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SOS CREATIVITA’ La relazione educativa nella gestione di ragazzi impegnativi A cura di Fabrizio Carletti [email protected] 1

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SOS CREATIVITA’

La relazione educativa

nella gestione di ragazzi impegnativi

A cura di Fabrizio [email protected]

Convegno Catechistico Diocesano

Nuoro, giugno 2016

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ESTRATTI DAL TESTO

F. Carletti, G, Carpi, D. Castellari “SOS Creatività” Paoline 2013.

Nella nostra esperienza formativa incontriamo molti educatori e insegnanti che fanno fatica oggi a fronteggiare gruppi di preadolescenti e adolescenti e la loro richiesta più o meno diretta di maggior protagonismo e coinvolgimento nei percorsi di crescita loro proposti. Reiterare in modo quasi automatico vecchi strumenti, metodi e stili educativi non produce più gli effetti sperati. Anche usare in modo inappropriato linguaggi più giovanili corre il rischio di scimmiottarli e risultare come educatori ancora meno credibili.

Quando affermiamo che ogni individuo può allenarsi ad essere maggiormente creativo, intendiamo proprio questo: essere in grado di spegnere i ‘nemici’ della creatività e accendere, facendo uso di opportune attenzioni, strategie, tecniche operative, un pensiero più conforme e coerente alla realtà da fronteggiare. Del resto, non si possono avere ragazzi creativi se non si hanno educatori creativi: solo uno sguardo libero, autentico e innovativo sulla realtà è in grado di guidare in questa stessa direzione altre persone… ‘può forse un cieco guidare un altro cieco?’ (Lc 6, 39).

RAGAZZI DIFFICILI DA GESTIRE

Interventi non creativi - Fissità, routine, resistenze al cambiamento

Allontano (non elimino) il problema Caccio il ragazzo e lo spedisco in un altro gruppo, o da un altro educatore, così non disturberà il resto della classe. Gli dico che può anche andarsene se intende continuare così.

Cedo alle sue provocazioni Lo minaccio o lo sfido per mostrare chi è il più grande.

Alimento il suo protagonismo Cerco di impegnarlo e coinvolgerlo al massimo, in modo eccessivo.

Mi arrendo «Non c’è nulla da fare, meglio lasciar perdere!»

Cerco aiuto in modo inadeguato Parlo con i suoi genitori, sebbene questi non siano le figure centrali che possano favorire il suo cambiamento, anche se la famiglia non deve mai essere esclusa dal processo formativo.

Strategie educative per aggirare le fissità

Ragazzi difficili o fragilità nascoste?

Quale educatore se chiude per un attimo gli occhi (ma anche senza chiuderli!) e pensa al suo gruppo

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di ragazzi, non visualizzerà il volto di quel ragazzo o ragazza particolarmente difficile da gestire? Uno di quei ragazzi che, se anche è stato preparato l’incontro «perfetto», o l’attività coinvolgente e innovativa, in pochi secondi riesce a mettere tutto a soqquadro e a vanificare ogni sforzo? Già ripetere dentro di sé il suo nome può far venire qualche fremito!

La cosa strana, se poi ci si pensa bene, è che lui o lei non mancano mai!!! Gli altri si ammalano, vanno dagli zii, hanno un impegno sportivo… loro no! Ci sono sempre! Non si perdono un appuntamento! Anzi… precedono l’educatore e sono già lì al cancello o alla porta che attendono! Perché? Forse proprio perché aspettano, si aspettano qualcosa. Cosa? Che li si chiami, si urli loro dietro, li si guardi, li si fissi, li si rimproveri, o anche semplicemente si chieda loro: «Ciao, come stai?». Servono a poco urla e paternali, se sono proprio ciò che l’altro sta cercando.

Non è nostra intenzione addentrarci negli aspetti psicologici della questione, ma spesso questo atteggiamento, apparentemente duro e irriverente, nasconde fragilità e disagi. Il filosofo e teologo Martin Buber scriveva: «Io esisto se sono chiamato». Proprio i ragazzi più fragili, che a livello esistenziale sono più in crisi nell’affermazione di sé, cercano con tutti i mezzi di essere chiamati nel bene o nel male. E sono disposti a tutto! Dietro a questi atteggiamenti si cela dunque un desiderio di attenzione, riconoscimento, espresso con modalità comunicative improprie. Il problema è che questi comportamenti incontrano spesso un rinforzo involontario da parte dell’educatore, basato sulle aspettative che egli si è fatto del ragazzo.

L’effetto pigmalione ovvero le profezie che si autoavverano

In pedagogia si parla di effetto pigmalione: in base al pensiero che abbiamo di un ragazzo, noi nutriamo su di lui aspettative conseguenti, che manifestiamo in modi più o meno espliciti; queste aspettative possono condizionare a tal punto un bambino che questo tende a comportarsi come noi ci attendiamo che faccia. In altre parole, può diventare ciò che l’educatore immagina di lui: se, ad esempio, lo definiamo un «confusionario», diventerà tale, anche intenzionalmente, pur di evitare di essere un nessuno o un ragazzo qualsiasi. In questo senso si parla anche di «profezie che si autoavverano».

