Di segno in segno. Il pensiero che lascia una traccia - 25...

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1 DI SEGNO IN SEGNO. IL PENSIERO CHE LASCIA UNA TRACCIA Intervento di Elena Galeotto al Corso Metamorfosi, colore, danze, seduzioni della lineaPalazzetto Eucherio SanvitaleParma, 25 ottobre 2016 Su gentile invito di Gabriele Trivelloni Mi faccio presentare da una frase di Giacomo Contri 1 tratta dallintroduzione del libro Hanno pensato 2 . Il testo racchiude il lavoro di Sigmund Freud e di Giacomo Contri che hanno commentato alcune opere darte. Il titolo di questo libro Hanno pensato, sostiene una tesi, quella di una comunione di pensiero tra certi produttori, da un lato Freud e quel suo modesto seguace che è il sottoscritto, dallaltro gli artisti, qui scelti in numero limitato e con criterio occasionale, nel senso che ci siamo imbattuti in essi contestualmente al procedere del nostro lavoro. Non è un exploit culturale avventizio. É dunque frivola o salottiera lidea di una psicoanalisi dellarte. Il titolo riguarda quindi tutti, nessuno è in posizione di oggetto da indagare. Segno traccia rapporto con il reale Se intendiamo il segno come un prodotto del pensiero dellartista, non possiamo che identificarlo come traccia in quanto non può esaurire ciò che lartista vuole dire. É nella natura della traccia il suggerire, incuriosire, muovere alla conoscenza. Segno visibile, o, anche, non materiale, che rimane come documento, testimonianza, eco o ricordo di un fatto, di una situazione, di una condizione. La funzione metonimica della traccia ne fa un elemento interessante e dinamico che necessita di ulteriore lavoro per arrivare a una conclusione. La realtà o la maggior parte di essa si mostra a noi come traccia; se essa ci si presentasse come pacchetto completo ci lascerebbe molto probabilmente indifferenti, poiché non intravedremmo uno spazio libero per la nostra iniziativa. Il reale quindi si presenta come unofferta che suscita una domanda. In questa dinamica, che potremmo definire con le parole di Giacomo Contri un regime dellappuntamento3 ciò che accade tra domanda e offerta,è un lavoro comune che ha come fine una soddisfazione. Riferito ad unopera darte questo discorso apre alla questione delle chiavi di accesso allarte, alla sua accessibilità e fruibilità. 1 Giacomo Contri, psicoanalista, fondatore e Presidente della Società amici del Pensiero. Sigmund Freud 2 Sigmund Freud, Giacomo Contri Hanno pensato a cura di Raffaella Colombo, Edizioni Pendragon, 2013, Bologna a cura di Raffaella Colombo 3 Simposio 2015 Il regime dellappuntamento, e Simposio 2016 La civiltà dellappuntamento

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    DI SEGNO IN SEGNO. IL PENSIERO CHE LASCIA UNA TRACCIA

    Intervento di Elena Galeotto al Corso “Metamorfosi, colore, danze, seduzioni della linea”

    Palazzetto Eucherio Sanvitale” Parma, 25 ottobre 2016

    Su gentile invito di Gabriele Trivelloni

    Mi faccio presentare da una frase di Giacomo Contri1 tratta dall’introduzione del libro

    Hanno pensato 2. Il testo racchiude il lavoro di Sigmund Freud e di Giacomo Contri che hanno

    commentato alcune opere d’arte.

    “Il titolo di questo libro Hanno pensato, sostiene una tesi, quella di una comunione di

    pensiero tra certi produttori, da un lato Freud e quel suo modesto seguace che è il sottoscritto,

    dall’altro gli artisti, qui scelti in numero limitato e con criterio occasionale, nel senso che ci siamo

    imbattuti in essi contestualmente al procedere del nostro lavoro. Non è un exploit culturale

    avventizio. É dunque frivola o salottiera l’idea di una ‘psicoanalisi dell’arte’. Il titolo riguarda

    quindi tutti, nessuno è in posizione di oggetto da indagare.”

    Segno traccia rapporto con il reale

    Se intendiamo il segno come un prodotto del pensiero dell’artista, non possiamo che

    identificarlo come traccia in quanto non può esaurire ciò che l’artista vuole dire. É nella natura della

    traccia il suggerire, incuriosire, muovere alla conoscenza. Segno visibile, o, anche, non materiale,

    che rimane come documento, testimonianza, eco o ricordo di un fatto, di una situazione, di una

    condizione.

