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Bollettino Diocesano Ufficiale per gli Atti del Vescovo e della Curia di Reggio Emilia - Guastalla PRIMO SEMESTRE 2013 DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE CURIA VESCOVILE Reggio Emilia

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Bollettino DiocesanoUfficiale per gli Atti del Vescovo

e della Curia di Reggio Emilia - Guastalla

PRIMO SEMESTRE 2013

DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE CURIA VESCOVILEReggio Emilia

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BOLLETTINO DIOCESANO

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SOMMARIO

L’INSEGNAMENTO DEL VESCOVO

OMELIE

Omelia per la solennità della Madre di Dio (Giornata Mondiale della Pace)Cattedrale di Reggio Emilia, 1 Gennaio 2013 ................................................... pag 7

Atto di affidamento alla B.V. Maria del 2013Reggio Emilia, piazza Duomo - 1 Gennaio 2013............................................... “ 9

Omelia per la solennità dell’EpifaniaCattedrale di Reggio Emilia, 1 Gennaio 2013 ................................................... “ 10

Omelia per la Santa Messa nel XXIII anniversario della morte di mons. Pietro MarginiS. Ilario d’Enza, 8 Gennaio 2013 ....................................................................... “ 12

Omelia per l’Ordinazione di 14 diaconi permanenti nella Solennità del Battesimo del SignoreCattedrale di Reggio Emilia, 13 gennaio 2013 .................................................. “ 17

Omelia per la Veglia ecumenica diocesanaCripta della Cattedrale di Reggio Emilia, 27 gennaio 2013 ............................... “ 19

Omelia per la Festa della Presentazione del Signore Giornata della vita ConsacrataCattedrale di Reggio Emilia, 2 Febbraio 2013 ................................................... “ 21

Omelia per la festa del Beato Andrea Carlo Ferrari Ingresso ufficiale a GuastallaTensostruttura di Guastalla, 3 Febbraio 2013.................................................... “ 25Omelia per la santa Messa nel VII centenario della presenza dei Servi di Maria a Reggio EmiliaReggio Emilia, Santuario della Ghiara 10 Febbraio 2013 ................................. “ 28

Omelia per la santa Messa in suffragio di don Giuseppe Dossetti V domenica del tempo ordinarioCattedrale di Reggio Emilia, 10 Febbraio 2013 ................................................. “ 30

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ANNO 2013 - PrImO SEmESTrE

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Omelia nella festa della B. V. di LourdesReggio Emilia –Parrocchia di S. Agostino, 11 Febbraio 2013 ........................... pag. 32

Omelia nella santa Messa del mercoledì delle CeneriCattedrale di Reggio Emilia, 13 Febbraio 2013 ................................................. “ 33

Omelia nella santa Messa di suffragio per mons. Luigi GiussaniReggio Emilia – Basilica di san Prospero, 22 Febbraio 2013............................ “ 36

Omelia nella IV domenica di Quaresima (benedizione della nuova chiesa di Baragalla)Baragalla, Parrocchia del Sacro Cuore, 10 marzo 2013 ................................... “ 38

Trascrizione dell’omelia per la Domenica delle PalmeCattedrale di Reggio Emilia, 24 marzo 2013 ..................................................... “ 41

Omelia per la Messa CrismaleCattedrale di Reggio Emilia, 28 marzo 2013 ..................................................... “ 43

Omelia per la santa Messa in coena DominiCattedrale di Reggio Emilia, 28 marzo 2013 ..................................................... “ 47Omelia nell’Azione liturgica in passione DominiReggio Emilia – Basilica di san Prospero, 29 marzo 2013 ................................ “ 49

Omelia nella solenne Veglia PasqualeCattedrale di Reggio Emilia, 30 marzo 2013 ..................................................... “ 51

Omelia nel giorno di PasquaTensostruttura di Guastalla, 31 marzo 2013 ................................................ “ 53

Omelia nella santa Messa di Pasqua per le ragazze sulla stradaPieve, 12 aprile 2013 ................................................................................... “ 55

Trascrizione dell’omelia nella santa Messa a Fontanaluccia in occasione della visita ai luoghi di don Mario PrandiFontanaluccia, 20 aprile 2013 ..................................................................... “ 56Omelia nella IV domenica di Pasqua in occasione delle ordinazioni diaconali di Giacomo Menozzi e Gionatan GiordaniCattedrale di Reggio Emilia, 21 aprile 2013 ................................................ “ 59

Omelia nella Solennità della B. V. Maria della Ghiara nell’anniversario del primo miracoloBasilica della Ghiara, 29 aprile 2013 ........................................................... “ 61

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BOLLETTINO DIOCESANO

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Omelia nella Solennità dell’Ascensione del Signore Festa diocesana dell’ammalato – Unzione degli infermiNovellara, 12 maggio 2013.......................................................................... pag. 63

Omelia nella solennità dell’Ascensione del Signore Inaugurazione del nuovo centro di comunitàReggiolo, 12 maggio 2013........................................................................... “ 65

Omelia nella santa Messa della vigilia di Pentecoste Ordinazione presbiterale di don Andrea CristalliCattedrale di Reggio Emilia, 18 maggio 2013 ............................................. “ 67

Omelia nella solennità di Pentecoste con conferimento del sacramento della Confermazione a 41 ragazzi della Parrocchia di santo Stefano e dell’Unità past. Cattedrale-san Prospero-santa TeresaCattedrale di Reggio Emilia, 19 maggio 2013 ............................................. “ 69

Omelia per la solennità della SS. Trinità nella Santa Messa di ringraziamento per il riconoscimento del martirio del Servo di Dio Rolando Rivi da parte del PapaSan Valentino, 25 maggio 2013 ................................................................... “ 71

Omelia per la solennità della SS. Trinità Messa di suffragio per Enzo PiccinniniReggio Emilia, Basilica della Ghiara, 26 maggio 2013 ................................ “ 74

Omelia per la solennità del Corpus Domini e ricordo personale di Giovanni Paolo II (al termine della celebrazione)Cattedrale di Reggio Emilia, 30 maggio 2013 ............................................. “ 76

INTERVISTE - LEZIONI - COMUNICATI .............................. 81

Incontro con i giornalisti della città e della provincia nella festa di san Francesco di SalesReggio Emilia – Seminario diocesano, 26 Gennaio 2013 ................................. “ 83

Messaggio alla Diocesi in occasione dell’annuncio delle dimissioni di Benedetto XVIReggio Emilia, 11 Febbraio 2013 ...................................................................... “ 87

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ANNO 2013 - PrImO SEmESTrE

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La famiglia: problematiche pastorali e canonistiche. Prolusione per l’apertura dell’anno giudiziario 2013 del Tribunale Ecclesiastico Regionale EmilianoModena, 6 Marzo 2013...................................................................................... “ 88

Alle radici del rinnovamento. Una lettura del Concilio Vaticano II. Intervista a cura di Edoardo TincaniCorreggio, chiesa di san Pietro, 7 marzo 2013 ................................................. “ 98

Intervista sul pontificato di Benedetto XVI per il settimanale diocesano La libertà a cura di Edoardo Tincani Marzo 2013 ..................................................................................................... “ 109

Amen.Messaggio alla Diocesi in occasione dell’elezione di Papa FrancescoReggio Emilia, 13 marzo 2013 .......................................................................... “ 113

Parole pronunciate all’inizio della Messa di ringraziamento per l’elezione di Papa FrancescoCattedrale di Reggio Emilia, 14 marzo 2013 ..................................................... “ 114

Comunicato stampa sull’istituzione comunale dei registri civili per le coppie di fattoReggio Emilia, 20 marzo 2013 .......................................................................... “ 115

Messaggio pasquale per La Libertà26 marzo 2013................................................................................................... “

Comunicato stampa per il riconoscimento del martirio di Rolando RiviReggio Emila, 28 marzo 2013 ........................................................................... “ 116

Lettera alla Diocesi su Rolando RiviReggio Emilia, 14 aprile 2013...................................................................... “ 117

Saluto al Convegno organizzato dall’Azione Cattolica Diocesana sul tema: Per una nuova generazione di cattolici impegnati in politica: da dove partire?Università di Reggio Emilia, 7 maggio 2013 ................................................ “ 120

Saluto al Convegno organizzato dalla Provincia di Reggio Emilia sul Servo di Dio don Pino Puglisi: Chiesa e Mafia. Una coabitazione troppo pacifica?Reggio Emilia, Aula Manodori, 17 maggio 2013.......................................... “ 123

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BOLLETTINO DIOCESANO

6

ATTI DELLA CURIASacre Ordinazioni e Ministeri............................................................................. pag. 127

Nomine del Vescovo .......................................................................................... “ 129

Diario del Vescovo ............................................................................................. “ 133

Necrologi ..................................................................................................... “ 141

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L’INSEGNAMENTO DEL VESCOVO (*)

(*) Selezione dai testi pronunciati o scritti dal Vescovo

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ANNO 2013 - PrImO SEmESTrE

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OMELIE

Omelia per la solennità della Madre di Dio (Giornata Mondiale della Pace)Cattedrale di Reggio Emilia, 1 Gennaio 2013

Cari fratelli e sorelle, beati gli operatori di pace (Mt 5,9). Questo è il tema, anzi l’annuncio che il Papa Benedetto XVI propone a tutta la Chiesa, a tutto il mondo in questo primo giorno dell’anno (cfr. Benedetto XVI, Messaggio per la XLVI Giornata mondiale della pace). Dal lontano 1968, il primo giorno dell’anno è stato dichiarato dal papa Paolo VI Giorna-ta mondiale della pace. Anche se sono evidenti i risvolti sociali e politici di tale festa, essa è propriamente una festa cristiana. Nasce dal cuore stesso dell’annuncio di Nata-le: pace in terra a tutti gli uomini che sono aperti all’amore di Dio (cfr. Lc 2,14). Il dono della pace, della comunione fra gli uomini, è il dono conclusivo del cristianesimo. Dio, infatti, ha mandato suo Figlio per radunare tutti gli uomini e fare di loro un solo popolo, anzi una cosa sola (cfr. Gv 17,21). Le beatitudini, poi, che inaugurano ed esprimono in sintesi la vita pubblica di Gesù, contengono parole certamente dette da lui, che descrivono la sua stessa vita e la vita che egli ha portato a tutti gli uomini. Egli è stato il più grande pacificatore, opera-tore di pace, colui che ha fatto la pace realizzando dei tanti popoli uno solo, abbattendo i muri di divisione (cfr. Ef 2,14). Pace tra gli uomini realizzata attraverso la pace con Dio, nella sua croce e nella sua resurrezione. In questo modo egli raccoglieva «l’innata vocazione dell’umanità alla pace» (Benedetto XVI, Ivi, 1), ad una vita umana piena, felice, realizzata.

La pace è dunque un dono di Dio da chiedere insistentemente, aprendosi alla sua opera che realizza la comunione attraverso i percorsi della conoscenza, dell’ac-coglienza, del perdono, della scoperta dell’altro. Per questo la pace è anche opera dell’uomo che si apre a quella del Padre che è nei cieli. La nostra fratellanza umana è troppo fragile se non nasce dal riconoscimento dell’essere tutti figli di Dio. Se viene meno il Padre, è immensamente più difficile riconoscersi come fratelli. Se invece il nostro cuore si apre al «colloquio costante con Dio … l’uomo può vincere quel germe di oscuramento e di negazione della pace che è il peccato in tutte le sue forme: egoi-smo e violenza, avidità e volontà di potenza e di dominio, intolleranza, odio e strutture ingiuste» (Benedetto XVI, Ivi, 3). È ciò che ho voluto esprimere nel mio motto episcopale con l’espressione sin-tetica del profeta Isaia: opus iustitiae pax (Is 32,17). La pace, cioè la comunione, nasce dall’entrare in un rapporto vero con Dio che apre ad un rapporto nuovo con gli altri e con il mondo. Noi, popolo cristiano, abbiamo dunque un compito fondamentale come

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creatori di pace: siamo chiamati a vivere in noi stessi l’inizio di quella trasformazione del mondo che la carità portata da Cristo opera nella storia dell’uomo, pur in mezzo a tutti i nostri peccati e le nostre debolezze, e a testimoniarla agli uomini che la vita ci fa incontrare.

Cristo ha portato un’esperienza profonda della pace. In ragione di essa ogni piccolo frammento di bene nascosto nel cuore di ogni uomo è accolto e valorizzato. Nello stesso tempo l’ideale proposto è alto, intero e non nasconde nessuna verità. Non vuole indicare una strada soltanto per i cristiani, ma per tutti gli uomini. Quando la Chiesa esalta il rispetto per la vita umana, a cominciare dal suo concepimento e sino alla sua fine naturale, non intende fare un discorso di parte, sottolineare valori o battaglie a lei cari. All’opposto: intende indicare che non vi può essere difesa della pace se non vi è difesa dei più deboli. L’uccisione del più debole comporta, come in un’esplosione atomica, danni nella vita dell’umanità che rendono più difficili il perdono, la pace e perciò la lotta alla povertà e all’ingiustizia.

In questo giorno di inizio d’anno desidero augurare a tutti gli uomini e le donne che vivono nel territorio della nostra Diocesi di poter esprimere attraverso il lavoro i doni della propria personalità. Il lavoro è un dono di Dio che ci rende partecipi dell’o-pera del Creatore e anche di quella del Salvatore, quando la nostra fatica è offerta e vissuta in unione alla passione e resurrezione di Cristo. Molti non hanno lavoro o l’hanno perduto. Non possiamo attribuire tutto ciò al caso o ad una anonima volontà cattiva. Certamente la globalizzazione dei mercati costringe a ripensare tante forme di impresa. Tutto è possibile, però, attraverso sinergie, collaborazioni, nuove forme di rapporti là dove l’economia è al servizio del lavoro e non dell’arricchimento, della ricer-ca esasperata del profitto che si rivela poi spesso illusorio e caduco. Un’economia che cerca la crescita dei profitti sganciata da ogni rapporto con la reale crescita del lavoro e della vita, produce infine frutti malati. Anche qui si vede come l’allontanamento della vita da Dio, dall’amore per i fratelli, l’avvitamento su se stessi e sul proprio successo produce frutti di morte.

È con grande speranza perciò che viviamo quest’apertura del nuovo anno. Consapevoli di tutte le ragioni di incertezza e di difficoltà, sappiamo che il lungo lavoro di rigenerazione dell’uomo, di educazione di nuove generazioni, produce frutti estre-mamente positivi nei tempi brevi o lunghi della storia. È questa la speranza che anima il vostro vescovo e, sono certo, i cuori di tutti voi. Con il mio augurio per il nuovo anno che nasce. Amen.

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Atto di affidamento alla B.V. Maria del 2013Reggio Emilia, piazza Duomo – 1 Gennaio 2013

A te, Maria, Madre del Signore, Madre della nostra città, delle nostre valli e colline, dei nostri borghi e delle nostre pianure, a te ci rivolgiamo, all’inizio di questo nuovo anno, con animo colmo di fiducia. Tu sei la sintesi della creazione. In te vedo riflesso quanto di bello e di grande vi è nella natura della nostra terra e nella cultura nata dall’uomo.

A te si volge il nostro desiderio. Come ha cantato il sommo poeta, esso ha le ali, è pieno di speranza, speranza di essere ascoltato da te. Desideriamo non essere soli, desideriamo che la nostra vita abbia un senso, un peso: apri, perciò, il nostro cuore e la nostra mente alla dolce certezza dell’esisten-za di Dio, Provvidente e Padre. Non è, questo, un autoconvincimento, ma la conclusio-ne cui ci porta la stessa ragione, a partire dalle vicende della nostra esistenza.

Aiutaci ad accogliere e ad amare le persone della nostra famiglia, i nostri amici, coloro che lavorano e studiano con noi, coloro con cui condividiamo la vita o semplice-mente incontriamo per pochi istanti. Aiutaci ad amare coloro che sentiamo lontani, perfino i nostri nemici.

Tu, che sei sole splendente di carità, meridiana face – come ci ha ricordato Dante – aiutaci a fare della nostra città, delle nostre città e paesi dei luoghi in cui sia bello vivere, illuminati dalla luce della speranza e dell’accoglienza.

Aiuta, Madre, coloro che non hanno lavoro, coloro che l’hanno perduto. Aiuta le famiglie in difficoltà, le famiglie divise. Aiuta le imprese. Aiuta, attraverso la solidarie-tà, un impiego del capitale per il bene comune.

Aiuta i malati, coloro che soffrono, coloro che non hanno speranza, perché ritrovino il valore delle loro sofferenze e fatiche, il conforto negli amici e nella croce e resurrezione del Signore.

Aiuta tutti noi, tuoi figli e figlie, a non dimenticare mai, durante questo anno che oggi inizia, la tua materna protezione e a rivolgerci a te con filiale fiducia.

Amen.

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Omelia per la solennità dell’EpifaniaCattedrale di Reggio Emilia, 6 gennaio 2013

Cari fratelli e sorelle, con la festa di oggi entriamo in una visione più completa e più profonda del Natale. Alle origini del cristianesimo, infatti, la festa dell’Epifania era considerata la più importante, prima ancora della festa del 25 dicembre. Raccoglieva in sé tutti i misteri che poi sarebbero stati dispiegati in due solennità. La parola che dunque oggi vuole dirci la Chiesa non è una parola diversa da quella del Natale, ma è la manifestazione più chiara, davanti agli occhi di tutto il mondo, di quell’avvenimento. Epifania, infatti, vuol dire manifestazione. La luce che all’inizio è brillata nel campo dei pastori e che poi ha illuminato la capanna di Betlemme, ora diventa una luce che brilla per illuminare tutto il mondo. Se noi entriamo nella pagine del profeta Isaia troviamo più volte affermato in modo affascinante questa verità: la luce della salvezza portata dall’Incarnazione non riguarda soltanto alcune – poche – persone, quelle che avrebbero incontrato Gesù durante la sua vita e avrebbero creduto in lui, neppure soltanto il popolo d’Israele, ma tutti gli uomini del mondo. Scrive il profeta Isaia: Il popolo dei gentili che sedeva nelle tenebre vide una grande luce e su quanti abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse (Is 9,1). Popoli che non ti conoscono ti invocheranno e popoli che ti ignorano accorre-ranno a te (Is 55,5). «Entri dunque nella famiglia dei patriarchi la grande massa delle genti – scrive san Leone Magno – tutti i popoli rappresentati dai tre magi adorino il creatore dell’universo e Dio sia conosciuto non nella Giudea soltanto, ma in tutta la terra» (San Leone Ma-gno, III discorso per l’Epifania). Gesù è come un centro luminoso. Centro luminoso è il popolo di coloro che credono a lui. Vorrei che tutti noi oggi sentissimo la gioia e la responsabilità della fede. Ci è stato fatto conoscere il segreto nascosto nei secoli. Ciò che tutti gli uomini hanno desiderato conoscere e non hanno potuto o saputo vedere. Il dono della fede che ci è stato fatto chiede di essere trasmesso. Il cristiano è per natura un missionario della fede. Ma, allo stesso tempo, può esserlo soltanto nella misura in cui prende coscienza e assapora la grande grazia che gli è stata fatta. L’Apocalisse, alla fine della Scrittura, vede Gerusalemme come città abitata interamente da Dio. Le tenebre che la circondano restano fuori. L’autore biblico scrive: Non ha bisogno di luce né di sole né di luna perché la sua lucerna è l’Agnello (cfr. Ap 21,23). E così, la Gerusalemme abitata dall’Agnello, proprio come la Chiesa abitata dal suo Signore, diventa una fonte di verità che attrae i re e i popoli. Anche da lontano, dalle regioni più sperdute. Come scrive il Papa nel suo ultimo libro, i magi che oggi la liturgia ci fa contemplare «rappresentano l’incamminarsi dell’umanità verso Cri-sto, inaugurano una processione che percorre l’intera storia … Rappresentano l’attesa interiore dello spirito umano, il movimento delle religioni e della ragione umana incon-

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tro a Cristo» (Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Lev, Città del Vaticano 2012, 113). Il Concilio ha parlato della Chiesa come segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano (cfr. Lumen gentium, 1). Ha parlato del fatto che Dio non vuole sal-vare gli uomini individualmente, ma riunirli in un solo popolo formato da tutti i popoli del mondo. Dio vuole che tutti siano salvi (cfr. 1Tm 2,4) e nello stesso tempo realizza questo suo invito attraverso la creazione di un popolo, un’«entità etnica sui generis» – come ebbe a definirla Paolo VI (cfr. Paolo VI, Udienza generale, 23 luglio 1975) – che parla tutte le lingue della terra. Nella nostra Cattedrale oggi questa realtà è visibile. Voi venite da molti Paesi, parlate lingue differenti, siete attraversati da diverse culture e concezioni della vita. Eppure siete qui uniti in un’unica fede. Ma soprattutto partecipate di un’unica speranza, quella che viene a tutti noi dalla passione, morte e resurrezione di Cristo, simbolicamente raffigurate nell’oro, incenso e mirra portati dai magi. Nel nostro essere qua assieme, nel nostro pregare assieme, nel nostro accoglierci reci-procamente, nel perdono che diamo al fratello, nel ricevere soprattutto lo stesso corpo e sangue di Cristo, siamo resi partecipi di un solo corpo, diventiamo una sola cosa. In questa piccola assemblea, infinitesimale rispetto alle grandi dimensioni del mondo, si realizza ciò che il mondo va cercando e non trova: l’unità, la pace, l’accoglienza reci-proca. La Chiesa, pur fatta di peccatori, non per forza propria, ma perché abitata dal suo Signore, è fonte di speranza per tutti gli uomini. Non è vero che il mondo corre verso la distruzione. Non è vero che è abitato soltanto dal male. Non è vero che la nostra vita non ha senso, è guidata dal caso. All’interno della storia del mondo corre la storia di Dio che converte i cuori, aggrega il suo popolo come realtà visibile e storicamente presente ed incisiva nella città degli uomini. Quanto è importante per noi riprendere coscienza viva ed efficace di tale unità del popolo di Dio radunato nella sua Chiesa che è il corpo di Cristo! Quanto è impor-tante non solo per noi, ma per tutti gli uomini della terra! Essi cercano questa unità, perlopiù senza sapere dove trovarla. Anche noi possiamo avere ricevuto questo dono senza saperlo, senza averne coscienza. Riprendere consapevolezza della nostra ap-partenenza ecclesiale e del dono che ciò è per tutto l’universo è il grande compito che ci attende in questo Anno della Fede e per tutti i giorni della nostra vita futura. Amen.

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Omelia per la Santa Messa nel XXIII anniversario della morte di mons. Pietro Margini

S. Ilario d’Enza, 8 Gennaio 2013

Cari fratelli e sorelle,

sono da poco entrato nella nostra Diocesi. Vi devo confessare che mi sento circondato, quasi assediato, da una storia ecclesiale passata e recente altamente si-gnificativa, ricca di testimonianze di laboriosità, di fede, di santità. È proprio questo che dà coraggio alle mie giornate, al mio lavoro, al mio essere tra voi. Sono qui, nella Chiesa di Reggio Emilia come portato da un fiume formato da tante comunità, parrocchiali e carismatiche (ma non sono carismatiche anche le au-tentiche comunità parrocchiali?), a loro volta create e sostenute da grandi personalità cristiane: preti, laici, famiglie, uomini e donne dedicati a Dio nelle più diverse forme di vita consacrata. So in generale dell’esistenza di queste figure, ma non le conosco ancora da vicino, come vorrei. Essi sono vivi, tra noi, o defunti, ma anch’essi vivi attraverso l’ere-dità dei loro scritti, delle loro opere, dei sentieri che hanno scavato nei cuori di mille e mille uomini e donne.Questa sera siamo qui radunati proprio per pregare per uno di questi testimoni della fede, un grande educatore e generatore del popolo cristiano, mons. Pietro Margini, fondatore del movimento Familiaris Consortio. Quando don Luca Ferrari (che saluto con affetto, assieme al presidente dell’As-sociazione, Marco Reggiani) mi ha scritto per invitarmi a presiedere questa celebrazio-ne, mi sono subito detto: strana sorte quella di un vescovo chiamato, in un modo o in un altro, a parlare di chi non ha conosciuto! e chiamato a parlarne autorevolmente! Poi mi sono detto: non posso mancare. Sarà don Pietro stesso a suggerirmi le parole da dire, attraverso le letture che farò in questi giorni che mi dividono dalla celebrazione. Quando sua mamma portava ancora in grembo il futuro don Pietro, l’ha offerto alla Madonna. In questa offerta è nata la sua vocazione. Ogni uomo è chiamato da Dio a occupare un posto particolare nella sua casa. Questo è ciò che noi chiamia-mo vocazione. Prendere coscienza che la vita è vocazione è la cosa più grande che possa accadere ad un uomo, ad una donna. Tale scoperta libera la nostra esistenza dall’impressione di casualità, sotto cui talvolta può soggiacere e ci inserisce in un dono di grazia che realizza la nostra libertà. Tutte le vocazioni sono essenziali alla Chiesa, tutte sono l’espressione dell’unica fondamentale vocazione battesimale.

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Un posto particolare occupa la vocazione sacerdotale. Senza sacerdozio mini-steriale non c’è Chiesa perché non ci sarebbero sacramenti. In particolare manchereb-bero i sacramenti fondamentali della penitenza e dell’eucarestia. Nessuna vocazione, per quanto nobile, può sostituire la vocazione sacerdotale. Chiedo solennemente du-rante questa celebrazione che don Pietro interceda presso Dio per ottenere alla nostra diocesi tante vocazioni sacerdotali, all’interno e al di fuori del suo movimento. Chiedo alle famiglie di non ostacolare le vocazioni sacerdotali che si manife-stano ai loro figli. Come ho detto recentemente ai seminaristi della nostra diocesi, la vita del sacerdote, pur in mezzo a mille prove e difficoltà, è una vita affascinante, pie-namente umana, soprattutto laddove è sostenuta dalla preghiera, dai sacramenti, dal silenzio, dall’amicizia. Don Pietro Margini è stato innanzitutto un grande sacerdote. Guardando a lui vediamo la bellezza della vita sacerdotale, di colui che si dedica senza paura e sa donarsi interamente all’evangelizzazione della fede, all’educazione delle persone, alla loro crescita davanti a Dio e davanti agli uomini. Don Pietro lo ha fatto attraverso la celebrazione della liturgia: «centro unifican-te di tutta l’attività parrocchiale, la liturgia manifesta in modo speciale il nostro essere Chiesa», scriveva nel 1972. «La Chiesa si incarna nella liturgia», predicava nel 1977. Lo ha fatto attraverso un’opera educativa instancabile rivolta ai suoi giovani, che se-guiva uno per uno attraverso la direzione spirituale e, a piccoli gruppi, attraverso gli esercizi, le vacanze, la creazione delle scuole. «La Chiesa ha un titolo tutto speciale ad educare: essa ha il compito di annunziare a tutti gli uomini la via di Cristo, aiutandoli con sollecitudine incessante a raggiungere la pienezza di questa vita», sintetizza nel 1982.

Per don Pietro la vocazione sacerdotale non era fine a se stessa. Il sacerdozio ordi-nato nella Chiesa si giustifica soltanto e si comprende in rapporto alla creazione del popolo di Dio. La nostra vita di sacerdoti è relativa a Cristo e alla gente. Penso che il cuore dell’opera di don Pietro sia stata la creazione di piccole comuni-tà, prima di fidanzati e poi di sposi, che, anche attraverso la direzione spirituale di coppia, assumevano la forma di un’intensa amicizia che trovava nell’esperienza del Corpo Mistico il suo alimento continuo. «L’ecclesialità – è stato scritto (cfr. L. Grygiel, Amor tuus, amor fortis, Domine. Ritratto di don Pietro Margini, Cantagalli, Siena 2010, 64) – costituisce il tratto fondamentale delle comunità di famiglia». Queste comunità, che hanno assunto ciascuna un proprio nome specifico tratto dalla storia della Nuova Alleanza (Annunciazione, Natività, Pentecoste…), sono per don Pietro come un nuo-vo ordine religioso. «La salvezza dei nostri tempi deve venire dalle famiglie» (1967). L’ideale benedettino dell’ora et labora, di una piccola comunità che unisce la preghiera

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alla vita comune, al lavoro quotidiano nell’inesauribile fantasia dello Spirito, ha dato luogo a una nuova forma di vita. Don Pietro sentiva queste comunità come il centro di un grande movimento. Esse saranno riconosciute ad experimentum il 29 giugno 2006 dal mio venerato pre-decessore come Associazione privata di fedeli. Queste comunità nello spirito di don Pietro non devono vivere come gruppi a se stanti, isolati dalla vita dell’intera comunità parrocchiale, ma aprirsi al servizio di tutta la parrocchia. Allo stesso modo i sacerdoti che nascono dal carisma di don Mar-gini – ugualmente riconosciuti dalla Chiesa diocesana, sempre ad experimentum, nel 2008 – devono certamente parlare col loro accento alle parrocchie loro affidate. Nello stesso tempo, proprio perché il carisma di don Margini è un carisma ecclesiale, devo-no accogliere tutti coloro che partecipano della vita parrocchiale con altra sensibilità ed aiutarli nella loro crescita verso la pienezza. Il vescovo, che vi incontra oggi per la prima volta, ringrazia Dio del dono che ha fatto alla nostra Chiesa attraverso la persona di don Margini. Lo ringrazia anche a nome di tutte le persone che lui ha portato a maturità nel loro cammino verso Cristo. Lo ringrazia per le scuole che ha creato, da quella materna all’elementare, alla media, alla superiore. Lo ringrazia per la sua missione. Egli aveva scritto: «le convinzioni si devono trasformare in missione». Un numero enorme di giovani, di famiglie, attendono senza saperlo di conoscere Cristo. Aiutate la missione del vescovo. Venite incontro alla sete di Cristo che è la vostra stessa sete. Sete di vita, sete di comunione, sete di amicizia, sete di un’esistenza realizzata nell’obbedienza a Dio e nella carità. Mi auguro che la nostra conoscenza reciproca possa presto crescere e cresce-re anche la nostra comunione.

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Omelia per l’Ordinazione di 14 diaconi permanenti nella Solennità del Battesimo del Signore

Cattedrale di Reggio Emilia, 13 gennaio 2013

Cari fratelli e figli che verrete ordinati diaconi,cari parenti e amici dei nostri ordinandi,per la prima volta nella mia vita la Chiesa mi chiede di trasmettere il sacramento

dell’ordine ad alcuni battezzati. E in particolare di trasmettere il primo grado del sa-cramento, che è il diaconato. Sono lieto di questa opportunità e partecipo della vostra gioia e della vostra donazione a Cristo e alla Chiesa. Le vostre vite sono in modo par-ticolare legate alla mia, come alla primizia di un dono. Di voi custodirò un particolare ricordo nella mia preghiera e vi invito a fare altrettanto per la mia persona. Prego in questa liturgia perché, nel tempo che vi concederà di vivere, il Signore vi permetta di entrare sempre più profondamente nel ministero che vi affida. Se il sacer-dozio è un’assimilazione a Cristo in quanto capo del suo popolo (per questo la Chiesa sostiene che il sacerdote agisce in persona Christi capitis, come mezzo privilegiato e attraverso cui arriva a tutto il popolo la grazia di Cristo), il diacono partecipa alla persona di Gesù che ha detto di se stesso di essere servo. Dice infatti Gesù: Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mt 10,45). E mandando nel mondo i suoi discepoli ad annunciare il Vangelo dice: Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo (Mt 20,26); e nei discorsi dell’ultima cena, che ci ha trasmesso san Giovanni, aggiunge: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi (Gv 15,15). Con queste parole Gesù lega il servizio a una particolare intimità con lui. Il Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica, che lo riprende, par-lano dei diaconi come di persone a cui sono imposte le mani non per il sacerdozio, ma per il ministero. Essi, sostenuti dalla grazia sacramentale servono il popolo di Dio in comunione con il vescovo e il suo presbiterio nel ministero della liturgia, della predica-zione e della carità (cfr. LG 29). Per l’ordinazione diaconale è previsto che soltanto il vescovo imponga le mani. Questo significa che il diacono è legato in modo speciale al vescovo nei compiti della sua diaconia (CCC 1569). Sant’Ignazio di Antiochia scrive (cfr. Lettera ai Tralliani 2.3) che i diaconi traggono il loro nome dal fatto che essi servono ai misteri di Cristo e della Chiesa. Proprio per questo devono custodire il proprio cuore puro da ogni vizio per piacere a Dio e per poter provvedere agli uomini in ogni opera buona.Se vogliamo dunque comprendere qualcosa di ciò che sta per accadere nelle vostre esistenze dobbiamo guardare a Cristo, alla sua vita, ai misteri della sua esistenza che illuminano e originano nello stesso tempo anche la nostra. Non possiamo comprende-re nulla di noi stessi se non guardiamo Cristo. Soltanto nella luce del Figlio di Dio fatto uomo prende luce la realtà dell’uomo (cfr. GS 22). Per questa ragione durante l’anno

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della fede intendo spiegare al nostro popolo i misteri della vita di Cristo facendomi eco, il meno debole e povera possibile, di ciò che la Chiesa compie ogni anno attraverso la ripresentazione della vita di Gesù durante l’anno liturgico. Non è fuori luogo a questo punto rivolgerci alla festa di oggi che conclude il periodo del Natale e ci aiuta ad illuminare ciò che state per vivere quest’oggi, carissimi candidati al diaconato permanente. La festa di oggi è il «natale nella manifestazione» (S. Massimo di Torino, disc. 100 sull’Epifania). Abbiamo qui una prima traccia per comprendere la vita del cristiano e in particolare del diacono. Egli è colui che vive con Cristo, il suo Si-gnore, per manifestarne la presenza vivendo in mezzo agli uomini. Voi operate questa manifestazione attraverso la proclamazione della Parola di Dio, attraverso le opere di carità, attraverso il servizio liturgico all’altare e la testimonianza in famiglia e nel lavoro. In questo modo partecipate a quell’immensa e potente azione di Cristo che riconduce a sé tutto il mondo. Continua san Massimo: «Cristo non volle essere battezzato per essere santificato dalle acque [egli non ne aveva nessuna necessità, al contrario di noi che siamo peccatori], ma per santificarle lui stesso». «Cristo apparve al mondo e, mettendo ordine nel mondo in disordine, lo rese bello. Prese su di sé il peccato del mondo e scacciò il nemico del mondo» (S. Proclo di Costantinopoli, disc. per l’Epifania n. 7). Mettere ordine nel mondo: questo è propriamente la carità, che mette ordine perché rigenera i cuori. Al disordine dell’invidia, della gelosia, dell’ira, della violenza – tutte cause di guerra e di morte – sostituisce l’ordine dell’accoglienza, della donazione, dell’amore disinteressato, della gioia e della pace. Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio: è la meravigliosa formula di scambio che troviamo in tantissimi Padri della Chiesa. «Il Signore ha preso la forma di servo perché il servo diventasse signore» (S. Massimo di Torino, disc. 45). Attraverso il nostro servizio noi permettiamo a Cristo di regnare nei cuori degli uomini, di regnare servendoli, e di rendere ogni uomo, che di per sé sarebbe soltanto servo per l’umiltà della condizione umana, un re, perché perdonato dal male e dai peccati. Tutto ciò è possibile perché Cristo è il Signore. La vostra vita sia dunque tutta tesa ad entrare nella inesauribile conoscenza della persona di Gesù. All’inizio della sua vita pubblica, arrivato al Giordano egli scende nella profondità delle acque e poi risale. È questa un’anticipazione della sua morte e resurrezione e anche della sua ascensione: i cieli sono finalmente aperti. La giustizia, cioè l’ordine dei rapporti fra Dio e l’uomo e degli uomini tra loro, è finalmente restaurata. Il sacramento dell’ordine che ora ricevete, radicando le vostre persone in una più profonda partecipazione al mistero di Cristo, realizza e vi invita a vivere una figliolanza più confidente e più intera. Non pensate a ciò che dovete fare. È lo Spirito che opera in voi questa figliolanza. Invocatelo come lo invochiamo ora perché scenda abbondante-mente a riempire le vostre menti e i vostri cuori e a dare alla vostra vita futura il timbro di una donazione senza pentimenti e senza nostalgie, sempre più ricca di consolazioni e di scoperte. Amen.

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Omelia per la Veglia ecumenica diocesana

Cripta della Cattedrale di Reggio Emilia, 27 gennaio 2013

Cari fratelli,

da più di 100 anni esiste questa iniziativa di preghiera per l’unità tra i cristiani. Essa nasce dal movimento ecumenico, ma penso soprattutto dal cuore di ogni vero creden-te. Come non soffrire infatti, e profondamente, perché la ricchezza delle nostre storie, delle nostre lingue, delle nostre spiritualità e culture è diventata una ragione di divisio-ne invece che di unità? Come non soffrire di fronte al corpo dilacerato di Cristo? Ecco allora la ragione della preghiera. Ciò che l’uomo non riesce ad ottenere lo ottenga Dio. Che cosa l’uomo non può ottenere da solo? La conversione del proprio cuore. Una fede così profonda da essere testimonianza per l’altro. Il perdono e la riconciliazione. Noi non conosciamo i percorsi di Dio e del suo Spirito. Certamente egli agisce e agisce continuamente. Vi è un ecumenismo di base, una riconciliazione continua, un esercizio comune della carità e della speranza che, forse molto più dell’ecumenismo raccontato sui giornali, opera l’unità. Tutto ciò che abbiamo in comune – ed è molto: la persona di Gesù, la fede in lui, i Vangeli, l’Antico e il Nuovo Testamento, i sacramenti – è la strada fondamentale della nostra unità. Gesù è la nostra pace, l’attore continuo ed instancabile della comunione. Come dice la Lettera agli Efesini: ha fatto di Ebrei e pagani un popolo solo (cfr. Ef 2,14). Sia lui dunque ad abbattere i muri di divisione che esistono oggi tra i cristiani. Quest’anno la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ci invita a riflettere su un testo del profeta Michea: Quel che il Signore esige da noi (Mic 6, 6-8). Esso parla del centro del nostro rapporto con lui. Cosa chiede il Signore da noi? Che ci convertiamo a lui, che apriamo il nostro cuore e la nostra mente alla sua presenza, alla sua santa iniziativa. In questo cammino di conversione, avvenuto già durante la storia dell’antico Israele, il passaggio fondamentale è costituito dall’interiorizzazione del sacrificio. Ciò che Dio ci chiede non è l’offerta di qualcosa, ma la conversione del cuore. Qui sta il fondamento dell’alleanza tra Dio e l’uomo e la possibilità di creare una società in cui è riconosciuta la dignità di ogni uomo, l’uguaglianza, la fraternità. Il consiglio ecumenico delle Chiese e il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani hanno affidato ai cristiani dell’India la preparazione dei testi per questa preghiera. Pensando alla discriminazione dei Dalit, nel contesto della civiltà indiana, è stato scel-to questo testo di Michea. Le divisioni tra gli uomini nascono quando si dimentica che ogni uomo è immagine di Dio. Tutte le discriminazioni, i razzismi, i nazionalismi, trovano la loro origine in questo misconoscimento della comune nascita da Dio degli uomini. Benedetto XVI ha proclamato: «Anche se nel mondo il male sembra prevalere sul bene, più forte è il Signore, il nostro vero re e sacerdote Gesù Cristo». Il patriarca ecumenico Bartolomeo I, da parte sua, ha detto: «Promuoviamo l’universalità della

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carità al posto dell’odio e dell’ipocrisia, l’universalità della comunione e della collabo-razione al posto dell’antagonismo». Il monaco Efrem il Siro ha scritto: «Se amerai la pace, trapasserai il grande mare della vita con serenità. Se amerai la giustizia troverai la vita eterna». Cari fratelli il vangelo che abbiamo ascoltato ci ha presentato due discepoli che il giorno stesso della resurrezione di Gesù camminano da Gerusalemme a Emmaus. Sono turbati e disperati. Speravamo che fosse lui a liberare il popolo di Israele… (Lc 24,21). La grande luce di Gesù sembra spenta per sempre. Una piccola luce, però, si fa strada nel loro buio: l’annuncio delle donne che hanno raccontato di aver visto alcuni angeli e riportano le loro parole, “Gesù è vivo”. Nel buio delle nostre divisioni, la luce della fede di tanti nostri fratelli invoca Gesù, domanda la sua presenza, chiede che sia lui a rivelarsi nuovamente, a spiegarci le Scritture, a farci ardere come un fuoco nel cuore, a cancellare le nostre divisioni, i nostri rancori, le nostre accuse reciproche, a ridonarci l’unità. L’unità non è qualcosa di nuovo da creare, ma è la presenza originaria di Gesù da riscoprire. Guidati dallo Spirito Santo di Dio, ci sia concesso di potere presto riconoscerlo spezzando assieme il pane eucaristico.

