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Direttore: DENIS UGOLINI NUMERO 2 - OTTOBRE 2016 Pag. 2 - Contenuti non condivisi Vincitori elettorali ma non una classe dirigente Davide Giacalone Pag. 3 -Diciamo sì al futuro Sandro Gozi Pag. 4/5 - La lunga campagna referendaria Tra le ragioni costituzionali e il conflitto politico Giuseppe Ayala Pag. 6/7 - Tra gli effetti dell’Italicum e riforma costituzionale Verso un superpresidenzialismo senza contrappesi Luigi Tivelli Pag. 8 - Rischiosa per il Paese Stefano Spinelli Pag. 9 - Un decalogo per il no Riccardo Caporali Pag. 10 - Il no per la decadenza politica ed istituzionale Riccardo Bruno Pag. 11 - Uno Stato “light” per le imprese Corrado Augusto Patrignani Pag. 12 - Avviare un processo riformatore Denis Ugolini Pag. 13 - La fine dei patàca Giampiero Teodorani Pag. 14/15 - Perdita del localismo delle banche Impoverimento del territorio Paolo Morelli Pag. 16/17 - Banca scippata Fondazione indebolita Denis Ugolini Pag. 18 - Quale Fondazione Carisp Cesena? Guido Pedrelli Pag. 19 - Il ragionare di sviluppo all’epoca del “venir meno” Stefano Bernacci Pag. 20 - Sistema sanitario sottosistema di quello economico Tommaso Marcatelli Pag. 21 - Perchè un nuovo ospedale a Cesena Paolo Lucchi Pag. 22/23 - Opportunità di rilievo Dentro Area Vasta Romagna Pag. 24 - Welfare. Contesto Economico. Responsabilità personale Stefano Mancini Pag. 25 - Cesena futura? Dalla politica le giuste risposte Giampiero Teodorani Pag. 26 - Quanto vale una vita? Guido Pedrelli Pag. 27 - Cure palliative. Terapia del dolore Marco Maltoni Pag. 28 - Dal corpo dei malati al cuore della politica Paolo Mattei Pag. 29 - Funere mersit acerbo Luca Ferrini Pag. 30 - Testamento biologico e “beatitudini” laiche Gabriele Papi Pag. 31 - Voto “NO” alla città brutta Oralndo Piraccini Pag. 32 - Opere d’arte e storia Alessandro Savelli Pag. 33 - Rockin 1000 Luigi Di Placido Pag. 33 - San Giovanni, festa del Patrono o del caos? Lella Turci Pag. 34 - Dialogo in ascolto leale della “ragione” Piero Altieri Pag. 35 - Giorgio Ceredi una memoria storica Denis Ugolini Pag. 36 - Viva l’Europa Viva Davide Giacalone Da oltre trent’anni, l’esigenza di una riforma della nostra Costituzione è interna al dibattito politico ed istituzionale. Varie Bicamerali non hanno raggiunto lo scopo. Nel ’96, dopo la caduta del governo Dini, il tentativo Maccanico, purtroppo fallito, era incentrato sull’obiettivo di disegnare una rinnovata forma di governo. Da sinistra a destra pareva non mancassero i punti di incontro perfino su ipotesi assai vicine al sistema francese. Tentativo fallito. Nuova legislatura e Bicamerale D’Alema. Altra fine senza risultato. Ci vorrebbe una Assemblea costituente. Ma la nostra attuale politica è decisamente incapace di una tale responsabilità e di un tale impegno. Nel frattempo qualche cambiamento è avvenuto: episodico, scoordinato. Il centrodestra aveva prodotto una proposta di riforma; al refe- rendum fu bocciata. Il centrosinistra promosse la riforma del titolo V° della Costituzione. Questa passò e ha determinato guai e pro- blemi. Paralisi; costi enormi. Anche questo ad alimentare un già forte discredito della politica. La crisi economica e sociale impazza e perdura. La crisi finanziaria e del credito si aggrava. Se ne occupa in particolare una Banca d’Italia che non è più quell’unica Istituzione alla quale potevamo guardare, con una certa fiducia. Quando occorre mettere mano alla modifica costituzionale c’è sempre chi ritiene che altri sono i problemi che dobbiamo affrontare. Eppur qualcosa si riesce a fare e al governo Renzi taluni rico- noscimenti non si possono negare. Il resto spara a zero su quasi tutto. L’anti politica sta crescendo e deflagra. Tutti incazzati. E non ne mancano i motivi. Statisti ce sono stati, ma adesso sono in disuso. È tempo di comici e di bulli; di talk show a chi urla di più, di vaffa mitragliati; una grande pro- fusione di populismo. I partiti sono scomparsi. In un modo tutto diverso dai suoi predecessori, c’è il Pd. Forza Italia, il centrodestra, non si assestano anzi si spappolano. La lega è sempre più incarognita. I grillini crescono, mandano vaffa in ogni direzione. I nuovi puri moralisti. Critiche e condanne. Niente soluzioni. Chi urla e chi disprezza di più. Cambiare e basta. Cosa sarà? È e sarà quel che si vede e si comincia anche a misurare e non c’è da stare tranquilli. Ma le sbornie non passano in un minuto, specie se nel frattempo si continua a bere. Dopo le ultime elezioni ancora con il porcellum c’è un tripolarismo al posto del bipolarismo. Grillini in spolvero. Parlamento squilibratissimo. Cultura poli- tica? Senso delle istituzioni? Responsabilità? Sembrano reperti archeologici del passato. Ma siamo in Europa; il funzionamento delle nostre istituzioni deve essere migliorato. Non si riesce perfino ad eleggere un nuovo Presidente della Repubblica. Si implora Napolitano perché si lasci confermare. Va bene purché si proceda alla riforma della Costituzione (fra cui non più bicameralismo paritario; non più quel pessimo titolo v°; rinnovo centralità dello stato; solo la Camera da la fiducia al governo; riduzione dei par- lamentari, abolizione delle Provincie e del Cnel; nuove regole per referendum e leggi di iniziativa popolare.) Sulla riforma del governo, il lavoro delle diverse letture e correzioni fra le due Camere. Ancor prima il patto del Nazareno fra la sinistra e la destra: approda all’italicum, la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati dando scontato che il Senato come era non ci sarà più. Adesso questa è la legge che si deve cambiare perché è lo snodo (per molti) che rende perfino democratica o meno la riforma che si deve votare al referendum. Si parla più di questa che non della riforma in sé. Io spero che questa legge cambi perché è davvero brutta. E continuo anche a chiedermi perché si insiste a voler cercare la scorciatoia di soluzioni per una rinnovata forma di governo attraverso leggi ordinarie inerenti il sistema elettorale. Senza dire cosa in realtà sta diventando questo referendum. Chi sta con Renzi e chi sta contro. Per migliaia di ragioni questo secondo elenco dovrebbe essere spropositatamente superiore. Ma il conten- dere non è questo per quanto molti, a co- minciare da Renzi, non abbiano fatto e non stiano facendo poco a che così rimanga. Energie Nuove da anni affronta e discute di questi problemi. Sono fondamentali. E lo abbiamo fatto e lo facciamo confrontando le diverse posizioni. Anche questo numero in vista del referendum. Perché vogliamo ribadire e sottolineare l’importanza di tali questioni. Per il presente e per il futuro di questo paese. Perché sia dedicata una atten- zione appropriata oltre le partigianerie di varia natura a favore o contro Renzi e il suo governo. La mia personalissima scelta, che qui voglio rendere evidente, è perché il processo di riforma costituzionale avviato non sia interrotto e bloccato. Che possa con- tinuare. Questa riforma deve essere un avvio, non una soluzione da ritenersi esaustiva e definitiva. Deve essere corretta, migliorata, andare oltre, fino alla definizione di una adeguata e moderna nuova forma di governo in un quadro solido e preciso di pesi e con- trappesi democratici essenziali. A cui far seguire un coerente sistema elettorale. Adesso conta, secondo me, che si proceda. Per questo voterò SI al referendum. Il mio SI al referendum

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Direttore: DENIS UGOLINI

NUMERO 2 - OTTOBRE 2016

Pag. 2 - Contenuti non condivisiVincitori elettorali ma non una classedirigenteDavide GiacalonePag. 3 -Diciamo sì al futuroSandro GoziPag. 4/5 - La lunga campagna referendariaTra le ragioni costituzionali e il conflittopoliticoGiuseppe AyalaPag. 6/7 - Tra gli effetti dell’Italicum eriforma costituzionaleVerso un superpresidenzialismo senzacontrappesiLuigi TivelliPag. 8 - Rischiosa per il PaeseStefano SpinelliPag. 9 - Un decalogo per il noRiccardo CaporaliPag. 10 - Il no per la decadenza politica edistituzionaleRiccardo BrunoPag. 11 - Uno Stato “light” per le impreseCorrado Augusto PatrignaniPag. 12 - Avviare un processo riformatoreDenis UgoliniPag. 13 - La fine dei patàcaGiampiero TeodoraniPag. 14/15 - Perdita del localismo dellebancheImpoverimento del territorioPaolo MorelliPag. 16/17 - Banca scippataFondazione indebolitaDenis UgoliniPag. 18 - Quale Fondazione Carisp Cesena?Guido PedrelliPag. 19 - Il ragionare di sviluppo all’epocadel “venir meno”Stefano BernacciPag. 20 - Sistema sanitario sottosistema diquello economicoTommaso MarcatelliPag. 21 - Perchè un nuovo ospedale aCesenaPaolo LucchiPag. 22/23 - Opportunità di rilievoDentro Area Vasta RomagnaPag. 24 - Welfare. Contesto Economico.Responsabilità personaleStefano ManciniPag. 25 - Cesena futura? Dalla politica legiuste risposteGiampiero TeodoraniPag. 26 - Quanto vale una vita?Guido PedrelliPag. 27 - Cure palliative. Terapia del doloreMarco MaltoniPag. 28 - Dal corpo dei malati al cuore dellapoliticaPaolo MatteiPag. 29 - Funere mersit acerboLuca FerriniPag. 30 - Testamento biologico e“beatitudini” laicheGabriele PapiPag. 31 - Voto “NO” alla città bruttaOralndo PiracciniPag. 32 - Opere d’arte e storiaAlessandro SavelliPag. 33 - Rockin 1000Luigi Di PlacidoPag. 33 - San Giovanni, festa del Patrono odel caos?Lella TurciPag. 34 - Dialogo in ascolto leale della“ragione”Piero AltieriPag. 35 - Giorgio Ceredi una memoriastoricaDenis UgoliniPag. 36 - Viva l’Europa VivaDavide Giacalone

Da oltre trent’anni, l’esigenza di una riformadella nostra Costituzione è interna al dibattitopolitico ed istituzionale. Varie Bicameralinon hanno raggiunto lo scopo. Nel ’96, dopola caduta del governo Dini, il tentativoMaccanico, purtroppo fallito, era incentratosull’obiettivo di disegnare una rinnovataforma di governo. Da sinistra a destra parevanon mancassero i punti di incontro perfinosu ipotesi assai vicine al sistema francese.Tentativo fallito.Nuova legislatura e Bicamerale D’Alema.Altra fine senza risultato. Ci vorrebbe unaAssemblea costituente. Ma la nostra attualepolitica è decisamente incapace di una taleresponsabilità e di un tale impegno. Nelfrattempo qualche cambiamento è avvenuto:episodico, scoordinato. Il centrodestra avevaprodotto una proposta di riforma; al refe-rendum fu bocciata. Il centrosinistra promossela riforma del titolo V° della Costituzione.Questa passò e ha determinato guai e pro-blemi. Paralisi; costi enormi. Anche questoad alimentare un già forte discredito dellapolitica. La crisi economica e sociale impazzae perdura. La crisi finanziaria e del creditosi aggrava. Se ne occupa in particolare unaBanca d’Italia che non è più quell’unicaIstituzione alla quale potevamo guardare,con una certa fiducia. Quando occorremettere mano alla modifica costituzionalec’è sempre chi ritiene che altri sono i problemiche dobbiamo affrontare. Eppur qualcosa siriesce a fare e al governo Renzi taluni rico-noscimenti non si possono negare. Il restospara a zero su quasi tutto. L’anti politicasta crescendo e deflagra. Tutti incazzati. Enon ne mancano i motivi. Statisti ce sonostati, ma adesso sono in disuso. È tempo dicomici e di bulli; di talk show a chi urla dipiù, di vaffa mitragliati; una grande pro-fusione di populismo. I partiti sono scomparsi.In un modo tutto diverso dai suoi predecessori,c’è il Pd. Forza Italia, il centrodestra, nonsi assestano anzi si spappolano. La lega èsempre più incarognita. I grillini crescono,mandano vaffa in ogni direzione. I nuovi purimoralisti. Critiche e condanne.Niente soluzioni. Chi urla e chi disprezza dipiù. Cambiare e basta. Cosa sarà? È e saràquel che si vede e si comincia anche amisurare e non c’è da stare tranquilli. Ma lesbornie non passano in un minuto, specie senel frattempo si continua a bere. Dopo leultime elezioni ancora con il porcellum c’èun tripolarismo al posto del bipolarismo.Grillini in spolvero.Parlamento squilibratissimo. Cultura poli-tica? Senso delle istituzioni? Responsabilità?Sembrano reperti archeologici del passato.Ma siamo in Europa; il funzionamento delle

nostre istituzioni deve essere migliorato. Nonsi riesce perfino ad eleggere un nuovoPresidente della Repubblica. Si imploraNapolitano perché si lasci confermare. Vabene purché si proceda alla riforma dellaCostituzione (fra cui non più bicameralismoparitario; non più quel pessimo titolo v°;rinnovo centralità dello stato; solo la Camerada la fiducia al governo; riduzione dei par-lamentari, abolizione delle Provincie e delCnel; nuove regole per referendum e leggidi iniziativa popolare.) Sulla riforma delgoverno, il lavoro delle diverse letture ecorrezioni fra le due Camere. Ancor primail patto del Nazareno fra la sinistra e ladestra: approda all’italicum, la nuova leggeelettorale per la Camera dei deputati dandoscontato che il Senato come era non ci saràpiù.Adesso questa è la legge che si deve cambiareperché è lo snodo (per molti) che rendeperfino democratica o meno la riforma chesi deve votare al referendum. Si parla più diquesta che non della riforma in sé. Io speroche questa legge cambi perché è davverobrutta. E continuo anche a chiedermi perchési insiste a voler cercare la scorciatoia disoluzioni per una rinnovata forma di governoattraverso leggi ordinarie inerenti il sistemaelettorale. Senza dire cosa in realtà stadiventando questo referendum. Chi sta conRenzi e chi sta contro. Per migliaia di ragioniquesto secondo elenco dovrebbe esserespropositatamente superiore. Ma il conten-dere non è questo per quanto molti, a co-minciare da Renzi, non abbiano fatto e nonstiano facendo poco a che così rimanga.Energie Nuove da anni affronta e discute diquesti problemi. Sono fondamentali. E loabbiamo fatto e lo facciamo confrontando lediverse posizioni. Anche questo numero invista del referendum. Perché vogliamoribadire e sottolineare l’importanza di taliquestioni. Per il presente e per il futuro diquesto paese. Perché sia dedicata una atten-zione appropriata oltre le partigianerie divaria natura a favore o contro Renzi e il suogoverno. La mia personalissima scelta, chequi voglio rendere evidente, è perché ilprocesso di riforma costituzionale avviatonon sia interrotto e bloccato. Che possa con-tinuare. Questa riforma deve essere un avvio,non una soluzione da ritenersi esaustiva edefinitiva. Deve essere corretta, migliorata,andare oltre, fino alla definizione di unaadeguata e moderna nuova forma di governoin un quadro solido e preciso di pesi e con-trappesi democratici essenziali. A cui farseguire un coerente sistema elettorale. Adessoconta, secondo me, che si proceda. Per questovoterò SI al referendum.

Il mio SI al referendum

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La gara referendaria sarà a chiperde di più. Nel momento in cuiscrivo (fine settembre) i sondaggidanno in vantaggio il No. Credodipenda in gran parte dal fattoche, fin qui, hanno parlato quasisolo quelli del Sì: più parlano epiù perdono. La campagna refe-rendaria darà visibilità anche aglialtri, riequilibrando le sorti.Vedremo come andrà a finire, maho l’impressione che pochivoteranno sulla base dei contenutidella riforma, apprezzandoli o,come me, non condividendoli. I

più voteranno contro la supponenza del fronte governativo ocontro il caos delle opposizioni. Nelle urne, insomma, si risponderàa un quesito che sulla scheda non c’è. Il pericolo, però, è un altro.Una manata d’incoscienti crede sia utile drammatizzare quel-l’appuntamento. Passata la fase in cui Matteo Renzi accoppiavala sconfitta al referendum con il suo ritiro dalla scena politica,appurato che la cosa suscitava più brama che ripulsa, ora negaanche solo l’ipotesi minimale delle dimissioni. Laddove è solareche si dovrà dimettere, nel caso perda. Il Quirinale, del resto, haorganizzato le cose in modo da evitare squilibri, chiedendo chela legge di stabilità sia prima approvata, almeno da un ramo delParlamento. Passata quella fase, comunque, una parte significativadel fronte del No s’è messa a sostenere che una conferma dellariforma costituzionale (delle riforme, per la verità, perché sonotante, diverse e solo il cielo sa come si possa rispondere con unsolo assenso o dissenso) equivarrebbe alla fine della democrazia

e l’avvento dell’autoritarismo. Per tutta risposta il fronte del Sìha preso a sostenere che se la riforma fosse bocciata sia le“cancellerie” europee (fa tanto fico, chiamarle così, benché nonabbia senso) che i “mercati” (altra denominazione di dubbiosignificato) ne dedurrebbero che l’Italia è inaffidabile e destinataal caos. Sono degli incoscienti. Entrambi.Prima o dopo arriverà il giorno dopo. Se vincerà il Sì non ci saràalcuna dittatura. Semmai prevedo l’apertura di una stagione ancorpiù trasformistica della presente, con transumanze parlamentarida far impallidire la memoria di Agostino De Pretis. Se vinceràil No non ci sarà alcun caos, perché saremo quel che siamo,ponendo solo fine a una stagione in cui la spocchia è stata pariall’approssimazione e al rinnovato gusto clientelare, di anticamarca democristiana. In tutti i casi i nostri problemi sono dati daun debito pubblico troppo alto, dall’incapacità di tagliare la spesapubblica corrente, dal non sapere riordinare, razionalizzare ediminuire le società pubbliche, dal non sapere trovare la via cheriporti al lavoro un esercito di esclusi (abbiamo un tasso dioccupazione bassissimo, riflesso e causa di produttività calantee scivolamento crescente). Cresciamo la metà degli altri paesieuropei, quando si sale, precipitiamo il doppio, quando si scende.Questo è il nostro problema.Se avessimo un Parlamento che nonriesce a fare le leggi si potrebbe anche supporre che un esito ol’altro cambi qualche cosa, ma siccome ne abbiamo uno che nefa troppe, di leggi, il responso delle urne sarà pregno di significatiper la prosopopea dei duellanti, ma vacante di effetti per gliamministrati. Gonfiare le attese e descriverle come apocalitticheè una politica che non so quanti voti porti (credo pochi assai,forse neanche uno), ma porta male a tutti. La mente delle personeserie sta già pensando al giorno dopo. Solo la mente di chi campadi politica suppone che quel voto sia fatale.

di Davide Giacalone

Si apprezza meglio Roma, se la si guarda da Torino. I topi nonsono arrivati a Roma con il sindaco Raggi, ma neanche se nesono andati, sol nel vederla ascendere al Campidoglio. Ci vuolefantasia per supporre che in capo a quel sindaco, o alla sua giunta,vi siano delle responsabilità, come ce ne vuole per assegnar lorodei meriti. Ancora neanche hanno cominciato, essendo per lopiù assorbiti dalla trionfale, ma assai difficoltosa nascita. Però,ecco, fa un certo effetto vedere annunciare nelle prime paginele loro crisi, manco fosse cascato un governo, laddove (almenoper ora) non è cascata neanche una giunta. Fa effetto misurarela non larvata soddisfazione: eccoli, hanno fatto cilecca. Il tuttoper cercare di non dire quel che a me pare solare: questo sindaco,questo tipo di giunta, questa inesistenza del governo municipale,è quel che gli elettori vollero. Il che non riguarda solo Roma.La capitale è oggi in mano a vincitori elettorali che non sonouna classe dirigente e hanno idee confuse sul cosa e come fare.Non è una questione che riguarda specificamente gli ortotteri,tanto più che in altre città, come Torino, le cose vanno assaidiversamente. Diciamo che la disintermediazione dei partiti,tanto detestata, porta in superficie realtà che diventano dominanti.A Torino conta l’essersi formati lavorando a fianco alla casareggente, benché non regnante, a Roma l’avere navigato nelgenerone. Roma è così perché quello è stato il senso del voto:via tutti, avanti gli incompetenti. La vittoria di Raggi è statatravolgente perché gli altri, a torto o a ragione, e molto più aragione che a torto, erano già stati travolti dal discredito. Gli

elettori romani hanno voluto, a furor di popolo, far fuori lapolitica. Si sono rifiutati di anche solo ascoltare chi sostenevadi avere qualche cosa da dire. Hanno scelto la via dell’azzeramento.Bon, lo zero è effettivamente quel che si ritrovano in cattedra.Ma è sciocco assai pretendere di prendersela con il sindaco, ocon il partito che l’ha candidata. Mica nascondevano la loronatura, anzi la esaltavano e reclamizzavano, ben sapendo cheera quel che il mercato elettorale chiedeva. Né mi pare che abbiafondamento il senso di rivalsa che si legge in certi commenti: sesono riusciti a farsi sconfiggere dal nulla è segno che nellacompetizione avevano messo meno di nulla.Proviamo a trarne una lezione: non parteggio per questi o quelli,non credo che esistano rivincite, ma ho idea che si debba tornarealla noia. Varrà la pena provare a studiare i problemi e star adascoltare se chi si candida a governarli ha delle idee o solo quattrocretinate buttate lì per compiacer la plebe. E mica vale solo perRoma. E mica vale solo per chi fa politica. Vale anche per ilresto e per chi fa informazione, come per chi viene informato evota (o non vota, ovvero vota il non votare). Se ci si deveesprimere sempre in trenta secondi andremo avanti con genteche vuole uscire dall’Europa, dall’euro, dal debito, dalle catastrofi.Fino a uscire di testa. Sempre alla ricerca di un colpevole morale,tramandando l’immoralità dell’incapacità.A Roma gli elettori hanno ottenuto quel che volevano. Sarà ilcaso che lo osservino attentamente. Come sarà il caso che tuttisi presti attenzione. Magari per esserne felici. Oppure per imparare.

di Davide Giacalone

Riforma Costituzionale

Contenuti non condivisi

Roma

Vincitori elettorali ma non una classe dirigente

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Per discutere e confrontarci sulReferendum Costituzionaleoccorre prima di tutto capiredi cosa stiamo parlando e sucosa saremo chiamati a votare.Partiamo dal quesito allora. Gliitaliani che si recheranno alleurne troveranno una schedacon la seguente domanda: “Ap-provate il testo della legge co-stituzionale concernente dispo-sizioni per il superamento delbicameralismo paritario, lariduzione del numero dei parla-

mentari, il contenimento dei costi di funzionamento delleistituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione deltitolo V della parte II della Costituzione?”.Su questo saremo chiamati a esprimerci con un sì o con unno. Su questo e non su altro. Siete dei sostenitori del No?Benissimo: spiegateci perché volete mantenere ilbicameralismo paritario con 315 senatori; spiegateci perché,a vostro avviso, non va modificato il rapporto Stato-Regioniche da anni monopolizza l'attività della Corte Costituzionale(1500 ricorsi dal 2001 a oggi); spiegateci l'utilità del CNEL.È su questo che si voterà. Non sull'Italicum, non sullariforma della scuola, non sul Jobs Act. E tanto meno sulfuturo del Presidente del Consiglio.Parliamo della Costituzione, allora. Senza polemiche sterilio fin troppo facili strumentalizzazioni. Sul referendumcostituzionale è ora di parlare di contenuti, dati, motivazionireali. E’ il momento di soppesare i pro e i contro di uncambiamento storico, necessario e che attendiamo da troppotempo. Senza dubbio qualsiasi referendum è influenzatodal contesto. Ma attenzione. È sul testo della riforma chevotiamo e che ci giochiamo una democrazia, un Paese e unfuturo migliori. Stare al testo, al merito per rispetto di unvero Stato democratico e per garantire un vero diritto aconoscere le ragioni del SI e del NO. Mi batto per una discussione sincera, se vogliamo ancheaspra, ma sul merito. Perché sono convinto che più dibattiamodi questo più si comprende che le ragioni del SI sonooggettivamente più valide, utili e condivisibili. Dobbiamochiederci se sia più saggio fare qualcosa di concreto perdimezzare i tempi della politica e soprattutto migliorare laqualità delle leggi o continuare ad attendere tempi bibliciper l’approvazione di provvedimenti spesso illeggibili acausa dell’inutile ping-pong tra Camera e Senato. Se siapiù economico, anche per le tasche di tutti i cittadini, ridurrei poteri delle Regioni e chiarire chi fa cosa tra Stato eRegioni oppure lasciare che tutto rimanga com’è, cioètroppo complesso, troppo costoso, poco efficace. Se sia piùutile ridurre di conseguenza il numero dei politici, passandoda 945 a 730, con un risparmio di 500 milioni di euroall'anno, o lasciare tutto così com’è e cioè con una democraziacon troppi politici. In Italia ci sono 60 milioni di abitantie quasi mille parlamentari, uno ogni 63mila cittadini. InIndia, la più grande democrazia del mondo, ci sono 1miliardo e 276 milioni di abitanti e 790 parlamentari: unoogni 1.6 milioni di cittadini. In Cina, paese più popolosoal mondo, i parlamentari sono tremila, ma per 1,3 miliardidi abitanti: uno ogni 458mila.

È una riforma che attendiamo da trent'anni. Dalla Com-missione De Mita-Jotti alla Bicamerale, passando per i variprogetti e i tentativi falliti. Questo è un treno che difficilmenteripasserà a breve e nel caso di vittoria del NO dovremo ras-segnarci ad un gattopardesco status quo, avvilupparci peraltri trent’anni nelle polemiche solite e utili solo a chi miraa prender tempo e a perder tempo. Questo invece è il nostrotempo. Il tempo del cambiamento. Che sulle prime può forsepreoccupare ma che poi convince, coinvolge ed emoziona.Perché parliamo del futuro nostro e dei nostri figli. Una bellanovità per un Paese che dibatte di riforme costituzionali daalmeno trent’anni. E che sinora ha cambiato tantissimigoverni per rimanere sempre lo stesso, ha cambiato tantissimisimboli di partito con dirigenti che rimanevano sempre glistessi. E tutto questo mentre l’Europa cresceva e il mondocambiava con nuovi protagonisti. Sì, l’Italia ha anche bisognodi stabilità dei governi e la nostra riforma lo garantisce. Eha bisogno di continuare a cambiare, perché dobbiamorecuperare il terreno perduto. Si poteva fare meglio? Puòdarsi. Ma ricordiamoci anche che siamo arrivati a questopunto oggi dopo 6 letture parlamentari, 84 milioni diemendamenti e 121 modifiche. Abbiamo lavorato e tanto.Abbiamo discusso, condiviso, corretto il tiro ogni volta cheve ne era la necessità. Adesso tocca ai cittadini decidere,come è giusto che sia e come abbiamo voluto che fosse. Aicittadini la scelta di cedere o meno alle sirene dei facilislogan e dei signornò per professione.Alcuni poi denunciano il rischio di dare tutto il potere aduna sola persona e poi lamentano l’assenza di poteri dinomina e revoca dei ministri per il Presidente del Consiglioo la mancanza della sfiducia costruttiva. Beh decidetevi: c’èeccesso di potere o no? Perché non ci si può lamentare delladeriva autoritaria la mattina e dell’assenza di poteri la sera.E a chi sostiene che questo Parlamento non ha la legittimitàper fare una riforma costituzionale rispondiamo che ladecisione di lavorare alle riforme è la naturale conseguenzadella rielezione di Napolitano. Quando tantissimi parlamentarianche dell’attuale opposizione si spellavano le mani almomento del discorso pronunciato da Napolitano in occasionedella sua rielezione applaudivano all’invito pressante delPresidente a riformare la Costituzione (e a cambiare la leggeelettorale dato che era ancora in vigore la porcata diCalderoli…).Con questo atto di responsabilità, con questo impegnocollettivo assunto dal Parlamento davanti al Paese unalegislatura nata morta è diventata la legislatura delle riforme.E ora i cittadini decidono sulla riforma fondamentale. Noisiamo determinati, convinti delle ragioni del SI e dellacoerenza con gli impegni e le posizioni che le varie forzedel centrosinistra hanno assunto in passato, direi almeno daldiscorso di Nilde Jotti del…1976 ai giorni nostri…Ma chiediamoci: se dovesse vincere il NO? Altro che 6 mesiper una riforma diversa…! Aspetteremo almeno altri 30 anniper dare corpo alla parola “cambiamento”. No. Il nostroPaese ha aspettato troppo tempo. Ha già perso troppeoccasioni. Si è già perso troppe volte, prigionieri dei tatticismie dei tradimenti del microcosmo politico e mediatico romano.Non dobbiamo ripetere lo stesso errore, non giriamo le spalleal futuro: diciamogli SI e corriamogli incontro.

di Sandro Gozi*

*Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio deiMinistri con delega alle politiche europee

Referendum

Diciamo sì al futuro

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È partito, come previsto, iltormentone sul referendum chedovrà confermare, o bocciare,la riforma costituzionale re-centemente varata dal Par-lamento. Sarà un crescendodestinato a durare per mesi.Ci vorrà molta pazienza.Soprattutto per le castronerieche saremo costretti a sentireo leggere. Non mancano, però,critiche e perplessità meritevolidi rispetto. Queste sì che saran-

no utili a far maturare il nostro convincimento.Cominciamo a dare un primo sguardo alla galassia dei proe dei contro.Il cosiddetto fronte del No appare, ictu oculi, tanto agguerritoquanto disomogeneo. Basti pensare che ne fa parte ancheForza Italia che pure votò in una delle prime letture, altempo del Patto del Nazareno, il testo oggi definito “auto-ritario e illiberale”. Ma tant’è...La spiegazione risiede pale-semente nella trasposizionedell’esito del voto dalla suafinalità naturale a quella, tuttapolitica, relativa alla soprav-vivenza del Governo Renzi. Ilquale, non c’è dubbio, che sel’è cercata affermando che uneventuale successo del Nocomporterebbe la sua uscita daPalazzo Chigi o, forse, addi-rittura dalla politica.La prospettiva ha fatto venirel’acquolina in bocca agli an-tirenziani. Molti dei quali sisono riconosciuti nel seguenteragionamento (si fa per dire): non me ne fotte un bel nientedel merito della riforma, è la caduta di Renzi la vera priorità.Cosa vuoi che me ne importi se la bocciatura comporteràun salto indietro di settant’anni.Già questo, lo devo ammettere, mi condiziona molto e mispinge verso il Sì, tenuto conto delle alternative politicheche se ne potrebbero avvantaggiare. Solo per fare un esempio,rifletto sull’ultimo lapidario slogan elettorale di Salvini:“Libera la bestia che è in te!” Brrr! Riavutomi dai brividie recuperata la sana lucidità alla quale mi aggrappo neimomenti di difficoltà, provo a ragionare laicamente suicontenuti della riforma mettendo da parte la personaliz-zazione dell’esito referendario. Non vedo altra strada perchiarirmi meglio le idee.Il confronto tra i costituzionalisti.Partiamo dall’autorevole documento critico sottoscritto dauna cinquantina di noti costituzionalisti i quali, a scanso diequivoci, chiariscono innanzitutto di non essere “tra coloroche indicano questa riforma come l’anticamera di unostravolgimento totale dei principi della nostra Costituzionee di una sorta di nuovo autoritarismo”.