    La funzione metonimica della traccia ne fa un elemento interessante e dinamico che

    necessita di ulteriore lavoro per arrivare a una conclusione.

    La realtà o la maggior parte di essa si mostra a noi come traccia; se essa ci si presentasse

    come pacchetto completo ci lascerebbe molto probabilmente indifferenti, poiché non

    intravedremmo uno spazio libero per la nostra iniziativa. Il reale quindi si presenta come un’offerta

    che suscita una domanda.

    In questa dinamica, che potremmo definire con le parole di Giacomo Contri “un regime

    dell’appuntamento”3 ciò che accade tra domanda e offerta,è un lavoro comune che ha come fine una

    soddisfazione. Riferito ad un’opera d’arte questo discorso apre alla questione delle chiavi di accesso

    all’arte, alla sua accessibilità e fruibilità.

    1 Giacomo Contri, psicoanalista, fondatore e Presidente della Società amici del Pensiero. Sigmund Freud 2 Sigmund Freud, Giacomo Contri Hanno pensato a cura di Raffaella Colombo, Edizioni Pendragon, 2013, Bologna a

    cura di Raffaella Colombo 3 Simposio 2015 “Il regime dell’appuntamento”, e Simposio 2016 “La civiltà dell’appuntamento”

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    Rifletterò quindi attorno ai temi dell’accessibilità e inaccessibilità rispetto a un’opera

    d’arte avendo come paradigma il modello di domanda e offerta.

    Lo farò analizzando le opere di tre giovani artisti, Andrea Cozzi, Stefano Cozzi e Marie

    Janssen che hanno presentato a Milano nell’aprile 2016 presso la Fondazione Arnaldo Pomodoro

    una mostra dal titolo “La matrice di tutti i segreti”.

    Andrea e Stefano Cozzi sono nati a Segrate (Mi) nel 1989. Si formano rispettivamente

    presso l’Universität für angewandte Kunst (MFA), 2014 e la Slade School of Fine Arts, Londra,

    (MFA) 2015. Recenti mostre personali e collettive includono: Artissima 2016 (SC), Torino, 2016;

    Taking care, La Biennale di Venezia – 15. Mostra Internazionale di Architettura, Padiglione Italia,

    Venezia, 2016; La matrice di tutti i segreti, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano, 2016; Entrare

    nell’opera (SC), Galleria Massimodeluca, Mestre, 2016; Where we are now (SC), Freud Museum,

    Londra, GB, 2015; Das Letzte im Leben, Kaiserliche Hofburg, Innsbruck, AT, 2015; Display Gold

    (AC), Hemaliges Österreichisches Finanzministerium, Vienna, Austria, Lessingtage (AC), Thalia

    Theater, Amburgo, 2014. Hanno partecipato ai programmi di residenza del Wysing Arts Centre

    (SC), Cambridge, GB, 2014 e di SÍM, Reykjavík, IS, 2012. Stefano Cozzi collabora con la Galleria

    Massimodeluca, Mestre, a partire dal 2015.

    Marie Janssen è nata a Monaco di Baviera nel 1988 e ha studiato pittura all’Universität für

    angewandte Kunst di Vienna (MFA), 2014. Da allora lavora come ospite presso diversi laboratori al

    progetto Tuchofen, da lei inventato. Tra questi: Studio di ceramica dell’Universität für angewandte

    Kunst di Vienna, Centro per la conservazione dei beni culturali BDA Austria presso Mauerbach

    (Vienna), La fornace degli artisti, Cunardo (VA). Diverse fasi del progetto sono state presentate

    nelle mostre La matrice di tutti i segreti, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano, 2016; Handicraft:

    traditional skills in the digital age, Museo di arti applicate e di arte contemporanea di Vienna, 2016;

    e nella mostra personale Das Tuchofen Projekt von Marie Janssen, Museo di arti applicate e di arte

    contemporanea di Vienna, 2016.

    Cito le parole del curatore della mostra Federico Giani: “Il concetto di accessibilità

    riguardo all’arte ha mutato di significato nel corso del tempo. Le chiavi di accesso consolidate,

    iconografia e stile ad esempio, sembrano essere insufficienti a decifrare opere che sembrano

    sfuggire a qualsiasi categorizzazione. In realtà anche oggi, proprio come in passato, l’arte possiede i

    suoi sistemi di riferimento, forse più impegnativi da rintracciare, ma, ugualmente ancora, sia utili

    sia insufficienti.”