Le aspettative possono essere veicolate, dall’educatore al ragazzo, attraverso tre modalità:

il linguaggio del corpo; la voce; il metodo d’insegnamento.

Questo ci suggerisce una prima strategia di intervento: usare l’effetto pigmalione in positivo, per sottolineare atteggiamenti o interventi meritevoli di approvazione. L’educatore dovrà sforzarsi di acquisire un’aspettativa positiva sul ragazzo: andare alla caccia dei suoi lati buoni, costruirsi un’immagine positiva individuando ciò che di valido c’è in lui, per favorire il manifestarsi di tali aspetti e il loro rinforzo.

L’effetto pigmalione, esercitato in chiave positiva, permetterà al ragazzo di sentirsi chiamato anche quando compie gesti positivi e non solo negativi. Allo stesso tempo, per dare efficacia a questo metodo, ci è chiesto di ignorare alcuni atteggiamenti o modi di relazionarsi inadeguati, anche facendo finta di niente,

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proprio per non mettere in risalto il nostro riferirci al ragazzo solo in chiave negativa. L’obiettivo, come educatori, è riuscire a coglierlo in flagrante… quando fa il bene! E sottolinearlo di fronte ai compagni.

Sottolineare il positivo e la significatività della relazione

La capacità di sottolineare il positivo dell’altro diviene uno strumento importante per rinforzare gli atteggiamenti buoni e aumentare il suo (spesso) basso livello di autostima, che lo porta a essere un procacciatore di attenzioni; inoltre, ci consente di trasmettergli e manifestargli la nostra fiducia e stima personale. Per richiamarci al racconto iniziale, citando le parole di don Bosco, è importante «che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati».

Possiamo riuscire in questo intento soprattutto attraverso le attenzioni che siamo capaci di avere nei confronti dell’altro, che non si riducono alle parole usate, ma vanno oltre. Dargli fiducia, ricordarsi dei suoi impegni o appuntamenti importanti o difficili, trovare dei momenti per un dialogo personale e non nel gruppo, anche informale, dove il ragazzo possa percepirsi all’interno di una relazione significativa. Non sono tanto, come dicevamo, le parole che trasformano, ma le persone e le relazioni che uno riesce a instaurare con esse. Poi anche le parole diverranno significative e verranno interiorizzate, quando la persona che le pronuncia sarà significativa. Il tema delle relazioni interpersonali è al cuore delle dinamiche educative, ed è per questo che lo troverete presente un po’ in tutti i capitoli di questo testo, sottolineato da varie angolature, in ottica di rinforzo, di stimolo, di contenuto e di significatività dei processi formativi.

Disinnescare la trappola della provocazione

Il ragazzo cosiddetto «difficile» ci pro-voca, cerca cioè da noi una risposta, per sapere se per noi lui «esiste». La bravura di un educatore è di non accettare la provocazione, svestendosi così del proprio ruolo e cadendo, inconsapevolmente, nella trappola che l’altro aveva predisposto per noi. Non si può rispondere con lo stesso tono e stile del ragazzo. Occorre una risposta che esprima chiaramente il rapporto asimmetrico che esiste tra noi, che evidenzi la non accettazione di questa sfida, perché, in quanto adulti, la cosa non ci interessa e non ci riguarda. La provocazione, infatti, è di norma rappresentata da un’affermazione in cui l’altro non crede, ma che è usata nei nostri confronti, in un’ottica volutamente destabilizzante. Occorre solo, anche non dandogli peso e passando oltre, chiarire che siamo coscienti di tale intenzione e, di conseguenza, il tentativo di intrappolarci non funziona. Se rispondiamo a tono o con rabbia, allora è finita! Siamo in sua balia e, a volte, anche della classe, che nel frattempo ne cavalca l’azione di disturbo.

Ristrutturare il problema in chiave creativa

La focalizzazione Mi concentro sul ragazzo alla ricerca di tutti quegli aspetti positivi da poter valorizzare e su cui far forza per attivare un cambiamento.

In alternativa, posso ripensare a un mio atteggiamento, o comportamento, che ha

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avuto effetti positivi nella mia relazione con lui, o che l’ha calmato e coinvolto positivamente. Mi focalizzo su di esso e cerco di collegarlo alla personalità del ragazzo, per cercare in futuro di attivare intenzionalmente certi interventi.

La sfida Parlo con lui proponendogli una sfida basata sulla fiducia. È importante che lui percepisca che io mi fido veramente e che capisca che faccio il tifo per lui.