Ma si trovano, tuttavia, consenzienti nel valutare la riformacome “potenziale fonte di nuove disfunzioni al sistemaistituzionale e nell’appannamento di alcuni criteri portantidell’impianto e dello spirito della Costituzione”.Non mi addentro nel merito dei cinque punti che criticanoalcuni aspetti della riforma medesima. Primo, perché miconsidero un semplice artigiano del diritto destinato, inquanto tale, a viaggiare a una quota ben più bassa di quellache compete ai giuristi sottoscrittori del documento. Secondo,perché talune, non tutte, delle perplessità avanzate da questiultimi mi sento di condividerle, anche se non sino al puntoda indurmi a rifiutare nel suo complesso la riforma su cuisarò chiamato a esprimere il mio voto. Ne richiamo qualcuna.È chiaro che, per realizzare il tanto auspicato superamentodel c.d. bicameralismo perfetto, era necessario inventarsiun nuovo ruolo per il Senato. Fatta salva l’ipotesi di abolirlo,che forse sarebbe stata la scelta più intelligente, visto quantoprevisto dal testo della riforma sul punto. Riconosco che èalto il prezzo che siamo chiamati a pagare per ottenerel’archiviazione del bicameralismo paritario. Tuttavia,

malgrado l’esosità, a mio pare-re ne vale lo stesso la pena.Senza entrare nei dettagli,ritengo che una “aggiustatina”al nuovo Senato si potrà rea-lizzare.Come suggerito dal prof.Roberto Pin, lo si potrà fare acominciare dalla legge elet-torale, dal regolamento internoe dai rapporti con le Con-ferenze tutti ancora da scrivere.Se ben concepiti, questi inter-venti potranno contribuire ameglio definire la funzionalitàdel nuovo Senato sul pianodella rappresentanza dei ter-

ritori assegnatagli. Non tutto è perduto, insomma. Anchese è destinata a rimanere l’amarezza per la grossolanità deldisegno costituzionale voluto dal Parlamento. Non miconvince del tutto, poi, il temuto rischio di “incertezze econflitti” che conseguirebbe “alla pluralità di procedimentilegislativi differenziati a seconda delle diverse modalità diintervento del nuovo Senato”.Il nuovo testo dell’art. 70, al primo comma, fa infattiriferimento a leggi specifiche, il che dovrebbe bastare ascongiurare le incertezze e i conflitti temuti.Le altre previsioni di coinvolgimento del Senato nelprocedimento legislativo sono ispirate da una buona dosedi linearità. La stessa che emerge a proposito della possibilitàche il Senato possa richiamare qualsiasi disegno di leggeper valutarlo e proporre eventuali modifiche. Fermo restandoche l’altro ramo del Parlamento non incontrerà difficoltàalcuna nel superare le eventuali obiezioni mosse dal Senato.Altrettanto vale, ovviamente, per l’opposta ipotesi diaccoglimento delle stesse. La qualità del prodotto legislativo,anzi, risulterà rafforzata.

La lunga campagna referendariadi Giuseppe Ayala*

Riforma Costituzionale

So che non è facile darsene unaragione, ma non possiamo non

prendere atto che il tempo della politicache ci tocca vivere non ci consente discegliere il meglio, ma di contentarcidel meno peggio. Il Sì al referendum

consoliderà, perciò, un argine al peggio,con la consolazione del meno.Dissentire da questa realtà è

affascinante. Ma è, purtroppo, utopico.

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L’errore della riforma del titolo V del 2001C’è infine il tema del titolo V che dal 2001 attende di esseresalvato dall’infausta riforma subita, a strettissimamaggioranza, dall’allora maggioranza di centrosinistra.Ne facevo parte, l’ho votata e ancora non trovo pace.Io penso che il nuovo testo porrà, finalmente, fine all’enormecontenzioso tra Stato e Regioni, che ha letteralmente ingolfatol’attività della Corte costituzionale, con tutti i guasti e ritardiche ha comportato a danno, innanzitutto, dell’interesse deicittadini.L’“interesse nazionale” torna in cima alla piramide rispettoa quelli locali.Con un procedimento legislativo, però, diverso e peculiareper cui, fermo restando l’intervento del Senato, la Camerapotrà far prevalere il proprio diverso orientamento soltantoa maggioranza assoluta. Faccio, perciò, fatica a condividerel’assunto per cui “l’assetto regionale della Repubblicauscirebbe dalla riforma fortemente indebolito attraverso unriparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasiogni spazio di competenzalegislativa facendone organismiprivi di reale autonomia”. Chealcune delle competenze super-ficialmente inserite tra quelleconcorrenti dalla incauta ri-forma del 2001, dovesserotornare in esclusiva allo Statonon mi risulta abbia suscitatodubbio alcuno, anche in con-siderazione del sostanziale di-sinteresse manifestato in pro-posito dalle Regioni e al forteridimensionamento del testooriginario sancito dalla Cortecostituzionale. Tralascio ogniulteriore commento conte-nutistico per privilegiare alcuneconsiderazioni di caratteregenerale che, a mio parere, risultano più utili per maturareun giudizio favorevole in vista della prossima consultazionereferendaria.Che la riforma, come ho già detto, non sia immune da difettie limiti è poco, ma è sicuro.Si tratta di nient’altro che del frutto delle mediazioniparlamentari. Con uno sforzo di fantasia, immaginiamo chela Costituzione sia una sorta di pietanza da servire comepiatto forte alla tavola istituzionale.Orbene non esiste pietanza che possa essere cucinata eservita se non con i cuochi a disposizione. Cercando diutilizzare al meglio gli ingredienti. Intendo dire che i cuochiche confezionarono la nostra Carta costituzionale sichiamavano, tanto per citarne solo qualcuno, Meuccio Ruini,che presiedeva la commissione dei settantacinque Costituenti,Piero Calamandrei, Giovanni Porzio, Lelio Basso, AldoMoro, Gaspare Ambrosini, Giuseppe Maria Bettiol, GiovanniLeone etc. Un rapido accesso a Google chiarisce, per i nonaddetti ai lavori, meglio di ogni mia parola di chi stiamoparlando. Con un successivo accesso è possibile conoscere

i cuochi attuali, i legislatori di oggi, e coglierne la differenza.Superato lo shock, non si potrà non prendere atto che è daquesti ultimi che l’odierna pietanza è stata realizzata, népoteva essere altrimenti. Dobbiamo, perciò, fare di necessitàvirtù.Una forte ragione per il Sì: il superamento del bicameralismosimmetricoLa digestione risulterà di certo assai più difficoltosa rispettoa quella del 1946, ma non dovrebbe esserlo sino al puntoda spingerci al vomito per rifiutarla. Per frenare l’eventualeinsorgere di un conato, suggerisco di considerare l’aspettofondamentale del nuovo testo costituzionale, costituito dalsuperamento del c.d. “bicameralismo perfetto” che dasettant’anni caratterizza il nostro procedimento legislativo.La sua origine è più che giustificata sol che si pensi almomento storico in cui fu concepita. Con vent’anni difascismo alle spalle e con le elezioni del primo Parlamentorepubblicano non ancora convocate, le forze politichesaggiamente optarono per una “democrazia della

mediazione” piuttosto che peruna “democrazia della deci-sione”. L’ipertrofia parla-mentare apparve, insomma,l’unica chiave di volta applica-bile alla nuova costruzione. Innessuna democrazia occi-dentale è rinvenibile qualcosadi simile. È, perciò, tempo diadeguarci ai nostri alleati e ainostri competitori, tutti, chi piùchi meno, accomunati dalriconoscimento del primato del-la “democrazia della decisio-ne”. Ecco perché sostengo chel’eventuale vittoria del No alreferendum ci farà precipitareindietro nel tempo, addiritturaagli albori post-bellici. Altro

che terzo millennio. Né è ragionevolmente prevedibile chesi possa, chissà quando, gustare una pietanza più gustosa.Gli ingredienti, infatti, rimarranno più o meno gli stessi diquelli odierni. Se non peggiori. Anche questo varesponsabilmente considerato. So che non è facile darseneuna ragione, ma non possiamo non prendere atto che iltempo della politica che ci tocca vivere non ci consente discegliere il meglio, ma di contentarci del meno peggio. IlSì al referendum consoliderà, perciò, un argine al peggio,con la consolazione del meno. Dissentire da questa realtàè affascinante. Ma è, purtroppo, utopico. Rassegniamoci.Non merita, infine, altro che un breve accenno la sor-prendente proposta di procedere ad uno “spacchettamento”dei quesiti referendari per omogeneità di materia. Non sirinvengono precedenti anche se analoghe occasioni nonsono di certo mancate. Rileggendo con attenzione il testodell’art. 138 della Costituzione la vedo difficile. Ma chissà.La capacità di aggiungere confusione alla confusione ètipica del tempo presente.

Tra le ragioni costituzionali e il conflitto politico* * *

*Già Magistrato

Referendum

È, perciò, tempo di adeguarci ai nostrialleati e ai nostri competitori, tutti, chi

più chi meno, accomunati dalriconoscimento del primato della

“democrazia della decisione”. Eccoperché sostengo che l’eventuale vittoriadel No al referendum ci farà precipitare

indietro nel tempo, addirittura aglialbori post-bellici. Altro che terzomillennio. Né è ragionevolmente

prevedibile che si possa, chissà quando,gustare una pietanza più gustosa.

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Il referendum costituzionaledell’ottobre 2016 si svolge in unaatmosfera politico-istituzionaleche presenta elementi peculiari siarispetto ad altre vicende refe-rendarie in genere, sia rispetto adaltri referendum costituzionali.Tra queste, quella politicamentepiù pregnante sta nella scelta ini-ziale del Presidente del Consiglioin carica di configurare il voto deicittadini quasi come un voto difiducia sul suo Governo, anche sequesta forzatura del nostro Premierpokerista si è per qualche verso

stemperata a mano a mano che si avvicinava la campagna elettorale.Ma c’è un altro elemento peculiare che rende la scelta su questoreferendum ben più significativa rispetto, ad esempio, a quellache fu la scelta degli elettori nel momento in cui pur bocciaronouna decina di anni fa il progetto di riforma costituzionale varatodalla maggioranza di centrodestra. Accanto al pur molto sostanziosoprogetto di riforma, fatto di decine e decine di nuovi articoli dellaCostituzione, che spaziano dall’articolazione fra le due Camere,al procedimento legislativo, alle competenze delle Regioni etc.,su cui verte il quesito referendario, c’è infatti un convitato dipietra, che fa massa critica in congiunzione col testo della riforma,la nuova legge elettorale Italicum varata di fatto, sempre con leconsuete forzature, su iniziativa – e col timone ben saldo in mano– del Governo Renzi. La vera sostanza di questo referendum Sipotrebbe dire, mutuando il linguaggio da quella che un tempo erala scuola Radio Elettra Torino, che riforma costituzionale e Italicumsono il polo positivo e il polo negativo su cui viaggia la correnteelettrica della riforma costituzionale Renzi, i due poli che alimentanola nuova Italia del decisionismo. Basta infilare nella presa dellacorrente la spina e l’effetto dell’azione dei due poli è unsuperpresidenzialismo che neanche un ingegnere costituzionalesudamericano degli anni Cinquanta sarebbe riuscito a congegnarein tal modo. Quanto alla legge elettorale, rinvio anche alle plastichee chiare considerazioni contenute nel saggio di Luigi Mazzella,Vice Presidente emerito della Corte costituzionale, pubblicate inquesto libro. Con nuovo presidenzialismo, si scarica fra i due piattidella bilancia classici che rappresentano il “gioco della democrazia”– rappresentanza e governabilità – scarica buona parte del pesosul piatto della governabilità, a piene spese del piatto dellarappresentanza. È questo il trucco sostanziale che aleggia nellacampagna referendaria: apparentemente si chiede unpronunciamento sulla riforma costituzionale che supera ilbicameralismo paritario e perfetto – che di per sé non sarebbe unacattiva idea – ma poi di fatto si interpreta il Sì come il Sì a tuttauna manovra istituzionale che introduce un superpresidenzialismo,con una figura di Premier – super Presidente – con poteri chepraticamente non hanno eguali in alcuna vera democraziaconosciuta. Quello che stupisce è che né gli oppositori politici diRenzi, né gli studiosi addetti ai lavori hanno sin qui saputo illustraree diffondere a sufficienza il vero nodo che stringerebbe non pocoal collo la democrazia italiana grazie al combinato disposto dellalegge elettorale e della riforma costituzionale. Provo qui a farlocon una certa sintesi, anche se non vanto titoli népolitici néaccademici. Basta aprire un classico del diritto costituzionale, adesempio il Mortati, al capitolo “Forme di governo” (sto tentandodi ripercorrerlo a memoria), per trovarvi la distinzione fra sistemiistituzionali duali e monistici. La forma di governo parlamentareè fisiologicamente un sistema monistico, basato sul continuumGoverno-Parlamento, in quanto il Governo si regge o cade sullabase della fiducia accordata o negata dal Parlamento. Ed entrambele istituzioni hanno la medesima fonte di investitura. Le forme digoverno presidenziali si ritrovano invece normalmente in sistemidi tipo duale, come ad esempio il modello USA, in cui diversa e

Tra gli effetti dell'Italicum e riforma costituzionale

separata è l’investitura del legislativo rispetto a quella dell’esecutivo.In quel caso, non c’è il rapporto di fiducia tra i due soggettiistituzionali. Non a caso nel caso USA, ad esempio, le elezioniper il Presidente e le elezioni per il Congresso avvengono inmomenti e con modelli di investitura ben diversi e separati. Lastbut not least, il Congresso ha seri, efficaci e solidi poteri di controllosull’esecutivo, così il sistema dei checks and balances resta inequilibrio. Il “miracolo” introdotto dal neo super Presidente delConsiglio italiano, grazie alla diligente azione della MinistraBoschi, e ai loro servizievoli consiglieri, è di aver confezionatouno strano fritto misto all’italiana, però con odori speziati moltosudamericani, intrecciando il meglio (o il peggio) della forma digoverno parlamentare con quello della forma di governopresidenziale. Il renzellum, infatti, che probabilmente a breveverrà illustrato nei corsi di diritto costituzionale comparato comeil più geniale modello da laboratorio per super Premier che aminotanta concentrazione del potere nelle loro mani e pochi controlli,è un cocktail unico: il super Presidente (di fatto anche Segretariodel partito di maggioranza) viene eletto dagli elettori econtemporaneamente con le stesse elezioni nomina di fatto più ditre quarti dei parlamentari che sicuramente gli daranno la fiduciae che dovrebbero controllarlo. A prima vista, può sembrare unaforzatura scritta da un collaboratore zelante del Fatto quotidianoo da uno zelante assistente del professor Zagrebelsky, ma i miglioriesperti di leggi elettorali hanno dimostrato che con una leggeelettorale come l’Italicum, grazie all’effetto del premiomaggioritario alla lista e grazie alla possibilità dei capi lista dicandidarsi fino a un numero di dieci collegi, per il partito vincitore,che ovviamente per Renzi sarà il PD, e fra gli eletti del partitovincitore e gli altri i nominati di fatto possono arrivare al numerodi 460-470. Altro che restituire lo scettro al Principe. Forse, ilnostro super Presidente del Consiglio aveva visto in libreria dipassaggio quell’aureo saggio di Gianfranco Pasquino “restituirelo scettro al Principe” e aveva intuito che il professore bologneseintendesse per principe il potente di turno e non il cittadino, comeda fine e acuto politologo sosteneva in quel saggio. Ma grazie allariforma costituzionale di cui cerca la definitiva benedizione conil referendum, il novello machiavellico Principe nostrano potràimpugnare lo scettro con ancora più vigore, senza farselo scapparedalle mani. Abbiamo visto, infatti, sopra, come nei sistemi duali,come sono di solito i presidenzialismi, i parlamenti hanno validied efficaci poteri di controllo, e funziona così il gioco dei checksand balances, di cui gli USA sono un caso guida. Se vincesse ilSì al referendum, invece, i già scarsi contrappesi tipici dellaCostituzione materiale che si è andata affermando negli ultimianni, che vede un Parlamento sempre più indebolito, e anche ilpotere normativo di fatto, con il predominio della decretazioned’urgenza sempre più nelle mani del Governo, diventerebberoancora più leggeri. Con la riforma costituzionale, infatti, vienemeno il Senato che era uno dei contrappesi, proprio mentre il“peso” del Governo, e soprattutto del Capo del Governo, diventapesantissimo, e si indeboliscono inoltre i poteri delle Regioni chein qualche modo fungevano da contrappeso rispetto al poterecentrale. Ma c’è un altro dato che pochi considerano. C’è unsupremo organo di garanzia, diciamo così, nel nostro ordinamentocostituzionale, il Presidente della Repubblica, che nella nostraCostituzione materiale funge in qualche modo, oltre che da garante,anche da contrappeso rispetto al rischio di un peso eccessivo dellafigura del Presidente del Consiglio. Ebbene, come hanno dimostratogli studi più accreditati sulla figura del Presidente della Repubblicae come sa bene chiunque pratichi le questioni di politicacostituzionale, ciò che ha sin qui dato autorevolezza, “titolo” elegittimazione forte a un ruolo di rilievo della figura del Capodello Stato, è stato il potere di nomina del Presidente del Consiglio.Ora, con la vera riforma istituzionale, che è quella appuntointrodotta dalla legge Italicum, il Presidente della Repubblicaperde questo potere, e una volta che viene meno questa sua

di Luigi Tivelli*

Riforma Costituzionale

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* * *

attribuzione, come di fatto già in qualche modo si sta verificandoin via di anticipazione, rimarrà il suo ruolo di garanzia ma siindebolirà non poco il suo ruolo sostanziale di contrappeso rispettoal peso del vero super Presidente, il super Premier all’italiana. Houna borsa degli attrezzi credo abbastanza originale, forse un po’personalizzata, perché non essendo né un ottimo giurista né unottimo politologo mi sono sempre tenuto in una linea di confinefra la politologia e il diritto pubblico, non disdegnando di frequentarela politica economica, visto che fin dalla tenera età sono statoappassionato a capire i problemi del mio Paese e credo che unapproccio interdisciplinare permetta di capire al meglio lacomplessità delle questioni. Ho cercato pertanto di basarmi anchenelle breve riflessioni sin qui condotte anche su questo tipo diapproccio, con lo stile diretto e franco che man mano che invecchiomi è diventato ancora più proprio, assumendomene, ovviamente,tutta la responsabilità. Credo che a questo punto, il problema nonsia dunque quello di valutare analiticamente nel merito i varicontenuti della fitta nuova normativa contenuta nella riformacostituzionale, per i cui vari aspetti rinvio ad altri egregi contribuiticontenuti in questo libro, ma quello di una valutazione di insiemedell’effetto shock-istituzionale comportato dal combinato dispostofra la riforma e la nuova legge elettorale, tanto più se pensiamoche potrebbe cadere nelle mani di neo populisti ben più populistidel pur populista Renzi, che non si sa quanta scuola di democraziaabbiano seguito. Meritano, però, alcuni cenni qualche aspetto dimassima della nuova legge costituzionale. Mi soffermerò solo sudue questioni. La prima, valeva la pena ipotizzare un Senato(Senatores boni viri?) composto in larga parte proprio dalla faunapolitica che ha sin qui assunto il becchime peggiore e partorito iprodotti peggiori della pur non ragguardevole “fattoria deglianimali italiana”, i consiglieri regionali? È vero che la grancassapopulista di Governo doveva suonare il tam-tam per cui nonoccorrevano vere elezioni per il nuovo Senato, ma non era meglio,in ipotesi, prevedere un Senato fatto di 100 senatori, eletti incontemporanea con le elezioni per la Camera con elevati requisitidi onorabilità e curriculum, senza remunerazione e col solorimborso spese. Avremmo avuto così una Camera di Seniores, diaristoi. Quanto alle funzioni, non sarebbe stato meglio concentraresu un Senato di questo genere veri e seri poteri di controllo su unesecutivo ben più rafforzato, come avviene negli USA? Per l’altroaspetto mi dovrei appellare alla formula da sempre diffusa nei bardel Veneto: “peso el tacon del buso”. Come è avvenuto spessonei nostri percorsi riformatori. Infatti, con l’intento di mettere unatoppa ai danni causati dalla sciagurata riforma del titolo V dellaCostituzione varata in limine mortis, nel 2001, al termine dellalegislatura dal centrosinistra, si finisce per questa riforma di creareun nuovo tipo di danni a quella già sciagurata istituzione Regioneche è l’istituzione che ha avuto la peggiore performance dellastoria repubblicana. Come scrivono anche oltre cinquantacostituzionalisti e magistrati nel loro documento “sulla riformacostituzionale”, pronunciandosi per il No al referendum, l’assettoregionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortementeindebolito, grazie ad un riparto di competenze che di fattotoglierebbe alle Regioni ogni spazio di competenza legislativa,facendone organismi “privi di reale autonomia”. In sintesi, invecedi limitarsi a correggere i gravi errori della riforma del 2001,promuovendo un modello più equilibrato, il nuovo modello pretendedi rovesciarne l’impostazione senza però definire un nuovoequilibrio nel rapporto tra Stato e Regioni, lasciando in piedi degliorganismi che non hanno né reale autonomia (in senso letterale),né poteri e responsabilità garantite sul piano finanziario e fiscale.Una proposta per una seria riforma costituzionale Certo, nel maremagnum della riforma costituzionale ci sono certamente degliaspetti che meriterebbero di essere salvaguardati, come la restrizionedel potere di decretazione d’urgenza del Governo e la contestualeprevisione di tempi certi per il voto della Camera sui testi delGoverno di attuazione dell’indirizzo politico. Analogamente,giusta è la previsione della possibilità di sottoporre in via preventiva

alla Corte costituzionale le leggi elettorali. Anzi, a questo proposito,magari che lo si potesse fare per l’Italicum, che ha sostanzialmentegli stessi elementi di incostituzionalità, anzi forse anche più gravi,del Porcellum. Questi aspetti positivi non sono però così prevalentirispetto a quelli negativi, e soprattutto rispetto al richiamato effettomoltiplicatore del combinato disposto tra riforma costituzionalee riforma elettorale, da indurre a un pronunciamento in sensofavorevole sulla riforma costituzionale. Né sembra da attendersiche il testo venga spacchettato, perché è largamente prevedibileche gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi su un unico quesitodi approvazione o no dell’intera riforma. Un pronunciamentoinoltre carico di ragioni “politiche”, molte delle quali estranee almerito della legge, alimentate anche dal nuovo populismo diGoverno, che ha acceso in giro per l’Italia decine di migliaia dimotori per riscaldare il clima di una caldissima campagna elettoraleper le elezioni politiche, a questo punto probabili per il 2017. Inquesto strano Paese, che sta diventando politicamente sempre piùstrano, si sta diffondendo uno strano clima politico e di opinione.Per ciò che concerne ad esempio il referendum costituzionale, c’èil tentativo di far prevalere un nuovo spirito integralista. Quasi sesolo coloro che si pronunciano per il Sì sono veri riformatori etutti coloro che si pronunciano per il No sono biechi conservatori.Il Presidente del Consiglio ha avviato da Firenze (ovviamente) lacampagna elettorale, dividendo l’Italia in due tra chi rischia e chifischia. Chi scrive non è mai stato capace di fischiare, neancheallo stadio, e da sempre ha amato rischiare in proprio, pur avendofatto una carriera da servitore dello Stato. Né ho alcuna voglia dipassare per conservatore, perché ho già scritto nei miei libri e neimiei articoli progetti e proposte di riforma, ritengo, con qualchepresunzione, più appropriati di varie di quelle contenute nel testosottoposto a referendum. Così come ci sono milioni di onestiriformatori mescolati ad altri conservatori fra coloro che voterannono, così come tra coloro che voteranno Sì e tra coloro che nonandranno a votare. Forse, alla fin fine, è proprio al vertice deipalazzi del potere, invece, che stanno i più integralisti. Se si avesseavuto a cuore un vero serio processo riformatore, si sarebbe dovutaseguire la via che personalmente, insieme al compianto GuglielmoNegri, avevo indicato sin dal 1995, al tempo del Governo tecnicoDini, e che ho riproposto in vari miei scritti e da ultimo nel libro,pubblicato con Lamberto Dini nel 2015, Una certa idea dell’Italia(Guerini e associati): quella di eleggere con metodo proporzionaleun’assemblea per la revisione costituzionale cui affidare la riformadella seconda parte della Costituzione. È vero, infatti, che occorreun nuovo equilibrio fra rappresentanza e governabilità, unamaggiore capacità del sistema istituzionale di assumere decisioni,nel quadro di un nuovo sistema di pesi e contrappesi, e una nuovariforma della malaugurata passata riforma del titolo V dellaCostituzione. Ma a costruire un progetto istituzionale di questotipo, non può procedere a colpi di maggioranza un Parlamento inparte delegittimato, ricco al suo interno di nuovi dilettanti: bastavanosei mesi di serio lavoro di un’assemblea di cento persone qualificate,individuate ed elette proprio per tale finalità. La classe politicadominante è invece riuscita a consegnarci un capolavoro dimachiavellismo deteriore: l’introduzione per via surrettizia di unsuperpresidenzialismo in salsa sudamericana, non tramite unariforma costituzionale, ma tramite una nuova legge elettorale cheè un unicum tra le democrazie occidentali, accoppiato alla riformacostituzionale – salsiccione in cui accanto a qualche pezzo di carnedigeribile c’è troppa cotica e troppo grasso. L’appello populistaalla gente, al chi rischia e al chi fischia, la messa al bando deidisfattisti che sono contro la riforma completano l’opera in unPaese in cui purtroppo il nuovo populismo, iniziato come storytel-ling, sta diventando merce dilagante, promossa da qualche abileprofessionista al vertice e rilanciata dai tanti nuovi dilettanti dellevarie assemblee elettive che lo assecondano, nel panorama di unastampa purtroppo non molto libera e mediamente non molto dotatadi spirito critico verso il potere.

Verso un superpresidenzialismo senza contrappesiReferendum

*Politologo scrittore

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di Stefano Spinelli*

Pur contrario alla riformacostituzionale che giudico ri-schiosa per il Paese, non na-scondo di essere stato tra i pochia cui era piaciuta l’uscita delPresidente del Consiglio: “sevincono i no mi dimetto”, avevaaffermato. In fondo il governoRenzi è nato proprio per fare leriforme istituzionali e su questoi cittadini dovrebbero valutarlo.Mi sembrava una posizione seria.Un parlare chiaro, pane al panee vino al vino, senza le fumositào le doppie interpretazioni a

seconda delle convenienze del politichese di maniera, unitosinegli ultimi tempi al leaderismo politico in una miscela esplosiva.L’illusione è durata poco. Contrordine compagni. “La legislaturaproseguirà comunque sino al 2018”.Non so se la toppa sia migliore del buco. Innanzitutto, ormainella popolazione è già passata l’idea che lo stesso Presidentedel Consiglio ha lanciato e non è certo sufficiente una ritrattazioneper cambiare il sentimento comune. In secondo luogo, unripensamento adesso ha tutta l’aria di essere un espediente inextremis per chi è in difficoltà e corre ai ripari in vista di unabufera che si potrebbe abbattere sulla riforma più importantee rappresentativa del governo.Infine, non credo sia così semplice far finta di nulla, in caso diesito referendario negativo.Sta di fatto che la riforma costituzionale che ne è venuta fuoriè una riforma pasticciata e non sufficientemente pensata eritengo possa essere rischiosa per il Paese, perché altera troppol’equilibrio costituzionale voluto dai padri costituenti, senzaprevedere correttivi.In particolare, altera il principio di rappresentanza democraticaprevisto dall’art. 1 Cost. (“la sovranità appartiene al popolo chela esercita nelle forma e nei limiti della Costituzione”), perchéprevede la nomina dei nuovi 100 senatori tra i consiglieriregionali, da parte delle segreterie di partito e specie del partitodi maggioranza relativa numericamente più presente nellesingole regioni. Si tenga conto che anche i 630 deputati sarannoeletti con il nuovo sistema elettorale, l’Italicum, con unconsistente premio di maggioranza (il 54% dei seggi andrà allalista di partito che raggiungerà il 40% dei voti o – in caso diballottaggio – indipendentemente da qualunque percentuale,basterà vincere il ballottaggio) e un sistema di liste quasi bloccatecon preferenze in maggioranza imposte dalle segreterie dipartito. Vista la scarsissima partecipazione popolare al voto,questo combinato sistema allontanerà ancor più il popolo sovranodall’esercizio della sovranità.Il Senato, poi, dovrebbe diventare rappresentativo delle Regioni,ma nello stesso tempo la medesima riforma togliecontraddittoriamente autonomia alle Regioni, mediante lariduzione di competenze legislative e la ricentralizzazione dicompetenze prima decentrate. E sempre più contraddittoriamentelascia intatte invece le super autonomie delle Regioni a statutospeciale. Si crea quindi un cortocircuito del principio pluralisticodi cui all’art. 5 Cost. (“la repubblica unica e indivisibile,riconosce e promuove le autonomie locali”) e del principio disussidiarietà di cui all’art. 118 Cost. Quale rappresentativitàregionale eserciterà il nuovo Senato in una situazione dicontestuale perdita di autonomia regionale? A questo puntoperché mantenerlo?Il nuovo Senato, pur previsto come organo di secondo livelloe privo di legittimazione popolare diretta mediante elezioni

politiche, continuerà però a partecipare da protagonista aldelicato funzionamento della macchina costituzionale, e allapredisposizione di pesi e contrappesi che dovrebbero bilanciarei singoli poteri dello Stato. Solo la funzione di raccordo traParlamento e Governo gli viene tolta (non potendo più il Senatopartecipare alla votazione sulla fiducia al Governo), macontinuerà a concorrere alla elezione di alcuni fondamentaliorgani costituzionali, come il Presidente della Repubblica, laCorte Costituzionale e il Consiglio Superiore della Magistratura,che sono caratterizzati, per loro stessa natura e per le funzioniloro assegnate, da una forte carica di imparzialità e indipendenzarispetto alla logica partitico-maggioritaria (mentre il nuovoSenato è proprio espressione proprio di quella logica).Infine, la riforma non elimina il bicameralismo perfetto, inquanto il Senato continuerà a partecipare alla funzione legislativaper alcune materie con un meccanismo ancor più complesso efarraginoso di quello esistente.Né mi pare si possa ragionare in termini di risparmi di spesa.La Ragioneria di Stato ha calcolato in 49 milioni di euro irisparmi reali che deriverebbero dalla riforma: lo 0,0005% dellaspesa dello Stato, pari a 855 miliardi e 45 milioni di euro all’anno(anche se Renzi ha parlato di 490 milioni di risparmi). Nonoccorre una riforma costituzionale (specie se crea più problemidi quanti ne risolva) per operare una seria revisione della spesastatale, se davvero questo fosse il tema.Ma chi sostiene la riforma, lo fa soprattutto sulla base di unaltro argomento che non condivido: la questione dello “scenarioapocalittico”.Ormai ogni nostra decisione pare “vincolata” da un elementocritico “esterno”, che impedirebbe di scegliere e vincolerebbead agire solo in un determinato modo, senza alternativa. Unavolta è lo “spread”, un’altra volta “l’Europa ce lo impone”,un’altra “il vento inarrestabile dei nuovi diritti”, oppure “lacatastrofe imminente”.In questo caso, il vincolo sarebbe la “crisi di governo irrisolvibile”se vincessero i no.A me sembra che votare la riforma, non per quello che la stessavale, ma etero guidati da circostanze esterne, sia già cominciarea perdere parte della nostra traballante democrazia. Se i giochisono già fatti, se le scelte democratiche sono già prese in altrilochi e da altri soggetti, peraltro sempre indeterminati, mi pareche sia sempre più in pericolo il principio di sovranità popolare.In ogni caso, c’è sempre un alternativa. Piaccia o non piaccia.In conclusione, vero è che il Paese ha bisogno di una riforma.Allora, si apra una vera e propria nuova fase costituente. Si diaun incarico governativo di scopo, circoscritto all’attuazione diuna riforma complessiva che tenga conto dei lavori dellecommissioni che si sono succedute. O, ancor meglio, si eleggaun Parlamento o una Commissione costituente che abbia comescopo primario la riforma costituzionale.Non si giochi al ribasso.Molti sostengono che sia giusto fare comunque una riforma,non importa cosa essa contenga, anche non perfetta. Riformareper riformare.Io ricordo la frase di Chesterton, secondo la quale “l’errore èuna verità impazzita”.E’ vero che noi abbiamo bisogno di una riforma, ma nondobbiamo fare una riforma impazzita, perché andiamo solo apeggiorare ulteriormente la già situazione difficile che stavivendo il Paese.Cambiare per cambiare, non è cambiare (è sprecare occasioni).Siccome abbiamo bisogno di riforma, dobbiamo fare riformeimpazzite?Io dico di NO.

