Diritti fondamentali e protezione delle linguistiche · 4 debolezza ‘ strutturale ’ div iene...

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1 Diritti fondamentali e protezione delle “istanze collettive di diversità”: il caso delle minoranze linguistiche di Paola Torretta in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2/2014, pp. 695-734 SOMMARIO: 1. Minoranze linguistiche e “soggetti collettivi”: la soluzione del Costituente. Note introduttive - 2. I “diritti collettivi” delle minoranze linguistiche: dall’attuazione dell’art. 6 Cost. alla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale - 3. Lo sviluppo di una ‘dimensione collettiva’ dei diritti delle minoranze linguistiche in ambito internazionale e sovranazionale - 4. Europa e minoranze linguistiche. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta europea delle lingue regionali: il riconoscimento di diritti individuali appartenenti alla fera dei gruppi linguistici minoritari - 4.1. Unione europea e minoranze linguistiche: la prospettiva dei Trattati - 5. Le minoranze linguistiche nella giurisprudenza delle Corti sovranazionali europee. La Corte europea dei diritti dell’uomo di fronte a rivendicazioni individuali a ‘valenza collettiva’ - 5.1. I gruppi linguistici minoritari come diretti destinatari delle tutele riconosciute dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo - 5.2. La Corte di Giustizia e le minoranze linguistiche: un divieto di discriminazione a senso unico? - 6. Le prospettive di sviluppo della giurisprudenza della Corte di Giustizia dopo Lisbona. Per una tutela delle minoranze non solo “in entrata”, ma anche “dentro” il sistema UE - 7. Verso un sistema europeo (integrato) di protezione delle minoranze? Osservazioni conclusive 1. Il tema della protezione delle minoranze è certamente ampio e denso di profili di indagine. Basti pensare ai diversi approcci definitori che storicamente hanno cercato di dare una compiuta nozione del fenomeno minoritario 1 . 1 Si segnala, al riguardo, il parere della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, che nell’interpretazione dei trattati di pace conclusi dopo il primo conflitto mondiale, e in particolare del Trattato Grecia-Bulgaria (1919), definisce minoranza «a group of persons living in a given country having a race, religion, language and tradition in a sentiment of solidarity, with a view to preserving their traditions, maintaining their form of worship, ensuring the instruction upbringing of their children in accordance with the spirit and traditions of their race and mutually assisting one other» (PCIJ, Interpretation of the Convention between Greece and Bulgaria respecting reciprocal emigration. Advisory Opinion of 31/7/1930, Series B, n. 17, 33). E’ nota poi la nozione di minoranza elaborata da Francesco Capotorti nel Rapporto speciale della sottocommissione delle Nazioni Unite per la lotta contro la discriminazione e la protezione delle minoranze (dal titolo «Etude des droits des personnes appartenant aux minorités ethniques, religieuses et linguistiques»), nella quale si parla di un gruppo «numericamente inferiore al resto della popolazione di uno stato, in una posizione non-dominante, i cui membri - essendo cittadini dello stato - posseggono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione e mostrano, quanto meno implicitamente, un senso di solidarietà inteso a preservare la loro cultura, tradizioni, religione o lingua».

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Diritti fondamentali e protezione delle “istanze collettive di diversità”: il caso delle minoranze

linguistiche

di Paola Torretta

in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2/2014, pp. 695-734

SOMMARIO: 1. Minoranze linguistiche e “soggetti collettivi”: la soluzione del

Costituente. Note introduttive - 2. I “diritti collettivi” delle minoranze linguistiche: dall’attuazione dell’art. 6 Cost. alla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale - 3. Lo sviluppo di una ‘dimensione collettiva’ dei diritti delle minoranze linguistiche in ambito internazionale e sovranazionale - 4. Europa e minoranze linguistiche. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta europea delle lingue regionali: il riconoscimento di diritti individuali appartenenti alla fera dei gruppi linguistici minoritari - 4.1. Unione europea e minoranze linguistiche: la prospettiva dei Trattati - 5. Le minoranze linguistiche nella giurisprudenza delle Corti sovranazionali europee. La Corte europea dei diritti dell’uomo di fronte a rivendicazioni individuali a ‘valenza collettiva’- 5.1. I gruppi linguistici minoritari come diretti destinatari delle tutele riconosciute dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo - 5.2. La Corte di Giustizia e le minoranze linguistiche: un divieto di discriminazione a senso unico? - 6. Le prospettive di sviluppo della giurisprudenza della Corte di Giustizia dopo Lisbona. Per una tutela delle minoranze non solo “in entrata”, ma anche “dentro” il sistema UE - 7. Verso un sistema europeo (integrato) di protezione delle minoranze? Osservazioni conclusive

1. Il tema della protezione delle minoranze è certamente ampio e denso di profili di

indagine. Basti pensare ai diversi approcci definitori che storicamente hanno cercato di

dare una compiuta nozione del fenomeno minoritario1.

1 Si segnala, al riguardo, il parere della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, che

nell’interpretazione dei trattati di pace conclusi dopo il primo conflitto mondiale, e in particolare del Trattato Grecia-Bulgaria (1919), definisce minoranza «a group of persons living in a given country having a race, religion, language and tradition in a sentiment of solidarity, with a view to preserving their traditions, maintaining their form of worship, ensuring the instruction upbringing of their children in accordance with the spirit and traditions of their race and mutually assisting one other» (PCIJ, Interpretation of the Convention between Greece and Bulgaria respecting reciprocal emigration. Advisory Opinion of 31/7/1930, Series B, n. 17, 33). E’ nota poi la nozione di minoranza elaborata da Francesco Capotorti nel Rapporto speciale della sottocommissione delle Nazioni Unite per la lotta contro la discriminazione e la protezione delle minoranze (dal titolo «Etude des droits des personnes appartenant aux minorités ethniques, religieuses et linguistiques»), nella quale si parla di un gruppo «numericamente inferiore al resto della popolazione di uno stato, in una posizione non-dominante, i cui membri - essendo cittadini dello stato - posseggono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione e mostrano, quanto meno implicitamente, un senso di solidarietà inteso a preservare la loro cultura, tradizioni, religione o lingua».

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Scopo di questo studio è l’individuazione delle garanzie riservate alle minoranze in

quanto soggetti collettivi, e non solo dal punto di vista delle tutele riconosciute ai singoli

che vi appartengono.

Ciò che implica, prima di tutto, l’analisi dell’inquadramento di queste comunità ristrette

ad opera degli ordinamenti giuridici (sul piano nazionale, internazionale e sovranazionale),

nonché delle tecniche di tutela delle istanze dalle stesse rivendicate.

L’ambito di osservazione prescelto per la ricerca qui condotta è quello della protezione

degli idiomi minoritari, in ragione della valenza collettiva che il fattore linguistico assume

quale carattere espressivo dell’identità culturale condivisa da una data compagine sociale2. Il

tema, peraltro, proprio sotto il profilo della garanzia di interessi riferibili a situazioni

minoritarie, offre una chiara prospettiva di integrazione dei modelli di tutela dei diritti

fondamentali in ambito nazionale ed europeo.

Muovendo dal panorama normativo interno, il territorio italiano è fortemente

caratterizzato dall’insediamento di gruppi linguistici minori, tanto che la Costituzione,

riconoscendo il ruolo fondamentale di queste presenze nello scenario di una democrazia

pluralista, pone la tutela delle lingue minoritarie tra i valori fondativi e irrivedibili

dell’ordinamento3. Segno che la questione non rimane confinata alla ‘gestione’ di alcuni

territori del Paese dove è maggiore la concentrazione di questi idiomi particolari, e quindi

alla sfera dei rapporti fra Stato e Regioni, ma è assunta come profilo che, insieme ad altri

valori, investe e caratterizza la struttura stessa del nuovo ordinamento repubblicano4,

delineando un “interesse” che, come ha detto la Corte costituzionale, ha valenza

“nazionale”5.

La formula dell’art. 6 Cost., secondo cui «la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze

linguistiche» esplicita la scelta del Costituente di assumere questi gruppi come entità collettive

destinatarie di interventi di tutela e promozione da parte dei pubblici poteri.

2 Significative, al riguardo, le osservazioni di R. Dworkin, A Matter of Principle, Cambridge

(Mass.), Harvard University Press, 1985, 230, che riconosce come «The center of a community’s cultural structure is its share language». La lingua viene definita dall’A. come un bene né pubblico, né privato, ma «inherently social», con la conseguenza che «We are all beneficiaries or victims of what is done to the language we share» (corsivi di chi scrive).

3 Così la costante giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. 7-7-1988, n. 768, in Le Regioni, 1989, 1264; 19-6-1995, n. 261, in Foro it., 1996, I, 2677; 29-1-1996, n. 15, in Le Regioni, 1996, 706) e, da ultimo anche Corte cost. 22-5-2009, n. 159, in Giur. it., 2010, 5, 1035. Per ampi riferimenti sui lavori preparatori della disposizione in oggetto, v. A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli-Foro italiano, 1975, 305.

4 V. Piergigli, Art. 6 Cost., in Commentario della Costituzione, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (cur.), Torino, Utet, 2006, 157. In tal senso, v. anche Corte cost. 15/1996, cit.

5 Cfr. Corte cost. 28-7-1987, n. 289, in Foro it., 1987, I, 2918. La concezione delle minoranze linguistiche come valore unitario dell’ordinamento repubblicano è stata recepita anche dalla l. 482/99, che non a caso ha provveduto al riconoscimento ufficiale non solo delle minoranze nazionali presenti per lo più nelle regioni di confine, ma anche degli altri gruppi linguistici di antico insediamento.

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L’insediamento delle lingue minoritarie storiche interessa, sebbene in misura diversa sul

piano ‘numerico’, gran parte della penisola, e da questo punto di vista il tema si presta ad

essere analizzato alla luce dell’evoluzione dei rapporti fra Stato e autonomie territoriali.

Inoltre, la questione del trattamento degli idiomi minoritari ha coinvolto un numero

sempre maggiore di attori istituzionali nell’elaborazione di strumenti per la garanzia delle

peculiarità che contraddistinguono queste collettività ‘parziali’, con ciò delineando un

articolato sistema di sinergie fra diversi piani di normazione (statali e sovrastatali).

E’ possibile, pertanto, provare a definire gli ‘spazi’ di garanzia che le minoranze

linguistiche sono riuscite ad acquisire, nella loro ‘soggettività plurale’6, nell’ambito della

tutela multilivello dei diritti che contraddistingue le democrazie europee contemporanee.

A questo riguardo, occorre da subito osservare che la protezione delle minoranze come

soggetti collettivi non si esaurisce nella tutela antidiscriminatoria (tradizionalmente di

stampo individualistico), ma tocca nel vivo la ‘tensione’ dialettica fra i concetti di

eguaglianza formale e sostanziale, fra esigenze di uniformità e approcci promozionali nei

confronti delle realtà minoritarie; fra assimilazione e riconoscimento del diritto ad essere

‘diversi’.

Il perseguimento dell’eguaglianza sostanziale, con misure speciali di tutela ‘positiva’, è un

obiettivo costituzionale che «guarda inevitabilmente all’elemento collettivo, ai gruppi di

appartenenza dei soggetti preferiti»7, perché mira alla realizzazione della dimensione

‘comunitaria’ di interessi giuridicamente rilevanti8.

In linea con questa finalità, il diritto tiene conto delle situazioni di concreto svantaggio

dell’individuo sia come singolo, sia nel suo «essere parte di storie ed esperienze collettive»9,

vale a dire di formazioni sociali con le quali condivide, caratteri differenziali ma anche

bisogni e istanze di tutela10.

Ne deriva che il soddisfacimento di rivendicazioni del singolo che siano dirette a

superare disuguaglianze di fatto incide anche sulla posizione del gruppo, perché, pur

trattandosi di ‘richieste’ individuali, hanno una valenza anche “collettiva”.

Si tratta, infatti, di diritti legati all’identità dei soggetti e che, perciò, si qualificano proprio

per l’appartenenza di chi ne è portatore ad una determinata collettività. Non solo il singolo,

quindi, ma l’intera categoria di soggetti accomunati dalla medesima condizione di

6 Rispetto ad entità collettive, parla di una pluralità di soggetti concepiti «organicamente» e

«dotata di una volontà unitaria», E. Vitale, Introduzione. Le nuove frontiere della teorica dei diritti, in Id. (cur.), Diritti umani e diritti delle minoranze, Torino, Rosenberg&Sellier, 2000, 13.

7 Così A. D’Aloia, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, Padova, Cedam, 2002, 229-230. Già però A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., cit., 310-311 sottolinea come forme di «tutela «positiva»» siano alla base della garanzia di «situazioni giuridiche soggettive «collettive»» delle minoranze.

8 In questo senso già S. Rodotà, Quale equità, in Pol. dir., 1974, 47 e B. Caravita, Oltre l’eguaglianza formale. Un’analisi dell’articolo 3 comma 2 della Costituzione, Padova, Cedam, 1984, 162.

9 Ancora A. D’Aloia, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale, cit., 230. 10 E. Palici Di Suni Prat, Intorno alle minoranze linguistiche, Torino, Giappichelli, 2002, 2ᵃ ed, 18.

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debolezza ‘strutturale’ diviene (anche solo di riflesso) destinataria degli strumenti attraverso

cui l’ordinamento interviene sui processi distributivi delle opportunità di partecipazione

attiva e di scelta, nonché di sviluppo umano e sociale.

La dinamica ora descritta emerge chiaramente da una lettura dell’art. 6 Cost. in

combinato disposto con altri principi supremi dell’ordinamento costituzionale.

Al verbo «tutela» è da riferire, in senso ampio, ogni azione che si riveli necessaria o

opportuna per preservare e valorizzare le situazioni linguistiche minoritarie. Rispetto a

questo significato, la norma dell’art. 6 esprime un’armoniosa integrazione fra le due

declinazioni (formale e sostanziale) dell’eguaglianza che sono racchiuse nell’art. 3 Cost11.

Essa non solo attua, in termini di tutela negativa o antidiscriminatoria, il principio della

parità di trattamento di fronte alla legge (art. 3, c. 1), ma si pone anche come norma

programma che indirizza i pubblici poteri ad adottare misure apposite, anche di carattere

promozionale, idonee a realizzare un’effettiva inclusione di tutte le minoranze linguistiche

nell’ordinamento12, in un’ottica di reale partecipazione delle stesse alla vita della comunità

statale.

In altre parole, la tutela costituzionale fornita dall’art. 6 Cost. mira a garantire alle lingue

minoritarie una posizione di pari dignità sociale rispetto ad altri gruppi, in particolare nei

confronti della popolazione di lingua italiana, e in questo senso si spiega anche il richiamo

ad «apposite norme», teso a legittimare «un trattamento specificamente differenziato» per le

singole comunità linguistiche, così da «preservarne le specificità culturali ed impedire

forzate e irragionevoli assimilazioni13».

Inoltre, la protezione delle minoranze linguistiche attraverso una norma ad hoc appare

inscindibilmente collegata alla forma di Stato sociale pluralista che nell’art. 2 Cost.

riconosce la priorità assiologica dell’individuo quale soggetto portatore di bisogni, sia

spirituali sia materiali, tanto uti singulus quanto uti socius.

11 La disposizione dell’art. 6 Cost. è stata qualificata sia come norma derogatoria dell’art. 3 Cost.

(C. Esposito, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in Id., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, Cedam, 1954, 49 e P. Biscaretti Di Ruffia, Uguaglianza (principio di), in Nss. Dig. It., XIX, Torino, Utet, 1973, 1091, nonché E. Palici Di Suni Prat, Minoranze, in Dig. disc. pubbl., IX, Torino, Utet, 1994, 547 e Id., Intorno alle minoranze, cit., 15 ss.), sia come norma che dà svolgimento al principio di eguaglianza, non solo nella sua accezione sostanziale (L. Paladin, Il principio costituzionale di eguaglianza, Milano, Giuffrè, 1965, 283 e A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., cit., 307), ma anche in quella formale, se intesa come parametro per valutare la ragionevolezza delle distinzioni legislative (cfr. A. Pizzorusso, Il pluralismo linguistico tra Stato nazionale e autonomie regionali, Pisa, Pacini, 1975, 36 ss.; P. Carrozza, Lingue (uso delle), in Nss. Dig It., Agg., IV, Torino, Utet, 1983, 979; A. Cerri, Libertà, eguaglianza, pluralismo nella problematicità della garanzia delle minoranze, in Riv. trim. dir. pubbl., 1993, 311 ss).

12 In tal senso ora anche G. Lattanzi, La tutela dei diritti delle minoranze in Italia, in www.cortecostituzionale.it., 2013, 9.

13 Corte cost. 86/1975.

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Da questo nesso discende l’obbligo dei pubblici poteri di farsi carico anche di «istanze

collettive di diversità»14, attraverso un sistema di garanzie che abbia ad oggetto la dignità

del singolo e la sua sfera di socialità, vale a dire la dimensione concreta di sviluppo della

persona. Non a caso, proprio nella lingua il Giudice delle leggi ha riconosciuto un «elemento

di identità individuale e collettiva di importanza basilare»15.

L’ordinamento italiano tutela le minoranze linguistiche quali “comunità intermedie” fra

l’individuo e lo Stato, riconosciute come ambiti essenziali di realizzazione della personalità

umana. Non rilevano come soggetti di diritto, ossia in quanto titolari di posizioni

soggettive proprie e direttamente azionabili dal gruppo16. Ma ciò non pregiudica la loro

natura di “collettività diffuse” che raggruppano individui legati da esigenze comuni

giuridicamente rilevanti17. Si tratta perciò di sfere sociali prive di soggettività giuridica in

senso stretto e di una propria organizzazione, ma alle quali sono riferibili interessi collettivi

affidati alla cura dell’ordinamento18, declinato in ogni sua articolazione istituzionale e

sociale19.

14 Sul punto, e con queste parole, J. Woelk, Il rispetto della diversità: la tutela delle minoranze

linguistiche, in C. Casonato (cur.), Lezioni sui principi fondamentali della Costituzione, Torino, Giappichelli, 2010, 180. Per l’A., proprio il principio di valorizzazione delle formazioni sociali apre «alla dimensione collettiva delle garanzie per la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo» (179).

15 Corte cost. 15/1996. 16 Come illustra A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Torino, Einaudi, 1993, 67, è difficile che

gli ordinamenti procedano alla «entificazione come persone giuridiche» delle minoranze. Un simile approccio verrebbe a configurare le minoranze come un «distinto soggetto giuridico» e implicherebbe «il preliminare conferimento della personalità giuridica (o di una più ridotta forma di soggettività) ad un ente il quale viene così a rappresentare ufficialmente la minoranza, nello stesso modo in cui lo Stato rappresenta l’intera comunità nazionale» (cfr. A. Pizzorusso, I gruppi linguistici come soggetti culturali, come soggetti politici, come soggetti giuridici, Relazione al II Mercator International Symposium: Europe 2004: A new framework for all languages?, Tarragona-Catalunya, 27-28 febbraio 2004, paper, 9).

17 Richiamando il concetto di collettività «amorfe e fluttuanti» di W. Cesarini Sforza, Diritto dei privati (1929), Milano, Giuffrè, 1963, 30, V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, I, Introduzione al diritto costituzionale italiano, Padova, Cedam, 1970, 2ᵃ ed., 3 parla di «massa di individui» in cui si affermi «la consapevolezza di essere tra loro legati da un interesse collettivo, pur se al tempo stesso proprio di tutti i soggetti che ne fanno parte; che non può essere soddisfatto che da tutti insieme, mercè la loro reciproca cooperazione». Ricorre a questo tipo di inquadramento giuridico per le minoranze A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., cit., 320; Id., Minoranze etnico-linguistiche, in Enc. dir., XXVI, Milano, Giuffrè, 1976, 533 e anche Id., Minoranze e maggioranze, cit., 65. Nello stesso senso v. ora anche S. Santoli, Le minoranze come comunità intermedie nel quadro della problematica dei “diritti collettivi”, in Forum Quad. cost., 2002, 1 ss.

18 In tal senso ancora A. Pizzorusso, Minoranze etnico-linguistiche, cit., 533 e Id., Minoranze e maggioranze, cit., 67, per il quale le minoranze sono «collettività di persone sprovviste di qualunque possibilità di azione giuridica diretta, ma che l’ordinamento riconosce come centri di riferimento di un compendio di interessi giudicati meritevoli di tutela». Dello stesso avviso anche R. Toniatti, Minoranze (diritti delle), in Enc. delle Scienze sociali, V, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1996, 700 ss., che parla di «minoranze diffuse».

19 Secondo la teoria istituzionalista di S. Romano, L’ordinamento giuridico, Pisa, Mariotti, 1918, 27 e 106.

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La stessa Corte costituzionale ha accolto di recente questa impostazione, riconoscendo

che la nozione di minoranza linguistica manca «del riferimento a uno specifico soggetto, per la

difficoltà di concentrare entro schemi di imputazione tipici un insieme di relazioni, anche giuridiche» che

questa esprime. Tuttavia, essa allude a «comunità necessariamente ristrette e differenziate, nelle quali

possono spontaneamente raccogliersi persone che, in quanto parlanti tra loro una stessa “lingua”, diversa da

quella comune, custodiscono ed esprimono specifici e particolari modi di sentire e di vivere o di convivere».

La garanzia delle specificità linguistiche rientra, in sostanza, nella tutela del pluralismo

tipico di una comunità nazionale ‘composita’. Non a caso, il Costituente ha affidato alla

«Repubblica», intesa come “istituzione complessiva”, il compito di preservare e promuovere le

minoranze linguistiche, cosicché tutti i livelli di governo (artt. 5 e 114 Cost.), ed anche i

soggetti della società civile, sono legittimati (e anzi tenuti) alla tutela delle istanze da queste

rivendicate.

In particolare, Regioni ed enti territoriali minori sono chiamati a caratterizzare i propri

ordinamenti autonomi anche in funzione della presenza nel proprio ambito di specificità

linguistico-culturali20. Sul piano sociale, invece, la Costituzione non osta, ma anzi favorisce

l’operato di enti, partiti o altre forme associative che, in virtù del principio di sussidiarietà

orizzontale (oggi esplicitato nell’art. 118 Cost., ma intrinseco già al principio personalista

dell’art. 2 Cost.), intendano assumere gli interessi delle suddette minoranze come obiettivi

della propria azione21.

La possibilità di configurare diritti in capo ai gruppi è questione che, soprattutto verso la

fine degli anni ottanta, ha animato il dibattito filosofico e giuridico degli ordinamenti

democratici occidentali, diviso fra correnti che ritengono la categoria dei “diritti collettivi”

incompatibile con il principio del costituzionalismo liberale, per escludere in radice il

20 Cfr. V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 158, secondo cui «soprattutto in relazione alle comunità

linguistiche meno consistenti ovvero disperse sul territorio, gli enti locali appaiono le sedi più congegnali per la realizzazione dei una tutela giuridica realmente positiva ed efficace». Non a caso, «l’adozione di una forma di stato di tipo federale o ragionale», come opportunamente sottolinea A. Pizzorusso, I diritti degli individui, dei gruppi e delle minoranze, in E. Vitale (cur.), Diritti umani e diritti delle minoranze, cit., 76, rappresenta una delle modalità attraverso le quali «le strutture dei pubblici poteri vengono adattate alle esigenze della tutela minoritaria». La protezione delle minoranze linguistiche, inclusa dalla Costituzione nei valori che identificano il nucleo forte dell’ordinamento repubblicano, è dunque da annoverare fra gli interessi generali delle collettività locali alla cui rappresentanza gli enti territoriali sono preposti. In questa direttrice costituzionale si inserisce, ad esempio, l’istituto della «proporzionale etnica», che in Alto Adige disciplina l’accesso al pubblico impiego e ad altri benefici in modo da rispettare la consistenza dei tre gruppi linguistici presenti sul territorio (italiano, tedesco e ladino).

21 Sul punto, v. A. Pizzorusso, I gruppi linguistici come soggetti culturali, cit., 4 ss., ma già Id., I diritti degli individui, dei gruppi e delle minoranze, cit., 79, il quale evidenzia come la rappresentanza politica di gruppi minoritari può essere assunta sia da partiti o movimenti che, in ragione di questo specifico obiettivo, si identificano come «“religiosi” o “etnici” o “linguistici”», sia da «forze politiche indifferenziate» che decidono di inserire nei propri programmi e attività anche il sostegno di particolari situazioni minoritarie.

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possibile conflitto fra questi e le libertà individuali22, e orientamenti che invece criticano

una visione atomistica dell’uomo, estraneo a qualsiasi esperienza di vita comunitaria e ai

vincoli che ne conseguono23.

Il punto di equilibrio fra tesi di matrice liberale e pensiero comunitarista viene, il più

delle volte, ricercato nella previsione di diritti specificamente legati ad una particolare

condizione di diversità, nella quale il gruppo si identifica e attorno alla quale si aggrega24. In

questo senso, i diritti collettivi sarebbero diritti legati all’identità dell’individuo, la quale si

esprime nella sua partecipazione ad una data formazione sociale25.

