infrangersi il trattato di pace. Omeglio, la – spesso violata – tregua.

Se la «difesa della patria» giustifica la repressione e lafame

Spente le luminarie che decoravano ibellissimi e decadenti palazzi italiani diAsmara per celebrare festosamentel’anniversario dell’indipendenza, ladura realtà dell’Eritrea torna evidente.

I prezzi dei generi alimentari sonoalle stelle e il costo della benzina èquasi raddoppiato negli ultimi mesi.La sera i giovani, i pochi rimasti, sirintanano in casa perché ogni notte lapolizia militare compie rastrellamentialla ricerca di chi non ha assolto gliobblighi di leva.

Da cinque anni, chi è partito per lecaserme dislocate nelle aree di confi-ne non ha ancora fatto ritorno a casa.E infatti la piccola economia diAsmara è in mano alle donne e sonodonne i capifamiglia che coltivano laterra nelle campagne.

Dallo scorso anno, tutti i ragazzi –

di entrambi i sessi – che frequentanoil liceo trascorrono gli otto mesi primadegli esami di maturità nel campo diaddestramento militare di Sewa doverestano in servizio obbligatorio per ladifesa della patria: per chi scappa c’èil carcere, senza processo; lo stessodestino per chi leva la sua voce controil governo.

«Dobbiamo essere pronti a tutto, ei nostri sforzi devono andare alla dife-sa del nostro territorio», dicono gliuomini del presidente per giustificareuna politica illiberale e un’economiadi guerra. Affermano di avere «laforza della ragione».

Negli anni buoni, ovvero quandopiove a sufficienza, l’Eritrea – unostato di poco più di quattro milioni diabitanti che vivono per la quasi tota-lità di agricoltura di sussistenza –produce circa il 40 per cento delle450.000 tonnellate di cereali del suofabbisogno e le sue limitate risorse invaluta rendono problematico l’acqui-sto di derrate alimentari dall’estero.

Scarseggiano anche gli aiuti umani-tari (secondo le stime, il paese neces-

sita di 150 milioni di dollari all’anno,due terzi dei quali per fronteggiare l’e-mergenza alimentare) che invecesostengono l’Etiopia, pur essendo ilgoverno di Zenawi a sua volta accusa-to dalla comunità internazionale diaver imboccato una deriva autoritaria.

Pessime relazioni internazio-nali complicano la posizionedell’Eritrea

Il governo eritreo ritiene che il paesesia abbandonato a se stesso e accu-sa gli Stati Uniti di agire in favoredell’Etiopia. Se la «forza della ragio-ne» è davvero con loro, perché?

Nell’ambito delle decisioni della«Boundary Commission», da unpunto di vista legale l’Eritrea si com-porta in modo ineccepibile.

Sul fronte diplomatico, invece, siarrocca su posizioni arroganti, rifiu-tando ogni mediazione in un già diffi-cile processo di pace.

Attualmente, tuttavia, l’Eritrea nonè nelle condizioni di chiedere alleNazioni Unite «misure drastiche con-tro l’Etiopia», come invece ha fatto direcente il ministro dell’InformazioneAli Abdul Ahmed.

Sull’Eritrea, infatti, pesano unadiatriba con lo Yemen per il possessodi alcuni isolotti sul Mar Rosso e pes-sime relazioni con il Sudan, che l’ac-cusa di appoggiare i ribelli del Darfur.

Da ultima – ma qui le accuse sonopoco chiare – la Cia ha diffuso unanota secondo la quale a Gash Barka,una zona nei pressi della cittadina diKeren, si addestrerebbero gruppiparamilitari legati ad al-Qaeda.

Come se non bastasse, malgrado ilrisanamento dell’economia del paesenon possa prescindere dagli investi-menti internazionali, lo scorso gen-naio il governo ha promulgato unalegge che circoscrive gli spostamentidegli stranieri al modesto triangoloAsmara–Keren–Massaia a cui siaggiungono le isole Dahlak, ambitedall’industria turistica che vorrebbefarne la più bella destinazione del

Mar Rosso, giustificando il provvedi-mento come una «misura di sicurez-za». Una situazione ulteriormentecomplicata dal farraginoso apparatoburocratico in cui rimangono insab-biati quasi tutti i progetti di investi-mento.

Profughi e mine antiuomo nonbastano a sollecitare gli aiutiinternazionali

Da entrambi i lati del confine la situa-zione si aggrava di giorno in giorno.Oltre alla fame che affligge due deipaesi più poveri del pianeta, le asso-ciazioni umanitarie hanno lanciato unappello per fronteggiare la drammati-ca situazione delle decine di migliaiadi eritrei d’Etiopia ed etiopi d’Eritrea,trattati come ostaggi e sottoposti aogni sorta di vessazioni, nonché quel-la dei cosiddetti «internally displacedpeople», persone fuggite dai luoghidella guerra all’interno del proprio

paese e che perciò non hanno dirittoallo status di «rifugiato» e agli aiutiumanitari che ne derivano.

Sull’economia, e soprattutto sul-l’attività agricola, di entrambi i paesipesa la presenza di mine antiuomo.Se ne stimano 150.000-200.000 dis-seminate dalle truppe di Menghistudurante i trent’anni di lotta di libera-zione e nel 2000 dall’esercito etiopein ritirata.

Sul territorio etiope se ne stima-no almeno due milioni, molte dellequali risalenti all’invasione italiananel 1935. Tuttavia, per il momento, lacomunità internazionale non conside-ra prioritario lo stanziamento dei 25milioni di dollari necessari per un’arti-colata campagna di sminamento,attualmente affidata allo sparuto con-tingente norvegese dell’Unmee.

Anche il mandato di peacekeepingcosta. E, come lasciano presagiresempre più evidenti segnali di insoffe-renza da parte dei paesi finanziatori,costa molto più di quanto essi reputi-no opportuno.

Indiani, giordani e italiani sor-vegliano confini pronti aesplodere

I rapporti tra Etiopia ed Eritrea e ivertici della Unmee, d’altra parte, sisono deteriorati rapidamente inseguito ad alcune dichiarazioni rila-sciate contro i caschi blu: nel 2002, ilgoverno etiope ha apertamente accu-sato numerosi membri del personaleUnmee dei reati di pedofilia e sfrutta-mento della prostituzione, facendoscoppiare uno scandalo su scalainternazionale.

Dopo molti, difficili aggiustamenti,alla fine di luglio il generale britanni-co Robert Gordon, comandantedell’Unmee, è stato sostituito dalgenerale indiano Rajender Singh,che nel discorso d’investitura haaffermato che «la sensibilità delpopolo dei paesi in cui stiano lavo-rando deve essere sempre e ognivolta rispettata».

Indiano è anche il contingente piùnumeroso della missione, che operanei punti più “caldi”; secondo è quel-lo giordano, che gestisce tra l’altro ungrande ospedale da campo.