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Omelia per la Festa della Presentazione del Signore – Giornata della vita ConsacrataCattedrale di Reggio Emilia, 2 Febbraio 2013

Cari fratelli e sorelle, la Chiesa ha significativamente legato questa giornata, memoria della presen-tazione di Gesù al Tempio, alla vita consacrata. Saluto e ringrazio innanzitutto mons. Gianfranco Ruffini, mio vicario per la vita consacrata e i monasteri e tutti voi religiosi e religiose, soprattutto coloro che durante quest’anno festeggiano un particolare anni-versario della professione religiosa.

Vorrei guardare assieme a voi ciò che caratterizza la vostra vita e, nello stesso tempo, indicare a tutti ciò che è essenziale in ogni autentica vita cristiana. La Tradizione ecclesiale ha visto nell’obbedienza, verginità e povertà le caratteristi-che principali della persona di Gesù e di ogni uomo e donna chiamati a seguirlo. Sono i consigli evangelici, così chiamati perché nascono da un invito di Gesù: se vuoi essere perfetto… (Mt 19,21). In realtà esprimono un ideale a cui tutti sono invitati, pur nella diversità delle forme in cui si esprime la risposta dell’uomo a Dio. Sono para-gonabili ad un unico raggio di luce bianca che si rifrange in tre diversi colori. Obbedienza, povertà e verginità ci parlano innanzitutto del rapporto che Gesù ave-va col Padre, ma anche con gli uomini e con le cose. Rappresentano perciò l’itinerario compiuto della vita cristiana.

L’obbedienza L’obbedienza è il fondamento e assieme il coronamento della vita nuova. L’uomo non nasce da se stesso, riceve la vita. E rimane in vita perché lo Spirito di Dio conti-nuamente alimenta la sua persona. Vivere è, dunque, aderire a Colui che ci crea e ci rinnova. Il rapporto col padre e con la madre è per ogni uomo e donna il segno rias-suntivo di tutto questo dinamismo di crescita verso la propria statura adulta, verso la propria maturità personale. Ogni autorità, infatti, è soltanto una funzione vicaria, necessaria ma relativa a quell’autorità che non viene mai meno, anzi cresce di importanza col crescere della nostra figliolanza, l’autorità di Dio Padre. Gesù ha fondato tutta la propria esistenza, la propria missione, nel rapporto col Padre. Io faccio ciò che piace a Lui (Cfr. Gv 8,29). Il dialogo, vissuto giorno e notte, col Padre era l’alimento della sua vita. Egli fu obbediente ai genitori, alla gente, alla legge mosaica, perfino alle leggi civili, per custodire l’obbedienza al Padre. Cercare la volontà del Padre, entrare in essa, era il suo pane quotidiano. Egli ha insegnato a noi

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a fare altrettanto. Anzi, ci ha mandato il suo Spirito che in noi grida “Padre”(cfr. Rom 8,15; Gal 4,6) perché lo conosce e lo sa riconoscere. Nello stesso tempo, è anche vero che noi impariamo dalle autorità sulla terra a riconoscere ed amare l’autorità e la paternità di Colui che è nel cielo. Per questo, grande è la responsabilità davanti a Dio e agli uomini di ogni autorità! I superiori possono facilitare o ostacolare il cammino dei loro fratelli verso la verità e il bene, possono svelare o offuscare il volto di Dio. In una comunità ecclesiale, in particolare, il posto dell’autorità è proprio quello del Padre. Ogni autorità nella Chiesa deve saper coniugare accoglienza, ascolto, pazien-za, capacità di perdono, con l’indicazione disinteressata della verità e del bene. Deve sapere quando comandare e quando consigliare, quando correggere apertamente e quando rimandare. Non deve lasciarsi guidare nel giudizio sulle persone da nessun interesse che non sia il bene dell’altro. Così ha vissuto Gesù con i suoi apostoli. E noi possiamo partecipare dei raggi di questa luce. Egli ha insegnato agli apostoli la sua obbedienza chiamandoli a vivere con lui. Ascoltando le sue parole, guardandolo agire, aderendo a ciò che egli chiedeva loro, sono entrati, quasi senza accorgersi, in una vita nuova di cui lo Spirito ha rivelato loro, in modo definitivo, la realtà. Obbedire, molto prima che eseguire un comando, significa per noi addentrarsi nell’esperienza della compagnia vocazionale, in cui ha iniziato a rivelarsi il disegno buono del Padre per noi.

Verginità e maturità affettiva La verginità è l’altro volto dell’obbedienza. Potremmo dire che è l’obbedienza al Padre vissuta nel rapporto con gli uomini e con le donne. Essa è la modalità di rap-porto che Gesù viveva con ogni persona. La verginità non rappresenta la rinuncia ad amare. Chi segue Cristo, imitando an-che la forma della sua esistenza, non vive una vita diminuita, meschina, arida. All’op-posto, è raggiunto dalla promessa di Gesù di avere il centuplo sulla terra, assieme alle persecuzioni (cfr. Mc 10,30). Cento volte tanto in pienezza affettiva. Eppure Gesù non si è sposato, non ha avuto figli carnali. Come stanno insieme le due cose? Certamente egli non ha disprezzato il matrimonio: ha iniziato il suo ministero pubblico durante una festa di nozze, ha fatto dell’unione tra uomo e donna un sacramento, cioè un segno efficace della alleanza tra Dio e l’umanità. Ma ha scelto lui stesso e ha chiesto a chi lo seguiva stabilmente di non avere marito o moglie. Ha presentato sé come l’unum necessarium (Lc 10,42). Amare Cristo, seguirlo, può bastare al cuore dell’uomo: in Lui troviamo un amore che non ci chiude in noi stessi ma, al contrario, ci spalanca ad amare tanti uomini e donne con lo stesso amore disinteressato con cui Gesù ama le

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nostre persone. L’itinerario della verginità ci conduce alla pienezza della carità, a quei beni definitivi che resteranno quando tutto ciò che è provvisorio scomparirà. Se la verginità non può essere frutto dei nostri sforzi o propositi, allo stesso modo esige, e quasi suscita, il cambiamento del nostro modo istintivo di possedere, segnato dalla nostra condizione di peccatori. Gesù invita a guardare l’altro con occhio purificato (cfr. Mt 6,22), come lo guarda Dio, nel rispetto della sua vocazione.La verginità, prima ancora che nei rapporti con i fratelli, dev’essere vissuta con noi stessi, imparando a guardarci, corpo e anima, come ci guarda Dio. Anche i legami con i genitori, i parenti, gli amici, devono essere segnati da questa conversione. La verginità è custodita nella preghiera, con cui chiediamo a Dio l’esperienza del suo amore. Dal silenzio, che ci aiuta ad uscire dalla distrazione. Da un uso oculato e vigilante delle fonti di immagini (libri, cinema, televisione, tecnologie…), che permetta una purificazione della memoria. Ma soprattutto sarà l’esperienza stessa della verginità a renderla desiderabile e a far sentire come leggero ogni sacrificio che essa richiederà alla nostra umanità ferita. Tutta la nostra vita può essere definita un cammino di purificazione, di conversione dell’amore, verso la maturità affettiva. Anche se tale itinerario non sarà mai interamen-te compiuto sulla terra, noi, già nel tempo, possiamo sperimentare il passaggio dall’ira alla pazienza, dalla superbia all’umiltà, dal rancore al perdono, dall’invidia alla gioia per i beni degli altri. Possiamo, soprattutto, per grazia di Dio, convertire il nostro desi-derio di possedere l’altro e le cose strumentalizzandole a nostro piacere, nella gratuità che sa godere in modo puro della presenza della persona amata, che sa donarsi e sacrificarsi.

La povertà è la pienezza dell’umano La povertà nasce dalla scoperta che io appartengo ad un Altro, a Dio. Tale coscienza è fonte di un’enorme positività: sono di un Altro perché sono stato voluto e amato da lui. Sono stato suscitato all’essere dal nulla. Se io sono opera di un Altro, tutto mi è dato da lui. Nello stesso tempo tutto è mio perché in Gesù trovo ogni bene necessario alla vita, in misura sovrabbondante. Tutto mi è dato per conoscere il Padre e colui che egli ha mandato (cfr. Gv 17,3). Vedere e usare di ogni cosa per raggiungere il Padre: in questo sta il segreto affa-scinante della povertà. Essa non è propriamente una virtù negativa, ma un atteggia-mento positivo. Nei discorsi missionari riportati da Matteo e Luca nei loro vangeli, tutto ciò è molto chiaro. La vita è definita dalla missione ed essa necessita di uomini liberi. Gesù invita i suoi che stanno partendo a non avere due tuniche, due borse, a non rimanere troppo

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in una casa (cfr. Lc 9,3-5; Mt 10,9-14). Li invita cioè ad avere un rapporto leggero, libe-ro con cose e persone. Nessun uomo e nessuna cosa è disprezzata, tutto è collocato in un disegno in cui ciascuno trova il suo giusto posto. È veramente l’inizio di quei cieli nuovi e terra nuova di cui parla san Pietro (2Pt 3,13). L’inizio di un mondo veramente umano. La povertà è la virtù che nasce dalla resurrezione di Cristo. Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio (cfr. 1Cor 3,21-23). Soltanto chi vive nella certezza di aver ricevuto tutto da Gesù è libero di fronte alle cose. Altrimenti cercherà la propria sicurezza in ciò che ha, stringendolo sempre più a sé. Come in un naufragio, invece di affidarsi alla leggerezza delle acque, si aggrappa agli altri trascinandoli verso il fondo. Colui che vive la povertà è luminoso. Essa deve irraggiarsi nel nostro modo di vestire, di mangiare, di arredare la casa. Dalla nostra vita deve essere abolito ogni sfarzo e ogni sciatteria. Le nostre case mostrino a noi e a chi vi entra la bellezza della semplicità, la gioia di avere solo ciò che è necessario.

Cari fratelli e sorelle, è questo il mio augurio per tutti voi. Possa la vostra vita risplendere nel mondo come segno e testimonianza della presenza di Dio in mezzo a noi.

Amen.

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Omelia per la festa del Beato Andrea Carlo Ferrari – Ingresso ufficiale a Guastalla

Tensostruttura di Guastalla, 3 Febbraio 2013

Cari fratelli e sorelle, sono molto contento di tornare qui, in mezzo a voi, dopo aver celebrato assieme il santo Natale. Saluto il parroco, don Alberto, il viceparroco don Carlo e gli altri sacerdoti presenti da tutto il vicariato. È per me motivo di grande gioia fare il mio ingresso ufficiale a Guastalla proprio nella festività liturgica del beato cardinal Ferrari. I santi sono l’onore e la gloria di un popolo. Sono l’espressione più alta, più nobile e più trasparente della sua grandezza. Soprattutto essi sono un segno della benedizione e della misericordia di Dio. Se vo-glio conoscere voi, dunque – se voi stessi volete conoscere più in profondità chi siete – devo e dobbiamo guardare ai santi che sono passati dalla nostra terra. Tra questi certamente il cardinal Ferrari è uno dei più grandi. Non ho la pretesa di insegnare a voi chi sia stato il vescovo Ferrari, desidero piuttosto impararlo da voi e con voi e assieme metterci alla sua scuola. Molte ragioni mi legano alla figura del vescovo Ferrari. Ragioni personali, che ho già accennate quando sono venuto qui un mese e mezzo fa, e ragioni più oggettive, sulle quali oggi vorrei brevemente soffermarmi. Andrea Carlo Ferrari collega la terra lombarda dalla quale provengo a questa terra emiliana dove ora Dio mi ha chiamato a prendermi cura del suo popolo. Devo confes-sarvi che quando il santo Padre mi ha comunicato la mia elezione a vostro vescovo, dopo un primo momento di comprensibile turbamento, il mio pensiero è andato a lui, al vescovo di cui sarei dovuto diventare successore. Sin da bambino infatti la sua figura mi era diventata cara grazie alla devozione dei miei genitori. Ma ci sono ragioni ancor più profonde che mi legano al beato Cardinal Ferrari. Come sapete dalla prima lettera che ho scritto a tutta la Diocesi il giorno della mia no-mina, a lui ho affidato le primizie del mio ministero episcopale. Da lui voglio imparare che cosa sia un padre. Vescovo fermo, deciso, coraggioso. Infaticabile, tanto da meritarsi il nomignolo di “moto perpetuo” (cfr. P. Liggeri, Non si è spenta la sua voce. Profilo del cardinale An-drea Ferrari, 1987). Grande oratore e padre appassionato. Uomo dell’azione e della preghiera. Così viene descritto nelle tante testimonianze di chi lo ha conosciuto. La quasi totalità delle biografie e degli scritti sul beato vescovo si concentrano, giusta-mente, sul ministero milanese del novello san Carlo. Nominato vescovo di Guastalla da Leone XIII nel 1890, rimase qui, infatti, solo pochi mesi. L’anno successivo, con suo grande dolore, fu eletto vescovo di Como e, nel 1894, cardinale arcivescovo di Milano. È nella diocesi ambrosiana, dunque, che egli ha vissuto la maggior parte degli anni del suo episcopato. Tuttavia penso che quanto si dipanerà negli anni successivi, sia già pienamente visibile e lucidamente espresso nelle dense lettere pastorali che egli scris-

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se a questa diocesi durante i suoi primi mesi da vescovo e in quelli successivi. Trasfe-rito a Como, continuò ad essere amministratore apostolico di Guastalla e si prese cura ancora a lungo di questa terra. In particolare negli scritti di questo periodo sentiamo risuonare le due parole che più caratterizzano l’intero ministero episcopale di Andrea Ferrari: azione e preghiera. In esse troviamo il cuore del santo vescovo, il segreto del suo infaticabile spendersi, del suo affrontare a testa alta anche le situazioni più difficili. Scrivendo ai parroci della Diocesi, in una lettera del 1° novembre 1890, nella quale – come spesso avveniva – il beato pastore si faceva eco delle parole del Santo Padre Leone XIII, egli stesso si concentra proprio su queste due parole chiave per compren-dere la sua figura: «Inculca l’azione; perché, se il nemico non fa tregua, nessuno di noi deve rimanere silenzioso o inerte… Inculca la preghiera: ascoltiamola tutti questa raccomandazione, e pratichiamola, e voi fatela praticare dai fedeli vostri sudditi». La coniugazione di preghiera e azione fu il vero segreto del suo ministero. Dalla preghiera traeva l’energia e la prudenza necessarie per agire prontamente, discernendo in ogni cosa la volontà di Dio. Ciò gli donava pace e letizia. Anche nei momenti di maggior fatica, esse trasparivano dalla pacatezza della sua parola e dal continuo desiderio di incontrare le persone. Negli oltre trent’anni del suo episcopato ricercò sempre l’incontro personale con il suo popolo, diventando per tutti un padre fermo e nel contempo tenero. Una dolce fer-mezza fu sempre la cifra della sua azione pastorale. In un’epoca di grandi mutamenti sociali e culturali, che avevano creato non poche divisioni all’interno della stessa Chie-sa, seppe sempre indicare con convincente sicurezza la direzione nella quale cammi-nare. Il contatto diretto con la gente gli permise di cogliere con profetica intelligenza le istanze più profonde del suo tempo e di corrispondervi con un’efficace e sempre nuova azione pastorale. Il suo cuore di padre, nel quale l’amore per Dio e quello per il suo popolo erano così congiunti da non potersi più distinguere, era un continuo laboratorio di idee, proposte, esortazioni. Ne sono testimonianza le tante opere da lui nate, opere di educazione, di carità, di rinnovamento culturale ed ecclesiale. Non vi era categoria di persone o campo dell’umano per il quale non avesse una parola, un consiglio, una correzione da suggerire. Egli aveva ben presente che Gesù è venuto per ognuno e che solo aprendosi a lui l’uomo poteva realizzarsi, solo guardando a Cristo le strutture sociali, politiche e culturali potevano conseguire il loro scopo. Ma perché ciò si realiz-zasse il vescovo doveva tornare a vivere in mezzo alla gente, educare il popolo ad una coscienza vera del cristianesimo facendosi egli stesso modello da imitare. «Il vescovo che visita la sua Diocesi – scrive in una lettera del marzo 1891 – altro non rappresenta che la persona di Gesù Cristo, e viene perciò in mezzo a voi come amico in mezzo agli amici, …come fratello in mezzo ai fratelli…, come padre in mezzo ai figli» (Lettera alla Diocesi di Guastalla sulla S. Visita Pastorale, 19 marzo 1891). L’amore per il suo popolo lo rese capace di portare ogni peso, di essere fermo di fronte agli attacchi dei suoi detrattori. Certamente i più dolorosi furono quelli che gli vennero dall’interno stesso della Chiesa. Nonostante la sua rocciosa fedeltà al Papa fu, infatti, pubblicamente accusato di modernismo dalle frange più intransigenti che

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riuscirono a coinvolgere anche i suoi seminaristi e i suoi preti. Egli non disperò mai e in questa occasione, come anche nello smarrimento provocato dalla prima guerra mon-diale e negli anni duri della malattia, mai perse quella letizia, quella prontezza d’animo che sempre lo contraddistinse. Quello che abbiamo questa sera ascoltato da san Paolo, descrive bene la figura del nostro beato vescovo: egli non cercò mai di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti ebbe a pronunziare parole di adulazione… E neppure ha cer-cato la gloria umana. È invece stato amorevole in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura del¬le proprie creature. Così affezionato a voi, avrebbe desiderato darvi non so¬lo il vangelo di Dio, ma la sua stessa vita, perché gli eravate diventati cari (cfr. 1 Tes 2,4-8). Pregate, cari fratelli e sorelle, perché – per l’intercessione del beato Andrea Carlo Ferrari – possa anche io compiere l’opera che Dio mi ha affidato e amarvi come lui vi ha amati prima di me. Amen.

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Omelia per la santa Messa nel VII centenario della presenza dei Servi di Maria a Reggio EmiliaReggio Emilia, Santuario della Ghiara 10 Febbraio 2013

Cari fratelli e sorelle,

oggi è una grande festa per la nostra città e la comunità cristiana di Reggio Emilia. Iniziano infatti, con questa santa Messa, le celebrazioni per il VII centenario della presenza a Reggio Emilia dell’Ordine dei Servi di Maria, alla cui cura è affidato questo santuario.

Desidero innanzitutto salutare il Padre Priore Cesare Antonelli, già Superiore di questa provincia dei Servi di Maria che negli anni scorsi, con molta dedizione, ha se-guito la vita consacrata della nostra Diocesi come vicario episcopale. Voglio poi ricor-dare padre Dante Andreoli, venuto a mancare nei giorni scorsi. Dopo un lungo servizio di insegnante di telogia presso il “Marianum” a Roma, era tornato qui per concludere tra le braccia della Madre il suo pellegrinaggio terreno. Ringrazio i Padri serviti per il grande servizio che svolgono nella nostra Chiesa, per la loro fede e per la loro testimonianza. Soprattutto per la fedeltà al sacramento della Penitenza a cui essi sono continuamente disponibili. In ogni parrocchia, in ogni nostra chiesa i sacerdoti dovrebbero sottolineare, con la loro presenza nei confessio-nali, l’importanza di questo sacramento. Non sempre, purtroppo, avviene. E, in que-sto modo, viene a decadere non un aspetto accessorio della nostra fede, ma un suo cardine essenziale. Senza l’esperienza oggettiva del perdono di Dio, non è possibile amare se stessi e i fratelli. Non è possibile il cristianesimo, poiché esso si fonda pro-prio sulla gratuità dell’amore di Dio. È per me, dunque, di grande consolazione sapere che chiunque desideri confessarsi è sicuro di trovare qui, nel santuario della Madonna della Ghiara, un Padre che lo aspetta. Davvero degni del nome che portano, i nostri cari Servi di Maria svolgono in questo modo, assieme a molti altri lavori, il servizio per eccellenza di cui oggi ha bisogno la nostra città e tutta la nostra Diocesi.

Siamo così condotti al cuore della spiritualità mariana dell’Ordine. I primi sette santi fondatori, infatti, si trovarono accomunati dal desiderio di vivere gli elementi essen-ziali del cristianesimo nella consacrazione alla Vergine. Fin dall’inizio, posero come base della loro vita, assieme alla testimonianza di comunione e al servizio ai fratelli, la misericordia di cui Maria è la Madre. «La misericordia è riconosciuta come una delle caratteristiche dei Servi, che continuano nella loro vita l’esempio della Madre di Dio» (cfr. Cost., 52), leggiamo nelle Costituzioni.

Dal 1313, anno dell’arrivo dell’Ordine a Reggio Emilia, la nostra Chiesa gode di que-

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sta luminosa testimonianza. Esorto i Padri qui presenti a vivere profondamente il loro carisma. Esso ci parla della vita comune. Leggiamo ancora nelle Costituzioni: «Per noi Servi, secondo l’esempio dei primi Padri e la tradizione dell’Ordine, la penitenza consiste soprattutto nella carità intesa come servizio gli uni degli altri e nell’esperienza di vita comunitaria, vissuta con sincero e generoso impegno» (cfr. Cost., 71).Tutti abbiamo bisogno di ritrovare l’essenza del cristianesimo nella comunione, di cui la vita comune – in famiglia come in ogni altra comunità – è uno dei segni più grandi. L’unità, infatti, è il primo nome di Dio. Abbiamo sentito nel Vangelo la preghiera che Gesù rivolge al Padre nel momento solenne in cui sta per dare compimento alla sua vita: egli, prima della sua Passione, prega perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato (Gv 17,21). Gesù ci svela che la comunione è il frutto della fede ed assieme la sua testimonianza più grande.

È questo l’insegnamento più importante che possiamo trarre dalla storia dei sette santi fondatori di cui oggi celebriamo la festa. Essi all’inizio volevano vivere quasi come eremiti. Tuttavia piacque al Signore donare loro dei fratelli che iniziarono a se-guirli affascinati dalla loro forma di vita. Il mondo attende questa testimonianza. Attende da noi l’annuncio che l’unità è pos-sibile, che è possibile l’amicizia. È possibile vivere assieme scoprendo i fratelli e le sorelle che abbiamo accanto non come ostacolo alla nostra realizzazione, ma come strada affascinante alla conoscenza di noi stessi e di Dio. Come strada di compimento vero della vita. San Paolo, nella lettera agli Efesini che abbiamo ascoltato, sintetizza mirabilmente tutto questo esortandoci a vivere in maniera degna della chiamata che abbiamo rice-vuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandoci a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. (cfr. Ef 4, 1-4).

È questo anche il mio augurio a tutti voi. Amen.

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Omelia per la santa Messa in suffragio di don Giuseppe Dossetti – V dome-nica del tempo ordinario

Cattedrale di Reggio Emilia, 10 Febbraio 2013

Cari fratelli e sorelle, celebro questa santa Messa della V domenica del Tempo Ordinario anche ricordando la persona di don Giuseppe Dossetti nel Centenario della sua nascita. La fede ci assicura che esiste una comunione profonda tra coloro che vivono ancora nel tempo e coloro che sono passati oltre la morte: comunione di fede, di preghiera, di aiuto reciproco. Noi preghiamo per l’anima di don Giuseppe e lui, secondo la misura del disegno di Dio, intercederà per le nostre vite sulla terra. Saluto don Athos Righi, superiore della Piccola Famiglia dell’Annunziata, i fra-telli e le sorelle. Don Giuseppe Dossetti jr e mons. Eleuterio Agostini, che al termine della Messa ricorderà, in un breve intervento, le radici ecclesiali reggiane di Dossetti. Saluto anche le famiglie della comunità dossettiana e tutti gli amici del nostro caro don Giuseppe. Se ascoltiamo con attenzione le letture di questa Messa, siamo colpiti innanzi-tutto dall’infinita distanza che corre tra Dio e l’uomo, tra la sua santità e la nostra con-dizione di peccatori. La reazione del profeta Isaia di fronte alla manifestazione della gloria di Dio – Ohimè! Io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure – è la stessa che anche Simon Pietro ha di fronte alla potenza che viene da Gesù: Si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: “Signore, allontanati da me, perché sono un pecca-tore”. Pietro – commenta san Cirillo di Alessandria – trema e ha paura. «Come uomo impuro, non osa ricevere l’unico che è puro» (Cirillo di Alessandria, Comm. a Luca, Om. 12). Anche nella lettera ai Corinzi è contenuto lo stesso tema. Afferma, infatti, san Paolo: Io sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Davanti a Dio l’uomo si scopre per quello che egli è realmente. Impuro, peccatore, indegno. Ma leggendo con più attenzione le letture che ci propone la liturgia di oggi ci accorgiamo che quello della indegnità dell’uomo, della distanza tra lui e Dio non è né il solo né il più importante tema. Un serafino, infatti, purifica le labbra del profeta Isaia e gli dice: è scomparsa la tua colpa. Anche Gesù rassicura Simon Pietro e gli dice: Non temere. E san Paolo afferma: Cristo morì per i nostri peccati e per grazia di Dio sono quello che sono... Ecco allora che siamo introdotti nel cuore del cristianesimo: l’uomo è amato da Dio gratuitamente, senza che abbia fatto nulla per meritare il suo amore. Per quanto si sforzasse, infatti, egli non avrebbe mai potuto colmare la distanza che lo separa da Dio. Solo lui ha il potere di renderci degni di stare alla sua presenza, solo lui può fare di noi ciò che noi da soli non potremmo neppure sperare. Il Signore farà tutto per me, abbiamo ascoltato nel salmo. Scoprirci abbracciati e amati proprio quando più grande è la coscienza della nostra

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miseria, ci permette di entrare nell’esperienza della misericordia, della gratuità di Dio. È l’esperienza originaria e originale della vita divina che Gesù è venuto a portare sulla terra. Tutto ciò che sembrava un ostacolo alla nostra realizzazione, diventa strada di compimento. Una misura nuova entra nella vita. D’ora innanzi sarai pescatore di uomi-ni, dice Gesù a Pietro. Questi non deve rinnegare il suo passato, non deve dimenticare chi è: un pescatore. Ma l’incontro con Cristo e l’adesione alla sua vocazione gli fa sco-prire con una profondità nuova la sua identità: Pescatore di uomini. È interessante notare che nel testo greco non troviamo scritto: sarai pescatore di uomini, ma – letteralmente – d’ora in poi prenderai uomini vivi, o meglio: prenderai uomini per la vita. San Luca definisce, così, la missione cristiana come un “portare gli uomini alla vita” (G. Rossé). Dio ci raccoglie dalla nostra miseria, ci coinvolge nella sua missione e ci fa entrare nella vita. Questo è stato, a mio parere, il desiderio che ha animato don Giuseppe Dossetti: cercare Dio e la sua volontà. La sua infaticabile e poliedrica opera esprime proprio questa continua ricerca della vita vera. Egli ha sentito forte la voce di Dio che lo chia-mava e in ogni campo del suo operare ha cercato continuamente di rispondere a quella voce, con la radicalità di cui era capace. Dobbiamo riconoscere in lui un uomo che ha desiderato rispondere con tutta la sua vita all’invito di Gesù, che ha sentito il fascino irresistibile che esercitava la sua figura. «Perché tutti quanti sentiamo questa attrattiva? – si chiedeva don Giuseppe in un’omelia pronunciata un anno e mezzo pri-ma della sua morte – Perchè? Per i suoi miracoli? Per le sue parole? Certo, ma non soltanto. Perché allora? Perché è lui che sprigiona una potente attrazione sui cuori, al di là e più che i suoi miracoli, al di là e più che la sua dottrina. È lui, misterioso eppure vicino» (Omelia pro manuscripto, 5 febbraio 1995). Commentando proprio le tre letture di questa domenica, notava con commozione che siamo di fronte a tre racconti di vocazione «pieni a un tempo della maestà di Dio e della sua trascendenza esclusiva e assoluta, ma anche pieni della sua immanente presenza tra gli uomini». Racconti che iniziano con «la consapevolezza della nostra miseria e del nostro peccato» per farci «poi accedere alla pienezza della grazia e della gioia che solo ci trasforma». Seguiamo anche noi questo itinerario che la liturgia ci propone. L’invito che Gesù rivolge a Pietro è risuonato questa sera anche per tutti noi: Duc in altum! Pren-diamo il largo e sulla sua parola – riponendo cioè la nostra fiducia nella sua fedeltà – gettiamo le nostre reti.Amen.

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Omelia nella festa della B. V. di Lourdes

Reggio Emilia –Parrocchia di S. Agostino, 11 Febbraio 2013

Cari fratelli e sorelle,è la prima volta che celebro in questa Parrocchia e sono contento che ciò avvenga

proprio nella festa della Madonna di Lourdes. Qui, infatti, fin dal 1891, è fiorita una de-vozione particolare alla Vergine apparsa alla piccola Bernadette Soubirous, di cui è se-gno l’effige, realizzata proprio a Lourdes, che ancora oggi è venerata in questa chiesa.

Saluto con affetto il parroco, don Guido Mortari, e tutti voi, in particolare gli ammalati presenti a questa celebrazione. Un saluto riconoscente anche ai volontari dell’Unitalsi e a tutti coloro che con la loro vita testimoniano la presenza di Dio che si prende cura di ognuno di noi.

La storia si è incaricata di legare la memoria della Vergine di Lourdes al mistero della malattia e del dolore. I tanti miracoli che avvengono sulla spianata di Massabielle, miracoli di guarigioni fisiche e, soprattutto, di conversione dei cuori, parlano della nostra fragilità e del bisogno di qualcuno che ci strappi dal male e ci salvi. Gesù ha detto: sono venuto per i malati (cfr. Lc 5, 31-32), sono venuto, cioè, per ogni uomo. Tutti, infatti, siamo malati. Ognuno di noi è bisognoso di guarigione. Gesù è il buon Samaritano venuto per curvar-si sulla nostra umanità malata, per cercare chi si è smarrito, per indicare la strada della resurrezione a chi, a causa del male, si è perduto. È venuto a percorrere Lui stesso la strada della liberazione, per noi e con noi. Così ci ha guarito e ci guarisce ogni giorno dalle tentazioni, dalle illusioni e dalle paure. Questo è il senso di ogni comunità nella Chiesa, è il senso stesso della Chiesa: guarire la nostra umanità e, in essa, anche il nostro spirito.

Maria ci ricorda tutto questo. Le apparizioni sono l’espressione più accorata della sua sollecitudine materna per la nostra salvezza. La Madre del Signore appare, infatti, per insegnarci che Dio è misericordia. Lei stessa è il segno più luminoso della miseri-cordia divina: ha guardato la miseria della sua serva… di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono (cfr. Lc 1,48.50). Queste parole del Magnificat sono una porta che ci permette di entrare nella coscienza che Maria ha di se stessa e della sua missione nel mondo. Più profondamente sono la descrizione della Chiesa e di ogni cristiano.

Dio guarda la nostra miseria e ne ha compassione. E questa compassione diventa coin-volgimento nella sua opera di salvezza. Nella vita nuova che Gesù è venuto a portare il dolore e la fatica non sono annullate. Vissuta come partecipazione alla croce di Cristo, la sofferenza rivela il suo valore salvifico e diventa strada per partecipare alla sua resurrezione. Nulla è più grande per un uomo del partecipare all’azione con cui Cristo ogni giorno salva il mondo. Egli guarisce l’umanità attraverso l’offerta continua della sua vita alla quale associa l’offerta di ognuno di noi. Nessuna azione dell’uomo è insignificante per Dio. Nessun atto di carità è senza peso. Tutto partecipa alla carità di Cristo. In questo modo egli attrae continua-mente a sé le nostre menti, i nostri cuori, le nostre vite e, come ha detto Maria di se stessa, ci innalza dalla miseria in cui siamo per elevarci alla sua vita.

Amen.

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Omelia nella santa Messa del mercoledì delle CeneriCattedrale di Reggio Emilia, 13 Febbraio 2013

Cari fratelli e sorelle,con il rito dell’imposizione delle ceneri iniziamo oggi la Quaresima, un tempo pre-

zioso che Dio ci dona per convertire il nostro cuore e prepararlo alla gioia della Pa-squa, all’incontro con Cristo immolato e risorto.

Le letture che abbiamo ascoltato ci introducono in questo itinerario di conversione. Il vangelo, in particolare, ci indica le tre strade fondamentali di questo itinerario: la preghiera, l’elemosina e il digiuno. Queste vie non sono soltanto una preparazione alla Pasqua, ma – come sottolinea la liturgia di oggi (per fructum boni operis reficiantur in mente) – ne costituiscono già un frutto, anticipano in noi la letizia e la luce della re-surrezione. Sono strade della nostra immedesimazione con Gesù. Egli rende capace il nostro cuore di amare in modo autentico, di vivere quella profonda unità tra fede e carità di cui parla il Papa nel suo messaggio per la Quaresima.

Per comprendere questo testo di s. Matteo (Mt 6, 1-18), sul quale desidero questa sera soffermarmi, dobbiamo leggerlo nel contesto in cui l’autore sacro l’ha collocato, cioè all’interno dei capitoli 5, 6, 7, che costituiscono l’annuncio delle beatitudini e il commento ad esse.

Innanzitutto l’annuncio delle beatitudini. Se la Chiesa ci propone in questo tempo una strada di penitenza, è perché essa ha a cuore la nostra beatitudine. Il cristiane-simo non è la religione del dolore, non è la religione della penitenza fine a se stessa. È, invece, il cammino verso la Pasqua, il cammino nella Pasqua. Per entrare nella Resurrezione, per entrare nella vita – come dice Gesù (Mt 18,8.9) – occorre purificare il nostro sguardo e il nostro cuore da tutto ciò che ci impedisce di vedere e di gustare quanto è stato preparato per noi, da tutto ciò che ci impedisce di essere giusti. L’uo-mo giusto è colui che vive un rapporto autentico con se stesso, con gli altri, con Dio. Queste strade che la Chiesa indica per la Quaresima – la preghiera, l’elemosina e il digiuno – sono proprio le strade della giustizia: della giustizia verso Dio (la preghiera), della giustizia verso se stessi (il digiuno) e verso gli altri (l’elemosina).

Non è un caso che proprio questi capitoli che commentano le beatitudini siano oc-cupati dal dibattito sulla giustizia, sintetizzata nell’espressione di Gesù al versetto 20 del capitolo quinto: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.

Nel libro di Tobia troviamo unite queste quattro parole: buona cosa è la preghiera con il digiuno, e l’elemosina con la giustizia (Tb 12, 8). Preghiera, digiuno, elemosina, costituiscono dunque un triplice cammino verso la realizzazione della giustizia che ha animato la spiritualità di Israele nel momento del più grande disorientamento e della dissoluzione del popolo. Meglio il poco con giustizia, che la ricchezza con l’ingiustizia. Meglio è praticare l’elemosina che mettere da parte oro (Tb 12, 8). Gesù, che conosce

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l’Antico Testamento, che è venuto non per cancellare ma per compiere, parte proprio da questo versetto di Tobia per parlare con i suoi della vera giustizia.

Così nasce questo testo del capitolo sesto di san Matteo, che è stato giudicato un testo importante fin dalla prima comunità, a tal punto che si è voluto costruirlo secondo uno schema letterario che ne facilitasse la memorizzazione.

La nuova giustizia che Gesù insegna consiste in un passaggio dall’esteriorità all’in-teriorità, supera l’impossibile adeguazione ad una legge esteriore attraverso il dono dello Spirito. È possibile seguire Cristo perché egli ci dà il suo Spirito, e in questo modo, seguendo lui, comprendiamo e sperimentiamo che è possibile amare Dio e il prossimo. È soltanto amando Cristo che si capisce che l’amore di Dio e del prossimo sono un unico comandamento, perché Cristo è contemporaneamente Dio e il prossi-mo.

Gesù usa qui l’espressione il Padre che vede nel segreto: ritorna tre volte (cfr. Mt 6, 4. 6. 18). Egli vuole insegnarci che il cuore dell’esperienza cristiana è vivere con verità davanti a Dio. Non poggiare la propria vita su ciò che gli uomini pensano di noi. Anzi, Gesù arriva a dire guai quando diranno tutti bene di voi (cfr. Lc 6, 26). Ciò che conta è lo sguardo del Padre che vede nel segreto: Gesù doveva essere veramente assediato, disgustato, amareggiato dal formalismo che vedeva nel suo popolo. Ecco allora l’indicazione delle tre strade di conversione.

Tentiamo di entrare nel loro significato. Vi è una pedagogia profonda nella sequen-za stessa con cui san Matteo riporta le parole di Gesù: prima l’elemosina, poi la pre-ghiera, infine il digiuno.

L’elemosina: mentre ristabilisce la giustizia tra gli uomini, ci aiuta a comprendere che tutto appartiene a Dio e ci libera dal peso di un attaccamento smodato ai nostri beni.

Non è un caso che il vangelo parli prima di elemosina e poi di preghiera: la povertà è una condizione della preghiera; senza povertà, senza allentare i vincoli che ci ten-gono schiavi delle cose, non vi può essere preghiera. Se il nostro cuore è occupato e preoccupato, non c’è spazio per il dialogo con Dio.

In questo dialogo l’uomo scopre ciò di cui ha veramente bisogno. La ragione della preghiera, infatti, non è ricordare a Dio le nostre necessità. Dio sa molto bene ciò di cui abbiamo bisogno, siamo noi che non lo sappiamo e per questo dobbiamo entrare nello sguardo di Dio che ci ha creati e ci ama. Cominciare a pregare vuol dire entrare dentro l’azione di Dio in noi: elevatio mentis in Deum (san Giovanni Damasceno ripreso da san Tommaso d’Aquino, In Psalmos, Prœmium; Pars 24, n. 11; Pars 38, n. 8; Summa theologiæ, II-II, q. 83, aa. 1, 5 e 17; III, q. 21, 1). Solo così possiamo riconoscere i nostri bisogni. Quando pregate, dite: Padre (Lc 11, 2) ci ha detto Gesù. Questa è la ragione profonda della preghiera: imparare la nostra figliolanza.

Questo è anche il significato ultimo del digiuno cristiano che la Chiesa ci propone. Non di solo pane vive l’uomo, ma del suo rapporto con il Padre (cfr. Mt 4,4; Lc 4,4).

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La Tradizione ha sempre collegato il digiuno con la necessità di dare tempo e spazio alla preghiera. Per questo occorre che il nostro corpo non sia appesantito. State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e preoc-cupazioni materiali (cfr. Lc 21, 34). Il digiuno non nasce, dunque, da un disprezzo né delle cose, né del corpo. All’opposto, è necessario al bene del corpo ed a un giusto rapporto con se stessi e con Dio. Certamente Gesù nella sua vita ha mostrato l’impor-tanza del sedersi a tavola e mangiare, ne ha fatto un’occasione privilegiata di incontro in cui trasmettere l’esperienza della vita come letizia, come festa; ha fatto del sedersi a tavola una metafora della vita definitiva nel Regno.

Allora perché digiunare? Gesù a chi gli rimproverava che i suoi discepoli non di-giunavano rispondeva che non potevano farlo mentre lo Sposo era con loro. Il digiu-no cristiano, dunque, come dice molto bene un teologo ortodosso del nostro tempo, Olivier Clément (cfr. Teologia e poesia del corpo, Casale Monferrato, 1997), equivale all’attesa dello sposo: esso «mette l’uomo in condizione di vivere nella propria persona la fame profonda di tutta la creazione che soltanto lo Spirito può saziare» (ivi p. 66). Evidentemente, come all’elemosina è legata la virtù della povertà e alla preghiera quella dell’obbedienza, al digiuno è intimamente connessa la castità, «unificazione dell’amore, integrazione delle forze caotiche della vita in una relazione personale. Di-giuno e castità favoriscono la veglia, la vigile attesa dello sposo» (Ivi p. 73).

Auguro a tutti voi di percorrere con gioia questo cammino affascinante, questa stra-da verso la gioia affinché, come Israele al termine dei quaranta anni nel deserto, pos-siate anche voi entrare nella terra promessa della Pasqua di Cristo.

Amen.