22 L’attribuzione di diritti a “corpi intermedi” comporterebbe, infatti, la necessità di ammettere la

prevalenza delle esigenze di carattere comune sui diritti individuali, conseguenza inaccettabile per gli ordinamenti di tradizione liberale (M. Hartney, Some Confusion Concerning Collective Rights, in Canadian Journal of Law and Jurisprudence, 1991, 219; A. Gewirth, Human Rights Essays on Justification and Applications, Chicago, Chicago University Press, 1982). La concezione del singolo come esclusivo titolare di diritti, presupposto della pretesa universalistica delle libertà fondamentali e dell’eguaglianza giuridica (che accomuna il pensiero liberale da John Locke a Thomas Hobbes, fino ai più moderni teorici liberali come John Rawls e Ronald Dworkin), porta infatti a rifiutare la configurazione di situazioni giuridiche in capo a gruppi e ad entità non riconducibili ai membri che ne sono parte (cfr., sul punto, A.E. Galeotti, I diritti collettivi, in E. Vitale (a cura di), Diritti umani e diritti delle minoranze, cit., 30).

23 Cfr. M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice (1982), tr. it. a cura di S. D’Amico, Il liberismo e i limiti della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1994; Ch. Taylor, Multiculturalism and “The Politics of Recognition” (1992), tr.it. Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, a cura di G. Rigamonti, Milano, Anabasi, 1993, 41 ss. A favore del superamento del prevalente modello individualistico dei diritti al fine di ricomprendervi anche i diritti di entità collettive, anche M.A. Jovanović, Recognizing Minority Identities Through Collective Rights, in Human Rights Quarterly, 27/2005, 625 ss. Per una ricostruzione del confronto, su questo tema, fra la teoria politica liberale e la filosofia del comunitarismo, v. A. Ferrara (cur.), Comunitarismo e liberismo, Roma, Editori Riuniti, 2000 e N. Torbisco, Il dibattito sui diritti collettivi delle minoranze culturali. Un adeguamento delle premesse teoriche, in questa Rivista, 2001, 117 ss.

24 Tende, in tal modo, a svuotare la contrapposizione fra liberismo e comunitarismo J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, tr. it. a cura di L. Ceppa, Milano, Feltrinelli, 2008, 54 ss. (ma v. anche Id., Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998, 69). In una prospettiva “riduzionista” dei diritti collettivi, riconducibili a diritti individuali, sembrano porsi anche W. Kimlicka, Multicultural Citizenship (1995), tr. it. a cura di G. Gasperoni, La cittadinanza multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1995, 65 ss., che parla in modo generico di «diritti differenziati», o legati ad una «cittadinanza differenziata», per evidenziare che non si tratta di situazioni giuridiche soggettive a carattere universale, ma riconosciute in funzione dell’appartenenza di gruppo, e Y. Tamir, Against Collective Rights, in C. Joppke, S. Lukes (cur.), Multicultural Questions, Oxford, Oxford University Press, 1999, 158 ss.

25 Si inserisce in questo ordine di considerazioni N. Torbisco, Il dibattito sui diritti collettivi delle minoranze culturali, cit., 134, per il quale «è possibile concepire un’idea di diritti collettivi meno controversa, secondo la quale il titolare del diritto può continuare ad essere l’individuo, del quale, in ogni caso deve essere preso in considerazione il suo benessere personale». Nel perseguimento di tale obiettivo, il riconoscimento di diritti collettivi pare tradursi «in una distribuzione diseguale – non omogenea – dei diritti, in funzione dell’appartenenza a gruppi distinti al cui interno si producono beni culturali intrinsecamente preziosi per il benessere individuale». Analogamente, anche R. Pirosa, Multiculturalismo, dibattito teorico e soluzioni normative, in www.altrodiritto.unifi.it. definisce i diritti collettivi «come diritti identitari, riconducibili all’appartenenza ad un gruppo».

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La costruzione in termini ‘individualistici’ della tutela dei gruppi minoritari riesce così a

superare le difficoltà di attribuire situazioni giuridiche soggettive ad entità non

precisamente identificabili, dai contorni ‘fluidi’, e non pienamente riconducibili ai membri

che le compongono. Si tratta però, come la dottrina ha evidenziato, di diritti individuali che

trovano la propria ragion d’essere nell’esercitare «una funzione collettiva», nella capacità di

assicurare un modello di protezione che «va oltre la mera somma delle garanzie a favore dei

singoli componenti» di una comunità sociale26.

Come si diceva, il ricorso allo ‘strumento’ giuridico dell’eguaglianza sostanziale (o

inclusiva) appare un po’ il paradigma di questa logica compromissoria e, allo stesso tempo,

la chiave di lettura dei diritti di collettività indefinite riconosciute all’interno

dell’ordinamento27. Non a caso, il sistema delle azioni positive appare congegnato proprio

per rivolgersi alla tutela di «minoranze diffuse», vale a dire «prive di una propria

organizzazione giuridico-formale»28.

Un modello che possiamo ritrovare anche nell’art. 6 Cost., la cui vocazione

‘comunitarista’ si esprime nel richiedere “apposite” misure preferenziali, o comunque

speciali, che integrino una specifica protezione degli interessi in cui si manifesta la matrice

unitaria (identitaria) dei gruppi linguistici minoritari29.

2. La presenza di molteplici minoranze linguistiche in Italia è legata, dapprima, alle

vicende storiche dell’unificazione nazionale e, poi, all’espansione territoriale del Paese in

virtù dei territori annessi a seguito del primo conflitto mondiale (Trento e Trieste)30. Una

conquista, quella dell’unità sul piano politico, legislativo e amministrativo, cui non

corrispose però una condivisione degli ‘strumenti’ comunicativi, ma anzi l’Italia unita

26 Così F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze, Padova,

Cedam, 2011, 2ᵃ ed., 45-46. 27 Definisce l’eguaglianza sostanziale un istituto che «permett[e] di operare un confronto fra

“gruppi”, e non soltanto tra individui» S. Scarponi, Principio di uguaglianza e pari opportunità, in C. Casonato (cur.), Lezioni sui principi fondamentali, cit., 137 ss.

28 A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, cit., 65 e 83 s. 29 Sul punto, però, sottolinea la necessità di una qualificazione giuridica dei diritti collettivi

distinta dalle azioni positive M.A. Jovanović, Recognizing Minority Identities, cit, 638-639, in quanto mentre i primi si riferiscono a situazioni «permanenti», le misure preferenziali riconosciute a favore di alcuni gruppi sono strumenti eccezionali e temporanei, perché, essendo preposti a superare una condizione di svantaggio o un’ingiustizia subita da una particolare categoria di soggetti, sono destinati a rimanere in vigore solo fino a quando tale obiettivo non è stato conseguito.

30 Come è noto, il primo conflitto mondiale si concluse con il dissolvimento dell’Impero austro-ungarico e l’annessione all’Italia di parte dei territori promessi a seguito dei patti segreti di Londra stipulati dal Regno d’Italia con i Paesi della Triplice intesa. Tale acquisizione comportò la presenza nel territorio nazionale di due consistenti (e territorialmente concentrati) gruppi di lingua tedesca e slava.

9

mostrava un ridotto uso della lingua italiana e una marcata ‘divisione’ linguistica, articolata

in molteplici forme dialettali, proprie delle differenti zone della penisola31.

Com’è noto, in Assemblea costituente il variegato panorama linguistico presente

all’interno dei confini italiani fu illustrato dalla Commissione per gli studi sulla

riorganizzazione dello Stato secondo uno schema che da subito evidenziò la diversa

caratterizzazione dei gruppi linguistici per entità e compattezza sul territorio nazionale,

influenzando anche la definizione dello «statuto delle garanzie» riconosciuto a dette

situazioni minoritarie32.

Il processo attuativo dell’art. 6 Cost. risulta, infatti, connotato da una netta divaricazione

fra il regime di tutela accordato alle minoranze “nazionali”33 situate in zone di confine (e

già riconosciute a livello internazionale) e il «sostanziale disinteresse» mostrato dal

legislatore34 verso le isole linguistiche disseminate nel resto del Paese fino a che, con la

legge-quadro n. 482 del 1999, non è stata approvata una disciplina generale sulle «minoranze

linguistiche storiche»35.

31 Cfr. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma- Bari, Laterza, 2008, 10ᵃ ed., che fissa

la percentuale di popolazione che al momento dell’unificazione parlava la lingua italiana intorno al 2,5% della popolazione totale (circa 25 milioni di persone). Nello stesso senso, anche Id., L’Italia linguistica dall’Unità all’età della Repubblica, Intervento al Convegno «La lingua italiana fattore portante dell'identità nazionale», Roma 21 febbraio 2011, 1 ss., in cui segnala che «le potenzialità d’uso della lingua nazionale erano state e restavano consegnate alle sorti della scuola. L’unità politica avviò processi importanti di unificazione amministrativa e militare, di nascita d’un giornalismo moderno, di partecipazione sia pure dei soli ceti abbienti alla vita politica nazionale, di creazione di infrastrutture viarie, di accumulo e concentrazione di capitali ed embrionale industrializzazione. Erano tutti fatti che scuotevano la tradizionale compagine dialettale del Paese. Ma la scuola non decollò: mancarono gli investimenti pubblici e una politica volta a sviluppare l’istruzione. Per quarant’anni si susseguirono inchieste dai risultati desolanti. Né queste né le denunzie di intellettuali come Antonio Labriola intaccarono l’ostilità dei gruppi dirigenti verso una possibile espansione della scolarità». Sul punto v. anche P. Carrozza, Lingua, politica, diritti: una rassegna storico-comparatistica, in questa Rivista, 1999, 1467.

32 Così V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 157-158, che spiega come dai lavori della c.d. Commissione Forti (dal nome del suo Presidente) emerse un quadro «che comprendev[a] - oltre alle numerose isole linguistiche albanesi, catalane, greche, slave dell’Italia meridionale e insulare, franco-provenzali delle province di Cuneo e Torino, tedesche di alcuni villaggi alpini del Piemonte e delle Venezie, rumene della Venezia Giulia - le minoranze di lingua tedesca, francese e slava, localizzate in proporzioni consistenti ed in modo omogeneo in territori di confine con Stati in cui quelle sono lingue nazionali, cui andavano aggiunte le popolazioni ladine prevalentemente stanziate nelle valli dell'Alto Adige e quelle valdesi delle Alpi Cozie».

33 Quelle caratterizzate da «un rapporto di collegamento con una nazione diversa da quella in cui il gruppo è attualmente inserito» (V. Piergigli, Lingue minoritarie ed identità culturali, Milano, Giuffrè, 2001, 62).

34 Così ancora V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 158. 35 Con tale normativa anche le minoranze diverse da quelle nazionali trovano dunque effettiva

cittadinanza nel sistema politico-legislativo italiano. Nondimeno, anche con tale provvedimento non appare del tutto esaurita la questione del trattamento delle minoranze nell’ordinamento interno. Riguardando espressamente le minoranze linguistiche di più lungo insediamento, la legge esclude, infatti, alcuni gruppi (come i rom e i sinti) dal processo di formale riconoscimento attivato dal legislatore. Per un commento alla legge citata, v. S. Bartole, Le norme per la tutela delle minoranze

10

La tutela delle minoranze “nazionali” integra uno degli elementi di ‘specialità’ che hanno

portato al riconoscimento del regime differenziato di alcune Regioni italiane, le quali hanno

introdotto nei propri Statuti norme a garanzia dei gruppi linguistici minoritari in esse

presenti.

La specifica protezione riservata a queste comunità linguistiche è dunque conseguenza

della rilevanza anche internazionale degli interessi protetti36, in ordine ai quali lo Stato

italiano ha assunto, attraverso la stipula di accordi e trattati internazionali, l’obbligo di

introdurre nel proprio ordinamento specifici strumenti di tutela37.

Il divario esistente fra lo «status giuridico privilegiato»38 delle minoranze nazionali e la

condizione degli altri gruppi alloglotti è stato avallato anche dalla giurisprudenza della

Corte costituzionale, che, da un canto, ha rintracciato nei vincoli internazionali le basi

giuridiche fondative del riconoscimento necessario a dare svolgimento alle direttive

contenute nell’art. 6 Cost. (anche con riguardo ad ambiti di tutela non contemplati da

linguistiche storiche, in Le Regioni, 1999, 1063 ss. e V. Piergigli, La legge 15 dicembre 1999, n. 482, (“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”) ovvero dall’agnosticismo al riconoscimento, in Rass. parl., 2000, 623 ss.

36 Cfr., fra le altre, Corte cost. 28-4-1989, n. 242, in Foro amm., 1990, 1120 e 14-12-1993, n. 438, in Foro it., 1995, I, 759.

37 Per queste comunità linguistiche una legislazione specifica di rango internazionale, costituzionale e di attuazione degli Statuti ha previsto forme peculiari di tutela. Ciò vale, in particolare, per le minoranze tedesca e ladina presenti in Alto Adige, che sono regolate, in virtù dell’accordo internazionale De Gasperi-Grüber (Parigi, 5 settembre 1946), dallo Statuto speciale della Regione; per la minoranza di lingua francese della Valle d’Aosta, disciplinata dallo Statuto speciale; per la minoranza slovena, residente per lo più nella provincia di Trieste e in quelle di Gorizia e Udine, cui sono indirizzate norme dello Statuto speciale approvato nel 1963, in forza del Memorandum di Londra (del 1954) e del Trattato di Osimo firmato nel 1975.

38 V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 160.

11

specifiche disposizioni normative interne)39 e, dall’altro, si è appellata alla necessità di una

normativa statale attuativa del disposto costituzionale40.

Un indirizzo, questo, che ha avuto significative implicazioni anche sul piano del riparto

delle competenze Stato-Regioni, avallando inizialmente l’idea di una presunta riserva di

legge statale in materia, in quanto, come ebbe a dire la Consulta, «la potestà legislativa circa

l’uso delle lingue compete allo Stato, trattandosi di materia che deve essere disciplinata nel

quadro dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica e nel rispetto di diritti di uguaglianza

di tutti i cittadini»41.

Solo verso la metà degli anni ottanta, il Giudice costituzionale arriverà a modificare

parzialmente questo orientamento, sostenendo che la legge statale si pone come necessario

«limite» e «indirizzo per l’esercizio della potestà legislativa ed amministrativa regionale»42.

Una lettura del ruolo di Stato e poteri locali in cui si inserisce anche la legge n. 482 del

1999 e che, nel quadro della riforma del Titolo V Cost., sembra collocare la materia della

39 Anche in assenza di apposite norme statali di attuazione del principio sancito dall’art. 6 Cost.

(e dagli Statuti regionali speciali), la Corte ha comunque individuato uno ‘statuto minimo’ di tutela per le sole minoranze riconosciute, attraverso il richiamo all’ordinamento internazionale e in presenza di «misure che poss[a]no ritenersi applicative» degli impegni assunti in tale ambito dallo Stato (Corte cost. 11-2-1982, n. 28, in Giur. cost., 1982, 247 ss., con nota di E. Palici di Suni Prat, Corte costituzionale e minoranze linguistiche: la sentenza n. 28 del 1982 fra tradizione e innovazione, ivi, 808 ss. e di S. Bartole, Gli sloveni nel processo penale a Trieste, ivi, 249 ss.), o di «istituti o strutture organizzative di generale applicazione che poss[a]no essere utilizzati anche al fine di rendere effettivo e concretamente fruibile il diritto garantito in via di principio dalla Costituzione» (cfr. Corte cost. 24-2-1992, n. 62, in Giur. cost., 1992, 326 ss., commentata da S. Bartole, La tutela della minoranza slovena fra giurisprudenza costituzionale e legislazione ordinaria, ivi, 342 ss.).

Con tale orientamento trova, allora, conferma che il vuoto di una disciplina interna ad hoc sul riconoscimento o in ordine agli specifici strumenti di protezione delle minoranze linguistiche può essere colmato attraverso istituti già presenti che si ricolleghino alla normativa internazionale, legittimando però un trattamento differenziato dei gruppi linguistici (v. anche Corte cost. 15/1996, cit.

40 Cfr. Corte cost. 11-7-1961, n. 46, in Giur. it., 1971, I, 1145; 11-2-1982, n. 82, in Giur. it., 1982, 577; 15/1996, cit.

41 V., in particolare, Corte cost. 18-5-1960, n. 32, in Giur. cost., 1960, 537 ss., ma anche 46/1961, cit.; 13-7-1963, n. 128, in Giur. cost., 1963, 1411 ss. e 12-3-1965, n. 14, in Giur. cost., 1965, 84 ss.

42 Cfr. Corte cost. 18-10-1983, n. 312, in Le Regioni, 1984, 238, su cui v. A. Pizzorusso, Ancora su competenza legislativa regionale (e provinciale) e tutela delle minoranze linguistiche, ivi, 239 ss. E’ comunque da precisare che, fino alla metà degli anni novanta, la Corte costituzionale ha mantenuto un indirizzo piuttosto restrittivo sulle capacità di intervento delle Regioni in tema di minoranze linguistiche, sostenendo che l’ente regionale dovesse limitarsi a valorizzare, sul piano storico-linguistico-culturale, gli idiomi minoritari con riferimento a minoranze concentrate in particolari territori del Paese. Solo la sentenza 15/1996, cit., segna una svolta nei rapporti fra Stato e Regioni in questa materia, poiché la Consulta ritiene che anche in ambiti connessi con competenze dello Stato, possa esservi spazio per un intervento della Regione nell’organizzazione di strutture volte a rendere effettivi i diritti linguistici delle minoranze situate all’interno del proprio territorio (il caso riguardava il servizio di traduzione nei distretti di Corte d’appello, pur essendo questa una materia collegata alla giurisdizione, di esclusiva pertinenza statale).

12

tutela delle minoranze all’incrocio di più ambiti di intervento e di più interessi, sia a

carattere unitario sia a carattere locale.

Si può parlare, rispolverando un concetto ormai divenuto ‘usuale’ nella giurisprudenza

costituzionale, di una materia «trasversale»43, vale a dire di una ‘materia non materia’ che in

realtà indica una finalità verso la quale convergono (e a volte si intersecano) più

competenze statali e regionali44.

Occorre, però, sottolineare le peculiarità che caratterizzano la politica di tutela e

promozione delle lingue minoritarie, precisate dal Giudice delle leggi sulla base di uno

schema ‘innovativo’ rispetto al riparto di competenze fra Stato e Regioni delineato dalla

Carta fondamentale.

Nella sentenza 159/2009, la Corte costituzionale ha stabilito che al legislatore nazionale

spetta il riconoscimento formale delle minoranze linguistiche, ossia l’individuazione dei

gruppi protetti dall’ordinamento e dei loro «elementi identificativi», nonché la

determinazione degli «istituti» idonei a concretizzarne la tutela45.

Questo quadro di competenze si pone però al di fuori degli espressi (e ‘ordinari’) criteri

di suddivisione dei ruoli di Stato e Regioni. Esso segue un modello inedito che la Corte

costituzionale ha ricavato dall’art. 6 Cost. e dagli interessi costituzionali che vengono in

rilievo nella protezione delle specificità linguistiche e che segnano i limiti delle discipline

‘speciali’ riservate ai gruppi alloglotti in ragione della loro diversità.

Gli ambiti di intervento della normazione nazionale non sono cioè riconducibili ad

esplicite previsioni del Titolo V Cost., ma sono il «frutto di un indefettibile bilanciamento»

implicato nella salvaguardia delle minoranze (non solo linguistiche)46. Sono espressione di

uno sforzo di sintesi che non può non essere affidato allo Stato, ponendosi la direttiva

43 Si veda, per citare la prima pronuncia in cui si fa riferimento a questa espressione, Corte cost.

26-6-2002, n. 282, in Giur. cost., 2002, 2012 ss. Con riferimento alle minoranze linguistiche, la Consulta richiama la ‘trasversalità’ della funzione normativa statale parlando, nella sent. 159/2009, cit., 1035 ss., «di un potere legislativo che può applicarsi alle più diverse materie legislative, in tutto od in parte spettanti alle Regioni». In dottrina, su questo profilo già L.A Mazzarolli, La tutela delle minoranze linguistiche nella Costituzione del nuovo Titolo V, in Le Regioni, 5/2003, 729-730.

44 Si pensi, per quanto concerne lo Stato, alla competenza in tema di LEP o di norme generali sull’istruzione o, ancora, di tutela del patrimonio artistico e culturale. Sul versante regionale, invece, si può menzionare la competenza (concorrente) in materia di istruzione, di valorizzazione della cultura, di ordinamento della comunicazione, di organizzazione delle attività culturali, di governo del territorio (In tal senso, v. anche L.A. Mazzarolli, op. cit., 727 ss.). E’ poi da segnalare che la nuova formulazione dell’art. 116, c. 3, Cost. può offrire un interessante strumento idoneo a valorizzare in modo particolare le peculiarità delle minoranze linguistiche presenti sul territorio regionale. La norma, infatti, consente alle Regioni di ottenere «forme e condizioni particolari di autonomia» nelle materie di potestà legislativa concorrente nonché, fra le altre, in quelle di competenza statale riguardanti le norme generali sull’istruzione e la tutela dei beni culturali.

45 Corte cost. 159/2009, cit., 1035 ss. 46 Si tratta di un «modello», chiarisce la Consulta, «che non corrisponde alle ben note categorie

previste per tutte le altre materie nel Titolo V della seconda parte della Costituzione, sia prima che dopo la riforma costituzionale del 2001».

13

costituzionale dell’art. 6 «al punto di incontro con altri principi … che qualificano indefettibilmente e

necessariamente l’ordinamento vigente»: il principio pluralistico, la garanzia dell’eguaglianza (in

termini di non discriminazione, di dignità sociale e di rimozione delle situazioni di fatto che

creano disparità) e l’ufficialità della lingua italiana.

Nel ragionamento della Corte, la legge del Parlamento svolge una funzione unificante

che la abilita ad ‘introdursi’ nelle «più diverse materie legislative, in tutto o in parte spettanti alle

Regioni», rimanendo, invece, ai poteri locali - ed è questo il profilo innovativo - il solo

compito di dare «ulteriore attuazione» alla disciplina statale, nei limiti «di quanto [già] determinato

in materia»47.

La potestà legislativa che ‘residua’ alle Regioni appare dunque particolarmente

circoscritta48, perché, nella citata sentenza 159/2009, la legge 482/1999 assume il valore di

parametro interposto rispetto all’art. 6 Cost. e, in quanto tale, viene considerata non

modificabile dalle Regioni. Queste, nelle rispettive materie di competenza, devono solo

adeguarsi alle disposizioni della legge-quadro (art. 13), qualora vengano in rilevo istanze di

protezione di nuclei linguistici minoritari (già riconosciuti dallo Stato) presenti nei rispettivi

territori49.

In conclusione, la dialettica fra Stato e Regioni in tale ambito lascia margini piuttosto

ristretti (di mera attuazione) ai legislatori locali. La direttrice di riparto delle competenze,

formalmente non esplicitata in Costituzione, è infatti quella della dimensione (certamente

unitaria) dei valori costituzionali tutelati (eguaglianza, pluralismo, unità linguistica)50, unico

47 Ancora Corte cost. 159/2009, cit., richiamandosi alle precedenti sentt. 261/1995, 289/1987 e

312/1983, ma tale lettura della legge-quadro del 1999 è confermata anche nella successiva sent. 170/2010. Al riguardo, R. Toniatti, Pluralismo sostenibile e interesse nazionale all’identità linguistica posti a fondamento di “un nuovo modello di riparto delle competenze” legislative fra Stato e Regioni, in Le Regioni, 2009, 1134 parla di una «competenza concorrente sui generis», in cui «è dunque l’oggetto- e non la materia – della funzione legislativa de qua l’elemento indefettibile e connotativo de tale nuova figura di competenza legislativa dello Stato».

48 Commentando tale pronuncia, non a caso, A. Palermo, La Corte “applica” il Titolo V alle minoranze linguistiche e chiude alle Regioni, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2009, 13 parla di «un arretramento» all’indirizzo che ravvisava una riserva di legge statale per la disciplina delle lingue minoritarie. In senso critico v. anche V. Piergigli, La tutela delle minoranze linguistiche storiche nell’ordinamento italiano tra principi consolidati e nuove (restrittive) tendenze della giurisprudenza costituzionale, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2010, 8 e F. Albo, La tutela delle minoranze linguistiche tra Stato e Regioni: la Corte costituzionale alle prese con uno speciale modello di riparto della potestà legislativa, in Giur. it., 5/2010, 1036 ss.

49 Per le Regioni ad autonomia differenziata la Corte ha chiarito che la l. 482/99 è applicabile, per le norme «più favorevoli» dalla stessa contemplate, ad opera dei decreti attuativi dei rispettivi Statuti speciali (art. 18), i quali possono anche derogare alla suddetta normativa statale (cfr. anche Corte cost. 1-7-2005, n. 249, in Giur. cost., 2005, 2339, in cui, con riferimento a tali fonti, si parla di “naturale cedevolezza (anche nel momento interpretativo) della legge ordinaria statale”). In mancanza, però, di disposizioni adottate dai citati decreti di attuazione, la disciplina del 1999 funge, anche per queste Regioni, da parametro interposto rispetto all’art. 6 e agli Statuti speciali.

50 Calzante ed efficace l’espressione usata da R. Toniatti, Pluralismo sostenibile e interesse nazionale all’identità linguistica, cit., 1135, secondo cui la competenza statale incarna la difesa dell’interesse

14

parametro atto ad individuare il soggetto destinatario del compito (e della responsabilità) di

ricercare un equo assetto fra interessi non omogenei.

In sostanza, essendo la disciplina delle minoranze linguistiche al centro di un continuo

raffronto fra accezione formale e sostanziale del principio di eguaglianza, i diritti che

attengono a realtà minoritarie accedono ad un livello di bilanciamento che si colloca

necessariamente nella sfera (governance) nazionale. Sarebbe quindi l’«istituzione statale» a

dover «garantire, in linea generale, le differenze proprio in quanto capace di garantire le comunanze»51.