Quanto agli italiani, i cinquantacarabinieri di stanza ad Asmarahanno il mandato di «sorvegliare glialtri contingenti impegnati a sorve-gliare la pace».

E mentre l’Unmee spende migliaiae migliaia di litri di carburante perpattugliare i confini, Eritrea edEtiopia sembrano attendere alloscontro finale. JASMINA TRIFONI

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25EMERGENCY n. 32 • settembre 2004

immigrati. Respingendo la richiestadi approdo della Cap Anamur, nonsolo sono stati ignorati i più elemen-tari principi dell’accoglienza, maanche le decisioni assunte in queigiorni dalla Consulta sulla LeggeBossi-Fini.

Respingendo la richiesta di appro-do della Cap Anamur, per molti gior-ni si è impedito a 37 persone dientrare in Italia per presentarerichiesta di asilo. Quando la nave,forzatamente, è entrata in acque ita-liane, i naufraghi sono stati immedia-tamente reclusi in un Centro di per-manenza temporanea.

Ai legali e ai rappresentati delleassociazioni umanitarie è stato impe-dito l’accesso al Centro di permanen-za temporanea (Cpt), negando inquesto modo agli immigrati di riceve-re una corretta e completa informa-zione sulla tutela dei loro diritti.

E, infatti, le istanze di asilo sonostate presentate attraverso l’Altocommissariato delle Nazioni Uniteper i rifugiati (Acnur), poiché i nau-fraghi non erano stati messi a cono-scenza della possibilità di inoltrarledirettamente all’autorità giudiziariaitaliana in forma di domande di asilocostituzionale.

Solerti, invece, sono state le misu-re di respingimento, nonostante l’art.3 della Convenzione di Ginevra el’art. 3 della Convenzione europea suiDiritti dell’uomo vietino espressa-mente il respingimento collettivo el’adozione di tali misure nei confrontidei richiedenti asilo.

L’allontanamento coatto immedia-to conseguente al decreto di espul-sione, attuato con il rimpatrio inNigeria e in Ghana di 35 dei 37 nau-fraghi, costituisce una violazionedella stessa legge 189/02 (leggeBossi-Fini), la cui applicazione èsubordinata all’emanazione del rego-lamento di attuazione (mai avvenuta)e che prevede che il ricorrente abbiadiritto a un “riesame” della primadecisione negativa alla domanda diasilo prima dell’esecuzione dell’allon-tanamento.

L’espulsione coatta infine contra-sta con i pronunciamenti della Corte

costituzionale e della Corte di cassa-zione sul diritto di difesa e di ricorsoche vanno riconosciuti ai cittadinistranieri «comunque presenti sul ter-ritorio nazionale» in base all’art. 2del T.U. 286/98, più conosciuto come«legge Turco-Napolitano».

La convalida dei provvedimenti diespulsione è avvenuta in segreto,senza la presenza dei difensori difiducia e senza che essi ne fossero aconoscenza; in alcuni casi, senza chel’esito della disamina delle richiesteda parte della Commissione fossestato ancora notificato.

Dei 37 immigrati, 22 sono statitrattenuti nel Cpt di Caltanissetta,senza che venisse comunicato loroalcun titolo legale che giustificasseil provvedimento di privazione dellalibertà personale, così come apparepriva di ogni base giuridica ladeportazione a Roma avvenuta il 21luglio, in vista del rimpatrio coatto.

U na nave che ha portato insalvo 37 naufraghi al largodi dell’isola di Lampedusa

non riceve il permesso di attraccarein Italia.

La nave è la Cap Anamur, dell’omo-nima associazione umanitaria tede-sca, che dal 1979 soccorre i «boatpeople» che sfuggono a guerre epovertà.

Il governo italiano, invece di pre-stare soccorso umanitario ai naufra-ghi, gestisce la vicenda come un’ope-razione di polizia, impedendo anchel’intervento di organizzazioni e asso-ciazioni per la difesa dei diritti degli

DIRITTI IN ALTO MAREIMMIGRAZIONELa nave di una associazione umanitaria tedesca aspetta venti giorni in mare aperto il permesso di approdare in Italia con 37 naufraghi africani a bordo. Il loro tentativo di lasciare la povertà e la guerra è naufragato prima al largo delle coste siciliane, poi in una disumanagestione dell’emergenza da parte del governo italiano.

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CRONOLOGIA

26 giugno: alla Rete Asilo, coordina-mento palermitano di singoli e asso-ciazioni a favore dei migranti, vienesegnalata la presenza nel canale diSicilia della nave Cap Anamur. Abordo sono imbarcati 37 naufraghiraccolti al largo di Lampedusa. Dallanave comunicano di voler approdarein Sicilia, il porto più vicino al puntoin cui sono stati raccolti i naufraghi.

29 giugno: la Rete Asilo decide diessere presente all’attracco dellanave per prestare assistenza ainaufraghi.

30 giugno: la nave comunica di nonpotere entrare nel porto di Lampe-dusa, troppo piccolo per la sua staz-za. Viene consigliato il porto diPozzallo, ma la nave non vi arriva perun malinteso (dalla nave capisconoPort Salo, località inesistente). In

tarda serata la nave comunica divolersi dirigere a Porto Empedocle echiede assistenza legale e umanita-ria per i naufraghi imbarcati.

1 luglio: con il legale del Consiglioitaliano rifugiati (Cir), la Rete Asilo sireca a Porto Empedocle per acco-gliere la nave, alla quale però ènegata l’autorizzazione all’ingressonelle acque territoriali.

La Cap Anamur resta ferma 17miglia al largo della costa siciliana.

Il comandante della Capitaneria diporto di Porto Empedocle dapprimanega di essere a conoscenza dellaposizione della nave; in un secondotempo ammette d’avere notizia dellasua presenza, ma nega di aver rice-vuto la richiesta di ingresso nelleacque territoriali. L’ufficiale garanti-sce però che la situazione sanitaria abordo è sotto controllo e che qual-siasi necessità urgente della naveverrà soddisfatta.

Dalla nave intanto comunicanoche scarseggiano acqua potabileimbottigliata, latte, cibi freschi.

Decidiamo che una delegazione diEmergency raggiunga la Cap Anamuril giorno seguente per rifornirla deibeni richiesti.

Quando informiamo la Capitaneriadi porto dell’intenzione di recarci abordo, l’ufficiale ci avvisa che se ladelegazione umanitaria portasse aterra qualcuno dei naufraghi potreb-be essere incriminata per «favoreg-giamento all’immigrazione clandesti-na», lo stesso capo di imputazioneattribuito agli “scafisti”.

2 luglio: alle nove del mattino, ladelegazione si trova a Sciacca con uncarico di acqua e viveri per imbar-carsi sulla “Piga”, in cima alla qualesventolano le bandiere della pace edi Emergency.

