DIARIO INDIANO - Il Cielo in Terra 12 anni con Babaji

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GORA DEVI Diario Indiano BABAJI Il Cielo in Terra 12 anni con Babaji di Hairakhan J. AMBA ED.

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di Gora Devi Valeria Bonazzola. Diario straordinario della prima discepola italiana di Babaji. Dal 1972 ha vissuto 12 anni con il leggendario Babaji di cui parla Yogananda a Hairakhan, dove vive tutt’ora praticandone gli insegnamenti. Per la prima volta racconta al vasto pubblico le sue esperienze, muovendo il cuore di tantissime persone.

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Gora Devi

Diario Indiano

BABAJIIl Cielo in Terra

12 anni con Babaji di Hairakhan

J. AMBA ED.

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Gora Devi

Diario IndianoBABAJI

Il Cielo in Terra

12 anni con Babaji di Hairakhan

J. AMBA ED.

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Introduzioneda “Teachings of Babaji”, Hairakhandi Samaj, India

Nelle colline del Kumaon ai piedi dell’Himalaya in India, luogo di nascita o dimora di molti grandi santi del passato e del presente, lì ha vissuto Shri Hairakhan Wale Baba. A coloro che chiedevano chi fosse, Hairakhan Baba a volte rispondeva di essere Shiva Mahavatar Babaji, noto a centinaia di migliaia di persone nel mondo attraverso l’Autobiografia di uno Yogi di Paramahansa Yogananda.

Un Mahavatar è una manifestazione umana di Dio, non nato da donna.

Shri Babaji (Shri è un titolo di rispetto; Baba è un termine usato per un rinunciante, o un santo o un santo Padre) è ap-parso nel Giugno 1970 in una grotta sacra da migliaia di anni, ai piedi del Monte Kailash nel Kumaon, sulle rive del fiume Gotama Ganga di fronte ad un remoto villaggio chiamato Hai-rakhan, nel Distretto di Nainital dello Stato dell’Uttar Pradesh. Non aveva genitori o famiglia noti, Egli apparve come un gio-vane di diciotto anni circa, eppure mostrò grande saggezza e poteri divini fin dall’inizio. Ad alcuni abitanti del villaggio di Hairakhan si manifestò come un uomo vecchio con una lunga barba bianca; ad altri come un giovane; ad altri come un bel ragazzo. Due uomini Gli hanno parlato contemporaneamente, uno ha visto un uomo vecchio con la barba, l’altro ha visto un giovane senza barba. Egli veniva visto in posti diversi nello stesso tempo. Conosceva le Scritture e poteva citarle sia in San-scrito che in Hindi, eppure non c’è nessuna prova che abbia ricevuto un’istruzione. Babaji restò in digiuno pressoché com-pleto per mesi, in totale due o tre anni, eppure la Sua energia era senza limiti.

Verso la fine del Settembre 1970, camminò fino alla cima del Monte Kailash con pochi devoti. Seduto in posizione yoga nel piccolo, vecchio tempio che è lì, stette per quarantacinque

Diario Indiano

BaBajiIl Cielo in Terra

di Gora Devi (Valeria Bonazzola)

Foto di Lisetta Carmi e A.A.V.V.Correzione di Bozze, Grafica e Computergrafica a cura di:

Kalavati Maria Cristina Chiulli

1a Edizione ottobre 1993

Edizione Digitale e-bookISBN 978-88-86340-52-6

© Copyright 2010J. amBa Edizioni

Strada Battaglini A 2 - 74015 Martina Franca TAtel. (+39) 333 4681236

www.j-amba.comemail:[email protected]

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giorni senza lasciare la Sua postura, meditando per la maggior parte del tempo, qualche volta parlando, preparando e bene-dicendo frutta e verdura da dare agli altri, e cominciando ad insegnare il messaggio che ha portato al mondo.

Centinaia di persone vennero in Ottobre per celebrare la festa religiosa di nove giorni del Novaratri con Lui sulla cima del Monte Kailash.

La Sua venuta è stata predetta sia nelle antiche scritture che nelle parole e nelle profezie di un santo Indiano del XXo secolo: Mahendra Baba, o Mahendra Maharaj.

Da bambino, Mahendra Baba fu curato da una visione di Babaji e della Madre Divina; poi, nel giorno di uno dei suoi successivi compleanni, egli vide di nuovo Babaji, che gli re-galò dei dolci. Da ragazzo, appena finite le scuole superiori, Mahendra Baba incontrò Babaji, in una delle Sue precedenti forme umane; Babaji gli insegnò la conoscenza yogica per sei giorni e sei notti. Quando Babaji lo lasciò, Mahendra Baba non sapeva Chi fosse, né dove ritrovarlo. Dopo aver preso la laurea in filosofia, Mahendra Baba rinunciò al mondo, e andò in cerca di questo Guru, camminando a piedi attraverso l’Himalaya in India, Nepal, Tibet e Cina. In seguito passò degli anni nei tem-pli degli Stati Indiani del Gujarat e dell’Uttar Pradesh, e si creò la reputazione di santo. Solo dopo venti anni o più di ricerca e di attesa egli fu guidato ancora verso le colline del Kumaon, dove Babaji gli apparve di nuovo, in una stanza chiusa in un remoto ashram in montagna.

Dopo questa apparizione di Babaji nel Suo corpo fisico, Mahendra Baba, secondo le istruzioni di Babaji stesso, comin-ciò la missione di preparare il ritorno nel mondo di Babaji in forma umana. Per molti anni egli girò per l’India predicando che Babaji sarebbe tornato per trasformare il mondo cambian-do i cuori e le menti degli uomini. Egli descrisse l’aspetto di Babaji, comprese le ferite sulla gamba destra e sul braccio sini-stro; egli disse che Babaji sarebbe venuto nel 1970. Mahendra Baba restaurò vecchi ashram e templi, ne costruì di nuovi, e

Shri Babaji è apparso nel Giugno 1970 in una grotta sacra damigliaia di anni, ai piedi del Monte Kailash nel Kumaon...

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compose il canto di adorazione ora usato dai devoti di Shri Babaji.

Shri Vishnu Datt Shastriji, famoso studioso di Alwar (Raja-sthan), discepolo di Mahendra Maharaj, con la sua benedizio-ne acquistò un oceano di conoscenza. Egli scrisse un libro su Babaji intitolato “Sada Shiva Charitamrit”, che fu ispirato dalla Madre Divina. In questo libro Shastriji descrisse l’ashram di Hairakhan senza averlo mai visto; dieci anni dopo, quando vi si recò, fu sorpreso nel vedere che ogni cosa era perfettamente reale. Shastriji scrisse anche molti altri libri, e alcuni studenti hanno redatto la tesi di laurea studiando i suoi testi. Shastriji era l’officiante di tutti gli yagya (antiche cerimonie vediche di offerta al fuoco sacro) e delle funzioni sacre che Babaji com-piva. Egli era il Saggio: quando Babaji teneva dei discorsi, lui era la Sua voce. Ha seguito Babaji come un’ombra durante gli anni della Sua manifestazione fisica: come lui stesso si definì, è “l’eterno bambino di Babaji”.