Non solo, ma dal contemperamento cui allude il Giudice delle leggi, fra le istanze proprie

di un ordinamento unitario (in particolare, l’uniformità di trattamento che deriva dal

canone dell’uguaglianza formale) e i bisogni di differenziazione delle minoranze linguistiche,

si evince come l’adozione di tutele a carattere ‘positivo’ abbia come presupposto l’esigenza

di dare una risposta anche a ‘situazioni complessive’ comuni ad una determinata compagine

sociale.

Da qui la dimensione collettiva sottesa agli istituti volti a perseguire un’effettiva

(sostanziale) eguaglianza dei gruppi minoritari nella partecipazione alla vita della comunità in

cui sono inseriti.

E’ possibile cogliere questo implicito rimando ai “diritti di gruppo” nella più recente

giurisprudenza costituzionale che ha preso in esame leggi regionali recanti misure

preferenziali a favore di minoranze linguistiche, con lo scopo di riconoscere il loro essere

«una unità sociale»52 all’interno della collettività statale.

La struttura ‘comunitaria’ degli interessi in gioco emerge quando la Corte valuta l’impatto

che alcune iniziative di carattere promozionale, assunte dai poteri locali a vantaggio di una

data comunità alloglotta, hanno sull’ordinamento complessivo e, in particolare, sulla

garanzia dell’unità giuridica e dell’indivisibilità del sistema statale.

Per fare alcuni esempi, con la sentenza 159/2009 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità

costituzionale della legge del Friuli-Venezia Giulia n. 29 del 2007, sulla tutela e

valorizzazione della lingua friulana, rispetto ad alcune disposizioni che sono state

riconosciute incompatibili con il bilanciamento di interessi definito dalla normativa quadro

nazionale.

Oggetto di censura, fra le altre, è stata ad esempio la norma che contemplava la mera

facoltà di tradurre in italiano gli interventi effettuati (in forma scritta e orale) all’interno dei

Consigli comunali in cui può essere utilizzato il friulano (art. 9, c. 3), quando la legge

482/1999 impone l’immediata traduzione dei dibattiti e degli atti per i quali si faccia

utilizzo di una lingua minoritaria. E’ evidente, infatti, che una simile disposizione regolasse

in modo irragionevole il rapporto fra la tutela dell’idioma appartenente ad una comunità

all’identità linguistica della nazione e, pertanto, si traduce nella ricerca della «“sostenibilità del pluralismo” linguistico ammissibile a tutela».

51 Corte cost. 170/2010. 52 Per questa espressione R. Toniatti, Minoranze (diritti delle), cit., 700 ss.

15

minoritaria e la lingua ufficiale di tutti, in quanto, per favorire l’uso del friulano nelle

assemblee rappresentative locali, penalizzava senza motivo i membri di tali organi non

parlanti detta lingua53.

Allo stesso modo, anche la disciplina dell’uso della lingua friulana nelle scuole non ha

superato lo scrutinio della Corte sotto un duplice profilo.

In primo luogo, perché la normativa regionale (art. 12, c. 3) prevedeva che, se i genitori

non avessero voluto che ai figli fosse impartito l’insegnamento del friulano, avrebbero

dovuto comunicarlo all’istituto scolastico all’atto dell’iscrizione, mentre un eventuale

silenzio avrebbe avuto il valore di un vero e proprio assenso. La Consulta ha ritenuto tale

sistema di opzione in palese contrasto con la legge-quadro 482 del 1999 che, invece,

richiede, da parte della famiglia, un espresso atto di adesione a questo tipo di scelta

educativa.

Infine, la norma che prescriveva l’insegnamento della lingua minoritaria per almeno

un’ora alla settimana e che imponeva l’uso della stessa come «lingua veicolare», cioè come

lingua impiegata nella didattica (art. 14, c. 2 e 3), è stata giudicata discriminatoria, perché la

tutela preferenziale così accordata ad un gruppo linguistico mal si concilia non solo con

l’autonomia delle istituzioni scolastiche, ma anche con il diritto di tutti di accedere

all’istruzione in condizioni di parità. In mancanza di «un consenso generalizzato alla

frequenza dei corsi di lingua friulana», infatti, parte degli studenti sarebbe rimasta esclusa

dall’apprendimento delle discipline impartite nella lingua minoritaria.

La pronuncia non ha lasciato indenne nemmeno la previsione che consentiva ai Comuni

della Regione di adottare toponimi nella lingua minoritaria, senza alcun riferimento nella

lingua nazionale, per non aver tenuto adeguatamente conto della necessità di assicurare

(insieme alla tutela dell’idioma identificativo di una data minoranza) la piena conoscibilità (ex

art. 3 Cost.) di indicazioni e segnalazioni relative al territorio del Paese54. Diversamente, la

sentenza 88/2011 ha sancito l’ammissibilità di leggi regionali che, a sostegno di patrimoni

linguistici e culturali ‘minoritari’, incentivino il ricorso ai dialetti nella ‘cartellonistica’, in

quanto tali leggi, non riferendosi alla segnaletica stradale, non interferirebbero con la

competenza esclusiva del legislatore statale in materia di circolazione stradale. Una

disciplina di questo tipo avrebbe cioè lo scopo di valorizzare l’identità comune di un gruppo

senza incidere sulla garanzia di un trattamento uniforme di tutti i cittadini rispetto

53 Sul punto, non a caso, E. Stradella, La tutela delle minoranze linguistiche storiche tra Stato e Regioni

davanti alla Corte costituzionale, in Le Regioni, 2009, 1162 imputa alla legge regionale «una sorta di discriminazione alla rovescia tale da negare non soltanto l’ufficialità della lingua italiana, ma anche la tutela dei diritti individuali di chi parla l’italiano».

54 Gli artt. 1, c. 1, e 10, l. 482/99 dispongono invece, rispettivamente, che «la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano», e che nei Comuni di insediamento della minoranza linguistica «i consigli comunali possono deliberare l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi» solo «in aggiunta ai toponimi ufficiali».

16

all’osservanza delle norme in tema di circolazione stradale (per le quali non si potrebbe -

ovviamente - derogare all’uso della lingua ufficiale dello Stato).

3. Il tema delle minoranze, in generale, ha assunto un grande rilievo sul piano

internazionale, ambito nel quale storicamente ha preso avvio il processo di armonizzazione

delle misure che gli Stati hanno adottato per la tutela dei gruppi stanziati sul proprio

territorio.

Oggi si può certamente parlare di una progressiva internazionalizzazione del diritto delle

minoranze, in quanto, con particolare riferimento all’Europa, il richiamo a standards

internazionali e sovranazionali di tutela è divenuto imprescindibile in un contesto in cui

opera una pluralità di soggetti per definire, ai vari livelli, le garanzie accordate ai “diritti

riservati” delle minoranze e ne assicura l’effettiva applicazione.

Nell’economia di questo lavoro è possibile ripercorrere solo nelle sue tappe salienti il

processo che ha portato alla formazione di un “diritto” per il riconoscimento dei gruppi

minoritari, certamente ricco e significativo, per evidenziare il diverso approccio che, a

partire dal secondo dopoguerra, ha caratterizzato la tutela delle minoranze nei singoli

sistemi giuridici europei e nella normazione sovrastatale.

Mentre le Costituzioni del secondo Novecento, in piena adesione ai valori del pluralismo

sociale e della valorizzazione delle diversità culturali, hanno cominciato a guardare alle

minoranze come articolazioni fondamentali della collettività statale55, il diritto

internazionale e gli strumenti giuridici regionali dell’Europa di questo periodo storico

rimangono ancorati alla tradizione liberale dei diritti universali, in cui gli individui sono

considerati, nell’ottica di un indiscriminato trattamento di fronte alla legge, nell’unico

legame che li unisce allo Stato, e non in relazione alla appartenenza a gruppi e comunità

intermedie. Ne sono prova i documenti approvati dalle Nazioni Unite o all’interno del

Consiglio d’Europa, ma anche i Trattati comunitari, nei quali la questione delle minoranze

rimane ‘offuscata’ da una concezione individualistica della tutela dei diritti fondamentali.

Schematizzando brevemente, l’avvio di un sistema internazionale di protezione dei

gruppi minoritari è segnato dal Protocollo finale del Congresso di Vienna (1815), al quale

non è estranea la natura collettiva degli interessi implicati nella concettualizzazione di

“minoranza nazionale”, quale soggetto destinatario di tutela giuridica. Più tardi, al termine

della prima guerra mondiale, la diversa definizione dei confini europei (conseguente allo

55 Cfr. Austria (art. 8 Cost.); Spagna (artt. 2 e 3); Belgio (artt. 2, 11, 30); Svezia (Cap. I, art. 2 u.c.

e Cap. II, art. 15); Irlanda (art. 44). Tra le Costituzioni più recenti si veda, ad esempio, Cost. Lituania (art. 68); Finlandia (art. 17); Bielorussia (artt. 14 e 15); Croazia (art. 15); Estonia (art. 50); Macedonia (artt. 7, 8, 19, 48); Polonia (art. 35). Sul punto, v. E. Palici Di Suni Prat, Intorno alle minoranze, cit., 111 ss.

17

smembramento dei grandi Stati multinazionali)56 dà rinnovato vigore alla questione dei

‘gruppi’ connotati da una peculiare identità religiosa, etnica o linguistica, come testimonia il

fiorire di accordi bilaterali, trattati speciali o disposizioni ad hoc incluse nei trattati di pace,

posti sotto la garanzia della Società delle Nazioni57.

Nel periodo successivo alla conclusione del secondo conflitto mondiale, invece, il

fenomeno minoritario è affrontato all’interno delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni

a carattere internazionale e regionale alle quali ha aderito la gran parte delle democrazie

europee. Accomuna, però, queste distinte esperienze l’idea che la tutela dei diritti del

singolo sia sufficiente a garantire anche la posizione delle minoranze58, cosicché il

soddisfacimento delle istanze collettive appartenenti alle diverse realtà minoritarie è lasciata

in via prevalente all’autonomia e disponibilità degli Stati.

Ritroviamo questo approccio nella Carta delle Nazioni Unite (1945) e nella

Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), ma anche nella Convenzione europea

dei diritti dell’uomo (1950), nelle quali si afferma il principio di non discriminazione, senza

alcun richiamo all’eguaglianza sostanziale e a specifiche esigenze di tutela delle minoranze.

Una logica parzialmente diversa è ravvisabile solo nell’art. 27 del Patto Internazionale sui

diritti civili e politici del 1966, secondo cui negli Stati in cui esistono minoranze etniche,

religiose o linguistiche le persone che vi appartengono «non possono essere privat[e] del diritto di

avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua,

in comune con gli altri membri del proprio gruppo». Questa formula, in una dinamica ‘circolare’ in

cui il soddisfacimento dei bisogni individuali realizza (anche) la garanzia delle istanze

collettive della comunità minoritaria e viceversa, sembra evocare, come è stato

opportunamente messo in luce, la «pretesa» a misure, anche a carattere positivo, che

consentano al singolo di coltivare il patrimonio linguistico e di tradizioni che condivide con

una data realtà minoritaria, con riflessi anche sulla condizione del nucleo sociale di cui

l’individuo è parte59.

La norma, richiamandosi ad un criterio di eguaglianza sostanziale, riesce in un certo qual

modo a contemplare anche la dimensione collettiva dei diritti delle minoranze60.

Nell’effettiva garanzia di una vita culturale e religiosa è infatti da ascrivere anche la tutela

56 V. R. Toniatti, Minoranze (diritti delle), cit., 700 ss. e V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 156. La

gestione diplomatica dei conflitti assegnata a tale organizzazione intergovernativa vede il suo fallimento nella Seconda guerra mondiale, al termine della quale l’attività di mantenimento della sicurezza e della pace al livello internazionale viene affidata alle Nazioni Unite.

57 A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., cit., 297. 58 Così A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., cit., 298; S. Ortino, La tutela delle minoranze nel diritto

internazionale: evoluzione o mutamento di prospettiva?, in Studi in onore di Leopoldo Elia, Tomo II, Milano, Giuffrè, 1999, 1117-1118; V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 157 e, di recente, F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 89.

59 V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 166-167. 60 In tal senso V. Piergigli, Diritti dell’uomo e diritti delle minoranze nel contesto internazionale ed europeo:

riflessioni su alcuni sviluppi nella protezione dei diritti linguistici e culturali, in Rass. parl., 1996, 45 ss. e F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 99.

18

della sfera di socialità del singolo e, quindi, del gruppo all’interno del quale può esprimere i

propri caratteri identitari.

E’ evidente che la disposizione richiamata, come tutto il diritto per le minoranze,

presume la ricerca di un punto di equilibrio fra garanzie di uniformità nella tutela delle

situazioni giuridiche soggettive, da un lato, e istanze di differenziazione, dall’altro61. E il

possibile conflitto fra il ricorso ad ‘azioni positive’ volutamente orientate a privilegiare

realtà minoritarie e la protezione di diritti universalmente riconosciuti è risolto dalla

Dichiarazione sulle minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche, adottata dall’Assemblea

Generale delle Nazioni Unite nel 1993, con l’affermazione secondo cui (art. 8, par. 3) «le

misure adottate dagli Stati per assicurare il godimento effettivo dei diritti proclamati in questa dichiarazione

non saranno considerate prima facie contrarie al principio di eguaglianza contenuto nella Dichiarazione

Universale dei Diritti Umani». Il criterio adottato da questo documento sembra dunque

presupporre un controllo sulla necessità, proporzionalità, e quindi ragionevolezza, delle

misure preferenziali riconosciute nelle singole situazioni concrete.

4. Come si è anticipato, la tendenza che chiaramente emerge nella protezione sovrastatale

delle minoranze è quella che attribuisce al singolo la titolarità di situazioni giuridiche

soggettive riferibili a realtà minoritarie, sebbene non manchi la consapevolezza che

l’esercizio delle medesime possa collocarsi in un ‘contesto collettivo’.

Il quadro normativo di riferimento del Consiglio d’Europa non attribuisce alcun esplicito

riconoscimento ai diritti delle minoranze.

Uno sguardo alla CEDU rivela come tale strumento contempli una serie di diritti e

libertà per gli individui appartenenti a gruppi nazionali, ma non garantisca espressamente le

minoranze in quanto tali62. L’impostazione accolta nel documento valorizza l’autonomia

individuale e si concretizza nel divieto per le Parti contraenti di imporre restrizioni al

singolo in relazione alla sua appartenenza a comunità minoritarie.

Nella Convenzione la lingua appare un ‘bene’ legato alla sfera personale del singolo, sia

con riguardo al divieto di discriminazione (art. 14), sia nelle garanzie processuali previste

dall’art. 6: il diritto ad essere informati delle accuse mosse a proprio carico in una lingua

conosciuta e di farsi assistere da un interprete qualora non si comprenda la lingua usata in

giudizio si rivolge, infatti, a qualsiasi soggetto indipendentemente dal legame che questi

possa avere con un idioma minoritario.

61 Così F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 47, che ascrivono questo

costante bilanciamento fra diritti individuali e collettivi ad «una concezione dinamica del diritto delle minoranze».

62 In tal senso anche E. Palici Di Suni Prat, Minoranze, cit., 558.

19

Il vuoto testuale in merito a diritti propri dei gruppi minoritari non è stato colmato

nemmeno dai documenti più specifici che il Comitato dei Ministri ha adottato negli anni

novanta del XX secolo nel tentativo di favorire la pacifica coabitazione fra etnie diverse a

fronte delle spinte nazionalistiche riemerse con la dissoluzione del blocco sovietico e alla

base degli aspri conflitti dell’area balcanica.

La Carta europea delle lingue regionali e minoritarie del 199263 non può farsi rientrare

pienamente nel «diritto delle minoranze tout court», in quanto ha lo scopo di preservare e

promuovere la diversità degli idiomi minoritari, come fattori di arricchimento del

patrimonio linguistico e culturale europeo, e non (direttamente) i diritti di coloro che in essi

si riconoscono64.

Allo stesso modo, la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali

del 1995, sebbene sia l’unico strumento internazionale che si occupa in modo specifico del

fenomeno minoritario65, non contempla l’attribuzione di diritti ad entità collettive, ma

rimane atto di riconoscimento di posizioni giuridiche individuali. Ha la stessa impronta

della CEDU, adeguando i diritti da questa previsti alle diverse realtà minoritarie66.

Muovendo da questa finalità, la Convenzione quadro incorpora fattispecie che possono

essere esercitate «in comune» dai membri del nucleo minoritario, e che quindi possono

anche essere espressione di interessi condivisi dallo stesso gruppo, ma ciò non ne elide la

qualificazione di diritti del singolo67.

Nondimeno, anche rispetto a questo tipo di approcci normativi al tema delle minoranze,

è da osservare che quando il ‘legislatore’ codifica strumenti di tutela a carattere positivo, la

63 Al momento solo firmata, ma non ancora ratificata dall’Italia. Alla Camera dei Deputati è stata

presentata, in questa legislatura, la proposta di legge n. 555 di autorizzazione alle ratifica ed esecuzione dell’atto. In argomento, v. M. Podetta, Il lungo, maldestro surplace del legislatore statale a proposito della tutela delle lingue minoritarie e le recenti aperture regionalistiche del giudice costituzionale, in Forum Quad cost., 2012, 1 ss.

64 Così F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 103, i quali mettono in evidenza come il carattere «flessibile» della Carta – che propone un elenco di istituti di promozione delle lingue minoritarie fra i quali gli Stati possono adottare le misure che meglio si addicono alla propria realtà – non consente di attribuire a tale documento la funzione di individuare uno «standard» comune «nell’ambito dei diritti minoritari» (104). Il Rapporto esplicativo conferma, infatti, che «La carta non istituisce dei diritti individuali o collettivi per gli individui che parlano delle lingue regionali o minoritarie», sebbene si riconosca che «nondimeno, gli obblighi degli Stati parti contraenti per quanto concerne lo status di tali lingue … dovranno avere un effetto evidente sulla situazione delle comunità interessate e dei loro singoli membri» (punto 11).

65 Come affermato da F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 105, la Convenzione quadro «è l’unico trattato multilaterale esistente al mondo relativo alla tutela delle minoranze, e ha dunque un’importanza fondamentale nella determinazione del diritto internazionale delle minoranze».

66 Cfr. F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 112. 67 In tal senso, v. S. Bartole, Una convenzione per la tutela delle minoranze nazionali, in Il Mulino, 1995,

341-342. Si legge infatti, nell’Explanatory Report, che la Convenzione «does not imply the recognition of collective rights. The emphasis is placed on the protection of persons belonging to national minorities, who may exercise their rights individually and in community with others».

20

forza inclusiva dell’eguaglianza sostanziale – la sua inclinazione alla dimensione collettiva -

realizza (indirettamente) un sistema di protezione che ha ricadute anche sulla posizione

dell’intero gruppo. E proprio da qui, come vedremo, si può partire per analizzare logiche

interpretative che vanno oltre i ‘consueti’ schemi della tutela dei diritti individuali.

Ciò nella consapevolezza che l’obiettivo di assicurare l’unità e la sicurezza del vecchio

Continente, posto a fondamento delle principali organizzazioni intergovernative europee -

fra le quali, insieme al Consiglio d’Europa e all’Unione europea, anche l’OSCE -, non può

rimanere confinato nelle sole pieghe dell’eguaglianza formale, e quindi dell’irrilevanza della

proiezione sociale del singolo, ma passa anche attraverso il riconoscimento delle diversità

che interagiscono sul piano collettivo, in ragione dell’appartenenza degli individui a nuclei

sociali connotati da particolari e oggettive specificità.

4.1. Nell’ambito dell’Unione Europea, la tutela giuridica delle minoranze appare, ancora

oggi, prevalentemente assorbita dalla logica antidiscriminatoria.

Fin dai Trattati istitutivi il diritto comunitario ha dedicato solo brevi cenni alle questioni

dei gruppi minoritari, per lo più con riferimento al principio di non discriminazione sulla

base della nazionalità (art. 12 TCE).

Solo a partire dal Trattato di Maastricht (art. 128) e poi di Amsterdam (art. 151), la

valorizzazione del pluralismo e della diversità culturale attribuiscono nuovo vigore al tema

delle minoranze, attraverso clausole che certamente possono sorreggere politiche rivolte

alle espressioni (e questioni) identitarie intrinseche alla conformazione di una società

multietnica. Garanzie che oggi sono ribadite dall’art. 167 TFUE, secondo cui l’Unione

«contribuisce» al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri «nel rispetto delle loro diversità

nazionali e regionali» e tiene conto, nello svolgimento delle politiche delineate nel Trattato,

degli aspetti culturali che caratterizzano gli Stati membri.

Nondimeno, anche con la riforma di Lisbona, lo scenario della normazione primaria non

rimanda, tuttavia, ad una specifica competenza dell’Unione nella tutela delle minoranze e

ancor meno con specifico riguardo alle minoranze linguistiche68.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (che ora ha lo stesso rango dei

Trattati) ripercorre, nell’art. 21, la tradizionale logica antidiscriminatoria (e individualistica),

contemplando la lingua quale ‘fattore di appartenenza’ che non può essere causa di alcun

trattamento deteriore del singolo. Nel successivo art. 22, invece, è stata opportunamente

colta «una più spiccata propensione» alla protezione della ‘diversità minoritaria’ intesa come

68 Sulla carenza di competenze comunitarie in tema di minoranze nel diritto primario

antecedente il Trattato di Lisbona Così C. Hillion, Enlargement of the European Union. The Discrepancy Between Membership Obligations and Accession Conditions as Regards the Protection of Minorities, in Fordham International Law Journal, vol. 27, 2003, 727.

21

‘dato collettivo’69. La norma infatti, che si esprime con una formula priva di riferimenti

soggettivi, enuncia in modo generale il rispetto da parte dell’Unione della «diversità culturale,

religiosa e linguistica», al quale può ascriversi anche la finalità di impedire che questi ‘valori’,

come tratti identitari di un gruppo, possano essere motivo di differenziazioni

irragionevoli70.

Entrambe le disposizioni citate, comunque, sono improntate ad una tutela di carattere

negativo e non promozionale, ed è inoltre da considerare che, per espressa previsione

dell’art. 51, il catalogo di diritti oggi inserito nei Trattati non amplia in alcun modo le

competenze dell’Unione.

Più innovativo il tenore dell’art. 2 TUE, sebbene la norma, da sola, appaia insufficiente a

fondare un intervento dell’Unione in tema di protezione delle minoranze71, poiché si limita

a richiamare i valori che reggono il sistema comunitario, specificando come la garanzia dei

diritti fondamentali racchiuda al suo interno anche «i diritti delle persone appartenenti a

minoranze»72.

Non è da trascurare però, come si cercherà di dimostrare più oltre (cfr. par. 7), il modo

in cui tale previsione può interagire con l’art. 19 TFUE, norma (già introdotta con l’art. 13

TCE) che legittima il Consiglio ad adottare i provvedimenti opportuni per “combattere” ogni

forma di discriminazione che sia fondata sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o

le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. Un precetto, questo,

idoneo peraltro a giustificare anche il ricorso ad azioni positive, ammettendo così che le

misure promosse a garanzia di un modello di eguaglianza inclusiva (sostanziale) possano

avere ricadute anche ‘collettive’, ossia allargate all’intera categoria dei soggetti discriminati.

Sul piano della tutela delle minoranze linguistiche, infine, è da considerare che eventuali

politiche statali che siano annoverabili fra gli interventi di sostegno alla «promozione della

cultura» e al «mantenimento del patrimonio culturale» possono beneficiare dell’ ‘esenzione’ dal

rigido regime comunitario degli aiuti di Stato (art. 107, lett. d), TFUE (ex art. 87 TCE)).

Tuttavia, occorre tenere presente che eventuali sovvenzioni finanziarie dei Paesi membri,

per essere compatibili con il diritto dell’Unione, non debbono in alcun modo «alter[are] le

condizioni degli scambi e della concorrenza … in misura contraria all’interesse comune».

69 Per questa lettura, v. A. Celotto, Artt. 21-22, in R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto (cur.),

L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 2001, 176.

70 In argomento, v. G. Rolla, E. Ceccherini, Il riconoscimento delle diversità culturali e linguistiche nell’ordinamento costituzionale eutopeo, in questa Rivista, 2/2007, 660 ss.

71 In tal senso, fra i tanti, D. Kochenov, EU minority protection: a modest case for a synergetic approach, in Amsterdam Law Forum, vol. 3-4, 2011, 42 e 52.

72 Detta formula, peraltro, sembra ripiegare, ancora una volta, su una visione individualistica del principio di eguaglianza.

22

5. Pur nello scarno quadro normativo internazionale e comunitario, la questione delle

minoranze linguistiche è più volte approdata alle Corti sovranazionali europee.

La Corte europea dei diritti dell’uomo non solo non è rimasta insensibile ai riflessi che la

protezione dei diritti individuali sanciti dalla Convenzione produce sulla dimensione

collettiva di comunità linguistiche minoritarie, ma è arrivata ad ‘utilizzare’ gli strumenti di

tutela previsti dalla Convenzione anche nell’ottica di garantire le istanze di cui questi gruppi

sono portatori.