*Consigliere Comunale "Libera Cesena"

Riforma Costituzionale

Rischiosa per il Paese

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di Riccardo Caporali

1. Se non si cambia adesso nonsi cambia più.la Costituzione è stata cambiata20 volte, ora in modo leggero,ora in modo più pesante. Sipotrà fare anche dopol’eventuale, e per me auspi-cabilissima, vittoria del NO. Esi potrà fare meglio: liberi dagliintrighi a cui fin dall’inizio èricorso Renzi: il patto delNazareno, gli accordi conAlfano e Verdini. Una riformaper dividere, invece che per

unire, come invece dovrebbe accadere per tutto ciò cheriguarda le regole comuni. Se vincesse il NO si riporterebberole riforme costituzionali nel loro alveo naturale, il Parlamento.2. Se cade Renzi siamo nel caos.È l’argomento più ricorrente, ma anche il più assurdo. LeCostituzioni si fanno per durare nei tempi lunghi della vitadi un Paese democratico, non sulla base delle contingenzepolitiche del momento, a favore o contro questo o quelgoverno. Le Costituzioni stanno sopra i governi, non igoverni sopra le Costituzioni. È stato proprio Renzi, delresto, a fare del referendum una sorta di plebiscito personalenei suoi confronti. Poi, come l’apprendista stregone, si èaccorto che la cosa gli si rovesciava contro, e ora sta cercandodi correre ai ripari: dice che, se anche dovesse perdere ilreferendum, il governo durerebbe fino alla fine dellalegislatura. Ma allora non è affatto vero che se vince il NOsiamo nel caos. L’aspetto più pericoloso di tutte questecontorsioni è legare la riforma costituzionale all’interessedi una parte, senza farne un patrimonio di tutti.3. Non voglio votare con Salvini e Brunetta.L’argomento, che qualche volta si sente a sinistra, non hanessuna consistenza. Sarebbe come dire che per non votarecon Salvini e Brunetta ci si accontenta di votare con Alfanoe Verdini. E poi, soprattutto, un conto è il voto a favore, cherisponde a un’unica ragione, e cioè l’assenso alla specificariforma renziana, un altro è il voto contrario, che può averetante, diverse motivazioni. Quando Berlinguer e Almirantevotavano contro i governi democristiani, si può dire chestessero insieme?4. Finalmente si comincia a cambiare qualcosa, prima nons’è fatto niente.Cambiare per cambiare è solo un segno di cieca disperazione.Messa così, il cambiamento diventa una mistica, non unascelta politica razionale. Bisogna vedere se si cambia inmeglio o in peggio. Io credo che si cambi in peggio. Neicontenuti, di cui dirò. Ma anche nella forma. Le Costituzionisono alte, solenni, austere anche per il modo in cui vengonoscritte. La nostra è scritta benissimo. I cambiamenti propostisono scritti malissimo, con periodi involuti, contorsioni,continui straripamenti di gerundi. Non è un dettaglio. Anchequesta è sostanza. Una Costituzione scritta male sembrafatta apposta per non durare. O per stare al servizio diqualcosa o qualcuno.5. La riforma abolisce il Senato e il bicameralismo perfetto.Falso. Perché per almeno sette (sette!) aree di problemi restail doppio voto, di Camera e Senato. In questi casi si vota erivota esattamente come adesso. Con l’aggiunta dei mille

contenziosi che sorgeranno sulle competenze di ciascuno.Più e peggio di prima. E senza dimenticare mai, come èstato ampiamente dimostrato, che i veri ritardi nella entratain vigore delle leggi non dipendono dal doppio voto delledue Camere, ma dalla burocrazia e dai governi: dai ritardi,a volte gravissimi, nei disposti applicativi delle leggi stesse.6. Si riducono i costi della politica.Argomento demagogico e populista, cavalcando l’antipolitica.Come ha scritto qualcuno, si passa così da una Costituzionefondata sul lavoro a una fondata sul rancore: contro lo Stato,la politica, i partiti, gli Enti Locali. Il risparmio è meno dellametà di quel che si sbandiera. E comunque la democrazianon si misura sui costi. Semmai sul suo modo di funzionare.Un Senato di nominati dalle Regioni, con poteri decisionaliancora molto forti, non funzionerà meglio di adesso, saràsolo sottratto al voto dei cittadini. La riduzione dellarappresentanza è l’unico vero effetto di questa riforma.7. La riforma non tocca la prima parte della Costituzione.Non tocca solo apparentemente lo spirito di una Costituzioneper molti versi unica (ciò che ne fa in primo luogo la bellezza),che tiene insieme la libertà e la giustizia, l’uguaglianza e lasolidarietà, a partire da una idea condivisa e non privatistica,meramente mercantile, dei rapporti sociali: il lavoro, primadi tutto, ma anche l’istruzione, la cultura, la vita civile, insenso lato. La riforma del governo Renzi (con l’aggiuntadella legge elettorale) è in realtà un attentato allo spiritodella nostra Costituzione. Anche alla sua prima parte. Perchéc’è una contraddizione radicale tra quei principi e la nuovamacchina politica, i meccanismi istituzionali che dovrebberoessere chiamati a rispettarli, a realizzarli. La riforma nonsolo riduce l’ampiezza della rappresentanza, non soloconcentra gran parte del potere legislativo sull’esecutivo esu chi lo presiede, ma soprattutto, e proprio per questo,contraddice inevitabilmente i principi di giustizia, oltre chedi libertà, che danno alla nostra Costituzione la sua identità,la sua anima. La riforma costituzionale è l’altra faccia dellapolitica di Renzi sul lavoro, sulla scuola, sulla sanità.8. La riforma costituzionale è necessaria per uscire dallacrisi.Ridicolo. Nessuna riforma costituzionale risolve, in quantotale, i problemi della crisi. Servono (servirebbero) grandiprogrammi, grandi politiche, grandi governi.9. La riforma non sarà perfetta, ma solo se vince il SI’ potràpoi essere ulteriormente migliorata.A dir poco illusorio. Se vince il sì la riforma sarà ovviamenteblindata. Come il potere del leader che l’ha promossa.10. La legge elettorale ci fa sapere la sera stessa del votochi governerà.E allora? Dove sta scritto che questo sia senz’altro un bene?Che il leader di un partito che prende anche solo il 25% deivoti vada subito al governo con una maggioranzainattaccabile, che per cinque anni lo rende padrone in-contrastato del Paese, è un bene?La legge elettorale, come si sa, non fa parte della Costituzione.Tanto che, dopo averla costruita su misura per far stravincereRenzi, adesso, considerato che potrebbe anche tornare utilepiù ad altri che a lui, si pensa di cambiarla, appena possibile.Il vizio di fondo sta appunto qui.Riforme labili e variabili, al servizio degli interessi delmomento. Bisogna battere questo modo di fare improvvisatoe pericoloso.

Un decalogo per il noReferendum

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di Riccardo Bruno

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Le ragioni per cui avete fattodimettere il cancelliere sa-ranno dimenticate in pochesettimane. I frutti di tanta stu-pidità saranno invece ricor-dati negli anni”. F. Ebert.Il superamento del bicame-ralismo paritario era previstonel programma del quartogoverno Andreotti e correval’anno 1989.L’obiettivo del più longevopresidente del Consiglio che

la democrazia cristiana potesse vantare, non era certoquello di impossessarsi di un potere che già si possedeva,e tantomeno di minare le radici di una vita democraticasufficientemente compromessa. Andreotti si ripromettevasemplicemente di andare incontro ai suggerimentiprovenienti dall’Unione europea di adeguare il sistemaistituzionale italiano a quello degli altri paesi membri conuna sola camera elettiva, Spagna esclusa. Solo che laSpagna era uscitadalla dittatura nel1975 ed ancoranell’81 aveva mili-tari pronti a mi-nacciare il Parla-mento con le armiin pugno.In verità nessunodei governi politi-ci che succede-ranno al quartogoverno Andreottiha rinunciato aporsi quello stessoobiettivo di rifor-ma costituziona-le. Prodi nel 1996,Berlusconi nel2001, sono en-trambi per il supe-ramento del bicameralismo paritario.Anche per questi precedenti risulta piuttosto difficilecomprendere il clamore di oggi per un proposito di riformache si sarebbe dovuto ottemperare già nel secolo scorso.Ancora più sorprendenti sono le voci che lamentano ilcambiamento di una Costituzione considerata perfetta,come quella del 1948. “La Costituzione più bella al mondo”,si è detto con enfasi, quando dal 1992, quando le Cameremodificarono l’articolo 68, quella Costituzione è statacostantemente riscritta o aggirata decine di volte e suaspetti fondamentali che concernano i suoi stessi principiistitutivi, ad esempio quello della libertà e della segretezzadella corrispondenza che dovrebbe presupporre una identicalibertà e segretezza delle conversazioni telefoniche. Chela propaganda abbia superato la dottrina lo dimostra ilsussulto di consapevolezza di Stefano Parisi per il quale

il No al referendum deve essere però seguito da un’As-semblea costituente. Anche Forza Italia comprende checomunque la Costituzione deve essere aggiornata. Soloche ci sarebbe da capire chi a questo punto avrebbe ildovere di convocare un’Assemblea costituente, oltre astabilire la legge elettorale con cui questa dovrebbe essereeletta. Senza un’intesa fra le parti sulla riforma costituzionaleda approntare, soprattutto all’indomani di uno scontroreferendario, un’Assemblea costituente potrebbe solo fareun altro buco nell’acqua.La Costituzione nel ’48 nasceva da un accordo di governofra la Dc e i partiti laici e soprattutto si appoggiava suldesiderio di Togliatti di dimostrare di essere il più affidabilealleato della Dc, tanto da votare il secondo commadell’articolo 7 su cui laici e socialisti e persino democristianirimasero impietriti per senso di pudore. Il secondo commadell’articolo 7 della nostra amata Costituzione fa dei Pattilateranensi, firmati dal cavalier Mussolini, gli arbitri deirapporti fra Chiesa e Stato italiano.Per cui se vogliamo muovere una critica vera alla riformaRenzi è che essa riforma poco o niente e a volte persino

male.Il superamento delbicameral ismoparitario è prolissoe confuso comemolti altri aspettiche pure meritanodi essere sostenuti.Bocciare la rifor-ma in un voto re-ferendario nel cli-ma che si è in-staurato assu-merebbe però unaltro valore, tantoche il professorAngelo Pane-bianco è convintoche così si rischidi bloccare ogniintento riformatore

per i prossimi decenni.In verità il centrodestra ha un suo progetto, e bisognaancora capire se Grillo preferisca mantenere lo Status quoo promuovere una qualche riforma dello Stato. Di sicuro,invece, la sinistra perderebbe la sua sfida riformista. ConD’Alema al governo si diceva che era meglio non farenessuna riforma, piuttosto che farne una cattiva. Questoera il mantra del residuo ideologico massimalista del ‘900.Renzi ha intaccato quel principio: meglio una cattivariforma, soprattutto se promossa in un paese immobilizzatocome il nostro dallo scontro istituzionale permanente.Quando si vuole produrre un cambiamento bisogna puravere un inizio.Altrimenti si rimane fermi, ritenendo ogni passo inadeguato,come è stato fatto finora. Un’ottima ricetta per la decadenzapolitica ed istituzionale del nostro paese.

Il no per la decadenza politica ed istituzionaleRiforma Costituzionale

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di Corrado Augusto Patrignani*

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Uno Stato che tratti i cittadininon da sudditi e sia in gradodi rendere conto del suo ope-rato, evitando lungaggini,ritardi, soprusi, inefficienze.Confcommercio cesenate tifaper uno Stato e una macchinaamministrativa capace e tem-pestiva, per un Parlamento chelegiferi bene e in tempi celeri,per una presenza menoinvasiva dei partiti, per lariduzione del numero dei par-

lamentari, per il contenimento dei costi di funzionamentodelle istituzioni.Confcommercio è come sempre in prima linea nellerichieste di una tassazione più equa (non è sufficiente iltaglio dell’Irpef dal 2018 annunciato dal premier): pertrasformare la debole ripresa di oggi in una vigorosacrescita per i prossimi anniservono misure che rilancinola domanda interna. Certo: benvenga e sia fatto in fretta iltaglio strutturale del costo dellavoro, ma, come ha rimarcatoil nostro presidente nazionaleSangalli, oggi il vero e piùgrande cuneo riguarda l’inef-ficienza della spesa pubblica:ed è qui che si deve interve-nire tagliando sprechi e inef-ficienze per reperire le risorsenecessarie a ridurre la pres-sione fiscale su famiglie e im-prese.Tutto questo è fondamentalee deve essere fatto in tempibrevi. Ma serve ancora di più.Dopo 70 anni di storia repub-blicana siamo chiamati aragionare se la Costituzione habisogno di essere riformata emigliorata: si avvicina infattil’appuntamento col refe-rendum costituzionale, fissatoal 4 dicembre, per confermare o respingere la riformaRenzi-Boschi contenuta nella legge costituzionaleapprovata dal parlamento il 12 aprile scorso.Un referendum pone sempre quesiti alla coscienza e allascienza di ogni singolo cittadino e il voto è insindacabile.Confcommercio cesenate - fermo restando che ciascunodei suoi associati è naturalmente libero di assumerenell’urna la posizione che ritiene e anche di non recarsialle urne - ha tenuto a rimarcare che la questionecostituzionale ci riguarda da vicino. Non è materia perdotti costituzionalisti, politici e addetti ai lavori, ma ledomande di fondo poste dal quesito referendariointerpellano ciascuno di noi.Vogliamo cambiare in meglio? Vogliamo eliminare itempi lunghi del bicameralismo con Camera e Senato che

fanno il medesimo lavoro, con quasi mille parlamentariche si rimpallano i provvedimenti, un esercito tropponumeroso di politici di professione che allargano i costidelle istituzioni. Con la riforma la Camera dei deputatidiventa l’unico organo eletto dai cittadini a suffragiouniversale diretto e l’unica assemblea che dovrà approvarele leggi ordinarie e di bilancio e accordare la fiducia algoverno.E ancora: 63 governi in 70 anni, quanti ne ha raggranellatoil nostro Paese, non sono forse troppi, anzi, esagerati? Ladurata media è 1 anno, 1 mese e 10 giorni. Dove si puòpresumere di andare con una barca il cui timoniere cambiacosì spesso e la scialuppa si attarda a litigare?Lo stesso titolo V è in discussione: con la riforma, unaventina di materie dalle Regioni, che non hanno datooggettivamente grandissima prova di sè, tornerebbe allacompetenza esclusiva dello Stato.Cambiamenti importanti, secondo chi scrive, tant’è veroche ho deciso di far parte del Comitato del Sì. Non mi

interessa chi ha proposto la riforma, non guardiamo laparte politica ma, come sempre abbiamo fatto, stiamo sulmerito delle questioni e ragioniamo se il cambiamentopuò far bene al paese e alle imprese.Le imprese vogliono uno Stato “light”, cioè più leggeroe efficiente, che sprechi meno risorse e ne destini di piùallo sviluppo.Uno Stato più efficiente che renda la vita più facile anchea chi fa impresa. Uno Stato, se mi si passa l’espressione,partner dello sviluppo e non un suo rallentatore, comepurtroppo ancora adesso è spesso. Ragioniamo allora, diqui al 4 dicembre, se la riforma della Costituzione oggettodel referendum può essere utile oppure no per andare inquesta direzione.

Uno Stato “light”per le imprese

*Presidente Confcommercio Cesenate

Referendum

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di Denis Ugolini

Finalmente la data del referendum.4 dicembre. Riforma costituzionale.Da mesi in discussione non tanto nelsuo merito ma per altri aspetti esignificati.Tiene banco maggiormente la pro-spettiva del quadro e degli equilibripolitici e di governo futuri, partendodall’italicum, la legge elettorale ap-provata a valere per le elezioni dellaCamera e ancora mai applicata. Nelmerito della riforma costituzionalesiamo intervenuti tante volte e nelcorso di tempi assai più lunghi diquesti soli mesi in cui se ne parlacome abbiamo detto. Nel merito per

evidenziarne gli aspetti che ci sono sembrati e ancora ci appaionopositivi e quelli che invece abbiamo avuto e continuiamo ad averemotivo di criticare. Nel complesso non ci è mai sembrata una grandecosa, ma consideriamo che sia necessario procedere. Il peggio sarebbearrestare questo processo o impedirlo. Temo che per diverso temponon se ne farebbe più niente. E questo davvero reputo sarebbe undanno per un paese come il nostro che ha bisogno di mettere manoassolutamente ad un qualche significativo ammodernamento del propriofunzionamento istituzionale. Da oltre trent’anni l’esigenza di approcciareuna riforma è sentita e richiesta. Varie bicamerali all’uopo e nessunrisultato. Se non quello che nel frattempo è strisciato in qualchemutamento e rimarcando invece la riforma del titolo V che è stata unavera disastrosa soluzione. Alla quale adesso almeno un rimedio sicerca di porre ed è uno degli aspetti positivi dell’attuale riforma. Cene sono altri quali il superamento del bicameralismo perfetto anchese meglio di quel Senato delle autonomie che resta sarebbe statol’eliminazione completa della seconda camera. Tant’è! Bisogna anchefare i conti con quello che il convento è in grado di fare passare. È sulconvento che mi voglio soffermare, rispetto al quale una riflessioneil più puntuale possibile mi pare siano molti che la vogliono evitareo marginalizzare. Una politica allo sbando, ognuno contro l’altroarmato. Populismo a profusione, ovunque: è il terreno del contendereil consenso, nessuno se ne può e riesce ad estraniarsi. I risultati sottogli occhi di tutti. Del resto da certi ingredienti non possono venirnepietanze diverse. Checché se ne dica o si sia cercato di correggere ededulcorare, questo referendum continua ad essere un si o un no algoverno Renzi piuttosto che a quella riforma passata attraverso molteletture di Camera e Senato. Ha sbagliato Renzi per come l’ha impostataall’inizio? Anche, sicuro. Per quanto ci sia un dato inoppugnabile, distile prima ancora che politico. Se questa riforma non passa, per ilsignificato che ha e che ha assunto, per il crocevia che rappresenta,il Presidente del consiglio deve mollare il Governo e Mattarella deverimetterne in gioco la formazione, se possibile , di uno nuovo che conil Parlamento approdi alla definizione delle leggi elettorali con le qualiandare al rinnovo delle Camere. Non che Renzi debba mollare lapolitica, ma deve mollare il governo. Da qui secondo me non si puòprescindere e devo dire che anche questo mi costituisce una ragione,nel contesto del convento che sto guardando, per votare si al referendum.In tanti, mi pare, abbiano già dimenticato come si arriva a questa tappae cosa sia successo nel corso di questi ultimi anni. A partire dallarielezione – fatto straordinario ed eclatante – di Napolitano allaPresidenza della Repubblica. Quasi implorato perché accettasse nonriuscendo la conventicola a produrre alcunchè d’altro e di positivo.Vincolò l’accoglimento della diffusa implorazione alla realizzazionedelle riforme. Un impegno al quale il Governo e un’ampia partecipazionepolitica si dedicarono. Poi cominciò lo sbriciolamento strada facendo.Tuttavia in quella direzione si è proceduto con tutti gli ammennicoliapportati a correzione, integrazione e quant’altro, il più delle volte perpeggiorare il complesso propositivo che non per migliorarlo. Robanormale dei processi parlamentari, figuriamoci di questo Parlamento.Si poteva scrivere meglio, pasticciare di meno? Sicuramente si. Intantoperò si è messo a punto qualche risultato. Ci sarà modo, è auspicabile,che in prosieguo le cose vengano migliorate e meglio definite, e cheve ne siano le condizioni politiche e culturali per poterlo fare. Qui nonnascondiamo il nostro profondo scetticismo. Ma tutta la distorsionenell’affrontare questa riforma e il referendum del prossimo 4 dicembre

non è tanto, nel seppur pasticciato merito del testo riformatore, quantonel combinato disposto fra questo e il sistema elettorale, l’italicum,già approvato, in sostituzione del porcellum e a valere per le elezionidella Camera dei deputati. Arrivando perfino a parlare di rischiodittatura, tanto per non recedere definitivamente un dato storico benpresente nella formulazione della nostra Costituzione che seguiva lafase del dopo guerra e del dopo fascismo. Siamo uno strano paese, nonc’è dubbio. Da anni cerchiamo di ammodernare il funzionamentoistituzionale puntando, ovviamente dentro sistemi di garanziademocratica, a correggere il nostro parlamentarismo proporzionalisticointroducendo insieme al rispetto e alla tutela della migliorerappresentatività parlamentare un rafforzamento necessario del ruoloe delle funzioni governative sempre più richiesti dalla realtà che cicirconda che necessita di scelte rigorose ed anche onerose in tempiconsoni e non dilatori e inconcludenti. Allo scopo siamo perfino arrivatialla massima ipocrisia di ritenere che avremmo risolto il problemapassando all’elezione diretta del capo dell’esecutivo, rafforzandoneruolo e funzione. Ipocriti coscienti e malandrini, procedendo per le viebrevi e di certo non appropriate, prendendoci e prendendo in giro unpopolo a cui non dispiace essere menato per l’aia. Si potrà pensare diarrivare a soluzioni di quel tipo attraverso le leggi ordinarie che regolanole elezioni, anziché attraverso una riforma costituzionale seria cheassesta in quella direzione la forma di governo? E via tutti a pensareche Berlusconi veniva eletto direttamente dal popolo e che Renzi invecenon è passato dalle forche caudine dell’elezione diretta. Una somma,una altura di ignoranza da mettere spavento. E quel che mette ancorpiù spavento è il buio mentale di un popolo che nella sua stragrandemaggioranza a questo si è assuefatto credendoci. Del resto è cosìmiserevole il dibattito di queste misere forze politiche che vivono allagiornata, al tempo di un tweet, e allo spicciolo dell’interesse immediatoe parcellizzato che anche dove si litigano e si scontrano su riforma elegge elettorale non entrano nel merito con una che sia una propostaorganica sia in relazione alla forma di governo che si ritiene più utilee congeniale sia al sistema elettorale che sia il più coerente con quellae con il massimo della rappresentanza da tutelare. E in un caos delgenere altra massima genialata e scorciatoia è quella di riproporre ilsistema proporzionale dell’inizio repubblicano.Giriamo intorno, con spreco di tatticismi e di chiacchiericci, a questionidi grande serietà, senza cercare di venire a capo di nulla con respon-sabilità. Mandare a casa Renzi e il suo governo: si o no? Semmai do-vremmo confrontarci e decidere se vogliamo che una organica riformacostituzionale a valere per i prossimi decenni impronti questa o quellaforma di governo nel quadro di una garanzia di pesi e contrappesi disalvaguardia democratica. Ci aiuterebbe guardarci intorno, ma noisiamo italici e tale originalità guai a perderla che poi altro non si riducead essere che continuare a pensare ogni cosa nella lunghezza di untornaconto di parte, immediato non più lungo e non oltre il giornodopo. Già riflettere a quello successivo ci disorienta e ci sbilancia,troppo lontano, troppo impegnativo. È questa classe dirigente, bellezza!Non faccio mistero delle mie preferenze. Saranno anche sbagliate e sec’è di meglio ben venga. Ma mi limito a trarre spunto dai sistemitedesco e francese. Il secondo lo preferisco. E che faccio? Esprimo undesiderio, un auspicio: che in una direzione, ripeto in modo organicoe coerente si arrivi ad una solida soluzione istituzionale. Intanto peròbisogna muovere, aprire e percorrere un processo riformatore del qualec’è bisogno. Pur con tutti i suoi limiti questa modifica costituzionalepuò rappresentare questo inizio. La grande paura? Il combinato dispostocon l’italicum, il rischio da molti palesato del partito unico al potere.Non essendoci più i partiti che c’erano ma le personalizzazioni che cisono il rischio si tende ad enfatizzarlo ulteriormente e oltre la misurae così lo si esorcizza per le vie brevi: lasciamo tutto così come è. Nonè quello il rischio. Lo è invece la distorsione e la confusione del sistemapolitico che ne può uscire da una ciofeca come il sistema elettoraledell’italicum. Quello. Andrebbe corretto, va corretto. Ma occorrerebbefarlo con una certa coerenza con una prospettiva di assetto rinnovatodi forma di governo. Continuiamo invece a demandare al sistemaelettorale soluzioni che non gli sono proprie. Un sistema elettoralefondato su collegi uninominali, i candidati dei quali si selezionanoattraverso primarie serie codificate nella legislazione nazionale. Unsistema maggioritario di doppio turno. Espressione di un desiderio, diuna attesa. E che altro? Nulla di più. Tanto mi basta e me lo facciobastare per andare a votare si il 4 dicembre.

Riforma Costituzionale

Avviare un processo riformatoreReferendum

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di Giampiero Teodorani

La fine dei patàca

Come nella bella tradizioneromagnola, credo che il modomigliore e più efficace percommentare ciò che è accadutoalla Cassa di Risparmio diCesena sia quello di affermareche “a la avàm fata da patà-ca”; non è da considerareoffensivo ed è vero ed esplicitoper i tanti cesenati coinvolti.Sicuramente vale per laFondazione che in un colposolo è passata dal possedere il

48% della Banca, al 2,85%.La Banca ora è salva e solida, la Fondazione quasi inesistente.Credo si dovrà, in futuro, seriamente mettere in discussionel'esistenza della Fondazione, che non possiede altri capitali,o fonti di finanziamento, se si escludono alcuni immobiliper il social housing e altri che sono praticamente “undebito”.La Fondazione non ha una sede: il palazzo del 1876 di corsoGaribaldi, con la Pinacoteca (compresi gran parte deidipinti) sono di proprie-tà della Banca.Nel corso degli ultimidecenni la Cassa, comela chiamano i cesenati,ha fatto tanto per laCittà: per la cultura, perinterventi umanitari, perdotare la popolazione diimpianti sportivi impor-tanti, attrezzature sani-tarie e per l'università.Anche l'importante re-stauro della cupola dellaBasilica della Madonnadel Monte è da anno-verare fra gli interventiconsistenti. Non si puòinoltre dimenticare l'intervento nell'area dell'ex zuccherificiodove Banca e Fondazione si sono spinte fino al punto disostituirsi all'Amministrazione Comunale nella costruzionedi un nuovo quartiere.Punto di partenza di tante difficoltà!Ricordo che a metà degli anni '80 l'assemblea dei soci dellaCassa di Risparmio era composta da 105 membri, compresii principali enti locali del territorio; si riuniva una voltal'anno e costituiva un punto di riferimento, per capirel'andamento dell'economia e le caratteristiche dello sviluppodella Città, fornendo dati significativi per diverse analisi.Era un momento “solenne”.Non si parlava di dividendi, ma si destinavano gli utili dellaCassa ai settori principali di intervento: la sanità, il sociale,l'università, la cultura e gli aiuti per i progetti proposti dalleassociazioni. Si ascoltavano interventi di alto profilo e sipensava anche alla unione delle Casse di Risparmio dellaRomagna (CARIRO), per creare una forte presenza delcredito locale. Un sogno che si è infranto contro la

tradizionale litigiosità delle città romagnole, che tanti guaiha già creato nel corso della nostra storia e che, forse,continuerà a farne.Se il progetto fosse andato in porto, avremmo avuto la verabanca del territorio, solida e con dimensioni ottimali perqualsiasi intervento.In fondo i grandi gruppi industriali cesenati, che operanoa livello internazionale, sono nati e cresciuti anche graziealla Cassa e alla Popolare di Cesena.Poi all'inizio degli anni '90 sono arrivate le leggi Amato-Ciampi, che obbligavano la separazione dell' attività bancaria,con l'ingresso dei capitali privati, da quella istituzionale,mediante la creazione delle fondazioni, che si sarebberoaperte alla società, cosiddetta “civile”.Ampliando l'assemblea a 131 membri e creando inoltre unconsiglio generale di 20 membri, rappresentativo dellecategorie economiche, sociali, del volontariato, dell'universitàe della diocesi, e ovviamente degli enti locali.Non erano buone le leggi Amato-Ciampi?Non sono in grado di valutarlo, so comunque che noiabbiamo differenziato e separato ben poco le due attività,che fino alla fine hanno vissuto “insieme” (anche nel logo).