Mahendra Maharaj diceva ai suoi seguaci che Shri Babaji è stato una manifestazione di Dio fin dai primi tempi in cui l’uomo imparò la religione. Babaji ha insegnato a guru ed altri maestri religiosi nella storia, sempre cercando di portare l’uo-mo verso Dio e verso valori spirituali. Attraverso le epoche Egli è apparso per insegnare, manifestandosi in un corpo già esistente in ogni Sua apparizione, piuttosto che venire al mon-do attraverso una nascita umana. Yogananda scrisse della sua esperienza e di quella di altre persone con questo Babaji im-mortale nel diciannovesimo e nei primi del ventesimo secolo.

Ci sono libri scritti in Hindi sulle precedenti manifestazioni di Hairakhan Baba, che rimase in India dal 1800 circa al 1922. Intorno all’anno 1800 Egli apparve agli abitanti dei villaggi vicino a Hairakhan uscendo da una sfera di luce, e nel 1922, davanti ad un gruppetto di seguaci, scomparve in una sfera di luce. Ci sono molti miracoli registrati, come curare la gente, re-stituire morti alla vita, nutrire moltitudini con piccole quantità di cibo, cambiare la Sua forma, essere in due o più posti

Il “Vecchio Hairakhan Baba”, 1800 - 1922

contemporaneamente, nutrire il fuoco sacro con acqua quando il ghee (burro chiarificato) non era disponibile. Ma soprattutto, la gente era attratta da Lui perché Lo sperimentava come un Essere divino, saggio, pieno d’amore, molto al di sopra del li-vello umano. Vennero a Lui abitanti dei villaggi di montagna (istruiti o analfabeti), Occidentali, burocrati e soldati Inglesi, l’intellighentia Indiana, ricchi e poveri, gente di tutte le religio-ni. Ci sono ancora persone a Hairakhan e dovunque in India che ricordano il “Vecchio Hairakhan Baba” e che hanno speri-mentato questa attuale manifestazione come lo stesso Essere. Ci sono prove di manifestazioni ancora precedenti.

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Dei monaci Tibetani, venuti da Shri Babaji nel 1972, Lo ri-conobbero come “Lama Baba” che aveva vissuto in Tibet circa 500 anni prima. Ci sono racconti della Sua apparizione in Ne-pal, come pure in India e in Tibet. In due o tre occasioni, Babaji disse che Lui era stato uno degli insegnanti di Gesù Cristo.

La maggior parte dei seguaci di Shri Babaji Lo sperimenta e Lo adora come una manifestazione di Dio vera e senza età. I grandi e piccoli miracoli che compie quotidianamente nelle vite dei Suoi seguaci, il Suo leggere e rispondere ai loro pensie-ri prima che vengano espressi, le Sue cure, la Sua guida, i Suoi insegnamenti, sono ad un livello che va oltre perfino la più avanzata abilità umana. I miracoli esteriori e drammatici sono rari: la maggior parte dei Suoi miracoli avviene nelle menti, nei cuori e nelle vite dei Suoi devoti - miracoli di comprensione, guida, insegnamento e sostegno quando, come e dove fosse necessario.

Shri Babaji ha detto che l’umanità è in grave pericolo du-rante il periodo del Kali Yuga - l’Era del materialismo e del declino della vita spirituale. Egli ha predetto distruzioni diffu-se, cambiamenti e morte in questo decennio. Egli ha detto che coloro che veramente adorano Dio (in qualsiasi modo l’uomo Lo conosca), ripetono il Suo Nome e vivono in armonia con l’Universo saranno salvi, e che si formerà una nuova società umanitaria di persone che saranno focalizzate su Dio.

Per focalizzare le menti su Dio, Babaji ha insegnato alla gente a ripetere l’antico mantra OM NAMAH SHIVAY. È un mantra (parola o frase di grande potere spirituale) Sanscrito completo, fortissimo, che ha diversi significati, tra cui “Io pren-do rifugio in Dio, Io mi arrendo a Dio”. La ripetizione di OM NAMAH SHIVAY è una via verso l’unità con il Dio Supremo (il Nome di Dio usato in questo mantra è il Signore Shiva, una concezione Hindu dell’unico Dio Supremo. Questo mantra è stato usato per millenni ed insegnato da santi e guru in India e in Occidente). La costante ripetizione di un mantra (o japa) focalizza la mente su Dio, apre la mente e il cuore a Dio, e fer-

ma o riduce la tendenza innata della mente a pianificare, pre-occuparsi costantemente, sognare ad occhi aperti o altrimenti perdere energia in attività realmente inutili.

Lo scopo principale della venuta di Shri Babaji in una ma-nifestazione umana in questo momento è quello di riformare i cuori e le menti degli uomini. Egli è venuto per rimuovere la confusione ed il male dall’umanità.

Babaji una volta disse: “La mente può essere purificata solo dalla japa. Questa è l’unica medicina per le malattie della mente. Se la mente e il cuore sono impuri, come può Dio abitare nel vostro cuo-re? L’acqua per pulire il vostro cuore è il Nome di Dio. Perciò inse-gnate a tutti a ripetere il Nome di Dio dovunque”.

La mente che generalmente è focalizzata sul Nome di Dio, quando sorge la necessità risponde spontaneamente nell’a-dempiere le sue funzioni velocemente, facilmente e bene. Ba-baji ha enfatizzato OM NAMAH SHIVAY, ma in alcune occa-sioni ha dato anche altri mantra: l’essenza delle Sue istruzioni è: “Ripetete il Nome di Dio”. Shri Babaji disse che quando la grande distruzione arriverà nel mondo, quelli che sinceramen-te credono ed adorano Dio e specialmente coloro che ripetono il Suo Nome, saranno salvati dal potere del mantra. “I Nomi di Dio sono più potenti di mille bombe atomiche e all’idrogeno.”.