Oltre a me, a bordo ci sono VassalloPaleologo e Giovanni Annaloro,entrambi avvocati e membri dell’Asgi(Associazione studi giuridici sull’immi-grazione), Enrico Montalbano, video-maker e componente dell’Osserva-torio permanente sull’immigrazione,Lillo Miccichè, deputato all’Assemblearegionale siciliana.

Il capitano della Cap Anamur, EliasBierdel, ci invita a bordo, ma i dueavvocati temono che accostarsi trop-po alla nave possa spingere qualcu-no dei profughi a tentare di salirvi.

Elias Bierdel decide perciò di rag-giungerci con un gommone.

Mentre continuiamo ad avvicinar-ci, scorgiamo la Cap Anamur circon-data da diverse imbarcazioni e sor-

volata a bassa quota da un elicotteroche sta creando panico fra alcuni deinaufraghi che temono di esseremitragliati. Più al largo sosta unanave della marina militare.

Appena giungiamo in vista, giàfuori dalle acque territoriali, ci siavvicina un motoscafo della Guardiadi Finanza per chiedere i nostri docu-menti di identità. Intanto sull’altrofianco si è avvicinata anche unamotovedetta della Capitaneria diPorto.

Dopo uno scambio via radio colcomando a terra, ci “raccomanda-no” di non tentare di riportare aterra nessuno dei naufraghi “clan-destini”, pena l’incriminazione per«favoreggiamento all’immigrazioneclandestina».

Infine, permettono che la Piga siavvicini alla nave, scortandola davicino.

Intanto dalla Cap Anamur parte ungommone con a bordo il capitanoElias e altre due persone.

Appena arrivato sulla Piga, Eliasfa un appello alle nostre telecamere:è pronto a chiarire gli spostamentidella sua nave davanti alle autoritàitaliane.

Al momento di separarci, con noitornano a terra 5 giornalisti tede-schi che erano a bordo della nave eche verranno interrogati a lungo inquestura.

4 luglio: ormai il “caso Cap Anamur”occupa le prime pagine dei giornali.Malgrado l’attivazione di molte orga-nizzazioni, il governo italiano restairremovibile. La vicenda diventa uncaso diplomatico in cui sono coinvol-te Italia, Germania e Malta, stato incui, secondo le autorità italiane, laCap Anamur avrebbe dovuto attrac-care. Intanto la nave rimane in altomare.

5-6 luglio: continuano i contatti fra ilgoverno italiano e la Cap Anamur, cherimane in acque extra territoriali.

7 luglio: la Piga ed Emergency torna-no alla Cap Anamur, al suo nono gior-no di attesa, per portare acqua,generi alimentari, un medico dellaCgil medici e il presidente delConsiglio italiano rifugiati.

Giunti a bordo, Elias ci accompa-gna a visitare il vecchio mercantile.

I naufraghi sono ospitati nel vanoportacontainers, un grande spaziodove aria e luce arrivano dal vanoper il carico.

Alcuni container sono predisposticome servizi igienici e cucine, in un

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angolo si trovano un biliardino, untavolo da ping pong e un televisore.

Tutto è accuratamente pulito e inordine.

I migranti sono seduti a terra econ loro c’è Birgit, l’infermieradella nave.

Ci accolgono con un applauso e apoco a poco raccontano le loro storie.

Un giovane dice di essere fuggitodopo aver assistito all’uccisione deigenitori da parte di predoni. Nel suopaese studiava economia, parla benel’inglese e qualche parola di francese.

Durante la fuga ha perso di vistala sorellina, non ne ha più notizie edè molto preoccupato.

Continuiamo il giro della nave,spartana, ma ben attrezzata. Sulponte, altri container ospitano unapiccola infermeria ben fornita di far-maci e una sala operatoria almomento non in uso poiché in que-sto viaggio sulla Cap Anamur non viè una équipe medica (quando il suoviaggio si è interrotto, la nave stavatrasportando materiali sanitari e diprima necessità verso l’Iraq); altricontainer contengono due stanze diricovero a due letti con aria condi-zionata e attrezzature per la riani-mazione.

Al nostro ritorno in infermeria, ilmedico ha già iniziato le visite.

Un paziente riporta i sintomi di unrisentimento appendicolare, situa-zione che potrebbe diventare preoc-cupante nel caso fosse necessarioun ricovero urgente.

Molti dei profughi hanno diarrea eproblemi di stomaco, uno soffre diamebiasi. Tutti presentano un’evi-dente situazione di stress, che inalcuni porta a forme psicosomatichecon dolori di varia localizzazione.

Al nostro ritorno a terra, insiemealle autorità sanitarie locali, predi-sponiamo un piano di emergenza pereventuali ricoveri nell’ospedale diSciacca, che rimane in preallarme.

9 luglio: continua l’empasse diplo-matico fra Germania, Malta e Italiache si attribuiscono l’un l’altro laresponsabilità dell’accoglienza deimigranti.

Intanto, a bordo della GolettaVerde una delegazione di organizza-zioni, sindacati e politici raggiunge laCap Anamur.

11 luglio: riceviamo una telefonatadurante la notte: la situazione abordo si è fatta insostenibile, i nau-fraghi minacciano di lanciarsi amare, gridano e piangono. Uno diloro ha avuto delle reazioni violen-

te e adesso è sotto sedativi ininfermeria.

A causa dell’emergenza, Elias haintenzione di chiedere il permesso dientrare in acque italiane.

In mattinata, torniamo al porto diPorto Empedocle.

La richiesta è già stata inviata alleautorità italiane, ma alle 11.30, nonc’è ancora nessuna risposta.

Sul molo, aumenta la presenza ditelecamere e giornalisti.

Fra le voci, una è insistente: ilministro Pisanu in persona avrebbeconcesso l’autorizzazione allo sbar-co, ma il capitano della nave non nesa nulla e l’approdo continua a esse-re negato.

Dalla Cap Anamur parte il codice«Pan-Pan», un codice di emergen-za di livello appena inferiore alMay-Day.

La Capitaneria di Porto sostiene dinon aver ricevuto nessun fax di assi-stenza (dalla nave dicono di averloinviato da ore) e chiede di rimandarlo.

A mezzogiorno parte il fax e parteanche la nave: il capitano ritiene lasituazione ormai troppo pericolosaper l’incolumità dei naufraghi e farotta verso il porto, forzando il limitedelle acque territoriali.

Dal porto salpano a sirene spiega-te le vedette della Capitaneria, imezzi della Guardia di Finanza edella Polizia. Intanto, vediamo com-parire all’orizzonte la Cap Anamur,che viene fermata sotto costa.

Al molo giungono un pullman e leambulanze del Cpt di Agrigento, ilprimo segno evidente del destinoche le autorità italiane hanno decisodi riservare ai naufraghi: una galera

con altro nome, anche peggioredelle altre.

La polizia chiede ai media e alleassociazioni presenti sul molo dilasciare la zona di attracco; solo aEmergency, Cir e Acnur viene per-messo di restare.

La Cap Anamur, nel frattempo, è dinuovo ferma alla fonda.