    L’accessibilità non riguarda l’”essenza” di un oggetto (o di un soggetto), non è nella sua

    natura, ma dice qualcosa del rapporto che ogni individuo intrattiene con la realtà con cui a che fare.

    Ne deriva una duplice definizione di oggetto: o esso è inteso come prodotto finito, chiuso

    nella sua essenza, un puro oggetto o è da intendersi come materia prima che viene offerta per

    un’ulteriore elaborazione.

    Appare così chiaro il suo rapporto con l’attribuzione di interesse che il soggetto applica

    all’oggetto a cui si approccia. Ciò che decide dell’accessibilità o dell’inaccessibilità di qualcosa

    (oggetto, sapere, opera d’arte) è quindi un pensiero che pensi di potersene fare qualcosa di ciò che

    gli si offre.

    Analogamente se consideriamo come il sapere, grazie allo sviluppo mediatico, è diventato

    accessibile a tutti, non possiamo ignorare il fatto che l’avere accesso al sapere mediatico non

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    garantisce a priori una maggior conoscenza. Questa aumentata accessibilità crea in realtà

    un’illusione di familiarità che non costruisce un effettivo sapere senza la mossa di qualcuno che ne

    sia effettivamente interessato. Un’illusione che va di pari passo con il rischio che accessibile diventi

    sinonimo di divulgativo, di qualcosa che perde la sua peculiarità perché tutto è spiegabile, tutto è lì

    pronto da consumare.

    Possiamo ora chiederci se inaccessibilità sia semplicemente il contrario di accessibilità. Per

    uscire da una simile confusione che porterebbe inevitabilmente a una banalizzazione, indaghiamo il

    concetto di inaccessibilità a partire da una frase di Massimiliano Gioni4 a proposito dell’arte

    contemporanea. “Dovremmo imparare a familiarizzare con l’inaccessibile”.

    Distinguiamo quattro tipi di inaccessibilità

    1. Nel primo caso essa è sinonimo di impossibilità

    2. Nel secondo caso è secondaria a un fallimento, qualcosa che prima ci era accessibile a

    un certo punto non lo è più. E’la condizione del pensiero quando cade sotto la

    rimozione che rende impotente il pensiero stesso.

    3. Il terzo caso riguarda quella parte dell’altro che non si può conoscere, quel qualcosa

    che le parole non sono sufficienti a descrivere.

    4. Il quarto caso è quello in cui la conoscenza di qualcosa non è immediata, qualcosa ci si

    presenta come se fosse velato ma ci induce a voler conoscere di più.

    L’inaccessibilità è quindi solo un ostacolo?

    É un ostacolo quando si pensa il reale come oggetto puro, non costituirlo come materia

    prima: ciò lo rende inaccessibile a qualsiasi attribuzione, fa dell’offerta un comando che vuole solo

    il riconoscimento, non suscita nessuna domanda.

    Riferito all’arte, possiamo dire che un’arte che fosse totalmente accessibile sarebbe un arte

    che non dice più niente a nessuno, perché ha già tutto, non ha bisogno dell’altro. Diventa

    inaccessibile per troppa accessibilità.

    La frase di Massimiliano Gioni si riferisce piuttosto a una necessità e ineluttabilità insita in

    un’opera d’arte che possa dirsi autentica: è quell’arte che sa dire ma non troppo e ciò che ci fa

    muovere non si può spiegare.

    “C’è soltanto una cosa che vale nell’opera d’arte ed è quella che non si riesce a spiegare.”

    (Georges Braque)

    “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.” (Paul

    Klee)

    “Nessuno può spiegare come le note di una melodia di Mozart, o le pieghe di un panneggio

    di Tiziano, producano i loro effetti essenziali. Se non lo senti, nessuno può fartelo sentire col

    ragionamento.” (John Ruskin)

    Questa lunga premessa ci porta al nocciolo della questione:

    che cosa è accessibile di un’opera d’arte? Non il puro oggetto, ma il pensiero dell’artista

    che diventa ereditabile.

    Nel brano sotto citato il regista Jim Jarnush lo chiama addirittura “furto”.

    4 Direttore artistico della Fondazione Trussardi, Direttore della Biennale di Venezia 2013,curatore de “La grande

    Madre”

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    “Niente è originale. Ruba da tutto ciò che suscita l’ispirazione o che alimenta la tua

    immaginazione. Divora vecchi film, nuovi film, musica, libri, dipinti, fotografie, poesie, sogni,

    conversazioni casuali, architettura, ponti, segnali stradali, alberi, nuvole, distese d’acqua, luce e

    ombre. Delle cose da cui rubare, prendi solo quelle che parlano direttamente alla tua anima. Se lo

    fai, il tuo lavoro (e furto) sarà autentico.
L’autenticità è inestimabile; l’originalità non esiste. E

    non preoccuparti di nascondere il furto, proclamalo se ne hai voglia. In ogni caso, ricorda sempre

    cosa disse Jean-Luc Godard: “Non è dove prendi le cose – ma dove le porti.”