In primo luogo, è possibile notare che nella giurisprudenza in cui la Corte ha esaminato

casi di presunta discriminazione del singolo, in ragione dell’appartenenza ad una minoranza

linguistica, emerge - di riflesso - anche il problema della tutela della complessiva

formazione sociale riconducibile all’idioma minoritario, attraverso il bilanciamento fra

‘diritti riservati’ e principio di eguaglianza.

Per dare l’idea di questo modo di argomentare, si possono richiamare alcuni casi in cui la

Corte ha ricompreso nell’art. 8, sul rispetto della vita privata e familiare, la libertà di

utilizzare la lingua minoritaria nella corrispondenza dei carcerati e nell’ortografia dei nomi.

Il diritto del detenuto ad utilizzare un idioma minoritario nell’esercizio della libertà di

corrispondenza può, come dimostra il caso Mehmet Nuri Özen et autres c. Turquie73, essere

legittimamente limitato in ragione del perseguimento di altre esigenze meritevoli di

protezione (come la sicurezza all’interno dell’istituzione carceraria, o la necessità di

impedire la comunicazione tra organizzazioni terroristiche o criminali). Tuttavia, le

restrizioni imposte a questo diritto, in cui il soggetto esprime una ‘specifica’ appartenenza,

oltre che previste dalla legge, devono essere proporzionate rispetto al fine perseguito74.

Nella fattispecie, le autorità penitenziarie turche si erano rifiutate di spedire la

corrispondenza inviata da alcuni detenuti ai propri familiari, perché, essendo scritta in

kurdo, non avevano potuto valutarne il tenore per verificarne la conformità alle

prescrizioni di legge75.

73 Sent. 11-1-2011, ric. n. 15672/08 e altri. 74 Questo modo di argomentare, sulla necessità e ragionevolezza delle restrizioni alle libertà in

carcere trova corrispondenza anche nell’orientamento della Corte costituzionale italiana che, con rigore, ha sempre affermato che le limitazioni ai diritti del detenuto non devono intaccarne la dignità, che permane anche quando un soggetto sia privato della propria libertà personale, e devono essere strettamente proporzionate alle esigenze della condizione di detenuto (cfr., fra le tante, Corte cost. 264/1974).

75 Secondo i dettami della legge turca (sez. 68, l. 13-12-2004, n. 5275), il divieto spedizione riguarda «letters [that] are a threat to order and security in the prison, single out serving officials as targets, permit communication between terrorist or criminal organisations, contain false or misleading information likely to cause panic in individuals or institutions, or contain threats or insults». Il giudice dell’esecuzione considerò le decisioni impugnate legittime, perché l’uso della lingua minoritaria aveva reso il contenuto delle lettere incomprensibile e quindi impossibile l’attività di controllo richiesta dalla legge, avendo riguardo anche alla circostanza che nessuna previsione richiede alle autorità carcerarie di accollarsi i costi per la traduzione delle lettere in lingua diversa da quella turca.

23

I Giudici di Strasburgo, però, hanno ritenuto il diniego opposto un’interferenza

illegittima nella libertà dei ricorrenti, in quanto non disciplinando l’ordinamento turco

l’ipotesi di una corrispondenza dei carcerati in una lingua diversa da quello ufficiale, la

decisione dell’istituzione penitenziaria di impedire gli scambi epistolari dei detenuti avrebbe

potuto basarsi unicamente sul contenuto delle lettere (che non deve compromettere la

sicurezza e l’ordine nell’istituto penitenziario o favorire attività criminali), ma non sulla

lingua utilizzata.

Degno di nota, proprio con riguardo alla garanzia collettiva di una situazione minoritaria,

è il passaggio della sentenza in cui la Corte rileva che, in assenza di riferimenti giuridici atti

a precisare le modalità di trattamento della corrispondenza scritta in una lingua straniera, la

prassi avviata dal personale penitenziario di imporre una preventiva traduzione a spese dei

carcerati contrasta con l’art. 8 della Convenzione, perché automaticamente priva della

protezione offerta da questa norma «un’intera categoria di scambi epistolari privati» e, di

conseguenza, anche un’intera categoria di soggetti, costretta a rinunciare alla propria libertà di

corrispondenza se non in grado di sostenere le spese a ciò necessarie76.

Anche nella garanzia dell’ortografia dei nomi conforme alla lingua minoritaria la Corte ha

riconosciuto agli Stati un ampio margine di apprezzamento, alla luce dei molteplici fattori

storici, religiosi e culturali che condizionano le scelte dei vari Paesi e impediscono di

individuare un denominatore comune nelle legislazioni nazionali77.

Al riguardo, nella giurisprudenza della Corte è ormai costante l’affermazione per cui la

libertà linguistica in sé non costituisce un diritto sancito dalla Convenzione78 e, ad

eccezione dei diritti operanti in ambito processualpenalistico, tale documento non consacra

il diritto di utilizzare una lingua diversa da quella ufficiale nei rapporti con le autorità

pubbliche, né il diritto di ricevere informazioni nella lingua da ciascuno prescelta79.

76 Nelle parole del Giudice dei diritti umani, «Imposer aux détenus la traduction préalable, et à leurs frais,

des lettres écrites dans leur langue maternelle, langue qui n’est pas comprise par le personnel pénitentiaire chargé d’en apprécier le contenu, est jugée contraire à l’article 8. En effet, cette pratique « conduit à exclure d’office du champ de protection de cette disposition une catégorie entière d’échanges épistolaires privés dont les prisonniers pouvaient souhaiter bénéficier».

77 Cfr. Mentzen c. Lettonie, ric. n. 71074/01, 7 dicembre 2004; Bulgakov c. Ukraine, ric. n. 59894/00, 11-9-2007; Baylac-Ferrer et Suarez c. France ric. n. 27977/04, 25-9-2008.

78 Cfr. Podkolzina c. Lettonie, ric. n. 46726/99; Pahor c. Italie, ric. n. 19927/92, decisione della Commissione del 29-6-1994; Kozlovs c. Lettonie, ric. n. 50835/99, 10-1-2002.

79 Nell’affaire Güzel, peraltro, i Giudici di Strasburgo concludono per la violazione dell’art. 8 CEDU di fronte al rifiuto delle autorità turche di accogliere la richiesta di una cittadina di rettificare l’ortografia del suo nome nel registro di stato civile per conformarla alla pronuncia in lingua kurda. Ma la decisione della Corte conferma il principio dell’ampia discrezionalità degli Stati nel regolare tali aspetti e fonda la violazione della Cedu sulla insufficiente chiarezza della normativa turca nel definire le condizioni e le modalità attraverso cui i pubblici poteri possono imporre restrizioni e/o modifiche all’ortografia dei nomi. Nel caso Kemal Taşkin et autres c. Turquie, invece, la Corte ha giudicato non incompatibile con l’art. 8 il rifiuto delle autorità turche di sostituire la lingua kurda alla lingua turca nell’ortografia del nome dei ricorrenti riportato in documenti ufficiali, perché ciò avrebbe comportato l’utilizzo di caratteri non presenti nell’alfabeto della lingua turca.

24

Ne consegue che, in via di principio, gli Stati contraenti possono legittimamente imporre

l’utilizzo della lingua nazionale nei documenti di identità e in altri documenti ufficiali, al

fine di preservare l’unità linguistica del Paese80.

Nelle decisioni che si sono occupate di questa problematica, - fra le più recenti, v. i casi

Güzel Erdagöz c. Turquie81 e Kemal Taşkin et autres c. Turquie82 - sebbene i Giudici di

Strasburgo non facciano espresso riferimento ai diritti di un “gruppo minoritario”, emerge

chiaramente che l’esigenza di garantire l’identità linguistica di uno Stato non è solo il

parametro per valutare se vi sia stata discriminazione nei confronti del ricorrente, ma

rappresenta anche il termine di bilanciamento di una pretesa di differenziazione che è

imputabile ad una “comunità”. Da ciò si evince, pertanto, che il riconoscimento (o il

diniego) di tali misure preferenziali non si esaurisce nella situazione del singolo, ma si

riflette inevitabilmente sull’intera categoria sociale di cui questi è parte.

Ma gli esempi possono continuare.

Nel campo della rappresentanza politica, i Giudici di Strasburgo hanno messo a

confronto i vincoli di utilizzo della lingua ufficiale nelle istituzioni elettive statali con le

garanzie di rappresentanza di collettività espressione di idiomi minoritari.

Il noto affaire Podkolzina83 ha riguardato, ad esempio, la cancellazione di una candidata

appartenente alla minoranza russofona presente in Lettonia dalle liste per l’elezione

dell’Assemblea legislativa, in ragione dell’insufficiente conoscenza della lingua nazionale.

Qui la Corte ha valutato la presunta discriminazione denunciata dalla candidata esclusa

con la prerogativa degli Stati di definire le condizioni di esercizio dei diritti elettorali. Ma,

come trapela da alcuni passi della sentenza, la questione ha riflessi che vanno oltre il profilo

della tutela antidiscriminatoria della ricorrente e investono anche la garanzia delle istanze di

partecipazione politica e istituzionale delle minoranze linguistiche come soggetti collettivi.

In effetti, il requisito della conoscenza della lingua ufficiale, se richiesto senza congrue

garanzie (sostanziali e procedurali), potrebbe configurare una limitazione sproporzionata e,

quindi, un trattamento deteriore dei gruppi linguistici minoritari, rispetto all’opportunità di

avere propri rappresentanti in seno all’Assemblea elettiva.

In via di principio, i Giudici di Strasburgo mostrano di non trascurare questo aspetto, ma

ritengono legittimo lo scopo perseguito dal legislatore lettone con la restrizione imposta ai

candidati all’elezione del Parlamento. Tenuto conto del margine di apprezzamento

riconosciuto alle Parti contraenti nella disciplina dei diritti elettorali (con il vincolo della

Per altri riferimenti, v. Mentzen c. Lettonie, ric. n. 71074/01, cit.; Bulgakov c. Ukraine, ric. n. 59894/00, cit.; Baylac-Ferrer et Suarez c. France ric. n. 27977/04, cit.

80 Nell’affaire Mentzen alias Mencena c. Lettonie, 7 dicembre 2004, ric. n. 71074/01, la Corte parla di «necessità di preservare l’integrità del sistema grammaticale e le tradizioni ortografiche» della lingua ufficiale di un Paese.

81 Sent. 21-10-2008, ric. n. 37483/02. 82 Sent. 2-2-2010, ric. n. 30206/04 e altri. 83 Cfr. Podkolzina c. Lettonia, sent. 9-4-2002, ric. n. 46726/99.

25

ragionevolezza e proporzionalità delle limitazioni prescritte), l’obbligo di conoscere la

lingua ufficiale si riconnette all’interesse legittimo di ciascuno Stato di assicurare il buon

funzionamento del proprio sistema istituzionale, anche attraverso la definizione della lingua

impiegata nei lavori dell’Assemblea nazionale. Una scelta che, essendo dettata anche da

considerazioni di ordine storico e politico legate all’esperienza delle singole realtà statali, è

da ritenersi di esclusiva competenza degli ordinamenti interni.

La pronuncia in commento dichiara, quindi, la violazione dell’art. 3 del Protocollo n. 1

(diritto ad elezioni libere) non sulla base delle motivazioni per cui la candidata è stata

esclusa dalla competizione elettorale, ma perché la procedura che ne ha determinato

l’ineleggibilità (ai sensi dell’art. 5, par. 7 della disciplina elettorale) non è stata ritenuta

compatibile con le garanzie di un giusto procedimento e di certezza del diritto.

Nel dibattimento è emerso che, pur avendo prodotto un valido certificato attestante un

livello «superiore» di conoscenza della lingua lettone (come richiesto dall’art. 11, par. 5 della

legge elettorale), la ricorrente fu sottoposta ad una prova linguistica non conforme alla

normativa statale vigente84, sia con riguardo alla formazione della commissione

giudicatrice, sia per le dubbie garanzie di obiettività della procedura di valutazione85.

Per la Corte, i provvedimenti che dispongono la ricusazione di candidature, per

inosservanza dei necessari requisiti giuridici, devono essere adottati secondo criteri che

tutelino gli interessati da decisioni arbitrarie, mentre nella fattispecie esaminata sono

mancate quelle condizioni di oggettiva e imparziale applicazione della legge che debbono

essere assicurate in materia di eleggibilità (punto 36).

La garanzia dell’eguale accesso alla rappresentanza politica, da un lato, e la salvaguardia

delle opportunità di partecipazione democratica delle minoranze etnico-linguistiche,

dall’altro, rappresentano le chiavi di lettura di questo giudizio, in cui si incrociano istanze di

uniformità di trattamento nell’esercizio del diritto di concorrere per un ufficio elettivo ed

esigenze di integrazione sociale e istituzionale dei gruppi minoritari.

Infine, anche in ordine all’uso della lingua minoritaria nell’esercizio del diritto

all’istruzione ben si può evidenziare come il riconoscimento o la negazione di misure

preferenziali abbia effetti oltre la mera tutela antidiscriminatoria del singolo e si rifletta,

invece, anche sui gruppi cui questi appartiene.

Già nel 1968, nella causa Belgian Linguistics86, la Corte ha dovuto bilanciare la pretesa di

ricevere l’istruzione nella lingua minoritaria (avanzata da un gruppo di famiglie di lingua

84 Regolamento del 1992 sull’attestazione della conoscenza della lingua di Stato 85 La valutazione delle conoscenze linguistiche della ricorrente fu rimessa all’apprezzamento di

questa unica funzionaria (anziché di una commissione di esperti) cha esercitò, a giudizio della Corte «un pouvoir exorbitant». La candidata fu infatti interrogata essenzialmente sulle ragioni della propria scelta politica, soggetto che era del tutto estraneo all’esigenza di valutarne le buone conoscenze linguistiche (punto 36).

86 Sent. 23-7-1968 (ric. n. 1474/62; 1677/62; 1691/62; 1769/63; 1994/63; 2126/64).

26

francese residenti in una regione del Belgio di lingua olandese) con le esigenze di

contenimento dei costi per la scuola pubblica o sovvenzionata dallo Stato.

In quell’occasione, i Giudici di Strasburgo rigettarono il ricorso e fecero salva

l’assimilazione linguistica determinata dal legislatore belga nell’imporre l’istruzione in

francese o olandese sulla base di un criterio di prevalenza di una di queste due lingue nella

regione considerata. Nei territori monolingue, infatti, non sarebbe stata economicamente

praticabile la scelta di offrire diverse modalità di fruizione del diritto allo studio a seconda

degli idiomi in essi presenti.

Come si può notare, il giudizio fu impostato alla stregua di un controllo di

ragionevolezza-proporzionalità fra l’istanza rivendicata dalle famiglie della comunità

francofona (il presunto diritto di ottenere l’istruzione in una lingua diversa da quella

maggioritaria) e l’esigenza di un utilizzo razionale delle risorse pubbliche.

All’interno di questo schema di valutazione diviene centrale il rapporto fra “diritti

riservati” o “differenziati” (anche alla luce della loro valenza collettiva) e diritti riconosciuti

alla generalità dei soggetti (parità di trattamento dei singoli nell’accesso all’istruzione,

sostenibilità dei bilanci pubblici, etc.) da cui la Corte ha ricavato il principio per cui la tutela

della lingua minoritaria non può configurarsi come diritto ad una prestazione pubblica, ma

solo come libertà, per le famiglie appartenenti ad un gruppo minoritario, di ricorrere

all’istruzione privata nella lingua madre.

Alla lettura combinata dell’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione) con l’art. 2, Prot. n.

1 (in tema di diritto all’istruzione), dice la Corte, non è ascrivibile il diritto di ricevere

l’istruzione nella lingua prescelta. Al contrario, la tutela fornita da queste norme è più

limitata e attiene all’obbligo di ogni Parte contraente di assicurare a tutti il diritto allo

studio, senza discriminazione alcuna (anche sulla base della lingua), ossia di avere accesso

garantito all’istruzione nella lingua stabilita dallo Stato a prescindere dalla propria

appartenenza linguistica. «Questo è il significato ordinario» delle due disposizioni, richiamate - si

legge nella sentenza -, mentre interpretarle in modo diverso «conduirait à des résultats absurdes,

car chacun pourrait ainsi revendiquer une instruction donnée dans n’importe quelle langue dans l’un

quelconque des territoires des Parties Contractantes»87.

In linea con tale indirizzo, nella sentenza Catan e altri c. Repubblica di Moldova e Russia,

dell’ottobre 201288, il Giudice dei diritti umani si è pronunciato sul ricorso di alcune

87 Questo stesso modo di argomentare porta invece la Corte (nella sentenza Cipro v. Turchia) a

ritenere incompatibile con l’art. 2 del Protocollo n. 1 il rifiuto della autorità cipriote di assicurare ad alcuni bambini di lingua greca residenti nella parte nord del Paese (dove è predominante il turco) l’istruzione in lingua greca. Nel bilanciamento fra esigenze ‘particolari’ di una data comunità linguistica e garanzie di uniformità, la preferenza accordata alla tutela dell’idioma minoritario è stata dettata dalla constatazione che, avendo ricevuto l’istruzione primaria in lingua greca, i medesimi bambini non avrebbero potuto iscriversi ad una scuola secondaria se non alle stesse condizioni. La lingua, in definitiva, ha rappresentato, per questa fattispecie, il presupposto per assicurare l’accesso allo studio.

88 Del 19-10-2012, ric. n. 43370/04, 8252/05 e 18454/06.

27

famiglie appartenenti alla comunità moldava della Transnistria che lamentavano la lesione

del diritto allo studio dei propri figli in ragione della politica linguistica adottata dal regime

separatista nel 1992 e nel 1994, da cui è derivato il divieto di utilizzo dell’alfabeto latino

negli istituti scolastici e la chiusura forzata delle scuole di lingua moldava-romena89.

La decisione ribadisce che l’art. 2, Prot. n. 1 assicura il diritto all’istruzione nella lingua

nazionale (o nelle lingue nazionali) di uno Stato, e sulla base di questo assunto ne dichiara

la violazione, in quanto i genitori appartenenti alla comunità moldava altro non

rivendicavano che l’opportunità, per i loro figli, di ricevere «un enseignement dans la langue

officielle de leur pays, qui était aussi leur propre langue maternelle» (par. 143)90.

In conclusione, per riassumere in poche battute ciò che si percepisce – sebbene come

semplice sfumatura – dalla rassegna giurisprudenziale qui proposta, si può affermare che,

pur nell’applicazione di norme concepite e formulate rispetto ad una concezione

individualistica dei diritti fondamentali, la dialettica fra eguaglianza formale e sostanziale ha

introdotto nel sistema CEDU anche una dimensione collettiva della tutela dei diritti legati

al fenomeno minoritario.

5.1. In alcuni giudizi affrontati dalla Corte dei diritti umani le garanzie di non

discriminazione previste dalla Convenzione sono state espressamente indirizzate anche alla

protezione di ‘situazioni’ linguistiche minoritarie91.

La tutela di un idioma minoritario, come elemento identificativo di peculiari collettività

sociali, è emersa in modo esplicito nell’orientamento che la Corte europea ha espresso nelle

recenti pronunce che hanno affrontato la questione dell’integrazione scolastica di minori

89 La decisione sancisce la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 alla CEDU da parte della

Federazione russa, in quanto il regime separazionista non sarebbe continuato senza l’appoggio militare, politico ed economico della Russia, ravvisando, di conseguenza, una responsabilità di questo Paese sul piano della garanzia dei diritti riconosciuti dalla Convenzione. La motivazione porta invece la Corte a non riconoscere alcuna responsabilità in capo alla Moldavia, Paese che si è astenuto dal sostenere il regime separatista e anzi, come rilevato nel giudizio, ha speso sforzi considerevoli per venire in aiuto alla comunità moldava in Transnistria.

90 In luogo di questa protezione, riconosce la Corte, i membri della comunità moldava della Transnistria sono stati «messi nella situazione ingrata di dover scegliere» fra due alternative sfavorevoli rispetto alle proprie legittime aspettative: «d’une part, envoyer leurs enfants dans des écoles où ils seraient désavantagés par le fait de devoir accomplir toute leur scolarité secondaire dans une combinaison langue/alphabet que les parents requérants jugent artificielle, qui n’est reconnue nulle part ailleurs dans le monde et qui implique l’utilisation d’un matériel pédagogique conçu à l’époque soviétique et, d’autre part, obliger leurs enfants à effectuer de longs trajets ou à aller dans des locaux ne répondant pas aux normes, et à subir des actes de harcèlement et d’intimidation».

91 Come affermano anche F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 102, con riferimento all’applicazione del principio di eguaglianza, «nell’ultimo decennio la giurisprudenza della Corte … si [è] spinta frequentemente a decidere su questioni relative a diritti delle minoranze».

28

appartenenti a gruppi di etnia rom. In questo filone giurisprudenziale si può osservare

come i Giudici di Strasburgo abbiano messo al centro dei propri giudizi la garanzia dei

diritti di queste minoranze, in quanto gruppi che versano in una condizione di svantaggio

sociale, e hanno ricavato dalla Convenzione misure di tutela delle istanze collettive dalle

stesse rivendicate92.

I ricorsi presentati hanno riguardato normative e prassi statali che prevedevano scuole o

classi separate (poste al di fuori degli edifici scolastici) destinate prevalentemente - o

addirittura in via esclusiva - a bambini rom. Uno dei problemi principali legati a queste

“nuove minoranze” etnico-linguistiche, infatti, concerne l’analfabetismo e la bassa

scolarizzazione, profilo che ha inevitabilmente a che fare anche con le politiche di

integrazione linguistica. E proprio in ordine all’inserimento scolastico, la Corte europea,

avvalendosi della nozione di discriminazione indiretta, si è preoccupata di fissare rigorosi

limiti alla possibilità di destinare a studenti rom un trattamento differenziato, nell’ottica di

evitare, anche solo come riflesso di politiche formulate in modo neutro, il prodursi di

effetti segreganti93.

Già nel 2007, la Grande Camera ebbe ad affermare, nel caso D.H. e altri c. Repubblica ceca,

che la pratica, all’epoca in vigore in questo Paese, di inserire gran parte dei minori rom in

scuole per alunni con deficit di apprendimento, non è compatibile con la garanzia di un

eguale accesso all’istruzione, con conseguente violazione degli artt. 14 CEDU e 2 Prot. n.

1.

92 Si precisa, però, che oltre alla lingua, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato

anche la salvaguardia dello “stile di vita nomade” come tradizione e fattore meritevole di protezione che contraddistingue una collettività, quale la minoranza rom, bisognosa di peculiari attenzioni ad opera degli ordinamenti statali ‘ospitanti’, tenuto conto della propria condizione di vulnerabilità (un orientamento abbozzato già nel caso Buckley c. Royaume-Uni (1996), ma espresso in modo esplicito a partire dalla sentenza Chapman et autres c. Royaume-Uni (del 18-1-2001), nella quale, in una fattispecie riguardante il diniego di autorizzazione opposto ad una donna rom di nazionalità britannica a stazionare con un caravan su un terreno di sua proprietà, i Giudici di Strasburgo hanno ascritto alla tutela dell’art. 8 della Convenzione non solo la libertà di domicilio e la protezione della vita familiare della ricorrente, ma anche il diritto della comunità rom di preservare la propria «identità zigana» (cfr. par. 73: «La Cour considère que la vie en caravane fait partie intégrante de l'identité tsigane de la requérante car cela s'inscrit dans la longue tradition du voyage suivie par la minorité à laquelle elle appartient»), affermando l’obbligo positivo delle Parti contraenti di adottare misure idonee a facilitarne «il modo tradizionale di vita» (sul punto, v. P. Bonetti, I nodi giuridici della condizione di Rom e Sinti in Italia, in P. Bonetti, A. Simoni, T. Vitale (cur.), La condizione giuridica di Rom e Sinti in Italia, Milano, Giuffré, 2011, 107). In linea con questo indirizzo anche le decisioni Connors c. Royaume-Uni, del 27-5-2004, e Yordanova et autres c. Bulgarie, del 24-4-2012, su cui v. M.C. Locchi, Alcune considerazioni su limiti e ambiguità del riconoscimento giuridico delle differenze culturali a partire dalla giurisprudenza sui rom della Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.diritti-cedu.unipg.it, 2012, 1 ss.

93 Cfr. D. Strazzari, C’è un giudice a Strasburgo! La Corte europea dei diritti dell’uomo e la tutela contro la discriminazione degli appartenenti all’etnia rom, in S. Baldin, M. Zago (cur.), Il mosaico rom. Specificità culturali e governance multilivello, Milano, Franco Angeli, 2011, 196 ss. e S. Baldin, Le minoranze rom fra esclusione sociale e debole riconoscimento giuridico. Uno studio di diritto pubblico europeo e comparato, Bologna, Bononia University Press, 2012, 93 ss.

29

La scelta del legislatore ceco di diversificare le modalità di inserimento nella scuola

primaria in ragione dei risultati di test psico-attitudinali, al fine di assegnare ad istituti

speciali quelle categorie di bambini sprovvisti delle conoscenze di base, evidenziava come

in tali strutture fosse collocata la quasi totalità degli alunni di etnia rom (una percentuale fra

l’80 e il 90%)94.

Una siffatta sproporzione viene dalla Corte considerata, di per sé, indice sufficiente per

fondare una discriminazione indiretta a danno della comunità rom (par. 195), i cui minori

sono stati posti in una situazione di netto svantaggio (visto il livello inferiore dei

programmi seguiti) rispetto all’opportunità di intraprendere un adeguato percorso

formativo.