Sono mancate le con-dizioni di mercato? Haprevalso il desiderio ditenere stretto il controllodella Banca da partedella Fondazione osiamo stati colpiti daignavia? Sta di fatto chenegli ultimi vent'anni,chi è stato presidentedella Banca è statopresidente anche dellaFondazione e viceversa.Questa simbiosi èandata a detrimentoproprio della Fonda-zione, che ha garantitoda un lato la continuità

alla Banca, ma, dall'altro, non ha mai provveduto a di-versificare le proprie quote di capitale e a creare le condizioniper una propria e autonoma crescita.E oggi da patàca, mi viene da dire: la Fondazione “devefinire” perché la Banca ha concesso troppi crediti al “cerchiomagico” degli amici del mattone.Storia triste. Un pezzo di storia della Città se ne va; precipitatonel vuoto dell'indifferenza e forse troppo frettolosamentearchiviato, e con tanti lati “oscuri“.A cominciare dal ruolo avuto dalla Banca d'Italia, che haseguito e determinato, passo dopo passo, l'intera vicendacesenate negli ultimi mesi e le responsabilità oggettive chead essa si devono fare risalire. I controlli sono stati superficialio approssimativi?Qualcuno ci ha raccontato delle bugie?Credo di potere affermare che tante, e troppe, sono state leazioni e le pressioni esercitate perché la Cassa finisse inquesto modo....non esaltante, né confortante per la nostracittà.

Sistema bancario Carisp Cesena

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di Paolo Morelli*

La Romagna, e il Cesenate in modoparticolare, sono sempre staticonsiderati territori fortunati dalpunto di vista economico e sociale:lo stretto legame con l'agricoltura,in particolare l'ortofrutta, e l'inge-gno di numerosi imprenditori chehanno creato aziende di trasforma-zione, una rete commerciale plane-taria e aziende produttrici dimacchine per la lavorazione dei pro-dotti dei campi, hanno creato untessuto economico solidissimo,resistente a ogni vento di crisi. Losviluppo del turismo balneare e lacrescita di alcune aziende di rilievo

internazionale hanno fatto il resto. Non è un caso se in Romagna sononate così tante Casse Rurali da rappresentare un caso nazionale. Enumerose Casse di Risparmio, una per ogni città.Ma dal 2010, quando hanno cominciato a sentirsi anche qui gli effettidi una crisi economica senza precedenti, che non era congiunturalema strutturale, il sistema delle banche romagnole, gestito daun'oligarchia autoreferenziale che si fregiava dei buoni risultati favoritida un ciclo economico che continuava a espandersi, ha cominciatoa scricchiolare in modo sempre più sinistro. Paradossalmente quelloche sembrava l'anello più debole di una catena che non si è maisaldata, Forlì, ha anticipato la scelta della perdita dell'autonomia dellaCassa dei Risparmi, ottenendo benefici notevoli per la Fondazione equindi per il territorio, ma causando anche la penalizzazione di coloroche erano rimasti azionisti locali di una banca che locale non è più.Lo stesso è accaduto anche prima a Cesena e poi a Ravenna sul frontedella Popolari, ma in questo caso a trarne beneficio è stato un gruppodi privati cittadini.Veniamo ai tempi nostri e allo tsunami che si è abbattuto sul panoramabancario romagnolo, con particolare riguardo a Cesena, causando unimpoverimento del territorio le cui conseguenze ancora non sono benevidenti, ma lo diventeranno nei prossimi mesi e si protrarranno moltoa lungo nel tempo. Uno tsunami che ha avuto un'eco mediatica quasiesclusivamente locale poiché, nello stesso periodo, ci sono statisconvolgimenti ancora più grandi a livello nazionale. Ma ciò nontoglie che i danni siano notevolissimi, e probabilmente le ferite inferteal tessuto sociale dalle crisi delle banche non potranno essere mairimarginate.In termini aritmetici, cioè considerando solo i soldi volatilizzati sottoforma di capitale sociale che non c'è più, dobbiamo parlare di quasi150 milioni di euro, se sommiamo ai 16 milioni sottoscritti dagliottomila soci di Banca Romagna Cooperativa i 130 milioni circa dicalo del valore delle azioni della Cassa di Risparmio di Cesena pereffetto della riduzione del valore nominale da 5,60 a 0,50 euro (inrealtà il valore nominale è stato annullato, 0,50 è solo la cifra diriferimento per le nuove azioni). Ma nel caso della Carisp il dannoè più che doppio perché le azioni, fin dall'emissione all'inizio deglianni Novanta, furono pagate dai sottoscrittori 20.000 lire (consovrapprezzo) e col passare degli anni le compravendite avevanosuperato la quotazione di 19 euro. Il danno totale, solo dal punto divista finanziario, è quindi superiore a 300 milioni di euro. A parzialeconsolazione dei risparmiatori che piangono sul tesoretto che non c'èpiù potremmo evidenziare che poteva andar peggio e che anche chiha investito in azioni di altre banche è in situazione analoga, ma quelche ci interessa è che i soldi non ci sono più. Al danno economicodiretto bisogna aggiungere anche la perdita di posti di lavoro e lariduzione del potere d'acquisto di tante famiglie per effetto di contrattiche tendono a ridurre il costo del lavoro per le banche.Ma c'è un danno ben maggiore che è rappresentato dalla perdita dellocalismo delle banche. Nessuno lo evidenzia chiaramente, ma siintuisce un disegno generale di riduzione del numero delle banche edi centralizzazione dei poteri decisionali in pochissime mani. È undisegno politico che va avanti da tempo (non solo nel settore bancario)e non tiene conto della peculiarità del tessuto economico dell'Italia,formato da una miriade di imprese piccole e medie che sono sempre

più in difficoltà per la burocrazia che asfissia, il fisco che strangolae il credito che viene erogato solo in funzione di una classificazioneche tiene conto esclusivamente di parametri finanziari di bilancio.Quel che sta accadendo alla Cassa di Risparmio di Cesena èemblematico e per quel che si riesce a sapere è analogo a quello cheè successo, con conseguenze ancora più gravi, a Banca Marche,Popolare dell'Etruria, Cariferrara, Carichieti, Veneto Banca, Popolaredi Vicenza, e probabilmente sta per succedere anche alla Cassa diRisparmio di Rimini e al Credito di Romagna: si prende una bancamedio-piccola con qualche difficoltà (chi non ne ha, dopo otto annidi crisi immobiliare?), si mettono in evidenza i problemi attraversoispezioni e commissariamenti, si fa circolare qualche notizia negativache favorisce la fuga di un po' di risparmiatori e... il gioco è fatto!La banca è cotta, pronta per essere servita nel piatto di chi hasufficiente liquidità per ripristinare i parametri patrimoniali che nelfrattempo sono crollati.E chi dispone della liquidità necessaria, se non le banche maggioriche possono attingere dai fondi messi a disposizione a tassi irrisoridalla Banca Centrale Europea? Così i soci della banca, gli azionisti,vedono svanire dall'oggi al domani il loro investimento, che quasimai era di natura speculativa, e chi si presenta come "cavalierebianco" mette le mani sul patrimonio della banca (che non è fattosolo di beni materiali, ma di storia, radicamento sul territorio, legamecon la clientela, personale formato e competente...) compresi i creditideteriorati, che probabilmente si riveleranno una bella miniera,mettendo in un angolo, senza riconoscergli un centesimo, chi quelpatrimonio l'ha creato e sviluppato.Tra questi c'è anche la Fondazione della Cassa di Risparmio diCesena, il cui patrimonio è stato praticamente azzerato, col risultatoche non ci saranno più i tre-quattro milioni di euro che ogni annovenivano erogati a favore del territorio quando la banca rendeva benee distribuiva dividendi.Nonostante questo, la Fondazione Carisp, il cui presidente BrunoPiraccini ha sempre agito in accordo col consiglio d'amministrazionee il consiglio generale, i cui componenti hanno rinunciato a qualsiasiemolumento, ha subito il precipitare degli eventi senza cercare dicontrastarli, almeno pubblicamente. Evidentemente la priorità eragarantire la prosecuzione dell'attività della banca, seriamenteminacciata dalle rapide manovre con le quali, un colpo dopo l'altro,è stato fortemente ridimensionato il patrimonio.Un ruolo fondamentale nel fare evaporare i soldi che 13.200 persone,aziende ed enti avevano investito nelle azioni Carisp l'ha avuto ilprofessor Angelo Provasoli, già rettore della prestigiosa universitàLuigi Bocconi di Milano: ha fornito (dietro lauta parcella,immaginiamo, visto che la banca non ne rivela l'entità) al nuovoconsiglio d'amministrazione guidato dall'avvocatessa Catia Tomasettiuna valutazione del valore della banca usando il metodo DDM, siglache sta per Dividend Discount Model. Già il fatto che ci sia la parola“Discount” potrebbe fare arricciare il naso, ma se approfondiamo ifondamentali di questo metodo, il naso si storce proprio in unasmorfia di disgusto: il DDM è una formula matematica che determinail valore di un'azienda tenendo conto solo dei dividendi che sarannoprevedibilmente distribuiti in futuro. È bastato fornire al professoreun piano industriale che preveda pochi dividendi e il gioco è statofatto: infatti la valutazione del valore della Cassa di Risparmio diCesena, secondo Provasoli, è compresa in una 'forchetta' che va da500mila a 32,8 milioni di euro, corrispondenti a un valore per ognunadei 27 milioni di azioni compreso tra 2 e 81 centesimi. Nessun valoreviene attribuito al patrimonio, che pure ammonta a 107 milioni dopola chiusura del bilancio 2015 con una perdita di 252 milioni, nienteper l'avviamento, il marchio, gli immobili, l'ingente credito d'imposta,la rete commerciale, i dipendenti. Questi ultimi, anzi, rappresentanoormai solo un costo da abbattere. Più in fretta che si può, a partiredai più esperti.Se Provasoli è il pivot della nuova squadra della Cassa di Risparmio,sono numerosi i giocatori che vi girano attorno, ognuno col proprioruolo: si comincia con la Banca d'Italia che all'inizio del 2015 mandaun'ispezione durante la quale vengono chiesti forti accantonamentiche portano il bilancio semestrale a chiudere con una perdita di 37

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Sistema bancario

Perdita del localismo delle banche

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milioni. La lettera con le contestazioni derivate dall'ispezione, però,viene spedita solo a novembre, sei mesi dopo la chiusura. Il contenutodella missiva è tenuto rigorosamente segreto, ma per capire quel chec'era scritto basta guardare quel che è successo nei mesi successivi:bisogna cambiare tutto! Consiglio d'amministrazione, direzione,organizzazione e responsabili degli uffici di controllo. Ed è necessariotrovare rapidamente un partner di maggiori dimensioni.La palla passa alle Fondazioni che controllano il 66% delle azioniCarisp (Cesena 48%, Lugo 12%, Faenza 6%) e sono legate da unpatto di sindacato. Di fronte allo spauracchio della "risoluzione" dellabanca (la parola da usare sarebbe "fallimento", ma non è elegante)le fondazioni abbozzano e il 1° febbraio 2016 eleggono un consigliod'amministrazione tutto nuovo, molti dei cui componenti erano staticonosciuti solo attraverso i curriculum, e guardano senza aprire boccaogni mossa decisa dalla nuova presidente, l'avvocatessa CatiaTomasetti, elegante cinquantenne con solidi legami nel PartitoDemocratico (è stata nominata presidente dell'Acea dall'ex sindacodi Roma Ignazio Marino) i cui modi affabili nascondono un pugnodi ferro inesorabile, come ben sanno coloro che pensavano di restarenei loro posti di vertice della banca anche con la nuova gestione. Ecosi, nel giro di pochi mesi, la Cassa di Risparmio di Cesena vienecondotta sull'orlo del baratro, col patrimonio ridotto da 300 a 107milioni in meno di un anno e il bilancio 2015 chiuso con una perditadi 252 milioni, grazie all'azione di alcuni consulenti ben pagati tra iquali si distingue Elia Colabraro.Intanto alla direzione generale passa come una meteora il romagnoloDario Mancini, sostituito a metà luglio, dopo tre mesi e mezzo diservizio, dal torinese Bruno Bossina, la cui provenienza dal gruppoIntesa Sanpaolo induce più d'uno a pensare che la sorte della Carispsia già stata decisa.Facile, a questo punto, applaudire l'intervento dello Schema volontariodel Fondo interbancario di tutela dei depositi (è formato dalle maggioribanche italiane e straniere che operano in Italia) che immetterà 280milioni di euro nella Carisp con un aumento di capitale riservato che,grazie alla perizia Provasoli, sarà fatto a 0,50 centesimi per azione.Il prezzo non è stato determinato a caso: consentirà al Fondo di avere560 milioni di azioni, circa il 94 percento del totale, con le fondazioniridotte al 4 percento e i privati al 2!Questa strabordante maggioranza servirà al Fondo per garantirsi lapossibilità di vendere la maggioranza assoluta della Carisp mantenendouna quota azionaria consistente anche nel caso in cui andasse in portol'operazione dei warrant (diritti) assegnati gratuitamente ai vecchiazionisti, comprese le fondazioni, in ragione di quattro warrant perogni azione posseduta.Ecco, i warrant: secondo i nuovi vertici della banca sono una buonaopportunità per gli azionisti di recuperare una parte dei soldi persicon l'aumento di capitale riservato al Fondo, ma a parere di moltiazionisti e qualche professionista (che però non s'azzarda a metterela testa fuori dalla trincea), è solo fumo negli occhi.Il fatto che i diritti potranno essere esercitati solo nel periodo compresotra 18 e 60 mesi dall'emissione, acquistando un'azione per ogniwarrant a 50 centesimi, lo stesso prezzo riservato al Fondo, avvalorai sospetti. In ogni caso c'è un aspetto positivo: i warrant vengonoassegnati gratuitamente, quindi gli azionisti non subiranno ulterioriperdite.In mezzo a questo turbinoso evolversi delle vicende relative allamaggiore banca cesenate, si assiste a un preoccupante silenzio (oquasi) delle istituzioni, delle forze politiche, dei sindacati.Le voci che si sono levate sono state poche e a volte non moltoconvinte. Eppure si tratta di un'azienda che ha quasi mille dipendentie un fortissimo radicamento territoriale: accadesse in un altro settore,sarebbero ben altre le reazioni.Si intuiscono manovre e accordi sotto traccia a tutti i livelli, e imbarazzia far sentire la propria voce per evitare di essere chiamati a partecipareal gran ballo delle responsabilità (che terrà banco nei prossimi mesi).E così, in un caldissimo Carisport (non sono mancati i malori) il 3luglio 2016 sono stati approvati il bilancio con i 252 milioni di perdita,l'aumento di capitale da 280 milioni riservato al Fondo e tutti gli altripunti connessi con questa manovra. Le Fondazioni di Cesena, Lugoe Faenza, pur non essendo più legate del patto di sindacato, hanno

votato sì a tutti i punti dell'ordine del giorno, pur con qualchedistinguo, rendendo vana la partecipazione degli azionisti privati lacui maggioranza ha comunque approvato tutti i punti tranne il bilancio.Il voto negativo al bilancio da parte dei privati è stato probabilmentedeterminato dalla volontà degli ex amministratori e dirigenti, quasitutti azionisti di primo piano, di tenere aperta la possibilità diun'impugnazione di questo bilancio la cui costruzione mostra più diuna crepa, impugnazione che potrebbe essere strategica in vista dellefuture battaglie legali.Tra le cose che stonano in questo affollato e contorto panorama c'èla rappresentanza sindacale aziendale: First-Cisl, Fiscat-Cgil e Uilca,memori di una sostanziale sintonia ventennale con l'ex direttoreAdriano Gentili, sembrano più impegnati a contrastare chi cerca difare una corretta informazione e a tenere in un angolo il sindacatoautonomo Fabi, costretto a tavoli di trattativa separati, piuttosto chea limitare i danni di uno sconquasso che negli ultimi mesi ha portatoalla chiusura di venti filiali e altri danni sul fronte occupazionale faràin futuro. Sul fronte politico la sola forza a far sentire una voce fortee chiara con una conferenza stampa e un'assemblea pubblica è statoil Movimento 5 Stelle che ha parlato apertamente di "banca sottrattaai cesenati, non sappiamo se legalmente o illegalmente" e ha messol'accento non solo sui trecento milioni e passa persi dalla Fondazionee dagli azionisti privati, ma anche sui cinque miliardi di euro dirisparmi che saranno gestiti lontano da Cesena.A non farsi sentire sono anche gli ex amministratori e dirigenti,nonostante ci siano due inchieste giudiziarie che li coinvolgono: unadella Procura della Repubblica di Forlì che ha preso la mossa dalladistribuzione anticipata di un dividendo a fine 2012, già arrivata allachiusura delle indagini preliminari; l'altra della Procura di Ferrarasu un'illegittima sottoscrizione reciproca di azioni tra la Cassa ferrarese(una delle quattro banche "salvate" a fine 2015, ora dichiaratainsolvente) e la Cassa cesenate, illegittimità contestata con uncomunicato dall'ex presidente Germano Lucchi.Gli ex vertici della Carisp hanno deciso comunemente la linea delsilenzio: forse temono di darsi la zappa sui piedi con qualchedichiarazione avventata nella prospettiva di una causa civile milionaria(in termini giuridici si chiama "azione di responsabilità") che la bancaha intenzione di proporre nei confronti dei precedenti amministratorie dirigenti.In questo contesto chi ci sguazza come un'oca nello stagno è DavideFabbri, ex consigliere comunale dei Verdi molto attivo su Facebook(ora si definisce "blogger indipendente") sempre a caccia di visibilitàe consensi. Ha approfittato del fatto che le associazioni dei consumatorinon hanno mostrato grande prontezza e ha fondato un Comitato sociche in poche settimane ha raccolto circa trecento adesioni di azionistiche non ci stanno a perdere i propri risparmi in silenzio.A guidare il comitato, insieme a Davide Fabbri, c'è Franco Faberi,un ex pilota Alitalia che ora si definisce "street economist".È curioso che né Fabbri né Faberi siano azionisti Carisp: il primodice di non essere riuscito ad acquistare un pugno di azioni per gliostacoli frapposti dalla stessa banca, il secondo dice di averle vendutequando ha sentito puzza di bruciato.Nel mirino di Fabbri c'è la precedente gestione della Cassa diRisparmio di Cesena, con i presidenti Germano Lucchi, TomasoGrassi e il direttore generale Adriano Gentili, ma soprattutto ilpresidente della Fondazione Carisp Bruno Piraccini, tiratopesantemente in ballo con accuse che coinvolgono anche alcuni suoifamigliari. Fabbri punta il dito anche contro i giornali locali che nonpubblicano nel dettaglio le sue accuse e fa un po' di confusione sugliautori degli articoli, ma non risponde a chi gli chiede di mostrare leprove di quel che scrive.Faberi, invece, ha puntato il dito contro la perizia Provasoli arrivandoalla conclusione che il valore delle azioni basato sul patrimonioattuale non dovrebbe essere di 0,50 euro, ma di 3,90.Queste vicende, che stanno tenendo banco anche nelle chiacchiereda bar a Cesena e in Romagna, continueranno a restare d'attualitàper anni. Nessuno può sapere come andrà a finire per i singoliprotagonisti, ma una cosa è certa: la Cassa di Risparmio di Cesena,dopo 175 anni di storia, non sarà mai più di Cesena.

*Giornalista del Resto del Carlino e Teleromagna

Carisp Cesena

Impoverimento del territorio

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di parte di esperienza personale che sento sgradevole. Chenon è e non dovrebbe essere nelle mie corde per come sonofatto, per come di solito affronto i problemi che mi trovoinnanzi. Questi anche, seppur da non molto, in ruolo efunzioni specifiche di una certa diretta attinenza. Sento ilpeso di una responsabilità alla quale non ho fatto frontecome avrei voluto. Non che questo fosse foriero di chissàche. Tuttavia ne vivo un disturbo personale sgradevole.Parlo per me e mi limito a questo. Non conta quel che hodetto, che ho proposto, che ho criticato, che ho incalzato,che ho richiesto, se poi io, per primo, ho lasciato che restasseal palo di espressioni verbali senza andare oltre. Questorimprovero a me stesso: di non essere andato avanti inbattaglie che andavano fatte. Non le ho fatte. E non è dame e questo è quello che mi infastidisce: non di averlecondotte e vinte; semplicemente di non averle fatte.Risucchiato in quell’ambito e non volendolo, per una miriadedi ragioni e rapporti, urtarlo. Errore. Senza questa doverosaammissione non potrei continuare ad andare oltre. Cosache invece voglio fare perché l’errore, che dubito troveràseguito e conferme, non può e non deve inficiare seguito,prospettive, soluzioni, mutamenti che hanno motivatoimpegni e ancora li motivano e li giustificano. Ancora dipiù e a maggior ragione. Per quanto, purtroppo in unasituazione tragica e drammatica a dire poco e per moltiversi.Quando mi trovai interno alla Fondazione Crc il quadro diriferimento era già cambiato notevolmente rispetto al passato.Di questo, qui, abbiamo affrontato le situazioni, lesfaccettature. Su di esso ci siamo soffermati ampiamente.Non ci ritorno sopra. La Fondazione teneva il 48% dellaBanca. I dividendi erano finiti. La condizione finanziariaprecaria assai. Il ruolo della fondazione, nel territorio, giàdi gran lunga ristrettosi se non in fase crescente dicompromissione. L’accordo Acri Mef aveva cambiato inprofondità le Fondazioni, il loro funzionamento, il rapportocon le banche di riferimento. Entro un periodo definitobisognava scendere a non più di un 33% di partecipazione.Diversificare senza buttare, ma per trovare resa. La primaintenzione era quella di cercare di reimpostare il modusvivendi della fondazione rispetto ai suoi compiti di istitutoverso il territorio. Un documento positivo dell’Acri relativoal loro ruolo nel e per il welfare costituiva, secondo me,un punto di partenza di rilevanza. Ne cominciai a dibatteree a far discutere anche qui. Bisognava uscire dalla pioggiadegli interventi di varia natura “ a domanda risponde, senzatanti criteri”. Erogazioni. Si chiedevano, si davano. Se necommisuravano la misura sul plafond disponibile, contavail peso del richiedente, e avanti, quasi scivolando. Cercaredi fissare paletti, criteri selettivi, impostazioni progettuali,monitorarne gli effetti, i risultati. Insomma rivoluzionarela cultura dell’intervento. Rispetto a un passato che nonpoteva più essere sia per gli accordi citati, sia per ledisponibilità finite sia per i disastri di scelte compiute cheerano e sono lì ancora a dimostrare come non si amministrail denaro pubblico oltre tutto creando indebitamento senzapossibilità di coprirlo e farvi fronte a pregiudicare un futurogià in fase di compromissione. Ma se le vacche sono grassee c’è chi pensa che si mantengano tali non molla e tiradritto. Che mi faceva pensare subito a due cose: che dove

Ancora sulla Cassa di rispar-mio di Cesena. Ma mettendoa mente in modo costantequanto segue. Non riguardasolo altre realtà. Rende, mipare, assai bene, uno spaccatorealistico anche della nostrarealtà locale.“Il conformismo è una sottilemalattia italiana. A volteinvisibile. Fa molti danni. Levoci minoritarie, su diversiargomenti di rilevanza pubbli-ca, son viste sempre con so-

spetto. Un ostacolo alla soluzione dei problemi. Unafastidiosa perdita di tempo. Le tristi vicende bancarie nonsfuggono a questa regola.”Comincia così un articolo di Ferruccio de Bortoli di sabato30 aprile 2016 sul Corriere della Sera: “Le invisibili malattiedell’Italia”, “Perché le ipocrisie non aiutano il credito”. Etorno subito a quello “…al conformismo che, in non pochicasi, si è trasformato in un orgoglioso patriottismo locale,in una cieca militanza territoriale”. E voglio sottolinearecome continua: ”Una simbiosi perversa fra persone ancheautorevoli, oneste, in buona fede, che ricoprono ruoli diversi,ma facendo parte tutti della stessa comunità, finiscono perconvincersi della verità di facciata. Trascurano numeri erealtà sgradevoli. Guardano con sospetto voci contrarie efuori dal coro. Il senso di appartenenza sconfina nell’omertà.La retorica dei panni sporchi che si lavano in famigliaabbonda. Quando la situazione precipita è troppo tardi. Eil danno inflitto a realtà di straordinaria laboriosità e culturad’impresa è irreparabile. E ingiusto per comunità di grandetradizione e civismo. Affinché i fatti non si ripetano, occorreuna discussione aperta e sincera. Si nota, invece, una granfretta di chiudere le porte sul passato e dimenticare. Comese l’oblio fosse un fattore di ripresa. I vertici di molte banchecoinvolte – continua ancora la disamina realistica e spietatadi de Bortoli – sono cambiati è vero. Ma non sempre è così.Le azioni di responsabilità? In città nelle quali ci si conoscetutti, meglio non farle. Non è opportuno”. L’articolo dell’exdirettore del Corriere della Sera trae le sue mosse dallavicenda della Popolare di Vicenza dove le azioni pagateanche più di 60 euro oggi non valgono quasi nulla. Maquesto argomentare crudo, realistico, difficilmente noncomprensibile e condivisibile può essere esteso ad altrerealtà. Davvero ci vorrebbe uno scudo di ipocrisia enormeper negarlo. Avanti : “Il galateo dei rapporti personali spessoesterni e del tutto estranei alla banca, suggerisceaccondiscendenza e cortesia. Sconsiglia rifiuti scontrosi chepotrebbero essere controproducenti per il professionista cheha tanti clienti in città, per l’imprenditore in consiglio chenon può schierarsi contro un collega di cui condivide latessera associativa industriale, per il politico che vuole ilconsenso. Il consiglio non funziona più, la banca non fa ilsuo mestiere. È in ostaggio”. “Senza un dibattito aperto,governance migliori, controlli severi, gli scandali sonodestinati a riprodursi”.Micidiale articolo. Disamina e valutazioni da riflettere. Danon scansare. Uno spaccato dentro il quale, quasi, mi sonosentito come un poco risucchiato. E coinvolto. Una sorta

Sistema bancario

Banca scippatadi Denis Ugolini

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pensavo ci fosse adeguata cultura d’impresa ce ne era dimeno di quel che presupponevo; e che a mungere la muccaerano non una solo ma una serie di volontà, le più disparate,dai singoli sussidi vari alle megalomanie faraoniche. Citoe mi fermo: Suore della Sacra Famiglia. Un capolavoroinsulso cui non bisognerebbe mai smettere di fare riferimento,per non seguire pessimi esempi. Questa un’intenzione.L’altra parallela: la messa in sicurezza della banca a frontedelle situazioni nuove in maturazione e della situazionecritica del sistema bancario in fase di progressivamanifestazione.I conti della Banca a dire la necessità di approntare scelteimportanti di piano industriale, di forte aumento di capitale,di sistemazione dei parametri di garanzia. Banca D’Italiain Cassa di risparmio: analisi, rilievi deduzioni, controdeduzioni. Problemi certo, ma non irrisolvibili in base aidati forniti dalla Banca.Affrontabili anche per stepdi aumenti capitale nonimpossibili. Fine 2015. LaBanca d’Italia intima (è ilcaso di dire così) che ilconsiglio di amministra-zione della Crc sia comple-tamente cambiato, conditiosine qua non per qualsi-voglia processo di messa apunto della banca. Scatta unobbedisco generale, contor-nato di mugugni. Ma unobbedisco che pare nonaggirabile. Chieder perchéquando non si capisce nonè nemmeno sbagliato.Niente: ottemperare.Via alla ricerca dei nuoviamministratori, raccolta dicurricola e avanti. Sti nuoviamministratori devono ingran parte essere nominatidalle fondazioni e due daisoci privati. Potrà la Fondazione avereun minimo di interlocuzio-ne, confronto? Chi si appre-sta ad essere nominatomanco sappiamo chi sono.Io almeno, ma non solo. Propongo due autorevoli curricola,tanto per dire esaminiamoli. Incontriamo gli interessati,conosciamoli, non prendiamo a scatola chiusa, Un curriculumè importante ma saper chi è che nomini, avergli parlatosentito cosa pensa non è secondario, anzi. Niente, avanti.E qui la mia prima responsabilità che ancora mi ferisce.Non aver puntato i piedi anche se da solo. Anche per solodistinguo. Tant’è! Mi formo un ‘opinione che sempre piùmi si radicalizza. La esterno in ripetute occasioni: siamo difronte a un ricatto; si sta esasperando una condizione dellabanca per la quale non ci pare vi siano coerenti riscontricontabili. Si sta presentando una situazione per preparareuna svendita a buon mercato. Si procede ugualmente. Cambiail Cda della Banca. Il primo febbraio Assemblea della banca.

Incalzano le tensioni tutt’intorno. Nuovo Presidente, nuovoconsiglio, nuovo Direttore. Solo dopo pochi mesi saràcambiato anche quest’ultimo. Figura forte: la nuovaPresidente. I conti presentati in assemblea sono ancora talida far prefigurare vie di uscita per step abbordabili, buonatenuta e sistemazione adeguata.Poche settimane, nemmeno mesi, e i conti deflagrano:situazione bancaria in dissesto. Correre ai riparidrasticamente, velocemente, radicalmente. Stupore generale,incredulità, sconcerto. Di tutti? Forse no. Di molti si, io fraquesti e non solo. Nessuna reazione? Possibile non chiedere,non interloquire, non cercare di capire di andare a fondodelle nuove cifre che emergono del perché e del perché cisono e non erano in evidenza. Ste cose per caso nonsuccedono. Ma se c’è un coperchio che copre non lo sitoglie. Rimane il recondito pensiero di un disegno preordinato

che galoppa verso il suo finenaturale. Questa bancainteressa, piace questosistema territoriale, econo-mico imprenditoriale. Se siprende in svendita è meglio che a normali prezzi dimercato. Giri di walzer anon finire. Manco si riescea fare incontri con il nuovoPresidente. Difficile. Ruolodella Fondazione reso a mi-nimi termini. Fastidiosoquasi da allibirsi. Intorno ilsistema impazza: Vicenza equant’altro. Arriva il Fondointerbancario: prende tutto.280 milioni di aumento dicapitale, si prende la banca. Fondazione ai minimissimitermini, soci privati depau-perati colossalmente.Debacle. Banca con tutti iparametri a posto, anche piùdel necessario. Il resto, unatragedia, macerie. Se era ilmomento, quel frangente dipochi mesi, perché si potes-se manifestare e verificareil corale impegno di unaclasse dirigente, come io

pensavo vi fosse in fondazione, con annessi soci privati,quel momento non c’è stato. C’è la classe dirigente, è dievidenza, ma non c’è, non c’è stato un suo agire in quantotale, men che meno un agire corale. Su questa vicenda unintero sistema territoriale, politico, economico, istituzionaleha evidenziato una assenza, in quanto capacità di sistemache, fatto gravissimo, va ben oltre la vicenda in sé. È in attoun processo di declino di questo sistema territoriale. È iltema da affrontare con capacità e coinvolgimento. Istituzioni,territorio, forze economiche, imprenditoriali, sociali, laFondazione (da ripensare e ridefinire). Queste realtà, questeforze e il sistema politico nel suo complesso, per quantopovero e miserevole, devono trovare la maniera di usciredall’angolo in cui si sono chiusi.