Le alternative Elenco tutti quei modi usati finora per gestire il ragazzo che non hanno funzionato. Mi soffermo su ognuno di essi ed elaboro un’alternativa che ritengo più idonea. Al prossimo incontro cercherò di adottare una di queste alternative, partendo da un livello basso di cambiamento e, se non produce effetti, riparto da un’altra. Nel frattempo cerco di produrre ulteriori alternative, a partire da quelle che di volta in volta sperimento.

Il ventaglio di idee Mi concentro su una situazione di disturbo che è avvenuta e penso ad almeno sei modi diversi che avrei potuto usare per risolverla positivamente (con altre parole, gesti, proposte, richieste…).

La provocazione Penso a una situazione realmente accaduta ed elenco oggettivamente tutte quelle reazioni che avrei potuto mettere in atto per peggiorare il tutto e rinforzare più o meno consapevolmente i suoi atteggiamenti negativi.

Questo esercizio potrebbe frenare la logica dei tentativi non andati a buon fine. Inoltre potrebbe produrre delle soluzioni alternative a quelle esistenti se, successivamente, cerco di associare a ogni risposta possibile da me praticabile con insuccesso una contro-proposta più idonea.

L’entrata casuale Immagino l’intervento di un elemento esterno che possa aiutarmi nel risolvere la relazione con questo ragazzo. Potrebbe trattarsi di un intervento a sorpresa di una persona molto significativa per lui (l’allenatore, uno zio, il barista, un amico…), in grado di poterlo influenzare positivamente, stabilendo così una specie di patto o rete educativa con lui. In alternativa, può trattarsi di un evento difficilmente immaginabile, in grado di valorizzare e far emergere i suoi pregi, aumentando il suo livello di autostima personale e il legame con noi educatori.

L’aggiramento Sposto l’attenzione da lui al contesto e al gruppo. Evidenzio tutti quegli elementi che vanno a interagire con lui e che rinforzano i suoi atteggiamenti (risate del gruppo, comportamento dei genitori, atteggiamento dell’allenatore…), o che possano attivarli con facilità (oggetti inadatti presenti nella stanza, vicinanza di alcuni compagni…) e mi impegno a diminuire sempre più la loro influenza.

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Indicazioni di metodo

Un bambino o un ragazzo difficile da gestire richiede un insieme di metodi che sappiano alternare un’azione sul gruppo con un’azione sul singolo. La sua ricerca di attenzioni e conferme lo porta a trovare nei sorrisi complici del gruppo una fonte da cui trarre forza e incoraggiamento. Il gruppo può rappresentare un elemento di rinforzo rispetto ai suoi atteggiamenti negativi. Questo si manifesta con chiarezza quando, parlandoci a tu per tu, ci sembra di essere di fronte a un’altra persona.

La forma del rimprovero

Sul piano individuale, è utile saper trovare la forma più efficace per far sì che i nostri richiami non siano visti o sentiti come minacce o giudizi sulla persona, ma come inviti a un riscatto, a un cambiamento in positivo. Un preadolescente fa difficoltà a comprendere che dietro a un «no» dell’educatore si nasconde sempre un «sì»: un desiderio nel vederlo migliore, felice e integrato positivamente con gli altri per una sua piena realizzazione, e non per un suo adeguamento.

Il clima e il luogo giusto

Nel formulare un richiamo, è opportuno creare un clima disteso, nel quale essere calmi, in quanto le reazioni d’impeto sortiscono effetti opposti, di cui poi ci potremmo pentire, oltre a rinforzare le difese e le resistenze al cambiamento da parte del ragazzo. Quando possibile, è bene prenderlo in disparte per non rimproverarlo davanti a tutti, sia per non fargli perdere la faccia di fronte ai compagni, sia per impedirgli di cercare in loro un continuo rinforzo ai suoi atteggiamenti negativi continuando a sfidarci.

La formulazione

1. Può risultare opportuno chiedere «come stanno le cose»: mettersi in ascolto del ragazzo, fargli rinarrare la situazione dal suo punto di vista, perché, anche se pensiamo di conoscerla, potrebbe introdurre delle informazioni in grado di orientare in modo più efficace il nostro richiamo.

2. Cercare di individuare un aspetto che si apprezza di quel ragazzo. Se pensi che non ce ne siano, ti consigliamo di cercare meglio, altrimenti vi è un problema di relazione… il nostro rapportarci con lui è distaccato e non significativo, perciò tutto quello che diremo e faremo sarà percepito in chiave impositiva e fredda.

3. Porre l’attenzione sull’atteggiamento o sul comportamento che ci ha disturbato e non sulla persona in quanto tale.

4. Individuare chiaramente il disturbo che ha provocato direttamente a noi o alla classe; non usare il verbo «essere» in chiave accusatoria.

5. Chiedergli se ha compreso quanto gli abbiamo comunicato, avere conferme che la nostra comunicazione sia stata chiara e comprensibile per lui.