    Preferendo di gran lunga la parola eredità a furto (anche se fra artisti i furti esistono)

    introduco la questione di cosa significhi ereditare riferito alla produzione artistica.

    Se il lavoro di artisti,del passato e non, è percepito come oggetto puro si finisce con lo

    scopiazzare, se ne prende la posa; se lo si pensa come materia prima, ereditabile, l’artista prende per

    andare oltre.

    Vedremo come i tre artisti che ho citato si sono fatti eredi di una tradizione, andando oltre

    e producendo qualcosa di nuovo e di autentico.

    hanno vinto con il loro progetto un concorso indetto dalla Fondazione Arnaldo Pomodoro

    per artisti under 30.

    Il concorso dal titolo Project Room consisteva nel dare a disposizione una stanza a un

    artista under 30 perché la abitasse con la sua opera. Andrea Cozzi, Stefano Cozzi e Marie Janssen

    hanno presentato un progetto a tre che è stato scelto per inaugurare le mostre relative a questo

    concorso.

    La mostra “La matrice di tutti i segreti” si inserisce con continuità nella tradizione della

    Fondazione Arnaldo Pomodoro che fin dal suo inizio ha privilegiato l’esposizione di sculture e

    installazioni. Da poco più di un anno la Fondazione si è spostata dalla sede di via Savona a via

    Vigevano, vicino allo studio di Arnaldo Pomodoro.

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    MARIE JANSSEN

    Stufa 2

    Marie Janssen, Stufa 2, 2016, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano

    L’opera di Marie Janssen si inserisce coerentemente con la tradizione di scultura della

    Fondazione Arnaldo Pomodoro. Essa è rappresentata da una stufa alta 2.70 m modellata utilizzando

    argilla semi refrattaria che contiene una parte di argilla e una parte di argilla già cotta la quale,

    durante la cottura, garantisce una maggior stabilità all’opera. La stufa è stata poi decorata con

    pigmenti e cristallina. Quella che vedete è la seconda di quattro e appartiene a una serie che ne

    prevede sette. Il 17 dicembre 2016 sarà inaugurata una mostra al Museo di Arti Applicate di

    Vienna, dove tre stufe saranno in esposizione assieme a un video di Andrea Cozzi.

    L’artista tedesca ha preso spunto da un oggetto, la stufa, che nei paesi del nord Europa è

    una presenza costante nelle case, dato che il clima rigido l’ha resa, soprattutto in passato, un oggetto

    necessario alla sopravvivenza dell’uomo. Con l’avvento di moderne tecniche di riscaldamento

    (termosifoni, pannelli radianti a pavimento) più comode e che richiedono meno lavoro, la stufa ha

    comunque mantenuto un posto di rilievo insostituibile, continua a rappresentare il corpo che il

    calore prende all’interno di una casa. Alla stufa ci si appoggia, ci si scaldano le mani al rientro a

    casa mentre si chiacchiera con altri raccontandosi la giornata. Un tempo era il centro della casa

    attorno alla quale si raccontavano storie nelle fredde sere invernali. Ha sempre riunito generazioni

    diverse e fornito occasioni di incontro e di racconto. Si può quindi capire come questo oggetto

    millenario abbia con il tempo assunto un’importanza artistica dovuta al desiderio di andare oltre al

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    suo puro funzionamento. Un andare oltre che ha costituito attorno a quest’oggetto una vera e

    propria ricerca artistica riguardo ai materiali, forme e decorazioni. Questo corpo caldo attorno al

    quale si dipanavano racconti, ha fatto sì che le venisse attribuito un carattere, una personalità

    nonché dei poteri più o meno magici. Sono nate così innumerevoli leggende che vedono la stufa

    protagonista di vicende, previsioni sia benevole che malevole, ma soprattutto la identificano come

    custode di segreti, come se le parole dette davanti alla stufa non andassero perdute, ma trattenute e

    nascoste al suo interno. Questa custode di segreti ha consentito la nascita di detti comuni quali

    “dillo alla stufa” per aggirare giuramenti fatti, per confidare segreti il cui svelamento eviterebbe

    catastrofi e attacchi nemici.