Carisp Cesena

Fondazione indebolita

Banca con tutti i parametri a posto, anchepiù del necessario.

Il resto, una tragedia, macerie. Se era il momento, quel frangente di

pochi mesi, perché si potesse manifestaree verificare il corale impegno di una classe

dirigente,come io pensavo vi fosse in fondazione,

con annessi soci privati, quelmomento non c’è stato.

C’è la classe dirigente, è di evidenza, manon c’è, non c’è stato un

suo agire in quanto tale, menche meno un agire corale.

Su questa vicenda un intero sistematerritoriale, politico, economico,

istituzionale ha evidenziato una assenza,in quanto capacità di sistema che, fatto

gravissimo, va ben oltre la vicenda in sé.

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di Guido Pedrelli

Lo statuto della FondazioneCRC recita al titolo I comma2 che "...la Fondazione è lacontinuazione ideale dellaCassa di Risparmio di Cesena,fondata da una società di 105persone e riconosciuta condecreto pontificio del 18maggio 1841...". 175 anni distoria che nei prossimi mesi siinterromperanno.La Fondazione non sarà più ilsocio di controllo della banca,

ma un socio di minoranza con il 2,28%, conseguenzadell'aumento di capitale di 280 milioni che a breve saràsottoscritto dal Fondo Interbancario Tutela Depositi e cheper questo deterrà il 94% del capitale. Si spezzerà il filoche ha unito le vicende della società bancaria e la Fondazione,ente con finalità sociali. Non sarà più la continuazione diquella Cassa di Risparmio di Cesena, fondata nel 1841 da105 cittadini diCesena.La Fondazione ..."persegue scopi diutilità sociale e dipromozione dellosviluppo economicodel territorio di pro-pria competenza,interpretandone leesigenze...", recitaancora lo Statuto.Per svolgere questefinalità la Fonda-zione attingeva leproprie risorse daidividendi dellaCRC e da pochi altriinvestimenti.Dividendi che neiprossimi anni nonci saranno e se ritor-neranno sarà solonella misura del2,28%, ben poco in confronto ai milioni ricevuti in passato.La drammatica approvazione del bilancio del 2015 dellaCassa di Risparmio di Cesena con la perdita di 250 milionidi euro e la svalutazione delle azioni, ha quasi azzerato ilpatrimonio di 3 Fondazioni (Cesena, Lugo, Faenza) e haprivato di importanti investimenti molte famiglie. Sui verticidella Fondazione di Cesena sono state fatte pressioni diogni genere.Chi invitava a votare contro il bilancio della Banca, chichiedeva prese di posizione più dure nei confronti delleistituzioni nazionali di controllo e dell'organo amministrativodella Banca chi, infine, sollecitava un voto favorevole albilancio del 3 luglio.E' stata fatta quest'ultima scelta, difficile e tormentata, nellaconsapevolezza delle gravi conseguenze che la Fondazione

ne avrebbe ricevute, ma anche con la certezza che votarecontro avrebbe significato mettere in stato di liquidazionel'istituto bancario con perdita totale del valore delle azionipossedute e rischiare circa 1000 posti di lavoro .Ora le azioni della Cassa, fortemente deprezzate, hanno unvalore minimo, certamente, ma l'Azienda, con un patrimonioricostituito e rafforzato, continua la propria attività. E questolascia ben sperare per l'avvenire.Per la Fondazione si aprono scenari nuovi. Dovrà rivedereil suo essere e fare delle scelte. Le opzioni in campo sonodiverse: sciogliersi, fondersi con consorelle più ricche ocontinuare con nuova lena e nuove strategie. Il dibattitoancora non è iniziato e si svilupperà nei prossimi mesi.Quale sarà la conclusione ancora non lo so io e non lo sa,credo, nessuno, non essendoci certezze, ma solo ipotesi. Ilprimo appuntamento per confrontarsi è fissato per sabato17 settembre nel corso dell'Assemblea dei soci dellaFondazione.Io non credo allo scioglimento e all'utilità di una fusione.Bisogna ripartire dal patrimonio restante che la Fondazione

possiede. Un ruolonella città di Cesenae nel territorio delrelativo compren-sorio, una funzionee un ruolo lo può elo deve esercitare.In passato sono sta-te fatte erogazioniper: volontariato,arte, cultura, assi-stenza agli anziani,università, scuola etanto altro. Non viè l'intenzione diuscirne. Si studieràcome sollecitare daaltre fonti questiinterventi, in attesache anche per laFondazione arrivinotempi e risorse mi-gliori.Non si può pensare

che i settori nei quali la Fondazione è fin qui intervenutadebbano essere totalmente abbandonati perché attualmentenon vi sono risorse.Esistono realtà sociali ed economiche, con le quali fin'oraabbiamo interagito che hanno necessità di un coordinamentoe di riorganizzazione.La Fondazione in questo ha un patrimonio di conoscenzaed esperienza che non deve andare disperso, da utilizzaree mettere a disposizione del territorio..Si dice che i soldi non sono tutto. E' il momento didimostrarlo. E' il momento di avere delle idee. Lesollecitiamo e le aspettiamo. Da tutti. In questi anni laFondazione ha erogato tanti finanziamenti, corteggiata osollecitata da ogni parte. Chi ha avuto, ora ci dimostri chela solidarietà non è sempre a senso unico.

Quale Fondazione Carisp Cesena?

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Sistema bancario

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di Stefano Bernacci*

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La riflessione e il dibattito suimodelli di sviluppo e gover-nance da individuare e adottareper il nostro territorio – cheEnergie Nuove ha il grandemerito di coagulare da temponella sua preziosa rivista - nonpuò prescindere dalla consa-pevolezza di essere di frontea una serie di trasformazioniper certi versi epocali, chehanno inevitabili conseguenzesul tessuto economico e socia-le.

Dobbiamo tenerne conto, se si vuole produttivamenteragionare insieme su quali azioni produrre per favorire lacrescita, e non farlo solo come puro esercizio dialettico.Il tratto distintivo di questo cambiamento in atto è il venirmeno di alcuni punti di riferimento consolidati del sistemaproduttivo locale fatto principalmente da piccole imprese.Volenti o nolenti è a questo venir meno, o in ogni caso aquesta profonda mutazione, che siamo di fronte.Il mondo del credito è cambiato e questo in un tessuto dipmi bancadipendenti è un fattore importante.Le vicende della Cassa di Risparmio di Cesena e del CreditoCooperativo, così come la riforma delle Popolari non sonostate certo indolori per un tessuto di piccole e medie impreseche ha sempre fatto conto sulle banche del territorio, pressole quali, grazie anche alla conoscenza delle persone e a unsistema di relazioni naturale, è stato più facile finanziarsi,anche se ciò avviene non sempre e non necessariamente.Certo, si può dire che oggi ci sono le risorse ma questevengono scarsamente impegnate e non si può liquidare laquestione affermando semplicemente che il cavallo nonbeve: persistono infatti tanti vincoli che rendono più facilericevere una linea di credito di tre o quattro milioni piuttostoche 30mila euro, come provano i dati relativi al generalecalo degli impieghi a favore delle piccole imprese. In ognicaso è indubitabile che la crisi del modello delle banchelocali accentui dunque ancor più la difficoltà di fare impresa.Anche nel modello istituzionale è in corso un processo diprofonda trasformazione, senza che l'approdo sia ancoranitido. Le Province, in pratica, non ci sono più, per comela comunità e le imprese erano abituate a rapportarsi conloro e a tutt’oggi mancano luoghi in cui confrontarsi eragionare su politiche ed iniziative di scala sovraterritoriale.Le Camere di Commercio, dal canto loro, sono indottedalla riforma ad accorparsi, ma, quel che conta - giusto osbagliato che sia il nuovo corso - è che le risorse che ser-vivano ad alimentare progetti di investimento territorialenon ci sono più.Un altro venir meno, pesante.Vogliamo parlare anche dell'Università? Serinar ha rivestitoun ruolo egregio sul versante delle infrastrutture immobiliarie dei servizi, sull'hardware, quindi. Ma ora, sempre più, ilproblema è quello del software e in particolare di comeraccordare corsi e facoltà col mondo delle imprese e nonsi può pensare che questa sfida si possa affrontare con ivari lab territoriali, pur meritorie che siano queste esperienze.Un altro venir meno è rappresentato dagli enti pubblici cheriducono progressivamente la loro presenza nelle società

partecipate. Certo, non spetta al pubblico innestare losviluppo, come non ci stanchiamo di ripetere, ma anchequesto arretramento e disimpegno agisce da concausa,perché l'architettura del territorio e il ruolo del pubblicosono fattori che incidono sulla crescita, o meno.Si pone inoltre un problema, cioè il venir meno certamentedi ricambio della classe dirigente che nel nostro territorioè sempre stata costituita dagli esponenti di ben individuateistituzioni, alcune delle quali hanno però subitotrasformazioni perdendo la loro centralità, oppure di piùstrutturati gruppi industriali in cui si pone in certi casi laquestione del ricambio generazionale.Il rischio, in ogni caso, è che in questa fase di cambiamentoe trapasso, più che su una consolidata e autorevole classedirigente tutto ruoti attorno al dinamismo e al protagonismodi soggetti isolati da un contesto che oggettivamente latita.Bene: se questo è lo scenario che emerge, il tessuto produttivostesso e chi lo rappresenta, di fronte al venir meno di certecondizioni e supporti, deve scegliere come comportarsi: odà per perse le condizioni precedenti e ripiega su se stesso,oppure ricerca nuove modalità, opportunità e strategie peralimentare la crescita.Ecco, a me pare che è di tutto questo che si parli troppopoco e che si ragioni ancora come se ciò su cui mi sonosoffermato non fosse venuto meno o non si fosse trasformato.Ragioniamo come prima della crisi, come se non fossesuccesso nulla, mentre è cambiato il mondo.Qualche rapido spunto, infine, per innescare il dibattitorinnovato che auspichiamo.L'Università, si diceva: vanno bene Ingegneria, Informatica,Psicologia, Agraria e Scienze dell'Alimentazione, ma perchénon cominciare a ragionare su un Politecnico più vicinoalle tipologie di esigenze professionali del nostro mondoproduttivo o sulla richiesta di una Clinica universitaria(decentrata rispetto a quella di Bologna) per alimentare equalificare ulteriormente le specializzazioni e le competenzedi una Asl che si muove, pur faticosamente ma giustamente,in una logica di Area Vasta?Esauritasi una certa fase propulsiva della cittadellauniversitaria, non è forse necessario concentrarsi su qualinuovi strumenti possono essere più utili per favorire lacrescita del nostro territorio?Un altro punto chiave in cui elaborare nuovi modelli riguardala grande sfida per un territorio caratterizzato (come tuttoil nostro paese) dall'invecchiamento della popolazione edallo sviluppo di nuovi bisogni e servizi socio-assistenziali:vale a dire la costruzione di un welfare di comunità in cuipubblico, privato, sindacati e associazioni siano chiamatia ragionare strategicamente per costruire efficaci strumentimutualistici, in grado di supportare un sistema pubblico eprivato che marcia in maniera ancora troppo separata.Ma sono anche altre le sfide che ci attendono: dall'eternapartita delle infrastrutture ai nuovi assetti istituzionali, allafunzione e al governo delle partecipate. Come affrontarle?Con gli strumenti del passato (che non ci sono più)? Oppurein quale nuovo modo?Ragioniamoci insieme ricreando un ambito per farlo, luogodel confronto che oggi purtroppo sembra non esistere più.Forse non ce ne siamo accorti, ma è venuto meno anchequello.

Il ragionare di sviluppo all'epoca del “venir meno”

*Segretario Confartigianato Federimpresa Cesena

Non c'è luogo di confronto

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di Tommaso Marcatelli

In questa estate un po’ “foolish”,mentre il terrorismo islamista hainiziato a sgozzare in Europa ipreti sul’altare, e l’elite gender-massonica che ci governa ha piùa cuore la cannabis di DellaVedova che la salute dei cittadini,la sanità ha continuato ad esserela grande desaparecida nel dibat-tito politico odierno condotto suimedia nazionali se non come costoda tagliare o cronaca giudiziaria.E anche l’accanimento mediatico,con cui il sindaco Lucchi hainvaso la città con la proposta di

un nuovo ospedale, è apparso un po’ strano, ma non bisognadimenticare che nei momenti difficili è un buon diversivo fornirequalche potente rito collettivo partecipativo (a base di tavoli,commissioni, relazioni, statistiche) ai cittadini, coloro che poverininon si rendono conto di come il mondo sia difficile, perneutralizzare l’ansia di questo tormentato passaggio epocale. Unansiolitico, insomma, di sicura presa, anche se con soluzioniimprevedibili.Intendiamoci. Anch’io credo che sia bene diffondere il più possibilele conoscenze statistiche e progettuali sulla sanità cesenate, mapenso che ci siano altre modalità che ci permettano di sussurrareai cittadini come stanno realmente le cose. E credo che il nuovoospedale (che si farà) non debba e non possa essere il punto chiavedella nostra riflessione odierna sulla salute.Occorre tenere alto il confronto su altri temi avendo chiaro cheda anni è cambiato il paradigma. Da quando il sistema sanitarioè diventato un sotto sistema di quello economico, le cose sonoradicalmente cambiate, e le numerose ristrutturazioni,riorganizzazioni, concentrazioni dell’organizzazione sanitariaregionale si sono trasformate di fatto in progressivi razionamenti.L’area vasta nasce da un ripensamento del sistema all’insegnadelle compatibilità finanziarie. In pratica il fine è quello di garantire omogeneità non dei risultati di salute ma soprattutto dei costiper garantire sostenibilità al sistema attraverso l’uniformità nellespese: la spesa diventa essenzialmente una questione di controlloe per controllare al meglio è necessario accentrare e omogeneizzarela realtà sanitaria. Per inciso, da questo punto di vista l’eterogeneità,la diversità, la specificità, la soggettività di un territorio diventanoun problema di spesa se non una fonte di spreco. Per questo nonsi può parlare di sanità cesenate senza parlare anche di sanità deiterritori ad essa collegati.Fra i molti esempi di questa strategia ne cito alcuni che potrebberosembrare marginali, ma che ne sono lo specchio fedele, e cheincidono profondamente sull’efficacia del sistema.Il depauperamento a Cesena delle unità operative complesse.Con impeto iconoclasta si tagliano le unità operative complesse(parola d’ordine: evitare le ridondanze). I tecnocrati dimenticanoperò che le unità operative non sono catene di montaggio masistemi complessi dove etica, relazioni umane, tecnica scienzaeconomia e organizzazioni si mischiano per raggiungerefaticosamente un equilibrio che va presidiato e mantenutoquotidianamente con un impegno costante.Quanti primari mancano al Bufalini, quanti primari “a scavalco”fra Cesena e Forlì? Non è il caso di fare ora il conteggio, maqualcuno dovrà rendere conto di questa desertificazione.Questa è una pesante diminuzione della capacità di risposta diun sistema, perché toglie quell’autonomia (relativa) che consentela giusta modalità di affrontare le esigenze reali del territorio. Siha un bel dire della centralità del malato ma davanti all’imperativocategorico di spendere meno non c’è centralità, non c’è relazione,non c’è autonomia che tenga.

La Cardiologia di Cesena, o meglio l’organizzazione dell’e-modinamica di area vasta. Occorre prima premettere che il lavorodell’equipe cardiologica cesenate è eccellente e che non sono inquestione competenze e professionalità. Sono in questione i solitiatteggiamenti contabili.Sull’emodinamica i cittadini hanno costretto ad un confrontopubblico l’oligarchia del pensiero unico di area vasta, e non pareche ne siano usciti molto bene.L’impudenza dei tecnocrati ha sostenuto al limite del ridicolo (odel tragico?) che “less is more”, cioè hanno cercato di provocarcisostenendo che fare di più non significa fare meglio (sic!).Non si sono ancora accorti che oggi il problema è esattamente ilcontrario: fare di meno significa fare peggio. Perché mai milionidi italiani vanno nel privato e altri ricorrono all’intra moenia,perché si fa di più o si fa di meno?E come conseguenza non vi sembra che il deterioramento quali-quantitativo dei servizi (per fortuna ancora poco evidente nellenostre zone, ma drammatico in altre aree del paese), effetto sìdella crisi, ma anche di scelte politiche e amministrative dettatedalle derive economiche che le aree vaste attuano, faccianointravvedere nuove diseguaglianze?Si legge che, mentre la spesa privata per la tutela della saluteraggiunge i 33 miliardi di euro, il 10% della popolazione non sicura e il 7% si indebita per curarsi. Anche da noi le classi socialia più basso reddito sono quelle che più frequentemente rinuncianoalle cure. Con effetti che cominciano a vedersi nell’aspettativadi vita, nella mortalità e morbilità, nella iniquità di accesso aiservizi sanitari, nelle possibilità di tutela della salute.Ed ecco che allora in questa logica economicistica arriva l’attac-co alla professione medica cercando di insinuare che• il medico sia il principale responsabile dei costi dei consumi• l’autonomia professionale sia un valore negoziabile• che la clinica sia subordinata all’economia.Questo è grave. Se si rompe la già fragile alleanza medico pazienteè la fine della fiducia nelle relazioni umane fra sanitari e cittadini!Basta con questa storia degli esami inutili!Un esame che da un risultato negativo non è inutile, néinappropriato (altra parola magica) se concorre a formulare unadiagnosi finale corretta! E le semplici richieste dei malati nonsono “inutili” per definizione. Anche perché non è inusuale chei malati ci indovinino. I malati non sono “trivial machine”(macchine banali), ed è per questo che non lo possono essereneanche i medici.Non intendo ovviamente difendere gli ignoranti e i vagabondiche ci sono in tutte le categorie, ma per questi occorre un altromodo per contrastarli.Possiamo contribuire a cambiare le cose? A breve forse no. Mac’è qualcosa che la politica, quella vera, può fare senza pretenderedi risolvere tutto. Può iniziare una lunga e difficile battaglia pereducare i cittadini a comportamenti adeguati per migliorare eaumentare la salute collettiva.I cittadini in gran parte non hanno ricevuto adeguate istruzioniriguardo alla difesa della salute: la scuola, i media, le associazioni,le imprese, tutti devono premere perché si attui un piano capacedi ottenere risultati. In questo momento in cui pare che i governisiano disposti a spendere miliardi per la salute del pianeta, nonsi trovano i soldi sufficienti per la salute dei cittadini? È unprogramma di almeno due generazioni, ma che deve cominciaresubito. Come per il terremoto, prevenire è meglio che curare. Maanche lì, nonostante le tragedie non si comincia mai.Davanti ad un cartello che gli chiedeva:” Eliminare gli imbecilli”,il Gen. De Gaulle rispose: “Vaste Programme”, una frase che contono elegantemente sarcastico serviva a liquidare i progettipretenziosi e utopistici da qualunque parte venissero.Educare i cittadini a preservare la salute è invece possibile occorresolo la forza politica di volerlo.

Sanità. Nuovo ospedale

Sistema sanitario sottosistema di quello economico

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di Paolo Lucchi *

“Perché alla nostra città serveun nuovo Ospedale?”.Ecco uno dei quesiti che in questimesi mi sono sentito rivolgerepiù spesso.Prima di rispondere, però, ritengodoverosa una premessa: per unacittà come Cesena, l’Ospedale èuna sorta di “bene totale”. Nonquindi un semplice edificio ma,soprattutto, il luogo dellemassime professionalità medichee scientifiche, della capacitàorganizzativa al servizio deicittadini, della sicurezza sociale

e della salute garantite a tutti. Ne erano consapevoli i ConsiglieriComunali che il 31 luglio 1911, assieme al Sindaco Angeliinaugurarono la prima struttura moderna, intitolata al medico esenatore Maurizio Bufalini, così come coloro che il 22 febbraio1962 parteciparono all’inaugurazione dell’attuale Bufalini, allapresenza del Sindaco Manuzzi e del Presidente del ConsiglioAmintore Fanfani.E, naturalmente, allo stesso modo ne dobbiamo essere consapevolitutti noi.Ecco, quindi, la mia risposta. Pur non sottovalutando le importantiopere di aggiornamento ed ampliamento che si sono susseguitenegli anni (spesso per garantire quell’adeguamento sismico chenon va vissuto con timore, ma che nessuno può neppurepermettersi di sottovalutare), il “Bufalini” oggi presenta alcuneevidenti criticità strutturali. Tra le altre: la collocazione su unacollina inibisce sia il necessario superamento delle barrierearchitettoniche che l'organizzazione di un adeguato servizio dimobilità; la disomogeneità di accesi e di percorsi interni, nerende problematica la fruizione per troppi; la certa impossibilitàdi ampliamento ulteriore degli spazi attualmente dedicati aiservizi sanitari, ne limita per sempre lo sviluppo; una ancor piùevidente impossibilità di dedicare aree limitrofe, in manieracoerente al bisogno dei cittadini, all'accesso delle auto, rendonoestremamente problematica la sosta per tutti.Inoltre, l’attuale “Bufalini” in parte impedisce lo sviluppo deiservizi sanitari - in particolar modo nell'ambito di riferimentoterritoriale della Romagna, a partire dalla vocazione caratterizzanteper Cesena del “Trauma center” - e la possibilità di ripensarel'organizzazione dei servizi sanitari territoriali e di prossimità,ad esempio attivando nella Piastra, di recente costruzione, quella“Casa della salute” indispensabile per ampliare l’offerta deiservizi territoriali per gli anziani, i malati cronici, le personecon disabilità.E’ poi evidente a tutti come sia necessario per la nostra comunità– e per la sanità romagnola, poiché il “Bufalini” non è da moltianni più solo il nostro nosocomio di riferimento – garantireall’ospedale una collocazione territoriale più coerente con losviluppo moderno della città di Cesena e con migliori collegamentida e per gli altri territori della Romagna, con la possibilità dipensare ad un nuovo investimento strutturale sanitario che sicaratterizzi per innovazione e modernità, anche sul piano dellasostenibilità ambientale.Per questa somma di motivi (che, lo so bene, mi sono permessodi sintetizzare sin troppo in queste righe) a me pare che la nostracittà ed il Consiglio comunale siano quindi chiamati a ragionarenon del “se” ma del “dove” e del “come”.Ed, a questo proposito, il secondo tra quesiti più gettonati inquesti mesi è stato spesso: “Ma state facendo sul serio sul nuovoOspedale?”.In questo caso la risposta è più semplice e diretta. Si, stiamofacendo sul serio e, dopo la serie di incontri programmati in tutti

i quartieri ed in tanti luoghi di ritrovo abituale per i cittadini,avvieremo il percorso amministrativo formale che renderàprotagonista il Consiglio comunale nella scelta e che, mi auguro,possa concludersi entro la fine del 2016.Sono molti i temi che, nell’ambito delle sue prerogative, ilConsiglio comunale dovrà affrontare per decidere il futuro delnostro ospedale.Un’agenda coerente dei lavori prevede che, dopo un’attenta epuntuale analisi dell’attuale rete dei servizi ospedalieri e delleloro prospettive (indispensabile per pensare al nuovo ospedale,anche se serve la consapevolezza dei tempi acceleratissimi coni quali la sanità, le sue terapie, le sue strumentazioni, stannocambiando), il Consiglio debba individuare l'area territorialeutile alla realizzazione del nuovo ospedale Bufalini. A me pareche debba avere alcune caratteristiche certe: essere collocata sudi un terreno pianeggiante e ben servito dalle principali arteriedi traffico, quali l'autostrada A14, la superstrada E45/E55 e laSecante; essere dotata di un buon collegamento con la rete viariacittadina e con la stazione Ferroviaria; garantire la vicinanzacon l'aggregato urbano della città, in modo da non richiederecostosi collegamenti infrastrutturali. Inoltre, tra i temi da affrontarecon decisione e capacità innovativa nei prossimi anni, resterebberoancora in campo quelli connessi con la viabilità e con un nuovosistema di trasporto pubblico al servizio dell’ospedale.Infine, il Consiglio comunale “potrà” (in realtà credo che “dovrà”)darsi un orientamento relativo al futuro dell’area occupata daoltre 50 anni dal Bufalini. Personalmente ritengo che la suadestinazione sia a verde pubblico (con ripristino e realizzazionedi un nuovo grande Parco urbano e garantendo che la differenzatra nuova costruzione e nuova area verde, sia “zero”). Ma sonopronto, naturalmente, ad accettare la pausa di riflessione di chiha chiesto di approfondire ulteriormente il tema.Sono molti e decisivi, quindi, i temi sui quali il Consigliocomunale si dovrà esprimere, nell’ambito di un confronto veroe coinvolgente, come i verbali confermano avvenne a cavallotra gli anni ’50 e gli anni ’60 del secolo scorso per l’attuale“Bufalini”.Così facendo, su una scelta strategicamente fondamentale comequesta, si garantirà il famigerato “primato della politica”. Daalcuni anni molti ritengono questa affermazione quasi offensiva,ma ormai tutti dovremmo aver capito come spesso dietro itecnicismi si nasconda una politica incapace di decidere e discegliere. Ed a Cesena, soprattutto sulla sanità, nessuno puònascondersi dietro qualcun altro e tutti, invece, dobbiamo avereil coraggio di mettere in competizione idee, strategie e progettie di scegliere il meglio per la nostra comunità. Già il Pd e LiberaCesena hanno fatto una esplicita scelta di campo e, prima delvoto in Consiglio comunale, lo stesso dovranno fare tutte leforze politiche della nostra città, evitando i “ma anche” che necaratterizzano spesso le valutazioni.Certamente “Energie Nuove” sarà un’importante tribuna diconfronto aperta a tutti ed io approfitto biecamente delle paginemessemi a disposizione dall’amico Denis Ugolini -. che tra iprimi, assieme a Beppe Zuccatelli, sul nuovo Ospedale hagarantito un contributo di lucidità strategica fondamentale - perconfermare la mia disponibilità a qualunque dibattito pubblico,promosso da chiunque.Non siamo quindi certamente troppo lontani da un obiettivo cheva perseguito con trasparenza, chiarezza attorno ad una sceltache, più di qualunque altra, riguarda direttamente ognuno di noie che è certamente destinata a caratterizzare la nostra comunitàda qui ai prossimi 50 anni.Perché, è ormai chiaro a tutti, sia che noi cesenati decidiamo didar priorità al nuovo Ospedale, sia che decidiamo di non farlo,lasceremo un segno decisivo sul futuro della nostra sanità.

Perché un nuovo ospedale a Cesena

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*Sindaco di Cesena

Sanità. Nuovo ospedale

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Alcuni anni fa il sindaco Paolo lucchi volle annunciare inchiave di boutade da effetto mediatico la predisposizionedel nuovo Piano Strutturale urbanistico. Intendimento nonriuscito nella sua prima sindacatura e quindi proposto per laseconda, questa in corso. Il Piano strutturale ha minimo unaprospettiva decennale. A completarlo e realizzarlo i Pianioperativi successivi. Erano i Prg. Per rendere la buotadegiornalistica, non essendoci particolari contenuti, né ideeper il territorio e la città, il Sindaco se ne usci dicendo chevoleva prevedere nel Piano il nuovo stadio e il nuovo ospedale.Paolo ha indubbiamente conoscenza sia dei nuovi arteficidella politica locale che lo circondano sia di come le cosepolitiche da un pò di tempo a questa parte trovano ridondanteeco di trasposizione mediatica. Ne sa fare uso e gli è di aiutola prateria in cui colloca le sue uscite. Pur consapevole chea origine di cotanto nulla c’era se non l’effetto delle duestrutture cui sottolineava, mi permisi una posizione: tantoper fissare almeno un punto su cui, ritenevo, poteva valerela pena ragionare. Dissi subito: è una buotade. Però sul nuovoospedale val la pena di soffermarsi e di ragionare. Lasciamoperdere lo stadio nuovo: nemmeno da considerare. Un po’più recentemente, qualche mese fa,nel soporifero silenzio seguito allaevaporazione immediata dellabuotade tornai per riprendere l’ideadel nuovo ospedale. Una opportunitàdi rilievo se collocata dentro unaprogrammazione di area vastaRomagna per la sanità della qualepurtroppo la carenza di idee e lamediocrità della politica continuanoa far pressoché nulla. Niente di menoche il Presidente della commissioneconsiliare regionale alla sanitàintervenne per dire che l’ospedale diCesena di cui parlavo non doveva essere, perché in un’otticadi campanile. Sono stato in Regione: c’era ben altradimensione nelle commissioni regionali e soprattutto apresiederle. L’abbozzo di ragionamento rimane validissimotutt’oggi.Ci vuole almeno una buona impostazione per affrontare conserietà questioni rilevanti e complesse come questa in esame.La previsione del nuovo ospedale nel Piano strutturale partitasenza un’idea che fosse una né riguardo alla nostra sanità enemmeno all’ospedale poteva costituire, però, l’occasioneper mettere a punto qualche riflessione necessaria e utile.Spesso inciampando si cade nel punto. Tanto valeva provarea estrapolarlo e ragionarvi sopra adeguatamente. Finalmentecominciò un certo riscontro anche nella stampa. Riscontri,i più svariati. Purtroppo ragionamenti pochi e minimi. Moltimoralismi un tanto al chilo; pseudi scoop sulle areeeventualmente da interessare all’insediamento. Il refrainsull’ospedale decaduto rispetto ad altri, la rivendicazionecampanilistica e chi più ne ha più ne metta. Chi continua adessere contrario all’Asl unica romagnola manco ne prendein considerazione l’ambito. Il resto si riduce a questionestrettamente locale: o difesa dell’esistente o al più comemero trasferimento dell’attuale ospedale in altro posto.Insomma: un monolite strutturale che si mantiene qui o sisposta là. Più il corollario delle corbellerie di giornata, sullespese, sul potenziamento dell’esistente, su dove si sposta,su cosa fare in ciò che rimane, sulla speculazione delle aree,

su chi si avvantaggerà dei lavori eventuali futuri, se la solitalega delle cooperative e avanti così. E sempre ovviamentecon quella infarinata di torquemadismo da strapazzo che parenon dispiacere a taluni da queste parti. Poi, dopo, anchequalche sottolineatura sulla oramai inadeguata ubicazionecollinare dell’attuale ospedale, e sul problema dell’antisismica. Non solo. La vetta di un tal dibattito si raggiunge con ilgenerale approdo alla demagogia più becera. Un modo pertacitare almeno le polemiche del “ tanto parlare inutilmentenon gliene frega più a nessuno”. E allora via al grandecoinvolgimento popolare, alle consultazioni indispensabilinella rete o fuori dalla rete, con grade coinvolgimento ditutte le forze del territorio e soprattutto dei presidenti deinostri quartieri cittadini. Ovvio che è da qui che verrannovisioni, approntamenti strategici, programmazioni solide edi prospettiva per efficientare e migliorare la nostra sanità.Dubitarne sarebbe colpevole e quasi una lesa maestà. Eridotti così ne può solo venire qualcosa di giustamenteproporzionale. Roba da infimi termini. Né poteva mancarein supporto agli amministratori in tal cavalcamento impegnatiche arrivasse, in qualche festa, anche l’Assessore regionale

alla sanità e il Presidente della Regionea confermare l’idea buona e le dispo-nibilità finanziarie per fare e fare prestoil nuovo ospedale di Cesena. Anchequesto un modo significativo cheevidenzia, insieme a tanti altri, il livelloe la stazza della classe politica locale edi questa regione.Il Comune deve fare Il Piano strutturale.Fa bene a prevedere un nuovo ospedale.La proiezione del Piano è decennale senon più. Il problema dell’ospedale chesi pone, se si pone con serietà e con-cretezza è questione per i prossimi dieci,

quindici anni. La fretta di cui si parla è solo il tarocco di unapolitica taroccata. Responsabilità e buon senso nonguasterebbero. Almeno questi. Per le capacità siamo ancorpiù diffidenti. Ma per quel lasso di tempo chissà che anchela classe politica e dirigente non migliori. Noi , oggi, possiamoimprontare il ragionamento, ma sarà di ben altri il prosieguoe la realizzazione. Può essere una fortuna. Il Comunepredispone la migliore predisposizione urbanistica, ma quelche deve essere come deve essere la nuova strutturaospedaliera è questione di inserimento in un quadro organico,coerente, di programmazione, ristrutturazione e sviluppodella sanità di area vasta Romagna e regionale. Fuori da quisarà solo la continuità della sagra del pensiero debole e cortoal quale ci si avvilisce di assistere. Dove prevederel’ubicazione della nuova struttura? Penso che la soluzionemigliore sarebbe a destra dell’autostrada andando versoBologna, nei paraggi del casello Cesena Nord, così rompendoanche il tabù che in quel fronte non sa da fare nulla. Bandoalle speculazioni: esproprio per pubblica utilità.Amministratori con attributi adeguati non avrebbero problemi.Non sto nemmeno ad elencare i vantaggi logistici eorganizzativi di quell’ubicazione. Altro che Gronda e zonelimitrofe. Bufale. E non deve trattarsi del semplice tra-sferimento del Bufalini da una zona in altra.Deve essere una nova organica struttura nella riorganizzazionedi area vasta Romagna. Quale miglior modo di rendere

Sanità. Nuovo ospedale

Opportunità di rilievo* * *

Il problema dell’ospedale che si pone, se si pone con

serietà e concretezza, è questione per i prossimi

dieci, quindici anni.La fretta di cui si parla è solo il tarocco di una

politica taroccata.