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6. Lasciarsi alla fine dell’incontro riferendoci a lui con un’ultima connotazione positiva.

Allora, il rimproverò non sarà: «Sei un mascalzone!», «Con te non c’è nulla da fare!», «Sei sempre il solito!», «Se non ti interessa, puoi anche tornartene a casa!».

Ma, a titolo di esempio: «(nome), apprezzo molto di te (indicare una qualità positiva). L’aver (specificare il gesto o il comportamento negativo) mi ha impedito di portare a termine l’attività e mi è dispiaciuto, perché penso sia utile per (indicare le conseguenze di quel gesto, in questo caso cosa ha impedito di fare) e mi è dispiaciuto per i tuoi compagni che si stavano impegnando. (Richiesta di comprensione del messaggio e ultima frase di valorizzazione del ragazzo)».

Riflessioni

Occorre sottolineare innanzitutto gli aspetti positivi, senza accusare la persona ma il gesto. Questo permette al ragazzo di avere un motivo, una spinta al cambiamento. Dobbiamo fargli dire: «Se c’è una persona che mi stima, che mi dà fiducia, perché dovrei incrinare questo rapporto a causa di quel comportamento!?! In fondo, se non sono io a essere sbagliato, ma è solo quel gesto, allora posso cambiare!». Questo ci permette sia di evitare l’uso negativo dell’effetto pigmalione, sia di attivare nel ragazzo un processo di trasformazione che sarà graduale, basato sulla fiducia e la stima reciproca.

Comunicandogli anche i nostri sentimenti o quelli del gruppo, gli permettiamo di entrare in un contatto profondo con i bisogni e le esigenze dell’altro: costruiamo un ponte empatico, per aiutarlo a uscire dalla sua egoistica ricerca di conferme che non lo fa rendere attento ai disagi provocati.

Per lavorare sulla dimensione del gruppo, aiutando il ragazzo a prendere coscienza dei fastidi che provoca – allenando la sua capacità di entrare in empatia con gli altri – si possono sperimentare le seguenti due attività.

1. Come ti sentiresti se…?

Obiettivo

Si tratta di un esercizio di decentramento, per stimolare il ragazzo a uscire dal suo punto di vista e immedesimarsi in colui che subisce un torto, così da far sperimentare i sentimenti negativi che alcuni atteggiamenti o comportamenti provocano.

Svolgimento

Ai singoli ragazzi vengono presentati degli episodi negativi che potrebbero verificarsi all’interno del gruppo (offese, atteggiamenti violenti, di distacco o emarginazione…). Si chiede di immedesimarsi con la persona che subisce il gesto e di esprimere quali sentimenti quella situazione provocherebbe in loro.

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2. Come ti accolgo

Obiettivo

Si tratta di un gioco che aiuta i ragazzi a sperimentare le conseguenze negative provocate da atteggiamenti svalutanti o di indifferenza, nell’ottica di accrescere l’empatia personale e di gruppo.

Svolgimento

Tre ragazzi vengono invitati a uscire dalla stanza. Meglio non scegliere tra questi i ragazzi più problematici. Prima di farli uscire si spiega a tutti l’attività: rientrando, vedranno i loro compagni camminare nella stanza come se ci si trovasse nella piazza di un paese, o nell’androne della scuola all’arrivo prima del suono della campanella; ognuno, per suo conto, dovrà avvicinarsi a chi vuole per salutarlo.

Una volta fatti uscire, gli altri vengono istruiti nel modo seguente:

uno dei tre (lo stesso per tutti), viene trattato in modo scortese, provocatorio (senza esagerare), irridendolo;

un altro viene trattato con la massima indifferenza, come se non ci fosse nella stanza, per cui non va mai guardato in faccia, salutato, considerato;

il terzo, invece, verrà da tutti accolto con un sorriso, un gesto di affetto.

Dopogioco

Al termine dell’attività si chiede ai ragazzi che erano usciti come si sono sentiti rispetto alle reazioni dei compagni e, successivamente, si allarga il dialogo con tutti per riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni.

RAGAZZI ISOLATI O DERISI DAL GRUPPO

Interventi non creativi - Fissità, routine, resistenze al cambiamento

Gli metto pressione Mi limito a parlare al ragazzo per chiedergli di farsi forza e di vincere le sue timidezze.

Lo spingo avanti Faccio in modo di renderlo più volte possibile protagonista, per metterlo in miglior luce agli occhi degli altri.

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Lo spingo a ribellarsi Gli suggerisco di rispondere in malo modo ai suoi compagni, cerco di farlo reagire.

Pongo il problema in modo inadeguato Faccio notare la cosa all’interno di un incontro con lui presente.

Accetto la situazione come irrisolvibile «È veramente uno sfigato!»

Cerco protezione e dipendenza Lo tengo vicino a me per valorizzarlo.