Passano le ore, i legali del Cir ven-gono portati a bordo con una vedet-ta. Dopo qualche ora la nave si allon-tana scortata dalle imbarcazionidella Capitaneria, della Guardia diFinanza e della Polizia.

Ci comunicano che le autorità ita-liane non intendono concedere ilpermesso di sbarco sino a quando laGermania, a cui i 37 naufraghi hannopresentato le richieste di asilo politi-co tramite l’Acnur (la nave è territo-rio tedesco), non chiarirà la volontàdi accogliere i migranti.

12 luglio: alle 11.30 la Cap Anamurentra in porto. Affacciati alle murate,i 37 profughi salutano chi è sul molo.I migranti sbarcano e vengono fattisalire su un pullman diretto al Cpt dicontrada S. Benedetto, ad Agrigento.

Quando facciamo notare che ladestinazione sarebbe dovuta essereun Centro di accoglienza, e non unCentro di permanenza temporanea,ci rispondono che sono stati traspor-tati lì solo per l’identificazione.

Intanto, Elias Bierdel, il capitanodella Cap Anamur Stefan Schmitd e ilsecondo Vladimir Dhchkevitch ven-gono prelevati da due volanti dellapolizia. Sapremo più tardi del loroarresto per «favoreggiamento all’im-migrazione clandestina» e del loro

trasferimento al carcere agrigentinodi contrada Petrusa.

Le autorità mi negano il permessodi accesso al Cpt con la motivazionedi dover prima effettuare il controllodelle mie generalità. L’accesso vienenegato anche a Lillo Miccichè, chene ha diritto in qualsiasi momentonella sua qualità di deputato regio-nale, e agli avvocati presenti.

Nei giorni successivi, i migrantivengono trasferiti al Cpt di Pian delLago di Caltanissetta.

Nonostante l’intervento di legali edeputati, i migranti verranno espulsi.

30 luglio: a rimpatrio avvenuto di 35dei 37 naufraghi, riceviamo la notizia– che suona come una tristissimabeffa – dell’accettazione dei ricorsidi 14 di loro. Solo uno di loro è anco-ra in Italia e avrà la possibilità diottenere il permesso di soggiorno.

Intanto, i tre rappresentanti del-l’associazione Cap Anamur sonostati scarcerati e sono rientrati inGermania, anche se dovranno subireun processo in Italia.

La nave simbolo dell’associazioneè tuttora attraccata al molto di PortoEmpedocle, sottoposta a sequestrogiudiziario.

Gli sbarchi, intanto, continuanosulle coste siciliane, alternandosi ainaufragi nel canale di Sicilia.

Chi arriva a terra incontra le bru-talità previste dalla legge. Altri,silenziosamente, scompaiono persempre nelle acque del Mediter-raneo senza ricevere soccorso esenza recare disturbo.

EMILIA TORNATORE

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tura, lingua, tradizioni. Rimane daverificare se l’Europa è pronta perquesta nuova sfida.

Diverse provenienze e tradi-zioni, unificate (o da unifica-re) nel rispetto dei diritti

«L’Unione è fondata sui principi dilibertà, democrazia, rispetto deidiritti umani e delle libertà fonda-mentali» come ricorda l’art.6 delTrattato di stabilità dell’UnioneEuropea, che fonda l’Europa suvalori comuni.

La stessa costituzione europeapromuove l’«unità nella diversità»,ma finora sembra che non abbiaancora preso seriamente in carico ilsuo mandato di proteggere le diver-sità presenti nell’UE.

La protezione dei diritti fonda-mentali è un aspetto ancora criticodel processo di adesione all’UE.

A partire dal 1° maggio2004 l’Unione Europeacomprende dieci nuovi

stati: i paesi del Baltico (Estonia,Lituania e Lettonia), Ungheria,Polonia, Repubblica Ceca, Slovac-chia, Slovenia e infine Malta eCipro.

Con l’adesione di questi nuovidieci stati membri, l’Unione Europeaha conosciuto il più sostanzialeampliamento della propria consi-stenza negli ultimi cinquant’anni,conferendo all’Europa una conti-nuità territoriale che va dal Me-diterraneo al Mar Nero.

L’Unione Europea dà il benvenutoa 75 milioni di «nuovi europei», rag-giungendo un totale di 455 milioni dicittadini.

La popolazione di questa nuovaEuropa è diventata considerabil-mente più diversa in termini di cul-

DIRITTI UMANI L’EUROPA CHE DEV’ESSERELa pura appartenenza all’Unione europea non è garanzia di pluralismo,di rispetto dei diritti umani e delle minoranze. L’estensione quantitativanon garantisce queste «qualità», che debbono essere oggetto di moni-toraggio, ma soprattutto di pratica attuazione.

TANTI, TANTO DIVERSI:

UN’UNIONE SALUTARE?

«Che tutti i cittadini godano di buona salute èun obiettivo cruciale per le democrazie euro-pee. Ma questa condizione è ancora lontananell’Europa di oggi» ha detto il 15 luglio scor-so, al Parlamento di Bruxelles, David Byrne,Commissario europeo per la sanità e la pro-tezione dei consumatori.«E il divario sta aumentando – ha aggiunto –a seconda del posto in cui ciascuno vive, dellavoro che svolge, di quanto guadagna».La disparità si è ulteriormente acuita con l’al-largamento dell’Unione Europea da 15 a 25stati membri, realizzato il primo maggio scor-so. Una piccola rivoluzione per la Ue, che si èritrovata con il 34% di superficie territoriale inpiù, un incremento di popolazione pari al 28%e i confini orientali completamente mutati. Slovenia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovac-chia, Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia,Cipro e Malta – i 10 nuovi stati – sono profon-damente eterogenei tra loro, oltre che rispet-to agli altri membri europei. Un dato esemplificativo: la speranza di vitadi un cittadino svedese è di 13 anni superio-re a quella di un lettone, ma di soli 5 a quel-la di uno sloveno.