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* * *

quell’organicità se non a fronte di un nuovo da modulare emodellare, nella complementarietà con le altre grandi struttureospedaliere esistenti, in rispondenza degli obiettivi strategici,pluridecennali, della nuova e più efficiente sanità che bisognae si vuole per la nostra comunità e per il nostro territorioromagnolo? Strutture dell’unicum di area vasta, non di singolie separati campanili. Ravenna, Forlì, Rimini e Cesena: quattrodi un contesto organico funzionante, coerente. Nienteridondanze, specializzazioni forti, complete delle loro neces-sarie complementarietà, diagnostiche, terapeutiche tecno-logiche. E di strutture professionali, funzionanti, organizzate di qualità, su base meritoria, clinica e medica. Non strutturerapportate a singole e parcellizzate e campanilistichesistemazioni di posti e di amicali ed elettoralistiche siste-mazioni e carriere. Male congenito anche nella nostra sanitàe nel modo di governarla da parte della molta pochezza emediocrità che al riguardo non manca dalla regione in giù.Sette chirurgie se non per mantenere sette primari nonservono. Il quadro e il tempo programmatori per ordinaresimili situazioni non mancano e lo consentono. Per farespecializzazioni vere e benfunzionanti. Vale per le chirur-gie e non solo. Se solo ci fosseil manico di governo che invecelatita. Per una vena varicosaladdove c’era una chirurgia èsufficiente che qualcuno vadain una sala operatoria che rima-ne, non c’è bisogno di tenerel’attuale condizione. Per gli altricasi complessi e difficili ci pensal’ammalato ad andare dove c’èqualità attrezzatura e migliorcura. Che non è l’ospedale sul-l’uscio di casa che spesso puòoffrirla. Anzi! L’oncologia rac-coglie esigenze e bisogni cre-scenti, non in calo. Una reteromagnola, non un collage trattenuto con lo sputo. Questooccorre e un unico governo seppur della rete. Perché tantopuò essere in rete, ma non diviso e svincolato. Irst in testae governo. Irst attuale così come è strutturato e congeniatogià è in difficoltà a dare risposte all’altezza delle qualità cheha. È per molti versi un fatto logistico, di capienza, di spazie di organizzazione in ambiti che se si stringono nonsviluppano potenzialità che ci sono, ma possono frenarle.Senza dire, immagino non sia una mia sola opinione personaleche un siffatto e qualitativo istituto oncologico di cura ericerca (fondamentale) svincolato da certe chirurgie sia assaia rischio di essere monco. Si tratta di un ambito fra i piùesigenti da render organico e quindi abbisogna di soluzioniadeguate che oggi cominciano a non essere. Ho letto daqualche parte che se e quando (speriamo presto) si vorràdare strutturazione più organica al sistema oncologicoromagnolo Forlì vuole rendere centrale, allo scopo, l’ospedalePierantoni. A me non disturberebbe per niente, né percampanile, né per altro. Il punto è fare cose organiche diarea vasta. Vorrà dire che se il Pierantoni si carica di questoche non sarà poco, altro sarà caricato altrove. È la soluzionedi insieme che deve decidere e concordare questo quadro.C’è base e potenzialità: Cesena, Forlì, Ravenna, Rimini. Nonuna somma ma un quadro unitario. Ben definibile e ben

pensabile: per le strutture che sono e per la possibilità (tutt’altroche irrilevante per il futuro) di pensarne, internamente coerentee complementare, una nuova a meglio e più organicadefinizione del tutto. Complementarietà e coerenza. Efficienzae risparmio. Non sprechi , ma più servizio alla salute. Equesto anche a valere, eccome!, per il miglioramento dellecondizioni e delle possibilità di servizio esteso sul territorioper le cronicità, esse stesse crescenti e di gran bisogno.Esempi, solo esempi, su quanto mettere a fuoco, su come ein che quadro dimensionale e strategico affrontarlo. Riflessionipositive, lungo un simile spaccato, mi è capitato di coglierlein ambito medico, ad esempio per quanto riguarda il“Dipartimento testa-collo”. In oncologia sono ampiamentein corso. Auspicabile altro che spero non mancherà. Maoccorre darsi un’impostazione ed un lavoro seri diapprofondimento . Sarà attraverso la consultazione della retee dei quartieri che si metterà a fuoco una simile vastacomplessa problematica? Staranno pur sereni e soddisfattiquelli che lo pensano possibile. Beati loro. Soprattutto finchénon si ammalano e non hanno un altro (che non auguro)

impatto con simili questioni. Dopo quattro anni l’AslRomagna è di gran lungaancora al palo. Manco sonouniformemente collegatetutte le strutture per quantoriguarda i referti della dia-gnostica. Il governo di que-sta Asl langue assai. Ci limi-tiamo a dire questo primadi giungere, se così con-tinuerà, a doverne sem-plicemente constatare, pre-sto, l’inadeguatezza e l’in-capacità definitive. I grandiprocessi della medicina,della scienza, della tecno-logia, della ricerca; la pro-

blematica complessa della finanza applicata alla sanità, dellerisorse, del loro impiego, del risparmio e dell’efficienza edefficacia della spesa; la ristrutturazione e la riorganizzazionedelle strutture, dei dipartimenti, delle unità operative, delpersonale medico e non; la resa operativa, ottimale e organicadell’esistente e del nuovo che sarà (Forlì, Cesena, Ravenna,Rimini). È dentro questo che Regione e Asl Romagna devonoragionare e prospettare il nostro futuro sanitario. Questo ilquadro per riflessioni vere (non episodiche e demagogiche)ove collocare ciò che potrà e dovrà essere di qui ad almenoun decennio anche il nuovo ospedale a Cesena. Potrà esserela consultazione dei quartieri cesenati ad affrontare questecose? Non si pensa che vi sia ben altro e in ben altro modo,attrezzato e competente, da mettere in campo? Il Sindaco diCesena, è vero che è all’ultimo mandato e che fa piùelettoralismo immediato e di convenienza certa consultazionepopulistica, ma è anche Presidente della Conferenza territorialedei sindaci per la sanità. Dubito che non comprenda la portatadella questione, lo spirito e la responsabilità con cui deveessere affrontata. Con buoni e validi apporti, con capacità.Sono quelle scelte che non valgono una giornata giornalistica.Valgono anni e valgono per la salute dei cittadini. Per ilpresente e il futuro della sanità.

Sanità. Nuovo ospedale

Dentro Area Vasta Romagna

Dopo quattro anni l’Asl Romagna è digran lunga ancora al palo.

Manco sono uniformementecollegate tutte le strutture per quantoriguarda i referti della diagnostica.

Il governo di questa Asl langue assai.Ci limitiamo a dire questo prima di

giungere, se così continuerà,a doverne semplicemente constatare,

presto, l’inadeguatezza el’incapacità definitive.

Denis Ugolini

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di Stefano Mancini*

Godere di buona salute e disporredi un buon servizio sanitariorappresenta probabilmente unodei più importanti requisiti peruna elevata qualità della vita dellepersone. Ed è anche uno degliindicatori di civiltà raggiunto dauno Stato.Un buon welfare si ottieneconsentendo tempestivo accessoalle prestazioni mediche neces-sarie, promuovendo stili di vitacomplessivamente corretti erealizzando un contesto socio-

economico “accogliente” e capiente.Ma le prestazioni sanitarie non sono a costo zero, anzi.In alcuni paesi il welfare è sostenuto dal sistema assicurativo,efficiente ma non universale. Da noi è la fiscalità generaledirettamente correlata alla capacità di un territorio di produrrereddito (no utili- no imposte- no risorse) che finanzia il welfare.Le risorse disponibili non sono infinite ed anzi ci aspettiamonei prossimi anni, un incremento delle necessità finanziarie persostenere il sistema di welfare.Al fine di contenere i costi per il sistema ecco che i medici sonocostantemente sotto pressione. Si richiede loro di “vedere” quantipiù pazienti possibili ogni giorno. Aumenta così il livello diresponsabilità del medico mentre rischia di ridursi il tempo adisposizione per ogni paziente. Ma il medico desidera fornire alproprio paziente il livello di cura più alto possibile. Allora diventaindispensabile nella moderna medicina trovare il modo di fornirele prestazioni di più alto valore nel tempo per forza di coselimitato, di cui si dispone, evitando sprechi di ogni genere.Una possibile soluzione risiede nell’utilizzo di piattaforme digitalicon HRD (Sistemi di Registrazione Elettronica dei Dati Sanitari)e di sistemi di diffusione delle informazioni e della conoscenzadisponibili on line per i pazienti e per i medici stessi.Un’altra soluzione può trovarsi nello sviluppo del lavoro inequipe.Idee e progetti innovativi che consentano di finanziare i servizi,di sostenere lo sviluppo economico del territorio e grazie a questodisporre delle risorse necessarie al finanziamento di un welfaredegno di un paese evoluto, sono auspicabili.A volte pare invece che il sistema italiano tenda ad espellere chiha un progetto autonomo di sviluppo e di sostegno economicodel proprio territorio.E non mi riferisco all’ambito sanitario che conosco e pratico equasi sempre apprezzo. Ma dalle riflessioni che questaappartenenza mi impone di fare, traggo spunto per considerazionidi carattere più generale, ricordando che viviamo nel mondo edi vari aspetti del mondo finiscono per interagire ed influenzarsia vicenda.Un welfare efficiente può esistere solo entro un contestosocioeconomico florido e libero.Ci sentiamo talvolta soli, nell’angolo, in compagnia delle nostreidee e dei nostri principi e dei nostri affetti. E’ vero che certierrori, certe debolezze e certe storture esistono, ma vanno valutaticaso per caso e contestualizzati.Siamo talvolta assediati da un sistema normativo così farraginosoe contraddittorio che pare fatto apposta per essere utilizzato afini intimidatori, magari col conforto di fatterelli di quasi ordinariaamministrazione e come tali liquidabili. Fatterelli invece, cheaffidati all’analisi parziale, al clamore ed alla distorsione mediatica,diventano casi di portata epocale, ma di un’epoca grigia e sterile,destinata a svanire al primo serio controllo di merito.Partendo da questa analisi di contesto possiamo trarre spunto per

alcune considerazioni.Tutti noi commettiamo errori ed è imparando dai nostri erroriche diventiamo uomini e professionisti migliori.Puntare il dito accusatorio verso ipotetiche mancanze altrui èimmorale, poi autolesionistico ed inoltre è inutile. Dobbiamoinvece tenere in gran conto e far tesoro dell'esperienza di chici ha preceduto.Dobbiamo, specie in una struttura sanitaria come il Columbus,trattare tutte le persone con sommo rispetto.Dobbiamo far percepire la fiducia che nutriamo in noi stessi enel nostro modo di agire nonché la propensione al bene possibileche ci anima. Cosicchè si intenda che riteniamo di potere e divolere offrire la miglior prestazione possibile a chi si rivolgea noi. Ogni paziente ha le proprie individuali necessità e noidobbiamo sforzarci al massimo per intercettarle.Che nessuno sia lasciato indietro.Non dobbiamo mai fare promesse o profferte che non siamocerti di poter onorare: “Underpromising and Overdelivering”.Mai dobbiamo anteporre alcunchè anche di legittimo, all’interesseper la cura dei nostri pazienti. Dobbiamo fornire loro il massimodelle nostra abilità e delle tecnologie disponibili. E perchéquesto accada è necessario un lavoro di squadra che coinvolgamedici infermieri, tecnici, impiegati, amministratori e stafffinanziario. Tutti sono guidati dal Medico Titolare che forniscela direzione, la metodologia, lo stile, la strategia per comeraggiungere l’obbiettivo (miglior cura possibile dei pazienti)all’interno di un sentire divenuto patrimonio di tutti e da tutticondiviso. Ecco il lavoro in Equipe.Al Columbus nell’anno in corso abbiamo investito cifre assaisignificative per il potenziamento del sistema informatico disupporto a tutte le fasi dell'assistenza.Nuovi computer, nuovo server, connessione alla banda largaultraveloce, agenda elettronica ed altro. E’ in programma inoltreuno sviluppo del sito che consenta una reale multimedialità eduna reale accessibilità ai contenuti.Abbiamo altresì investito, come facciamo ormai da anni, incostosissime e aggiornatissime tecnologie da applicare indiagnostica e chirurgia Oculistica, in Dermatologia, inGinecologia, in Cardiologia, in Medicina dello Sport, in Ecografiae nella Laser Terapia chirurgica, parachirurgica ed estetica.Per riuscire però ad erogare i migliori servizi possibiliauspichiamo mercati sanitari, economici e finanziari aperti,liberi, anche se squilibrati, pazienza, ma aperti.Abbiamo tensione, propensione culturale ed educativa verso lagiustizia ed il sostegno dei deboli, ma sappiamo perfettamenteche è dal libero mercato che si reperiscono le risorse per fornireun adeguato sistema di protezione sociale a tante persone, specieai deboli.Ci piace pensare che attorno a noi si possa coagulare un pensieroed un progetto che afferisca al nostro territorio socioe-conomicamente inteso, e che sia volto a pensare, sviluppare efinanziare un adeguato sistema di welfare.Che possegga tratto delicato e robuste convinzioni, che soprattuttosia riconoscibile per dottrina, stile, compassione, nobiltà d’animoe rispetto delle posizioni altrui anche quando discordanti.Che sappia fare sintesi inclusiva.E che ci consenta di contaminare positivamente con la forzadei fatti il contesto sociale nel quale operiamo.Che, in ultima analisi, ci consenta di “restituire” al territorio incui abbiamo avuto la possibilità di esistere, di crescere, disvilupparci e, perché no, di avere un po’ di successo, ciò cheil territorio ci ha fornito in termini di accoglienza e di potenzialitàdi sviluppo, in un atto di generosità civica moralmenteobbligatoria oltre che praticamente conveniente.

Welfare. Contesto Economico. Responsabilità personaleSanità

* Direttore Columbus

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di Giampiero Teodorani

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Cesena futura? Dalla politica le giuste risposte

La pianificazione territorialee la programmazione socio-economica, sono attività distudio e di governo, complicatee difficili, se condotte indemocrazia.Le modalità di governo delPaese e delle autonomie locali,mi sembra rifuggano sempredi più, da questo metodoimpegnativo; sostituito daimprovvisazione, secondo itempi elettorali. Chi governa

vuole avere le mani libere e assecondare, di volta in volta,gli umori che nascono dai socia-network, dalla stampa edai gruppi di pressione. Impegnarsi in disegni strategici,che magari guardano al futuro, è cosa sempre più desueta.Per non parlare delle analisi e degli studi. Si inventanoambiti territoriali e di programmazione che istituzionalmentenon esistono, per fare posto a “slogan” come l'area vasta,le Unioni dei Comuni su questioni mono tematiche, pur dinon parlare più di Provincia (ente intermedio) o di Regione.Si ritagliano confini, spesso di comodo, per fughe in avanti,che spesso sono anche indie-tro...(basti pensare all'espe-rienza del comprensorio, abolitoproprio nel momento in cuidoveva essere rafforzato, in pre-visione del superamento delleprovince).La fusione fra i Comuni avvienesu base “volontaristica”. Dallivello regionale è arrivata lavera delusione; soprattutto per chi ha sempre invocato larichiesta di sostenere l'attività amministrativa, secondo icriteri della programmazione e della pianificazioneterritoriale.Qui da noi le cose non sono molto dissimili. Nella relazionedi inizio mandato del Sindaco si legge: «Il progetto disviluppo della città di domani, che dovrà essere identificatonel nuovo Piano Strutturale Comunale, verte sul concettodi “Consumo Zero” di ulteriore territorio, anche se ciòdovesse mettere in discussione previsioni già consolidate.Coerentemente a questo obiettivo andrà previsto il dimez-zamento (Sic!) delle aree di espansione non ancora edificatepreviste dal precedente Piano Regolatore». Affermazioniprecise e impegnative; quasi una legge del contrappassorispetto al Piano del 2000, che conteneva previsionisovradimensionate rispetto alle reali esigenze dellapopolazione, in termini di aree residenziali, del produttivoe per servizi e infrastrutture. Questo anche per effetto delcosiddetto “indice spalmato”, una edificabilità distribuitasu diverse aree (per accontentare molti) e determinare una“perequazione” che ha reso impossibili tanti interventi, pergli alti costi di realizzazione e che continua a impegnareterreni per centinaia di ettari di previsioni pubbliche, chenessuno mai attuerà.Avere inserito tante aree edificabili fu un errore grave equella scelta demagogica illuse tanti operatori a partecipare

a un mercato, di fatto inesistente e quindi asfittico, che hacreato anche tanti problemi al sistema creditizio dellebanche locali. Ora la speranza di riportare, lo strumentourbanistico alle reali esigenze del territorio, risiede nellacapacità di analisi e di proposta, che l'AmministrazioneComunale saprà e vorrà, mettere in campo. Alcune decisioniche l'Amministrazione sta anticipando e di cui si sonooccupati recentemente i giornali, mi sembra che non vadanonella direzione giusta: un nuovo ospedale, (conlocalizzazione urbanistica quasi fatta) una variante perl'area Montefiore tendente a ridurre la parte residenziale afavore dell'area commerciale, una nuova caserma per icarabinieri, la riconferma del quartiere Novello, insommatessere di un mosaico in continuo movimento.Al momento non si sa molto su come si intenda gestirequesto complesso provvedimento tecnico-amministrativo;chi lo farà, con quali strumenti e professionalità, e conquali tempi. Una cosa dovrebbe essere certa; un piano chedisegna la struttura della città e del territorio che la circondaè fatto per guardare al futuro. Per divenire la sintesi dellaprogettualità degli interventi che riguardano il sociale, latutela dell'ambiente, lo sviluppo economico, gli obiettivinon si potranno cambiare ogni 3 o 4 anni; perché se fosse

così, dico che quel pianosarebbe sbagliato fin dall'inizio.Un'altra questione riguarda gliambiti e la gerarchia delle scel-te: ci sono decisioni da assume-re a livello di quartiere, altrevanno concordate a livellointercomunale e, in questo mo-mento di “precarietà istitu-zionale”, in un contesto inter-

provinciale e ovviamente regionale. La proposta di unnuovo ospedale non si può discutere solo con un comitatocittadino; i sindaci di Ravenna, Forlì e Rimini dovrannopure conoscere quale ospedale si va progettando a Cesenadato che deve essere in consonanza con i loro presìdi, conl'accordo di Bonaccini (?).Viceversa, l'area vasta sarà solo un ambito “ letterario” didiscussione vacua. Le scelte vanno discusse e assunte nonsolo con i tecnici, ma “politicamente”, per avere la forzae pretendere che vengano rispettate da tutti i soggettiattuatori delle diverse politiche, senza improvvisazioni obautade, che valgono per una estate.Sicuramente il garante di questo metodo e di questadiscussione dovrà essere il Consiglio Comunale di Cesena,che, fino a prova contraria, è l'organo preposto alla adozionedel Piano Strutturale; poi, si capisce, che dovrà farseloapprovare dalla Provincia (in questo momento) e dallaRegione, per gli interventi nelle materie di sua competenza.Un'ultima notazione: sento parlare con insistenza, che lanuova struttura ospedaliera dovrebbe sorgere nei pressi diVilla Chiaviche; abbarbicata su quell'asse viario denominato“Gronda” (ulteriore vulnus alla centuriazione romana) checollega il casello autostradale, dopo 8 rotonde, alla città.E perché non a Pievesestina, in area proiettata verso Ravennae Forlì, dove c'è già il Laboratorio unico della Romagna.O anche quella fu una scelta improvvisata?

Nuovo ospedale. Piano strutturale

Ora la speranza di riportare lostrumento urbanistico alle reali

esigenze del territorio risiede nellacapacità di analisi e di proposta chel'Amministrazione comunale saprà e

vorrà mettere in campo

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di Guido Pedrelli

Negli ultimi tempi il dibattitosulla cardiochirurgia a Cesenasi è particolarmente acceso peril decesso di una pazientetrasferita a Forlì, a causa dellachiusura del reparto al Bufalinidopo le ore 14.La Costituzione italiana san-cisce il "diritto alla salute" ditutti i cittadini e ne affida algoverno la tutela.Il Parlamento nel 1968 haapprovato la riforma Mariotti,ministro della sanità dell'epoca,

istituendo il Servizio sanitario nazionale.Lo Stato si assume la responsabilità di assicurare a tutti icittadini il diritto alla salute mediante un forte sistema digaranzie.La salute è come la libertà. Ne comprendi l'importanza nelmomento in cui la perdi.Nella situazione normale hai la sensazione che ti sia dovuta.Personalmente non ho mai partecipato al dibattito sullo statodella sanità italiana e cesenate in particolare.L'Italia è un paesedi dottori. Io non losono e non mi sen-to competente perdiscuterne.Tuttavia, poichénella dialettica fer-ragostana, si è scrit-to e detto moltosulla cardiologia diCesena, per ragio-ni personali, che diseguito esporrò, ilmio disinteresse siè attenuato. Non èmia intenzione in-serirmi in manierapartigiana in undibattito politico,tuttavia se la miatestimonianza e ilmio vissuto serviranno a qualcosa, per spirito di servizio,sono qui a laicamente manifestarli.Il 10 dicembre del 2015 ho avuto un infarto al miocardio perl'occlusione di due coronarie. Succede.(Si è detto che a Cesena nel 2015 siamo stati 179). Alle 8,30,circa, del mattino di quell'infausto giorno mi sono recato, inauto(!), accompagnato da mia moglie al Pronto Soccorsodell'ospedale Bufalini per forti, sospetti, dolori... gastrici.Nell'arco di pochi minuti, forse secondi, sono stato aggreditoda una muta di lupi che mi hanno afferrato, spogliato, attaccatoa fili e computer e dopo pochi minuti, forse secondi, mihanno diagnosticato un infarto. La professionalità di tutti gliaddetti, portantini, infermieri, tecnici, medici è stata al di làdi ogni lode umana. Il mio encomio l'ho espresso a suo tempoa tutta l'equipe e, qui, ora, lo riconfermo.Il medico di turno, dopo avermi informato che ero sottoattacco infartuale, mi ha comunicato che sarei stato trasferito

immediatamente all'ospedale Morgagni di Forlì, non essendola sala operatoria di cardiologia agibile, sembra, per mancanzadi medici. Erano, forse, le 9 del mattino. Non le 14.Fortunatamente non ero grave. Dopo nemmeno mezz'ora,sopravvissuto alla guida da formula 1 dell'autista e alla lettigapriva di ammortizzatori, ero in sala di cardiochirurgiaall'ospedale di Forlì dove sono stato immediatamente operatoe messo in sicurezza.Dopo tre notti sono rientrato all'UTIC (Unità terapia intensivacoronarica) di Cesena, dove sono stato assistito conprofessionalità e competenza.Con questa premesse mi siano concesse alcune riflessioni equesiti.- La sala operatoria a Cesena era indisponibile dopo le 9 delmattino, non dopo le 14. Come si dibatte. L'orario è al centrodell'odierno dibattito fra le forze politiche.- L'UTIC di Forlì è meglio attrezzato di quello di Cesena. E'evidente che in quell'ospedale sono state investite più risorse.- Il reparto di Cardiologia di Cesena, dove mi reco per icontrolli periodici, mostra evidenti carenze: dal sistemainformatico lento, a tutta la struttura edilizia, dove chi è inattesa sulla lettiga, non può non vedere macchie di umiditàe screpolatura su muri e soffitti, pavimenti sbrecciati, corridoi

angusti.Entrando, la primaimpressione che siriceve è quella discendere in un sot-terraneo o in unmagazzeno, non inuna corsia d'ospe-dale.Tutto questo noninficia il serviziosvolto, con disa-gio, ma con grandecompetenza damedici di grandevalore.- Se esiste una car-diochirurgia part-time, è evidenteche, implicitamen-te, se ne ammette

la necessità. Si dice,"al cuore non si comanda", quindi sololui stabilisce quando ammalarsi. Non entro le ore 14 di ognigiorno. Mi chiedo e chiedo: perchè attivarla solo a Forlì per24 ore e non anche a Cesena che ha un bacino d'utenzasuperiore e con più potenziali utenti?- Nella recente conferenza stampa i dirigenti dell'Ausl hannoaffermato che il servizio è adeguato e con questaorganizzazione i costi della sanità vengono di molto abbattuti.Da un punto di vista economico, nulla da eccepire. Ma unadomanda pongo a quei validi amministratori e ai cittadini:Quanto vale una vita?La vita di una persona non dovrebbe essere un elementostatistico. La statistica si fa su tutto, anche sui due polli diTrilussa, ma non sulla vita umana.Ammesso che l'attuale sistema salvi il 99% dei pazienti, aiparenti di quell'1% che non ce la fa, cosa vai a raccontare?Che è vittima della statistica?

Quanto vale una vita?Sanità

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di Marco Maltoni*

Il tentativo, disarmato e nonideologico, delle Cure Palliativeè quello di costruire e raccontareesperienze di continuità diassistenza e di relazioni di cura,tali da potere essere propostecome affascinanti, belle, rea-listiche e corrispondenti al desi-derio di bene innato che l’uomoha per sé e per i propri familiari.Concludo raccontando cosa midisse, qualche tempo fa, unmarito dopo la morte della gio-vane moglie al termine di alcune

settimane di hospice: “Dottore, temevo che queste settimanefossero le più tremende della mia vita. Invece, pur nel grandedolore, io e mia moglie non ci siamo conosciuti e non siamomai stati così profondamente vicini, come in queste tre set-timane di hospice”.La Legge 38 del 15 Marzo 2010 intitolata “Disposizioni pergarantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”ha segnato una tappa importante nello sviluppo, sul territorionazionale, delle cure rivolte al controllo dei sintomi psico-fisici che affliggono i pazienti affetti da patologie croniche,inguaribili e ad andamento evolutivo. La legge addiritturaindividua tre “reti” organizzative tramite le quali erogare questotipo di cure: una rete rivolta all’ambito pediatrico, e due retirivolte all’adulto. Delle “reti” per l’adulto, una rete riguardala “terapia del dolore” in senso stretto, ed è dedicata ai pazientiportatori di dolori cosiddetti “benigni” (il dolore non è mai“benigno”: più correttamente, sono quei dolori legati a patologiead andamento cronico, ma non evolutivo nel tempo. A titoloesemplificativo, più frequentemente si tratta di doloriosteoarticolari o reumatologici). L’altra rete dell’adulto èmirata ad organizzare le “cure palliative”, ovvero quelle curededicate ai pazienti affetti da patologie croniche ad andamentoevolutivo, e nelle quali il “dolore” può essere certamente unsintomo importante, ma all’interno di una serie di problematichepiù ampie e complesse del “dolore” fisico in quanto tale.Dal punto di vista professionale, le cure palliative modernenascono negli anni ’70 in Inghilterra ad opera della infermiera,poi laureata anche in Medicina, poi divenuta Dame, CicelySaunders. La Saunders individuò, per i pazienti con patologiaoncologica diffusa, una “terza via” tra l’abbandono e l’ac-canimento terapeutico, che ella considerava due facce dellastessa medaglia di inappropriatezza delle cure. Fu lei a ipotizzaree proporre, per il dolore della persona umana, multifattorialee quindi “dolore totale”, un approccio che prendesse inconsiderazione tutti gli aspetti della sofferenza, quindi un“approccio globale”. Una “sfida” tuttora presente, soprattuttoin Italia, per le cure palliative, è quella di fare associare, nelvissuto e nel percepito della gente, all’aggettivo “palliativo”l’etimologia originale positiva. “Palliativo” deriva infatti da“pallium”, mantello, come qualcosa che riscalda e protegge,diversamente da quanto acquisito nella accezione comune diun “palliativo” come una “toppa” che nasconde a mala penaun problema, senza minimamente risolverlo!Le cure palliative implicano, naturalmente, una gestioneprofessionalmente ineccepibile del dolore fisico e degli altrisintomi talora presenti nella patologia oncologica o nelle altrepatologie evolutive. I sintomi fisici possono e devono esserecontrollati e condotti ad un livello di tollerabilità in tutti i casi.In quelle, non frequenti, situazioni in cui la fase avanzatissimadi malattia sia accompagnata da sintomi incoercibili, può essere

necessario, nell’utilizzo dei farmaci, pagare un prezzo,rappresentato dalla vigilanza del paziente. In letteratura questotipo di azione è definito “sedazione palliativa proporzionata”,che tra l’altro è stata oggetto di pubblicazioni scientifiche diriferimento da parte del gruppo romagnolo di cure palliative.La gestione dei sintomi fisici, nella visione della Saunders,è assolutamente necessaria, ma non sufficiente, dovendo essereinserita all’interno di una analoga sistematica attenzione egestione delle concause possibili di sofferenza: da quellepsicologiche legate alla perdita progressiva di autonomia fisicae al timore di divenire peso per i congiunti, a quelle socialidovute alla perdita del ruolo, a quelle spirituali e religiose.Da questa intuizione nacque il Movimento Cure Palliative,che aveva ed ha alcuni punti fermi.Un primo tema è rappresentato dalla “continuità” di cura,nello spazio e nel tempo. Nello spazio: i diversi assettiassistenziali che costituiscono la cosiddetta Rete Locale diCure Palliative della normativa sono l’hospice (la “struttura”principe), l'assistenza a domicilio (nei due livelli, basico especialistico), gli ambulatori e le consulenze ospedaliere.Questi ultimi due assetti a identificare le cosiddette “curepalliative precoci”, dette anche “simultanee” con riferimentoalla contemporaneità rispetto alle cure antitumorali, ed anchesu questo tema le cure palliative romagnole hanno recentementeprodotto articoli riconosciuti come rilevanti dalla comunitàscientifica internazionale. La continuità nello spazio dellecure palliative implicherebbe anche una equità di offerta sulterritorio nazionale. Per il momento, accanto ad alcune Regioni“virtuose”, concentrate soprattutto nel Centro-Nord, vi sonoRegioni, prevalentemente nel Meridione, nelle quali le curepalliative devono ancora completare il loro svilupposistematico. Per quanto riguarda la continuità nel tempo,l'organizzazione di cure palliative deve prevedere, per chi èassistito, una forma di disponibilità dei curanti che copra ilmaggiore orario possibile nella giornata e nella settimana.In secondo luogo, le cure palliative devono prevedere una“modularità” di intervento: da una parte, un livello “basico”,cioè una “mentalità”, capillarmente diffusa, che permei lacultura e l’intervento dei diversi professionisti che per unapercentuale del loro tempo-lavoro vengano a contatto conpazienti con bisogni di cure palliative: dal Medico di MedicinaGenerale, all’Oncologo, al Geriatra, agli Infermieri dei diversireparti.Dall’altra, un livello “specialistico” di intervento, checaratterizzi e costituisca l’attività di chi si occupa di questeproblematiche a tempo pieno, declinandosi anche negli aspettidi ricerca, formazione e riferimento organizzativo territoriale.Infine, il “cuore” delle Cure Palliative è rappresentato damultiprofessionalità, multidisciplinarietà, e multidimensionalità.Si tratta di un “gruppo” di professionisti (eventualmenteintegrato da volontari), che si prende cura di un altro “gruppo”,costituito dalla persona ammalata e dal suo contesto familiaree amicale.In questo senso, le Cure Palliative desiderano esaltare lacondizione paradigmatica dell’uomo, come “relazione”.Nel percorso dell’uomo sofferente si possono identificare ledue modalità di incontro col proprio limite. Quella sperimentatadall’Icaro di Bruegel, in cui Icaro caduto, addirittura di difficileindividuazione, sgambetta nell’acqua tra la totale indifferenzadel resto dei presenti nel quadro, il pastore, il pescatore e ilcontadino, che proseguono imperterriti il loro lavoro incarnandoperfettamente il proverbio fiammingo: “nessun aratro si fermaperché muore un uomo”.