Minimizzo «Non è poi così grave! Tutti ci prendevamo in giro a quell’età per mostrarci forti».

Strategie educative per aggirare le fissità

Da strategie focalizzate sul singolo a interventi sul gruppo

I tentativi inadeguati di risolvere il problema elencati sopra sono tutti centrati sul ragazzo. Una strategia diversa e più efficace per affrontare la situazione è quella di spostare l’attenzione sul gruppo. Un approccio creativo ai problemi tenta di allargare il punto di osservazione di una situazione, per esaminare tutte le possibili alternative ed evitare così di reiterare dei processi limitati e ridotti come portata dell’effetto. Inoltre, come educatore, ci si troverà a relazionarsi non tanto con dei singoli ragazzi ma con un gruppo, e quest’ultimo influisce in modo determinante, soprattutto nella fase preadolescenziale, sui comportamenti individuali.

Occorre ricordare che il gruppo ha delle dinamiche sue proprie, indipendente dai singoli, fino a determinare il ruolo di alcuni dei suoi membri, come quello dello «sfigato» o colui che va deriso – creando intenzionalmente delle situazioni in cui prenderlo in giro – oppure il ruolo del «casinista», o colui che è sempre sopra le righe anche nell’accanirsi contro qualcuno.

E’ spesso il gruppo che definisce i ruoli

Il gruppo, come ci suggeriva il racconto, individua il suo capro espiatorio, la sua vittima sacrificale (perché più maldestro fisicamente, o più ingenuo di altri) e il suo o i suoi persecutori (spesso figure affettivamente fragili, non di per sé cattive, ma pronte a tutto per emergere e ottenere l’approvazione degli altri). Le modalità che il gruppo usa sono semplici: un sorriso complice, sguardi che vanno a istigare e sostenere chi deve intervenire in modo offensivo a nome di tutti, o dinamiche più sotterranee di conversazioni personali svalutanti o derisorie che vanno a rinforzare i ruoli assegnati. Tutto questo, che sembra tratteggiare un quadro crudo e pessimista della vita di gruppo, in realtà vuole solo ricordarci un principio: un gruppo non necessariamente è un luogo educativo, di crescita e maturazione umana, in quanto può rappresentare per qualche ragazzo anche la sua condanna, soprattutto nell’essere escluso in un momento della sua esistenza in cui l’accettazione sociale è determinante per maturare un’equilibrata

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autostima personale e una sicurezza affettiva.

L’importanza di agire intenzionalmente sul gruppo

Ogni luogo può essere educativo solo in presenza di un valido educatore! È quest’ultimo che, attivando intenzionalmente (dopo un’osservazione della realtà e una definizione degli obiettivi da raggiungere) dei processi educativi, renderà quest’aggregazione di ragazzi uno spazio di crescita personale e sociale, guidando le dinamiche interne e gestendo i possibili conflitti in chiave costruttiva e non distruttiva.

Porre l’attenzione sul gruppo non vuol dire, però, presentare la questione di fronte a tutti, mettendo a disagio il ragazzo denigrato e suscitando i sorrisini dei compagni. Si tratta di attivare nel gruppo un percorso di consapevolezza e crescita che aiuti i suoi componenti a riflettere su:

le conseguenze di comportamenti esclusivi o giudicanti nel gruppo; il riconoscimento di stati di disagio e sofferenza, lavorando sullo sviluppo delle capacità empatiche; il desiderio di accettazione da parte di un gruppo e, allo stesso tempo, il bisogno di autonomia e

differenziazione; il valore dell’ascolto e della valorizzazione reciproca.

L’educazione socio-affettiva dei ragazzi

Nei punti elencati sopra sono fortemente in gioco elementi di educazione socio-affettiva. Il tema delle emozioni, soprattutto nell’età della preadolescenza, è particolarmente delicato e importante. Educare alle emozioni implica:

la capacità di riconoscerle dentro e fuori di sé; la capacità di comprenderle e gestirle; la capacità di esprimerle in modo chiaro.

Non accettando l’idea che una persona sia in sé cattiva e cerchi il male dell’altro per affermare se stesso (homo homini lupus) – come attestano molte ricerche scientifiche, in particolare la Dichiarazione di Siviglia del 1989 - il manifestarsi di atteggiamenti violenti nel gruppo deve derivare da una bassa alfabetizzazione relazionale e affettiva dei singoli. Si tratta, cioè, di lavorare sulla loro intelligenza intrapersonale e interpersonale, come la oramai diffusa e accettata teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner ha illustrato.

Lo stesso bullismo, evocato dal racconto introduttivo, sembra essere determinato da un’incapacità dei soggetti di saper gestire e stare nelle relazioni: proprio per questo motivo il bullo se la prende contro chi può sicuramente «schiacciare» (inferiore sul piano fisico o psicologico), stimolato e rinforzato dall’assenso manifesto o silenzioso degli altri.