    Lo studio attento e preciso di questi elementi della tradizione nordeuropea, hanno

    permesso a Marie Janssen di andare oltre, di produrre un oggetto che pur restando nella tradizione,

    si configurasse come autentica opera d’arte, come scultura. É riuscita a coagulare in una forma

    calore, racconti e segreti. L’elemento di custode di segreti é accentuato dalla forma: un velo

    appoggiato a un corpo (calore). L’idea è stata suggerita da un affresco romano ispirato alla leggenda

    di Timantes. Questo artista greco avrebbe voluto riprodurre i diversi tipi di dolore presenti nei volti

    dei protagonisti de “Il sacrificio di Ifigenia”.

    Il sacrificio di Ifigenia - affresco romano

    Il padre della ragazza é l’unico che ha il volto coperto da un velo, quasi a dire che il dolore

    di un padre per la morte di una figlia non si può descrivere né con le parole né con le immagini.

    Il velo, nella tradizione artistica, filosofica, letteraria e religiosa ha sempre assunto un ruolo

    rilevante e simbolico. Ciò che si cela dietro un velo assume, indipendentemente dalla natura

    dell’oggetto celato, un carattere misterioso che incuriosisce e intimorisce allo stesso tempo. Il velo

    crea un’inaccessibilità allo sguardo diretto che mantiene una distanza tra l’oggetto e il soggetto,

    costituendo attorno all’oggetto un’aura di proibito o di divino.

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    Un’ambiguità insita nell’oggetto stufa riguarda proprio il ruolo di questa all’interno della

    casa. In quanto contenitore del fuoco che produce calore, crea una familiarità attorno ad essa al

    punto che il focolare viene usato per designare non solo il luogo fisico dove alcuni abitano, ma

    anche lo spazio di costituzione di rapporti di familiarità tra chi vive sotto lo stesso tetto. In tedesco

    si usa heimlich per descrivere ciò che è familiare, che mette a proprio agio.

    Freud si è occupato di questa parola nel testo “Il perturbante” del 1919. Cito: “la cosa più

    interessante per noi è che la parolina heimlic, tra le molteplici sfumature di significato, ne mostra

    anche una che coincide con il suo contrario, unheimlich. (...) in genere siamo messi in guardia

    contro il fatto che questo termine heimlich non è univoco, ma appartiene a due cerchie di

    rappresentazioni che, senza essere antitetiche, sono tuttavia parecchio estranee l’una all’altra: quella

    della familiarità e dell’agio e quella del nascondere e del tener celato. Nell’uso corrente unheimlich

    è il contrario del primo significato, ma non del secondo.

    Heimlich é quindi un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a

    coincidere con il suo contrario unheimlich. (…) Paragoniamo questo risultato non ancora

    completamente chiarito con la funzione dello unheimlich che ne dà Schelling: unheimlich è tutto ciò

    che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto e che invece è affiorato. Da ciò deriva l’effetto di

    “perturbante”.

    Freud sottolinea che non vi può essere effetto perturbante senza che sia avvenuta una

    rimozione di angosce infantili o senza un già saputo che viene messo in dubbio. La stufa quindi, nel

    suo rappresentare il focolare, il centro della vita domestica è heimlich secondo la prima accezione

    del termine, ma anche riguardo alla seconda accezione in quanto tiene nascosto il fuoco di cui

    intuiamo la presenza solo attraverso il calore che emana da essa. E il fuoco deve rimanere celato.

    La nascita di superstizioni e leggende potrebbe avere la sua origine come tentativo di

    soluzione all’effetto perturbante: si tratterebbe di affidare a una causa esterna da sé un tentativo di

    spiegazione del disorientamento causato dall’effetto perturbante. Lo stesso si potrebbe dire delle

    previsioni, del fare previsioni come tentativo di controllare il futuro. Tale atteggiamento illusorio di

    controllo avrebbe lo scopo di impedire il riaffiorare di pensieri che ci metterebbero nella condizione

    spiacevole di spaesamento e impotenza.

    Il sommarsi dell’effetto perturbante e del mistero creato dal velo (nascosto), ha dato

    origine a leggende contrastanti. La stufa diventa così dispensatrice di favori e favorevoli auspici

    oppure di infausti presagi.

    Un risultato importante questa stufa l’ha già ottenuto, oltre a quelli che in futuro le

    auguriamo. Quello di rimetterci nella condizione di pensare che ciò che ci fa vivere è il superfluo

    non il necessario, è la bellezza con la b minuscola di questa stufa che ci offre qualcosa, a tutti, anche

    a chi non può permettersi di averla. É così per ogni opera d’arte,si può trarne profitto anche senza

    possederla.