Sebbene Babaji vivesse in una cultura Hindu e fosse ado-rato quotidianamente con rituali Hindu, Egli non era attaccato ad alcuna religione particolare. Egli affermava che tutte le re-ligioni possono portare il sincero devoto a Dio. A Hairakhan, Shri Babaji è adorato da Hindu, Cristiani, Buddisti, Ebrei, Sikhs, Musulmani - perfino atei si sono ritrovati ad inchinarsi a Lui. Egli spesso ricordava ai Suoi seguaci che tutta l’umanità è una famiglia - la Famiglia di Dio. A quelli che chiedevano della religione, Egli rispondeva: “Seguite la religione che avete nel cuore.”. Comunque Egli disse molte volte che era venuto a ristabilire i principi del Sanatan Dharma, la Religione Eterna, che è senza età e in cui tutte le religioni affondano le loro radici. Anche prima della Sua riapparizione nel 1970, Babaji insegnò a

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Mahendra Maharaj a predicare che tutti i devoti di Dio dovreb-bero vivere una vita basata sui principi di Verità, Semplicità, e Amore. Questa, Egli disse, è l’essenza di tutte le religioni. È molto difficile nutrire odio, rancore, rabbia, lussuria, gelosia ed egoismo e la violenza che tutto questo genera quando una persona cerca davvero di vivere in verità, semplicità, e amore con tutti.

A quelli che andavano ad incontrarlo Egli diceva e ripeteva che il Karma Yoga - il lavoro disinteressato - dedicato a Dio è il migliore, il più semplice, il più remunerativo e rapido modo di arrivare a Dio in questa caotica, confusa era di cambiamento. Nel Suo ashram a Hairakhan il lavoro al mattino e al pome-riggio è una parte vitale del programma della giornata. C’è il tempo della meditazione la mattina presto, dopo il bagno al fiume, ma Babaji insisteva sull’importanza di parecchie ore di karma yoga ogni giorno, e in queste ore bisogna lavorare con la costante ripetizione del mantra.

“Seguire e dimostrare la via di Verità, Semplicità e Amore è il supremo dovere dell’uomo e lo Yoga più alto. Il lavoro diligente è una qualità di questa Via, perché la pigrizia è la morte sulla terra. Solo con il lavoro l’uomo può cantare vittoria sul karma (la legge univer-sale di causa ed effetto). Tutti devono sforzarsi di compiere il proprio dovere nel miglior modo possibile e di non evitarlo. Il servizio all’u-manità è il primo dovere. Durante questo periodo, la disumanità e la pigrizia sono aumentate, così è importante che lavoriate sodo e che non vi perdiate d’animo. Siate coraggiosi, siate industriosi: lavorate duro ed abbiate coraggio.” (Babaji).

Sebbene Babaji abbia chiamato a Sé molti Occidentali con sogni, visioni o semplicemente tramite racconti di amici su di Lui, Egli non ha mai cercato di stabilire un grande seguito personale. Il Suo piccolo ashram, su per la riva ventosa di un fiume quattro miglia lontano dalla fine della più vicina stra-da di campagna, non avrebbe potuto accogliere le migliaia di persone che sono arrivate da altri santi o guru. Ma, sebbene Egli non avesse dato una chiamata generale perché la gente

andasse a vederlo, Egli ha voluto che tutto il mondo ascoltasse il Suo messaggio. Shri Babaji non ha mai richiesto che la gente Lo vedesse o Lo adorasse come una manifestazione di Dio per andare da Lui ed esserne beneficiata.

Egli stesso ha detto della Sua forma umana: “Questo corpo non è niente, esso è qui solo per servire la gente”.

Shri Babaji ha lasciato il Suo corpo mortale il giorno di San Valentino - il 14 Febbraio 1984. Nei primi tempi della Sua mis-sione Egli aveva detto a due o tre devoti che avrebbe lasciato il corpo nel 1984. Prima di venire, Egli disse a Mahendra Ma-haraj che sarebbe venuto per dare un messaggio all’umanità. È venuto, ha vissuto il Suo messaggio, ha predicato il Suo mes-saggio; il Suo messaggio è stato pubblicato, e, avendo comple-tato la Sua missione, Se n’è andato.

Ora Shri Babaji continua la Sua opera non solo dal mondo invisibile attraverso il cuore e la mente degli uomini, ma anche sul piano fisico attraverso la Presenza e l’infinito amore di Shri Muniraji Maharaj, che Egli stesso ha indicato quale guida spi-rituale e punto di riferimento soprattutto per gli Occidentali quando era ancora nella Sua manifestazione fisica, insegnando a venerarlo come un’Incarnazione divina.

Una volta, commentando il fatto che Shri Muniraji era stato invitato a partecipare ad una conferenza spirituale in Austria alla quale avrebbe partecipato anche il Dalai Lama, Shri Babaji disse: “Muniraji può partecipare. Il Dalai Lama non è più grande di Muniraji. Muniraji è l’incarnazione di Guru Dattatreya*. Egli è uno Yogi e spiritualmente è molto, molto alto. Diffondete ovunque questo messaggio tra la gente. Presto si terrà un meeting mondiale qui. La data non è stata ancora fissata, ma verrà presto.”. (Hairakhan, 19 Luglio 1983)

* DATTATREYA - ‘Il dono di Dio ad Atri’, Incarnazione molto antica di Brahma, Vishnu e Shiva nello stesso corpo. Grande Guru ed autore di sacre scritture, i Suoi insegnamenti sono raccolti nell’Avadhuta Gita ed inclusi nello Srimad Bhagavatam.

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Nota dell’Editore

Babaji mi ha vinto attraverso i mille racconti meravigliosi di chi ha avuto la gioia di viverlo. Per questo voglio offrire con questa collana “Storie di un Amore Infinito” le tante storie di Amore Divino con le quali ci ha presi tutti. I Suoi giochi sottili, i Suoi film sublimi.

Inizio con la storia di Gora: la prima.Nel settembre dell’84 Pia portò da me a cena un’amica che

veniva dall’India. Una che era stata con Babaji per 12 anni! Mi fece capire che era un grande onore. Arrivò in punta di piedi, silenziosa, pallida, fragilissima all’apparenza, ma carica di una vibrazione preziosa. Restammo quasi sempre in silenzio a go-derci uno scambio intimo di onde d’amore.

Avevo da poco conosciuto Muniraji e il carrozzone stram-palato dei devoti di Baba che lo seguiva e ne ero ammaliato. Babaji aveva lasciato il corpo da pochi mesi senza chiamarmi, ma ora Muniraji lo aveva fatto alla grande.

Gora m’invitò a far con lei il mio primo viaggio a Hai-rakhan: un onore. Quindici giorni dopo eravamo insieme sull’aereo per Delhi. E con lei, grazie a lei, è cominciata l’av-ventura spirituale indiana. Mi portò in Rajasthan da Shastriji che mi accolse come un figlio. Poi con lui e Tukaram, il suo chela, partimmo per Haldwani su un treno lento e polveroso. Fu un lungo viaggio iniziatico che solo ora riesco a compren-dere. Arrivammo a Chiliyanaula per Novaratri e lì cominciò il mio film.