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Una strategia d’intervento: il circle time

Una strategia attuabile per aiutare il gruppo a intraprendere un proprio percorso di crescita relazionale e di autoconsapevolezza interna, è l’uso dello strumento del circle-time, o tempo del cerchio, usato nell’educazione socio-affettiva. Il circle-time si colloca all’interno di quella gamma di strumenti, propri dell’educazione psicoemotiva, che mirano alla creazione di un clima di gruppo favorevole, oltre all’apprendimento e allo sviluppo della creatività, alla collaborazione e all’assunzione di responsabilità da parte sia dei ragazzi sia degli educatori.

Per trasformare le dinamiche relazionali all’interno di un gruppo non bastano interventi sporadici e limitati nel tempo. È necessaria la costanza e la ritualizzazione di momenti appositi in cui i partecipanti possano allenare le loro abilità e competenze sociali. Per questo il circle-time rappresenta uno spazio-tempo ben definito, all’interno del quale i vari componenti del gruppo si riuniscono per focalizzare l’attenzione su un particolare argomento, o su un tema specifico proposto sia dai suoi membri che dal conduttore; un rito che si svolge con cadenza fissa, almeno una volta al mese. Finalità generale del circle-time è favorire la conoscenza reciproca e l’assimilazione di regole efficaci di comunicazione, nell’ottica di un’educazione all’ascolto e all’espressione di sé, basata su valori quali il rispetto e l’equità. Altri obiettivi a cui si tende con l’impiego di questo strumento sono:

la capacità di sapere discutere in una situazione di gruppo, accogliendo e rispettando le diverse opinioni e sentendosi liberi di esprimere le proprie idee;

rispettare i tempi e le modalità di esposizione di tutti, senza interrompere, rispettando il proprio turno;

una maggiore integrazione tra i gruppi e quei soggetti che sperimentano situazioni di isolamento, o che hanno difficoltà relazionali;

la capacità di risoluzione dei conflitti attraverso la comune ricerca di soluzioni. I temi proposti dall’educatore, su cui attivare la condivisione, potranno essere scelti di volta

in volta tra i seguenti: Come vivi il tuo essere nel gruppo? In quali momenti sei felice di essere parte di questo gruppo? In quali momenti ti senti triste o ferito nel gruppo? Quali pensieri ti sono passati per la mente

in quei momenti? Pensi che si possa migliorare il modo di stare ed essere in questo gruppo? E come?

Oggetto del circle-time possono essere anche episodi avvenuti nell’ultimo periodo della vita del gruppo. Oltre al tema scelto, è decisivo il modo in cui viene condotta questa esperienza, per renderla una vera e propria esperienza di racconto e ascolto reciproco:

curare lo spazio in cui si svolge l’attività, anche l’ordine in cui si dispongono in cerchio i ragazzi (meglio evitare la vicinanza di alcuni che sappiamo non riuscirebbero a non parlare o battibeccare tra loro);

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l’educatore ha il ruolo di guidare, sintetizzare, chiarire e chiedere chiarimenti nelle varie fasi del circle-time, evitando di assumere un ruolo di centralità e preminenza, di scadere in moralismi o paternali, di esprimere giudizi o schierarsi.

La struttura del circle-time

Trattandosi di un’attività formale e rituale, il circle-time ha una struttura interna da rispettare, che possiamo descrivere mediante le seguenti fasi:

disposizione in cerchio; saluto e accoglienza; richiamo alle regole; lancio del tema di confronto; conduzione del il confronto nel rispetto delle regole; restituzione; congedo.

Di seguito presentiamo un breve elenco di semplici regole da ricordare e da condividere a ogni incontro: parlare a voce bassa, rispettare il proprio turno, parlare da seduti; ascoltare in silenzio senza giudicare e interrompere l’altro.

Interventi mirati a valorizzare la persona

Lavorare sul gruppo non vuol dire non porre più l’attenzione sul singolo, il quale potrà essere sostenuto dall’educatore senza forzature, ma accrescendo gradualmente la sua autostima, creando situazioni didattiche appropriate, attraverso una valorizzazione del suo operato.

Lodare e valorizzare i successi di qualcuno non è una pratica scontata, ma richiede uguali attenzioni della strategia del rimprovero o richiamo verso un atteggiamento negativo. Qui, infatti, parliamo di una intenzionalità ben precisa dell’educatore nel ricercare i successi del ragazzo e nel saperli valorizzare per accrescere la sua fiducia e sicurezza interiore. Ecco alcuni suggerimenti di metodo:

osservare il ragazzo mostrando la propria attenzione su di lui nel riconoscere il valore dei suoi successi;

comunicargli cosa è piaciuto e si giudica positivamente, non basta dire un generico: «Bravo!»;

mostrarsi entusiasta attraverso gli atteggiamenti,il tono della voce, accompagnando le osservazioni con un sorriso.