La «speranza di vita alla nascita», che non èun dato meramente sanitario, è un indicato-re delle condizioni sociali, politiche, culturalied economiche del paese a cui si riferisce. In questo contesto, un’unica politica sanita-ria comune a tutta l’Unione Europea – con leopportunità e i vincoli determinati dall’ade-sione all’Ue – avrà ricadute varie e non sem-pre prevedibili sui sistemi sanitari dei nuovipaesi membri. L’opportunità di lavorare in altri paesi euro-pei, per esempio, sarà certamente sfruttatada molti dei medici e degli infermieri dell’est,abituati a percepire stipendi più bassi e alavorare in condizioni meno favorevoli diquelle della vecchia Europa. Un terzo dei medici cechi ha studiato il tede-sco e i due terzi parlano inglese, caratteristi-che che ne facilitano la mobilità.Sono già 700 i medici cechi impiegati inGermania e il numero degli emigranti incamice bianco è destinato a crescere, se nona esplodere. La fuga di camici bianchi dalla RepubblicaCeca è destinata a diventare un problemaancor più consistente alla luce del fatto chepiù di un quarto dei medici attualmente inservizio sta per andare in pensione. Gli ospedali cechi stanno approntando veri e

propri piani di crisi in risposta alle improvvi-se perdite di personale. Al momento i 700 “transfughi” sono statirimpiazzati da altrettanti medici slovacchi,che avevano trovato conveniente emigrarenella vicina Repubblica Ceca, ma che orapotrebbero preferire altri paesi europei benpiù remunerativi.Gli standard lavorativi europei, più rispettosidi orari e turni di riposo, inoltre, compliche-ranno ulteriormente l’organizzazione dellestrutture pubbliche abituate a far fronte allamancanza di personale con l’utilizzo di turnidi lavoro prolungati. È quanto accade in Ungheria, dove le diffi-coltà economiche del sistema sanitario sonocosì preoccupanti che anche i progetti di pri-vatizzazione sono falliti per carenza di inve-stitori privati.La situazione ungherese non è diversa daquella di altri stati dell’Europa dell’estcostretti, dopo il 1989, a governare unaprofonda trasformazione sociale e il collassodei loro sistemi economici. Per tutti il primo passo è stato l’alleggeri-mento della dispendiosa organizzazioneburocratica del sistema sanitario per ade-guarsi alla domanda di nuove competenze,migliore tecnologia e maggiore flessibilità; si

I paesi candidati sono sottoposti ascrutinio per diversi anni per assi-curarsi che le loro leggi siano inlinea con le norme europee.

Ma la realtà dei nuovi stati mem-bri, nonostante la recente avvenutaannessione, è lontana dall’essererassicurante.

Esistono ancora seri problemiche riguardano l’amministrazionedella giustizia, la lotta alla corruzio-ne e al crimine organizzato, ladiscriminazione delle minoranze, inparticolare della popolazione russae della minoranza rom, l’integrazio-ne degli omosessuali, la lotta alturismo sessuale e alla prostituzio-ne minorile.

Per anni la gestione dei dirittiumani a livello europeo è statacostantemente rimandata e delega-ta alle responsabilità nazionali oalle numerose ONG.

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Il risultato è stato la Dichia-razione di Bolzano in cui si sonoposte le basi per la creazione diun’organizzazione sovranazionaleeuropea per i diritti umani con iseguenti compiti: • migliorare l’osservazione degli

stati candidati, • integrare e proteggere le mino-

ranze nell’UE monitorando ilrispetto dei diritti umani neglistati membri,

• rafforzare l’Unione Europeacome comunità di valori,

• migliorare la cooperazione traUnione Europea, Consiglio d’Eu-ropa e Ocse (OrganizzazioneEuropea per la Cooperazione e laSicurezza)

• realizzare così l’“unità nelladiversità”.L’HRA (Human Rights Agency)

risponde all’esigenza non più pro-crastinabile di creare un centroeuropeo che abbia il potere dibypassare i singoli ordinamentinazionali, a cui finora sono statidemandati i compiti di controllo, eche non sia solo un centro di com-petenza per i diritti umani ma cheabbia giuridicamente l’autoritàper tradurre in pratica l’integra-zione e la protezione delle mino-ranze.

Un’Europa «dei valori», condi-zione e significato dell’Eu-ropa dell’economia e dellamoneta

È stato con il Consiglio diCopenhagen del 1993 che si sonoposte le basi per l’allargamentodell’Unione verso est e verso l’areamediterranea.

Durante il vertice furono decisitre criteri per l’accoglimento delledomande di adesione: • l’impegno politico al raggiungi-

mento della stabilità delle istitu-zioni a garanzia della democra-zia, nonché il rispetto dei fonda-mentali diritti umani e la prote-zione delle minoranze (criteriopolitico);

• l’esistenza di un’economia dimercato aperta e la capacità difar fronte alla pressione concor-renziale del mercato all’internodell’Unione (criterio economico);

• la capacità di rispettare i propriobblighi e approvare gli obiettividell’Unione politica, economicae monetaria (criterio del recepi-mento dell’«acquis communau-taire»).Ci si chiede ora se il Consiglio

Europeo di Copenhaghen, in quel-l’occasione, abbia veramente con-sacrato l’idea di una Grande Europao abbia solo definito le regole per la

creazione di un grande mercatoeconomico e un territorio di interes-se per la strategia politica degliStati Uniti.

Al di là dei dibatti, i quindicihanno riservato, in realtà, ai nuovimembri un’accoglienza piuttostotiepida e un diffuso sentimento diindifferenza, se non di ostilità,attraversa tutti i cittadini europei.

La creazione di un’Europa chesappia confrontarsi, per la primavolta nella sua storia, con le diver-sità che la compongono e che sap-pia integrarle al meglio per l’obietti-vo comune di un’unità europea,sembra essere ancora lontano dauna reale applicazione.

Un sentimento di preoccupazioneper l’ondata di immigrati che dall’e-st si riverseranno negli stati occi-dentali in cerca di lavoro ha genera-to una sola reazione: la modificadelle leggi sull’immigrazione insenso più restrittivo.

Con l’arrivo dei dieci nuovi mem-bri è necessario consegnareall’Europa un nuovo ruolo, per poterrealmente fondare una società libe-rale, tollerante e multiculturale.

Far fronte a questi nuovi compitiè tanto più urgente, di fronte allaprospettiva di nuove entrate – diTurchia, Bulgaria e Romania – nel2007. NADIA FOLLI

La proclamata «unità nelladiversità» è però un obiettivo,non un fatto acquisito

Anche l’adozione della Carta euro-pea dei diritti fondamentali sotto-scritta nel 2000 non ha cambiatoquesta attitudine, se non ha addirit-tura corroborato la tendenza a con-siderare il rispetto dei diritti umanicome un obiettivo ormai raggiuntonei paesi dell’Unione.

In realtà i report annuali cheAmnesty International presentaconfermano reiterati abusi in tuttigli stati europei e sottolineano ilbisogno di creare a livello europeoun centro di osservazione.

Nel dicembre 2003 il Consigliod’Europa aveva sollevato l’urgenzaproponendo di convertire l’EUMonitoring Centre on Racism andXenophobia (EUMC) in una vera epropria agenzia per i diritti umani,estendendo il suo mandato. L’EUMCha cominciato le sue attività nel1998 e lavora per l’integrazionedegli immigrati e delle minoranzeetniche e religiose negli stati mem-bri dell’UE.

Nel gennaio del 2004 allaConferenza di Bolzano è statodiscusso l’impegno dell’UE nellaquestione del rispetto e della prote-zione delle minoranze dopo l’allar-gamento.