Da allora con alti e bassi l’amicizia non è mai finita. Spesso le chiedevo di scrivere un libro e lei, sempre con quella sua faccia da schiaffi, mi rispondeva: “Quando Baba lo vorrà...”. e se ne andava con un mezzo sorriso strozzato. Ora è il tempo: Baba lo ha voluto! Ed ecco il suo libro nasce spontaneo, fati-coso, lento ma costante. Due, tre, cartelle al giorno. Un anno di lavoro frammentato da interruzioni, viaggi, ripensamenti,

lotte e infine, ai primi di settembre del ‘93, ecco, ce lo consegna, inatteso, insperato... A noi? Perché a noi? Vuole così. Ieri, dopo un lungo periodo di computerizzazione, finalmente ho finito di leggerlo. Non capisco ancora se mi è piaciuto o no.

Credo che sia la più bella storia d’amore che abbia mai sen-tito, che esce dal pudore ermetico di un’anima che per la prima volta, a fatica, si apre. Forse avrei voluto qualcosa di più condi-to, speziato, come certi cibi indiani. Facile da vendere. E invece è uscito un piatto in bianco. Casto, pulito, scarno, essenziale come è lei. Scritto con un italiano infantile che viene da una mente ormai indiana. L’Hindi è semplice come il parlare di un bambino: lei lo ha assorbito e ce lo passa. Ci passa la Sua sem-plicità. Semplicità che come un fiume parte piccolo e s’ingrossa di una passione che alla fine raggiunge l’apoteosi. Sempre col suo stile freddo e compassato da lady inglese, come la chiamo io per prenderla in giro, che ti suggerisce più che dirti, che ti fa nascere dentro, più che darti, che ti prende e ti purifica in silenzio, come l’acqua della Ganga.

Perciò penso che questo libro sia J. Amba, in altre parole qualcosa che lavora e ti trasforma. Perché viene diretto da Ba-baji: questo libro è alchemico, è tantrico e funziona a scoppio ritardato come una medicina un po’ sciapa, amara ma efficace.

Chi trionfa è l’Amore: oltre vita e morte. L’Amore del Divi-no Maestro per tutti noi, e per lei che ha tenuto con Sé dodici anni e l’Amore spigoloso, contorto e scontroso di lei che poco a poco si dipana dal suo cuore chiuso, ancora e sempre bambino, e arranca alla Sua Luce per sciogliersi conquistato, ammaliato, vinto dalla Grazia di ogni grazia: il Suo Amore ininterrotto, presente, vicino, costante, difficile e immediato. Grazie Gora.

Gian Paolo Barberis

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Prefazione dell’Autrice

Ho esitato molto prima di decidermi a scrivere questo li-bro, perché è molto difficile comunicare qualche cosa di Babaji attraverso le parole.

La Sua Essenza è sottile, occulta, e si lascia cogliere solo aprendosi ad un’altra dimensione della realtà, alla magia del cuore.

Il Suo insegnamento si esprimeva spesso attraverso un ge-sto, un sorriso, una situazione apparentemente insignificanti.

La cosa che più mi ha colpito, quando L’ho incontrato, è stato il Suo grande silenzio ed il Suo potere di manifestarsi at-traverso questo silenzio.

Babaji è “la Presenza”, l’esistenza di ciò che facciamo così fatica a percepire, a cogliere: il mistero di un’altra sponda della coscienza. Il Suo incredibile Amore è ciò che ha fatto da ponte fra noi e la verità, fra l’umano e il Divino; la Sua forma fisica è stata il matrimonio fra il Cielo e la Terra.

Molti di noi sono stati toccati per sempre dal Suo richiamo e la nostra vita non ha mai più potuto essere la stessa.

La prima parola che Egli ha detto quando L’ho incontrato è stata: “Dio”, una sillaba che ha tracciato con un sasso sul terre-no. Poco dopo ha aggiunto: “Dio è Amore.”

Da allora tutta la mia ricerca si è svolta per realizzare il significato di queste due semplici parole.

Questo diario vuole semplicemente essere la testimonian-za di un’esperienza vissuta in prima persona, se questo può servire a recepire qualche cosa del Suo messaggio.

Gora Devi

Diario Indiano

BabajiIl Cielo in Terra

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Viaggio in India

Milano, 5 marzo 1972.Oggi parto per l’India e sono veramente spaventata.

Ho preso la decisione all’improvviso, quando ho saputo che Piero e Claudio partono e che anche Gianni vuole andarci per comprare delle stoffe.

Qualche sera fa eravamo nella mia stanza, alla comune: Angelo, Tiziana, Serena, Gianni, Zizi e Marco. La musica, il grande letto e la tenda gialla nel mezzo. Angelo ha cominciato a fare le sue prime avances erotiche. Improvvisamente mi è parso di assistere ad un vecchio spettacolo teatrale, ripetuto troppe volte, come un vicolo chiuso, come uno dei soliti angoli bui di Brera alla sera, alla fine ci si logora ed annoia. Non c’è verità e non c’è vero amore; il tentativo di trovare affetto attra-verso il ripetuto contatto fisico con buona parte degli amici è patetico e spossante. Anche gli interminabili spinelli non por-tano la mia mente da nessuna parte, la affumicano e basta. Non ho pace; vorrei un posto dove essere sola e imparare a fermar-mi, a guardare me stessa. Anche il lavoro che sto facendo con i bambini non può funzionare in questa situazione, sono troppo confusa, irrequieta, non matura per un lavoro del genere.

C’è una luce speciale negli occhi di Piero e sento che devo seguirlo. L’altro giorno Piero e Claudio mi hanno fatto vedere una foto del Nepal e dei loro maestri tibetani. Immagini di una dimensione magica e misteriosa, antica, “già vista”. E così l’al-tra sera sono uscita di casa a dormire con Gianni in una soffitta, per avere uno stacco e decidere. Come due bambini innocenti, abbiamo come sempre dormito abbracciati e la mattina dopo sono andata a comprare il biglietto, l’ultimo posto rimasto. Sta-sera prendiamo il treno per Londra e da lì poi avremo il volo per l’India, aiuto! Chissà cosa mi succederà, c’è chi pensa io sia impazzita. Lascio il lavoro a metà anno, la mia storia con An-gelo, la comune e tutti gli amici. Ho pochissimi soldi e niente biglietto di ritorno. Ma sento che devo partire così, spoglian-domi di tutto, senza bagaglio. Ho giusto la mia grande borsa di paglia ed il vestito afgano che Gianni mi ha regalato.

“A piedi nudi in India”, è il titolo del libro che Gian Paolo mi ha regalato. Sento che devo buttarmi in quest’avventura, a

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qualsiasi costo, sento che devo avere il coraggio di mettermi “sulla strada”, anche se sono terrorizzata.