*Direttore dell'U.O. Cure Palliative Hospice di Forlimpopoli

Cure palliative. Terapia del doloreSanità

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di Paolo Mattei

Sbagliava Indro Montanelli,quando considerava il temadell’eutanasia una battaglia diciviltà che deve restare asso-lutamente fuori dalla Politica.Aveva ragione invece, il grandeToscano, a temere che la Politicasi impadronisse del tema per,come avrebbe potuto replicareMarco Pannella, nasconderlo,renderlo clandestino, relegarloal buio delle pratiche che nonsi dicono.A suo tempo fu così per l’aborto

clandestino praticato dalle mammane. Continua a essere cosìper il mercato degli stupefacenti che, proprio per il suo essereclandestino e illegale, produce utili smisurati alle or-ganizzazioni criminali. E’ così pure per le carceri italianetroppo piene, realtà “clandestine” in quanto sospinte in unasorta di realtà parallela che non si vuole illuminare con la lucedell’informazione, in cui dal 2000 ad oggi sono morti persuicidio più di 950 detenuti e più di 100 poliziotti penitenziari.E’ purtroppo molto lunga la lista delle censure di regime cheimpediscono ai cittadini di “conoscere per deliberare” comeaffermava Luigi Einaudi nellesue “Prediche inutili”.Tornando a Indro Montanelli.Nel Dicembre del 2000 in unconvegno sull’eutanasia aMilano affermava sem-plicemente e, direi, con lasemplice forza della “gravità”che non misura solo la cadutadegli oggetti, ma che da pesoe sostanza al senso comune:"Una morte dignitosa è undiritto di libertà. Io ho dettovarie volte che sono as-solutamente per il dirittodell'uomo di scegliere il come e il quando della propria mortee non vedo come si possa contestare all'uomo questo diritto.Per quanto mi riguarda personalmente io sono vicino algrande passo e io farò questo".Pochi mesi dopo Montanelli compiva il grande passo maresta nel buio quanto del suo proposito di decidere il come eil quando si sia effettivamente realizzato.In quei mesi, all’alba del nuovo millennio, un giovane diOrvieto malato di SLA (sclerosi laterale amiotrofica), LucaCoscioni riusciva invece, armato di un sintetizzatore vocaleche gli “restituiva” la voce e carico della forza dello “spescontra spem” nella rielaborazione pannelliana, a mobilitareJosé Saramago e 50 premi Nobel in una battaglia a favoredella libertà di ricerca scientifica e della possibilità di portarein Parlamento questa istanza insieme ai Radicali di MarcoPannella. Battaglia che non occupava i titoli dei telegiornalima che avrebbe avuto il merito di creare un ponte, comediceva lui, tra il corpo dei malati e il cuore della politica.Nel Febbraio del 2006 Luca Coscioni moriva dopo essersirifiutato di accettare una tracheotomia che lo avrebbe resodefinitivamente dipendente dal respiratore. Moriva così unuomo che alcuni miserabili politicanti ritenevano essere statostrumentalizzato da una parte politica la quale, invece, erastata essa sì strumento di libertà per Coscioni e per tutti coloro

che credono che sia proprio questo il compito della politica:ampliare gli ambiti di libertà dei cittadini.Nel Settembre dello stesso anno un altro cittadino italianomalato della stessa malattia di Coscioni riuscì a perforare lacortina di silenzio sui temi del fine vita. Si chiamavaPiergiorgio Welby e scrisse una lettera aperta al Presidentedella Repubblica Napolitano chiedendo di togliere dallaclandestinità l’eutanasia, che pure già esiste, in questo Paese,legalizzandola:“…..Starà pensando, Presidente, che sto invocando per meuna “morte dignitosa”. No, non si tratta di questo. E nonparlo solo della mia, di morte. La morte non può essere“dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere lavita, in special modo quando si va affievolendo a causa dellavecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morteè altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è unmodo di negare la tragicità del morire. È un continuare amuoversi nel solco dell’occultamento o del travisamentodella morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paraventonegli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi,appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è unacondizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo:“Ostico, lottare. Sfacelo m’assale, gonfia fiumana. Oceanocieco, pozzo nero di pena m’accerchia senza spiragli. Non

esiste approdo”. L’approdoesiste, ma l’eutanasia non è“morte dignitosa”, ma morteopportuna, nelle paroledell’uomo di fede JacquesPohier.Opportuno è ciò che “spingeverso il porto”; per Plutarco,la morte dei giovani è unnaufragio, quella dei vecchiun approdare al porto eLeopardi la definisce il solo“luogo” dove è possibile unriposo, non lieto, ma sicu-ro….”.

Si noti come la locuzione “morte dignitosa” serva da un latoa Montanelli per affermare la propria scelta individuale,orgogliosamente sottratta alla Politica e dall’altro lato siainvece rifiutata da Welby in quanto poco “politica”.Egli preferisce, abbiamo visto, il concetto di “morteopportuna”.E la Politica in primis è chiamata ad essere “opportuna”.Di quanta politica opportuna si sente il bisogno!Saranno tante le tappe, almeno nel mare della politica italiana,che occorrerà segnare prima di giungere all’approdo di unapolitica davvero vicina alla vita e alla Eu Tanasia dei cittadiniche vogliano poter decidere il come e il quando di un passocosì importante e quindi, anche toccato dalla vicinanzadell’amicizia con Denis Ugolini saluto e ringrazio, da semplicecittadino, la battaglia politica che Ugolini ha fatto perché icesenati usufruissero, almeno, del Registro del testamentobiologico.E’ una tappa, questa del Testamento Biologico, sulla viadell’ottenimento di quel diritto all’eutanasia di cui parlavanoMontanelli, Pannella, Coscioni, Welby? Lo sarà se questodiritto oltre che essere affermato sarà compreso in pieno dallaPolitica, fatto proprio dalla Politica.Lo sarà cioè se da questa istanza la Politica sarà finalmentecolpita al cuore.

Dal corpo dei malati al cuore della politicaEutanasia

Di quanta politica opportuna si sente il bisogno!

Saranno tante le tappe, almeno nel mare della politica italiana, cheoccorrerà segnare prima di giungere

all’approdo di una politica davvero vicinaalla vita e alla Eu Tanasia dei cittadini chevogliano poter decidere il come e il quando

di un passo così importante.

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di Luca Ferrini

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Funere mersit acerbo1.

Eutanasia. Parola composta,matrice greca. Il prefisso eu staper “buono”, “dolce”, e si attac-ca a tanatos. Un vocabolo dalsuono che fa paura, che signi-fica “morte”. L’eutanasia è,perciò, letteralmente, la «dolcemorte». Che pare un ossimoro.Come può essere, la fine dellavita, qualcosa di dolce?Difficile. Anche perché nonsappiamo cosa ci aspetta dopo.Tuttavia, anche se non propriodolce, potrebbe per qualcuno

figurare come male minore. Meglio spegnere la luce piuttostoche soffrire: non sarà bello morire, ma potrebbe essere unabella liberazione. Socrate diceva: non abbiate timore dellamorte, essa è il nulla. Niente gioia ma anche niente patimenti.Polvere siamo e polvere ritorneremo. Lo dice anche la Bibbia(Genesi 3:19).Già li sento i miei amici credenti: togliere o togliersi la vitaè contro la legge di Dio. In realtà il Libro Sacro non condannamai il suicidio. Ne cita cinque casi: Abimelec (Giudici 9:54),Saul (Samuele 31:4), lo scudiero di Saul (Samuele 31:4-6),Aitofel (Samuele 17:23), Zimri (Re 16:18) e Giuda (Matteo27:5). Tutte persone partico-larmente cattive. Solo di Giuda,però, sappiamo con certezzache non era destinato allaCandida Rosa. Ma non perchés’impiccò o perché tradì Gesù(lo stesso San Pietro, il pre-diletto, lo rinnegò tre volte);perché non si pentì della suadelazione.Quindi è la Chiesa, con la suainterpretazione delle SacreScritture, ad aver elaborato, neisecoli, una condanna agli inferiper chi si toglie o si fa togliere volontariamente la vita. Gesùnon parlò mai di queste cose. Aveva altro a cui pensare: lagente moriva di bacilli che oggi sconfiggiamo con un’aspirina.L’età media era bassissima, non c’era tempo di ragionaresull’eutanasia: la vita era un lampo.La Chiesa è contraria per due ragioni: primo, perché la vita,dicono, non è del singolo ma è di Dio che ce l’ha donata(allora, forse, sarebbe più corretto dire che ce l’ha «prestata»…se no, se non possiamo disporne a piacimento, che regaloè?); secondo, perché la sofferenza dell’uomo è anche la suaredenzione, il passaggio necessario per guadagnarsi la vitaeterna: smettere di soffrire per propria volontà sarebbe troppocomodo. Se Dio vuole che soffri, devi resistere fino all’ultimo.Se no, nisba, niente Paradiso.E se io, non credente - o credente non convinto della letturadella Chiesa sul punto - pensassi che concepire questa vitacome una sofferenza finalizzata a star meglio in un’altra vitafosse una scommessa troppo azzardata? Insomma: se è unmio diritto non credere, perché devo vivere in un Paese chesi professa laico e che invece mi fa subire un’interpretazionedi parte? E non un’interpretazione di parte su qualcosa dilontano da me, che non mi riguarda, ma un’interpretazionedi parte sulla mia stessa esistenza. Sull’essere a questo mondo

o stare sottoterra. E scusate se è poco.Perché, se io non credo che la mia vita appartenga a Dio, adAllah o a Jahvé, non posso spingere un bottoncino e spegnere– dolcemente – la mia vita?Dice: perché i credenti sono la maggioranza e, per loro,permettere l’eutanasia sarebbe come permettere l’omicidio(la vita appartiene a Dio, devi soffrire fino all’ultimo, e blabla bla). Perciò, loro una legge che consenta di lasciare questavalle di lacrime quando si vuole non la possono approvare.Non è moralmente (religiosamente) accettabile.Lettura volgare, questa: un diritto soggettivo esiste anche sela maggioranza non lo condivide. Per questo esistono leCostituzioni: perché quando la maggioranza diviene tirannide,bisogna intervenire: ci sono libertà che vanno garantitefregandosene delle maggioranze. E’ questo il vero Stato didiritto. Che garantisce un equo processo al peggiore deicriminali, evitando che venga lapidato in piazza. E checoncede la libertà di spegnere la propria esistenza a chi lodesidera. Perché rispetta allo stesso modo tutte le fedi e chinon ne ha alcuna.Si dirà: ma se uno proprio non ce la fa più, non può sempresuicidarsi? Ci sono tanti modi. Perché deve essere assistitodallo Stato nel farlo? Eh, no. L’eutanasia è una cosaprofondamente diversa dal suicidio. Personalmente nonesecro nemmeno questo, ma l’eutanasia è l’esito di un

processo unico ed irripetibile.Arriva solo al momento in cuila scienza si arrende. Quandonon c’è più niente da fare.E’ un cammino, non è una fuga.E’ l’affermazione di un dirittodi fattura squisitamente umana.Gli Stati più civili del nostro,che la consentono, prevedonoun’équipe di medici cheaccompagna il malato. Che alzale mani di fronte all’inevitabile.Tale umanissima legge concedeun tempo ragionevole per

pensarci e ripensarci, fino all’ultimo istante. Concede lalibertà suprema di premere un bottone e zac: farla finita.Cosa c’è di più dignitoso, di più meravigliosamente umanodi vivere in una comunità che ti riconosce il diritto adandartene a testa alta. Come se i tuoi concittadini ti dicessero:bene, non c’è più niente da fare, hai dato tutto quello chepotevi. Alla tua famiglia, ai tuoi figli, ai tuoi colleghi, al tuoPaese. Ora puoi andare. Grazie di essere vissuto. Premi quelpulsante, noi capiamo la tua sofferenza e la rispettiamo. Laterra ti sia lieve.E’ l’atto più generoso che una civiltà possa garantire. E’ lacompassione più profonda quella che guida la mano delloStato che ti consente la «buona morte». Perché la esorcizza.Perché in qualche modo la rende moralmente dolce, senzasensi di colpa. La rende, appunto, un diritto.Perciò, amici credenti: la misericordia (è l’anno buono, no?)passa anche dall’eutanasia. Iddio dovette accettare per suoFiglio una «cacotanasia» (una “brutta morte”) sulla croceper salvare l’Uomo. Non credo perciò che, nella lotta controil Male che ci circonda, l’Onnipotente sarebbe contrario alla«dolce morte» di un altro suo figlio, che ha già troppo soffertoe che desidera solo un po’ di pace. Anzi. 1.(Virgilio, Eneide, VI, 429)

Eutanasia

E’ l’atto più generoso che una civiltàpossa garantire. E’ la compassione

più profonda quella che guida la manodello Stato che ti consente la «buona

morte». Perché la esorcizza.Perché in qualche modo la rende

moralmente dolce, senza sensi di colpa.La rende, appunto, un diritto.

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di Gabriele Papi

Testamento biologico. Granbel tema hai lanciato, amicodirettore, forse un po’ scom-bussolante per taluni, maapripista laico, sfida alla morte,non solo ricordanza ma attoliberatorio per i nostri familiari,dovessero trovarsi alle presecon ardue scelte di fronte aldolore ed alle ambasce, difficilia dirsi, di non poche patologiedei loro cari. I problemi, sepossibile, vanno afferrati al

cuore. La morte, tolto il caso del suicidio (altra storia,dolorosa) “non si può scegliere: è il limite scandalosamentecasuale della nostra esistenza”*.Orizzonti quotidiani: morti mediatiche, lontane, finchè citocca.Nel nostro passato prossimo, il ricorrere della morteaddolorava chi restava, ma impauriva di meno. Anche ibambini erano invitati con delicatezza a partecipare allediverse forme di lutto e di esequie, senza nascondersi. Sesi era troppo piccoliper andare ai fune-rali, c’era sempreuna vicina di casache preparava lacioccolata in tazzacon i bracciatelli,per addolcire unaassenza. Persino leesequie del gatto dicasa, con proces-sione e seppelli-mento in giardino,era già un impararead elaborare il lutto.Oggi, il tema dellamorte viene con-tinuamente rimos-so. In genere lamorte si consuma lontano da noi, in ospedale.Anche i funerali sono spesso standardizzati, sincopati: farepresto. Persino certi necrologi sorprendono: recentementene abbiamo visti redatti con colori pacchiani, a mo’ dipubblicità. Per fortuna, ci sono ancora quei sobri necrologinostrani che annunciano la scomparsa di Tal dei Tali, detto“Zabaion”: quest’ultimo termine in grassetto, ed in risaltoperché gli amici conoscevano il defunto con il soprannome,come si usa in Romagna.E di fronte a simili manifesti anche chi non conosceva“Zabaion” si toglie il cappello e propone un saluto e unsorriso. Se i nostri morti, ormai, non li vediamo quasi più,in compenso vediamo moltissimi morti ammazzati in tvquotidianamente.Sorta di spettacolo mediatico, morti mediati e resi come

asettici (inframmezzati però da allegri spot pubblicitaridella serie “la vita è adolescenza continua” ben oltre lamaggiore età). Per non dire di certi agghiaccianti salottitelevisivi riguardo al delitto di turno: come se il sanguedegli altri fosse una ghiottoneria. Così la scomparsa dellamorte dal nostro orizzonte di esperienze quotidiane “cirenderà molto più terrorizzati quando il momento siapprossimerà, di fronte a questo evento che ci appartienesin dalla nascita e con cui l’uomo saggio viene a patti pertutta la vita”**Beatitudini laicheIl tema del confronto con la morte pervade anche laletteratura, la poesia, la pittura, l’arte. Torna alla mente, trale millanta citazioni possibili, il film di Ingmar Bergman(1956): “Il settimo sigillo”. In un mondo sconvolto dallapeste e dalla violenza un cavaliere incontra la Morte: lechiede tempo. Sfida a scacchi. Non si tratta solo di quesitimetafisici. Prender tempo è quello che chiediamo e che lamedicina propone a fronte di malattie oggi poco curabili.Ma c’è, tra i molti altri, un testo che più appare propizioa queste nostre tesi: il “Trattato di Decomposizione” ***di Franco Cordero, denso di libero pensiero.

Ecco qualche spic-chio. La vicenda u-mana si sviluppa daun limite minimo divita mentale intrau-terina al di sotto delquale c’è la materiapsichicamente iner-te, sale a forme com-plesse, poi decresce.Il grado zero da cuicomincia e dovefinisce è l’eternità,o, se vogliamo chia-marla così, la bea-titudine: il feto nonl’ha ancora perduta,il moribondo incoma la ritrova…

Arduo trattare dell’appuntamento con la morte. Arrenderci?E perché mai?Meglio tenere gli occhi aperti e riflettere, finchè ci è datotempo. Finchè abbiamo un poco di tempo possiamo perdercio salvarci, ricominciando da capo.Quando la misura della clessidra sta per finire, il marginerimasto conta ancora qualcosa, potrebbe persino esseredecisivo. Ciascuno muore come può, nei limiti imposti dalcaso o dalla fatalità biologica. ”Morire è un’esperienzaterribilmente privata: il morente vive come vuole il propriotransitus, solo che la natura gli lasci un poco di forza: sela cosa riesce bene, il vincitore è lui”.* J.P. Sartre, “L’essere e il nulla”- ** Umberto Eco, “PapeSatàn Aleppe”- *** Franco Cordero, “Trattato di decom-posizione”.

Testamento biologico e “beatitudini” laiche

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Eutanasia

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di Orlando Piraccini*

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Voterò “NO” al prossimo refe-rendum costituzionale. Perchésono orgoglioso d’essere vec-chio, e perché sono isteri-camente ostile a questo nuovoche sta avanzando. Perché sonoun nostalgico dell’Italia diBerlinguer e di Zaccagnini, diLa Malfa e di Pertini, e perchémi danno fastidio certi gio-vanotti presuntuosi, figlid’erasmus, ma senza cultura,che oggi comandano o coman-dar vorrebbero in Italia e nei

Comuni. Perché sono nato dalla Resistenza e perché nonvoglio morire “sotto” un uomo solo al comando.Caro Denis, son certo (o meglio lo spero) che mi perdoneraiquest’avvio sgangherato dell’articolo che mi hai chiesto perla tua rivista, e che ho pensato di scrivere sullo stato (pietoso)in cui versano oggi il nostro “Bel Paese” e dunque anche lanostra “Bella Cesena”.Nulla di male, in ogni caso, se poi ti verrà da pensare chel’Orlando si è un po’ rincitrullito, dopo essere passato allastoria con maggior gloria come il Furioso e come l’In-namorato. Posso però rassicurarti che certi miei “NO” (chenon sono di sostanza politica, bensì umorali ed epidermici)si connettono alla mia personale esperienza di vita e di lavorocome operatore culturale condotta nella sfera di quel pubblicoservizio, per la cui rottamazione (dopo tanti processi deni-gratori) anche l’attuale governo si sta adoperando. E’ diquesto, in fondo, che volevo trattare nell’articolo, che ora tisottopongo, partendo appunto dalla “Bella Italia” che lanostra Costituzione ci impone giustamente di difendere etutelare come patrimonio della collettività e che invece daqualche decennio viene sistematicamente devastata, distrutta,lacerata, e che si comincia perfino a (s)vendere.Provengo (un’intera generazione proviene) dalla grande epurtroppo breve “stagione dei beni culturali”, iniziata con lanascita delle Regioni, dopo le deleghe ai nuovi organismiterritoriali di precisi compiti riguardanti la valorizzazione ela promozione dei patrimoni storici-artistici-architettonici-naturalistici-ambientali, dei musei, delle biblioteche e degliarchivi degli enti locali.E’ stato in quei famosi anni ’70, e per un po’ del decenniosuccessivo che nella nostra regione e nei territori più progreditidella penisola il patrimonio culturale nel suo complesso hagoduto di un suo vero e proprio “stato sociale”: dallecampagne di rilevamento, capillari catalogazioni e analiticicensimenti alle rinnovate tecniche restaurative e alle diffusepratiche manutentive, dalle nascite dei centri culturalipolivalenti nelle aree più periferiche al consolidarsi delsistema museale e bibliotecario regionale, fino ai piani ditutela delle città e dei territori.Per l’Emilia e per la Romagna, di quel tempo farebbe benelo stesso Istituto regionale per i beni culturali a provare aricomporre il clima, e di quel fervore quantificare gli effettiper meglio intendere la successiva deriva tecno-burocraticafino alla disgraziata attualità che vede tra l’altro in atto, sulfronte ministeriale, la più dissennata riforma possibile delpur obsoleto e consunto sistema delle soprintendenzeterritoriali.E si dovrebbe avere il coraggio di comporre una mappa dei

“mali culturali” che si sono prodotti nella nostra regione,nelle nostre città, nei nostri territori dopo quella fruttuosastagione e durante quest’ultimo trentennio: mali determinatidall’abbandono delle pratiche manutentive che hanno perfinocoinvolto beni (opere d’arte, edifici pubblici e chiesastici,comparti urbani) da poco risanati e restaurati, ma specialmentemali derivati dagli stravolgimenti dei piani regolatori cittadinie dalla progressiva soppressione d’ogni ordine di tutela,rispetto e salvaguardia dei territori, e via deregolamentando.Qualche anno fa un sindaco di Cesena titolò un suo librosulla “Città Bella” che stava amministrando.Fu l’esempio più bello (questo sì) d’una ipocrisia trionfante.Ricordo l’impressione un po’ costernata nel leggere certepagine, trovando magnificata una città nella quale io nonriuscivo in realtà a ritrovarmi, se non ritornando con lamemoria alla politica dei beni culturali (quella teorizzata ametà anni ’70 da Andrea Emiliani e patrocinata da GiovanniSpadolini), che intanto però era andata progressivamentefrantumandosi. Sì, certo, c’era in quel libro l’evidenza,l’esaltazione del “bello” cittadino: ma era un bello (gliinterventi sulla città malatestiana, sulla Val d’Oca, il SanBiagio, la piazza del Popolo e via magnificando) già datato,che era stato ispirato dai modelli conservativi d’una stagioneormai passata. Perché intanto, dopo tante (però solo ostentate)professioni di rispetto assoluto dell’inviolabilità del “centrostorico”, e di massima all’erta per le modalità espansive dellacittà nelle immediate aree periferiche, erano sotto gli occhid’ogni abitante cesenate certi effetti fantasiosi, diciamo puregrotteschi, che coinvolgevano strade e percorsi urbani e iloro arredi urbani.E a nessuno poteva sfuggire che nell’“extra moenia”, giàappena fuori porta fino all’area centuriata (ormai indecifrabile)e sulla fascia pedecollinare si andavano consumando i piùefferati delitti ai danni dell’ambiente e all’insegna del più“brutto” estetico possibile.Ci avevano insegnato i Grandi Maestri che il patrimonioculturale del nostro paese, in ogni suo luogo o territorio cisi trovasse, è uno ed indivisibile, e che la sua integraleconservazione come bene della comunità dev’essere sempretenuto presente a fronte di ogni intervento innovativo impostodalla società che cambia. Era una bella teoria, una formulaaperta del concetto di tutela, che poneva la trasmissionedell’eredità storica come dovere civile e morale. Un compito“costituzionale”, appunto.E allora, caro Denis, e cari lettori, si può forse comprenderese qualche reduce come me dalle campagne di salvataggiodel nostro “bene comune” prova tanta ostilità nei confrontidegli untori di quel morbo infetto che anche sul fronteambientalista si chiama “deregulation”, e se si dispiace nelsentir nuovi ed improvvisati paladini dei beni culturali parlartanto di “eccellenze” da salvare e da valorizzare (i nostripozzi di petrolio, le nostre miniere da sfruttare), mentre ditutto il resto chissenefrega, si può pure far dello scarto.E capirai se la malinconia lo assale, mentre transita dalleparti di Pieve Sestina, si guarda attorno e ripensa a GiancarloSusini che parlava della centuriazione romana come uno deibeni assoluti dell’umanità; e se un po’ di rabbia lo aggrediscequando dal piazzale della Basilica della Madonna volge ilproprio sguardo allo “storico” paesaggio collinare che avvolgela città, e lo vede, proprio lì di fronte, così inesorabilmentemutato, così brutalmente violato.

Voto “NO” alla città brutta

*Studioso d'arte

Cultura

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di Alessandro Savelli

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In conseguenza del mio articolonel numero precedente di “Ener-gie Nuove” alcune persone mihanno chiesto su quali fattori,ritenuti veramente importanti, sipuò giudicare la buona riuscitae quindi il successo di una mostrao di una esposizione.Nel formulare questo tipo digiudizio bisogna tener presente,a parer mio, che esistono alcunevariabili significative che de-finiscono il risultato finale di unamostra, come per esempio la lucee il posizionamento delle opere.