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    STEFANO COZZI

    Forecast

    L’opera di Stefano Cozzi é il prodotto della riflessione dell’artista attorno alla scultura di

    Marie Janssen. Per farlo,in continuità con la tradizione della Fondazione Pomodoro che ha sempre

    dato spazio alle Avenguardie, ha preso spunto da un’opera di Marcel Duchamp 1200 sacs de

    charbon suspensus au plafond au dessus d’une poele.

    Marcel Duchamp, 1220 sacs de charbon suspendus au dessous d’une poele 1938 Exposition International du

    Surrealisme, Paris

    Duchamp con l’opera Bycicle Wheel del 1913 ha operato una rottura con il passato, avendo

    capito che per creare qualcosa di nuovo non bisognava fare niente.

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    Marcel Duchamp, Bycicle Wheel, 1913

    Questa era la sua idea di Ready Made, che ha aperto la strada alle sperimentazioni più

    azzardate. Basti pensare agli Hoover di Koons o alla Scatola da scarpe vuota di Orozco esposta a

    Venezia durante la Biennale del 1993, oltre alle opere dei cosiddetti eredi di Duchamp,Beuys e

    Warol.

    Andy Warol riprese la grotta duchampiana con la sua opera Silver cloude del 1966 presso

    la Galleria di Leo Castelli a New York.

    Andy Warol, Silver cloude, 1966 New York

    Le nuvole d’argento, di polietilene e gonfiate con gas, si libravano nell’aria con un

    movimento influenzato dal toccare, dal calore fino a sedimentarsi quando il gas era esaurito. Per

    alcuni critici Warol avrebbe descritto la fugacità delle opere di arte contemporanea che “possono

    volare fuori dalla finestra”.

    Tornando alla grotta di Duchamp: essa fu presentata all’Exposition International du

    Surrealisme del 1938 a Parigi presso la Galerie dea Beaux Arts. Una sala fu trasformata in grotta

    con 1200 sacchi di carbone appesi al soffitto sopra un braciere. Il carbone sospeso nei sacchi non

    poteva arrivare alla stufa e il mancato incontro tra i due ne fa dei puri significanti. La grotta

    duchampiana, ambito di questo appuntamento mancato, diventa così un luogo allusivo, un luogo

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    non luogo in cui ciò che accade produce un effetto straniante, oltre che per questo stato di

    sospensione forzata, anche grazie all’ambiguità tra esterno e interno. Tale ambiguità viene ricreata

    cospargendo il pavimento di foglie secche e grazie al profumo di caffè tostato proveniente da una

    stufa posta in un angolo. Sui visitatori piove polvere di carbone.

    Ispirato dal pensiero surrealista a sua volta influenzato dalla psicoanalisi, o come critica ad

    esso, Duchamp intende rappresentare il caso di inaccessibilità dei pensieri alla mente, dell’oggetto

    al soggetto. Di fatto il contenuto dei sacchi di carbone non accede alla stufa rendendola una

    macchina inutile e facendo del carbone stesso un puro oggetto.

    Ne risulta una descrizione metaforica della rimozione nella quale i pensieri vengono

    trattenuti in una sorta di sospensione che non li annulla ma ne rende impossibile l’uso. Nell’opera di

    Duchamp l’effetto di nascondimento é potenziato dall’aver utilizzato sacchi di juta che rendono

    impossibile al visitatori conoscere ciò che si trova all’interno di essi.

    “La rimozione” – quella di Rossella o’Hara – “è rimozione del fatto che si era già iniziato,

    che si era stati fonte del proprio moto, cioè di un accadere distinto dal divenire.” 5

    Si rimuove solo ciò che riteniamo importante, vitale ma che in un determinato momento

    della vita non si riesce a trattare. Si arriva a non sapere ciò che in realtà si sapeva benissimo. In un

    certo senso si mette il pensiero in sicurezza, gli si dà la possibilità di riemergere in un futuro, di

    essere trattato in un secondo tempo. Questa sorta di sospensione ha il pregio di mantenere viva la

    questione, ma la rende inutilizzabile nel presente. Niente a che vedere col profondo o con l’intimo.

    Trovo molto azzeccata la soluzione di Duchamp di rappresentare l’inconscio come qualcosa di

    sospeso e non di profondo.