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Omelia nella santa Messa di suffragio per mons. Luigi Giussani

Reggio Emilia – Basilica di san Prospero, 22 Febbraio 2013

Cari amici,don Giussani è stata la persona decisiva che ha aperto la mia mente e il mio cuore agli orizzonti del mondo e della Chiesa. Se dovessi dire in estrema sintesi la ragione di maggior gratitudine che ho verso di lui, direi proprio questo: egli mi ha fatto inna-morare di Cristo e della Chiesa. Non mi ha presentato un Dio rinchiuso in un passato irraggiungibile. Mi ha indicato Cristo presente nella comunione di chi oggi si lascia raggiungere da lui. Ha spalancato la mia umanità di ragazzo silenzioso e riservato alla conoscenza dell’uomo, dell’arte, della musica, della poesia. Mi ha insegnato cosa vuol dire accompagnare le persone, aiutarle a crescere e a fiorire, senza mai sostituirsi a loro. In lui ho visto la possibilità di valorizzare tutto e tutti nelle loro diversità. Mi ha riempito di curiosità per tutto, perché mi ha riempito di curiosità per Cristo. Egli, che era un grande comunicatore, mi ha trasmesso la passione per il rapporto personale con gli uomini e l’urgenza di far conoscere a tutti Gesù, l’unica risposta a quella sete di infinito che abita il cuore di ognuno e che don Giussani non smetteva di alimentare in chi gli stava vicino.

Per tutto questo, oggi, non solo da parte mia, ma a nome della Chiesa intera, desidero ringraziare don Giussani. La sua luminosa testimonianza, il suo infaticabile lavoro di educatore di generazioni e generazioni di uomini e donne al cristianesimo, la sua fede rocciosa che diventava, in modo naturale, luce per comprendere la realtà sono un faro importante all’interno della Chiesa. Egli è una miniera profondissima da cui si possono attingere tanti tesori. Le parole di stima che pochi giorni fa Benedetto XVI ha avuto ricordando don Giussani sono la testimonianza più grande e più autorevole di tutto ciò: «Ho conosciuto personalmente don Giussani – ha detto il papa –. Ho conosciuto la sua fede, la sua gioia, la sua forza e la ricchezza delle sue idee, la creatività della fede. È cresciuta una vera amicizia; così, tramite lui, ho conosciuto anche meglio la comuni-tà di Comunione e Liberazione» (Saluto all’Assemblea generale della Fraternità San Carlo, 6 febbraio 2013).

Se uno volesse conoscere chi è stato don Giussani, dovrebbe sì leggere i suoi scritti, dovrebbe certamente studiarne la vita, ma, assieme a tutto questo, deve guardare a ciò che di lui vive tra noi. La vostra presenza qui, ci dice che don Giussani è vivo, per-ché vive ciò che da lui è nato. Ciò che da lui è nato muove anche la vita di persone che non lo hanno conosciuto direttamente. Come è possibile questo? Anche di altri perso-

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naggi storici possiamo conservare un grande ricordo, ma essi non muovono la nostra vita oggi. Che cosa, dunque, permette a don Giussani di vivere ancora? Rispondere a questa domanda è di capitale importanza, non solo per coloro che appartengono al movimento da lui fondato, ma per ogni uomo. Rispondere a questa domanda, infatti, significa addentrarsi nel segreto della vita, capire che cosa di noi non muore. Don Giussani si è affidato allo Spirito di Dio: ciò che è nato da lui è nato dalla sua obbe-dienza allo Spirito di Dio. Solo obbedendo a Dio, solo entrando nella sua volontà, le nostre opere e la nostra stessa vita possono portare frutto. Un frutto che rimane e può continuare a fecondare altre vite.Entrare in ciò che Dio vuole è fondamentale per ogni esistenza. Dio parla innanzitutto attraverso i fatti. Entrare in questi fatti, che sono più grandi dei sentimenti, ci permette di entrare in una visione vera di noi stessi e del mondo. Stando accanto a don Giussa-ni ci si accorgeva di iniziare a considerare in modo nuovo, realistico e positivo, i fatti, la realtà e, pian piano, si conosceva il Padre che attraverso quei fatti interpellava la nostra vita. Si imparava ad obbedire a Dio, ad entrare nella vita di colui che vive. Ecco allora la ragione più profonda per cui possiamo affermare che don Giussani vive anco-ra: perché si è lasciato prendere da Cristo che è il vivente.

Qualche giorno fa ho incontrato una grande scrittrice cristiana, Elena Bono. Ha ormai più di novanta anni, ma si ricordava ancora con grande lucidità il suo incontro con don Giussani. L’aveva conosciuto negli anni Settanta a Chiavari ed era stata così impressionata dalla sua personalità che ha sentito il desiderio di fissare per sempre quel momento in una poesia. «Il sorridente illuminato»: così in quei versi definisce don Giussani. Mi ha molto colpito il fatto che, seppur in un incontro abbastanza fugace, ella sia riuscita a cogliere un aspetto importante, direi centrale, della personalità di don Giussani: poiché non c’è nulla che sia perfetto – scrive la Bono – l’uomo può amarsi e amare solo quando si scopre amato gratuitamente da Dio. La suprema imitazione di Dio è dunque il perdono. Nessuno si ama veramente, […] / Di qui nasce il deserto / dentro e fuori di voi. / Ma tu imita Iddio / nella misericordia / che è la suprema Perfe-zione. / Va’ e perdona te stesso, - / sorrise a lui l’Illuminato (Elena Bono, Il magrissimo asceta fece un interminabile cammino, in Poesie. Opera omnia, Le Mani, Genova 2007, 408).

Amen.

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Omelia nella IV domenica di Quaresima (benedizione della nuova chiesa di Baragalla)

Baragalla, Parrocchia del Sacro Cuore, 10 marzo 2013

Cari fratelli e sorelle,ringrazio Dio che mi dà l’opportunità di incontrarvi e di benedire questa chiesa – che

d’ora in poi, vi vedrà radunati per la celebrazione eucaristica e per tanti altri importanti appuntamenti della vostra vita – in questo giorno del figliol prodigo. Preferisco leggere questo vangelo attraverso lo sguardo del Padre e chiamarlo “Vangelo del Padre mise-ricordioso”. È lui il vero protagonista di questa vicenda e noi diventiamo protagonisti soltanto se entriamo dentro la sua azione, se entriamo dentro il suo cammino verso di noi.

Saluto con affetto il parroco, don Luciano Pirondini, e i suoi collaboratori, in partico-lare don Emilio Perin, sempre pronto a servire le necessità della Parrocchia.

Saluto e ringrazio per il loro lavoro attento e paziente l’architetto, dott. Raffin, e il direttore dei lavori, dott. Montanari assieme ai loro collaboratori. Il dott. Panizzi, il dott. Ferrarini, l’artista Massimo Poldelmengo, i geometri e le maestranze dell’Impresa Teca: i dottori Fieni, Lusenti, Manzini, Maffei e Mantegazza. Ringrazio tutti gli ingegne-ri progettisti, i consulenti e tutti coloro che, a diverso titolo, con la loro professionalità e dedizione hanno collaborato alla costruzione di questo tempio.

Il vangelo dell’amore misericordioso è il vangelo centrale di tutto il cristianesimo. Misericordia: dobbiamo capire bene che cosa sia questa esperienza, da non confon-dere con un semplice umanesimo o, peggio ancora, con una considerazione della vita in cui è assente l’amore per la verità, dove bene e male non si distinguono più.

L’amore misericordioso è innanzitutto Dio e la sua opera. Noi siamo i figli di questo Padre. Il Padre ci ama, ci tiene nella sua casa dove ci rende partecipi di tutti i suoi beni. Questa è la sua principale caratteristica: ciò che è mio è anche tuo. Ciò è vero innanzitutto nei confronti del Figlio unigenito. Il Padre da sempre dona tutto se stesso al Figlio e il Figlio lo riama donando tutto se stesso al Padre. È soltanto in questo dia-logo eterno che possiamo comprendere qualcosa della creazione del mondo e della passione, morte e resurrezione di Gesù. Egli ha mandato il Figlio nel mondo perché anche noi potessimo diventare figli, perché anche per noi fosse vero ciò che egli ha vissuto con il suo Unigenito, perché tutto il suo essere potesse diventare nostro, tutta la sua vita nostra.

Ma egli non fa piovere su di noi i suoi doni come su un mondo inerte, passivo, sola-

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mente ricettivo. Egli vuole la nostra collaborazione, la collaborazione della nostra liber-tà. Per questo accetta il rischio del figlio che vuole partire. Gli dà la sua parte di eredità e lascia che si allontani dalla casa. Conosce bene i pericoli che il figlio può incontrare, ma non lo trattiene: sa che ciò che ha vissuto col padre è sufficiente per alimentare il suo cuore e la sua mente, sa anche che se egli non si incontra con la realtà della vita quotidiana, con i suoi problemi, con le sue sfide, con le sue difficoltà, ciò che ha vissuto con lui non sarà mai veramente un suo personale convincimento e godimento. Dio vuole che abbiamo a incontrarlo come persone che incontrano una persona. Non ha paura della nostra libertà, non ha paura dei nostri errori, anche dei nostri peccati, dei nostri rifiuti. Egli sa che proprio in fondo ai nostri errori e ai nostri rifiuti possiamo vedere ancora Lui e possiamo iniziare il cammino del ritorno.

Ciò che mi colpisce, nella vicenda del figliol prodigo, non è tanto la sua esperien-za di dissipazione ma, all’opposto, il fatto che la memoria del padre non lo abbia mai abbandonato. Nel fondo del suo cuore c’è il padre. E proprio nel momento in cui si sente abbandonato da tutti, in cui è diventato come una bestia – costretto a cibarsi dello stesso cibo degli animali, anzi, a non avere neppure quello – si alzò e andò da suo padre. La libertà è certamente anche la decisione di allontanarci da casa, per far nostro, verificare, vagliare tutto quello che abbiamo ricevuto, ma libertà è soprattutto e più ancora riconoscere i legami d’amore che ci costituiscono, i legami affettivi pro-fondi che fanno di noi una persona in rapporto fecondo, ricettivo e oblativo con altre persone. Per questo si alzò e tornò da suo padre: perché sentiva dentro di sé che la presenza del padre lo costituiva.

Cari fratelli e sorelle,oggi noi benediciamo questa chiesa, una chiesa nuova, grande, bella, che è stata

lungamente voluta, anzi, sognata, anche come centro di un’attività pastorale che com-prende diverse parrocchie e diverse chiese. Dio vuole stabilire la sua casa tra di noi non perché rimaniamo chiusi in essa, ma per mandarci nel mondo. Noi sappiamo che dovunque è la sua casa, ma sappiamo anche che per imparare a riconoscerlo dovun-que dobbiamo cominciare a riconoscerlo qui, a riconoscerci tra di noi. Noi siamo la sua casa, la sua Chiesa, alimentata dalla sua parola e dall’eucarestia.

Quando tra qualche mese avremo la possibilità di consacrare questa chiesa, vedre-mo ritornare continuamente, nella liturgia della consacrazione, l’immagine splendida della Gerusalemme celeste che scende sulla terra: la Chiesa. Essa è adorna di tutti i doni di Cristo e di tutti i nostri doni. Accade a noi ciò che accade ai figli del Padre della parabola. La Chiesa, come afferma san Paolo (cfr. 1Cor, 12 ), è ricca di tutti i nostri

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carismi, carismi diversi, che tutti devono essere accolti, vagliati e valorizzati per la co-struzione della comunità.

Vorrei che in questa giornata del Padre misericordioso vi sentiste partecipi di tutta la Chiesa universale che prega per l’elezione del nuovo Papa, vi sentiste partecipi della Chiesa diocesana e in particolare sosteniate l’opera del Vescovo con la vostra pre-ghiera, con il vostro consiglio e il vostro aiuto. Vi sentiste partecipi della sollecitudine pastorale del vostro parroco e dei sacerdoti che qui con lui lavorano. Questa casa di Dio fra gli uomini possa veramente essere e diventare sempre di più un luogo di comu-nione vissuta, di quella comunione che nasce dal battesimo che ci fa una sola cosa in Cristo (cfr. Ef 4,1-6), che è alimentata dai sacramenti della Penitenza e dell’Eucarestia e vive attraverso tutte le diverse vocazioni, religiose e laicali, che cerca di esprimere nella carità il fascino della fede, così che gli uomini possano realmente, come ha detto Gesù, raccogliersi all’ombra di questo albero (cfr. Mc 4,32), possano trovare qui, in questa vostra casa, anche la loro casa e camminare con voi verso il Padre che tutti ci attende.

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Trascrizione dell’omelia per la Domenica delle Palme

Cattedrale di Reggio Emilia, 24 marzo 2013

Cari fratelli e sorelle,

abbiamo partecipato in anticipo al mistero della Settimana Santa: attraverso le letture di questa Messa, in particolare la lettura del Passio, abbiamo vissuto con Gesù il mi-stero dell’iniquità e della luce. L’intera Settimana Santa si è dispiegata davanti a noi: mistero di Cristo, della Sua libera donazione, ma anche mistero di ogni uomo, di ogni vita umana, perché soltanto nella luce di Gesù, di ciò che è accaduto a Lui, di ciò che Lui ha vissuto, possiamo comprendere noi stessi.

La Settimana Santa che oggi si apre non è qualcosa di periferico, di occasionale per la nostra esistenza e per la vita stessa dell’universo: tutto l’universo – dal più piccolo cuore dell’uomo all’immenso ammasso dei pianeti, delle stelle e delle galassie – ruota attorno alla croce. Tutto, consapevolmente o inconsapevolmente, trova lì il suo punto di stabilità e di spiegazione. Perché tutto, infine, si racchiude nelle parole che abbiamo ascoltato nella lettera di san Paolo ai cristiani di Filippi: caduta e ritorno.

Caduta dell’uomo che non ha accettato Dio, che fin dall’inizio ha voluto porsi come alternativa a Dio e in questo modo ha trascinato con sé, verso il basso, tutto il mondo; per questo sono nate le divisioni, gli omicidi, le guerre, le confusioni, i dissidi tra gli uo-mini e le nazioni. Ma, nella pienezza dei tempi, c’è stato un altro abbassamento, non più dell’uomo verso la morte, ma di Dio verso la vita. Dio si è abbassato, si è fatto Lui stesso uomo, ha condiviso la nostra fragilità, ha assunto su di sé la nostra mortalità, ha portato su di sé i nostri peccati e infine è stato innalzato sulla croce perché tutto questo – umanità, fragilità, mortalità, peccato – fosse svuotato dall’interno e gli uomini, salvati, potessero riconoscerlo come il loro Signore.

Quindi questo mistero di abbassamento terribile dell’uomo, nel mistero di condivisione da parte di Dio, è diventato mistero d’innalzamento. Cristo è stato innalzato sulla croce ed è stato innalzato nella gloria del Padre: con la Sua obbedienza ha ottenuto per Sé la gloria in cui Egli vuole fare entrare ciascuno di noi.

Come possiamo entrare nella sorte stessa del Figlio, che ora siede alla destra del Padre, rivivendo con Lui la vicenda della Sua passione, morte e risurrezione? Dio sta-bilisce per ciascuno di noi una strada di partecipazione, a noi spetta soltanto l’umiltà di entrarvi, di riconoscerla, sapendo che siamo e saremo sostenuti da Lui. Si spalanca allora davanti a noi questa strana liturgia della Domenica delle Palme in cui è anticipa-

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ta tutta la realtà di sangue che Cristo dovrà vivere. In realtà la cornice di questa liturgia è una cornice di luce, di festa, di osanna. Come nella realtà della Trasfigurazione, anche nella Domenica delle Palme Gesù vive un anticipo del suo innalzamento e della luce gioiosa e gloriosa che lo accompagnerà fino al Padre: sono le voci di coloro che lo accolgono, sono i loro canti, le loro grida, sono i bambini che fanno festa, i tappeti che vengono stesi, i rami di ulivo e di palma che sono tagliati e, nel timido sole della primavera che inizia, fanno corona a questo Re così particolare che entra per regnare su Gerusalemme attraverso l’umiltà di un asino, non attraverso le grandi bardature de-gli imperatori. Il Suo corteo sono pochi uomini e donne, alcuni bambini; la festa di cui il vangelo parla, in realtà, non è avvertita dai più di Gerusalemme, è avvertita soltanto da quelli che stanno intorno a Gesù.

Questa Domenica delle Palme ci dice che Cristo ci accompagna, già adesso, nella strada del nostro abbassamento e del nostro innalzarci fino a Lui. Prima della Passio-ne c’è la luce, c’è un anticipo di resurrezione, prima del dolore c’è la gioia. Egli ci dona già ora la Sua grazia, l’anticipo della festa finale, perché possiamo essere confortati nei giorni della difficoltà e della prova, nei giorni in cui Egli ci chiederà di partecipare più profondamente alla Sua passione. In questo modo tutta la comunità cristiana fa l’esperienza che il Signore risorto è con lei. Anche se noi vivremo adesso i giorni della passione, li vivremo nella piena consapevolezza ed esperienza che il Signore è già risorto. Gesù ci attrae, ci perdona, ci accompagna, ci ha già dato la Sua vita e ci per-mette perciò di attraversare anche la valle oscura delle difficoltà e delle prove.

Auguro a tutti voi e a tutta la nostra comunità diocesana di poter vivere questa espe-rienza di passione e di luce così da partecipare intensamente e pienamente alla gloria della Risurrezione.

Sia lodato Gesù Cristo.

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Omelia per la Messa Crismale

Cattedrale di Reggio Emilia, 28 marzo 2013

Cari fratelli e figli,lasciate che vi chiami così. Innanzitutto fratelli; se non fosse per questa comune

figliolanza dal Padre, come potrei essere vostro vescovo? Conta innanzitutto ciò che sono con voi ed è questo che fonda ciò che posso essere per voi.

In questo senso, allora, chiamandovi fratelli posso anche chiamarvi figli. Non conta l’età anagrafica; solo nella Chiesa, penso, si può essere padri anche di persone più anziane. Conta la disponibilità del cuore ad abbracciare gli altri, a sentirli come parte della propria carne e del proprio spirito, come parte improvvisamente donata da Dio alla propria vita e perciò dono prezioso.

Cari fratelli e figli, è per me motivo di grande gioia e consolazione celebrare assie-me a voi questa liturgia nella quale siamo condotti a riscoprire il dono che è stato fatto a ciascuno di noi, il dono della nostra vocazione.

È la prima volta, da quando sono a Reggio Emilia, che il presbiterio diocesano si ritrova attorno al Vescovo. È un’occasione privilegiata per iniziare a considerare as-sieme la bellezza della vita sacerdotale. Assieme ai sacerdoti voglio salutare i diaconi che questa mattina partecipano alla liturgia della messa crismale. La vostra presenza così numerosa è una peculiarità della nostra Chiesa diocesana. Voi potete dare un contributo molto importante alla realtà delle parrocchie e delle comunità, come tramite tra i sacerdoti e il popolo.

Nelle parole di questa mattina voglio riferirmi soprattutto ai sacerdoti.Durante questi primi quattro mesi trascorsi con voi, sia in incontri personali che nei

raduni dei vicariati, che terminerò a giugno, ho potuto incontrare molti di voi. Soprattut-to ho potuto ascoltarvi e cominciare a conoscervi.

Se dovessi racchiudere in una sola frase ciò che più mi ha colpito in questo ini-zio del mio episcopato reggiano-guastallese, direi: la fedeltà dei sacerdoti. Attraverso tante biografie che mi avete regalato, ho potuto cominciare a conoscere grandi figure sacerdotali che hanno arricchito la nostra Chiesa in tutto il Novecento. Ma è soprattutto nell’incontro personale che ho ammirato la vostra fede, la vostra laboriosità, la vostra capacità di adattamento alla diversità dei tempi. Sono soprattutto ammirato da coloro che ben oltre i settanta e gli ottanta anni svolgono ancora un attivo e intelligente mini-stero sacerdotale. A tutti loro il mio grazie più affettuoso. Nello stesso tempo rivolgo il mio saluto a quanti sono malati, giacciono in ospedale o in una casa di cura, rispon-dendo in questo modo, non meno importante, alla vocazione del Signore.

Dalla vostra laboriosità è nata nei decenni una grande quantità di opere: dagli asili alle scuole, dagli oratori alle case di carità, a molteplici forme di attenzione ai più po-veri, ai più abbandonati, ai più soli. La carità vissuta è una gloria del sacerdozio nella nostra diocesi. Essa ha bisogno continuamente di ritrovare le proprie radici, le proprie autentiche ragioni per poter essere efficace testimonianza di Cristo.

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Senza la carità – lo sappiamo – la fede è morta. Ma senza la fede, che si esprime nella carità, il nostro amore si ridurrebbe a un anelito umanitario che si spegnerebbe presto, lasciandoci stanchi e delusi. Rendo grazie, dunque, a Dio per la vostra vita e la vostra testimonianza e, nello stesso tempo, chiedo al Signore il dono di vocazioni sacerdotali autentiche, pienamente umane e realizzate. Così che possano sostituire le cordate di sacerdoti più anziani. Nello stesso tempo chiedo a Dio la luce per ripensare assieme a voi le necessità della diocesi, per concentrarmi su quelle più importanti. Ver-so una essenzialità della nostra presenza centrata sull’evangelizzazione che i tempi e l’esempio stesso del magistero di Pietro negli ultimi decenni, in particolare ora di papa Francesco, richiedono.

La vocazione sacerdotale è una delle strade più alte e più belle che l’uomo possa percorrere. Essa vive di una comunione continua con Dio e con gli uomini. Natural-mente, come tutte le vocazioni, può andare soggetta alla stanchezza, alla routine, allo scandalo, alle debolezze umane. Se adeguatamente sostenuta e aiutata, costituisce un ponte tra il cielo e la terra, tra gli uomini e Dio, rappresenta un nodo fondamentale della storia santa e anche una figura importante del cammino verso l’unità tra gli uo-mini.

Il sacerdozio ordinato è stato voluto da Gesù quando ha istituito l’Eucarestia e ha detto agli apostoli fate questo in memoria di me (Lc 22,19; 1Cor 11,24-25); quando li ha inviati in tutto il mondo ad annunciare l’evento dell’incarnazione, morte e resurrezione del Figlio di Dio fatto uomo (cfr. Mt 10,5-20; Lc 10,1-9; 24,44-50); quando li ha mandati a battezzare e a perdonare i peccati (cfr. Mt 28,19; Gv 20,21-23).

Il ministero sacerdotale è stato voluto da Gesù come servizio al suo corpo, al popo-lo cristiano. Durante la sua predicazione e i tre anni trascorsi con gli apostoli, il Figlio di Dio ha operato in loro un cambiamento di mentalità: non li ha chiamati per renderli partecipi di un potere, ma perché la loro vita fosse spesa interamente a imitazione di quella del maestro. Affinché gli uomini conoscessero e amassero Dio.

Gli apostoli e i loro successori, i vescovi, del cui sacerdozio partecipano i preti, hanno imparato da Gesù a guardare in modo nuovo il mondo e la storia. Il sacerdote è profeta, è colui che aiuta gli uomini a vedere tutto con lo sguardo del Padre, a ricono-scere il disegno di Dio che guida la storia. A vedere all’opera la grazia del Padre che libera e salva il suo popolo.

Ma egli non si limita a questo. Apre i cuori e la mente degli uomini per riversarvi i doni che ha ricevuto da Gesù. Il prete, come non ha una sapienza propria da comuni-care, così non ha regali propri da fare agli uomini. La sua vita è tutta relativa a Gesù da cui riceve parole e grazie da trasmettere al mondo. Le grazie fondamentali di cui il sacerdote è dispensatore sono i sacramenti. Voluti da Gesù, trasmettono la sua vita agli uomini, i quali, attraverso il perdono dei peccati, entrano in un’assimilazione alla

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persona stessa di Cristo nel dono dell’Eucarestia. Tocchiamo qui il cuore della vita sacerdotale, la parte più alta e misteriosa della missione del prete. Egli è chiamato a prestare la sua voce al Salvatore. Attraverso le sue parole i peccati sono perdonati, il pane e il vino diventano corpo e sangue di Cristo. Tutto ciò avviene per la potenza del-lo Spirito di Dio e non è messo in discussione dalla fragilità e dai peccati del sacerdote.

Il nostro primo compito dunque, ciò per cui Cristo ci ha chiamati e assimilati a sé, è la celebrazione dei sacramenti, innanzitutto dell’Eucarestia e della Penitenza. Tutto il resto lo possono fare anche altre persone. E invece spesso la nostra vita si lascia attirare da altro, da dinamiche mondane che ci conducono nell’iperattività. Tutto ciò, mentre ci dà l’illusione di costruire, in realtà distrugge la nostra vita e quella di chi ci sta vicino. Anziché avvicinarci, ci allontana dagli uomini, dai loro veri bisogni e dalla nostra stessa vocazione.

Celebrare la Messa, dunque, è l’azione più importante che abbiamo da compiere nella giornata. Essa certamente non è la sola, ma ad essa si ricollegano, come attra-verso tanti fili invisibili, tutti gli istanti della nostra vita.

Nella liturgia della santa Messa rivivono nel tempo i misteri della vita di Cristo. Tutto si ripresenta non in una ripetizione, ma in un accadimento che rivela la contempora-neità di Cristo ad ogni momento della storia. Nella liturgia Gesù è l’unico attore: noi gli prestiamo il nostro corpo, la nostra voce, la nostra intelligenza, la nostra libertà. È questa la ragione fondamentale per cui le modalità della celebrazione liturgica devono lasciare emergere l’azione di Cristo, le sue parole, così come ci sono consegnate dalla Tradizione della Chiesa. Ogni protagonismo del sacerdote è fuori luogo. Ogni parola aggiunta rispetto a quelle prescritte, ogni innovazione arbitraria attira forse l’attenzione del popolo su chi celebra, ma la distoglie certamente da Cristo.

La celebrazione della Messa non è mai fine a se stessa, ma è culmen et fons (Sa-crosanctum Conciulium, n. 10). La Messa è l’origine della comunione e rende noi che la viviamo attori di una comunione viva all’interno del popolo cristiano. Una liturgia che si chiudesse in se stessa, che si autocelebrasse, che si compiacesse della propria bellezza, non sarebbe una liturgia cristiana.

Dobbiamo, dunque, riscoprire il valore comunionale della Messa senza mai di-sgiungerlo dal suo valore sacrificale. L’Eucarestia è il sacrificio della croce. Il sacerdote non può dire: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, senza accettare anche di essere assimilato in modo particolare, e in una misura che spetta a Dio decidere, alla passione di Gesù. A noi preti è chiesto, come a molti uomini, di partecipare al dolore dei nostri fratelli e talvolta anche di portare la croce di chi non può o non sa portarla.

Ma nella Messa vive anche l’evento della resurrezione. Cristo non si è limitato a morire per noi. Egli è morto donandosi e ci ha lasciato la strada per prendere parte alla sua donazione.

Nell’Eucarestia non viviamo soltanto il mistero della morte di Cristo, ma anche la

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risposta che il Padre ha dato all’atto di obbedienza del Figlio. Egli è diventato per noi resurrezione, si è fatto contemporaneo ad ogni istante della nostra vita e attraverso di noi vuole diventare resurrezione nella vita degli uomini.

Per questo l’Eucarestia è un vero banchetto che realizza la comunione. Cari fratelli sacerdoti, quale responsabilità abbiamo! Ma prima e più ancora: quale

dono abbiamo ricevuto! Vi auguro di riscoprire continuamente la bellezza e il fascino della nostra vita. La Madonna ci ottenga le grazie di cui abbiamo bisogno e realizzi un’unità sempre più profonda tra noi attraverso il mistero che celebriamo.

Amen.

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Omelia per la santa Messa in coena DominiCattedrale di Reggio Emilia, 28 marzo 2013

Cari fratelli e sorelle,il vangelo che abbiamo appena ascoltato ci riporta alle ultime ore della vita di Gesù

con gli apostoli. In queste ore le parole e i gesti compiuti da Cristo si rivestono di una solennità tutta particolare e ci svelano il senso profondo della sua missione e dell’ami-cizia che egli ha vissuto con i suoi.

L’evangelista Giovanni introduce la lavanda dei piedi con queste parole: Gesù… avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13,1). Li amò, cioè, di un amore che da questo momento in poi non avrebbe più avuto fine. Li amò introducendoli nell’unica esperienza capace di attraversare il tempo e lo spazio di quel momento: la carità che è la vita di Dio. Gesù dona loro la sua vita.

Il Figlio di Dio, che si era abbassato nell’incarnazione, sembra volersi abbassare ulteriormente: dopo aver assunto la condizione di servo – spogliò se stesso assumen-do la condizione di servo (Fil 2,7) scrive san Paolo – lava ora i piedi dei suoi apostoli assumendo così anche l’atteggiamento del servo. Vuole essere il servo e lo strumento della loro comunione. Vuole insegnare loro che la comunione è il bene supremo di fronte a cui tutto deve piegarsi. Egli mostra cosa significhi accogliere l’altro, accompa-gnarlo per condurlo verso Dio. Nello stesso tempo, in questa lavanda dei piedi, Gesù vuole parlarci di ciò che tra poco accadrà alla sua vita: Cristo è venuto per lavare il peccato del mondo.

Per comprendere quanto sta avvenendo dobbiamo leggere questo brano del van-gelo di Giovanni assieme alla descrizione che gli altri evangelisti fanno di quest’ultima cena con gli apostoli. Nel quarto vangelo, infatti, la lavanda dei piedi prende il posto che negli altri ha l’istituzione dell’Eucarestia. Giovanni non ha bisogno di raccontarla. Già ne aveva parlato in un capitolo precedente del suo vangelo. Essa, come abbiamo ascoltato da san Paolo (cfr. 1Cor 11,23-26), era ormai divenuta esperienza centrale nella vita delle prime comunità cristiane. Il discepolo amato, così, ha la possibilità di completare il racconto di quelle ore, aiutandoci ad affondare lo sguardo nel significato profondo del sacramento che Gesù istituisce questa sera.

Sono due i fuochi che illuminano questo significato: il sacrificio e la comunione. Si tratta in realtà di un’unica esperienza che descrive ciò che avviene ogni volta che celebriamo la santa Messa.

Innanzitutto l’Eucarestia è sacrificio, la ripresentazione nel tempo dell’oblazione di Cristo. Non dobbiamo mai dimenticare che nella Messa riaccade il sacrificio della cro-ce attraverso cui Gesù ci dona il suo corpo e versa il suo sangue. Questa oblazione

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trova, però, il suo senso profondo nella comunione che genera: Gesù si offre per aprir-ci le porte della comunione col Padre e tra di noi. Non c’è unità possibile tra gli uomini che non discenda da questo sacrificio.

La Messa è dunque esperienza e fonte di comunione, non a caso l’Eucarestia è chiamata così dal popolo cristiano. Noi, che partecipiamo dell’unico pane, siamo un unico corpo, ci ricorda san Paolo (cfr. 1Cor 10,17). La comunione è innanzitutto la vita che il Figlio vive con il Padre nello Spirito Santo. Tale vita ci è comunicata nella dona-zione del Figlio di Dio fatto uomo.

Giovanni Paolo II, nella sua ultima enciclica – Ecclesia de Eucharistia – ha scritto: «l’efficacia salvifica del sacrificio si realizza in pienezza ricevendo il corpo e il sangue di Cristo. Il sacrificio… è orientato all’unione dei fedeli con Cristo attraverso la co-munione» (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 16). Da questo punto di vista l’eucarestia è anche «vero banchetto». Sacrificio e comunione sono due dimensioni di un’unica realtà.

Sant’Agostino nel De civitate Dei, spiegando l’identità fra sacrificio e comunione, dice che il vero sacrificio che la Chiesa ha da offrire al mondo è la comunione fra coloro che credono (cfr. Agostino di Ippona, De civitate Dei, X, 6).

Amore voglio, non sacrifici, non offerte, ma comunione con me, dice il Signore (cfr. Os 6,6).

Cari fratelli e sorelle,quanto abbiamo detto della Messa descrive quindi la vita stessa della Chiesa. An-

che nella Chiesa, infatti, la comunione nasce continuamente dal sacrificio. Essa è fatta di uomini chiamati ogni giorno a convertire i loro personali egoismi per affermare la comunione e così entrare in un orizzonte più ampio nel quale ognuno può ritrovare se stesso nel “noi” della comunità ecclesiale.

Chiediamo al Signore di sperimentare tutto ciò nella nostra Chiesa diocesana che questa sera gioisce anche per l’annuncio che il Santo Padre Francesco ha posto il suo sigillo definitivo sul martirio di Rolando Rivi. Possa l’offerta della sua vita ottenere da Dio una nuova nascita nella fede di questo popolo e una profonda riconciliazione dei cuori.

Chiediamo al Signore la grazia di rendere visibile la nostra comunione, di gioire per essa e riposare in quell’unità che rinasce continuamente dai sacramenti e ci rende una sola cosa in Cristo.

Amen.

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Omelia nell’Azione liturgica in passione DominiReggio Emilia – Basilica di san Prospero, 29 marzo 2013

Cari fratelli e sorelle,nel giorno del venerdì santo riviviamo il momento più terribile e assieme più glorioso

della storia del mondo, quello più buio e, nello stesso tempo, più luminoso. Un momen-to che ha come protagonista Gesù. Egli si innalza gigantesco e umilissimo sulla scena di Gerusalemme. Al centro di tutto sta il suo dialogo con il Padre, a cui possiamo avere accesso soltanto nella misura in cui egli ce ne concede la grazia. Il Padre ha chiesto al Figlio di assumere la carne umana per prendere su di sé, sulle sue spalle – le spalle del Pastore buono – la pecorella smarrita dell’umanità. Per prendere su di sé i peccati degli uomini. Per riconciliare Dio e l’umanità, per reintegrare l’unità tra il cielo e la terra spezzata a causa del peccato di Adamo.

Il Figlio vive liberamente questa obbedienza. Fatto obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,8). Io do la mia vita liberamente. La do e la riprendo (cfr. Gv 10,18).

Questo dialogo misterioso di obbedienza e libertà riguarda ciascuno di noi. Non è un dialogo intellettuale, filosofico. È un dialogo che nasce dall’amore, perché Dio è amore (cfr. 1Gv 4,8) e si consuma nell’amore: li amò sino alla fine (Gv 13,1).

Al centro dell’interesse di Dio, del rapporto tra Padre e Figlio nello Spirito, vi è ogni uomo. Un interesse per ciascuno a lungo coltivato da Dio. Già nella creazione appare questo curvarsi di Dio sull’universo che Egli ha creato. Più ancora questa sua passione per l’uomo appare nella storia d’Israele, nei patriarchi, da Abramo a Isacco, a Giacob-be; nei Re; nei profeti. Abbiamo ascoltato le parole del profeta Isaia, i capitoli dedicati al misterioso servo sofferente, sfigurato e assieme esaltato e onorato. In lui appare, con impressionante trasparenza, la vicenda del Figlio di Dio fatto uomo: si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori. È stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Ma ecco, infine, una grande promessa: per le sue piaghe siamo stati guariti (cfr. Is 53,4-5). Divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, dice la lettera agli Ebrei (Eb 5,9).

La vicenda di Gesù – che oggi siamo chiamati a guardare, a contemplare, affinché diventi oggetto di amore e di gratitudine commossa più che di ragionamento – la vi-cenda di Gesù esce dallo spazio misterioso del rapporto tra Padre e Figlio ed entra ad illuminare e interrogare la vita di ciascun fedele, anzi la vita di ogni uomo.

Ci svela la realtà della nostra disobbedienza, del nostro peccato, la realtà del male con le sue conseguenze di dolore e di morte, e la realtà del perdono, della misericordia che Cristo ottiene per tutti noi dalla croce della sua passione.

La realtà del male è certamente la presenza più contraddittoria e apparentemente incomprensibile. Contraddice la vita, la felicità, cui tutti ci sentiamo chiamati. Eppure, nello stesso tempo, lo sentiamo dentro di noi e lo vediamo potentemente e sfacciata-

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mente all’opera nel mondo, con la protervia del vincitore.Lo vediamo nelle guerre nate dall’insaziabilità del potere e dell’avere, nelle uccisio-

ni dei deboli, degli indifesi, nella soppressione della vita che avrebbe diritto di nascere o che è giudicata un peso nella vecchiaia, lo vediamo nelle sofferenze dei poveri, di chi non ha casa, non ha lavoro, di chi è malato, solo, disperato, di chi è colpito per la pro-pria fede, di chi è privato ingiustamente della libertà o dell’onore. E la lista, purtroppo, dovrebbe essere molto più lunga.

Il male tra noi ha tante cause e non possiamo ora prenderle in considerazione. Cristo è venuto a combattere e sconfiggere la radice di tutti i mali: Satana e l’orgoglio della sua ribellione a Dio.

Quando noi confessiamo umilmente le nostre colpe e chiediamo perdono a Dio e ai fratelli, entriamo in questa vittoria sul male che Cristo ha ottenuto per noi sulla croce.

Ma perché, allora, esiste ancora il male con le sue nefaste conseguenze?La vittoria di Cristo deve essere accolta liberamente da ogni uomo, deve entrare in

noi e cambiare le strutture del nostro cuore e della mente. Attraverso di noi cambiare le strutture di morte della storia umana. È un cammino lungo, che Dio compie con noi e, spesso, al nostro posto, operando con la sua grazia ciò che noi ancora non riusciamo a vivere. Ma è un cammino pieno di fiducia nella potenza di Dio che non ci lascia mai soli.

Nella croce di Cristo egli ha manifestato la sua volontà irreversibile di salvezza, di pienezza, di bene, di perdono per l’uomo. Ora spetta a noi aprirci a questo dono, con umiltà, gratitudine, rinnovando la nostra confidente preghiera: “conserva, Signore, co-loro che tu hai redento. Conservali nella luce, nella comunione, nella pace del cuore e della mente”.

Amen.

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Omelia nella solenne Veglia PasqualeCattedrale di Reggio Emilia, 30 marzo 2013

Cari fratelli e sorelle,se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo,

risorto dai morti, non muore più. La morte non ha più potere su di lui (Rom 6,9). Queste parole di san Paolo ai cristiani di Roma che abbiamo appena ascoltato, illuminano il momento che stiamo vivendo, illuminano questa notte di resurrezione, i battesimi che tra poco celebreremo, la nostra stessa vita nella sua continua ricerca di salvezza, di pace, di comunione.

Cominciamo la nostra riflessione proprio dai battesimi di questa notte. Che cosa ci insegnano? Che cosa ci mostrano? Essi, in modo evidente ci insegnano che Cristo è vivo. Proprio ciò che ha detto san Paolo – risorto dai morti non muore più. Del fatto che egli sia vivo abbiamo concreta testimonianza nella vita di questi nostri amici che durante questa notte santa ricevono il santo battesimo. Hanno incontrato dei cristiani. Talvolta il fidanzato o la fidanzata, oppure un amico. Sono rimasti affascinanti dalla loro vita, hanno capito che questa loro esistenza non si spiegava soltanto con un cuore buono o una mente più generosa, ma che aveva alla sua origine l’opera di Dio mani-festatasi nel Figlio Gesù Cristo.

Gesù Cristo è vivo, dicono a noi questi nostri fratelli.

Allora perché in tanti momenti della nostra vita non assaporiamo questa certezza, ci sembra che tutto decada nell’ombra, nella morte, nella fatica, nella delusione?

Abbiamo visto nei vangeli della resurrezione che la fede è un cammino, un itinerario che deve continuamente attraversare e superare l’esperienza dell’incredulità. Quando le donne, che per prime sono accorse al sepolcro, corrono dagli apostoli per raccon-tare le parole dell’angelo – non è qui, è risorto (Lc 24,6) – gli apostoli che pure ave-vano ascoltato la profezia della resurrezione dalle parole stesse di Gesù, si mostrano increduli. Solo Pietro corse al sepolcro. Quando Pietro e Giovanni corrono a loro volta al sepolcro e vedono ciò che le donne avevano visto prima di loro, finalmente comin-ciarono a credere. Infatti, dice l’evangelista Giovanni, non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti (Gv 20,9).

Anche noi in questo anno della fede siamo chiamati a ripercorrere l’itinerario che hanno compiuto gli apostoli e le donne, che hanno compiuto milioni e milioni di per-sone, permettendo così anche a noi di diventare cristiani. Ogni giorno siamo chiamati a ritrovare i segni della resurrezione di Gesù che opera generando negli uomini fede, carità e speranza. Là dove nell’uomo maturano queste virtù, che sono opera di Dio e di Dio soltanto, la persona viene sottratta alla corruzione della morte e inizia un percorso di comunione con Dio e con gli uomini, di pace, di gioia, che è l’inizio anticipato della

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vita futura. Anche se dobbiamo passare attraverso dolori, fatiche e infine la morte, sappiamo che in queste esperienze dolorose la vita non ci è tolta, ma semplicemente veniamo trasformati e resi sempre più simili al corpo di luce di Gesù risorto.