Il sistema di scolarizzazione preso in esame non ha saputo «aiutare i bambini rom ad

inserirsi in scuole ordinarie e a sviluppare capacità atte a facilitare la loro vita all’interno

della popolazione maggioritaria» ma, al contrario, i ricorrenti «hanno ricevuto

un’educazione che ne ha accentuato le difficoltà e compromesso l’ulteriore personale

sviluppo» (par. 207)95. Per la Corte, dunque, la normativa censurata ha prodotto, di fatto,

ripercussioni pregiudizievoli oggettivamente eccessive su un gruppo etnico in particolare e, di

conseguenza, un impatto discriminatorio che si riconnette alle origini etniche degli scolari,

alle quali si lega anche la diversa appartenenza linguistica96.

94 Cfr. par. 192. Con questa decisione, del 13-12-2007, la Grande Camera ha riformato quanto

stabilito da una precedente pronuncia della seconda Sezione del 7-2-2007, che non aveva riscontrato alcun riflesso discriminatorio nel modello di istruzione della Repubblica Ceca, in quanto l’inserimento nelle scuole speciali non era determinato dall’origine etnica, ma queste erano state istituite con lo scopo legittimo di fornire un sistema educativo che si adattasse alle esigenze di soggetti con difficoltà di apprendimento. Per un commento su questa vicenda, v. F. Staiano, Diritto dei minori rom all’istruzione in condizioni di non discriminazione: il caso Oršuš e altri c. Croazia, in Diritto Immigrazione Cittadinanza, 1/2011, 93 ss.

95 «Dans ces conditions, la Cour, tout en reconnaissant les efforts fournis par les autorités tchèques en vue de scolariser les enfants roms, n’est pas convaincue que la différence de traitement ayant existé entre les enfants roms et les enfants non roms reposât sur une justification objective et raisonnable et qu’il existât un rapport raisonnable de proportionnalité entre les moyens employés et le but à atteindre» (par. 208).

96 Al riguardo, i ricorrenti contestano (par. 138 della sentenza) il fatto che le difficoltà linguistiche degli alunni rom (insieme ad altri fattori, quali la povertà o una condizione sociale differente) possano costituire giustificazioni ragionevoli e oggettive al diverso trattamento ad essi riservato e rammentano che lo stesso governo ceco ha ammesso che «un requérant avait été placé dans une école spéciale alors qu’il possédait de bonnes capacités d’expression verbale» (par. 141). E, in effetti, anche la Corte rileva (par. 200) che il Comitato consultivo della Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali ha osservato che anche bambini non affetti da handicap mentale sono stati comunque collocati in scuole speciali «en raison d’une différence linguistique ou culturelle réelle ou supposée par rapport à la majorité». Non a caso, molte delle organizzazioni intervenute in giudizio a sostegno dei ricorrenti (tra cui, Minority Rights Group International, European Network Against Racism e European Roma Information Office, nonché International Step by Step Association, Roma Education Fund et European Early Childhood Education Research Association) hanno sottolineato (parr. 167 e 168) questa forma di discriminazione sulla base della appartenenza linguistica, di cui non si è tenuto conto nella definizione dei test di valutazione per l’orientamento degli alunni. Ciò che ha portato i soggetti intervenienti a sostenere che, al fine di assicurare un eguale trattamento dei bambini rom nella

30

L’affaire D.H. e altri c. Repubblica ceca segna una svolta importante, che trova

consolidamento e argomentate delucidazioni nei diversi casi che in questi anni sono stati

portati alla cognizione del Giudice dei diritti umani. Da essi si ricava che la tutela

antidiscriminatoria fornita dalla Convenzione al diritto allo studio non impedisce un

trattamento differenziato rivolto a particolari categorie di minori, se serve ad adattare il

sistema educativo ai bisogni specifici di questi soggetti. Un approccio diversificato

nell’accesso all’educazione scolastica non è certo illegittimo, ma anzi può essere

indispensabile in ragione di una situazione oggettiva di ineguaglianza degli allievi che ne

sono destinatari.

Nondimeno, per escludere l’esistenza di pratiche segregazioniste, anche indirette, ogni

provvedimento che si diriga in via prevalente o esclusiva ad un’etnia deve superare uno

scrutinio particolarmente rigoroso. Lo Stato ha l’onere di provare non solo che le politiche

adottate nei confronti del gruppo minoritario servono a ristabilire una condizione di parità

sostanziale, ma anche che i mezzi adoperati sono appropriati al fine perseguito e

accompagnati da garanzie idonee ad evitare riflessi discriminatori97.

Così, il caso Oršuš e altri c. Croazia98 dichiara il contrasto con l’art. 14 CEDU e con l’art 2,

Prot. n. 1 della decisione con cui le istituzioni scolastiche croate hanno creato classi

composte esclusivamente da alunni di origine rom, collocate al di fuori degli edifici

scolastici, al fine (dichiarato) di sopperire alle carenze linguistiche di questi allievi.

Per la Corte, pur nell’ambito del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati nel

campo delle politiche educative, il ‘doppio’ modello di inserimento nella scuola primaria

avviato in Croazia non appare ragionevolmente calibrato sulle specifiche esigenze dei

minori appartenenti a questa minoranza e nemmeno è affiancato da garanzie idonee a

prevenire ricadute discriminatorie. Oltre a constatare che la collocazione in classi separate,

in ragione della diversità linguistica, è avvenuta in assenza di criteri definiti in modo preciso

e trasparente dalla legge99, i Giudici di Strasburgo accertano altresì che tale pratica non è

fruizione del diritto allo studio, «les Etats doivent donc apporter des modifications à cette procédure d’évaluation … et prendre des mesures positives dans le domaine de la formation aux langues et aux aptitudes relationnelles».

97 Così la citata pronuncia D.H. e altri c. Repubblica ceca, parr. 195 ss. e par. 207, in cui la Corte afferma che «il ressort des faits de l’espèce que le processus de scolarisation des enfants roms n’a pas été entouré de garanties … permettant de s’assurer que, dans l’exercice de sa marge d’appréciation en matière d’éducation, l’Etat a tenu compte des besoins spécifiques de ces enfants découlant de leur position défavorisée».

98 Sent. 16-3-2010, ric. n. 15766/03. 99 La Corte nota che all’epoca dei fatti la legislazione croata sulla scuola primaria e sul numero

massimo di allievi per classe non prevedeva la creazione di classi separate per bambini che non avessero raggiunto un’adeguata conoscenza della lingua ufficiale e che i test utilizzati per collocare gli alunni rom in classe separate non sono stati concepiti per valutare il livello linguistico ma per verificarne il grado di sviluppo psico-fisico (cfr. parr. 158-159).

31

stata sorretta da idonee garanzie in merito alla possibilità di migliorare la conoscenza della

lingua croata e al passaggio dei minori rom a classi miste100.

Di fatto, quindi, la normativa si è tradotta in una sorta di “segregazione” a motivo della

lingua, e lo stesso schema di giudizio si ripropone anche nelle sentenze con cui sono stati

decisi due analoghi ricorsi contro le autorità greche, nel 2008 e nel 2012, in cui la Corte dei

diritti umani ha, ancora una volta, giudicato incompatibili con il principio di non

discriminazione nell’accesso allo studio provvedimenti di scolarizzazione ‘riservata’ o

‘separata’ nei confronti di minori rom101.

Anche qui, alla luce di una valutazione di necessità e di proporzionalità delle misure

speciali adottate, l’argomento che sorregge la doppia bocciatura di Strasburgo attiene

all’assenza di sufficienti misure di protezione di «una minoranza svantaggiata e vulnerabile» e,

perciò, bisognosa di speciali attenzioni da parte degli Stati102, anche sul piano delle diversità

di lingua e di cultura103. Come si può evincere dalle cause analizzate, infatti, un’adeguata

politica di integrazione linguistica si riconnette alla possibilità di soddisfare il diritto

all’istruzione dei minori rom, che la Corte definisce un “interesse primordiale” proprio con

riguardo a gruppi sociali che versano in una condizione di debolezza strutturale rispetto alla

popolazione maggioritaria104.

La Corte certamente è consapevole che la ricerca del «modo migliore per risolvere le difficoltà di

apprendimento di bambini non dotati di una sufficiente conoscenza della lingua in cui è impartita

l’istruzione» è il frutto di una delicata operazione di «bilanciamento dei diversi interessi in gioco»

(par. 180). Il che impedisce, ovviamente, di entrare nel merito delle scelte statali riguardanti

modelli e programmi scolastici, ma ciò non toglie che il potere discrezionale delle Parti

100 I Giudici di Strasburgo rilevano che gli alunni iscritti nelle classi speciali non hanno

beneficiato di programmi speciali e che i corsi supplementari di lingua croata non sono stati assicurati in modo costante. Inoltre, nel corso del giudizio è emerso che alcuni degli allievi rom non sono mai passati ad una classe ‘convenzionale’ anche dopo aver raggiunto un’adeguata conoscenza della lingua ufficiale.

101 Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. I, 5-6-2008, ric. n. 32526/05, Sampanis e altri c. Grecia e 11-12-2012, Sampani e altri c. Grecia.

102 Cfr. D.H. e altri c. Repubblica Ceca, cit., par. 181; Oršuš e altri c. Croazia, cit., par. 147. 103 Sia nella pronuncia del 2008 che in quella del 2012 mancano, ad avviso della Corte, i

presupposti per configurare una ragionevole e congrua soluzione alle specifiche esigenze di questa categoria di minori. Gli allievi di tali scuole (quasi esclusivamente rom sebbene, dopo la pronuncia del 2008, i motivi relativi a specifiche esigenze di apprendimento avrebbero dovuto riguardare indistintamente qualsiasi bambino) sono stati costretti a studiare in sedi separate dagli istituti ‘ordinari’ e in condizioni materiali che hanno reso, se non impossibile, particolarmente difficoltoso il raggiungimento di un livello sufficiente di scolarizzazione (dalle carenze strutturali degli edifici, ai libri di testo inadatti a bambini non parlanti la lingua greca). L’esito dei giudizi conduce allora ad accertare una pratica che, sebbene apparentemente neutra, finisce con l’avere ricadute indirette in chiave discriminatoria riconducibili alla identità etnico-linguistica di un intero nucleo sociale.

104 Cfr. D.H. e altri c. Repubblica Ceca, cit., par. 182; Oršuš e altri c. Croazia, cit., par. 147, in cui si parla d’«un intérêt primordial».

32

contraenti deve manifestarsi entro limiti necessari a preservare l’eguaglianza nella garanzia

del diritto allo studio.

E’ in tale ambito che può, dunque, operare il controllo sul rispetto delle clausole della

Convenzione sui diritti umani, diretto ad appurare la presenza di istituti e garanzie che

assicurino un rapporto di ragionevole proporzionalità fra le politiche adottate e gli scopi

perseguiti. E, al riguardo, in tutti i casi analizzati, invece, l’approccio diversificato nei

confronti dei bambini rom ha avuto come (unica) conseguenza quella di acuire la

condizione di emarginazione di una minoranza già “particolarmente sfavorita”.

L’importanza di queste fattispecie, per l’indagine qui condotta, deriva dalla constatazione

che la Corte accerta una violazione della Convenzione proprio come lesione di una

situazione del “gruppo” minoritario. Ricorrendo, come si è anticipato, alla nozione di

“discriminazione indiretta”, intesa come comportamento in sé neutro, ma che di fatto dà

vita ad un trattamento deteriore di una particolare categoria di soggetti, la Corte arriva ad

utilizzare la Convenzione per garantire gli interessi e i diritti a carattere “collettivo”,

riferibili cioè alla condizione di un’intera comunità linguistica105.

In altre parole, la necessità di ‘includere’ nei propri parametri di valutazione anche

l’appartenenza linguistico-culturale ed etnica106 porta la Corte a proiettare le tutele della

Convenzione direttamente ed esplicitamente nella dimensione collettiva delle minoranze.

5.2. Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha preso in esame i diritti delle

minoranze linguistiche alla luce delle discipline che gli Stati membri hanno adottato per la

tutela degli interessi propri di tali comunità ‘parziali’. Fino ad ora, però, l’approccio di

questo Giudice si è rivolto, in via prevalente, a garantire il principio della parità di

trattamento fra i cittadini degli Stati membri e a bilanciare i “diritti speciali” riconosciuti alle

minoranze linguistiche con la garanzia dell’eguaglianza formale, al fine di evitare casi di

discriminazione a contrario.

Al riguardo, sono noti i casi Mutsch (1985)107 e Bickel e Franz (1998)108, in cui la Corte ha

consentito l’utilizzo di una lingua minoritaria nell’ambito di procedimenti giudiziari a carico

di cittadini comunitari non appartenenti alla minoranza espressione di quell’idioma109.

105 Nell’affaire D.H e altri c. Repubblica ceca, cit., par. 181, si legge che «la Cour a … observé qu’un

consensus international se faisait jour au sein des Etats contractants du Conseil de l’Europe pour reconnaître les besoins particuliers des minorités».

106 Sui possibili rischi e limiti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo rispetto a soluzioni giuridiche che tengano conto delle specificità culturali v. M.C. Locchi, Alcune considerazioni su limiti e ambiguità del riconoscimento giuridico delle differenze culturali, cit., 7 ss.

107 Corte di Giustizia, sent. 11-7-1985, causa 137/84, in Racc., 2681 ss., su cui B. De Witte, Il caso Mutsch: libertà di circolazione dei lavoratori e uso delle lingue, in Foro it., IV, 1985, 8 ss.

108 Corte di Giustizia, sent. 24-11-1998, causa 274/96, in Racc., I-7637. 109 Nel primo caso alla Corte è stato chiesto se, in relazione all’art. 220 TCEE, un cittadino

lussemburghese residente in Belgio avesse il diritto di utilizzare il tedesco (sua lingua madre) in un

33

Per la Corte la normativa di uno Stato membro che agevoli l’espressione linguistica di un

gruppo presente sul proprio territorio costituisce obiettivo legittimo, ma, in virtù dei

principi di non discriminazione sulla base della nazionalità, la stessa garanzia deve essere

estesa anche ad altri cittadini dell’Unione che soddisfino tutte le condizioni cui è

subordinato l’esercizio di questo diritto da parte degli appartenenti alla comunità linguistica

interessata.

L’estensione di una prerogativa riconosciuta ad una minoranza insediata in uno Stato

membro ad altri cittadini dell’Unione non pregiudica, infatti, il fine perseguito sul piano

interno e concorre ad assicurare l’effettiva libertà di circolazione e di soggiorno in ambito

comunitario.

Nello spirito dell’abolizione di ogni ostacolo all’unione economica si inserisce anche la

successiva sentenza Roman Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano110, che vede la Corte

affrontare in modo più specifico il problema della compatibilità di misure “differenziate”

introdotte a favore di una minoranza linguistica con la vocazione universale dei diritti

fondamentali.

La causa riguarda la riserva di posti di lavoro nel settore pubblico e nei servizi di

pubblico interesse, che nella Provincia di Bolzano è riconosciuta a favore dei gruppi di

lingua tedesca e ladina attraverso il meccanismo della «proporzionale etnica». L’istituto

opera subordinando l’accesso alle procedure di assunzione al possesso di un attestato di

bilinguismo (il c.d. “patentino”), rilasciato dalla Provincia di Bolzano111.

procedimento penale promosso in un comune di lingua tedesca, dato che la legge tale Paese accordava tale diritto ai cittadini belgi ivi residenti. La risposta affermativa, nella fattispecie, è giustificata dal fatto che la facoltà per un lavoratore migrante di utilizzare la propria lingua nei procedimenti giudiziari alla pari dei lavoratori cittadini dello Stato deriva dai principi della non discriminazione sulla base della nazionalità (art. 7 TCEE) e della libera circolazione dei lavoratori negli Stati membri (art. 48 TCEE) ed è strumento di integrazione sua e della sua famiglia nel paese ospitante, tale da ascriversi alla nozione di «vantaggio sociale» di cui all’art. 7, c. 2, reg. (CEE) n. 1612/68 del Consiglio, del 15-10-1968 (per un commento a dette pronunce, v. E. Palici Di Suni Prat, Intorno alle minoranze, cit., 174 ss. e ora anche S. Sau, Le garanzie linguistiche nel processo penale. Diritto dell'interprete e tutela delle minoranze riconosciute, Padova, Cedam, 2010, 248).

Ampliando ulteriormente la garanzia dell’uso di una lingua minoritaria, nella causa Bickel e Franz, la Corte ribadisce che il principio della parità di trattamento fra cittadini comunitari può essere invocato anche da parte di soggetti che esercitano la propria libertà fondamentale di circolazione, senza tuttavia avere la residenza in un altro Stato membro. In tale fattispecie infatti il Giudice comunitario ha ammesso un austriaco ed un tedesco, perseguiti penalmente per fatti commessi mentre si trovavano in Alto-Adige (guida in stato di ebbrezza e possesso di arma proibita), ad utilizzare nei rispettivi procedimenti penali la lingua tedesca, quale diritto già riconosciuto alla minoranza residente nella Provincia di Bolzano.

110 Corte di giustizia, sent. 6-6-2000, causa C-281/98, Roman Angonese vs. Cassa di risparmio, in Racc., 2001, I-4139, su cui v. la nota di F. Palermo, Diritto comunitario e tutela delle minoranze: alla ricerca di un punto di equilibrio, in questa Rivista, 2000, 769 ss. e E. Palici Di Suni Prat, Intorno alle minoranze, cit., 175 s.

111 In argomento, v. G. Poggeschi, La proporzionale «etnica», in J. Marko, S. Ortino, F. Palermo (cur.), L’ordinamento speciale della provincia autonoma di Bolzano, Padova, Cedam, Padova, 2001, 686 ss.

34

La Corte conferma che l’adozione di normative speciali che in alcuni territori siano

dirette a salvaguardare e valorizzare situazioni linguistiche minoritarie persegue una finalità

legittima degli Stati ma ritiene, allo stesso tempo, che occorra una “gestione” ragionevole di

questi provvedimenti, tale da bilanciare in modo proporzionato le istanze collettive di

diversità con la tutela contro arbitrarie discriminazioni112.

Nel caso di specie, se appare legittimo limitare la libertà di circolazione dei lavoratori,

imponendo il requisito della conoscenza di entrambe le lingue ufficiali della Provincia di

Bolzano, l’obbligo di presentare il certificato di bilinguismo conferito dall’autorità del

luogo, con conseguente impossibilità di provare i titoli richiesti con altre qualifiche

equivalenti ottenute in altri Stati membri, non può che considerarsi sproporzionato rispetto

allo scopo di proteggere le particolari identità linguistiche del territorio, così da integrare un

fattore discriminante sulla base della cittadinanza113.

Per evitare, quindi, che il meccanismo preferenziale denunciato produca una

discriminazione sulla base della cittadinanza (vietata ai sensi dell’art. 48 del Trattato), le

conclusioni della Corte impongono una necessaria equiparazione fra gli attestati di

bilinguismo conseguiti fuori dalla Provincia di Bolzano e il “patentino” rilasciato dalle

autorità locali.

Ragionevolezza, adeguatezza e congruità rispetto agli scopi individuati dai legislatori

statali sembrano, dunque, essere i presupposti sulla cui base i Giudici di Lussemburgo

hanno verificato la dialettica fra principi comunitari e normative nazionali di tutela

minoritaria.

Tali parametri di valutazione hanno però riguardato giudizi che, in relazione agli interessi

propri delle minoranze linguistiche come soggetti collettivi, hanno affrontato solo la

questione dei limiti entro cui le misure positive messe in campo dai Paesi membri, al fine di

preservare le specifiche peculiarità linguistiche di alcune comunità, sono da ritenersi

conformi alle inderogabili esigenze di uniformità su cui si basa l’ordinamento comunitario.

112 F. Palermo, Diritto comunitario e tutela delle minoranze: alla ricerca di un punto di equilibrio, cit., 972. 113 La causa origina dal ricorso al Pretore di Bolzano che un cittadino italiano di lingua materna

tedesca, residente in Italia nella Provincia di Bolzano, promuove a seguito della partecipazione al concorso di assunzione per un posto di lavoro presso la Cassa di Risparmio di Bolzano. Il Sig. Angonese aveva trascorso in Austria un periodo di perfezionamento dei propri studi fra il 1993 e il 1997. Tornato in Italia, nell’agosto del 1997 si candida al concorso indetto dall’istituto bancario, dal quale viene escluso per non aver prodotto (come richiesto dal bando) il certificato di bilinguismo (italiano-tedesco) rilasciato dalle autorità locali. Il candidato, però, era perfettamente bilingue, e ai fini dell’ammissione al concorso di assunzione aveva allegato il suo diploma di maturità per geometri, i certificati attestanti studi linguistici in inglese, sloveno e polacco, compiuti presso la Facoltà di filosofia dell’Università di Vienna, e aveva dichiarato che tra le sue esperienze lavorative figurava l’esercizio delle attività di geometra e di traduttore dal polacco in italiano.

Per queste ragioni il signor Angonese si rivolge al Pretore di Bolzano per chiedere che sia dichiarata illegittima la clausola relativa al possesso obbligatorio dell’attestato per presentarsi al concorso e, in tal sede, il giudice solleva rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia affinché ne verifichi la compatibilità con il principio comunitario della libera circolazione dei lavoratori.

35

Come si è opportunamente rilevato, l’orientamento della Corte di Giustizia si è diretto,

per lo più, verso la garanzia del principio di parità114, tanto che da questa giurisprudenza si

è finanche ricavata l’idea che il mercato comune possa non solo limitare la capacità

dell’Unione di adottare politiche che abbiano riflessi sulla protezione delle minoranze, ma

anche incidere sulla possibilità degli Stati di definire discipline ad hoc per i gruppi minoritari

presenti nei propri territori115.

E’ mancato, in altri termini, in assenza di norme attributive di una specifica competenza,

un intervento dell’Unione diretto a tutelare le minoranze linguistiche, come soggetti

collettivi titolari di diritti, rispetto alle discriminazioni di cui queste possano essere vittime

al suo interno.

6. Il difetto di clausole identificative di specifiche tutele sovranazionali a favore delle

minoranze non sembra poter escludere, come si cercherà di illustrare, un contributo della

Corte di giustizia ad un’interpretazione delle legislazioni nazionali che possa anche

correggerne eventuali riflessi lesivi sulla garanzia di situazioni minoritarie, anche sul piano

linguistico.

Del resto, la carenza di competenze comunitarie in tale ambito è da più parti segnalata

come nota di contraddizione (o meglio come una «discrepanza»116) rispetto al sistema di

condizionalità individuato dal Consiglio di Copenaghen, basato anche sulla presenza negli

ordinamenti nazionali di istituzioni stabili in grado di assicurare «il rispetto e la protezione delle

minoranze».

Detto criterio politico, cui sono stati subordinati i più recenti processi di allargamento ad

Est dell’Europa unita117, e al quale dovranno allinearsi le future adesioni, perderebbe di

significato se non fosse ‘supportato’ da adeguati meccanismi sovranazionali per vigilare

sulla tutela dei gruppi minoritari da parte degli Stati membri. La clausola sul rispetto delle

114 Così E. Palici Di Suni Prat, Intorno alle minoranze, cit., 141 ss. 115 Di questo avviso D. Kochenov, op. cit., 52. 116 Così C. Hillion, op. cit., 727, ma dello stesso avviso anche B. Burns, The “Idea of Europe” and the

EU Minority Protection Conditionality, in UACES papers, Academic Association for Contemporary European Studies, Cambridge, 2001, 18 ss.; B. De Witte, Politics versus law in the EU’s Approach to Ethnic Minorities, in J. Zielonka (cur.), Europe Unbound: Enlarging and Reshaping the Boundaries of the European Union, London, Routledge, 2002, 7, 139, nonché, più di recente, N. Bhatia, Lost in Translation: Linguistic Minorities in the European Union, in Human Rights & Human Welfare, 2010, 16 ss. e D. Kochenov, op. cit., 47.

117 Per questo aspetto v. M. Ganino, Democrazia e diritti umani nelle Costituzioni dei Paesi dell'Europa orientale, in M. Ganino, G. Venturini (cur.), L’Europa di domani. Verso l’allargamento dell'Unione, Milano, Giuffrè, 2002, 117 ss.

36

minoranze rimarrebbe un limite solo di carattere preventivo che l’Unione non riesce a far

valere nella propria sfera di giurisdizione118.

Una questione paradigmatica che, in tale prospettiva, è stata più volte segnalata riguarda

la condizione delle minoranze russofone presenti nelle Repubbliche baltiche, con

particolare riferimento all’Estonia e alla Lettonia119.

Si tratta di realtà linguistiche che vedono un ridotto accesso a diritti e istituti

fondamentali per lo sviluppo e l’integrazione nei Paesi in cui sono insediate e dove i propri

membri risiedono in modo permanente.

Nel 1991, quando (a seguito del dissolvimento dell’URSS) Estonia, Lettonia e Lituania

hanno riacquistato la propria indipendenza, hanno concesso in modo automatico la

cittadinanza solo a quelle persone che risultavano possedere la nazionalità di tali Paesi al 17

giugno 1940, data dell’annessione all’Unione sovietica. Le popolazioni provenienti da altre

repubbliche sovietiche, che durante il periodo dell’ “occupazione” si sono trasferite in

questi territori, invece, non hanno potuto assumere la cittadinanza dei neonati Stati. Questi

gruppi minoritari, per lo più russofoni120, e i loro discendenti sono, quindi, considerati

apolidi e possono ottenere lo status di cittadino solo attraverso un processo di

naturalizzazione che prevede, fra i requisiti richiesti, anche il superamento di un esame di

conoscenza della lingua ufficiale e della storia del Paese121.