Sento che sull’altra sponda del fiume da attraversare c’è la risposta al senso della vita. E perché vivere altrimenti? Senza verità, nulla ha più senso.

Mi sento chiamata da una voce profonda e da una grande magia. Il viaggio è già cominciato da alcuni mesi, dalla prima esperienza con l’ L.S.D. a Formentera. O forse in modo ancora più sottile dal viaggio dell’anno scorso con Giuliano in Maroc-co, seduti sulla spiaggia ad infilare perline ed ad osservare i gabbiani sul mare. Il loro volo mi ha ricordato una libertà di-menticata e sconosciuta. Anche ora vivo la stessa sensazione, quella di un’improvvisa, infinita libertà, il coraggio di un salto nel vuoto e nel mistero, per sondarlo e risolverlo.

L’estate scorsa a Formentera durante l’esperienza con l’aci-do, ho improvvisamente avuto una visione di molte vite passa-te e la realizzazione di un’unica coscienza universale. Ho visto una grande luce dai sette colori perfetti e ho visto la mia anima uscire dal corpo, immergersi nello spazio e da lì osservare il flusso di molte vite già vissute, fino a realizzare di essere già stata quasi tutto come tutti. Una voce mi ha chiamato inequi-vocabilmente a lasciare ogni cosa e partire per l’India, per una nuova avventura della coscienza.

Il viaggio è cominciato allora e proseguito a Milano in que-sti mesi. Il viaggio interiore alla ricerca di una vera risposta. Alla ricerca di un maestro.

Madre India

Bombay, 7 marzo ‘72. L’arrivo qui a Bombay è stato veramente troppo forte.

Vorrei scappare. Le baracche miserabili ai lati dell’aeroporto, il caldo soffocante, le strade brulicanti di persone, lo sporco dell’Hotel, gli hippy di Goa, pazzi, affascinanti. Nella strada sotto l’albergo i mendicanti, i lebbrosi, i bambini che mi deri-dono e mi chiamano hippy, Hare Krishna, Hare Ram.

Mi sento terribilmente goffa, con i miei gonnelloni, i miei capelli disordinati, è veramente un altro mondo, un incredibi-le, immenso bazar, ho paura. Davanti alla porta dell’Hotel c’è un hippy santone con la barba bionda, vestito di bianco sudi-cio. Ho paura anche di lui. Penso che possa prendere possesso della mia mente.

Automaticamente ripeto il mantra* che ho imparato da Piero: “Hari sharanam, Shiva sharanam, Ram sharanam, Prabhu Krishna sharanam”, Mi rifugio in Shiva, in Ram, in Krishna...

Faccio fatica a resistere, fa caldissimo, tutti fumano nella stanza e si rimpinzano di the al latte bollente e dolci untuosi, ho la nausea. Il cibo non mi piace affatto, cose fritte, grasse, pesanti ed i ristoranti sono sudici, solo i grandi bicchieri di suc-chi di frutta consolano un po’, ma i mendicanti lì vicino con la mano tesa li fanno andar di traverso. Ho paura a girare per le strade da sola e Piero e Claudio mi prendono in giro; Gianni si è già perso con l’oppio e la morfina.

L’altro giorno ho visto un incantatore di serpenti. La cosa che m’impressiona di più sono gli occhi dei poveri e dei men-dicanti, ironici, come felici, il sorriso sul volto quasi di tutti. Come se la gente qui sapesse che tutto è relativo e la realtà una specie di gioco di prestigio.

Mi vengono in mente i visi tirati, duri e pallidi delle perso-ne a Milano la mattina sui tram, la loro tristezza e freddezza.

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11 marzo ‘72. Oggi ho incontrato un gruppo di gente bellissima, dei ra-

gazzi della California con barbe e capelli lunghi, vestiti di bian-co. Sono a casa loro in India, sicuri di sé. Incontro anche Lillo, italiana, un piccolo elfo magico, che mi insegna a cambiarmi l’abito e a vestirmi di bianco. Incontro i rainbow gipsy, i gitani dell’arcobaleno: vengono da ogni angolo del mondo, alla ven-tura per le strade, con pochi soldi, documenti precari. Vanno in giro ballando e cantando, sono bellissimi e trovano sempre chi li ospita e li aiuta. Sono come soffusi di magia e m’incantano.

Rosa, una ragazza italiana, cammina a seno nudo con una scimmietta appollaiata su una spalla che le succhia un seno, non le succede niente. Daniel e Sitaram, i due ragazzi america-ni, mi attirano: sento che la sanno lunga.

Vorrei diventare come loro, coraggiosa, sicura di me, rice-vere la conoscenza che sento hanno. Decido di tingermi i ca-pelli di rosso con l’henné e di farmi un tatuaggio su una mano, mi sembra il primo gesto di coraggio.

12 marzo ‘72. Questa mattina eravamo tutti seduti nella stanza, quando

sentiamo bussare ed entra Carlo. Ora lo chiamano Shanti. Era-no sei anni che non lo vedevo e quasi non lo riconoscevo. Ha ancora il suo sorriso da bambino, ma mischiato con qualco-sa ora di già vecchio ed anche saggio. È vestito da indiano e mi fa molta impressione. Era stato uno dei primi a partire da Milano qualche anno fa alla scoperta dell’India. Allora aveva sedici anni ed aveva avuto il coraggio di partire “on the road”, via terra attraverso Afghanistan e Pakistan, praticamente sen-za soldi. Come lui tanti, e mi chiedo ancora come riescano a sopravvivere, ammiro la loro fede. Sento dire che in questi sei anni Shanti è stato con molti guru indiani ed è diventato un guru lui stesso. Parla in uno strano modo, lento, pacato.

Mi aggrappo subito a lui, sento che mi porterà da qualche parte. Nel ’66 avevamo vissuto insieme la prima esperienza co-

munitaria a Milano, in una soffitta vecchia e gelida nella parte antica della città. Lui e gli altri amici erano tra i primi “hippy capelloni” di quei tempi, derisi ed insultati dalla gente per la strada: “Va’ a lavurà, Barbun!”

Avevamo fumato i primi spinelli e fatto i primi sogni sull’Oriente misterioso. Avevo incontrato lui e Gianni in un ri-storante di Brera ed offerto loro la cena e mi ero poi messa a frequentarli. Ne avevamo fatte di tutti i colori, happenings per le strade ed in un locale culturale: eravamo stati anche arresta-ti. Gianni poi era finito a S. Vittore per un anno e mezzo, per-ché trovato in possesso di un po’ di hashish. Carlo era partito per l’India in autostop ed anche io mi ero staccata da loro e mi ero messa a studiare all’università e a far politica nel ‘68.