La resurrezione di Gesù non è un’illusione, la sua veridicità storica è documenta-ta dagli uomini e dalle donne di che vivono di lui e che vivono per lui, che donano la propria vita generosamente, per la nascita, la crescita e l’educazione dei figli, per la testimonianza di Cristo nel lavoro, nella fedeltà coniugale, nelle opere di misericordia spirituali e corporali, nella preghiera, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore.

Cari fratelli e sorelle, rinnovando ora la grazia del nostro battesimo assieme a que-sti nostri fratelli che tra poco rinasceranno dall’acqua e dallo Spirito, vi auguro di spe-rimentare nella vostra vita la luce e la pace che promanano dalla resurrezione del Signore vivo e operante in mezzo a noi.

Buona Pasqua a tutti!

Amen.

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Omelia nel giorno di PasquaTensostruttura di Guastalla, 31 marzo 2013

Cari fratelli e sorelle,Gesù, che per noi uomini e per la nostra salvezza si è lasciato inchiodare alla croce,

è risorto! Questo annuncio, di fronte al quale si trovarono per la prima volta le donne che andarono al sepolcro, ci raggiunge oggi con la stessa vivezza di allora: Cristo è veramente risorto ed è vivo!

Anche noi, come le donne nel vangelo che abbiamo ascoltato, siamo invitati dall’an-gelo a non cercare tra i morti colui che è vivo.

Nel vangelo, soprattutto nelle letture che la liturgia ci propone nel tempo di Pasqua che oggi ha inizio, vengono raccontate alcune apparizioni di Cristo risorto. Nei cin-quanta giorni che separano la sua resurrezione dalla definitiva ascensione al Padre (cfr. At 1, 3), egli appare a persone singole o a gruppi, in situazioni e luoghi diversi, in Galilea e in Giudea, all’interno di case o all’aperto, lungo una strada o sulla riva del lago. Perché appare Gesù? Non avrebbe potuto affidare l’annuncio della sua resur-rezione solo agli angeli? D’altra parte lo aveva detto più volte ai suoi apostoli e ora il sepolcro vuoto poteva bastare come prova storica di quanto aveva loro preannunciato. Invece Gesù si mostra, si fa vedere, toccare, mangia ancora con i suoi… Egli appare per dare loro la testimonianza inequivocabile che proprio lui che avevano visto morire in croce, proprio lui che portava ancora il segno dei chiodi e della ferita del costato, ora è vivo e non muore più. E inizia ad essere presente in una forma nuova nella loro vita.

Come dice Jean Danielou, «la vita del corpo risuscitato di Cristo è misteriosa» (J. Danielou, La risurrezione, Cantagalli, Siena 2008, 54). Innanzitutto egli non è più sog-getto allo spazio e al tempo. Nel suo corpo risorto lo spirito domina ormai interamente la materia. Rimane corporeo come prima, eppure può sottrarsi alla vista (cfr. Lc 24, 31), può passare attraverso muri o porte chiuse (cfr. Gv 20, 26): la materia non è an-nullata, ma è totalmente al servizio dello spirito.

Nessuno ha assistito alla resurrezione, molti invece hanno visto Gesù Risorto e la nostra fede si fonda in prima istanza sulla testimonianza di coloro che lo hanno veduto e toccato. Da questo punto di vista la resurrezione è un fatto storico particolare, che nessuno potrebbe negare. Persino un razionalista protestante come Strauss ammet-teva nel XIX secolo: «La formidabile sterzata, che dalla profonda depressione e totale disperazione causata dalla morte di Gesù portò alla forza della fede e all’entusiasmo con cui i primi discepoli lo annunciarono come Messia, non si potrebbe spiegare se nel frattempo non si fosse prodotto un avvenimento eccezionalmente incoraggiante» (D. F. Strauss, Das Leben Jesu kritisch bearbeitet, II, Tubingen 1840, 631-632). Le donne, gli apostoli, i discepoli e gli amici di Gesù non avrebbero potuto produrre un avvenimento simile. Non avrebbero potuto inventare la fede nel Risorto. Soprattutto,

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una menzogna artificiosamente costruita non avrebbe avuto la forza di spingere uo-mini e donne tanto semplici e impreparati a percorrere le strade del mondo intero per testimoniare, anche a costo della propria vita, la verità di Gesù presente. È dunque «il Risorto che personalmente suscita la fede» (D. Bonhoeffer, Cristologia Queriniana, Brescia 1990, 54). La nostra certezza non si fonda su racconti di visionari o creduloni, ma sulla travolgente testimonianza di persone che hanno visto Gesù risorto, sono stati assieme a lui, hanno persino mangiato con lui, hanno ascoltato la sua voce, hanno fatto esperienza del suo sguardo pieno di misericordia, di pace, di perdono e hanno capito che ciò che avevano vissuto con lui era destinato a non finire, a coinvolgere sempre più persone. Ed era possibile vivere assieme come lui aveva insegnato loro perché lui stesso continuava ad essere presente: dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt 18,20). Andate dunque e ammaestrate tutte le na-zioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28, 19-20).

Cari fratelli e sorelle, se Gesù è con noi, se lui è vivo qui in mezzo a noi, allora la nostra fede, che nasce dalla testimonianza degli apostoli, può fondarsi anche su un’e-sperienza personale. Egli, dopo la resurrezione, non è apparso a tutti, ma ad alcuni testimoni scelti. È questo il metodo di Dio: egli sceglie alcuni per arrivare a tutti. Così anche noi oggi siamo i testimoni che lui manda nel mondo per annunciare con la no-stra vita che egli è vivo, che la morte e il male non sono l’ultima parola. Egli ha vinto la morte e, se ci apriamo alla luce della sua redenzione, dona anche a noi di risorgere già ora da tutte le nostre morti quotidiane. Gesù Cristo, che ha assunto la nostra intera umanità, le nostre miserie, la nostra debolezza fino a morire come ogni uomo, con la sua resurrezione ha spalancato ad ognuno di noi la vita di Dio che non finisce. Egli – come abbiamo ascoltato da san Paolo – è la nostra Pasqua. Quello che è accaduto in lui è il destino di ogni uomo che a lui si affida. Siamo una “pasta nuova” – continua l’Apostolo (cfr. 1Cor 5,7). Dentro la nostra natura impregnata di peccato e di tenebra Gesù ha immesso un lievito nuovo capace di rinnovare la nostra vita dall’interno. Solo Dio poteva farci questo dono. L’uomo, con tutta la sua intelligenza, con tutta la sua forza, con tutto il suo desiderio, non poteva spostare la pietra che chiudeva come in un sepolcro la sua vita.

La certezza della vittoria di Cristo è ora una luce che ci permette di guardare con speranza alla nostra vita presente e anche a quella di coloro che ci hanno lasciato.

È questo il mio augurio per tutti voi, soprattutto per coloro che soffrono a causa della recente perdita dei loro cari nell’esplosione avvenuta qui a Guastalla. Questo è il mio augurio per le vostre famiglie e i vostri amici. Portate il mio saluto e il mio affetto a tutti coloro che non sono qui con noi, soprattutto agli ammalati.

Buona Pasqua!

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Omelia nella santa Messa di Pasqua per le ragazze sulla stradaPieve, 12 aprile 2013

Dear sisters, dear friends,

In the Gospel that we have just heard, Jesus presents himself as the good shepherd. The shepherd is one who makes a very close and affectionate relationship with his sheep. They are all his good, his unique possession. He cannot let himself lose a sin-gle one.

We are the sheep of Jesus. God became man, took on our mortal flesh, to look for us, so that we could be joined by his humanity and be loved and forgiven. He knows us, knows our weaknesses, and our sins, but he also knows our sorrows and repentan-ce. Above all, he knows our desire to meet him, to be embraced by him, to be introdu-ced, with the help of his grace, to a new life where we are not dominated anymore by violence and terror, where man and woman are not treated as objects to be exploited.

“Go, neither do I condemn you. From now on do not sin anymore” (Jn. 8:11). Jesus’ words to the adulterous woman who was about to be stoned, gives us great courage tonight. They are also his words to us.

With prayer, with the help of our brothers and sisters, we always come back to seek for Jesus, or rather, let us be searched and found by Him.

Amen.

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Trascrizione dell’omelia nella santa Messa a Fontanaluccia in occasione della visita ai luoghi di don Mario Prandi

Fontanaluccia, 20 aprile 2013

Cari fratelli e sorelle,si affollano in me tanti pensieri che sono andati crescendo negli ultimi tempi in atte-

sa di questo incontro, che ho molto desiderato. So di avere in voi dei figli e dei fratelli. Figli perché mi siete stati regalati: questa è

anche la grandezza della Chiesa, che si possono avere dei figli come regalo, senza aver fatto niente; regalo che don Mario fa alla mia vita. E poi anche fratelli, persone che con me camminano verso Dio, camminano in Dio e camminano mano nella mano per un aiuto reciproco a sostenerci nelle nostre debolezze, nelle nostre difficoltà e a rallegrarci assieme nelle nostre gioie.

Innanzitutto voglio salutare don Romano, Superiore di questa Comunità religiosa, e in lui saluto tutti coloro che ne fanno parte: i sacerdoti, le religiose, i fratelli, i laici e le famiglie.

In modo particolare saluto coloro che vivono nelle Case della Carità, un luogo dove vivere e trovare le ragioni per vivere.

Il primo motivo per cui sono venuto è pregare sulla tomba di don Mario e visitare i luoghi dove lui ha vissuto ed è nata quest’opera. Quando nella Chiesa nasce un’opera nuova è come se il Cielo e la Terra si toccassero. Dio manifesta la sua benevolenza verso gli uomini attraverso ciò che suscita nella vita di coloro che Lui sceglie; non li sceglie perché sono più perfetti di altri, ma perché, forse, sono più disponibili di altri alla Sua voce e alla Sua volontà. In questo modo essi diventano segni di Dio nel mondo.

Noi dobbiamo rinnovare sempre il nostro stupore davanti a questi uomini e a queste donne che Dio sceglie, uomini e donne che Gli permettono di ricreare un po’ il volto della Terra.

Abbiamo avuto la fortuna di ascoltare, questa mattina, due testi della liturgia, tratti dagli Atti degli Apostoli – il primo – e dal Vangelo di Giovanni – il secondo. Questi testi sono molto illuminanti per introdurci a comprendere cosa siano le Case della Carità.

Nel brano degli Atti ci vengono presentati due episodi della vita di Pietro, uno a Lid-da, l’altro a Giaffa. A Lidda guarisce un paralitico, a Giaffa resuscita una donna. Tutti e due questi incontri ci rivelano quanto Gesù abbia a cuore gli uomini: attraverso Pietro Gesù opera una guarigione, guarigione del corpo ma più profondamente guarigione dell’anima.

Penso che una Casa della Carità sia anzitutto il luogo in cui si viene accolti per essere guariti nella profondità del nostro male, per trovare Dio che guarisce. Le nostre

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malattie, le nostre debolezze il più delle volte rimangono, ma nel fondo di noi qualcosa accade. Siamo accolti come uomini e donne per poter essere accolti da Dio; in questo modo, già nel tempo, comincia quella guarigione profonda di noi stessi che è ciò che in fondo desideriamo. Infatti essere accolti, essere amati è il bisogno più profondo dell’uomo. Una Casa della Carità nasce per questo, perché altri uomini e donne pos-sano iniziare a fare questa esperienza. Noi non siamo polvere abbandonata nell’uni-verso, siamo invece accolti dalla mano di Dio attraverso la carità di altre persone.

Nel secondo episodio, che avviene a Giaffa, Pietro è chiamato per una donna che muore, una donna che lascia dietro di sé un grande segno della sua carità. Abbiamo visto infatti quanto Tabità si desse da fare perché attraverso le sue opere di tessitura, la comunità venisse aiutata e i più poveri fossero soccorsi.

Ecco un altro segno di che cos’è una Casa della Carità: un luogo in cui alcune per-sone hanno capito che il modo migliore per realizzarsi nel mondo è donare la propria vita.

Dobbiamo tenere assieme questi due episodi della vita degli Apostoli: la carità e il dolore, la carità e il male. Il dolore e il male nella vita degli uomini sono il più grande mistero che esista. Come mai, chiamati al bene e alla vita, sperimentiamo la malattia, la morte, le delusioni, le lacerazioni? Soltanto la carità illumina il mistero del male.

Il male sulla terra c’è perché Dio possa venire a raccoglierci e, così, mostrarci chi è Lui. Le colpe degli uomini sono state lo strumento attraverso cui il Padre ha deciso di mandare il Suo Figlio, di accettare il Suo sacrificio sulla croce e, infine, di donargli la risurrezione. Il mistero del male, così, ci porta a comprendere e ad entrare nel mistero della carità.

È significativo aver letto qui, oggi, il brano tratto dal capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, quello della Istituzione dell’Eucaristia, perché don Mario viveva un grosso legame tra poveri ed Eucaristia.

Soltanto nel mistero di Gesù che dona se stesso, che dona il Suo corpo e il Suo sangue, noi possiamo entrare nella realtà della carità. La carità, molto prima di essere un’opera nostra, è un’opera di Dio: è perché Dio ha mandato Suo Figlio che anche noi possiamo curvarci sugli altri uomini. Dio si curva su di noi per accoglierci e per per-donarci e così ci insegna che la vita è donazione. È difficile rispondere alla domanda ‘che cosa do e che cosa ricevo?’: la carità inaugura una circolarità di dono, per cui, in fondo, è sempre molto di più ciò che riceviamo di ciò che doniamo. In questo modo la nostra vita è riempita di luce e di gioia, proprio là dove il mondo troverebbe ragioni per disperarsi e per allontanarsi da Dio. Le Case della Carità diventano così il luogo in cui noi impariamo a conoscere Dio e perciò a conoscere noi stessi. La nostra debolezza ci conduce alla luminosa realtà dell’essere salvati.

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Auguro a tutte le Case della Carità che coloro che vi abitano trovino in esse la luce che ha spinto don Mario a fondare quest’opera, che rimangano sempre fedeli all’intui-zione che le ha fatte nascere e che rinnovino continuamente, nel mistero dell’Eucare-stia, la loro autentica vocazione cristiana.

Oggi è come se don Mario mi avesse chiesto di prendermi cura di voi. Quindi io stabilisco un legame particolare in cui io mi prendo cura di voi, ma voi dovete prendervi cura di me con la vostra preghiera, con l’offerta della vostra vita, con la vostra carità e io presenterò ogni giorno al Signore le vostre domande e le vostre attese.

Auguro al vostro Istituto di crescere sempre di più e di essere sempre più fedele allo spirito che l’ha originato.

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Omelia nella IV domenica di Pasqua in occasione delle ordinazioni diaconali di Giacomo Menozzi e Gionatan GiordaniCattedrale di Reggio Emilia, 21 aprile 2013

Carissimi fratelli e sorelle,il mio saluto questa sera va innanzitutto ai nostri due amici che riceveranno, attra-

verso la preghiera consacratoria e l’imposizione delle mie mani, il Sacro Ordine del diaconato. Essi lo ricevono in vista del sacerdozio ed esprimeranno, perciò, la loro intenzione di vivere nella verginità tutta la loro vita. Di avere cioè come unica sposa la Chiesa di Cristo che a loro si unisce ogni giorno attraverso la preghiera, in particolare il sacrificio eucaristico, la predicazione e la dedizione al popolo di Dio. Saluto in modo particolare i loro genitori, i loro parroci – don Natale Dallari, don Giovanni Caselli e don Giuliano Marzucchi – i loro parenti e amici, che tanta parte hanno avuto nel loro cammino vocazionale.

La vocazione, in particolare quella sacerdotale, non nasce come un fiore solitario e strano in un deserto. Essa è certamente opera di Dio che si serve, però, di tanti in-contri. Ognuno può ricordare volti e nomi che hanno segnato il suo cammino verso il sacerdozio, persone che non potrà mai dimenticare e a cui rimarrà sempre legato da un debito di gratitudine e di comunione profonda.

Saluto poi gli educatori del seminario, in particolare il rettore e tutti i suoi collabo-ratori. Essi costituiscono un’importante espressione dell’opera educativa della Chie-sa diocesana. Su di essi il vescovo ha una speciale attenzione, attesa e gratitudine. Saluto poi i seminaristi, che ho cominciato a conoscere in questi primi mesi del mio ministero reggiano-guastallese e a cui mi sento già profondamente legato, come un padre ai propri figli. Spero che molti giovani possano avvertire la bellezza della vita sa-cerdotale e che la nostra Chiesa possa essere arricchita in futuro da un buon numero di sacerdoti.

Intendo dedicare una parte importante del mio tempo alla cura dei sacerdoti, in par-ticolare dei giovani preti, per aiutarli a vivere la comunione presbiterale e ad affrontare con serenità e fiducia le inevitabili difficoltà che la loro vita comporta, partecipando così anche delle loro gioie e delle loro soddisfazioni.

Come sempre la Parola di Dio, presentataci dalla liturgia, costituisce un ricco ali-mento per la nostra vita e, soprattutto, una luce decisiva per la nostra esistenza.

Cari Gionatan e Giacomo, vorrei che letture di questa IV domenica di Pasqua, le letture della Messa della vostra ordinazione diaconale, vi accompagnassero durante tutto l’anno. Potrete così scoprire quella realtà profonda che esse rivelano e di cui, attraverso il sacramento dell’Ordine, siete entrati a far parte in modo sempre più pro-fondo e vero.

Con la vostra ordinazione venite introdotti nel dialogo stesso che esiste tra Cristo e

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il Padre. Diventate pecore e nello stesso tempo cominciate ad essere pastori. Per po-ter essere pastori dobbiamo essere pecore, cioè dobbiamo porci in ascolto della voce di Cristo. Tale ascolto è molto di più che un “prestare orecchio”. Esso coincide piuttosto con la disponibilità ad essere continuamente creati dalla Parola di Dio che è Cristo e continuamente condotti da lui. In questo modo riceviamo da Gesù la vita e nessuno potrà strapparci dalle sue mani.

Cari fratelli, ogni volta che vi allontanerete da Gesù entrerete nel pericolo. Come Pietro sul lago di Genezaret, quando non guarda più il suo Signore, comincia ad affo-gare (cfr. Mt 14, 25-31). Quando invece il suo sguardo incrocia i suoi occhi, si accor-ge del suo peccato (cfr. Lc 22,61-62), ma non si dispera. Si sente lavato e purificato dall’infinita misericordia del Signore.

Anche il libro dell’Apocalisse parla di questa purità. La moltitudine immensa vista da Giovanni, che sta in piedi davanti al trono e all’Agnello, è avvolta in vesti candide (cfr. Ap 7,9). I rami di palme nelle loro mani ci avvisano che essi sono dei martiri: hanno attraversato la grande persecuzione e le loro vesti, cioè le loro vite, sono state rese candide dal sangue dell’Agnello, dalla partecipazione al sacrificio di Cristo. Coloro che qui sono visti da Giovanni non sono soltanto i pochi martiri di quel breve periodo della storia cristiana, ma tutti coloro che verranno. I verbi sono significativamente al futuro. Essi – dice l’evangelista – non saranno colpiti da nessun male perché l’Agnello li guiderà alle fonti delle acque della vita e asciugherà ogni lacrima dai loro occhi (cfr. Ap 7,16-17).

Ritengo un dono particolare di Dio al nostro seminario la beatificazione del nostro seminarista Rolando Rivi. La sua intercessione ci ottenga di capire esistenzialmen-te cosa vuol dire “essere del Signore”, quale grande grazia sia contenuta in questa appartenenza, in questa relazione che è l’anima del dono ricevuto nel sacramento dell’Ordine.

Cari amici, voi siete di Cristo per il battesimo che avete ricevuto. Oggi lo diventate con una nuova ragione, in una nuova donazione e in una nuova richiesta di Gesù: “Vuoi essere mio, vuoi essere mio anche nel dono della tua vita al mio popolo, al mio corpo?”. Risuonano per voi le parole di Isaia ricordate da Paolo e Barnaba nel loro discorso di Antiochia: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la sal-vezza fino all’estremità della terra (cfr. Is 49,6; At 13,47).

Dio questa sera vi concede un cuore senza confini. Sappiate attingere continua-mente questa dimensione cattolica della vostra vocazione dal rapporto con Cristo, attraverso l’Eucarestia, la lettura e meditazione della Parola del Signore, la carità vis-suta. Sappiate che il ministero sacerdotale, prima di essere un compito, è un dono che Dio fa ad ognuno di voi. In questa grazia di predilezione le vostre persone trovino sempre la gioia di rinascere, trovino una nuova freschezza di donazione.

Amen.

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Omelia nella Solennità della B. V. Maria della Ghiara nell’anniversario del primo miracoloBasilica della Ghiara, 29 aprile 2013

Cari fratelli e sorelle,oggi è un giorno di festa per la nostra città e la nostra Chiesa.417 anni fa davanti a questa immagine della Madre di Dio il piccolo Marchino, sor-

domuto dalla nascita, cominciò prodigiosamente a parlare. Le prime parole che disse furono: Gesù e Maria. Da dove venivano a lui quelle parole? Da quale profondità del suo essere? Fu un evento che colpì l’intera città e fece crescere in tanti uomini e tante donne la devozione alla Madonna della Ghiara.

Ancora oggi questo santuario è il cuore della nostra città, il luogo dove si incrocia-no le suppliche di tanti cuori, la casa dove si incontrano le nostre vite, la fonte da cui attingere speranza e fiducia per il presente e per il futuro.

Ma cosa dice a noi oggi il miracolo di Marchino?Innanzitutto che nulla è impossibile a Dio. Tutto ciò Maria lo aveva appreso per la

prima volta dalla bocca dell’angelo che le annunciava la sua divina maternità (cfr. Lc 1,37). E da quel momento tutta la sua vita e la sua opera nella Chiesa ha mostrato questa verità. Nulla è impossibile a Dio: non c’è male del nostro spirito che non possa essere da Lui guarito, non c’è dolore che Egli non possa aiutarci ad attraversare, non esiste circostanza in cui non possiamo ricorrere fiduciosi all’aiuto di Dio e di sua ma-dre. Per aiutarci a comprendere questo Maria intercede talvolta, anzi spesso, anche per guarigioni del corpo. Sono i miracoli che fanno accorrere la gente ai suoi Santuari.

Un secondo insegnamento ci viene dal miracolo di Marchino: è venuto, sentendo parlare di miracoli, e si è messo in ginocchio davanti a questa immagine. La grazia di Dio non ci raggiunge indipendentemente dalla nostra libertà. Essa chiede la nostra col-laborazione, la nostra preghiera, la nostra fede. Dio ci apre all’ascolto della sua parola e ci rende capaci di annunciare le sue opere: fa udire i sordi e parlare i muti (Mc 7,37), abbiamo ascoltato nel vangelo. Commentando proprio questo passo evangelico, il santo monaco benedettino Beda il Venerabile, storico e dottore della Chiesa, vissuto in Inghilterra tra il VII e l’VIII secolo, scrive: «l’uomo è diventato sordo all’ascolto della parola di vita dopo che, gonfio di superbia, ascoltò le parole mortali del serpente in-dirizzate contro Dio; è diventato muto al canto delle lodi del Creatore da quando ha presunto di parlare col seduttore» (cfr. Om. II, 6). La guarigione della sordità fisica, allora, è segno di una guarigione ben più profonda di cui tutti abbiamo bisogno. C’è una sordità che ci impedisce di ascoltare la voce di Dio che parla alla nostra vita. Solo se torniamo a metterci in ascolto di questa voce anche la nostra lingua potrà sciogliersi e le nostre parole non saranno più mute, cioè inutili, cattive, incapaci di raggiungere veramente gli altri.

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Tutti, come il piccolo Marchino, abbiamo bisogno di essere guariti da Gesù. Ma questo miracolo, fratelli e sorelle carissimi, è già avvenuto per ognuno di noi al mo-mento del nostro battesimo. Il sacerdote, segnandoci le orecchie e la bocca, ci ha detto: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre”.

Il dono che Dio ci ha fatto deve essere riscoperto continuamente da noi. Chiediamo fiduciosi alla Madonna la grazia di questo rinnovamento. Torniamo ad ascoltare le pa-role di Dio che lei ci suggerisce. Preghiamola con il santo Rosario in questo mese di maggio che sta per cominciare. Il Rosario, come recita la supplica composta dal beato Bartolo Longo che viene recitata l’8 maggio e la prima domenica di ottobre, è la dolce catena che ci rannoda a Dio, il porto sicuro nel comune naufragio. È una preghiera semplice, che tutti possono fare. Contemplando i misteri della vita di Gesù chiediamo di entrare nello sguardo con cui la Madre ha guardato suo Figlio e la storia. Possiamo affidare a Maria le nostre preoccupazioni, le persone a cui vogliamo bene e quelle che sentiamo più lontane. Così nella ripetizione delle Ave Maria siamo introdotti nel cuore materno della Chiesa e, quasi senza che ce ne accorgiamo, la nostra vita inizia ad essere abitata da una sapienza e una pace profonde.

Nel santo Rosario chiediamo la fede, la pace nelle famiglie, che i giovani possano incontrare Cristo, la speranza per chi è anziano, il lavoro per chi l’ha perduto, l’acco-glienza di chi ha bisogno.

Amen.

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Omelia nella Solennità dell’Ascensione del Signore – Festa diocesana dell’ammalato – Unzione degli infermiNovellara, 12 maggio 2013

Cari fratelli e sorelle,sono contento di essere qui con voi questa sera. Saluto don Agostino Varini, mio

delegato per la pastorale sanitaria. Lo ringrazio per le parole che mi ha rivolto e per il suo prezioso lavoro. Assieme a lui, saluto con affetto il parroco, don Carlo Fantini, e tutti i sacerdoti che concelebrano questa santa Messa.

Questa sera mi rivolgo soprattutto a voi, cari ammalati. Nello stesso tempo non dimentico i vostri famigliari, i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari qui presenti. Un saluto grato anche ai diaconi, ai ministri straordinari dell’Eucarestia, alle religiose e a tutte le confraternite e associazioni di volontariato che con la loro opera testimoniano la carità che nasce dalla fede, attraverso una compagnia paziente a chi soffre.

Perché una festa diocesana dell’ammalato? È forse motivo di festa la malattia e la sofferenza? Siamo qui perché non vogliamo vedere nel dolore solo e soprattutto un segno di morte, ma una possibilità di offerta di noi stessi, una strada per condividere la vita dei nostri fratelli. Cristo, medico delle nostre anime e dei nostri corpi, ci ha salvati proprio attraverso la sua sofferenza, morte e resurrezione. Egli è venuto per coloro che sono malati (cfr. Lc 5, 31-32), per ognuno di noi. Egli è venuto a dirci che la malattia e la sofferenza, che sembrano contraddire la nostra sete di vita e di bene, non sono il nostro destino definitivo.

Quando recitiamo il santo Rosario, sappiamo che ai misteri dolorosi seguono sem-pre i misteri della gloria. Dio non si dimentica di noi, non ci abbandona nel buio della nostra sofferenza. Ma, anche attraverso di essa, ci conduce verso la luce e la gloria. Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20).

La Lettera agli Ebrei ci ricorda che non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato (Eb 4,15). Il Figlio di Dio, incarnandosi, ha as-sunto la nostra condizione mortale e nella sua passione ci ha svelato il valore salvifico della sofferenza vissuta in unione con lui.

Cari fratelli e sorelle, non cedete mai alla tentazione dello sconforto e della dispera-zione! Chiedete nella preghiera la forza per vivere assieme a Gesù la vostra malattia. Offrite le vostre sofferenze per coloro a cui volete bene, per nostra Chiesa. In parti-colare vi chiedo, se volete, di impetrare da Dio il dono di vocazioni sacerdotali per la nostra diocesi. La vostra preghiera, purificata dalla sofferenza vissuta con fede, rag-giunge per una via più diretta il cuore di Gesù. È per questo che voi occupate un posto importante nella nostra Chiesa. È per questo che anche il vescovo desidera affidarsi alla vostra preghiera.

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Abbiamo ascoltato nella seconda lettura: Manteniamo senza vacillare la professio-ne della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso (Eb 10,23). Di quale promessa si parla? Gesù ha sofferto ed è morto. Ma è anche risorto e oggi lo contempliamo alla destra del Padre. È questa la promessa che egli fa alla nostra vita: nell’Ascensione di Gesù la nostra condizione di uomini e donne entra, attraverso l’umanità di Cristo, nel seno stesso della Trinità. Tutti siamo destinati alla vita divina. Una vita di cui possiamo vivere un inizio reale già ora, nella comunione fraterna e nei sacramenti che ci introducono ad essa.

Tra poco vi amministrerò il sacramento dell’Unzione degli infermi. È il segno effi-cace di tutto quanto vi ho detto finora: Dio non vi abbandona, vi è vicino. Attraverso la carità di Cristo e di coloro che si prendono cura di voi. Lui stesso, poi, attraverso l’unzione di questa sera, vi dona una sua carezza, vi riempie della sua forza e alimenta la speranza del vostro cuore.

Amen.

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Omelia nella solennità dell’Ascensione del Signore – Inaugurazione del nuo-vo centro di comunitàReggiolo, 12 maggio 2013

Cari fratelli e sorelle,torno in mezzo a voi a distanza di qualche settimana dalla mia prima visita. Salu-

to innanzitutto il parroco, don Gino Bolognesi, il vice-parroco, don Antonio Crispino, mons. Angelo Melegoni, parroco emerito di Reggiolo, i sacerdoti e i diaconi che vivono con noi questa celebrazione provenienti anche da Olgiate e Lambrate. Ringrazio per la loro significativa presenza e per tutto l’aiuto che ci hanno dato mons. Francesco Sod-du, direttore di Caritas Italiana, don Andrea La Regina, responsabile dei macro-proget-ti della Caritas nazionale, Gianmarco Marzocchini, direttore della Caritas diocesana e il diacono Cesare, direttore della Caritas di Rimini che ci ha donato la tensostruttura utilizzata finora. La mia gratitudine anche ai delegati regionali di Caritas Campania e Caritas Basilicata, il cui contributo è stato fondamentale per la realizzazione di questo nuovo centro.

Saluto, infine, le autorità civili e militari, i sindaci presenti, le forze dell’ordine, il maresciallo dei carabinieri, la protezione civile, i rappresentanti dell’ufficio diocesano Beni Culturali e tutti coloro che a diverso titolo hanno lavorato per la realizzazione di questa nuova struttura.

Sono qui innanzitutto per stare con voi, per esprimervi la mia vicinanza, quella della Chiesa. Per assicurarvi che Dio non vi abbandona. Sono qui anche per chiedere che ogni sforzo venga fatto, da parte delle autorità statali e regionali, affinché vengano messe a disposizione dell’opera di ricostruzione le somme stanziate.

Di fronte alle prove che avete vissuto, quando assieme alle case e ai luoghi del nostro ritrovarci, sembrano crollare anche le speranze del nostro cuore, grande è la tentazione dello scoraggiamento. Io stesso visitando qualche settimana fa questa vo-stra città, vedendo la distruzione causata dal terremoto nelle case e nelle costruzioni pubbliche, mi sono chiesto: se fosse capitato a me, come avrei reagito? Se capiterà a me, come reagirò? Se di colpo non avrò più molte cose che mi hanno accompagnato tutta la vita e che ritengo importanti, se non essenziali, come reagirò?

Ciò che accade, come un terremoto, è misterioso e suscita in noi tante domande. Perché a noi? Perché proprio qui? Perché così tante volte? Ci sono risposte che pos-sono dare i fisici e i geologi, ma non ci bastano. Cerchiamo risposte più profonde. Tra le tante voglio soffermarmi su una: perché emerga nei nostri cuori, nella nostra consi-derazione, ciò che è essenziale, ciò che non passa, che resta sempre, che ci apre al futuro.

Ciò che è essenziale sono la fede e la carità. La fede: cioè la capacità di guardare ciò che accade non con gli occhi del mondo, ma con gli occhi di Dio. Di vedere in ciò

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che accade una occasione per convertirci a lui, per uscire dall’egoismo, dalle rivalità, dagli odi, e aprirci alla carità. E infatti il terremoto ha aperto una gara di carità, di aiuto, di sostegno reciproco. Dal male, che non è cancellato magicamente, è venuto un bene.

Oggi è la festa dell’Ascensione. Essa custodisce un grande insegnamento proprio per questa giornata e questa occasione. L’Ascensione è un avvenimento centrale nel-la storia di Gesù, nella storia di Dio con l’uomo. È iniziato in modo definitivo il mondo nuovo. Gesù è tornato da dove era partito, dal Padre. Lo aveva preannunciato più volte lungo la sua predicazione nella vita terrena. Ma non è tornato come era partito. È tornato con il suo corpo umano, risuscitato, trasfigurato, ma non dissolto. Il Gesù che è tornato nel seno del Padre, che regna accanto al Padre, è lo stesso Gesù che è vissuto sulla terra, uomo tra gli uomini.

È tornato primo tra noi. Là è la nostra casa definitiva, che si inaugura e si apre sulla terra per compiersi oltre il tempo. Non habemus hic manentem civitatem (Eb 13,14). Non è qui, eppure nasce qui. Ciò che nasce qui è la comunione tra noi, è l’amore per Dio e per i fratelli, sono i nostri tentativi di costruire qualcosa che rimanga attraverso le nostre doti, vocazioni, attitudini. Nonostante il terremoto – anzi, se esso ci aiuta a con-vertirci, proprio attraverso il terremoto – nulla va perduto, tutto ritroveremo e ci verrà consegnato in modo nuovo e trasformato.

Amen.

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Omelia nella santa Messa della vigilia di Pentecoste – Ordinazione presbiterale di don Andrea CristalliCattedrale di Reggio Emilia, 18 maggio 2013

Cari fratelli e sorelle,

siamo qui radunati, nella Solennità di Pentecoste, per invocare assieme il dono dello Spirito Santo sulla nostra Chiesa diocesana e su tutta la Chiesa, anzi su tutti gli uomini del mondo.

Lo Spirito Santo è il dono definitivo che Dio fa di sé agli uomini. Dopo averci man-dato suo Figlio, ora ci manda lo Spirito. Esiste un legame profondo tra questi due doni. Attraverso lo Spirito che Gesù aveva promesso già durante la vita terrena, soprattutto nei giorni della passione (cfr. Gv 7, 39; 14,17.26; 15,26; 16,13), lo Spirito che ha do-nato dalla croce – emisit Spiritum (Gv 19,30) – e infine effuso sopra gli apostoli riuniti nel cenacolo la sera stessa della resurrezione (cfr. Gv 20,22), noi possiamo finalmente conoscere in modo vero chi è Gesù, anzi possiamo diventare una sola cosa con lui, essere assimilati alla sua persona e alla sua missione. Il giorno di Pentecoste, cin-quanta giorni dopo la resurrezione, lo Spirito come lingue di fuoco scende ancora su Maria e gli Apostoli radunati nel cenacolo (cfr. At 2,3-4) e rimane in modo definitivo in loro, come energia divina che fonda l’unità della Chiesa e la spinge ad evangelizzare tutto il mondo. Già nello stesso giorno di Pentecoste, membri di popoli diversi entrano nella Chiesa, lingue differenti risuonano nell’assemblea (cfr. At 2, 5ss). Possiamo così già pregustare il destino universale della Chiesa cattolica.

Lo Spirito è stato preannunciato e poi effuso più volte, come abbiamo visto, quasi in gradazioni successive, e poi in modo definitivo. Così, in modo analogo, ac-cade anche nella vita cristiana. Una prima effusione dello Spirito avviene nel battesi-mo. Nell’Eucarestia, pane e vino consacrati per opera dello Spirito, si realizza un’altra manifestazione della terza Persona della Trinità. Nell’unzione crismale veniamo resi testimoni di Cristo, cristiani adulti. Oggi, in questo giorno di Pentecoste, parteciperemo a un nuovo dono dello Spirito, al dono del sacerdozio ordinato. Ogni sacramento è una manifestazione dello Spirito. E il sacerdozio lo è in modo particolare. Nella preghiera di ordinazione tra poco invocherò lo Spirito Santo: «Dona o Padre a questo tuo figlio la dignità del presbiterato. Rinnova in lui l’effusione del tuo Spirito di santità…».

Saluto perciò con particolare affetto il nostro giovane diacono Andrea Cristalli che ora ordinerò sacerdote. Saluto i suoi genitori, parenti ed amici, il suo parroco e tutti i sacerdoti che lo hanno accompagnato in questi anni, don Vasco Rosselli, don Gabriele Valli, don Corrado Botti e don Evandro Gherardi. Una vocazione è sempre debitrice di molti incontri e di un lungo cammino di conversione, di molto lavoro. La mia grati-tudine va perciò anche al rettore del seminario, al vicerettore, al padre spirituale, agli insegnanti del corso filosofico-teologico e a quanti hanno partecipato all’educazione di

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questo giovane.

Nel grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, grida: se qualcuno ha sete, venga a me (cfr. Gv 7,37). All’origine di ogni vocazione, e in particolare della vocazione sacer-dotale, c’è una sete. Sete di Dio, sete, cioè, di verità, di bellezza, di giustizia, di bene.

Ti auguro don Andrea che questa sete rimanga sempre viva in te e sia essa l’ali-mento continuo della tua giornata. Solo se avrai sete andrai da lui. Benedetta sia dun-que la sete! Essa ti spingerà a cercare il volto di Cristo, rivelazione del Padre, in ogni persona, in ogni angolo della natura, in ogni espressione autentica dell’uomo. Cercalo soprattutto nella Scrittura, nell’Eucarestia, nei cuori a loro volta pieni di attesa e di biso-gno. Beva chi crede in me (cfr. Gv 7, 37-38). La fede è proprio bere da Cristo, imparare da lui, seguirlo nei suoi passi, cercarlo nei misteri della sua vita, mettere a disposizione del suo regno tutte le nostre energie, tutte le nostre doti, la nostra limitata e povera umanità, fragile, che diventa però gloriosa e benedetta proprio nel momento in cui si pone a servizio della sua presenza nel mondo. Fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo grembo (Gv 7, 38). Come vorrei, caro don Andrea, che queste parole esprimesse-ro la realtà di tutta la tua vita futura! Se ti alimenterai continuamente a Cristo, fiumi di acqua viva sgorgheranno da te. Sarà acqua viva e non morta, perché non dirai parole inventate da te, non farai azioni suggerite soltanto da una estrosità del momento, non condurrai gli uomini nel cerchio della tua persona, ma dirai le parole di Gesù, quelle che nascono dalla sua sapienza, compirai le azioni imparate da lui, dalla sua carità, condurrai a lui gli uomini e le donne che verranno da te. Proprio per questo essi ti sa-ranno sempre riconoscenti, ti vorranno bene, si stringeranno attorno a te come al loro pastore e formeranno un solo popolo che ha un solo cuore e una sola anima.

È di questa comunione, ne sono sempre più convinto, che ha bisogno la nostra Chiesa diocesana, comunione viva, virile, sacrificata, tra sacerdoti, tra sacerdoti e dia-coni, comunione vissuta tra i sacerdoti, i diaconi e le persone a loro affidate. Comunio-ne che sa riconoscere i doni di ciascuno, che non vuole fare dei laici dei piccoli preti e che sa riconoscere il posto di ognuno stabilito da Cristo dentro la Chiesa.

Il Signore ci conceda di riconoscere le difficoltà reciproche, di accettarle umilmente. Ci doni di imparare la correzione, ci doni di perdonare e di camminare assieme.

Ed ora preghiamo perché lo Spirito Santo scenda abbondantemente su don Andrea e riempia dei sette doni la sua persona.

Amen.

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Omelia nella solennità di Pentecoste con conferimento del sacramento della Confermazione a 41 ragazzi della Parrocchia di santo Stefano e dell’Unità pasto-rale Cattedrale-san Prospero-santa Teresa

Cattedrale di Reggio Emilia, 19 maggio 2013

Cari ragazzi e ragazze che tra poco riceverete il sacramento della Confermazione, questa mattina voglio rivolgermi innanzitutto a voi. E assieme a voi salutare tutti coloro che hanno accompagnato il vostro cammino. I vostri genitori, i catechisti, i padrini e le madrine e tutti i vostri amici e parenti. In modo particolare ringrazio e saluto i vostri parroci, don Daniele Casini, don Fabrizio Crotti e mons. Gianfranco Gazzotti.