    Stefano Cozzi ha operato una politica di aggiornamento intorno all’ opera duchampiana

    riflettendo proprio sulla sospensione e sul nascondimento di qualcosa che ha valore e sulla

    possibilità o meno di raggiungerlo.

    5 Giacomo B. Contri

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    Stefano Cozzi, Forecast, 2016 Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano

    Intrinseca a questa riflessione è la presa d’atto dell’ampliamento di possibilità che il

    progresso tecnologico offre per verificare se ciò ha portato a un effettivo miglioramento del

    rapporto con la realtà. Entrano così in gioco dinamiche sia legate a progresso tecnologico sia a

    mutamenti culturali che hanno fatto della trasparenza, ad esempio, una sorta di mito, una chiave di

    accesso al sapere, un diritto. Attraverso un duplice aggiornamento l’artista ha così svelato il

    contenuto dei sacchi di carbone trasformando i sacchi in gabbie il cui contenuto è accessibile alla

    vista.

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    Stefano Cozzi, Forecast (particolare)

    Il carbone questa volta c’é davvero, accostato a una nuova interpretazione dei pensieri e

    della memoria, il silicio, che viene utilizzato nella costruzione di supporti di memoria informatica.

    Le gabbie formano una sorta di percorso che tenta di raggiungere la stufa lasciando aperta e

    interessante la questione dell’accessibilità. Non si tratta più solo dell’accessibilità dei pensieri alla

    mente intesa come presa di coscienza (la trasparenza e la visibilità), ma introduce un criterio

    economico riguardo al cosa farsene dei pensieri una volta che non sono più puri oggetti ma entrano

    in rapporto con un discorso proprio e altrui. La dimensione di impenetrabilità si trasferisce dal

    contenuto al contenitore. Si crea così una duplice illusione: la semplice presa di coscienza,

    trasparenza non è sufficiente a garantire l’utilizzo del pensiero. Di fatto vediamo il carbone e il

    silicio ma non possiamo usarli, prenderli. Una rappresentazione ben riuscita della sopravvalutazione

    dello sguardo come fonte di conoscenza: non si tratta di vedere per capire, ma di sapere.

    La seconda illusione riguarda il fatto che l’aumentata accessibilità al sapere grazie a

    Internet, rappresentata dal silicio, corrisponda effettivamente a una aumentata familiarità con il

    sapere. Il titolo, Forecast, previsioni, allude a un impotenza del sapere che si illuderebbe di sapere

    perché tiene sotto controllo. Questa installazione è un fine e sapiente gioco di allusioni e illusioni, di

    passato e futuro, di soluzioni e smascheramenti, di censure e esibizionismi. E nel percorso della

    mostra ,ci introduce ad un’altra “grotta”.

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    ANDREA COZZI

    Unknown Knowns

    Andrea Cozzi, Unknown knowns, 2016, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano

    L’opera di Andrea Cozzi si colloca sia cronologicamente che spazialmente, tra i lavori di

    Stefano Cozzi e Marie Janssen. La sua posizione di terzo non lo ha reso incomodo ma gli ha

    suggerito di lasciarsi interrogare dagli spunti che le opere dei colleghi gli ispiravano per creare

    qualcosa di proprio. Ne è nato un lavoro estremamente suggestivo, gli Unknown Knowns,composto

    da pannelli di materiale isolante argentati da un lato, sui quali ha impresso “col fuoco” delle

    immagini che poi ha ritoccato a carboncino.

    I pannelli sono uniti a formare una specie di grotta al cui centro troviamo la stufa scultura.

    È evidente il richiamo e l’elaborazione della grotta duchampiana già ripresa da Stefano Cozzi, ma

    questa volta l’accento non é posto sugli elementi peculiari (sacchi, carbone, stufa). Andrea Cozzi si

    sofferma piuttosto sul luogo in cui si svolge l’appuntamento mancato (tra carbone e stufa). Se

    Stefano Cozzi ha operato un aggiornamento rendendo visibile il contenuto dei sacchi, Andrea Cozzi

    ha interpretato questa visibilità come riaffioramento, operando un’archeologizzazione forzata di

    oggetti contemporanei come potrebbero venir ritrovati da un archeologo fra tremila anni.

    L’intenzione era quella di visualizzare il rapporto, spesso mancato perché dato per scontato, che

    abbiamo con le cose di tutti i giorni, non confondendo la familiarità con la banalizzazione.