Per qualche anno mi ero dimenticata del sogno indiano, ed ora è proprio Shanti che mi ritrovo qui di fronte, quasi stento a crederci. Lui comincia subito a prendermi in giro perché sono con due buddhisti, Claudio e Piero, polemizza e dice che l’In-duismo è di gran lunga superiore, ma io per ora non ci capisco niente. Sento solo che Shanti è per me un’ancora di salvezza, Piero e Claudio sono molto presi dalle loro storie e capisco che non sono tanto disposti a farmi da balia. Io non ho ancora im-parato l’Inglese e mi sento veramente persa. Decido in ogni caso di seguire Piero e Claudio ad un corso di meditazione buddhista nel centro di Bombay. Si tratta, mi spiegano, di un corso di meditazione Vipassana, tenuto dal fondatore stesso, un grande maestro rinomato, Goenka. Anche Gianni decide di smettere con la morfina e di partecipare.

15 marzo ‘72. Oggi comincia il corso: è la prima volta che faccio un’espe-

rienza del genere e sono emozionata. È tutto molto ordinato, organizzato, pulito. C’è un misto di occidentali ed indiani; gli indiani qui sono particolari, hanno un’aria molto perbene, pre-valentemente vestiti di bianco, molto attenti alla disciplina. Mi accorgo che compiono ogni gesto della vita quotidiana come

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un rituale, dal mangiare al fare il bagno. Sono anche un po’ spaventata, è la prima volta che incontro un maestro, un guru.

17 marzo ’72. Sono qui da due giorni e faccio molta fatica, fa caldo. Ci alziamo alle 5 del mattino, facciamo una doccia e ci met-

tiamo a meditare in silenzio. Dobbiamo solo concentrarci sul respiro, per me è un’impresa quasi impossibile stare seduta per terra a gambe incrociate e smettere di pensare; comunque ci provo. Ad un certo punto del mattino e del pomeriggio ci si trova tutti insieme in una grande aula davanti al maestro.

Shri Goenka è un uomo sui 50 anni, tozzo, robusto e con una pancia buddhica. Da lui emana un’energia tranquilla, pa-cifica, buona, forte. La gente canta insieme una canzone dalla melodia molto bella. Al termine della seduta si sente la voce del maestro che parla in inglese, “Love, infinite love for all beings”, Amore, amore infinito per tutti gli esseri: è il suo inse-gnamento ogni giorno. Egli poi dà ad ognuno qualche minuto da solo davanti a lui, in silenzio. È un momento di incontro diretto, telepatico.

Sono presa ancora una volta dalla paura. Mi siedo davanti a lui ed ho paura della mia mente, ho paura di avere pensieri aggressivi, negativi, e che lui se ne accorga: mi sento come da-vanti ad uno specchio, mi rendo conto che ci sono tante cose da pulire dentro di me.

24 marzo ‘72. Oggi il corso è terminato e sono felice di averlo fatto. Siamo

ritornati in albergo e dobbiamo decidere di partire. Rincontro Shanti, ed improvvisamente gli chiedo di restare con lui. Piero e Claudio vogliono proseguire per il Nepal, ma io sento che devo restare in India ed imparare tante cose.

Dico a Shanti che vorrei incontrare un guru e m’invita ad andare con lui ad Almora, dove ha affittato una casa con i suoi amici, gli zingari dell’arcobaleno: mi dice che molti dei maestri

e dei santi indiani vivono da quelle parti, sulle montagne. Sono felice di poter andare con lui.

25 marzo ‘72. Giriamo per il bazar di Bombay, brulicante di persone, di

colori, di umanità. C’è una grande pulsazione vitale e un’ener-gia d’amore e calore. Le donne poi sono bellissime e non mi stanco di guardarle: sono l’immagine piena e completa della femminilità, sono armoniose, aggraziate, ma in un modo che percepisco virtuoso, casto; i sari colorati sono uno splendore. L’India comincia a prendermi ed attrarmi, ora desidero prose-guire l’avventura.

Oggi parto con Gianni e Shanti per il Rajasthan. Prima di andare ad Almora passeremo a trovare uno dei guru di Shanti che abita vicino a Jaipur, Hari Puri.

Nuova Delhi, 27 marzo ‘72. Siamo arrivati a Delhi in aereo, fa meno caldo che a Bom-

bay e sembra un po’ più civilizzata. Siamo in una comoda guest house e ci rimpinziamo per strada di frutti tropicali serviti col ghiaccio. Mi dicono che è pericoloso mangiare così in giro, ma sento che c’è una forza che mi protegge e che non posso fare la schizzinosa, devo buttarmi in questa storia senza riserve, fino in fondo.

Jaipur, 29 marzo ‘72. Eccoci arrivati a Jaipur nel Rajasthan col treno. I treni sono

strapieni, lentissimi, sporchi e polverosi, con le panche e le cuc-cette di legno. Per fortuna ho già fatto un po’ di training con i viaggi in Marocco.

In risciò siamo arrivati qui nella giungla dal maestro di Shanti. È un posto selvaggio, pieno di sadhu* altrettanto sel-vaggi. Hanno capelli lunghissimi, jate*, annodati, che non pet-tinano mai, corpi da felini della foresta. Fumano hashish tutto il tempo. Mi raccontano le loro storie, di come abbiano ucciso

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le tigri a mani nude, etc. Non capisco una parola di quello che dicono, ma loro continuano a parlarmi con disinvoltura. Mi stendo per riposare vicino a Gianni ed uno di loro mi solleva la gonna per vedere se ho le mutande. Mi fanno fumare e mi stordiscono.

Mi hanno fatto incontrare il maestro: è ammalato, molto magro, piccolo e rasato, steso su un letto. Ha degli occhi lan-guidi che emanano un incredibile amore. Sono commossa, vor-rei fargli un regalo. Gli do il mio braccialetto d’argento, l’unica cosa un po’ preziosa che ho. Anche con lui non possiamo par-lare granché, c’è solo lo scambio di quest’onda d’amore. Forse lui morirà presto, non riescono a curarlo.

2 aprile ‘72. Siamo stati in giro per il bazar a comperare stoffe. I nego-

zi qui sono posti dove ci si ferma, ci si siede, si beve il the, si chiacchiera, si racconta la storia della propria vita. Poi tirano fuori e ti fanno vedere quasi tutta la merce, ed eventualmente si compra anche. Gli uomini (le donne non sono mai nei nego-zi) stanno seduti a gambe incrociate o sdraiati su grandi letti bianchi, come se il tempo si fosse fermato e loro non fossero lì ad aspettare i clienti, ma semplicemente a vivere, quasi a me-ditare.