Ricevete il sigillo dello Spirito Santo proprio nel giorno di Pentecoste: è per voi un dono nel dono. Oggi riviviamo assieme la discesa dello Spirito sugli apostoli e Maria riuniti nel Cenacolo di Gerusalemme cinquanta giorni dopo la resurrezione di Gesù (cfr. At 2, 1ss.). Abbiamo la possibilità di vivere la stessa esperienza degli apostoli, la stessa loro vita avventurosa e affascinante!Dopo la morte di Gesù, anche dopo la sua resurrezione, gli apostoli erano pieni di pau-ra. Temevano di essere uccisi come era stato ucciso Gesù. Con lui avevano sperimen-tato una vita bella, grande, realizzata. Ma dopo la sua ascensione al cielo erano tristi, non avevano la forza per continuare quella stessa vita. Gesù aveva messo nel loro cuore un seme di speranza, ma questo seme doveva ancora crescere e svilupparsi. Ecco allora il dono dello Spirito: attraverso di esso ciò che gli apostoli avevano iniziato a vivere con Gesù poteva crescere e fiorire.

Anche per voi accade oggi la stessa cosa. Che cosa è, infatti, la Confermazione? È uno sviluppo del Battesimo. Quando avete ricevuto il Battesimo è stato posto dentro di voi un seme, un seme vivo, efficace, capace di crescere e di espandersi. Il seme della vita nuova che è la stessa persona di Gesù. Quando guardiamo gli alberi nella nostra campagna dobbiamo sempre ricordare che all’inizio essi erano solo un piccolo seme. Se han potuto crescere e diventare forti e rigogliosi è perché c’è stato il sole, c’è stata la pioggia, c’è stato il lavoro di chi ha messo intorno la terra e di chi si è preso cura di loro…La nostra vita può essere paragonata a quella di un albero. Nel Battesimo è stato po-sto dentro di noi un seme; quel seme è Gesù. Quel seme vuole crescere, espandersi, trasformare tutta la nostra esistenza, il nostro cuore, la nostra mente. È accaduto quel-lo che dice Gesù oggi nel vangelo: Io e il Padre verremo ad abitare dentro di voi (cfr. Gv 14,23). Poi, crescendo, si fanno degli incontri, si va a scuola… Iniziamo a essere circondati da tanti amici, nascono in noi dei desideri, dei progetti, degli ideali. Essi possono aiutare o, invece, ostacolare la crescita di quel seme. Gesù allora ci alimenta con altri regali per aiutare la nostra vita, per guidarla, sorreggerla. Questi regali sono i sacramenti. Per la prima volta è sceso in noi lo Spirito nel Battesimo, scende in noi tutte le volte che ci confessiamo e andiamo a ricevere l’Eucaristia. Ma nella Cresima lo

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riceviamo in modo speciale, la Chiesa dice “in modo permanente”. Il dono dello Spirito di Dio oggi entra dentro di voi per abitarvi per sempre (cfr. Gv 14, 16).Gesù vuole accompagnare il vostro passaggio verso la maturità. Non siete più bam-bini, state diventando uomini e donne, e Gesù vuole aiutare la crescita della vostra mente e del vostro cuore, perché sappiano conoscere e amare in modo giusto.Il compito dello Spirito è proprio quello di farvi conoscere in modo giusto e vero: Lui vi dirà tutto, Lui vi ricorderà tutto (cfr. Gv 14, 26), dice Gesù. Questo è il compito dello Spirito: di insegnarvi giorno per giorno chi è Gesù, di farvelo sperimentare vicino, co-noscere, incontrare sempre di più come compagno e amico. Lo Spirito Santo, soprat-tutto, rende la vostra mente e il vostro cuore una sola cosa con la mente e il cuore di Gesù, «ci fa entrare in una comunione sempre più profonda con lui, donandoci l’intel-ligenza delle cose di Dio» – come ha detto mercoledì scorso Papa Francesco durante l’Udienza generale (cfr. Francesco, Udienza generale 15 maggio 2013). Attraverso il sacramento che tra poco riceverete, Gesù vi aiuterà a scoprire la vostra vocazione, la strada della vostra felicità. Lo Spirito vi condurrà così verso la verità e verso l’amore vero. Ma tutto ciò non accadrà magicamente: dobbiamo lasciarci guida-re da Lui, dobbiamo porci in ascolto della sua voce. E il modo più semplice per far tutto ciò è invocarlo nella preghiera.Invochiamo più spesso lo Spirito Santo, ha detto il Papa nell’ultima Udienza generale, «invochiamolo tutti i giorni» (cfr. Francesco, Udienza generale 15 maggio 2013).

Cari ragazzi, il vescovo vi affida un compito: imparate a memoria la bellissima preghie-ra allo Spirito Santo che abbiamo recitato prima del Vangelo, la «Sequenza di Pente-coste»: Vieni Santo Spirito, manda a noi, dal cielo, un raggio della tua luce… In quella preghiera è racchiusa una sapienza profonda. Attraverso quelle parole noi chiediamo a Dio tutto ciò che può rendere grande, bella, luminosa la nostra vita. I vostri catechisti ve la fotocopieranno e ve la consegneranno come un dono mio personale. Recitatela ogni giorno e vedrete che pian piano la vostra vita inizierà a fiorire.E, se potete e volete, qualche volta pregate per il Vescovo e dite al Signore: “Aiutalo nel suo ministero, fa’ che possa attraverso la sua azione far crescere questa nostra comunità diocesana in mezzo agli uomini e per il bene di tutti”.

Sia lodato Gesù Cristo.

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Omelia per la solennità della SS. Trinità nella Santa Messa di ringraziamento per il riconoscimento del martirio del Servo di Dio Rolando Rivi da parte del PapaSan Valentino, 25 maggio 2013

Cari fratelli e sorelle,

la guerra era finita da poche settimane quando, alla fine di maggio, nel 1945, gli abitanti di San Valentino vissero uno straordinario e intensissimo momento di pre-ghiera in questa antica pieve. Un bambino di questa terra, un chierichetto di questa parrocchia, un giovane seminarista del seminario diocesano di Marola, Rolando Rivi, era stato rapito, barbaramente picchiato e ucciso a soli 14 anni. Uomini, accecati dall’i-deologia, lo odiavano, per la sua ardente testimonianza di fede, che suscitava negli altri ragazzi il desiderio di seguirlo e di diventare, come lui, amici di Gesù.

Il martirio, come sapete, avvenne il 13 aprile 1945 a Piane di Monchio, in territo-rio modenese. Oggi penso a lui, in ginocchio nel bosco, umiliato, sfinito, privato a forza della sua veste talare, che tanto amava, come segno della sua appartenenza all’amico Gesù e alla sua Chiesa. Quando capì che i suoi persecutori non avrebbero avuto pietà, chiese, nell’ultimo istante della sua vita terrena, di poter pregare per il suo papà e per la sua mamma. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? (Rm 8,35). Né le percosse, né gli insulti, né gli sputi, né le cinghiate, né la paura, né il freddo, né la fame hanno potuto strapparlo dalla mano del suo grande amico: «Io sono di Gesù».

In uno degli ultimi giorni di maggio del 1945, quando la guerra finalmente era finita, la salma del giovane seminarista, che provvisoriamente aveva avuto sepoltura cristiana nel cimitero di Monchio, fu riportata qui, a San Valentino, su un biroccio traina-to da un cavallo. Gli abitanti del paese gli andarono incontro [in località Montadella] e gli amici portarono a spalla la piccola bara negli ultimi chilometri. Il lungo corteo arrivò in questa Pieve, dove tutti si unirono in preghiera. Fu il primo momento in cui il popolo cristiano accolse spontaneamente Rolando come martire della fede e fu anche una festa della libertà religiosa, perché le campane, silenziate durante la guerra, tornarono a suonare a distesa e le bandiere dell’Azione Cattolica, proibite durante il fascismo, tornarono a sventolare pubblicamente. Oggi, come allora, ci ritroviamo in preghiera per riconoscere Rolando Rivi mar-tire della fede. Lo facciamo con la stessa commozione di allora, ma con una nuova, profonda certezza che ci viene dalla decisione del Santo Padre Francesco che, il 27

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marzo scorso, ha autorizzato la Congregazione per le Cause dei Santi a scrivere il decreto sul martirio di Rolando. Rolando Rivi è martire! Per questo sarà proclamato Beato. [Dono che la misericordia del Signore fa alla nostra vita e al mondo. Ringrazio il “Comitato Amici di Rolando Rivi”, che ne ha promosso e ne sostiene la causa di be-atificazione e canonizzazione, per questo grande servizio alla Chiesa.] Oggi celebriamo la festa della Santissima Trinità, festa del Padre creatore e salvatore, festa del Figlio che si è incarnato, è morto e risorto per noi, festa dello Spirito santificatore. Senza guardare alla Trinità non possiamo comprendere nulla del martirio di un cristiano. Non possiamo comprendere che il martire vero non disprezza la vita, non odia nulla e nessuno, ama anzi la luce, i colori, le cose belle e buone di cui è ricco il mondo. Ma un amore più grande occupa il suo cuore: Gesù è amato come il bene primario, l’amico più sicuro, colui che ha dato tutto se stesso per noi. E lo Spirito infon-de in lui e in noi la stessa carità di Cristo, ce lo rivela e, assieme a lui, ci rivela anche il cuore dell’uomo. L’incontro con Cristo è avvenuto per Rolando nella sua famiglia che lo ha ac-colto come dono di Dio e che, per lui, ha chiesto il Battesimo; a scuola, dove brave maestre cristiane lo hanno educato a riconoscere l’impronta del Creatore nella realtà; in parrocchia, dove la fede profonda e la grande umanità di don Olinto Marzocchini hanno suscitato in lui il desiderio di diventare sacerdote. I genitori, le maestre, il sacer-dote sono stati per lui il volto visibile di Cristo, vero padre, amico, maestro. Rolando col suo cuore ardente ha detto un sì pieno al grande amico incontrato, desiderando che ogni giorno della vita, per essere bello e vero, fosse insieme a Cristo nella compagnia della Chiesa. «Io sono di Gesù», diceva. Ogni attimo della giornata è utile solo se vis-suto in questa appartenenza.

Rolando è stato trasformato da questo incontro. Era il più scatenato nei giochi e il più assorto nella preghiera; desiderava il vero bene degli altri ragazzi e li guidava alla Chiesa; voleva essere sacerdote e missionario per far conoscere il suo grande amico a tutti gli uomini, in particolare ai più poveri e ai più lontani.

Ma Rolando ci insegna anche che la strada dell’amicizia con Gesù passa sem-pre attraverso la croce. Per tornare nel seno del Padre nella gloria della resurrezione, Cristo è salito sulla croce. Non c’è amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici (Gv 15,13). Rolando ha compiuto il più grande gesto di amore dando la vita per il suo grande Amico, e donandola a Cristo l’ha donata per ognuno di noi.

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Rolando, che ha amato Cristo sopra ogni cosa, è per noi un amico vero. Lo possia-mo dire con totale certezza dopo il sì pronunciato dal Santo Padre.

Per questo oggi, rendendo grazie al Signore per il dono del nostro martire bambino, ringraziamo Papa Francesco che ha indicato a noi e a tutto il mondo Rolando come compagno sicuro sulla via della santità.

Cari fratelli e sorelle, ci diamo tutti appuntamento il 5 ottobre, in Piazza Grande, di fianco al Duomo di Modena, per celebrare la festa della beatificazione. Con la beatifi-cazione le sue preziose reliquie non resteranno più sotto il pavimento di questa chiesa, ma verranno collocate nell’altare della Madonna del Carmelo, qui alla mia sinistra.

Maria ci custodisca nel cammino e ci guidi a rimanere ogni giorno nell’amore di Cristo per portare molto frutto, come Rolando.

Amen.

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Omelia per la solennità della SS. Trinità – Messa di suffragio per Enzo PiccinniniReggio Emilia, Basilica della Ghiara, 26 maggio 2013

Cari fratelli e sorelle, innanzitutto saluto i familiari di Enzo – sono lieto di poter pregare con loro

questa sera – e poi tutti i suoi amici, che non lo hanno dimenticato. Quando morì Enzo ricordo su Tracce l’articolo commosso, commovente per me, di Giancarlo Cesana, che terminava con questa espressione: «come sempre Enzo ci ha preceduto». È questo anche il senso del mio ricordo.

Siamo qui, assieme, per pregare e ringraziare. Pregare per l’anima del nostro amico Enzo che ci ha preceduto, appunto, nell’incontro definitivo con Dio, come ci aveva preceduto tante volte in vita nella testimonianza a Lui . Ma siamo qui anche per ringraziare il Signore. Per la sua vita, per ciò che essa ha rappresentato per tanti di noi. Egli è stato un “terremoto” nell’esistenza di tante persone che lo hanno incontrato. La sua personalità esuberante e “totalitaria”, la sua passione per Cristo, la sua generosità senza limiti hanno cambiato la vita di tanti uomini e di tante donne.

Ma qual è stato il segreto della vita di Enzo? Quale il motore del suo instanca-bile spendersi?

È una coincidenza particolarmente significativa il fatto di ritrovarci assieme proprio nel giorno dedicato alla SS. Trinità. La solennità che oggi festeggiamo, introdu-cendoci al cuore del mistero cristiano e della nostra stessa vita, ci aiuta a rispondere a queste domande. Dio è comunione, non è una stella lontana, isolata, fredda, ma è, invece, una stella calda, luminosa, infuocata, è un rapporto di persone. La comunione trinitaria è la terra da cui proveniamo e che spiega esaurientemente il nostro essere uomini e donne, come persone che possono compiersi solo nella relazione con gli altri. Il nostro io si spiega soltanto nel noi.

«Il fondo dell’esistenza – scriveva Jean Daniélou – il fondo della realtà, la forma di tutto perché ne è l’origine, è l’amore… Chi dice che il fondo dell’essere è la materia, chi lo spirito, chi l’uno: hanno tutti torto. Il fondo dell’essere è la comunione» (J. Daniélou, La Trinità e il mistero dell’esistenza, Queriniana, 1969, 37). È l’idea sinte-tica che ha animato la vita e il pensiero di don Giussani, tanto da indurlo a sottolineare questa parola – “comunione” – come nome del Movimento che era nato da lui. Ed è l’esperienza centrale a cui ha attinto anche Enzo.

La vita trinitaria, nella quale ogni persona divina si dona e si riceve continua-mente dalle altre due, spiega coma mai l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, possa compiersi, misteriosamente, solo nell’apertura all’altro, nella donazione di sé. Il peccato ha reso più difficile e piena di resistenze questa esperienza, ma non ha potuto eliminarla. Tanto è vero che quando incontriamo persone che spendono la loro vita

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senza riserve per un ideale che va al di là del loro io, persone che con la loro esistenza rimandano a un significato più grande, uomini e donne che affermano la comunione come consistenza si sé, rimaniamo conquistati. Risvegliano in noi qualcosa di pro-fondo. E subito avvertiamo una corrispondenza profonda con ciò che anche il nostro cuore desidera.

Ecco, dunque, il segreto di Enzo Piccinini. Egli era un uomo senza mezze misure, un uomo che quando ha scoperto Colui

per cui vale la pena vivere lo ha seguito interamente. Era “totalitario” perché viveva un impeto di adesione, una forza di convincimento e una capacità di trascinamento assolutamente singolari. Nella mia vita ho visto poche persone con una simile capacità evocativa: Enzo è stato una calamita per centinaia e migliaia di persone che dall’in-contro con lui sono state risvegliate a una vita nuova, avventurosa, avvincente. Hanno incontrato Cristo e sono diventate affascinanti a loro volta.

In questo senso egli è stato realmente un “creatore di popolo”, partecipando di quello stesso popolo che don Giussani stava suscitando in Italia e nel mondo.

La mia vita si è incrociata con quella di Enzo quasi quarant’anni fa, quando don

Giussani mi chiese di trasferirmi stabilmente da Bergamo a Modena. Questo progetto non si è poi realizzato, perché, infine, mi fu chiesto di andare a Roma per curare i rap-porti tra il movimento e la Santa Sede. I nostri temperamenti erano diversi, ma siamo stati sempre legati da grande stima e da grande affetto. D’altra parte ciò che ha sepa-rato le nostre vite è la stessa esperienza che le aveva fatte anche incontrare e quindi poteva tenerle unite: l’obbedienza a ciò che Dio chiede.

Proprio questo infatti, mi colpisce, nell’esistenza Enzo: l’obbedienza a Dio ge-nera una vita piena, realizzata, feconda e originale. Guardando a lui si capisce che ob-bedire a Dio significa sempre obbedire a coloro che Egli sceglie per guidare la nostra vita. La sua figliolanza da don Giussani lo ha introdotto ad un rapporto personale con Gesù, e così lo ha reso libero, intraprendente e, per questo, padre di tanti.

Pensando ad Enzo concentriamoci, perciò, su ciò che è essenziale, su ciò che ognuno di noi può vivere nella propria esistenza: l’obbedienza della fede, la gioia dell’elezione, la creatività dell’amicizia.

Affidiamo ora assieme questo caro nostro fratello alla misericordia del Padre e soprattutto chiediamo per noi la stessa sua passione per la gloria di Cristo nel mondo.

Amen.

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Omelia per la solennità del Corpus Domini e ricordo personale di Giovanni Paolo II (al termine della celebrazione)Cattedrale di Reggio Emilia, 30 maggio 2013

Cari fratelli e sorelle,

il mistero che oggi celebriamo è uno dei più grandi e significativi della nostra fede. L’Eucarestia è una realtà che ci sorprende e ci supera da tutte le parti. Nessun mistero ci trova così balbettanti e incapaci: l’infinitamente grande della compassione di Dio entro l’infinitamente piccolo e quotidiano del pane e del vino!

Eppure qualche parola voglio dire, facendomi eco della grande riflessione della Chiesa che non ha mai smesso di contemplare questo mistero e di scrivere pagine di altissima poesia su di esso.

La festa del Corpus Domini è stata istituita dal papa Urbano IV nel 1264 per presentare l’Eucarestia come il cuore nascosto, eppure pulsante e creativo, del rin-novarsi del mondo. L’Eucarestia come centro non solo della nostra vita cristiana, ma anche del cammino di tutti gli uomini verso il loro compimento definitivo.

Come sottolinea il brano di san Paolo che abbiamo ascoltato (cfr. 1Cor 11, 23-26), c’è uno stretto legame tra questa festa e l’istituzione dell’Eucarestia che Gesù ha realizzato durante l’ultima cena, prima della sua passione, morte e resurrezione. Lo stesso legame che vi è fra la radice e la fioritura di un albero.

Gesù è presente nella storia dell’uomo attraverso il suo corpo ecclesiale, adu-nato dallo Spirito Santo, attraverso i santi. Nello stesso tempo, proprio per alimentare la vita della Chiesa, Egli si è fatto cibo e bevanda per noi, nascondendosi sotto le spe-cie del pane e del vino. Da questo punto di vista possiamo considerare questa festa come il compimento della Pasqua, il frutto maturo della resurrezione di Gesù. L’euca-restia, infatti, rende presente il Cristo risorto dentro la nostra vita quotidiana. Essa è presenza che salva, che trasfigura, che muta la vita dell’uomo, che la compie.

«Il Signore non ci ha donato un Suo ritratto, un Suo ricordo, una Sua reliquia, un Suo simbolo: ci ha dato la Sua presenza reale […]. L’amore è presenza, l’amore crea la vicinanza, l’amore non può vivere realmente a distanza, l’amore è comunica-zione […]. Cristo ha realizzato la presenza nella maniera più piena, misteriosa fin che vogliamo, e che ci lascerà sempre incantati e sorpresi» (G. B. Montini, Omelia del Giovedì Santo, 26 marzo 1959). Sono parole del cardinale di Milano, Giovambattista Montini, futuro Papa, il giovedì santo del 1959. Parole che descrivono le ragioni della nostra speranza e della nostra gioia. Non siamo soli nel nostro cammino, nei nostri desideri, nelle nostre speranze. Dio non ci ha abbandonati: «Gesù Cristo si presenta

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a noi come la risposta di Dio alla nostra ricerca, alle nostre angosce» ci ricordava 25 anni fa il beato Giovanni Paolo II, visitando la nostra Chiesa proprio nella ricorrenza del Corpus Domini. E continuava: «Egli dice: “Sono io il pane della vita capace di saziare ogni fame; sono io la luce del mondo capace di orientare il cammino di ogni uomo; sono io la risurrezione e la vita capace di aprire la speranza dell’uomo sull’eternità”» (Giovanni Paolo II, Omelia nella visita pastorale alla diocesi di Reggio Emilia-Guastal-la, Guastalla, 5 giugno 1988).

Questa festa del Corpo e Sangue di Cristo ci offre l’opportunità di ricordare la visita del grande Papa che ha guidato la Chiesa per 27 anni. Un pontificato denso di viaggi, di discorsi, di atti di governo, ma soprattutto un pontificato che ha mostrato a tutto il mondo la positività della fede cristiana, capace di esaltare e valorizzare ogni espressione della vita dell’uomo.

Grazie, Giovanni Paolo II! Grazie della tua fede in Cristo, Redentore dell’uomo, centro del cosmo e della storia! Grazie della tua carità, che si è manifestata in una de-dizione inesausta al Corpo di Cristo, ai diritti degli indifesi, alla libertà religiosa! Grazie della tua speranza, che ha aperto al mondo nuovi scenari di libertà, la speranza che ha chiesto di aprire le porte a Cristo!

Ma c’è un altro motivo di gratitudine a Dio per il grande dono che ci ha fatto attraverso il mistero del suo Corpo e del suo Sangue. Ed è lo stesso Giovanni Paolo II, nella sua ultima enciclica – Ecclesia de Eucharistia – a sottolinearlo: «nella comu-nione eucaristica si realizza in modo sublime il “dimorare” l’uno nell’altro di Cristo e del discepolo» (Ecclesia de Eucharistia, n. 22). In ogni santa Messa, non solo Gesù si fa presente nella nostra vita, ma ci rende partecipi della sua vita divina e ci coinvolge nella sua opera di salvezza facendo di noi il suo stesso corpo. Se nel sacrificio della croce, consumato una volta per tutte duemila anni fa, Gesù si donava a noi mentre noi eravamo ancora lontani (cfr. Rom 5,8), ora, nell’offerta del pane e del vino, anche le nostre vite partecipano con lui alla redenzione del mondo. L’Eucarestia è il sacramen-to attraverso cui Dio, nel suo Figlio, assume tutta quanta la creazione, tutti quanti gli uomini e le donne, per riportarli nel suo seno.

La celebrazione eucaristica si rivela, così, come il segreto dell’unità e della comunione tra gli uomini, «segno di unità, vincolo di carità» (Sacrosanctum Concilium, n. 47). Siamo un solo corpo perché ci nutriamo dello stesso pane, dice san Paolo (cfr. 1Cor 10,17).

«Voi siete il corpo di Cristo e il vostro mistero, cioè la vostra realtà più vera, si trova sulla mensa del Signore: ricevete il vostro mistero, ricevete ciò che siete e siate quello che vedete» (cfr. Agostino di Ippona, Sermo 272). È una mattina di Pasqua di quasi milleseicento anni fa quando sant’Agostino pronuncia queste parole nella sua cattedrale.

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Cari fratelli e sorelle, è veramente grande il mistero che celebriamo durante la santa Messa. «Nessun santo vivrà mai più di quello che la Messa può dare a ciascu-no», scrive giustamente un mistico, nostro contemporaneo (D. Barsotti, Pasqua. La trasparenza di Cristo risorto nell’Eucarestia, San Paolo, 2005, 38).

Disponiamoci dunque, con questi sentimenti, a vivere quanto tra poco accadrà sull’altare.

Amen.

Ricordo di Giovanni Paolo II al termine della celebrazione

Ho avuto modo di stare in tante occasioni accanto a Giovanni Paolo II e realmente la sua personalità era così ricca, così forte che potrebbe riempire di racconti tante serate. Ma questa sera voglio dire soltanto due parole.

La prima è la parola “preghiera”. Giovanni Paolo II è stato un uomo di preghiera, un uomo che ha attinto la forza e la sapienza del suo governo e del suo stare in mezzo agli uomini proprio nel silenzio della preghiera. Essa molto spesso cominciava per lui al mattino presto, anche durante i viaggi faticosissimi: è capitato ad alti prelati o ad alte personalità di scendere per la colazione, pensando di essere i primi, pensando che fosse molto presto, ma si accorgevano che Giovanni Paolo II li aveva preceduti di mol-to in cappella per pregare il Rosario, la Via Crucis, per dire le preghiere del breviario.

Questa preghiera non era soltanto un ripetere parole, era veramente una disposizio-ne continua, quasi abituale del suo animo al rapporto con Dio. Tutto ciò emergeva in modo particolare nella profondità della celebrazione eucaristica.

Chi lo accostava si sentiva lui stesso invitato a pregare, invitato ad imitarlo. Posso dire anch’io di avere imparato da lui non solo la preghiera, ma anche e soprattutto la sua efficacia e importanza. Ho imparato quanto sia necessario, ma anche bello e fonte di conforto poter affidare a Dio le necessità della nostra vita, i nomi e i volti che ci sono cari o che, per esempio, incontreremo nel giorno che comincia.

La seconda cosa che vorrei dirvi è che ho visto in Giovanni Paolo II un uomo vero: un uomo vero nei tempi della forza e della gioia, un uomo vero nei tempi della malattia e della debolezza. Dio gli ha concesso di vivere tutt’e due queste stagioni: nei tempi della gioia, dello sport, della poesia, delle tante attività e dei tanti viaggi... sembrava di avere di fronte un albero che non sarebbe mai dovuto crollare, che non si sarebbe mai

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inaridito; invece Dio lo ha fatto passare – già da subito, con l’attentato nel 1981 e poi con una serie di cadute, di malattie su su fino al Parkinson – attraverso una catena di prove e soprattutto attraverso la prova finale, quella dell’assenza della voce, dell’im-potenza totale, che egli ha vissuto con grande serenità e con grande pace. Questo alternarsi di momenti così diversi della vita, vissuti però nella stessa fede, è un grande insegnamento per tutti noi, per poter vivere quotidianamente il nostro incontro con il Signore e con la sua volontà da uomini veri, da uomini che sanno di non essere dei superuomini, ma sanno anche di poter essere accompagnati da Dio e quindi di poter godere della sua forza, del suo aiuto, della sua consolazione.

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INTERVISTE - LEZIONI - COMUNICATI

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Incontro con i giornalisti della città e della provincia nella festa di san Francesco di SalesReggio Emilia –Seminario diocesano, 26 Gennaio 2013

Cari amici, vi ringrazio di avere accettato il mio invito. È questa per me la prima occasione di un incontro con i giornalisti della nostra città e della nostra provincia. Fra i tanti temi pos-sibili della nostra conversazione ho preferito, questa volta, presentarmi, parlare di me e del mio rapporto con i giornali per fissare alcuni punti fermi. Non ho certo l’intenzione di insegnarvi che cosa sia il giornalismo né come si debba fare giornalismo. Sono un fruitore di giornali e, come tutti coloro che leggono, ho dei desideri. Questi desideri sono profondamente segnati dalla mia esperienza e dalla mia concezione dell’uomo, che ho imparato nella Chiesa. Non concepisco e non sento la mia visione delle cose come una chiusura. Amo la Chiesa perché essa mi spalanca al mondo. Amo la Chiesa perché essa mi riporta a Cristo che ha detto: sono venuto per servire e non per essere servito (cfr. Mt 20,28). Non posso parlare di giornalismo senza tener conto della mia esperienza personale, dalla mia visione degli uomini e del mondo. Ho una profonda stima per il vostro lavoro, che è diventato sempre più importante e sempre più incisivo nella nostra società. Penso al film, ormai di molti anni fa, di Orson Welles: Quarto potere, che, accanto ai classici poteri legislativo, esecutivo e giudiziario dello stato, parlava del potere della stampa, della comunicazione sociale. Oggi questo potere si è approfondito, è diventato più penetrante attraverso la diffusione delle tec-nologie. Molte vite dipendono da voi. Potete, per usare una terminologia evangelica: aprire e chiudere. Una vita può essere esaltata, addirittura costruita nella sua notorietà, nella sua grandezza dai giornali. Allo stesso modo può essere abbassata e distrutta. I giornalisti, in questo mondo della carta stampata e oggi della comunicazione via Internet, sono anch’essi parte di un sistema più grande di loro. Dipendono da direttori e questi a loro volta, con le redazioni, dipendono dai proprietari. Dipendono dalla pub-blicità. Tutto questo mi fa capire quanto sia difficile l’arte del giornalismo, quanto sia difficile rimanere fedeli allo scopo ideale per cui uno intraprende questa carriera. Oggi la professione giornalistica si sta modificando profondamente. I blog e social network fanno potenzialmente di tutti noi dei giornalisti. Tutti possiamo essere fonte di notizie, o almeno possiamo pensare di esserlo. I social network hanno un forte peso di influenza sull’opinione pubblica. È dunque finito il giornalismo? Per rispondere a queste domande vorrei presentar-mi e parlare un po’ di me.

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Andiamo lontano, a più di sessant’anni fa. Sono nato a Milano, ma a pochi giorni mi hanno portato in un paesino sulla costa lombarda del lago Maggiore. Era da poco finita guerra. Ero gemello, settimino, malaticcio. A tre anni e mezzo ho dovuto lasciare quel paese, la nostra casa non aveva un riscaldamento adeguato, per passare sei mesi dai nonni a Milano dove la casa aveva termosifoni e acqua calda. Ero malato. Che fare a letto? Mia nonna era cieca e così il nonno, in pensione, mi insegnò a poco a poco le lettere dell’alfabeto, quelle a stampa. Cominciai così a leggere alla nonna prima i titoli e poi, via via, gli articoli del Corriere della sera. Fu quello il mio primo incontro con il giornalismo. E attraverso gli articoli del Corriere della sera, negli anni delle elementari e delle medie, imparai a viaggiare restando a casa. Gli inviati del Corriere, (ricordo i più grandi, o quelli che, per me furono più importanti: Indro Montanelli, Virgilio Lilli, Egisto Corradi) mi portavano in mondi lontani o mi facevano conoscere realtà di cui non ave-vo mai sentito parlare. Erano inviati di guerra, erano corrispondenti, erano profondi e capaci narratori della vita quotidiana. Per non parlare poi di Dino Buzzati, di Montale: poeti e scrittori che al Corriere della sera immettevano la vena della loro poesia dentro la cronaca. Facciamo un passo avanti: in terza elementare ho incontrato una maestra che mi ha appassionato alla lettura e allo scrivere. Mi ha fatto scoprire la magia della parola, delle parole. Conservo ancora il diario scritto durante quell’anno di scuola. Da allora in poi non ho mai perso l’abitudine di scrivere e di leggere. Ho letto e ho scritto tantissi-mo. Si può dire che il rapporto con la parola e con le parole, che poi avrebbe assunto un’importanza particolare nella vocazione sacerdotale, è stato il pane quotidiano della mia vita. Studente di filosofia, mi sono interessato all’origine delle parole e al dibattito fra coloro che sostengono che esse siano frutto di pura convenzione e coloro che sosten-gono che all’origine delle parole, nelle loro radici, stia un rapporto particolare con la realtà di cui sono quasi lo specchio. Di tutto questo ho parlato più ampiamente nel libro Dentro le cose, verso il mistero, che è come un’autobiografia del mio spirito. Perché mi interessano le parole? Non sono mai stato un filologo. Le parole non mi interessano in se stesse, anche se riconosco il fascino della filologia. Esse però mi affascinano perché mi parlano di uomini, di donne, di fatti, di storie. La parola è come una strada verso i fatti. Io credo profondamente che l’uomo possa conoscere i fatti. Certamente nella sua interezza ogni avvenimento rimane irraggiungibile. Ma qualcosa degli avvenimenti possiamo conoscere. Qualcosa di autentico, di vero. Non voglio escludere con questo il dibattito delle interpretazioni, ma dico che esse sono interes-santi nella misura in cui ci permettono un avvicinamento progressivo ai fatti stessi. È questa la concezione che io ho della storia. Rimando anche per questo al mio libro (Dentro le cose…, ndr). La storia, assieme alla letteratura, è stata l’altra grande pas-

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sione della mia vita. Mi sembra in questo modo di aver rivelato i due pilastri fondamentali del giornali-smo: le parole e i fatti. Quando penso a un giornalista penso a un artista della parola che sa trasmettere attraverso di essa l’accaduto. Non ho nessuna visione romantica di tutto ciò. So benissimo quanto sia difficile scrivere, quanto sia difficile vedere, vedere in profondità. So quanto sia difficile andare a vedere. Quanti giornalisti sono morti sui campi di guerra, uccisi dal potere. Quanto dobbiamo perciò per la nostra conoscenza della realtà al sacrificio di tanti vostri colleghi!

Vorrei vedere con voi ora ciò che mette in discussione, o per lo meno pone degli interrogativi, a questa definizione del giornalismo come “fatti raccontati dalle parole”. Innanzitutto dobbiamo dare spazio alle immagini. Il nostro è indubbiamente un tem-po dell’immagine: la fotografia, il cinema, la televisione e oggi soprattutto Internet per-mettono di vedere in presa diretta ciò che accade in regioni lontanissime. Addirittura in spazi dell’universo che mai avremmo pensato di poter raggiungere col nostro occhio, seppure elettronico. Siamo come annegati in una quantità di immagini e in una quan-tità di parole che ci impediscono di cogliere il nesso fra la nostra persona e la realtà. Quello che dovrebbe essere un aiuto diventa, molte volte, un ostacolo. Il giornalismo non ha dunque oggi meno spazio di un tempo. L’inviato che va sul po-sto, che racconta, che scrive, che trasmette per immagini, proprio in questa overdose di parole e di colori ha una funzione ancora più preziosa di un tempo. Il suo compito è ancora più delicato. Dal punto di vista morale deve scegliere cosa farci vedere, deve orientarci. Corre il rischio di sostituirsi a noi. Non c’è più tempo per una verifica. Se le parole sono a rischio di essere cancellate dalle immagini, i fatti sono messi in discus-sione delle opinioni e oggi soprattutto dalla virtualità. Husserl all’inizio del secolo passato diceva: «dobbiamo tornare alle cose» (cfr. E. Husserl, Ricerche logiche, I, Net, Milano 2005, p. 272). Io credo che un compito impor-tante del giornalismo sia quello di aiutarci a tornare alle cose. Chiamare le cose con il proprio nome, raccontare ciò che veramente accade. Aiutare il formarsi delle opinioni, senza che qualcuno si debba sostituire a questo lavoro di formazione. La forza delle ideologie ha distrutto il desiderio stesso nell’uomo di andare a vedere. Un altro rischio, questa volta mortale, corre il giornalismo ed è descritto dal rapporto tra verità e potere. Il potere finanziario, il potere dei grandi centri ideologici mondiali – che non sono venuti meno con la fine della guerra fredda, ma si sono trasformati, sganciandosi sempre più dagli stati – di fatto sembrano determinare una morsa in cui non c’è più posto per la verità. Viene contrabbandato come verità ciò che si vuole di-venti legge, diventi opinione corrente, della maggioranza. Pongo questo soltanto come interrogativo per noi: esiste una natura dell’uomo?

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Esistono il bene e il male? Esiste nell’uomo una coscienza che può dire ciò che è bene e ciò che è male? Esiste nell’uomo una capacità di discernere e di giudicare? È un uomo vero quello che rinuncia alla verità e la calpesta? Come vedete la vostra professione si trova al centro delle questioni più importanti della vita di oggi. È una professione difficile, ma affascinante. Io credo che i giornalisti che resteranno, saranno quelli che avranno servito l’uomo, quelli che avranno accet-tato di raccontare con le loro parole i fatti andandoli a vedere, portando con onestà ai lettori quello che si comprende dell’accaduto, non contrabbandandolo, non inquinando la verità con le idee precostituite dei potenti. Da questo punto di vista, quella del gior-nalista è una vera e propria missione. In quanto servitori della verità spero di avervi come collaboratori nel mio servizio alla vita degli uomini di questa terra.

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Messaggio alla Diocesi in occasione dell’annuncio delle dimissioni di Benedetto XVI

Reggio Emilia, 11 Febbraio 2013

La prima parola che voglio dire è di ringraziamento a Dio per averci concesso questo Papa, per averci donato la sua profondità intellettuale e spirituale, la sua finezza d’a-nimo, la sua umiltà. Io personalmente devo molto a lui. Gli sono grato per l’affetto che ha sempre dimostrato per la mia persona.L’annuncio delle dimissioni che il Papa ha dato questa mattina al concistoro dei Car-dinali mi riempie di silenzio e di preghiera. Di silenzio perché sono consapevole di partecipare a un momento grande della storia della Chiesa. Essa infatti è segnata soprattutto dal rapporto di ogni uomo con Dio, dall’adesione alla sua volontà. Il Papa, nella profondità della sua coscienza cristiana, ha percepito che rispondere oggi a Dio significava per lui ritirarsi. È una scelta drammatica e, nello stesso tempo - ne sono sicuro -, apportatrice di pace per il suo animo credente. Esce così dalla scena del go-verno della Chiesa un grande Papa, che verrà ricordato per tante ragioni. Alla morte di Giovanni Paolo II, dopo 27 anni di magistero incisivo e planetario, tutti ci chiedevamo: “Chi potrà succedere a un simile Papa? Chi potrà imprimere un suo stile dopo una tale altezza di presenza e di parola? Benedetto XVI, con grande umiltà, ha saputo disegnare una sua linea di interpretazione del sommo pontificato. Una linea che è passata attraverso la catechesi. Egli verrà ricordato nei secoli, a mio parere, come un nuovo Leone Magno, un nuovo Gregorio Magno, un vescovo che ha saputo introdurre i cristiani in una visione profonda e sintetica dell’esperienza della Chiesa, mettendo al centro di essa la liturgia e la preghiera.Benedetto XVI è stato un Papa che ha svelato la carità come contenuto della fede. Lo ha detto nel messaggio per la Quaresima e mostrato con questo suo ultimo atto di governo. Egli ha espresso ciò che è essenziale nel cristianesimo: il legame con la Tradizione, la centralità della liturgia, la necessità della grazia che salva, la superiorità della vita personale di fronte ad ogni burocrazia o sovrastruttura. Nello stesso tempo egli ha parlato a tutti gli uomini, mostrando la grande stima che il cristianesimo ha della ragione umana e combattendo contro ogni riduzione di essa. Il Logos è il cuore del cristianesimo: è questo il principio che combatte ogni assolutizzazione politica della religione. Ha posto continuamente sul tappeto il tema della convivenza tra i popoli e le religioni.Inizia ora un tempo di preghiera nella Chiesa, affinché sia concesso dallo Spirito di Dio un nuovo Papa che sappia continuare l’opera dei suoi predecessori con la santità che i papi del Novecento hanno saputo incarnare in modo così mirabile.

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La famiglia: problematiche pastorali e canonistiche. Prolusione per l’apertu-ra dell’anno giudiziario 2013 del Tribunale Ecclesiastico Regionale Emiliano

Modena, 6 Marzo 2013

1. L’Io è essenziale relazione con un Tu

Non è bene che l’uomo sia solo (Gn 2,18). L’incisiva osservazione dell’autore sa-cro ci permette di entrare subito nel cuore del tema su cui questa mattina vogliamo riflettere. Infatti, non possiamo avere coscienza adeguata dell’istituto familiare senza considerare che cosa sia l’uomo, quale la sua costituzione originale.

Non è bene che l’uomo sia solo: l’uomo non è fatto per la solitudine. Creati da Dio come uomo e donna, portiamo nella nostra stessa costituzione fisica il segno della no-stra incompiutezza, del nostro destino comunionale. Non c’è bene nella solitudine, c’è bene solo nella comunione1* . In questa innata apertura ad altro da sé, riconosciamo nell’uomo e nella donna l’impronta della Trinità, l’impronta, cioè, di quel “noi” divino che costituisce il modello del “noi” umano.

Nel mio libro dedicato alla famiglia2 ho cercato di far vedere come essa sia la prima naturale espressione di questa indole sociale dell’uomo. Sappiamo che tanti nostri contemporanei ritengono la famiglia inutile alla realizzazione della loro vita; molti si sono convinti della sua opposizione radicale al bisogno di libertà che muove ogni uomo. La famiglia – dicono – rappresenta un oneroso retaggio del passato, una pietra sepolcrale sulla libertà del singolo. Il presupposto di questa diffusa convinzione è un tragico errore circa la verità profonda dell’essere umano e del suo costitutivo anelito di comunione. L’ideale di uomo sotteso a quel giudizio è quello di un singolo assoluto, solo, sciolto da ogni legame.