Nella fase di ricostruzione della propria identità politica, la riemersione di spinte

nazionalistiche ha portato tali ordinamenti a ripristinare le leggi sulla cittadinanza in vigore

118 R.F. Weber, Individual Rights and Group Rights in the European Community’s Approach to Minority

Languages, in Duke Journal of Comparative & International Law, vol. 17, 2007, 378-379, per il quale «Protection of minority rights is a sine qua non for admission into the EC, but once a state enters, it seems, rights for the minorities residing within its boundaries lose their legal protection. In a sense, the requirement emphasizes the blind spot within the EC framework: the EC pressures future members to shore up constitutional and legal protection for minorities ex ante, because it knows that once admitted, such efforts are currently outside the scope of the Treaties, and the EC will be powerless to address them».

119 Fra i tanti, v. i già citati B. Burns, op. cit., 25 ss. e C. Hillion, op. cit., 727, ma anche P. Van Elsuwege, Russian-Speaking Minorities in Estonia and Latvia: Problems of Integration at the Threshold of the European Union, in ECMI Working Paper, 2004, 1 ss. J-B. Adrey, Minority Language Rights Before and After the 2004 EU Enlargement: The Copenhagen Criteria in the Baltic States, in Journal of Multilingual & Multicultural Development, 26, n. 5, 2005, 453 ss. Per la dottrina italiana, v. F. Forni, Cittadinanza dell’Unione europea e condizione delle minoranze negli Stati membri, in Dir. Un. eur., 4/2010, 835 ss.

120 Nota opportunamente A. Carteny, Autonomismi regionali e minoranze nazionali in Europa dal 1989, in E. Pföstl (cur.), Regionalismi e integrazione europea, Roma, Istituto Studi politici S. Pio V, 2005, 173 come, in tali Paesi si sia verificato un «rovesciamento dei rapporti maggioranza/minoranza» in quanto le Nazioni lituana, estone e lettone sono passate «da minoranze all’interno di uno Stato totalitario dominato dall’elemento nazionale russo» a maggioranze rispetto alle popolazioni russofone che ora vivono sui propri territori.

121 Sul punto, v. A. Carteny, Autonomismi regionali e minoranze nazionali, cit., 173 ss. Solo in Lituania, che per prima ottenne l’indipendenza dall’URSS, e dove è certamente più esigua la percentuale di popolazione di etnia non lituana, è stato abolito, già con la riforma del 1991, l’esame di lingua e la cittadinanza è riconosciuta automaticamente a tutti i residenti permanenti sul territorio nazionale.

37

negli anni trenta, riaffermando una rigorosa interpretazione del principio dello ius

sanguinis122.

I rinnovati appelli delle istituzioni comunitarie123 (insieme alle raccomandazioni e agli

inviti delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa e dell’OSCE)124 sono stati fondamentali

per vedere modificati gli aspetti più critici di tali legislazioni e adeguarle alle condizioni

minime richieste per avviare i negoziati di adesione all’Unione europea. Il nodo principale

ha riguardato proprio la necessità di semplificare i test linguistico-culturali, che rimangono

l’ostacolo più arduo che scoraggia le richieste di naturalizzazione125.

Ancora oggi, però, non mancano aspetti di ‘tensione’ con l’acquis communautaire, di cui

sono parte caratterizzante le garanzie dei diritti inviolabili, quale “patrimonio” comune e

intangibile del costituzionalismo europeo126.

Resta infatti la problematica di una consistente minoranza di lingua russa che si trova in

una significativa situazione di debolezza sotto il profilo dell’integrazione sociale e politica,

122 Cfr. G. Mentré, Hongrie, Estonie, Lettonie: l’Union européenne e la citoyenneté, in Politique étrangère,

1/2004, 141 s. 123 Già nella Nota tematica n. 42 del Parlamento europeo dal titolo «La minoranza russa negli Stati

baltici e l’ampliamento dell’Unione europea» (Lusseburgo, 3 maggio 1999), si segnalava (p. 7) che il trattamento riservato a questo gruppo etnico nelle repubbliche baltiche «rischia potenzialmente di destabilizzare la situazione di tali paesi e di influire negativamente sullo sviluppo delle relazioni con l’Unione europea». Sul punto v., inoltre, il parere della Commissione sulla domanda di adesione dell'Estonia all'Unione europea (COM(97)2006 - C4-0378/97) e la Risoluzione sulla relazione periodica della Commissione sui progressi dell’Estonia verso l’adesione (COM(98)0705 - C4-0110/99); il parere della Commissione europea sulla richiesta di adesione all’Unione europea della Lettonia, DOC/97/14. In argomento, v. H.M. Morris, EU Enlargement and Latvian Citizenship Policy, in Centre for European Policy Studies, Brussels, Belgium, Issue 1/2003, 1 ss.

124 Nell’ambito dell’OSCE, v. Décision du Comité des hauts fonctionnaires, 18e réunion, 3 février 1993, journal n. 2, annexe 1; Décision du Comité des hauts fonctionnaires, 23e réunion, 23 septembre 1993, journal n. 3, annexe 3. Fra i documenti dell’ONU, invece, v., Assemblée générale, Situation des droits de l’homme en Estonie et en Lettonie, résolution 48/155, 20 décembre 1993.

125 Le modifiche alla legge lettone sulla cittadinanza introdotte nel 1994 hanno disciplinato la procedura di naturalizzazione, prima di allora rimasta senza una precisa regolamentazione. In virtù degli emendamenti approvati nel 1998 (attraverso un referendum), tale procedura è stata poi modificata per facilitarne l’accesso. E’ stato infatti abolito il c.d. “sistema delle finestre”, che limitava il numero di richieste di naturalizzazione sulla base di criteri anagrafici che privilegiavano i soggetti più giovani, e semplificata la prova storico-linguistica per le persone di età superiore ai sessantacinque anni. Inoltre, la riforma ha previsto la concessione della cittadinanza ai figli di non cittadini nati sul territorio nazionale, se richiesta da entrambi i genitori (cfr. Nota tematica n. 42 del Parlamento europeo dal titolo «La minoranza russa negli Stati baltici e l’ampliamento dell’Unione europea», cit., 11-13).

Sempre nel 1998, anche la legge estone sulla cittadinanza (del 26 febbraio 1992) è stata riveduta, prevedendo la possibilità di ottenere la cittadinanza tramite naturalizzazione per i bambini apolidi di età inferiore a quindici anni nati sul territorio nazionale dopo la riconquista dell’indipendenza e di cui uno o entrambi i genitori abbiano vissuto in Estonia per un periodo non inferiore a cinque anni e non siano in possesso della cittadinanza di alcuno Stato. I due Paesi hanno inoltre promosso programmi di sostegno per l’apprendimento della lingua nazionale. Sul punto G. Mentré, op. cit., 148.

126 A. Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo, Il Mulino, Bologna, 2002.

38

anche in rapporto agli standards europei127, impedendo una piena condivisione dei valori

fondativi del sistema comunitario. Non sono dunque poche le questioni che agitano il

dibattito politico nei Paesi baltici e all’interno dell’Unione in merito al trattamento della

minoranza russofona.

I “non cittadini”, come è qualificata in Lettonia ed Estonia gran parte degli appartenenti

a questo gruppo linguistico, sono riconosciuti in tali Paesi come “residenti permanenti”,

posizione che consente l’accesso ai servizi sanitari e di protezione sociale128. Sul loro

passaporto è riportata la dicitura “aliens”, in virtù della quale, fino ad un passato non troppo

lontano, hanno visto significativamente limitata la propria libertà di movimento,

necessitando di un visto per circolare all’interno dell’Unione europea129.

127 La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI), nel suo terzo rapporto

(febbraio 2008), ha osservato che «il numero delle differenze tra i cittadini lettoni e i non cittadini rimane significativo per ciò che concerne alcuni diritti politici, civili, sociali e di altro tipo». Inoltre, nel Rapporto di Amnesty International «Latvia and Lithuania: Human rights on the march» (EUR 53/001/2008), si legge che «il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul razzismo, nel riferire di una sua visita compiuta nel settembre 2007, ha espresso preoccupazione per il gran numero di cittadini non lettoni residenti in Lettonia. Egli ha esortato il governo a rivedere gli attuali requisiti richiesti per la naturalizzazione, specialmente per i figli di cittadini non lettoni nati in Lettonia e le persone anziane, le quali avrebbero potuto godere di un più facile accesso alla cittadinanza lettone».

128 Cfr. Commissione europea, I diritti di previdenza sociale in Lettonia, 2012, 7 ss. e I diritti di previdenza sociale in Estonia, 2012, 5, in cui si legge che i requisiti i diritti previdenziali e di assistenza sociale si fondano oggi prevalentemente sul principio di residenza. Sul punto è importante ricordare che la Corte dei diritti umani ha considerato discriminatoria la decisione dello Stato Lettone di non riconoscere il trattamento pensionistico a chi è residente permanente solo perché “non cittadino”. La sentenza Andrejeva c. Lettonia, del 18-2-2009, affronta il problema del trattamento pensionistico di un’ex cittadina dell’Unione Sovietica non naturalizzata nella Repubblica baltica. La Sig.ra Andrejeva citò infatti in giudizio a Strasburgo il Governo lettone per il rifiuto di riconoscerle il periodo di lavoro prestato in uno Stato dell’ex URSS prima del 1991 (anno in cui il Paese baltico riacquistò la propria indipendenza), ai fini del computo della pensione di vecchiaia. La ricorrente contestava l’applicazione dell’art. 1 della legge sulle pensioni di Stato del 1995, che attribuiva tale beneficio per i periodi di lavoro all’estero solo ai cittadini. La Corte giudica tale differenziazione non fondata su una motivazione ragionevole, ma su un mero criterio di nazionalità. Da qui l’accertata lesione degli artt. 14 CEDU e 1, Prot. n. 1 perché ai non cittadini residenti la Lettonia riservava un trattamento deteriore rispetto ad altri soggetti che si trovassero nella medesima condizione ma ai quali fosse stato riconosciuto lo status di cittadino. «Il n’est pas contesté [si legge nella pronuncia] qu’un citoyen letton se trouvant dans les mêmes conditions que la requérante et ayant travaillé dans la même entreprise pendant la même période se verrait accorder la part litigieuse de la pension de retraite. Qui plus est, les parties s'accordent à dire que, si la requérante devenait lettonne par voie de naturalisation, elle recevrait automatiquement la pension au titre de toute sa vie professionnelle. La nationalité constitue donc le seul et unique critère de la distinction en cause; or la Cour a jugé que seules des considérations très fortes peuvent l’amener à estimer compatible avec la Convention une différence de traitement exclusivement fondée sur la nationalité» (par. 87).

Nella citata pronuncia, quindi, i Giudici di Strasburgo concludono che la ricorrente, come ogni altro cittadino che abbia lavorato per un periodo all’estero, risulta avere un rapporto stabile solo con la Lettonia, unico Stato, quindi, che può oggettivamente prenderla in carico per ciò che attiene alla sicurezza sociale (par. 88).

129 La normativa comunitaria in materia di visti disponeva all’art. 3, secondo trattino, del regolamento n. 539/2001 che gli apolidi potessero essere esentati dall’obbligo del visto se il paese

39

Lo status di “non citizen” comporta inoltre, ancora oggi, marcate restrizioni nelle

opportunità di partecipazione politica. In Lettonia i non cittadini non hanno alcun diritto di

elettorato attivo e passivo130, mentre in Estonia, se residenti permanenti, possono votare

solo alle elezioni amministrative locali131. In entrambi i Paesi non possono né fondare né

aderire ad organizzazioni politiche, sono ancora esclusi da buona parte degli impieghi

pubblici132 e sono soggetti a regole specifiche nell’esercizio del diritto di proprietà133.

terzo di residenza che avesse rilasciato il documento di viaggio fosse uno dei Paesi compresi nell’elenco dell’allegato II. All’adozione di tale regolamento, la Lettonia era un Paese terzo rientrante nell’allegato II del citato regolamento, ma nel momento in cui la Lettonia è divenuta uno Stato membro, la formula dell’articolo 3 ha reso difficile la possibilità di esentare dall’obbligo del visto i cittadini non lettoni, perché tali da non potersi più considerare come residenti in un Paese terzo. Tuttavia, come si legge nella risposta data dalla Commissione per le petizioni del Parlamento europeo alla Petizione 214/2005, sui diritti della minoranza russofona in Lettonia, «il riconoscimento di diritti più ampi agli apolidi nel caso in cui risiedano in un paese terzo anziché in uno Stato membro sarebbe (…) paradossale e difficile da giustificare», per cui si deve ritenere «che i cittadini lettoni apolidi possano continuare a beneficiare della possibilità di esenzione dall’obbligo del visto di cui all’articolo 3 del regolamento n. 539/2001». Su proposta della stessa istituzione, il Consiglio ha poi approvato, il 21 dicembre 2006, il Reg. (CE) n. 1932/2006, che modifica la normativa richiamata nel senso di ricomprendere tra i soggetti esentati dall’obbligo di visto anche gli apolidi residenti in un Paese membro (art. 1, lett. b), terzo trattino).

130 Cfr. artt. 8 e 9 della Costituzione lettone: «All citizens of Latvia who enjoy full rights of citizenship and, who on election day have attained eighteen years of age shall be entitled to vote. Any citizen of Latvia, who enjoys full rights of citizenship and, who is more than twenty-one years of age on the first day of elections may be elected to the Saeima» e art. 101 «… Local governments shall be elected by Latvian citizens and citizens of the European Union who permanently reside in Latvia». Sul punto, v. la Nota tematica n. 42 del Parlamento europeo dal titolo «La minoranza russa negli Stati baltici e l’ampliamento dell’Unione europea», cit., 14 e, in dottrina, L. Monti, L’altra Europa: diario di un viaggio nella povertà, Soveria Mannelli, Rubettino, 2005, 76. Al riguardo, è da considerare che il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani, il Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione razziale, ma anche l’Assemblea parlamentare e il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nonché la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza e l’Assemblea parlamentare dell’OSCE hanno raccomandato l’adozione di provvedimenti atti a consentire ai non cittadini di prendere parte alle elezioni locali in Lettonia.

Inoltre, una buona conoscenza della lingua lettone costituisce presupposto (anche per chi ha ottenuto la cittadinanza) per accedere a cariche elettive. V., retro, su questo profilo, la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Podkolzina c. Lettonie, ric. n. 46726/99, cit., nonché i rilievi critici mossi dalla Commissione dei diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite nella Comunicazione relativa al caso Ignatane v. Latvia, Communication n. 884/1999, Latvia 31/07/2001, CCPR/C/72/D/884/1999) n. 884/1999. In dottrina, sull’argomento, F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 131 e U.H. Quercia, Rappresentanza politica delle minoranze. Gli strumenti costituzionali di rappresentanza delle minoranze in chiave comparata, working papers del Dipartimento politiche pubbliche e scienze dell’amministrazione dell’Università degli Studi Guglielmo Marconi, 2011, 5, in http://www2.unimarconi.it/DPPSA.

131 Il diritto di voto ai non cittadini (ma non l’eleggibilità) è stato introdotto con una modifica all’art. 156, 2 par. della Costituzione estone approvata nel 2003 ed entrata in vigore il 17 ottobre 2005: «In elections to local government councils, persons who reside permanently in the territory of the local government and have attained eighteen years of age have the right to vote, under conditions prescribed by law».

132 Cfr. art. 101 della Costituzione lettone: «Every citizen of Latvia has the right, as provided for by law, to participate in the work of the State and of local government, and to hold a position in the civil service … . Every

40

Non ci si può nascondere che questa particolare situazione può sollevare alcuni profili

critici in merito al rapporto fra una ‘gestione’ interna così restrittiva dello status di

cittadinanza e le garanzie sovranazionali dei diritti fondamentali.

Fra questi, il più evidente attiene al fatto che, non essendo cittadini dell’Unione, i non-

citizens di Lettonia ed Estonia non possono votare per il Parlamento europeo, a differenza

dei cittadini di altri Paesi membri residenti in questi due Stati (art. 20, c. 2, lett. b), TFUE).

E, da questo punto di osservazione, si può notare che, sebbene l’attribuzione della

cittadinanza (come pure l’accesso ai diritti elettorali) siano riconosciute come competenze

statali, il loro concreto esercizio va ad incidere sulla composizione del corpo elettorale per

le elezioni europee, materia di sicuro interesse dell’Unione. Ne consegue che, in forza di

questa correlazione, potrebbe valere il monito della Corte di Giustizia a disciplinare i

requisiti di cittadinanza (e i diritti elettorali) in modo da non contrastare con il diritto

comunitario134, anche in ragione dell’influenza di tale prerogativa statale sulla «costituzione

della maggioranza parlamentare» e sul «consolidamento di una democrazia europea

realmente rappresentativa»135.

citizen of the European Union who permanently resides in Latvia has the right, as provided by law, to participate in the work of local governments. The working language of local governments is the Latvian language». G. Mentré, op. cit., 143.

133 Cfr. Nota tematica n. 42 del Parlamento europeo dal titolo «La minoranza russa negli Stati baltici e l’ampliamento dell’Unione europea», cit., 14.

134 In tema di diritti elettorali appare opportuno richiamare le sentenze della Corte di Giustizia, Eman e Sevinger c. College van burgemeester en wethouders van Den Haag, causa C-300/04 e Regno di Spagna c. Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, del 12-9-2006, causa C-145/04, che hanno chiarito alcune importanti questioni interpretative.

In primo luogo, il Giudice di Lussemburgo ha sottolineato che sebbene spetti agli Stati la determinazione dei titolari del diritto di elettorato attivo e passivo per le elezioni del Parlamento europeo, tale competenza deve essere esercitata «nel rispetto del diritto comunitario».

Inoltre, ha affermato che le norme del Trattato CE non ostano alla concessione del diritto di elettorato attivo e passivo a persone che possiedano stretti legami con gli Stati membri, pur non essendo loro cittadini o cittadini dell’Unione residenti sul loro territorio. Ciò in quanto «né gli artt. 189 TCE e 190 TCE, né l’atto relativo all’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo a suffragio universale diretto indicano in modo esplicito e preciso chi siano i beneficiari del diritto di elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo». Fra le disposizioni sulla cittadinanza dell’Unione solo l’art. 19 TCE si occupa specificamente, al n. 2, del diritto di voto per il Parlamento europeo, ma come precisa la Corte «tale articolo si limita ad applicare all’esercizio di tale diritto il principio di non discriminazione in base alla nazionalità».

Infine, sul «legame tra la cittadinanza dell’Unione e il diritto di elettorato attivo e passivo, il quale imporrebbe che tale diritto sia riservato ai cittadini dell’Unione, nessuna chiara conclusione in proposito può essere ricavata dagli artt. 189 TCE e 190 TCE, relativi al Parlamento europeo, i quali indicano che lo stesso è composto da rappresentanti dei popoli degli Stati membri. Il termine «popoli», che non è definito, può, infatti, assumere significati differenti a seconda degli Stati membri e delle lingue dell’Unione».

135 Così F. Forni, op. cit., 835 ss.

41

Gli “aliens” della Lettonia, inoltre, come si è visto, non possono nemmeno partecipare

alle elezioni amministrative locali, diritto invece riconosciuto ai cittadini comunitari ivi

residenti (art. 20, c. 2, lett. b), TFUE).

La problematica si presenta complessa, perché impone di considerare i rapporti fra

ordinamento sovranazionale e ordinamenti interni rispetto ai contenuti e ai diritti di cui si

compone la cittadinanza dell’Unione europea, concetto che individua uno status meramente

complementare e subordinato al possesso della cittadinanza nazionale136.

L’accesso a detto istituto - non a caso definito “aggiuntivo” dal Trattato di Lisbona – è

cioè rimesso alla potestà degli Stati di disciplinare autonomamente i modi di acquisto e di

perdita della cittadinanza nazionale, non contemplando il diritto dell’Unione alcuna

disposizione vincolante sul punto.

Tuttavia, la Corte di Giustizia, pur ribadendo la competenza di ciascun Paese membro in

questo ambito, ha da subito precisato (nel caso Micheletti del 1992) che detta prerogativa

«deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario», segnando così un legame concreto fra il

diritto degli Stati di definire le condizioni per ottenere lo status di cittadino e le politiche

dell’Unione137. Un collegamento che pare essere divenuto un ‘vincolo’ sempre più

stringente nella più recente giurisprudenza comunitaria.

Pur rimanendo ferma l’idea che non possa sorgere alcun diritto connesso allo status di

cittadino europeo se non con il conseguimento della cittadinanza di uno Stato membro138,

con la sentenza Rottman139 sembra che i Giudici di Lussemburgo abbiano comunque voluto

sottolineare il primato del diritto comunitario anche in questa sfera di intervento statale,

ritenendosi legittimati a pronunciarsi sulla compatibilità ad esso (almeno in termini di

ragionevolezza rispetto alle finalità perseguite) di un provvedimento con cui si intendeva

privare un soggetto della cittadinanza nazionale.

136 Cfr., sul punto, M. Cartabia, Cittadinanza europea, in Enc. giur. Treccani, vol., VI,

Aggiornamento, 1995, 4 ss. e S. Cassese, La cittadinanza europea e le prospettive di sviluppo dell’Europa, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1996, 870 ss.

137 Sentenza della Corte di giustizia del 7 luglio 1992 in causa n. C-369/90, Mario Vicente Micheletti e altri c. Delegación del Gobierno en Cantabria, in Raccolta, 1992, I, 4239, par. 10). Tale passaggio è stato successivamente ribadito dalle sentenze della Corte di giustizia del 20 febbraio 2001 in causa n. C-192/99, The Queen c. Secretary of State for the Home Department, ex parte Manjit Kaur, interveniente: Justice, in Raccolta, 2001, I, 1237.

138 Sentenza della Corte di giustizia del 20-2-2001, causa n. C-192/99, The Queen c. Secretary of State for the Home Department, ex parte Manjit Kaur, interveniente: Justice, cit., par. 25. Secondo la Corte «l’adozione di questa dichiarazione [del 1972 sulla cittadinanza] non ha avuto come effetto di privare una persona che non rispondesse alla definizione di cittadino del Regno Unito di diritti che essa poteva pretendere di avere in applicazione del diritto comunitario, ma ha avuto come conseguenza che tali diritti non sono mai sorti per essa».

139 Sentenza della Corte di giustizia del 2-3-2010, causa n. C-135/08, Janko Rottmann c. Freistaat Bayern.

42

«spetta al giudice nazionale [dice la Corte di giustizia] verificare se la decisione

di revoca rispetti il principio di proporzionalità per quanto riguarda le conseguenze che

essa determina sulla situazione dell’interessato in rapporto al diritto dell’Unione

[e]…… tener conto delle possibili conseguenze che tale decisione comporta per

l’interessato e, eventualmente, per i suoi familiari sotto il profilo della perdita dei

diritti di cui gode ogni cittadino dell’Unione»

Tale più rigoroso indirizzo sull’applicazione delle normative statali in tema di

cittadinanza potrebbe prefigurare, oggi, nuovi scenari anche sul piano di una tutela

antidiscriminatoria dell’Unione nei confronti delle minoranze140.

Del resto, accade ormai sempre più di frequente che, anche in settori di pertinenza degli

Stati, la Corte imponga un’interpretazione delle normative nazionali tale da assicurare il

perseguimento degli obiettivi dell’Unione141 e, pertanto, se fino ad ora la Commissione ha

dichiarato di non avere titolo per porre rimedio al trattamento della minoranza russofona

in Lettonia ed Estonia, ritenendo che la definizione dei requisiti per la concessione della

cittadinanza rimanga una prerogativa esclusiva dei Paesi membri142, i recenti sviluppi

giurisprudenziali sull’istituto della cittadinanza europea potrebbero contribuire a segnare

una svolta anche su questo fronte.

140 Di tale avviso anche F. Forni, op. cit., 835 ss. 141 Si pensi, per fare un esempio, all’influenza del diritto comunitario nella materia penale sancito

dalla sentenza Pupino (CGCE 16 giugno 2005, causa C-105/03). Più in generale, sull’obbligo di interpretazione comunitariamente orientata del diritto interno in ordine a direttive non self-executing, v., fra le tante, CGCE 13-11-1990, causa C-106/89, Marleasing; 14-7-1994, causa C-91/92, Faccini Dori; 5-10-2005, cause C-397/01 e C- 403/01, Pfeiffer. In dottrina, ex multis, A. Ruggeri, Alla ricerca del fondamento dell’interpretazione conforme, in Forum Quad. cost., www.forumcostituzionale.it, 2008, 1 ss. e Id., Interpretazione conforme e tutela dei diritti fondamentali, tra internazionalizzazione (ed “europeizzazione”) della Costituzione e costituzionalizzazione del diritto internazionale e del diritto eurounitario, in www.associazionedeicostituzionalisti.it., 2010, ss.; C. Acocella, Interpretazione conforme al diritto comunitario ed efficienza economica: il principio di concorrenza, in M. D’Amico, B. Randazzo (cur.), Interpretazione conforme e tecniche argomentative, Torino, Giappichelli, 2009, 98 ss.; G. Pistorio, Interpretazione e giudici. Il caso dell'interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, passim e, da ultimo, V. Piccone, L’interpretazione conforme nell’ordinamento integrato, in R. Cosio, R. Foglia (cur.), Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, Milano, Giuffrè, 2013, 277 ss.