Andiamo poi a mangiare in un ristorante di lusso, vecchio stile maharajà, e veniamo serviti come grandi signori. È incre-dibile l’umiltà dei servitori indiani, sono completamente iden-tificati con il servizio. È imbarazzante, ci si sente come vecchi colonialisti, pieni di privilegi. Sento subito che preferisco stare con gli indiani poveri, nei loro posti.

L‘Incontro con Babaji

Almora, 3 aprile ‘72. Stamattina siamo arrivati ad Almora, dopo un altro viag-

gio interminabile. È una cittadina di montagna a 1800 metri, ma non fa affatto freddo come in montagna da noi. Il bazar è sudicio, l’albergo cadente, mi pesa veramente bere o mangiare nei ristorantini in giro. Non mi aspettavo di vedere case così povere, fatte di legno marcio. L’albergo è pieno di pulci e que-sto è terribile. La mattina fa freddo e l’acqua per fare la doccia è gelata. Sono sorpresa, perché mi era stato descritto come un posto idilliaco.

5 aprile ‘72. Siamo nella casa in campagna nel mezzo della valle affit-

tata da Shanti e dal gruppo dei rainbow gipsy: qui è bello e si sta meglio. Tutto è però scomodissimo, non ci sono gabinetti, mancano acqua corrente ed elettricità. Mi prendo il compito di cucinare e lavare le pentole ed i piatti, sento che mi fa bene. Faccio molta fatica a fare tutte le cose accucciata, ammiro gli indiani che riescono a fare tutto in questo modo, raso terra; hanno dei corpi molto agili e snodati. Mi sento goffa, impac-ciata, ma sento che devo fare un lavoro di servizio per gli altri.

Nel gruppo c’è gente molto bella, ci sono i due californiani di Bombay con le loro donne, c’è Rosa, la ragazza italiana: sno-datissima, la mattina ci mostra delle bellissime posizioni yoga. Mangiamo tutti insieme, seduti per terra, dei grandi piatti di riso e verdure.

Shanti mi aiuta molto: traduce per me, mi spiega le cose e le tradizioni indiane con molta pazienza, mi porta in giro, anche lui sento che ora è un maestro per me. I ragazzi cantano delle bellissime canzoni con la chitarra. Soprattutto la canzone che canta Daniel mi colpisce: “We are one for a universe of love” (Siamo uno per un universo d’amore).

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Sto lentamente adeguandomi al nuovo ritmo della gior-nata, fatta di semplici cose pratiche: cucinare, lavare le pro-prie cose, pulire, sedersi a guardare la maestosità della valle, il verde delle colline e le cime dell’Himalaya coperte di neve in lontananza. Di notte fa freddo e dormiamo tutti vicini ed am-mucchiati sul pavimento in un’unica stanza. Shanti mi porta in giro dai suoi amici ad Almora e mi presenta ossequiosamente alle famiglie indiane, spiegando che sono laureata in filosofia e che mia madre è membro del parlamento italiano: pare che qui queste cose contino molto.

Quando vedo le contadine passare per le strade con le am-pie gonne verdi ed i carichi d’erba sulla testa, ho la sensazione di qualche cosa di molto familiare e già vissuto.

10 aprile ‘72. Oggi Shanti mi ha fatto conoscere Tara Devi, un’anziana

signora americana che vive ad Almora da vent’anni. Ci ha invitato ad andare a vedere in città un santo indiano, Babaji, l’incarnazione, dicono, di un altro famoso yogi, chiamato Hai-rakhan Baba.

Ci racconta che egli ha ringiovanito il suo corpo senza pas-sare attraverso la morte ed ora dimostra venti anni, pur aven-done in realtà 130, e che vive senza mangiare e senza dormire: sarà vero? Ci dice anche che Babaji le ha detto di invitare tutti gli occidentali che conosce ad Almora, perché egli sta cercando fra essi una persona, sua discepola da vite precedenti.

Shanti mi dice ridendo che magari sono io. Ieri mi ha letto la mano e mi ha detto che ho le linee di una yoghini, di una persona che starà molto tempo in India. Sono stranamente le stesse linee che ha lui, tre linee unite che significano, mi dice, l’unione della mente e del cuore.

15 aprile ‘72. Siamo stati in città ad Almora, a vedere Babaji. C’erano tut-

ti gli occidentali che vivono nei dintorni ed anche maestri im-

portanti come Shunia Baba e Guru Lama, tibetano.Appena entrata nella stanza affollatissima, ho notato su-

bito Babaji, seduto in alto, vestito di bianco. Mi sono incantata a guardarlo, bellissimo, radioso, come un Cristo d’altri tem-pi, molto serio, severo, ha degli occhi incredibilmente potenti e penetranti, scuri. L’ho guardato negli occhi a lungo ed ho avuto paura del suo potere, ma poi gli ho visto abbassare lo sguardo con una incredibile umiltà e tenerezza. Sono rimasta magnetizzata a guardarlo per due o tre ore.

La gente intorno ha continuato ininterrottamente a canta-re e a fare la fila per inchinarsi a lui. Ogni volta che qualcuno s’inchinava, lui alzava la mano per benedirli e li guardava con uno strano sguardo di compassione.

Io non me la sono sentita di andare ad inchinarmi, sono ri-masta ad ammirarlo affascinata dalla sua bellezza e dalla per-fezione della sua forma, simile ad una statua. Sembra quasi che non respiri, che non si muova, ma guarda tutti negli occhi. Sento con un senso di disagio che percepisce i miei pensieri, che legge nella mia mente e che c’è un chiaro filo telepatico fra me e lui.

Internamente gli faccio una domanda: “Dammi, ti prego, la verità”.

Più tardi Babaji si alza per andare nella sua stanza, si muo-ve in un modo affascinante, sinuoso, preciso, come un felino, ha le gambe brune e snelle e cammina sempre a piedi nudi.

Chiamano me e Shanti nella sua stanza e per la prima vol-ta, con un po’ di riluttanza, gli faccio un inchino. Chiede da che paese vengo e fa un sorriso radioso, percepisco come una scossa elettrica e mi sento invadere da un’onda luminosa, una voce mi dice che lo rivedrò.

Torno a casa con Shanti, molto colpita dall’incontro. Anche Shanti, che ha già visto molti guru, nota la particolare bellezza e purezza di questo essere.

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... Mi sono incantata a guardarlo,bellissimo, radioso, come un Cristo d’altri tempi ...

16 aprile ‘72. Stanotte ho fatto un sogno. C’era una foresta fitta e buia,

improvvisamente è apparso Babaji, emergente da una luce in-tensa e circondato da alcuni discepoli; camminava appoggian-dosi ad un bastone, e mi diceva: “Sono il guru della tua vita”.