Erich Fromm scrive: «Ho bisogno di te per essere me stesso. Amandoti, tu mi dai a me stesso, tu mi permetti di essere3». Ciò che la Sapienza di Dio stabilisce in prin-cipio trova corrispondenza nella spontanea considerazione di un insospettato autore contemporaneo. Uno sguardo attento sull’azione umana rivela un’insopprimibile ten-sione alla relazione presente in ogni uomo. Lo attesta anche l’uso compulsivo dei social network: sotto quella spasmodica attività vi è un radicale bisogno di comunione e amicizia. Non si tratta di un vago orientamento alla socializzazione; piuttosto della fondamentale destinazione al tu, all’altro come configurazione radicale dell’io. È un dato naturale precedente ogni cultura. Perciò l’io è persona. Ogni uomo è un essere per l’altro. Il personalismo dei decenni scorsi, assunto e valorizzato dal Concilio Vatica

1 Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, n. 6. 2 M.Camisasca,Amareancora.Genitoriefiglinelmondodioggiedidomani,EdizioniMessaggero,Padova20113 E.Fromm,Theartofloving,NewYork1952,77,cit.inJ.Pieper,Sull’amore,Morcelliana,Brescia1974,53..

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no II, dal magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, ha illuminato ancora una volta l’intima natura dell’uomo, chiamato alla comunione. «L’uomo… non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sè», sintetizza la Gaudium et Spes al numero 24. E Wojtyła commenta: «L’uomo è simile a Dio non solo a ragione della sua natura spirituale, esistendo come person*a, ma anche a ragione della capacità a lui propria di comunità con altre persone» 4 . Oggi occorre tornare ad una visione inte-grale dell’uomo, ad una adeguata stima della sua altissima vocazione. La rivelazione divina sulla creazione è tuttora capace di rischiararne l’intelligenza e la vita. «Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gn 1,26): chiamandolo all’esistenza per amore, l’ha chiamato nello stesso tempo all’amore. Dio è amore (1Gv 4,8) e vive in se stesso un mistero di comunione personale d’amore. Creandola a sua immagine e conti-nuamente conservandola nell’essere, Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione. L’amo-re è, pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano 5».

Il genio umano annaspa senza riferimento a Dio. Non riesce a comprendersi fuori del rapporto con Lui e con la sua Parola di verità. L’io dell’uomo Adamo è ordinato al tu della donna, di Eva, vive del rapporto con lei e, attraverso lei, con Dio. Questa struttu-rale relazione dell’uomo con la donna è la prima immagine di Dio, il primo segno della comunione trinitaria del Creatore. Ma Adamo ed Eva non sono semplicemente una metafora della vita di Dio e dell’amore che Egli vive al suo interno. La loro originaria comunione è pure l’indispensabile strumento della loro unità con Dio stesso, è suo ‘sa-cramento’. Adamo è chiamato all’incontro d’amore con il Tu di Dio che non può essere raggiunto senza la partecipazione di Eva.

Perciò l’uomo non può adempiere la sua vocazione naturale, ossia il desiderio di comunione che è inscritto nel suo cuore, se non accede all’esperienza dell’amore: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incompren-sibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente»6 .

2. Matrimonio, ‘casa’ del vero amorePoiché l’amore è la chiave di volta della vita umana, non v’è nulla di più desidera-

bile che entrare in tale esperienza. Si tratta dell’esigenza capitale che – in forma più o meno esplicita – si leva dal cuore di ogni uomo. La decisiva importanza del matrimonio e della famiglia per la vita felice di ogni persona si situa nell’ambito di questo radicale

4 K.Wojtyła,Lafamigliacome«communiopersonarum»,inId.,Metafisicadellapersona,Bompiani, Milano 2005, 1467.5 GiovanniPaoloII,Familiarisconsortio,n.11. 6 GiovanniPaoloII,RedemptorHominis,n.10.

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desiderio di amore. Costituisce il luogo naturale in cui il rapporto con l’altro può co-minciare a realizzarsi, verso la sua pienezza definitiva. Perciò, lungi dall’essere istituti del passato da difendere, il matrimonio e la famiglia sono un’opportunità del futuro da riscoprire. Non si tratta di una convenzione sociale, benché plurisecolare, cui gli uomini sono approdati ad un certo punto della loro storia. Il matrimonio tra un uomo e una donna, e la famiglia che essi fondano, non rappresentano neppure l’obbedienza estrinseca all’imposizione esterna di un comandamento divino, giustapposto alla natu-ra dell’uomo. Essi sono piuttosto una risposta all’aspirazione più profonda che sorge dal cuore dell’uomo, l’anelito all’amore totale.

Il matrimonio è la forma compiuta dell’affetto tra un uomo e una donna, la casa ca-pace di custodirlo e alimentarlo. Possiamo parlare a tal riguardo di un circolo virtuoso.

Da una parte, il matrimonio è fondato sulla libera scelta della donna e dell’uomo, sul loro affetto e sui loro sentimenti. In questo senso il matrimonio è ‘causato’ dalla libera elezione che un uomo e una donna fanno l’uno dell’altra. Anche il dato normativo ci ricorda che: “Matrimonium facit partium consensus inter personas iure habiles legitime manifestatus, qui nulla humana potestate suppleri valet” (can. 1057 § 1) e ciò proprio a sancire il fatto che all’origine del patto coniugale c’è una libera scelta dei nubendi che esercitano così il loro ius connubii.

Dall’altra, è vero anche il reciproco, ossia che il matrimonio è ‘causa’ della libera scelta dei coniugi, chiamata sempre a rinnovarsi. Quando essi scoprono di essere fatti l’uno per l’altra attraverso queste affinità elettive, il loro rapporto non può più essere abbandonato al fluttuare dei sentimenti. In quel momento si afferma la necessità di stabilire un vincolo capace di superare la labilità dei sentimenti e di consolidare l’unità alla quale essi tendono. Questo vincolo d’amore è appunto il matrimonio.

Ogni edificio ha bisogno di un solido fondamento e di qualcuno che ve lo ponga. Ora, il consenso è l’atto con cui i coniugi gettano le fondamenta del matrimonio. Così istituiscono un legame perpetuo. «L’intima comunità di vita e d’amore coniugale, fon-data dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dall’alleanza dei coniugi, vale a dire dall’irrevocabile consenso personale. E così, è dall’atto umano con cui i coniugi mutuamente si danno e si ricevono, che nasce, anche davanti alla società, l’i-stituzione del matrimonio, che ha stabilità per ordinamento divino»7 . Il can. 1057 § 2 recita a tal proposito: Consensus matrimonialis est actus voluntatis, quo vir et mulier foedere irrevocabili sese mutuo tradunt et accipiunt ad constituendum matrimonium. Tale asserto, fermamente fondato nella tradizione giuridica ecclesiale, dice proprio che anche da un punto di vista strettamente giuridico l’indissolubilità del patto coniugale si fonda sulla irrevocabilità del consenso.*

7GaudiumetSpes,n.48.

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*Molti ritengono il consenso definitivo, che pone in essere il matrimonio, un impac-cio al libero amore, che oggi c’è e domani può venire a mancare. In verità, il consenso irrevocabile che stabilisce il vincolo coniugale con le sue relative esigenze, assume l’amore sbocciato tra un uomo e una donna per esaltarlo: la libertà e l’amore a cui tutti anelano riposano soltanto in una donazione indefettibile di sé, fino al sacrificio degli istinti. E il consenso è l’originaria condizione di questa offerta di se stessi al coniuge.

Benedetto XVI ha affermato: «La fedeltà nel tempo è il nome dell’amore» 8. Il con-senso inaugura un amore unico e indissolubile, fedele ed esclusivo. Anche qui non si tratta un indebito intralcio alla libertà dei coniugi. No, l’amore e la libertà hanno biso-gno della fedeltà. Unità ed indissolubilità sono ex iure naturae proprietà essenziali del matrimonio che costituiscono così il punto di riferimento normativo imprescindibile di ogni legislazione sul matrimonio. (Can. 1056: Essentiales matrimonii proprietates sunt unitas et indissolubilitas, quae in matrimonio christiano ratione sacramenti peculiarem obtinent firmitatem).

Più volte, nel corso della sua vita pubblica, Gesù è ritornato sul tema del matrimo-

nio. Interrogato dai suoi discepoli, egli spiega loro che è venuto per riportare il mondo alla sua origine, per restaurare il disegno originario, prima del peccato di Adamo ed Eva. In tale disegno era previsto, appunto, il legame unico e indissolubile tra l’uomo e la donna, la reciproca fedeltà (cfr. Mt 19,3-9).

Noi dobbiamo aiutare gli uomini che ci sono affidati a comprendere che le proprietà del matrimonio sono necessarie al vero amore e alla felicità della loro vita. Non è infatti amore vero e perciò felice se non implica il tutto e il per sempre. Come ha ricordato il Servo di Dio Paolo VI nella sua Enciclica Humanae Vitae, la fedele esclusività è una prerogativa interna al matrimonio e al suo compimento : «L’esempio di tanti sposi attraverso i secoli dimostra non solo che essa è consentanea alla natura del matrimo-nio, ma altresì che da essa, come da una sorgente, scaturisce un’intima e duratura felicità»9 .

Il matrimonio tra due battezzati è un Sacramento. La Santa Chiesa nel suo invete-rato insegnamento giuridico ha sempre riaffermato l’inseparabilità per i battezzati tra contratto e sacramento ovvero tra l’aspetto giuridico e l’aspetto sacramentale (can. 1055 § 2: Quare inter baptizatos nequit matrimonialis contractus validus consistere, quin sit eo ipso sacramentum)10 .

Oggi questa parola suona astratta. È più che mai indispensabile richiamare la

8 BenedettoXVI,CelebrazionedeiVespriconsacerdoti,religiosi,seminaristiediaconi,Chiesadella SS.maTrinidade,Fatima,12maggio2010.9 PaoloVI,HumanaeVitae,n.910 Cfr.E.Corecco,IusetCommunio.ScrittidiDirittocanonico,vol.II,sez.VI,Piemme1997.

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realtà grande e profonda che essa nasconde. Un uomo e una donna che sono parte del Corpo di Cristo in virtù del Battesimo, con il matrimonio diventano un sacramento, ossia un segno e uno strumento potente dell’unità di Cristo con la sua Sposa, la Chie-sa. Anzitutto l’uno per l’altra. Giovanni Paolo II ha scritto: «Il matrimonio dei battezzati diviene così il simbolo reale della nuova ed eterna Alleanza, sancita nel sangue di Cristo»11 .

3. Preparazione del matrimonio e dichiarazioni di nullitàLa realizzazione esistenziale del vincolo matrimoniale, stabilito dal mutuo consenso

dei coniugi, esige un’adeguata preparazione. Amore e fedeltà non si possono improv-visare. Troppo spesso la normativa canonica riguardante un’adeguata preparazione al matrimonio (cfr. can. 1063 e ss.) non viene considerata dai pastori in cura d’anime con la dovuta serietà. Prima di contrarre il matrimonio occorre un cammino che introduca i fidanzati all’amabilità e alla praticabilità della fedeltà. Oggi parlare di fidanzamento sembra desueto. Al di là delle degenerazioni formalistiche del recente passato, l’e-sperienza del fidanzamento rimane preziosa. Prima di pronunciare un sì irrevocabile, occorre conoscersi. È più che mai necessario aiutare i nubendi a conoscere veramen-te la realtà del matrimonio, nella quale vogliono entrare. A tal riguardo non bastano neppure i corsi prematrimoniali, così come vengono interpretati normalmente. Non serve limitarsi a rovesciare sui fidanzati un astratto bagaglio di nozioni sul matrimonio.

C’è bisogno di guidarli alla bellezza della fedeltà, alla fecondità del sacrificio di sé per il bene dell’altro, al compimento che si sperimenta donandosi. È molto impor-tante la testimonianza e la compagnia viva di quanti li precedono in questa decisiva esperienza. Allo stesso tempo, è fondamentale che un sacerdote li conduca ad una profonda conoscenza della loro nativa vocazione all’amore e della loro capacità di impegnarsi con essa, l’uno rispetto all’altra. Occorre esaminare accuratamente le di-sposizioni dei candidati, la loro retta conoscenza del matrimonio e dei fini che gli sono propri e verificare, come afferma il can. 1066, che prima di celebrare il matrimonio nulla si opponga alla sua celebrazione valida e lecita.

Oggi accade spesso di correre ai ripari troppo tardi, quando i fidanzati sono ormai divenuti coniugi. Troppo facilmente essi invocano la dichiarazione di nullità matrimo-niale. «Bisogna adoperarsi – ha affermato Benedetto XVI – perché s’interrompa, nella misura del possibile, il circolo vizioso che spesso si verifica tra un’ammissione sconta-ta al matrimonio, senza un’adeguata preparazione e un esame serio dei requisiti pre-visti per la sua celebrazione, e una dichiarazione giudiziaria, talvolta altrettanto facile,

*

11 GiovanniPaoloII,MulierisDignitatem,n.9.

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ma di segno inverso, in cui lo stesso matrimonio viene considerato nullo solamente *in base alla constatazione del suo fallimento12» . Infatti non ogni matrimonio “fallito” è necessariamente un matrimonio nullo. Spesso queste due realtà vengono confuse. Un matrimonio può essere celebrato in modo valido con piena libertà e coscienza e da persone abili, ma poi avere un esito infelice a causa di un cattivo impegno della libertà degli sposi e di un fraintendimento di cosa sia la realtà della vocazione. Non dobbia-mo assolutamente confondere queste due realtà, pena il fatto di arrivare a concedere una dichiarazione di nullità di matrimonio solamente perché la parte o le parti l’hanno chiesta.

Talora capita che la dichiarazione di nullità di un matrimonio laceri la coscienza di un coniuge, soprattutto se incolpevole, e ne provochi un grave scandalo. Si tratta del caso in cui uno dei due ha sinceramente dedicato tutto se stesso nel matrimonio quan-do – dopo molti anni – viene a sapere che esso non è mai esistito perché al momento del consenso mancavano le condizioni necessarie nell’altro. Ora, ammesso che il processo di nullità si sia svolto coscienziosamente, occorreva comunque vigilare più attentamente nel corso dell’esame prematrimoniale.

In tutto questo un ruolo fondamentale è assegnato non solo alla preparazione spe-cifia al matrimonio, ma, più in generale, alla fede dei singoli. Come ha ricordato nel gennaio scorso Benedetto XVI nel discorso alla Rota Romana, «l’attuale crisi di fede… porta con sé una crisi della società coniugale con tutto il carico di sofferenza e disagio che questo comporta anche per i figli. […] Il patto indissolubile tra uomo e donna, non richiede, ai fini della sacramentalità, la fede personale dei nubendi; ciò che si richiede, come condizione minima necessaria, è l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. Ma se è importante non confondere il problema dell’intenzione con quello della fede persona-le dei contraenti, non è tuttavia possibile separarli totalmente»13 .

4. La fecondità dell’amore coniugaleIl bene dei coniugi, il cammino verso la loro felicità è un fine del matrimonio. Ma c’è

anche un altro scopo che appare all’inizio della Bibbia. È la fecondità. Oggi, una invalsa corrente di pensiero dubita che la generazione rappresenti un

valore umano e sociale. Per alcuni studiosi, che predicano la teoria secondo cui tutti i mali del mondo vengono dalla sovrappopolazione, il calo delle nascite in Europa è una benedizione. Tanto, si dice, i figli che mancano verranno rimpiazzati da nuovi popoli.

12BenedettoXVI,Inaugurazionedell’AnnoGiudiziariodellaRotaRomana,22.1.2011.13BenedettoXVI,Discorsoinoccasionedell’inaugurazionedell’annogiudiziariodelTribunaledellaRotaRomana, 26 gennaio 2013.

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Di fatto, il calo delle nascite è il più grande ostacolo alla rinascita del nostro Occidente e la premessa sicura al suo declino. Chi è convinto che l’Occidente e la sua storia costituiscano una risorsa per tutto il mondo, deve chiedersi: da dove nasce la crisi de-mografica? Quali fattori hanno concorso a questo stato presente che dovrebbe preoc-cupare ognuno di noi? Qual è l’origine di questo blocco di fronte alla prospettiva di met-tere al mondo dei figli? La causa non può essere solo la povertà o la crisi economica. La ricchezza è proporzionalmente aumentata ed è meglio distribuita che nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento. Non può essere la sicurezza del parto, che è note-volmente cresciuta. I motivi della denatalità sono altri: il desiderio della donna di avere un lavoro autonomo, che sarebbe insidiato dalla nascita dei figli, in assenza di leggi efficaci a favore della maternità; il desiderio di offrire al figlio prospettive agiate di vita, i costi preventivati dei futuri studi dei figli, l’accresciuta incertezza dei posti di lavoro. Tutto ciò non è sufficiente, però, a spiegare la riduzione delle nascite. Certo, occorre pensare anche alla maggiore possibilità di pianificarle, alla crescita esponenziale del numero di aborti, alla fragilità delle unioni matrimoniali che sembrano non avere una prospettiva di futuro. Ma, infine, la causa radicale di tutto questo è la paura. Paura del presente e del futuro. Paura di non sapere educare, di non sapere accompagnare i figli verso il loro domani; di perdere il tempo libero per sé, per il proprio relax e la propria comodità.

Si è così consumata una vera e propria rivoluzione antropologica che non può essere affrontata e vinta senza rinnovare l’esperienza originaria che si oppone alla paura. Non si tratta del coraggio, ma della speranza. Urge la speranza che nasce dalla fede. Proprio questo è, a mio parere, il livello in cui l’uomo è chiamato a rinascere nella considerazione dell’esistenza, nello sguardo sulla vita quotidiana. Chi vede tutto nero è spesso un uomo solo. Non ha amici, non crede che sia possibile averne, pensa che all’origine di tutto ci sia il caso, non un Padre provvidente. Oppure che questo Padre dorma, disinteressandosi degli uomini. Il mondo è governato dal Principe del male? Tutto ciò che in me, come in tanti altri uomini e donne, è aspirazione verso il bene, è capacità di sacrificio, è scoperta della positività delle cose…mi parla invece di un Si-gnore buono che guida la storia. Proprio perché buono, non vuole imporsi, ha sommo rispetto per la libertà dell’uomo, accetta di essere misconosciuto e rigettato. È allora necessario educare la libertà degli uomini a riaprirsi alla verità, al bene, alla bellezza, alla giustizia: a Dio.

L’uomo contemporaneo, e specialmente i giovani, ha il pressante bisogno di essere orientato a guardare e a riconoscere la luce, la positività. Perché ciò avvenga, occorre che sia preso per mano, accompagnato a scoprire e vivere le esperienze positive. Tutto ciò è impossibile senza Dio. L’aiuto di Dio, principio e fine d’ogni anelito e moto umano, è imprescindibile. L’educazione alla preghiera e la sua riscoperta sono un

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elemento centrale nella rinascita del nostro popolo. Dopo le invasioni dei barbari e il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, la nostra civiltà rifiorì grazie all’opera di san Benedetto e di piccoli uomini per i quali nulla andava anteposto a Cristo.

Non può esserci fecondità senza riconoscimento della positività della vita, senza Dio. La rivoluzione antropologica che abbiamo in breve descritto ha screditato la bel-lezza della fecondità perché ha offuscato la luce della vita, il suo significato buono. Eppure basta leggere con verità dentro le proprie elementari esperienze per capire che ogni vero amore vuole essere comunicativo, vuole aprirsi ad altri.

Quando ancora nulla era stato creato, e solo Dio era, esisteva già l’amore. L’uni-verso è stato posto in essere per l’Amore dirompente di Dio che vuole comunicarsi: l’amore è il motore vitale di ogni cosa, è il cuore della creazione.

Dio ha affidato la continuità del suo stesso atto creativo, la maggiore diffusione del-la sua bontà originaria, all’unione matrimoniale tra l’uomo e la donna.

«Nella sua realtà più profonda, l’amore è essenzialmente dono e l’amore coniuga-le, mentre conduce gli sposi alla reciproca conoscenza che li fa una carne sola non si esaurisce all’interno della coppia, poiché li rende capaci della massima donazione possibile, per la quale diventano cooperatori con Dio per il dono della vita ad una nuova persona umana. Così i coniugi, mentre si donano tra loro, donano al di là di se stessi la realtà del figlio, riflesso vivente del loro amore, segno permanente della unità coniugale e sintesi viva e indissociabile del loro essere padre e madre»14.*

La capacità di dilatarsi ad altri è un elemento intrinseco ad ogni vero amore. La disponibilità alla generazione non è pertanto un aspetto accessorio del matrimonio, è piuttosto un bene strettamente legato a quello dei coniugi stessi. Non si aggiunge dopo; è già dentro al reciproco amore dei coniugi e agli atti che lo significano. E’ un mistero di sovrabbondanza che è il segreto nascosto di ogni amore. «Essere due significa, a lungo andare, morte. Un’eterna contrapposizione di un uno e un uno conduce alla fine a un esaurimento dell’amore. Per mantenere vivo l’amore tra due ci vuole sempre un terzo, che travalica i due che si amano. Ci vuole un compito che li riempie, una fonte che alimenta il loro amore, un interesse comune, un qualcosa che stimola, che fa pro-gredire, che spezza il cerchio, che fornisce l’occasione per un eterno rinnovamento dell’amore. Qualcosa che tocca ambedue e che mantiene così vivo il loro rapporto»15 .

La contraccezione e l’aborto rappresentano una grave offesa alla connaturale aper-tura alla vita di ogni vero amore. Essi fermano la tensione alla dilatazione di sé, che è inscritta nell’intera natura. La dicotomia tra esercizio della sessualità e fecondità è deleteria per il bene dei coniugi, chiude sempre più in se stessi producendo, infine, un amaro senso di solitudine. L’aborto e l’infanticidio, oltre a costituire «abominevoli

14GiovanniPaoloII,FamiliarisConsortio,n.14. 15A.vonSpeyr,IlVerbosifacarne.Riflessionisuicapitoli1-5dalVangelodiGiovanni,JacaBook,Milano1982,23.

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delitti»16* contro un innocente, provocano gravi danni all’integrità psichica e morale della madre.

A tal riguardo, occorre che i politici legiferino in favore della tutela del nascituro sin dal suo concepimento. I postumi delle leggi pro aborto sono sotto gli occhi di tutti. Urge tutelare veramente i diritti del nascituro, a beneficio di tutta la società.

Può darsi che l’attitudine dell’amore coniugale alla generazione non possa espri-mersi in figli carnali, per motivi fisiologici. In tal caso, i coniugi possono trovare vie alternative alla fecondità: mi riferisco all’adozione e all’affido. Non c’è soltanto la gene-razione biologica.

Ogni figlio è un dono. Nessuno è padrone del proprio figlio. Ciascun genitore è in realtà padre o madre putativo, chiamato ad accompagnare il figlio verso il compimento della sua vocazione, che supera ogni velleitario progetto di parte. In questo senso la paternità e la maternità putative di genitori adottivi possono adempiersi fino in fondo, come nel caso di genitori carnali.

5. Educazione dei figli, rinascita della societàNon basta mettere al mondo dei figli per essere padri e madri. Occorre educare,

cioè introdurre alla vita. «Il compito dell’educazione affonda le radici nella primordiale vocazione dei coniugi a partecipare all’opera creatrice di Dio: generando nell’amore e per amore una nuova persona, che in sé ha la vocazione alla crescita e allo sviluppo, i genitori si assumono perciò stesso il compito di aiutarla efficacemente a vivere una vita pienamente umana»17 . L’educazione della prole, inseparabile dalla generazio-ne, come ricorda il can. 1055 – Matrimoniale foedus… indole sua naturali ad bonum coniugum atque ad prolis generationem et educationem ordinatum… – è il campo di lavoro dell’uomo in cui egli è più simile a Dio, tanto da aver massimamente bisogno di lui. Infatti, educare non significa trasmettere un insieme di nozioni o imporre una serie di regole; non significa neppure legare a sé la persona che si vuole aiutare a crescere con vincoli affettivi o intellettuali.

Il papà e la mamma sono chiamati a essere i primi maestri della fede dei figli. Un tempo si soleva dire che la fede è trasmessa dalla mamma con il latte e dal papà con il suo lavoro sin dalla nascita del bimbo. In seguito, educare significa prendere il proprio bambino per mano e guidarlo ad incontrare le cose. Occorre che i genitori accompa-gnino i loro piccoli a scoprire sempre di più la realtà delle cose, a levare il velo che le nasconde per attingere al loro significato, a Dio. Essi sono chiamati a percorrere con i ragazzi una strada che li aiuti a vedere come ogni cosa contenga una domanda e come ciascuna domanda rimandi ad una risposta. Più che mai, è urgente introdurre i

16GaudiumetSpes,n.51. 17FamiliarisConsortio,n.36.

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ragazzi alla grande bellezza della tradizione cui apparteniamo, educarli a conosce-re la storia del popolo nel quale siamo inseriti, da Abramo sino a noi. Infine, è neces-sario che i genitori immergano i figli nella preghiera e li ‘cedano’ alla grazia di amicizie significative. Condurre i figli al rapporto personale con Dio attraverso la preghiera del suo popolo e consegnarli ad amici che ne evochino la presenza buona, equivale a generare un’altra volta i propri figli; significa contribuire in modo decisivo a rigenerarli alla fede, dentro ad un’esperienza viva.

L’umanità rinata dalla fede in Cristo, alla quale genitori e famiglia iniziano i ragazzi, costituisce una preziosissima risorsa per la riforma dell’intera società civile. A tal pro-posito, Giovanni Paolo II definì la famiglia «il luogo primario di umanizzazione della persona»18 *. Ora, poiché la famiglia è il fondamento solido della società, la società, la politica e lo Stato sono chiamati a preservarne l’integrità e a favorirne continuamente la crescita. Si tratta di riconoscere e sostenere il servizio positivo che la famiglia, fon-data sul matrimonio tra un uomo e una donna, esercita in favore della società. Si tratta di impedire ciò che la ferisce. Lo Stato non può mai sostituirsi alla famiglia. Anche in tempo di crisi economica, rimane il dovere e il diritto dei genitori alla libera educazione dei figli e alla continuità tra opera della scuola e opera della famiglia. Rimane, cioè, il dovere dello Stato di sostenere, anche economicamente, le scelte educative dei ge-nitori in campo scolastico. La libertà di educazione della famiglia è fonte di bene e di crescita per tutta la società.

18GiovanniPaoloII,Christifideleslaici,n.40.

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Alle radici del rinnovamento. Una lettura del Concilio Vaticano II. Intervista a cura di Edoardo Tincani

Correggio, chiesa di san Pietro, 7 marzo 2013

“Gaudet Mater Ecclesia…”: con queste parole papa Giovanni XXIII, l’11 otto-bre 1962, apriva solennemente il Concilio Ecumenico Vaticano II. Lei era quin-dicenne… Vorrei sapere quali sono i suoi ricordi personali di quelle giornate storiche.

Siamo agli inizi degli anni Sessanta, contrassegnati da un grande slancio in avanti della società occidentale. Un ottimismo che faceva dimenticare o almeno mettere in secondo piano i gravi problemi che pure esistevano: l’Europa era divisa in due parti, l’ondata di benessere che effettivamente stava radicandosi in Europa apriva, però, problemi di trasformazione culturale di enorme portata (una nuova concezione del-la famiglia con il diffondersi della pillola, una diversa visione del tempo libero, una nuova esperienza della mobilità, una nuova concezione dell’uomo e della vita portata dallo sviluppo della televisione e del cinema, ecc…). Si scopriva la fame nel mondo: esistevano milioni di uomini sottoalimentati, che vivevano in condizioni di precarietà assoluta. La Chiesa era perseguitata nei Paesi comunisti, viveva una tragedia di cui non si conoscevano bene i contorni. Eppure l’ascesa di un cattolico alla Casa bianca, un nuovo stile di esercizio del ministero petrino portato da Papa Giovanni,… tutto sem-brava presagire un’epoca nuova.

Nel ’61-’62 avevo 15-16 anni, erano gli anni del ginnasio. La fede e la Chiesa erano per me due dati molto profondi e molto solidi, portati dall’educazione dei miei genitori. Non potevo neppure lontanamente immaginare cosa sarebbe accaduto di lì a pochi anni: il ’68, la contestazione ecclesiale, il terrorismo… Furono per me anni luminosi. Nell’annuncio e nell’inizio del Concilio vidi un segno di vitalità della Chiesa. Non potevo però assolutamente immaginare le dimensioni di ciò che sarebbe accaduto.

Torniamo all’annuncio del Concilio. Fu un fatto dirompente o in qualche modo il terreno era già preparato ad accogliere quel seme?

L’annuncio di un nuovo Concilio da parte di Giovanni XXIII si inserì all’interno del diffuso clima di rinnovamento di cui ho parlato prima. Da questo punto di vista fu un annuncio naturale, ma nello stesso tempo inaspettato. Naturale, poiché i germi di una radicale esigenza di rinnovamento della Chiesa erano stati gettati da lungo tempo, già durante il pontificato di Pio XII, fondamentale perché maturasse nella Chiesa l’esigen-

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za di una nuova assise conciliare. C’era stato, lungo tutto il Novecento, un ritorno alle fonti (bibliche, liturgiche e patristiche).

Ma nello stesso tempo fu un annuncio inaspettato e nuovo. Nessuno si aspettava una decisione simile da un Papa che, nella mente di chi lo conosceva solo superficial-mente, doveva segnare un periodo di transizione tra il lungo pontificato pacelliano e il nuovo.

Leggendo con attenzione la Gaudet Mater Ecclesia, possiamo entrare nel cuore di Giovanni XXIII. «Il grande problema, posto davanti al mondo, dopo quasi due millenni resta immutato»: con Cristo o senza Cristo. Il Papa va alla radice delle questioni: ne-cessità per la Chiesa di annunciare l’immutata verità di Cristo in modo da raggiungere l’uomo moderno e contemporaneo. È ottimista Giovanni XXIII, e comunica ottimismo. «A noi sembra – dice – di dover dissentire dai profeti di sventura che annunziano even-ti sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo. Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani… che si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della Chiesa».

Qual era il compito principale del Concilio nella volontà di Giovanni XXIII che lo indisse?

Risponde lui stesso sempre nella Gaudet Mater Ecclesia: «Questo massimamen-te riguarda il Concilio ecumenico: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia cu-stodito e insegnato in forma più efficace». Ma il Papa non si limita a enunciare lo scopo – custodire e insegnare in modo più efficace –, ne indica anche il fondamento nella perennità e immutabilità della rivelazione che Dio ha fatto nel suo Figlio unigenito. En-tra così anche nel merito del metodo attraverso cui il Concilio deve conseguire il suo scopo: «Perché tale dottrina raggiunga i molteplici stadi dell’attività umana… è neces-sario anzitutto che la Chiesa non si discosti dal sacro patrimonio della verità ricevuto dai Padri; e al tempo stesso deve anche guardare al presente, alle nuove condizioni e forme di vita introdotte nel mondo odierno, le quali hanno aperto nuove strade all’apo-stolato cattolico… Dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa nella sua interezza e precisione, quale ancora splende negli atti conciliari del tridentino e del Vaticano I… è necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che ri-sponda alle esigenze del nostro tempo». Dunque uno sguardo rivolto in avanti, avendo i piedi ben saldi nella storia e nella Tradizione che ci raggiungono dal passato. Tutto questo, nelle intenzioni di Giovanni XXIII era da conseguire «usando la medicina della misericordia piuttosto che quella della severità».

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E Lei come definirebbe lo scopo del Concilio, anche alla luce del suo sviluppo e delle sue interpretazioni?

Per comprendere qualcosa del Concilio Vaticano II occorre allargare lo sguardo e considerarlo all’interno dell’intera storia della Chiesa. Senza una visione globale, infat-ti, rischieremmo di assolutizzare dei particolari e ci sarebbe precluso l’accesso al cuore di questo grande evento che la Chiesa ha vissuto.

Parlare del Concilio, dunque, significa innanzitutto parlare della necessità continua che la Chiesa ha di rinnovarsi: Ecclesia semper reformanda. Perché la Chiesa ha bi-sogno di rinnovamento? In cosa consiste questo rinnovamento? Come il Vaticano II ha incarnato questo bisogno? Queste mi sembrano le domande fondamentali.

Occorre umiltà per parlare della Chiesa, e più ancora per parlare di una rinascita della sua vita, per parlare di una riforma nella Chiesa. Occorre immedesimarsi col disegno di Dio nella storia, disegno che sorpassa sempre ogni nostra possibilità di previsione e di comprensione.

Dio è un riformatore. Vuole che la sua opera rinasca nei cuori degli uomini e nella storia dell’umanità. Per questo pensare alla riforma nella Chiesa vuol dire cercare di entrare, domandare di entrare, in ciò che Dio vuole.

La parola “riforma”, però, è uno di quei termini dai mille significati (si parla da anni di riforme istituzionali, per esempio…). In che senso il Concilio Vaticano II ha costituito una riforma della Chiesa?

La riforma è innanzitutto cambiamento che riguarda la mia vita. È un’esperienza, presente e passata, che ha segnato profondamente la mia esistenza. Come posso rispondere a colui che mi ha amato e mi ama? Come può cambiare la mia vita per rispondere a Cristo?

A differenza della storia profana, o almeno di alcune sue correnti storiografiche che concepiscono la storia come un cammino in avanti attraverso una serie continua di riforme o rivoluzioni, la riforma nella Chiesa nasce da un processo che tende contem-poraneamente in avanti e all’indietro, come abbiamo notato leggendo la Gaudet Mater Ecclesia. In avanti, perché segue il cammino degli uomini, delle loro scoperte, delle loro filosofie. All’indietro, perché per la Chiesa la riforma è una riproposizione in forme nuove del principio che l’ha generata.

La Chiesa è lo sviluppo nel tempo e nello spazio del corpo di Gesù. Essa, pur nei

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travagli inevitabili della storia, è abitata da un principio vitale che urge continuamente il processo delle riforme, ma nello stesso tempo impedisce che tali riforme diventino ri-voluzioni. In altre parole, nella Chiesa non c’è mai un momento in cui si riparte da zero, in cui si costruisce tutto di nuovo. L’elemento conservatore si coniuga continuamente con quello progressivo, che spinge la Chiesa nella sua missione verso nuovi territori, nuove lingue, nuove conquiste.

La riforma nella Chiesa si basa dunque su due pilastri: da un lato, alla sua origine c’è un evento fondativo, un evento originario, la vita di Gesù con gli apostoli, che ha come cuore la sua incarnazione, passione, morte e resurrezione, e il dono dello Spi-rito. Dall’altro lato, questo evento, per l’azione dello Spirito Santo, è contemporaneo in ogni tempo. Deve essere accolto dagli uomini, mettere in azione la loro libertà, dare forma ad ogni epoca della storia. L’azione di Dio infatti, non scavalca mai, ordi-nariamente, la libertà degli uomini, la struttura temporale e complessa dell’esistenza umana. Agisce attraverso cambiamenti spesso infinitesimali che diventano clamorosi soltanto nell’incontro con un numero infinito di altre libertà in azione.

Il suo ragionamento è convincente. Non possiamo ignorare però che la rice-zione del Concilio è stata ed è tuttora materia di accesi dibattiti e polemiche.

È vero. La spiegazione più chiara di quanto lei dice l’ha data Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato, in uno dei discorsi più importanti che ci ha regalato. Parlando alla Curia romana nel dicembre 2005 il Papa si poneva proprio questa domanda. «Nes-suno può negare – diceva – che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile». Perché? – si chiedeva. «Tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio […], dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chia-ve di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”» – che è ciò che intendevo quando prima parlavo di “ri-voluzione” – dall’altra quella che il Papa definiva “l’ermeneutica della riforma”, che è quanto ho cercato di esprimere prima.

Centrale, nella comprensione di quell’evento straordinario, resta (nel passag-gio di testimone da Giovanni XXIII a Paolo VI) la cosiddetta ecclesiologia del Concilio. Riprendiamo così in mano la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la “Lumen Gentium”, promulgata il 16 novembre 1964. Tra le tante “immagini di Chiesa” consegnate alla storia da quel documento, quali le paiono più recepite e quali invece più trascurate, oggi?

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La Chiesa è una vita in movimento. Essa, come dicevo, è la continuità di un princi-pio, di un evento che ne costituisce l’inizio e la sua presenza in ogni istante della storia.

Come ha affermato Benedetto XVI nell’ultima lectio magistralis del suo pontificato, parlando ai parroci di Roma (13 febbraio 2013), occorre leggere la riflessione del Va-ticano II sulla Chiesa come una prosecuzione di ciò che il Vaticano I aveva incomin-ciato con la sottolineatura del primato petrino. Si trattava dell’inizio di un rinnovamento dell’ecclesiologia bruscamente interrotto dalla prima guerra mondiale, rinnovamento che veniva da lontano e che, dopo la chiarificazione della dottrina sul primato, esige-va un suo completamento. La Mystici Corporis di Pio XII è espressione autorevole di questa esigenza. La Chiesa non è appena un’istituzione, un’organizzazione, ma una realtà viva della quale ogni battezzato è protagonista. Ogni “io” è inserito nel grande “noi” dei credenti.

Penso sia questa coniugazione tra il protagonismo dell’io e la sua realizzazione nel noi di Cristo e della sua Chiesa il cuore dell’ecclesiologia del Concilio. Le varie formule e immagini di Chiesa che ci ha consegnato la Lumen gentium – ovile del quale solo Cristo è la porta, podere o costruzione di Dio, soprattutto Corpo di Cristo e Popolo di Dio – si riassumono proprio in questa tensione alla comunione, dono che proviene da Dio Trinità e si fonda sulla vita, morte e resurrezione di Cristo. «Solo tramite la cristologia – ha affermato il papa – diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti (Corpo di Cristo e Popolo di Dio, ndr)… Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica… La relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione… È frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa».

Oggi la grande sfida che abbiamo di fronte è proprio entrare in questa comunione, nelle sue ragioni, nella sua vita, nella possibilità di realizzazione della persona che essa significa. Dobbiamo abbandonare i toni ideologici che per troppo tempo hanno caratterizzato i dibattiti sulla natura della Chiesa. Siamo assieme, attorno a Pietro, per vivere la comunione con Cristo e realizzare la nostra vera statura. La Chiesa è comu-nione perché rinasce continuamente dai sacramenti, soprattutto dall’eucarestia, che ci rende una sola cosa con Cristo. Autorità ed eucarestia sono i due fuochi della Chiesa come Comunione.

Con la “Gaudium et Spes” entriamo nel rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo…

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Vorrei accennare a delle coordinate di lettura del rapporto tra Chiesa e mondo che nascono dal mistero dell’Incarnazione. Dio parla alla Chiesa e al mondo, anche attraverso i fatti della storia. La stessa storia della Chiesa partecipa della storia de-gli uomini. «La Chiesa – afferma proprio la Gaudium et Spes – cammina assieme con l’umanità tutta e sperimenta, assieme al mondo, la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana» (n. 40). Si può dire che le due vicende siano inestricabilmente congiunte, come Agostino aveva predicato delle due città, quella di Dio e quella dell’uomo. La Chiesa deve continuamente interrogarsi sulla natura di tale legame.

Un “interrogarsi” sul rapporto Chiesa e mondo che non è tanto o solo un esercizio intellettuale, quanto piuttosto una forma di compartecipazione. Tra gli estremi della contrapposizione e della sovrapposizione… come si colloca il Con-cilio?

La Chiesa è interessata al mondo innanzitutto perché è essa stessa parte del mon-do. Essa è legata agli uomini perché è “fatta” di uomini. La Chiesa non è altro che il mondo che si converte a Cristo. È il mondo degli uomini, delle loro esistenze, dei loro interessi, che porta con sé tutta la creazione verso Cristo. L’uomo che si converte a Cristo, e attraverso il battesimo viene innestato in lui, trascina con sé tutto il creato, il suo lavoro, i suoi affetti, la sua vita quotidiana e la natura che partecipa di essa.

Ma, come dicevo prima citando il numero 40 della Gaudium et Spes, la Chiesa non si confonde con il mondo. Ha la “pretesa” di esserne l’anima. Sa che ha una respon-sabilità grave nei confronti dell’umanità. Benché a volte misconosciuta e osteggiata, la Chiesa sa di portare in sé il segreto del mondo. Il desiderio di conoscere le dinamiche profonde delle società e dei popoli nasce quindi dalla passione per il destino degli uomini, dal desiderio di comunicare loro la salvezza. L’evangelizzazione rimane il com-pito primario della Chiesa. Come ha luminosamente testimoniato Giovanni Paolo II, la Chiesa è interessata all’uomo, perché è interessata a Cristo presente in ogni uomo. Ed è interessata a Cristo perché solo lui svela all’uomo la sua identità (cfr. n. 22).