  • 14

    In L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica6, Walter Benjamin parlando

    delle due polarità dell’opera d’arte, quella culturale e quella espositiva, sottolinea che “La

    produzione artistica inizia con raffigurazioni che sono al servizio della magia. Importante in tali

    raffigurazioni soltanto che esse esistano, e non che siano viste. (…) L’importante è tutt’al più che le

    vedano gli spiriti. Il valore culturale in quanto tale induce a tenere nascosta l’opera d’arte”.

    Riservata quindi solo a certe categorie.

    Quando questa riemerge come frammento si rende pubblica e il luogo in cui riemerge, lo

    scavo, diventa la piazza di questo mutamento di stato da privato a pubblico.

    In uno scavo vengono in superficie le cose più diverse. Non è immediatamente

    riconoscibile ciò che ha significato storico e ciò che non ne ha, detriti grossolani e spazzatura

    compresi. É solo un sapere precedente che permette di distinguere un reperto archeologico da un

    qualsiasi altro oggetto compresente e nascosto nel terreno.

    Andrea Cozzi, Unknown knowns, 2016, (particolare)

    Gli Unknown knowns, resi irriconoscibili da un’accelerazione temporale immaginaria,è il

    risultato di una riflessione attorno a un duplice spunto. Da una parte l’artista riprende l’elemento

    perturbante attraverso la rappresentazione di qualcosa che dovrebbe rimanere celato e invece

    riaffiora a causa di un intervento esterno. Al contempo, l’archeologizzazione di oggetti

    contemporanei ha prodotto un sentimento di estraniazione rispetto a ciò che dovrebbe essere

    6 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936

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    familiare. I visitatori della mostra tentavano di ristabilire questa familiarità azzardando ipotesi e

    previsioni sul riconoscimento degli oggetti.

    Il secondo spunto, più teorico, che ha ispirato l’artista, si riferisce, a un episodio del marzo

    2003, quando Donald Rumsfeld, al tempo segretario della difesa degli Stati Uniti, si mise a

    filosofeggiare sul rapporto tra noto e ignoto: “Ci sono fatti noti conosciuti. Ci sono cose che

    sappiamo di sapere. Ci sono fatti ignoti conosciuti come tali. Vale a dire, ci sono cose che sappiamo

    di non sapere. Ma ci sono anche fatti ignoti sconosciuti. Ci sono cose che non sappiamo di non

    sapere”. Il riferimento a Saddam Hussein è qui evidente.

    Come osservato dal filosofo Slavoj Zizek, questi dimenticò di aggiungere il quarto assunto

    fondamentale: ci sono “i fatti noti sconosciuti”, le cose che non sappiamo di sapere”. Tale assunto

    pone la questione di come mai qualcosa che sapevamo non ci è più accessibile, qualcosa di

    familiare non è più tale e di se e come riusciamo a tornarne in possesso.

    Freud ha spesso paragonato il lavoro analitico con uno scavo archeologico. Ambedue i

    lavori, quello analitico è quello archeologico, presuppongono che qualcosa di ciò che è andato

    perduto non lo sia del tutto, ma che esso lasci delle tracce, se pure incomprensibili o quantomeno

    insufficienti da sole a ricostruire un sapere.

    Se un coccio, un frammento ritrovato ci risulta a prima vista non familiare, siamo indotti a

    pensare che lo sarà stato per qualcuno contemporaneo al frammento. Nel momento in cui riaffiora,

    il senso di strani azione rispetto ad esso è accentuato dalla distanza temporale, è come se un attimo

    del passato irrompesse nel presente pur restando passato.

    Lo stesso accade a un pensiero che cade sotto la rimozione: il suo riemergere nel sintomo,

    il ritorno del rimosso, lo fa percepire come corpo estraneo, non familiare nell’oggi.

    A esemplificazione di ciò e a conclusione riporto un esempio che Andrea Cozzi ha citato in

    un’intervista per la rivista Artweek:

    “Nel sud della Francia un tifoso di calcio è stato multato per aver scritto con lo spray la

    frase ‘Allez l’O.M.’ (‘Forza O.M.’, che sta per Olympic de Marseille, una squadra di calcio

    francese) su un sito di scavi preistorici. Poiché sulla roccia imbrattata vi erano incisioni preistoriche,

    l’autore dei graffiti è stato accusato di aver danneggiato il patrimonio culturale. Il giudice escluse a

    priori la possibilità che ‘Allez l’O.M.’ potesse avere lo stesso valore delle antiche incisioni. Ha

    trascurato il fatto che tra ventimila anni la frase ‘Allez l’O.M.’ avrebbe potuto diventare a sua volta

    oggetto di ricerca archeologica.”.

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