“Che cosa m’insegnerai?” gli chiedevo. E lui rispondeva: “A lavare bene i piatti”. Mi sveglio molto colpita, ed in più il suo messaggio è mol-

to chiaro per me: lavare i piatti significa accettare di fare dei servizi umili, utili agli altri. Quante volte nelle nostre comuni milanesi ci siamo scontrati con questo problema, con l’incapa-cità di adempiere a questi compiti semplici e basilari, per pigri-zia, per egoismo. È tanto che so che devo lavorare su questo.

Racconto il sogno a Shanti, anche lui rimane colpito e mi dice che forse potremmo andare a trovarlo a Hairakhan, il tem-pio dove Babaji ora abita; ne parlerà a Tara Devi.

23 aprile ‘72. Chiediamo a Tara Devi se possiamo andare a Hairakhan.

Mi squadra dall’alto in basso e mi dice che devo vestirmi me-glio e non con questi vestiti da hippy. Aggiunge che non sa neppure se le donne sono benvenute da Babaji perché lui è brahmachari*, mantiene cioè la castità. Anche Shanti mi spiega che devo stare molto attenta alle mie vibrazioni femminili e che gli indiani lapiderebbero una donna che cercasse di sedur-re un Baba brahmachari.

Mi meraviglio di questi discorsi, perché sinceramente il sesso è l’ultimo pensiero che mi viene in mente ora davanti a qualcuno come Babaji.

Hairakhan, 26 aprile ‘72. Siamo arrivati a Hairakhan ieri dopo una lunghissima cam-

minata, sono stanchissima. Siamo partiti da Almora in cinque, io e Shanti, un danese, un americano e Tara Devi con il suo cuoco indiano. Arrivati a un certo punto della strada, ci siamo

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... Ad un certo punto s’intravedeun piccolo tempio bianco arroccato sulla collina ...

inoltrati a piedi nella foresta: una camminata interminabi-le, più di sei ore, a piedi nudi sulle pietre bollenti con il baga-glio sulla testa. Credevo di non farcela; con la mia paura del freddo mi sono portata persino una trapunta sulla testa.

La giungla è stupenda e l’acqua del fiume pura e traspa-rente, si può bere. Ad un certo punto s’intravede un piccolo tempio bianco arroccato sulla collina, Hairakhan: sembra un paesaggio da favola.

Quando abbiamo cominciato ad avvicinarci al tempio, ab-biamo visto Babaji vestito di bianco scendere le scale e venirci incontro. Con grande imbarazzo mi sono trovata ad essere la prima della fila. Lui mi ha preceduto fino in cima e poi mi ha fatto suonare tutte le campane del tempio con lui girando in

circolo. Ho avuto l’impressione di rivivere un antico rituale di-menticato. Mi ha chiesto se ero un’hippy, tramite Shanti che faceva da interprete. Gli ho risposto orgogliosamente di sì. Mi ha chiesto se fumo marijuana. Gli ho risposto di sì. Mi ha detto che qui è proibito, ma dopo poco un vecchio baba, chiamato Prem Baba, mi ha fatto fumare.

Mi sono seduta sul muro a guardare la valle, è un posto stupendo, un paesaggio arcaico, antico, pastorale. Le colline sono lavorate a terrazze verdi e fertili e la montagna alle spalle è coperta di pini, il fiume sottostante scorre ad un ritmo dol-ce e musicale, sono incantata; un albero del bodhi, maestoso, completa il paesaggio. Tutti vivono all’aperto sotto gli alberi: c’è solo il tempio ed una piccola capanna aperta su tutti i lati con un fuoco nel mezzo, dove vive Babaji.

Mentre sono ancora seduta sul muro di cinta, assorta nella mia contemplazione, Babaji si è avvicinato e si è accoccolato accanto a me, ha raccolto una pietra e ha disegnato per terra l’immagine di un tempio dicendomi: “Dio”.

Mi ha molto imbarazzato: è un concetto ancora difficile per me da accettare. Mi ha poi chiamato a sedermi nella sua capan-na dhuni* e mi ha detto in inglese: “God is love”, Dio è amore. Ha degli occhi luminosissimi. Mi ha dato un’arancia e della frutta secca.

La sera ci hanno dato da mangiare una gran quantità di dolce di farina, halwa*. Ieri pomeriggio degli indiani volevano farci anche del the, ma lui li ha sgridati severamente dicendo che il the non è permesso nel tempio. Mentre eravamo seduti nel suo dhuni (fuoco sacro), sono arrivate tutte le donne del villaggio, coloratissime, con grandi gonne verdi come quella che indosso io. Ridono vedendomi, e Babaji dice loro che mi chiamo Lalli, che vuol dire ragazzina. Mi chiede quanti anni ho e gli rispondo ventisei, mi dice che ne dimostro quindici.

La sera durante la cerimonia nel tempio rimango molto impressionata; Babaji sta seduto immobile, vestito di bianco, come una statua perfetta. Un indiano canta e fa girare una

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fiamma attorno al suo volto, che assume un bagliore misterio-so. L’uomo si commuove e si mette a piangere mentre prega, sento che percepisce la presenza di un’Entità Divina. Vedo che anche Shanti è commosso, anche se mi dice di non farmi incan-tare troppo da tutti questi rituali. Il vecchio sadhu, Prem Baba, ci fa poi sedere attorno ad un altro fuoco e ci fa cantare tutti in coro il mantra di Shiva: Om Namah Shivay*. Shanti ride veden-do come io caschi subito nell’incantesimo.

Delle donne cuociono del pane, chapati*, su un fuocherel-lo improvvisato, è tutto così semplice ed essenziale, puro. La sera ci stendiamo all’aperto sotto le colonne del tempio, per dormire.

Stamattina ci hanno svegliato alle quattro, praticamente di notte, e sono scesa infreddolita a lavarmi al fiume. Sulle scale ho incontrato Babaji che già tornava dal suo bagno.

Sono immersa nell’acqua fresca sotto le stelle. Sono assorta in un angolo e sto pensando che vorrei proprio continuare que-sta storia magica e vorrei tanto poter seguire Babaji, ma non oserò chiederlo; pochi minuti dopo Babaji mi chiama accanto a lui e mi chiede se voglio seguirlo nel suo viaggio a Vrindavan*, una città sacra a Krishna.

Rispondo felice di sì, anche se mi spaventa lasciare Shanti e gli amici, ma sento che il mio viaggio deve proseguire. Anche da sola. Devo solo tornare ad Almora a prendere soldi e passa-porto; Shanti è un po’ perplesso del mio entusiasmo, ma Babaji mi affascina troppo. E se fosse poi vero che è il mio guru?

L’uomo si commuove e si mette a piangere mentre prega, sento che percepisce la presenza di un’Entità Divina...