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sono poi dovute recuperare o sostituire infra-strutture obsolete; infine è stato necessariofar fronte ad aspettative radicate di assisten-za gratuita, consolidate dalla maggiorepovertà e dalla più ampia disparità sociale.In questo contesto, anche l’introduzione dimodeste tariffe per le prestazioni mediche oper i medicinali, proposta da alcuni ministridella Sanità, è stata osteggiata con forza, avolte dagli stessi governi. L’ingresso nell’Unione Europea avrà prestoeffetti anche sulla distribuzione e sull’uso deifarmaci: se da un lato le disponibilità delmercato e le condizioni di vendita avrannoinevitabili conseguenze anche sulla doman-da e sul prezzo dei medicinali, dall’altro lapolitica comunitaria di promozione dei far-maci generici contribuirà a orientare i cittadi-ni verso tale scelta.In perfetta sintonia con quanto deciso nellaUe dei 15, la Slovacchia ha già introdotto unanorma che obbliga i farmacisti a informare icittadini dell’esistenza di farmaci genericiequivalenti a quelli richiesti. Tra le priorità segnalate dal commissarioByrne in materia di salute pubblica, duesaranno di particolare importanza per i nuovipaesi membri dell’Unione.La ricerca scientifica porterà sicuramente molti

benefici ai nuovi stati membri in finanziamentiper strutture e per progetti di ricerca. Inoltre,l’apertura dei confini favorirà gli scambi e lacondivisione del sapere, evitando sprechi esovrapposizioni. La prevenzione, invece, riguardando più davicino lo stile di vita dei singoli cittadini, pre-senta aspetti più controversi.L’obiettivo europeo consiste nello spostareattenzione e risorse dalla cura delle malattiealle attività di prevenzione, con il coinvolgi-mento diretto dei cittadini nelle scelte cheriguardano la loro salute.In questa direzione, alcuni dei paesi dell’esthanno già mosso i primi passi: la Polonia staconducendo una politica di informazione e didivieti sul fumo perfettamente in linea conquella europea e la Slovenia sta cercando dicontrastare l’abuso di alcol attraverso la pro-mozione di un dibattito pubblico e l’imposi-zione di restrizioni legali della vendita. Secondo alcuni commentatori, gli slovenistarebbero già perdendo le loro peggiori abi-tudini in fatto di alcolici grazie ai maggioricontatti con l’occidente, secondo altri lamaggiore disponibilità di birra e di altrebevande alcoliche favorita dall’apertura delmercato ne avrebbe invece già incrementatoil consumo.

Ora che la circolazione delle persone è diven-tata più libera, si registrano cambiamentianche dal punto di vista epidemiologico.La casistica dell’Aids, che fino ai primi anninovanta era molto limitata nei paesi dell’est,è nettamente aumentata.Conseguenza questa anche di un profondocambiamento sociale: disparità sociali epovertà hanno portato all’aumento della pro-stituzione, della criminalità e del consumo disostanze stupefacenti.A questa nuova emergenza, gli stati apparte-nuti al blocco sovietico hanno dato rispostemolto diverse: dalla solerzia della Slovacchiache ha consentito di arginare il problema,alla reazione affaticata di Ucraina, Russia eBielorussia dove la malattia registra oggi unacrescita esplosiva. E poiché i virus non si arrestano alla frontie-ra, l’Europa dei 25 dovrà certamente occupar-si di contrastare la diffusione delle malattieinfettive anche oltre i suoi confini: non è uncaso che il commissario Byrne nel suo discor-so al Parlamento faccia riferimento anche ainterventi di sostegno verso gli stati confi-nanti per favorirne il benessere e la salute.

LAURA PERROTTA

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Gruppi territoriali

• VAL D’AOSTA

Gruppo di Aosta0165/230192 329/[email protected]

• PIEMONTEGruppo di Torino328/[email protected]

Gruppo di Pinerolo TO349/[email protected]

Gruppo di Alessandria-Casale AL0131/443488 0142/[email protected]

Gruppo di Asti0141/853487 348/[email protected]

Gruppo di Biella335/[email protected]

Gruppo di Cuneo0171/602032 338/[email protected]

Gruppo di Savigliano CN347/[email protected]

Gruppo di Novara347/[email protected]

Gruppo di Arona NO335/[email protected]

Gruppo di Verbania348/[email protected]

Gruppo di Lago D’Orta VB0322/915965 328/[email protected]

Gruppo di Vercelli347/[email protected]

Gruppo di Borgosesia VC 0163/23101348/[email protected]

• LOMBARDIA

Gruppo della Brianza MI333/[email protected]

Gruppo di Buccinasco MI339/[email protected]

Gruppo di Cassano-Fara D’Adda MI0363/[email protected]

Gruppo di Magenta MI339/[email protected]

Gruppo di Pessano con Bornago MI349/2216047 02/[email protected]

Gruppo di San Giuliano MI338/[email protected]

Gruppo di San Vittore Olona Mi0331/[email protected]

Gruppo di Sesto San Giovanni MI349/[email protected]

Gruppo di Settimo Milanese MI02/3281948 333/[email protected]

Gruppo di Usmate Velate MI039/673324 039/[email protected]

Gruppo di Bergamo338/[email protected]

Gruppo di Isola Bergamasca328/[email protected]

Gruppo di Brescia030/[email protected]

Gruppo di Cremona328/[email protected]

Gruppo di Merate-Lecco039/[email protected]

Gruppo di Lodi340/0757686 329/[email protected]

Gruppo di Mantova0376/[email protected]

Gruppo di Monza MZ338/[email protected]

Gruppo di Pavia0382/559115 338/[email protected]

Gruppo di Vigevano PV0381/690866 328/[email protected]

Gruppo della Valtellina0342/684033 320/[email protected]

Gruppo di Varese333/7158873 333/[email protected]

Gruppo di Busto Arsizio VA0331/[email protected]

• VENETO

Gruppo di Venezia347/[email protected]

Gruppo delle Città del Piave VE335/7277849 fax 0421/[email protected]

Gruppo di Spinea VE041/994285 339/[email protected]

Gruppo di Belluno0437/[email protected]

Gruppo di Padova349/[email protected]

Gruppo di Colli Euganei PD328/[email protected]

Gruppo di Rovigo0425/421619 348/[email protected]

Gruppo di Treviso0422/545273 340/[email protected]

Gruppo di Verona045/914954 045/[email protected]

Gruppo di Vicenza328/[email protected]

Gruppo di Asiago VI333/[email protected]

Gruppo di Thiene VI349/[email protected]

• FRIULI VENEZIA GIULIA

Gruppo di Trieste 347/[email protected]

Gruppo di Udine 0432/580894 339/[email protected]

Gruppo di Monfalcone GO0481/[email protected]

Gruppo di Pordenone389/9147244 fax. 02/[email protected]

• TRENTINO ALTO ADIGE

Gruppo di Dro TN0464/[email protected]

Gruppo di Rovereto TN0464/422725 339/[email protected]

Gruppo di Bolzano BZ349/6354653 340/[email protected]

• LIGURIA

Gruppo di Genova010/[email protected]

Gruppo del Tigullio GE0185/288400 349/[email protected]