142 Cfr. Quinta relazione della Commissione sulla cittadinanza dell’Unione (1 maggio 2004 – 30 giugno 2007), COM(2008) 85 definitivo, del 15-2-2008, 3. Nello stesso senso si è espressa anche la Commissione per le petizioni del Parlamento europeo nella risposta alla petizione 975/2005, presentata da Sergejs Lazarevs, apolide, sul rifiuto da parte delle autorità lettoni di concedergli la cittadinanza. In tale documento si afferma, infatti, che «le questioni relative alla concessione della cittadinanza nazionale sono di esclusiva competenza degli Stati membri» e, quindi, pur essendo «consapevole del fatto che il numero rilevante di persone apolidi russofone in Lettonia rappresenta un problema specifico per la società di quello Stato membro», può solo «incoraggia[re] … ulteriori sforzi in vista dell’integrazione di tali persone», ma «in base alle disposizioni del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull’Unione europea, la Commissione non dispone di competenza generale per intervenire, tranne che nel caso di violazione di diritti nell’ambito del diritto comunitario».

43

In parallelo con il caso Rottman è in effetti da considerare la vis espansiva che la Corte di

giustizia ha conferito al diritto europeo in funzione della garanzia di situazioni giuridiche di

cui è titolare il cittadino dell’Unione. A partire dalla nota sentenza Zambrano143, appare

chiaro come la salvaguardia del nucleo dei diritti afferenti a tale status possa costituire un

limite alla discrezionalità degli Stati membri anche rispetto ad ambiti storicamente ad essi

riservati, come – nella fattispecie – la definizione delle politiche migratorie e il trattamento

di cittadini provenienti da Paesi terzi144.

Ciò accade - come si precisa anche nelle successive pronunce McCarthy e Dereci et al.

(sebbene delimitando le capacità pervasive della cittadinanza UE)145 - quando le misure

adottate da uno Stato membro nell’esercizio del potere di regolamentare lo status giuridico

di cittadini extracomunitari abbiano l’effetto di privare un cittadino comunitario dei diritti

ad esso riconosciuti dall’Unione, con la conseguenza di ammettere, in tali circostanze,

deroghe alla legislazione nazionale che siano ‘comunitariamente’ necessarie.

E’ evidente come tale approccio ermeneutico, insieme ai limiti che per i Giudici di

Lussemburgo circoscrivono la potestà degli Stati di definire l’acquisto e la perdita della

cittadinanza nazionale (e quindi europea), sia in grado di avallare una significativa apertura

verso una tutela europea dei cittadini di Paesi terzi146, con possibili implicazioni anche sulla

condizione dei gruppi minoritari presenti nell’Unione che sono esclusi dai benefici della

cittadinanza comunitaria.

143 Cfr. CGCE Gerardo Ruiz Zambrano v. Office national de l’emploi (ONEm), dell’8-3-2011, causa C-

34/09. 144 Di questo avviso A. Lollo, Il paradigma inclusivo della cittadinanza europea e la solidarietà

transnazionale, in www.gruppodipisa.it, 2012, 3 ss. La Corte di giustizia ha obbligato lo Stato belga a riconoscere il diritto di soggiorno e il permesso di lavoro al cittadino di un Paese terzo perché nello Stato membro risiedevano i due figli di cui il genitore si faceva carico, al fine di non costringere gli stessi, cittadini comunitari, ad abbandonare il territorio dell’Unione. La sentenza Zambrano dunque, sebbene non incida sulla competenza esclusiva degli Stati di definire l’accesso alla cittadinanza nazionale (e quindi europea), apre comunque interessanti prospettive di tutela europea dei cittadini extracomunitari. L’‘erosione’ delle attribuzioni statali in questo settore è peraltro testimoniata anche dalla dir. 2003/109/CE ha istituito un trattamento uniforme per i cittadini di paesi terzi che soggiornino legalmente e ininterrottamente nel territorio di uno Stato membro da almeno cinque anni, al fine di armonizzare le legislazioni nazionali sul punto.

145 Cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 5-5-2011, causa C-434/09 e 15-11-2011, causa C-256/11, su cui v. L. Montanari, Quali diritti per i cittadini europei: la complessa definizione dei contenuti della cittadinanza europea tra interventi della Corte di giustizia e ruolo dei giudici nazionali, in www.diritticomparati.it, 2012, 1 ss.).

146 Non a caso si è opportunamente sottolineato come i Giudici di Bruxelles, con la sentenza Zambrano, abbiano implicitamente dato concreto risvolto ai contenuti della Carta dei diritti che riconoscono «ad ogni persona» presente sul territorio dell’UE, a prescindere dal legame con una determinata comunità statale, la garanzia delle tutele e degli istituti di sicurezza sociale come previsti dal diritto europeo e degli Stati (art. 34). Cfr. C. Salazar, A Lisbon story: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da un tormentato passato… a un incerto presente?, Relazione al Convegno su “I diritti sociali dopo Lisbona. Il ruolo delle Corti. Il caso italiano. Il diritto del lavoro fra riforme delle regole e vincoli di sistema”, Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, 5 Novembre 2011, paper, 22.

44

L’inevitabile intreccio dei sistemi giuridici nazionali con la centralità delle garanzie

europee facenti capo allo status di cittadino dell’Unione, nella duplice dinamica illustrata

dalla giurisprudenza Rottmann/Zambrano, potrebbe allora contribuire a dare un’ulteriore

spinta al processo di adeguamento di quelle legislazioni interne che ancora faticano, sotto

questo profilo, a trovare un equilibrato rapporto con la questione delle minoranze etnico-

linguistiche.

Proprio l’interazione con l’ordinamento comunitario147 ha, molto probabilmente, giocato

un ruolo essenziale anche nell’ultima riforma che, nel maggio di quest’anno, ha interessato

la legge lettone sulla cittadinanza148.

Frutto di un lungo e difficile dibattito parlamentare149, le modifiche introdotte, operative

dal 1° ottobre 2013, vanno nella direzione di ampliare le opportunità di integrazione della

minoranza russofona nei diritti di cittadinanza.

Si prevede infatti che i figli di “non cittadini” o di apolidi nati sul territorio nazionale

dopo il 21 agosto 1991 potranno essere riconosciuti cittadini lettoni su richiesta di uno dei

genitori.

Inoltre, nuove regole disciplinano anche la naturalizzazione. Rimane ferma la necessità di

superare un test di lingua e cultura nazionale che, però, risulta semplificato per coloro che

abbiano conseguito l’istruzione primaria con un curriculum che contempli almeno la metà

147 Il costante monitoraggio delle politiche di cittadinanza dello Stato lettone, ad opera

dell’Unione, trova riscontro nel sito ufficiale del Ministero degli Affari esteri dello stesso Paese, nel quale il documento che riporta i dati statistici relativi alle richieste di naturalizzazione fino al 2011, precisa che «The European Union has commented positively on the enforcement of the Citizenship Law and on the naturalisation process in general».

Occorre poi considerare che all’azione dell’Unione europea si sono affiancate le sollecitazioni provenienti dalle principali organizzazioni internazionali: cfr. Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, Esame dei rapporti presentati dagli Stati membri conformemente all’art. 40 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici, CCPR/CO/79/LVA/Add.1, del 17-12-2004; Comitato dei diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite, Esame del rapporto iniziale presentato dalla Lettonia sulle misure prese da questo Paese per conformarsi alle disposizioni del Patto sui diritti economici, sociali e culturali (E/1990/5/Add.70); Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, Resolution CM/ResCMN(2011)6 on the implementation of the Framework Convention for the Protection of National Minorities by Latvia, del 31-3-2011; Venice Commission, Study on “NonCitizens and Minority Rights” (CDL-AD(2007)001); OSCE, Office for Democratic Institutions and Human Rights, Statement on National minorities in Latvia, dell’1-10-2008.

148 Cfr. Latvian Citizenship Law, secondo le modifiche approvate dal Saeima il 9-5-2013. Il testo in lingua inglese della legge è reperibile sul sito del Ministero degli affari esteri lettone al seguente indirizzo: http://www.mfa.gov.lv/en/policy/4641/4642/4651/law-on-citizenship/.

149 La decisione di avviare un processo di modifica della cittadinanza è intervenuta dopo che la Corte Suprema di Riga ha dichiarato illegittima, il 1° novembre 2012, una richiesta di referendum per il conferimento automatico della cittadinanza ai membri della comunità russofona non ancora naturalizzati. Si è poi tentata la via referendaria anche per l’adozione del russo come seconda lingua ufficiale, ma la proposta è stata respinta (con la maggioranza schiacciante dei 75% dei voti) il 17 febbraio 2012. Un esito, per la verità, abbastanza scontato, dato che buona parte della minoranza russofona non ha accesso al voto.

45

degli insegnamenti in lettone o che abbiano seguito un corso di studi secondari interamente

in lingua lettone (sez. 19-21).

In conclusione, allora, nello scenario di un progressivo avvicinamento degli strumenti di

garanzia dei diritti fondamentali, (anche) l’apporto del diritto dell’Unione appare

imprescindibile al fine di affrontare in modo uniforme e condiviso il discorso

dell’integrazione delle minoranze linguistiche.

7. L’indagine sulla dimensione effettiva delle garanzie riservate ai gruppi linguistici

minoritari si è sviluppata, muovendo dal dato teorico-normativo, soprattutto sul piano del

dialogo tra giudici,

Questo percorso ci consente di affermare che il contesto europeo (dei sistemi ‘aperti’ e

in sinergia) è caratterizzato da una dinamica circolare delle tecniche di tutela dei diritti nella

quale non mancano gli agganci giuridici per avallare una più incisiva azione dell’Unione a

salvaguardia delle minoranze. E in quest’ottica si ritiene che debbano essere interpretati i

riferimenti offerti dal diritto primario.

La protezione delle persone appartenenti ad una minoranza, inclusa fra gli obiettivi di cui

all’art. 2 TUE, se non introduce nuove competenze dell’Unione, è però, certamente, un

criterio guida per l’esercizio di quelle che ad essa fanno capo. Ciò comporta che le

istituzioni dell’Unione (e gli Stati membri) dovranno agire nel più rigoroso rispetto dei

diritti dei gruppi minoritari nella produzione e applicazione del diritto sovranazionale.

Il monito al rispetto delle minoranze sembra ricadere, ad esempio, sui poteri che il

Trattato attribuisce al Consiglio per rimuovere, anche mediante azioni positive,

disuguaglianze «fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni

personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali» (art. 19 TFUE, ex art. 13 TCE). L’art. 2

TUE, abbinato a tale precetto, potrebbe quindi, con il richiamo alla salvaguardia delle realtà

minoritarie, arricchire di nuovi significati la normativa antidiscriminatoria dell’UE150 e

marcare anche la connotazione collettiva delle istanze legate a questi fattori di

discriminazione, se radicati nell’appartenenza ad una particolare formazione sociale151.

150 Ritiene che un’evoluzione della normativa antidiscriminatoria alla luce dei principi del nuovo

Trattato di Lisbona potrebbe condurre ad una regolamentazione dell’Unione in settori collegati alla situazione di minoranze vulnerabili anche D. Kochenov, op. cit., 43.

151 I riflessi della nuova impronta finalistica impressa dall’art. 2 TUE potrebbero cioè manifestarsi nel senso di aprire ad una rinnovata lettura della normativa comunitaria in tema di parità di trattamento (si pensi alle direttive 2000/43/CE, sull’uguaglianza razziale, e 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) che tenga in considerazione anche i ‘diritti di gruppo’ e non solo quelli individuali legati a situazioni minoritarie. Ciò che contribuirebbe a superare quello che è stato definito «a traditional non-discrimination approach» di questi provvedimenti, i quali senza l’ausilio di una specifica direttrice interpretativa, potrebbero essere «insufficient to promote the effective integration of ethnic and religious minorities

46

Appare, al riguardo, importante un passo della Quinta relazione sulla cittadinanza

dell’Unione152, in cui la Commissione, pur rigettando una propria competenza ‘tipica’ nella

garanzia della minoranza russofona presente nei Paesi baltici, non si sottrae ad un

coinvolgimento nella vicenda, ma ribadisce il proprio impegno nel contribuire, con «gli

strumenti comunitari disponibili», allo sviluppo dei processi di integrazione di tale popolo,

assicurando che «gli Stati membri applichino rigorosamente la normativa comunitaria

antidiscriminazione»153. Parole in cui trova conferma una via ‘indiretta’ per arrivare a forme di

tutela – anche sovranazionale – delle minoranze.

Inoltre, sempre sulla base delle competenze attribuite al Consiglio, non è da escludere

che l’art. 2 possa condurre all’adozione di specifici strumenti diretti all’integrazione dei

gruppi minoritari, anche linguistici, dal momento che tale disposizione (insieme alla tutela

sancita dall’art. 22 della Carta dei diritti UE) sembra poter dare copertura anche alla lingua

come possibile causa di discriminazione non espressamente contemplata dall’art. 19 TFUE,

ma certamente da includere fra i caratteri che individuano un’etnia e, quindi, l’eventuale

esistenza di una popolazione minoritaria154.

Infine, se la garanzia dell’eguaglianza - annoverata tra i principi generali del diritto

comunitario155 - è ormai elemento qualificante della giurisprudenza della Corte di Giustizia,

il richiamo all’art. 2 TUE, può orientare in modo specifico le tecniche argomentative di

questo Giudice alla salvaguardia dei fattori di “identità” linguistica, etnica, culturale e

religiosa all’interno del contesto europeo, con riferimento non solo alle situazioni

individuali, ma anche ai risvolti collettivi della tutela antidiscriminatoria.

A rafforzare questa impostazione concorre, ora, l’ormai innegabile processo di

integrazione della tutela multilivello dei diritti umani. Il sistema di garanzia delle libertà

fondamentali sembra, infatti, sempre più convergere verso un unico ‘progetto’ al quale

partecipano più attori, tutti indistintamente mossi dalla ricerca del più intenso grado di

protezione delle situazioni giuridiche soggettive (individuali e collettive)156.

in the Union» (cfr. O. De Schutter, Recognition of the Rights of Minorities and the EU’s Equal Opportunities Agenda, in European Antidiscrimination Law Review, n. 11/2010, 25-26).

152 COM(2008) 85 definitivo, cit., 3. 153 Corsivo di chi scrive. 154 Di tale avviso O. De Schutter, op. cit., 26. 155 Sentt. 19 ottobre 1977, cause riunite 117/76 E 16/77; 25-10-1978, cause riunite 103 e

145/77; 17-4-1997, causa C-15/1995; 13-4-2000, C-292/97 e, più di recente, 13-9-2007, causa C-307/05; 8-9-2011, causa C-177/10.

156 Esplicitano questo concetto, ad esempio, le sentt. 311 e 317/2009 della Corte costituzionale in merito al rapporto fra ordinamento interno e CEDU, nelle quali si precisa che «il contrasto con la Convenzione può essere determinato solo da un tasso di tutela della norma nazionale inferiore a quello garantito dalla norma CEDU». Ne consegue, si precisa, che «il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa». Sul punto, L. Fanotto, La tutela dei diritti nell’ordinamento dell’Unione europea: profili sostanziali e processuali, in L. Mezzetti (cur.), Diritti e doveri, Torino, Giappichelli, 2013, 134, per il quale, nella complessità del sistema di tutela dei diritti fondamentali delineato dal

47

L’art. 6, c. 2, TUE prevede l’adesione dell’Unione europea alla CEDU, le cui

disposizioni, insieme “alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”, sono parte

integrante dei “principi generali” del diritto comunitario (c. 3). Detta norma, sebbene non

ancora concretizzatasi157, crea un esplicito ‘collegamento’ fra diversi piani ordinamentali

che conforta una lettura delle potenzialità di crescita dell’Unione verso la promozione delle

minoranze come entità collettive.

Si è visto, infatti, che la Corte dei diritti umani ha ricompreso tale principio fra i

significati normativi della Convenzione e, allo stesso modo, la garanzia dei diritti delle

minoranze (già presente in alcune Costituzioni nazionali158) potrebbe considerarsi parte

delle tradizioni comuni degli Stati membri che vanno ad ‘arricchire’ il diritto dell’Unione in

quanto funzionali agli “obiettivi” dalla stessa perseguiti.

L’art. 6 TUE si dirige, insomma, verso una progressiva “osmosi” fra ordinamenti

nazionali e regionali europei159, nell’ambito di uno scenario che prospetta una vera e

propria incorporazione dello strumento convenzionale, collocato - nei significati in cui

questo vive nell’interpretazione del suo Garante – alla base degli indirizzi giurisprudenziali

di Strasburgo e Lussemburgo. Un percorso di ‘naturale’ avvicinamento, che già oggi è il

Trattato di Lisbona, «il concorso di fonti risulterà regolato dal principio dello standard massimo di protezione, privilegiando l’applicazione della fonte che assicuri il livello di tutela più elevato, senza stabilire aprioristicamente alcun ordine gerarchico tra le stesse».

157 Cfr. Corte cost. 11-3-2011, n. 80, in Giur. cost., 2011, 1224 ss., che ha negato che la Convenzione possa operare direttamente nell’ordinamento nazionale, con conseguente obbligo dei giudici di disapplicare le norme interne con essa in conflitto, poiché «nessun argomento in tale direzione può essere tratto, anzitutto, dalla prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU, per l’assorbente ragione che l’adesione non è ancora avvenuta» (Considerato in diritto, punto 5.3). Sulla stessa linea interpretativa anche la Corte di Giustizia dell’UE (sent. 24-4-2012, causa C-571/10, Kamberaj c- Istituto per l‘Edilizia Sociale della Provincia autonoma di Bolzano, su cui v. N. Lazzerini, Sulla parità di trattamento dei cittadini di Paesi terzi in materia di prestazioni sociali ed alcuni (non superflui) chiarimenti sulla presunta ‘comunitarizzazione’ della CEDU da parte del Trattato di Lisbona: la sentenza della Corte di Giusticia nella causa C-571/2010, Kamberaj, in Osservatoriosullefonti.it, 2012, 1 ss. e G. Bronzini, A. Allamprese, Cittadini stranieri e discriminazione nell'accesso a prestazioni sociali a carattere essenziale: la Corte di Giustizia valorizza la Carta di Nizza, in www.europeanrights.eu, 2012, 1 ss.

158 Cfr., per alcuni riferimenti, nota n. 55. E in tal modo, si verrebbe a concretizzare un riflesso di ciò che R. Bin, P. Caretti, Profili costituzionali dell’Unione Europea. Cinquant’anni di processo costituente, Bologna, Il Mulino, 2009, 152 hanno definito, con una felice espressione, il “rapporto di filiazione” che lega i Trattati alle Costituzioni nazionali.

159 Sull’argomento v. N. Parisi, Considerazioni sulla natura giuridica dell’Unione europea alla luce dei rapporti fra Stati membri e fra questi e l’Organizzazione, in I quaderni europei, Centro di documentazione europea, Università di Catania, Online Working Paper 1/2008, 10 ss. e ora A. D’Aloia, The Protection of Rights in a Multilevel System: the European Model, Relazione presentata all’Eacle Conference- Multilevel Governance and Federalism, University System of Baltimore – Center of International and Comparative Law, Baltimora, 22 maggio 2013, 4, in corso di pubblicazione in T. Sellers (cur.), Multilevel Governance and Federalism, Dordrecht-Heidelberg-New York-London, Springer, 2014.

48

risultato di un costante rapporto dialettico, intorno al quale si sviluppa il diritto europeo

delle libertà fondamentali160.

In tale contesto, per tornare alla questione della minoranza russofona in Lettonia,

l’orientamento della Corte di Strasburgo segna, nell’ottica di quella spontanea

‘contaminazione’ di cui sopra, un significativo punto di incontro fra tutela convenzionale,

statale ed eurounitaria, tracciando la via per un’interpretazione evolutiva e ‘adeguatrice’ dei

Trattati. L’Ue, dunque, con questi parametri di riferimento, ben può contribuire ad una

armonizzazione dei sistemi normativi nazionali (nei loro standards minimi) per colmare le

lacune che ancora in alcuni Paesi membri caratterizzano la condizione delle minoranze.

Del resto, nella logica del modello europeo “integrato” e della sussidiarietà, ciò che conta

non è tanto l’individuazione di specifiche competenze, perché la tutela delle minoranze,

come ha affermato anche la Corte costituzionale con riguardo all’ordinamento interno161, è

essenzialmente un obiettivo, una finalità trasversale per il conseguimento della quale

cooperano diversi livelli di governo, ciascuno dei quali si fa carico delle specificità ‘locali’ in

relazione ai propri compiti istituzionali e sulla base di indirizzi di coordinamento unitario

che sono espressione delle garanzie necessarie ad un equilibrato bilanciamento degli

interessi in gioco162. Indirizzi, per lo più, impressi da un diritto giurisprudenziale che, nel

dialogo fra i giudici nazionali e «i due circuiti giurisdizionali europei»163, ricerca una

«paritaria e reciproca convergenza» degli strumenti giuridici che fondano il

costituzionalismo europeo dei diritti umani164.

Tali ultime considerazioni conducono alle battute conclusive di questo lavoro, per

segnalare come la questione delle minoranze offra un significativo spaccato di quel

fenomeno che è stato efficacemente descritto come «internazionalizzazione (ed

“europeizzazione”)» delle Costituzioni e, al contempo, di costituzionalizzazione del diritto

internazionale e comunitario165.

In questo senso, il diritto europeo delle minoranze, come «fattore paradigmatico

dell’attuale processo di costruzione di uno spazio costituzionale europeo»166, mostra che il

160 In tal senso, A Ruggeri, Cedu, diritto “eurounitario” e diritto interno: alla ricerca del “sistema dei

sistemi”, in www.diritticomparati.it, 2013, 1 ss., secondo cui si può parlare di una «convergenza dei punti di vista», grazie allo «sforzo poderoso col tempo prodotto da ciascun sistema per avvicinarsi agli altri, se non pure per raggiungerli e con essi integrarsi appieno, componendo un unico ed unitario sistema, sempre uguale a se stesso quale che sia il punto di vista dal quale ad esso si guardi».

161 Cfr. Corte cost. 159/2009, cit. 162 Così F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 348-349. 163 L’espressione è di A. D’Aloia, The Protection of Rights in a Multilevel System, cit., 1 ss. 164 Cfr. R. Conti, Cedu, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari, in R. Cosio, R.

Foglia (cur.), Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, cit., 182. 165 A. Ruggeri, Interpretazione conforme e tutela dei diritti fondamentali, tra internazionalizzazione (ed

“europeizzazione”) della Costituzione e costituzionalizzazione del diritto internazionale e del diritto eurounitario, in Rivista dell’Associazione dei Costituzionalisti, www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2010, 1 ss.

166 F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 119.

49

rapporto sinergico fra le “Carte” e le “Corti” dei diritti si pone al centro di una dialettica fra

«circuiti interpretativi» 167 che è orientata alla ricerca delle più adeguate tecniche di tutela

delle libertà dalle stesse riconosciuti.

In particolare, nel campo della protezione minoritaria, ai giudici (europei e nazionali)

spetta il compito di individuare un ragionevole contemperamento fra eguaglianza e

attribuzione di ‘diritti collettivi speciali’, da cui prende forma un vero e proprio «diritto

europeo delle diversità»168. Si tratta di un ruolo fondamentale, perché il raffronto tra

uniformità e ‘diritti riservati’ – inevitabile in uno spazio comune allargato - serve, da un

lato, a garantire la ‘tenuta’ del sistema europeo e, dall’altro, a sottrarre le garanzie (minime)

delle minoranze alle vicende (e alla completa disponibilità) delle maggioranze politiche169.

Ecco, allora, perché, come si anticipava, il diritto europeo delle minoranze, soprattutto

nella sua dimensione giurisprudenziale (o del dialogo) può rispecchiare il grado di

integrazione raggiunto dalla ‘costruzione europea’ e, conseguentemente, la capacità di

questa di realizzare un disegno di stabilità e sicurezza fondato sul pluralismo democratico.

167 Così ancora A. D’Aloia, The Protection of Rights in a Multilevel System, cit., 2. 168 Parlano di «diritto delle diversità», come espressione che meglio all’istanza di garantire

specifiche forme di tutela delle minoranze in «una società culturalmente complessa», F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 352.

169 Sui limiti che lo Stato costituzionale di diritto impone al principio democratico anche con riguardo al governo delle minoranze v., ancora, F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 350 ss.

www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823

Data pubblicazione 01.03.2014

I diritti delle minoranze linguistiche e il ‘primato’ della cittadinanza europea

di

Paola Torretta

SOMMARIO: 1. Il caso Grauel Rüffer v. Katerina Pokorná: la lingua tedesca della minoranza

altoatesina ancora davanti ai Giudici dell’Unione europea; 2. La tutela minoritaria non

contro (ma per) la libera circolazione e la cittadinanza europea: aporie di una

giurisprudenza a senso unico; 3. Uguaglianza e diversità linguistica in Unione europea: un

disegno di integrazione ancora a metà

1. Il caso Grauel Rüffer v. Katerina Pokorná: la lingua tedesca della minoranza

altoatesina ancora davanti ai Giudici dell’Unione europea

Con la sentenza del 27 marzo scorso (causa C-322/13, Ulrike Elfriede Grauel Rüffer v.