Ristrutturare il problema in chiave creativa

La focalizzazione Indicare, insieme ai ragazzi, tutti quegli atteggiamenti, frasi, gesti, che possono ferire o escludere qualcuno nella vita di gruppo.

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Ognuno di loro, in forma anonima su un foglietto, indicherà quattro-cinque degli atteggiamenti emersi nella prima fase, che ritengono siano realmente usati o presenti nel proprio gruppo nei confronti di qualcuno.

Individuati i termini più presenti nelle indicazioni dei ragazzi, si dividono in sottogruppi e a ognuno verrà chiesto di focalizzare la propria attenzione su uno solo di quei comportamenti: indicare quanto e come si manifesta, quali conseguenze emotive e reazioni produce su chi lo subisce, spiegare perché viene usato e come evitarlo.

La sfida Proponiamo ai ragazzi di scrivere su un foglio la frase o l’atteggiamento che pronunciato, o esercitato dagli altri nei loro confronti, li fa più soffrire.

Le frasi vengono raccolte e mischiate, in modo che nella ridistribuzione non tornino ai proprietari.

Ogni ragazzo verrà sfidato da questa frase e dovrà provare a: comprendere perché possa ferire così tanto un’altra persona; cercare di capire chi possa averla scritta.

In cerchio, ognuno potrà presentare agli altri le proprie osservazioni e verificare l’esattezza della sua presupposizione sul titolare della frase.

Infine, si rifletterà sulla sofferenza che alcune frasi o atteggiamenti possono provocare sugli altri.

Le alternative La possibilità di individuare delle alternative praticabili sta nella capacità di esaminare a fondo la situazione che si è verificata nel gruppo, indicandone tutti gli elementi, le dinamiche, le persone che la determinano. A questo punto, compito dell’educatore sarà identificare, nella mappatura prodotta del caso, tutti quei fattori che considera sensibili e su cui si può agire ottenendo qualche risultato.

Ad es.: nel gruppo dei molestatori vi è un ragazzo che riteniamo particolarmente sensibile e valutiamo allora efficace un dialogo personale; oppure la presenza di un ragazzo fortemente carismatico sugli altri, così da decidere di operare attraverso di lui un cambiamento dei comportamenti del resto del gruppo, una volta che si è reso consapevole della delicatezza della situazione…

Magari l’analisi ci porta a evidenziare degli elementi del ragazzo-vittima su cui intervenire, perché si prestano facilmente all’attacco degli altri.

Ad es.: poca cura della persona, carattere impulsivo e violento, atteggiamenti che lo portano a chiudersi in sé e isolarsi dagli altri…

In questo caso possiamo valutare l’opportunità di allargare il campo di azione chiedendoci qual è il contesto di vita in cui il ragazzo è inserito e trovare il modo opportuno (possibilmente attraverso il sostegno di altre figure del territorio), per intervenire su questi fattori (famiglia, amicizie, quartiere…).

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La provocazione Usiamo l’affermazione provocatoria: «Siamo tutti sfigati!». Chiediamo a ogni ragazzo di indicare almeno cinque motivi perché questa frase potrebbe essere riferita a lui.

Quest’attività è da presentare con una giusta dose di ironia, e magari ponendo come esempio le cinque motivazione nel poter usare la frase su di sé.

L’obiettivo è di far percepire a tutti che nessuno è uno «sfigato» e tutti allo stesso tempo possono esserlo o diventarlo se l’attenzione è posta solo sui nostri punti deboli, e non sa guardare oltre. Si potrebbe anche chiedere, durante una fase di circle-time, come ci si sentirebbe se si venisse etichettati in questo modo, presi in giro rispetto a una delle motivazioni indicate.

L’associazione forzata

Mostrare su un tavolo una serie di oggetti, ad es.: una matita spuntata, un quaderno, un cellulare, un mazzo di chiavi…

Chiedere ai ragazzi di associare a questi oggetti di uso comune la condizione di ragazzo che viene preso in giro dal resto del gruppo («Un ragazzo deriso è come un… perché…»).

Il tentativo è quello di usare delle categorie concettuali nuove per aiutare i ragazzi a riflettere su di una situazione che forse stanno sottovalutando, o che, con le loro espressioni linguistiche, non riconoscono nella sua gravità.

L’aggiramento Cerchiamo di far vivere ai ragazzi un’esperienza di decentramento emotivo e cognitivo, per accrescere la loro capacità di entrare in empatia con gli altri.

Si consegna ai ragazzi un fatto di cronaca dove, in un gruppo di giovani (meglio se il contesto è diverso da quello in cui ci si trova, ad es.: se siamo a scuola potrebbe riferirsi ai ragazzi di una squadra di calcio), uno di loro viene ripetutamente deriso e preso in giro dai compagni. Il resoconto deve essere di taglio descrittivo, senza esprimere giudizi di valore o commenti.