Anche e soprattutto grazie al Concilio, la Bibbia è oggi molto più presente di un tempo nelle case della gente. Più difficile, partendo dalla Rivelazione, at-tualizzare il rapporto fra Scrittura e Tradizione. D’altra parte questo fa parte del suo ministero di apostolo. Cosa le dice – e cosa “ci” dice – in proposito la “Dei Verbum”?

Mi ha molto colpito la semplicità e l’acume con cui il Papa, quando mi ha ricevuto

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assieme agli altri vescovi dell’Emilia Romagna, ha sintetizzato il contenuto dei princi-pali documenti del Concilio. A proposito della Lumen gentium e della Dei Verbum ci ha detto che parlano della Rivelazione, così come la Sacrosantum Concilium parla della centralità dell’Eucarestia e la Gaudium et Spes della forza che muove il mondo, che è la fiducia nel Signore risorto.

La Dei Verbum, dunque, parla della rivelazione, cioè della comunicazione che Dio fa di se stesso agli uomini. Certamente la forma storica attraverso cui Dio si è comunicato all’uomo è la sua Parola, cioè Suo Figlio. Questa Parola, pur non riducibile alla Sacra Scrittura, trova in essa la sua prefigurazione e la sua espressione perenne. Il Concilio ha avuto il grande merito di sottolineare l’importanza della Sacra Scrittura, aiutando il popolo di Dio ad abbeverarsi ad essa anche attraverso una maggiore presenza nella liturgia di testi scritturistici. Proprio la liturgia è il contesto che più di ogni altro permette di leggere la Bibbia, poiché la sottrare a interpretazioni soggettive fuorvianti e, soprat-tutto, la proclama all’interno di un contesto vivo nel quale solo si rende intellegibile. La Dei Verbum ha sottolineato, a questo proposito, l’intima unità di Scrittura e Tradizione viva della Chiesa: «La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono l’unico sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa… Il compito di interpretare autentica-mente la Parola di Dio, scritta o trasmessa, è stato affidato al solo magistero vivo della Chiesa» (Dei Verbum, n. 10). Non è possibile leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa senza perderne il senso profondo, cioè la rivelazione del Figlio di Dio che è risorto ed è vivo oggi.

«Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi – ha affermato significati-vamente Benedetto XVI – [...] penetrati nei dettagli della sacra Scrittura [...] ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio [...]. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico, una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto» (Dall’omelia di Benedetto XVI nella Santa Messa con i membri della Commissione teologica internazionale, Cappella paolina, 1 dicembre 2009).

A questo proposito pochi giorni fa il Papa ha parlato della Chiesa come luogo vivo «nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nella quale è nata. Già il fatto del canone è un fatto ecclesiale». E continuava: «Sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittu-ra come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte» (Benedetto XVI, Discorso ai Parroci e ai preti di Roma, 13 febbraio 2013).

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Siamo nell’Anno della fede voluto da Benedetto XVI e indetto con la “Porta fidei”, ma già Paolo VI indisse (con l’Esortazione apostolica “Petrum et Paulum Apostolos”) un Anno della fede che si estese dal 29 giugno 1967 al 29 giugno 1968. Il 30 giugno 1968 proclamò il “Credo del Popolo di Dio”, che meriterebbe di essere riascoltato per intero. Entriamo nella stagione del post-Concilio, tra speranza e angosce: solo quattro anni dopo lo stesso Montini ebbe a dire: “At-traverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa”. Come le pare oggi la situazione della Chiesa, in questa stagione, rispetto alle inquietudini di Paolo VI?

Paolo VI sentiva fortemente l’urgenza di parlare all’uomo moderno. Nello stesso tempo non voleva tradire il contenuto della fede. Cercò di appoggiarsi agli uomini che sentiva più vicini alle proprie aperture, ma infine si trovò solo. Come d’altra parte aveva preannunciato in un appunto scritto durante un ritiro spirituale all’inizio del pontificato: “Mi sento come una statua sopra una guglia di un duomo”. Una meditazione che pro-babilmente gli era nata guardando la sua cattedrale di Milano.

Gli studi sul Concilio Vaticano II ormai possono documentare ampiamente quanto e dove egli sia intervenuto per bloccare le spinte indebite in avanti verso un dissolvimen-to dell’identità ecclesiale. Ma soprattutto egli cercò di bloccare tale processo negativo attraverso la parola, la sua parola drammatica e accorata che si affidava a Dio di fronte alle forze disgregatrici dell’unità ecclesiale.

Il Credo del popolo di Dio fu una delle espressioni più intense e impegnative di tale volontà di intervento. Pubblicato in occasione dell’anno della fede in pieno ’68 vuole essere un’enunciazione sintetica ed organica dei contenuti della fede. Tutte le verità espresse intorno a Cristo e alla vita cristiana nei Concili di Nicea, Costantinopoli, Efe-so, Calcedonia fino a Trento e al Vaticano I, all’Immacolata Concezione e all’Assun-zione di Maria vi si trovano assieme alla dottrina del Vaticano II sulla Chiesa. Paolo VI insistette sull’importanza di un’espressione formale delle verità di fede. Non si dove-vano tralasciare troppo facilmente le parole che i Padri avevano scovato lungo i secoli anche a costo di lunghe lotte. Paolo VI riaffermò la dottrina della Transustanziazione, il celibato ecclesiastico, ebbe il coraggio di condannare la contraccezione e di subire l’opposizione di vasti settori della Chiesa a seguito di tale decisione. Ascoltava le ragio-ni di tutti e infine decideva. A lui si deve riconoscere il grande merito di non avere mai ceduto. Non avremmo avuto Giovanni Paolo II senza Paolo VI. Nell’ultimo discorso del suo pontificato, il 29 giugno 1978, festa dei santi Pietro e Paolo, poco più di un mese prima della morte, ebbe a dire: “Ci sentiamo a questa soglia estrema contrastati e sor-retti dalla coscienza di avere instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente (Mt 16,16); anche noi, come Paolo, sentiamo di

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poter dire: ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede (2Tim 4,7)… Infatti la fede è più preziosa dell’oro (1Pt 1,7)… non basta rice-verla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà”. Fidem servavi. Proprio queste parole sembrano suggellare tutto il senso del suo pontificato. Certamente egli non ha potuto risolvere tutti i problemi dottrinali e disciplinari. Proprio nel discorso che ora ho citato esprime piena consapevolezza di un lavoro ancora da svolgere e volge un accorato invito a coloro che all’interno della Chiesa sono causa di eresie e di sci-sma affinché si guardino dal turbare ulteriormente la comunità ecclesiale. Tale compito di rinnovamento della Chiesa sarà al centro del pontificato di Giovanni Paolo II.

Temo non ci sia il tempo di analizzare il pontificato del Beato Giovanni Paolo II. Fermiamoci agli ultimi otto anni. Quali sono le linee fondamentali del rinnova-mento che Benedetto XVI ha indicato alla Chiesa?

L’intero pontificato di Benedetto XVI si trova totalmente inscritto all’interno del gran-de alveo di rinnovamento creato dal Concilio: è iniziato nel 2005, proprio nell’anno in cui la Chiesa celebrava i 40 anni dalla fine del Concilio, e si è concluso nel cinquante-simo della sua apertura.

Penso che le linee fondamentali del rinnovamento che Benedetto XVI ha indicato si collochino sulla stessa linea di orizzonte dell’intendimento con cui Giovanni XXIII ha convocato il Concilio Vaticano II. Papa Giovanni parlava di una ripulitura del volto della Chiesa, di una cancellazione delle sue macchie provocate dal sedimentarsi della polvere del tempo sul suo volto (cfr. Giovanni XXIII, Discorso inaugurale per l’aper-tura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962). Benedetto XVI si colloca sulla stessa lunghezza d’onda. Per lui si tratta di un’opera di cancellazione di tutto ciò che è inautentico, di purificazione, di semplificazione appunto. Di un dialogo continuo con l’origine: non per ripresentare le forme storiche di un’età dell’oro che non è mai esistita, ma per ritrovare nell’esperienza di Cristo con gli apostoli la forma originaria che ogni secolo cristiano è chiamato a rivivere. Per trovare una risposta al problema del rinnovamento della Chiesa, il cardinale Ratzinger affermava, negli anni Sessanta: «sarebbe necessario porre la domanda: che cosa risulta falso nella Chiesa, se messo a confronto con le origini? Questo appunto, e questo solo è il problema che vale come criterio dello sforzo di rinnovamento della Chiesa» (J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971, 295).

La storia della Chiesa è una serie continua di inizi nuovi. «Il vero attore della riforma è lo Spirito Santo che favorisce inizi sempre nuovi e genera uomini portatori di tali inizi, profeti di una nuova fruttificazione del Vangelo» afferma ancora nel 2001 (J. Ratzinger, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio, in colloquio con Peter Seewald, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 2001, 361).

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Siamo ancora al Joseph Ratzinger fine teologo, però. Come Pontefice, ha sa-puto essere “riformatore”, nel senso espresso dal Concilio?

Diventato papa, Joseph Ratzinger modula continuamente queste note in nuove sinfonie. Qualche mese dopo la sua elezione alla cattedra di Pietro, nella Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia, presenta i santi e i beati come i veri riformatori della Chiesa e come protagonisti di una rivoluzione positiva in tutto il mondo. «Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo». Sempre nello stesso anno, il 22 dicembre, in occasione degli auguri natalizi alla Curia romana, in un discorso che rimarrà famoso, sostiene che ogni autentico rinnovamento nella Chiesa è un «insieme di continuità e discontinuità». Continuità con l’inizio, con le istituzioni fondamentali volute da Cristo, la regula fidei, il sacerdozio, il primato di Pietro. E discontinuità perché la comunità della Chiesa, per poter essere fedele al suo fondatore, deve rinascere continuamente nel confronto giorno dopo giorno con le persone e le culture che incontra, misurandosi con i problemi che sorgono e attraver-so i quali il Signore la sfida. Con i vescovi tedeschi, in visita ad limina nel novembre del 2006, non può che toccare il tema della riforma. Critica l’attivismo esteriore delle riforme non autentiche e non spirituali e ribadisce che deve essere «la fede stessa a scandire in tutta la sua grandezza, chiarezza e bellezza il ritmo della riforma… di cui abbiamo bisogno». Le udienze del mercoledì dei primi anni del pontificato rileggono tutta la storia della Chiesa attraverso le vite dei santi: «essi sanno promuovere un rinnovamento ecclesiale stabile e profondo, perché essi stessi sono profondamente rinnovati, sono in contatto con la vera novità: la presenza di Dio nel mondo» (Udienza generale, 13 gennaio 2010).

Siamo in un periodo storico eccezionale, con la Santa Sede vacante e il Papa emerito. Grandi sfide attendono il nuovo Pontefice. Ancora sul tema della rifor-ma della Chiesa, qual è la consegna fondamentale che Benedetto XVI ci lascia?

Alla luce di tutto ciò che ho detto fin ora si può comprendere che per Benedetto XVI il luogo fondamentale della riforma sia la liturgia. È attraverso di essa che l’uomo entra nella «gioia della fede, [nella] radicalità dell’obbedienza, [nella] dinamica della speran-za e [nella] forza dell’amore» (Omelia per il giovedì santo, 5 aprile 2012). La liturgia consente quella conformazione a Cristo che è il presupposto e la base di ogni riforma autentica. Per Ratzinger “conformarsi a Cristo” vuol dire innanzitutto entrare nella sua obbedienza, quella che Lui ha vissuto e vive nei confronti del Padre e continua nella Chiesa come comunione con Pietro e i successori degli apostoli uniti a lui. Negli ultimi tre secoli l’Europa ha visto una generale contestazione al principio di obbedienza e

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di autorità. Reazione comprensibile di fronte all’autoritarismo e al clericalismo di tanti ambienti civili ed ecclesiali. Ma entrare nell’obbedienza non vuol dire cancellare la ragione, distruggere i sentimenti, annientare la propria umanità. È possibile obbedire a Dio obbedendo a degli uomini. Per questo il papa propone i santi come «traduzione dello stile di vita di Cristo». Essi ci mostrano come sia possibile vivere interamente la propria umanità in una sequela a Cristo e all’autorità della Chiesa in cui si coniugano obbedienza e libertà.

Il cuore della riforma è la santità, come aveva detto il Concilio parlando di «vocazio-ne universale alla santità» (cfr. Lumen gentium, nn. 39ss).

Questa è, in definitiva, la sfida che sempre di nuovo la Chiesa si trova di fronte.

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Intervista sul pontificato di Benedetto XVI per il settimanale diocesano La libertà a cura di Edoardo Tincani

Marzo 2013

Ancor più ora che la residenza vaticana è sigillata in attesa del Conclave e che il “pellegrino” vestito di bianco, Papa emerito, si è ritirato nel Palazzo apostolico di Ca-stelgandolfo, come fedeli avvertiamo il vuoto venuto a crearsi con la fine di febbraio. Si sente il bisogno di ripensare con animo grato a Joseph Ratzinger, uomo di fede e di ragione, mite e audace con la sua rinuncia al ministero petrino. Ci è parso significativo condividere questi sentimenti con monsignor Massimo Camisasca. L’11 febbraio, il giorno stesso della notizia delle “dimissioni”, il Vescovo aveva diffuso un suo messag-gio alla Diocesi. Oggi, in Vescovado a Reggio, mentre dalla strada giungono voci di bambini in gioco, il presule torna sugli ultimi giorni – e sulla grandezza di un pontificato – con questa intervista per il nostro settimanale.

Monsignor Camisasca, Benedetto XVI verrà dunque ricordato come il Papa della rinuncia?

La Chiesa intera ha vissuto in queste ultime settimane un momento particolare della sua storia. Per trovare altri episodi di rinuncia al pontificato dobbiamo riandare indietro al 1400 e poi al 1200 e infine ai primi secoli in cui però è difficile scoprire delle similitudini con il presente. Si è trattato in altre parole di un evento straordinario: la rinuncia di Benedetto XVI, che avevo visto pochi giorni prima della sua comunicazione al mondo di questa decisione, è giunta a me innanzitutto come un evento choccante. Poi ha messo in moto una riflessione di fede.

Sui mass media, però, è prevalsa l’idea di una sconfitta del Papa. Il “mondo” non capisce?

Alla luce di questa rinuncia appare anche l’immenso fraintendimento che la stampa aveva fatto intorno alla sua figura: colui che è stato presentato come il “panzerkardi-nal”, come l’inquisitore, appare invece non solo in tutta la sua umiltà, ma anche in tutta la sua inermità. È stato scritto di lui di recente: “in umiltà ha fatto quello che gli è stato possibile fare e in umiltà ha affidato il resto al Signore. In definitiva egli non è che uno strumento nelle mani del Signore, libero dalla presunzione di dover realizzare in prima persona e da solo il miglioramento del mondo”.

È stato lo stesso Benedetto XVI, nell’ultima udienza del 27 febbraio, a spie-gare il suo itinerario: la considerazione che le sue forze erano diminuite lo ha portato a chiedere a Dio con insistenza di aiutarlo a prendere una decisione per il bene della Chiesa…

Ciò che più mi impressiona sono le parole successive: “Ho fatto questo passo… con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio

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di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi”. Questa serenità d’animo, che traspare visibilmente dal volto di Benedetto XVI, è la sua più grande eredità. Tutti siamo capaci di manifestare gioia quando viviamo fatti favorevoli, o cadiamo nella depressione quando siamo colpiti dalle avversità; ma vivere con serenità momenti difficili, questo è veramente il dono e il frutto della grazia di Dio in noi. È un frutto che nasce da una lunga trasformazione del cuore e della men-te e che sostanzialmente consiste nell’abbandonarsi a Dio, nel sapere che Lui guida la barca della Chiesa, che il tempo non ci porta verso il nulla, verso il male, ma verso la vittoria di Cristo, anche se il mare è in tempesta.

Siamo al nocciolo della fede: fidarsi della Parola di Dio. Un altro lascito…Il cristianesimo è la religione del Logos fatto carne: è un convincimento profondo

che papa Ratzinger ha più volte esplicitato nel suo magistero di questi quasi otto anni. Anche ultimamente, parlando dopo la settimana di esercizi spirituali, ha ricordato che Logos si può tradurre anche “arte”, oltre che “parola” e “ragione”. Durante il suo pontifi-cato ha voluto anzitutto mettere in luce la positività della creazione, del disegno di Dio sull’uomo. L’umanità ha davanti il “Tu” di un essere personale amante e libero. Il Logos si è fatto carne, è entrato nella storia, ha assunto un nome umano: Gesù di Nazareth.

La considerazione della storia è uno dei metodi principali della teologia di Ratzinger. Si può dire che egli esamina sempre innanzitutto dal punto di vista storico i contenuti del dogma. Li vede crescere, chiarirsi od oscurarsi a seconda dei tempi e poi chiarirsi ancora, attraversare le epoche, le vicende umane, ed arrivare fino a noi attraverso eventi storicamente significativi, in una Tradizione.

A proposito di eventi storici, cosa ci resta del Vaticano II in quest’Anno della fede a 50 anni dalla sua apertura?

Ratzinger è l’ultimo Papa che ha vissuto il Concilio; chi gli succederà certamente continuerà a mostrare la fecondità del Concilio Vaticano II per la vita della Chiesa, ma ne sarà un testimone indiretto. Come ha raccontato ai parroci di Roma nel suo ulti-mo incontro, Benedetto XVI ha creduto profondamente nel Concilio Vaticano II come evento dello Spirito, ha sofferto e giudicato la negatività di alcuni aspetti del post-Con-cilio e ha cercato di continuare l’opera di Giovanni Paolo II, l’attuazione del Concilio, mostrandone le chiavi più adeguate di lettura.

Quali sono gli aspetti della personalità del Papa che più la colpiscono?Benedetto XVI è un papa che ha unito una sottile e profonda penetrazione della cul-

tura del nostro tempo, della dottrina della Chiesa, ad una grande affettività trattenuta.Ha vissuto un suo protagonismo, il protagonismo dell’umiltà, della confidenza nella

verità che finisce per vincere sulla menzogna, del rispetto assoluto per le persone, innanzitutto per i propri collaboratori. Soprattutto, ha mostrato una grande confidenza nella guida permanente di Cristo sulla Chiesa.

Alcune sue frasi ci colpiscono per la loro tenerezza. Come quando il 23 febbraio

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scorso, al termine degli esercizi spirituali, ha detto: “Credere non è altro che toccare la mano di Dio nell’oscurità del mondo, e così nel silenzio ascoltare la Parola e vedere l’amore”.

“Vedo una Chiesa viva!”, ha esclamato Benedetto XVI il 27 febbraio in piazza San Pietro. Nel momento del distacco, anche questo suona come un atto di fede, non trova?

Coerentemente con quanto ho osservato, il Papa che ci ha lasciati ha sempre cer-cato di vedere e di mostrare al mondo la positività dell’essere Chiesa, la vitalità della Chiesa pur dentro le traversie della sua storia passata e presente, la gioia dell’essere cristiani, la luminosità portata nel mondo dalla fede. “Gioia” è certamente una delle parole che più ricorderemo, pronunciate dal suo tipico accento tedesco.

Benedetto XVI ha concentrato l’attenzione dei fedeli e del mondo su ciò che è il cuore del cristianesimo: la fede stessa, la carità, l’annuncio, la vita sacerdotale, la bel-lezza dell’essere cristiani. Non è un caso che durante il suo pontificato si sia svolto un Anno paolino, un Anno sacerdotale e l’Anno della fede.

Ma è stato seguìto in quest’opera di ritorno all’essenziale?Forse Benedetto XVI avrebbe voluto ancor di più “dimagrire” la Chiesa, liberarla di

certi pesi, per renderla più agile nella sua missione: è un compito che a mio parere spetterà al suo successore. Certamente egli ha affermato il primato della grazia su qualunque struttura organizzativa. Ancora nella sua ultima udienza ha ribadito che la Chiesa non è né un’organizzazione né un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel corpo di Gesù Cristo. Ci ha invitati a guardare alla Chiesa in modo eucaristico, a una comunità che vive in piccoli o grandi numeri intorno all’Eucaristia, nella conversione continua e luminosa di chi si aspetta tutto dal suo Signore, di chi sa di avere una responsabilità di fronte al mondo ma nello stesso tempo di chi non si lascia mai misurare dalle pretese degli altri e dalle aspettative degli uomini, ma soltanto dalla volontà di Dio.

Cosa tratterrà, del magistero di questo grande Papa? Benedetto XVI si è misurato con i più grandi temi del nostro tempo, mostrando le

strade attraverso cui la fede non diventi intolleranza, riproponendo le fondamenta au-tentiche di un diritto universale che oggi soffre proprio per l’assenza di queste radici; i suoi grandi discorsi all’Università di Ratisbona, a quella di Roma, anche se non pro-nunciato direttamente, ai Bernardini a Parigi, al Parlamento tedesco, rimarranno come grandi letture delle questioni fondamentali del nostro tempo. Le sue encicliche sulla carità e sulla speranza, le sue catechesi del mercoledì, soprattutto le sue omelie alle Messe delle grandi festività liturgiche, ci rimandano – come ho detto in altre occasioni – alle grandi catechesi di Leone e Gregorio Magno; fanno di Benedetto XVI un grande Padre della Chiesa, che ha saputo riproporre con la stessa semplicità e profondità dei padri dei primi secoli le domande fondamentali dell’uomo viste però in rapporto alle

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sfide di questa nostra epoca post-moderna.

A breve conosceremo il nome del nuovo Papa…Peter Seewald sul “Corriere della Sera” ha cercato di descrivere i compiti che Be-

nedetto XVI lascia in eredità al nuovo papa: non incentivare le forze centrifughe che portano lontano dalla Chiesa, aiutare coloro che tengono insieme il patrimonio della fede, che restano coraggiosi, che annunciano un messaggio, che danno una testimo-nianza autentica.

Nell’ultimo incontro che il giornalista tedesco ha avuto col Papa, di cui sta scrivendo la biografia, alla fine gli ha chiesto: “Lei è la fine del vecchio o l’inizio del nuovo?”. E Benedetto XVI ha risposto: “Entrambi”.

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Amen.Messaggio alla Diocesi in occasione dell’elezione di Papa FrancescoReggio Emilia, 13 marzo 2013

La Diocesi di Roma ha il suo nuovo vescovo e la Chiesa universale il suo nuovo Papa.

I cardinali riuniti in Conclave hanno scelto per la prima volta nella storia della Chie-sa un vescovo latino-americano, seppure discendente da italiani. Un evento grandio-so, che indica l’importanza di Chiese e di popoli venuti in primo piano sulla scena del mondo.

La scelta del nome, Francesco, parla a tutti i cristiani e a tutti gli uomini di un grande santo, forse il più conosciuto, che ha saputo essere un alter Christus tanto da diventa-re contemporaneo ad ogni epoca successiva.

I cardinali hanno guardato avanti, verso il futuro della Chiesa.Accompagna il nuovo Papa la nostra devozione, la nostra preghiera, il nostro affet-

to filiale.

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Parole pronunciate all’inizio della Messa di ringraziamento per l’elezione di Papa FrancescoCattedrale di Reggio Emilia, 14 marzo 2013

Ringraziamo il Signore per il dono del nuovo Papa che ha concesso alla sua Chie-sa. Dono per cui tanto abbiamo pregato.

Nella sua storia bimillenaria la Chiesa stupisce sempre per la sua freschezza, per la sua forza di riforma, per il suo desiderio di riandare all’origine della sua vicenda, all’evento dell’Incarnazione e così ripresentarlo all’uomo di ogni tempo.

La Chiesa compie un cammino verso ciò che è essenziale, la persona di Gesù Cristo, unico salvatore.

Questa è stata l’intenzione profonda di Benedetto da Norcia, il cui nome – ad esem-pio – aveva scelto Benedetto XVI. Questa è stata la vita e la figura di Francesco d’As-sisi, che viene posta oggi al centro dell’attenzione del mondo dal nuovo Papa.

Preghiamo perché lo Spirito di Dio lo accompagni e lo sostenga nella sua opera di Vescovo di Roma e Pastore universale.

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Comunicato stampa sull’istituzione comunale dei registri civili per le coppie di fattoReggio Emilia, 20 marzo 2013

Il Consiglio comunale di Reggio Emilia il 18 marzo ha approvato, a maggioranza, l’istituzione del “Registro delle unioni civili”. Si vorrebbero favorire persone che hanno comunione di vita basata su vincolo affettivo, di diverso o dello stesso sesso, negli in-terventi per la casa, la sanità e i servizi sociali, la scuola e i servizi educativi, ecc… La protezione di legittimi diritti della persona potrebbe essere assicurata dal diritto civile, senza costruire una “disciplina comunale delle unioni civili”, non prevista nel nostro or-dinamento, né istituire un nuovo “registro amministrativo”. In realtà ciò che si desidera è affermare un modello di famiglia alternativo, e porre le premesse affinché un numero adeguato di questi atti, che di per sé non hanno valore legale, porti ad una legge par-lamentare che riconosca come sostanzialmente matrimoniali le coppie di fatto e dia valore di matrimonio ai legami omosessuali.

L’intento sociale si capovolgerebbe così in uno scardinamento dell’istituto famiglia con conseguenze non avvertite, ma profondamente negative sulla vita sociale e sull’e-ducazione dei figli.

Il Vescovo riconosce l’opera positiva di quei cattolici presenti in diversi partiti che, impegnati in politica, per libera iniziativa - e prendendo sul serio quanto il Vescovo ha detto riguardo l’istituto familiare sia in occasione della festa della Sacra Famiglia, sia nella prolusione per l’apertura dell’anno giudiziario del Tribunale Ecclesiastico Re-gionale Emiliano - hanno negato il proprio consenso a questa istituzione dei registri, mostrando maturità ecclesiale e una concezione laica della presenza dei cristiani nella società; essi infatti hanno affermato e difeso un valore di tutti e non di parte, perché la famiglia è il cuore del tessuto stesso della società.

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Messaggio pasquale per La Libertà26 marzo 2013

La resurrezione di Cristo riempie di ragioni e di luce la nostra speranza. Vorrei con queste righe raggiungere tutti i lettori de La Libertà e ad ognuno di loro dire: Coraggio! Gesù è risorto! La morte e il male non sono l’ultima parola sulla nostra vita. Anche quando tutto sembra contraddire questo, anche quando la mancanza di lavoro, le difficoltà in famiglia, le sofferenze e le incomprensioni, le fatiche, le malattie ci gettano nello sconforto e nella tristezza, Gesù Risorto è in grado di rialzarci e ridonarci la pace e la luce. Affidatevi a lui, cercate la sua compagnia nella preghiera e negli amici. Se è risorto vuol dire che è vivo, è qui in mezzo a noi e lo possiamo incontrare.

Buona Pasqua a tutti!

+ Massimo

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Comunicato stampa per il riconoscimento del martirio di Rolando RiviReggio Emila, 28 marzo 2013

Il vescovo Massimo Camisasca ha appreso con gioia la notizia che il Santo Padre Francesco ha autorizzato la pubblicazione del decreto per il martirio di Rolando Rivi, seminarista nella nostra casa di formazione a Marola dal 1942 fino alla morte, quando è stato ucciso in odio alla fede.

“Possa la nostra Chiesa in questo Anno della fede ritrovare, anche per l’interces-sione dei suoi santi e dei suoi martiri, la gioia e la baldanza della propria fede. Sappia comunicarla con passione agli uomini e alle donne che non conoscono Cristo. Sappia essere sempre strumento di riconciliazione con Dio e fra gli uomini.

Chiediamo a Rolando Rivi, presto beato, di ottenere la grazia di tante vocazioni per la nostra Chiesa”.

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Lettera alla Diocesi su Rolando RiviReggio Emilia, 14 aprile 2013

Cari fratelli e figli,sabato scorso, 13 aprile, nel pomeriggio, nel Duomo di Modena, ho concelebrato

con l’arcivescovo la Santa Messa nella ricorrenza del martirio del nostro Rolando Rivi, ucciso proprio il 13 aprile 1945 a Monchio, in terra modenese. Era nato e vissuto nella nostra Diocesi, seminarista nel seminario di Marola e ora è sepolto nella Pieve di San Valentino, dove era stato battezzato e dove aveva incontrato don Olinto Marzocchini, infaticabile educatore appassionato al vero bene dei suoi parrocchiani. Guardando a lui maturò in Rolando il desiderio di diventare sacerdote e a undici anni il ragazzo vestì per la prima volta la veste talare che non avrebbe più lasciato sino alla morte.

Durante la mattina del 13 aprile mi ero recato per la prima volta, in preghiera, sui luoghi del martirio e della sepoltura di Rolando. L’arcivescovo di Modena, Antonio Lan-franchi, ha annunciato al termine della Santa Messa che la beatificazione avverrà a Modena, molto probabilmente sabato 5 ottobre. Si attende soltanto il consenso defini-tivo del Santo Padre.

Cosa significa e cosa chiede a tutti noi un evento di questa portata?Innanzitutto di prendere coscienza di ciò che è accaduto, di non lasciarlo passare

invano, di non vivere distratti nelle nostre opere, dimenticandoci delle opere di Dio. Senza la capacità di guardarle, di gioirne, di esserne riempiti.

Il martirio è innanzitutto opera di Dio che chiede a una persona se accetta di essere suo testimone di fronte a tutti gli uomini e a tutti i secoli. Certo Dio si serve anche della barbarie e della cattiveria degli uomini. Essi, inconsapevolmente, diventano servitori della Sua gloria.

Dio ha chiesto a Rolando il dono di tutta la sua vita. 14 anni per Lui sono come

un tempo infinito (cfr. 2Pt 3,8). E Rolando ha maturato lungo questi suoi anni il suo sì. “Io sono di Gesù”: questa sua espressione che egli vedeva esteriormente rivelata dalla veste talare, che gli verrà strappata prima del martirio, manifestava il suo cuore interamente donato. Egli sapeva che in Gesù tutto era suo. Nulla gli poteva essere ve-ramente strappato. Questa è la grandezza del martire. Egli dona il suo corpo e la sua vita mortale perché sa che l’anima, cioè la vita vera, che si esprimerà nel corpo risorto, non gli può essere tolta da nessuno.

Dante Alighieri all’inizio del Purgatorio ha un verso che sento molto vicino alla vi-cenda di Rolando: «la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara» (Purgatorio, I, 75). La «vesta» è il corpo. Nel caso di Rolando è anche la sua veste talare che brillerà nella resurrezio-ne di una luce abbagliante e festosa.

Il martirio di Rolando Rivi, riconosciuto ora dalla Chiesa, non è la vittoria di una par-te su un’altra, è la vittoria della fede. Secondo l’espressione di san Giovanni: «Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (cfr. 1Gv 5, 4). Non è un caso, dun-

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que, anzi è un grande dono che la beatificazione di Rolando possa avvenire in tempi così brevi proprio nell’Anno della Fede. Essa è un invito a riscoprire il dono prezioso della fede, che Cristo ha ottenuto per noi sulla croce, che ci ha raggiunti attraverso il battesimo, ma che noi spesso trattiamo come un dono qualsiasi dimenticandolo o addirittura calpestandolo.

Rolando ottenga allora per tutti noi la gioia della fede, la gioia per l’elezione, un privilegio che non viene dai nostri meriti, ma che per noi suona come responsabilità, invito alla testimonianza, donazione di noi stessi ai nostri fratelli. Il martirio è la forma più alta di povertà ed è perciò la testimonianza più alta della resurrezione. Con Cristo ci sono dati tutti i beni necessari per la vita presente e futura e nello stesso tempo siamo invitati a lasciare ciò che ci ingombra, ciò che rende pesante le nostre giornate, il fardello faticoso dei nostri egoismi, invidie, gelosie, rivalità. Rolando ottenga per tutti noi la scoperta di essere una sola cosa in Cristo. La scoperta della comunione, che fonda la nostra unità non al di là di tutte le nostre differenze, ma godendo dei doni di ciascuno, come ricchezza colorata e varia delle nostre comunità.

Non posso infine dimenticare che Rolando è stato un seminarista del nostro semi-nario di Marola. Tutto ciò non mi porta innanzitutto a pretendere da lui il dono di un numero sufficiente di preti. Quanti possono essere? Chiedo piuttosto che i giovani ab-biano a scoprire che la loro vita stessa è vocazione, è chiamata da Dio a una ricchezza di esperienze positive in alleanza con Lui. Ogni vocazione cristiana ha una sua gran-dezza di fronte a Dio e agli uomini, ha una sua ragion d’essere e un suo posto. Solo quando abbiamo considerato tutto questo, allora possiamo permetterci di chiedere per l’intercessione del beato Rolando Rivi il dono di vocazioni sacerdotali autentiche, appassionate, pienamente umane e pienamente aperte ai doni dello Spirito.

Possa il nostro beato Rolando ottenere da Dio tutte queste grazie per noi! Da parte nostra iniziamo a pregarlo con più intensità, con maggior fiducia.

Un’apposita commissione da me istituita ci accompagnerà in questo tempo verso la beatificazione.

Tutti di cuore benedico nel Signore Gesù.

Reggio Emilia, 14 aprile 2013III Domenica di Pasqua

+ Massimo Camisasca

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Saluto al Convegno organizzato dall’Azione Cattolica Diocesana sul tema: Per una nuova generazione di cattolici impegnati in politica: da dove partire?Università di Reggio Emilia, 7 maggio 2013

All’inizio di questo incontro desidero portare il mio saluto e il mio augurio sincero a tutti voi.

Ciò che sta davanti a noi è un compito che può sembrare immane e quasi impossi-bile, tali sono le sfide che deve affrontare. Eppure è un compito che tanti nostri fratelli hanno vissuto, con intelligenza e donazione, con sacrificio e speranza assieme, nei duemila anni di storia cristiana che ci precedono: il compito della testimonianza. La fede vissuta nella carità non è senza conseguenze benefiche sulla vita personale e sociale, non è senza conseguenze nella storia. Questa è la speranza che ci muove.

Essa ha due confini: innanzitutto, dalla fede non si possono dedurre direttamente forme definite di vita politica. Nessuna forma esprime esaurientemente la fede e la carità. Ma, nello stesso tempo, la fede richiede, attraverso la carità, un’espressione nella storia.

Oggi viviamo un tempo difficile, segnato da molteplici sfide. Sembra che tutto sia diventato liquido, come giustamente è stato scritto, anche le istituzioni stesse dello Stato. La democrazia – come forma di governo più matura di altre e più rispettosa dei diritti-doveri della persona e dei rapporti tra le comunità – necessita di un suo rin-novamento; i partiti devono ritrovare il loro scopo e le regole del loro funzionamento; più ampiamente ancora il diritto deve ritrovare le strade della sua fondazione per non dissolversi in una pura sequenza di risposte funzionali che registrano l’evolversi dell’o-pinione modellata dai mass-media. E che dire delle minacce che vengono all’uomo nella sua stessa origine biologica?

Eppure non possiamo e non dobbiamo fermarci qui. Il nostro compito è di legge-re il presente e di offrire con generosità e costanza ai nostri fratelli quell’esperienza dell’umano che la fede genera e rinnova e che la ragione mostra contenere linee di vita valide per ogni uomo e per ogni donna.

Ecce homo. Poiché Gesù Cristo è vero uomo, oltre che vero Dio, solo lui sa cosa sia l’uomo, quale sia la sua vera statura. Guardando possiamo impararlo. Per questo Paolo VI, parlando dei cristiani alle Nazioni Unite (4 ottobre 1965), li definì «esperti in umanità».

«In comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e soffrendo di vederle insod-disfatte, la Chiesa desidera aiutarle a raggiungere la loro piena fioritura e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità» (Populorum Progressio, 13). Questa concezione integrale dell’uomo, che ci viene dalla Tradizione della Chiesa e dall’insegnamento del Vangelo, ci parla del primato della

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persona su ogni organizzazione e del suo compimento nella comunione con Dio e con gli altri uomini. La Chiesa, indicando la priorità e la dignità della persona, ci insegna a evitare pericolosi riduzionismi, e a guardare all’uomo come al fine e non allo strumen-to dell’agire sociale. Questa visione della persona e della società non è innanzitutto espressione di una confessione religiosa, ma mette in luce una esigenza insita nella natura stessa dell’uomo.

Noi cristiani siamo responsabili davanti al mondo di tutto ciò. In un contesto di con-fronto vitale con le tante proposte che ci vengono dalla nostra società, nell’incontro con le diverse visioni dell’uomo che in essa troviamo, siamo benevolmente costretti a riscoprire continuamente le linee convincenti della proposta all’uomo maturata dalla Tradizione ed espressa, negli ultimi secoli, nella Dottrina sociale della Chiesa, in tanti documenti del magistero sociale.

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Saluto al Convegno organizzato dalla Provincia di Reggio Emilia sul Servo di Dio don Pino Puglisi: Chiesa e Mafia. Una coabitazione troppo pacifica?Reggio Emilia, Aula Manodori, 17 maggio 2013

Eccellenza Reverendissima,Gentile Signora Presidente della Provincia,Magnifico Prorettore,Egregio dottor Nicaso,

impossibilitato ad esserlo di persona, desidero farmi presente con questo mio breve scritto al convegno che la Provincia di Reggio Emilia ha promosso sulla figura di don Puglisi. È tra voi anche un mio delegato, don Gianni Bedogni, direttore dell’Ufficio dio-cesano di pastorale sociale.

Mancano pochi giorni alla beatificazione di don Pino Puglisi. È questo innanzitutto un motivo di gioia e di gratitudine a Dio per un dono che viene fatto non solo alla Chie-sa, ma a tutti gli uomini. «La sua azione pastorale nella logica dell’incarnazione si è svolta nella ferialità di una vita “normale” – affermano i vescovi siciliani nel messaggio diffuso nelle scorse settimane –, senza compromessi, senza protagonismi, senza ve-trine mediatiche, testimoniando nella quotidianità della vita la fedeltà al suo ministero sacerdotale e l’amore alle persone a lui affidate. Questo schietto modo di essere di don Pino Puglisi – leggiamo ancora nel messaggio – incoraggia tutti noi […] ad attin-gere alla Parola di Dio e all’Eucarestia il sostegno necessario per la nostra missiona-rietà nella diffusione del Regno di Dio e per la promozione dell’uomo».

Don Puglisi è stato innanzitutto un sacerdote, un uomo innamorato di Cristo e per questo interessato all’uomo. Non fu una generica filantropia o un utopico senso di giu-stizia a renderlo intrepido testimone della libertà in un contesto sociale piagato dalla presenza della mafia. Dalla sua fede è nata la sua libertà. Un’autentica passione per Cristo genera uomini liberi. Liberi dalla tentazione del potere e del borghesismo. Liberi dagli schemi che non lasciano spazio alla fantasia della carità.

Ma il titolo del convegno – Chiesa e mafia. Una coabitazione troppo pacifica? – ci provoca ad una riflessione più specifica. Don Pino Puglisi è stato ucciso dalla mafia in odio alla fede. In prima istanza, come abbiamo detto, questo fatto ci colpisce per la testimonianza di fede del Servo di Dio. Ma nello stesso tempo non possiamo ignorare il contesto in cui si è svolta tale testimonianza, segnato dalla violenza, dell’omertà e dalla connivenza con una cultura e una mentalità totalmente estranee non solo al cri-stianesimo, ma ad ogni forma di umanesimo. Non voglio entrare nel merito del delitto che si consumò la sera del 15 settembre 1993, dopo soli quattro mesi dallo storico ammonimento ai mafiosi di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento. Dico

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solo che tale delitto segna uno spartiacque definitivo nei rapporti tra l’Italia e la mafia, tra la Chiesa e la mafia. Questo martirio ha reso evidente la necessità di una presa di posizione ancor più chiara e scevra da compromessi da parte della Chiesa: se i mafio-si sono uomini che la Chiesa non si stanca di richiamare a conversione, pentimento e riparazione, la mafia e tutto ciò che essa rappresenta è incompatibile con il Vangelo. Occorre un lavoro paziente e diuturno per educare le nuove generazioni a non cedere ai ricatti di una mentalità di tal genere. E per farlo occorre educare alla libertà, alla bel-lezza, alla giustizia. Occorre tornare a scoprire il fascino del bene, il gusto del lavoro, la nostra vera statura di uomini e donne. Certo, non è facile tutto ciò: non è facile quan-do si ha a che fare con un nemico subdolo che approfitta della mancanza di lavoro, dell’apprensione per il futuro dei nostri figli e che spesso si nasconde dietro apparenze positive come l’amicizia, l’onore, lo spirito di appartenenza, il valore della famiglia, la disponibilità a dare la vita per la difesa dei propri ideali. Sono parole che potrebbero descrivere la grande tradizione della nostra Italia. Eppure la mafia le ha staccate dal loro fondamento e le ha riempite di significati opposti. Ha costruito una “cultura” al-ternativa, una “chiesa alternativa”, scimmiottando valori fioriti soprattutto nella nostra tradizione cristiana. Occorre dunque uno scatto d’orgoglio da parte di tutti. Dobbiamo riappropriarci dei nostri valori e riscoprire la nostra dignità.