Gruppo di Ventimiglia IM0184/351967 339/[email protected]

Gruppo di La Spezia349/[email protected]

Gruppo di Savona019/[email protected]

• EMILIA ROMAGNA

Gruppo di Bologna348/[email protected]

Gruppo di Crespellano BO333/[email protected]

Gruppo di Imola BO0542/42448 339/[email protected]

Gruppo di Ferrara333/[email protected]

Gruppo di Forlì339/1426262 335/[email protected]

Gruppo di Cesena FO348/[email protected]

Gruppo di Modena059/763110 347/[email protected]

Gruppo di Fanano MO329/[email protected]

Gruppo di Parma0524/[email protected]

Gruppo di Piacenza0523/617731 339/[email protected]

Gruppo di Ravenna338/[email protected]

Gruppo di Faenza RA347/[email protected]

Gruppo di Reggio Emilia0522/555581 347/[email protected]

Gruppo di Rimini 335/[email protected]

• REPUBBLICA SAN MARINO

Gruppo di Repubblica di San Marino335/[email protected]

• TOSCANA

Gruppo di Firenze339/[email protected]

Gruppo di Empoli FI349/[email protected]

Gruppo di Rignano sull’Arno FI339/1734165 338/[email protected]

Gruppo di Sesto Fiorentino FI055/4492880 339/[email protected]

Gruppo di Signa FI055/8735494 349/[email protected]

Gruppo di Arezzo347/[email protected]

Gruppo di Grossetano GR338/7100705 0566/[email protected]

Gruppo del Monte Amaita GR347/3614073 347/[email protected]

Gruppo di Livorno0586/503271 333/[email protected]

Gruppo di Lucca0583/578318 349/[email protected]

Gruppo della Versilia LU0584/[email protected]

Gruppo della Lunigiana MS0187/429120 339/[email protected]

Gruppo di Pisa320/[email protected]

Gruppo di Volterra PI0588/[email protected]

Gruppo di Pistoia348/[email protected]

Gruppo dell’Altopistoiese PT329/[email protected]

Gruppo di Prato349/[email protected]

Gruppo della Valdelsa SI347/[email protected]

Gruppo di Chiusi SI347/[email protected]

• LAZIO

Gruppo di Colleferro FR339/[email protected]

Gruppo di Monte San Biagio LT329/[email protected]

Gruppo di Cassino FR339/8611705 347/[email protected]

• MARCHE

Gruppo di Ancona347/[email protected]

Gruppo di Fabriano AN 0732/4559 335/[email protected]

Gruppo di Jesi AN328/7093838 0731/[email protected]

Indichiamo alcuni recapiti territoriali, presso i quali è possibile ricevere infor-mazioni sulle attività di Emergency.

Non si tratta di sedi territoriali aperte al pubblico ma riferimenti di gruppi divolontari, che aiutano Emergency a promuovere una cultura di pace e a racco-gliere fondi per sostenere i progetti umanitari nei Paesi in guerra.

Coloro che lo desiderano, sono invitati a rivolgersi al riferimento territoriale piùvicino per unirsi al gruppo o a proporsi alla sede di Milano per creare nuovi con-tatti sul territorio.

30 EMERGENCY n. 32 • settembre 2004

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31EMERGENCY n. 32 • settembre 2004

Gruppo di Ascoli Piceno0736/332868 339/[email protected]

Gruppo di Cagli PU0721/[email protected]

• UMBRIA

Gruppo di Perugia075/[email protected]

Gruppo di Bastia-Assisi PG338/[email protected]

Gruppo di Città di Castello PG347/[email protected]

Gruppo di Foligno PG0742/[email protected]

Gruppo di Spoleto PG328/8113294 328/[email protected]

Gruppo di Terni 328/[email protected]

Gruppo di Orvieto TR329/[email protected]

• ABRUZZO

Gruppo di L’Aquila0862/[email protected]

Gruppo dell’Alto Sangro AQ339/[email protected]

Gruppo di Avezzano AQ328/8686045 086/[email protected]

Gruppo di Pescara328/[email protected]

• MOLISE

Gruppo di Isernia320/[email protected]

• CAMPANIA

Gruppo di Napoli339/[email protected]

Gruppo di Caserta081/5036204 329/[email protected]

Gruppo di Salerno089/[email protected]

Gruppo di Agropoli SA0974/821540 339/[email protected]

• BASILICATA

Gruppo di Potenza0971/[email protected]

Gruppo di Policoro MT0835/[email protected]

• PUGLIA

Gruppo di Bari080/5540204 347/[email protected]

Gruppo di Molfetta BA080/3389668 333/[email protected]

Gruppo di Nardò LE338/[email protected]

Gruppo di Ruffano LE0833/692227 328/[email protected]

• CALABRIA

Gruppo di Cosenza329/6167522 339/[email protected]

Gruppo di Crotone338/3284302 0962/[email protected]

Gruppo di Catanzaro338/[email protected]

• SARDEGNA

Gruppo di Cagliari339/[email protected]

Gruppo di Serrenti CA347/[email protected]

Gruppo di Nuoro0784/844043 329/[email protected]

Gruppo di Ghilarza OR340/[email protected]

Gruppo di Milis OR0783/[email protected]

Gruppo di Scano Montiferru OR349/[email protected]

Gruppo di Sassari333/[email protected]

Gruppo di Alghero SS347/[email protected]

Gruppo di Olbia SS0789/23715 347/[email protected]

• SICILIA

Gruppo di Palermo333/[email protected]

Gruppo di Agrigento0922/[email protected]

Gruppo di Catania348/[email protected]

Gruppo di Piazza Armerina EN0935/681475 347/[email protected]

Gruppo di Messina090/674578 348/[email protected]

Gruppo di Vittoria RG338/[email protected]

Gruppo di Siracusa349/[email protected]

Gruppo di Trapani0923/539124 347/[email protected]

Emergency ringrazia:

• Arci Ferrara• Arcoquattro• Arezzo Wave• Caparezza• Coop Lombardia• Ebay• Euro• Federico Tonetti• FNAC• Fondazione Cariplo• Fondazione Cassa di

Risparmio Trento e Rovereto• Fondazione MPS• Gruppo Brand Portal• Guido Scarabottolo• Inet• Lella Costa• Librerie Feltrinelli• Librerie Il Libraccio• Meridiana• Moni Ovadia• Nordi Conad• Samuele Bersani• Smemoranda• Telecom Italia

EMERGENCY

COMPAGNIDI VIAGGIO

Nota informativa (ex art. 10 legge 675/1996)Emergency - titolare del trattamento - via Orefici 2, 20123 Milano - informa che i dati saranno trattati manualmente edelettronicamente, nel rispetto della massima riservatezza, per l’invio della presente pubblicazione trimestrale nonché perpromuovere e far conoscere le iniziative di Emergency. I dati non saranno né comunicati né diffusi. Ai sensi dell’art. 13,legge 675/1996, è possibile esercitare i relativi diritti fra cui consultare, modificare e cancellare i dati scrivendo aEmergency. Il nominativo dei Responsabili può essere chiesto direttamente ad Emergency.