Katerina Pokorná), la Corte di Giustizia è tornata a ribadire che la deroga all’uso della

lingua italiana in giudizio, prevista per gli organi giurisdizionali dislocati nella

Provincia autonoma di Bolzano a tutela della minoranza etnico-culturale germanofona

residente nel territorio, deve operare anche nei confronti di tutti i cittadini UE di lingua

tedesca. Questi possono, quindi, avvalersi del tedesco nei procedimenti giudiziari

celebrati in loco, pur se non appartenenti al gruppo linguistico riconosciuto dell’Alto

Adige.

Per estrapolare il principio racchiuso nella pronuncia, le misure speciali destinate

ad alcuni soggetti, in ragione del legame con una comunità linguistica minoritaria

protetta all’interno di un Paese membro, non possono rimanere ‘chiuse’ a detta

formazione sociale oggetto di specifica tutela da parte dello Stato, ma – se necessario –

debbono essere accessibili ad ogni cittadino comunitario che parli la stessa lingua.

Il quesito sottoposto ai Giudici di Lussemburgo è stato sollevato, tramite rinvio

pregiudiziale, dal Tribunale di Bolzano (Landesgericht Bozen), adito, a seguito di un

incidente sciistico avvenuto sulle montagne del Südtirol, per una causa di risarcimento

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danni intentata da una donna tedesca. La particolarità della controversia nasce dal fatto

che l’atto di citazione è stato redatto in lingua tedesca, così come la comparsa di

risposta presentata dalla convenuta, cittadina ceca che non ha eccepito alcuna

obiezione in merito alla lingua del processo.

La normativa italiana prescrive, infatti, il ricorso alla lingua ufficiale di fronte agli

organi giurisdizionali, ad eccezione della fattispecie, introdotta a garanzia delle

minoranze linguistiche presenti nella Provincia di Bolzano, che contempla la facoltà dei

cittadini italiani di lingua tedesca ivi residenti di utilizzare tale idioma nei rapporti con

gli organi giudiziari situati nel territorio (art. 122, C.p.c.; artt. 99 e 100, DPR n. 670/1972

e art. 1, DPR n. 574/1988). E una tale garanzia è stata interpretata come tutela speciale

riservata solo a questa categoria di cittadini italiani, con conseguente nullità degli atti

processuali che non rientrino nella peculiare deroga legislativamente prevista (Cass.

civ., sez. II, sentenza 22 novembre 2012, n. 20715)1.

Al giudice di Bolzano non è dunque sfuggita la questione della lingua in cui

proseguire il procedimento (quella tedesca o quella italiana), dato che la convenuta,

come si anticipava, ha implicitamente accolto l’opzione per la prima, mentre la legge

italiana, nell’interpretazione seguita dal diritto vivente, richiede l’uso della seconda.

Al riguardo, non vi sarebbe stata alternativa alla dichiarazione di nullità degli atti

già presentati, non potendo la scelta della parte resistente sanare il vizio di forma

dovuto al mancato rispetto della lingua ufficiale. Nondimeno, il Landesgericht Bozen ha

dubitato della compatibilità dell’orientamento giurisprudenziale richiamato con il

diritto dell’Unione e, pertanto, ha chiesto l’intervento della Corte di Giustizia, trovando

in questo Giudice un sostegno all’idea che le regole preferenziali disposte a favore di

alcune particolari posizioni soggettive possano servire alla piena realizzazione di

(altre) situazioni giuridiche ad esse comparabili, nel perseguimento di una ragionevole

‘distribuzione’ delle opportunità di sviluppo della personalità umana.

La decisione in commento ha infatti confermato il noto indirizzo che impone di

estendere le misure destinate a minoranze linguistiche disseminate sul territorio degli

1 In Giur. it., 2013, 5, p. 1143, con osservazioni A. REINSTADLER, che critica l’assenza nella

pronuncia di qualsiasi riferimento alla giurisprudenza comunitaria sul tema, con la quale il

giudice italiano avrebbe dovuto, invece, coordinarsi.

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Stati membri ad ogni cittadino dell’Unione, quando la sua lingua sia la stessa del

gruppo minoritario protetto dall’ordinamento nazionale.

Già nei casi Mutsh (sentenza 11/7/1985, causa 137/84)2 e Bickel e Franz (causa C-

274/96, sentenza 24/11/1998)3, la Corte di giustizia ebbe a stabilire l’applicabilità di

questo istituto con riguardo a procedimenti penali in cui fossero parti cittadini UE

parlanti una lingua cui lo Stato membro riservi un regime ad hoc in favore di ‘proprie’

minoranze etnico-culturali.

Nella prima decisione aveva giocato un ruolo fondamentale il trattamento

paritario dei lavoratori migranti rispetto ai lavoratori dello Stato membro ospitante,

con la finalità di assicurare le necessarie condizioni di integrazione (allargate al nucleo

familiare) nel luogo della prestazione professionale4.

Un cittadino lussemburghese residente in un comune di lingua tedesca del Belgio

si era così visto riconosciuto il diritto di utilizzare detta lingua davanti al giudice

penale del luogo, al pari dei cittadini belgi suoi compaesani.

In senso estensivo, nella pronuncia sulla causa Bickel e Franz la libertà di

circolazione ha ricevuto una copertura ancora più ampia, poiché la medesima tutela

linguistica del cittadino comunitario è stata sganciata dal presupposto della residenza

nello Stato membro in cui viene rivendicata.

La fattispecie esaminata dalla Corte ha visto, in tal caso, accogliere la pretesa di un

austriaco e di un tedesco ad essere penalmente processati nell’idioma minoritario

protetto nella Provincia di Bolzano, per fatti commessi in occasione di un soggiorno in

territorio altoatesino5.

2 Su cui B. DE WITTE, Il caso Mutsch: libertà di circolazione dei lavoratori e uso delle lingue, in Foro

it., IV, 1985, c. 8 ss. 3 Commentata da A. GATTINI, La non discriminazione di cittadini comunitari nell'uso della lingua

nel processo penale: il caso Bickel, in Riv. dir. internaz., 1999, p. 106 ss. e E. PALICI DI SUNI PRAT, L’uso

della lingua materna tra tutela delle minoranze e parità di trattamento nel diritto comunitario, in Dir.

pubbl. comp. ed europeo, 1999, p. 171 ss. 4 Un principio che la Corte ascrive alla nozione di “vantaggio sociale” di cui all’art. 7 II c., Reg.

(CEE) n. 1612/68 e che, trainato dalla progressiva evoluzione della libertà di circolare all’interno

dell’UE, ha conosciuto un costante sviluppo nella successiva giurisprudenza comunitaria: v.

Corte di Giustizia, 17 aprile 1986, Olanda v. Ann Florence Reed, causa C-59/85 nonché, più di

recente, sentenza 14 giugno 2012, Commissione/Paesi Bassi, C-542/09 e sentenza 18 luglio 2013,

Laurence Prinz v. Region Hannover, Philipp Seeberger v. Studentwerk Heidelberg, cause C- 523/11 e C-

585/11. 5 Nei confronti dei due cittadini UE, perseguiti per guida in stato di ebbrezza e possesso di

arma proibita, la Corte ha stabilito che l’accesso alla peculiare tutela linguistica della Provincia

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Oggi, l’ultimo passo segnato dalla sentenza Ulrike Elfriede Grauel Rüffer v. Katerina

Pokorná sembra poter chiudere il cerchio, poiché la Corte esplicita, ove non si fosse

intesa la portata generale della protezione a suo tempo sancita, che l’uso della lingua

minoritaria nei rapporti con la giustizia, qualora sia garantito in una porzione del

territorio di un Paese membro per i propri cittadini ivi residenti, è un diritto (anche per

altri cittadini comunitari) riferibile a qualsiasi procedura giudiziaria che si svolga

nell’area in cui opera detta specifica tutela.

2. La tutela minoritaria non contro (ma per) la libera circolazione e la cittadinanza

europea: aporie di una giurisprudenza a senso unico

Il fil rouge che ripercorre le soluzioni adottate dai Giudici di Lussemburgo, fino ad

arrivare al quadro odierno, corre lungo due dei canoni essenziali che da sempre –

congiuntamente - alimentano lo sviluppo dell’ordinamento comunitario: il divieto di

discriminazioni fondate sulla nazionalità e la libera circolazione dei cittadini

dell’Unione6. Si tratta di principi immediatamente protesi verso la vocazione

universalistica della tutela multilivello dei diritti, dai quali si evincono anche

riferimenti per comprendere, nella prospettiva inversa, l’atteggiamento del diritto

europeo di fronte alla salvaguardia delle realtà minoritarie, nel caso di specie quelle

caratterizzate dall’elemento linguistico-culturale.

Il ragionamento sviluppato dalla giurisprudenza comunitaria, su questo tema,

postula la (legittima) facoltà di ogni Stato membro di introdurre specifici istituti

promozionali per le comunità linguistiche del proprio territorio, precisando, però, che

anche altri soggetti che soddisfino gli stessi requisiti di specialità, pur avendo la

autonoma è strumento necessario per rendere piena ed effettiva la libertà di circolazione e di

soggiorno, che comprende, ad avviso dello stesso Giudice, anche il diritto di essere destinatari

dei servizi che lo Stato membro prevede per i propri cittadini, al fine di non creare ‘squilibri’

che si riverberino in una condizione di svantaggio per gli stranieri comunitari. A commento

delle pronunce richiamate, v. E. PALICI DI SUNI PRAT, Intorno alle minoranze linguistiche, Torino,

Giappichelli, 2002, p. 174 ss. e ora anche S. SAU, Le garanzie linguistiche nel processo penale. Diritto

dell'interprete e tutela delle minoranze riconosciute, Padova, Cedam, 2010, p. 248. 6 Sulla spinta propulsiva che la tutela della libertà di circolazione ha avuto e continua ad avere

su tutto il sistema UE, usata a mo’ di “cavallo di Troia” che ha permesso alla Corte di giustizia

di assicurare una serie di tutele, in particolar modo sociali, ai lavoratori e alle proprie famiglie,

v. I. RICCI, La forza espansiva della libera circolazione dei lavoratori: la sentenza della Corte di Giustizia

del 20 giugno 2013, Elodie Giersch e altri, causa C-20/12, in www.diritticomparati.it, 2013, p. 1 ss.

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cittadinanza di un altro Paese UE, devono poter usufruire di questa copertura

garantistica. Per la Corte, infatti, l’espansione della tutela minoritaria, da un lato, non

pregiudica le finalità perseguite sul piano interno e, dall’altro, costituisce un

indispensabile corollario del principio di uguaglianza (formale), per rendere effettive la

libertà di circolazione e soggiorno e la parità di trattamento a prescindere dalle origini

nazionali7.

In quest’ottica deve essere, quindi, analizzato l’impianto motivazionale della

pronuncia che rigetta le tesi difensive del Governo italiano.

L’esigenza di evitare un appesantimento dei procedimenti, qualora altri cittadini

UE possano servirsi del tedesco nelle aule giudiziarie di Bolzano, non viene assunta

come valido criterio di giudizio, perché ‘smentita’ dallo stesso Landesgericht Bozen, che

chiarisce come la lingua di svolgimento dei processi non incida sull’efficienza del

sistema giudiziario nella Provincia autonoma, essendo i giudici del luogo in grado di

servirsi indifferentemente dell’italiano e del tedesco.

Allo stesso modo, non appare rilevante l’argomento dei costi connessi

all’attuazione di un regime linguistico diversificato, perché la Corte di Giustizia ricorda

“che motivi di natura puramente economica non possono costituire ragioni imperative

di interesse generale idonee a giustificare una limitazione di una libertà fondamentale

garantita dal Trattato”. Di conseguenza, il Giudice comunitario non ritiene

ragionevole, sulla base di questi rilievi, negare ad un cittadino UE di lingua tedesca,

che circoli e soggiorni nella Provincia di Bolzano, il trattamento qui riconosciuto agli

italiani che parlino la medesima lingua, non considerando una garanzia equiparabile (e

sufficiente) la messa a disposizione degli strumenti che consentono di partecipare al

processo pur non conoscendo la lingua ufficiale dello Stato ospitante (e così si

esprimeva già anche la decisione Bickel e Franz).

Per la verità, e solo per aprire una breve digressione che meriterebbe ben più

adeguati spazi argomentativi, suona un po’ come una ‘stonatura’ un passaggio così

radicale e categorico sulla irrilevanza dei costi della più estesa (e appunto

‘comunitaria’) protezione linguistica, di fronte ad una ben nota giurisprudenza

sovranazionale che, in altre situazioni, si è mostrata di tutt’altro segno. Sono ricorrenti

7 Cfr. Bickel e Franz, cit.

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le riflessioni critiche sul ruolo centrale che le istanze economiche continuano ad

occupare nel processo di integrazione, anche a scapito del soddisfacimento di diritti

che, non solo all’interno degli ordinamenti nazionali ma anche nel ‘costituzionalismo

europeo’, sono definiti come valori fondamentali8.

Il tono perentorio della Corte di Giustizia, a ben vedere, si spiega avendo riguardo

ai riflessi ‘sovranazionali’ della posizione giuridica che, nel caso di specie, viene

tutelata: la libertà di circolazione e di soggiorno in UE, quale diritto (e soprattutto

obiettivo) ‘schiettamente’ comunitario.

Ciò che induce ad una considerazione - forse un po’ amara – sui paradossi di

questo approccio ‘asimmetrico’: sul piano interno, le istanze finanziarie non possono

condizionare i diritti riconosciuti dal Trattato (fermi, però, in ogni caso, i rigorosi

vincoli europei imposti ai bilanci degli Stati9); sul versante opposto, invece, la Corte di

Giustizia ha più volte accolto la visione di una tutela sovranazionale (solo) “indiretta”

dei diritti (soprattutto quelli sociali), che si realizza cioè di riflesso, se ed in quanto non

interferisca con il perseguimento di interessi e politiche (in particolare di natura

economica) dell’Unione10 (v., per tutti, il noto snodo giurisprudenziale che dal primo

giudizio sul caso Laval è arrivato alla sentenza Commissione v. Lussemburgo, passando

per le cause Viking e Rüffert e segnando, di volta in volta, la vis espansiva dei principi

della libera iniziativa economica e della concorrenza in rapporto alle garanzie dei

lavoratori)11.

Inoltre, da un diverso punto di osservazione del costituzionalismo europeo

multilivello, la pretesa dei Giudici di Lussemburgo di ‘aprire’ a tutti (sempre e

8 V., fra i tanti, S. GAMBINO, Diritti fondamentali e Unione Europea. Una prospettiva costituzional-

comparatistica, Milano, Giuffrè, 2009, p. 164; G. PINO, La «lotta per i diritti fondamentali» in Europa.

Integrazione europea, diritti fondamentali e ragionamento giuridico, in I. TRUJILLO, F. VIOLA (a cura

di), Identità, diritti, ragione pubblica in Europa, Bologna, il Mulino, 2007, p. 109 ss. e G. SILVESTRI,

Tutela nazionale ed europea dei diritti civili e dei diritti sociali, in C. SALVI, (a cura di), Diritto civile e

principi costituzionali europei e italiani, Torino, Giappichelli, 2012, p. 64. 9 C. GOLINO, I vincoli al bilancio tra dimensione europea e ordinamento nazionale, in

http://www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2013, part. p. 2 ss. 10 Sul punto, v. S. GAMBINO, Diritti e cittadinanza (sociale) nelle costituzioni nazionali e nell’Unione,

Relazione al Convegno “Diritti e cittadinanza nell’Unione Europea”, Università della Calabria,

9 maggio 2013, in La cittadinanza europea, 2/2013, p. 26. 11 Definito, non a caso, il “Laval quartet” da C. SALAZAR, Crisi economica e diritti fondamentali, in

Rivista AIC, 4/2013, p. 23. In argomento, v. fra i tanti, A. ANDREONI, B. VENEZIANI (a cura di),

Libertà economiche e diritti sociali nell’Unione europea. Dopo le sentenze Laval, Viking, Rüffert e

Lussemburgo, Roma, Ediesse, 2009.

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comunque) i meccanismi statali di protezione delle lingue minoritarie deve essere

messa in relazione, nella necessaria dialettica con il sistema convenzionale, con la

giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale in un lontano ma

significativo precedente ha definito un più rigoroso bilanciamento fra garanzie di

accesso alle misure speciali per la diversità linguistica ed esigenze di contenimento

della spesa pubblica.

Nell’affaire Belgian Linguistics12 venne rigettata la richiesta di ricevere l’istruzione

nella lingua minoritaria avanzata da un gruppo di famiglie di lingua francese residenti

in una regione del Belgio di lingua olandese. La necessità di circoscrivere i costi per la

scuola pubblica o sovvenzionata dallo Stato rappresentò la giustificazione per ritenere

non irragionevole il criterio di ‘assimilazione’ adottato dalla legge belga nell’imporre

l’insegnamento in francese o olandese in ragione della prevalenza di una di queste due

lingue nella regione considerata. I Giudici sostennero, infatti, che nei territori

tendenzialmente monolingue non sarebbe stata economicamente praticabile la scelta di

offrire diverse modalità di fruizione del diritto allo studio a seconda degli idiomi in

essi presenti13.

E il profilo delle scelte finanziariamente sostenibili – complice anche il diffuso

contesto di crisi che attanaglia l’Europa – non sembra oggi poter essere trascurato,

costituendo, ormai, un essenziale canone di ragionevole definizione delle politiche

pubbliche, al fine di predisporre strumenti di effettiva e realistica garanzia dei diritti

(per le generazioni presenti e future).

12 Corte europea dei diritti dell’uomo, Sent. 23 luglio 1968 (ric. n. 1474/62; 1677/62; 1691/62;

1769/63; 1994/63; 2126/64). 13 Più in generale, l’attenzione della Corte alla necessità delle Parti contraenti di ricercare un

ponderato contemperamento della tutela dei diritti con le risorse pubbliche disponibili è

confermata in altre decisioni: cfr., Campbell e Cosans c. Regno Unito, del 25 febbraio 1982, in cui la

soluzione comportante un maggior esborso finanziario per lo Stato viene accolta dalla Corte per

l’assenza di opzioni alternative, oppure, più di recente, sentenza 18 maggio 2010, Plalam S.p.a. c.

Italia, sentenza 2 aprile 2013, Tarantino e altri c. Italia, (par. 44).

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3. Uguaglianza e diversità linguistica in Unione europea: un disegno di integrazione

ancora a metà

Il discorso che taglia trasversalmente le pronunce della Corte di Giustizia passate

in rassegna è sorretto dall’idea che la tutela delle minoranze linguistiche non può

tradursi in una situazione di privilegio che si esaurisce nelle formazioni etnico-culturali

preservate da uno Stato, e nemmeno può comprimere la sfera dei diritti derivanti dalla

cittadinanza europea.

Come dimostra anche il caso Roman Angonese v. Cassa di Risparmio14), l’approccio

della giurisprudenza sovranazionale è quello di chiedere agli Stati di bilanciare

secondo criteri di ragionevolezza istanze di diversificazione e inderogabili esigenze di

uniformità, affinché le misure destinate alla salvaguardia di situazioni linguistiche

minoritarie non siano, a loro volta, causa di arbitrarie discriminazioni a contrario

all’interno dell’Unione.

Occasione di ‘conflitto’ fra uguaglianza e tutela delle differenze fu, nella

fattispecie, il c.d. “patentino” di bilinguismo (italiano/tedesco) rilasciato dalle autorità

di Bolzano e necessario per partecipare alle selezioni per determinati impieghi.

L’obbligo di certificare la qualifica richiesta solo con la documentazione fornita, previo

esame, da amministrazioni pubbliche locali, quale meccanismo preferenziale di

identità linguistiche caratterizzanti specifiche comunità interne agli Stati membri,

venne considerato sproporzionato rispetto allo scopo perseguito.

Per la Corte, infatti, l’impossibilità di provare i titoli di ammissione ad una

procedura valutativa per l’accesso all’impiego attraverso attestazioni equivalenti crea

uno svantaggio alle persone non residenti nell’ente locale interessato, consistente nella

concreta difficoltà ad acquisire la certificazione in oggetto e, di riflesso, in minori

opportunità di concorrere per un posto di lavoro. Il che si traduce, di fatto, in una

14 Corte di Giustizia, 6 giugno 2000, causa C-281/98.

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inammissibile discriminazione sulla base della cittadinanza15 destinata a riverberarsi,

ancora una volta, sul principio della libera circolazione16.

Anche oggi, dalla sentenza Ulrike Elfriede Grauel Rüffer v. Katerina Pokorná si evince

che non è cambiato l’atteggiamento dei giudici europei: la tutela delle minoranze

linguistiche è ancora un affare degli Stati, come confermato dalla preoccupazione che i

“diritti speciali” riconosciuti dagli ordinamenti nazionali ai propri gruppi minoritari

non interferiscano con le posizioni giuridiche soggettive e gli interessi tutelati

dall’Unione.

Rimane, invece, ancora in ombra, o solo ‘abbozzata’, la prospettiva della

salvaguardia di queste (e di altre) minoranze nel diritto europeo.

Eppure le potenzialità di sviluppo di questo percorso non sono, in realtà, mancate

e trovano rinnovato impulso nel nuovo Trattato.

Che la questione minoritaria sia da tempo ‘dentro’ l’acquis communautaire si

percepisce chiaramente nei criteri (politici) ai quali il Consiglio di Copenaghen del 1993

ha subordinato l’allargamento dell’Unione17. Ora, poi, una base giuridica di diritto

primario può sostenere un ruolo ‘attivo’ dell’Unione in tale ambito.

La stagione europea inaugurata a Lisbona sembra portare con sé un’accresciuta

sensibilità per la protezione delle minoranze, inclusa fra gli obiettivi di cui all’art. 2

15 Si conferma nella pronuncia che il divieto di disparità in ambito lavorativo opera, sia nel

settore pubblico sia in quello privato, con riguardo all’accesso all’occupazione, alla retribuzione

e alle altre condizioni di lavoro. 16 La causa origina dal ricorso al Pretore di Bolzano che un cittadino italiano di lingua materna

tedesca, residente in Italia nella Provincia di Bolzano, promuove a seguito della partecipazione

al concorso per l’assunzione ad un posto di lavoro presso la Cassa di Risparmio di Bolzano. Il

Sig. Angonese, dopo aver trascorso in Austria un periodo di perfezionamento dei propri studi

fra il 1993 e il 1997, torna in Italia e, nell’agosto del 1997, si candida alle selezioni indette

dall’istituto bancario, dalle quali però viene escluso per non aver prodotto (come richiesto dal

bando) il certificato di bilinguismo (italiano-tedesco) rilasciato dalle autorità locali. Il candidato,

perfettamente bilingue, si rivolge all’autorità giudiziaria per chiedere che detta clausola sia

dichiarata illegittima, essendosi visto rifiutare i titoli equipollenti allegati ai fini dell’ammissione

al concorso: il diploma di maturità per geometri, i certificati attestanti studi linguistici in

inglese, sloveno e polacco, compiuti presso la Facoltà di filosofia dell’Università di Vienna, e la

dichiarazione secondo cui tra le sue esperienze lavorative figurava l’esercizio delle attività di

geometra e di traduttore dal polacco in italiano.

In tal sede, il Pretore di Bolzano solleva rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia affinché ne

verifichi la compatibilità con il principio comunitario della libera circolazione dei lavoratori. 17 V. F. PALERMO, J. WOELK, Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze, II ed.,

Padova, Cedam, 2011, p. 112 ss.

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TUE, in aggiunta ai richiami all’eguaglianza e alla promozione delle differenze

contenuti nella Carta dei diritti (artt. 21 e 22).

In tale ottica, quindi, sul versante delle specifiche competenze dell’Unione,

possono oggi interpretarsi i poteri che i Trattati (già a partire da Amsterdam (art. 13

TCE)) attribuiscono al Consiglio per rimuovere, anche mediante azioni positive, le

disparità di trattamento in relazione all’origine etnica (art. 19 TFUE).

L’impianto assiologico e strutturale del sistema UE non esclude, in sostanza,

un’azione di difesa e di valorizzazione delle minoranze da parte delle Istituzioni

europee. Tuttavia, fino ad ora, queste si sono fermate a verificare che le tutele nazionali

non pregiudichino esigenze e libertà sancite al livello comunitario.

Forse è solo mancata l’occasione per andare oltre. Di certo, però, un esplicito

indirizzo di riconoscimento sovranazionale del fenomeno minoritario, come elemento

caratterizzante non solo la realtà degli Stati ma anche quella dell’Europa unita, non

sembra poter minare l’impronta universale dei diritti europei e tanto meno ‘indebolire’

lo status dei cittadini dell’Unione18.

Il completamento del percorso di tutela delle minoranze in ambito comunitario

(anche con interventi di carattere positivo) può, al contrario, arricchire il disegno di

integrazione delle diversità e delle conoscenze, con un positivo impatto sulla coesione

sociale, sulla promozione del patrimonio culturale e sull’innovazione nella dimensione

europea.

18 Anche in un parere del Comitato delle Regioni compare l’“auspic[io] (…) che cresca la

consapevolezza in Commissione e Consiglio sulla necessità che una base giuridica rafforzata

consenta di avere una politica specifica, opportunamente finanziata, a favore delle minoranze

linguistiche” (cfr. Parere del Comitato delle regioni «La protezione e lo sviluppo delle minoranze

linguistiche storiche nel quadro del trattato di Lisbona», in GUCE, C 259, del 2 settembre 2011, p. 31–

33).