I ragazzi, individualmente o in piccoli gruppi (di due-tre persone), dovranno riscrivere la vicenda raccontata in prima persona dalla vittima e poi da chi agiva su di lei.

La rilettura delle versioni sarà oggetto di riflessione e dibattito per richiamare le dinamiche presenti anche nel nostro gruppo.

Indicazioni di metodo

Una descrizione più puntuale del metodo del circle-time e di attività e dinamiche da poter usare all’interno di percorsi socio-affettivi, si può trovare nel nostro testo 1+1=3 La matematica dell’amore.

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Educare ed educarsi alle relazioni positive, edito da Paoline nel 2012, all’interno di questa collana. Qui di seguito proponiamo alcune attività per stimolare la riflessione su questo tema e il confronto nella fase di circle-time.

1. Lo stregone

Obiettivo

Si tratta di un gioco per mettere in evidenza le dinamiche di esclusione e allontanamento di un ragazzo dal gruppo, in modo da riflettere se esse siano o meno presenti nella propria realtà educativa.

Svolgimento

I ragazzi sono seduti in cerchio e si consegna a uno di essi un oggetto simbolico (uno strano copricapo, o una specie di scettro), per identificare chi nel gruppo ha il ruolo dello «stregone». Lo stregone decide liberamente quando alzarsi e rimettersi poi seduto su una qualsiasi delle sedie presenti. Quando lo stregone si alza, tutti si devono alzare e quando si risiede tutti devono fare altrettanto, ma guai a chi si ritrova immediatamente alla sua destra e alla sua sinistra: questi verranno eliminati. Il gioco prosegue, finché resteranno in gioco poche persone e diventerà impossibile proseguirlo.

Dopogioco

Terminato il gioco, si chiederà di riflettere sulle dinamiche che si sono attivate mentre lo stregone si muoveva nello spazio di gioco: tutti stavano da lui rigorosamente alla larga, formando dei gruppi che lo additavano e lo osservavano a distanza. Comprendere anche il perché, secondo loro, la vicinanza dallo stregone eliminava i giocatori. Spostare la riflessione sul proprio gruppo e chiedersi se tali dinamiche sono altrettanto visibili e presenti.

2. Dentro il cerchio

Obiettivo

È un gioco per riflettere sulle difficoltà di accettazione e accoglienza che un ragazzo può sperimentare all’interno di un gruppo.

Svolgimento

Disporre i ragazzi in piedi e in cerchio. Far uscire dal cerchio due-tre persone, mentre tutti gli altri si avvicineranno il più possibile tra loro fino a toccarsi reciprocamente con gambe e braccia (che si devono tenere lungo i fianchi). Al VIA, chi è all’esterno deve cercare di forzare il cerchio per entrarvi, senza usare gesti violenti.

Dopogioco

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Al termine del gioco si riflette sulla difficoltà, per alcuni membri di un gruppo, di venire accettati e accolti come nel gioco, in quanto trovano il resto delle persone compatte e chiuse nei loro confronti.

3. L’insieme di gruppo

Obiettivo

Consentire a ogni ragazzo di comunicare agli altri quanto si senta o meno accolto; ottenere un’immagine d’insieme degli stati d’animo presenti all’interno del gruppo e del livello di integrazione.

Svolgimento

I ragazzi si dispongono in cerchio intorno a un cartellone e si consegna a ciascuno un pennarello. Sul cartellone si traccia un ampio cerchio che rappresenta il gruppo, all’interno del quale collocarsi. Vengono date le seguenti istruzioni:

- scegliere dove disegnarsi sul foglio: più si è all’interno del cerchio più si comunica il proprio senso di appartenenza e di adesione al gruppo, più si è ai margini, o addirittura all’esterno, più si vuole rappresentare il proprio senso di marginalità o esclusione dall’insieme;

- scegliere come disegnarsi: rappresentarsi sul foglio attraverso un simbolo che esprima il nostro modo di sentirci nel gruppo, quanto ci sentiamo accolti, considerati, valorizzati, le sensazioni che proviamo nel parteciparvi.

A un segnale dell’educatore tutti possono liberamente andarsi a disegnare sul cartellone. Si otterrà così un’immagine che rappresenta il grado di integrazione presente nel gruppo e gli stati d’animo dei suoi membri.

Dopogioco

Nel circle-time ogni ragazzo potrà spiegare la sua scelta, oltre a esprimersi, sull’immagine complessiva di gruppo così ottenuta, rispetto a quelle che erano le sue aspettative iniziali.

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA

F. Carletti, G. Carpi, D. Castellari, SOS Creatività- soluzioni educative per casi impegnativi, Paoline, 2013.

Adani, Carletti, Gori, Lusuardi, I Laboratori della Fede, Paoline 2014

F. Carletti, D. Simonelli, 1+1=3 La matematica dell’amore, Paoline

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