Alla base di tutto però ci deve essere “in primis” : la correttezza,la competenza e l’esperienza del curatore della mostra perchéquesta deve essere fatta in modo da far capire, attraverso i quadri,anche alla persona più profana, l’evoluzione artistica del pittoreo della corrente pittorica. Oltre a questo, bisogna anche tenerpresente che la Storia è parte integrante dell’arte, perché graziea lei vengono sottolineati i cambiamenti, i passaggi sia di popoliche di generazioni e ci fornisce notizie di una realtà che diventaesplicita, attraverso quanto viene rappresentato. In questo modochi osserva un opera partecipa anche al periodo storico e quindine ricava un inquadramento tale che gli permette di capire inmaniera più completa quanto sta osservando. Naturalmente però,occorrerebbe, da parte del visitatore, anche la sensibilità e unpo’ di competenza e di conoscenza che gli permetterebbero direcepire, ammirare e anche giudicare appieno un’opera d’arte.Le mostre d’arte fungono, a parer mio, da ponte tra la culturae la società, perché permettono di aprire un dialogo tra quantoesposto e il visitatore che può così attingere a piene mani nellacultura, classica o moderna che sia. In questa maniera puòprepararsi alle mutazioni del tempo che serve a far capire chenuovi stili succederanno ai precedenti, come è sempre stato.Naturalmente la mostra influisce sul visitatore, perché lo informa,lo aiuta a capire e quindi lo introduce sempre più nel mondodell’arte e della cultura. A questo proposito acquisiscono moltaimportanza i servizi audio che possono essere richiesti all’ingressodi ogni mostra e che danno un notevole contributo allacomprensione dell’opera d’arte. Ecco che diventa moltoimportante la continua frequentazione di mostre, abbinata aqualche buona lettura, perché solo così è possibile recepireaspetti culturali nuovi che naturalmente migliorano, ampliandolo,il bagaglio culturale di ognuno di noi. Grazie a questo tipo dipreparazione si acquisisce poi la capacità di giudicare anchel’opera di un pittore giovane e sconosciuto. Andando a vederela mostra di un grande dell’arte si rimane condizionati dallafama del pittore e tutta la sua produzione viene di conseguenzaconsacrata e valorizzata a livello di capolavori, mentre inveceanche il famoso pittore può sbagliare, ma essendo l’opera di un“Grande” viene sempre ritenuta un capolavoro. Potrà sembrareuna “bestemmia” ma, andando a visitare una mostra, ho vistoun quadro di Gaugin veramente brutto. Secondo me, il pittore,non soddisfatto di quel quadro lo aveva messo da parte senzafinirlo in attesa dell’ispirazione. Questo avviene di frequente tragli artisti, basti pensare che fino agli Impressionisti, e poi ancheoltre, spesso i quadri venivano dipinti a strati, per cui, dato chei singoli strati dovevano asciugarsi, venivano messi da parte eintanto i pittori si mettevano a dipingere altri quadri. Spesso,quando riprendevano in mano il quadro messo a parte, succedevache all’artista non piacesse più, per cui cominciavano amodificarlo, poi lo rimettevano via per riprenderlo in altrimomenti. Queste modifiche vengono chiamate dagli storicidell’arte: “pentimenti”. Oggi queste variazioni sono state

evidenziate, con l’aiuto dei raggi X, in diversi quadri antichi,compresi alcuni di Leonardo da Vinci. Secondo me quel bruttoquadro di Gaugin è un quadro incompleto, non curato, sporcoper diversi ritocchi che ha subito, però, oggi, è sempre un quadrodi Gaugin, per cui piace a tutti e vale tantissimo, ma per merimane un brutto quadro. Mi viene da pensare al filosofo daneseSoren Kierkegaard che chiama “elogio o giudizio stabilito”quello che ha la sua fonte nella persuasione della comunità odel numero di persone che corrompe profondamente il giudiziodel singolo individuo. Succede anche che molti artisti moderniche hanno raggiunto la fama si lascino prendere dall’aspettoeconomico e commerciale perdendo la voglia della ricerca. Avolte succede che alcuni galleristi impongono agli artisti uncerto numero di opere al mese, per cui essi sono costretti aultimarle velocemente per rispettare il contratto. A questo puntogioca molto anche la volontà dell’artista. In passato, per esempio,abbiamo visto alcuni casi in cui il pittore faceva dipingere ilquadro da un suo allievo e lui metteva solo la firma. E’ purtropposuccesso più di una volta. Comunque, al di là di qualsiasidefinizione culturale, un quadro viene giudicato singolarmente,in maniera soggettiva ed è bello se sa trasmettere una qualchesollecitazione. Esso riproduce un’esperienza di vitaindipendentemente dallo stile adottato, per cui ha sempre qualchecosa da esprimere o da comunicare. L’opera d’arte vienepercepita istintivamente, non viene richiesta la definizione o ladifferenziazione tra disegno e pittura e quindi il concetto ol’ispirazione che hanno permesso la realizzazione dell’opera.Goethe addirittura, nella sua “Teoria del colore”, afferma chela luce e i colori risiedono nella mente ed esistono solamentese esiste un osservatore che li percepisce; e sono “allocronici”cioè variano a seconda del punto da cui si guardano. Se poi sivolesse andare più a fondo nel visitare una mostra allora si puòchiedere l’aiuto di una guida, grazie alla quale, si potrannocogliere tanti aspetti e particolari del quadro che un occhio nonabituato non percepisce. Addirittura si può arrivare a capire ilmetodo “mfi” che è un metodo di costruzione del quadro stessospesso adottato dai pittori di un tempo, oggi meno utilizzato.Infatti l’artista era un intellettuale che si serviva nelle suerealizzazioni non solo della tavolozza e del pennello, ma anchedella matematica e della geometria, con le quali coordinava leproporzioni e lo spazio pittorico che, abbinati all’invenzione eall’immaginazione, rendevano, e rendono tuttora armoniosa larappresentazione pittorica. E’ in questa maniera che si apprendeil rapporto tra armonia ed equilibrio e poi tra forma e colore.Nasce così quel piacere semplice e naturale che derivadall’ammirare un quadro senza cercare di inserirlo in una delletanti correnti esistenti nel mondo della pittura. Comunque, ingenerale, un pittore va giudicato non sulla base di un soloquadro ma nella sua completezza, esaminando possibilmenteil maggior numero di quadri e riuscendo a capire così qual èstata la sua evoluzione. A questo punto nasce dentro di me unadomanda: quale sarà il rapporto dei romagnoli con l’arte? Siinformeranno sulle mostre in programmazione nelle loro cittào meglio ancora in Italia? Credo si possa rispondere a questi ead altri interrogativi attraverso le abitudini delle singole persone.Se una persona va con una certa frequenza al cinema e a teatroindipendentemente dal tipo di programmazione e se va adascoltare concerti o spettacoli di danza, non ha importanza seclassica o moderna, se legge qualche libro e qualche giornaleallora sicuramente conosce la Cappella Sistina e la galleria degliUffizi e se è stato a Parigi ha visitato il Louvre e il museod’Orsay e credo che sia anche disposto a fare molti chilometriper vedere una mostra. Con grande piacere sto vedendo che ilnumero di siffatte persone aumenta sempre di più e questo faben sperare per un futuro migliore che non si limiterà sicuramenteall’arte.

Cultura

Opere d'arte e storia

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di Luigi Di Placido

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di Lella Turci

A più di un mese da quell’indi-menticabile 24 Luglio, continuo adavere la netta sensazione di esserestato decisamente fortunato a poterassistere ad un evento memorabile e,forse, irripetibile per Cesena. Senzanessuna pretesa, voglio fare qualcheconsiderazione.Volere è potere.Fabio Zaffagnini e la sua crew cihanno dimostrato che un sogno è talesolo fino a quando non si decide direalizzarlo, costi quel che costi.Ricordo le ironie e la sfiducia checircondavano l'inizio di questoprogetto, del quale oggi tanti si lavanola bocca: addirittura c'era chi con-testava il progetto iniziale perché

aveva come destinatario un gruppo non gradito. Della serie: guarda ildito, perché alla luna non ci arrivi proprio. Primo round vinto. È luglio2015, e i 1000 si riuniscono al Parco Ippodromo per lanciare il loromessaggio musicale ai Foo Fighters, chiedendo che vengano a suonarea Cesena. Risultato incredibile del mini-concerto, e risultato ancora piùincredibile nei giorni successivi: milioni di visualizzazioni del video, eDave Grohl che dice "che bellissimo!"Secondo round vinto. I Foo Fightersvengono a suonare a Cesena, aggiungendo una data al loro tour europeo.Qualcuno preferisce polemizzare sulla scarsa capienza del Carisport,piuttosto che sulla straordinarietà dell'evento. Avanti con il dito, la lunaè sempre più lontana. Terzo round: basta così o crescere? Fabio & co.potevano fermarsi qui, avevano già realizzato un mezzo miracolo. Einvece no, perché i miracoli (laici) vanno fatti per intero. Cosa inventarsi,quindi, per fare un altro passo in avanti? Far capire che i 1.000 non sonouna idea estemporanea, buona solo per un pomeriggio, ma una idea cheva oltre la musica. Una idea che parla di tante cose: fratellanza, entusiasmo,gioia, sacrificio, ambizione. E una idea del genere non può finire in unpomeriggio e in un concerto dei Foo Fighters. "The greatest rock bandon earth". Breve, conciso, verissimo. Una cosa mai successa, una cosamai vissuta, una cosa mai organizzata: quasi 1.200 musicisti protagonistidi un concerto vero e proprio.Terzo round vinto. Domenica 24 Lugliorimarrà nella storia della musica, piaccia o no, perché è nata una nuovaidea di musica, una nuova idea di intrattenimento. 15.000 spettatori lohanno certificato, in un Orogel Stadium (a proposito, complimenti adOrogel per la lungimiranza) che traboccava di stupore e coinvolgimento.E adesso? Da entusiasta sostenitore del progetto sin dall'inizio, speroche riesca a crescere ancora, proponendo le emozioni che ho provato ioa tantissimi altri, in tante altre città, d'Italia e non solo. Perché il bello

deve venire adesso, perché il bello deve sempre essere domani. Questomessaggio di unità, coesione, condivisione merita di essere portato fuorida Cesena, tanto è bello e significativo. Sorrido quando sento parlare disnaturamento del progetto, di sottomissione alle logiche commerciali:chi si diletta di queste polemicucce non ha idea di quanto hanno rischiatoFabio e il suo gruppo, di quanto costa un concerto come quello diDomenica, delle responsabilità che comporta. Io spero vivamente cheil progetto cresca ancora, e spero che chi lo ha inventato, gestito e"sofferto", possa avere i suoi giusti riconoscimenti, di tutti i tipi. Se nonci fossero stati sponsor lungimiranti e disponibili, probabilmente nonavremmo visto e ascoltato quello che abbiamo visto e ascoltato Domenica.Sarebbe stato meglio così, per una distorta pretesa di purismo? Io credoassolutamente di no. In una situazione di profonda crisi della musica,sia dal punto di vista qualitativo che di fatturato, gli eventi dal vivodivengono ancora più importanti, in quanto contribuiscono a conservaree trasmettere il lato emozionale della musica stessa, spesso ormai inariditoe misconosciuto. E Cesena? Inevitabilmente devo dire qualcosa sullamia città. Una città che ha avuto l'onore di essere conosciuta in tutto ilmondo per le iniziative di un gruppo di "pazzi" che hanno trascinato consè, come uno tsunami, tutto e tutti. Quei "pazzi" hanno costretto la cittàad interrogarsi su cosa vuole essere, cosa vuole diventare, cheatteggiamento intende tenere su iniziative fuori dai binari della quotidianità.È capitato solo a me, vedendo l'Orogel Stadium pieno e traboccante dientusiasmo, di pensare che l'eccezione del 24 luglio dovrebbe diventareuna regola, rendendo Cesena tappa per concerti di livello durante ilperiodo estivo, grazie alla splendida struttura che abbiamo? È capitatosolo a me di pensare che alberghi, ristoranti, attività varie hanno beneficiatodi un indotto straordinario per almeno una settimana, e che talestraordinarietà dovrebbe diventare un po' più regola? È capitato solo ame di pensare che a Cesena ci sono tante belle idee, che camminano sugambe coraggiose e addirittura visionarie, ma che spesso vengono vissutecon distacco (quando non con fastidio) da chi, invece, dovrebbe darebenzina e strada, e che invece sale sul carro sempre il giorno dopo(ammesso che sia andato tutto bene)? Altro che opere d’arte per ricordarequello che è stato, occorre pianificare quello che sarà!Se è capitato soloa me, chiedo scusa, ma non smetterò di pormi e porre queste domande.Se, invece, ci sono altri che si fanno queste domande, allora è arrivatoil momento anche di dare risposte, perché Domenica 24 Luglio sonostato orgoglioso come poche altre volte di essere cesenate. E certesensazioni non ti basta ricordarle, perché ti "inloviscono", ti chiedonodi essere rivissute, di essere riassaporate. Ecco, That's live e Rockin'1000ci hanno dato un bello schiaffone in faccia e ci hanno chiesto: caraCesena, cosa vuoi diventare? Fabio e i suoi mi hanno reso molto più"lovo" di quello che ero già, e non ho intenzione di farmi passare l'appetito.Cesena è pronta ad apparecchiare la tavola?

Quando penso alla Festa di SanGiovanni, i ricordi dell’infanziariaffiorano nella mente con nostalgiae rimpianto. Una volta San Giovanni,a Cesena, la mia città nativa, sifesteggiava soltanto il 24 giugno, oranon più. Questo giorno era attesosoprattutto dai bimbi perché i lorogenitori, alla mattina presto, andavanoper i corsi Garibaldi e Sozzi, tuttioccupati per gran parte da bancarelledei dolciumi, a comprare i fischiettidi zucchero: ai bambini i galletti ele palle di stoffa colorata, riempitedi segatura e legate ad un elastico,che poi venivano spinte con forzasulle vesti delle ragazzine; alle bimbe

le paperelle e le bamboline di celluloide. Il profumo dello zuccherofilato si espandeva per le strade e le mamme si compravano le mandorlezuccherate per soddisfare la loro golosità. Allora Cesena festeggiavacon dignità la festa del Santo Patrono. Il tempo trascorre, gli anni passanoe ogni volta si aspetta San Giovanni. San Giovanni quale? Quello di untempo, più sentito, e dove si respirava un’aria sana e molto familiareo quello attuale, multietico, dove le bancarelle sono nella maggior parte

San Giovanni, festa del patrono o del caos?dei casi gestite da cinesi, africani, bangladesi e dove i banchi alimentarisono una moltitudine e imperversa il profumo di porchetta che la genteacquista nel nome di San Giovanni? Io sono disabile, vivo su una sediaa rotella e, quest’anno, per il giorno di San Giovanni, mio figlio havoluto farmi una sorpresa portandomi dalla struttura in cui risiedo finoal centro città, per vedere le bancarelle di cui non avevo più ricordo.Mio figlio ha spinto la carrozzina tra mille difficoltà tra le tante barrierearchitettoniche cui abbiamo dovuto far fronte.Prima di tutto le abbiamo incontrate in via Fiorenzuola, il tratto di stradautilizzato per arrivare fino al centro della città. Sia per attraversare lastrada che per percorrerla è stato evidente il disagio, perché lapavimentazione dei marciapiedi e il manto stradale non sono adeguatiper garantire il transito sicuro delle carrozzine dei disabili. Pur conenormi difficoltà siamo riusciti ad arrivare fino in centro.Avevo decisodi riscoprire la mia Cesena e il profumo di zucchero filato proveniredalle bancarelle dei dolciumi. Ad un tratto però da uno stand africano,che ostruiva l’unico varco per i disabili, mi è caduta sulla testa una bellagiraffa di legno. E così questa è stata la mia benedizione per la Festadi San Giovanni perché in Duomo non sono entrata.Questo è l’unico ricordo nitido che mi è rimasto impresso della festivitàattuale. Per il resto, preferisco rispolverare le immagini della Festa diSan Giovanni custodite gelosamente nella mia memoria, di quando erobambina.

Rockin 1000Cultura

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di Piero Altieri*

È tremendamente faticosotentare una lettura approfonditadi quanto sta accadendo nel nordAfrica e nei Paesi che si affac-ciano sul Mediterraneo orien-tale. Forse vale la pena – nonper mera erudizione storica –riandare alle vicende politico-militari che hanno messo indiscussione in quei Paesi gliassetti che l’Impero Ottomano,la “Sublime Porta”, da Istambulaveva loro imposto, sulla sciastorica che rimanda alla espan-

sione dell’Islam fin dai primi tempi dell’Egira.Occorre risalire ai primi decenni del secolo scorso. L’imperoOttomano sta vivendo una crisi lacerante che minaccia ditravolgerne l’unità politica. In discussione è la credibilità delsultano, del califfo che aveva posto la sua sede nella “secondaRoma”, Costantinopoli sul Bosforo, prendendo poi nome sullecarte geografiche di Turchia.Scoppiata la “grande Guerra” (1914-1918) la Turchia, incontrapposizione all’impero russo che preme per arrivare aimari caldi del Mediterraneo, si schiera a fianco degli Impericentrali, trovandosi così in guerra con le potenze della Intesa(Francia e Inghilterra) che ben presto stipulano tra loro accordial fine di dividersi le spoglie dell’Impero Ottomano, una voltaconcluso vittoriosamente il conflitto.Solenni promesse di diverso tipo con i capi religiosi e con imovimenti nazionalistici arabi per garantirsi il loro sostegnocontro i Turchi. Ed è in questo contesto che si pone la promessa(1917) del governo inglese per voce di lord Balfour diorganizzare in Palestina un “focolare” per il popolo ebraico,vittima anche in tempi recenti di crudeli progrom, soprattuttonella Russia degli zar di Mosca. Promessa accolta conentusiasmo dal Movimento sionista, ma che è da subito vistocon sospetto dal mondo arabo, da secoli insediato nel MedioOriente. È in questo clima che, alla fine degli anni Venti delsecolo scorso, in Egitto, il maestro di scuola Al Banna dàinizio al movimento dei Fratelli Musulmani che nel secondodopoguerra registrerà i drammatici sviluppi cui abbiamoassistito in tempi recenti.Ben presto però l’amara delusione per quanti aspiravano aprogrammare il “Risorgimento” del popolo arabo. La nuovacarta geografica fu definita secondo una logica di potenzecoloniali. Ed è ancora sotto gli occhi di tutti, ma da temponon riconosciuta, armi alla mano, con esplosioni del terrorismo,da quei movimenti politico-religiosi che aspirano, seppure inmodo confuso, alla indipendenza sotto l’egida di un principioidentitario che si riassume nella fede dell’Islam.Da notare però come, da sempre, si combattono lotte ferocitra Sunniti e Sciiti e Alahuti, con anche, seppure espressa daélites intellettuali e folle di giovani, la speranza di organizzarela vita politica secondo i criteri della democrazia occidentale.Da non dimenticare peraltro la soluzione “laica” voluta giàai primi anni del secolo scorso per la Repubblica di Turchia,dopo la deposizione del sultano. Una impostazione “laica”voluta e promossa da Ataturk che ha agganciato poi il Paesenel secondo dopoguerra alla Nato, in contrapposizione alblocco politico-militare della Unione Sovietica.Ma siamo ormai ai nostri giorni e la Turchia sta subendo,spesso drammaticamente, l’influenza del rinnovamento volutoe gridato dalle cosiddette “primavere arabe” e ancor più

dall’irrompere del terrorismo proclamato da Al Bagdadi perla ricostituzione del califfato islamico che è subentrato, secosì si può dire, al progetto scatenato, seppure con diversemodalità, dall’emiro di origine saudita Ben Laden,organizzando per questo obiettivo Al Quaeda.E fu, fin dagli inizi, eliminazione crudele delle minoranzeetnico-religiose, il genocidio del Popolo armeno,l’allontanamento dalla Anatolia della cospicua componentegreca…Ogni sera la Tv ci ripropone immagini di inaudita ferocia chesi scatena per attuare quella pulizia etnica che non tolleraconvivenza pacifica e operosa con gli Sciiti, i Curdi, la pre-senza bimillenaria delle Chiese cristiane e ancora di queiSunniti che non si riconoscono nel progetto delirantedell’autoproclamato Califfo.Tanta violenza ha poi messo in fuga milioni di profughi che,spesso invano, hanno tentato e tentano di raggiungere l’Europa.A loro poi si aggiungono i tanti che fuggono dalla violenzae dalla fame che feriscono tanta parte dell’Africa sub-sahariana.Nel frattempo la crisi economica, politica e identitaria del-l’Europa che, ripiegata su se stessa innalza barriere perrespingere questo esodo inarrestabile, riaggomitolandosi inegoismi che la minacciano nelle sue stesse fondamenta.Tutti si augurano che si arrivi in tempi brevi a soluzioni-compromessi politico-militari. Sarà tanto, ma sempre in-sufficiente. Ed ecco riemergere la parola disattesa e daqualcuno disprezzata: “dialogo”. Non ci sono alternative dilunga durata. Fu così quando l’Europa fu invasa (ed eranogiorni di crisi irreversibile) da popoli “barbari”. La Chiesa,i monaci di San Benedetto, furono sapienti intermediari. Ipopoli d’Europa possono ancora attingere saggezza ed energiada quelle stagioni della sua storia che ne hanno forgiatol’identità.Ritorna affascinante il ricordo del “dialogo” intrecciato daSan Francesco con il sultano d’Egitto, avendolo raggiuntomentre i “crociati” erano accampati a Damietta.Un “dialogo” che non ebbe frutti immediati (a ostacolarlo cimisero molto del loro i Crociati e gli ecclesiastici che liguidavano!), fu continuato tuttavia nei secoli dai suoi fratisempre attenti ad accogliere i pellegrini in Terra Santa,premurosi nel sostenere la presenza nei luoghi, santi per tuttii discendenti del patriarca Abramo, delle sempre più piccolecomunità cristiane.A favorire e a promuovere questo “dialogo”, spes contraspem, gli insegnamenti e i gesti profetici già di papa GiovanniXXIII, di Paolo VI, di papa Giovanni Paolo II, di papaBenedetto XVI e ora di papa Francesco; le loro visite nellegrandi moschee dell’Islam.Parole e gesti da condividere con tutti gli uomini di buonavolontà (e sono la maggioranza!) che tra i discendenti diAbramo vogliono affermare non con la violenza la signoriadi Dio nella storia degli uomini, una signoria misconosciutadella nostra cultura secolarizzata. E i risultati sono, ognigiorno, in prima pagina. Ricusando ogni forma di clericalismo,seppure di diverso colore, in ascolto leale della “ragione” concui l’Onnipotente ha sigillato le sue creature.Ai lettori che hanno già raggiunto un’età… matura, vorreiricordare i “Colloqui del Mediterraneo” che il sindaco GiorgioLa Pira profeticamente convocava a Firenze negli anniCinquanta. Si era nei tempi tristi della guerra fredda e delcolonialismo franco-inglese. Profeta inascoltato, allora. Unavoce tuttavia che può ben risuonare ai nostri giorni.

*Canonico. Già direttore del Corriere Cesenate

Dialogo in ascolto leale della "ragione"

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In luglio è scomparso Giorgio Ceredi. Personalità politica dirilevanza. Per Cesena, per la nostra Regione, per la politica ingenerale. Partigiano. Dirigente del Pci e sindacale. Anni diimpegno attivo e di primo piano nelle istituzioni, comunale,provinciale e regionale. Assessore all’Agricoltura in Emilia-Romagna. Per più legislature. Per le capacità, l’innovazione,l’azione che lo hanno contraddistinto in quell’ambito ne hosempre parlato così: “Ci sono due persone nella politica italianache capiscono davvero di agricoltura e ne sanno fare governo:Giorgio Ceredi e Marcora”.Giorgio, fra i più considerati, stimati, grandi dirigenti del Pci.Ripeto: non solo nella nostra regione. Sottolineo questo aspetto,perché oggi temo che a molti sfugga cosa significhi esserestato un grande dirigente di un grande partito, di quel partito,il Pci di quegli anni, fino al cambio della Bolognina. Non c’èpeggior modo di intendere tutta quella valenza di forza, dipersonalità, di peso e di influenza, di un dirigente di quellastatura e stazza, se non quello di farne paragone con attualidirigenti politici dell’attuale scenario politico generale. Tuttaun’altra roba, completamente un’altra roba.Un uomo di rango. Un comunista. Anniimportanti del mio impegno politico mihanno consentito, di incontrare, incrociareda vicino, da molto vicino, Giorgio Ceredi.Non solo nel mero seppur assiduo rapportopolitico che pure ci fu e significò una nonbreve stagione politica. Rilevante edimportante per Cesena, soprattutto, perprogettualità e coraggio politici. Per leinnovazioni nelle alleanze politiche e nellescelte innovative che da lì presero forma efurono avviate e realizzate. Un processodifficile, soprattutto per me personalmente,ed anche per la mia parte politica, cheapprodò all’alleanza politica ed ammi-nistrativa a tre (Pri, Pci, Psi) e ad un Sindacorepubblicano nel Comune di Cesena nell’86. Una possibilità impensabile senza GiorgioCeredi in particolare (non dimentico con lui, insieme, Gigi,Leopoldo Lucchi). Un riferimento fermo, preciso, di una lealtàstraordinaria, coerente, deciso, determinato. Un rapportoreciproco fondato su una fiducia e lealtà senza ombre cheavevamo costruito per senso politico e visione politica di certarilevante convergenza non senza l’essenzialità di un rapportoumano, amichevole, franco e, appunto, di grande lealtà. Ancoraadesso che ne scrivo sono trascinato da una forte affettivacommozione per l’amico Giorgio. Un affetto ed una stima eanche riconoscenza che mi sono sempre stati presenti. Anchenei lunghi anni nei quali ci siamo persi di vista e se non inpochissime circostanze ci siamo rincontrati e salutati. Non èil momento della sua dipartita che mi aizza il ricordo e lamemoria di un tempo. L’occasione di un ricordo fugace,episodico. Preme a me, per me stesso, sottolineare la costanzadi un sentimento che ho continuato ad avere. Una memoriastorica. Un ingrediente sempre più in disuso, purtroppo, e sene vedono non pochi effetti. Spero non me ne vorrà alcuno.Ma è del senso di una memoria vera, non di circostanzacontingente, che voglio dire. In questi anni mi sono attenutoa quanto avevo detto perché mai si potesse interpretare inmodo distorto l’iniziativa che mi sentii di perorare e di cuiringrazio in primo luogo il Sindaco che l’accolse e la condiviseportandola a compimento. Gli scrissi nel nov del 2009 sol-lecitandolo affinché a Giorgio fosse dato il riconoscimentomeritato del premio “Malatesta Novello Città di Cesena”.

Non mi sinceravo del perché ci fosse una tale mancanza. Nonche non avessi notato che talvolta quel premio era più ad usoe consumo contingente per acquisizione di benevolenze (uncerto sapore elettoralistico) da persone e da aree culturali epolitiche secondo i tre principali filoni: sinistra, cattolici, laici.E il quarto: imprenditoria.Giorgio Ceredi. È stato ed è un personaggio nella vita dellanostra città e non solo. Una passione civile e politica di grandespessore e valenza. Per attribuirgli ciò che gli fu riconosciutonon c’era bisogno d’altro. Lui e ciò che è stato.Che era e che è nella memoria storica di noi e di questa realtà.Ne serbo un ricordo indelebile e personalissimo.Quando approntammo la nuova alleanza amministrativa. Dopo le elezioni dovette passare un anno perché un nostrocongresso del Pri desse il via libera finalmente risolvendo unalacerazione e spaccatura che mi trovai a dover affrontare connon tanta compagnia e moltissimi avversari interni invece. Fupossibile quel processo di realizzazione innovativa di unanuova alleanza e di una nuova amministrazione perché fu

condotta con serietà e da persone fra le qualiGiorgio Ceredi. Anche lui dovendo subirecontraccolpi interni al suo partito; nonfossaltro perché qualcuno dei suoi dovevasmontare per far posto a un nuovo Sindacorepubblicano. Incontrai Giorgio e Gigi inun ufficio in Via Chiaromonti. Nel Pribagarre aperta: voleva fare il sindaco anchechi era stato furibondamente e non senzascorrettezze contro la nova alleanza ammini-strativa. Giorgio e Gigi volevano fidarsi chenon avevamo messo in piedi qualcosa chevicende interne aspre avrebbero potutovanificare a breve. Motivo dell’incontro:dovevo essere io il sindaco, solo così sisarebbero fidati. Dire che non ne rimasigratificato sarebbe mentire. Ma li dovettiquasi aggredire con cipiglio per metteresubito in chiaro le condizioni di fattibilità

di quell’operazione, senza tergiversare e prolungare tempi.“Ma ci pensate come mi sentirei e come mi troverei a doveraffrontare un simile impegno se solo qualcuno pensasse chetutto quello che è successo, le divisioni le lacerazioni nel miopartito fossero state in funzione di un interesse e di un’aspettativapersonale?”Non me lo sarei mai potuto permettere né me lo sarei maisentito nelle corde più care del mio intendere la politica.Problema chiuso. Ma non si fidavano della soluzione chesarebbe maturata. Non catalizzava una particolare stima.Ma il punto dissi è che quasi convengo con certe vostreconsiderazioni, ma adesso c’è un progetto politico che vale lapena portare a compimento. Il resto lo vediamo strada facendoe per quanto ci riguarda vi do le garanzie di parte mia a questoriguardo.Nel merito della scelta pur volendo sperare bene anche le loroperplessità ci stavano tutte e nel prosieguo trovarono molteconferme. Né potei non parteciparle anch’io insieme a loro.Ma su quello ci stringemmo la mano e il resto andò avanti.Sarà non solo per la conoscenza di Giorgio Ceredi che tantobasterebbe a ricordarne la personalità, ma l’intreccio di unafase, di una esperienza importante che più, più da vicino emeglio, me ne ha fatto conoscere statura e carattereche lo ricordo con affettuosa commozione e come il pezzonon trascurabile della memoria della vicenda storica, culturalee politica della nostra città.

Giorgio Ceredi, una memoria storicadi Denis Ugolini

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L’Europa sarà il tema sul qua-le si deciderà parte signi-ficativa del nostro futuronazionale, come anche dellanostra realtà politica. Sonoconvinto che l’Italia potràessere governata, come lo èstata in passato, da forzepolitiche diverse, ma rima-nendo fermi tre paletti: l’e-conomia di mercato, lo svi-luppo dell’integrazione eu-

ropea e la solidarietà atlantica.Se uno solo di questi paletti verrà messo in dubbio nessunosarà in grado di assicurare al Paese un futuro degno,lasciandolo riprecipitare in un passato che dovrebbeatterrire.Vedo bene che l’europeismo arranca ed è in fase calante.Credo, però, che questo dipenda (fra gli altri) da duefattori: 1. la viltà delle classi dirigenti (non solo quellapolitica), che pretendono di mascherare da vincoli europeiquelli che sono evidenti vincoli di bilancio e diragionevolezza; 2. la deprecabile confusione dellamemoria, lasciando intendere che ci sia un “prima”dell’Unione europea, laddove, invece, c’è solo un primadella globalizzazione.Quest’ultima è un nostro successo, il frutto del crollodell’impero sovietico.Chi rimpiange le sicurezze (si fa per dire) di ieri o nonha coscienza o non ha conoscenza dei milioni di fratellieuropei che hanno vissuto nella miseria e nella dittatura,come non ha cognizione del fatto che la globalizzazioneha enormemente diminuito i morti di fame nel mondo.E’ una storia di successo, che da noi viene vissuta comeuna specie di iattura, sol perché i ricchi sono chiamati adadeguarsi a un mondo cambiato.Noi europei siamo il 7% della popolazione globale,produciamo il 25% della ricchezza globale e consumiamoil 50% della spesa sociale mondiale.Siamo l’epicentro della ricchezza e della libertà, mapremiamo elettoralmente chi ci descrive come miserabiliche s’apprestano a essere dominati.

Spero che, un giorno, la storia rida di tali sentimenti.Soprattutto spero che mai li si debba prendere sul serio,perché la tragedia diventerebbe reale.Due punti, per capirci.L’euro non nacque il giorno in cui cominciò a circolarela moneta unica, ma assai prima.L’euro è figlio del serpente monetario, poi Sistemamonetario europeo.Un processo lungo, influenzato, certo, ma non frutto diuna singola personalità, quale che essa sia.Rischiammo di restare fuori non quando si coniò l’euro,ma assai prima, quando si trattava di aderire allo Sme.In quell’occasione il ruolo decisivo lo ebbe Ugo La Malfa,che preso atto dell’opposizione comunista, argomentatada Giorgio Napolitano, assicurò che il governo sarebbecaduto ove non avessimo dato l’assenso.Entrammo e a fare cadere il governo furono i comunisti.Storia lunga, come si vede.In quanto all’Europa, la memoria s’è corrotta assai, sesolo si pensa che l’esserci “entrati” sia una scelta fattada uno, o pochi, e in un momento.La realtà è che contro l’integrazione europea si battevanosolo due forze: i neofascisti, ancorati a un nazionalismoche aveva già infettato la storia precedente, e i comunisti,adepti di un internazionalismo che aveva nell’UnioneSovietica lo Stato guida. Il resto era europeista e, più omeno entusiasticamente, atlantista.Né poteva essere diversamente, se solo si prova a ricordarein quale contesto internazionale vivevano quei sentimenti.Solo l’Italia di oggi, presa nella frenesia di una faziositàsenza idee, tesa a leggere sé stessa non come figlia diuna storia, ma come oggetto di manovre e prepotenze,s’arrischia ad una rappresentazione fumettistica chesarebbe ridicola, se non avesse tratti di follia.Per questo ho provato a raccontare e ragionare, scrivendoun libro che uscirà alla fine dell’anno (Viva l’EuropaViva).Questo è il fronte sul quale si misurerà non solo la forzadi famiglie politiche che ebbero un peso decisivo, comequella repubblicana, ma anche la capacità culturale diun’Italia che non si sia rassegnata ad accartocciarsi su séstessa.

Viva l'Europa Vivadi Davide Giacalone

Bimestrale - Direttore: Denis Ugolini - Direttore Responsabile: Davide GiacaloneRedazione: Emanuela Venturi, Piero Pasini, Franco Pedrelli, Giampiero Teodorani, Natali Randolfo, Maurizio Ravegnani

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