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EMERGENCYè un’organizzazione umanitaria senza fini di lucro, sorta per iniziativa di medici, infermieri, tecnici con esperienza di lavoro umanitario in zone di guerra.Gli obiettivi di EMERGENCY sono:– curare le vittime civili dei conflitti

organizzando ospedali e centri di riabilitazione;– prestare assistenza sanitaria

di base alle popolazioni nelle zone di guerra con particolare attenzione per i problemi materni e infantili;

– addestrare personale locale a far fronte alle necessità mediche, chirurgiche e riabilitative più urgenti;

– dare attuazione ai diritti umani per chi soffre le conseguenze sociali di guerre, fame, povertà, emarginazione.

– diffondere una cultura di pace.

Rivista trimestrale dell’associazione Emergency.Redazione: via Orefici 2, 20123 Milano – tel. 02/863161, fax. 02/86316336

– E-mail: [email protected]. Direttore responsabile: Roberto Satolli. Direttore: Carlo Garbagnati(CG). Hanno collaborato a questo numero: Ketty Agnesani, Andrea Bellardinelli, Marco Cattaneo,Alessandro Conca (AC), Valeria Confalonieri, Nadia Folli, Anna Claudia Furgeri Caramaschi,Simonetta Gola, Ake Hyden, Rossella Miccio, Antonio Molinari, Laura Perrotta, Giorgio Raineri (GR),Sonia Riccelli, Mario Rucano (MR), Emilia Tornatore, Jasmina Trifoni. Progetto grafico e impagina-zione: Vincenzo Scarpellini, Guido Scarabottolo, Raffaela Busia. Immagini: Archivio Emergency, GiBiPeluffo. Stampa: Litografica Cuggiono, Registrazione Tribunale di Milano al n°701 del 31.12.1994.

EMERGENCY

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A nche l’abito bianco non era indossato,«messo addosso»: gli veniva da dentro,quasi una necessità. Come la lunga

barba bianca. Come le sue parole. Che nonerano prima scelte poi dette o scritte, ma scatu-rivano, affioravano come un’evidenza: da lui,dalla sua vita.

Essere un inviato di guerra è un mestiererispettato e rispettabile, ma pur sempre unmestiere. Aveva incominciato così. Poi èstato un’altra cosa. Si è trasformato inTiziano Terzani, sottratto a definizioni esten-sibili ad altri.

Il «nostro inviato» di una testata è diventato«nostro» per tutti: non tutti coloro che voglionosapere, ma per tutti coloro che devono sapere.Per tutti, semplicemente.

Ha raccontato la guerra del Vietnam e laCambogia di Pol Pot. Ha così accompagnato,percorrendolo a sua volta, il cammino di unagenerazione che ha scoperto infine come laguerra, la violenza, l’ideologia obbligata sianodisumane. E insieme come siano sterili e assur-de, come devastino il presente e distruggano ilfuturo.

Non ha distolto lo sguardo dall’orrore, nonne è rifuggito. Il suo «giro di giostra» è stato un«viaggio nel male e nel bene del nostro tempo».Ha visto con disincanto il male. Ha osservatoche «il bene» è la sola prospettiva ragionevole.

Non ha smesso di essere inviato di guerraper diventare inviato di pace: ha scoperto emostrato come la conoscenza della guerra tra-sformi in uomini di pace.

Non ha scelto lo stesso nostro cammino,né noi il suo: ha constatato quale camminosia il solo possibile e pensabile. Per ogniessere umano.

Nel dire le parole semplici dell’evidenza, si èritrovato profeta di nuovi orizzonti.

È stato un uomo, semplicemente. E la suaesistenza ha mostrato che cosa di grande e diimpegnativo questo significhi. Non si è umaniper l’appartenenza a una specie o a un genere.L’umanità è una possibilità, un compito asse-gnato da svolgere.

L’umanità deve e può essere umana: è stataed è questa l’utopia necessaria di TizianoTerzani.

«Ogni volta che sono stato tra gli uomini, nesono ritornato meno uomo» è la premessa diun testo “spirituale” del XIV secolo.

Tiziano Terzani è stato tra gli uomini moltopiù a lungo, molto più intensamente del mona-co medievale. Per raggiungere e affidarci con-vinzioni opposte: l’amicizia tra gli umani e lafiducia nel futuro. CG

Q uanti sono i morti di Beslan? Trecento, quattrocento,ancora più numerosi? Quanti di loro sono bambini:quante le vite stroncate prima di essere vissute?

Le domande su come si sia oltrepassata questa soglia delladisumanità, sulla provenienza e sulle intenzioni dei sequestrato-ri assassini, sugli errori colpevoli o sui calcoli cinici di chi dovevacontrastarli e arginarne la ferocia, sulle cause remote, su comenulla possa essere causa di simili effetti… tutto questo è necessa-rio, giusto, doveroso chiedersi.

Ma le immagini che ci sono rimaste impresse provocano anzi-tutto smarrimento. E sembra in qualche modo sacrilego inter-rompere questo stupore incredulo con riflessioni che hanno ilsapore di una distrazione o di un diversivo.

Vogliamo soltanto comunicare, trasmettere ciò che quelleimmagini ci hanno evocato: analoghe o identiche situazioni vis-sute tante volte in quartieri di Bagdad, di Kabul, di Belgrado, diGerusalemme, di Gaza; in cittadine e villaggi iracheni, afgani,iugoslavi, israeliani, palestinesi…

L a sofferenza e la morte, il dolore di famiglie e di interecomu nità sono sconvolgenti, improvvisi e assurdiquando sono dovuti a feroci attentati, a errori casuali

nel colpire o nello scegliere l’obiettivo, obiettivi scelti e rag-giunti intenzionalmente… sono sempre immotivabili e inac-cettabili.

Estendere ad altre situazioni le emozioni e i pensieri che «ladiretta» dall’Ossezia ci ha suggerito non significa sminuire,stemperandoli, il turbamento e lo sdegno.

Dobbiamo sapere che situazioni e fatti altrettanto sconvolgen-ti si ripetono, ininterrottamente, sottratti allo sguardo di tutti.

Il dolore che abbiamo potuto conoscere una volta – questavolta – si produce deliberatamente, consapevolmente, innumere-voli volte.

Non dobbiamo conoscere l’estensione di questo dolore peraccettarlo con rassegnazione, ma per rifiutarlo con identicadecisione, se lo avremo compreso con la stessa umanità, con lastessa pietà. CG

A TIZIANO TERZ ANIè intitolato il terzo ospedaledi Emergency in Afganistan,costruito a Lashkar-Gah,capitale della provincia meridionale di Helmand,attivo dall’autunno 2004.

PROFETA DI SPERANZA

IN OSSEZIA E NEL MONDO