In questa lotta, a tratti drammatica, la testimonianza di don Puglisi ci raggiunge come un faro di speranza, ci incoraggia e ci dice che è possibile vivere da uomini. Esprimo, dunque, tutto il mio apprezzamento per iniziative come questa che contribu-iscono a far conoscere un grande testimone della fede del nostro tempo e alimentano uno sguardo positivo in tutti noi.

Profitto della circostanza per ringraziare S. E. Mons. Vincenzo Bertolone che tanto ha lavorato per portare a compimento la causa di beatificazione.

Su tutti invoco la protezione e il sostegno del nuovo Beato.

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VITA DELLA DIOCESI

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SACRE ORDINAZIONI E MINISTERI

ORDINAZIONI DIACONI PERMANENTI

Domenica 13 gennaio, festa del Battesimo del Signore, il Vescovo in Cattedrale ha ordi-nato 14 “Diaconi permanenti”

Barigazzi Giorgio, della Parrocchia di Sant’ Agostino, città;

Bertocchi Paolo, della parrocchia di Arceto - u.p. di Arceto - Cacciola;

Cantadori Andrea, della parrocchia di Reggiolo - u.p. di Reggiolo - Villanova;

Faccia Davide, della parrocchia di Gavasseto - u.p. “Madonna della Neve”;

Ferro Donato Antonio, della parrocchia di Sant’Antonio, città;

Fornasari Marco, della parrocchia di Pieve di Guastalla - u.p. Pieve di Guastalla - S. Martino - Baccanello

Gabbi Enrico, della parrocchia di S. Vittoria – u.p. di Gualtieri - Pieve Saliceto - S. Vittoria;

Iori Andrea, della parrocchia di Pieve di Guastalla – u.p. Pieve di Guastalla – S. Martino - Baccanello

Pelli Marco, della parrocchia di Gualtieri – u.p. di Gualtieri - Pieve Saliceto - S. Vittoria;

Rinaldi Isacco, della parrocchia di Pieve Saliceto – u.p. di Gualtieri - Pieve Saliceto - S. Vittoria;

Sabbadin Leonardo, della parrocchia di Arceto – u.p. di Arceto - Cacciola;

Soliani Carlo, della parrocchia di Gualtieri – u.p. di Gualtieri - Pieve Saliceto - S. Vittoria;

Tarantino Andrea, della parrocchia di Cacciola – u.p. di Arceto - Cacciola;

Zafferri Maurizio, della parrocchia di Novellara

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BOLLETTINO DIOCESANO

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ORDINAZIONI DIACONALI DI GIOVANI IN CAMMINO VERSO IL SACERDOZIO

Domenica 21 aprile, Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, Mons. Camisa-sca ha ordinato DIACONI:

Giordani Gionatan della parrocchia di Pieve SalicetoMenozzi Giacomo della parrocchia di Fogliano

ISTITUZIONE DI MINISTERI A GIOVANI IN CAMMINO VERSO IL SACERDOZIO

Domenica 21 aprile, Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, il Vescovo ha istituito:

nel ministero di Accoliti:

Eshagpoor Armin di TeheranGalaverni Matteo della parrocchia di Gesù Buon Pastore città

nel ministero di Lettori:

Borghi Giovanni della parrocchia di Massenzatico Caramaschi Armando della parrocchia di ReggioloMinotti Giancarlo della parrocchia di Rio SalicetoReverberi Domenico della parrocchia di Sant’Ilario d’Enza

ORDINAZIONE PRESBITERALE

Sabato 18 maggio, vigilia di Pentecoste in una Cattedrale gremita il Vescovo ha Ordinato presbitero

Cristalli Andrea della Parrocchia di Montecchio

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ANNO 2013 - PrImO SEmESTrE

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NOMINE DEL VESCOVO

In data 3 gennaio 2013 Don Wojciech Darmetko, avendo acquisito la cittadinanza italia-na viene nominato amministratore parrocchiale delle parrocchie di Mandrio di Correggio, Mandriolo di Correggio, e San Martino di Correggio,

In data 8 gennaio 2013 Mons. Francesco Marmiroli è nominato Priore e Legale rap-presentante della “Pia Unione della Dottrina Cristiana”per la nomina ad Arcivescovo di “Ravenna-Cervia” di S. E., Mons. Lorenzo Ghizzoni.

In data 15 gennaio 2013 Mons. Francesco Marmiroli è nominato Pro-Vicario Generale e Moderatore di Curia, fino all’8 settembre 2013.

In data 26 gennaio 2013 il Dott. Edoardo Tincani è stato nominato Capo Ufficio Stampa della Diocesi e il dott. Emanuele Borghi è stato nominato Direttore dell’Ufficio Diocesa-no delle Comunicazioni Sociali.

In data 31 gennaio 2013 Don Gianni Bedogni è stato nominato Consulente Ecclesiasti-co della Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (UCID) di Reggio Emilia.

In data 15 febbraio 2013 il Vescovo ha nominato:

* Don Paolo Crotti suo Segretario con l’incarico specifico di accompagnarlo negli in-contri in Diocesi e di seguire la Sua agenda in collaborazione con gli altri membri della segreteria particolare composta da Davide Matteini, Don Simone Gulmini e don Da-niele Scorrano.

* Il sig. Antonio Franco Cerimoniere Vescovile con il compito di preparare e dirigere le celebrazioni Liturgiche del Vescovo, in particolare le Celebrazioni Pontificali.

* don Pietro Paterlini Amministratore Parrocchiale della Parrocchia di Stiolo in segui-to alla morte del M. R. don Bruno Magnani.

In data 25 febbraio 2013 il Vescovo ha costituito la Commissione diocesana per gli Or-dini e i Ministeri, per il prossimo triennio 2013-2015, e chiamando a farvi parte con il Rettore, Burani Don Gabriele, i seguenti sacerdoti:

Mons. Francesco Marmiroli, Pro-Vicario Generale,

Gozzi Don Giancarlo, Vicario Episcopale per la pastorale,

Ferrrari Don Fabio, Vicerettore del Seminario Vescovile,

Moretto Don Daniele, Direttore dello Studio Teologico Interdiocesano,

Panari Don Gianfranco, Segretario dello Studio Teologico Interdiocesano,

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BOLLETTINO DIOCESANO

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Monelli Don Fortunato, parroco,

Nicelli Don Alberto, parroco.

In data 19 marzo 2013 il Rev. Don Gianni Bedogni è stato nominato Consulente Ecclesia-stico dell’ Unione Giuristi Cattolici Italiani (UGCI) di Reggio Emilia

ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE

“Mons. Leone Tondelli”

A norma dello Statuto dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Mons. Leone Tondelli”, della nostra Diocesi, con il presente Decreto in data 18 aprile 2013 il Vescovo ha nomi-nato:

Docenti incaricati per l’anno 2013-2014:

Prof. Marisa Angiletta, Greco biblico-

Prof. Giovanna Bondavalli, Introduzione alla Bibbia, Greco biblico

Don Stefano Borghi, Teologia pastorale

Don Fabrizio Crotti, Introduzione alla teologia

Don Vittorio Davoli, Storia della Chiesa

Don Giuseppe Dossetti, Sacra Scrittura

Prof. Ignazio De Francesco, Islam

Mons. Tiziano Ghirelli, Iconografia

Mons. Giancarlo Gozzi, Ecumenismo

Prof. Grazia Lanzara, Filosofia

Prof. Chiara Mistrorigo, Psicologia

Prof. Adriano Nicolussi, Filosofia

Don Angelo Orlandini, Pastorale familiare

Don Carlo Pagliari, Sacra Scrittura

Prof. Francesca Salami, Diritto Canonico

Prof. Stefano Socci, Sociologia.

In data 20 aprile 2013 il Dott. Rossi Luigi è stato nominato Presidente della Fondazione Bellelli-Contarelli di Correggio.

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ANNO 2013 - PrImO SEmESTrE

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In data 8 maggio 2013 il Vescovo conferma e nomina per un anno P. Walter Gherri quale Collaboratore pastorale per ‘l’Unità Pastorale di Poviglio

In data 10 maggio 2013 il Vescovo costituisce la “Commissione Episcopale per la Beatificazione del seminarista Rolando Rivi e chiama a farne parte

Don Vittorio Trevisi, parroco dell’Unità pastorale di Castellarano, Delegato Vescovile e presidente

Don Carlo Lamecchi, Vicario Foraneo

Don Gabriele Burani, Rettore del Seminario

Don Alessandro Ravazzini, Responsabile della pastorale giovanile vicariale

Raffaele Panciroli, di S. Valentino

Andrea Bursi, di Castellarano

Emilio Bonicelli, del “Comitato amici di Rolando Rivi”

Luciana Alfieri, del “Comitato amici di Rolando Rivi”

Fabiana Guerra, del “Comitato amici di Rolando Rivi”

Fabrizio Sevardi, del “Comitato amici di Rolando Rivi”

Mons. Tiziano Ghirelli, Direttore Ufficio Diocesano Beni Culturali

Arch. Fausto Bisi, tecnico.

In data 18 maggio 2013 Don Andrea Cristalli è nominato Vicario Parrocchiale per le Parrocchie di Brescello e Lentigione congiunte in Unità Pastorale.

In data 1 giugno 2013 Don Andrea Pattuelli é incaricato con funzione di Vice-Economo in aiuto e collaborazione all’Economo Diocesano.

In data 1 giugno 2013 è stato costituito il nuovo Consiglio Direttivo di “Reggio Terzo Mondo” e tenuto conto che a norma dello statuto il Consiglio è composto di 10 memebri e che “per metà è nominato, tra gli stessi soci dal Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla” il Ve-scovo ha nominato membri del Consiglio Direttivo di Reggio Terzo Mondo, per il prossimo triennio 2013-2016.

Don Romano Zanni (Caritas diocesana)

Roberto Soncini (Centro Missionario Diocesano)

Dott. Claudio Gollini (già volontario ed esperto in progetti missionari)

Sig.ra Teresa Pecchini (Coop. Ravinala)

Geom. Achille Vezzosi (Congregazione Mariana delle Case della Carità)

E, a norma dell’art.11 del medesimo Statuto il Vescovo ha nominato, per il prossimo triennio,

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Assistente Ecclesiastico di Reggio Terzo Mondo, il M.R. Don Luciano Pirondini, che entra così a far parte del Consiglio Direttivo quale membro di diritto.

In data 21 giugno 2013 il Vescovo ha nominato:

* Don Benedetto Usai Vicario Parrocchiale per le Parrocchie di Casalgrande e Salvaterra congiunte in Unità Pastorale.

* Don Fabio Ferrari Vicario Parrocchiale per la Parrocchia di Castelnovo ne’ Monti

* Don Matteo Bondavalli Vicerettore del Seminario Diocesano

* Don Sergio Billi Vicario Parrocchiale per le parrocchie di Ospizio, S. Maurizioi e S. Alberto congiunte in Unità Pastorale

* Don Pietro Pattacini amministratore parrocchiale della parrocchia di La Vecchia

NOMINA DEI VICARI URBANO E FORANEI

A norma del can. 553 del Codice di Diritto Canonico, interpellati i sacerdoti dei singoli Vi-cariati e viste le loro indicazioni, con il presente Decreto in data 21 giugno 2013 il Vescovo nomina i seguenti Vicari Urbano e Foranei, per il prossimo quinquennio 2013-2018.

Vicariati:

1. Urbano Don Giovanni Rossi

2. Rubiera-Scandiano Don Ermenegildo Milani

3. Correggio Don Carlo Castellini

4. Guastalla Don Alberto Nicelli

5. Castelnovo Sotto -

S. Ilario d’Enza Don Danilo Gherpelli

6. Val d’Enza Don Claudio Gonzaga

7. Puianello Don Pierluigi Ghirelli

8. Sassuolo Don Sergio Pellati

9. Bismantova Mons. Guiscardo Mercati

10.Cervarezza Don Giovanni Rivi

11.Villa Minozzo -Toano Don Luigi Ferrari

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ANNO 2013 - PrImO SEmESTrE

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Martedì 1° gennaio 2013

Alle 17.15, in Piazza Duomo, il Vescovo partecipa al momento di omaggio arti-stico-floreale alla Madonna dorata po-sta sulla sommità della Cattedrale per l’affidamento a Maria del nuovo anno.

Alle 18.00, in Cattedrale, presiede la so-lenne Celebrazione Eucaristica di Maria Santissima Madre di Dio, con il canto del Veni Creator per l’inizio del nuovo anno e la preghiera nella Giornata mon-diale per la pace.

Domenica 6 gennaio 2013

Alle 11.00, in Cattedrale, il Vescovo pre-siede la Messa solenne dell’Epifania, con la Festa dei Popoli.

Domenica 13 gennaio

Alle 16.30, in Cattedrale, il Vescovo presiede la concelebrazione Eucaristi-ca nella solennità del Battesimo del Si-gnore, con la liturgia di Ordinazione di 14 candidati al diaconato permanente e con il ringraziamento a mons. Lorenzo Ghizzoni, arcivescovo eletto di Raven-na-Cervia.

Mercoledì 16 gennaio

Alle 10.00, in Vescovado, mons. Cami-sasca incontra i Vicari foranei.

DIARIO DEL VESCOVO

Alle 12.30, nella sala conferenze del Museo, il Vescovo partecipa al saluto e al ringraziamento che i Vicari episcopali e foranei, i collaboratori della Curia, de-gli uffici pastorali, dell’Istituto del Clero e del Seminario hanno fatto a mons. Lo-renzo Ghizzoni.

Giovedì 17 gennaio

In mattinata, presso il Seminario, il Ve-scovo partecipa all’incontro di formazio-ne dei giovani preti.

Domenica 20 gennaio

Alle 15.30, in Cattedrale a Ravenna, mons. Camisasca concelebra alla Mes-sa d’ingresso del nuovo Arcivescovo di quella diocesi, mons. Lorenzo Ghizzoni.

Giovedì 31 gennaio

Incontro di monsignor Camisasca con i presbiteri del Vicariato 1 della Città:

• al mattino (9.30-12): zone di Ospizio, della Pappagnocca, di San Pellegrino, di Rivalta

• nel pomeriggio (15-17.30): zone del Centro storico, di Pieve Modolena e zona nord-Bagnolo

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BOLLETTINO DIOCESANO

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Sabato 2 febbraio

Alle ore 10.30 il Vescovo presiede la ce-lebrazione Eucaristica in Cattedrale nel-la Festa della Presentazione del Signo-re e XVII Giornata della Vita consacrata.

Domenica 3 febbraio

A Guastalla, alle ore 14.30, il Vescovo rende omaggio alla Beata Vergine della Porta, patrona della città e della ex Dio-cesi di Guastalla. Alle 15 saluta le auto-rità cittadine.

Alle 15.30 celebra la Santa Messa della memoria liturgica del Beato Andrea Car-lo Ferrari, cui partecipano le comunità del Vicariato 4.

Sabato 9 febbraio

Alle ore 10.30 mons. Camisasca è pre-sente all’intitolazione del Palazzo Uni-versitario di Reggio Emilia a don Giu-seppe Dossetti.

Domenica 10 febbraio

Alle ore 11 il Vescovo presiede la S. Messa in onore dei 7 Santi Fondatori, nella Basilica della Madonna della Ghia-ra, e alle 18.30 presiede in Cattedrale la S. Messa in memoria di don Giuseppe Dossetti.

Lunedì 11 febbraio

Alle ore 18.30, nella chiesa di Sant’Ago-stino: nella festa della Beata Vergine di Lourdes presiede la Santa Messa nella Giornata mondiale del Malato.

Alle ore 21, in Cattedrale, presiede la

veglia per i fidanzati.

Mercoledì 13 febbraio

Alle ore 18.30, in Cattedrale, mons. Camisasca presiede la S. Messa delle Ceneri.

Giovedì 14 febbraio

In mattinata il Vescovo incontra i presbi-teri del Vicariato di Puianello.

Alle 15.30, nella parrocchia di Stiolo, monsignor Camisasca presiede i fune-rali di don Bruno Magnani.

Alle 18, in Seminario, tiene una lezione su preghiera e silenzio per i seminaristi.

Domenica 17 febbraio

Alle 10 il Vescovo è a Cavazzoli per la posa della prima pietra della nuova Scuola dell’Infanzia.

Mercoledì 20 febbraio

Alle 21 in Cattedrale il Vescovo presie-de la stazione quaresimale cittadina con il rito di elezione dei catecumeni.

Giovedì 21 febbraio

In mattinata incontra i preti giovani a Marola; nel pomeriggio visita la scuola San Tomaso di Correggio.

Venerdì 22 febbraio

In San Prospero, alle ore 19, il Vescovo presiede la S. Messa in ricordo di mon-signor Luigi Giussani nell’ottavo anni-versario della morte

In Cattedrale, alle 20,45, tiene il primo

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dei quattro incontri quaresimali con i giovani, dal titolo: La luce che illumina la realtà. La guarigione del cieco nato.

Giovedì 28 febbraio

In mattinata il Vescovo incontra i sacer-doti del Vicariato 5, Sant’Ilario – Castel-novo Sotto.

Venerdì 1° marzo

In Cattedrale, alle ore 20.45, il Vescovo tiene il secondo incontro quaresimale con i giovani, dal titolo: “Come può un uomo rinascere? Il dialogo con Nicode-mo”.

Sabato 2 marzo

Durante la giornata il Vescovo incontra i diaconi a Marola

In Cattedrale, alle ore 21, il Vescovo guiderà la meditazione del rosario di rin-graziamento per il dono del pontificato di Benedetto XVI e di supplica allo Spiri-to Santo in vista dell’elezione del nuovo Papa.

Lunedì 4 marzo

Il Vescovo nel pomeriggio sarà presente al primo dei ritiri quaresimali per i sacer-doti a Marola

Giovedì 7 marzo

In mattinata il Vescovo incontra i sacer-doti del vicariato 4 di Guastalla.

Alle ore 21, presso la chiesa di S. Pietro a Correggio, in un incontro organizzato dalle parrocchie del vicariato e aperto alla cittadinanza, il Vescovo è stato in-

tervistato sul tema “Alle fonti del rinno-vamento. Una lettura del Vaticano II”.

Venerdì 8 marzo

In Cattedrale alle ore 20.45 il Vescovo tiene il terzo incontro quaresimale con i giovani, dal titolo “La sorgente del vero amore. La samaritana al pozzo”.

Domenica 10 marzo

Alle ore 11.00, benedizione della nuova chiesa del Sacro Cuore di Baragalla

Martedì 12 marzo

Alle ore 11.00, a Bagnolo, il Vescovo in-contra i sacerdoti del Vicariato 1 (zona nord).

Alle ore 20.45, nella cripta della Catte-drale, guida l’incontro della “Scuola di Preghiera”.

Giovedì 14 marzo

Alle ore 10.30 presiede la Santa Mes-sa nel 14° anniversario della morte del vescovo Gilberto Baroni, con la comme-morazione dei vescovi defunti.

Venerdì 15 marzo

Alle 9.30, nella chiesa parrocchiale di Brescello, il Vescovo presiede le ese-quie di don Giuliano Cugini.

In Cattedrale, alle ore 20.45, il Vescovo tiene il quarto incontro quaresimale con i giovani, dal titolo: “Il dono di una vita senza fine. La resurrezione di Lazzaro”.

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BOLLETTINO DIOCESANO

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Martedì 19 marzo

Alle ore 12.00 il Vescovo incontra il con-siglio di Reggio Terzo Mondo.

Giovedì 21 marzo

Alle ore 9.30 incontra i sacerdoti del Vi-cariato 3 di Correggio.

Alle 21.00, a Scandiano, in chiesa gran-de, presiede la Veglia per i missionari martiri.

Domenica 24 marzo

In Cattedrale il Vescovo presiede la ce-lebrazione delle Palme; la liturgia avrà inizio alle ore 10.15 davanti alla Basilica di S. Prospero, con il rito e la processio-ne verso il Duomo.

Nel pomeriggio, verso le 18.00, accoglie in Cattedrale i partecipanti alla giornata diocesana dei giovani e tiene una rifles-sione sul tema.

Martedì 26 marzo

Presso il teatro Bismantova di Castelno-vo Monti, alle ore 21, il Vescovo intervie-ne con una meditazione mariana all’in-terno della serata “Santuario per amico” dedicata al santuario della Pietra.

Giovedì Santo - 28 marzo

Alle 9.30, in Cattedrale, il Vescovo pre-siede la solenne concelebrazione euca-ristica della Messa Crismale.

Alle 12.30, in Seminario, condivide il pranzo fraterno con la Comunità del Se-minario e i presbiteri e i diaconi festeg-giati nella Messa Crismale.

Alle 18.30, in Cattedrale, presiede la Messa nella Cena del Signore.

Venerdì Santo - 29 marzo

Alle 18.30, nella Basilica di S. Prospero, presiede la liturgia della Passione del Signore.

Alle 21.15, a Reggio, partecipa alla tra-dizionale Via Crucis cittadina dalla Ba-silica della Ghiara alla Cattedrale, dove terrà una meditazione sulla Croce.

Sabato Santo - 30 marzo

Nel pomeriggio, in Cattedrale, aiuta i sacerdoti nel ministero del sacramento della Penitenza.

A partire dalle ore 21.00 di sabato, in Cattedrale, presiede la Veglia pasquale nella notte santa e conferisce i sacra-menti dell’Iniziazione cristiana (Battesi-mo, Cresima, Eucaristia) a 18 catecu-meni tra adulti e giovani.

Pasqua di Risurrezione - 31 marzo

Alle 10.30, nella tensostruttura presso l’oratorio Don Bosco di Guastalla, il Ve-scovo presiede la Messa della Domeni-ca di Risurrezione.

Domenica 7 aprile

Alle 11.00, a Pieve di Guastalla, il Ve-scovo presiede la celebrazione Eucari-stica della II domenica di Pasqua (in al-bis) e conferisce la Cresima a un gruppo di giovanissimi.

Mercoledì 10 aprile

Alle 11.00 il Vescovo visita la Caritas

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diocesana e incontra i responsabili.

Giovedì 11 aprile

Alle 8.30 il Vescovo visita l’Istituto Maria Ausiliatrice di Bibbiano.

Alle 9.30 incontra i sacerdoti del Vicaria-to 6 della Val d’Enza.

Venerdì 12 aprile

Alle 21.00 il Vescovo presiede la Santa Messa di Pasqua per le ragazze sulla strada.

Sabato 13 aprile

Nel Duomo di Modena, alle 18.00, il Ve-scovo concelebra la Messa presieduta dall’arcivescovo di Modena-Nonantola Antonio Lanfranchi nel 68° anniversario del martirio di Rolando Rivi.

Alle 21.00, in Cattedrale, il Vescovo concelebra l’Eucarestia presieduta dal Cardinale Ruini per il centenario della nascita di monsignor Gilberto Baroni.

Mercoledì 17 aprile

Alle 20.45 il Vescovo incontra i membri del C.S.I. (Centro Sportivo Italiano) di Reggio Emilia.

Giovedì 18 aprile

Alle 9.30 il Vescovo incontra i sacerdoti del vicariato di Sassuolo e successiva-mente visita il monastero dell’Immaco-lata e San Giuseppe delle Carmelitane scalze.

Alle 21, in Cattedrale, il Vescovo presie-de la veglia per la Giornata di preghiera

delle vocazioni, organizzata dal Servizio Diocesano Vocazioni

Sabato 20 aprile

Nella mattinata il Vescovo incontra il Consiglio generale delle Case della Ca-rità, a Fontanaluccia.

Domenica 21 aprile

Alle ore 10.00 il Vescovo celebra la San-ta Messa Pasquale presso il carcere.

Alle 16.30 in Cattedrale il Vescovo pre-siede l’Eucaristia con il conferimento di alcuni ministeri e l’ordinazione diacona-le di Gionatan Giordani e Giacomo Me-nozzi.

Venerdì 26 aprile

Nel pomeriggio il Vescovo fa visita ad alcuni campi nomadi della diocesi.

Domenica 28 aprile

Alle 10.30 a Montecchio presiede l’Eu-caristia nella V domenica di Pasqua e conferisce la Cresima a un gruppo di giovanissimi.

Alle 15.30 guida l’Adorazione eucaristi-ca nella Cappella dell’Arcispedale San-ta Maria Nuova.

Lunedì 29 aprile

Alle 11.00 il Vescovo visita l’Istituto dio-cesano di Musica e Liturgia (Idml).

Alle 18.30, nel Santuario della B.V. della Ghiara, presiede l’Eucaristia nella so-lennità del Primo miracolo.

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BOLLETTINO DIOCESANO

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Martedì 30 aprile

In mattinata fa visita all’Ospedale Psi-chiatrico Giudiziario di Reggio Emilia.

Sabato 4 maggio

Alle 9.30 a Borzano incontra l’associa-zione mariana di famiglie Comunità del-le Beatitudini, il movimento giovani e i sacerdoti della Familiaris Consortio.

Domenica 5 maggio

Alle 10.30 a Bibbiano e alle 16.30 a Fabbrico presiede l’Eucaristia della VI domenica di Pasqua e conferisce la Cresima alle ragazze e ai ragazzi di quelle comunità.

Alle 13.00 si reca nella chiesa di San Giorgio a Reggio per l’augurio pasquale ai fratelli ortodossi di rito greco-cattolico.

Martedì 7 maggio

Alle 16.00 il vescovo incontra i vicari fo-ranei.

Alle 21.00, presso l’Aula magna dell’U-niversità, partecipa all’incontro con il professor Franco Miano, presidente na-zionale dell’Ac, sul tema “Per una nuo-va generazione di cattolici impegnati in politica: da dove partire?”.

Giovedì 9 maggio

Alle 9.30, a Marola, il Vescovo incontra i sacerdoti del vicariato 9 - Bismantova.

Sabato 11 maggio

Alle 8.45, presso l’oratorio Don Bosco in via Adua, il Vescovo incontra i diaconi

sul tema della vocazione matrimoniale.

Domenica 12 maggio

Alle ore 10.00 il Vescovo benedice il nuovo “Centro di comunità” a Reggiolo nel giorno dell’inaugurazione e presiede l’Eucaristia.

Nel pomeriggio, alle 16.00, a Novella-ra, il vescovo presiede l’Eucaristia nella solennità dell’Ascensione, con l’unzione degli infermi in occasione della festa diocesana dell’ammalato.

Martedì 14 maggio

Alle 21.00 il Vescovo incontra i catechisti e i genitori dell’unità pastorale di Gavas-sa e Massenzatico, che presenteranno il progetto di iniziazione cristiana in atto.

Giovedì 16 maggio

Alle 9 in Seminario il Vescovo partecipa all’incontro di formazione dei preti gio-vani con Annamaria Marzi (responsa-bile dell’Hospice di Montericco) sull’ac-compagnamento dei malati in fase avanzata.

Venerdì 17 maggio

Alle 16.00, al salone del libro di Torino, il Vescovo presenta il suo libro “Benvenu-to a casa” (edizioni Paoline).

Sabato 18 maggio

Alle 10.30 il Vescovo inaugura, presso il vescovado, la Cappella Coccapani, re-centemente restaurata.

Alle 20.30, in Cattedrale, nella vigilia di Pentecoste, ordinerà sacerdote il diaco-

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ANNO 2013 - PrImO SEmESTrE

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no Andrea Cristalli, originario di Montec-chio, in servizio nella comunità di Bre-scello.

Domenica 19 maggio

Alle 10.30, in Cattedrale, il Vescovo pre-siede l’Eucaristia nel giorno di Penteco-ste e amministra la Cresima ad alcuni adulti.

Alle 17.00 presenzierà alla Festa dell’Associazione Provinciale Stampa Reggiana, con il seguente programma:

- ore 17 Santa Messa nella chiesa dei Padri Cappuccini;

- ore 18.00 Assemblea dell’Associazio-ne con intervento di monsignor Massi-mo Camisasca e consegna dei premi di studio ai figli dei giornalisti, nella Biblio-teca dei Padri Cappuccini.

Da lunedì 20 a venerdì 24 maggio

Parteciperà all’assemblea della Cei a Roma.

Sabato 25 maggio

Alle 18.00 il Vescovo presiede la Santa Messa nella Pieve di San Valentino di Castellarano, dove il Servo di Dio Ro-lando Rivi è sepolto e venerato.

Domenica 26 maggio

Alle 11.00, a Calerno, nella solennità della Trinità, il Vescovo amministra il sa-cramento della Cresima a un gruppo di ragazzi e ragazze.

Martedì 28 maggio

Alle 21.00, in via Prevostura a Reggio, presso il centro Giovanni XXIII, incon-trando le associazioni AGe, Aimc, Fi-dae, Fism e Uciim, il Vescovo risponde-rà a un’intervista di Gabriele Rossi sul tema dell’educazione.

Mercoledì 29 maggio

Alle 21.00, nel cortile del vescovado, guida la preghiera del Rosario con i vo-lontari della Mensa del povero e i fedeli dell’unità pastorale Cattedrale - S. Pro-spero - S. Teresa.

Giovedì 30 maggio

Alle 9.30, in Santa Teresa a Scandiano, il Vescovo incontra i sacerdoti del Vica-riato 2 (Rubiera-Scandiano).

Alle 21.00, in Cattedrale, presiede la celebrazione eucaristica nella solenni-tà del Corpo e Sangue di Cristo per le parrocchie del Vicariato urbano e la pro-cessione cittadina con la benedizione eucaristica nella piazza del Duomo.

Sabato 1 giugno

Alle 19.00, nella vigilia della solenni-tà del SS. Corpo e Sangue di Cristo, il Vescovo presiede l’Eucaristia presso la chiesa di San Giorgio a Sassuolo, a conclusione dell’anno scolastico della Scuola di Formazione Teologica “Valle del Secchia”.

Alle 21.00, presso la scuola Vladimiro Spallanzani a Sant’Antonino di Casal-grande, il Vescovo tiene un incontro per genitori sul tema dell’educazione.

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Giovedì 6 giugno

Presso la parrocchia di Villa Aiola il Ve-scovo parteciperà all’incontro mensile delle “Famiglie del Gelso” e presiederà l’Eucaristia alle 19.00.

Venerdì 7 giugno

Alle 20.45, in Cattedrale, il Vescovo tie-ne un incontro per i giovani sul tema: “È il Signore” - gli occhi che riconoscono il Maestro”.

Sabato 8 giugno

Alle 10.00, presso la Basilica della Beata Vergine della Ghiara a Reggio Emilia, il Vescovo presiede la Messa di fine anno scolastico della Scuola “Santa Dorotea” di Casalgrande (in festa anche per i 125 anni delle Dorotee a Casalgrande e per i 40 anni della nuova struttura di via Ca-stello).

Alle 11.30, a Reggio Emilia, il Vescovo partecipa all’inaugurazione della Stazio-ne Mediopadana dell’Alta Velocità.

Domenica 9 giugno

Alle 11.00, a Toano, il Vescovo presiede l’Eucarestia e conferisce la Cresima ad un gruppo di ragazzi e ragazze.

Alle 16.00, a Marola, incontra le consa-crate dell’Ordo Virginum.

Lunedì 10 giugno

Alle 10 il Vescovo visita il carcere in oc-casione della festa della famiglie.

Giovedì 13 giugno

Alle 9.30 a Minozzo il Vescovo incontra i sacerdoti dei vicariati 10 e 11.

Alle 21.00 presiede la Santa Messa a Brugneto in occasione del “13 del mese” nell’unità pastorale della Madonna dello Spino.

Venerdì 14 giugno

Alle 18.45, a Rivalta, il Vescovo presie-de la Santa Messa di apertura del Fe-stincontro.

Sabato 15 giugno

Alle 9.30, a Carpi, il Vescovo partecipa alla beatificazione di Odoardo Focheri-ni.

Sabato 22 giugno

A Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, alle 15.30 il Vescovo presie-de la celebrazione Eucaristica con il rito di ordinazione di otto sacerdoti e di un diacono della Fraternità di San Carlo Borromeo.

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ANNO 2013 - PrImO SEmESTrE

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NECROLOGI

DON GIULIO ROSSI

Nacque a Regnano il 16 febbraio 1933, ma abitò, nella adolescenza, in diversi paesi, dove l’attività del padre (cascinaio) portava la famiglia: a Ca-stello di Querciola, poi a Cinquecerri, per fermarsi poi a Viano, dove pose stabile residenza. Intanto Giulio procedeva negli studi nel seminario dio-cesano e raggiungeva l’ordinazione sacerdotale il 28 giugno 1959, in una classe numerosa di 13 novelli sacerdoti.Fu per 3 anni curato a Pieve San Vincenzo, a fianco del simpatico Don Eu-sebio Costi; posti disagiati e lontani da tutto, ma c’era l’ardore giovanile che non conosceva ostacoli. Nel 1962 fu anche economo spirituale a Succiso.Lo stesso anno andò curato a San Giovanni di Querciola e vi rimase 2 anni, coadiuvando il santo parroco Don Giovanni Reverberi, dal quale si poteva-no apprendere tante virtù.Nel 1964 iniziò il suo servizio a Borzano, la parrocchia a cui resterà più legato; l’arciprete Don Armando Bottazzi lo apprezzava e Don Giulio vi si trovò molto bene, tanto che, dopo un breve servizio a Regina Pacis (1966 – 1967), vi fece ritorno, fino al 1971. Nel 1971 – 1972 coadiuvò il parroco di Chiozza, Don Car-mine Vercalli, e, dopo la sua morte, fu economo spirituale della parrocchia.Intanto insegnava religione nelle scuole, ministero che continuò a lungo e nel quale si spese molto, conservando profondi legami con i suoi allievi.Aveva preso dimora a Viano, presso la sua famiglia, rendendosi disponibile, fino agli ultimi giorni, ad aiutare i confratelli della zona (ma servì per molti anni anche la parrocchia di Tressano, dove era parroco il suo compagno di classe Don Adriano Zannini): con Don Franco Messori e Don Bruno Poli aveva una consuetudine fraterna (mangiavano insieme tutti i giorni).Ricordiamo anche il suo amore per l’arte, di cui era fine conoscitore.Aggredito da male incurabile e premurosamente assistito dai familiari, si è spento all’Hospice di Montericco, confortato dalla visita del nuovo Vescovo Monsignor Camisasca, il 17 gennaio 2013.Ai funerali, celebrati nella chiesa di Viano e presieduti dallo stesso Vescovo, è intervenuta grande folla di compaesani ed estimatori; la salma riposa nel locale cimitero.

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BOLLETTINO DIOCESANO

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DON BRUNO MAGNANI

Nato a Rio Saliceto il 27 aprile 1922, raggiunse il sacerdozio il 29 giugno 1946; era la prima ordinazione tenuta a Reggio dal nuovo Vescovo Monsi-gnor Socche, in un clima di gravissima tensione per l’uccisione, pochi giorni prima, di Don Pessina.E proprio nella parrocchia di Don Pessina, San Martino di Correggio, il gio-vane Don Bruno fece le prime esperienze sacerdotali; poco dopo fu manda-to curato a Ospizio, in aiuto al vecchio prevosto Don Caretti e lavorò per 4 anni in quella popolosa parrocchia di periferia, specialmente nell’ambiente giovanile.Nel 1950 partiva per Sologno, dove rimase 16 anni, condividendo con quei montanari la durezza della vita quotidiana; era una zona, allora, particolar-mente disagiata, senza strade né servizi, ma la giovane età e l’ardore del ministero rendevano tutto accettabile; a Sologno resta buona memoria del suo passaggio. Fu anche economo spirituale a Minozzo per 2 volte, prima e dopo il parrocato di Don Resini.Nel 1966 venne prevosto a Stiolo e vi rimase, fino alla morte, lavorando indefessamente per il bene della parrocchia e dei parrocchiani; per 25 anni (dal 1967 al 1992) ebbe in cura anche Sant’Agata, piccola frazione del Ru-bierese. Fu inoltre economo spirituale a Prato per qualche tempo, dopo la morte di Don Bassi (1980).I 47 anni del parrocato di Stiolo hanno rappresentato per Don Bruno il tempo della maturità sacerdotale, nel quale ha potuto donare ai suoi parrocchiani i tesori del suo zelante e apprezzato ministero.Si è spento, sazio di giorni, ma ancora volonteroso di servire, all’ospedale di Correggio, l’11 febbraio 2013, giorno memorando nella storia della Chiesa per l’annuncio delle dimissioni del Papa Benedetto XVI.I funerali, nella sua chiesa di Stiolo, presieduti dal Vescovo Monsignor Ca-misasca, sono stati il giusto riconoscimento dei suoi meriti da parte di tanti parrocchiani e sacerdoti.

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ANNO 2013 - PrImO SEmESTrE

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DON CIRO MONTANARI

Nacque a San Polo il 27 giugno 1944; percorso il consueto iter formativo nei seminari diocesani, fu ordinato sacerdote dal Vescovo Monsignor Baroni il 7 giugno 1970.I primi 3 anni di ministero li passò a Roteglia, in aiuto a Don Giulio Rossi; nel 1973 passò curato a Scandiano, con Monsignor Albino Rossi; in entrambe le parrocchie si distinse per l’intensa attività, specialmente fra i giovani; fra le altre doti, cantava anche molto bene.Nel 1980 andò prevosto a Budrio e vi rimase 13 anni, sempre lavorando serenamente e conquistando la stima e l’affetto di quei parrocchiani; dal 1985 assunse anche la cura di Lemizzone, per la grave impotenza di Don Lusetti .Nel 1993 la fiducia di Monsignor Gibertini lo mise a guida dell’importante e popolosa parrocchia di Arceto; Don Ciro si mise subito al lavoro e realizzò notevoli opere, come la trasformazione del bocciodromo (fatto da Don Fran-cia) in salone polivalente per le varie iniziative della comunità; soprattutto aveva la dote di avvicinare tante persone, anche non strettamente della par-rocchia, e coinvolgerle in buone iniziative; ma ecco, proprio quando, raggiun-ta la maturità sacerdotale, poteva dare il meglio di sé, insorgere una terribile e devastante malattia (una forma di demenza), che lo costrinse, in breve tempo, all’inattività. Lasciata la parrocchia, venne accolto alla Casa del clero di Montecchio (2006); qui, premurosamente assistito dal personale, dai suoi familiari e dalla benemerita signora Aldina Tondelli, ha trascorso, ignaro di sé e di tutto, gli anni del suo calvario. Lì si è spento il 14 febbraio 2013.I funerali, presieduti dal vescovo emerito Monsignor Caprioli, si sono tenuti nella parrocchiale di Arceto; la salma di Don Ciro riposa a San Polo.

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BOLLETTINO DIOCESANO

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CANONICO GIULIANO CUGINI

Sacerdote della ex-diocesi di Guastalla, nacque a Casoni il 14 maggio 1927 e fu ordinato sacerdote, giovanissimo, dal Vescovo Monsignor Giacomo Zaffrani, il 4 dicembre 1949; l’ordinazione gli fu conferita a Guastalla, nella chiesa dei Servi.Fu, per un anno, assistente spirituale al Collegio “San Carlo” di Guastalla e anche insegnante nel locale seminario.Nel 1950, dopo un breve passaggio a Campagnola, andò curato a Reggio-lo, dove lavorò per 11 anni soprattutto nell’oratorio, collaborando nella for-mazione di tanti giovani che ancora lo ricordano con affetto e riconoscenza.Nel 1961 fu eletto prevosto di Codisotto (parrocchia che aveva il privilegio di scegliersi il parroco) e vi rimase fino al 1979, dando buona prova delle sue capacità formative e amministrative.La sua maturità sacerdotale, Don Cugini la donò all’importante parrocchia di Brescello, di cui rimase arciprete dal 1979 al 2000.A Brescello scelse di rimanere anche quando, nel 2000, rinunciò alla guida della parrocchia; collaborò con i suoi successori Don Mandelli, Don Davoli e Don Gherardi, finchè le forze glielo consentirono. Nel 2008 Monsignor Caprioli lo nominò Canonico della Concattedrale di Guastalla.E’ morto all’Ospedale Maggiore di Parma il 13 marzo 2013, giornata resa memorabile per la elezione, quella sera , di Papa Francesco.I funerali, celebrati nella parrocchiale di Brescello e presieduti dal Vescovo Monsignor Camisasca, hanno rappresentato il giusto riconoscimento dei meriti di Don Cugini, per la presenza di tanti confratelli e fedeli.

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